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Zitiervorschau

Studia Moralia Biannual Review published by the Alphonsian Academy Revista semestral publicada por la Academia Alfonsiana

VOL. XXXVIII/2

2000

EDITIONES ACADEMIAE ALPHONSIANAE Via Merulana 31, C.P. 2458 - 00100 Roma, Italia

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Studia Moralia



Vol. XXXVIII / 2

CONTENTS / ÍNDICE

CONVEGNO “La morale alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e oggi” in occasione del 50º anniversario della proclamazione di sant’Alfonso Maria de Liguori come patrono dei confessori e dei moralisti Roma, Accademia Alfonsiana, 29-31 marzo 2000

J. W. TOBIN, Saluto ai partecipanti..................................... B. HIDBER, La morale alfonsiana: strumento ermeneutico per una risposta alle sfide di ieri e di oggi? Presentazione, scopo e struttura del Convegno......... R. GALLAGHER, The Alphonsian Tradition in the Light of Consueverunt omni tempore. The Theological Significance of an Ecclesial Event ............................. S. MAJORANO, Il confessore, pastore ideale nelle opere di sant’Alfonso.................................................................. M. VIDAL, Rasgos innovadores en la moral de san Alfonso R. TREMBLAY, “Hors de moi, vous ne pouvez rien faire” (Jn 15, 5). À propos du fondement ultime de la morale chrétienne........................................................ P. GILBERT, Le pardon dans la culture contemporaine ..... M. P. FAGGIONI, La sfida del riduzionismo tecnoscientifico al progetto uomo ......................................................... A.-M. JÉRUMANIS, Le défi de l’espérance aux espérances intramondaines............................................................ M. MCKEEVER, Tempi, testi, tradizioni: riflessioni conclusive ................................................................................ *****

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297 321 347

381 405 437 475 511

284 Concerning / A propósito de Fides et ratio J. LAFFITTE, L’agir rationnel du croyant. L’apport de l’encyclique Fides et ratio à la théologie morale ........

523

Chronicle / Crónica D. GROS, Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000...........................................

541

Reviews / Recensiones .........................................................

577

Books Received / Libros recibidos .......................................

631

Index of Volume XXXVIII / Índice del Volumen XXXVIII..

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CONVEGNO

“La morale alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e oggi” in occasione del 50º anniversario della proclamazione di sant’Alfonso Maria de Liguori come patrono dei confessori e dei moralisti Roma, Accademia Alfonsiana, 29-31 marzo 2000 *****

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StMor 38 (2000) 287-289 P. JOSEPH WILLIAM TOBIN C.Ss.R.

SALUTO AI PARTECIPANTI

Ci sono degli atti di ubbidienza che non costano nulla, e che anzi arrecano una grande gioia in chi li compie. Tra questi, posso metterci tranquillamente la mia ubbidienza al... programma del Convegno, che prevede un “saluto ai partecipanti” da parte del vostro umile servo. Siate davvero benvenuti tutti, in quest’aula, testimone di un collaudato e luminoso servizio svolto dall’Accademia Alfonsiana per la ricerca e la proposta della riflessione teologica, a favore del popolo di Dio da ormai più di quattro decenni. Un grazie a tutti per la presenza e il contributo offerto per la realizzazione di questo Convegno: dagli organizzatori ai collaboratori di ogni genere, dai relatori agli uditori, agli illustri ospiti che ci onorano con la loro presenza. Forse anticipo i tempi nel dire “grazie”, ma sono certo che tutti sapranno meritarlo. In ogni caso, spero che questo Convegno sia un momento di grazia per tutti. Ho assolto al mio atto di ubbidienza, e potrei anche ritenere esaurito il mio compito. Ma l’esperienza mi dice che è difficile trovare un atto di ubbidienza totalmente immune da “interpretazioni” di tipo personale (nel peggiore dei casi …egoistico), e allora permettetemi di esprimere – come da fratello a fratello (o …sorella) – almeno altri due motivi di speranza che mi guidano in questo momento. Pur senza voler anticipare in nessun modo i contenuti che, con una competenza certamente maggiore della mia, saranno proposti in questa “tre giorni”, ritengo che questi motivi di speranza corrispondono ad altrettante “attese” nei confronti del Convegno, che mi auguro possano almeno in parte essere soddisfatte. Il primo motivo di speranza è collegato direttamente al titolo del nostro Convegno: “Morale Alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e di oggi”. Questo titolo ci ricorda un’eredità pesante, quella che il nostro Fondatore ci ha trasmesso. Un’eredità maturata nel Settecento, un tempo apparentemente lontano “anni lu-

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JOSEPH WILLIAM TOBIN

ce” dai nostri, e pur tuttavia ad essi accomunato dalla stessa ricerca di fede, una ricerca che negli ultimi secoli è diventata via via più problematica, chiamando in gioco interrogativi profondi quanto radicali: chi è l’essere umano? La vita ha un senso, e quale? Qual’è l’esatto confine tra bene e male, dinanzi alle sorprendenti e per certi aspetti inquietanti possibilità della scienza, o dinanzi alla gamma di scelte sempre più ampia promossa dalle leggi civili? Senza voler andare troppo indietro nel tempo, basta guardare all’ultima metà del secolo, quella evocata dallo stesso nostro Convegno. Il 26 aprile 2000 saranno infatti passati 50 anni da quando Sua Santità Pio XII, col Breve Apostolico Consueverunt omni tempore proclamò sant’Alfonso Patrono dei Moralisti e dei Confessori. Già solo tentando di fare un bilancio di questi ultimi decenni, ci accorgiamo di quanto cammino abbiano percorso la teologia, la pastorale, la stessa morale, per non parlare dei valori che normalmente ispirano la vita quotidiana della gente. Un piccolo, grande terremoto si è verificato: piccolo se rapportato ai movimenti tellurici che muovono da sempre la storia, grande per chi volesse ostinarsi a pensare con le categorie di tempi passati. Se solo pensiamo a quanto sia cambiato il nostro rapporto con le “domande ultime” che hanno sorretto anche la teologia morale del passato – ad esempio il giudizio di Dio, il pensiero dell’eternità, il concetto di salvezza, ecc. – non possiamo non comprendere la posta in gioco per la vita della Chiesa, che poi è la stessa che ha dato origine a questo Convegno. Un secondo motivo di speranza mi fa guardare alla bellezza piena della vita, che per noi cristiani coincide con la santità. Anche se nessuno di noi ha nelle mani le chiavi per decifrare il futuro, pur tuttavia sappiamo che in esso risulteranno credibili non le teorie ma le proposte di vita: e se le teorie avranno diritto di cittadinanza, l’avranno nella misura in cui tengono in considerazione le ragioni della vita. Anche in questo senso il nostro Fondatore ci lascia una preziosa eredità. Non solo perché egli è santo, quindi uomo realizzato in pienezza. Ma anche per il cammino da lui percorso per diventare sacerdote, missionario, confessore, moralista, e poi patrono dei confessori e dei moralisti. La sua Theologia moralis, lo sappiamo, prima di essere scritta a tavolino nasce dal contatto quotidiano col popolo, dalle ore spese nel confessionale, da un esodo spirituale ed esistenziale: un

SALUTO AI PARTECIPANTI

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esodo che parte dalle ambizioni paterne e dalle sue stesse prospettive di carriera, per approdare alla concretezza della vita quotidiana. Il suo messaggio ha fatto scuola e risulta tuttora credibile, perché maturato nell’ascolto delle persone e perché – incontrando le persone – Alfonso ha capito in tutta la sua urgenza il bisogno di annunciare loro l’amore fattosi carne in Gesù Cristo. Egli ha capito soprattutto sulla sua pelle una frase che amava citare da san Gregorio Magno: “Purificati per poter purificare gli altri; avvicinati tu a Dio e dopo potrai condurvi il tuo prossimo; santificati tu per primo, per poter poi santificare le anime”. Da ciò il mio augurio, che da questo Convegno prorompa – forte e seducente più che mai – il richiamo alla santità. Ecco dunque in sintesi i principali motivi della mia speranza, che sono altrettanti auspici per il nostro incontro di studio: la speranza di rispondere al bisogno del nostro tempo, e di farlo con una proposta di senso pieno per la persona. E’ una speranza che ritengo radicata anche nell’evento giubilare che la Chiesa si trova a vivere. Se cinquant’anni fa la Chiesa viveva un “Anno Santo”, il 2000 segna per il popolo di Dio il “Grande Giubileo”: queste ricorrenze sono pietre miliari, che ci ricordano – in una maniera simbolica ed ecclesiale molto intensa – quello che è poi il corso ordinario della grande misericordia di Dio, della abbondante redenzione in Gesù Cristo. Infine, vorrei ricordare che tra una decina di giorni noi Redentoristi avremo un altro motivo di festa, con la beatificazione del P. Francesco Saverio Seelos, un confratello che ha raggiunto i vertici della santità anche grazie alle lunghe ore spese nel confessionale: anche lui imparando dal rapporto quotidiano con Gesù Cristo e con la gente, anche lui risultando credibile con la sua testimonianza di vita. Voglia il beato Seelos unirsi alla Madonna del Perpetuo Soccorso, a sant’Alfonso e a tutto il coro dei Redentoristi in cielo, per impetrare dal Signore un “cammino nella speranza” più gioioso per tutti. A cominciare da questo Convegno. Auguri di cuore a tutti. P. JOSEPH WILLIAM TOBIN C.SS.R. Moderatore Generale

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StMor 38 (2000) 291-296 BRUNO HIDBER C.Ss.R.

LA MORALE ALFONSIANA: STRUMENTO ERMENEUTICO PER UNA RISPOSTA ALLE SFIDE DI IERI E DI OGGI? Presentazione, scopo e struttura del Convegno

Il titolo di questo convegno: “Morale Alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e di oggi”, segnala immediatamente complessità e tensioni. La prima tensione che s’impone e quella delle “sfide di ieri e di oggi” in quanto ci confronta senza appello con ciò che Lessing, alias Reimarus, aveva chiamato il “garstiger Graben”, l’abisso tremendo della distanza storica tra il passato e il presente1. Che cosa significa chiamare, nel nostro orizzonte dell’oggi qualcosa di ieri sfida? In che senso possiamo dire che una sfida del passato lo è anche per il presente? Come mettere le sfide del presente postmoderno, caratterizzato p.e. da tendenze anti-razionali o da un relativismo particolaristico in rapporto con le sfide del secolo di S. Alfonso, il secolo dei lumi, quindi con un razionalismo che si metteva in cammino con l’intento di voler spiegare il tutto? Ecco un primo livello di domande che si pongono leggendo il titolo di questo convegno. Ma non ci si può fermare a questo livello in quanto lo stesso convegno si propone di più: vuol dare una risposta alle sfide di ieri e di oggi e indica l’istanza per tale risposta: la morale Alfonsiana. Ed ecco ci sentiamo confrontati subito con domande analoghe a quelle già formulate. Ovviamente siamo in grado di dare una risposta solamente alla luce del presente in quanto siamo soggetti che vivono la storia di oggi con tutto ciò che questo implica come contesto sociale, culturale ed anche ecclesiale.

1 G.E. LESSING, Wolfenbüttler Fragmente eines Ungenannten, Wolfenbüttel 1774-78.

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BRUNO HIDBER

Il nostro processo di comprensione si svolge necessariamente sempre nel presente. Eppure la risposta si riferisce a un personaggio del passato: Alfonso de Liguori e dunque al suo contesto sociale, culturale ed ecclesiale, al suo modo di pensare e comprendere. La cosa si complica ancora di più in quanto la risposta non si riferisce solo all’Alfonso storico, bensì all’Alfonso proclamato “Patrono dei Moralisti e Confessori” 50 anni fa. Il discorso con questo non si apre solamente al secolo dei lumi, ma anche all’epoca del centro del secolo ventesimo, al magistero di quel periodo storico determinato, ma nel contempo al magistero come istanza di insegnamento e riferimento perenne. Infine: La morale come risposta? E’ possibile affermare che la morale, propriamente la morale può essere istanza di risposta alle sfide di ieri e di oggi? Quale è il fondamento? Solleva subito nuove questioni di rapporto: p.e. tra morale e cultura, morale e ragione, morale e fede: “fides et ratio”2. Dopo tante domande, una sfida è ovvia: questo convegno potrà trovare risposte soltanto se e in quanto saprà affrontare e far tesoro dell’arte della mediazione giusta tra ieri e oggi, tra presente e passato, quindi dell’arte dell’ermeneutica, un’ermeneutica che saprà: 1. Dare il posto giusto e la rilevanza appropriata a un testo e intervento del magistero, vale a dire al Breve Apostolico Consueverunt omni tempore del 19503. In che senso tale testo riflette la tradizione alfonsiana e illumina il presente in grado di dare una risposta alle sue sfide? Su questo problema indagherà il Prof. R. Gallagher. 2. Poi il convegno dovrà aiutare a capire meglio come lo stesso Alfonso de Liguori si è confrontato con il contesto storico in cui era inserito e con quali criteri ermeneutici ha tentato di rispondere alle sfide del suo tempo. Farà questa ricerca il Prof. M. Vidal prestando particolare attenzione al testo con cui S. Alfonso aveva intrapreso la sua risposta più sistematica, vale a dire

Cf. GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio. Lettera Enciclica, Città del Vaticano 1998. 3 Testo che è diventato occasione per questo convegno. 2

LA MORALE ALFONSIANA: STRUMENTO ERMENEUTICO

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con i contenuti salienti ed innovatori della Theologia Moralis messi in rilievo di recente dalla Lettera Apostolica “Spiritus Domini” di Giovanni Paolo II4; continuerà la ricerca il Prof. S. Majorano dedicandosi a una tematica capace di mettere in rilievo un aspetto del tutto particolare dell’ermeneutica alfonsiana: il rapporto intimo tra morale e pastorale nella figura del confessore. Assisteremo così a un processo ermeneutico anche nel senso che si realizzerà un rapporto tra l’oggetto che verrà interpretato –vale a dire- i testi trattati e l’agente che ne farà l’interpretazione presentandoci questi testi nella tensione tra sfida e risposta di ieri e di oggi. 3. Il convegno si propone inoltre di illuminare il nostro presente nutrendosi per così dire del passato però come “Morale Alfonsiana” di oggi e per l’oggi. Fare ermeneutica, interpretare giustamente significa sempre integrare aspetti particolari di un tempo determinato in una panoramica più ampia e complessiva della realtà e di una realtà dotata di senso in quanto l’ermeneutica, secondo Pannenberg “mira alla comprensione del senso”5. Ecco una sfida decisiva per la nostra epoca segnata da tante frammentazioni che mettono in questione il fatto che ci sia un senso che integri il frammento in un tutto unico. Tale sfida viene segnalata già dal sottotitolo di questo Convegno: Nel cantiere della Teologia morale. Un problema bruciante di questo cantiere si esprime nel fatto che la frammentazione della nostra realtà ha come effetto che gli stessi criteri fondamentali del bene e del male, del giusto e del falso non di rado vengono sperimentati e interpretati come ciò che rimarrà incerto in linea di principio. Con questo tocchiamo senza dubbio un elemento che offusca e rende difficile collocare azioni o omissioni malvagie come peccato e ricercare la riconciliazione come impegno religioso. Il Prof. Paul Gilbert della Pontificia Università Gregoriana metterà in rilievo questa sfida della nostra cultura parlando del peccato e perdono e interpretando così un tema collegato specificamente con la tradizione alfonsiana.

4 5

GIOVANNI PAOLO II, Lettera Spiritus Domini, in AAS 79 (1987) 1366. W. PANNENBERG, Epistemologia e Teologia, Brescia: Queriniana 1975, 147.

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BRUNO HIDBER

Un problema particolarmente spinoso di una tale ermeneutica sarà poi di non perdere nel cantiere frammentario il filo rosso che conduce attraverso molteplici problemi verso una visione integrale in quanto solamente una tale visione in verità potrà chiamarsi “risposta” alle sfide di ieri e di oggi. Il Prof. R. Tremblay ne fornirà elementi decisivi con una riflessione sull’intreccio fede-ragione in riguardo all’agire morale alla luce della persona del Cristo. Si muoverà dunque in un campo classico di ermeneutica teologica. Inoltre le frammentazioni della nostra epoca non si esprimono solamente a livello teorico conoscitivo. Segnalano una frammentazione più drammatica: quella dello stesso essere umano sia nella sua concezione teorica sia nella sua realizzazione pratica. Il Prof. M. Faggioni la tratterà come Sfida del riduzionismo tecnoscientifico. Infine: Elemento integrale di ogni ermeneutica è comprendere ogni tentativo di risposta mai come ultima e unica risposta possibile, bensì come processo interpretativo aperto ad ulteriori sfide e risposte. In tal senso lo stesso metodo ermeneutico contiene in sé una dinamica verso un “plus ultra”6 o verso ciò che la visuale cristiana chiama speranza. Il Prof. A.-M. Jerumanis della Facoltà Teologica di Lugano tratterà la sfida della speranza ovviamente in chiave teologica come ciò che conduce oltre le speranze intramondane. E verrà finalmente affidata al Prof. McKeever l’arte ermeneutica di concludere il convegno non semplicemente come cantiere frammentario bensì come evento e cammino di risposta. Tutto questo avverrà solamente evitando due malintesi, due vie a senso unico che andrebbero frontalmente contro le regole di ogni ermeneutica: bisogna evitare l’errore di ripetere semplicemente il messaggio alfonsiano di ieri nel contesto di oggi e vice versa bisogna evitare di rinchiudersi caparbiamente nel contesto di oggi svalutando, anzi rifiutando il messaggio di ieri. Invece una risposta alle sfide di ieri e di oggi richiede di assimilare fedelmente la risposta del passato e illuminarla nella luce del

6 Cf. G. 1950, 24-25.

VON

LE FORT, Plus Ultra, Erzählung. Wiesbaden:Insel Verlag

LA MORALE ALFONSIANA: STRUMENTO ERMENEUTICO

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presente, richiede esporre il presente in modo autocritico lasciandosi interpellare dal messaggio del passato arricchendo così il presente con ciò che la storia ha ritenuto come positivo e rivestirlo così di una identità e validità che potrà superare la futilità del momento. Parafrasando parole celebri di M. Heidegger: bisogna entrare nel circolo ermeneutico riconciliando comprensione attuale e precomprensione storica7. A tale proposito e per una attualità particolare mi permetto di volgere lo sguardo per concludere a uno dei più grandi rappresentanti dell’ermeneutica contemporanea che l’undici febbraio a.c., quindi alcune settimane fa, ha festeggiato 100 anni di vita in ottima vitalità: Hans Georg Gadamer. Egli nel suo capolavoro Wahrheit und Methode propone la mediazione tra il pensiero del passato e l’esperienza e il pensiero del presente con il concetto di “fusione di orizzonti”8. Perché tale fusione avvenga, bisogna in un primo momento “riconoscere la differenza del testo o in genere dell’altrui espressione rispetto al presente dell’interprete. Poi si deve cercare un orizzonte comune, che abbracci insieme l’interprete e la cosa da interpretare nel suo contesto, e quindi la tradizione in genere”9. E’ stato osservato che Gadamer, nella sua ermeneutica, ha attribuito un ruolo preponderante alla tradizione fino ad affermare che la forza della storia e della sua influenza non dipende dal suo riconoscimento in quanto la coscienza di ogni uomo in ogni tempo per necessità è storica. Tale preponderanza attribuita al passato è stata criticata da diversi autori e corretta in direzione di una oggettività di interpretazione del passato da parte del presente10. Ciononostante la nozione di “fusione di orizzonte” è stata recepita come elemento decisivo dell’ermeneutica contemporanea e mi pare che possa essere un buon indicatore anche per questo nostro convegno.

7 Cf. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit. Tübingen:Niemyer 1967, 148-153. In contesto teologico: W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia:Queriniana 1984, 22. 8 H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen:Mohr 1960, 286-290. 9 W. PANNENBERG, Epistemologia e Teologia, 156. 10 Per esempio da E. BETTI, J. HABERMAS... Per una presentazione sintetica cf. ivi 157 ss.

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BRUNO HIDBER

Alludendo ancor una volta al capolavoro di Gadamer, Verità e metodo, mi auguro che il nostro convegno sappia intraprendere la fusione degli orizzonti tra ieri e oggi in modo che la Morale Alfonsiana possa rivelarsi un contributo appropriato per quella verità che solo potrà essere risposta valida per l’uomo di oggi. PROF. BRUNO HIDBER CSSR Preside, Accademia Alfonsiana

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StMor 38 (2000) 297-319 RAPHAEL GALLAGHER C.Ss.R.

THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT OMNI TEMPORE The Theological Significance of an Ecclesial Event

This essay is an hermeneutical reflection within historical theology which I take to mean the study of religious thought in the context of the epoch and people who shaped it with a view to an interpretation of this thought for another context. The reasons for this methodological option are indicated by the elements which constitute the scope of the essay: an ecclesiastical event, the Proclamation of St. Alphonsus as Patron of Moralists and Confessors in the Apostolic Brief Consueverunt omni tempore of April 26th 1950,1 which is an official ecclesial recognition of a particular moral tradition (that is, the alphonsian one) which continues to have theological significance. With Henri Marrou I hold the view that Our comprehension of a doctrine will be all the more authentic and the more profound to the extent that we grasp it better within the structure of its original reality. We always have the right to abstract it from this complex, but indeed the surgical operation is so delicate that many of the fine points……… risk being damaged or destroyed in the course of the operation.2

The continuity between these three elements (an ecclesiastical event, a moral tradition and contemporary 1 The official text is to be found in AAS 42 (1950) 595-597. Some have questioned whether this Document is an Apostolic Brief because the AAS does not refer to it as such. The use of the term “Breve Apostolico” introducing the Latin text as printed in the L’Osservatore Romano, 01.06.1950, at I, should dispel such doubts. 2 HENRI MARROU, The Meaning of History, translation by Robert J. Olsen (Baltimore: Helicon Press, 1966), 270-271.

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RAPHAEL GALLAGHER

theological significance) is by no means obvious, not least because we are dealing with differing forms of research and presuppositions in the method of enquiry to be followed. I hope to demonstrate that there is a continuity, but this must be argued step by step. The historical reconstruction of the Apostolic Brief Consueverunt omni tempore is the obvious starting point.3 The historical process leading to Consueverunt omni tempore. Far from leading to a respite of theological calm, the proclamation of St. Alphonsus as a Doctor of the Church (March 23rd 1871) in fact led to a period of renewed polemics, both within the Church and in non-Church circles. The theological controversy within the Church, which we can broadly call the Vindiciae controversy,4 had largely waned by the 1890’s, not least because the Redemptorist defenders of St. Alphonsus had taken steps to remedy a serious lacuna by beginning the reconstruction of a critical edition of the Saint’s Theologia Moralis, which was edited, after laborious years of work, by Leonard Gaudé.5 The reception of St. Alphonsus outside the theological circles of the Church was quite another matter. This was most notable in the German-influenced areas, as has been demonstrated by Otto Weiß6; it was present also in the AngloSaxon world where R. P. Blakeney’s St. Alphonsus Liguori, a vitriolic book, had a long appeal in non-Catholic circles.7 It is

My major archival source is the Archivum Generale Historicum Redemptoristarum, hereafter referred to as AGHR. The numeration of documents is that of the Archives, to whose Director Father H. Arboleda Valencia I express my gratititude. 4 I have chronicled some of this story in R. GALLAGHER, “The Moral Method of St. Alphonsus in the light of the Vindiciae Controversy”, Spicilegium Historicum CSSR, 45 (1997), 331-349. 5 Opera Moralia Sancti Alphonsi Mariae De Ligorio. Theologia Moralis. Tom. 1-4, (Romae: Ex Typographia Vaticana, 1905-1912). 6 Among other publications of O. Weiß I would signal as the most informative in this regard “Der Kampf gegen die ‘Liguorimoral’ (1894-1905)” in Spicilegium Historicum CSSR, 96 (1996), 103-256. 7 First published in 1852 (London: The Reformation Society). I have 3

THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT

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this background which explains the first step in the historical process I am investigating. In 1901, the Redemptorist Rector Major, Mathias Raus8 initiated a process that sought “una nuova onorificenza” for St. Alphonsus because of the ongoing “insulti e le bestemmie, proferite negli ultimi tempi contro la persona e la dottrina di S. Alfonso….”9 The new honour sought was to have St. Alphonsus Patron of those clerics “qui in studia incumbunt theologiae moralis et pastoralis” as well as Patron of those sacred ministers “qui moderandis conscientiis operam suam impendunt”.10 The response was modest. The enthusiasm of the Rector Major Raus and the implied, but not official, support of the aged Pontiff Leo XIII did not stimulate a ground-swell for the proposal. Signatures were gathered, indeed, from over 300 Cardinals and Bishops, but the enthusiasm which marked the campaign for the Doctorate process is lacking.11 By 1903 we can say that this first phase of the process is dead.12 From the archival material it is clear that there was a fear that seeking this further honour for St. Alphonsus might have the contrary effect to that desired: give further ammunition to those who wished to denigrate St. Alphonsus, for whatever motives. It is possible that cooler heads in the Vatican Curia persuaded the Redemptorists from continuing this campaign.13

noted how this book still provides fodder for the polemics of such as the Reverend Ian Paisley when he is on one of his campaigns against the Roman Catholic Church in general and Redemptorists in particular. 8 See S. J. BOLAND, A Dictionary of the Redemptorists, (Romae: Collegium S. Alfonsi de Urbe, 1987), 309, which indicates a few other sources. 9 AGHR, 050901:ACPAT/01, 0001. 10 Ibidem. 11 It is interesting to compare the lackluster tone of these responses with those gathered at the time of the Doctorate process. For this latter see the seminal study of G. ORLANDI, “La causa per il Dottorato di S. Alfonso”, in Studia Alfonsiana: ad centenarium memoriam doctoratus S. Alphonsi M. de Liguori 1871-1971 (Romae: Biblioteca Historica CSSR, 1971, 5), 25-240. 12 A full list of those who responded can be found in AGHR, 050901: ACPAT/01, 0003. 13 See the circular letter of Raus of 15.061901 as printed in Letterae Circulares R.P. Mathiae Raus, (Romae: Typis Cuggiani, 1908), at 232. He is referring to an audience which he had with Pope Leo XIII and it is clear the Pope, too, expressed concern about the “atroces calumnias” which were

300

RAPHAEL GALLAGHER

The process, in a modified form, was resurrected in the mid1930’s. With the centenary of the canonization of St. Alphonsus due in 1939 some Redemptorists, most notably Francisus Ter Haar14 and to a lesser extent Emilio Rouff, both Consultors General, saw an opportunity to seek a further ecclesiastical honour for St. Alphonsus. The substance of their proposal is to be found in the 34 page booklet,15 anonymously printed but with the spirit of Ter Haar even if the final editing hand is that of Rouff.16 To be noted is the restricted honour sought compared to the first phase; now it is ‘only’ the title Patron of Confessors which is sought. The booklet is interesting as an example of this style of literature: the argument is extrinsic. The Church has given patrons for so many other professions, why not one for confessors, and who more fitting than St. Alphonsus whose merits in this regard are outlined. There are, however, two elements in the booklet which have a longer term importance: a brief reference to the intrinsic suitability of St. Alphonsus because of his pastoral prudence and, intriguingly, an inclusion of Jacques Maritain’s enconium of St. Alphonsus in the latter part of his Les degrés du savoir (1932).17 The Rector Major Patrick Murray18 began the campaign to have this patronal

appearing in “sordidae quaedam ephemerides italianae” that are seen as a regurgitation (“vomitus”) of the “haeretici Grassmannii”. 14 F. Ter Haar was an important figure in the internal life of the Redemptorists for nearly half a century. See “Necrologia R.P. F. Ter Haar (1857-1939)” in Analecta CSSR, Annus XVIII, 1939, 200-206. 15 Sitne conveniens S. Alfonsum M. De Ligorio caelestem confessariorum patronum declarari (Roma: Ditta Tipografia Cuggiani, 1938). Hereafter referred to as Sitne conveniens. Though I refer to the booklet as anonymous, authoritative figures like A. Sampers do attribute the authorship to Rouff: see Studia Moralia, 9 (1971) at 354. 16 Gregorio, who should have known, gives the credit to Rouff. See the MSS of Gregorio in AGHR, 050902: ACPAT/O2, 0051a. 17 For the full text see J. et R. MARITAIN, Oeuvres Complètes, Vol. 4, Les degrés du savoir (Fribourg: Editions Universitaires, 1983), 1086-1104. The relevant page in Sitne conveniens is 27. 18 Murray awaits the critical biography which he deserves. Meanwhile, there is interesting material about his early life in Spicilegium Historicum CSSR 9 (1961): J. LÖW, “In piam memoriam R.mi Patris Generalis emeriti Patricii Murray CSSR. I. De vita Patricii Murray usque ad assumptionem in

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honour bestowed on St. Alphonsus by forwarding copies of this booklet together with a cautious letter to Redemptorist (Vice)Provincials dated December 25th 1938.19 Underlined in the letter is the fact that the petition is to be forwarded to those (Arch)bishops ‘nobis amicioribus’. The Sacred Congregation of Rites discussed the question in January 1939, but took no decision. The replies were not numerous (126) but, importantly, they included a favourable one from Cardinal Pacelli (the future Pius XII). At least one Provincial misjudged our friends: the Archbishop of Ratisbon (Germany) did not approve of the petition.20 The desultory tone of the campaign is easily explained: an ill Pius XI was to die on February 10th 1939. The election of Pacelli as Pope probably heartened the Redemptorists, in view of his favourable response, but the gathering clouds of a world war ended this second phase before it had really started. The approach of another anniversary, that of the bicentenary of the first edition of St. Alphonsus’ Theologia Moralis in 1948, was the opportunity to begin the third phase of the ecclesiastical process. The guiding hand was that of Oreste Gregorio,21 Vice-Postulator of the Redemptorists: the spirit was certainly helped by the new Rector Major Leonard Buijs (elected in 1947)22 whose vision of St. Alphonsus was more comprehensive and innovative than that of his predecessor

summum moderatorem, 1865-1909”, 3-20, and R. CULHANE, “ Most Rev. Father Patrick Murray (1865-1959), Superior General C.SS.R. (1909-1947). Biographical outline over the years 1865-1909”, 21-79. 19 AGHR, 050902: ACPAT/02, 0054. 20 Curtly noted in the MSS of Gregorio: AGHR, 050902: ACPAT/02, 0051a. A transcription, also by Gregorio, can be found in AGHR, 050902: ACPAT/02, 0128. 21 For a brief note on Gregorio see the book of Boland (cited in note 8) at 145-146. 22 No more than his predecessor Murray, Buijs deserves a full study. In his case, different to Murray, we know more about his time as Rector Major than about his early life. See the note of the Sociii Redactionis in Spicilegium Historicum CSSR 1 (1953), 22-45, and the article of H. BOELAARS, “R.Mus P. Leonardus Buijs, Cultor Theologiae Moralis et Pastoralis”, in Spicilegium Historicum CSSR 4 (1956) 425-452.

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Murray. In many respects this third phase is a continuation of the second. But some interesting, if ultimately incidental, factors emerge in the process. It was the Redemptorists’ intention to pursue the proclamation of St. Alphonsus Patron of Confessors: the idea of having him also declared as Patron of Moralists came, surprisingly, from the Dominican Master of the Sacred Palace, Cordovani.23 The usual procedure was followed: approval from the Sacred Congregation of Rites, a campaign (directed by Gregorio) to gather signatures from Cardinals, Archbishops, Bishops, Superiors General and Catholic Universities. The latter was of particular importance, at the insistence of Pius XII.24 The reason may be inferred rather than documented: given the residue of former controversies, the Pope wished to ensure that a further honour for the Redemptorist Saint would not re-kindle previous unedifiying quarrels between religious congregations. In the event, only the Ateneo of San Anselmo sent in a negative vote: it is clear, too, that the Dean of the Institut Catholique (Paris) did not see much point in giving a further honour to one who was already a Doctor.25 These views did not outweigh the favourable response, a total of 423 (including the 126 already gathered in 1938-39). With apparent bureaucratic smoothness the decree Consueverunt omni tempore was promulgated on April 26th 1950. Theologically, it is an unremarkable text. I would note, however, the inclusion of prudence as characteristic of St. Alphonsus and the reference to the doctrine of St. Alphonsus as “moralem et pastoralem”. The importance of these points will emerge later. Fifty years after it began, the ecclesiastical process reached a successful conclusion. I insist on calling the process ‘ecclesiastical’, not to denigrate it, but to place it in its proper context. The way the process was conducted was ecclesiastical, in that the gathering of support was directed so that it would not

The apparent implications of Th. DEMAN’s article on “Probabilisme” in the DTC (Vol. 13, 417-619) rankled with many Redemptorists even 15 years after its publication in 1936. 24 Gregorio implies this in the MSS referred to in note 20. 25 L. Vereecke, in a letter to Gregorio of 20.02.1949, notes this fact: AGHR, O5O9O2: ACPAT/02, 0102. 23

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cause offense, a reminder of the sensitivities in some circles about St. Alphonsus. The Apostolic Brief uses the ecclesiastical language of ‘patron’ clearly understanding this term in the canonical sense in which this title, once used more widely, had now come to be understood.26 The reactions to the Apostolic Brief were ecclesiastical: the customary response in L’Ossevatore Romano, some brief references in the general press, and some coverage, though surprisingly little, in the internal journal of the Redemptorists, Analecta.27 I cannot find much reference in the theological journals of the time:28 the event passed largely unnoticed in this particular world, though there is a short but interesting article by the then young Bernhard Häring.29 A process which seemed doomed to failure at the start because of the intense hostility to St. Alphonsus ends as an almost routine ecclesiastical event, one more Patron proclaimed by Pius XII. To show how an event that is dominantly an ecclesiastical one could have a wider ecclesial significance must be carefully articulated.

Interpreting the event within a moral tradition. Interpreting the theological significance of an ecclesiastical document could proceed along either of two hypotheses. The exact theological weight of the teaching could be evaluated hermeneutically, or the inner meaning could be discerned by an

See the appropriate entries in: Enciclopedia Cattolica, 9, 982 ss.(‘Patrono’); Lexikon für Theologie und Kirche, 8, 188 (‘Patron’); Dictionnaire de Spiritualité, 14, 222 ss (‘Saints’), Dictionnaire de Droit Canonique, 5, 882 ss. (‘Culte’). For the general context of the debate the work of P. Molinari is still essential; Die Heilige und Ihre Verehrung (Freiburg: Herder, 1964). 27 One would have expected more from the internal journal of the Redemptorists. 28 The bibliography of A. SAMPERS, “Bibliografia circa theologiam moralem S. Alfonsi 1938-1971”, Studia Moralia 9 (1971), 342-357 substantiates this claim. 29 “Alfons von Liguori als patron der Beichtväter und Moraltheologen”, Geist und Leben 23 (1950), 376-379. 26

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examination of authoritative interpretations of the document. The former hypothesis does not seem the appropriate one for this Apostolic Brief, as we are clearly not dealing either with a dogma of faith or a doctrinal exercise of the ordinary magisterium. The latter hypothesis seems more plausible. Though theological reaction to the Apostolic Brief was scarce, as already noted, I suggest that the official letter with which the Rector Major Buijs communicated the brief to the Redemptorist Congregation (May 31st 1950) is the best interpretative key in which to proceed.30 The authority of Buijs in this matter is both that of his office as Rector Major and of his personal competence to comment on such matters, a fact sustained by his collaboration, with Cornelius Damen, in the preparation of the 15th edition of the manual of moral theology popularly known as that of Aertnijs-Damen.31 I will proceed in this manner: choose the key theological allusions in Buijs’s letter, place them in their context and interpret their significance for the tradition of moral theology which has St. Alphonsus as its founder. Buijs insists that Redemptorists behave in a way which shows ‘ut digni simus eius patroncinio’. From other sources it is clear that Buijs had doubts on this precise point: he was worried about the poor state of intellectual formation in some Provinces, was distressed at the neglect and lack of aggiornamento of the library in the Generalate House of San Alfonso (Rome), and his own personal interest in the biblical and patristic sources of theology as well as his awareness of the need for a new theology of the laity left him in no doubt that the alphonsian moral and pastoral tradition was in grave danger of becoming sterile. The key sentence in Buijs’ letter, with regard to the theological task to be undertaken, is that in which he refers to St. Alphonsus’ concept of prudence. The prudence of St. Alphonsus is not

The text (under the title “S.P.N. Alfonsus constituitur Patronus confessariorum et moralistarum”) is given in Analecta CSSR, 32 (1950), fasc. 3, 73-74. 31 See J. AERTNYS-C. DAMEN, Theologia Moralis secundum doctrinam S. Alfonsi de Ligorio Doct. Ecclesiae, 2 Vols., (Torino: Domus Editorialis Marietti, 1947), 15th edition. 30

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simply that of a theologian who makes a careful judgment in choosing opinions, so as to avoid the extremes of laxism and rigorism. For Buijs, alphonsian prudence is the ability to celebrate the sacrament of confession in a way which facilitates a conversion of heart as the first step of a total change in a person’s life. Buijs is quite specific on this point: pastoral prudence is not an external application of judgement to a case but the internal communication with a person: “et quidem praecipue”32 he pointedly adds. There are echoes here of a notable article by his Dutch confrere, already mentioned, Cornelius Damen, S. Alfonsus Doctor Prudentiae.33 Damen’s article had its own purpose. I suspect it was a response to the entry of Th. Deman on Probabilisme in the Dictionnaire de Théologie Catholique which I have already quoted and in which St. Alphonsus’ credentials as a theologian in the thomist tradition is queried. The core of Damen’s argument is the one apparently shared by Buijs. In essence this was: Alphonsus was the master of a prudential moral theology, not simply on the basis of his resolution of the 18th century crisis regarding reflex principles, but because (a) Alphonsus was most interested in knowing the state of a person’s heart and conscience and (b) was keen to have a developmental approach to moral theology, on account of the changing needs of such a practical science. Buijs’ interpretation of the Apostolic Brief was in line with the initiative he had already taken (1949) in setting up the Alphonsian Academy which he hoped to see as contributing to the renewal of moral theology in general and not just alphonsian studies in particular.34 An inclusive approach – biblically based, systematically theological and oriented towards practice – was to be the characteristic of its moral theology. Buijs would have shared the sentiments of F. X. Murphy in his article written around this period:

See text as indicated in note 30. C. DAMEN, “S. Alfonsus Doctor Prudentiae”, Rassegna di Morale e Diritto 5/6 (1939-40), 1-27. 34 For a fuller picture, see A. CÓRDOBA CHAVES, “La Academia Alfonsiana: cincuenta años al servicio de la Teología Moral”, Studia Moralia, 37 (1999), 229-268. 32 33

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(St. Alphonsus does not work with a priori estimates of the state of a soul)……but uses a clear competent knowledge of the everyday life of individuals, their psychological construction, their passions, impulses, temptations, the actual graces they receive, and the aspirations they enter into and have a bearing on their actions and judgments.35

The internal evidence of Buijs’ own comments, with the ancillary evidence that while some Redemptorists shared his views many others did not, lead me to conclude that, for Buijs, the Apostolic Brief, happy ecclesiastical event that it was, was primarily a providential theological opportunity to recuperate a moral tradition he believed was in danger of fossilization. The logic of this interpretation of Buijs’ comments leads me to propose an hypothesis by which we can place the ecclesiastical event of Consueverunt omni tempore within its ecclesial significance. The Apostolic Brief names St. Alphonsus as Patron of Moralists and Confessors: but, and this is the crucial question, what type of moral theology and what type of confessor? There were, at least, four divergent approaches to the interpretation of St. Alphonsus at this period: (a) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with the historical text and context (Domenico Capone, Louis Vereecke); (b) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with contemporary, mainly personalist, philosophy (Bernhard Häring); (c) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with neo-scholastic philosophy (Francis Connell) and (d) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with the prudential practice of ordinary ministry (Cornelius Damen).36 This is an approximation, but it is theologically correct to advert to a fact that has not been given due attention: the tradition of alphonsian moral theology is not as univocal as

F. X. MURPHY, “The Moral Theology of St. Alphonsus Liguori 17481948”, Thought 23 (1948), no. 91, 605-620, at 617. 36 For a reasonably complete bibliography of these authors on alphonsian themes, within the indicated time limit, see A. SAMPERS, “Bibliografia circa Theologiam Moralem S. Alfonsi 1938-1971”, Studia Moralia 9 (1971), 342-357. 35

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has been generally presumed. There are divergences within the tradition. It is not within my scope here to judge which I consider most valid. It is, however, through the concept of a tradition and its developments that we can give an ecclesial interpretation of the preoccupations Buijs raised in the wake of the Apostolic Brief. To sustain this argument I need to propose a definition of a theological tradition (or ‘school of theology’, as some would have it). A theological tradition emerges when a significant group within the Church recognise the particular insight of a given theologian as fruitful for the vitality of the Christian life and dedicate themselves to developing and maintaining the core insights of the original founder. Such a tradition evolved from the life and thought of St. Alphonsus. Thomas O’Meara’s comment on St. Alphonsus strikes me as an appropriate way of describing this particular tradition: When a consistent approach to theology or spirituality moves from individuals to communities, a school emerges. The genius of a spiritual leader (Bernard of Clairvaux) or the needs of ministry (Alphonsus Liguori) can summon from the Gospel a new perspective.37

O’Meara’s interest is in the variety of schools within the thomist tradition, but his comment on St. Alphonsus is striking. From it I would construct the following definition of the alphonsian tradition of moral theology. Arising from the experience of pastoral ministry, St. Alphonsus developed core insights from St. Thomas with a view to ensuring serenity of conscience and the possibility of spiritual growth through a nuanced understanding of the nature of the human person and the circumstances of their life. A first reaction may be: that sounds rather banal and obvious. A more critical analysis of the elements in that definition shows the possibility of a fossilization of a genuine tradition, which I believe to be Buijs’ concern at the time of Consueverunt omni tempore. The pastoral

37 T. F. O’MEARA, Thomas Aquinas Theologian (Notre Dame and London: University of Notre Dame Press, 1997), at 154.

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needs of the post-war period were significantly different from 18th century Naples: one need only refer to the resourcement theologians in France to underline the challenge of this fact. The development of core insights from St. Thomas had become much more complex as a result of the differing researches of the various schools of thomism at the same period: to mention the names of Maritain, Gilson, Maréchal, Rahner, GarrigouLagrange, Przywara, Congar (from among a longer possible list) is indicative of a problem with the alphonsian tradition:38 St. Alphonsus used St. Thomas as his principal theological source, but were his interpretations the correct ones, or were they overly-influenced by the so-called Baroque Thomists or the commentaries of Suarez or Cajetan? Achieving a serenity of conscience was one thing in the period of the systems-debates which was the context of St. Alphonsus’ writing: it was quite another as a result of the insights of such as Freud or Jung, as can be demonstrated by the new knowledge gained by distinguishing scruples in the strict sense and scruples as a form of obsessive-compulsive behaviour of a psychological type.39 Similar comments could be made about the other elements of my definition of the alphonsian tradition (spiritual growth, human nature, the circumstances of life): these had to be conceptualized differently as a result of the new insights in ecclesiology, anthropology and the social sciences generally. Considering the process leading to Consueverunt omni tempore and interpreting the concerns of Buijs it is my judgment that the internal dynamic of the alphonsian tradition had lost

38 Too often alphonsian scholars simply ignore the complexities of thomistic textual interpretation, of the type lucidly exposed by G. PROUVOST, Thomas d’Aquin et les thomismes (Paris: Les Editions du Cerf, 1996) 39 I choose the example of scruples because in the classic manual literature St. Alphonsus is referred to as the major authority in the matter. It is of interest, therefore, to read a solid contemporary book on the topic (J. CIARROCCHI, The Doubting Disease: Help for Scrupulosity and Religious Compulsions, Mahwah NJ: Paulist Press, 1995) which relies on the contemporary sciences without reference to the classic theological source. The fault is not that of the author, but rather of the alphonsian tradition which is not sufficiently engaged with the implications of this debate.

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some of the tensions which are necessary to keep a tradition alive. Paradoxically, while a theological tradition is centrally based on one person (here, St. Alphonsus) the inheritors of that tradition can betray it in three distinct ways: by failing to understand the biblical and patristic background out of which all theological traditions emerge, by a literalist reading of the dominant text, or by an ignoring of the new questions which contemporary life raises for the vitality of a tradition. On all three points questions have to be asked about the period of Consueverunt omni tempore and the alphonsian tradition as it was then dominantly expressed. St. Alphonsus had become too extrinsic an authority (there are constant references to the ecclesiastical approval of his writings) so that there was little interest in what preceded him, an ironic development in view of the fact that the truly radical theologians of the 1940’s and the 1950’s were those who had returned to the biblical, patristic and wider medieval sources in order to answer the new questions. As a result of the hurt Redemptorists felt from the theological questioning of some of St. Alphonsus’ positions, his text was being read in a literalist way precisely at a time when it was unclear what exactly equiprobabilism meant in practice. The contemporary questions were, admittedly, raised but in a defensive way: they were not seen as having the potential for dialogue with the alphonsian tradition seeing that the general attitude was that the answers were already there in St. Alphonsus anyhow. Though he did not, to my knowledge, ever express it in the terms I have used here, I believe that Buijs wished to encourage the inheritors of the alphonsian tradition to move beyond the ecclesiastical event of Consueverunt omni tempore to a more ecclesial appropriation of the dynamic tensions of that tradition for a new and challenging era.

Continuing theological relevance of this tradition. We come to the final part of my triadic re-interpretation of Consueverunt omni tempore. A rather obvious note of caution is necessary: I am not attempting a full reconstruction of a tradition as I am restricting my remarks to those elements of the

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tradition which I believe this particular process highlights as being of continuing importance. This is a significant caveat. My interpretation is within the confines of a particular historical process and a short document. Other questions, and perhaps more important ones, would clearly emerge were the focus wider. The immediate context of the three phases of the process was different. This dictated that the type of argument used in each phase had a different nuance. One concern, however, appears in all three phases, though none of the phases resolves it. This is: in what sense was the alphonsian tradition ‘pastoral’ and what does this mean? In the first petition (1902) the request was to have St. Alphonsus proclaimed patron of those who teach moral theology and pastoral theology; in the second petition (1938) the request is for a proclamation of the Saint as patron of confessors, though the text refers to the pastoral concern of St. Alphonsus: in the document Consueverunt omni tempore (1950) St. Alphonsus is proclaimed Patron of Moralists and Confessors, though earlier in the document there is a reference to the moral and pastoral doctrine of St. Alphonsus. These nuances are not, I believe, casual. What one notices in this process is an effort to redefine the alphonsian tradition in more contemporary terms than those which had been used in the Doctorate process. Noticeably absent is any reference to ‘equiprobabilism’ as a ‘system’.40 When, in 1902, the terms moral theology and pastoral theology are used I believe that this was an effort to show that St. Alphonsus, as a moralist, belongs to a tradition that has a spirit (that is, pastoral charity) rather than a rigid method (that of equiprobablism, understood as the exterior application of reflex principles). The insight is useful. Why, then, is it dropped in the 1950 Apostolic Brief? The reasons are to be found outside the alphonsian tradition. By 1950, pastoral theology had become a separate discipline within theological studies, and had attained

40 This would have been the dominant type of language in the years immediately prior to the process studied in this article. See L. GAUDÉ, De Morali Systemate S. Alphonsi Mariae de Ligorio (Romae: Ex Typografia a Pace, Philippi Cuggiani, 1894).

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its own scientific credibility.41 To have St. Alphonsus proclaimed Patron of pastoral theology would, in 1950, have made no sense to those who had developed this particular branch of theology along specific lines in the 20th century. Nonetheless, the reference to the pastoral doctrine of St. Alphonsus is maintained; significant, I believe, is an article written in 1948 by Oreste Gregorio, certainly the guiding hand of the final phase, entitled Alla scuola pastorale di San Alfonso.42 The process leading to Consueverunt omni tempore shows that the inheritors of the alphonsian tradition were aware that the moral doctrine of St. Alphonsus was of a particular type: norms and laws had their place, but within a spiritual-pastoral conception of the person, particularly under the aspect of conscience. How to phrase that, in a contemporary way, was the issue. Joseph Maréchal’s statement about the two methods of approaching moral truth is dense, but it is precisely the question the alphonsian tradition was struggling with at the time of the Apostolic Brief. Maréchal is talking of two methods in approaching the question of truth, which he calls the ‘ancient’ and the ‘modern’: These two methods, which approach the total object from two complementary angles, should, if led to their final conclusion, yield identical conclusions; for the ancient critique posits at once the ontological object, which includes the transcendental subject; and the modern critique considers the transcendental subject, which postulates the ontological object.43

This is superbly chronicled, at different levels, by the late SEAN O’RIORDAN. See Section Two (149-205) of his Sean O’Riordan Theologian of Development (edited R. Gallagher-S. Cannon), Rome: EDACALF, 1998. The three articles of this section are written with differing audiences in view, but the emergence of pastoral theology as a self-standing theological discipline is the underlying theme. 42 O. GREGORIO, “Alla scuola pastorale di San Alfonso”, S. Alfonso (Pagani) 21 (1950), 114-118. 43 J. MARÉCHAL, A Maréchal Reader (New York: Herder and Herder, 1970, ed. and trans. J. Donceel), 85. 41

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Maréchal carefully says the two methods should yield identical conclusions. The problem is that they do not always do so. At the time of the publication of Consueverunt omni tempore the divergence is clear in the way casuistry had developed almost as a separate science which had lost its bearing within theology.44 Since 1950 the problem has appeared in another guise, which we can broadly call that of the double-truth of the moral life: one ‘truth’ derived from a normative understanding of nature, and one ‘truth’ derived from the intrinsic dynamics of the individual conscience.45 I wish to suggest that the indication of the process leading to Consueverunt omni tempore that the alphonsian tradition is primarily pastoral has the potential to solve this dilemma. Pastoral, in this context, is not to be understood in the sense in which it is generally used in the theological discipline called ‘pastoral theology’ (or ‘practical theology’, as some prefer). It is, rather, a distinguishing hermeneutical criterion. Capone’s interpretation seems correct to me: referring to St. Alphonsus he says: La sua ermeneutica … è chiara………. La teologia vera è subordinata al criterio pastorale: come lì non era verità salutare quella che, manifestata, era causa di rovina, data la condizione di fragilità della persona del penitente, così anche qui la penitenza non è salutare se, imposta al penitente fragile, lo pone in crisi.46

The issue is extremely delicate. We clearly must learn the lessons from the past: how the alphonsian tradition, at least in part, became sterile because of a casuistry that separated the moral life from a theological foundation in general and a spiritual orientation in particular. We must, equally, be aware of the modern problematic that has been referred to as ‘the creative

See the still valid article of J-M. AUBERT “Morale et Casuistique” Recherche de Science Réigieuse 68 (1980), 167-201. 45 This is clearly a major concern of the Encyclical Letter Veritatis splendor issued in 1993. 46 D. CAPONE, La proposta morale di Sant’Alfonso – sviluppo e attualità (Roma: EDACLF, 1997), 271. 44

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conscience’ which would make the subjective intuition the basis of an objective moral judgment.47 What I infer from Consueverunt omni tempore is this: the intentionality of the alphonsian spirit of moral theology is best captured in the phrase ‘pastoral’, used hermeneutically. It is not co-incidental, I believe, how the question is phrased in the Introduction to the Constitutions and Statutes that govern the Redemptorist way of life: Urged on by the same missionary spirit, it fosters, too, the scientific study of pastoral practice, thus following in the steps of St. Alphonsus who, in 1871, was declared a Doctor of the Church, and in 1950 the patron of all confessors and moralists.48

The choice of the words ‘scientific study of pastoral practice’ is significant: we are not encouraged, for instance, to study moral theology in se or the spiritual life in se, master of both though St. Alphonsus was. I have referred a number of times to the alphonsian tradition. The genius of the founding-father of that tradition was to resolve the theological war of the 18th century reflex principles: the contemporary challenge to that tradition, posed by Consueverunt omni tempore, is to find an hermeneutical convergence between the insights of contemporary pastoral (or practical) theology and contemporary moral theology, in its various legitimate expressions.49 I am not trying to claim that moral theology is the same as pastoral theology. Pastoral theology, it is now clear, can claim to have its own formal object as a theological discipline as, for instance, proposed by Midali when he describes this as rilevare, valutare e orientare, alla luce della fede, e con l’ausilio di principi unificatori, di teorie, di modelli e di categorie

See note 45. Constitutions and Statutes. Congregation of the Most Holy Redeemer (Rome: General Curia C.Ss.R. 1988), 18. 49 An ecumenical dimension is most helpful here, such as the excellent study of D. S. BROWNING, A Fundamental Practical Theology, ( Minneapolis: Fortress Press, 1991). 47 48

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interpretative, il divinire della religione, del cristianesimo e della Chiesa, considerato nell’oggi e nei differenti contesti umani, cristiani e ecclesiali.50

The Italian word pastoralità, which is so difficult to translate into other languages, is near to what I am suggesting. It is an hermeneutical expression of the intention which shapes the historical purpose of moral theology at the service of the Church in particular concrete circumstances. A second element from the process leading to Consueverunt omni tempore which has contemporary theological relevance is the idea of prudence. The term is not explicitly used in the first phase, though it is implied. It is alluded to in the decisive document of the second phase Sitne conveniens and it appears in the Apostolic Brief as a characteristic of St. Alphonsus’ theological approach. We are aware of the controversies surrounding the interpretation of the virtue of prudence among thomistic scholars. Important, therefore, is the sense in which Gregorio uses the term in the 1948 article already referred to: he refers to prudenza evangelica. It is fair to imply that it is in this sense that the term is to be understood. I find this well expressed in a recent article by Christopher Thompson: The thesis I develop here is simple and two-fold: first, that our friendship with God, as spoken of under the general notion of ‘beatitude’, is a constitutive component of the moral life; second, that it is St. Thomas’ doctrine of the gifts of the Holy Spirit…. in the baptized individual, that completes his portrait of moral decision making……….. reflection on the gifts of the Holy Spirit supply a much needed answer to those interpreters of Aquinas who wish to minimize the significance of beatitude, or friendship with Christ, in moral discernment.51

50 M. MIDALI, Teologia pastorale o practica, (Roma: LAS, seconda edizione, 1991), 571. 51 C. J. THOMPSON, “The Spirit and Limits of Prudential Reasoning”, The Thomist 63 (1999), 425-437, at 425.

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In other words: prudence, even as a cardinal virtue, needs to be placed in the context of the Spirit and His gifts in order, precisely, to show both the importance and the limitations of prudential reasoning considered in the abstract. This way of interpreting prudence as an evangelical virtue is clearly in line with what I have already said about the pastoralità of the alphonsian tradition. Its relevance today is most clearly seen in the light of the revival of a virtue-based moral theology, largely in the wake of Alasdair MacIntyre’s important work After Virtue.52 Among the criticisms of this development is one made by Fergus Kerr: that a virtue-based moral theology runs the danger of becoming too abstract or theoretical and, consequently, incapable of dealing adequately with the tragedies of life.53 The alphonsian tradition, as articulated in the process leading to Consueverunt omni tempore, is one that is particularly suited to dealing with life’s shadows and sins: St. Alphonsus is, after all, the moralist who developed a tradition from the experience of where life’s shadows and sins are most intimately exposed, in the celebration of the Sacrament of Confession. The prudence typical of the alphonsian tradition is, as Gregorio expressed it, una prudenza evangelica: perhaps the more contemporary word ‘discernment’ better captures that spirit. Such a process has been described by Richard McCormick as “…. a matter of knowing deeply in faith Jesus Christ who is present to me in His Spirit. It is a matter of knowing the obstacles to and recognizing and heeding God’s gracious invitation”54 It is my judgment that the process I have been commenting on invites us to take this understanding of prudence in the alphonsian tradition, though I admit other interpretations of the virtue of prudence are theologically legitimate. The appeal of calling this approach one of prudenza evangelica or discernment is that it ensures that the alphonsian

First published in 1981 (Notre Dame Ind: University of Notre Dame Press) it is important to note the slight modifications of later editions. 53 See F. KERR, “Moral Theology after MacIntyre: Modern Ethics, Tragedy and Thomism”, Studies in Christian Ethics 8 (1995), 33-44. 54 R. A. MCCORMICK, Corrective Vision, (Kansas City MO: Sheed and Ward, 1994), 67. 52

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tradition does not become fossilized or theoretical, in the wrong sense. The insight of Heinrich Klomps regarding the clash between Jansenism and Probabilism is relevant not only to understanding a core aspect of the tradition St. Alphonsus helped to found but its theological relevance for today can be easily seen: speaking of the importance of this historical victory of Probabilism over Jansenism, Klomps asserts: … la chiave per capire questo fenomeno storico-religioso per excellenza sta semplicemente nella esatta comprensione del difficile problema di conciliare l’obbligo di predicare in ogni tempo la “vox evangelii” con la legittima convinzione di poter interpretare come “vox Dei” il carattere unico del presente sempre nuovo.55

The concluding contemporary theological significance for the alphonsian tradition that I would take from the process studied in this article is a development of the first two and based on the reference to Maritain in the 1938 text Sitne conveniens. If I understand him correctly, Maritain expounds how the practico-practical knowledge of life in St. Alphonsus’ theology, shaped on the anvil of experience, is a genuinely scientific knowledge that is coherent with the speculative knowledge gained from metaphysical reasoning. Maritain takes great care to show that the two types of knowledge are complementary or, in his terms, form a continuity. But he insists that the type of scientific knowledge in St. Alphonsus’ moral theology, especially as expressed in the Praxis Confessarii,56 is a practico-practical knowledge that is an extension, in the concrete, of a prudencebased conduct of life. The contemporary theological relevance of this technical point can be seen in the discussions, mostly among North American writers (for instance, A. Jonsen, S.

55 H. KLOMPS, Tradizione e progresso nella teologia morale (Roma: Edizioni Paoline, 1963), 11. 56 An accessible and reasonably reliable edition (in contemporary Italian) is Pratica del Confessore (Frigento: Casa Mariana, 1987).

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Toulmin,57 J. Keenan,58 and R. Miller59), on casuistry in moral theology. This discussion is not, in any way, an effort to revive the correctly discredited casuistry associated with the tradition of the casus conscientiae. What is emerging from the discussion is a greater clarity about the ways of moral reasoning appropriate to moral theology. One view would want moral reasoning to achieve a scientific certitude analogous to mathematics: the morality of an individual act is a logical deduction from a universal moral principle. Another view of moral reasoning would see it as more akin to the practical science of clinical medicine. Universal principles are of little use if one has misdiagnosed the circumstances: only then can one make a sure judgment about which principle to apply. The issue at stake here, and alluded to (I believe) by Maritain, is the epistemological one of the method of moral reasoning, a debate that has its philosophical roots in the aristotelian discussion on the difference between episteme and phronesis. By including the reference to Maritain, I think we can presume that the alphonsian tradition is more in the line of phronesis.60 The process leading to Consueverunt omni tempore is not the most important episode in the development of the alphonsian tradition but, on a closer examination, it has indicated some crucial pointers for the vitality of that tradition. In the first place, the immediate interpretation of the document by Buijs underlines that moral theology is, primarily, a theological discipline (that is, not an exercise of casuistry). This is common-

See A. JONSEN and S. TOULMIN, The Abuse of Casuistry (Berkeley: University of California Press, 1988). 58 Keenan has not just been a major personal contributor to the debate but has been a catalyst in gathering other scholars to study the issues. See, as an example, J. KEENAN and T. SHANNON (editors), The Context of Casuistry (Washington, D.C.: Georgetown University Press, 1995). 59 R. MILLER, Casuistry and Modern Ethics (Chicago: University of Chicago Press, 1996). 60 The issues here are complex, and moral theologians could do well by entering into dialogue with the better philosophical writing on such issues, such as: J. DUNNE, Back to the Rough Ground. ‘Phronesis’ and ‘Techne’ in Modern Philosophy and in Aristotle (Notre Dame IN: University of Notre Dame Press, 1993). 57

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place to acknowledge now, but it was not at all obvious to many exponents of the alphonsian tradition in 1950. If theology is, so to speak, the substance of the science, it is clear from the Apostolic Brief that it is qualified by two further elements: moral, and pastoral. The moral questions are clearly implied in the fact that the alphonsian tradition is above all concerned with the ethical questions as they affect people in the stuff of ordinary life. But the substance (theology) is qualified not only by the adjective (moral): the hermeneutical link between substance and adjective is through the pastoralità which defines the intentionality of one’s study of the subject ‘theology’ under the aspect of ‘moral questions’. Much has happened since 1950 to the ministry of being a moralist and being a confessor of which St. Alphonsus was declared Patron. It would be unwise not to study these changes, in themselves, and independent of the limited focus of my research presented here.61 But there may be more to be learned from the process leading to Consueverunt omni tempore in discerning a response from within the alphonsian tradition than at first appears. The ecclesiastical event has, indeed, a deeper ecclesial significance with the potential to indicate some theological elements of the alphonsian tradition which, while certainly not the only valid tradition of moral theology, continues to have its own relevance in the pastoral response to many ethical enigmas of this fractured period of history. Via Merulana 31 C.P. 2458 Roma Italy.

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61 The millenium fever was notable in moral theology, too, where there were many review-type studies of the present state of our discipline. Among the more interesting ones is C. E. CURRAN, Moral Theology at the End of the Century (Milwaukee WI: Marquette University Press, 1999).

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Summary / Resumen. This article examines the three stages of the process leading to the proclamation of St. Alphonsus as Patron of Moralists and Confessors in the Apostolic Brief Consueverunt omni tempore (26.04.1950). The argument follows this line: though the process is properly called an ecclesiastical one, an interpretation of the final document shows important ecclesial possibilities which can, in turn, be useful for the theological retrieval of the alphonsian pastoral tradition in our day. Este artículo examina las tres fases del proceso que conducen a la proclamación de San Alfonso como Patrono de moralistas y confesores por el breve apostólico Consueverunt omni tempore (26.04.1950). El argumento se plantea de la siguiente manera: aunque el proceso se llama propiamente eclesiástico, una interpretación del documento final muestra importantes posibilidades que pueden, a su vez, hacerlo útil para recuperar la tradición pastoral alfonsiana en nuestro tiempo. ————— The author is an Invited Professor at the Alphonsian Academy. El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana. —————

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Concludendo il suo intervento al congresso tenuto in Accademia Alfonsiana nel marzo del 1997, in occasione del terzo centenario della nascita di S. Alfonso, lo storico Gabriele de Rosa sottolineava che la proposta del Patrono dei moralisti e dei confessori, mettendo «la pastorale in rapporto con la fragilità umana», facendo «dipendere il perdono più dalla misericordia che dalla legge», restituendo «alla confessione e al confessore il ruolo di un atto di amore», costituisce, non solo per il secolo diciottesimo, ma anche per noi oggi «un evento certamente straordinario». E aggiungeva: «Da giudice il sacerdote diventa padre: una trasformazione che poteva scaturire in sant’Alfonso solo dalla sua ansiosa e generosa pratica evangelica in mezzo ai condannati, ai vagabondi, agli esclusi, ai fuorilegge, ai poveri, che affluivano alle Cappelle serotine, pratica che a poco a poco lo liberò dal cupo rigorismo degli anni giovanili». Però a lungo andare «il risultato di questo capovolgimento «copernicano» della teologia morale non sarebbe stato possibile se in sant’Alfonso non fosse affiorata la consapevolezza della libertà come fondamento della fede e delle scelte del cristiano, a cui il missionario, ma anche il vescovo o curato, avrebbe offerto il supporto della carità»1. Alla luce di quanto è stato suggerito dalla relazione introduttiva del Prof. Gallagher e avendo presente il cammino complessivo del nostro convegno, il mio contributo invita a focalizzare questa «trasformazione» o «capovolgimento» operato da S. Alfonso, che ha portato il confessore a riscoprirsi padre, prima e

1 G. DE ROSA, La figura e l’opera di sant’Alfonso nell’evoluzione storica, in Spicilegium Historicum CSSR 45 (1997) p. 224.

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più che giudice. Ripercorrendo alcune delle sue pagine più significative, cercheremo così di meglio comprendere la direzione che il Patrono dei confessori e dei moralisti indica per una fruttuosa attuazione della ministerialità sacramentale. Tre citazioni, tratte da opere della sua maturità, ci permettono di coglierne subito tono e prospettive fondamentali. Nella Selva di materie predicabili ed istruttive, pubblicata a Napoli nel 1760, egli scrive: «Bisogna persuadersi che l’esercizio più giovevole per salvare le anime è l’impiegarsi nel sentir le confessioni. Diceva il ven. p. Lodovico Fiorillo domenicano che col predicare si gittano le reti, ma col confessare si tirano al lido e si pigliano i pesci… il sacerdote specialmente vien costituito, allorché si ordina, ad amministrare il sacramento della penitenza»2. Cinque anni prima, ha aperto la Pratica del confessore (Napoli 1755) con queste parole: «Grande certamente sarà il premio e sicura la salvazione de’ buoni confessori che s’impiegano nella salvezza de’ peccatori... Ma piange la Chiesa in vedere tanti suoi figli perduti per cagione de’ mali confessori, poiché principalmente dalla loro mala o buona condotta dipende la salvezza o ruina de’ popoli»3. Nel 1757, nella Istruzione e pratica pei confessori, sintetizza in questi termini la ministerialità del confessore: «l’officio suo è officio di carità, istituito dal Redentore solamente in bene delle anime»4. Per Alfonso il ministero della confessione, strettamente collegato con quello dell’evangelizzazione, è prioritario nella vita del sacerdote: ad esso egli «specialmente vien costituito» e dalla sua «buona o cattiva» attuazione «dipende la salvezza o ruina»

2 Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli Esercizi a’ Preti ed anche per uso di Lezione privata a proprio profitto, con una piena Istruzione pratica in fine degli esercizi di Missione. Data in luce […] per uso de’ Giovani della medesima Congregazione, parte I, cap IX, § 4, n. 31, in Opere complete, III, Torino 1847, p. 77 [d’ora in poi Selva]. 3 Pratica del confessore per bene esercitare il suo ministero, n. 1, edizione critico-pratica a cura di G. PISTONI, Modena 1948, p. 1 [d’ora in poi Pratica]. 4 Istruzione e pratica pei confessori, cap. XVI, punto VI, n. 110, in Opere complete, IX, Torino 1861, p. 415 [d’ora in poi Istruzione e pratica].

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dei fedeli. Va però sempre vissuto come «officio di carità» mirando «solamente» al bene delle anime5. Sono affermazioni forti da leggere avendo presente il contesto morale e pastorale del Settecento. Credo però che il loro significato, come sottolinea lo stesso evento che il nostro convegno sta commemorando, va oltre il momento in cui sono state scritte. Per meglio coglierlo, è opportuno innanzitutto rilevare come Alfonso colloca la confessione nella ministerialità sacerdotale e nel progetto di missione per gli abbandonati, che costituisce il perché della sua vita. Sarà così più agevole valutare la maniera con cui delinea i compiti specifici del confessore, sottolineando quelli di padre e di medico, e la formazione necessaria per la loro fruttuosa attuazione.

1. La ministerialità sacerdotale Al pari degli altri aspetti della sua proposta teologica e pastorale, anche la ministerialità sacerdotale viene precisata da Alfonso partendo dalla esperienza viva. Il tracciato di fondo è dato dalle prospettive e dalle coordinate della pastorale post-tri-

5 Cf. D. CAPONE, Il compito del confessore, compito di carità in Cristo: riflessioni pastorali con S. Alfonso M. de Liguori, in ID., La proposta morale di sant’Alfonso. Sviluppo e attualità, a cura di S. BOTERO GIRALDO e S. MAJORANO, Roma 1997, p. 261-295; S. MAJORANO, La formazione della coscienza nella tradizione redentorista: I dati delle origini, in AA. VV., Proceedings of the Third International Congress of Redemptorist Moral Theologians, Pattaya (Thailand) 1995, p. 189-219; ID., Il dialogo confessore - penitente. La riconciliazione vista dal confessore e dal penitente, in La Madonna 47 (1999), n. 1, p. 21-31; ID., Il cammino etico esistenziale verso il Padre alla luce di Sant’Alfonso Maria de Liguori, in Vivarium 8 (1999), n. 1, p. 87-100; V. PELLEGRINO, La direzione spirituale di Sant’Alfonso, in P. GIANNANTONIO (a cura), Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo, Firenze 1990, p. 643-651; Th. REY-MERMET, La riconciliazione in S. Alfonso e nel suo tempo, in L. ALVAREZ - S. MAJORANO (a cura), Morale e redenzione, Roma 1983, p. 223-234; R. THÉBERGE, Liguori et la formation morale de la conscience, Sainte Foy: Université Laval 1987; ID., Une morale pour une pastorale de la miséricorde. L’«Homo apostolicus», in AA. VV., Alphonse de Liguori pasteur et docteur, Paris 1987, p. 127-138; M. VIDAL, La morale di Sant’Alfonso. Dal rigorismo alla benignità, Roma 1992, particolarmente p. 238-240.

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dentina, permeate e arricchite dal grande patrimonio biblico e patristico, abbondantemente citato in tutti i suoi scritti. Gli aspetti maggiormente sottolineati evidenziano la tensione a rispondere costruttivamente alle urgenze pastorali della società meridionale del suo tempo, soprattutto a quelle degli abbandonati: ridestare ed approfondire la fede, liberandola dalle presenze magico-superstiziose, dovute soprattutto alla scarsa o inadeguata evangelizzazione; difenderla dalle insidie provenienti dal crescente diffondersi di istanze razionalistiche e materialistiche, i cui rischi sono accentuati dalla carenza di formazione religiosa nelle classi più umili; ridarle lo slancio della coerenza nelle scelte di ogni giorno, messa a dura prova dalle discriminazioni e dalle mille difficoltà presenti nella vita quotidiana del popolo6. Avendo presente tale contesto, è possibile meglio valutare le accentuazioni alfonsiane nei riguardi della ministerialità sacerdotale: evangelizzazione in linguaggio accessibile e concreto; formazione delle coscienze, radicata in una lettura misericordiosa della fragilità umana; sostegno nel cammino verso la santità, fondato nella preghiera e nel frequente accostarsi ai sacramenti. Vengono concretizzate da Alfonso partendo da ciò che ha specificato il suo cammino umano e spirituale: la fedeltà alla chenosi salvifica del Redentore, che lo ha portato a condividere la dura condizione degli abbandonati dei quartieri più poveri di Napoli prima e delle campagne poi7. È una realtà scrutata con

6 Cf. D. AMBRASI, Seminario e clero a Napoli dalla nascita dell’istituzione alla fine del Settecento, in Campania Sacra 15-17 (1984-1986) p. 7-95; J. DELUMEAU, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVII secolo, Cinisello Balsamo 1992; R. DE MAIO, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna (1656-1799), Napoli 1971; G. DE ROSA, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli 1983; A. DE SPIRITO, La parrocchia nella società napoletana del Settecento, in Spicilegium Historicum CSSR 25 (1977) p. 73-117; G. GALASSO – C. RUSSO (a cura), Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, I e II, Napoli 1980 e 1982; G. ORLANDI, Il regno di Napoli nel Settecento. Il mondo di S. Alfonso Maria de Liguori, in Spicilegium Historicum CSSR 44 (1996) 5-389; C. RUSSO (a cura), Società, Chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, Napoli 1976; M. TURRINI, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna, Bologna 1991. 7 Cf. S. MAJORANO, Il popolo chiave pastorale di S. Alfonso, in Spicilegium Historicum CSSR 45 (1997) p. 71-89; ID., La teologia come fedeltà alla cheno-

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gli occhi di un avvocato che, lasciato nel 1723 il foro partenopeo, è passato a quello della «giustizia salvifica» del Redentore, vista come copiosa redemptio, scegliendo per clienti i «poveri peccatori»8. Può così elaborare una proposta, morale e pastorale, tesa alla difesa appassionata del loro diritto alla pienezza della vita cristiana, nonostante la fragilità, frutto del peccato, che, in molteplici forme, pesa sulla loro vita9. Si tratta di una difesa che non legittima certo la fragilità, ma si preoccupa prima di tutto di individuarne e denunciarne le cause, rendendone possibile l’effettivo superamento. Le scelte di fondo sono chiare già nei primi impegni pastorali nei quartieri popolari di Napoli. Stralcio dalla colorita descrizione tratteggiata dal Tannoia: «Animato dallo spirito di Dio, non predicava Alfonso, che Cristo Crocifisso. Non vi erano frasche nelle sue prediche, ed apparati vani d’inutili erudizioni. Tutto era nerbo, e sostanza, con istile piano, e familiare... Non tantosto si vide sedere al Tribunale della Penitenza, che accerchiato ne venne il nuovo Confessore da una moltitudine di Penitenti. Prodigioso era il numero di qualunque ceto e condizione, che da ogni parte vi concorreva. Tutti accoglieva Alfonso con una carità sopraffina; e siccome la mattina era il primo a presentarsi in Chiesa, così era l’ultimo a levarsi dal Confessionale»10. In seguito, l’intensa attività missionaria, sostenuta da un costante impegno di riflessione, lo convincerà sempre più che il «predicare all’apostolica» e il confessare misericordioso (imitando cioè la «condotta del Redentore»), devono essere considerati come i due cardini, strettamente correlati tra di loro, di ogni valida azione pastorale. Il primo è la necessaria porta che apre le

si del redentore: La proposta di S. Alfonso Maria de Liguori, in Divus Thomas 20 (2/1998) p. 94-115. 8 Cf. F. CHIOVARO, S. Alfonso Maria de Liguori: ritratto di un moralista, in Spicilegium Historicum CSSR, 45 (1997) p. 121-153; P. PERLINGIERI, Alfonso de Liguori giurista, in P. GIANNANTONIO (a cura), op. cit., p. 271-285. 9 Cf. la visione sintetica che ho tracciato in Essere Chiesa con gli abbandonati. Prospettive alfonsiane di vita cristiana, Materdomini 1997. 10 Della vita ed istituto del Venerabile Servo di Dio Alfonso M.a Liguori Vescovo di S. Agata de’ Goti e Fondatore della Congregazione de’ preti missionarii del SS. Redentore, I, Napoli 1798, p. 35-36 e 38-39.

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menti e i cuori alla verità salvifica, superando resistenze e incomprensioni; il secondo, sviluppandosi come momento privilegiato della formazione delle coscienze, permette la necessaria personalizzazione della stessa verità nella sua capacità di rinnovare la vita. Fino alla tarda età, ricorda ancora Tannoia, Alfonso non si stancherà di ripetere che il ministero delle confessioni è «il più profittevole per le Anime, e ‘l meno soggetto a vanità per un Operario Evangelico; perché... per mezzo di questo, più che per qualunque altro ministero, le Anime si riconciliano immediatamente con Dio, e loro si applica con soprabbondanza il sangue di Gesù Cristo»11. All’inizio degli anni Sessanta, Alfonso condensa, nella Selva, l’esperienza e la riflessione di più di trent’anni, dandoci una visione articolata della ministerialità sacerdotale. Le affermazioni a volte hanno toni e colori particolarmente forti, che è possibile comprendere correttamente avendo presente che si tratta di un testo per la predicazione, come viene richiamato negli stessi «avvertimenti» iniziali12. L’opera risulta articolata in tre parti. Nella prima (Delle materie predicabili) vengono affrontate le tematiche più fondamentali riguardanti la dignità e la vita sacerdotale13. La seconda (Delle istruzioni) sviluppa analiticamente alcuni aspetti più specifici

Ivi, p. 39. «La presente operetta si è intitolata Selva, non già discorsi o esercizj spirituali, perché sebbene siasi procurato di unir la materia propria appartenente a ciascuno degli assunti proposti, nulladimeno non si è dato l’ordine che ricerca un discorso formato per ciascuna materia; né i sentimenti si sono distesi; si son notati questi alla rinfusa, ed in breve; ma ciò si è fatto di proposito, affinché il lettore scegliendone quelle autorità, dottrine e pensieri che più gli gradiscono, egli poi gli ordini e li stenda come meglio gli piacerà, facendosi con ciò proprio il discorso» (Selva, p. 5). 13 È articolata in dieci capitoli: «Della dignità del sacerdote» (cap. I); «Del fine del sacerdote» (cap. II); «Della santità che deve avere un sacerdote» (cap. III); «Gravezza e castigo del peccato del sacerdote» (cap. IV); «Del danno che apporta al sacerdote la tepidezza» (cap. V); «Del peccato d’incontinenza» (cap. VI); «Della messa sacrilega» (cap. VII); «Del peccato di scandalo» (cap. VIII); «Dello zelo del sacerdote» (cap. IX); «Della vocazione al sacerdozio» (cap. X). 11 12

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del ministero e le principali virtù del sacerdote14. La terza infine riguarda gli «esercizj di missione»15. Punto di partenza è la dignità del sacerdote, prospettata come «dignità somma fra tutte le dignità create»16, dal momento che «Gesù è morto per fare un sacerdote»17. La motivazione sta nella «potestà che tiene [il sacerdote] sovra il corpo reale e il corpo mistico di Gesù Cristo». Riguardo al primo, «è di fede che quando il sacerdote consagra, s’è obbligato il Verbo incarnato ad ubbidire ed a venire nelle sue mani sotto le specie sacramentali». Riguardo al secondo, «il sacerdote ha la potestà delle chiavi, cioè di liberare il peccatore dall’inferno e farlo degno del paradiso, e da schiavo del demonio farlo figlio di Dio»18. È però una dignità tutta ministeriale, che deve privilegiare coloro che più hanno bisogno di salvezza. Alfonso lo ha avuto chiaro fin dal momento della sua decisione per il sacerdozio, prendendo le distanze da un padre che sognava per lui una carriera di prestigio. Può perciò scrivere nella Selva: «Grandissima è la dignità e l’officio de’ sacerdoti; ma è grande ancora l’obbligo ch’essi hanno di attendere alla salute delle anime»19. 14 Le istruzioni sono complessivamente undici: «Circa la celebrazione della messa»; «Circa il buon esempio che dee dare il sacerdote»; «Circa la castità del sacerdote»; «Circa la predicazione e circa l’amministrazione del sacramento della penitenza»; «Circa l’orazione mentale»; «Circa l’umiltà»; «Circa la mansuetudine»; «Circa la mortificazione specialmente interna»; «Circa la mortificazione esterna»; «Circa l’amor di Dio»; «Circa la divozione verso Maria SS.». 15 I dodici capitoli trattano dapprima separatamente dei diversi esercizi (I: «sentimenti»; II: rosario; III: confessione dei ragazzi; IV: «soliloquj per la comunione»; V: catechismo grande; VI: catechismo ai ragazzi; VII: predica; VIII: altri esercizi; IX: «esercizj divoti che si lasciano raccomandati a praticarsi dopo la missione»), per poi presentare una serie di «avvertimenti generali» (X), le «incombenze del superiore» (XI) e le «virtù particolari che debbono osservare i missionarj nel tempo della missione» (XII). 16 Parte I, cap. I, n. 1, p. 7. 17 Ivi, n. 4, p. 8. 18 Ivi, n. 5-6, p. 8. 19 Ivi, cap. IX, § 1, n. 3, p. 65. Il capitolo è dedicato allo zelo e si apre con queste affermazioni: «Si avverta che nel darsi gli esercizj al clero, questa dello zelo è la predica più necessaria da farsi e che può riuscire la più utile di tutte; perché, se mai si risolve un sacerdote degli ascoltanti, come dee sperarsi dalla grazia del Signore, ad impiegarsi nel procurare la salute del pros-

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Le espressioni di tale zelo sono molteplici. Alfonso si sofferma su quelle che ritiene più importanti. Innanzitutto il sacerdote «dee attendere a correggere i peccatori»20. Occorre poi che si dedichi alla predicazione: «Per la predicazione si è convertito il mondo alla fede di Gesù Cristo, siccome dice l’apostolo: Fides ex auditu; auditus autem per verbum Christi (Rm 10,17). E per la predicazione si conserva la fede e il timore di Dio ne’ fedeli»21. Deve inoltre «impiegarsi nell’aiuto dei moribondi, ch’è l’opera di carità più cara a Dio ed è la più utile alla salute delle anime»22. Ma soprattutto «bisogna persuadersi che l’esercizio più giovevole per salvare le anime è l’impiegarsi nel sentir le confessioni». Né devono scoraggiare le difficoltà che si incontrano in questo ministero: «Ma, dice taluno, questo è un officio di molto pericolo. Non ha dubbio, sacerdote mio, ti dice S. Bernardo, ch’è molto pericoloso il porsi a fare il giudice delle coscienze: ma incorrerai un maggior pericolo, se per pigrizia o per troppo timore lascerai di far quest’officio quando il Signore ti chiama a farlo»23. Il ribadire l’importanza del ministero delle confessioni non era sufficiente, dal momento che spesso i problemi derivavano soprattutto dalla scarsa qualità dei confessori, per carenza di formazione o di zelo. Nell’istruzione quarta della Selva Alfonso sottolinea che «chi vuol essere idoneo e buon confessore bisogna prima di tutto che consideri essere un tale offizio molto difficile e molto pericoloso». Ma aggiunge subito che «ciò va detto non già per quei buoni sacerdoti che, dotati di santo timore, procurano prima di abilitarsi quanto conviene a questo grande officio

simo, non si guadagnerà una sola, ma cento e mille anime, che si salveranno per mezzo di questo sacerdote» (p. 63-64). 20 Ivi, § 4, n. 28, p. 76. Aggiunge: «I sacerdoti che vedono le offese di Dio e non parlano sono chiamati da Isaia cani muti: Canes muti, non valentes latrare (56,10). Ma a questi cani muti saranno imputati tutti i peccati che poteano impedire e non hanno impedito». 21 Ivi, n. 29, p. 76-77. 22 Ivi, n. 30, p. 77. 23 Ivi, n. 31, p. 77. Le difficoltà devono spingere invece a uno studio continuo: «Ma io, replica colui, non sono abile a quest’officio, perché non ho studiato. Ma non sai che il sacerdote è obbligato a studiare?... Se non volevi studiare per poter aiutare il prossimo, a che serviva il farti sacerdote?».

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e poi mettonsi ad esercitarlo pel solo desiderio di portare anime a Dio; ma solamente si dice a rispetto di coloro che per fini mondani o d’interesse temporale o di stima propria ed alle volte senza la bastante scienza vanno a prendere la confessione»24. A questo fine, oltre la redazione, costantemente sottomessa a revisione, della ponderosa Theologia moralis, Alfonso si impegna a mettere in mano ai sacerdoti strumenti pratici per il migliore espletamento del loro ministero: Pratica del confessore per ben esercitare il suo ministero (1755), Avvertimenti ai confessori novelli (1756), Istruzione e pratica pei confessori (1757), Il confessore diretto per le confessioni della gente di campagna (1764). Le scrive in italiano (tranne le pagine relative al sesto comandamento), limitandosi alle questioni principali, per superare le difficoltà poste dalla lingua latina e dal costo dei grandi tomi delle Institutiones theologiae moralis25. Dalle pagine, ricche di concretezza di queste opere, emerge una ministerialità, in cui la fedeltà alla misericordia del Redentore rende il confessore prima di tutto padre e medico e poi dottore e giudice. Senza rinunziare mai alla verità, la incarna costruttivamente nella vita, mediante una proposta di vita cristiana che apre la fragilità alla tensione sincera verso la santità. Lo vedremo dettagliatamente in seguito, dopo aver rilevato la collocazione della confessione nel progetto missionario.

Ivi, parte II, Istruzione II, § 2, n. 7 e 8, p. 117-118. Significativo quanto nota all’inizio del Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna: «Essendoché i piccioli paesi della campagna, per la povertà della gente che v’abita, non han modo di somministrare stipendi pingui a’ sacerdoti che assistono alla loro cultura; ed all’incontro non essendo in tali luoghi necessaria ne’ sacerdoti, per udire le confessioni, quella scienza che bisogna per li paesi grandi, dove sogliono abitare anche persone culte; per tanto ho stimato cosa utile dar fuori questa breve Istruzione, che giudico esser sufficiente a’ preti, che poco son versati nello studio della morale, e che non possono comprarsi libri di maggiore spesa, per abilitarsi a prendere le confessioni della gente di campagna. Che se poi occorressero casi che richiedono maggiore discussione e studio, allora bisognerà che si osservino libri che trattano le materie più diffusamente, o almeno ricorrano al consiglio di uomini che sono ben fondati in questa scienza», in Opere complete, IX, Torino 1861, p. 641. 24 25

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2. Il progetto missionario Nel novembre 1732 Alfonso decide di passare definitivamente nel mondo dell’abbandono: «Accertato della volontà di Dio, scrive il Tannoia, si animò, e prese coraggio; e facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della Città di Napoli, si offerse menar i suoi giorni dentro proquoi, e tuguri, e morire in quelli attorneato da’ Villani, e da’ Pastori»26. Fonda la comunità redentorista il cui «intento» è «per seguitare l’esempio del nostro comune Salvatore Giesù Cristo, d’impiegarsi principalmente sotto l’obbedienza degli Ordinarj de’ luochi nell’aiutare i paesi di campagna più destituiti di soccorsi spirituali». Avrà perciò come «distintivo assoluto» di radicarsi tra gli abbandonati, ponendo le «chiese e case fuori dell’abitato e in mezzo alle diocesi, affine di andar girando con maggior prontezza colle missioni per i paesi d’intorno; ed affine insieme di porgere in tal modo più facilmente il commodo alla povera gente di accorrere a sentir la divina parola e prendere i sacramenti nelle loro chiese»27. La definizione del progetto missionario non fu facile. Non è qui il luogo per ricostruirne le tappe, mettendo in rilievo i contributi dei singoli membri del gruppo primitivo28. Mi preme solo evidenziare la centralità che in esso viene assegnata al ministero delle confessioni. Emerge con chiarezza da quanto Alfonso scrive ai vescovi in difesa del suo progetto: «Chi non è pratico di missioni e del confessare che si fa in missione, non può intendere mai quanto sia grande il loro profitto… il frutto maggior delle missioni non consiste nel sentir le prediche, ma nel confessarsi tutti del paese a’ missionarj. Se ciascuno nella missione non aggiusta i conti della vita passata e non mette sistema alla vita futura colla confessione, poco gli gioveranno le prediche intese»29.

Op. cit., I, p. 66. Spicilegium Historicum CSSR 16 (1968) p. 385. 28 Cf. S. MAJORANO, «Idea» dell’istituto, in D. CAPONE – S. MAJORANO, I Redentoristi e le Redentoriste. Le radici, Materdomini 1985, p. 349-424; ID., Testi regolari anteriori al 1749, in F. CHIOVARO (a cura), Storia della Congregazione del Santissimo Redentore, I/I. Le Origini, Roma 1993, p. 431-451. 29 Riflessioni utili ai vescovi per la pratica di ben governare le loro chiese tratte dagli esempj de’ vescovi zelanti ed approvate coll’esperienza, cap. II, § 5, 26 27

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La durata e l’articolazione della missione erano progettate alla luce di questa prioritaria preoccupazione. Per questo Alfonso, ricorda il Tannoia, «anche ne’ loghetti di poche Anime, vi si tratteneva i giorni quindeci; ma nelle Città grandi, e popolate, i venti, e ventidue, e talvolta il mese intero». Voleva infatti che «tutto il Popolo si fosse confessato da’ nostri». Perciò «non usciva in Missione, se non aveva soggetti in numero proporzionato al paese; e nelle Missioni grandi arrivava a portare i diciotto, e venti, e talvolta di vantaggio. Sette ore perduravasi la mattina nel Confessionale, inclusa la S. Messa; e la sera per lo meno, terminata la predica, confessar si doveva per altre due ore»30. La missione veniva aperta «rilevando con una predica le Misericordie di Dio sopra del paese». Nei giorni seguenti «di per tempo la mattina eravi in Chiesa la predica per coloro, che uscir dovevano alla campagna. Finita la predica ognuno de’ Missionarj seder doveva ai Confessionali, chi destinato per gli uomini, e chi per le donne»31. La catechesi serale «sminuzzar doveva i principali doveri, che verso Dio assistono, verso il prossimo, e verso noi medesimi. Rilevava le parti integrali per essere valida la Confessione, ed il grave danno, che risulta dalle confessioni invalide, massime le sacrileghe; e soprattutto rilevavasi l’ingiusto tolto, e ritenuto»32. Momenti culminanti della missione erano le «comunioni generali», cominciando da quella «de’ figliuoli, e figliuole». Venivano collocate in maniera che prima il popolo avesse avuto il tempo di avvicinarsi alla confessione: «Volendo dar luogo alle Confessioni, e togliere di mezzo qualche sacrilegio, che commetter si poteva per umano rispetto, non permetteva, che si communicasse chiunque prima delle Comunioni generali». Era-

in Opere complete, III, Torino 1847, p. 874-875. Sul metodo missionario alfonsiano cf. G. ORLANDI, La missione, in F. CHIOVARO (a cura), op. cit., p. 325-399. 30 Op. cit., I, p. 308. Lo stesso Tannoia aggiunge: «Giungendo ne’ paesi, pregava i Parochi, ed i Confessori del luogo, ma non costringevali, per mezzo de’ Vescovi, che per qualche tempo astenuti si fossero dall’ascoltar le confessioni. Soleva dire che chi per erubescenza ha fatto il sacrilegio col proprio Confessore, volentieri, perché incontra maggior vergogna, lo fa di nuovo anche nella Missione». 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi.

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no precedute da momenti catechetici specifici. In maniera particolare la preparazione per quella degli uomini durava tre giorni: «rilevavasi la prima sera ai medesimi, quanto a Gesù Cristo fosse a cuore tra’ Cristiani la scambievole carità, e quanto in abominio le risse, ed i rancori. Si animavano gli offesi alla riconciliazione; ed ai piedi del Crocifisso, detestando ognuno le proprie vendette, riconciliato vedevasi col suo offensore»33. La missione terminava con la pratica della vita divota: dopo «le prediche delle Massime, eravi per tre o quattro giorni un pio esercizio meditativo, ch’egli chiamava Vita Divota. Consisteva questo per prima in istruire il Popolo sulla maniera di mentalmente orare; spiegavane la necessità, e mettevasi in veduta l’utilità di sì pio esercizio. Indi per un’altra mezz’ora facevasi praticamente meditare la dolorosa passione di Gesù Cristo… Questa meditazione, che di per sé attirava le lagrime ad ognuno, operava il maggior frutto nella Missione. Se il popolo non era tutto sodisfatto, specialmente colla Sacramentale Confessione, soleva portare più in lungo questo pio esercizio»34. Mirando soprattutto alla perseveranza e alla crescita nel bene, Alfonso «non solo sbarbicar cercava i vizj, ma innestarvi ancora, e piantarvi le virtù cristiane; né lasciava mezzo per venir a capo di quanto desiderava». Tra tutti «il mezzo de’ mezzi» era «che si capisse il gran bene, che produr suole la frequenza de’ Sacramenti, e che ognuno se n’invogliasse. Confessione e Comunione sono, ei diceva, e ripetevalo sempre, la sorgente di tutt’i beni; questi abbattono le passioni, e ci fortificano contro le tentazioni: senza di questi si cade, e si va in precipizio. Inculcava perciò che in ogni otto giorni ricevuti si fossero questi due Sacramenti, con ispiegare la disposizione con cui dovean riceverli»35. La centralità del ministero delle confessioni nella strategia missionaria viene ribadito in maniera tassativa nelle costituzioni redentoriste del 1764: «L’unico impegno de’ padri non sarà che di confessare essi tutto il popolo, escluso affatto ogni ajuto

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Ivi, p. 311. Ivi, p. 311-312. Ivi, p. 313-315.

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de’ confessori del luogo. Questo è un punto di somma importanza, e si facciano scrupolo i superiori di violarlo»36. E questo anche nella «missione continua» costituita dalla comunità radicata tra gli abbandonati: «Primieramente le nostre chiese saranno assistite di continuo da’ confessori, ed acciocché tutto vada ben regolato, il Rettore destinerà tanti soggetti per ciascheduno giorno della settimana, così per gli uomini che per le donne; sebbene ogni soggetto resta nella libertà di calare sempre che vuole, come l’è sempre in obbligo di fare ove ne fosse comandato ad ogni cenno de’ superiori, ancorché non fosse giorno destinato per esso. Ne’ giorni però di festa sono tutti tenuti d’assistere ai confessionali, e di continuamente accudire a’ bisogni che mai fossero in chiesa»37. Le stesse costituzioni perciò non esitano ad indicare «l’ascoltare le confessioni» come un’opera che «dovrà essere sommamente a cuore ai soggetti del nostro santo Istituto. Chi più si segnalerà in questo, più avrà spirito missionario, e di seguace di Gesù Cristo»38. Questa decisa accentuazione del ministero delle confessioni va certamente letta alla luce del contesto socio-religioso, contrassegnato, come sottolinea J. Delumeau, da un senso vivo dell’obbligo dell’accusa dettagliata, da un diffuso bisogno di «ostetricia spirituale» e dall’urgenza pastorale di «tranquillizzare» le coscienze tramite anche il ricorso alle confessioni generali39. Credo però che in essa occorre cogliere innanzitutto l’esigenza evangelica di incarnazione della verità nella storia viva di ogni persona. Alfonso infatti ha particolarmente a cuore tale esigenza, sottolineandone il valore sanante nei riguardi della fragilità umana. È stato ricordato da Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai Redentoristi in occasione del terzo centenario della nascita del 36 N. 55: Codex regularum et constitutionum CSSR, I (1749-1894), Roma 1899, p. 50-51. Si noti che con i testi normativi del Capitolo del 1764 termina la prima codificazione completa della congregazione redentorista, cf. al riguardo F. FERRERO, Costituzioni, statuti capitolari e strutture (1749-1785), in F. CHIOVARO (a cura), op. cit., p. 483-488. 37 Codex…, n. 163, p. 94. 38 Ivi n. 57, p. 51. 39 Cf. La confessione e il perdono…, p. 25-47.

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loro fondatore: «L’annuncio è autentico se, seguendo la pedagogia di Cristo, si concretizza nell’accompagnamento paziente della coscienza di ognuno nel graduale cammino verso il vero e il bene. S. Alfonso testimonia con forza che la franchezza della predicazione deve farsi accoglienza di padre e pazienza di medico – soprattutto nel sacramento della riconciliazione – perché ogni persona possa aprirsi all’azione di Cristo Salvatore. La fedeltà al Fondatore chiede in maniera particolare ai Redentoristi tale capacità e tale impegno, indispensabili per quella «generale mobilitazione delle coscienze e comune sforzo etico» che non mi stanco di indicare come risolutivi delle problematiche anche più gravi, come quelle concernenti la vita»40.

3. I compiti del confessore Alfonso non si limita ad affermare questa centralità del ministero delle confessioni. Convinto che «l’ufficio del confessore è ufficio di carità, istituito da Cristo Signore solo per il bene delle anime»41, si impegna a delineare un modello di confessore che, radicato nella disciplina tridentina, la interpreta da «avvocato» desideroso di far accedere i propri «clienti» (cominciando dai più abbandonati) alla ricchezza di grazia propria di questo sacramento. I tratti fondamentali di questo modello è facile coglierli seguendo la presentazione sintetica, tratteggiata nella Pratica del confessore, dei suoi fondamentali «uffici»: padre, medico, dottore, giudice. In quanto padre, il confessore «dev’esser pieno di carità». Questa si concretizza innanzitutto «nell’accogliere tutti, poveri, rozzi e peccatori». Va perciò denunciato con forza l’atteggiamento di alcuni confessori che, quando «s’accosta un povero peccatore, lo sentono di mala voglia, ed infine lo licenziano con ingiurie. E quindi succede che quel miserabile, il quale a gran forza sarà venuto a confessarsi, vedendosi così mal accolto e discac-

La ricorrenza tre volte centenaria, n. 3, in AAS 89 (1997) p. 143. Theologia moralis, lib. VI, tract. IV, cap. II, dub. V, n. 610, ed. GAUDÉ, III, Roma 1909, p. 635. 40 41

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ciato, piglia odio al sagramento, si atterrisce di più confessarsi, e così, diffidando di trovar chi l’aiuti e l’assolva, si abbandona alla mala vita ed alla disperazione». I veri confessori invece «quando si accosta un di costoro, se l’abbracciano dentro il cuore e si rallegrano quasi victor capta praeda, considerando di aver la sorte allora di strappare un’anima dalle mani del demonio. Sanno che questo sagramento propriamente non è fatto per l’anime divote, ma per li peccatori… Sanno che Gesù Cristo si protestò dicendo: Non veni vocare iustos, sed peccatores (Mc 2,17). E perciò, vestendosi di viscere di misericordia, come esorta l’Apostolo, quanto più infangata di peccati trovano quell’anima, tanto maggior carità cercano d’usarle, affin di tirarla a Dio»42. La carità che accoglie deve farsi ascolto paziente e misericordioso del penitente: «Maggiormente dee il confessore usar carità nel sentirlo. Bisogna pertanto ch’egli si guardi di mostrar impazienza, tedio o maraviglia de’ peccati che narra; se pure non fosse così duro e sfacciato che dicesse molti e gravi peccati senza dimostrarne alcun orrore o rincrescimento, perché allora è di bene fargli intendere la loro deformità e moltitudine, bisognando allora svegliarlo dal suo mortal letargo con qualche correzione»43. È un ascolto che porta il confessore a guardare le cose dall’angolazione del penitente: non per legittimare ciò che non è possibile legittimare, dato che la carità chiede sempre di chiamare il bene e il male con il proprio nome; ma per cogliere l’effettivo valore di ciò che si è vissuto e così individuare i passi effettivamente risolutivi. È quell’ascolto che ha permesso allo stesso Alfonso di maturare il distacco dal probabiliorismo della sua prima formazione e la conversione alla benignità pastorale: «Nel corso del lavoro missionario, scrive nel 1749, abbiamo scoperto che la sentenza benigna è comunemente sostenuta da numerosissimi uomini di grande onestà e sapienza... ne abbiamo perciò ponderato accuratamente le ragioni e ci siamo accorti che la sentenza rigida non solo ha pochi patroni e seguaci – e questi dediti forse più alle speculazioni che all’ascolto delle confessioni –, ma è anche po-

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Pratica, cap. 1, § 1, n. 3, p. 3-4. Ivi, n. 4, p. 4.

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co probabile, se si vagliano i principi, e per di più circondata da ogni parte da difficoltà, angustie e pericoli. Al contrario abbiamo scoperto che la sentenza benigna è accettata comunemente, è molto più probabile dell’opposta, anzi è probabilissima e, secondo alcuni, non senza un fondamento molto grave, moralmente certa»44. La lettura misericordiosa della fragilità umana, frutto di questa «conversione», mette in primo piano la persona del peccatore, considerando il suo stato innanzitutto come malattia. All’ufficio di medico viene perciò dedicato il maggiore sviluppo nella Pratica: «Il confessore, affine di ben curare il suo penitente, dee per prima informarsi dell’origine e cagioni di tutte le sue spirituali infermità». Solo così sarà possibile «far la correzione, disporre il penitente all’assoluzione ed applicargli i rimedi»45. Il primo e indispensabile rimedio è l’apertura alla verità mediante l’ammonizione: «Informatosi il confessore dell’origine e della gravezza del male, proceda a far la dovuta correzione o ammonizione. Sebben egli come padre dee con carità sentire i penitenti, nulladimeno è obbligato come medico ad ammonirli e correggerli quanto bisogna… E ciò è tenuto a farlo anche con persone di conto, magistrati, principi, sacerdoti, parrochi e prelati, allorché questi si confessassero di qualche grave mancanza con poco sentimento»46. Ricorrendo all’autorità di Benedetto XIV, Alfonso sottolinea il particolare valore delle ammonizioni del confessore: esse «sono più efficaci che le prediche dal pulpito», perché «il predicatore non sa le circostanze particolari, come le conosce il confessore; onde questi assai meglio può far la correzione ed applicare i rimedi al male»47. È retta da queste prospettive terapeutiche la maniera di affrontare i casi di ignoranza. Occorre «ammonire chi sta nell’i44 Dissertatio scholastico-moralis pro usu moderato opinionis probabilis in concursu probabilioris, in Dissertationes quatuor, Monza 1832, p. 77-78. 45 Pratica, cap. I, § 2, n. 6, p. 7. 46 Ivi, n. 7, p. 7. 47 Ivi, p. 8. Aggiunge: «Né deve allora il confessore badare agli altri penitenti che aspettano, poiché è meglio, come dicea s. Francesco Saverio, far poche confessioni e buone che molte e mal fatte».

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gnoranza colpevole di qualche suo obbligo, o sia di legge naturale o positiva». Quando invece si tratta di ignoranza incolpevole, allora se «è circa le cose necessarie alla salvezza, in ogni conto gliela deve togliere; se poi è d’altra materia, ancorché sia circa i precetti divini, e ’l confessore prudentemente giudica che l’ammonizione sia per nocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il penitente, nella sua buona fede». Il motivo è «perché deesi maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso»48. Nella Theologia moralis Alfonso specifica ulteriormente, chiedendosi cosa fare quando si dubita che l’ammonizione risulti effettivamente proficua per il penitente. La risposta è che va fatta in ogni caso «si non timetur de damno». Quando invece si è incerti sia sul danno che sul beneficio «tunc confessarius pensare damnum et utile, item gradum timoris damni ac spei utilitatis, et eligere quod judicat praeponderare». Aggiunge inoltre che nel dubbio «mala formalia potius evitanda sunt quam materialia»49. All’ufficio di medico viene ricondotto anche il discernimento nei riguardi delle penitenze da imporre: «In fine il confessore dee attendere ad applicare i rimedi più opportuni alla salvezza del suo penitente, con dargli quella penitenza che più conviene al suo male, e che all’incontro quegli verosimilmente sarà per adempire». Si noti che le penitenze sono considerate da Alfonso soprattutto rimedi: «È vero che nel Tridentino (Sess. 14, de Poenit. c. 8) dicesi che la penitenza dee corrispondere alla qualità

48 Ivi, n. 8, p. 8-9. Questo però non vale «quando dall’ignoranza dovesse avvenirne danno al ben comune, perché allora il confessore, essendo egli costituito ministro a pro della repubblica cristiana, è tenuto a preferire il ben comune al privato del penitente… onde in ogni conto dee ammonire i principi, i governatori, i confessori ed i prelati che mancano al loro obbligo, perché la loro ignoranza, sebbene invincibile, sempre sarà di danno alla comunità almeno per lo scandalo»; quando il penitente «interrogasse, perché allora è obbligato il confessore a scoprirgli la verità, essendo che in tal caso l’ignoranza non sarà più affatto incolpabile»; quando «al penitente tra breve sia per giovare l’ammonizione, benché al principio egli non acconsenta» (ivi, n. 9, p. 11). 49 Lib. VI, tract. IV, cap. II, dub. V, n. 616, ed. GAUDÉ, III, p. 641.

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de’ delitti, ma ivi stesso si aggiunge che le penitenze debbono essere pro poenitentium facultate, salutares et convenientes. Salutares, cioè utili alla salute del penitente; et convenientes, cioè proporzionate non solo a’ peccati, ma anche alle forze del penitente. Ond’è che non sono salutari né convenienti quelle penitenze a cui i penitenti non sono atti a soggiacere per la debolezza del loro spirito, poiché allora queste piuttosto sarebbon cagioni di lor ruina». La correttezza di questa interpretazione viene fondata nel significato salvifico del sacramento: «In questo sagramento più s’intende l’emenda che la soddisfazione: perciò dice il Rituale Romano (De sacram. Poenit. 19) che ‘l confessore nel dar la penitenza dee aver ragione della disposizione de’ penitenti». Dopo aver ricordato «esser giusta causa per diminuir la penitenza il giudicare che così il penitente resti più affezionato al sagramento», Alfonso può perciò concludere: «Da tutto ciò si rileva con quanta imprudenza oprino quei confessori che ingiungono penitenze improporzionate alle forze de’ penitenti»50. Specificandoli ulteriormente, i «rimedi» vengono da Alfonso distinti in «generali... da insinuarsi a tutti» e «particolari per qualche particolar vizio». Da quelli generali emerge una proposta di vita cristiana, tesa ad aprire a tutti il cammino verso la santità51. Il ministero del confessore, infatti, non può limitarsi al superamento del peccato: «Quel che disse il Signore a Geremia: Ecce constitui te super gentes... ut evellas... et dissipes et aedifices

Pratica, cap. I, § 2, n. 11-12, p. 13-16. Vengono così elencati da Alfonso: «1) L’amore a Dio, giacché Dio a questo sol fine ci ha creati; e con ciò diasi ad intendere la pace che gode chi sta in grazia di Dio, e l’inferno anticipato che prova chi vive senza Dio, colla ruina anche temporale che porta con sé il peccato. 2) Lo spesso raccomandarsi a Dio e alla Madonna col rosario ogni sera, all’angelo custode ed a qualche speciale santo avvocato. 3) La frequenza de’ sagramenti; e che se mai cadono in colpa grave, subito si confessino. 4) La considerazione delle massime eterne, e specialmente della morte; ed a’ padri di famiglia il far l’orazione mentale ogni giorno in comune con tutta la casa, almeno il rosario insieme con tutti i loro figli. 5) La presenza di Dio in tempo della tentazione, con dire: Dio mi vede. 6) L’esame di coscienza ogni sera col dolore e proposito. 7) Agli uomini secolari l’entrare in qualche pia associazione ed a’ sacerdoti l’orazione mentale e ‘l ringraziamento dopo la Messa; almeno che si leggano qualche libretto spirituale prima e dopo d’aver celebrato» (ivi, n. 15, p. 20-21). 50 51

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et plantes (1,10), lo stesso dice ad ogni confessore, il quale non solo dee sradicare i vizi da’ suoi penitenti, ma dee anche in essi piantare le virtù». Perciò «quando vede il confessore che ‘l penitente vive lontano da’ peccati mortali, deve far quanto può per introdurlo nella via della perfezione e del divino amore con rappresentargli il merito che ha Dio, questo infinito Amabile, per essere amato, e la gratitudine che dobbiamo a Gesù Cristo il quale ci ha amato sino a morire per noi; e ‘l pericolo inoltre in cui sono l’anime che sono chiamate da Dio a vita più perfetta, e fan le sorde»52. Delineando l’ufficio di dottore, Alfonso si preoccupa di porre in risalto la necessità dello studio costante della scienza morale, senza del quale è impossibile evitare errori anche gravi: «Il confessore, per ben esercitare l’officio di dottore, bisogna che ben sappia la legge; chi non la sa, non può insegnarla agli altri». Ricordato con S. Gregorio Magno che «l’officio di guidare l’anime per la vita eterna è l’arte delle arti» e con S. Francesco di Sales che «l’officio di confessare è il più importante e ’l più difficile di tutti», aggiunge: «È il più importante, perch’è il fine di tutte le scienze, ch’è la salute eterna; il più difficile, mentre per prima l’officio di confessore richiede la notizia quasi di tutte l’altre scienze e di tutti gli altri offici ed arti; per secondo la scienza morale abbraccia tante materie disparate; per terzo ella consta in gran parte di tante leggi positive, ciascuna delle quali si ha da prendere secondo la sua giusta interpretazione. Inoltre ogni legge di queste si rende difficilissima per ragione delle molte circostanze de’ casi dalle quali dipende il doversi mutare le risoluzioni». Il confessore non può perciò limitarsi a «possedere i principi generali della morale», perché, pur essendo evidente che tutti i casi vanno risolti con i principi, «qui sta la difficoltà: in applicare a’ casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni che son dall’una e dall’altra parte; e questo appunto è quel che han fatto i moralisti»53.

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Ivi, cap. IX, n. 99, p. 160. Ivi, cap. I, § 3, n. 17, p. 22-23.

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Infine, in quanto giudice, il confessore «per prima dee informarsi della coscienza del penitente, indi dee scorgere la sua disposizione, e per ultimo dare o negare l’assoluzione»54. Nel dettagliare questo compito, Alfonso pone in rilievo soprattutto l’aiuto da prestare ai penitenti non sufficientemente preparati, avvertendo che «mal fanno quei confessori che licenziano i rozzi, affinch’essi meglio esaminino la loro coscienza. Ciò il p. Segneri lo chiama un errore intollerabile»55. Insomma il giudice non deve mai perdere di vista che è prima padre e medico. E questo per restare fedele alla «condotta» del Redentore, soprattutto nei riguardi dei peccatori, come ricorda in maniera viva il Tannoia: Alfonso «voleva, ed inculcavalo che quanto più fossero tali, maggiormente si abbracciassero. Non altrimenti, ei diceva, fu la condotta di Gesù Cristo... Non li spaventate, ripeteva, con dilazioni di mesi e mesi, com’è la moda che corre. Questo non è ajutarli, ma ruinarli. Quando il penitente ha conosciuto, e detesta il suo stato, non bisogna lasciarlo colle sole sue forze nel conflitto colla tentazione: bisogna ajutarlo, ed il maggior ajuto si dà colla grazia dei Sacramenti»56. La carità del confessore si poneva così come apertura, stimolo ed aiuto nella «pratica di amare Gesù Cristo» (secondo il titolo di una delle opere in cui Alfonso meglio sintetizza la sua proposta). Radicata nella memoria dell’amore misericordioso del Padre (costantemente approfondita nella meditazione del Crocifisso) e sostenuta dalla preghiera e dal frequente accostarsi all’eucaristia e alla confessione, la vita cristiana poteva ritrovare lo slancio verso la santità57.

Ivi, § 4, n. 19, p. 29. Ivi, n. 20, p. 30. 56 Op. cit., III, Napoli 1802, p. 153. 57 Significativo l’altro richiamo di Giovanni Paolo II ai Redentoristi nella lettera già citata: «Con s. Alfonso occorre ribadire la centralità del Cristo come mistero di misericordia del Padre in tutta la pastorale. I Redentoristi non devono mai stancarsi di annunciare la “copiosa redemptio”, cioè l’infinito amore con il quale Dio in Cristo si piega verso l’umanità, cominciando sempre da coloro che hanno più bisogno di essere guariti e liberati, perché più segnati dalle conseguenze nefaste del peccato… Per questo occorre non stancarsi mai di proclamare la misericordia divina. Resta tuttora attuale per tutta la pastorale il richiamo di s. Alfonso: “Bisogna persuadersi che le con54 55

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3. La preparazione Vivere il ministero della confessione come carità che sostiene nel cammino della santità, proponendo salvificamente la verità, non è agevole. Di qui l’insistenza di Alfonso su una preparazione adeguata e continuamente rinnovata. La sua necessità viene nella Selva sottolineata, riportando quasi letteralmente le affermazioni della Pratica. Si insiste innanzitutto su una «grande scienza»: «Chi vuol esser confessore primieramente ha bisogno d’una grande scienza. Alcuni stimano una cosa molto facile la scienza della morale: ma giustamente scrive il Gersone che questa tra le scienze è la più difficile di tutte… Parimente s. Francesco di Sales dicea che l’officio di confessore è il più importante e il più difficile di tutti. E con ragione: il più importante, perché importa la salute eterna, ch’è il fine di tutte le scienze; il più difficile perché la scienza morale richiede la notizia di molte altre scienze ed abbraccia tante materie disparate: oltre il rendersi ella difficilissima per causa che, secondo le tante diverse circostanze de’ casi, diverse debbon essere le risoluzioni; giacché un principio, per esempio, che corre per un caso vestito d’una tal circostanza non correrà poi in un altro vestito d’una circostanza diversa»58. Ancora più necessaria è «la santità per ragione della gran fortezza che dee avere il confessore in esercitare il suo officio». Essa esige «un gran fondo di carità» per accogliere tutti, senza discriminare nessuno59. Occorre però che si dia anche come for-

versioni fatte per lo solo timore de’ castighi divini son di poca durata... se non entra nel cuore il santo amore di Dio, difficilmente persevererà”… Da questa conversione centrata sull’amore scaturisce la costante tensione alla santità. Facendo sperimentare l’intensità della misericordia con cui Dio si piega verso l’uomo, per guarirlo e liberarlo, s. Alfonso riesce a far riscoprire a tutti, anche ai più umili e ai più poveri, la chiamata e il cammino della santità… Al tempo stesso, egli dà a questa santità una chiara tensione evangelizzatrice che porta a farsi carico del proprio ambiente» (n. 4-5, p. 144). 58 Selva, parte II, Istruzione IV, n. 8, p. 118. 59 Ivi, n. 10, p. 119. Dura è la critica che Alfonso rivolge ai confessori che fanno diversamente: «A tali confessori, dice il Redentore (il quale venne a salvare i peccatori e perciò fu tutto pieno di carità) quello appunto che disse una volta a’ discepoli Nescitis cujus spiritus estis (Lc 9,33). Ma non fanno

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tezza «nel sentire le confessioni delle donne» e «nel correggere i penitenti… senza riguardo ad alcuna loro condizione di nobiltà o di potenza»60. E soprattutto deve permettere un corretto equilibrio tra rigore e benignità: «Bisogna riflettere che il confessore tanto sta in pericolo di dannarsi se portasi coi penitenti con troppo rigore quanto se lor usa troppa indulgenza. La troppa indulgenza, dice s. Bonaventura, genera presunzione; il troppo rigore genera la disperazione»61. Si tratta di un equilibrio che richiede studio continuo per la complessità e la diversità dei dati, teorici e esperenziali, da armonizzare62. È la praticità del sapere morale, che Alfonso non si

così i confessori che son vestiti di quelle viscere di carità ch’esortava l’apostolo: Induite vos ergo, sicut electi Dei… viscera misericordiae (Col 5,12)». 60 Ivi, n. 11, p. 119-120. 61 Ivi, n. 12, p. 120. Alfonso aggiunge: «Non v’ha dubbio che molti errano per esser troppo indulgenti: e questi fanno gran ruina; anzi, dico, la maggior ruina, perché i libertini, che fanno la maggior parte, a questi confessori larghi più concorrono e fanno la lor perdizione. Ma ancora è certo che i confessori troppo rigorosi anche cagionano gran danno… Il troppo rigore, scrive il Gersone, ad altro non serve che per indurre le anime alla disperazione e dalla disperazione al maggior rilassamento ne’ vizj». Nella introduzione alla Pratica viene evidenziato che si tratta «non di sola bontà abituale», ma di «una bontà positiva, quale appunto conviensi ad un ministro della penitenza», che deve «diriger le coscienze altrui, senza errare o per troppa condiscendenza o per troppo rigore; dee maneggiar tante piaghe senza imbrattarsi; praticar con donne e con giovanetti, ascoltando le loro cadute più vergognose, senza ricerverne danno; dee usar fortezza con persone di riguardo, senza farsi vincere da’ rispetti umani; dee in somma esser pieno di carità, di mansuetudine, di prudenza» (p. 1-2). 62 Significativo quanto Alfonso dice di se stesso: «Io nelle questioni più dubbie non ho sparambiata fatica in osservare gli autori così moderni come antichi, così della benigna come della rigida sentenza... Specialmente poi mi sono affaticato ad osservare in fonte tutti i testi canonici che s’appartenevano alle materie trattate. Quando ho ritrovato qualche passo di santo Padre spettante alle cose controverse, ho procurato di notarlo colle proprie parole, con farvi tutta la riflessione e darvi tutto quel peso che meritavasi la sua autorità. Inoltre sono stato attento a trascrivermi ed avvalermi delle dottrine di S. Tommaso, cercando di osservarle tutte ne’ proprj. Di più nelle controversie più intrigate, non avendo potuto risolvere i miei dubbj colla lettura degli autori, ho procurato di consigliarmi con diversi uomini dotti. Nella scelta poi delle opinioni ho cercato sempre di preferire la ragione all’autorità; e prima di dare il mio giudizio ho procurato di mettermi in una totale indiffe-

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stanca di sottolineare63. Deciso è il monito rivolto ai sacerdoti della sua diocesi di Sant’Agata alla fine del 1764: «Avvertano i sacerdoti, da noi approvati per le confessioni che non basta loro, a non trovarsi rei per tale officio avanti Dio, l’approvazione avuta dal vescovo; ma vi bisogna l’approvazione di Gesù Cristo giudice, che dovrà esaminare in punto di morte se l’hanno bene o male esercitato. Con ciò vogliamo dire che il confessore, per ben esercitare il suo officio, non deve lasciare lo studio della Morale. Questa scienza non è così facile, come alcuni la credono: ella è molto difficile, ed è molto vasta per ragione delle innumerabili circostanze che possono occorrere in ogni caso di coscienza, e perciò collo studiare sempre s’imparano cose nuove; e per ragione ancora di tante leggi positive che oggidì ci sono. Ond’è che, se il confessore lascia di rivedere i libri, facilmente si dimenticherà col tempo anche di quelle cose che prima già sapea. Per tanto raccomandiamo a tutti di non lasciare lo studio della Morale»64. Analogo è stato il richiamo ai confratelli nell’agosto del 1754: «Raccomando a’ confessari lo studio della Morale, e di non seguitare alla cieca alcune opinioni de’ Dottori, senza prima considerare le ragioni intrinseche, e specialmente quelle che, nel mio secondo libro, non sono state da me ammesse più per probabili». Questo non significa imposizione delle sue posizioni: «prego, prima di ributtarle, a leggere il mio libro e a considerarenza e di spogliarmi da ogni passione che mi avesse potuto trasportare a difendere qualche opinione non abbastanza soda» (Risposta a un anonimo..., in Apologie e confutazioni, I, Monza 1831, p. 77-78). 63 Cf. D. CAPONE, La «Theologia moralis» di S. Alfonso: prudenzialità nella scienza casistica per la prudenza della coscienza, in StMor 25 (1987) p. 2778; M. VIDAL, op. cit., p. 120-127. 64 Lettere, III, Roma 1890, p. 590-591. Significativa è l’insistenza di Alfonso sulla partecipazione di tutti i sacerdoti all’approfondimento teologico-morale a livello di presbiterio: «Nella Notificazione da noi fatta a’ sacerdoti, si parla del modo come deve farsi la congregazione de’ casi di coscienza in ogni settimana, e si ammoniscono ad intervenirvi tutti i sacerdoti, se vogliono essere considerati nelle provviste; ma parlando de’ confessori, assolutamente imponiamo loro di assistervi sempre; e sappiano che, mancando essi per tre volte senza legittima causa (della quale dovrà ciascuno farne inteso il prefetto ed averne la di lui licenza), troveranno poi impedimento ad essergli prorogata la pagella» (ivi, p. 591).

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re quello che ho scritto con tanta fatica, discorso e studio. E questa fatica, Fratelli miei, io non l’ho fatta per gli altri né per acquistar lode; ne avrei fatto volentieri di meno, se altro non avessi avuto a ricavare che un poco di fumo: Dio sa il tedio e pena che ci ho sopportato. L’ho fatta solamente per voi, Fratelli miei, acciocché si seguiti una dottrina soda, almeno acciocché si proceda con riflessione»65. Le parole di Alfonso costituiscono tuttora un monito importante per ogni confessore66. La sola conoscenza teorica della verità non basta, è necessario che egli sappia renderla pratica, cioè incarnarla salvificamente nella vita di coloro che con lui celebrano la misericordia del Padre. Non è un compito facile: occorre uno studio costante, sorretto dalla preghiera e dal dialogo. Si tratta però di una diaconia alle coscienze sempre fondamentale, secondo il monito dello stesso Giovanni Paolo II, indirizzato ai Redentoristi, ma valido anche per gli altri operatori pastorali: «L’approfondimento della teologia morale si colloca in questa prospettiva. S. Alfonso si è particolarmente prodigato perché in tutti gli strati del popolo di Dio venisse colmata la separazione tra fede e vita. La praticità del Fondatore deve continuare a stimolare i suoi figli nella loro opera pastorale, specialmente in ordine al rinnovamento del sacramento della Riconciliazione. Occorre non fermarsi mai alla sola enunciazione dei principi, ma illuminare con essi la quotidianità, in maniera da permettere alla coscienza di ogni battezzato un cammino sicuro. Questa praticità alfonsiana esige essenzialità e concretezza, in risposta agli interrogativi che effettivamente contano per il popolo, nella fedeltà al Vangelo e alla Tradizione vivente nella Chiesa. Essa spinge alla maturazione di coscienze capaci di illuminare con la saggezza dello Spirito la complessità delle diverse situazioni della vita»67.

Ivi, I, Roma 1887, p. 260-261. Cf. S. MAJORANO, La teologia morale e il ministero sacerdotale nella visione alfonsiana, in StMor 34 (1996) 433-459. 67 La ricorrenza…, n. 4, p. 143-144. 65 66

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Conclusione In Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ha sottolineato l’impegno giubilare «per la riscoperta e la intensa celebrazione del sacramento della Penitenza nel suo significato più profondo» (n. 50). Sappiamo tutti molto bene quanto siano complesse e numerose le difficoltà che un tale impegno deve affrontare. Le radici e le sfide vanno molto lontano. Le pagine alfonsiane, che abbiamo ripercorso, ci hanno spinto a riflettere sul modello di ministerialità sacerdotale esigito da una celebrazione della riconciliazione che rispecchi la «condotta» misericordiosa del Redentore. Si tratta di un aspetto certamente non secondario, anche se la «crisi» del sacramento esige risposte a diversi livelli. Credo però che dal modello delineato dal Patrono dei confessori e dei moralisti emerga una urgenza che sarebbe errore lasciar cadere: la necessità che la comunità cristiana e in maniera particolare i presbiteri restino fedeli alla chenosi misericordiosa del Cristo, ponendosi, come ricorda la Veritatis splendor, «solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini (cf. Ef 4,14), a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e rimanere in essa» (n. 64). SABATINO MAJORANO C.Ss.R.

Via Merulana, 31 C.P. 2458 Roma Italy. ————— Summary / Resumen

This article highlights the model of the confessor as outlined by St. Alphonsus. The model begins from the conviction that the confessor’s “office is one of charity, instituted by the Redeemer solely for the good of souls”. By giving particular attention to the ‘practical’ works which St. Alphonsus dedicated to this sacrament, the alphonsian transformation is seen more clearly in that the confessor is rediscovered

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first as a father and only later as a judge. This article then gives attention to the central place assigned to the role of confessor, always in close relationship to the that of preacher, in priestly ministry and particularly in missionary work among the most abandoned. An analysis is given of the attitudes and constant formation which Alphonsus regarded as indispensable for the confessor in order to be faithful to the merciful practice of the Redeemer. Este artículo destaca el modelo del confesor ideado por San Alfonso. El modelo comienza por la convicción de que el confesor es como “un despacho de caridad, instituido por el Redentor únicamente para el bien de las almas”. Prestándole atención especial a los escritos “prácticos” que San Alfonso dedicó a este sacramento, la transformación alfonsiana se observa más claramente en que el confesor se redescubre primero como un padre y sólo después como un juez. El artículo dirige su atención, entonces, al puesto central que se asigna al confesor, siempre en íntima relación con el de predicador, en el ministerio sacerdotal y especialmente en el trabajo como misionero con el más abandonado. Se analizan las actitudes y la formación permanente que Alfonso consideró indispensable para el confesor, para que fuese fiel a la experiencia misericordiosa del Redentor. ————— The author is an Ordinary Professor at the Alphonsian Academy. El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana. —————

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StMor 38 (2000) 347-380 MARCIANO VIDAL C.Ss.R.

RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO

I. LA HISTORIOGRAFÍA DE LA MORAL ALFONSIANA

1. RENOVACIÓN

DE LOS ESTUDIOS ALFONSIANOS

Creo que hoy no sería objetiva la apreciación que hace varias décadas pudimos leer en el estudio de J. Guerber sobre la recepción de la moral alfonsiana entre el clero francés del siglo XIX1. En la introducción afirmaba que “hasta el día de hoy, la moral de san Alfonso no ha sido objeto de ningún estudio objetivo ni siquiera mínimamente profundo”. Haciendo un parangón con la situación de los estudios sobre la mariología alfonsiana, constataba que “se necesitarían bastantes monografías para poner de relieve la fisonomía propia de la enseñanza de san Alfonso, la significación exacta de su obra y su influjo sobre la evolución de las ideas y de la práctica pastoral”2. En contraste con esa apreciación, hay que afirmar que el panorama de la historiografía sobre la moral de san Alfonso ha cambiado profundamente en los últimos treinta años. Los estudios sobre la moral alfonsiana han conocido un momento de es-

1 J. GUERBER, Le ralliement du clergé français à la morale liguorienne (Roma, 1973). El libro es el resultado de una tesis doctoral defendida en la Universidad Gregoriana, con aprobación académica fechada en 1965. La Introducción, en la que aparece la apreciación, está firmada en junio de 1972 en Yaundé (Camerún). 2 J. GUERBER, o. c., 9. Llama la atención que recoja y repita esta valoración un estudio más reciente como el de J. ESCUDERO, La manualística ligoriana de Teología Moral desde la canonización de San Alfonso hasta su proclamación como Doctor de la Iglesia (1836-1871) (Roma, 1990) 94.

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plendor en las tres últimas décadas del siglo XX. En cada una de estas décadas ha habido una conmemoración, en torno a la cual se han producido congresos, semanas de estudio, reflexiones, estudios y publicaciones. En la década de los ’70 se celebró el primer centenario de la proclamación de san Alfonso como Doctor de la Iglesia (1871). Los estudios más importantes sobre la moral alfonsiana, con ocasión de la celebración de ese centenario (1971), aparecieron publicados en un número monográfico de la revista Studia Moralia de la Academia Alfonsiana de Roma3. Como antecedentes inmediatos a estos estudios hay que señalar las investigaciones de D. Capone sobre el “sistema moral alfonsiano” a partir de los mismos textos de Alfonso contextualizados dentro de las discusiones de la época4. En la década de los ’80, y más precisamente con ocasión de la celebración del segundo centenario de la muerte de Alfonso (1987), es cuando acontece una variación cualitativa en la interpretación del significado histórico y en la posible actualización de la moral alfonsiana. Son de destacar las monografías de M. Vidal5 y de Th. Rey-Mermet6; las obras colectivas Saint Alphonse de Liguori. Pasteur et Docteur (Paris, 1987), Actualité pastorale d’Alphonse de Liguori (Ste-Anne-de-Beaupré, 1988), y A moral e os grandes desafios do presente (Porto, 1988); y los números monográficos de las revistas Studia Moralia 25 (1987) 3-461, Moralia 10 (1988) 123-376, y Asprenas 35 (1988) 1-166. En este momento, fue decisiva la intervención de Juan Pablo II en la carta apostólica Spiritus Domini7 en la que consagró la interpretación dada por los estudiosos acerca de la moral alfonsiana: una “moral de la benignidad pastoral” frente al rigorismo jansenista8.

3 Studia Moralia 9 (1971): “S. Alfonsus Maria de Ligorio Doctor Ecclesiae 1871-1971”. 4 Studia Moralia 1 (1963) 265-343; 2 (1964) 89-155; 3 (1965) 82-149. 5 M. VIDAL, Frente al rigorismo moral, benignidad pastoral. Alfonso de Liguori (1696-1787) (Madrid, 1986). Con traducción italiana, puesta al día: La Morale di Sant’Alfonso. Dal rigorismo alla benignità (Roma, 1992). 6 Th. REY-MERMET, La morale selon Saint Alphonse de Liguori (Paris, 1987). 7 AAS 79 (1987) 1365-1375. 8 “Semper, praeterea, veluti ductrix habeatur benignitas pastoralis”:

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En la década de los ’90 tuvo lugar otra conmemoración alfonsiana: la celebración del tercer centenario de su nacimiento (1696). El conjunto de estudios más representativo de este período es la publicación que recoge las Actas del Congreso celebrado en Roma del 5 al 7 de marzo de 1997. La focalización de los trabajos viene indicada por el título que se le dio al Congreso y a la publicación de la Actas: La recepción del pensamiento alfonsiano en la Iglesia9. La mayor parte de los trabajos tienen que ver con la recepción de la moral alfonsiana en los siglos XIX y XX.

2. VALORACIÓN

Y PROSPECTIVA

En todas estas celebraciones alfonsianas el aspecto que más ha atraído la atención ha sido el pensamiento moral de Alfonso. Del conjunto de esos estudios se puede afirmar que existe hoy un conocimiento bastante exacto del significado histórico de la obra moral alfonsiana. También existe una nueva interpretación de su propuesta, alejada de las confrontaciones estériles de escuela y de las defensas partidistas nacidas del celo familiar. A este respecto es interesante comparar los estudios sobre la moral alfonsiana de los finales del siglo XX (y comienzos del siglo XXI) con los de los finales del siglo XIX (y comienzos del siglo XX). También a finales del siglo XIX (y comienzos del siglo XX) apareció, debido a diversos factores que son suficientemente conocidos10, un interés especial hacia la moral alfonsiana. Pero ese interés se centró en un aspecto muy concreto: en la cuestión de si Alfonso había propuesto un “sistema moral” propio y en qué medida esa propuesta, denominada “equiprobabilismo”, se distinguía del probabilismo clásico. Todo ello dio lugar a la llamada “cuestión ligoriana”. Mirada a la distancia de un siglo, se puede aceptar la apreciación de que “esa producción abun-

AAS 79 (1987) 1374. Sobre las intervenciones del magisterio eclesiástico reciente acerca de la moral alfonsiana, ver: M. VIDAL, La Moral de San Alfonso según el Magisterio Eclesiástico reciente: Moralia 22 (1999) 255-280. 9 Los estudios se encuentran publicados en: Spicilegium Historicum C.Ss.R. 45 (1997) fasc. 1-2. 10 M. VIDAL, La Morale di Sant’Alfonso…, 201-216.

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dante, mediocre en su conjunto, esencialmente polémica y desprovista de perspectiva histórica constituye más bien una barrera entre el pensamiento del gran moralista y sus lectores de hoy”11. Los estudios recientes sobre la moral alfonsiana han abandonado el tono polémico, el aura hagiográfica y el prurito de autoestima familiar. Se sitúan dentro de las exigencias de la metodología histórica, sin dejar por ello de descubrir la capacidad de actualización que posee el pensamiento alfonsiano12. A pesar de esta floración de estudios es preciso reconocer la necesidad de seguir investigando sobre el significado específicamente histórico del pensamiento moral alfonsiano. Es necesario situarlo en su momento propio y analizar su aportación específica en relación con los planteamientos morales de su época. Creo que ésta será, o deberá ser, la orientación que adopten los estudios del futuro próximo sobre la moral alfonsiana. La gran preocupación ha de ser descubrir lo que realmente significó en su momento histórico y no sólo, ni principalmente, en las “lecturas” y en los “usos” que ha tenido posteriormente, sobre todo en el siglo XIX y primeras décadas del siglo XX. En esta nueva perspectiva me sitúo al ofrecer las siguientes reflexiones. Como es obvio, no es mi pretensión abarcar todo el conjunto del pensamiento moral alfonsiano y analizar su significado histórico en relación con los planteamientos de la época. Me limito a señalar algunas de las principales innovaciones que ofrece la moral de san Alfonso al compararla con la producción teológica de su época. Para encuadrar esta perspectiva ofrezco, en primer lugar, una anotación sobre el carácter innovador que posee la obra de Alfonso en su conjunto.

11 J. GUERBER, o. c., 9. Esta opinión es compartida por otros estudiosos (cf. M. VIDAL, La Morale di Sant’Alfonso…, 213). J. ESCUDERO, o. c., 94, afirma: “quizás las disputas en torno a los diversos ‘sistemas morales’ y, en particular, la controversia sobre el ‘sistema’ de san Alfonso, hayan oscurecido el valor específico de su teología moral”. 12 En otro lugar me he ocupado de hacer un balance bibliográfico sobre los estudios acerca de la moral alfonsiana aparecidos en los últimos años: M. VIDAL, Estudios recientes sobre la Moral de San Alfonso: Moralia 22 (1999) 129-140.

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II. EL RASGO DE “INNOVADOR” EN LA FIGURA HISTÓRICA DE ALFONSO

1. LAS

DIVERSAS

“IMÁGENES”

DE

ALFONSO

De Alfonso, como es normal, han existido interpretaciones muy variadas y, a veces, contradictorias. Sobre su figura histórica se han proyectado muchas “imágenes”: Se ha hecho de él un “demócrata” y “liberal” (A. Capecelatro); pero también un “conservador” y “reaccionario”, develador de todos los errores “modernos”13. Se lo ha interpretado desde la óptica “francesa” (A. Berthe), a la que sucede, como contrapartida, la reivindicación de la inicial pertenencia de Alfonso a la corona “española” (R. Tellería), sin que falte la perspectiva un tanto superior de la mirada “anglosajona” (F. M. Jones). En cuanto a su pertenencia religioso-cultural, se dice de Alfonso que es el “santo de la Ilustración” (Th. Rey-Mermet, G. De Rosa), pero hay quien prefiere decir que su hogar religioso-cultural es la época pre-moderna (R. De Maio), no faltando quienes proponen una alternativa a las dos opciones anteriores y lo convierten en un pre-romántico (C. Scanzillo). De la imagen convencional de “católico” y “papista” algunos pasan a decir que Alfonso vivió como un “buen luterano” en el Reino de Nápoles14. Habrá que seguir preguntándose “quién era” y “qué quería” realmente Alfonso15. Creo, sin embargo, que a la personalidad histórica de Alfonso le corresponde, como rasgo propio, el “carácter innovador”. Esta fuerza innovadora se advierte en el conjunto de su obra.

Acta Doctoratus (Roma, 1870) 52: “neminem reperies qui plenius, clarius, validius syntagma coaevi erroris profligaverit”. 14 Anotación transmitida por O. WEISS, Der Kampf gegen die Liguorimoral (1894-1905): Spicilegium Historicum C. Ss. R. 46 (1998) 256. 15 O. WEISS, Wer war Alfons von Liguori und was wolte er?: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 44 (1997) 195-418. 13

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2. EL

RASGO DE

“INNOVADOR”

Alfonso realiza innovaciones en casi todos los campos de su labor como escritor y como pastor. Me limito aquí a señalar algunas de las innovaciones en relación sobre todo a su proyecto pastoral. Sobresalen: la creación de las “Capillas del atardecer”, escuelas de vida cristiana y de elevación humana para los laicos y con los laicos; la acentuación formativa y catequética de las Misiones populares; un nuevo estilo en la predicación y en la presentación del Evangelio. Las Capillas del atardecer (“Capelle serotine”) constituyen una “innovación” pastoral alfonsiana16. Además de otros aspectos positivos, no cabe la menor duda que esta práctica pastoral supuso una recuperación social de la gente marginada así como una elevación de su nivel de responsabilización. Así lo reconocen el Cardenal Luciani (futuro Juan Pablo I) y el Papa Juan Pablo II. Para el primero, Alfonso “buscaba con la instrucción llana y sencilla la recuperación religiosa y civil de los ‘marginados’ (lazzaroni)”17. Para Juan Pablo II, las Capillas del atardecer “llegan a ser una escuela de reeducación cívica y moral”18. Las Misiones populares, tal como las entiende y las practica Alfonso, tienen también notables “innovaciones”19. Una de estas peculiaridades innovadoras es la acentuación del aspecto “formativo”, mediante la importancia otorgada a la “catequesis” y a la “instrucción” (al pueblo en general, y a los diversos grupos en particular). La elevación cultural de la gente es una consecuencia de esta acentuación de la dimensión formativa de las Misiones. La predicación y los escritos de Alfonso tienen un sello propio. Ese “estilo” se identifica con el “hombre” del que brotan. En la predicación Alfonso huye de toda vanidad formal y de todo

16 Cf. G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, Alfonso de’ Liguori e il secolo dei lumi. Una rivisitazione storico-sociologica in occasione del terzo centenario della nascita: Rassegna di Teologia 38 (1997) 304-307. 17 A. LUCIANI, S. Alfonso cent’anni fa era proclamato dottore della Chiesa (Venecia, 1972) 15. 18 JUAN PABLO II, Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1366. 19 Cf. G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, a. c., 307-310.

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“fuego de artificio” para concentrarse en su función práctica: “instruir” la mente y “mover” el corazón de la gente hacia una práctica individual y social en conformidad con la noble condición de personas y de hijos de Dios. En los escritos no pretende “sorprender” a los cultos e intelectuales sino “formar” a la gente sencilla. La estrategia de “obras cortas”, a modo de libros de bolsillo (“livre de poche”), se encuadra dentro de ese objetivo20. El estilo claro, concentrado, y directo son signos no sólo de la preclara mente de Alfonso sino también de su deseo de llegar a la formación del pueblo llano21. En el trabajo teológico también se puede hablar, según A. Luciani, de “un estilo (propio) de Teología”. El Cardenal de Venecia, y futuro Papa Juan Pablo I, resume este estilo mediante los siguientes rasgos22: “Alfonso era teólogo en vistas a los problemas prácticos que hay que resolver de inmediato, en función de las experiencias vividas”; “había estudiado una filosofía ecléctica, no aristotélica: de ahí su horror a las sutilezas y a las discusiones inútiles”; “el estudio del derecho y la práctica del foro le habían infundido gran respeto por la tradición y la capacidad para desembrollar casos complicados”; “el púlpito y el confesionario le decían cuáles eran las necesidades inmediatas de las almas en aquel momento concreto: teólogo justo para el tiempo justo”.

III. INNOVACIONES EN EL CAMPO DE LA MORAL

1. ENTRE TRADICIÓN

Y

RENOVACIÓN

Juan Pablo II ha destacado en la personalidad de Alfonso dos rasgos que, aparentemente, parecen ser contradictorios pero que, en el fondo, constituyen la clave explicativa de la valía objetiva y de la capacidad actualizadora de la moral alfonsiana.

20 21 22

Cf. A. LUCIANI, o. c., 32. Cf. Ibid., 27-28. Las frases entrecomilladas están en: Ibid., 27.

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El Papa dice que Alfonso fue un hombre de la Tradición y al mismo tiempo un renovador de la Moral católica23. Sin duda alguna, Alfonso siente un gran “respeto hacia la Tradición”24. Conviene recordar que hizo un tratamiento explícito sobre la Tradición en su comentario de la Sesión IV del Concilio de Trento25. Son de destacar sus análisis sobre los tres tipos de contenidos de la Tradición: las tradiciones divinas, las apostólicas (algunas de las cuales son también divinas por haber sido recibidas de la boca de Cristo o haber sido reveladas por el Espíritu Santo), y las humanas26. Además, proporciona un conjunto de reglas para distinguir las tradiciones “divinas” de las “humanas” y viceversa, aludiendo a ejemplos de verdadero interés histórico27. En su trabajo teológico-moral, Alfonso utiliza de hecho la Tradición como lugar teológico y fuente de la moral cristiana sirviéndose de los Padres de la Iglesia y de los grandes teólogos medievales, sobre todo de santo Tomás, a quien considera el “theologorum princeps”28. Hasta tal punto fue un hombre de la Tradición que Juan Pablo II llega a hacer esta afirmación: “tuvo él (Alfonso), como pocos, el ‘sensus Ecclesiae’, un criterio que le acompañó en la búsqueda teológica y en la práctica pastoral hasta llegar a ser él mismo, en cierto sentido, la voz de la Iglesia”29. Pero la propuesta alfonsiana, enraizada en la Tradición, no mira nostálgicamente hacia el pasado. La mirada de Alfonso está tendida hacia el presente y hacia el futuro. Siente como suyas las necesidades de la gente. Y esas urgencias no se solucionan con mirada retrospectiva, sino con los ojos puestos en el futuro. Es también Juan Pablo II quien ha subrayado fuertemente el carácter innovador de Alfonso en el campo de la moral. En apre-

Carta apostólica Spiritus Domini: AAS 79 (1978) 1365-1375. A. LUCIANI, o. c., 27-28. 25 SAN ALFONSO, Opera dogmatica contra gli eretici pretesi riformati: Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, VIII (Torino, 1848) 842-854. 26 Ibid., 851-852. 27 Ibid., 853-854. 28 GAUDÉ, I, 26. 29 Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1372: “nam ‘sensum Ecclesiae’ summopere habuit … adeo ut fuerit ipse quodanmodo vox Ecclesiae”. 23 24

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ciación del Papa, las grandes obras de moral de Alfonso “han hecho de él el maestro de la sabiduría moral católica”30. Más aún, “Alfonso fue el renovador de la Moral”31.

2. LAS

INNOVACIONES EN LA

MORAL. VISIÓN

DE CONJUNTO

La magna innovación de Alfonso en el campo de la Moral católica fue haber superado la crisis del enfrentamiento entre el probabilismo y el probabiliorismo. No lo hizo proponiendo otro sistema desde los mismos presupuestos de los sistemas enfrentados, sino señalando un camino nuevo para la búsqueda de la verdad moral. De esta innovación fundamental se originan las innovaciones concretas. Éstas son abundantes en la obra moral de Alfonso. Las más llamativas son aquellas en las que Alfonso, bien a su pesar y pidiendo disculpas, se aparta del parecer de santo Tomás, a quien tenía por el máximo maestro en las cuestiones teológicas32. Tal cosa sucede en la afirmación de Alfonso sobre el estatuto de la conciencia invenciblemente errónea, cuyos actos no sólo están excusados de culpa (según aceptaba únicamente santo Tomás) sino son también meritorios (según la opinión de G. Ockham). Lo mismo acaece en el parecer de Alfonso sobre la licitud del matrimonio, y del acto conyugal, por razón del “remedium concupiscentiae”, apartándose con ello de la interpretación de santo Tomás. Merece la pena añadir otra cuestión en la que abiertamente se aparta también de la opinión de san Agustín y de santo Tomás: la “tolerancia social” de la prostitución. Apoyándose en razones de dignidad humana, manifestando gran sensibilidad hacia las personas marginadas, y remitiendo a los es-

Ibid., 1367: “magistrum sapientiae moralis catholicae prodant”. Ibid., 1367: “verum enimvero fuit Alfonsus rerum moralium, id est doctrinae de moribus, restitutor”. 32 GAUDÉ, II, 689. 30 31

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tudios y a la práctica pastoral de su compañero J. Sarnelli con las mujeres prostituidas en la ciudad de Nápoles, Alfonso se opone a la tolerancia social de la prostitución, aún sabiendo que va en contra del parecer de san Agustín y de santo Tomás33. Otro grupo importante de innovaciones de Alfonso son aplicaciones o deducciones de su sistema moral. Su opción por situar la verdad en el orden objetivo en cuanto es “aprehendido” por la persona le lleva a afirmar que la ley eterna alcanza la “promulgación” requerida sólo a través de la criatura racional. De la afirmación del principio de “flexibilidad” deduce la función de la virtud de la epiqueya, “aún en cuestiones de ley natural”, así como la amplitud de la ignorancia invencible, la cual alcanza ámbitos de la ley natural, al menos en sus principios secundarios. Este segundo grupo de innovaciones son defendidas por Alfonso apoyándose en interpretaciones de los textos de santo Tomás. No es el lugar para analizar todas las innovaciones alfonsianas en el campo de la moral concreta. Quede abierta la cuestión para estimular estudios posteriores. Creo que J. T. Noonan acierta cuando dice que Alfonso “no era un innovador en teología moral como Le Maistre, pero defendía valientemente las opiniones que le parecían buenas”34. Quede también abierta la cuestión sobre la tradición teológica en la que se apoya Alfonso para proponer y justificar sus innovaciones en el campo de la moral. Es de destacar el uso que hace Alfonso de las interpretaciones de san Juan Crisóstomo. A Alfonso debió impresionarle el “principio de condescendencia” tan empleado por este Padre de la Iglesia35. Está por estudiar si la veta más innovadora del pensamiento moral alfonsiano depende más del influjo de la Patrística griega que de la latina. En los apartados siguientes me detendré en cuatro grupos de innovaciones alfonsianas: tres se refieren a temas concretos de la moral alfonsiana (conciencia, matrimonio, moral social) y la cuarta tiene que ver con el espíritu general de su propuesta te-

GAUDÉ, I, 678-679. J. T. NOONAN, Contraception et mariage (Paris, 1969) 408. 35 Cf. J. S. BOTERO, El cónyuge abandonado inocentemente: un problema a replantear: Estudios Eclesiásticos 73 (1998) 452. 33 34

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ológico-moral. Son, a mi juicio, las innovaciones de mayor significado en el contexto histórico de Alfonso así como las de mayor fuerza inspiradora para el planteamiento actual y futuro de la moral católica.

IV. PECULIARIDAD ALFONSIANA EN EL TRATADO SOBRE LA CONCIENCIA MORAL

1. EL

CUADRO DE LA

MORAL GENERAL

La moral general de Alfonso se concentra en las dos categorías de la conciencia y de la ley. Estas dos realidades de la vida moral constituyen el núcleo de la moral general alfonsiana. En ellas se encuentra la razón de la normatividad moral, la cual es vista como una tensión -a veces conflictiva- entre la conciencia y la ley. Las dos constituyen la “norma de los actos humanos” (“regula actuum humanorum”); ellas son los dos principios básicos de la moralidad. Las dos fuentes forman el fundamento de la moral alfonsiana (Libro I)36. La doctrina alfonsiana sobre la ley ha sido objeto de varios estudios. Han sido analizados los aspectos siguientes: el principio de la ley dudosa (Bouchard), el principio de posesión (Suttner), la ignorancia invencible en relación a los contenidos de la ley natural (Curran). Recientemente ha cobrado importancia la doctrina alfonsiana sobre la usura y el préstamo a interés37. No faltan valiosos estudios de síntesis sobre la condición de “abogado” de Alfonso, sobre su formación jurídica, y sobre el conjunto de su pensamiento sobre la ley38.

36 Alfonso valoraba mucho esta parte de la moral, que consideraba como la “cabeza de toda la obra” (Lettere, III, 201). 37 M. CESCHINI, La dottrina alfonsiana su usura e interesse: Il Segno n. 172 (1996) 81-90. 38 F. CHIOVARO, Alfonso de Liguori avvocato e magistrato: Il Segno n. 142143 (1993) 51-54; ID., Alfonso de Liguori avvocato: Segno n. 211 (2000) 26-38; L. VEREECKE, Sant’Alfonso giurista. La formazione giuridica e l’influsso sulla

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El aspecto que más interés suscita actualmente es el que se refiere a la ignorancia invencible en relación con la ley natural; por dos razones: por la conexión que tiene ese tema con la función de la conciencia moral, y porque en él se expresa una destacable peculiaridad del pensamiento moral alfonsiano más inclinado a la “benignidad pastoral” que al rigorismo inmisericorde. En conexión directa e inmediata con la cuestión sobre la ignorancia invencible está la doctrina sobre la epiqueya; precisamente, la referencia al pensamiento de Alfonso sobre este punto suscita una confrontación entre dos tendencias destacadas de la Moral católica actual, la de signo personalista y la de carácter objetivista39. Aún reconociendo la originalidad alfonsiana en el tratado sobre la ley, hay que afirmar la primacía del tema de la conciencia, el tratado más personal de la moral general, y hasta de toda la Theologia Moralis alfonsiana. Para Alfonso la conciencia reviste una importancia especial. En cuanto tratado, fue elaborado por él con un interés particular40 y lo coloca como puerta de ingreso al edificio de su síntesis teológico-moral41. En cuanto categoría, la conciencia constituye el núcleo de la sensibilidad moral y es el cauce (“regla”) imprescindible (“interna”) y constituyente (“formal”) de la moralidad. Aunque Alfonso pueda ser calificado con razón como “Doctor de la prudencia” y aunque él insista, en ocasiones, en la función

morale: Studia Moralia 31 (1993) 265-282; M. CESCHINI, Santo Afonso Maria de Ligório, jurista e teólogo da Morale: VARIOS, Etica e Direito (Aparecida, 1996) 33-63. 39 G. VIRT, Epikie und sittliche Selbstimmung: D. MIETH (Hrg.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika “Veritatis splendor” (Freiburg-Basel-Wien, 1994) 204- 219, se refiere a la doctrina alfonsiana de forma positiva y aprobatoria; por el contrario, M. RHONHEIMER, Intentional Actions and the Meaning of Object: The Thomist 59 (1995) 279-311, cree que la “metodología” alfonsiana no es correcta (por tratar la “ley natural” como si fuera una ley positiva) si bien acepta su “espíritu” (sin precisar en qué consiste ese “espíritu” alfonsiano). 40 “Speciali studio a me elucubratum” (GAUDÉ, I, 3). 41 “Hunc tractatum de conscientia quo aditus ad morale Theologiam aperitur...” (GAUDÉ, I, 3).

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moral de la prudencia42, sin embargo, su síntesis teológico-moral tiene en la conciencia el rasgo más peculiar. A mi juicio, dos son las principales peculiaridades que introduce Alfonso en el significado y en la función de la conciencia moral: hace de ésta el factor “personalizante” de la vida moral y la convierte en instancia “constitutiva” de la moralidad.

2. La conciencia, factor “personalizante” de la vida moral Desde el final de la Escolástica y durante toda la época postridentina, la conciencia moral ocupó un lugar destacado en la vida y en la reflexión morales del catolicismo. Aquí se encuentra la clave de la llamada “revolución copernicana” del casuismo: haber colocado la conciencia como centro en torno al cual gira el universo moral43. Tanto es así que se puede hablar de la moral católica moderna como una “moral de la conciencia”. En este aprecio por la conciencia Alfonso no fue un innovador. Otros manualistas, antes que él, habían situado el tratado sobre la conciencia en el lugar primero de la síntesis moral. Pero, la intervención de Alfonso, no siendo novedosa, fue decisiva a este respecto. “La problemática relativa a la conciencia llegó a ser central en la Teología moral, en cuanto disciplina autónoma, y continuó ocupando los primeros puestos en los manuales hasta la mitad del siglo XX a causa de la fuerte influencia alfonsiana”44. Alfonso se distancia de la interpretación común que da el casuismo acerca de la función de la conciencia moral. Para la generalidad de los casuistas, fue, ante todo, un lugar y un conjunto de reglas, en el que, y mediante las cuales, se realizaba un procedimiento a fin de obtener la certeza necesaria para actuar moralmente. La conciencia consistía básicamente en una “técnica” para habérselas en el juego de opiniones diversas, en un contex-

42 “Prudentia, quae est proxima regula nostrarum actionum” (Dissertatio scholastico-moralis. Edición de L. Corbetta, t. 28, Monza 1831, 20). 43 M. TURRINI, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna (Bolonia, 1991) 187. 44 Ibid., 184.

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to donde no se aspiraba a obtener “verdades” objetivas sino, a lo sumo, “certezas” subjetivas. Bajo esta comprensión un tanto “mecanicista”, la conciencia se convirtió en una especie de “foro, en el que se aplicaban técnicas de jurisprudencia”45. Consiguientemente, se generó un tipo de discurso moral en el que la persona quedaba reducida a un “sujeto calculante y calculable”46. El punto álgido de esta forma de entender la actuación de la conciencia se verificó en el procedimiento para salir de la “duda”, lo cual dio origen a la diversidad de los así llamados “sistemas de moral”, que no son otra cosa que estructuras procedimentales para conseguir la “certeza” moral. Alfonso se aleja de esta interpretación “mecánica” y exageradamente “procedimental” de la conciencia moral. En su pensamiento late una marcada orientación “personalista”47, la cual se traduce en la interpretación de la conciencia como un factor “personalizante” de la vida moral. El padre D. Capone ha analizado la peculiaridad de la “casuística” alfonsiana y ha puesto de relieve la presencia en ella de la “prudencialidad”. La conciencia moral, según Alfonso, es el factor personal que integra la función de la “prudencia” tomasiana y el papel de la “casuística” moderna48.

3. La conciencia, instancia “constitutiva” de moralidad Sin duda alguna, la afirmación más peculiar y más decisiva de Alfonso, en relación con la conciencia, es la de decir que es

Ibid., 182. Ibid., 188. 47 Cf. D. CAPONE, Fattualismo o personalismo morale?: Studia Moralia 26 (1988) 183-207; ID., Il personalismo in Alfonso M. de Liguori: P. GIANNANTONIO (a cura di), Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo (Florencia, 1990) 221-257. 48 Además de los artículos citados en la n. 4, ver: La “Theologia moralis” di S. Alfonso. Prudenzialità nella scienza casistica per la prudenza nella coscienza: Studia Moralia 25 (1987) 27-78. Esta postura de Capone es asumida y desarrollada por S. MAJORANO, The Formation of Consciente according to the Redemptorist Tradition: VARIOS, Proceedings of the Third International Congress of Redemptorist Moral Theologians (Pattaya, 1995) 8-15. 45 46

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“norma formal y próxima” del obrar moral. Con esta orientación, Alfonso se sitúa en lo que llamaríamos hoy tendencia subjetiva del discurso y de la vida morales. Pero conviene explicar esta interpretación para que no sea mal interpretada. Alfonso, como no podría ser de otro modo, admite dos factores en la constitución del orden moral: uno, de carácter objetivo, y el otro, de carácter subjetivo. Con el lenguaje de la época denomina a cada factor: “regula actuum humanorum”49. Los dos factores son “constitutivos” del universo moral, cada uno según su peculiaridad. De ahí también que el mundo de la moral haya de ser considerado dentro de esa tensión entre objetividad (¿qué es lo bueno?) y subjetividad (¿cómo ser buenos?). Hay que anotar la calificación que da Alfonso a cada uno de los dos factores: al objetivo lo llama “regula remota sive materialis” y lo identifica con la “lex divina”, mientras que al subjetivo lo denomina “regula proxima sive formalis” y lo concreta en la “conscientia”. Por los términos binómicos empleados se deduce que no puede darse una polaridad sin la otra (“proxima-remota”, “formalis-materialis”). Sin embargo, por la resonancia lingüística y por el contenido semántico de cada término, la preferencia alfonsiana parece inclinarse hacia la “regula formalis”, que está representada por la conciencia. Alfonso no explica en qué sentido es la conciencia una instancia “constitutiva” de moralidad. De seguro que no aceptaría entender la conciencia como la fuente “creativa” de la moral, ni identificaría el juicio de conciencia con una mera “decisión” de la persona, según el sentido que tienen tales interpretaciones en la condena que de ellas hace la encíclica Veritatis splendor (nn. 54-56). Alfonso no habla de “decisión” sino de juicio o dictamen50, si bien no reduce este dictamen a un mero reflejo de la norma objetiva. Alfonso sabe que el orden objetivo es norma “en cuanto es captada” por la conciencia51. En ese “prout apprehen-

GAUDÉ, I, 3: “Duplex est regula actuum humanorum; una dicitur remota, altera proxima. Remota, sive materialis, est lex divina; proxima vero, sive formalis, est conscientia”. 50 GAUDÉ, I, 3: “Conscientia definitur sic: est judicium seu dictamen practicum rationis”. 51 GAUDÉ, I, 3: “Licet conscientia in omnibus divinae legi conformari de49

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ditur ab ipsa conscientia” está la función “constitutiva” de la conciencia en la vida moral. Donde aparece con mayor relieve la doctrina alfonsiana sobre la fuerza “constitutiva”, que opera la conciencia en la moral, es en la explicación del carácter vinculante de la “conciencia invenciblemente errónea”52. Mientras que para Tomás de Aquino el error invencible únicamente “excusaba” de pecado, para Alfonso, en cambio, la conciencia invenciblemente errónea constituye en “meritorio” el acto moral, en cuanto que, aún en ese caso, la actuación “está dirigida por el dictamen de la razón y de la prudencia”53. Como se ve, la doctrina alfonsiana se distancia del pensamiento de Tomás de Aquino, situándose, más bien, en la órbita de Guillermo de Ockham54. La razón de esta postura alfonsiana está en que Alfonso no cree en un “objetivismo moral craso” (“lex ut in se est”), sino en una “objetividad mediada por la razón” (“lex prout repraesentatur a ratione”)55. Desde esta comprensión de la conciencia en cuanto instancia “constitutiva” de moralidad, se deduce la importancia que otorga Alfonso al juicio de conciencia en la pastoral y, más concretamente, en el sacramento de la penitencia. La conciencia es la que “determina” la verdad práctica y, por consiguiente, la verdad que salva o condena.

beat, bonitas tamen aut malitia humanarum actionum nobis innotescit, prout ab ipsa conscientia apprehenditur”. 52 Cf. L. VEREECKE, La conscience selon Saint’Alphonse de Liguori: Studia Moralia 20 (1983) 262-266. 53 GAUDÉ, I, 4: “Non solum autem qui operatur cum conscientia invincibiliter erronea non peccat, sed etiam probabilius acquirit meritum; ut recte sentit Pater Fulgentius Cuniliati cum aliis communissime. Ratio, quia ad dicendum aliquem actum bonum, saltem inadaequatum, sufficit ut ille dirigatur per rationis et prudentiae dictamen”. 54 Cf. L. VEREECKE, a. c., 263. 55 GAUDÉ, I, 153: “Quando peccatur contra legem invincibiliter ignoratam, materialiter tantum, non formaliter peccatur; quia lex, non ut in se est, sed prout repraesentatur a ratione, ita fit regula et mensura nostrae voluntatis”.

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V. INNOVACIONES EN LA MORAL MATRIMONIAL

Junto con la conciencia ha sido la moral matrimonial el campo en el que se han constatado las innovaciones más importantes del pensamiento moral alfonsiano. Me limito aquí a señalar ese carácter innovador en dos aspectos de la moral matrimonial: la ordenación de los fines del matrimonio; y, la licitud del matrimonio, así como de la relación conyugal, “propter remedium concupiscentiae”.

1. LA

ORDENACIÓN DE LOS FINES DEL MATRIMONIO

a. Pensamiento alfonsiano Alfonso pertenece a una época de la moral matrimonial en que ya no se habla de “bienes” del matrimonio. El significado del matrimonio se expresa con la categoría de “fines”. En este cuadro conceptual hay que situar su importante formulación sobre los fines del matrimonio. De hecho, la orientación básica que ilumina todo el conjunto del pensamiento alfonsiano sobre el matrimonio se encuentra en su peculiar comprensión y exposición sobre los fines del matrimonio. Aquí reside la mayor originalidad de Alfonso. Según él, “en el matrimonio existen tres clases de fines: fines intrínsecos y esenciales, fines intrínsecos accidentales, y fines extrínsecos accidentales: Los fines intrínsecos esenciales son dos: la mutua donación con la obligación de entregarse al otro, y el vínculo indisoluble. Los fines intrínsecos accidentales son también dos: la procreación, y el remedio de la concupiscencia. Los fines accidentales extrínsecos pueden ser muchos como, por ejemplo, la paz entre las familias, la satisfacción de alguna apetencia personal”56.

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GAUDÉ, IV, 61-62.

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Para valorar con objetividad el significado de esta formulación alfonsiana sobre los fines del matrimonio es necesario, en primer lugar, situarla en su contexto histórico; a continuación, se puede señalar el grado de innovación que supuso en su época y que todavía puede seguir teniendo en la actualidad. b. Contexto histórico No hay que pensar que la formulación alfonsiana sobre los fines del matrimonio fue una creación totalmente nueva de Alfonso. En la Edad Media se comenzó a hablar de fines del matrimonio, traduciendo así a nuevo lenguaje la doctrina agustiniana sobre los bienes del matrimonio. Se señalaron tres fines: la procreación y educación de la prole; el remedio de la concupiscencia; y el significado sacramental. Entre la época medieval y la formulación de Alfonso se establecen otras precisiones y divisiones que es necesario tener en cuenta. Creo que las principales fuentes directas del texto alfonsiano están en cuatro autores, escalonados temporalmente: Tomás Sánchez (1550-1610), Claudio Lacroix (1652-1714), Salmanticenses (s. XVII-XVIII), y Constantino Roncaglia (1677-1737). Tomás Sánchez es uno de los autores preferidos por Alfonso, sobre todo en los temas relacionados con el matrimonio57. De seguro que Alfonso leyó lo que el moralista cordobés había escrito sobre los fines del matrimonio. Muy probablemente, lo escrito por Sánchez pudo darle la impresión, como nos la da ahora a nosotros, de cierta imprecisión58. Distingue Sánchez entre fines “per se” o “ratione sui” y fines “extranei”. Señala los primeros en función de dos dimensiones de la institución matrimonial: en cuanto es contrato, el fin del matrimonio “ratione sui” es la entrega mutua del derecho al cuerpo y la comunión de los

A T. Sánchez lo tiene por autor “probado” (Prólogo a la 1ª edición de la Theologia Moralis); lo cataloga entre los “gravissimi auctores” (GAUDÉ, I, 645); lo tiene por “sapientissimus et piissimus” (GAUDÉ, I, 700); lo defiende frente a quienes lo denigran por tratar temas “escabrosos” (GAUDÉ, IV, 82-83). 58 El texto se encuentra en: T. SANCHEZ, De sancto matrimonii sacramento, t. I (Antuerpiae, 1614) 157. 57

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espíritus (“traditio potestatis corporis alteri coniugi et mutua animorum coniunctio”); en cuanto que el matrimonio está ordenado a la sexualidad (“cum ad copulam ordinatur”), su finalidad es más compleja (aquí es donde se encuentra la “imprecisión” a la que acabo de aludir): primariamente (“primario”) está instituido en orden a la procreación (“institutum ad propagationem sobolis”), y secundariamente, aunque por razón intrínseca (“finis per se, non tamen per se primus sed secundarius”), al remedio de la concupiscencia (“remedium concupiscentiae”). Claudio Lacroix tiene en común con Alfonso el haber sido uno de los grandes comentaristas de la Medulla de Busembaum59. En efecto, el moralista jesuita compuso una notable obra de moral casuista, que fue reeditada por F. A. Zaccaria; de esta reedición proviene la Disertación prolegómena con que se abría la 3ª edición de la Theologia Moralis alfonsiana. La obra de Lacroix influyó mucho sobre el pensamiento de Alfonso, sobre todo en la época en que preparaba las ediciones 2ª y 3ª de su Moral. En relación al significado del matrimonio (“Quid sit”)60, Lacroix recuerda los bienes de la institución conyugal61. En cuanto a los fines, sigue dentro de la pauta marcada por Sánchez, si bien introduce más claridad en la formulación. Hace la siguiente organización de fines62: fin esencial (“essentialis”): la entrega de los cuerpos y la obligación radical del débito conyugal (“mutua corporum traditio et radicalis obligatio tradendi debitum”); fin accidental pero al mismo tiempo propio (“finis accidentalis sed proprius”) que es de doble índole: a) primario (“primarius”): procreación y educación (“generare et ad Dei cultum educare prolem”); b) secundario (“secundarius”): remedio de la concupiscencia; 59 Sobre Lacroix y sobre los comentarios a la obra de Busenbaum, cf. M. VIDAL, La moral de san Alfonso de Liguori y la Compañía de Jesús: Miscelánea Comillas 45 (1987) 391-416. 60 Cito por la siguiente edición (que contiene las anotaciones de F. A. Zaccaria): C. LACROIX, Theologia Moralis, t. III (Ravennae, 1761), 19. 61 “Bonum matrimonii est tripartitum: fides, proles, sacramentum” (Ibid., 19). 62 Ibid., 19.

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fines extrínsecos63: la salud, la paz, las riquezas, la belleza, etc. De los Salmanticenses puede decirse que fueron el libro de consulta primera y continua de Alfonso64. Es normal que en ellos leyera la exposición que hacen sobre el “triplex finis” del matrimonio65: fin intrínseco substancial: la mutua entrega y la obligación radical del débito conyugal (“traditio mutua, obligatioque radicalis reddendi debitum”); fin intrínseco accidental: la procreación y el remedio de la concupiscencia (“prolis procreatio et educatio ad cultum Dei, necnon remedium concupiscentiae”); fin extrínseco: la paz, las riquezas, la nobleza, la belleza, etc. Constantino Roncaglia es otro de los autores utilizados por Alfonso como fuente bibliográfica básica y continua para la elaboración de su Theologia Moralis66. Para la cuestión de los fines del matrimonio es la fuente más cercana al pensamiento alfonsiano. Según Roncaglia los fines intrínsecos (no habla más que implícitamente de los fines “extrínsecos”) del matrimonio son67: fin intrínseco substancial: la mutua entrega y la obligación radical del débito conyugal (“mutua traditio et radicalis obligatio ad copulam”);

63 En la edición que utilizo existe un error de impresión, ya que habla de “fines intrinseci” (Ibid., 19), siendo lo que procede hablar de fines “extrínsecos”; de hecho en páginas posteriores (p. 25) se habla de fines “extranei”. 64 En el prólogo a la 1ª edición de la Theologia Moralis se lee esta referencia alfonsiana a los Salmanticenses: “Communi aestimatione moralem hanc scientiam diffuse, et egregie pertractant; Quosque ipse inter ceteros frequentius familiares habui: itaut fere omnia, quae iidem tot libris latiore calamo in examen revocant, breviter concinnata hic invenies”. 65 Cito por la siguiente edición: SALMANTICENSES, Cursus Theologiae Moralis, t. II (Madrid, 17175) 103-104. Sobre los Salmanticenses morales y sobre la relación de Alfonso con ellos, cf. T. SIERRA, El Curso Moral Salmanticense. Estudio histórico y valoración crítica (Valladolid, 1968); San Alfonso y los Salmanticenses morales: Moralia 10 (1988) 235-254. 66 Cf. M. VIDAL, Frente al rigorismo moral, benignidad pastoral (Madrid, 1986) 138. A Roncaglia lo cataloga entre los autores “probi” y entre los autores “gravi” (Ibid., 136). 67 Cito por la siguiente edición: C. RONCAGLIA, Universa Moralis Theologia, t. VI (Luca, 1849) 199.

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fin intrínseco accidental: la procreación y el remedio de la concupiscencia (“prolis procreatio et remedium concupiscentiae”). c. Innovación alfonsiana

Comparando la exposición de Alfonso con la de las cuatro fuentes, que muy bien pudo utilizar, se pueden constatar un gran número de convergencias; pero también alguna divergencia. Tanto Alfonso como los autores indicados distinguen entre fines “intrínsecos” y “extrínsecos” (considerando a éstos últimos como “accidentales” al matrimonio); entre los fines intrínsecos, todos establecen otra distinción, más importante, entre “substanciales” y “accidentales”; Alfonso prefiere el término “esenciales” al de “substanciales”, ya que unos y otros pertenecen a la substancia del matrimonio. Alfonso acepta la opción de los Salmanticenses y de Roncaglia de no establecer prioridad, como lo hacen Sánchez y Lacroix, entre los fines accidentales, es decir, entre la procreación y el remedio de la concupiscencia. Según mi parecer, no es propiamente innovación alfonsiana el haber distinguido, entre los fines intrínsecos del matrimonio, los “esenciales” y los “accidentales” y el haber colocado la procreación entre éstos últimos, es decir, entre los “accidentales”. Esta comprensión de los fines matrimoniales y esta articulación de la procreación en ellos no puede ser considerada una novedad alfonsiana ya que, según he señalado, se encuentra en moralistas precedentes. Sin embargo, el que haya sido aceptada por Alfonso sí tiene gran importancia. En la comprensión alfonsiana del matrimonio hay dos elementos de particular relieve que parecen chocar contra algunas orientaciones excesivamente “procreativistas” de la tradición anterior. Me refiero a estas dos afirmaciones: la procreación no es un fin esencial del matrimonio; es solo un fin intrínseco accidental68; el matrimonio es lícito y válido aunque se excluyan los dos fines intrínsecos accidentales, concretamente, el remedio de

68

GAUDÉ, IV, 61.

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la concupiscencia y la procreación; así contrajeron su matrimonio María y José69. El criterio básico que ilumina todo el conjunto del pensamiento alfonsiano sobre la procreación es su doctrina peculiar sobre los fines del matrimonio y el puesto que en ellos ocupa la finalidad procreativa. Según la comprensión alfonsiana sobre el significado (“fines”) del matrimonio: no se requiere la intención procreativa en toda relación conyugal70; más aún, se puede admitir que a veces es lícito el desear no tener hijos71, por razón del principio de responsabilidad general que ha de abarcar toda la realidad del matrimonio y de la familia. A partir del significado general que Alfonso otorga a la función procreativa dentro de la realidad del matrimonio surge una moral de la procreación de signo más equilibrado que la ofrecida por comprensiones morales precedentes. En la moral alfonsiana se insinúa lo que actualmente constituye una vigencia ética dentro de la moral católica: el principio de “procreación responsable”.

2. LA

LICITUD DE LA RELACIÓN CONYUGAL

“PROPTER

REMEDIUM CON-

CUPISCENTIAE”

Nadie niega que haya de ser considerada como innovación alfonsiana la interpretación de 1 Cor 7, 2 que la Vulgata tradujo así: “propter fornicationem, unusquisque suam uxorem habeat, et unaqueque suum virum habeat”. En su sentido original el texto paulino no pretende dirimir una disputa sobre el significado del matrimonio72; sin embargo, la tradición eclesial lo usó para

GAUDÉ, IV, 62. GAUDÉ, IV, 109: “Consequenter resolvitur licitum esse uti matrimonio: a) prolis causa; etsi haec non neccessario debeat intendi cum exercetur: dummodo positive non impediatur”. 71 GAUDÉ, IV, 123. 72 S. VIDAL, Las cartas originales de Pablo (Madrid, 1996), 180-181, nota 83: “no se refiere aquí al contraer matrimonio (estaría en contradicción con 69 70

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justificar el matrimonio por razón de ser “remedio para la concupiscencia” (remedium concupiscentiae). Alfonso se encontró con una corriente importante, y hasta mayoritaria, de teólogos, entre los cuales se situaba a santo Tomás, que sólo veían en el texto paulino una simple “indulgencia” que no quitaba el desorden objetivo inherente a contraer matrimonio con el fin principal del “remedio de la concupiscencia”. Consiguientemente, según esta interpretación, el contraer matrimonio teniendo como fin principal el remedio de la concupiscencia era, al menos, pecado venial. Le costó a Alfonso apartarse de esa forma de pensar73, sobre todo al tener que ir en contra del parecer de santo Tomás, a quien tenía por el principal guía en su trabajo teológico74. Sin embargo, pidiendo disculpas al Aquinate, prefiere la interpretación de san Juan Crisóstomo75, quien veía en el texto paulino no una “concesión indulgente” sino la afirmación de un valor objetivo del matrimonio. Así, pues, Alfonso afirma con coraje la ausencia de pecado y, consiguientemente, la bondad objetiva del matrimonio contraído principalmente por motivación sexual (“remedio de la concupiscencia”). Esta innovación alfonsiana tiene varias vertientes: por una parte, la postura alfonsiana fue decisiva para que el texto paulino fuera interpretado comúnmente no como una “concesión” sino como la afirmación de una “valor” de la vida conyugal; por otra parte, como el mismo Zalba reconoce, Alfonso, en contraste con san Agustín, considera como bueno (y caren-

v. 8.25ss.40), sino al uso de él (v. 3-5); se opone a ‘no tener contacto’ (v. 1). Esto quiere decir que la afirmación del v. 2 (especificada en los v. 3-5) es de tipo pragmático realista (sobre el uso del matrimonio), y no se puede interpretar como una afirmación general sobre el sentido del matrimonio (como remedium concupiscentiae)”. 73 La exposición, amplia y matizada, se encuentra en: GAUDÉ, IV, 62-64. 74 Cf. M. VIDAL, o. c., 126-146. 75 “Sed venia tanti Doctoris (cujus sententiis universe obsequi in caeteris ego studui) magis propria videtur interpretatio S. Joannis Chrysostomi”: GAUDÉ, IV, 63.

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te de culpabilidad objetiva) “el ejercicio de la vida conyugal en cuanto remedio de la concupiscencia”76; de esta suerte, se adopta una nueva perspectiva para valorar de forma más personalista las relaciones intraconyugales y, en general, la institución matrimonial. En relación con la última afirmación, conviene anotar otra afirmación alfonsiana que participa de la innovación que estamos comentando. Me refiero a la afirmación básica de Alfonso de que los “fines” que justifican el matrimonio son los mismos que cohonestan la relación conyugal77. Este criterio ilumina, con una luz personalista, toda la moral de la vida conyugal. En la monumental obra de Noonan sobre la historia del pensamiento cristiano acerca de la contracepción cobra un relieve especial la figura de Alfonso de Liguori78. Se le presenta, en cierta medida, como el “antagonista” de la postura agustiniana. Si ésta defiende la orientación procreativista del matrimonio, la orientación alfonsiana apoya la valoración de la relación conyugal por razón de ella misma y propone una moral de responsabilidad en la procreación. Con “Alfonso se ve netamente declinar la vieja actitud agustiniana frente a la relación conyugal desprovista de intencionalidad procreativa”79. Bien es cierto que el mismo Noonan reconoce que “el pensamiento de Alfonso todavía refleja una doctrina de transición”80: abandona la teoría marcadamente procreativista pero no se decide por la opción personalista del amor conyugal como núcleo justificador de la vida conyugal. A Alfonso hay que situarlo en la corriente de significación más personalista y de orientación más benigna. Como dice J. Delumeau, “espíritus independientes como Dionisio el Cartujano (+1471), Martín Le Maistre (+1481), Tomás Sánchez (+1610),

76 M. ZALBA, S. Alfonso in contrasto con la tradizione e con S. Agostino?: Rassegna di Teologia 10 (1969) 385. 77 GAUDÉ, IV, 109: “Iidem enim fines, quos habere licet ad matrimonium contrahendum, cohonestant etiam petitionem copulae”. 78 Cito por la traducción francesa: J. T. NOONAN, Jr., Contraception et mariage. Evolution ou contradiction dans la pensée chrétienne? (Paris, 1969). 79 Ibid., 409. 80 Ibid., 420.

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San Alfonso María de Ligorio (+1787), hicieron retroceder poco a poco, a pesar de una poderosa oposición conservadora, la imposible moral agustiniana respecto al matrimonio”81. Uno de los signos llamativos de esa orientación innovadora está en el abandono de la opinión de santo Tomás, que interpretaba de forma pesimista el texto de 1 Cor 7, 2 y, consiguientemente, veía culpa, aunque leve, en la opción por el matrimonio contraído como “remedio de la concupiscencia”. Es interesante constatar cómo Alfonso en esta cuestión se distancia de un autor a quien tanto apreciaba y a quien tenía por “theologorum princeps”. Con mayor conocimiento histórico tendría que haber dicho que se distanciaba, al mismo tiempo, de la tradición agustiniana82. Pero más llamativo aún es a quién se adhiere, después de abandonar a santo Tomás y a la tradición agustiniana: a san Juan Crisóstomo. Es Noonan quien contrapone las visiones de san Juan Crisóstomo y de san Agustín83: la segunda de signo más pesimista y procreativista y la primera de carácter más optimista y más relacional. Se pregunta, además, cómo hubiera sido la tradición teológica y eclesial ulterior si ésta hubiera seguido más a san Juan Crisóstomo que a san Agustín, y se responde que habría existido “un tono teológico diferente, una visión diferente del matrimonio”84.

81 J. DELUMEAU, El catolicismo de Lutero a Voltaire (Barcelona, 1973). Parecida valoración hace M. A. FARLEY, Etica sexual: J. B. NELSON - S. P. LONGFELLOW (Dir.), La Sexualidad y lo Sagrado (Bilbao, 1996) 118, al hablar del “intento de Alfonso María de Ligorio por integrar el fin paulino del matrimonio con el fin de la relación sexual”. 82 Conviene tener en cuenta que Alfonso apenas se refiere a san Agustín en el tema de la moral matrimonial. Solamente he contabilizado cuatro citas (y en lugares de poca importancia) de obras agustinianas en el tratado alfonsiano sobre el matrimonio de la Theologia Moralis: GAUDÉ, IV, 59, 64, 76, 103. Por eso, la referencia a san Agustín en la obra alfonsiana ha de ser interpretada de modo implícito, es decir, en cuanto que la opción agustiniana se encuentra en la tradición comúnmente vigente con la que se confronta Alfonso. 83 J. T. NOONAN, o. c., 127-128. 84 Ibid., 128.

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En todo caso, existió un gran moralista, Alfonso de Liguori, que prefirió la opinión de san Juan Crisóstomo a la de santo Tomás e, implícitamente, a la de san Agustín. Este “espíritu alfonsiano”, insertado como estuvo en la genuina tradición cristiana, sirvió para reorientar teórica y prácticamente la postura global de la Iglesia en este campo hacia sensibilidades de signo más personalista. Eso fue lo que acaeció en las respuestas que dio la Sagrada Penitenciaría, en el siglo XIX, a preguntas sobre cuestiones de moral matrimonial; concretamente, sobre la moralidad de la cooperación de la esposa en el “coitus interruptus” y sobre la necesidad o no de preguntar en el confesionario acerca de los pecados de la vida conyugal. El estudio histórico de esta cuestión arroja como balance global, dejando aparte matices parciales, la aceptación de la orientación alfonsiana en moral matrimonial85, un signo más del proceso de liguorización por el que entró la moral católica a partir del segundo tercio del siglo XIX.

VI. LA RESPONSABILIDAD “CIVIL” EN LA PREOCUPACIÓN MORAL DE ALFONSO Las innovaciones alfonsianas en el campo de la pastoral, a las que aludí en un apartado precedente, tenían como objetivo, entre otros, la promoción de la sociedad civil mediante una evangelización en que cobra relieve especial el ethos profesional y la cultura de la legalidad en cuanto soporte imprescindible del bien social.

85 Un estudio detallado de esta cuestión puede verse en: C. LANGLOIS, Régulation romaine et morale alphonsienne en France dans la première moitié du 19e. siècle. Les propositions de Mgr Bouvier sur la morale conjugale: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (19997) 309-329. Los matices se refieren a la forma de invocar la doctrina alfonsiana por parte de la Sagrada Penitenciaría. También advierte C. Langlois (p. 327) sobre el peligro de caer en “anocronismos” a la hora de interpretar la doctrina alfonsiana, peligro del que cree que no escapa del todo Noonan en su monumental obra sobre la historia de la contracepción en la moral católica.

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Tanto las Capillas del atardecer como las Misiones populares pusieron a Alfonso en contacto con las “zonas periféricas” del Reino de Nápoles y con la “parte olvidada” de la sociedad. Se trataba de un mundo “distinto” del suyo, espiritual y culturalmente desatendido. El “éxodo” de Alfonso hacia esa realidad humana no tuvo por motivo ninguna suerte de despecho o frustración; fue, más bien, resultado de una conversión interior de toda su persona hacia el “clamor” de la gente necesitada. Toda su obra tendrá como meta la “elevación integral” (religiosa y humana) de la gente marginada. La praxis pastoral alfonsiana propicia una elevación social de la gente sencilla mediante la creación de actitudes y de comportamientos de responsabilización. Esta dimensión “civilizadora” de la pastoral alfonsiana tiene repercusión en su concepción de la moral cristiana. Ésta ha de insistir en la moralidad social y en la ética profesional. Hay aquí otro signo del carácter innovador de la moral alfonsiana. Insistencia en la moralidad social. Alfonso creyó en la “cultura de la legalidad”86. Se opuso a los excesos del “legalismo” en la vida moral del cristiano; pero cultivó el respeto a la “norma” en cuanto cauce del obrar social responsable. Este respeto a la legalidad sirve de apoyo al tejido social, crea sensibilidades sociales en los individuos, y orienta la conciencia moral hacia la realización del bien común. La formación jurídica de Alfonso no sólo configuró su pensamiento moral, sino que le sirvió para justificar una moralidad pública exigente. Se ha destacado la fuerza del pensamiento moral alfonsiano en relación con la cuestión de la usura87. Responsabilidad profesional. Siguiendo el modelo de los Manuales de moral de la época, Alfonso dedica un tratado especial a la moral de los “estados particulares”88. En relación con las

G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, a. c., 311-312. Además del artículo citado en la nota 37, ver: M. F. DOS ANJOS, Usura: Etica dos Juros. Uma releitura latino-americana de Sto. Afonso de Ligório: Revista Eclesiástica Brasileira 57 (1997) 658-665; VARIOS, Diritto alla vita e debito estero (Nápoles, 1997). 88 Liber Quartus. De Praeceptis particularibus certo hominum statui propriis: GAUDÉ, II, 441-686. 86 87

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“profesiones civiles”, se fija preferentemente en las relacionadas con el mundo de la justicia: jueces, abogados, escribanos, secretarios, notarios, procuradores, etc89. Tiene algunas alusiones rápidas a la moral de las profesiones médicas, económicas y empresariales90; no conviene olvidar que las cuestiones relacionadas con estas últimas ya las ha tratado al exponer el quinto y el sexo precepto del Decálogo. Más que la “letra” de esta moral profesional, es de destacar el “espíritu” que subyace a esta preocupación alfonsiana. Si Alfonso fue sensible en su vida al ethos de la profesionalidad, también está preocupado por la responsabilidad profesional del cristiano. De este modo, se desmiente un tópico muy difundido de que la ética de las profesiones corresponde a la mentalidad protestante y está ausente del catolicismo.

VII. CARÁCTER INNOVADOR DE LA ORIENTACIÓN GENERAL DE LA MORAL ALFONSIANA

La innovación mayor de Alfonso en el campo de la moral consistió en superar los planteamientos tanto del probabilismo como del probabiliorismo. Éstos se bloquearon en el concepto de verdad moral, al entenderla únicamente en relación con la ley. Una ley objetivada en la esencia de la naturaleza para el probabiliorista. Una ley exterior y, por lo tanto sometida al juego de las probabilidades externas, para el probabilista. Para Alfonso la verdad moral no está en la esencia ni en la fuerza exterior legislante. Por eso se opone tanto al probabiliorismo esencialista que

89 GAUDÉ, II, 625-684. Hay que alabar las iniciativas de N. Fasullo (Palermo, Italia) en orden a promover el pensamiento de Alfonso en el mundo de las profesiones jurídicas. Ha editado la moral alfonsiana sobre las profesiones jurídicas, tomándola de Istruzione e Pratica, c. XII, punto 3 y de Il Confessore diretto, c. XX, punto único: ALFONSO DE LIGUORI, Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei (Palermo, 1998). El mismo N. Fasullo hace una sucinta, pero exacta, introducción a la moral alfonsiana, con un conocimiento preciso de la producción bibliográfica (pp. 9-29). 90 GAUDÉ, II, 684-686.

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conduce a un objetivismo apersonal como al probabilismo basado en la fuerza jurídica extrínseca que también conduce a una falta de consideración de la persona. Estas dos posturas no tienen en cuenta la condición salvífica de la verdad moral, lo cual “le hacía considerar como peligrosos no solo el tuciorismo, absoluto o mitigado, y el laxismo, sino también el verdadero probabiliorismo y un cierto fácil e indiferenciado probabilismo”91. La verdad moral, según Alfonso, está en la persona. Existe el bien (y el mal) objetivo, cosa que no considera el probabilista; pero ese bien (o mal) solamente se convierte en verdad moral cuando es “aprehendido” por la persona, afirmación que no tiene en cuenta el probabiliorista. De ahí la importancia de la prudencia en el sistema moral alfonsiano92, de tal modo que la opción alfonsiana por el “equiprobabilismo” es interpretada por D. Capone como una opción por el “principio de flexibilidad”93. Así, pues, “Alfonso hace una Moral de la persona cristiana, mientras otros hacen una Moral de la ley, y otros una Moral del acto libre, como entidad y valor por sí mismo”94. Alfonso llegó a esta innovación a contracorriente de la época. Fueron la sensibilidad de santo y la pastoral entendida y practicada como servicio y no como poder los factores decisivos y de fondo que le llevaron a esa opción. El estudio, la reflexión, y la confrontación le ayudaron a madurarla y a racionalizarla, proceso que le ocupó durante tres largas décadas (desde los finales de 1740 hasta los finales de 1770). No dejó de tener influencia su formación filosófico cartesiana, su configuración intelectual en la Facultad de Leyes, y la práctica del foro. El principio de “equidad” moral en Alfonso tiene mucho que ver con la teoría filosófico-jurídica sobre la “equidad” de J. B. Vico, presidente del tribunal en el examen de ingreso de Alfonso a la Universidad.

D. CAPONE, Dissertazioni e Note di S. Alfonso sulla probabilità e la coscienza (1769-1777): Studia Moralia 3 (1965)144. 92 Ibid., 145. 93 D. CAPONE, Dissertationi e Note: Studia Moralia 1 (1963) 282; 3 (1965) 147-148. 94 D. CAPONE, Dissertazioni e Note: Studia Moralia 3 (1965) 148. 91

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Para explicar el funcionamiento de la conciencia y, consiguientemente, para entender la constitución del sujeto moral responsable, se sirvió Alfonso de los instrumentos que le proporcionaba la antropología jurídica. De hecho, los dos principios básicos de su sistema moral, el principio de “posesión” y el principio de “epiqueya”, dependen más de la antropología jurídica que de la antropología filosófica. Como dice Capone, Alfonso volcó un “espíritu nuevo” en “odres viejos”95. Fue el espíritu alfonsiano lo que cuestionó la moral de la época, aquello que supo leer la Iglesia del siglo XIX y lo que permanece válido aún hoy. La clave de ese “espíritu” está en la comprensión salvífica de la verdad moral96. Alfonso no entiende la reflexión teológico-moral como una simple búsqueda de la verdad moral objetiva. Para él, la orientación salvífica de la moral es una clave hermenéutica decisiva. Es la razón del rechazo del excesivo rigorismo, el cual lleva en sí una carga condenatoria97 y no refleja la “clemencia divina”98. También justifica la orientación “sanante” de la pastoral penitencial alfonsiana, en la que la función de “médico” y de “padre” predomina sobre la de “juez”99. El carácter salvífico de la verdad moral tiene una función directa e inmediata en la constitución del sujeto moral responsable. Éste se construye en función del carácter salvífico de la Moral. De ahí que, según el pensamiento moral alfonsiano, en la constitución del sujeto responsable haya que tener en cuenta los factores siguientes: La fragilidad humana, señalada por Alfonso en afirmacio-

D. CAPONE, a. c., 63. Para Alfonso el fin de todas las ciencias (“omnium scientiarum finis”) no es otro que la “salvación eterna” (“nihil aliud esse debet quam salus aeterna”): Praxis confessarii, 17: GAUDÉ, IV, 536. 97 GAUDÉ, I, 61. 98 GAUDÉ, III, 518. 99 Cf. D. CAPONE, a. c., 86; S. MAJORANO, Il popolo chiave pastorale di S. Alfonso: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (1997) 84; G. DE ROSA, La figura e l’opera di Sant’Alfonso nell’evoluzione storica: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (1997) 224. 95 96

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nes100 que Juan Pablo II califica de “palabras memorables”101. La gradualidad en el descubrimiento y en la realización de la verdad moral102. La aceptación de las circunstancias, históricas y biográficas, como factor importante en la constitución de la verdad moral. Alfonso anota que por razón del cambio de las circunstancias una ley que era “cierta” puede pasar a ser “dudosa”103. La verdad moral salvífica se realiza en la aplicación de los criterios morales según la situación concreta de la persona. El uso de la epiqueya como criterio regulador de la verdad moral, aún en cuestiones de ley natural104, tiene en el pensamiento de Alfonso una justificación de carácter antropológico-teológico. Lo mismo hay que decir de la aceptación de la ignorancia invencible en el sujeto moral. Esta ignorancia inculpable impide el pecado formal, el único que ofende a Dios y que se opone a la salvación105. La “buena fe”, en la que a veces hay que dejar a las personas106, es un rasgo importante de la antropología moral y pastoral de Alfonso107. B. Forte ha puesto de relieve la valía de la intuición alfonsiana en la discusión sobre los sistemas de moral para comprender el significado auténtico de la decisión moral108. “Atendiendo a la fragilidad de la presente condición humana, no siempre es verdad que la cosa más segura sea dirigir las almas por la vía estrecha” (GAUDÉ, II, 53). “La excesiva severidad cierra el camino hacia la vida eterna” (GAUDÉ, I, 61). Cf. S. MAJORANO, a. c., 81-82; G. DE ROSA, a. c., 224. 101 JUAN PABLO II, Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1368. 102 Cf. S. MAJORANO, a. c., 84-85. 103 Dell’uso moderato dell’opinione probabile, 1765, c. III, n. 89. Edición de L. Corbetta, t. 29 (Monza, 1831) 199. 104 GAUDÉ, I, 182: “etiam in naturalibus”. 105 GAUDÉ, III, 636: Praxis confessarii, n. 8. 106 Por ejemplo, en los comportamientos de la vida conyugal: C. LANGLOIS, Régulation romaine et morale alphonsienne en France dans la première moitié du 19e siècle: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (1997) 327-329. 107 Cf. S. MAJORANO, a. c., 81-82; G. DE ROSA, a. c., 222. 108 B. FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale (Roma, 1993) 303-307. 100

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Para este teólogo actual la decisión moral es el acto por el cual se realiza el encuentro salvífico de la persona con la gracia. Es la realización finita (en el tiempo) de las posibilidades personales con un peso de autotrascendencia (de eternidad). En el debate sobre los sistemas de moral entra en juego la estructura y la función de la decisión moral: ese debate “nace precisamente del conflicto entre la radicalidad de la exigencia ética, fundada en el ethos de gracia, y la incertidumbre de su realización concreta en la mutabilidad y complejidad de las situaciones vitales. En este conflicto la certeza moral es con frecuencia no absoluta, sino relativa”109. Este conflicto es resuelto por la ética de situación eliminado uno de los polos de la tensión (la dimensión objetiva) y absolutizando el otro (la temporalidad). Los sistemas rigoristas (tuciorismo, probabiliorismo) sacrifican la necesaria mediación histórica y situacional de la responsabilidad personal. El probabilismo transfiere todo el peso de la decisión a los condicionamientos extrínsecos. “En realidad, el conflicto de los sistemas revela la tensión más profunda entre el objetivismo clásico y el subjetivismo emergente en la modernidad”110. La intuición de Alfonso consistió en superar los planteamientos reduccionistas tanto del probabiliorismo como del probabilismo. Situó la decisión moral en la persona (la conciencia que “aprehende” el orden objetivo) y así encontró el camino de solución a la crisis de los sistemas de moral. “Esta vía -propuesta por el realismo sapiencial y prudente de San Alfonso de Liguori- reconoce en la decisión moral un acto de la persona, la cual está en él implicada con toda la riqueza de sus componentes de interioridad y exterioridad, además de interlocutor libre y consciente de la alianza con Dios, proveniente de la gracia”111. A partir de esta interpretación, la intuición alfonsiana puede ser actualizada hoy como propuesta alternativa a la crisis entre el “objetivismo” y el “subjetivismo” en la vida moral y en el discurso ético.

109 110 111

Ibid., 304. Ibid., 305. Ibid., 306.

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Para Alfonso, la verdad moral pasa por la persona. De ahí que no se canse de repetir la afirmación de santo Tomás: la bondad moral se mide “secundum bonum apprehensum”, es decir, la verdad moral está en el bien objetivo pero “en cuanto es aprehendido” por la persona112. Esta orientación personalista alfonsiana fue la que superó los enfrentamientos históricos del “laxismo” y del “rigorismo”113. También hoy esta opción alfonsiana puede ayudar a encontrar la “vía media” y el “camino seguro” entre la Escylla y la Carybdis del “objetivismo” exagerado y del “subjetivismo” excesivo. La celebración del Cincuenta Aniversario de la declaración de Alfonso como Patrono de confesores y de moralistas (1950) es una buena oportunidad para recoger ese mensaje y traducirlo a las nuevas condiciones de nuestra situación presente. Manuel Silvela 14 28010 Madrid España

M ARCIANO VIDAL, C.SS.R.

————— Summary / Resumen Studies on the moral theology of St. Alphonsus have experienced a splendid period in the last forty years. As a result, we are now better aware of the historical significance of alphonsian moral thought. This article seeks to clarify more this historical significance by pointing out the ‘innovative character’ of the pastoral and theological proposal of St. Alphonsus. A panorama of the principal innovations of the alphonsian moral theology is given. The article takes more time with the analysis of three concrete tracts in which the innovative character is conspicuous: conscience, matrimony, social and professional responsability. The innovative force of the alphonsian moral thought is summarized in how the Patron of Confessors and Moralists deals with the question of

112 Quodl. 3, q. 12, a. 2: “El ideo actus humanus iudicatur virtuosus vel vitiosus secundum bonum apprehensum in quod per se voluntas fertur, et non secundum materiale obiectum actus”. Cf. también: I-II, q. 19, aa. 3 y 5. 113 D. CAPONE, a. c., 112-115.

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moral truth. This is a truth which saves and transforms the total person. This alphonsian orientation could be a help in overcoming the current moral crisis which is the result of the excesses of subjectivism as well as of objectivism. Los estudios sobre la moral de san Alfonso han experimentado una época de esplendor en los últimos cuarenta años. Como consecuencia, hoy se conoce mejor el significado histórico del pensamiento moral alfonsiano. El presente artículo pretende clarificar mejor ese significado histórico señalando el “carácter innovador” de la propuesta pastoral y teológica de san Alfonso. Presenta una panorámica de las principales innovaciones de la moral alfonsiana. Se detiene en el análisis de tres tratados concretos en los que sobresale el carácter innovador: la conciencia, el matrimonio, la responsabilidad social y profesional. Resume la fuerza innovadora del pensamiento moral alfonsiano en la concepción que el Patrono de confesores y moralistas tiene acerca de la verdad moral: es la verdad que transforma y salva a la persona en su totalidad. Esta orientación alfonsiana puede ayudar a superar la crisis moral actual producida por los excesos tanto del subjetivismo como del objetivismo. ————— The author is as Invited Professor at the Alphonsian Academy. El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana. —————

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StMor 38 (2000) 405-435 PAUL GILBERT S.J.

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Cet article se donnera un cadre limité. Je ne suis pas théologien mais philosophe, et en philosophie je ne suis pas moraliste mais métaphysicien. Mon point de vue sera donc très particulier, assez éloigné d’une réflexion basée sur l’étude des cas. Je ne serai cependant pas trop distant d’une étude anthropologique adaptée aux exigences de la morale aristotélicienne qui dégage, par des analyses phénoménologiques d’avant la lettre, les formes de nos attitudes de vie essentielles1. Je fais également mien un autre aspect de l’aristotélisme, l’enquête dialectique, ou plus précisément l’étude de la tradition, qui nous renseigne tout d’abord sur le sens ancestral de nos mots et qui nourrit ensuite une réflexion austère et rigoureuse sur nos dispositions actuelles2. À l’aide de

On verra en ce sens J. LAFFITTE, Le pardon transfiguré, Paris, Desclée et Éditions de l’Emmanuel, 1995, excellent ouvrage qui, d’un point de vue d’abord anthropologique puis théologique, analyse le phénomène du pardon et en classe avec précision les diverses formes ou approches ainsi que les structures élémentaires. L’ouvrage ne touche cependant pas à la métaphysique du pardon, malgré l’intention de l’Auteur. Sans doute, “le plan métaphysique se réfère à la réalité sous-jacente à l’expérience: une personne ne se confond pas avec ce qu’elle vit. Elle n’est pas sa propre expérience” (14). Mais l’analyse de cette ‘réalité’ métaphysique est menée avec les seules ressources d’une psychologie assez élémentaire. Le mot ‘métaphysique’ a de nos jours une rigueur toute différente. 2 C. BRUAIRE, La dialectique, Paris, PUF, 1985. Selon Bruaire, chez Aristote et contrairement à Platon, la dialectique a un rôle propédeutique et non démonstratif: “la dialectique ne mène plus aux rivages de la contemplation, de l’intelligence immédiate, intuitive, du vrai. Elle les explore indéfiniment sans jamais les découvrir assurément” (27-28). Cependant, puisque les oeuvres du Stagirite commencent souvent par une enquête dialectique, celleci ne peut pas être tenue pour secondaire, un vain chemin d’opinion; un événement de vérité s’y produit nécessairement. De fait, la dialectique a “deux titres de noblesse: elle est investigatrice, en débat discursif, et elle fait saillir 1

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ces instruments d’inspiration aristotélicienne, mais en assumant la philosophie contemporaine, je souhaite déployer l’essence rationnelle du pardon. Puisque je me situe dans le domaine philosophique, je ne parlerai pas de péché. Le mot ‘péché’ est en effet réservé à un événement qui se produit entre une personne et Dieu. Certes, le mot ‘Dieu’ a site en philosophie, mais il n’est pas tout à fait clair ni sûr qu’il ait le même valeur qu’en théologie. Pour éviter toute ambiguïté, et dans l’impossibilité d’entrer dans la question des relations complexes entre la philosophie et la théologie, je laisserai de côté la réflexion sur le péché comme tel, mais j’assumerai plutôt le vocabulaire contemporain de la faute et de la culpabilité. Je me concentrerai sur le thème du pardon. Nous verrons comment s’y inscrit, mais à un second moment, la question de la faute et de la culpabilité. Je parlerai donc d’abord d’un pardon sans faute à pardonner. La culture contemporaine récente nous permet un telle organisation, originale pour la tradition, de la réflexion. Par ailleurs, si la documentation philosophique sur la faute et la culpabilité est importante, quasi sans fin3, depuis toujours quant à la faute, depuis Freud quant à la culpabilité, le thème du ‘pardon’ est par contre étudié plus récemment du point de vue spéculatif. On peut tirer d’auteurs contemporains des éléments pour une réflexion radicale, métaphysique en ce sens, à son propos. Le thème du ‘don’ se trouvera à notre point de départ. Il a été beaucoup travaillé depuis que Heidegger a entrevu dans le mot ‘être’ la signification d’‘être donné’. Le phénomène du ‘don’, évoqué par l’expression allemande es gibt4, a donné lieu à de nombreux commentaires philosophiques, surtout de langue française (je pense à Bruaire5, à Marion, et évi-

les oppositions par leurs conséquences respectives. Deux vertus de la pensée qui lui permettent de juger convenablement, quand la science est muette” (33). La science du principe ou la métaphysique ne peut qu’être d’abord dialectique, puisque le principe n’est pas l’objet d’une évidence immédiate. 3 Cf. par exemple P. RICOEUR, La symbolique du mal, Paris, Aubier, 1960, 99-144. 4 Es: ‘cela’; geben: ‘donner’. 5 Cf. P. GILBERT, “L’acte d’être: un don” in Science et Esprit 41 (1989) 265-286.

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demment à Derrida6). Or l’étude du ‘don’ déploie inévitablement un ensemble de données rationnelles dont la compréhension du ‘pardon’ a besoin pour acquérir un sens complet, et profondément humain. Nous verrons donc comment le thème contemporain du ‘don’ éclaire celui du ‘pardon’, qu’il porte à sa plus haute signification. Mon exposé progressera en quatre sections: je parlerai d’abord (1-), d’un point de vue étymologique, du pardon, puis (2-) du don dont l’idée impose la possibilité de la faute, ensuite (3-) de la gratuité qui va du don au pardon, et enfin (4-) de la forme temporelle nouvelle dont témoigne la miséricorde.

1. L’invention du mot ‘pardon’ Je m’attacherai maintenant aux significations que comporte le mot ‘pardon’. En général, nos mots sont riches de l’expérience des générations qui nous ont précédés et qu’ils expriment en les systématisant plus ou moins consciemment de manière cohérente. L’analyse étymologique d’un mot et de sa cohérence interne ouvre ainsi l’intelligence à la profondeur de l’expérience des siècles antérieurs et des traditions qui s’y sont concentrées. Ces considérations générales valent aussi pour le mot ‘pardon’. Le mot ‘pardon’ vient du latin médiéval. Auparavant, on ne disait pas ‘pardonner’, mais donare ou condonare. Alain Gouhier a décrit comment on est passé du donare antique au perdonare médiéval. Retraçons ce chemin. Le mot donare signifie avant tout “donner une faveur”, celle-ci pouvant être une terre ou une grâce, sans contrepartie et sans raison préalable, sans intention de recevoir quelque chose en retour; il signifiait aussi ‘avoir de l’indulgence’. Ce dernier cas s’est spécialisé par la suite et a été à l’origine de la création du verbe condonare. Voici une description, brève mais précise, par laquelle Gouhier fait comprendre cette caractéristique essentielle du condonare: Si la “faveur consiste à laisser à autrui ce qu’il me devait, sa dette, je lui

Cf. J.L. MARION, Étant-donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Paris, PUF, 1997; J. DERRIDA, Donner le temps. I. La fausse monnaie, Paris, Galilée, 1991; ID., Donner la mort, Paris, Galilée, 1999. 6

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‘donne’ en quelque sorte ce qu’il devait me ‘donner’”7. Le verbe condonare signifie donc ‘abandonner un dû’, le con prolongeant et redoublant le geste du premier donare. Mon débiteur me doit par exemple une certaine somme d’argent; cette somme, qui est ma propriété, je la lui abandonne définitivement en renonçant à mon droit sur elle; que mon débiteur garde donc pour lui ce qui m’appartenait. Mais dans ce redoublement du donare, se joue un phénomène qu’ignore le simple donare économique: le phénomène de la relation des libertés. Le verbe condonare accentue en effet une nuance de spiritualité; il signifie veniam dare, donner une grâce, une faveur, et indique par là le sens proprement humain du premier donare8. Le mot condonare va donc insister sur l’humanité du don en déployant l’idée d’un don qui se redouble en anéantissant le devoir de rendre au donateur ce qu’il a donné. En fait, déjà au temps de Cicéron, on remettait une dette en exerçant ce genre de purification. La dette pouvait être matérielle, mais aussi morale, ou même une faute: condonare crimen9. On passait ainsi clairement au domaine éthique et à ses structures originales, distinctes des nécessités cosmiques. La faute peut en effet rendre nécessaire une réparation équivalente si on y voit seulement un événement physique: après un manque de ce genre, il faut rétablir l’équilibre perdu. Or c’est précisément cette réparation physique qui est ‘rendue’ au fautif dans un acte riche de sens humain: le bon vouloir se substitue à la nécessité. ‘Condonare volontiers’ témoigne certainement de la générosité du donateur, mais cela renvoie aussi le fautif à l’intelligence d’un non-dû, et par là à la conscience de son humanité et de sa responsabilité personnelle. Il lui fait reconnaître qu’il est capable de répondre librement de ses actes; il exige de lui, en conséquence, qu’il

A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, Paris, Epi, 1969, 34. La langue italienne exprime fort bien cette différence en distinguant dare et donare, le second terme ayant une nuance nettement anthropologique: il en appelle à la liberté. En français de même, mais dans une langue plus littéraire que populaire, on distingue ‘donner’ et ‘faire don’. 9 CÉSAR, Guerre des Gaules, I, 20, 5 (“rei publicae iniuriam [...] condonet”) et 6 (“se Diuiciaco fratri condonare dicit”); SALLUSTE, La conjuration de Catilina, 52, 8 (“haud facile alterius lubidini malefacta condonabam”). 7 8

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rende en fait plus que sa faute matérielle, qu’il convertisse son humanité intérieurement autant, sinon plus, qu’extérieurement10. On retrouve cet éveil à elle-même de l’humanité libre dans l’expression commune: “se donner la peine de ...” pour répondre à quelque inviation, même heureuse. L’effort à déployer est à la mesure de la bonté du don. Il ne suffit pas que le fautif soit acquitté de sa dette tout simplement, sans aucun événement nouveau de sa part, sans aucun changement intérieur réel ou raisonnablement possible. Il ne suffit pas qu’il rétablisse un ordre cosmique et un équilibre des forces. Il faut qu’il “se donne la peine de ...”, qu’il s’engage effectivement et librement. L’imputation éthique libère progressivement les verbes donare et condonare de leurs significations uniquement physiques. Voilà pourquoi, petit à petit, on ne dira plus pour quelle raison précise on “donne la grâce”, de telle sorte que se créera un espace “pour le sens infini d’une telle proposition, car au moment où l’on ne désigne plus ce qui est dû, cette indétermination ouvre la réflexion sur une infinité de désignations possibles”11. Cette infinité, signe de la liberté humaine, peut être extensive, indicative de la grande inventivité de ceux qui, grâce à l’éthique de la responsabilité, “se donnent la peine de ...”, mais aussi intensive. On en arrive alors à créer le mot perdonare, où le per, “préverbe ‘augmentatif’ ou ‘intensif’, [signifie:] ‘complètement’ ou ‘entièrement’”12. ‘Pardon’ équivaut donc à ‘don parfait’ et met en jeu l’intériorité radicale de la personne, sa capacité à prendre la responsabilité de son don et à engager des relations intersubjectives neuves. Alain Gouhier signale deux problèmes contigus à celui que nous venons d’analyser. Le latin classique connaît condonare, mais non pas perdonare; pourquoi a-t-il fallu créer ce nouveau mot si tard? Par ailleurs, le latin médiéval populaire ne fait jamais de Dieu le sujet de perdonare, alors que pour nous, lec-

10 Cette expérience fait écho à l’expression de saint Paul: “là où le péché s’est multiplié, la grâce a surabondé” (Rm 5:20). 11 A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 35. 12 Ibid. Sur la même base linguistique, on construit l’extensif ‘parfait’ à partir de ‘fait’.

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teurs modernes de Luc 5:2113, il est évident qu’Il en est le premier sujet. Ce second problème est aisé à résoudre. Le mot perdonare arrive pour la première fois dans un écrit populaire, la traduction par un certain Romulus d’une fable d’Ésope, autour des années 400; l’expression classique aliquem incolumitate donare, qui signifie “donner la vie sauve à quelqu’un”, y devient vita incolumitate perdonare. Le mot perdonare signifie ainsi la remise d’une dette sévère, in casu la remise de la peine de mort. “Ainsi donc, perdonare débute sa carrière le jour où il signifie, dans la tradition populaire, la grâce suprême, la rémission de la peine suprême”14. Par la suite, le mot ‘pardon’ prendra une nuance de plus en plus juridique, jusqu’au perdonum maximum qui, en 1349 et 1392, lors des premières années jubilaires de l’Église romaine, sera déclaré pardon suprême ou “indulgence plénière des péchés que concède le Souverain Pontife”. Mais de là à faire passer le perdonare populaire et juridique dans la théologie, il y a un pas qui n’a pas été franchi avant longtemps: un mot qui énonce la capacité qu’a l’homme de pardonner a connu des résistances dans son application ‘théologique’ à Dieu15. Venons-en maintenant au premier problème. D’où vient le mot perdonare, utilisé seulement vers 400? Ce ne peut pas être des versions latines de la Bible de l’époque. En effet, dans son Apologie du Prophète Daniel (n° 62) des années 390 par exemple, Ambroise dit, à propos du péché, qu’il peut être “donné par grâce [donatur per gratiam], effacé par le sang ou couvert par la charité”; ce que nous nommons ‘pardon’ est donc ici ‘don par grâce’. En fait, l’entrée tardive du terme perdonare dans la langue officielle peut s’expliquer, selon Gouhier, de cette manière: ce mot existait au sens intensif dans la langue populaire, ce dont témoigne la traduction de la fable d’Ésope qu’on vient d’évoquer; la langue juridique s’en est approprié ensuite, lorsqu’elle a dû exprimer une réalité humaine que les auteurs classiques ne nommaient pas adéquatement. En fait, la langue populaire

“Qui peut remettre les péchés, sinon Dieu seul?” A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 36. 15 Le mot n’entre pas dans l’index de la Somme théologique et de la Somme contre les Gentils de l’Aquinate publié par la Commission Léonine en 1948. 13 14

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antique était riche, sans doute plus riche que la langue codifiée des savants; des témoignages littéraires le prouvent: pensons aux fables, aux histoires d’amour courtois, aux expressions spontanées qui libèrent une intelligence profonde mais enveloppée des libertés. De là la proposition de Gouhier. Dans le roman et le latin populaire, le mot “‘pardonner’ remplit de nouvelles fonctions, celle des relations interpersonnelles, de l’intersubjectivité; il entre dans le vocabulaire des sentiments, de l’amour, de la ‘réciprocité des consciences’. Il se met à signifier des relations de gratuité”16. On peut donc conclure que “le latin parlé, le roman avant ses premiers ‘codages’ en langue écrite, a peut-être aussi connu le pardon de Dieu”17. Les chrétiens savent que Dieu pardonne; les théologiens aussi, évidemment, mais ils doivent chercher une expression pour fixer ce savoir dans leurs codes. Voilà pourquoi pendant tout un temps, ‘donner’ a coexisté avec condonare dans le langage savant, et avec perdonare dans le langage populaire et juridique; ce n’est que petit à petit que les expressions les plus pures de la gratuité du don se sont installées dans la langue des théologiens.

2. Le don et la faute Comme le mot ‘pardon’, le mot ‘don’ a une longue histoire, plus longue encore, car indo-européenne; il renvoie lui aussi originellement à la bonne volonté. Émile Benvéniste a décrit son invention d’une manière qui en manifeste le sens profond. Le latin donum appartient à une grande famille linguistique dont la racine commune, dâ (latin: donum; grec; dw`ron; l’arménien: tur; le slavon: daru), indique un désintéressement relatif qui détermine a priori les notions de l’économie. “L’activité d’échange, de commerce se caractérise d’une manière spécifique par rapport à une notion qui nous paraît différente, celle du don désintéressé; c’est que l’échange est un circuit de dons plutôt qu’une opération proprement commerciale”18. L’analyse permet de voir que, pro-

16 17 18

A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 37. Ibid. É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes. T. 1.

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gressivement, s’accentue la dimension de désintéressement intrinsèque au ‘don’, contrairement à la réciprocité caractéristique de l’origine. Benvéniste interprète en ce sens un vers d’Hérodote qui utilise l’adverbe dôreá: “par don, par un don, gracieusement, pour rien”. Ce qu’on précise comme suit: “dôron est le don matériel, le don même; dôreá, le fait d’apporter, de destiner comme don”19. Le don est dès lors pensé de manière très articulée; il est l’acte de donner plutôt que le résultat ‘objectif’ de cette action. Le mot dósis précise cette nuance; il renvoie à une pratique de ce genre: “on demande un volontaire pour une mission périlleuse; on lui promet qu’il aura une bonne dósis, non pas un dôron, car l’objet même du don n’existe pas. Dósis est donc ‘l’acte de donner’. La formation en acte définit en effet un accomplissement effectif de la notion, qui peut ainsi, mais non nécessairement, se matérialiser dans un objet”20. On ne peut pas mieux distinguer l’acte de donner et l’objet donné, le mot ‘don’ valant ici pour ‘donner’ plutôt que pour ‘donné’21. Un dernier terme: le mot dôtiné, qui est lié à la crainte révérencielle ou à la pression d’un contrat, signifie pour sa part que “la valeur attribuée à quelqu’un se mesure aux offrandes dont on le juge digne”22; en d’autres termes, il désigne “un don en tant que prestation contractuelle, imposée par les obligations d’un pacte, d’une alliance, d’une amitié, d’une hospitalité”23. Le don est ici tout le contraire d’une expression digne des libertés en relation; il confond l’échange par contrat et la crainte des puissants. Les conclusions du linguiste français sont amples et donnent du souffle; elles permettent de mesurer et de contester les analyses de Marcel Mauss sur le ‘don’24. Pour le sociologue fran-

Économie, parenté, société, Paris, Minuit, 1969, 66-67. Sur le même thème, cf. ID, “Don et échange dans le vocabulaire indo-européen” dans ID., Problèmes de linguistique générale, Paris, Gallimard, 1966, 315-326. 19 É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire, 67. 20 Id., 67-68. 21 Ces nuances font que le thème traité dans cet article a une importance décisive pour la métaphysique de l’‘acte d’être’, qu’on distingue du ‘fait d’être’. 22 É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire, 69. 23 Ibid. 24 M. MAUSS, “Essai sur le don” dans ID., Sociologie et anthropologie, Paris, PUF, 1950, 143-279 (le texte original est de 1925).

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çais, à tout don correspond un contre-don, de sorte que ‘donner’ et ‘rendre’ forment une nécessité qui s’impose réciproquement au donateur et au donataire; le but serait de maintenir quelque harmonie universelle répétée indéfiniment sans véritable déploiement nouveau ou créatif. Ce n’est pas un des moindres mérites de la recherche contemporaine que de mettre l’accent sur la liberté originaire du don, sur le don fait simplement pour donner, un don qui n’a pas d’autre raison d’être que son être en acte. Or, comme le montre de manière étonnante l’histoire du lien de ‘don’ à ‘pardon’, l’idée de faute naît dans la foulée de celle du don originaire, du dôreá qu’Aristote définissait comme un dovsiı anapovdotoı25, un don qui semble n’imposer aucune obligation en retour, mais qui se crée effectivement des ‘obligés’, qui éveille ainsi, sur fond de l’harmonie universelle exigée par la raison humaine, le sens d’un dû impossible à rendre, d’une faute par là ‘impardonnable’, car précédée indéfiniment par une origine à jamais inaccessible, impossible à répéter en son originariété. Pour approcher l’idée difficile et inquiétante de ‘faute’ qui surgit ainsi de l’idée de ‘don’26, idées que contient en elle celle de ‘dette’, nous devrons approfondir plus tard le sens de ‘gratuité’. Il nous suffit de signaler maintenant que cette idée implique celle d’une relation sans cause ou condition. L’idée de pardon est liée à cette idée: au pardon demandé par l’offensant doit correspondre la réponse libre et inconditionnée, gracieuse, de l’offensé27. L’exemple le plus banal du pardon nous est donné par la

ARISTOTE, Topiques 125a18: “Un don [dôrea] est une prestation [dósis] que l’on n’a pas à rendre”. 26 Notre culture occidentale, qui entend le ‘don’ à la manière économique de Mauss, ne peut pas y voir le lieu d’émergence d’une faute, car le ‘don’ semble ne plus avoir le sens d’une valeur. Il serait bon de lire à ce propos “Paysage sublunaire et atonal. Entretien avec Jean Baudrillard” dans O. ABEL (éd.), Le pardon. Briser la dette et l’oubli, Paris, Éditions autrement, 1993, 34-41. Notre monde est devenu indifférent à tout. “Le jeu de l’indifférence, c’est celui de l’indétermination” (36), déclare Baudrillard; il n’y a plus ni bien ni mal. 27 De là les éléments essentiels du pardon: “le vrai pardon est un événement daté qui advient à tel ou tel instant du devenir historique; le vrai pardon, en marge de toute légalité, est un don gracieux de l’offensé à l’offenseur; 25

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remise d’une dette impossible à payer ou d’une dette payée par le créditeur avant que son débiteur ne puisse le faire entièrement. Le pardon ainsi illustré semble remplacer par un acte libre du donateur le devoir que le débiteur ne peut pas remplir actuellement, qu’il ne pourra peut-être jamais accomplir. Le ‘perdonnant’, au sens fort du terme, anticipe en ce sens le temps de la restauration d’un équilibre économique ou autre. Le pardon devance de quelque manière le cours normal des choses. Mais cette anticipation pourrait manquer de droiture éthique si le ‘perdonnant’ se substituait tout simplement au débiteur sans lui laisser l’occasion d’affirmer ses responsabilités. Elle pourrait même comporter une contradiction interne si elle signifiait que le créditeur pouvait rétablir l’ordre qui précède l’offense, celui de l’égalité des personnes, dans un système qui ignore qu’un équilibre a été réellement rompu à cause du débiteur et qu’il appartient à toutes les libertés d’agir pour le rétablir. Le créditeur qui entend rétablir par son seul pardon l’ordre rompu par la faute de son débiteur estime que cet ordre dépend de son seul acte libre, que son débiteur n’y a aucun rôle irremplaçable, qu’il peut rétablir par sa seule volonté toute-puissante un ordre nécessaire ou cosmique dont il dictera les règles. Toutefois, ce faisant, le créditeur vit une contradiction puisqu’il ne peut pas ne pas reconnaître que l’ordre a été effectivement perturbé auparavant et que s’il requiert par après un apurement de la dette, un pardon, c’est parce que la perturbation résulte foncièrement d’actions libres. Le pardon véritable ne peut pas ignorer que l’ordre humain dépend des libertés effectives. Il doit donc se déployer en renonçant à la seule nécessité de la succession temporelle et à l’équilibre univoque des forces cosmiques; il ne peut pas se contenter de l’action d’une seule personne qui se prétendrait susceptible de se substituer à l’autre. Hannah Arendt a mis en évidence le fait que le pardon introduit une rupture dans la destinée du temps. Le pardon met en effet un point d’arrêt aux conséquences des actes blessants28. Mais il ne peut pas y

le vrai pardon est un rapport personnel avec quelqu’un” (V. JANKÉLÉVITSCH, Le pardon, Paris, Aubier-Montaigne, 1967, 12). 28 “Si nous n’étions pardonnés, délivrés des conséquences de ce que nous avons fait, notre capacité d’agir serait comme enfermée dans un acte

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avoir là une simple restauration de la justice initiale. Le pardon, plus radicalement que cette modification de la temporalité linéaire, met en jeu des actes libres et originaires, hors du temps et du cosmos29. Le pardon donné implique la reconnaissance de la liberté de l’offensant. De même, le pardon demandé par l’offensant implique la reconnaissance de la liberté de l’offensé, de son don antérieur, sans chercher à rétablir dans son état précédent l’ordre déstabilisé. Le pardon doit être librement demandé avant d’être donné librement, sans quoi, comme nous l’avons vu il y a un instant, il n’aurait pas de sens à être offert par l’offensé. Quand l’offensant demande pardon, il fait appel à la magnanimité de l’offensé, car il sait bien que son offense n’a pas détruit en celui-ci la liberté et la capacité d’initiative, ni non plus sa propre liberté. Savoir que l’offensé puisse faire un don nouveau en pardonnant librement l’offensant conditionne la demande de pardon de ce dernier. Mais ne pourrait-on pas objecter alors que le pardon demandé, s’il sollicite la surabondance du don originaire en vue de supprimer la faute, tend à récupérer in extremis ce que l’offense a mis en échec? S’il y a eu faute, c’est parce que le don a été contredit. Le pardon demandé, comme le pardon donné, pourrait bien exprimer alors, de nouveau, le simple désir de rétablir quelque ordre antérieur. Toutefois, cet ordre ne pourra plus être à l’image de la nécessité mécanique du cosmos; il résultera plutôt des libertés qui se seront reconnues à l’origine d’elles-mêmes et de leur don; il sera l’ordre de l’intersubjectivité première.

unique dont nous ne pourrions jamais nous relever; nous resterions à jamais victimes de ses conséquences, pareils à l’apprenti sorcier qui, faute de formule magique, ne pouvait briser le charme” (H. ARENDT, La condition de l’homme moderne, Paris, Calmann-Lévy, 1983, 266-267). 29 H. Arendt le note également, en opposant ‘pardon’ et ‘vengeance’: “Par opposition à la veangeance, qui est la réaction naturelle, automatique à la transgression, réaction à laquelle on peut s’attendre et que l’on peut même calculer en raison de l’irréversibilité du processus de l’action, on ne peut jamais prévoir l’acte de pardonner. C’est la seule réaction qui agisse de manière inattendue et conserve ainsi, tout en étant une réaction, quelque chose du caractère original de l’action” (Id., 270-271)

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Nous tenons par hypothèse que le don initial est par essence libre et intersubjectif, que la demande de pardon en révèle la saveur, qu’il a un sens avant toute gratification économique, avant toute célébration de la magnificence de quelque puissant donateur, qu’il rompt en ce sens l’ordre matériel et qu’il provoque par conséquence un désordre originel30. Le pardon offert ou demandé ne peut pas résorber ce désordre en visant un ordre ou un équilibre qui ignorerait la liberté créatrice du don intersubjectif originaire. Ce serait le cas si le pardon demandé s’avalisait d’excuses31; il ramènerait ainsi les éléments déséquilibrés au sein d’une structure stable qui aurait la capacité de les absorber rationnellement. Ce serait la même chose si le pardon donné consistait à effacer entièrement l’offense subie, à l’‘oublier’. Pour que le pardon soit fidèle à son essence, il faut plutôt qu’il soit donné sans raison, pour rien, non pas pour ‘réduire’ l’offense ‘à rien’. Le pardon coexiste donc fort bien avec la mémoire de la faute passée. Le don du pardon perfectionne même à ce moment le donateur et le donataire en signifiant que le don est donné fidèlement, malgré l’offense qui, ‘accomplie’, ne pourra plus jamais être niée. La perfection du don, c’est sa libre fidélité envers l’infidèle. Par souci de cohérence, nous devons même ajouter que le don parfait, ou le ‘pardon’, ne doit pas attendre la demande de pardon de l’offensant; il convient qu’au contraire l’offensé prenne l’initiative de pardonner avant même que l’offensant, humilié par son offense, ne s’adresse à lui32. Le pardon,

30 Telle est la raison pour laquelle la justice et le pardon s’opposent, du moins si la justice est pensée à la manière d’un équilibre cosmique, ce qu’implique sa définition en termes de distribution: “À chacun selon son dû”, en fait à chacun selon le déploiement de sa force active dans l’équilibre du monde. 31 “L’excuse ne pardonne qu’en se dépassant et en allant trop loin. Mais dans la mesure où elle est purement intellective, elle ne va, au contraire, pas assez loin; dans la mesure où elle est en retrait sur le pardon proprement dit, elle manque de générosité” (V. JANKÉLÉVITCH, La pardon, 123). 32 La radicalité paradoxale de cette proposition rejoint ce que dit Derrida du don: “Il n’y a de don, s’il y en a, que dans ce qui interrompt le système ou aussi bien le symbole, dans une partition sans retour et sans répartition, sans l’être-avec-soi du don-contre-don. Pour qu’il y ait don, il faut que le donataire ne rende pas, n’amortisse pas, ne rembourse pas, n’acquitte pas,

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pour être véritablement la perfection du don, devrait se donner à l’offensant qui ne l’a pas encore demandé, et qui peut-être ne le demandera jamais – le don sera à cette condition fidèle à son originariété. “Je n’ai pas besoin de l’aveu de l’autre pour lui pardonner”33, déclare Stanislas Breton. Mais y aura-t-il jamais un pardon donné d’une manière aussi abrupte? Est-il même utile de pardonner si l’offensant n’a pas reconnu sa faute? En fait, le pardon donné aussi gratuitement courra le risque de se substituer à l’offensant sans lui demander son avis. Cette interprétation du don gratuit rationalise l’action de pardonner et suppose que le pardon ramènera un équilibre qui n’aurait jamais dû connaître de désordre, c’est-àdire de liberté essentielle. Cette interprétation contredit la structure essentielle du don et du pardon. En outre, un pardon gratuit qui ne tient pas compte de la conscience de l’offensant et de sa demande réelle de pardon, consentira-t-il à l’offensé de ne rien modifier de son comportement envers celui qui l’a blessé? Certes pas. La prudence requise après l’affront ne pervertit pas le pardon donné d’une manière voilée en espérant la conversion de l’offensant, mais elle permet de vivre humainement ce pardon. La prudence et le retrait de l’offensé, la mise en réserve (mais non pas la négation) de sa disponibilité envers l’offensant, sont des signes d’un pardon efficace, mais qui n’est pas encore plénier. Le pardon donné ne peut pas absorber l’offensant dans la source du don, dans la volonté du donateur. Un tel processus ferait d’ailleurs remonter la faute jusqu’au niveau du don originaire; il exigerait que soit nié le désordre qu’entraîne le don; il pervertirait ainsi radicalement le donateur, et donnerait un succès final à l’offense. Le pardon de l’offensé qui se contente de

n’entre pas dans le contrat, n’ait jamais contracté de dette” (J. DERRIDA, Donner le temps, 25-26). Un vrai don ne peut même pas être perçu comme don. Si le donataire “le reconnaît comme don, si le don lui apparaît comme tel, si le présent lui est présent comme présent, cette simple reconnaissance suffit pour annuler le don” (26). 33 “L’autrement du monde. Entretien avec Stanislas Breton” dans O. ABEL, Le pardon. Briser la dette et l’oubli, 105. Voir aussi de S. BRETON, “Grâce et pardon” dans Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 70 (1986) 185-196.

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rétablir le monde défait par l’offensant ne peut y parvenir qu’en détruisant le don lui-même; l’effort de restaurer l’état antérieur stable ne peut être qu’une feinte, et donc une corruption du don originaire. L’offensant qui attend qu’un nouveau don de l’offensé répare l’équilibre initial qu’il a rompu suppose semblablement que le don, source de désordre à cause de sa liberté, puisse ne pas avoir eu de force libre et puisse maintenant être annihilé. Étrange résultat: la réponse du donateur au pardon demandé pourrait annihiler son don et tout être de pardon. Nous serions alors livrés au nihilisme, à l’effondrement du sens de tout acte de don, de pardon demandé et de pardon donné. Le pardon authentique ne cherche aucunement à rétablir un équilibre naturel antérieur qui, par ailleurs, n’a jamais existé. La question est de savoir comment faire en sorte que, dans le pardon demandé et donné, subsiste la liberté du don. En fait, l’ordre lui-même résulte du bon vouloir des libertés. L’origine est don, exception, création nouvelle, désordre. Le pardon demandé et donné, au moment même où il s’imagine revenir à un état antérieur comme s’il n’y avait là aucun manque, souligne a contrario que cet état antérieur est lui-même restauré grâce au don actuel des libertés les unes aux autres34. L’ordre résulte des dons, sans les précéder; au maximum, il les médiatise. En ce sens, le pardon voulu par les deux parties, l’offensé et l’offensant, et sous la condition de renoncer à quelque restauration que ce soit, ‘parfait’ réellement le don initial de chacun en l’accomplissant en intersubjectivité librement consacrée. Le pardon révèle que toute relation humaine demeure dans l’ordre des libertés, et que le temps et le monde résultent de leurs initiatives sans nécessité et de leur reconnaissance mutelle. De nombreux thèmes philosophiquement essentiels se retrouvent ici, surtout celui, contemporain, de la dette de soi35;

34 En ce sens, l’idée d’un dépassement du ‘péché’ par ‘retour’ à l’origine, idée quasi plotinienne habituelle dans de nombreux textes sacrés, doit être entendue avec prudence (cf. P. RICOEUR, La symbolique du mal, 78-81). 35 Ce point a été travaillé profondément par C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, Paris, PUF, 1983, 51-64 (“Ontodologie”). En déployant la structure fondamentale de l’expérience réflexive, l’Auteur écrit ceci: “la conversion contractive substantielle n’est mouvement en forme d’assomption de soi que dans le

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ce thème concerne aussi bien le donateur offensé que le donataire offensant. Le présent ou l’actuel renvoie à un don initial, à un principe premier généreux, que recueille une sorte d’‘archéologie’. L’expérience du don absolument premier est pour chacun de nous, d’un point de vue phénoménologique, celle de notre engendrement par (ou ‘à partir de’) nos parents que nous sommes pas, qui sont radicalement ‘autres’ que nous36. La vie humaine naissante est jetée au monde, littéralement. Bien sûr, nous expérimentons dans la mort qui vient la fin de nos possibilités, ou la possibilité ultime qui révèle par son scandale que nous sommes faits pour plus que l’empirique sensible37. Mais cette possibilité que nous sommes est conditionnée antérieurement à nous, et non seulement dans l’au-delà téléologique de notre monde et des étants que notre intelligence transcende. D’ailleurs, nous ne nous sommes pas ouverts de nous-mêmes à notre possible; nous le projetons en ayant été d’abord jetés au monde à l’instant de notre engendrement sans que nous l’ayons choisi. De là le sentiment que la vie est tragique, un sentiment qui n’est pas la seule angoisse de la mort, mais le savoir intérieur d’être en dette de soi-même, d’être dès l’origine inadéquat à soi. J’ai reçu la vie que je peux transmettre, mais je ne peux pas la rendre à ceux qui me l’ont donnée. En effet, rendre la vie à ceux qui me l’ont donnée, ne serait-ce pas, littéralement, mourir? Mais ma mort, si elle paie ma dette de vivre, nie la vie qui m’a été donnée. Je suis en dette d’être, et je ne peux rendre la vie qu’en vivant et donnant la vie après moi, sans jamais revenir en arrière. Le don que je suis à moi-même ne pourra être rendu que sous la forme d’un don parfait, d’un ‘pardon’ sans retour à son origine; en engendrant moi-même, en donnant la vie, je perfectionne le

temps où, en contre-courant, de soi à l’autre, du même que soi à l’origine autre, il est effusion, en forme d’ouverture, de diffusion, de reddition de soi. Ce qui se comprend d’une seule façon: l’épreuve de la tache aveugle, à l’arrière, à l’origine de l’être est celle de l’être-en-dette de lui-même” (60). 36 Cf. G.C. PAGAZZI, ““Unico Dio generato” (Gv 1,18). Idee per una cristologia del ‘Figlio’” dans Teologia 23 (1998) 66-99 (surtout 70-77 sur “La rimozione della nascita” dans la culture contemporaine). 37 Cf. M. HEIDEGGER, Être et temps, § 40-41.

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don et ‘pardonne’ le don de ceux qui m’ont engendré. Ce pardon, bien sûr, est à comprendre selon la signification qui nous lui avons accordée dans la première section de cet article. Il parfait le don reçu en le multipliant. Il n’a rien à voir avec un échange contractuel, avec la réciprocité neutralisante d’un contre-don38. Le pardon éthique ne paie rien pour annuler la dette d’être. Non seulement, bien sûr, aucun argent neutre et indifférent aux personnes ne peut restaurer la stabilité perdue définitivement par l’avènement généreux du don de la vie, mais aucune sorte de contre-don ne pourra prendre la même initiative que l’initiative de ceux qui ont donné la vie et engendré. Le pardon ne peut que consister au contraire à multiplier le premier don reçu, c’est-àdire à le donner à d’autres, et puisque le premier don est de donner la vie à un autre, le ‘pardon’ sera de donner la vie à de nouvelles personnes. C’est alors seulement que le don réussira, quand il donnera “ce qu’on n’est pas”39, d’être autre. Pour être droit, le pardon ne peut pas neutraliser le don mais l’achever en ‘redondance’, en donnant à nouveau la vie à un autre, tout comme le donateur l’a donnée en se perdant en quelque sorte dans un autre que soi. Ainsi, ni le don ni le pardon ne pourront jamais s’éteindre. Jamais la dette d’être ne sera effacée. La dette d’être, pour la conscience qui met en oeuvre toutes les puissances formalisantes de son intelligence, est insuppor-

Bruaire s’oppose fortement à Mauss sur ce point: “Et de même que nous trahissons le don par l’image de la chose préalable transférée d’un propriétaire à l’autre, la somme virée d’un compte à l’autre, nous faisons contresens [...] en imaginant une dette d’être en peine de s’honorer comme un transfert en retour, une dépossession en échange” (C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, 61). 39 Selon Bruaire, “il ne s’agit pas, pour payer sa dette, de rendre tout ou partie de soi, ce qui reviendrait à déposer hors de soi sa propre substance, à déposer le même que soi, à donner quelque chose de ce qu’on a. Payer la dette qu’on est, c’est donner l’autre, honorer l’altérité, donner ce qu’on n’est pas” (Id., 61). Cette idée rejoint ce que disait Gilson de l’émanation en la distinguant de la participation: “Dans une doctrine de l’Être, l’inférieur n’est qu’en vertu de l’être du supérieur. Dans une doctrine de l’Un, c’est au contraire un principe général que l’inférieur n’est qu’en vertu de ce que le supérieur n’est pas; en effet le supérieur ne donne jamais que ce qu’il n’a pas, puisque, pour pouvoir donner cette chose, il faut qu’il soit au-dessus d’elle” (É. GILSON, L’être et l’essence, Paris, Vrin, 1948, 42). 38

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table. Elle exige trop. De là sans doute un sens naturel de la faute40, issu de la perception d’une contradiction intérieure à l’humanité. L’expression du don reçu est étrangement comme une expérience native d’un mal impardonnable. Hannah Arendt disait qu’il doit y avoir un lien entre le pardon et le châtiment, car “les hommes sont incapables de pardonner ce qu’ils ne peuvent punir [et ils sont] incapables de punir ce qui se révèle impardonnable”41. La dette d’être ne sera jamais payée au donateur, ‘punie’; de ce point de vue, elle restera toujours impardonnable. Pourtant, n’est-ce pas la vie elle-même qui rend impossible le retour de la vie reçue? Nous apercevons maintenant de plus en plus l’ambiguïté pesante de l’être en dette, une situation qui peut basculer en offense radicale si elle exige un retour au donateur, mais qui peut au contraire devenir béatifiante si elle rayonne en nouveau don de vie, si elle ne paie rien au donateur. L’homme est destiné à se perdre lui-même pour donner la vie. Or ce destin est un choix; le ‘pardon’ est libre. Par son intelligence, l’homme est capable d’embrasser toutes les choses, de tout réduire aux mesures de ses désirs; la modernité a montré que rien, par principe, ne peut résister à son emprise et à ses entreprises. Mais la personne concrète, y compris le savant, ne naît jamais d’elle-même; elle a toujours été précédée par ceux de qui elle reçoit d’être; elle est toujours en dette d’être, une passivité originaire42. L’intelligence, et sa puissance transformatrice du monde, se connaît alors contredite d’une manière qui ne lui est pas secondaire, mais première. Faite pour produire l’universel et

Le mot ‘faute’ vient du participe passé du verbe latin fallere, qui signifie ‘faire glisser’, ‘induire en erreur’, ‘abuser’, etc. 41 H. ARENDT, La condition de l’homme moderne, 271. L’auteur renvoie dans la même page au mal radical de Kant et à ces offenses qui “transcendent le domaine des affaires humaines et le potentiel du pouvoir humain qu’elles détruisent tous deux radicalement partout où elles font leur apparition”. L’allusion à la ‘Shoa’ est limpide. 42 On devrait ouvrir un chapitre, très fondamental pour la pensée contemporaine, sur la passivité spirituelle. Cf. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, 367-409, où l’Auteur décrit “le trépied de la passivité, et donc de l’altérité” (368); à la fin de ce texte (402), en parlant de la conscience, Ricoeur renvoie à Heidegger (Être et temps, § 58) qui parle précisément de ‘dette’, selon la traduction hors commerce de Martineau. 40

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changer le monde, elle sait qu’elle a été d’abord donnée à ellemême, qu’elle doit d’abord se recevoir. Le travail de l’universel constitue sa raison d’être, son identité, mais elle ne s’y est pas disposée d’elle-même. N’ayant radicalement pas en soi sa raison d’être, l’intelligence reconnaît qu’elle doit choisir entre accueillir son origine ou se rebeller contre elle, la recevoir ou la subir, avant même de pouvoir poser ses projets savants et de les déterminer en conséquence. Dans l’histoire humaine, l’intelligence, en s’éveillant de ses songes de puissance, a perdu parfois sa clarté devant elle-même; il lui est arrivé de se rendre compte de son absence à elle-même, de s’inquiéter de soi. Elle a exprimé cette inquiétude de différentes manières, qui toutes renvoient aux limites de sa force, à la racine de sa passivité. Pensons au fleuve platonicien de l’oubli. L’intelligence est depuis toujours ‘passée’ de son origine à aujourd’hui. Une rupture la constitue intrinsèquement. De nombreuses cultures racontent l’origine de l’homme en représentant des tragédies sanglantes, des antagonismes fraternels insurmontables. Que ce soit la terre arrachée au dieu, que ce soit la femme séparée du côté de l’homme, que ce soit l’être humain condamné à ne pas disposer du vrai et du faux, l’homme, pour advenir, doit renoncer à sa paix, se séparer, se poser ‘différent’, entrer dans la solitude, loin des ‘autres’, du monde, d’autrui, des dieux. Pour s’unir à tout grâce à son intelligence formalisante et à la force de ses passions, il doit nier son être séparé; la compréhension entière est plus qu’une illusion: c’est une faute. Pour accéder au contraire à son essence, l’homme doit recommencer, après chaque emprise de son intelligence et de ses affections, à revenir à une séparation initiale, à y adhérer comme à une chose bonne, à choisir la solitude. En présence d’autrui, la séparation43 est le mode d’être originaire, la décision (mot qui vient d’une racine qui se retrouve dans cadere: ‘tomber’, de-cidere: ‘trancher’, ‘couper’) d’ouvrir en soi un espace de relations, de se retirer pour laisser du champ, de faire de soi un lieu d’accueil de l’universel étranger et, au bout du compte, d’accepter librement de se recevoir d’autrui pour donner la vie. C’est en effet quand je me déci-

43 Cf. les analyses sur la ‘séparation’ de E. LÉVINAS, Totalité et infini, Paris, Le Livre de Poche (Biblio), s.d., 111-126.

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de devant autrui, quand je choisis d’être limité par lui44, que je me choisis et parfait le don reçu, que je donne un espace pour accomplir le don qui me fait être, que je me pardonne d’être en acceptant de ne pas être tout-puissant, un pardon où je me reconnais donné à moi-même en donnant à autrui d’être.

3. La gratuité et la redondance Personne ne naît de soi-même. Sans doute, libre et responsable, chacun est-il autonome au sens où, nécessairement, pour être digne de soi, il doit se vouloir soi-même soumis à sa responsabilité, mais sans que cela signifie qu’il puisse tirer de soi, arbitrairement, tous ses principes et toutes ses déterminations. La réflexion ancestrale de l’homme sur lui-même lui a fait connaître que son savoir actuel ou présent n’est pas à la mesure des enjeux qu’il entend et proclame promouvoir. On a pu dire en ce sens que le kantisme posait la morale avant la science déterminante puisque la morale peut remonter jusqu’à un absolu et inviter à lui obéir tandis que la science doit se taire aux frontières du non-savoir, ne pas dépasser imprudemment ses bornes. Mais il faut nuancer cette interprétation du philosophe de Königsberg. En effet, si la loi de la morale l’emporte sur la loi de la science, ce n’est pas en abandonnant la raison derrière soi, mais parce que la raison scientifique ne conduit pas jusqu’au bout l’expérience que la raison a d’elle-même. En fait, la raison, même théorique, peut ne pas se vouloir cohérente avec ellemême, la plus universelle qui soit. Certes, la science cherche le plus universel, mais elle ignore qu’elle ne peut pas faire autrement, qu’elle ne dispose pas de son destin, et cette ignorance entraîne souvent l’échec ou les étroitesses de ses entreprises. La philosophie dit par contre à la science ses limites ou lui révèle ses conditions; de plus, elle n’outrepasse pas son essence quand

44 Cette limite ne se pose pas clairement devant le ‘monde’, qui demeure pour l’intelligence un espace à conquérir, sans vraie altérité. Pour l’homme, l’altérité insurmontable est une autre ‘liberté’, non pas une autre ‘chose’. Certes, le monde n’est pas seulement ce que je peux assimiler; il est aussi ‘don’ que je peux offrir à autrui.

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elle se veut conforme, plus que la science, au tout de la raison. L’expérience première, pour Kant, est celle du respect de la raison devant la loi universelle, c’est-à-dire devant elle-même en tant qu’elle ne dispose pas de soi. Il y a dans la raison une antériorité dont la raison scientifique n’a pas la maîtrise mais qui lui assigne sa dignité. La raison autonome s’identifie à sa tension vers l’universel; mais elle ne peut pas manier une telle ouverture; elle ne dispose donc pas de tous les termes de son acte; elle n’est pas vraiment indépendante. La loi exprime cette dépendance. Mais en entreprenant de ramener toutes les réalités aux constructions mesurées de ses représentations, la science peut ignorer que la loi s’impose à elle, précisément tant que loi, et qu’elle ne lui laisse pas des choix indéfinis. La raison devient digne de soi quand elle se veut autonome, mais non pas indépendante: elle se connaît alors réflexivement plus que représentative, donnée à elle-même autrement qu’à partir des réalisations de ses puissances conceptualisantes et schématisantes. Pour Kant, “la raison qui reconnaît que sa plus haute destination pratique est de fonder une bonne volonté, ne peut trouver dans l’accomplissement de ce dessein qu’une satisfaction qui lui convienne, c’est-à-dire qui résulte de la réalisation d’une fin que seule encore une fois elle détermine, cela même ne dût-il pas aller sans quelque préjudice porté aux fins de l’inclination”45. La fin de la raison est ici immanente à la raison, mais aussi plus que la raison. Cette ultériorité, que signale le terme de ‘bonne volonté’ appliqué à la raison elle-même, fait que cette dernière n’est pas sans connaître une manière d’acte libre, cette espèce d’option que Blondel a appelé “agnition”46. La raison doit se vouloir mise en vérité.

45 E. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Paris, Delagrave, 1969, 93-94. 46 M. BLONDEL, L’action I, Paris, Alcan, 1936, 353: “Comme il s’agit en somme de reconnaître ce qu’il y a d’essentiel, de hiérarchique, d’impérieux dans les vérités qui doivent orienter nos jugements pour gouverner notre vie, on pourrait peut-être emprunter au verbe agnoscere, puisqu’il signifie accepter la vérité d’un fait, d’un acte, d’une personne, le vocable formé avec son supin et présentant par là même une signification active”. Même s’il ne s’agit pas là d’une ‘option’ au sens strict, “puisque ce mot évoque trop une opération de la volonté” (ibid.), l’‘agnition’ est quand même “la reconnaissance qu’à travers les progrès de sa croissance mentale l’esprit humain aura à faire

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Or est-il si évident que la raison puisse s’accorder ainsi à son autonomie, qui n’est pas une indépendance ou une auto-position prétentieuse de soi par soi? Une tension intérieure constitue la raison, et la rend consciente de son inadéquation à soi. La raison sait qu’elle n’est pas à l’origine d’elle-même, qu’elle doit donc entretenir une préoccupation spéciale envers elle-même, assurer quelque rectitude qui lui est propre, non pas pour arriver finalement à égaler ses songes d’identité idéale, mais pour demeurer fidèle à sa nature. La raison est donnée à elle-même; la perfection de son don, son ‘pardon’ dans notre vocabulaire, est la fidélité au don qu’elle a reçu, en reconnaissant qu’elle n’a pas la maîtrise de son être, qu’il lui faut donc obéir à ce qu’elle est47. L’expérience de la raison rend témoignage à celle du don et du pardon. En fait, la raison peut se tromper, ne pas être droitement fidèle à ce qu’elle a reçu. Comment? Si la pensée en acte répond au don d’être, comment peut-elle errer? Ne serait-ce pas parce que la pensée en acte est plus un exercice de ‘pardon’ que l’effectivité du don originaire? Le pardon, c’est-à-dire le don qui se parfait en se laissant penser par l’intelligence en acte, n’est peut-être pas l’exacte redondance du don de l’origine. Jean-Luc Marion a parlé avec précision et beauté de cette ‘redondance’48. Le pardon perfectionne le don en lui donnant de continuer son mouvement de donation, mais en l’éloignant donc sans cesse de son origine. En fait, comme nous l’avons déjà noté, ce n’est habituellement pas dans un sens uniquement positif que l’on parle de ‘pardon’. Ce mot est ambigu, et la conscience y reconnaît plutôt une signification négative, le reflet d’un drame ontologique. Pour nos schèmes mentaux communs tout comme selon ce que nous avons développé dans notre section précédente (l’idée de la faute suit celle du don), le pardon devrait engager une régression

de toutes les vérités qui sont la lumière, la nourriture et la fin de l’intelligence” (366). 47 La logique a un sens philosophique non pas à cause de sa formalité, mais de la pratique obéissante qu’elle induit. 48 J.L. MARION, L’idole et la distance, Paris, Grasset, 1977, 211: “La charité en se donnant se manifeste d’autant plus authentiquement. Chaque redondance du don où elle s’abandonne sans retour atteste son unique et permanente cohésion”

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plutôt qu’une progression, la fidélité à une origine plutôt que sa continuation. Pardonner, n’est-ce pas remettre une dette, combler un manque, un raté, une faute? Nos mots ne nous trompent pas. Ils nous parlent sérieusement et nous devons y être attentifs. Mais nous devons aussi maintenir fermement ce que nous avons dit dans la section précédente sur l’impossible de rétablir, dans le pardon, le désordre provoqué par le don originaire. Entre le ‘don’ et le ‘pardon’, il n’y a pas de continuité immédiate. Le ‘pardon’ garde toujours une nuance négative: il répond au ‘don’ sans pouvoir y revenir, et donc vit une faute impossible à soulever. Voilà pourquoi le premier pardon, qui est une demande, se tourne vers l’origine, moins pour l’exonérer de sa faute ou d’un échec de sa générosité que pour se libérer soi-même d’une infidélité à ce qui a été reçu; en demandant pardon, l’offensant revient vers le donateur dont il libère la capacité à donner de nouveau son don en ôtant ce qui lui fait obstacle, mais sans pour autant réduire la différence qui le sépare du don originaire. Il n’est pas possible de penser que le don comme tel, même s’il cause un désordre à cause de son imprévisibilité, soit une faute; une telle pensée pervertirait le sens commun. Si faute il y a, elle ne se trouve pas du côté de la donation créatrice et désordonnante, mais du côté du donataire qui n’accueille pas le don comme il le devrait, comme don imprévisible, c’est-à-dire gratuit. Pourtant le donataire ne peut pas assurer la redondance du don s’il ne peut pas en être en tout le créateur, s’il doit donc renoncer à être lui-même créatif, à tenir le rôle du donateur. La redondance du don révèle sans doute le succès du don, sa perfection ou son ‘pardon’ au sens originaire du terme; mais elle n’est accomplie que si le donné reconnaît être en dette de soi, veut jouir de soi sans être à l’origine de soi, être autonome mais sans disposer de sa propre auto-transcendance, et renonce au désir d’être originaire en s’acceptant dépendant49. L’être ‘donné’

49 L’expérience même du pardon rend évidente cette tension. “Le pardon atteste la distance – que seul il peut franchir – entre la gratuité première et l’obligation que celle-ci impose à la liberté comme sa nécessité propre” (A. CHAPELLE, Les fondements de l’éthique. La symbolique de l’action, Bruxelles, Éditions de l’Institut d’Études Théologiques, 1988, 124). Ou encore: “Là où

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prend alors la forme d’un être ‘subi’. La rébellion n’est pas loin. Le donataire ne peut jamais devenir l’égal du donateur; dépendant du donateur, en dette d’être, il ne peut pas redoubler le don en son surgissement originaire. La joie de transmette le don reçu peut alors s’accompagner du sentiment d’humiliation. Le don reçu, je ne peux pas le rendre vraiment, le redoubler en parfaite redondance; je prends alors conscience que si je le reçois, je le subis tout autant. Me voici dans une ambiguïté insurmontable. C’est seulement à la condition de ne pas recréer en son origine le don reçusubi que je pourrai librement le redonner, que le débiteur pourra le laisser se déployer en soi et hors de soi, après soi. Cette condition est mortifiante. Comment d’ailleurs le donataire pourrait-il renoncer à se prétendre à l’origine du don qu’il transmet s’il entend prendre la responsabilité de son don second? Ne se jugera-t-il pas manquant de plénitude par le fait qu’il a été fidèle au don subi mais sans pouvoir en recréer librement l’origine50? Je suis pleinement responsable, mais non pas d’être responsable. De là une condamnation inévitable: ou bien je transmets le don de façon responsable, et donc originaire, mais alors

la liberté spirituelle s’engage totalement et sans rémission, sans recours ni réserve, sans plus découvrir en soi de capacité de surdéterminer sa propre action, à l’ultime de ce qu’elle est, elle se voit vouée au nécessaire impossible. C’est là aussi que, pour l’action éthique, demeure au-delà de l’impossible et de sa nécessité, l’unique gratuité qui la fonde, celle du pardon” (125). 50 Le problème est bien plus radical que celui du rapport entre le savoir de ce qu’il y a à faire et la réalisation de ce savoir. A. Chapelle, en s’inspirant de la nécessité impossible de M. BLONDEL, L’action (1893) (Paris, PUF, 1950, 388), exprime ce rapport de cette manière: “La nécessité éthique fondamentale – énoncée dans la syndérèse – est impresciptible, et elle est symboliquement, historiquement et spirituellement impraticable” (A. CHAPELLE, Les fondements de l’éthique, 125). Notre problème est cependant plus radical: il s’agit de savoir si la fidélité ne sera pas origine de la faute. Cette manière inquiétante de poser le problème vient des philosophes du soupçon, dont la pensée contemporaine ne s’est pas encore libérée vraiment. Il est trop facile d’affirmer que “l’impossibilité absolue se “réalise tout de même”, car son absoluité, par son absence de référence, marque la coïncidence de la liberté avec elle-même dans l’acte où elle se découvre donnée à soi, dans la gratuité du pardon” (126). C’est que justement, celui qui est donné à soi ne peut jamais coïncider avec soi.

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je commets la faute dont je devrai demander pardon, la faute de disposer moi-même de l’origine; ou bien je ne transmets pas le don en en prenant la responsabilité, et je commets de nouveau la faute, celle de ne pas être conforme à l’origine donatrice, en arrêtant le mouvement de donation du don. Ce sera une faute que d’épouser la puissance redondante du don, et encore une faute que de ne pas y identifier mon action. De toute manière, je serai condamné, et obligé de vivre dans une déchéance insurmontable. Le ‘pardon’ ne réussira jamais, comme jamais ne sera apurée la dette qui nous rend autonomes mais dépendants. Tel est le triste horizon de nos ambivalences. Du point de vue étymologique, le mot ‘pardon’ signifie la perfection du don; nous ne pouvons entrevoir dans cette perfection aucune ombre de faute, aucun manque; le pardon indique la redondance parfaite du don. Mais du point de vue du langage commun, le même mot signale une faute, un manque, une dette impossible à payer. Ce conflit entre un pardon qui parfait le don et le pardon qui reconnaît avoir trahi le don peut être entendu à la lumière de l’ambivalence de l’expérience intellectuelle; nous avons indiqué plus haut que l’intelligence, faite pour l’universel, peut si bien restreindre son champ aux concepts qu’elle se désintéresse des réalités multiples et manque de fidélité à son destin; nous reviendrons sur ce manque de droiture de la raison lorsque, bientôt, nous parlerons de la modernité. Le conflit originaire peut aussi être interprété en considérant l’engendrement, qui fait être une liberté qui n’a pas demandé d’être; nous en avons également parlé déjà. Le conflit peut enfin être saisi de manière encore plus radicale, si l’on considère que la perfection du don fait voir dans le pardon la splendeur irradiante de l’origine, et que le pardon de la faute révèle dans cette même perfection un appel au donataire à s’abandonner en amont (l’origine qu’il n’est pas) et en aval (vers celui qu’il n’est pas); la distance demeure alors définitive entre le donateur et la donataire, une distance qui souligne l’irréductible gratuité de l’origine, mais une gratuité qui recèle en soi la possibilité de la faute. Un schéma plotinien pourrait éclairer jusqu’à un certain point ce que nous balbutions ici. D’une part, l’origine excellente n’est qu’action, abondance de soi, unité qui ne connaît aucune division s’imposant à elle de l’extérieur, mais une sorte de divi-

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sion quand même puisqu’elle ‘émane’ en se multipliant, en faisant exister les divers. D’autre part, l’émanation peut être comprise comme une perte de l’énergie intérieure qui va jusqu’à s’abîmer dans la matière. La générosité folle de l’origine se terminerait ainsi dans son contraire, l’action première devenant la passion dernière. Si dans la matière, à l’opposé de l’‘Un’, il n’y a plus aucune trace de l’origine, aucun désir de ce qui fait être, alors l’émanation du don se révèle une tragédie essentielle, une absurdité. Mais cela n’est pas pensable. De là la conversion plotinienne, l’appel que lance l’origine jusqu’à la matière pour que l’action s’y poursuive mais selon les modalités d’un retour vers l’origine et d’un abandon de la terre. Mais en cela-même Plotin reste lié à l’éternel retour du paganisme grec; il n’y a pas chez lui de vraie redondance du don, de continuité du don dans la multiplication, de consécration du donnant dans l’‘autre’, le donné. Le philosophe des Ennéades va du bien au mal, puis du mal au bien. Aucun don ne peut vraiment béatifier dans cette situation circulaire. En registre chrétien, il en va tout autrement. Le temps est linéaire, et la conversion ne consiste pas à se tourner vers l’origine pour y revenir51, mais à continuer l’oeuvre de l’origine, à se faire ‘lieutenant’ de l’acte premier, son ‘pardonnant’ authentique plutôt que son gardien ou son accomplissement une fois pour toutes52. L’expression ‘redondance du don’ signifie la puissance recréatrice du pardon, qui n’a rien à voir avec l’oubli du passé, ni avec l’aveuglement de la conscience qui ne veut pas voir le mal qui a été réellement fait. La réouverture en soi, par le pardon, de l’action de l’origine, cette décision à se faire redondance du don doit être bien comprise. On pourrait y voir une vérité de la modernité, qui a précisément entrepris d’aller de l’avant, d’agir

51 D’ailleurs, l’origine ne peut pas ne pas être ‘autre’, c’est-à-dire inaccessible de quelque façon. Selon Bruaire, “le mystère de l’origine gardé par la tache aveugle exclut un savoir originel, une identification d’un auteur ou donateur, impersonnel ou personnel. Le don qu’est l’être-de-don est référence sans référant. Dans les termes de l’École, notre existence n’implique par le Deus per se notus, pas plus qu’elle n’enferme une prescience de notre destinée” (C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, 90). 52 De là l’unité des deux commandements de l’amour de Dieu et du prochain (Mathieu 22:34-40 et parallèles).

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sur le monde pour le faire plus habitable, plus humain, en l’analysant au plus près, en le divisant en une infinités d’unités de sens, en découvrant des structures intelligibles qui le rendent plus rationnel et aimable pour la vie. Voilà pourquoi la modernité et la culture du travail sont filles du christianisme53, descendantes du judaïsme et du sens biblique de l’histoire. Pourtant la modernité n’a pas été fidèle à l’intelligence complète de l’histoire; en effet, le dynamisme du don n’y est pas vraiment compris en fonction d’une démultiplication de soi, mais plutôt au gré d’une nécessité répétitive de l’identité de l’origine; l’action actuelle du don n’y est pas entendue à distance respectueuse de l’origine, en manque d’origine, mais comme l’action originaire elle-même qui, devenue propulsive et indépendante, suffit à combler toute distance, toute non-immédiateté théorique de l’origine. Voilà les modernes aveuglés sur le manque de fondement de la raison en elle-même et sur son indépendance, son refus d’être en dette, et donc sa faute d’être. La modernité, qui identifie le ‘don’ au ‘pardon’ et qui s’est rebellée contre l’origine en devenant indifférente aux valeurs transcendantes, proclame la victoire prochaine de l’homme sur ses nombreux drames; elle a voulu nous sauver de nos malheurs et les couvrir de son savoir bienfaisant. Elle est née sur les cendres de la sorcellerie et des dernières pestes européennes; elle a surmonté les guerres de religion54. En même temps que la science cartésienne et son fondement dans le cogito, surgissait avec Montaigne une nouvelle exigence de sagesse subjective55, un nouveau désir d’habiter une terre accueillante. Le drame d’être était intensément alors présent, et les savants modernes ont voulu l’affronter avec un sens affiné de leur responsabilité,

Cf. S. NATOLI, I nuovi pagani, Milano, Il Saggiatore, 1995, 99-112: “Oeconomia salutis. Le metamorfosi dell’idea di salvezza nell’età moderna”. 54 Cf. J. DELUMEAU, Le péché et la peur, Paris, Fayard, 1983; du même auteur, voir ausi L’aveu et le pardon. Les difficultés de la confession. XIIIe-XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1990. Signalons en passant que cet ouvrage part du Concile Latran IV, de 1215, dont les ‘canons’ sur la confession (Denz.Sch. 802, 812-814) ne connaissent pas le mot ‘pardon’; ce qui confirme la première section de cet article. 55 Cf. S. MANCINI, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, Milano, FrancoAngeli, 1996. 53

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mais pour le défaire en interprétant l’origine distante ou autre comme un état maléfique, en écartant donc la mémoire, pour eux stérile, du manque premier, en ‘pardonnant’ mais sans se rendre compte qu’ils exerçaient par là la faute d’origine. L’oubli de la distance, qu’on peut comprendre comme une conséquence de l’oubli de l’être, a entraîné l’oubli de la raison, ou plus exactement la restriction de l’intelligence à ses prétentions formelles, à ses calculs manipulateurs. On sait où ont conduit ces appauvrissements de l’humanité. On connaît les vastes programmes d’un vingtième siècle parfois volontairement déshumanisant56. Pour sauver la raison d’elle-même, il est essentiel et urgent de lui rappeler le sens de son origine et du pardon entier, le sens de l’humilité et de la miséricorde. Pendant des siècles, l’Église a voulu maintenir ce sens, mais en s’opposant à la modernité et à ses oublis, en méconnaissant la vertu de la prévision scientifique et en réaffirmant les droits de la tradition, en dénigrant les réalisations des savants et en s’attribuant l’exclusivité sacramentelle de la redondance du don. Il est temps aujourd’hui, il est même essentiel pour sauver ce qui a émergé dans l’Europe moderne et qui a été bon pour l’humanité, de considérer l’essence entière de l’homme; la science a une efficacité réelle, une valeur ontologique, bien qu’elle ne soit pas à l’origine du don qu’elle réalise. Il devient indispensable que des témoins s’attachent à rendre à la raison sa totalité méconnue par la modernité ignorante de son origine, mais méconnue aussi par ceux qui ne voyaient pas dans le travail de la science l’oeuvre continuée du don. Encore faut-il montrer la gratuité de l’origine, que la raison n’absorbe jamais en sa puissance, sinon en devenant inhumaine. Sans doute, serait-ce là ce qu’il appartient aux chrétiens de dire plus que jamais: la gratuité de l’origine de la raison. Kant avait peut-être approché cette problématique, mais il ne s’est guère fait entendre: la pesanteur de ses formes et de son agnosticisme a desservi sa reconnaissance de ce qui anime l’humaine raison57.

56 Cf. J. SOMMET, “La condition inhumaine. Le camp de Dachau” dans Études, janvier 2000, 115-125, un texte publié une première fois en 1945. 57 Sur cette critique de Kant, voir P. GILBERT (éd.), Au point de départ. Joseph Maréchal, entre la critique kantienne et l’ontologie thomiste, Bruxelles, Lessius, 2000.

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4. Le temps et la miséricorde Le pardon modifie de fond en comble le sens de la temporalité. Nous pensons spontanément le temps à partir du présent, certes, mais en l’étendant en deux directions opposées, le passé et le futur, qui nient à chaque fois au présent sa plénitude. Or le poids de notre être ainsi divisé devient plus pesant jour après jour. Notre passé est un destin dont nous ne réussissons pas à nous libérer; et nos projets futurs, année après année, s’amenuisent jusqu’à disparaître. Le sens unique du temps est dramatique pour l’individu, jour après jour plus abandonné à l’abîme de la terre. De ce point de vue, les sciences et leurs projections modernes apparaissent pathétiques: elles se confient à une mémoire universelle où l’on ne rencontre plus personne; chacun doit disparaître pour le bien de tous. Le temps en arrive ainsi par ne plus rien signifier à moins qu’il ne soit stabilisé dans l’éternité d’une science qui indéfiniment dévore ses serviteurs et fait rêver nos spécialistes en virtualité. Ce temps intemporel, sans faute ni dette ni pardon, nous abandonne au drame de nos obscures existences singulières. Tout sens de nos engagements libres nous est alors enlevé, et nous restons dramatiquement ou ingénument insensés. Notre époque, encore fascinée par les sciences, mais en même temps désillusionnée d’elles, peut toutefois retrouver le sens du don et du pardon, ce qui pourra éclairer en contre-coup le sens exact du temps et en corriger les représentations en schémas fixes. Les extases temporelles ne sont pas seulement des distanciations sur la ligne abstraite du temps; le présent en son ‘instant’ (mot qui signifie: ‘qui se trouve en soi’) est riche d’éternité. L’éternité ne suspend pas intemporellement le vol du temps; elle ne résulte pas de l’absence de différence entre des moments qui, sur une ligne droite, iraient du passé au futur; elle n’est autre que le présent dont le pardon exprime le secret. Les catégories correctes pour penser le ‘temps d’éternité’ ou le poids infini de l’‘instant’ ne sont pas aisées à trouver et à comprendre. Elles devraient souligner que l’action présente (l’acte d’être) est bénie grâce à une passion première. Elles ne proviennent pas de l’expérience des extases temporelles distendues et de la négation de ce qui les différencie, c’est-à-dire de leurs limitations, oppositions et solitudes réciproques. Le présent d’éternité, bien que

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l’éternité soit souvent imaginée indéterminée et par là peu désirable, ne l’est pas pour la raison droite. L’argumentation traditionnelle de la voie d’éminence ne peut pas se contenter de redoubler la voie de la négation par une opération seulement ultérieure58. L’expérience délivrée par le mot ‘pardon’ éclaire cette éminence et sa positivité dans le présent d’éternité. La dette d’être n’est pas perte d’être; elle peut certes se tourner en faute, et donc en perte, quand l’être en dette profite de son être réel pour se vouloir sans plus se recevoir, craignant sans doute de subir un don alors qu’il s’agit d’accueillir la vie. Mais le pardon demandé à l’‘être’ donnant, et accordé, restaure le donné en sa vérité et renouvelle miséricordieusement l’être en dette, convertissant son affection, lui faisant prendre conscience que le don reçu n’est pas à subir mais une grâce, et rouvrant ainsi en lui un espace pour la redondance infinie du don originaire. L’éternité est cette redondance. Comment cela est-il possible? Le pardon donné ne peut être qu’un don miséricordieux. À cette condition, il ne sera pas subi; il respectera autrui auquel il se donne, ainsi que l’originalité des blessures de l’offensé et de l’offensant, sans se distraire du mal trop réellement vécu par l’un et l’autre, mais en le prenant sur soi. Se donner la peine de s’unir ainsi à celui qui est dans la misère, à l’offensant tel qu’il est, voilà le seul pardon raisonnablement possible que l’offensé puisse accorder. Prendre sur soi le péché du monde. Mais pour libérer ainsi l’offensant, il ne suffit pas de pactiser avec lui, de s’identifier kénotiquement à lui, car ce serait là retenir en soi, dès son origine, le don originaire. La miséricorde kénotique n’est pas une simple identification avec le pécheur59. La filiation révèle au contraire la générosité de l’origine paternelle et émerveille ceux qui ne sont pas à l’origine d’eux-mêmes tout en reconnaissant et s’étonnant d’être.

58 On connaît le rythme habituel de cette manière d’analogie: (voie positive:) Dieu est bon; (voie négative:) il n’est pas bon (comme l’homme); (voie d’éminence:) il est plus que bon. 59 L’hymne aux Philippiens insiste autant sur le renoncement du Fils à user “de son droit d’être traité comme un dieu” (Phil 2:6) que sur son obéissance en lequel se manifeste le don du Père. “C’est pourquoi Dieu l’a souverainement élevé” (Phil 2:9).

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L’amour du Père dans le Fils miséricordieux envers les pécheurs se fait alors silence plutôt que conseil, communion fraternelle plutôt que jugement savant, don eucharistique plutôt que réserve, affection engagée plutôt que raison détachée. Le discours proprement chrétien vient ainsi au secours d’une pensée difficile; il va l’accompagner miséricordieusement. Il indique qu’un choix ou une option qualifie la dette d’être. La foi chrétienne, antérieure au discours philosophique, a ainsi rendu celui-ci plus rationnel que jamais, plus vrai que jamais, plus humain que jamais. Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 00187 Roma ITALY.

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————— Summary / Resumen Contemporary philosophy has rediscovered the metaphysical meaning of gift and pardon. The word ‘pardon’ means the perfection of the gift, which is clearer in the French language: ‘pardon’, ‘don’. The gift cannot be perfect unless it is handed over or given again, so to speak, in the same way as it was originally given. But it is impossible to return to the origin. Hence the meaning of ‘fault’ which accompanies the gift which is received and which cannot be transmitted in the original manner. This imposes an ambivalent context on the word ‘pardon’: perfection of the gift, and fault. Nonetheless, filiation has a structure which recreates the meaning of the essential terms of the impossibility of the perfect gift. The key to this is the idea of blessing. La filosofía contemporánea volvió a descubrir el significado metafísico del don y del perdón. ‘Perdón’ significa la perfección del don, que en lengua francesa aparece más claro: ‘pardon’, ‘don’. El don no puede ser perfecto a no ser que se entregue o, por así decirlo, se dé otra vez, tal como se dio originalmente. Pero es imposible volver al origen. De aquí el significado de ‘falta’ que acompaña al don que es recibido y que no puede ser trasmitido según la manera original. Esto impone un contexto ambivalente a la palabra ‘pardon’: perfección del don, y falta.

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No obstante, filiación tiene una estructura que re-crea el significado de los términos esenciales dada la imposibilidad del don perfecto. La clave de esto es la idea de bendición. ————— The author is Ordinary Professor of Metaphysics at the Pontifical Gregorian University. El autor es profesor ordinario de metafisica en la Pontificia Universidad Gregoriana. —————

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StMor 38 (2000) 437-474 MAURIZIO P. FAGGIONI O.F.M.

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Lo studio che presentiamo è dedicato all’esame di alcune sfide che il progresso tecnoscientifico, con i suoi presupposti riduzionisti, lancia all’antropologia cristiana e, più in generale, ad ogni antropologia aperta alla dimensione spirituale della persona. Dopo aver definito che cosa si intende per riduzionismo, seguiremo per grandi arcate la complessa parabola storica del riduzionismo antropologico, dando quindi particolare attenzione ai riduzionismi che più immediatamente sono riconducibili all’odierno progresso tecnoscientifico e che in modo più diretto coinvolgono le premesse del discorso morale. In questa prospettiva vedremo gli attacchi al progetto antropologico integrale che provengono delle neuroscienze e dalle scienze cognitive, dall’evoluzionismo e dalla genetica, sottolineando infine il profondo significato che alcuni punti fermi dell’antropologia cristiana rivestono in ordine alla riconoscimento e alla promozione della verità e dignità della persona.

1. Che cos’è il riduzionismo Che cosa accomuna posizioni eterogenee come il rasoio di Ockham, l’analisi di Condillac, la nosografia del linguaggio scientifico di Wittgenstein e il comportamentismo di Watson? Il fatto che, in ogni caso, si tratta di programmi riduzionisti cioè di strategie finalizzate alla semplificazione del sapere. Il riduzionismo è una forma particolare della relazione di identità, la relazione – come sostengono MacKay e Searle - “nient’altro che” o “nientaltrismo”: gli A infatti possono essere ridotti a dei B solo se gli A non sono altro che dei B1. 1

Cfr. SEARLE J. R., The Rediscovery of the mind, Cambridge 1992 (trad.

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Dal punto di vista logico, la riduzione può essere definita come la assimilazione di una classe di oggetti a un’altra ovvero la trasformazione di un certo enunciato in un altro enunciato equivalente al primo, ma più semplice o più preciso e quindi tale da rivelare la falsità o la verità dell’enunciato di partenza. Nella riduzione definitoria, sia concettuale sia proposizionale, gli enunciati che si riferiscono a un certo tipo di entità possono essere tradotti senza residui in altre parole o enunciati riferentesi ad entità di altro tipo. Così enunciati relativi ai numeri possono essere tradotti o, se si vuole, ridotti a enunciati relativi ad insiemi di numeri e, similmente, enunciati relativi alla casalinga di Voghera possono essere ridotti a enunciati specifici intorno a quelle donne che a Voghera fanno le casalinghe. Nella riduzione proposizionale, in particolare, il valore veritativo delle proposizioni stesse resta invariato, mentre si modifica il loro contenuto semantico. Nella riduzione teorica, una teoria viene ridotta a un caso particolare di un’altra, dimostrando che le leggi della prima possono essere dedotte, mediante precise regole di corrispondenza e servendosi di opportuni enunciati passerella, dalle leggi della seconda2. Un esempio classico è dato dalla riduzione delle leggi dei gas alle più generali leggi della termodinamica o da quello più complesso della riduzione della genetica formale alla genetica molecolare3. Dal punto di vista epistemologico, il riduzionismo è una strategia di condensazione dell’informazione e di diminuzione della complessità. Nella sua forma tipica, la riduzione ontologica, il

it. La riscoperta della mente, Torino 1994, 128-130). L’espressione “nothingbuttery theory” si trova in: MACKAY D. M., Information, Mechanism and Mind, Cambridge (Mass.) 1969. 2 C’è discussione sulle regole di conversione, ma sono usualmente accettate le due condizioni formulate da E. Nagel: la prima è che ogni termine della teoria ridotta deve essere definito per mezzo dei termini della teoria riducente e la seconda è che ogni proposizione della teoria ridotta deve poter essere derivata da un insieme di proposizioni della teoria riducente. Cfr. NAGEL E., The Meaning of Reduction in the Natural Sciences, in STAUFER R. T. ed., Science and Civilisation, 1949, 99-138; ID., The Structure of Science, New York 1961, 345-349. 3 FORNERO G., Riduzione, in ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, Torino 19983, 934.

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riduzionismo afferma che “oggetti di determinati tipi non sono altro che oggetti di altri tipi: ad esempio, che le sedie non sono altro che collezioni di molecole”4. L’attitudine riduzionista, così come è espressa da Ockham nella classica regola di economia (“Entia praeter necessitatem non multiplicanda sunt”), non solo evita la proliferazione inutile di entità che vengono postulate in virtù di pure costruzioni logiche o metodologiche, ma soprattutto tende a respingere concetti che si riferiscono a entità inosservabili5. Ogni sistema reale viene quindi considerato come la semplice risultante aggregativa di un insieme di sottosistemi che lo compongono e le proprietà e i poteri causali di un ente sono spiegati riconducendoli alle proprietà e poteri causali di enti più semplici: per esempio il calore di una sbarra di ferro incandescente non presuppone una vis calorifica, ma dipende dall’energia cinetica media delle molecole che compongono la sbarra stessa, mentre le conseguenze causali tipiche di un solido, quali la resistenza alla pressione e l’impenetrabilità, non postulano la soliditas come entità, ma rimandano ai poteri causali del reticolo in cui si organizzano le molecole di ferro nella sbarra. Una longa et vexata quaestio, tuttora non risolta in modo soddisfacente, è quella del riduzionismo biologico: mentre i meccanicisti del passato e i riduzionisti di oggi tendono a ricondurre la vita e il vivente alle leggi che regolano e spiegano il mondo non vivente, i vitalisti di ogni tempo sostengono che il fenomeno vita è in sé irriducibile alla realtà inanimata per cui ammettono l’esistenza di leggi proprie dei viventi, non riconducibili pienamente alle leggi fisico-chimiche6. Riduzionismo e scienza moderna sembrano fare tutt’uno. Per la scienza positiva del XIX secolo e ancor più sistematica-

SEARLE J. R., La riscoperta,128. Questo spiega l’opzione riduzionista di filosofie nativamente antimetafisiche come l’empirismo, il sensismo, il positivismo e il neopositivismo. 6 Nella seconda metà del secolo XX, ad esempio, W. M. Elsasser parlava di speciali “leggi biotoniche” che spiegherebbero i fenomeni biologici in accordo con le leggi fisiche, ma a queste non riducibili e analogamente M. Polanyi proponeva per i viventi principi più elevati addizionali alle leggi della fisica e della chimica. Cfr. ELSASSER W. M., Atom and Organism, Princeton (NJ) 1966; POLANYI M., Life’s Irreducible Structure, “Science” 160 (1968), 1308-1312. 4 5

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mente per i neopositivisti del XX secolo, il riduzionismo rappresenta una tesi epistemologica cardinale che postula un ordine gerarchico delle varie discipline scientifiche a partire dalla fisica, considerata prima e fondamentale; alla fisica sono subordinate, in ordine di importanza decrescente, la chimica, la biologia, la psicologia e la sociologia. Tutti i termini ed i concetti di una qualunque di tali discipline sono traducibili nei termini e nei concetti di una disciplina più fondamentale, mentre il contrario non è possibile. Nella prospettiva neopositivista di Carnap, il riduzionismo si propone di operare una discriminazione fra teorie scientifiche e metafisiche, costruendo un linguaggio empirico composto da enunciati protocollari o da osservazioni alle quali sarà riconducibile qualsiasi enunciato scientifico. Questo programma riduzionista presuppone che, al di là della autonomia metodologica delle diverse discipline, si dia una autentica omogeneità dei saperi e postula, come esito estremo, l’unificazione delle scienze nella fisica (fisicalismo). La psicologia potrà essere ridotta alla neurofisiologia, la biologia alla chimica organica, la chimica organica a quella inorganica e questa, a sua volta, alla fisica, sino a pervenire alla massima unificazione e semplificazione. Prescindendo dall’opzione antimetafisica e antispiritualista implicata in diverse espressioni del riduzionismo, la scienza moderna ha provato l’utilità delle regole di economia, imposte dal riduzionismo logico, per la formalizzazione e assiomatizzazione delle teorie scientifiche nonché l’enorme potere euristico del riduzionismo epistemologico. Ma è lecito chiedersi se l’eleganza formale e concettuale della riduzione non esponga al rischio di giungere a una ipersemplificazione artificiosa dei dati che sottace e occulta le specificità irriducibili di alcuni fenomeni. Se spesso è utile, infatti, considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni, è questa riduzione sempre possibile e rispettosa della complessità del reale e dei suoi livelli di emergenza o non rappresenta invece, almeno in alcuni casi, un oggettivo impoverimento del sapere? La domanda diventa drammatica quando si pensa a impostazioni crudamente riduzioniste applicate per leggere e comprendere una realtà complessa e pluristratificata come quella rappresentata dal fenomeno umano. Parlando di riduzionismo

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antropologico noi ci riferiremo appunto a tutte le impostazioni antropologiche che cercano di spiegare la complessità del fenomeno umano riconducendola o, meglio, riducendola a realtà più semplici e ontologicamente inferiori. La tesi che cercheremo di illustrare in questo intervento è che il riduzionismo antropologico connesso con il progresso tecnoscientifico contemporaneo non è nient’altro che una fase della tensione riduzionista ovvero ipersemplificativa che percorre in qualche modo tutta la storia del pensiero. O. Wilson, il fondatore della sociobiologia, una delle espressioni più conturbanti del riduzionismo antropologico, applica a questa tensione il concetto einsteniano di incantesimo ionico7. I filosofi ionici, almeno nella presentazione che ne fa Aristotele e la dossografia greco-romana, avevano infatti messo al centro delle loro ricerche filosofiche la questione dell’archè del reale e c’è chi ravvede in questo tentativo di ricondurre il molteplice ad unum il movente della prima ricerca filosofica e il sogno segreto di tutto il pensiero filosofico e scientifico occidentale8.

2. L’uomo è un episodio della natura? La cultura greca accordò all’uomo un indubbio primato fra tutti gli esseri, come è espresso filosoficamente nel criterio dell’homo mensura del sofista Protagora e poeticamente nell’inno all’uomo nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle. Nonostante ciò, la visione antropologica greca rimase sempre fondamentalmente cosmocentrica. Per i Greci l’uomo non è nient’altro che un episodio, per quanto sublime, della realtà cosmica e il fenomeno umano può quindi essere adeguatamente compreso applicando a lui lo schema ontologico valevole per

7 WILSON E. O., Consilience, Cambridge (Mass.) 1998 (trad it. L’armonia meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza, Milano 1999, 4-5). 8 Non entriamo nella questione se l’arché degli ionici sia da intendersi in senso riduzionista moderno e, quindi, si tratti del rimando ad un principio materiale che costituisce come il tessuto portante del reale nella sua strutturazione o se non si tratti piuttosto della ricerca di un principio metafisico che possa render conto del reale nel suo divenire.

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ogni altro ente. Questa realtà cosmica, poi, era concepita in modo tendenzialmente dualista: esiste nel cosmo una dimensione di opacità, indeterminatezza, disordine e irrazionalità cui si contrappone la dimensione della razionalità, comunque venga immaginata, sia essa il platonico Iperuranio delle idee o il Logos immaginato come Fuoco cosmico dagli Stoici o il Nous aristotelico, e tale istanza della razionalità è apportatrice di ordine e di intelligibilità, trasformando il Kaos in Kòsmos. L’uomo, perciò, microcosmo rispetto al macrocosmo, è un frammento nel quale si specchia l’eterna e tragica tensione fra sensibile ed intelleggibile, fra materia e spirito, fra opacità e chiarezza9. Questo punto è di capitale importanza per comprendere la tormentata vicenda dell’antropologia patristica, alla ricerca di un paradigma antropologico capace di veicolare lo specifico della visione biblica dell’uomo. Nessuna antropologia presente nell’ambiente filosofico ellenistico riusciva a dar conto pienamente della singolarità e unicità della persona e perfino il dualismo antropologico di Platone – a ben guardare – non aveva di mira la peculiarità ontologica dell’uomo, ma riproponeva nell’uomo il dualismo cosmico di materia-idee10. I Padri, pur adottando le categorie ermeneutiche dell’antropologia ellenistica (stoica, peripatetica e soprattutto medio e neoplatonica), vi immettono alcune prospettive tipiche che essi derivano dalla Rivelazione biblica e che costituiscono ciò che potremmo definire le attitudini che qualificano cristianamente una antropologia. La prima attitudine è la sottolineatura dell’unità dell’uomo che si articola in una irriducibile dualità, espressa tradizionalmente con il binomio, caro alla cultura ellenica, di anima e di corpo; la seconda è la persuasione, fondata sulla fede

9 Cfr. FAGGIN G., L’anima nel pensiero classico antico, in SCIACCA F. M. cur., L’anima, Brescia 1954, 29-69. 10 Contrariamente a quanto si sente ripetere di solito, pur ammettendo il peso innegabile del platonismo nella genesi del pensiero antropologico cristiano, non si è mai avuto in senso rigoroso un Plato christianus, come dimostra la revisione della letteratura specialistica compiuta da MADEC G., Platonisme des Pères, in Catholicisme, Paris 1988, vol. 11, 491-507; dopo quelle di ARNOU R., Platonisme des Pères, in Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. 12/2, coll. 2258-2392 e di IVÀNKA E. V., Plato christianus, Einsiedeln 1964.

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in Dio Creatore, della nativa bontà e positività della materia e quindi della carne; la terza è l’orientamento teologico e non cosmologico dell’antropologia, espresso attraverso la categoria biblica dell’imago Dei. Affermare che l’uomo, ogni uomo e tutto l’uomo, nella sua unità psicosomatica, è uscito dalle mani di Dio per portare a compimento la divina immagine del Figlio su cui è stato esemplato, significa oltrepassare d’un balzo le angustie dell’antropologia greca, nonostante l’uso di categorie filosofiche greche e il permanere di fraintendimenti e contaminazioni11. “Non è a partire dal mondo delle idee – scrive Italo Fornaro – che la realtà viene compresa, ma attraverso il riconoscimento della realtà in se stessa. È una visione delle cose che parte dalla forza rivelatrice della carne di Cristo, è in questa visione – che è cammino dell’uomo verso Cristo – che appare la nostra somiglianza divina”12. Un ruolo chiave nello sviluppo della antropologia cristiana occidentale fu svolto da sant’Agostino nel quale confluiscono, talora senza riuscire a comporsi armoniosamente, le tensioni e le conquiste di una plurisecolare e delicata riflessione antropologica13. Agostino prende una posizione netta contro la concezione ciclica del tempo propria della cultura greca e sottrae così l’uomo dalla fatale necessità cosmica; in polemica con i Manichei, purifica progressivamente il suo pensiero da influenze dualistiche di tipo cosmologico e guadagna una giusta valutazione della bontà della creatura materiale; approfondendo il tema biblico dell’imago in prospettica cristologica, egli non interpreta più l’uomo a partire dal cosmo, ma il cosmo a partire dall’uomo, creato ad immagine del Creatore.

11 La stessa categoria di imago Dei, così ricca di risonanze bibliche, si intreccia con l’analoga categoria neoplatonica senza tuttavia confondersi con essa. Cfr. BALTHASAR H. U., Herrlichkeit, II/1, Einsiedeln 1962, 45-74 (trad. it. Gloria, vol. 2, Milano 1971, 43-77); PÉPIN J., Idées greques sur l’homme et sur Dieu, Paris 1971 (soprattutto chap. 6, Le Ier Alcibiade et les Auteurs Chrétiens). 12 FORNARO I., La teologia dell’immagine nella Glossa di Alessandro d’Hales, Vicenza 1985, 29-30. 13 Cfr. VAN BAVEL J., The Antropology of Augustine, “Louvain Studies” 5 (1974), 34-47; SCIACCA M. F., Il composto umano nella filosofia di sant’Agostino, “Studia Patavina” 1 (1954), 211-226.

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Il cammino di abbandono del cosmocentrismo antropologico, anche se all’interno di una cosmologia dualista, giunge a compimento con l’antropologia tomista che, per superare le aporie e i residui dualismi del modello antropologico platonicoagostiniano, opera un recupero sapiente dell’ilemorfismo aristotelico. L’ilemorfismo era stato rifiutato dalla maggioranza dei Padri perché, equiparando l’anima umana all’entelècheia di qualunque altro corpo organico, evidenziava bensì l’unita dell’uomo, ma faceva dell’anima quasi un aspetto del corpo e sembrava oscurare la radicale dualità dell’uomo, rendendo altresì problematico spiegare la sopravvivenza personale dell’uomo al di là delle soglie della morte14. In effetti anima e corpo, nella concezione aristotelica, non sono due esseri, ma due aspetti di un medesimo composto vivente, sono funzioni del tutto (sinolo) e san Tommaso, pur riprendendo l’interpretazione ilemorfica del composto umano, per non smarrire la singolarità ontologica della persona, vi introdurrà innovazioni di grande portata teoretica15. Prima di tutto egli rifiuta la teoria della materia spirituale con la quale i dottori coevi spiegavano la sostanzialità ed insieme la contingenza dell’anima umana e degli angeli, perché può sostituirvi, nel quadro della sua metafisica, la categoria di potenza. L’anima umana è sostanza perché composta di essenza (che è la

14 La più acuta critica patristica ad Aristotele è contenuta nel De natura hominis di Nemesio di Emesa, che, tradotta in latino nell’XI secolo da Alfano e poi da Burgundio da Pisa e ritenuta opera di Gregorio di Nissa, ebbe un peso incalcolabile sulla genesi dell’antropologia scolastica. Cfr. SICLARI A., L’antropologia di Nemesio di Emesa, Padova 1974. Non mancano Autori moderni che propendono per un’interpretazione dualista anche del pensiero aristotelico maturo: HEINEMAN R., Aristotle on the Mind Body Problem, “Phronesis” 1990 (35), 83-102; SHIELDS C., Soul and Body in Aristotle, “Oxford Studies in Ancient Philosophy” 6 (1988), 103-137. 15 GILSON E., Elements of Christian Philosophy, New York 1960 (trad. it. Elementi di filosofia cristiana, Milano 1964, 297-323); LOBATO A. cur., L’anima nell’antropologia di S. Tommaso, Milano 1987; VANNI-ROVIGHI S., L’antropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino, Milano 1965; VERBEKE G., L’unité de l’homme: St. Thomas contre Averroé, “Revue Philosophique de Louvain” 58 (1960), 220-249; WEBER E. H., L’homme en discussion à l’Université de Paris en 1270. La controverse de 1270 à l’Université de Paris et son retentissement sur la pensée de St.Thomas d’Aquin, Paris 1970.

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sua natura di forma spirituale) e di actus essendi; essenza ed esse stanno fra loro nel rapporto di potenza e di atto, come in ogni sostanza finita che riceve l’esse mediante l’opera creatrice di Dio. Perciò nel dilemma fra anima come sostanza intellettuale e anima forma del corpo, egli non sceglie, ma dà una soluzione che supera i termini dell’antitesi dicendo che l’anima è forma del corpo non malgrado sia una sostanza, ma proprio perché è una sostanza intellettuale. In questo modo, prendendo posizione contro la definizione di Nemesio (che egli crede essere di san Gregorio di Nissa), Tommaso può negare, in nome dell’ilemorfismo, che il nesso fra anima e corpo sia la composizione accidentale fra due sostanze complete. Il composto umano, come ogni altra sostanza, deriva l’actus essendi dalla sua forma, che per l’uomo è una sostanza spirituale, a sua volta attuata da un atto di essere. In altre parole, l’anima partecipa il proprio essere al corpo o, meglio, riceve il corpo nella comunione del suo stesso atto di essere. L’anima, in quanto forma sostanziale, non viene ad informare un corpo di per sé individuato, perché, essendo una forma in senso proprio, essa è destinata ad informare non un determinato corpo, ma la materia prima. “Così si afferma – spiega Karl Rahner - che ciò che noi chiamiamo corpo non è altro che l’attualità dell’anima stessa nell’altro della materia prima, l’alterità autooperata dell’anima stessa, come sua espressione e simbolo”16. In tal modo viene salvaguardata sia la originalità ontologica del composto umano rispetto ad ogni modalità di esistenza creata, sia l’unità del composto umano, che risulta attuato da un unico atto di essere, sia infine l’immortalità dell’anima, vale a dire l’eccedenza ontologica della persona rispetto alla corruttibilità legata alla mondanità e alla temporalità. Questa immortalità dell’anima umana che in Aristotele, a rigore, non è pensabile e che infatti sarà per secoli al centro di una lunga disputa interpretativa, in Tommaso, invece, risulta perfettamente giustificata: l’anima umana, infatti, non solo possiede un proprio atto di essere, ma essendo una sostanza intel-

16 RAHNER K., Zur Theologie des Symbols, in Schriften zur Theologie/4, Einsiedeln 1960, 305 (trad. nostra).

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lettuale e non materiale, essa risulta non composta di parti e quindi è anche incorruttibile17. Sia ben chiaro che - come nota Gilson - “non c’è nulla di aristotelico nella nozione di una sostanza spirituale composta di potenza ed atto, cioè di essenza ed esistenza. E, invero, nella filosofia di Aristotele una forma deve essere una forma materiale, corruttibile come la sostanza materiale stessa, oppure deve essere una sostanza separata, quali sono gli angeli nella teologia di Tommaso d’Aquino. Non vi è posto nell’aristotelismo, per una forma intellettuale che sia contemporaneamente, la forma di un corpo, ed una sostanza spirituale”18. Ha ben ragione Giovanni Duns Scoto (1263-1308) a criticare la lettura tomista di Aristotele e certamente l’antropologia elaborata in chiave averroista da Pietro Pomponazzi (1462-1525) è più sintonica con l’ontologia peripatetica di quella dell’Aquinate19. Questa rilettura audace e sottilmente infedele del verbo peripatetico compiuta da Tommaso rivela la profonda persuasione cristiana dell’irriducibilità dell’uomo ad ogni altro ente creato, al punto da sacrificare la coerenza estetica del sistema alla salvaguardia della verità del mistero umano. Con l’autunno del medioevo entra in crisi la grandiosa sintesi scolastica e questa crisi è legata emblematicamente alla

17 Particolarmente lucida la dimostrazione che se ne dà in Summa contra Gentiles, lib. 2, cap. 39, §2. Cfr. JOLIF J. Y., Affirmation rationelle de l’immortalité de l’âme chez saint Thomas, “Lumière de Vie” 4 (1955), 59-78; VANNI-ROVIGHI S., La concezione tomista dell’anima umana, “Sapientia” 10 (1957), 347-359. 18 GILSON E., Elementi, 304. Si veda la diversa lettura del problema offerta in: NEGRO G., Soul and Corporeal Dimension in the Aristotelian Conception of Immortality, “Gregorianum” 79 (1998), 719-742. Uno status quaestionis in: NUSSBAUM M. C., RORTY A. O. eds, Essays on Aristotle’s De Anima, Oxford 1992. 19 Duns Scoto, vista la diversa nozione che egli ha di essentia rispetto a Tommaso, sosteneva con maggior ragione che l’immortalità dell’anima è una verità di fede che la ragione può giungere conoscere, ma che la ragione potrebbe altrettanto bene negare, come di fatto è accaduto nello svolgimento del pensiero filosofico. Anche alcuni tomisti inconcussi della Seconda Scolastica, come il cardinal Caietano, inclineranno per la non dimostrabilità razionale dell’immortalità dell’anima. Cfr. VERGA E., L’immortalità dell’anima nel pensiero del cardinal Gaetano, “Rivista di Filosofia Neo-scolastica” 47 (1935), 21-46.

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regola di parsimonia nota come rasoio di Ockham. La modernità, a partire dalla crisi nominalista del pensiero metafisico medievale, si caratterizza per una forte accentuazione naturalista, intendendo con questa categoria generica tutta una serie di filosofie che non riconoscono l’esistenza di nessun altra realtà se non quella naturale20. È l’esito prevedibile di un pensiero che nasce dal desiderio di emanciparsi dall’egemonia teologica e che, più o meno consapevolmente, si sta muovendo verso la secolarizzazione. L’eliminazione di Dio dall’orizzonte ideale conduce inevitabilmente a rifluire verso forme di cosmocentrismo o meglio, come si diceva, forme di naturalismo. Il pensiero cristiano patristico e medievale aveva cercato di superare il cosmocentrismo tendenzialmente dualista dei Greci elaborando una antropologia teocentrata, ma la modernità tornerà a un nuovo cosmocentrismo, questa volta tendenzialmente meccanicista, e così, nonostante le pretese antropocentriche dell’umanesimo laico, si assiste a una progressiva deriva antropologica che conduce poco a poco l’uomo a essere riassorbito nella natura onnivora e onnipotente. Solo sbilanciandosi oltre il proprio baricentro terrestre, infatti, l’uomo può fondare e argomentare la sua diversità ed eccedenza rispetto agli oggetti della natura. Il segnale di questa deriva antropologica fu dato dal crollo della cosmologia classica. Già Tycho Brahe (1546-1601) aveva dimostrato che l’insolito spettacolo apparso nei cieli europei nel 1572, l’esplosione di una nova, non era un fenomeno sublunare, ma si collocava in quello che era ritenuto il cielo delle stelle fisse, notoriamente esente da ogni forma di generazione e di corruzione. Qualche anno più tardi, Galileo Galilei (1564-1642), con i suoi studi sul sistema solare, sulle fasi lunari, sulle macchie solari, sui satelliti gioviani, dimostrò con prove evidenti che la tesi peripatetica sulla incorruttibilità del mondo sopralunare era insostenibile. Ma se non esisteva un dualismo cosmico fra mondo sublunare, il mondo umano segnato dalla instabilità, dalla variabilità e dalla corruttibilità, e mondo sopralunare, ete-

20 Nel naturalismo moderno si individua un filone materialista-meccanicista che va da D. Hume sino ai neoempiristi, ed un filone panteistico-vitalista, che va dalla triade rinascimentale di Telesio, Bruno, Campanella ai romatici Schelling e Goethe.

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reo e incorruttibile, allora come spiegare l’articolazione di corruttibilità e incorruttibilità presente nell’uomo? Le conseguenze antropologiche di questa rivoluzione culturale furono colte appieno da R. Descartes (1590-1650) il quale compì l’estremo tentativo di salvare la spiritualità dell’uomo, introducendo nell’uomo stesso la dualità che scompariva dall’universo meccanicistico della scienza nuova. Descartes – annota con acutezza Pietro Prini – trasferì “alla res cogitans, allo spirito … gli antichi privilegi dei corpi astrali o almeno l’essenziale separazione gerarchica che li contrapponeva ai corpi del mondo sublunare. L’uomo, in quanto res extensa, fa parte della fisica ed è dunque anch’esso una macchina - ne è invece sottratto in quanto spirito, che è dotato di tale libertà di iniziativa che ‘noi agiamo in modo da non sentire alcuna forza esteriore che vi ci costringa’, ed è così chiaramente distinto dal corpo da poter esistere senza di esso”21. In un universo che la modernità concepisce monisticamente, l’esistenza di un essere concepito dualisticamente è paradossale. Il corpo umano è, come il corpo di ogni altro vivente, un automa stupefacente, ma nell’automa umano alberga la res cogitans, la cui esistenza può essere provata rigorosamente e scientificamente attraverso gli atti intellettivi e volitivi, la libertà e la parola che sono segno della specificità umana22. L’uomo cartesiano vive in se stesso l’inconciliabile dualismo fra il suo corpo studiato dalla scienza ed il suo spirito che, rivelato dagli atti a lui propri, nella sua ultima realtà sfugge tuttavia alle maglie del metodo sperimentale, oggetto e soggetto insieme. Si tratta di un dualismo estremo e dagli accenti altamente drammatici: se per Platone il dualismo apriva una via sicura alla conoscenza della verità, per Cartesio il dualismo rende contraddittoria l’esigenza

21 PRINI P., Il problema dell’antropologia oggi, in AAVV, Il problema dell’antropologia, Padova 1980, 16. 22 DESCARTES R., Traité de l’homme (1664), in Oeuvres et lettres de Descartes, Paris 1952, 808-873 (trad. it. L’uomo, in Opere scientifiche, vol. 1. La biologia, Torino 1966, 57-154). Sul meccanicismo cartesiano, vedere: BONICALZI F., Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, Milano 1987.

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iniziale di pervenire ad una conoscenza spirituale, e quindi certa ed evidente, del mondo materiale, il quale, come insegna la scienza, può essere percepito solo dai sensi23. Il superamento delle difficoltà del dualismo cartesiano sarà tentato lungo le due vie opposte dello spirito e della materia. Dopo il cartesianesimo, le antropologie che si sono avvicendate alla ribalta del pensiero, nel tentativo di risolvere e comporre la tragica aporia, sono oscillate fra l’oggettività e la soggettività, fra dato e coscienza, fra interiorità ed esteriorità, come un pendolo che con moti isocroni si porta da un capo all’altro del suo percorso. Esula dai nostri intendimenti tracciare una mappa sia pur schematica delle correnti antropologiche che si sono succedute e sovrapposte nel tumultuoso e convulso itinerario filosofico della modernità, ma è possibile cogliere alcune tendenze di fondo, riconducibili al tentativo di superamento del dualismo per ricomporre in unità l’uomo disgregato. Secondo Virgilio Melchiorre si deve considerare “anzitutto il superamento assoluto della dualità, intendendo con questo l’identificazione di uno dei due termini - corpo o spirito - con l’altro. Semplificando e con tutti i pericoli della semplificazione, possiamo tuttavia dire che il superamento assoluto si offre secondo due chiavi interpretative: o dalla parte dell’anima (idealismo) o dalla parte del corpo (materialismo)”24. Poi, dalla fine dell’800, esauritisi tanto il dualismo assoluto quanto il suo superamento spiritualista e idealista, si è imposto sempre più un monismo riduzionista di tipo materialista che, rafforzato dalla sua accoglienza trionfale nel campo scientifico, ha segnato la concezione contemporanea dell’uomo e quindi l’intero quadro della nostra cultura. Questo profonda trasformazione antropologica è legata ad una serie di fattori che sarebbe lungo esaminare, ma non ultimo l’alienazione dell’uomo dalla sua umanità integrale, il primato dell’avere, del conquistare e del dominare rispetto all’essere, al contemplare, all’ammirare, la contrapposizione dei valori materiali e tecnici come più efficaci e produttivi rispetto ai valori spirituali.

Cfr. PETROSINO S., L’io, il corpo e l’origine nel dibattito filosofico contemporaneo, “Communio” 54 (1980), 70-74. 24 MELCHIORRE V., Il corpo, Brescia 1984, 46-47. 23

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Per risolvere la disgregazione schizofrenica dell’uomo dualista, il pensiero moderno maturo elimina quindi uno dei due termini del bipolo e riduce l’uomo alla sola dimensione corporea. L’uomo era convinto di essere il vertice e il centro dell’universo, era convinto di essere stato creato direttamente da Dio nell’anima e nel corpo, era sicuro di possedere - lui solo rispetto a tutti i viventi - un principio spirituale che lo accomunava con il mondo di Dio, ma la scienza moderna - si dice - ha smascherato le false pretese dell’uomo di essere diverso e più dagli altri animali ed ha ferito per sempre il suo puerile narcisismo. L’uomo, che l’antropologia cristiana teocentrica aveva liberato dalla schiavitù della necessità cosmologica, rientra così nell’ordo universi, come episodio accidentale e fortuito della storia del cosmo. La neurobiologia, l’etologia, il comportamentismo, la sociobiologia rappresentano oggi l’espressione dello scientismo riduzionista nella sua forma più raffinata e l’eliminazione più radicale della multidimensionalità antropologica che era stata espressa dagli Antichi con la coppia anima-corpo.

3. Le grandi sfide provenienti dal progresso tecnoscientifico Dopo aver lumeggiato con rapidissime pennellate la complessa parabola del riduzionismo antropologico nella sua perenne tensione cosmocentrica, sullo sfondo di questo variegato contesto, vedremo alcune delle grandi sfide del riduzionismo tecnoscientifico contemporaneo al progetto umano integrale. 3.1 La sfida delle neuroscienze Una delle sfide più durature e gravi alla comprensione adeguata del progetto umano è venuta dallo studio del cervello. Le premesse erano già tutte nel positivismo ottocentesco, ed in particolare nel metodo e nelle teorie fisiologiche elaborati da C. Bernard (1813-1878)25. Con Bernard giunse a maturità una

25 BERNARD C., Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, Paris 1865. Cfr. FEDERSPIL G., SCANDELLARI C., L’evoluzione storica della metodolo-

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concezione fisicista dell’uomo, che si ricollegava non solo all’empirismo materialista di Hume e di Locke, ai sensisti francesi e a tutta la biologia meccanicista sei e settecentesca emblematicamente rappresentata dall’Homme-machine di J. Offroy de La Mettrie (1709-1751), ma ultimamente risaliva allo stesso Cartesio che, nell’ambito della sua antropologia dualista, aveva paragonato il corpo animale, incluso il corpo umano, ad una macchina biologica. Tenacemente avversi all’ammissione di una consistenza extrafisica dei contenuti mentali, gli scienziati positivisti professeranno un materialismo dogmatico acritico e insieme tragico. Lo zoologo Karl Vogt (1817-1895) formulerà in questo senso uno degli assiomi più crudi che esprimono il clima del tempo: “Il pensiero è secrezione del cervello come la bile è secrezione del fegato”. Su uno sfondo meccanicista, alquanto meno ingenuo e metodologicamnte molto raffinato, si muove anche la psicologia fisiologica di J. Wundt (1832-1920), secondo il quale i processi mentali superiori non possono diventare oggetto di ricerca rigorosa, ma viene assunta a oggetto principale di studio la coscienza esaminata attraverso l’introspezione elementistica. Il dualismo in certo qual modo presente nella proposta di Wundt è del tutto superato da una delle risposte più rigorosamente riduzioniste, in senso materialista, al problema del rapporto fra meccanismi neurologici e mente, quella dei comportamentisti o behavioristi. L’ipotesi emessa da J. Watson negli anni ’20 è che il comportamento umano non ha cause mentali, dal momento che il comportamento osservabile di un organismo, incluso l’organismo umano, dipende dalle risposte osservabili a determinati stimoli: le cause del comportamento stanno negli stimoli e non in un preteso mondo della mente. Ricollegandosi idealmente a queste posizioni, Skinner più tardi sviluppò una psicologia il cui ruolo è quello di catalogare le leggi che determinano relazioni casuali fra stimoli e risposte. Le asserzioni psicologiche del tipo “ho sete” significano, cioè “stanno per”, comportamenti e dispo-

gia in medicina, in “Federazione Medica” 44 (1991), 481-490; GRMEK, M. D., Raisonnement expérimentale et recherches toxicologiques chez Claude Bernard, Paris-Genève 1973 (trad. it. Psicologia ed epistemologia nella ricerca scientifica. Claude Bernard: le sue ricerche tossicologiche, Milano 1976).

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sizioni al comportamento.“Ho sete” significa quindi “Se ci fosse acqua da bere, la berrei”. Ai nostri giorni, venendo a contatto con l’incredibile sviluppo delle neuroscienze, l’eterno problema anima-corpo ha assunto la forma del dilemma mente-cervello. Pare essere un’evidenza che esistono contenuti mentali, che esistono la creatività e la fantasia, che esiste la capacità di elaborare le idee e di produrre simboli, ma non è chiaro che rapporto intercorra fra lo psichico e il neurologico. Una impostazione alquanto diffusa fra i cultori delle neuroscienze, di cui si è fatto influente interprete J.-P. Changeux con L’homme neuronal26, tende non solo a ridurre lo spirituale al mentale o allo psichico, ma cerca di ridurre ulteriormente il mentale al neurologico. Secondo la lettura materialista della vita psichica, il mentale non è distinto dal fisico e tutti gli stati, le proprietà, i processi e le operazioni mentali sono identici, in linea di principio, a stati, proprietà, processi e operazioni fisiche. La teoria dell’identità ha due principali declinazioni: la identità di tipo, per cui ad ogni evento mentale corrisponde un ben determinato evento cerebrale, e la identità di occorrenza, per cui ogni evento mentale è identico a un evento cerebrale, anche se non è possibile ridurre la tassonomia della psicologia a quella della neurologia. Una lettura ancora più estrema nega che esistano realtà ed eventi mentali e che quindi il linguaggio che si riferisce ad essi è semanticamente vuoto o, al massimo, costituisce uno strumento utile per interpretare noi e gli altri, pur non designando alcuna realtà sussistente27. Lo studio della memoria, dei centri della parola, della visione, degli stati emotivi compiuti attraverso la Risonanza magnetica, la Tomografia emissione di positroni e altre metodiche di brain imaging che permettono di seguire in diretta il funzionamento di determinate aree cerebrali in relazioni con specifiche operazioni mentali, sembra confermare una precisa localizza-

CHANGEUX J.-P., L’homme neuronal, Paris 1983 (trad. it. L’uomo neuronale, Milano 1983). 27 Cfr. CHURCHLAND P.M., Matter of Conscioussness. A Contemporary Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge (Mass) 1984; CHURCHLAND P. S., Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind-Brain, Cambridge (Mass) 1986. 26

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zione cerebrale di eventi psichici quali memoria, volizione, intellezione, emozioni, elaborazione delle sensazioni. La corrispondenza fra precisi stati mentali e modificazioni funzionali di alcuni gruppi neuronali o di intere aree cerebrali conferma la precomprensione riduzionistica che il mentale altro non sia che un modo per indicare l’effetto delle funzioni neurofisiologiche28. Contro coloro che, come il filosofo D. Chalmers29, parlano del rapporto mente-cervello come di hard problem e postulano una irriducibilità della mente a qualcos’altro, allo stesso modo che sono irriducibili le categorie di spazio e di tempo, D. Dennett sostiene che, una volta risolto i soft problems, gli aspetti strutturali e funzionali del cervello, avremo risolto anche il problema della coscienza30. Le scoperte sui neuromediatori e sui neuromodulatori del sistema nervoso centrale, gli effetti sul comportamento e sul tono dell’umore di svariate sostanze psicotrope, gli stessi successi della psiconeurofarmacologia su patologie mentali, finora ribelli a qualsiasi trattamento psicoterapico, convergono a confermare una interpretazione organicista della vita psichica. La stessa medicina psicosomatica sembra aver riscoperto l’unità pluristratificata del composto umano, ma, a ben guardare essa non è altro che una variante del generale riduzionismo, perché riduce la persona all’integrazione di soma e di psiche, intendendo per psiche la somma dei contenuti mentali consci e inconsci e non certo il principio immateriale dell’esistenza umana. Si potrebbe obiettare che le modificazioni neurobiologiche accadono semplicemente in occasione e per effetto dei processi mentali, ma, con rigorosa applicazione del rasoio riduzionista, A. Damasio risponde che “i processi biologici che sembrano semplicemente corrispondere a processi mentali, in realtà sono i pro-

28 Si veda, in questo senso: CRICK F., The Astonishing Hypothesis. The Scientific Search for the Soul, New York 1994 (trad. it. La scienza e l’anima, Milano 1994). 29 CHALMERS D. J., The Puzzle of Conscious Experience, “Scientific American” 273 (1995), 80-86. 30 DENNETT D., Consciousness Explained, London 1991 (trad. it. Coscienza. Che cosa è, Milano 1993); ID., Kinds of Minds (trad. it. La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, Milano1997).

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cessi mentali: non sto negando – egli continua – l’esistenza della mente o affermando che, quando avremo conosciuto tutto ciò che occorre sapere sulla biologia, la mente cesserà di esistere. Penso semplicemente che la mente, sebbene preziosa e unica, sia un’entità biologica, che deve essere descritta in termini biologici”31. Una risposta all’antimentalismo che caratterizza molte teorie psicologiche e comportamentali a sfondo neurofisiologico è data dalle sempre risorgenti teorie dualiste. Secondo l’impostazione dualista, la mente non è riducibile al cervello, ma è una sostanza non fisica, tradizionalmente detta spirito o anima. Esistono diverse versioni del dualismo fra le quali il dualismo emergentista, come quello di K. R. Popper, e il dualismo interazionista neo-cartesiano, come quello di J. C. Eccles32. Si tratta di posizioni molto variegate e complesse che qui non possiamo certo esaminare in dettaglio, ma contro le quali vengono sollevate due principali difficoltà: se la mente è qualcosa di non fisico, ne segue che non occupa una posizione nello spazio fisico e allora riesce difficile capire come una causa non fisica possa dare un effetto comportamentale che ha come via d’uscita una alterazione fisica; in secondo luogo ci si chiede come il non fisico possa dar luogo ad un effetto fisico senza violare le leggi di conservazione della massa, dell’energia e della quantità di moto, senza cioè che si abbia una produzione di energia ex nihilo. La risposta del neurobiologo J. C. Eccles e del fisico R. Penrose è che, all’interno dei microtubuli dei neuroni, i moti molecolari implicati nell’attività neuronale devono essere immaginati come soggetti alla meccanica quantistica e non a quella classica33. In altre parole, l’attività neuronale non risponde al determinismo della fisica classica, ma all’indeterminismo della

DAMASIO A. R., Mente, coscienza e cervello, “Le Scienze” 63 (1999), 101. ECCLES J. C., POPPER K. R., The Self and its Brain, Berlin- New York 1977 (trad. it. L’io e il suo cervello, Roma 1981; ECCLES J. C., Evolution of the Brain. Creation of the Self, Routledge-London-New York 1989 (trad. it. Evoluzione del cervello e creazione dell’io, Roma 1990). 33 PENROSE R., The Emperor’s New Mind.. Concerning Computers, Minds, and the Laws of Physics, Oxford 1989 (trad. it. La mente nuova dell’imperatore, Milano 1992); ID., Shadows for the Mind. An Approach to the Missing Science of Conscioussness, Oxford 1994 (trad. it. Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Milano 1996). 31 32

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fisica quantistica. Benché non sembri plausibile cercare di spiegare l’obscurum per obscurius, tuttavia è affascinante pensare che la libertà e la creatività della persona potrebbero essere riconnesse al principio di indeterminazione. 3.2 La sfida delle scienze cognitive L’antimentalismo ha dominato quasi incontrastato la scena antropologica sino a tutti gli anni ’60 ed i suoi echi si possono rintracciare in molti dei più influenti autori e movimenti filosofici, dall’empirismo logico, a Quine a Ryle, al secondo Wittgenstein. Lo sviluppo delle scienze cognitive negli anni ’70 segna una svolta nella comprensione del rapporto mente-cervello e un deciso superamento delle posizioni dei comportamentisti, al punto che tale che i cognitivisti, pur non essendo dualisti, si autodefinirono provocatoriamente mentalisti. Le scienze cognitive partono da quella che è l’architettura interna dei processi cognitivi e, per farlo, ricorrono a modelli computazionali nella presunzione che la mente umana funzioni come una elaboratrice attiva delle informazioni che le giungono tramite gli organi sensoriali, in analogia con i servo-mecanismi di tipo cibernetico. Secondo la versione classica del funzionalismo computazionale, introdotta da Hilary Putnam, gli stati o i processi mentali sarebbero identici a stati o processi computazionali della mentecervello, ovvero, con una metafora, la mente è il software che gira nel nostro hardware cerebrale34. Ai nostri giorni lo studio delle reti neurali sta producendo in questo campo notevoli sviluppi ed evoluzioni, con un continuo rinvio dall’intelligenza naturale a quella artificiale e viceversa. Dall’interpretazione del cervello che come un sistema di interconnessioni gerarchizzate e distribuite in parallelo è scaturita la progettazione di computer a imitazione delle reti neurali e quindi dotati di flessibilità di fronte a situazioni nuove e di capacità di apprendimento, anche

34 PUTNAM H., Minds and Machines, in HOOK S. ed., Dimensions of Mind, New York 1960.

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se tuttora più primitivi del più elementare sistema nervoso animale35. Se la mente pensante può essere compresa adeguatamente in termini computazionali, allora si può teorizzare che un computer potrà, presto o tardi, simulare le prestazioni dell’intelligenza umana. È ovvio, infatti, che, se il soggetto pensante funziona come una macchina si può ipotizzare che una macchina opportunamente progettata possa giungere a sviluppare un pensiero analogo a quello umano. A ben guardare, la questione è tuttavia più complessa di quanto non vorrebbero accettare i nostri sogni sull’intelligenza artificiale: prima di tutto noi non sappiamo esattamente che cosa significhi essere intelligenti e pensare, ma certo il pensare umano non può essere ridotto allo svolgimento di compiti per quanto impegnativi essi siano. Il soggetto che pensa – a meno di non far ricorso all’homunculus ovvero dello spirito nella macchina (ghost in the machine) dei dualismi ingenui36 – non raggiunge l’autocoscienza, la percezione della propria soggettività a prescindere dal suo corpo, dalle sue sensazioni, dalle sue emozioni. Secondo la ipotesi riduzionista difesa da A. R. Damasio e G. M. Edelman, il fondamento biologico del senso del Sé può essere rinvenuto nei meccanismi cerebrali che rappresentano, istante dopo istante, la continuità di uno stesso organismo. Damasio, in particolare, ritiene che il cervello sia capace non solo di rappresentarsi il mondo esterno e di ricavarne mappe, ma anche di autorappresentare l’organismo cui esso appartiene e che interagisce con il mondo esterno. Il cervello è in grado di produrre elabora-

35 CHURCHLAND P., SEJNOWSKI T. R., The Computational Brain. Models and Methods on the Frontiers of Computational Neuroscience, Cambridge (Mass) 1992 (trad. it. Il cervello computazionale, Bologna 1995); EDELMAN G. M., Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, New York 1987 (trad. it. Darwinismo neurale: la teoria della selezione dei gruppi neurali, Torino 1995). 36 Il problema del Sé viene tradizionalmente risolto postulando l’esistenza di un homunculus pensante che sarebbe il soggetto ultimo dell’autocoscienza, ma questo sposta il problema dal cervello all’homunculus. Cfr. DAMASIO A. R., Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain, New York 1994 (trad. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano 1996.

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zioni sia di primo, sia di secondo ordine, di elaborare, per esempio, sia la sensazione visiva, sia l’organismo che riceve ed elabora questa stessa sensazione: l’autocoscienza è un’autorappresentazione dell’organismo che interagisce con il mondo37. Solo accidentalmente questa autorappresentazione può servirsi di espressioni verbali e non verbali che permettono, fra l’altro, alla soggettività umana di emergere pienamente38. Così l’ipotesi computazionale e rappresentazionista ritiene di eliminare per sempre il ricorso a entità immateriali e, in ogni caso, diverse dal cervello. L’uso di metafore tratte dal mondo della tecnica per descrivere e comprendere il funzionamento del sistema nervoso centrale è antico e può rivelarsi fecondo39. I grandi neurofisiologi hanno tratto spesso dal loro ambiente l’ispirazione per illustrare, con opportune analogie, le loro teorie anatomo-fisiologiche. Galeno nel II secolo d. C., pensando alla mirabile rete idrica dei Romani, paragonò il sistema nervoso centrale a una complicata rete di acquedotti; Descartes, nel XVI secolo, mentre si diffondeva in Europa la mania degli automi, spiegò in termini meccanicistici le reazioni nervose dei bruti; i medici dell’800, affascinati dalle scoperte nel campo dell’energia elettrica e del suo sfruttamento, paragoneranno il sistema nervoso centrale ad una grande centrale elettrica; noi, che viviamo immersi nel mondo dei computer, amiamo dare una spiegazione cibernetica del funzionamento della mente. Ovviamente se si tratta di metafore ed analogie, questo procedimento è corretto e può servire per illuminare

37 Cfr. DAMASIO A. R., The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciuosness, Harcourt Brace 1999; EDELMAN G. M., Bright, Air, Brilliant Fire. On the Matter of the Mind, New York 1992 (trad. it. Sulla materia della mente, Milano 1993); KOSSLYN S., Image and Brain. The Resolution of the Imagery Debate, Boston 1994. Partendo dal presupposto che l’autocoscienza è autorappresentazione, si riduce un problema metafisico a un problema gnoseologico. L’autocoscienza è invece frutto della reditio completa dello spirito, resa possibile proprio perché lo spirito è, per definizione, immateriale e inesteso. Per lo sviluppo dell’argomento si veda: BASTI G., Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Bologna 1991, 23-61. 38 Sul rapporto fra cervello, mente e linguaggio: BONCINELLI E., Il cervello, la mente e l’anima, Milano 1999. 39 Sull’uso delle metafore: KUHN T. S., La metafora nella scienza, Milano 1983.

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questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema nervoso centrale, se rispondono invece alla logica nientaltrista, diventano letture riduttive e parziali. Dire che esiste una analogia tra il funzionamento del cervello umano e il funzionamento di un computer è del tutto legittimo, mentre invece affermare che “il cervello umano non è nient’altro che un calcolatore” è riduttivo. Le scienze cognitive rischiano certamente di cadere in una forma molto sottile di meccanicismo, ma la situazione cambia se passiamo da una considerazione banale e fisicista del cervello computazionale alla considerazione del significato informazionale delle reti neurali. In questa direzione si muove G. Basti, studioso di stretta osservanza tomista ed esperto di cibernetica, il quale ha compiuto un interessante tentativo di porre in rapporto il tema della forma corporis con quello delle reti neurali, recuperando l’idea di dispositio e soprattutto recuperando il tema scolastico dell’intenzionalità rispetto a quello moderno della rappresentazione. Non si tratta quindi di creare energia, come nel dualismo interazionista, ma di produrre informazione e la mente potrebbe essere descritta come una forma che organizza la materia40. 3.3 La sfida dell’evoluzionismo La teoria dell’evoluzione come fu proposta da Ch. Darwin nel 1859, pur essendo nata come semplice ipotesi biologica, è diventata poco a poco una chiave di lettura di tutta la realtà ed ha sostituito una visione rigida e statica del mondo con una visione dinamica e in divenire, allargandosi ad abbracciare in un unico movimento evolutivo il cosmo stesso. La teoria della evoluzione, con tutte le sue ricadute in campo sociale, politico ed economico, ispirate soprattutto alla logica della sopravvivenza del più adatto, e con la sua carica eversiva verso antiche istituzioni e credenze è più che una teoria scientifica: essa è una vera e propria metanarrazione tipica della modernità e, come tale, si presta ad essere strumentalizzata e piegata verso usi ideologici extrascientifici.

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BASTI G., Il rapporto mente-corpo, 106. 265.

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Una delle grandi sfide dell’evoluzionismo al progetto umano e motivo permanente di scandalo, sta nella affermazione della continuità fra uomo e animali. Collocata in un orizzonte empirista, questa affermazione, trapassa facilmente dalla continuità biologica, che può essere verificata o falsificata, alla continuità ontologica che, essendo un asserto metafisico non è verificabile né falsificabile attraverso prove ed esperimenti. Tale pretesa continuità va contro una persuasione profondamente radicata nell’animo umano. I nostri antenati, infatti, nel corso della evoluzione della nostra specie, hanno sviluppato una crescente consapevolezza del loro essere, una autocoscienza che li faceva cogliere a se stessi come soggetti di fronte agli oggetti naturali. Il rapporto uomo-animale è stato segnato sin dagli albori dell’umanità dalla contrapposizione, una contrapposizione nella lotta della sopravvivenza che si è tradotta nella convinzione di una ben più profonda e insuperabile contrapposizione ontologica, sul piano dell’essere. Si può dire che l’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale. Umanità e animalità appaiono come termini di una polarità irriducibile: il possesso del logos e l’uso, quindi, della parola e della ragione, qualificano l’uomo e segnano la sua distanza incolmabile dall’animale, che è àlogos, privo di favella e pertanto di razionalità41. Questa idea percorre davvero tutta la storia culturale dell’Occidente, dall’antichità greca, attraverso il cristianesimo, sino alla modernità. Se per Aristotele l’uomo si distacca e si differenzia dalla sua base animale perché appunto dotato di razionalità (l’uomo è zoòn logikòn o animal rationale), la fede giudeocristiana riconosce, pur nella comune origine creaturale e terrestre, l’incomparabile superiorità dell’uomo sull’animale, essendo l’uomo dotato di uno spirito vitale che lo assomiglia, come divina imago, al Signore e ne giustifica il compito dominativo sulle altre creature. Nella concezione scientifica del mondo propria della modernità non c’è dubbio che l’animale esista per il servi-

41 Sulla storia del rapporto uomo-animale: BONDOLFI A., Rapporti uomoanimale. Storia del pensiero filosofico e teologico, “Rivista di Teologia Morale” 21 (1989), 57-77; 107-123 (ricca selezione bibliografica); CASTIGNONE S., LANATA G. curr., Filosofi e animali nel mondo antico, Pisa 1994.

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zio e il benessere dell’uomo e sarà proprio il meccanicismo che caratterizza il nascere della biologia moderna a fornire una base “scientifica” allo sfruttamento animale42. Preparata idealmente da antesignani sette e ottocenteschi e sorretta scientificamente dagli apporti delle scoperte nel campo dell’evoluzione, dell’etologia, della sociobiologia, una delle novità filosofiche più significative degli ultimi decenni è stato l’emergere della cosiddetta tematica animalista. La filosofia animalista sottopone ad analisi critica le categorie di umanità e animalità, per verificarne la consistenza e l’adeguatezza teoretica rispetto agli attuali parametri scientifici, e riflette sulla relazione uomo/animale, tradizionalmente interpretata in termini antinomici, partendo dall’assunto opposto che, cioè, questa antinomia è insostenibile e interrogandosi sul significato di natura umana o razionale in quanto opposta a natura animale43. Un tema preso di mira dai filosofi animalisti per mostrarne l’insostenibilità dal punto di vista scientifico è quella della complessità mentale, argomento principe tradizionalmente usato dai sostenitori di una prassi di esclusione assoluta degli animali dal mondo morale. Nella prospettiva dell’antropologia riduzionista l’esse è appiattito sul bios e viene negata aprioristicamente l’esistenza di realtà spirituali nell’uomo, per cui si cerca di ricondurre le facoltà superiori dell’uomo (razionalità, autocoscienza, libertà) a semplici dinamismi psichici. Una volta esclusa la dimensione spirituale dell’uomo, la demarcazione fra umanità e non umanità o animalità diventa evanescente. Non solo infatti la nostra vita mentale non è considerata altro che un effetto dell’attività del sistema nervoso centrale, ma si può anche scientificamente dimostrare che essa si svolge su una struttura largamente comune alle altre specie: i dati più recenti offerti dalla neurofisiologia comparata, dimostrano che esiste una reale somiglianza e continuità delle funzioni neurofisiologiche fondamentali in tutti gli animali pluricellulari, uomo incluso, e che le

42 Si noti, però, che il macchinismo cartesiano è stato recentemente rivisitato: COTTINGHAM, A Brute to the Brutes? Descartes and the Treatment of Animals, “Philosophy” 53 (1978), 551-558. MARCIALIS M. T., La questione dell’anima delle bestie ovvero la razionalità senza soggetto, “Rivista di Storia della Filosofia” 48 (1993), 83-100.

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somiglianze crescono - come è intuibile - con il crescere della posizione di una certa specie nella scala zoologica. La continuità a livello delle strutture neurologiche e le omogeneità di funzionamento, fanno pensare che debba esistere una vera continuità anche tra le funzioni mentali che queste strutture e funzioni sottendono e, in particolare, si può legittimamente pensare a una continuità fra sensibilità, intelligenza, autocoscienza umana e sensibilità, intelligenza, autocoscienza animale44. Non esiste perciò una barriera invalicabile tra umani e non umani e diventa possibile confrontare le esperienze psichiche tra specie diverse sulla base dell’accertata similitudine delle proprietà fondamentali dei neuroni, delle sinapsi e dei meccanismi neuroendocrini. La visione delle relazioni biologiche e ultimamente ontologiche fra uomo e animali, generata dall’evoluzionismo estremo di matrice darwiniana, ha ricevuto conferme non solo dalla paleontologia, l’anatomia comparata e la genetica, ma anche – come vedremo più avanti – dall’etologia che, studiando il significato del comportamento, delle motivazioni, della comunicazione degli animali, ha cercato di evidenziarne elementi significativi di continuità col comportamento umano e ha portato a rafforzare, di conseguenza, l’idea dell’affinità e della continuità dell’uomo con le altre specie animali. Ne consegue un’antropologia che non teme di umiliare la dignità umana nel considerare Homo sapiens sapiens una specie fra le altre e un’etica che, negata la sacralità della vita umana, non riesce più a cogliere la differenza assiologica fra vita umana e vita animale45.

Per un primo approccio: BATTAGLIA L., Etica e diritti degli animali, Roma-Bari 1997; CASTIGNONE S. cur., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, Bologna 19882; REGAN T., P. SINGER eds., Animal Rights and Human Obligations, Englewood Cliffs 1976 (trad. it. Diritti animali, obblighi umani, Torino 1987); SINGER P. ed., In Defence of Animals, Oxford 1985 (trad. it. In difesa degli animali, Roma 1987). 44 Cfr. ALLEN C., BEKOFF M., Species of Mind, Cambridge (Mass.) 1997 (trad. it. Il pensiero animale, Milano 1998); DENTON D., The Pinnacle of Life. Consciousness and Self-Awareness in Humans and Animals, St. Leonards (Australia) 1993; GRIFFIN D. R., The Question of Animal Awareness, New York 1976 (trad. it. L’animale consapevole, Torino 1979); VALLORTIGARA G., Altre menti. Lo studio comparato della cognizione animale, Bologna 2000. 45 Questa posizione è stata sviluppata in due studi molto discussi: 43

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La posizione della teologia cattolica e del Magistero sull’evoluzionismo applicato all’uomo è stata molto circospetta e non è questa la sede per entrare nel dettaglio46. Oggi, superati, mediante un’accorta purificazione epistemologica, i pregiudizi materialisti e immanentistici presenti nelle versioni correnti dell’evoluzionismo e risolti, mediante una ermeneutica raffinata, i più ardui ostacoli antievoluzionistici contenuti nelle fonti della Rivelazione, resta la questione davvero fondamentale di comprendere come la persona umana, nella sua unità di anima e di corpo, possa emergere da realtà ontologicamente inferiori. Secondo l’interpretazione proposta da Karl Rahner – che resta ancor oggi una delle letture più penetranti – si deve pensare a un autosuperamento della creatura che è reso possibile attraverso il concorso di Dio che non opera accanto all’operare creaturale, ma che è causa di quello stesso operare47. Questa visione dell’uomo e dell’evoluzione umana che, pur rispettando la multidimensionalità dell’uomo e la distanza ontologica fra la realtà umana e non umana, ci fa tuttavia sentire parte integrante del nostro universo materiale risponde a un bisogno profondo del cuore umano, sempre teso fra mondanità e trascendenza. Gli esseri intelligenti non sono frutto di pura casualità – come afferma, in uno dei manifesti del riduttivismo biologico, J. Monod48 – ma il traguardo del divenire del cosmo.

RACHELS J., Created from Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford-New York 1990 (trad. it. Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Milano 1996); SINGER P., Rethinking Life and Death (trad. it. Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano 1996). 46 Una sintesi storico-teologica: MOLARI C., Darwinismo e teologia cattolica, Roma 1984. Si veda il numero monografico di “Concilium” 36 (2000), 1 su Evoluzione e fede. Il 24- 10-1996, il Santo Padre ha inviato una Lettera alla Pontificia Accademia delle Scienze che contiene un’apertura all’evoluzionismo moderato. Si vedano i commenti: MURATORE S., Magistero e darwinismo, “Civiltà Cattolica” 148 (1997), I, 141-145; VILLANUEVA J., Una riabilitazione dell’evoluzionismo? Elementi per un chiarimento, “Acta Philosophica” (1998), 127-148. 47 RAHNER K., OVERHAGE P., Das Problem der Hominisation, Freiburg 19632 (trad. it. Il problema dell’ominizzazione, Brescia 1969). 48 MONOD J., Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Paris 1970 (trad. it. Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano 1970).

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Se nella lezione di Teilhard de Chardin l’evoluzione del cosmo e dei viventi risponde a una direzione di movimento che punta al traguardo della Noosfera sino al punto Omega49, secondo i fautori del cosiddetto principio antropico, il cosmo è strutturato fin dall’inizio in modo tale da ammettere la comparsa nel suo seno, a un qualche stadio, di esseri capaci di coglierne l’intima intelligibilità50. “Il cosmo- commenta Saturnino Muratore – è inteso come un grande complicatissimo laboratorio che sta eseguendo un programma, la produzione della vita, anzi, della vita intelligente … Questo insperato recupero dell’Anthropos all’interno di una lettura scientifica del cosmo rappresenta un’autentica svolta nei confronti di quella rivoluzione copernicana che aveva dato origine alla modernità occidentale”51. 3.4 La sfida della genetica Gli stupefacenti progressi della genetica, la scoperta della probabile base genetica non solo dei caratteri fisici ma anche delle disposizioni a contrarre malattie, dei tratti temperamentali, di certe inclinazioni normali e devianti, la possibilità di leggere il programma genetico dell’uomo e, virtualmente, di ciascuno di noi, la prospettiva di poter intervenire e manipolare questo stesso programma attraverso l’ingegneria genetica, stanno provocando profonde ripercussioni nella nostra consideraVedere, oltre ovviamente ai testi del gesuita francese, alcuni studi d’insieme: GIBELLINI R., Teilhard de Chardin: l’opera e le interpretazioni, Brescia 19842; SMULDERS P., La visione di Teilhard de Chardin, Torino 1967; 50 Sul principio antropico: BARROW J. D., TIPLER F. J., The Anthropic Cosmological Principle, Oxford 1988; BERTOLA F., CURI U. eds., The Anthropic Principle, Cambridge 1993; GALE G., Il principio antropico, “Le Scienze” (1982), 62-73; MASANI A., Il principio antropico; in COYNE G. V., SALVATORE M., CASACCI C. edd., L’uomo e l’universo, Città del Vaticano 1987, 4-21; MURATORE S., L’evoluzione cosmologica e il problema di Dio, Roma 1993; RONDINARA S., Il principio antropico e l’unità dell’universo, “Nuova Umanità” 12 (1991), 39-53. Critici sul valore del principio: GALLENI F., Scienza e teologia. Proposte per una sintesi feconda, Brescia 1992; STRAFELLA F., Le obiezioni al principio antropico, in GIANNONI P. cur., La creazione. Oltre l’antropocentrismo, Padova 1993, 30-40. 51 MURATORE S., L’origine e l’evoluzione della vita. Puntualizzazioni epistemologiche, “Rassegna di Teologia” 38 (1997), 213. 49

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zione dell’uomo, delle sue scelte e dei suoi comportamenti. L’ingegneria genetica costituisce uno strumento molto potente per allargare le nostre conoscenze nel campo delle scienze della vita, dall’embriologia, alla fisiologia, alla patologia. L’impiego delle sonde molecolari, permettendo di riconoscere la sequenza e la posizione dei geni sui cromosomi, ha aperto la possibilità di analizzare interi genomi (mappatura). L’obiettivo più ambizioso è la mappatura dell’intero genoma umano normale e della individuazione delle principali alterazioni genetiche alla base di patologie umane: a questo stupefacente progetto, detto progetto genoma, si stanno dedicando decine di istituti di ricerca in tutto il mondo coordinati a livello internazionale52. La biologia sta chiarendo la cascata di eventi che può spiegare le relazioni fra predisposizione genetica e comportamenti. I geni codificano infatti proteine con funzioni diverse: se ci sono alterazioni genetiche, per esempio, nelle proteine che costituiscono i recettori implicati nella risposta nervosa o che sono coinvolte nella metabolizzazione dei neuromediatori, possono aversi turbe psichiche e comportamentali legate all’alterato equilibrio dei neuromediatori. Nel caso della tossicodipendenza, per esempio, è stato provato che nel causare tale condizione concorrono diversi fattori di tipo socio-culturale, psicologico e biologico che interagiscono fra loro secondo modalità non ancora pienamente chiarite. Esistono indizi scientificamente provati, benché di significato ancora piuttosto incerto, che porterebbero a ipotizzare l’esistenza - almeno in alcuni soggetti - di una sorta di predisposizione biologica all’assunzione di droghe, analogamente a quanto è stato supposto per l’assunzione di alcool negli alcoolisti. Tuttavia la semplice e inoppugnabile osservazione che persino

52 Per approfondire: BROVEDANI E., Progetto genoma. Aspetti tecnicoscientifici, prospettive e implicazioni etiche, “Aggiornamenti sociali” 40 (1989), 487-507; TRENTIN G., Progetto Genoma. Questioni etiche della conoscenza e manipolazione del patrimonio genetico, “Credere oggi” 17 (1997), 4, 37-54; WILKIE T., La sfida della conoscenza. Il progetto genoma e le sue implicazioni, Milano 1995; ZUCCO F., Responsabilità etica e ricerca scientifica: il caso della mappatura del genoma, in DI MEO A., MANCINA C. curr., Bioetica, Bari 1989, 217-230.

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un soggetto diventato tossicodipendente possa interrompere permanentemente, se opportunamente aiutato e motivato, l’assunzione compulsiva della droga, ci porta a ritenere che tale predisposizione non agisce in modo deterministico o almeno che non sia sufficiente a spiegare da sola il sorgere del comportamento di abuso53. “Il fenomeno della tossicodipendenza - scrive lo psichiatra V. Andreoli - è l’insieme di tre fattori: sostanza, consumatore, ambiente sociale in cui l’incontro tra sostanza e consumatore si attua. Qualsiasi valutazione fatta ignorando uno di questi elementi conduce ad un errore riduzionistico. Vi può essere il riduzionismo farmacologico, quello psicologico ed infine quello sociologico. Ognuno di questi atteggiamenti tende a minimizzare o neutralizzare le altre componenti”54. Certamente, anche ridimensionando il determinismo genetico verso comportamenti anomali o devianti, resta la percezione che la nostra libertà sia probabilmente più condizionata di quanto di solito non si sospetti. Sappiamo che la libertà umana è una realtà in via di definizione ed emerge concretamente come frutto della dialettica fra determinazione e non determinazione, ma le spinte deterministiche – dopo la scoperta della base genetica di tante inclinazioni e comportamenti – operano ad un livello strutturalmente così intimo e profondo da chiederci se davvero si aprono spazi adeguati per l’esercizio della libertà55. Una forma estrema di riduzionismo, strettamente connesso con i progressi della genetica, è dato da una nuova disciplina, la sociobiologia56. Secondo la definizione data dal suo fondatore, E.

GERRA G., Drogati si nasce? Percorsi nell’infanzia-adolescenza prima della tossicodipendenza, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 18: “Se qualcosa di biologico dovesse realmente influenzare l’individuo nella sua pulsione verso le sostanze - conclude G. Gerra - si tratterebbe di un semplice cofattore, cioè di un componente parziale determinante il comportamento, non della causa assoluta: è facile immaginare quante possibili influenze ambientali e culturali vadano a modificare nell’uomo le spinte ricevute dalla natura e si sommino con la sua struttura biologica”. 54 ANDREOLI V. et al., Tossicodipendenze, Milano 19942, 1-2. 55 Una trattazione di impostazione classica, ma aggiornata ai progressi delle scienze, sui condizionamenti dell’atto umano in: CHIAVACCI E., Teologia Morale, vol. 1, Assisi 19844, 49-94. 56 Sul rapporto fra sociobiologia e morale: DE FEO A. M., L’etologia di K. 53

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O. Wilson, la sociobiologia è “lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale”57. Essa cerca di spiegare ogni comportamento, specialmente quello sociale, sia degli animali, sia dell’uomo con le sole risorse della biologia in una prospettiva evoluzionista che integra i dati della genetica e quelli dell’etologia. La biologia ci insegna che ogni specie è caratterizzata da un certo patrimonio genetico che viene trasmesso in modo invariante alla progenie, ma, all’interno di una stessa specie e quindi nell’ambito di un’informazione sostanzialmente omogenea, possono esistere genotipi che presentano leggere diversificazioni. Il processo selettivo che sta alla base dell’evoluzione consiste sostanzialmente nella sopravvivenza e nella riproduzione differenziale dei diversi genotipi: in un certo ambiente un certo genotipo può rivelare una maggiore idoneità biologica e quindi una migliore capacità di sopravvivenza e di riproduzione. La selezione naturale, dunque, si riferisce primariamente alla sopravvivenza dei geni e non alla sopravvivenza dell’individuo. Lasciando da parte le critiche di natura scientifica mosse a Wilson e ai suoi seguaci, dal punto di vista filosofico il limite di fondo della sociobiologia sta nel suo esasperato e programmatico riduzionismo: essa dà un’importanza esclusiva agli aspetti genetici dell’evoluzione sociale e sottovaluta gli aspetti extragenetici che, nella specie umana, determinano invece quella seconda natura che è la cultura. Non sfugge al riduzionismo neppure la proposta, per altri versi affascinante, di Dawkins. Correggendo l’idea di Wilson che la cosa più importante dell’evoluzione sia il bene della specie invece che il bene dell’individuo e quindi dei suoi propri geni, Dawkins ritiene “una qualità predominante da aspettarsi in un gene che abbia successo è un egoismo spietato. Questo egoismo del gene provocherà, in genere, egoismo nel comportamento dell’individuo … Tuttavia esistono circostanze speciali in cui un gene può raggiungere le proprie mete egoistiche favorendo una

Lorenz e la sociobiologia di E. O. Wilson. Due paradigmi per un’etica naturale evolutiva, Roma 1990. 57 WILSON E. O., Sociobiology. The New Synthesis, Cambridge (Mass.) 1975 (trad. it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna 1979).

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forma limitata di altruismo a livello dei singoli animali”58. Egli è d’altra parte ben conscio che “una società umana basata soltanto sulla legge del gene, una legge di spietato egoismo, sarebbe una società molto brutta in cui vivere”59. Per fortuna, però, anche se la natura biologica non sempre ci aiuta, la nostra specie può cercare di opporsi ai disegni dei geni egoisti. Infatti, accanto ai replicatori naturali, i geni, sono apparsi, con l’uomo, replicatori culturali, detti da Dawkins memi o unità di imitazione assunte per apprendimento (es. parole, teorie, norme, melodie ecc) la cui evoluzione e diffusione può essersi attuata in un certo modo perché è vantaggioso per lui. Forse Aristotele avrà soltanto ancora due o tre dei suoi geni in viaggio per il mondo, ma i suoi memi sono ancora molto diffusi nell’umanità e continuano a influenzare le nostre scelte, giudizi, comportamenti. A ben guardare, tuttavia, gli esseri umani restano, anche in questo caso, semplici supporti dei memi, come prima erano stati i supporti dei geni egoisti60. Una delle grandi sfide della genetica e delle discipline che ad essa si appellano sta proprio in questa riduzione di tutto l’agire umano alle leggi del vantaggio selettivo sia esso popolazionistico o individuale e quindi nella difficoltà di spiegare come libertà possa emergere e sopravanzare il determinismo del gene tiranno.

4. Verso una conclusione: riaffermare l’eccedenza umana Molti argomenti riduzionisti possono essere accusati di essere semplicistici o frutto di sintesi affrettate e, in effetti, il dibattito in campo scientifico e filosofico è ampio e serrato, ma la sfida del riduzionismo non manca il bersaglio e pone gravi

58 DAWKINS R., The Selfish Gene, Oxford 1976 (trad. it. Il gene egoista, Milano 1995, 4-5). 59 Ibid., 5. 60 La tesi corrente è che la trasmissione dei dati culturali (incluse le norme morali) avviene in modo lamarckiano, cioè istruttivo, e non attraverso meccanismi selettivi di tipo darwiniano, ma si stanno facendo strada modelli biologici di trasmissione della cultura: CHANGEUX J.-P., Ragione e piacere, Milano 1995; CHANGEUX J.-P., RICOEUR P., La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Milano1999; SPERBER D., Il contagio delle idee, Milano 1999.

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interrogativi al progetto uomo. In sostanza, rispondere alle sfide del riduzionismo antropologico significa riaffermare la differenza dell’essere umano rispetto ad ogni altro essere e quindi la sua eccellenza assiologica, come si legge in un famoso testo di Gaudium et Spes dedicato a descrivere i costitutivi dell’uomo: Corpore et anima unus, homo per ipsam suam corporalem condicionem elementa mundi materialis in se colligit … Homo vero non fallitur, cum se rebus corporalibus superiorem agnoscit … Interioritate enim sua universitatem rerum excedit61.

Il pensiero cristiano, sin dai primi tentativi di pensare la fede da parte dei Padri, ha ritenuto irrinunciabile l’affermazione dell’eccedenza dell’uomo rispetto alla sua base o dimensione o componente biologica e materiale e ha trovato conveniente esprimere questa eccedenza ricorrendo al philosophoumenon/ theologoumenon dell’anima. La parola anima, da comprendersi in relazione con la categoria biblica di imago Dei, prima ancora che rispondere a una categoria ontologica precisa, è lo strumento linguistico appropriato per indicare la diversità dell’uomo e la sua eccedenza costitutiva rispetto allo strato animale. Professare l’esistenza dell’anima umana è quindi un’affermazione della singolarità dell’uomo e costituisce un creditum che solo in seconda istanza si tematizza razionalmente in uno scitum. L’eccedenza ontologica permetteva infine alla Tradizione fondare l’eccellenza assiologica dell’uomo (sacralità della vita, in quanto vita di persona, anima come principium agendi e ratio essendi, dignità della persona). Il contesto culturale contemporaneo, tendenzialmente ostile o estraneo alla metafisica tradizionale, non pare offrire strumenti adeguati, almeno paragonati agli strumenti linguistici potenti che venivano offerti al pensiero cristiano dalla filosofia classica. Soprattutto il pensiero scientifico si mostra – come si è visto – spesso indifferente o avverso al tema dello spirito umano così come è stato compreso nella tradizione teologica: dalla finestra epistemologica della scienza l’esistenza dell’anima in quanto

61 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. Past. Gaudium et Spes, 14 (EV 1/1363).

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realtà non materiale, non può essere affermata e, di per sé, non ci sono ragioni intrinseche alla scienza (per esempio contraddizioni interne o falle incolmabili) che possano indurre a postularne l’esistenza. Essa resta per definizione inattingibile alla conoscenza scientifica, almeno come la scienza si è sviluppata dal Rinascimento ad oggi. La situazione teologica attuale, sotto il punto di vista del dialogo e della possibilità di fruizione degli apporti di altre discipline non teologiche, risulta perciò più difficile che nel passato. Il creditum resta fermo e come tale viene riproposto ed annunciato in documenti di grande autorità dottrinale62. Il problema nasce quando si vuole tematizzare il creditum in uno scitum argomentabile e comprensibile per la cultura scientifica e filosofica odierna, dovendosi correlare i molteplici e spesso contraddittori apporti delle antropologie regionali elaborate dalle scienze umane e delle antropologie filosofiche, con alcuni elementi irrinunciabili della lex credendi e della lex orandi. La questione basilare verte sul modo di intendere e di esprimere l’attitudine antropologica della tradizione sull’unidualità della persona e finora non pare che si sia riusciti a riformulare in moduli linguistici nuovi, ma semanticamente equivalenti, quello che la tradizione aveva condensato nella nozione cristiana di anima e di corpo. Il rapporto del soggetto umano con il suo corpo è complesso e non può essere descritto in modo strumentale o possessivo, secondo una lettura oggettuale della formula anima utens corpore, però neanche la concezione antropologica per cui “l’uomo è il suo corpo”, può essere accettata senza attenuazioni, come osserva Guido Gatti: Ma l’uomo è anche più del suo corpo; vivendolo lo trascende. Questa trascendenza non comporta, almeno nella classica visione tomista dell’uomo, alcun dualismo di anima e di corpo. L’essere uomo è caratterizzato da una specifica “unitotalità”. Pur sperimentando una certa tensione tra queste due dimensioni del

Ricordiamo: Gaudium et Spes, 14(EV 1/1363); Donum Vitae, I, 1. 5 (EV 10/1163. 1171); Veritatis Splendor, 4 (EV 13/2658-2659); Catechismus Ecclesiae Catholicae, 362-368; 62

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suo esistere, egli è sempre e insuperabilmente unità di spirito e di corpo, in ognuna delle sue decisioni e delle attività con cui realizza se stesso, agisce nel mondo e comunica con gli altri63.

In attesa di una sintesi originale, che rinnovi quello che san Tommaso fece nella sua epoca, l’antropologia teologica stenta a coordinare in una visione d’insieme le tante suggestioni e le sfide che le giungono dal nostro universo culturale e si nota la tendenza di innestare le nuove prospettive antropologiche sul tronco robusto, ma vetusto dell’ontologia scolastica. Appare tuttavia assai problematico difendere oggi la densità ontologica ed assiologica della persona, nella complessità pluristratificata delle sue dimensioni, ricorrendo senza mediazioni a un modello antropologico, quello ilemorfico appunto, che non è più comprensibile al di fuori del suo orizzonte filosofico. L’osservazione critica di M. Flick e Z. Alszeghy suona pertanto assai pertinente: La speculazione teologica contemporanea sulla struttura dell’uomo è determinata da un duplice fatto. Dall’una parte, la spiegazione dell’unione corpo-anima come materia-forma proviene da una concezione ilemorfica di tutto l’universo, la quale è stata applicata (con le dovute modifiche) all’uomo. Attualmente, essendo la concezione ilemorfica praticamente abbandonata, le categorie materia-forma, non avendo altra applicazione eccetto il caso dell’uomo, non danno una vera spiegazione sull’unione spirito-materia. Dall’altra parte, mancando nel pensiero contemporaneo la categoria delle sostanze incomplete (entia quibus in opposizione agli entia quae) l’affermazione che l’uomo è composto di due sostanze, viene interpretata quasi inevitabilmente in senso cartesiano, che concepisce come dato primario due sostanze eterogenee, di cui ciascuna esiste come tale, indipendentemente dall’altra e che unendosi costituiscono l’uomo. Per comprendere correttamente l’affermazione che anima e corpo sono uniti come forma e materia, si ha bisogno di riesumare un sistema universale, per applicarlo esclusivamente all’uomo, pro-

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GATTI G., Morale sessuale, educazione dell’amore, Leumann (To) 1988, 50.

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cedimento che certamente non facilita la comprensione del fenomeno umano quale appare nella rivelazione64.

Alcune delle pagine più penetranti sul rapporto fra spiritomateria, rapporto che soggiace senza identificarvisi alle discussioni antropologiche della tradizione filosofica su anima e corpo, sono state scritte ancora una volta da K. Rahner, che più volte è tornato sull’argomento65. Egli parte da una analisi ontologica sulla natura del simbolo che gli permette di definire il corpo come un simbolo, una espressione, una autoattuazione dell’anima, per cui ciò che noi diciamo corpo non è altro che l’attualità dell’anima stessa nella materia prima, materia prima che viene da lui identificata con la vuota spazio-temporalità; “il corpo è già spirito, colto nel momento in quel momento dell’autoattuazione in cui la spiritualità personale perde se stessa allo scopo di poter incontrare in maniera diretta e tangibile il diverso da sé”66. Dialetticamente, quindi, la non identità dell’anima e del corpo (quella che potrebbe dirsi la dualità), dipende in ultima analisi proprio dall’unità di spirito e di materia nell’uomo, per cui la materia è già spirito e lo spirito ha la materia come momento costitutivo intrinseco. In questo orizzonte filosofico le categorie tradizionali vanno in frantumi e la non comunicabilità con la teologia scolastica e con il tomismo in particolare, nonostante la volontà rahneriana di essere interprete di san Tommaso, si fa evidente67. Nel banco di prova dell’antropologia, l’escatologia individuale, egli non

FLICK M., ALSZEGHY Z., Fondamenti di antropologia teologica, Firenze3, 99-100. 65 Soprattutto vedere: RAHNER K., Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin, München 19643; ID., Zur Theologie des Todes, Quaestiones disputatae 2, Freiburg 19632 (trad it. Sulla teologia della morte, Brescia 19662); ID., Die Einheit von Geist und Materie im christlichen Glaubensverständnis, in Schriften zur Theologie/6, Einsiedeln 1965, 185214 (trad. it. L’unità vigente tra spirito e materia nella concezione cristiana, in Nuovi saggi/1, Roma 1968, 257-295). 66 RAHNER K., Teologia dell’esperienza dello Spirito, Brescia 1978, 515. 67 Una critica all’antropologia rahneriana dal punto di vista del tomismo più osservante: CAVALCOLI G., L’antropologia di Karl Rahner, “Sacra Doctrina” 36 (1991), 28-55. 64

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teme, per esempio, di negare la possibilità di una reale separazione, di una diastasi di anima e di corpo: questa diastasi non sarebbe che una distinzione metafisica e meta-esistentiva, nel senso che l’uomo non si incontra mai concretamente come un semplice corpo e una semplice anima68. Analoghe difficoltà sorgono quando si voglia confrontare l’interpretazione tomista della ominizzazione, fondata sull’idea della infusione dell’anima razionale, e quella rahneriana, centrata sulla concezione che l’uomo non è spirito in forza di un principio sostanziale, ma in quanto interlocutore di Dio69. Probabilmente noi oggi dobbiamo affrontare un problema che è ancora più radicale della questione ermeneutica. Nel contesto della presente crisi della metafisica e preso atto della debolezza dell’ontologia contemporanea, non si può facilmente immaginare di partire da una affermazione antropologica teoreticamente forte, come quella della Tradizione o anche come quella di K. Rahner, per fondare poi su di essa una proposta etica. Mentre il movimento logico del pensiero tradizionale prendeva le mosse dall’affermazione dell’eccedenza ontologica dell’uomo per giungere all’affermazione della sua eccellenza assiologica, ora la traiettoria dovrebbe essere invertita. Come nel V secolo a. C., il nominalismo corrosivo dei Sofisti era stato vinto dall’umanesimo etico di Socrate che aprì la strada alla grande stagione del pensiero metafisico platonico e aristotelico, così il nominalismo antimetafisico e riduzionista dei nostri giorni potrà essere superato soltanto attraverso l’etica e sarà l’etica ad aprire la strada per un ritorno dell’ontologia. Il

68 Nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede su Alcune questioni di escatologia si legge: “La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte di un elemento spirituale dotato di coscienza e di volontà, così che l’Io umano, pur mancando nel frattempo (interim) del complemento del suo corpo, sussista. Per designare tale elemento, la Chiesa adopera il termine anima. Benché non ignori che nelle Sacre Scritture stiano sotto (subici) a questo termine significati diversi, essa nondimeno ritiene che non ci sia alcuna valida ragione perché questo termine sia respinto e giudica inoltre assolutamente necessario uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani” (EV 6/1539). 69 RAHNER K. Hörer des Wortes. Zur Grundlegung einer religionsphilosophie, München 1941 (trad. it. Uditori della Parola, Torino 1967).

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superamento del nominalismo della tarda modernità, non potrà avvenire attraverso una critica di tipo teoretico, ma di tipo etico. “Conosci te stesso” affermava Socrate, opponendo al nichilismo dei sofisti il valore della persona. “Uomo, riconosci la tua dignità” ripete oggi il cristianesimo opponendo alla cultura del non-senso il richiamo alla dignità e grandezza trascendente della persona creata a immagine del Figlio di Dio. La via da percorrere per ristabilire la verità integrale della persona parte dall’affermazione e dalla testimonianza fattiva dell’eccellenza assiologica dell’uomo e dalla constatazione degli effetti nefasti cui conduce l’omologazione ontologica uomo-animale o la degradazione della persona a oggetto naturale. La mediazione fra soggetto morale e vita buona, vita sensata, vita felice è attuata dal valore fondamentale della persona. Se quindi la vita deve avere un senso buono universalizzabile, se è vita buona quella che si attua nell’altruismo, nella cura, nell’attenzione all’altro, allora bisogna che la vita dell’altro abbia valore e che io possa essere capace di coglierlo e di rispondere al suo appello. Così l’eccellenza etica della vita umana, di ogni vita umana, si fa cifra e rivelazione della sua eccedenza ontologica. Via Merulana 124b 00185 Roma Italy.

MAURIZIO P. FAGGIONI OFM

————— Summary / Resumen This study examines some of the challenges which technical scientific progress launches in the face of an integral anthropological vision, with all its repercussions on our conception of the human person. After defining what is meant by reductionism, the author gives a broad sweep of the historical parable of reductionism. Particular attention is given to those reductionist aspects which are more immediately traceable to technical scientific progress and which have direct implications for the anthropological presuppositions of moral discourse. From this perspective the following attacks on an integral anthropological project are discussed: those that come from neurobiology, from the cognitive sciences, from evolutionism and from

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genetics. Finally, the author underlines the profound significance which some central points of Christian anthropology provide with a view to safeguarding and promoting the truth and dignity of the person. Este estudio examina algunos desafíos que, con sus repercusiones en nuestra concepción de la persona humana, lanza el progreso técnico-científico contra una visión antropológica integral. Una vez definido el significado de reduccionismo, el autor recorre a grandes pasos la parábola histórica del reduccionismo. Presta especial atención a los aspectos del reduccionismo que se identifican más inmediatamente con el progreso científico técnico y que tienen implicaciones directas en los presupuestos antropológicos de la cuestión moral. Desde esta perspectiva se discuten los ataques al proyecto antropológico integral provenientes de la neurobiología y de la ciencias del conocimiento, del evolucionismo y de la genética. Al final, el autor subraya la enorme importancia de algunos puntos centrales de la antropología cristiana para salvaguardar y promover la verdad y la dignidad de la persona. ————— The author is Extraordinary Professor of Bioethics at the Alphonsian Academy. El autor es profesor extraordinario de Bioética en la Academia Alfonsiana. —————

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Comme le rappelle le philosophe suisse Bernard Schumacher, la notion d’espérance fut mise en question par la montée du nihilisme exprimé par Nietzsche et Schopenhauer, ainsi que Kafka, Cioran, Camus, Sartre et encore par des événements comme Verdun, Auschwitz et Hiroshima. L’homme de l’ère nucléaire est devenu pour la première fois “le maître de l’apocalypse, se trouvant constamment sous l’épée de Damoclès d’un suicide collectif qui réduirait à néant le principe d’une espérance historique tendant vers l’instauration de la Heimat. Il est également menacé depuis Auschwitz par la réduction de la personne à une chose, à une masse que l’on peut utiliser et transformer à son gré. L’espérance humaine a été, en outre, traitée comme un belle idée sans réalité concrète, une folie, une consolation, voire le pire des maux (cf. Nietzsche), un cadeau empoisonné que les dieux auraient infligé à l’homme”1. Face à ces doutes la voix chrétienne s’élève pour sauver l’espérance dans un monde tenté par le désespoir. C’est ainsi que le cardinal Ratzinger parlant de l’espérance à partir des lettres pauliniennes affirme qu’ “être chrétien, c’est être un homme qui espère, c’est se placer sur le terrain d’une espérance sûre”2. Elle apparaît comme la définition de l’existence chrétienne. Et comme le dit Heinrich Schlier l’espérance chrétienne est ce qui la détermine3. Un Ignace d’Antioche n’hésite d’ailleurs pas à montrer que les

1 B. SCHUMACHER, Espérance, dans M. CANTO-SPERBER, Dictionnaire d’éthique et de philosophie morale, Paris, 1996, p. 524. 2 J. RATZINGER, De l’espérance, dans ComF 9,4 (1984), p. 32. 3 H. SCHLIER, Nun aber bleiben diese Drei. Grundriss des christlichen Lebensvollzuges, Einsiedeln, 1971, p. 12.

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chrétiens sont ceux qui “espèrent le Seigneur”4. Pourtant, c’est précisément sur le terrain de l’espérance que le chrétien rencontrant les espérances du monde en vient à annoncer que son espérance transcende toutes les espérances car elle lui offre l’assurance d’être comblé par le don du grand amour5. Selon Ratzinger l’espérance a pour but ultime l’accomplissement de l’amour6. Partant de l’affirmation johannique “Dieu est amour” (1 Jn 3, 16), il ne peut qu’arriver à une constatation que celui qui est sans espérance, c’est bien celui qui vit “sans Dieu dans le monde”7. Une telle prise de position peut certes susciter une surprise dans un monde sécularisé. Bloch, par exemple, considère au contraire que seul l’athée est un homme qui espère, au point de faire dans Das Prinzip Hoffnung,8 de l’espérance la question centrale de toute philosophie. La théologie elle-même, sous l’impulsion d’un Moltmann, s’est vue interpellée pour une nouvelle réflexion sur l’espérance alors qu’elle apparaissait comme une grande oubliée9. Dans la présente conférence prononcée en l’honneur du 50° anniversaire de la Proclamation de saint Alphonse de Liguori Patron des Moralistes et des Confesseurs, notre intention est de mettre en évidence la richesse de l’espérance chrétienne à partir d’une expression paulinienne “le Christ espérance de la Gloire” (Col 1, 27), en montrant en quoi la Gloire du Christ est capable de sauver l’homme contemporain du désespoir, du non-sens, et de l’absence de forme. Nous procéderons en cinq étapes. Après avoir montré la relation qui existe entre la beauté et l’espérance (1), nous nous évertuerons à souligner comment le désenchantement postmoderne (2), est un défi que lance le monde contemporain à la foi chrétienne, appelée à être la gardienne de la gloire selon l’expression même de Hans Urs von Balthasar (3). La théologie de l’espérance de saint Alphonse de Liguori possède une dimension esthétique habituellement oubliée par ses com-

4 5 6 7 8 9

Cf. IGNACE, Aux Ephésiens 1, 2; 21,2, etc. J. RATZINGER, Op. cit., p. 35. Cf. J. RATZINGER, Ibid., p. 35. J. RATZINGER, Ibid., p. 35. E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Francfort s. M., 1959. R. NORMANDIN, Une grande oubliée: l’Espérance, Ottawa, 1948.

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mentateurs. Elle est un exemple de l’importance que le saint docteur attachait à la beauté de l’espérance chrétienne pour convaincre ses lecteurs à suivre la voie du Christ (4). Enfin, dans l’ultime chapitre, nous interrogerons quelques théologies contemporaines de l’espérance à la lumière du paradigme esthétique (5)

1. La relation entre la beauté et l’espérance Le défi de l’espérance chrétienne aux espérances intramondaines peut, nous semble-t-il, être défini en ces termes: face au non sens c-à-d. à l’absence de forme, de figure et d’harmonie conduisant au désespoir, la redécouverte du sens ultime, de la forme ultime à travers la figure du Christ offre au monde l’Espérance de la gloire, ce que nous pouvons exprimer en d’autres mots comme l’espérance de la forme ultime de toutes choses. Les Pères du Concile Vatican II se sont adressés aux artistes en soulignant cette relation entre la beauté et l’espérance: “Le monde dans lequel nous vivons a besoin de beauté pour ne pas sombrer dans la désespérance. La beauté, comme la vérité, c’est ce qui met la joie au coeur de l’homme, c’est ce fruit précieux qui résiste à l’usure du temps, qui meut les générations et les faits communier dans l’admiration”10. Le nihilisme se trouve ainsi confronté à l’Espérance fondée sur la beauté ultime, révélée, dévoilée en Jésus-Christ. L’objet de notre recherche est donc une tentative d’approcher la question de l’espérance chrétienne sous l’angle de l’esthétique. Approche justifiable à notre avis en raison même de la relation qui existe entre la beauté et l’espérance. Nous pensons à l’antiquité grecque avec un Platon qui montre que l’objet de l’espérance humaine est bien la beauté11,

10 Message du Concile du 8 décembre 1965, dans Concile Oecuménique Vatican II. Constitutions, Décrets, Déclarations, Paris, 1967, p. 730. 11 Comme le note très justement R. Bultmann, en parlant de l’espérance: “Pour Platon il n’y a pas de motif pour repousser l’eros qui agit dans l’elpis, puisque c’est l’eros qui pousse au beau et au bien” (R. BULTMANN, dans Theologisches Wörterbuch zum neuen Testament, Vol II, Tübingen, 1935, p. 517).

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intuition reprise par Augustin qui définit l’homme comme un saint désir de la beauté12. C’est une dimension d’ailleurs présente dans le Nouveau testament avec l’expression paulinienne “espérance de la gloire”13. Retrouver la relation qui existe entre l’espérance et la beauté semble être le défi fondamental que le chrétien est appelé à relever face à ce monde désenchanté de la postmodernité.

Cf. AUGUSTIN, In Io. Ep. 4, 5-6, SC 75, p. 228-232. À ce propos, nous sommes conscients que l’interprétation proposée mérite d’être explicitée pour éviter tout malentendu. Quant à l’expression de Col 1, 27, Aletti écrit: “L’insistenza sulla gloria, legato evidentemente al Cristo, si pone nella linea dell’esordio: in Cristo tutto è stato dato, manifestato. La gloria è quella del Cristo risorto, e dunque quella di Dio, quella sperata da/per tutti i credenti” (J.-N. ALETTI, Lettera ai Colossesi, Bologne, 1994, p. 128). Il faut cependant souligner qu’il existe une nuance esthétique de cette espérance qui ne semble pas contredire la pensée paulinienne, et qu’une interprétation de la gloire permet comme le montre Spicq. Il souligne en effet l’idée de splendeur qui caractérise la notion de gloire, et donc la beauté qui en est le rayonnement (cf. C. SPICQ, Lexique théologique du Nouveau Testament, Paris, 1991, p. 377). En outre, c’est par le biais du lien qu’il établit entre la grâce et la gloire que nous retrouvons encore un éclairage supplémentaire en ce qui concerne la dimension esthétique de la gloire. En effet comme le montre l’auteur, la splendeur de cette gloire lui vient en fin de compte de cet amour de Dieu qui se donne en surabondance à l’homme. La beauté de la gloire de Dieu est ainsi la beauté de son amour, de sa grâce (cf. C. SPICQ, Théologie morale du Nouveau Testament, I, Paris, 19704, p. 110-133). Un auteur comme Schlier montre qu’appliquée à Dieu, la gloire exprime la manifestation extérieure lumineuse de sa puissance, l’éclat de sa majesté, la magnificence divine, l’honneur divin, la splendeur divine visible, mais aussi plus directement son essence divine en tant qu’elle désigne sa puissance et sa sainteté (cf. H. SCHLIER, La notion de Doxa dans l’histoire du salut, dans Essais sur le Nouveau Testament, Paris, 1968, p. 381-382). En ce qui concerne la signification plus spécifique de la dovxa paulinienne relevons que selon W. Bauer les différentes nuances de dovxa renvoient à l’aspect de la lumière, et permette donc effectivement une interprétation esthétique (cf. W. BAUER, A Greek-English Lexicon of the New Testament and other Early Christian Literature, Chicago, 1979, p. 203-205). 12 13

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2. Le désenchantement de la postmodernité Il existe une relation entre le nihilisme de la culture d’un monde désenchanté et l’esthétique que nous tenterons de mettre en évidence pour mieux comprendre l’importance de la beauté pour une philosophie de l’espérance. Le nihilisme de Nietzsche et le désespoir latent d’Heidegger ont abouti à la déconstruction de toute utopie moderne qui pouvait encore “enchanté”, “enthousiasmer” l’homme de la modernité ainsi qu’à la perte de la prise en considération de tout méta-récit comme dans les pensées de G. Vattimo, de J. Derrida et de J. Baudrillard. Il n’y a donc plus de finalité historique mais l’affirmation de la nécessité de devenir un parfait nihiliste. Lorsqu’on analyse une telle conception on aboutit nécessairement à montrer que l’attitude nihiliste de l’homme postmoderne est en partie déterminée par sa conception esthétique. Afin de mieux comprendre le défi que lance l’espérance chrétienne de la gloire à la culture postmoderne, il convient de présenter l’espérance “esthétique” de la postmodernité (2.1). On constate en effet une réduction de la compréhension du symbole et une réduction de la forme accomplie (2.2.), tout comme une perte du “visage” (2.3). Au fond l’esthétique oubliant la différence de l’être aboutit à une esthétique superficielle sans âme (2.4). Mais le désir de la beauté persiste et permet de sauver l’homme du néant (2.5). 2.1. La valeur de l’esthétique dans la postmodernité Il n’est pas inutile de rappeler que la notion de postmodernité n’est pas née dans le milieu philosophique mais bien dans le milieu des architectes, dans le contexte de leur réflexion sur la forme14. Aborder la postmodernité par le biais de l’esthétique

14 Cf. M. NACCI, Postmoderno, dans P. ROSSI, Stili e modelli teoretici del Novecento, Turin, 1995, p. 361; l’architecture postmoderne critique fortement toute uniformité des méga-projets urbains qui ne tiennent pas compte des exigences effectives des personnes; il faut au contraire un “collage” de solutions diverses; l’éclectisme caractérise ainsi l’architecture moderne (cf. CH. JENCKS, Die Sprache der postmodern Architektur, Stuttgart, 1978). Quant à la datation du début de l’époque postmoderne il n’existe pas d’unanimité.

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s’impose donc en quelque sorte tout naturellement. C’est d’ailleurs ce que montre W. Kasper lorsqu’il souligne que la postmodernité permet une réévaluation d’autres modes de pensée comme l’esthétique et la mystique15. Notons que selon G. Coccolini cette dimension esthétique de la postmodernité est précisément ce qui la caractérise, la postmodernité étant une réhabilitation d’une vision esthétique du monde16. J.-F. Lyotard, dans Moralités postmodernes17, un recueil de quinze notes sur l’esthétisation postmoderne, parle de la fragmentation de la morale postmoderne qui toutefois présente un point commun esthétique. D’une manière synthétique, il résume par une phrase significative la nouvelle unité d’une morale ayant renoncé à son unité métaphysique: “La moralité des moralités, ce serait le plaisir ‘esthétique’”18. Telle est la place de l’esthétique dans l’éthique postmoderne. Une esthétique qui occupe l’espace laissé ouvert par le déclin de la métaphysique, celle-ci étant réduite à ne plus être qu’un ensemble de métaphores réalisées19.

Lyotard la fait commencer vers les années cinquante (cf. J.-F. LYOTARD, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, 1979, p. 11). Pour Vattimo, il faut au contraire remonter à la destruction nihilistique de la valeur de la vérité opérée par Nietzsche (cf. G. VATTIMO, La fine della modernità, Milan, 1985, p. 175). J. Habermas lui aussi voit dans la pensée de Nietzsche le début de la postmodernité (cf. J. HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Francfort s. M., 1985). W. Kasper montre que le concept de postmodernité apparaît explicitement avec le livre de R. PANNWITZ, Die Krisis des europäischen Geistes, dans lequel l’auteur parle de “l’homme postmoderne” en se référant au “super-homme” de Nietzsche, mais il souligne que la problématique du postmoderne naît dans le débat nord-américain qui touche la littérature, l’architecture et les arts figuratifs (cf. W. KASPER, La Chiesa di fronte alle sfide del postmoderno, dans Hum(B) 52 (1977), p. 173). À ce propos nous renvoyons à J. R. BENIGER, The Control Revolution. Technological and Economic Origins of the Information Society, Cambridge, Mass; Londres, 1986; cf aussi S. SEIDMAN, Postmodernism and Social Theory: the Debate over General Theory, Oxford, 1992; A. WELLMER, The persistence of Modernity, Massachussets, 1991. 15 Cf. W. KASPER, Op. cit., p. 175. 16 Cf. G. COCCOLINI, Postmoderno, in RTM (1995), p. 132; tel est aussi l’avis de W. Welsch (cf. Ästhetisches Denken, Stuttgart, 1993). 17 Cf. J.-F. LYOTARD, Moralités postmodernes, Paris, 1993. 18 J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 11. 19 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 21.

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Selon Lyotard l’esthétique a annoncé le déclin de l’empire argumentatif relativisant la méthode, modus logicus, en lui opposant la manière modus aestheticus20. Mais relevons la précision de notre auteur soulignant qu’il s’agit au fond d’une esthétique réduite à la simple manière sans référence à la nature et à un contenu: “Les objets, ou les contenus, deviennent indifférents. La seule question est s’ils sont intéressants (...). Quand l’objet perd sa valeur d’objet, ce qui garde de la valeur est ‘la manière’ dont il se présente. Le ‘style’ devient la valeur”21. Toute la vie de l’homme consiste désormais à se réaliser dans cet univers superficiel de “la manière”22. La valeur de l’esthétique se trouve affirmée avec force par Lyotard à la fin de son livre: “Quand les idéaux viennent à manquer comme objets de croyance et modèles de légitimation, la demande d’investissement ne désarme pas, elle prend pour objet la manière de les représenter. Kant appelait manière, le modus aestheticus de la pensée. L’esthétique est le mode d’une civilisation désertée par ses idéaux. Elle cultive le plaisir de les représenter. Elle se nomme alors culture”23. L’esthétique est ainsi vue comme la prévalence de l’imaginaire sur la réalité. Une telle approche de l’esthétique est selon Lyotard fort ambiguë au point qu’il en parle comme d’un poison qui envahit la philosophie même de la postmodernité: “La culture contemporaine immerge ces idéalités (du vrai, du bien et du beau) et noie leur distinction dans la soupe de l’esthétisation”24. Or Lyotard pense qu’il ne peut y avoir de convergence entre la philosophie et l’esthétique, la première étant rationnelle tandis que la seconde irrationnelle. Il parle même des effets désastreux dont l’esthétique philosophique est l’agent depuis deux siècles25. Cependant il reconnaît à l’esthétique une fonction de salut face au néant: “La ‘modernité’ d’aujourd’hui n’attend pas de l’aisthesis qu’elle donne à l’âme la paix du beau consentement, mais

20 21 22 23 24 25

Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 31. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 33. Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 34. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 199. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 201. Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 202.

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qu’elle l’arrache de justesse au néant”26. En effet Lyotard reconnaît la persistance du désir d’un absolu qui n’est toutefois qu’un nom vide27. La voie métaphysique est donc sans issue28 et la seule transcendance tient à l’immanence d’une affliction, elle est l’évocation de la précarité d’une oeuvre29. On peut donc résumer la pensée de Lyotard quant au rapport existant dans la postmodernité entre l’esthétique et l’éthique en disant, que c’est dans cette situation de vide métaphysique, propre à la postmodernité, qu’une vie, modelée selon le plaisir esthétique et la recherche du style, est l’unique manière de survivre dans la condition postmoderne. 2.2. Une réduction de la compréhension du symbole, réduction de la forme accomplie E. Grassi a bien exprimé la compréhension du symbole de l’homme moderne: “L’homme moderne, désacralisé et mondain, vit les directives du symbole comme grimace du silence, qui apparaît derrière une vitrine”30. Le symbole pour l’homme d’aujourd’hui n’est donc plus théophanie ou chiffre qui suscite l’émerveillement de la raison puisque on a décrété la mort de Dieu avec Nietzsche et la mort de l’homme avec M. Foucault31. Selon I. Calvino nous vivons une désintégration et une fragmentation de l’unité synthétique de la forme au profit du moment analytique et critique32. P. Miccoli a mis en évidence une dérive de l’art qui révèle l’origine du phénomène dans le phénomène mondain. En sorte que l’apparence est élevée au rang d’essence33. Son diagnostic de l’époque postmoderne est particulièrement éclairant: “Ayant perdu Dieu, et déformé le monde, et

J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 207. Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 34. 28 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 76. 29 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 198. 30 E. GRASSI, Potenza della fantasia, Naples, 1990, p. 39. 31 Cf. P. MICCOLI, Corso di estetica, Rome, 1995, p. 87. 32 Cf. I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milan, 1988. 33 Cf. P. MICCOLI, Op. cit., p. 89. 26 27

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rendu outre mesure problématique l’homme lui-même, l’aventure poétique du 20° siècle devient destruction de la forme et séduction de l’élément dionysiaque et vital pour autant qu’on pense à la Métamorphose de Kafka, à Guernica de Picasso, au théâtre de l’absurde de Beckett, aux récits nébuleux de Hoffmansthal, aux hommes-rhinocéros de Ionesco, etc... Ces topos de l’art de notre siècle sont des documents trop emblématiques d’une anthropologie symbolique qui atteste le drame de la conscience désorientée de l’homme athée et nihiliste, du froid de l’homme sans qualité”34. Au fond l’esthétique postmoderne avance à l’insigne du Dieu perdu vers l’abîme du néant, et elle s’accompagne d’un refus de la forme accomplie ou sauvée. L’art postmoderne se confronte avec un monde angoissant qui devient menaçant pour l’homme. C’est ainsi que la perte de la lumière de l’être et du visage est suivie par les ténèbres et un univers de masques. L. Bergel exprime très bien ce monde: “Ne croyant en aucune valeur qui puisse servir de guide, la création froide, méthodique du chaos est leur moyen pour soulager l’ennui du vide dans lequel ils vivent”35. P. Miccoli montre que l’esthétique postmoderne est la justification théorique de cette symbolique du monde sécularisé toute orientée à la ridiculisation de l’émerveillement métaphysique “aristocratique” et de la joie spirituelle chrétienne devant le merveilleux spectacle de la nature qui révèle l’infinie sagesse du Créateur36. 2.3. La perte du visage Une autre manière de comprendre l’évanouissement de la forme dans la postmodernité est de parler comme le fait Sante Babolin de l’évolution progressive vers “la perte du visage” dans les arts figuratifs et la perte de la tonalité dans l’art musical. Il nous en livre une explication particulièrement pertinente qui nous permet de comprendre tout le poids d’une anthropologie authentique pour l’esthétique: “la perte du visage humain, de ses

P. MICCOLI, Ibid., p. 90. Cf. L. BERGEL, L’estetica del nichilismo e altri saggi, Naples, 1980, p. 97. 36 Cf. P. MICCOLI, Op. cit., p. 92. 34 35

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yeux, est le résultat de beaucoup de ‘complications’, de beaucoup de pertes en ce qui concerne la relation qui existe entre l’homme et Dieu, entre l’âme et le corps, entre la raison et le sentiment, entre le sentiment et l’émotion. La perte de la relation avec l’Unique nécessaire rend l’art subjectif, trop subjectif, et en fait l’expression d’une anthropologie fermée. Il y a certainement des exceptions, à toute époque et aujourd’hui même, cependant la prédominance de certaines tendances change le panorama de l’art, en tant qu’il modifie les dominantes culturelles qui créent le contexte. Aussi les ruptures qui s’expriment dans l’art sont la projection des désintégrations advenues dans l’autoperception de la personne humaine”37. S. Babolin n’hésite pas non plus à mettre en relation cette perte de visage avec le mal en parlant d’état infernal en esthétique38, comme l’affirmait d’ailleurs K. Rosenkranz: “L’enfer n’est pas seulement éthique et religieux, mais il est aussi un enfer esthétique”39. Face à cette perte de visage, Babolin propose de reconstruire le visage en esthétique à partir d’une fondation anthropologique qui intègre tous les aspects de la personnalité humaine, évitant les dualismes qui se sont révélés destructeurs du visage de l’homme en esthétique. 2.4. L’oubli de la différence de l’être Heidegger a mis en évidence dans sa critique de la métaphysique occidentale l’oubli de la différence de l’être au profit de l’affirmation de l’identité avec ses conséquences en esthétique40. Il reproche à l’époque moderne l’exaltation du sujet qui, en esthétique, se manifeste par une attention exagérée au stade affectif considéré comme le stade esthétique. Or le beau, selon Heidegger, n’est pas marqué par la faiblesse mais au contraire, grâce à sa dimension d’enchantement et de ravissement, possè-

S. BABOLIN, L’uomo e il suo volto. Lezioni di estetica, Rome, 1993, p. 178. S. BABOLIN, Ibid., p. 245. 39 K. ROZENKRANZ, Estetica del Brutto, a cura di R. Bodei, Bologne 1984, p. 49, (Ästhetik des Hässlichen, 1853). 40 Cf. M. H EIDEGGER, Brief über den Humanismus (1946), dans Wegmarken, Francfort s. M., 1976; ID., Der Ursprung des Kunstwerkes (1936), dans Holzwege, Francfort s. M., 1950. 37 38

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de une puissance et une force. Dans cette optique esthétique, il plaide pour une désubjectivation de la pensée qui conduit à une expérience, et une perception esthétique différente du réel, laissant l’objet être ce qu’il est. C’est ainsi que la vérité ne réside plus dans un jugement ni dans une adéquation, mais dans la manifestation de la chose elle-même. Le sujet est ainsi d’abord appelé à une attitude d’abandon (Gelassenheit) devant la différence de l’être41. La Lichtung est précisément cette perception non subjective qui permet de voir par contraste la vérité42. En fait en redécouvrant la différence, Heidegger réintroduit la dimension de l’écoute: l’être humain est à l’écoute de la différence de l’être. Il est donc toujours en chemin, ce qui lui permet d’échapper à l’aliénation et à l’enracinement43. Hans Urs von Balthasar a montré la valeur de cette redécouverte de la différence qui permet de retrouver la gloire de l’être, tout en soulignant en quoi cette pensée ne peut reporter pleinement la beauté dans le monde en raison du refus d’une ouverture sur la vraie transcendance. Il lui manque ce que Balthasar appelle la quatrième différence ontologique44, qui est la seule qui peut sauver l’homme en le replaçant dans sa véritable dimension.

41 Cf. M. HEIDEGGER, Von Wesen der Wahrheit, Francfort s.M. 1949, p. 1415 (4e éd.); cf. aussi ID., Die Gelassenheit, Pfullingen, 1959. 42 Cf. M. HEIDEGGER, Von Wesen der Wahrheit, p. 16-18; PERNIOLA souligne que la Lichtung est cette irradiation lumineuse, cet événement, cet avènement de la vérité (cf. M. PERNIOLA, L’estetica del Novecento, Bologne, 1977, p. 167). 43 Cf. M. PERNIOLA, Ibid., p. 168. 44 Cf. H.U. v. BALTHASAR, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd III/I, 2: Im Raum der Metaphysik. Neuzeit, Einsiedeln, 1975, p. 782-786; soulignons cependant que Vattimo présente Heidegger sous un aspect bien différent non plus comme le philosophe de la nostalgie de l’être mais comme celui qui affirme la perte du caractère métaphysique de l’être et de l’homme. Il parle en effet d’une dissolution de l’être dans le langage, dans la tradition qui est transmission et interprétation de messages. Aussi Heidegger est plutôt à comprendre comme celui qui présente un être sans fondement dans un sens nihiliste (cf. G. VATTIMO, La fin de la modernité. Nihilisme et herméneutique dans la culture post-moderne, Paris, 1987, p. 29-31). Et donc l’esthétique elle-même perd son fondement métaphysique et ne peut être comprise comme une manifestation de la présence de l’être.

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2.5. Le désir esthétique postmoderne Le vide, ou l’absence de beauté, de symphonie dans la postmodernité ne veut pas dire que l’homme soit capable d’oublier la nostalgie du beau qui l’anime. Il existe une relation réciproque entre le désir et la beauté comme l’a très bien montré saint Augustin. Pourtant l’époque postmoderne se caractérise par une conception très limitée du désir. À ce propos M. Borghesi parle de l’aliénation du désir postmoderne. Il constate en effet que la gnose postmoderne prend le visage d’un idéalisme esthétique qui affirme que le terrain propre de la liberté, du dépassement spirituel de la loi, de la charis séparée du nomos, est précisément l’inconsistance de l’être45. En sorte que “totalement immergé dans le monde comme apparence le ‘je’ poétique est, en même temps, radicalement ‘abstrait’, privé de stupeur et d’émotion, incapable de se rendre compte du moment dramatique de l’existence”46. Cette ataraxie postmoderne suppose ainsi une érosion de la réalité et du désir. Le réel étant vidé de son fondement ontologique l’homme peut ne plus désirer le définitif. Son désir est réduit à rechercher dans un plaisir esthétique le bonheur d’un moment passager. La critique du désir postmoderne qu’offre P. Sequeri nous permet d’évaluer toutes les limites d’une espérance construite essentiellement sur le plaisir esthétique. Face à une conception subjective du désir, sans fondation propre de la postmodernité, et qui identifie le désir au plaisir esthétique47, Sequeri nous offre une réflexion sur le désir enraciné dans la structure ontologique du réel qui permet de comprendre la différence qui existe entre le désir postmoderne et l’authentique désir humain48. Il parle du désir de l’être, de cette tension du désir qui est originairement inconditionnée embrassant l’horizon intégral des possibilités, ce

45 Cf. M. BORGHESI, L’ironia e il mondo come favola, dans Il Nuovo Aeropago 57 (1996), p. 25-26. 46 M. BORGHESI, Ibid., p. 27. 47 Cf. A. FERRARA, L’eudaimonia postmoderna, Naples, 1992. 48 Cf. P. SEQUERI, Il desiderio ingiustificato e il giusto senso. La libertà condizione del sapere nella struttura originaria della ragion pratica, dans Teol(M) 13 (1988), p. 132-148.

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lieu “idéal”. L’analyse phénoménologique du désir montre qu’il existe comme volonté de soi soutenue par une volonté d’être autre49. Un désir qui ne conçoit la réalisation que comme un appel à un dépassement. Le désir est ainsi la condition originaire de la liberté50. Mais ce désir vit en tension dialectique avec le besoin qui est le désir sous la forme de la nécessité qui le porte à l’extinction même. Si le désir porte à la liberté, le besoin porte à l’esclavage, car il est, selon Sequeri, séparation de l’horizon infini de l’être, alors que le désir est marqué par la transcendance de l’être. L’évidence éthique qui est la correspondance entre le sens vrai et le sens bon n’est possible que si elle s’enracine dans la liberté et donc dans la tension vers l’être qui est le désir même51. Cette attention au désir de la part de Sequeri rejoint également l’invitation de W. Kasper de tenir compte de la réalité de l’homme postmoderne qui aspire au bonheur52. Si Kasper le fait dans le cadre de l’eschatologie, Sequeri nous offre les bases philosophiques qui permettent de comprendre que le désir de bonheur est authentique dans la mesure où il est compris comme l’expression de la tension de l’homme vers l’être.

3. Le réenchantement chrétien W. Kasper a montré que la critique de la prétention totalisante de la raison scientifique qui conduit à affirmer la valeur de l’esthétique et du mystique dans la postmodernité mérite d’être prise en considération. Une approche esthétique de la vérité est selon lui tout à fait louable permettant à la pensée de sortir d’une étroitesse qui fut fatale à la pensée moderne. L’annonce de la vérité chrétienne dans la culture postmoderne pour être porteuse d’espérance se doit de prendre en considération l’aspect esthétique. Seule une vérité belle sauve l’homme du désespoir et provoque le désir de la suivre. Le chrétien se voit donc confier la mission de réenchanter le monde en réintégrant l’approche

49 50 51 52

Cf. Cf. Cf. Cf.

P. SEQUERI, P. SEQUERI, P. SEQUERI, W. KASPER,

Ibid., p. 135. Ibid., p. 143. Ibid., p. 144-145. Op. cit., p. 186.

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esthétique dans la parole sur Dieu, c’est-à-dire la théologie, en laissant la Parole s’exprimer dans sa parole. La théologie est ainsi appelée à devenir une théologie de l’espérance capable de répondre au défi de la déconstruction du nihilisme et de la perte de la forme qui l’accompagne. On ne peut donc envisager de relever ces défis de la postmodernité si le discours chrétien ne commence pas par un examen de conscience sur la manière de proposer la “parole qui sauve” (3.1.). Le chrétien sera ainsi le gardien de la gloire à condition de prendre en considération la dimension esthétique de l’espérance chrétienne, la Parole doit effectivement retrouver cette dimension de la gloire et donc de la joie capable d’enchanter le coeur de tout homme (3.2.). 3.1. Un examen de conscience: la relativisation du thème de la beauté en théologie La réticence catholique face à la beauté ainsi que l’importance de la beauté pour la théologie est très bien exprimée par Hans Urs von Balthasar au début de Herrlichkeit lorsqu’il écrit de manière prophétique: “Il n’est donc pas nécessaire que la théologie, comme elle le fait fréquemment en notre siècle, renonce au point de vue esthétique - que ce soit inconsciemment ou consciemment, par faiblesse ou par oubli, ou par fausse prétention scientifique. Il lui faudrait alors abandonner une bonne part de ce qu’elle est, sinon la meilleure”53. Balthasar constate en effet un appauvrissement de la théologie qui résulte d’un oubli de l’esthétique, car selon lui il ne peut y avoir de théologie vraiment grande et féconde en dehors de la constellation du kalovn et de la cavri"54. La désesthétisation de la théologie commencée à

H. U. v. BALTHASAR, La Gloire et la Croix. Aspects esthétiques de la Révélation. Vol. I: Apparition, Paris, 19902, p. 97 (cité dorénavant GC 1); Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd. I: Schau der Gestalt, Einsiedeln 19883, p. 110 (cité dorénavant H 1). 54 Balthasar s’évertue à souligner le lien qui existe entre l’esthétique et la théologie. Comme le note Sommavilla à propos de la théologie pour Balthasar: “Seulement quand la théologie devient esthétique elle devient vraiment théologie” (G. SOMMAVILLA, “Gloria” di Hans Urs von Balthasar ossia: religione nel segno della bellezza, dans RdT 3 (1977), p. 303; Balthasar note lui-même que ce sont les grands esthètes qui ont façonné la théologie 53

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l’époque des temps modernes, tant dans le protestantisme que le catholicisme, a entraîné une dérive de la théologie qui a “échoué sur les bancs de sable du rationalisme”55. La perte de la fécondité se manifeste en théologie par un déplacement du centre de gravité de l’intérêt et de la recherche, qui se trouve désormais placé sur l’aspect historique de la théologie56. Et ce fait affecte selon notre auteur toutes les disciplines particulières de la théologie, y compris celle de la théologie morale qui “perd son caractère par trop philosophique: on y voit la manière dont historiquement, la Parole de Dieu nous est adressée dans toute nouvelle situation historique”57. L’auteur rappelle que cette évolution est causée par un malentendu sur la nature de la théologie58. Elle est certes science authentique, mais seulement analogiquement par rapport aux autres sciences. Car elle est participation, par grâce, à la science intuitive de Dieu lui-même et de l’Église glorieuse. Or “c’est seulement dans cette dimension qu’on peut découvrir la ‘forme’ théologique distinctive et sa beauté spécifique, ce n’est qu’en elle qu’est possible l’acte décrit par la tradition augustinienne comme fruitio et qui donne seul accès au contenu théolo-

(cf. Rechenschaft, Einsiedeln, 1965, p. 300); l’Esthétique s’inscrit dans cette recherche du point unitaire de la théologie marquée par un éclatement: “Avec l’esthétique théologique (comprise il ne faut pas l’oublier comme la première partie d’une trilogie appelée à se développer dans une dramatique et une logique théologique), Balthasar se met à la recherche de ce point unitaire avec la conviction qu’il ne peut être trouvé qu’à l’intérieur de l’autorévélation même de Dieu, dont le noyau central, qui coïncide avec la formalité de la gloire se trouve dans son unicité absolue” (R. VIGNOLO, Hans Urs von Balthasar: Estetica e Singolarità, Milan, 1982, p. 114). 55 Cf. l’article-programme de Balthasar: Theologie und Heiligkeit, dansWuW 3 (1948), p. 881-896) (Théologie et sainteté, dans DViv 12 (1948), p. 17-31). 56 Cf. GC 1, p. 61, (H 1, p. 70); cf. R. VIGNOLO, Figura come principio ermeneutico alternativo all’ideologia storico-critica, in ID., Hans Urs von Balthasar: Estetica e Singolarità, p. 275-283. 57 GC 1, p. 62, (H 1, p. 70). 58 A ce propos nous renvoyons à l’étude de M. L OCHBRUNNER, Theologieverständnis. Verhältnis zur theologischen Wissenschaft, dans ID., Analogia caritatis. Darstellung und Deutung der Theologie Hans Urs von Balthasars, Freiburg i. Br, 1981, p. 66-69.

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gique”59. Ainsi, si Balthasar, peut dire “que ce sont les grands esthètes qui ont façonné la théologie chrétienne”60, c’est parce qu’ils ont d’abord contemplé dans une fruitio la figure de la Révélation. Cet acte est l’acte central de la théologie en tant que science, un acte que la pensée moderne rejette comme non “scientifique” dans la “spiritualité” non scientifique, ou encore, qu’elle laisse en suspens tant que la recherche “exacte” ne s’est pas prononcée61. Nous pouvons donc le dire certainement aussi pour la théologie morale: la fécondité de la théologie morale dépend de la réintroduction de l’esthétique. Peut-être trouve-t-on formulée par Balthasar une des raisons de la non-réception de l’enseignement moral de l’Église. On ne peut aimer une vérité, une exigence morale que si elle attire. Annoncer la vérité sans pédagogie, sans tenir compte de l’espérance qu’elle doit susciter n’est ce pas condamner la vérité à rester lettre morte? Or la vérité chrétienne est tout d’abord une Vérité vivante: le Christ, lui l’Espérance de la gloire. 3.2. Le chrétien, gardien de l’espérance de la gloire Cette prise en considération de l’impact du discours théologique sur l’annonce de l’espérance de la gloire va de pair avec une prise en considération de la mission chrétienne d’être témoin de l’espérance de la gloire dans le monde désenchanté de la postmodernité. Nous nous inspirerons de l’esthétique théologique de Hans Urs von Balthasar pour montrer que la responsabilité de la figure et donc de l’espérance de la gloire incombe désormais aux chrétiens (3.2.1), en devenant eux-mêmes “figure existentielle” (3.2.2), car ils sont capables de voir la “Figure de la révélation” (3.2.3), la beauté étant à l’origine du christianisme (3.2.4).

59 60 61

GC 1, p. 63, (H 1, p. 71). Rechenschaft, p. 300. GC 1, p. 63, (H 1, p. 71).

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3.2.1. La responsabilité de la figure incombe aux chrétiens Devant le vide et la tristesse engendrée par une dissolution de l’être et de la forme, et donc du désespoir qui l’accompagne, Hans Urs von Balthasar nous livre un réflexion fondamentale pour comprendre le défi de l’espérance chrétienne qui passe par une redécouverte de la forme: “Devoir retrouver, à partir de ce vide sans écho, l’image que l’Auteur Premier avait envisagée pour nous, cette exigence peut paraître presque surhumaine. Et peut-être, en vérité, n’est-elle réalisable que chrétiennement (...) la responsabilité de la figure incombe au chrétien”62. Ce vide dont parle Balthasar se réfère à la situation contemporaine d’absences de formes car “elles se brisent, et sont tenues en suspicion idéologique”63, mais aussi parce que “l’homme à force d’avoir souillé et renié les formes, se sent tellement humilié, partageant leur souillure, que la tentation s’offre à lui chaque jour de mettre en doute la dignité de l’existence, et de répudier un monde qui nie et détruit son propre caractère d’image”64. Et pourtant il existe une image originaire divine invisible au yeux du monde, laquelle peut être visible pour le chrétien capable de voir, dans le fou humilié de l’Évangile, l’image qui projettera, de son coeur caché, sur le monde, les rayons de sa beauté. Il y a selon notre auteur un petit groupe de personnes, la communauté ecclésiale qui reçoit un organe pour voir la figure primitive de l’homme dans l’existence et pour remettre tout ensemble en lumière: le vrai, le bon et le beau65. L’Église est ainsi au service de la redécouverte de la gloire dans la culture contemporaine. Il n’est pas facile de voir la beauté, la préciosité, la grandeur, la dignité de l’homme, selon qu’en témoigne le comportement de l’homme contemporain et la difficulté de respecter les droits de l’homme depuis les premiers moment de la conception de l’être humain jusqu’à l’ultime moment de son existence. Balthasar pose en effet une condition fondamentale: il faut être capable de voir l’indissolubilité de la figure de l’être humain. Et c’est précisément

62 63 64 65

GC 1, p. 22-23, (H 1, p. 24). GC 1, p. 21, (H 1, p. 22). GC 1, p. 22, (H 1, p. 23). Cf. GC 1, p. 22, (H 1, p. 23).

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cela qui fait problème. On ne peut la dissoudre en des degrés inférieurs. L’homme ne peut être compris qu’à partir de son devenir. Certes tous les éléments biologiques et psychologiques ont une valeur qui reste cependant relative. Ils ont besoin d’être intégrés à partir du Christ. Fidèle à sa méthode d’intégration, Balthasar montre que l’homme ne peut être compris, c’est-à-dire obtenir une figure, qu’à partir de l’Unique Nécessaire. Mais pour cela, il convient de découvrir cet Unique, et l’ayant découvert, transporté par la beauté de cette forme unique, l’être humain est amené à considérer tout le reste comme de la balayure. En sorte que cette perle (l’Unique) confère à tout ce que nous sommes sa propre valeur. Or seul l’Évangile peut offrir une telle figure. Seul l’Évangile peut offrir un trésor absolu qui n’est pas informe et qui ne détruit pas du dedans la figure du moi spirituel comme une certaine mystique du New age. C’est ainsi que le chrétien, parce qu’il peut voir la figure incomparable du Christ, au nom de cette perception se voit doté d’une mission: “lorsque toute authentique figure du monde devient douteuse, la responsabilité de la figure incombe au chrétien”66. Voilà pourquoi Balthasar affirme que c’est aux chrétiens “puisqu’ils doivent briller ‘comme les astres dans l’univers’, (que) la tâche ... incombe d’éclairer l’espace obscurci de l’être, afin que sa lumière originelle brille de nouveau, non seulement pour eux, mais pour le monde entier; car c’est uniquement dans cette lumière que l’homme peut marcher conformément à son authentique destination”67. 3.2.2. Le chrétien, épiphanie de l’Espérance de la gloire Parler de l’espérance de la gloire dans le champ de la théologie morale, c’est donc parler de la responsabilité du chrétien par rapport à la gloire. Ainsi le chrétien se voit invité à devenir révélateur de cette gloire pour rendre l’espérance au monde. C’est en ce sens que Hans Urs von Balthasar s’exprime: “Le chrétien ne

GC 1, p. 23, (H 1, p. 24). GC 4/3, p. 400, (H 3/1, 2, p. 976); le chrétien parce qu’il croit à l’Amour absolu de Dieu pour le monde, doit lire dans l’être la différence ontologique et le considérer comme renvoi à l’amour (cf. GC 4/3, p. 398-399/ H 3/1, 2, p. 974-975). 66 67

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remplit sa mission - en tout temps, et spécialement dans le nôtre - que s’il devient réellement cette figure voulue et fondée par le Christ; figure dans laquelle l’extérieur exprime et reflète, d’une manière digne de foi pour le monde, un intérieur, et celui-ci, étant prouvé et justifié dans sa vérité, est rendu digne d’amour dans sa beauté rayonnante, par la manifestation extérieure”68. Dans une perspective chrétienne cette figure reflète l’être filial du chrétien qui participe à l’être christique et donc à la figure du Fils69. C’est ainsi que l’être chrétien est figure par excellence (das Christsein ist Gestalt)70 car la beauté de l’existence chrétienne surgit de cette forme absolue. En effet l’être chrétien est grâce, possibilité d’existence ouverte par le Christ qui justifie. Ce n’est pas une possibilité générale, informe, une prétendue liberté. Non, c’est une charge, une mission, un charisme, un service chrétien dans l’Église et envers le monde71. Il y a donc une différence avec toute autre forme de vie. Fondamentalement, Balthasar situe cette différence à un niveau ontologique; cette forme est à mettre en relation avec la rémission des péchés, la justification, la sainteté, l’ennoblissement de tout l’être qui sont les garanties de la supériorité de la figure spirituelle du chrétien. En fait par le mystère de l’incarnation, et de la rédemption “l’image de l’existence (das Bild des Daseins) est irradiée par le modèle qu’est le Christ (Urbild Christi), et travaillée par le libre pouvoir de l’Esprit Créateur, avec la supériorité de celui qui n’a pas besoin, pour atteindre son but surnaturel, de détruire quoi que ce soit de naturel”72.

GC 1, p. 24, (H 1, p. 26). Le Fils est la figure par excellence en raison de la dimension trinitaire de cette figure. La figure du chrétien qui participe à cette figure possède ainsi une dimension trinitaire (cf. M. LOCHBRUNNER, Op. cit., p. 172). 70 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); cf. aussi H. U. v. BALTHASAR, Die christliche Gestalt, dans Hochl. 62 (1970), p. 289-300. 71 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); dans la Dramatique divine Balthasar explicitera cet aspect de la mission en montrant comment le sujet spirituel devient personne ecclésiale à partir de sa mission (cf. Dramatique divine 2/2. Les personnes du drame. Les personnes dans le Christ, Paris-Namur, p. 62-166/ Theodramatik 2/2. Die Personen des Spiels. Die Personen in Christus, Einsiedeln, 1978, p. 186-191). 72 GC 1, p. 24, (H 1, pp. 25-26); cette remarque est importante car elle 68 69

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Le chrétien ne remplit sa mission d’espérance que s’il devient cette figure voulue et fondée par le Christ. L’extérieur doit exprimer un intérieur, alors la figure devient digne de foi pour le monde: “c’est le but de la vie ecclésiale d’incarner de plus en plus la figure du Fils dans le monde pour la glorification du Père, et de la rendre visible pour le monde non-croyant. Dès lors le chrétien individuel, comme membre de l’Église, est-il réellement placé sous la loi de la figure du Christ (das Gestaltgesetz Christi)”73. Cette figure est ainsi rendue digne d’amour dans sa beauté rayonnante au point que Hans Urs von Balthasar s’appuyant sur la vie des saints peut affirmer que “la figure épanouie du chrétien est ce qu’il y a de plus beau dans le domaine humain”74, parce qu’elle est devenue transparente au Christ;

permet de comprendre à partir de l’esthétique comment le fait de tout ramener au Christ, et de le poser comme norme ultime ne le fait pas tomber dans le rétrécissement barthien qui absolutise le domaine de la grâce au mépris de celui de la nature. Balthasar aborde la question du rapport nature-grâce à partir de la Personne du Christ: il considère cette relation telle qu’elle s’est réalisée dans le Christ: “il n’y a pas entre la nature et la grâce, (...) un parfait équilibre, mais seulement cet ordre qui est fondé sur la Personne du Christ: la nature comme expression est au service de la surnature. Dans ce service elle n’y perd pas” (Verbum Caro, Einsiedeln, 19903, p. 180). Ainsi nous pouvons comprendre la pensée de Balthasar selon laquelle l’esthétique inférieure est au service de l’esthétique supérieure. Il est important de comprendre que pour notre auteur l’ordre naturel ne peut plus être considéré comme si la venue du Christ n’avait rien changé, alors que “la valeur universelle et abstraite des lois fondées dans la nature humaine ont participé en lui à son assomption dans l’union avec la personne du Verbe divin (...), les lois essentielles, abstraites, sont intégrées en lui, sans être supprimées, à l’unicité de sa personne, et elles sont régies et informées par elles” (La théologie de l’histoire, Paris, 19703, p. 28/ Theologie der Geschichte, Einsiedeln, 19796, p. 16). Il nous semble donc clair qu’il ne supprime pas l’ordre de la nature, mais il invite à regarder la réalité à partir du Christ, car c’est en lui que toutes les lois naturelles atteignent leur sens final (cf. Christlicher Stand, Einsiedeln, 19812, p. 186). 73 GC 1, p. 180, (H 1, p. 207). 74 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); Balthasar considère le saint comme celui qui “rayonne quelque chose de la proximité de l’Origine” (Retour au centre, Paris, 1971, p. 12/ Einfaltungen, Einsiedeln, 19874, p. 18); cf. aussi P. PETIT, La sainteté d’après la théologie de Hans Urs von Balthasar, dans ID., Un grand théologien spirituel. Hans Urs von Balthasar, Montréal, 1985, p. 1-80.

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“celui qui est vraiment saint est toujours celui qui se confond le moins avec le Christ, ce qui lui permet d’être transparent au maximum pour le laisser voir”75. 3.2.3. Le chrétien, capable de voir la figure de la révélation Devenir porteur de l’espérance de la gloire du Christ suppose qu’on soit capable de voir la figure du Christ dans la figure totale de la révélation telle qu’elle se présente dans l’histoire du salut. Seule cette unité permet de ne pas défigurer le Christ et de retrouver en lui la gloire du Père. En effet “l’existence et la doctrine du Christ ne seraient pas une figure saisissable sans sa connexion avec une histoire du salut qui conduit à lui; c’est avec cette histoire et en provenant d’elle qu’il devient pour nous l’image qui révèle l’invisible”76. C’est ainsi qu’on peut parler du Christ comme du “centre de la figure de la révélation”. Il est important d’apercevoir que cette expression ne veut pas dire que le Christ serait la fraction centrale de la figure de la révélation, mais “elle désigne bien plutôt ce par quoi la figure totale acquiert son unité et son intelligibilité, le pourquoi auquel il faut rapporter tous les aspects particuliers pour qu’ils deviennent compréhensibles”77. La position centrale du Christ désigne dès lors ce point auquel tout le reste est ordonné: “cela est vrai absolument, car il est le Fils unique du Père, et ce qu’il fonde et établit n’a de sens que par lui, n’est relatif qu’à lui, et n’est maintenu vivant que par lui”78 C’est ainsi que Balthasar nous invite à voir la figure de la révélation divine dans l’histoire du salut, avec le Christ comme principe et comme fin. Mais ici encore comme pour la recherche de la figure humaine pour voir la figure de la révélation il faut déjà avoir habitué nos yeux anciens à voir la figure essentielle. Le surnaturel ne remplace pas le naturel. “En fait, l’incarnation de Dieu accomplit toute l’ontologie et toute l’esthétique de l’être créé, dont elle se sert, avec une profondeur nouvelle, comme d’une

75 76 77 78

GC 1, p. 180, (H 1, p. 207). GC 1, p. 27, (H 1, p. 30). CC 1, p. 390, (H 1, p. 445). GC 1, p. 391, (H 1, p. 445).

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langue exprimant l’être et l’essence divins”79. La perception de la beauté surnaturelle suppose dès lors une capacité naturelle de perception de la beauté intramondaine. Il ne faut donc pas opposer l’esthétique naturelle et surnaturelle mais montrer que le Christ étant la source première de toute esthétique chrétienne, est aussi la source de toute esthétique80. L’espérance chrétienne est capable de voir dans la beauté de la création cette beauté qui renvoie au Créateur et lui donne d’espérer secrètement la rencontre avec une beauté supérieure. Afin de saisir l’importance de la dimension esthétique pour la compréhension de l’espérance, il convient de préciser brièvement le sens de l’analogie qui est fondamental pour éviter toute confusion entre l’espérance de la gloire intramondaine et l’Espérance de la gloire de Dieu. En effet comme le note Balthasar “la figure du beau est animée d’une telle transcendance qu’elle semble glisser sans discontinuité du domaine profane à celui qui est supraterrestre”81. Pourtant on ne peut ne pas soumettre le domaine de l’esthétique au jugement de la Parole de Dieu qui rappelle l’absolue transcendance de l’esthétique divine. Toutefois on peut affirmer, contre un certaine vision démonisante de la beauté intramondaine, l’existence d’un pont reliant la beauté naturelle et surnaturelle: “il ne faudrait pas alors refuser une analogie interne entre les deux formes, ou les deux degrés de la beauté”82 et donc entre l’espérance naturelle de la beauté et l’espérance surnaturelle de la beauté éternelle. C’est précisément le concept d’analogie qui constitue l’élément fondamental pour penser la relation entre la nature et la grâce et pour pouvoir comprendre l’esthétique théologique83. En

GC 1, p. 25, (H 1, p. 26). Cf. GC 1, p. 25, (H 1, p. 27); comme nous le montrions plus haut et comme le laisse entendre l’analogie de l’être qui permet de penser la continuité dans son juste rapport du naturel et du surnaturel. C’est ainsi que dans le cadre de l’esthétique on peut parler de l’analogie de la beauté (cf. N. O’DONAGHUE, A theology of beauty, dans J. RICHES, (ed.), The analogy of Beauty. The Theology of Hans Urs von Balthasar, Edimbourg, 1986, p. 6). 81 GC 1, p. 29, (H 1, p. 31). 82 GC 1, p. 30, (H 1, p. 32). 83 Le thème de l’analogie est le principe autour duquel tourne toute la pensée de notre auteur (cf. A. MODA, Hans Urs von Balthasar. Un’esposizione 79 80

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effet nous nous référons à la pensée de Balthasar pour affirmer qu’entre la grâce et la nature il ne peut y avoir de rupture84. Il existe en fait une transparence réciproque entre la nature et la grâce. La beauté surnaturelle que Balthasar désigne selon le terme biblique de gloire (dovxa), est un transcendantal théologique qui existe dans une indissoluble périchorèse avec les transcendantaux philosophiques de l’être85. Toutefois l’auteur exclut toute réduction de la gloire transcendantale à une beauté intramondaine. Alors comment penser les deux beautés si ce n’est selon la catégorie de l’analogie telle que le quatrième Concile du Latran le définit “maior dissimilitudo in tanta similitudine”86. Il convient donc de maintenir à l’esprit le principe d’analogie pour interpréter correctement le rapport qui existe entre l’esthétique naturelle et surnaturelle et l’espérance naturelle et surnaturelle. Ajoutons un ultime élément fondamental: la vision de la figure de la révélation suppose un élément surnaturel, l’intervention de l’Esprit Saint. En se référant à la permanence de la figure du Christ dans la période post pascale87, on peut en effet mettre en évidence le rôle de l’Esprit Saint dans la vision du “centre de la figure de la révélation”. La naissance de l’image, de la figure totale de la révélation dans les disciples avec la descente de l’Esprit, leur permet de voir la figure du Christ comme l’accomplissement de l’Ancienne Alliance, et la proportion unique entre l’Ancien et le Nouveau88. L’Esprit-Saint est donc l’artisan de cette vision et devient l’élément principal de la doctrine de la perception de la gloire et joue donc un rôle fondamental dans ce que l’on peut appeler l’esthétique théologique de l’espérance.

critica del suo pensiero, Bari, 1976, p. 223-224); cf. aussi la présentation qu’en fait G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Brescia, 1997, p. 235-238. 84 Cf. J. SCHMID, Im Ausstrahl der Schönheit Gottes. Die Bedeutung der Analogie in “Herrlichkeit” bei Hans Urs von Balthasar, Münster, 1982, p. 197198. 85 Cf. GC 3/2, p. 208, (H 3/2, p. 224). 86 DS 806. 87 Pour Balthasar la vision de la figure dépend du Ressuscité lui-même qui fait participer l’homme en modelant ses sens (cf. GC 1, p. 310/ H 1, 353 p.). 88 Cf. GC 1, p. 26, (H 1, p. 28).

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3.2.4. L’espérance de la gloire du Christ à l’origine du christianisme Si l’être chrétien est figure c’est précisément en réponse à la figure du Christ. La vision engendre une réponse qui devient responsabilité. Or cette réponse est le résultat d’un transport, d’un ravissement devant la splendeur de la figure de la révélation. Cet élément de ravissement est si important dans l’optique de Hans Urs von Balthasar, qu’il situe l’origine du christianisme dans ce ravissement: “être transporté (hingerissenwerden), c’est l’origine du christianisme”89. La rencontre avec la figure du Christ provoque en effet un enthousiasme (Begeisterung), qui est amour de la beauté du Christ, au nom de laquelle l’homme devient un insensé. On peut citer en exemple l’expérience johannique et paulinienne de rencontre avec la figure du Christ. Pour Jean la figure du Christ apparaît dans la rencontre et transperce l’homme d’une manière indicible le jetant à genoux dans l’adoration et en faisant un disciple90. Paul également, sur le chemin de Damas a vu la beauté suprême au point de devenir disciple du Christ qu’il persécutait auparavant91. La sequela Christi naît donc d’une rencontre enthousiasmante. Enthousiasme qui les portera jusqu’à la croix et leur donnera la force de souffrir dans l’espérance de la gloire divine.”Ils (les Apôtres) souffrent, volontairement, pour leur amour et seul leur embrasement pour la Beauté suprême, couronnée d’épines et crucifiée, justifie qu’ils souffrent avec Elle”92. Balthasar spécifie que cette voie du ravissement est la vie secrète des saints mais que peu s’en soucie vraiment alors qu’elle est offerte à qui le veut vraiment93.

89 GC 1, p. 28, (H 1, p. 30); c’est ainsi que pour Balthasar : “le centre de l’apologétique chrétienne demeure dans cet Incomparable. Incomparable à condition que la figure de Jésus ne soit pas morcelée” (Aux croyants incertains, Paris, 1980, p. 26-27/ Kleine Fibel für verunsicherte Laien, Einsiedeln, 19893, p. 23). 90 Cf. GC 1, p. 28, (H 1, p. 30). 91 Cf. GC 1, p. 28, (H 1, p. 30). 92 GC 1, p. 28, (H 1, p. 30). 93 Cf. GC 1, p. 29, (H 1, p. 31).

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4. Reconsidérer l’esthétique dans les théologies actuelles de l’espérance Nous ne pouvons certes pas développer un dialogue exhaustif avec la théologie de l’espérance actuelle mais nous nous contenterons de quelques considérations qui mériteraient bien d’autres développements. On pourrait se demander si cette esthétique théologique de l’espérance que nous prônons est conciliable avec la théologie de l’espérance apparue avec un Moltmann qui a proposé de relire la théologie à partir de l’espérance en considérant la provocation sécularisante d’E. Bloch. Selon lui le noyau central du christianisme se trouve dans la lecture des évènements de la vie du Christ comme anticipation, comme promesse du Règne. À propos de cette théologie de l’espérance de Moltmann, nous pouvons d’une part dire que, s’il est vrai que sa théologie de l’espérance reste traditionnelle dans le sens qu’il applique le rapport promesse-accomplissement, il accentue trop selon Balthasar l’eccédence, son règne ne s’étant pas encore affirmé dans l’histoire du monde94. Moltmann s’oppose ainsi à une eschatologie trop épiphanique laquelle est considérée trop tributaire d’une conception grecque. Parler d’espérance esthétique comme nous le faisons semble donc être trop epiphanique et entrer en contradiction avec la réalité humaine qui gémit dans l’attente d’une libération. Il faut pouvoir situer la pensée de Moltmann et se rapeller qu’il est héritier de la pensée protestante laquelle aussi a évacué l’esthétique de la théologie en considérant la vision comme un élément étranger au message biblique. Luther refusa en effet tout ce qui voulait faire accorder esthétiquement la divinité (la révélation) et l’humanité (la courtisane Raison). Toute recherche d’accord signifie diminuer la foi. Entre Dieu et l’homme, entre la surnature et la nature, entre la beauté humaine et la beauté divine ne peut exister qu’un rapport dialectique. De même le point de départ luthérien étant anticontemplatif, privilégiant l’exaiphnès, l’évènement-éclair, il est logique que le pro-

94 Cf. La dramatique divine. III. L’Action, Namur, 1990, p. 144 (Theodramatik III. Das Endspiel. Einsiedeln, 1976, p. 150)

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testantisme éliminât du canon des Écritures tous les livres saints proprement contemplatifs et esthétiques. De même la seule théologie valable pour ce siècle devient la theologia crucis, la theologia gloriae étant réservée au siècle future. Et pourtant une théologie de l’espérance pour les plus pauvres peut comme le montre une récente étude de C. Mendoza-Alvarez récupérer l’élément esthétique. C. MendozaAlvarez nous offre une synthèse entre l’esthétique et la théologie de la libération dans une recherche sur la révélation chrétienne en dialogue avec la modernité95. Cette étude touche à la fois la théologie fondamentale et la théologie morale mais sous l’aspect de la libération. Nous présentons les grandes lignes de cette réflexion car elle permet de montrer comment l’esthétique investit un domaine de la théologie qui lui semble a priori étranger. Selon l’auteur, l’esthétique théologique est une médiation épistémologique pour la théologie en tant qu’elle est l’étude des conditions de la réception de la révélation pour l’époque contemporaine. Il est convaincu que c’est bien l’esthétique qui permet de sortir des impasses que pose la modernité à la théologie fondamentale96. L’esthétique permet en effet de proposer un langage qui soit “persuasion de l’intelligence et séduction de la volonté” selon l’expression de Bartolomé de Las Casas97. Elle ouvre également la possibilité de construire une esthétique conçue comme sequela du Christ98. À la base de cette esthétique théologique, nous trouvons l’intuition fondamentale de la théologie de la libération qui associe la question de la souffrance de l’innocent au langage sur Dieu. L’auteur refuse en effet la domination de la raison quantitative moderne qui n’est plus capable de voir le visage du Christ en celui de toute personne opprimée99. Il s’agit donc de faire apparaître un visage sur la figure déformée de tout être souffrant. Selon Mendoza-Alvarez l’esthétique théo-

95 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Deus liberans. La Revelación cristiana en diálogo con la modernidad: los elementos fundacionales de la estética teológica, Fribourg, 1996. 96 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 2. 97 C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 13. 98 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 2. 99 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 13.

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logique de Hans Urs von Balthasar présente une insuffisante attention à l’expérience humaine de la souffrance. Le primat de la kénosis dans l’esthétique théologique de Balthasar et le rayonnement de la gloire de Dieu dans l’expérience de la croix sont jugés positivement, mais il n’a pas intégré un discours sur la négation de la vie innocente dans le dynamisme de la figure christologique. Il estime aussi que la dimension de l’expérience humaine, ainsi que la consistance de l’autonomie relative de l’homme, ne sont pas, mis en évidence dans cette esthétique100. Balthasar privilégie, selon lui, comme sujet fondamental de sa théologie, Dieu et sa vie trinitaire101. L’esthétique théologique de Mendoza-Alvarez propose au contraire une voie d’approche différente qui intègre la voie anthropologique à partir de la perception de la négativité du sujet et de l’histoire. Il parle ainsi de l’esthétique de la négativité102. L’esthétique théologique est donc conçue comme une théorie de la perception théologale du monde103. L’esthétique théologique permet la perception théologique de cette réalité qui sera lue à la lumière du Serviteur souffrant. Avec Bartolomé de Las Casas, Mendoza-Alvarez considère en effet que dans la négativité du sujet souffrant c’est bien la présence du Christ souffrant qui s’y manifeste et qui est perçue par

Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 308-309. Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 308. Une remarque s’impose à propos de cette critique concernant Balthasar. Il nous semble que la perspective de Balthasar est beaucoup plus équilibrée. Dieu est bien le sujet premier de la théologie mais non sans concerner l’homme en profondeur, le terrain concret de son histoire peccamineuse. Sa théologie de l’histoire comme elle est exprimée dans Theologie der Geschichte apporte une lumière sur une juste intégration en théologie de l’humanum. Une présentation de Marchesi de l’anthropologie de Balthasar permet de lever toute équivoque: “La voie de la transcendance est comme la monnaie précieuse qui assure l’autenticité du monde et de l’homme; en soulignant fortement l’absolue transcendance et l’altérité de Dieu, on insiste avec la même énergie sur la dimension de l’autotranscendance, propre à l’homme, non seulement en relation avec certaines choses particulières, mais aussi en relation avec le monde entier, à la totalité de l’être; dans sa liberté l’homme accueille la différence qui existe entre lui et le monde” (G. MARCHESI, Op. cit, p. 177). 102 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Op. cit., p. 311. 103 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 30. 100 101

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la lumière de la foi104. La figure du Christ est dès lors avant tout perceptible dans la figure de l’homme souffrant. C’est là que Dieu se manifeste. En outre, si pour Balthasar la croix est perçue comme manifestation de la gloire de Dieu dans l’amour qui s’y donne, la croix pour Mendoza-Alvarez est la manifestation de la solidarité de Dieu avec la souffrance et donc de la fidélité de Dieu à son Alliance. La perception de la souffrance de l’innocent et de son contexte historique défavorable, rend ainsi possible l’annonce de la croix du Christ comme réponse de solidarité et de rédemption de la part de Dieu devant le drame de la souffrance humaine. L’être humain qui souffre se voit appelé à entrer avec sa souffrance dans l’espérance de la résurrection du Fils de Dieu105. L’esthétique théologique de la libération se présente donc comme une tentative de libérer l’homme de la raison dominante qui empêche l’homme moderne de percevoir la valeur du visage souffrant. Cette critique de Mendoza-Alvarez nous semble juste, et elle s’inscrit dans le contexte même de la postmodernité qui refuse la réduction de la lecture de la réalité selon le seul critère de la raison scientifique. Par rapport à la critique de l’esthétique de Balthasar, nous retenons qu’il a effectivement privilégié le point de vue d’en haut, mais qu’une lecture complète de son oeuvre laisse percevoir un engagement de l’homme dans la réalité de ce monde à la suite de l’engagement de Dieu en faveur du frère qui a valeur de sacrement. Il est vrai que l’herméneutique de la croix du Christ, selon Hans Urs von Balthasar, vise à sauvegarder le sens d’une rédemption comprise comme libération de la réalité du péché, de toute réduction sécularisante et idéologique de l’acte rédempteur. Cependant le point de vue de Mendoza-Alvarez nous semble acceptable à condition d’éviter une idéologisation de la croix et une lecture essentiellement existentielle. Celle-ci doit être subordonnée à une lecture théologale de la croix. Parler d’esthétique dans la théologie de l’espérance qui accentue la libération horizontale pourrait sembler anhistorique et pourtant l’espérance de la libération n’est-elle pas aussi la libé-

104 105

Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 434. Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 433.

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ration du non-sens, de l’absurdité de l’absence de signification. Peut-on donc proposer une théologie de l’espérance qui ne tienne pas compte du désespoir existentiel de l’homme? Chercher à rendre visible la figure de la révélation, sa beauté et donc la révélation du sens ultime de toute réalité, c’est contribuer à éclairer le non-sens de l’absence de la forme par la forme ultime eschatologique du Christ. Il nous semble également devoir souligner l’importance de l’élément esthétique pour une théologie des réalités dernières. Car au fond l’espérance de la gloire est bien l’espérance de la beauté éternelle de Dieu à laquelle l’homme participe déjà maintenant dans une tension toujours actuelle en attendant la pleine révélation de cette gloire dans le face à face avec le Père. Retrouver le désir du ciel à partir du désir de la beauté, c’est faire redécouvrir à l’homme qu’il porte en lui une trace de la beauté infinie à laquelle il aspire. Cette beauté reste voilée à sa conscience en raison d’un situation culturelle refusant la différence ontologique ou en raison même du regard moderne qui a privilégié le moment analytique “qui divise” pour mieux dominer, mais qui est incapable de voir la synthèse et donc la symphonie du réel. Libérer l’homme de cette fermeture du regard sur l’au-delà n’est ce pas rendre un service de libération?

5. La dimension esthétique de la théologie de l’espérance de saint Alphonse de Liguori La théologie de l’espérance de saint Alphonse est fondée sur la puissance de Dieu, les promesses de Dieu, et la bonté de Dieu qui suscitent émerveillement et amour. L’homme peut ainsi espérer en son salut en raison même de la toute puissance de Dieu capable de réaliser ce que lui ne peut obtenir par ses propres forces. En effet saint Alphonse ne manque pas de souligner la différence existant entre la puissance de l’homme et celle de Dieu pour montrer que l’espérance humaine en quelques biens est incertaine en raison de la volonté changeante de l’homme et de la capacité défectueuse de l’homme d’accomplir de manière constante ses plans. Au contraire, en se référant à la doctrine du docteur angélique, Alphonse affirme que le chrétien peut avoir une certaine espé-

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rance de la béatitude éternelle, parce qu’elle ne s’appuie pas sur la grâce que nous possédons mais sur la divine toute-puissance et sa miséricorde106. Mais si l’homme perd l’espérance et n’obtient pas la béatitude c’est uniquement en raison d’un obstacle situé du côté de l’homme et non de Dieu car notre espérance est fondée sur une promesse celle faite par Dieu. Saint Alphonse ne manque pas de souligner la fidélité de Dieu à ses promesses: “Mais cette miséricorde il la veut pour notre plus grand bien, miséricorde que nous espérons avec vive confiance en nous fondant sur ses mérites et ses promesses”107. C’est dans l’Écriture sainte que le docteur trouve le fondement d’une telle confiance; en particulier en se référant à Marc 11,24, aux Psaumes 17,31; 40,14,15 et 70,1; à l’Ecclésiastique 2,2 et Jean 16,23. A côté de cet argument métaphysique, la puissance de Dieu, et l’argument existentielle, avoir confiance dans les promesses de Dieu, Alphonse avance un argument théologique qui s’appuie sur les dogmes de la création, de l’incarnation et de la rédemption pour fonder la bonté de Dieu, qui est présentée comme la manifestation de cette puissance et la réalisation de la promesse divine, et qui suscite émerveillement et amour. Le dogme de la création est bien le fondement de la théologie de l’espérance. Il voit dans l’amour premier de Dieu pour l’homme le motif par excellence de l’espérance. Il nous a aimé le premier; il nous a aimé avant la création du monde; et c’est au nom de l’amour qu’il a créé le monde. La création est le premier grand don fait par Dieu à l’homme en vue d’obtenir l’affection du coeur de l’homme. Et cet amour est provoqué par la beauté de la création. Telle est l’analyse de Kramer dans son étude sur l’espérance chez saint Alphonse qui a précisément relié cet amour à la beauté, aux merveilles de la création108. Parlant de Thérèse d’Avila, le saint docteur écrit: “Sainte Thérèse disait autour d’elle, qu’en regardant les arbres, les sources, les ruisseaux, la mer, ou les prés, toutes ces belles créatures lui rappelaient son ingra-

Cf. De spe christiana, (ODW 2), p. 727. Via della salute, (OAT 2), p. 277; 275. 108 Cf. C. KRAMER, Fear and Hope according to Saint Alphonsus Liguori, Washington, D. C., 1951, p. 15. 106 107

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titude d’aimer aussi peu le Créateur qui les avait créées pour être aimées”109. Nous trouvons ainsi un élément fondamental pour affirmer que la pensée de saint Alphonse a intégré la dimension esthétique dans sa théologie. C’est précisément la beauté de la création qui reflète l’amour de Dieu invitant l’homme à aimer Dieu par gratitude. On peut donc affirmer que pour saint Alphonse, l’homme peut espérer en la bonté de Dieu en raison de la beauté de sa création qui manifeste son amour. Saint Alphonse ne reste pas seulement au niveau de l’ordre de la création pour fonder l’espérance, mais c’est en considérant le mystère du Christ dans le dogme de l’incarnation qu’il nous livre un premier élément de sa pensée christocentrique de l’espérance chrétienne. C’est dans le Fils que se manifeste tout l’amour du Père: “Considère comment le Père éternel en nous donnant son Fils comme rédempteur, comme victime et comme prix de notre rachat, ne pouvait pas nous offrir motif meilleur d’espérance et d’amour, pour nous donner confiance et pour nous obliger à l’aimer. En nous donnant le Fils, il ne sait ni ne peut nous donner autre chose en plus. Il veut que nous fassions droit de ce don immense, pour gagner le salut éternel et toute grâce nécessaire; alors qu’en Jésus nous trouvons tout ce que nous pouvons désirer: nous trouvons la lumière, la force, la paix, la confiance, l’amour et la gloire éternelle; puisque Jésus Christ est un don qui contient tous les dons que nous pouvons chercher et désirer”110. Il convient de noter que le docteur s’appuie à nouveau sur l’amour pour fonder l’espérance en rappelant que c’est l’amour du Père pour l’homme qui se révèle dans l’incarnation. Et c’est dans le mystère de la nativité, dans l’humilité de la naissance du Fils de Dieu, que saint Alphonse voit le désir de Dieu d’être d’abord aimé et non craint: “mais parce qu’il venait pour gagner notre amour, il voulut venir et se faire voir comme un enfant”111. La mort du Christ en croix est le second élément de cette théologie christocentrique de l’espérance alphonsienne. La mort du Christ vise à révéler à l’homme l’amour du Père: “Pour nous

109 110 111

Practica di amar Gesù Cristo, 1.3, (OAR 1 1933), p. 3. Meditazione 3, Novena del Santo Natale, (OAR 4.1 1939), p. 145. Incarnazione, (OAR 4 1939), p. 29.

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démontrer l’amour qu’il nous portait: Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. 5, 2). Il nous a aimé, parce qu’il nous aimait, il se livra à la douleur, à l’ignominie et à la mort la plus difficile qu’un homme n’ait jamais subie sur la terre”112. Et face à cet amour l’homme ne peut que répondre par l’amour en se rappelant que le Christ est venu sauver le pécheur par amour, et qu’il continue à aimer l’homme d’un même amour. L’homme ne peut donc désespérer en contemplant cet amour parce que Jésus Christ est l’unique espérance de tous nos désirs; parce que Jésus Christ nous pardonnera nos péchés; parce que Jésus Christ nous rendra persévérant; parce que Jésus Christ nous donnera l’éternelle béatitude. Au fond nous retrouvons dans la théologie de l’espérance de Liguori l’intuition augustinienne et johannique, reprise par Hans Urs von Balthasar à savoir le thème de la beauté de l’amour. C’est donc bien la beauté de l’amour de Dieu manifesté dans la création, dans l’incarnation et dans la rédemption qui constitue le fondement de l’espérance alphonsienne. On peut dès lors affirmer que l’espérance chrétienne de la gloire est ainsi l’espérance de la beauté de l’amour divin manifesté en Jésus-Christ.

6. Conclusion Nous avons conscience d’offrir une voie peu parcourue par les théologiens de l’espérance. Pourtant notre étude nous montre une relation réciproque qui existe entre l’esthétique et l’espérance. L’objet de cette rencontre de théologiens en l’honneur de saint Alphonse est réalisée dans un esprit de recherche et donc c’est sans prétention d’absoluité que nous avons osé élargir le thème de l’espérance à l’esthétique. Nous proposons de manière synthétique un certains nombres d’éléments qui apparaissent au terme de cette étude. a) L’espérance de l’être humain est une espérance de sens global, de vérité absolue, d’un fondement ultime. La fragmentation de la vérité dans la postmodernité ou la réduction rationa-

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Practica di amar Gesù Cristo, 1.7, (OAR 1 1933), p. 5.

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liste de la vérité de la modernité entraîne une frustration tant intellectuelle que spirituelle. On peut certes répondre par un éloge de la pensée faible comme le fait G. Vattimo et pourtant l’aspiration à la plénitude, d’harmonie, de forme, persiste dans le coeur de tout homme. La légèreté de l’être, l’apologie du néant sont nous semble-t-il des voies peu fécondes même si apparemment elles libèrent et peuvent, dans le mirage d’un instant qu’offre la fruition esthétique, provoquer l’illusion de la vraie vie. b) Le foi chrétienne n’est pas séparable de l’espérance. Le chrétien croit en un Dieu trine, il espère en lui et il l’aime. Pourtant l’objet de son espérance nécessite pour son adhésion et son dynamisme interne une dimension esthétique que nous avons tenté de relever. Sans figure il ne peut y avoir ravissement ni perception de la beauté éternelle révélée en Jésus Christ. Croire dans la bienheureuse espérance qu’est le Christ n’est possible que si on redonne à cette espérance un attrait qui la fasse désirer plus que le non-être. Est-il possible de faire goûter par anticipation la vie éternelle si on réduit la vérité chrétienne à la seule raison logique? Restituer la beauté à la théologie est un défi qui ne peut laisser indifférent le théologien catholique. Nous nous associons à la constatation prophétique du Cardinal Lustiger qui voit dans cette sensibilité nouvelle une chance pour le christianisme dans l’annonce de la vérité: “Je pense que l’approche esthétique de la vérité est extrêmement importante pour fonder la démarche théologique. Cette revendication théorique faite aujourd’hui par des intellectuels et par des théologiens, je la perçois comme l’annonce d’un printemps à venir, et pour la société et pour l’Église”113. Nous pensons en effet que le désir de sauver la vérité ne peut se réduire à une affirmation de la vérité. Celle-ci doit apparaître belle et bonne sinon elle se présente avec une violence qui repousse l’homme d’aujourd’hui (au lieu de l’attirer et de se faire aimer) et l’empêche d’adhérer par manque de clarté (d’harmonie et de lumière). Plus que jamais, nous sommes invités à manifester la vérité. Une théologie “pédagogique” sera une théologie “épiphanique” qui annoncera la beauté et la bonté du Christ. La Parabole du Fils prodigue (bonté du Père) et l’épi-

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J.-M. LUSTIGER, Le choix de Dieu, Paris, 1987, p. 142-143.

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sode de la Transfiguration (beauté du Fils) nous en indiquent la voie. Le Christ est la Voie pour l’homme parce qu’ il attire par sa bonté et sa beauté et lui fait découvrir la vérité. Nous ne pouvons donc réduire la vérité à un concept purement logique. Il convient au contraire d’associer la vérité aux autres transcendantaux et favoriser une conception de la vérité comme révélation et manifestation qui est la seule à notre avis à rendre vraiment compte de la conception chrétienne de la vérité114. Une telle approche permet de comprendre comment la vérité est le dévoilement et l’épiphanie d’un fond objectif qui sous-tend toute la réalité humaine et donne un sens ultime. C’est ainsi que nous pouvons donner raison au questionnement prophétique d’un Maurice Zundel et en saisir toute sa portée: “Ne faudrait-il pas toujours associer la Beauté à la présentation de l’Évangile? Estce que ce n’est pas sous cet aspect qu’il doit se propager? N’estce pas la seule manière de l’accréditer auprès de l’âme humaine que de lui donner son vrai visage qui est le visage de l’éternelle Beauté? Il est clair que si le christianisme veut nous conduire au plus haut niveau de l’existence — s’il est vraiment un art divin de vivre — s’il fait jaillir notre vie en beauté... il n’aura pas besoin d’être défendu: il rayonnera comme fait une oeuvre d’art. On l’aimera comme l’espace où la liberté respire. On s’y reconnaîtra parce que toute âme humaine porte en elle la nostalgie de l’éternelle Beauté.”115 c) L’espérance de la gloire devient ainsi le moteur de tout agir chrétien: le chrétien espère la gloire de Dieu dans cette vie et dans l’autre vie. Il espère non pas pour la posséder de manière égoïste pour soi mais son espérance est appelée à se purifier chaque jour davantage pour pouvoir espérer gratuitement la

114 Scheeben a souligné la dimension de mystère qui accompagne la vérité chrétienne. Une conception de la vérité comme voilement et dévoilement est la seule qui sauve cette dimension. Il met également en relation la dimension esthétique avec le mystère. On comprend dès lors qu’une telle conception de la vérité sauve la dimension esthétique et révèle encore une fois l’importance de la beauté pour comprendre la vérité chrétienne. (cf. M. J., SCHEEBEN, Die Mysterien des Christentums, 1, 1-4, Freiburg i. Br., 1941, p. 1-40). 115 M. ZUNDEL, L’hymne à la joie, Québec, 1992, p. 81.

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gloire de Dieu. Son espérance s’étend au dimension de l’univers dans le désir de réconcilier, d’harmoniser toute la création, tout homme avec Dieu. Mais est-il possible d’espérer dans la réconciliation de la nature avec Dieu et avec l’homme si on exclut la dimension esthétique? N’est-ce pas un autre regard qui permet de voir la destruction de la nature et permet d’espérer sans tomber dans le pessimisme? On peut ainsi parler d’une espérance de la gloire dans le contexte de l’écologie. Comment redonner à l’homme l’espérance d’une “demeure” (oikos) harmonieuse si lui manque la capacité et le désir de contempler une unité harmonieuse du réel? Cette espérance de réconciliation porte aussi sur le salut spirituel de tout homme. Car c’est en Jésus-Christ que le chrétien reçoit une beauté qui lui est donnée et qui surpasse toute beauté intramondaine. C’est en lui que le non-sens de la disharmonie intérieure (péché) s’éclaire de manière définitive comme un refus de l’unité harmonieuse de l’amour et qu’il peut retrouver son harmonie à partir du Christ son Rédempteur. C’est en lui que l’absurdité de la souffrance peut être récupérée et transfigurée par une association à la Croix et être lue comme participation à l’offrande du Christ. C’est aussi en lui que le chrétien peut fonder la dignité de tout être humain, celle d’être fils dans le Fils, croire et espérer dans la victoire du bien et du beau dans le coeur de tout homme parce qu’il est créé et recréé en Jésus-Christ. Lorsque l’homme est tenté de chosifier l’être humain, de le réduire dans une approche utilitariste à n’être homme que parce qu’il est utile à la société, à l’état, à l’économie, son avenir est menacé. C’est alors que l’espérance de la gloire chrétienne offre un autre regard sur l’homme qui est salvifique et qui contribue à éclairer la conscience de la culture contemporaine tentée par un nihilisme technologique où prime le faire sur l’agir, l’avoir sur l’être, l’égoïsme sur le don. C’est dans ce sens qu’on peut vraiment affirmer que la beauté de la Gloire sauve le monde. Casa Parrocchiale 6914 Carona Svizzera

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Summary / Resumen The author proposes a reading of the theology of hope in the framework of an aesthetic theology illustrating the Pauline expression: “Christ in you and the hope of glory” (Col. 1,27). Basing himself on the aesthetic dimension of glory, the author show how the splendour of Christ responds to the nostalgia of beauty which characterises the contemporary person tempted by the despair of non-meaning and of the absence of form in life. Christian hope offers a global meaning and an ultimate example. To illustrate this affirmation he bases his argument in a notable way on the theology of hope of St. Alphonsus de Liguori which has an aesthetic dimension usually overlooked by commentators on him. It is an example of the importance which the Saint and Doctor gives to the beauty of Christian hope to convince his readers to follow the way of Christ. El autor propone una lectura de la teología de la esperanza en el marco de una estética teológica que ilustra la expresión paulina: “Cristo entre vosotros, esperanza de la gloria” (Col. 1,27). Apoyándose en la dimensión estética de la gloria, demuestra cómo el esplendor de Cristo responde a la nostalgia de belleza que caracteriza a la persona contemporánea tentada por la desesperación del sin-sentido y por la carencia de forma en la vida. La esperanza cristiana brinda un significado global y un ejemplo concluyente. Para ilustrar esta afirmación, se basa sobre todo en la teología de la esperanza de San Alfonso de Liguori, el cual posee una dimensión estética frecuentemente olvidada por sus comentaristas. Es un ejemplo de la importancia que el Santo y Doctor da a la belleza de la esperanza cristiana, para inducir a sus lectores a seguir el camino de Cristo. ————— The author is Professor of Special Moral Theology at the Theological Faculty of Lugano (Switzerland). El autor es profesor de Teología Moral Especial en la Facultad Teológica de Lugano (Suiza). —————

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StMor 38 (2000) 511-522 MARTIN MCKEEVER C.Ss.R.

TEMPI, TESTI, TRADIZIONI: RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Dopo tanti discorsi scientifici, corposi e profondi, mi sarà consentito iniziare queste riflessioni conclusive con un’illustrazione più leggera. Nel 1965 un giovane studente di medicina arrivò per la prima volta alla famosa scuola di medicina dell’Università di Cambridge. Entrato nel portico, un altro studente, appena laureato, si avvicinò, portando un enorme manuale d’anatomia umana e disse: “Senti, amico, vedo che sei nuovo qua. Quindi, devi per forza studiare l’anatomia. Posso offrirti questo manuale per sole 10 sterline.” Il nuovo studente prese il libro, lo aprì, lo guardò e poi disse con indignazione “ma questo manuale è stato pubblicato nel 1915!!” Sereno, lo studente più grande rispose: “E allora? il corpo umano non è cambiato tanto in questi anni!”. Per quanto sia banale, questa piccola scena porta in sé gli elementi essenziali del nostro convegno: tempi, testi e tradizioni. Abbiamo sentito parlare del tempo di Sant’ Alfonso, del tempo della sua Proclamazione a Patrono dei moralisti e dei confessori, dei nostri tempi moderni e postmoderni; abbiamo sentito parlare dei testi della Sacra Scrittura, dei testi di S. Alfonso e del testo del Breve Apostolico; e abbiamo sentito parlare della grande Tradizione della Chiesa e di quella tradizione teologica più particolare della morale alfonsiana. Non è il caso in questa riflessione né di ripetere né di sintetizzare quello che è stato detto su questi temi durante il convegno. Si tratta piuttosto di offrire una lettura degli interventi alla luce del titolo del convegno, vale a dire chiederci come la morale alfonsiana possa essere una risposta alle sfide di ieri e d’oggi. Per dare una struttura a queste riflessioni, vorrei prendere in prestito alcuni elementi del modello di una tradizione scientifica che ci fornisce Alasdair MacIntrye nel suo celebre Whose Justice?

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Which Rationality? (London: Duckworth,1988). Tra tante altre riflessioni stimolanti, questo studio ci suggerisce le seguenti come esigenze imprescindibili d’ogni tradizione scientifica: 1. Il rapporto diretto tra pratica e teoria nello sviluppo di una scienza 2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica 3. La produzione e il riconoscimento di testi scientifici “canonici” 4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una “crisi epistemologica” 5. L’educazione come processo di inserzione nella tradizione rinnovata Si nota subito come queste esigenze risuonano degli elementi del convegno, anche qui abbiamo da fare con tempi, testi e tradizioni. Per questo motivo, le cinque esigenze possono servirci come cornice in cui collocare la portata delle conferenze per il nostro tema. In altre parole, applicando questo modello di tradizione scientifica al contenuto del convegno sarà possibile vedere meglio il modo in cui la morale alfonsiana è ritenuta una risposta alle sfide di ieri e di oggi. Prima di fare questo, però, vale la pena soffermarci brevemente su queste esigenze, per capire meglio perché sono imprescindibili per una tradizione scientifica. A questo fine, prendiamo l’esempio non della teologia morale ma di un’altra scienza come quella della medicina. Così sarà possibile vedere meglio sia che cosa vuol dire considerare la teologia morale come scienza sia in che cosa consiste la particolarità di questa scienza. Vorrei, quindi, applicare questo modello di tradizione alla medicina, invitando chi ascolta a prestare attenzione all’analogia, cara anche al S. Alfonso, tra medicina e teologia morale come scienza.

1. Il rapporto diretto tra pratica e teoria nello sviluppo di una scienza La prima esigenza si riferisce al legame tra l’atto di studiare la medicina come scienza e la pratica concreta della medicina negli ospedali e negli studi medici di una società. Vale la pena ri-

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cordare il fatto ovvio che la raison d’être di una scuola di medicina è quella di preparare medici per rendere servizio pratico ai malati. 2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica Altro fatto ovvio ma spesso trascurato è che la scienza ha bisogno di istituzioni: come esseri umani, e quindi esseri sociali, tutti i nostri progetti, incluso quello di pensare in modo scientifico, si collocano in spazi costruiti socialmente. 3. La produzione e il riconoscimento di testi scientifici “canonici” Quest’esigenza si rispecchia nei manuali di medicina. Lo studente nuovo ha ragione quando rifiuta di comprare il manuale del 1915. Questo non vuol dire, comunque, che il contenuto di un tale manuale sia inutile. Si suppone, in fatti, che un manuale più recente includerà il meglio di quello che contiene il manuale anteriore, escludendo elementi superati e introducendo le attualizzazioni necessarie. 4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una “crisi epistemologica” Quando un medico o un ricercatore scopre un fatto originale che non si può spiegare con le teorie vigenti, la tradizione scientifica entra in “crisi epistemologica” nel senso che c’è una discrepanza tra quello che si sa e quello che si può spiegare. Si cerca, allora, una spiegazione nuova dentro la quale il fatto recentemente scoperto si lascia capire. La medicina, come scienza, ha bisogno di processi in cui varie teorie e pratiche vengono sottoposte ad una critica continua, capace di valutare la veridicità e l’efficacia di teorie e pratiche contrastanti e rivali. 5. L’educazione come processo di inserzione nella tradizione rinnovata Educarsi nella scienza pratica e teorica della medicina vuol dire inserirsi come apprendista in questa tradizione continuamente rinnovata. Si capisce che all’inizio l’apprendista avrà l’aiuto di professionisti già riconosciuti come esperti in materia, ma lo scopo pedagogico è quello di formare uno scienziato ca-

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pace non solamente di ripetere cose imparate, ma di affrontare situazioni sconosciute in modo prudente e creativo. Ascoltando quest’applicazione del modello di MacIntrye alla medicina, senza dubbio l’analogia tra questa scienza e quella della teologia morale avrà già provocato ricordi, riflessioni e interrogativi emersi negli ultimi giorni. Lo scopo di questa riflessione conclusiva è quello di offrire una lettura puntualizzata del convegno con la quale chi ascolta può paragonare le proprie impressioni e opinioni.

1. Il legame tra teoria e pratica nello sviluppo di una scienza Se ci chiediamo quali riferimenti durante il nostro convengo corrispondono alla parola “pratica” in questa prima esigenza, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio “imbarazzo della scelta”. Già la locandina del convegno esprime graficamente quello che si è stato detto in cento modi diversi: che nella vita di S. Alfonso il servizio pastorale e la riflessione teologica sono intimamente legati. Questo collegamento profondo trova espressione testuale sia nel Breve Apostolico con la descrizione della dottrina alfonsiana come “moralem et pastoralem” sia nella Lettera Apostolica Spiritus Domini con il riferimento al “carattere pastorale inconfondibile” della dottrina di S. Alfonso. Come esempi concreti della pratica pastorale di Alfonso e dei redentoristi del suo tempo ricordiamo specificatamente: le cappelle serotine, le missioni, le prediche, le visite pastorali. Tra tutte le forme di pratica pastorale, comunque, non c’è dubbio che la forma privilegiata di S. Alfonso è la confessione. E’ nel confessionale che S. Alfonso si rende conto dei problemi della teologia morale vigente; è di fronte al peccatore recidivo, ignorante o disperato che sente il bisogno di rinnovare la morale cristiana per meglio servire questa povera gente; è, in fine, di fronte ai giovani confratelli che si preparano per il ministero della riconciliazione che sente il bisogno di offrire un’alternativa ai sistemi morali dell’epoca. Per tutti questi motivi il convegno ha ampiamente illustrato il principio della correlazione tra teoria e pratica nella morale alfonsiana, la quale deriva dalla pratica pastorale ed è destinata alla pratica pastorale.

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Ma proprio quest’intimo legame tra la pratica della confessione e la morale alfonsiana diviene motivo di perplessità quando prendiamo atto del contesto culturale contemporaneo. Abbiamo sentito come questa cultura è spesso caratterizzata dalla mancanza di un senso di peccato personale con le ovvie conseguenze per il sacramento della riconciliazione. Il problema qui non è semplicemente un problema di strategia pastorale (per es. come convincere la gente a riprendere o a migliorare la pratica della riconciliazione) ma anche e soprattutto un problema di autocomprensione del soggetto morale moderno o postmoderno. Prima di offrire la morale alfonsiana come risposta a questo soggetto bisogna ascoltare la sua domanda. Durante il convegno questa domanda è stata articolata in modi diversi, a volte anche inquietanti: Chi mi ha dato questa vita? A chi posso dare la mia vita? Che cosa vuol dire perdonare quelli che mi hanno offeso? Dove posso portare la mia propria colpa? Oppure: Che cosa sono io?: Un organismo biologico? Un corpo animato? Una animale che parla? Un episodio del cosmo? La risposta della persona credente dev’essere una pratica e una teoria della vita cristiana che sia attraente, bella e piena di speranza. La risposta del moralista o del confessore ad un tale soggetto non può essere una ricetta o una panacea, ma deve consistere piuttosto nel prendere atto della tradizione ma rimanere aperto e creativo di fronte ai fattori particolari dei tempi e delle persone. Vedremo vari esempi più specifici di questo metodo nella trattazione delle altre esigenze.

2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica Passiamo alla seconda esigenza di una tradizione scientifica. Quali sono gli spazi sociali dove si colloca l’attività scientifica che è la morale alfonsiana? La forma istituzionale di fondo è naturalmente quella della Chiesa stessa. Come ogni teologia la morale alfonsiana ha la Sacra Scrittura per anima e s’inscrive nelle strutture istituzionali in cui l’interpretazione della medesima è articolata e propagata. Durante il convegno questa dimensione istituzionale della Chiesa è stata l’orizzonte dentro il quale abbiamo riflettuto su due strutture istituzionali subordinate.

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La prima di queste è la Congregazione del Santissimo Redentore. La teologia di Alfonso nasce e cresce nel progetto pastorale della Congregazione da lui fondata. La missione di questa consiste proprio nella proclamazione del Vangelo, soprattutto ai più abbandonati. Nel corso del convegno abbiamo avuto modo di notare le vicissitudini che la Congregazione, come ogni struttura storica, ha dovuto affrontare sia dall’interno sia dall’esterno. In modo particolare è stato mostrato il prezzo che si paga quando la teologia morale si stacca da questo proposito evangelico originale e diventa per esempio una mera tecnica di ragionamento casuistico. E’ stato ribadito con insistenza che la morale alfonsiana si basa sulla verità morale come fatto salvifico, fatto da condividere con benignità e da predicare con convinzione. Ugualmente, il processo che conduce alla proclamazione ricorda il rischio che la missione della Congregazione corre quando si stacca dallo studio continuo e impegnativo della teologia. Essere fedeli alla visione del fondatore vuol dire dedicarsi alla missione evangelizzatrice della Congregazione senza trascurare gli studi. L’idea di curare gli studi ci porta alla seconda struttura istituzionale in questione, cioè la stessa Accademia Alfonsiana. C’è una tendenza a dare per scontato l’esistenza, la gestione e la manutenzione di una tale struttura istituzionale, con tutto l’impegno che comporta. Come ogni forma di pensiero scientifico, la morale alfonsiana ha bisogno di tali strutture in cui svilupparsi. Si può capire la vita di quest’Accademica come una espressione istituzionale dell’impegno della Congregazione negli studi e nella formazione. Vari relatori hanno ricordato il bisogno di approfondire le loro riflessioni sui problemi morali e storici. Ci auguriamo che qualche aspirante dottore abbia sentito la chiamata di affrontare tali sfide nei suoi studi approfonditi. Riconoscere queste due strutture non vuol dire naturalmente chiudersi in un piccolo mondo redentorista o alfonsiano; colgo l’occasione en passant di esprimere la nostra soddisfazione per la presenza e collaborazione di fratelli e sorelle di altre famiglie religiose e diocesane.

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3. La produzione e il riconoscimento di testi “canonici” La proclamazione di S. Alfonso patrono dei moralisti e dei confessori si può capire come un esempio formale e ufficiale del riconoscimento di un testo “canonico”. Prendendo il testo del Breve Apostolico come punto di partenza, abbiamo visitato vari altri testi classici della tradizione alfonsiana: si pensi soprattutto agli scritti più pastorali come la Selva di materie predicabili ed istruttive e la Pratica del confessore, e in primo luogo al grande testo della Theologia Moralis. Il convegno ci ha aiutato a capire perché S. Alfonso produce questi testi e perché vengono riconosciuti come testi autorevoli. La produzione della TM in modo particolare è il frutto di decenni di lavoro pastorale e teologico da parte del Santo. Prima di essere scrittore Alfonso è lettore: della Santa Scrittura, di S. Giovanni Crisostomo, di S. Tommaso e di tanti altri teologi. Insieme a questi studi ardui, S. Alfonso è lettore dei suoi tempi tramite l’impegno pastorale. Il suo manuale è proprio il frutto di questi due fattori, la tradizione teologica che egli ha ereditato e i bisogni pastorali che ha notato nel suo tempo. Tra gli aspetti salienti e innovatori della morale alfonsiana sono da tenere presenti: la benignità pastorale, il ruolo della coscienza, la prudenza. Il testo è stato riconosciuto per motivi ben precisi che risalgano ai dibattiti tra i sistemi di morale nei secoli scorsi. Abbiamo sentito come, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte, la visione morale di Alfonso è stata oggetto di aspre critiche. Il processo di riconoscimento non vuol dire che un autore o un manuale possa risolvere tutti i problemi morali, ma vuol dire che l’esperienza indica che un certo autore e la sua visione morale si sono dimostrati autorevoli. Assistiamo qui ad un processo analogo a quello nelle altre scienze in cui pratiche e teorie vengono selezionate e raffinate. I nostri relatori ci hanno ricordato il valore perenne di vari aspetti della morale alfonsiana, senza negare che in contesti nuovi ci vorrebbero nuove articolazioni, come vedremo in seguito.

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4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una “crisi epistemologica” Questa quarta esigenza ci porta al nocciolo del nostro tema. Dire che la morale alfonsiana sia una risposta alle sfide non solamente di ieri ma anche di oggi vuol dire spiegare il modo in cui testi scritti per il mondo napoletano del Settecento abbiano la loro importanza per Londra, São Paolo o Manila nel terzo millennio. Quali considerazioni sono state proposte per sostenere una rivendicazione così audace? Si può pensare a tre riflessioni salienti: quella che radica la morale alfonsiana nella tradizione anteriore, quella che interpreta Alfonso nel suo contesto storico e quella che si riferisce alla trasmissione della sua morale ad altri contesti storici. La prima considerazione concerne la particolarità della teologia come scienza. La tradizione alfonsiana si inserisce fedelmente ma creativamente nella tradizione della fede cattolica, che è fede in Dio trino, Creatore e Redentore del mondo, sia del mondo di Alfonso, sia del mondo di oggi. Come Alfonso ha guardato il suo mondo con occhi credenti, cercando di capire i segni del suo tempo con l’aiuto del grande esegeta che è lo Spirito Santo, così noi leggiamo i segni del nostro tempo fiduciosi che la vox Dei ci parla e ci chiama. Prima ancora d’essere una chiamata alla redenzione, la voce di Dio ci chiama ad essere figli adottivi. La vita e la morte di Gesù costituiscono il perno imparagonabile e il fondamento insostituibile di ogni riflessione teologico-morale. Ogni sfida della cultura odierna va affrontata in questo orizzonte e con il dovuto radicamento nella grande Tradizione e nei testi canonici originali. La seconda considerazione si riferisce al significato duraturo degli stessi testi di S. Alfonso. Sarebbe chiaramente ingenuo presentare il suo manuale di teologia morale come ricetta per i problemi di oggi. Sarebbe ugualmente ingenuo, comunque, voler affrontare i problemi della gente di oggi senza capire il testo del grande dottore. Quello che perdura dei suoi scritti include senz’altro molti riferimenti specifici accumulati nella esperienza del santo: basta ricordare i consigli preziosi e perennemente validi che offre al confessore. La morale alfonsiana si esprime più che nei precetti specifici, nel metodo e nell’atteggiamento in cui viene elaborata, contrassegnati quest’ultimi dalla prudenza evangelica, dalla benignità e dalla pastoralità.

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Possiamo pensare a S. Alfonso come ad un teologo che si trova di fronte ad una “crisi epistemologica” nel senso di una tensione tra il modo di pensare la vita morale come descritta nella teologia che conosceva dalla tradizione e i problemi emersi nella sua pratica pastorale. I suoi scritti costituiscono un esempio di una nuova articolazione della verità morale alla luce di nuovi problemi. Questa sua versione, come abbiamo sentito da vari relatori, è caratterizzata da alcuni elementi significativi e, a volte, innovatori: la verità morale concepita come verità salvatrice, la coscienza capita come fattore personalizzante della vita morale, le conseguenze pastorali della distinzione tra peccato formale e peccato materiale, l’enfasi sulle possibilità di conversione della persona vivente e così via. Si capisce che queste innovazioni non vogliono dire rigettare in massa l’insegnamento di S. Tommaso, per esempio, ma riconoscere il bisogno di una nuova articolazione su punti specifici alla luce di circostanze diverse e persone diverse. La terza considerazione è la trasmissione della tradizione in nuovi contesti storici. Non si tratta evidentemente di un bagaglio di concetti o di teorie che si possono scrivere sulla carta e trasferire intatte a generazioni successive. Ci vorrebbero certo gli scritti ma ci vorrebbe anche l’arte dell’ermeneutica. Badiamo bene che questo è l’unico modo di rimanere veramente fedeli alla morale di S. Alfonso: ripetere quello che egli dice senza prendere atto del nuovo contesto e delle nuove circostanze dell’agente morale, non vuol dire essere fedeli ma tradire i principi fondamentali del suo metodo. La lettura autorevole dei testi canonici non può essere né arbitraria né fossilizzata. Non arbitraria in quanto deve rimanere coerente con le grandi linee della tradizione, partendo dalla forma originale su punti specifici solo per meglio rendere l’insieme accessibile in un contesto nuovo. Non fossilizzata in quanto non si limita al ripetere un elenco di concetti predeterminati senza prendere in considerazione le condizioni culturali attuali in cui la verità morale viene espressa. In questo senso “tradizione” è un’altra parola per l’ermeneutica comune e autorevole tramite la quale una comunità assimila un modo di pensare e di vivere nelle circostanze nuove di un’altra epoca. Come S. Alfonso, il moralista di oggi (per non parlare del confessore) si trova in piena crisi epistemologica nel senso che

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l’esperienza della gente nella cultura contemporanea spesso non trova facile riscontro nella teoria morale tradizionale. La vera risposta nostra a questo problema non è ripetere le risposte di Sant’ Alfonso alle sfide del suo tempo ma vedere in che modo noi possiamo fare per il nostro tempo quello che egli ha fatto per il suo. Un tale progetto deve anzitutto individuare con saggezza e prudenza le caratteristiche del nostro tempo che rendono difficile l’assimilazione della morale cristiana. In questi giorni abbiamo focalizzato, tra altri fattori, gli aspetti seguenti: il modo di ragionare che tende a vari riduzionismi nei confronti della persona umana; la delusione, a volte espressa in toni disperati e nihilistici della cultura postmoderna; le nuove scienze, empiriche e sociali, che mettono in dubbio le spiegazioni tradizionali della persona umana e la sua vita morale. Alla luce di questi aspetti non mi pare esagerato affermare che tra la Napoli del Settecento e la Parigi del 2000 c’è un abisso particolarmente tremendo. Come Fides et Ratio ci ricorda, la nostra cultura si trova spesso in dissonanza fondamentale con la visione evangelica della vita umana. Per quanto siano stati generosi nell’individuare le sfide, i nostri relatori sono stati un poco più economici nel tentare risposte specifiche. Ci hanno offerto, invece, qualcosa di più utile: uno spirito di speranza e un metodo con cui far fronte alle nuove sfide del nostro tempo.

5. Educazione come processo educativo Arriviamo così alla sesta e ultima esigenza di una tradizione, cioè la propria propagazione tramite l’educazione. Essere una persona preparata nella teologia morale alfonsiana vuol dire inserirsi tramite lettura, studio, dibattito e pratica pastorale in questa tradizione che si è mostrata efficace e che invita ad essere emulata. Nelle citazioni delle lettere e degli scritti di S. Alfonso sentiamo la sua passione per l’educazione sia della gente sia dei confratelli. Nessuno come lui era sensibile alla delicatezza necessaria nell’esercitare il ministero del confessore o del moralista e quindi consapevole del bisogno di una formazione adeguata ad affrontare questa sfida. A parte la complessità inerente alla materia, bisogna imparare a far fronte alle molteplici varia-

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zioni e particolarità delle persone e delle circostanze. Come altri moralisti prima di lui, Alfonso riconosce che più si scende nei dettagli, più difficile è sapere con certezza la cosa giusta da fare. Nessun sistema di regole può prevedere tutte le circostanze possibili, quindi il processo educativo deve condurre lo studente ad una certa capacità originale e creativa. In questo convegno non abbiamo parlato tanto dell’educazione, abbiamo fatto qual cosa di più importante cioè l’abbiamo messo in pratica. In una parola, questo convegno si può capire come un momento particolare nel progetto continuo della nostra educazione nella morale alfonsiana. Conclusione Alla luce di quest’applicazione del modello della tradizione scientifica al nostro convegno possiamo affermare che la morale alfonsiana soddisfa pienamente le esigenze di questo modello. Per quanto riguarda le sfide di ieri, la morale alfonsiana è stata una risposta creativa, prudente e coraggiosa. L’origine di questa risposta, la ripetiamo un ultima volta, è stata la fede incrollabile di S. Alfonso nella bontà di Dio, una bontà salvatrice che vuole abbracciare anche le anime più miserabili e disperate. La risposta ha coinvolto un processo di riflessione e di studio per trovare la via media tra gli eccessi di un lassismo decadente e una rigidezza paralizzante. La morale alfonsiana costituisce una risposta alle sfide di oggi proprio in quanto è una tradizione scientifica di teologia, con tutte le esigenze che questa descrizione coinvolge. Modellandosi sul modo di agire e di ragionare del Santo, il teologo contemporaneo, come raccomanda Giovanni Paolo II nella Spiritus Domini, saprà inserirsi fedelmente nella tradizione e aprirsi alle domande dei nostri tempi. Questi interrogativi sono di una gravità tutta particolare, come sono anche le sofferenze delle persone che si trovano senza speranza. Oggi più che mai abbiamo bisogno dunque dell’aiuto della mano forte, esperta e benigna di S. Alfonso, patrono dei moralisti e dei confessori. Via Merulana 31 C.P. 2458 Roma - Italy.

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————— Summary / Resumen The author takes up the problem posed by the articles of Professor Hidber and Gallagher, namely, the relationship between the Proclamation itself and the theological tradition to which it belongs. In this contribution, the author applies the general concept of tradition articulated by Alasdair MacIntyre to the specific case of the alphonsian moral tradition, demonstrating in which sense this tradition can be considered ‘scientific’ in the light of the other contributions to the Congress printed in this volume. El autor aborda el problema planteado en la apertura del Congreso por los Profesores Hidber y Gallagher, en cuanto a la relación entre la misma proclamación y la tradición teológica a la que pertenece. En esta aportación, el autor aplica el concepto general de tradición formulado por Alasdair MacIntyre, al caso específico de la tradición moral alfonsiana, demostrando cómo esta tradición puede considerarse ‘científica’ a la luz de otras aportaciones al Congreso, publicadas en este volumen. ————— The author is an Invited Professor at the Alphonsian Academy. El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana. —————

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L’AGIR RATIONNEL DU CROYANT L’APPORT DE L’ENCYCLIQUE FIDES ET RATIO À LA THÉOLOGIE MORALE*

Il est urgent que les chrétiens redécouvrent la nouveauté de leur foi et la force qu’elle donne au jugement par rapport à la culture dominante et envahissante…Il faut retrouver et présenter à nouveau le vrai visage de la foi chrétienne qui n’est pas seulement un ensemble de propositions à accueillir et à ratifier par l’intelligence. Au contraire, c’est une connaissance et une expérience du Christ, une mémoire vivante de ses commandements, une vérité à vivre. Ces lignes ne sont pas citées de l’Encyclique Fides et Ratio, mais de l’Encyclique Veritatis splendor1. L’Evangile et les écrits apostoliques proposent (…) soit des principes généraux de conduite chrétienne, soit des enseignements et des préceptes ponctuels. Pour les appliquer aux circonstances particulières de la vie individuelle et sociale, le chrétien doit être en mesure d’engager à fond sa conscience et la puissance de son raisonnement. En d’autres termes, cela signifie que la théologie morale doit recourrir à une conception philosophique correcte tant de la nature humaine et de la société que des principes généraux d’une décision éthique. Ces lignes ne sont pas citées de l’Encyclique Veritatis splendor, mais de l’Encyclique Fides et Ratio2. On pourrait sans difficulté multiplier les lieux de convergence entre ces deux textes majeurs, et montrer ainsi comment la manière dont la foi et la raison sont articulées dans Fides et

* Este artículo se basa en una conferencia pronunciada por el autor el 9 de Noviembre de 1999 en la Academia Alfonsiana. This article is based on a conference delivered in the Alphonsian Academy on November 9th 1999. 1 JEAN PAUL II, Lettre encycl.Veritatis splendor, (AAS 85) 1993, 88. 2 JEAN PAUL II, Lettre encycl. Fides et Ratio (AAS 90) 1998, 68.

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Ratio a déjà été utilisée et appliquée au rapport entre la foi et la morale dans Veritatis splendor. Parmi les grandes lignes convergentes, on doit souligner: une dynamique essentiellement théologique; une centralité analogue de la personne du Christ; la même articulation raison-foi évitant tout extrinsécisme; la mise en évidence des dangers liés à la prétention de séparer toute rationalité de la lumière de la révélation; une reprise dans Fides et Ratio du concept de vérité appliqué au bien moral longuement développé dans Veritatis splendor; enfin, l’insistance sur la possibilité d’une transfiguration de la raison. Le but de cette réflexion n’est pas d’établir une comparaison systématique entre les deux textes, mais de montrer que l’enseignement de Fides et Ratio a une pertinence pour l’agir humain. En d’autres termes: tenter de répondre à la question fondamentale de savoir s’il existe une dimension morale dans l’usage de l’intelligence. Comme cet usage de la raison est déterminant pour la relation au Christ, il convient d’abord de montrer comment la perspective de l’encyclique est surtout de nature théologique et d’illustrer dans le texte la place centrale de la figure de Jésus Christ.

La perspective théologique et la centralité du Christ dans Fides et Ratio La première phrase d’introduction à l’encyclique pourrait laisser supposer qu’il y a deux voies de connaissance de la vérité, la foi et la raison, et que ces deux voies seraient d’égale portée: La foi et la raison sont comme les deux ailes qui permettent à l’esprit humain de s’élever vers la contemplation de la vérité. Il ne s’agit cependant pas d’un double mouvement symétrique (de la foi-vers la raison et de la raison vers la foi), mouvement dans lequel les deux pôles seraient interchangeables. L’intention du texte est théologiquement orientée (Foi et Raison et non Raison et Foi), comme on peut le constater à partir de l’ordre des chapitres: credo ut intellegam précède intellego ut credam. Tout le rapport de l’homme à la vérité est vu à la lumière de Dieu qui désire se communiquer en Jésus-Christ. C’est cette lumière divine qui illumine aussi le mystère de la raison qui cherche Dieu sans l’avoir trouvé; et le projet de Dieu lui-même inclut une dimension naturelle. Dieu se trouve à l’origine de la recherche de

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la vérité, et cela est une donnée théologique. Nous retrouvons la même démarche dans les deux textes: dans Veritatis splendor est fait référence à une nostalgie de la vérité absolue3, alors que dans Fides et Ratio est explicitée avec plus de force l’origine divine d’une telle recherche4. La nostalgie est certainement un désir, mais en référence à un bien perdu. S’il est formulé de façon abstraite dans la première encyclique (l’expression vérité absolue est un concept), dans la seconde le bien est ainsi identifié: le bien suprême, Dieu lui-même. Il semble qu’une telle nostalgie possède déjà une consistance morale si elle n’est pas confondue avec n’importe quel élan sentimental. Il s’agit d’une nostalgie active, une recherche nostalgique si l’on veut, un peu comme l’exprimait la philosophe Simone Weil quand elle disait que seule la partie la plus haute de l’attention entre en contact avec Dieu, quand la prière est assez intense et pure pour qu’un tel contact s’établisse; mais toute l’attention est tournée vers Dieu5. L’ensemble de la Tradition chrétienne a examiné cette attente, du cor inquietum de saint Augustin aux récentes explorations personnalistes6, en pasant par le thème de la recherche de Dieu présent dans le courant médiéval de la spiritualité cistercienne7.

3 “Les ténèbres de l’erreur et du péché ne peuvent supprimer totalement en l’homme la lumière du Dieu Créateur. De ce fait, la nostalgie de la vérité absolue et la soif de parvenir à la plénitude de sa connaissance demeurent toujours au fond de son cœur” (VS 1). 4 “L’Apôtre met en lumière une vérité dont l’Eglise a toujours fait son profit: au plus profond du cœur de l’homme sont semés le désir et la nostalgie de Dieu” (FR 24). 5 WEIL S., in Attente de Dieu, La Colombe, Paris 1950, 114; cf. sur ce point: J.-F. THOMAS, Simone Weil et Edith Stein. Malheur et souffrance (Préf. G. Thibon), in IIIème Partie, Chap. I: La mystique de l’attention, Culture et vérité, Namur 1992, 89-100. 6 BUBER M., in Gottesfinsternis, Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie, Manesse, Zürich 1953; NEDONCELLE M., Les leçons spirituelles du XIX ème siècle, Paris 1936; SCHELER M., Nature et formes de la sympathie. Contribution à l’étude des lois de la vie émotionnelle (all: Natur und Wesen der Sympathie); STEIN E., Zum Problem der Einfühlung, Halle 1917… 7 Pensons au thème particulier de l’amitié spirituelle conçue comme le moyen de désirer l’Ami parfait: Guillaume de Saint-Thierry, Baudouin de Ford, Aelred de Rievaulx.

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Pourquoi l’attente de Dieu cause-t-elle une inquiétude dans le cœur de l’homme? Le passage de l’innocence originelle au péché et à ses conséquences qui marque le début de la storia salutis a pour implication majeure, du moins en ce qui concerne l’intériorité, la naissance de la culpabilité. La culpabilité peut être vue comme une sanction morale agissant dans le cœur de l’homme. Le cadre grandiose de l’œuvre de Ricoeur, Finitude et culpabilité, le manifeste bien. La nostalgie est le désir d’un retour à la plénitude, ou à l’intégrité de l’amour. C’est surtout ce dernier aspect qui caractérise sa dimension morale: l’amour de l’amour est un acte moral qui implique la recherche de l’aimé. Dieu est eprouvé comme absence, parfois comme motif de crainte ou de peur. Nédoncelle a cherché à exprimer ainsi la réalité de l’attente: Cette inquiétude-là, c’est le pressentiment de l’ordre divin en nous et autour de nous; elle repose sur l’humilité et l’amour…Avec elle nous sommes…tout près de reconnaître le don de Dieu; car c’est Dieu qui a mis en l’homme cette aspiration infinie et cette frayeur soudaine qui bouleverse les âmes quand elles découvrent leur fragilité ou leur malice8. Fides et Ratio s’inscrit dans cette longue tradition que nous avons évoquée lorsqu’elle affirme en liminaire que c’est Dieu qui a mis au cœur de l’homme le désir de connaître la vérité et, au terme, de Le connaître lui-même afin que, Le connaissant et L’aimant, il puisse atteindre la pleine vérité sur lui-même. Effectuons maintenant le passage de la dimension personnelle de la recherche de Dieu à la figure du Christ: dans la très belle expression de Nédoncelle déjà citée, il est important de souligner le caractère personnel de l’attente. L’Auteur parle d’une pressentiment de l’ordre divin en nous et autour de nous. Celui qui recherche la vérité des choses s’engage ultimement dans sa propre demande. Il sait d’une certaine manière que, si elle lui est donnée, la réponse aux questions qu’il se pose ne le laissera pas intact: il devra prendre position, au sens littéral, en ce sens qu’il devra ajuster sa propre position au regard de la vérité découverte. Cette dernière le touchera, le changera et transformera le monde autour de lui. Le fait que si peu de personnes

8 NEDONCELLE M., La découverte de notre misère, in Les leçons spirituelles du XIXème siècle, p. 17.

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réussissent à aller au fond des questions relatives à la vérité des choses est un paradoxe pour l’intelligence chrétienne et la sensibilité des baptisés. Peut-être la réponse n’est-elle pas réellement désirée, et les questions qui touchent l’existence propre (ces questions fondamentales rappelées par l’encyclique: qui suis-je? où vais-je? Pourquoi le mal?) ne sont pas considérées comme le véritable enjeu de la vie. On est en droit de se demander si ne se trouve pas là précisément la nature authentiquement morale de la question philosophique de la vérité: l’abandon des questions sérieuses par crainte des conséquences possibles. Avant de connaître la vérité elle-même, l’homme en connaît un caractère fondamental: son exigence. Le choix moral se trouve comme enfoui au cœur de la question sur le vrai, parce que l’alternative morale sera d’accepter ou de refuser les exigences du vrai. Or, s’il est exact que cette aspiration infinie au vrai, avec la présence spécifique de la nostalgie, est le désir du retour à un amour menacé ou perdu, comme nous l’avons déjà désigné, il s’ensuit que la découverte de la vérité, si elle advient, prendra nécessairement les traits d’une expérience amoureuse; et une telle expérience ne pourra exister sans une causalité personnelle et bienveillante. La vérité doit être forcément révélée, parce que c’est une exigence de l’amour de se révéler pour se diffuser. Une telle révélation peut-être exprimée de façon adéquate par la catégorie de rencontre. Nous arrivons ainsi à la nature christocentrique du texte. La Vérité qui est Amour se manifeste et se révèle dans la personne de Jésus Christ selon le dessein éternel du Père. Fides et Ratio 7 utilise le terme rencontre pour désigner la découverte de cette vérité qui est le Christ: A l’origine de notre être de croyants se trouve une rencontre, unique en son genre, qui a fait s’entrouvrir un mystère caché depuis les siècles (cf. 1 Co 2, 7; Rm 16 16, 25-26), mais maintenant révélé… Plus loin, l’identité personnelle de cette révélation s’exprime ainsi: la vérité que Dieu a confiée à l’homme sur lui-même et sur sa vie s’inscrit donc dans le temps et l’histoire…elle a été prononcée une fois pour toutes dans le mystère de Jésus de Nazareth. La rencontre avec Jésus est le cœur de la réponse non seulement à la question que l’homme se pose sur Dieu, mais aussi à toute question sur la vérité des choses qui marquent fortement son existence. La phrase suivante à cet égard est caractéristique: en tant que source d’amour, Dieu dési-

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re se faire connaître, et la connaissance que l’homme a de Lui porte à son accomplissement toute autre vraie connaissance que son esprit est en mesure d’atteindre sur le sens de son existence9. Notons que Dieu ne donne pas de réponse métaphysique sur sa propre existence: Il désire se faire connaître à travers la personne du Verbe Incarné. Il s’agit d’une révélation de l’amour personnel de Dieu; et cet amour est apte à combler toutes les attentes de l’homme et à répondre à toutes ses interrogations, métaphysiques ou non. Dans le même temps, cependant, il convient d’affirmer l’ordre providentiel de Dieu dans toute sa cohérence. L’esprit humain contemple dans la figure de Jésus Christ tant la plénitude de la création (par Lui tout a été fait) que l’accomplissement de l’œuvre divine de salut. Cette unité de la vérité, naturelle et révélée, trouve son identification vivante et personnelle dans le Christ10. C’est à la christologie qu’il revient de fonder en théorie les exigences d’une telle unité de la vérité dans le Christ. La centralité de la figure du Christ est une donnée commune aux deux encycliques. Dans Veritatis splendor, le Christ est pour le jeune homme riche la rencontre fondamentale, l’occasion unique d’obtenir une réponse sur la vérité morale. Le texte reconnaît dans cet anonyme jeune homme riche la figure de tout homme qui, consciemment ou pas, s’approche du Christ, rédempteur de l’homme, et lui exprime ses interrogations morales. Le Christ est la réponse à la question morale, il révèle où se situe la vraie bonté morale (Unus est bonus, Mt 19, 17)11, et sa réponse a une valeur universelle: le dialogue entre Jésus et le jeune homme riche se poursuit, d’une certaine manière, dans toutes les périodes de l’histoire, et encore aujourd’hui…et c’est toujours le Christ, et lui seul, qui donne la réponse intégrale et finale12. Nous avons là une personnalisation de l’agir, figurée par l’histoire d’une rencontre avec Dieu dans son humanité et dans sa divinité, avec la norme de l’agir humain et avec la réalisation idéale de la dignité de la personne humaine13; cette rencontre hisFides et Ratio, 7. Ibid., 34. 11 Veritatis splendor, 9. 12 Ibid., 25. 13 CASTELLANO CERVERA J., Morale, Spiritualità e Nuova Evangelizzazione, 9

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torique transcende les limites du temps et de l’espace. Dans Fides et Ratio, la révélation de Dieu dans l’événement de l’Incarnation de Jésus Christ exprime une vérité qui n’est plus enfermée dans un cadre territorial et culturel restreint, mais elle s’ouvre à quiconque, homme ou femme, veut bien l’accueillir comme parole de valeur définitive pour donner un sens à l’existence14.

II- Existe-t-il un usage moral de la raison? La question qui introduit la deuxième étape de notre réflexion sur quelques aspects de la relation foi-raison: Existe-til un usage moral de la raison? n’est pas, si l’on ose s’exprimer ainsi, politiquement correcte. Une séparation théorique et pratique entre ces deux modes de connaissance est tellement entrée dans les habitudes, que parfois exercer sa raison semble un exercice superflu, un ajout à la foi, un luxe non nécessaire à celui qui de toutes façons croit, tandis que, dans une démarche inverse, il arrive que l’adhésion de la raison à la foi révélée est jugée comme l’ abandon, de sa part, de ses propres critères méthodologiques et épistémologiques. Il est certain que nous avons dans ces deux tendances extrêmes, une authentique trahison de la foi dans la première tendance (car une telle attitude revient à dire qu’il n’existe pas une intelligibilité de la foi) et une trahison de la raison dans la seconde tendance (attitude déraisonnable d’une fonction qui refuse la possibilité offerte de dépasser ses propres limites). Il serait impossible de parcourir ici l’histoire philosophique d’une telle séparation entre raison et foi. On peut étudier la conception de la raison qu’exprime Fides et Ratio. Sans prétendre à l’exhaustivité, on relève dans le texte les observations suivantes: la raison dont les indices dans l’homme sont les questions profondes, la demande de sens, et le désir du vrai, appartient à la nature même de l’homme. Parmi les diverses applications de la raison, figure la capacité spéculative qui permet de bâtir un savoir systématique; sont ensuite men-

in Veritatis Splendor, Testo integrale e commento filosofico-teologico, a cura de R. Lucas Lucas, San Paolo, Torino 1994, 385. 14 Fides et Ratio, 12.

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tionnées quelques attitudes appropriées de la raison quand elle se propose d’accéder aux connaissances fondamentales, per exemple l’émerveillement suscité en l’homme par la contemplation de la création: l’être humain est frappé d’admiration en découvrant qu’il est inséré dans le monde, en relation avec d’autres êtres semblables à lui dont il partage la destinée15. Nous verrons plus loin qu’il existe d’autres attitudes qui font obstacle à la recherche personnelle de la vérité. La raison a été capable de mettre en évidence un certain nombre de connaissances philosophiques dont la présence est constante dans l’histoire de la pensée16. Les exemples cités sont intéressants: outre les classiques principes de non-contradiction, de finalité, de causalité; l’encyclique mentionne la conception de la personne comme sujet libre et intelligent, et sa capacité de connaître Dieu, la vérité et le bien, en somme ce qui est décrit plus loin17 comme une capacité métaphysique, et explicité ainsi dans le chapitre III, cœur de l’encyclique: capacité de s’élever au dessus de ce qui est contingent pour s’élancer vers l’infini18. Laissons de côté les remarques faites sur la potentialisation de la raison opérée par la connaissance de foi, pour souligner cette observation très fine et d’une grande force: dans la vie d’un homme, les vérités simplement crues demeurent beaucoup plus nombreuses que celles qu’il acquiert par sa vérification personnelle19.L’acte de croire (qui est toute autre chose que de se rendre à une évidence) n’est pas étranger à la raison, il n’offense pas cette dernière, s’il est vrai que la raison elle-même utilise précisément beaucoup de ces connaissances reçues et non vérifiées personnellement. Nous nous trouvons dans une perspective analogue à celle du philosophe Gadamer20 qui a parfaitement illustré l’échec de l’illuminisme dans sa prétention à ne considérer valides que les connaissances scientifiquement vérifiables. Si la raison exigeait la vérification de toutes les données qu’elle utilise, en les supposant vraies, dans les propositions

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Fides et Ratio, 4. Ibid. Ibid., 22. Ibid., 24. Ibid., 31. Cf. GADAMER H. G., in Wahrheit und Method.

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qu’elle unit de façon cohérente, elle perdrait pratiquement toute certitude en dehors des vérités arithmétiques et de quelques applications pratiques. En récupérant la phronesis aristotélicienne, Gadamer a montré la nécessité de sauver les fins spirituelles avec l’aide des traditions et des cultures. La vérité est aussi pour le penseur allemand l’occasion pour l’homme d’une authentique expérience concrète. Comment rendre compte théoriquement de la validité d’une expérience humaine? Comment tenir pour universellement valide l’enseignement issu d’une expérience humaine? Nous sommes au cœur d’un problème avant tout de nature méthodologique. Deux types d’expérience pourraient illustrer une telle problématique: l’expérience du beau, et l’expérience spirituelle. La première est marquée par une forte émotion éprouvée devant l’œuvre d’art, une émotion d’ailleurs parfois traduite en termes de rencontre, de rapport interpersonnel –qu’on pense à la description par le poète Rilke d’une statue de Rodin: chaque point de la statue te regarde, observait-il; toutefois, ce qui semble un événement unique et personnel vécu par celui qui admire l’œuvre n’empêche ni que l’expérience soit partagée avec d’autres, ni que soient recherchés les motifs de l’admiration éprouvée (critères esthétiques). La seconde est l’expérience spirituelle qui ne doit naturellement pas être confondue avec l’expérience mystique. L’une et l’autre ont été étudiées par la théologie spirituelle et de nombreux auteurs philosophiques21. L’expérience spirituelle d’une personne est sa façon singulière de vivre quelques vérités sur Dieu. L’expérience manifeste une infinité de degrés dans l’engagement spirituel, comme l’a observé Ch. Bernard22. Au sens strict, l’expérience spirituelle authentique

KIERKEGAARD, R. OTTO, M. SCHELER, N. HARTMANN… BERNARD Ch. S.J., in Vie morale et croissance dans le Christ: “Par rapport à la vie éthique, la question précise que pose la vie spirituelle est donc celle-ci: dans quelle mesure l’homme assume-t-il sa condition chrétienne pour la vivre en plénitude?…On ne peut séparer la considération de l’itinéraire spirituel de la qualité de la décision qui permet et soutient la marche. Nécessaire à tout moment, la rectitude morale doit composer avec cet aspect qualitatif si difficilement discernable, qu’on nommera générosité, magnanimité, don de soi mais aussi désir de Dieu et élan spirituel” (p. 49). 21 22

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conduit le sujet à la recherche de relations toujours plus profondes avec les Trois Personnes divines. L’entrée dans une vie théologale plus développée opère comme une vérification interne de l’authenticité d’une expérience amoureuse dont le dynamisme porte à accomplissement cette relation avec Dieu. Vues de l’extérieur, il existe des expériences spirituelles objectivement fondatrices non seulement pour la personne concernée mais pour toute la communauté des croyants. Citons parmi d’autres l’expérience transcendante que Saul fait de Jésus ressuscité sur le chemin de Damas, ou encore la conversion intellectuelle et morale du futur saint Augustin23. Ces expériences, suivies d’un changement radical de la vie personnelle ont offert à l’Eglise la contribution fondamentale de leur richesse spécifique. Tout l’enseignement de saint Paul sera marqué par cet événement primordial; quant à l’heure ineffable vécue par Augustin en compagnie d’Alypius, elle structurera toute son anthropologie métaphysique (la conversio augustinienne). Tant l’expérience esthétique que l’expérience spirituelle peuvent faire accéder à des vérités valides pour tous24. Si nous avons dit que le problème est d’abord méthodologique, c’est parce que l’examen citique de ces deux types d’expérience se fait au moyen d’instruments et de critères propres à chacune. Seule l’unité de la foi, en effet, permet de vérifier la pertinence et la cohérence chrétiennes de l’enseignement issu d’une expérience spirituelle; de la même manière, toute œuvre d’art s’inscrit dans une tradition, un savoir, ou une science du beau, si l’on peut dire, ce qui permet d’en vérifier la contribution

23 Dans l’un et l’autre cas, ces deux expériences singulières n’ont pas eu seulement des implications sur la vie d’un grand nombre de croyants, par exemple par l’agir apostolique de chacun d’eux, mais elles ont permis d’approfondir le sens profond d’une conversion véritable au Christ, qui est une richesse objective pour l’ensemble des croyants et un patrimoine universel pour l’Eglise. La même observation vaut de façon plus large pour les expériences spirituelles qui ont précédé des œuvres de fondation que l’Eglise a reconnues siennes. 24 On ne prétend pas nier ici la nécessité que soient parfois remplies des conditions minimales de réception de ces vérités transmises: culture, éducation et formation pour les valeurs esthétiques, disposition intérieure et exigence morale pour les vérités spirituelles.

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spécifique, à un moment donné, ou bien absolument. Même dans le cas d’une œuvre révolutionnaire, c’est relativement à un certain savoir, à un patrimoine artistique qu’on mesurera en quoi l’œuvre s’inscrit en rupture de ce qui a précédé, tout en imposant sa manière nouvelle. Remarquons en tous cas que l’existence dans l’histoire de la pensée d’une métaphysique du beau, prétendant voir dans cette catégorie l’un des caractères constitutifs de l’être, illustre à quel point les deux approches sont analogues. Nous retrouvons en somme ce que l’encyclique exprime sur la capacité de la raison d’éprouver admiration et émerveillement. Il reste maintenant à examiner comment la raison peut être utilisée de façon inappropriée, selon Fides et Ratio. Dans une perspective théologique, le texte montre la capacité originelle de la raison humaine de s’élever naturellement des êtres observables à l’origine de tout être: le Créateur. La désobéissance des origines en tant que choix d’une autonomie pleine et absolue à l’égard du Créateur a entraîné l’obscurcissement de cette capacité. Fides et Ratio parle ainsi de blessures de la raison. Il existe une première blessure de la raison, l’indifférence à la vérité. Il s’agit sans doute de la plus grave: être indifférent ne signifie-t-il pas pour l’intelligence renier sa propre raison d’être? Personne ne peut être sincèrement indifférent à la vérité de son savoir. La parole sincèrement nous replace dans le champ moral. Le mensonge comme choix délibéré de non-vérité est une offense infligée à celui auquel on ment, en ce sens qu’est violé son droit à la vérité. Dans une catéchèse du mercredi, le pape désignait l’indifférence à la vérité comme une maladie mortelle de l’intelligence25. La recherche de la vérité ne s’exprime pas seulement dans le domaine théorique, mais aussi dans le champ pratique. Fides et Ratio 24 renvoie sur ce point à Veritatis splendor 34. Il existe un droit à être respecté dans sa propre recherche de la vérité (et celle-ci exige donc, notons-le, d’être d’être accueillie par un choix libre). En corollaire, il existe encore antérieurement l’obligation morale grave pour tous de chercher la vérité et, une fois qu’elle est connue, d’y adhérer26.

25 26

JEAN PAUL II, Catéchèses d’Août 1981. Veritatis splendor, 34. L’encyclique renvoie en note à la Déclaration

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L’un des aspects les plus importants du Chapitre III de Fides et Ratio est le juste équilibre entre les deux versants de la vérité pratique, le versant objectif et le versant subjectif. Versant objectif: la question est formulée clairement, est-il possible ou non d’accéder à une vérité universelle et absolue?27. Dans des secteurs régionaux du savoir, certaines vérités sont acceptées par tous. Une telle certitude n’apaise en rien la soif de vérité qui pousse l’homme à rechercher une vérité absolue. Ici, le texte relie le caractère d’absoluité avec la dimension ultime. Ce qui est propre à la vérité absolue-ultime, c’est qu’elle donne le fondement de toutes les autres vérités désirées et connues. Il s’agit d’une vérité existentielle parce qu’elle regarde la totalité de l’existence humaine; elle inclut ainsi les questions qui touchent l’origine propre de la personne et de sa mort inéluctable. Très significative est la référence faite ici à la mort de Socrate28. La réponse à cette interrogation globale est donnée par la foi: elle est la vérité que Dieu révèle en Jésus Christ29. Versant subjectif: Fides et Ratio montre comment toute la problématique de la vérité absolue se déploie à l’intérieur du sujet. L’originalité de cette perspective réside en ceci: nous avons une question objective, mais une question que le sujet s’approprie au travers de la recherche honnête qu’il conduit sur le sens ultime de sa propre vie. Le sujet ne peut rester en dehors, dans une attitude de neutralité. L’accès à la vérité sur la fin ultime est

Dignitatis humanae du Concile Vatican II: “En vertu de leur dignité, tous les hommes, parce qu’ils sont des personnes, c’est-à-dire doués de raison et de volonté libre, et, par suite, pourvus d’une responsabilité personnelle, sont pressés, par leur nature même, et tenus, par obligation morale, à chercher la vérité, celle tout d’abord qui concerne la religion. Ils sont tenus aussi à adhérer à la vérité dès qu’ils la connaissent et à régler toute leur vie selon les exigences de cette vérité” (N. 2). 27 Fides et Ratio, 27. 28 “Chacun veut – et doit - connaître la vérité sur sa fin. Il veut savoir si la mort sera le terme définitif de son existence ou s’il y a quelque chose qui dépasse la mort; s’il lui est permis d’espérer une vie ultérieure ou non. Il n’est pas sans signification que la pensée philosophique ait reçu de la mort de Socrate une orientation décisive et qu’elle en soit demeurée marquée depuis plus de deux millénaires” (FR 26). 29 Fides et Ratio, 34.

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rendu possible par un engagement personnel du sujet. Parmi les obstacles que l’encyclique reconnaît dans cette recherche du vrai, se trouve l’inconstance du cœur. Le cœur est vu comme le lieu intime des décisions les plus fondamentales de l’homme. Il convient de prêter attention à un autre usage inapproprié de la raison: le doute, et éclairer sur ce thème un véritable paradoxe. Fides et Ratio 28 affirme que jamais un homme ne pourrait fonder sa propre vie sur le doute, sur l’incertitude ou sur le mensonge, alors que le doute est vu plus loin30 comme l’occasion d’une maturation et d’une croissance personnelle. Le doute est ainsi en lui-même ambivalent: il existe un doute utile et bon, et un doute peccamineux, dont les conséquences sont la peur et l’angoisse. Comment distinguer entre ces deux attitudes et les évaluer moralement? Le doute est légitime quand il décrit l’attitude critique de la raison dans sa recherche des conditions de validité d’une assertion fondée sur une croyance; ou encore quand il désigne le moment initial d’un processus de vérification d’une affirmation non démontrée. L’examen critique de la raison est alors une exigence naturelle de l’esprit humain en même temps qu’un service rendu à la vérité. Le doute cesse d’être une attitude saine lorsqu’il devient fin à lui-même et qu’il s’organise en un système global de pensée. On parle alors de scepticisme, forme de pensée qui met en question le rapport personnel du sujet au réel; et élaboré comme doctrine, le scepticisme rend impossible la découverte de la vérité absolue et de toute vérité universelle. Il laisse alors grand ouvert l’espace dans lequel se développeront des faux absolus, montrant ainsi sa propre incohérence.. Analysant la naissance de semblables systèmes philosophiques qu’il appelait des métaphysiques pécheresses (erbsündige Metaphysike), Erich Przywara disait qu’Adam et Eve, en s’appropriant le fruit défendu afin de devenir comme des dieux, en réalité n’ont pas laissé l’Absolu être vraiment l’Absolu pour eux; pour ce motif, ils n’ont pu que le manquer31. Parmi les diverses raisons de ces métaphysiques, le penseur allemand mentionne la divinisation de l’intériorité. On comprend que l’entreprise de ren-

Fides et Ratio, 31. CF BIJU-DUVAL D., La pensée d’Erich PRZYWARA, in NRT (Avril-Juin 1999) 249. 30 31

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verser la tendance et de substituer à ces systèmes une métaphysique rachetée, pour utiliser une autre expression de l’auteur, consistera à restituer à la subjectivité humaine son véritable statut créaturel devant Dieu et en relation avec le réel32. L’ouverture de la raison à des vérités qui la surprennent et éventuellement qui la dépassent est la condition de son plein exercice comme elle est aussi la garantie de la validité de sa méthode. En outre, elle nécessite une attitude de confiance envers les autres comme envers soi-même. Au fond, le scepticisme n’est autre que la défiance de la raison envers ses propres capacités d’accéder à des vérités.

L’articulation foi-raison ou la parabole de la raison prodigue Avant d’approfondir brièvement quelques aspects relatifs à ces deux binômes foi-raison et théologie-philosophie, il semble honnête de faire une simple observation. Penser ensemble les deux ordres de connaissance comme nous le faisons aujourd’hui à la lumière de Fides et Ratio est le fruit d’une longue recherche de la pensée chrétienne et philosophique au cours des siècles. Il n’est pas exagéré d’y reconnaître un signe évident de la maturité de la pensée chrétienne, maturité saluée d’ailleurs en dehors des cercles chrétiens à l’occasion de la publication de l’encyclique. Nous avons montré les deux pôles possibles de la séparation entre la foi et la raison; observons qu’il existe une tendance diffuse à ne plus confier à la raison ce qui par grâce a pu être découvert dans un acte de foi33. Il est vrai que l’émerveillement éprouvé devant la splendeur de la vérité, quand elle prend le visage du Christ, fait ressortir clairement les limites de toutes les sagesses humaines. Comment adhérer à la grande philosophie des Grecs si la Croix du Christ lui semble une folie? La juste attitude qui consiste à rechercher et explorer tous les semina Verbi dans les divers systèmes de pensée est fruit d’une liberté intel-

Ibid., 250. Pensons à la quasi-disparition de l’apologétique, ou encore à l’usage de plus en plus rare des arguments de convenance dans la réflexion théologique. 32 33

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lectuelle qui est une conquête de l’intelligence. Le temps lui est une aide nécessaire. Pour ce motif, une lecture libre de la parabole du Fils prodigue peut nous aider à suggérer la véritable portée d’une telle séparation entre foi et raison. Quand la raison s’éloigne de la foi, elle opère un mouvement analogue à celui du fils prodigue qui s’éloigne de son père, qui part dans un lieu désert; la raison ne dispose plus de la nourriture sapientielle qu’elle possédait auparavant dans la demeure paternelle de la foi; elle se contenterait bien des caroubes des connaissances partielles et éclatées, mais elle n’y a pas davantage accès; elle perd le sens de sa propre identité, de sa dépendance originaire des lumières de la foi, et elle en éprouve une grande nostalgie. Au moment de s’éloigner, elle formula ainsi ses exigences: donne-moi tout de suite la part d’héritage qui me revient. Elle ne s’est pas rendu compte que sa part d’héritage à cet instant cessait de vivre, et devint indépendante de toute tradition vive. Très vite la maison paternelle disparut à ses yeux. La raison dépensa tout ce qu’elle avait, oubliant qu’une telle liberté, désormais dénaturée en sa nouvelle et stérile autonomie, avait été elle aussi un don du Père. Elle se mit à la recherche de nombreux motifs d’exister, et se fit à l’idée que l’existence n’était qu’une occasion de sensations et d’expériences; elle se mit au service d’un des habitants de ce pays lointain, et qui donnait lui aussi la primauté à l’éphémère. Celui-ci l’envoya aux champs garder les porcs, parce que c’était là la préoccupation du jour. Personne ne donnait à la raison les caroubes qu’elle désirait. La raison se lassa d’être à la disposition des porcs et de désirer leur nourriture. Elle rentra en elle-même, commença à raisonner et dit: Je retournerai chez mon père. Elle prépara un discours, assez bref, de trois phrases. Les deux premières étaient intelligentes: Père, j’ai péché contre le ciel et contre toi; je ne suis plus digne d’être appelé ton enfant; la troisième était moins intelligente: traite-moi comme l’un de tes mercenaires. Par chance, quand la raison retourna chez son père, elle le vit qui venait à sa rencontre pour la prendre dans ses bras. La raison commença à prononcer son discours, au moins les deux premières phrases, celles qui étaient le plus intelligentes. On ne sait, en effet, si elle oublia la troisième ou bien si elle n’eut pas le temps de la prononcer, car elle fut remplie d’émerveillement en entendant les quelques mots prononcés par son père: Vite, apportez le plus bel habit, prenez le veau

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gras et préparez-le. Réjouissons-nous et faisons un banquet de fête. Or, sur ces entrefaites, arriva la frère aîné de la raison; il fut très contrarié de voir son père accueillir ainsi la raison prodigue. Lui était toujours demeuré fidèle à son père, se disait-il, et il avait en son temps critiqué justement l’éloignement de la raison, avec grande sévérité; à dire vrai, il l’avait jugé bien irraisonnable, comme il jugeait maintenant irraisonnable la propre attitude de leur père commun. Il ne parvint pas à comprendre ce dernier, refusa avec véhémence d’entrer dans la maison, et l’histoire ne nous dit pas s’il ne choisit pas, tout à son indignation, de s’éloigner à son tour. Cette lecture très libre de la parabole nous a permis d’illustrer ceci: quand la raison revendique pour elle-même une autonomie absolue à l’égard de la foi, elle croit pouvoir dépenser ce qui lui revient, alors qu’elle ne dépense pas autre chose que l’héritage de la foi. Il est un fait qu’il a fallu la métaphysique chrétienne de la création pour que l’homme acquît une intelligibilité stable de l’univers et une véritable confiance dans la valeur même de la raison, et qui furent les fondements indispensables de la naissance et du développement des sciences. La raison autonome n’aurait jamais existé si la foi ne lui avait donné les moyens de sa politique. Guardini parle de la déloyauté de la pensée moderne autonome: elle ne s’oppose à la foi qu’en gaspillant l’héritage de cette dernière. L’héritage est totalement dilapidé quand il ne reste rien d’autre que le nihilisme, attitude dont l’encyclique fait ressortir le caractère immoral, s’il est vrai que le nihilisme, ainsi qu’il apparaît de façon toujours plus évidente dans les divers courants du postmodernisme, prône le refus déterminé de tout engagement personnel: au néant correspond nécessairement un refus de la nature et de ses normes, ce qui implique une éthique de la désespérance: En face de la nature, ajoute Guardini, l’homme de notre temps a également cessé d’éprouver les sentiments religieux qui s’étaient manifestés sous une forme claire et sereine chez Goethe, sous une forme enthousiaste chez les romantiques, ou dithyrambique chez un Hölderlin. Il a traversé une crise de désenchantement34.

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66.

GUARDINI R., La fin des temps modernes (all: Das Ende der Neuzeit), p.

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Le désenchantement n’est autre que l’absence d’émerveillement et d’admiration. Dans son manque d’espérance, la raison prodigue ne pouvait imaginer qu’elle serait traitée par son père autrement que comme l’un de ses mercenaires. L’accueil du Père dépassait ses propres limites de compréhension. Quant au frère aîné, son refus d’entrer dans la perspective de son père pourrait très bien figurer l’attitude pusillanime d’une raison triste qui ne s’ouvre pas aux joies mises à sa disposition. Le veau gras était toujours resté disponible: tout ce qui est à moi t’appartient. Le frère aîné n’a pas fait un geste vers ce qui pourrait symboliser dans notre lecture toutes les richesses de l’univers qui proviennent toujours du Père. Dans l’attitude parfois étroite de l’intelligence, il y a quelque chose de similaire à celle du frère aîné de la parabole, qui ne peut ou ne veut se laisser surprendre par les dons de la bonté du Père. Pontificio Instituto Giovanni Paolo II Piazza S. Giovanni in Laterano 4 00120 Città del Vaticano.

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————— El autor es profesor y vicepresidente del Istituto Pontificio Juan Pablo II en Roma. The author is a Professor and Vice-Preside of the Pontifical Institute od John Paul II in Rome. —————

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Chronicle / Crónica ACCADEMIA ALFONSIANA Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000

1. Eventi principali 1.1. Inaugurazione dell’anno accademico L’8 ottobre 1999 l’Accademia Alfonsiana, che quest’anno ha festeggiato cinquant’anni di storia e quaranta di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense, ha inaugurato, sotto la presidenza di S.E.R. Mons. Angelo Scola, Rettore Magnifico della stessa Università, il nuovo anno accademico. La cerimonia è iniziata con una messa solenne, concelebrata dal Rev.mo P. Joseph W. Tobin, Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore, nonché Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, dal Rev.mo P. Sergio Campara, Rettore della Casa S. Alfonso, dai Proff. Bruno Hidber e Sabatino Majorano, rispettivamente Preside e Vicepreside dell’Accademia Alfonsiana e da numerosi professori e studenti. Durante l’omelia (riportata nell’opuscolo Cinquant’anni di storia – Quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense, Roma, Edacalf, 1999, pp. 3-6), Mons. Scola ha ricordato tra l’altro ai presenti che “la figura paradigmatica della decisione cristiana è quella del povero di spirito, del semplice, del bambino che, ricevendo tutto dalle mani di un Altro, ne riconosce l’ultima positività e perciò tutto osa”. Al termine della celebrazione, nell’aula magna dell’Accademia ha avuto luogo un atto accademico che si è sostanzialmente articolato in quattro momenti: • il primo, marcato dalla prolusione del Rev.mo P. Joseph W. Tobin, che ha sottolineato il carattere giubilare di quest’anno

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accademico ricordando come, nel 1949, l’allora Superiore Generale della Congregazione del Ss. Redentore, P. Leonardo Buijs, fondò l’Accademia e come, nel 1960, Sua Santità il Papa Giovanni XXIII, la incorporò nella Facoltà Teologica della Pontificia Università Lateranense. Inoltre, il Moderatore Generale ha sottolineato l’importante ruolo che viene riservato all’Accademia Alfonsiana come istituzione cattolica all’insegna dell’universalità, fra le tante opere svolte dai Redentoristi. Egli ha infine messo in evidenza la sua importanza per la missione della Chiesa e ha posto in luce l’eredità ricevuta da Sant’Alfonso (Cf. Idem, pp.7-10); • il secondo, sostanziatosi nella “Sintesi dell’anno accademico 1998-1999 e dei cinquant’anni dell’Accademia Alfonsiana” esposta dal Preside, Prof. Bruno Hidber, che ha evidenziato come la situazione presente dell’Accademia sia frutto del lavoro e dell’impegno degli anni passati. Egli ha inoltre sottolineato le tappe principali dell’evoluzione dell’Accademia, mettendone in luce l’identità e indicandone qualche orientamento per il futuro (Cf. Idem, pp.11-20); • il terzo, riferito alla relazione del Prof. Sabatino Majorano, intitolata “Cinquant’anni di impegno per il rinnovamento della teologia morale”, nella quale il Vicepreside ricorda che in questi ultimi cinque decenni la teologia morale, alla quale l’Accademia Alfonsiana ha dedicato tutte le sue forze, ha vissuto un processo di rinnovamento senza precedenti. E, dopo aver ricordato che è stato proprio quel rinnovamento a determinare la nascita dell’Accademia Alfonsiana, egli ha ricostruito a grandi linee lo sviluppo del suo piano di studi, cercando di evidenziarne i fattori, radicati nella tradizione alfonsiana, che l’hanno sorretta in questi primi cinquant’anni e che permettono di guardare al futuro con fiducia e rinnovato impegno (Cf. Idem, pp. 21-40); • il quarto, conclusosi con un intervento di S.E.R. Mons. Angelo Scola sui “Quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense”, inteso a sottolineare il legame che da quarant’anni unisce l’Accademia all’Università, ed il ruolo che svolge la prima nella pluriformità della seconda (Cf. Idem, pp. 41-46). L’intero atto accademico, conclusosi con un rinfresco che ha rappresentato una utile occasione per un ricco scambio d’idee tra professori, ufficiali e studenti, è stato accompagnato per tutta la sua durata da un intrattenimento musicale, curato dal

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quartetto da camera “I solisti di Roma” che hanno eseguito il “Divertimento in Si bemolle maggiore” di Joseph Haydn. E’ stata allestita anche una mostra di documenti inerenti la fondazione dell’Accademia e la sua incorporazione nella P.U.L.. Il 15 ottobre 1999, alcuni professori e numerosi studenti dell’Accademia, hanno partecipato alla messa d’inaugurazione dell’anno accademico di tutti gli atenei ecclesiastici romani, presieduta da Sua Santità Giovanni Paolo II.

1.2. Nomine Quest’anno accademico ha fatto registrare numerose nuove nomine da parte: • di Sua Santità Giovanni Paolo II che, il 15 novembre 1999, ha nominato nuovo Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski; • del Segretario di Stato, S.E.R. il Sig. Card. Angelo Sodano, che il 24 novembre 1999 ha nominato il Preside dell’Accademia Membro Ordinario della Pontificia Accademia di Teologia; • del Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, S.E.R. Mons. Angelo Scola, che il 1 aprile 2000 ha nominato il Prof. Rafael Prada, C.Ss.R., Professore invitato “pro prima vice” per l’anno accademico 2000-2001, per la disciplina di “Antropologia empirica”; • ancora di S.E.R. il Sig. Card Angelo Sodano, che il 13 aprile 2000 ha nominato i Proff. Sabatino Majorano e Maurizio Faggioni Consultori della Congregazione per le Cause dei Santi. Inoltre quest’ultimo, al termine del capitolo provinciale del suo ordine, è stato eletto Provinciale della Provincia Toscana dell’Ordine dei Frati Minori.

1.3. Attività accademiche, avvenimenti ed incontri 1.3.1. Incontro Preside/Studenti Durante il consueto incontro di inizio anno tra Preside, Segretario Generale e nuovi studenti, questi ultimi sono stati informati su varie questioni riguardanti la struttura dell’Accademia e

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la vita accademica in generale. Al termine dell’incontro, i vari Consulenti accademici hanno ricevuto i nuovi studenti appartenenti ai rispettivi gruppi linguistici, per poterli orientare verso una programmazione sistematica dei corsi e seminari del biennio per la licenza; 1.3.2. Conferenza Il 9 novembre, il Prof. Jean Laffitte, Vicepreside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, ha tenuto una conferenza dal titolo L’agire razionale del credente. Il contributo dell’Enciclica Fides et ratio alla teologia morale. Al termine della conferenza, seguita con attenzione da un gran numero di studenti e professori, ha fatto seguito un vivo dibattito; 1.3.3. Inaugurazione dell’anno accademico alla Pontificia Università Lateranense Il 16 novembre, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Università Lateranense, il Santo Padre, dopo aver inaugurato il nuovo atrio ed i nuovi locali dell’Università, ha presenziato tutta la cerimonia. All’ inaugurazione hanno partecipato il Preside e la Segretaria Generale dell’Accademia Alfonsiana; 1.3.4. Elezione dei Rappresentanti degli Studenti Il 1 dicembre 1999 l’assemblea degli studenti ha eletto, quali propri rappresentanti, Sr. Hirilene Aparecida Guerra e William Rice, entrambi studenti ordinari iscritti al primo anno del programma biennale per la licenza. Questi rappresentanti, con la loro elezione, diventano membri del Consiglio Accademico e fungono da portavoce degli studenti presso le autorità accademiche ed amministrative dell’Accademia; 1.3.5. Incontro per festeggiare il nuovo anno civile Il 17 gennaio 2000 gli studenti hanno organizzato un incontro festoso tra professori, personale e studenti dell’Accademia in occasione dell’inizio del nuovo anno civile;

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1.3.6. Incontro con il nuovo Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica Il 3 marzo 2000, in un incontro alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Preside ha incontrato S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski, al quale ha presentato l’Accademia Alfonsiana; 1.3.7. Giornata per i seminaristi e i sacerdoti-studenti presenti a Roma Cogliendo la singolare occasione educativa del Grande Giubileo del 2000, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha organizzato la celebrazione di una Giornata per i seminaristi e i sacerdoti-studenti presenti a Roma che si è tenuta il 24 marzo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, ed è consistita nella liturgia del passaggio della Porta Santa con la raccolta di offerte a favore dei poveri di Roma, e nella Via Crucis, presieduta dal Prefetto, S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski. Molti studenti dell’Accademia hanno accettato l’invito a partecipare che era loro stato rivolto dal Prefetto attraverso il Preside; 1.3.8. Colloquium doctum Il 27 marzo, il Prof. Eberhard Schockenhoff, titolare della cattedra di teologia morale presso l’Università di Freiburg/BR, ha incontrato i professori dell’Accademia per un colloquium doctum sul tema Legge naturale ed etica universale; 1.3.9. Festa di S. Alfonso Come ogni anno, il Preside ha invitato le autorità della Pontificia Università Lateranense, dell’Accademia Alfonsiana ed i Rettori dei collegi, seminari e convitti che affidano i loro studenti al nostro Istituto, ad un pranzo festivo che si è tenuto il 28 marzo;

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1.3.10. Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale - ATISM Il 25 aprile, l’Accademia ha ospitato l’incontro annuale dei soci dell’ATISM del Centro Italia a cui ha partecipato il Prof. Sabatino Majorano. La relazione di base è stata tenuta dal Prof. Luciano Padovese, docente di teologia morale alla Facoltà Teologica di Padova, ed aveva per titolo Il futuro ultimo cristiano di fronte alla sfida sociale della perdita di senso globale. Il Prof. Zuccaro, ordinario di teologia morale e Direttore dell’Istituto Teologico Leoniano di Anagni, è intervenuto sull’argomento Il tempo: all’inizio della vita, alla fine e oltre; 1.3.11. Giubileo Lateranense In concomitanza con il Convegno di preparazione al Congresso Eucaristico Internazionale e con la Giornata Internazionale Lateranense, la Comunità Accademica Lateranense ha celebrato il Giubileo nei giorni 26-29 aprile. Alla celebrazione hanno partecipato gli Istituti collegati all’Università ed in tale ambito, dopo la visita e la messa a S. Maria Maggiore, il 28 aprile si è svolta una visita all’Accademia Alfonsiana; 1.3.12. Rinnovo del secondo piano dell’Accademia Durante l’estate 1999 è stato rinnovato tutto il secondo piano dell’Accademia Alfonsiana. Oltre agli uffici della Segreteria, resi più accoglienti e funzionali, le aule dei seminari sono state dotate di nuovi tavoli, tutte le porte sono state sostituite, così come le tende ed i punti luce, mentre i pavimenti sono stati arrotati e lucidati.

1.4. Convegno Nei giorni 29-31 marzo, in occasione del 50° anniversario della proclamazione di S. Alfonso a Patrono dei Moralisti e dei Confessori, l’Accademia ha organizzato un convegno dal titolo Morale alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e di oggi.

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Il Convegno è stato aperto dal Moderatore Generale dell’Accademia, Rev.mo P. Joseph W. Tobin, che ha salutato i partecipanti. Le conferenze sono state tenute dai professori Bruno Hidber, Sabatino Majorano, Raphael Gallagher, Réal Tremblay, Maurizio Faggioni, Martin McKeever, dell’Accademia Alfonsiana, Marciano Vidal, dell’Istituto Superior de Ciencias Morales di Madrid, Paul Gilbert, della Pontificia Università Gregoriana e André-Marie Jérumanis, della Facoltà Teologica di Lugano ed ex-studente dell’Accademia. Moderatori, la Prof.ssa Nella Filippi, dell’Accademia Alfonsiana, ed il Prof. Ignazio Sanna, Pro-rettore della Pontificia Università Lateranense, nonché Professore dell’Accademia. Durante questo Convegno si è voluto riflettere per stabilire se la morale di S. Alfonso, sviluppatasi nei secoli dei lumi, possa rimanere una risposta anche alle sfide della nostra epoca postmoderna. Nella sua presentazione il Preside ha sottolineato che il Convegno si propone prevalentemente un lavoro ermeneutico di mediazione: si tratta di evitare l’errore di ripetere semplicemente il messaggio alfonsiano di ieri nel contesto di oggi e, viceversa, di non rinchiudersi semplicemente nel contesto di oggi svalutando o, piuttosto, rifiutando il messaggio di ieri. Bisogna, ha aggiunto, intraprendere il tentativo di una “fusione degli orizzonti” (H.G. Gadamer) tra ieri e oggi in modo che la morale alfonsiana possa rivelarsi un contributo adeguato all’uomo di oggi. Il Convegno ha riscosso un buon successo di partecipazione, anche da parte degli studenti. Al termine di questi tre giorni di studio, si è potuto apprezzare anche S. Alfonso nella sua veste di musicista, al quale il Convegno ha dedicato un concerto di musiche proprie di S. Alfonso. Gli atti del Convegno verranno pubblicati nel secondo volume di Studia moralia, che uscirà in dicembre 2000.

2. Consiglio di amministrazione Dal 14 al 16 febbraio 2000, convocato dal Moderatore Generale, si è riunito il Consiglio di Amministrazione dell’Accademia Alfonsiana.

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A questo incontro hanno preso parte: - il Preside, che ha svolto un rapporto sulla situazione accademica; - la Segretaria Generale, che ha relazionato sulla situazione amministrativa e su vari aspetti inerenti gli studenti; - il Prof. Sabatino Majorano, quale delegato del Consiglio dei Professori, per descrivere la situazione del corpo docente; - l’Economo, per esporre la situazione finanziaria; - l’Executive Director for Development, per informare sulla situazione delle relazioni pubbliche. Il C.d.A., presieduto dal Moderatore Generale, è quest’anno composto da molti nuovi membri, Superiori Provinciali della Congregazione del Santissimo Redentore. Dopo aver esaminato i vari rapporti con grande attenzione, il C.d.A. ha preso atto che l’insegnamento si svolge con regolarità e che è stato potenziato sotto vari aspetti, ed ha espresso il proprio apprezzamento per la grande professionalità negli uffici. Il C.d.A. ha altresì ringraziato la Provincia Redentorista di Monaco per la creazione di una fondazione in memoria del Prof. Bernhard Häring. Tra le principali preoccupazioni è emerso il problema del grande lavoro richiesto ai professori nel seguire le tesi e le tesine, lasciando loro poco tempo per la ricerca scientifica. Il C.d.A. ha anche riconosciuto la necessità di un progetto di previdenza sociale per i Professori, e per gli altri membri Redentoristi dell’Accademia.

3. Corpo insegnante

3.1. Stato attuale In quest’anno accademico l’Accademia Alfonsiana si è avvalsa della collaborazione di 36 professori, di cui sei ordinari, due straordinari, uno associato, ventitre invitati e quattro emeriti. Tra questi, 30 hanno svolto 33 corsi, diretto 21 seminari e numerose tesi di licenza e di dottorato. Altri ancora, in veste di professori invitati, hanno anche insegnato presso diversi centri ecclesiastici.

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3.2. Nuovi docenti L’Accademia Alfonsiana si è avvalsa per quest’anno accademico della preziosa collaborazione del noto Professore Don Guido Gatti, sdb, ordinario dell’Università Pontificia Salesiana. Il Prof. Gatti ha svolto un corso di morale sessuale durante il secondo semestre. 3.3. Pubblicazioni dei Professori Da evidenziare che molti docenti, oltre alla loro principale attività didattica e di assistenza agli studenti, hanno anche pubblicato diverse opere, offrendo in tal senso un utile contributo alla ricerca scientifica. 3.4. Docenti che lasciano l’Accademia Alfonsiana Il Prof. Joachim Ntahondereye, richiamato dal suo Vescovo per tornare nel proprio paese, il Burundi, lascia l’insegnamento presso l’Accademia Alfonsiana. Il Professore, ex studente dell’Accademia, ha insegnato per 4 anni nella sezione di teologia morale sistematica speciale. Alla fine del secondo semestre i professori si sono riuniti per salutarlo, ringraziarlo ed augurargli il meglio per i suoi futuri impegni di cui egli stesso non era ancora a conoscenza.

4. Studia Moralia L’impegno della Commissione per Studia Moralia e la collaborazione dei Professori interni ed esterni, hanno permesso la regolare pubblicazione dei due fascicoli della rivista Studia Moralia, per l’anno 1999.

5. Studenti In quest’anno accademico gli studenti sono stati 295 (282 uomini e 13 donne), di cui 276 ordinari che si sono preparati a conseguire i gradi accademici, e 19 ospiti. Tra gli ordinari, 125

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sono del secondo ciclo, 148 del terzo, mentre 3 sono iscritti al programma biennale per il diploma. La provenienza degli studenti è riferita a tutti i continenti: 131 dall’Europa, 66 dall’Asia, 27 dall’America del Nord, 29 dall’America del Sud, 38 dall’Africa e 4 dall’Australia/Oceania. Divisi per appartenenza religiosa, 176 sono del clero secolare, 103 tra religiosi e religiose appartengono a 48 diversi ordini, mentre 16 sono laici. Durante l’anno accademico 1999-2000 sono state difese con successo 33 tesi di dottorato e 29 studenti, dopo la pubblicazione delle loro rispettive tesi, sono stati proclamati dottori in teologia della Pontificia Università Lateranense, con specializzazione in teologia morale. Inoltre, 47 studenti hanno conseguito la licenza in teologia morale. Durante il mese di marzo il Preside ha incontrato, personalmente, tutti gli studenti del primo anno di licenza per verificare con loro la propria programmazione accademica, ed il loro orientamento. Inoltre, sono stati numerosi gli incontri tra il Preside ed i Rappresentanti degli Studenti, diretti a deliberare su varie questioni riguardanti gli studenti stessi.

6. Informazioni sugli ex studenti

6.1. Nomine Durante l’anno accademico 1999-2000, 6 ex studenti dell’Accademia Alfonsiana di seguito specificati sono stati elevati alla dignità episcopale: - S.E.R. Mons. Thomas Pulloppillil, nominato primo Vescovo di Bongaigaon (India). E’ stato studente dell’Accademia dal 1987 al 1994; - S.E.R. Mons. Martin Adjou, nominato primo Vescovo di N’Dali (Bénin). E’ stato studente dell’Accademia dal 1988 al 1991; - S.E.R. Mons. Domenico Caliandro, nominato Vescovo di Nardò-Gallipoli (Italia). E’ stato studente dell’Accademia dal 1971 al 1973; - S.E.R. Mons. Gerald Mathias, nominato Vescovo di Sim-

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la e Chandigarh (India). E’ stato studente dell’Accademia dal 1982 al 1987; - S.E.R. Mons. Aurel Perca, nominato Ausiliare dell’Arcidiocesi di Iasi (Romania). E’ stato studente dell’Accademia dal 1983 al 1985; - S.E.R. Mons. Daniel Nlandu Mayi, nominato Ausiliare dell’Arcidiocesi di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo). E’ stato studente dell’Accademia dal 1981 al 1987.

6.2. In memoriam E’ giunta la notizia del decesso degli ex studenti Brendan Soane e Paul Burire. Brendan Soane, nato l’11 aprile 1936 a Westminster (Inghilterra), ha frequentato l’Accademia dal 1971 al 1973, ottenendo la licenza in teologia morale il 18 giugno 1973. Paul Burire, nato l’11 novembre 1942 a Mirama (Burundi), ha frequentato l’Accademia dal 1981 al 1986, ottenendo prima la licenza e poi il dottorato in teologia morale.

7. Inaugurazione dell’anno accademico 2000-2001 L’inaugurazione del prossimo anno accademico è fissata per il 10 ottobre. In occasione di un incontro tenutosi il 14 marzo con S.E.R. Mons. Walter Kasper, Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, il Preside ha invitato il Vescovo a presiedere la celebrazione eucaristica dell’inaugurazione, invito che questi ha accettato Mons. Kasper, dopo la celebrazione, in un atto accademico che seguirà nell’aula magna dell’Accademia, terrà una conferenza sui problemi attuali dell’ecumenismo.

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8. Gradi accademici conferiti

8.1. Dottori designati Nel corso dell’anno accademico 1999-2000, 33 studenti hanno difeso pubblicamente la loro dissertazione dottorale: BOWA KATETA, Grégoire (Repubblica Democratica del Congo - o.f.m.): Le mal zaïrois. Essai d’une étude comparative. - 25 maggio 2000; Moderatore: Prof. Bruno Hidber Les diagnostics des systèmes politique, économique et socioculturel établis par les évêques du Zaïre et le Magistère universel ont révélé l’existence d’un mal. Ce dernier se présente sous deux aspects: structurel et moral. Au Zaïre, il s’institutionnalise et se pratique partout, même là où on ne pouvait plus s’y attendre, surtout dans les secteurs où l’on devrait respecter les droits des citoyens. Au niveau structurel, c’est le cas par exemple de la corruption et, au niveau moral, c’est l’absolutisation du pouvoir et de l’argent, pour bien paraître. Ce mal est qualifié de “mal zaïrois”, par le fait qu’il est devenu comme une norme absolue pour tous.

BULEYA, George (Malawi - diocesi di Blantyre): The Concrete Human Condition: A Privileged Locus for Moral Truth. The Implications of Gaudium et spes 4-10 (the Expositio introductoria) in Shaping Moral Proposals. - 18 novembre 1999; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher The moral crisis of our times is about the difficulties humanity is facing in finding a meaningful centre around which lives can revolve. In similar efforts to find a new and effective way to conceive the relationship between the Church and the world, Gaudium et spes turned to the concrete human condition as the interpretative centre. It seems that a similar turn has to be made in the realm of moral proposals if they are to be both plausible and effective. The concrete human condition has to be allowed to take the same privileged position as a “locus” for moral truth in shaping moral proposals.

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CIPRESSA, Salvatore (Italia - diocesi di Nardò-Gallipoli): Il fenomeno transessuale fra medicina e morale. - 18 maggio 2000; Moderatore: Prof. Maurizio Faggioni Il presente studio cerca di rispondere ai molteplici ed inquietati interrogativi che suscita la drammatica condizione transessuale attraverso un articolato itinerario di ricerca. Si esamina la sessualità umana nelle sue molteplici dimensioni, illustrando le principali tappe del processo di acquisizione del sesso e dell’identità sessuale. Successivamente si studiano gli aspetti eziologici, psicologici, comportamentali, diagnostici e terapeutici del transessualismo come presupposto imprescindibile per la riflessione morale. Quindi, alla luce dell’antropologia sessuale cristiana, vengono esaminati i principali problemi etici e giuridici connessi con lo stato transessuale. Le questioni etiche e giuridiche si impongono nella psicoterapia e soprattutto nel trattamento medico-chirurgico e nelle questioni riguardanti l’ammissione di una persona transessuale al matrimonio, all’Ordine sacro e alla vita consacrata. Infine, si offrono alcune indicazioni pedagogicopastorali per aiutare la persona transessuale a realizzare la sua vocazione umana e cristiana.

DANKA, Sami (Irak - diocesi di Baghdad): L’uomo immagine e somiglianza di Dio secondo Narsai di Nisibi. - 4 novembre 1999; Moderatore: Prof. Luigi Padovese L’uomo è fatto a immagine di Dio, portatore di una valenza divina; deve dominare sul mondo, sulla terra, su tutti gli altri viventi; è l’ultima opera della creazione, il culmine, l’opera più bella, con una dignità che non ha eguali. Quest’uomo rivela l’amore di Dio alle creature e rappresenta un “oggetto” visibile attraverso il quale le creature possono conoscere ed amare Dio. Narsai non ritiene soddisfacente che l’uomo sia capace di dominare su tutto, capace di guidare la propria libertà e volontà, ma di più: 1. La sua creazione è diversa da quella delle altre creature, in quanto implica un “consiglio nuovo”; 2. La figura del Creatore come grande Artigiano: crea l’uomo con grande abilità; 3. L’uomo è piena immagine di Dio in Cristo Gesù che lo rende capace di amare.

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FERNANDES, Stephen Eustace (India - diocesi di Bombay): Justice as Participation in John Rawls and in the Social Teachings of Pope John Paul II. - 31 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone The research is limited to the title of the work. It is the study of two important authors in the field of justice whose religious and cultural upbringing differs enormously. Section one of the research focuses on the conception of justice as participation according to John Rawls. Section two of the research commences with the philosophical framework of Pope John Paul II’s thought prior to his pontificate and his teaching on justice as participation in his early encyclicals - Redemptor Hominis and Dives in Misericordia. It then elaborates the teaching of justice as participation in the social encyclicals of John Paul II, the reigning Pontiff. The research presents an individual evaluation of the specificity and limitations of both John Rawls and John Paul II and concludes with a comparative evaluation of their points of similarity and differences.

FERRARI, Roberto (Italia - o.f.m.): L’azione dei Minori Osservanti nei Monti di Pietà. Il Defensorium di Bernardino de Busti. - 05 aprile 2000; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher Il lavoro è costituito da due tomi: il primo presenta l’”editio princeps” del testo originale del DEFENSORIUM di Bernardino de Busti, con la relativa trascrizione e traduzione (ed. 1497); il secondo offre contributi significativi del prestito ad interesse e all’usura. Viene considerata l’azione specifica dei rappresentanti più significativi dell’Osservanza francescana che attraverso la predicazione itinerante e la concreta testimonianza evangelica della carità verso i poveri, promuove e fonda l’istituto dei Monti di Pietà. Monti di Pietà ed usura: un binomio inseparabile di questo studio. Il testo del Defensorium propone i punti centrali della polemica anti ebraica circa l’usura, e la differente posizione tra la scuola francescana e domenicana sul prestito ad interesse.

FOLTYN, Piotr (Polonia - diocesi di Varsavia): L’uomo nel matrimonio come marito e padre secondo il magistero universa-

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le della Chiesa, 1878-1995. - 26 maggio 2000; Moderatore: Prof. Seán Cannon La paternità non è soltanto un valore personale dell’uomo, ma anche un valore familiare, sociale e religioso. La rapida mutazione socio-culturale e le trasformazioni in campo familiare mettono a dura prova la figura del padre. Dare l’allarme che la famiglia odierna e insieme con essa la paternità sono in pericolo, non basta. Pur necessaria e indispensabile, va riscoperta e valorizzata in un contesto nuovo. Questo lavoro si rivolge ai documenti principali del Magistero universale della Chiesa (18781995), che in modo diretto o indiretto trattano della figura dell’uomo come marito e padre. Indubbiamente attenzione più particolare viene rivolta ai documenti papali e conciliari che sono stati dedicati al matrimonio e alla famiglia.

GONSALVES, Archibald R. (India - o.c.d.): The Beginning of the Human Individual: A Western and an Indian Perspective. - 29 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone The Western Perspective on “The Beginning of the Human Individual”, developed by Norman M. Ford, in his book, “When did I begin?” is compared with the Indian Perspective as developed in the Indian Medical System, “Ayurveda”. These Perspectives have their foundations in their respective Philosophies, Sciences and Religions. While the Western Perspective keeps on asking the question, “When did I begin?” the Indian Perspective asks the questions, “How did I begin” These two perspectives, though different in their approaches, are complementary in telling us more about the beginning of the human individual.

HERNANDEZ MEDRANO, Rodolfo (Messico - o.f.m.): La Solidaridad como Exigencia Etica de Promocion Humana en las ONGs de Derechos Humanos en Mexico. Una Reflexion Desde la IV Conferencia del Episcopado Latinoamericano. - 11 ottobre 1999; Moderatore: Prof. Silvio Botero Las Organizaciones No Gubernamentales de derechos humanos en México nos muestran de una manera concreta la mutua relación y dinamismo que existe entre los grandes temas reconoci-

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dos por el magisterio como signos de los tiempos, es decir, la creciente solidaridad entre las personas por defender los derechos humanos y la promoción de un verdadero y auténtico desarrollo humano. El objetivo de la tesis es la fundamentación ético-teológica de la acción social estas ONGs a partir de la solidaridad propuesta por la IV Conferencia General del Episcopado Latinoamericano. De igual manera se pretende subrayar la urgencia de una concientización para el compromiso solidario a favor de los derechos humanos en México presentándolo como expresión de una Nueva Evangelización y una cultura ciudadana.

JECZEN, Jaroslaw (Polonia - diocesi di Lublino): Persona e morale. Morale come il compimento della persona in Giovanni Paolo II. - 9 giugno 2000; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi La tesi Persona e morale, intitolata così per analogia alla più famosa opera di Karol Wojtyla Persona e atto è lo studio integrale sul suo personalismo filosofico-teologico in quanto morale. Da una parte lo analizza come ulteriore specificazione del discorso antropologico tomista-fenomenologico sulla base di un movimento circolare: operari sequitur esse, ma anche esse sequitur operari; dall’altra, lo presenta nel campo della teologia come chiave della morale della persona: l’uomo realizza se stesso mediante l’atto moralmente buono, confermando, sviluppando e consolidando in sé la somiglianza di Dio Personale – Unio Personarum. La tesi tratta della morale personale e nel contempo della morale del compimento di sé. Senza essa, l’uomo non può ritrovare se stesso. Senza la morale, l’uomo non può pienamente realizzare se stesso come persona.

KAITHARATHOTTIYIL, Lukose (India - c.f.i.c.): Somatic Cell Gene Therapy. Scientific and Ethical Aspects. - 20 gennaio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone The first human somatic cell gene therapy, the technique of correcting genetic disorders through genetic engineering, in 1990, heralded a great leap forward for medical sciences. Though the effects of this technology are restricted to the individual, it has been for some time the subject of a lively debate. It raises few

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ethical problems as it does not represent a departure from standard medical practice. But it should not be used for enhancement purposes. More information about this literature helps understand and appreciate its great potential that would revolutionize modern medicine by providing a rational treatment to those suffering from serious disease. The Catholic Church associates herself with those who commit themselves in bringing the positive outcome of this technology. Somatic cell gene therapy is morally justifiable and therefore it is well worth pursuing.

KANAPKA, Algirdas (Lituania - diocesi di Vilkaviskis): L’interdipendenza tra l’amicizia cristiana e il perdono accordato ed accolto secondo l’insegnamento di Paolo VI. - 5 giugno 2000; Moderatore: Prof. Dennis Billy Lo studio svolto presenta l’esame dell’insegnamento di Paolo VI in cui emerge l’interdipendenza tra due concetti: l’amicizia cristiana e il perdono accordato ed accolto. L’amicizia cristiana si delinea come una complessa realtà dell’espressione umana e umano-divina, quindi l’inizio e la meta dei rapporti interpersonali, composta da tanti elementi strettamente legati tra loro. Il perdono in quanto mezzo si rappresenta come l’invito all’amicizia cristiana e quindi al cambiamento della vita e dei rapporti infranti. La tesi fa emergere anche l’atteggiamento di Paolo VI: dell’uomo amico di Dio e di ogni uomo, pronto a chiedere il perdono ed instancabile a perdonare seguendo le orme di Gesù, superando tutti i pregiudizi e qualsiasi condizionamento.

MACERI, Francesco (Italia - s.j.): La formazione della coscienza del credente. Una proposta educativa alla luce dei “Parochial and Plain Sermons” di John Henry Newman. - 18 febbraio 2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay La formazione della coscienza consiste in un itinerario di trasformazione, lungo il quale, per grazia e per impegno, il cristiano acquisisce sempre più l’abilità di incontrarsi con Dio in Cristo, “solus cum Solo”. Dopo aver mostrato l’attualità dei Sermoni (I), l’autore ha ricostruito, alla luce delle pagine newmaniane, l’identità essenziale di Dio Trinità e dell’uomo che si è rivelata nell’opera di redenzione (II), e ha analizzato, nelle sue articola-

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zioni e nei suoi sviluppi, il dinamismo della vita del rigenerato, in modo da far emergere i contenuti, le caratteristiche e le modalità principali dell’azione educativa cristiana (III). Fatto ciò, utilizzando i dati antropologici e teologici e applicando il modello pedagogico emersi, è stato tracciato un itinerario di formazione della coscienza, considerata in rapporto alle facoltà umane, immersa nel dinamismo escatologico impresso alla vita del credente dalla presenza dello Spirito e nel contesto ecclesiale (IV). Infine, prestando di nuovo attenzione ai contenuti antropologici e teologici in prospettiva pedagogica, si è delineato un breve ma denso cammino di conformazione cristologica di tutto l’uomo – intelletto, affettività e volontà -, necessario perché Cristo sia accolto nella coscienza (V).

MARIANI, Andrea (Italia - diocesi di Tortona): La vita morale come cammino di crescita nel catechismo della Chiesa cattolica. Per una formazione della coscienza morale. - 8 giugno 2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano Cogliendo gli interrogativi etici, suscitati dalle scienze umane e dalla cultura contemporanea, la riflessione morale che orienta il presente studio, alla luce dell’attuale rinnovamento della catechesi, presenta la dinamica della ‘gradualità’, ponendosi al servizio della persona e accettando il confronto sistematico con le scienze dell’educazione. Tale cammino graduale riveste un particolare rilievo, non solo per il suo carattere sistematico in ambito magisteriale-dottrinale, ma risulta altrettanto fruttuosa oggi, per la prassi e l’accompagnamento, in prospettiva pedagogicopastorale e catechistico. L’istanza della ‘gradualità’ risulta essere quel principio che meglio risponde alla comprensione della vita cristiana come cammino progressivo di crescita; l’uomo è infatti quell’essere ‘storico’ chiamato alla santità.

MARRONE, Domenico (Italia - diocesi di Trani): Il messaggio morale cristiano nel magistero episcopale di Mons. Antonio Bello (1935-1993). - 20 novembre 1999; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano La tesi si propone di individuare il quadro di riferimento assiologico del magistero di una delle figure di rilievo dell’episcopato

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italiano degli ultimi anni: il vescovo di Molfetta Mons. Antonio Bello (1935-1993). Il lavoro è diviso in quattro capitoli. Il primo presenta un approccio biografico per ripercorrere le tappe decisive che hanno segnato il percorso umano e formativo dell’autore. Nel secondo capitolo si passa a considerare la questione del linguaggio, elemento importante dell’esperienza morale. Nel terzo capitolo si traccia la trama complessiva del messaggio antropo-teologico di Bello. Emerge la centralità di Dio e dell’uomo quali due fuochi di un’unica ellisse del suo magistero. Infine, nel quarto capitolo si enucleano i fulcri portanti del discorso morale: la profezia della povertà, l’opzione per i poveri, l’impegno per realizzare l’utopia della pace, il sogno della convivialità delle differenze. L’itinerario di riflessione approda così alla definizione di un orizzonte complessivo che si caratterizza per alcuni indicatori etici fondamentali, fecondi per questo trapasso di millennio in vista della civiltà dell’amore: l’ethos della solidarietà, della convivialità, della tenerezza.

MBULA MALENGO, Faustin (Repubblica Democratica del Congo - o.praem): L’enjeu éthique du rapport avec le cosmos pour une inculturation du message du salut en milieu BantuNgombe. - 21 febbraio 2000; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi Les Bantu-Ngombe, dans leur rituel séculier présentent les caractéristiques d’un peuple qui célèbre la vie dans sa dimension cosmique. Les étapes importantes de l’existence sont vécues comme expérience qui renvoit au tout de la vie. Cependant, le milieu culturel et historique actuel des Ngombe connaît une désintégration qui annihile l’harmonie entre les valeurs de la culture et le dynamisme de l’Evangile. Les âpres dissensions que connaît l’Afrique des cultures l’éloignent de plus en plus de son idéal de vie, où l’éthique chrétienne se trouve en face d’un certain nombre des questions urgentes et apparemment insolubles qui touchent la personne dans ses dimensions profondes. En ces circostances, l’inculturation de la Bonne Nouvelle se révèle et se réalise comme ferment qui féconde et (re)-vitalise la culture dans des structures nouvelles d’évangelisation et de référence des valeurs.

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MUANDA, Kienga (Repubblica Democratica del Congo - diocesi di Boma): La loi naturelle chez Servais Pinckaers. Exposé et confrontation. - 3 maggio 2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay La tesi è un approfondimento critico della legge naturale nel pensiero di Pinckaers, il quale, per continuare il rinnovamento della morale indicato da Vaticano II, intende attualizzare il pensiero della “legge naturale” nella sua giusta antropologia, dopo di che se ne fa un’analisi dettagliata. Nella seconda parte, si confronta il pensiero di P. su due punti: il dibattito attuale sulla legge naturale, il legame tra morale e cristologia. Ne emerge un prezioso contributo per il chiarimento del dibattito, ma una debolezza cristologica di fondo. Da lì, si propone un approccio cristologico della legge naturale (legge naturale come legge filiale en creuz), più teologico e più adatto all’evangelizzazione odierna.

NSAMBI-e-MBULA B., Jean-B. (Repubblica Democratica del Congo - c.m.): La conscience morale comme fondement de la dignité humaine dans la société congolaise. Approche contextuelle et élucidative de l’ethos négro-africain. - 16 dicembre 1999; Moderatore: Prof. Joachim Ntahondereye Le débat sur la nature de la conscience morale reste ouvert alors que semble acquis le principe de la dignité de toute personne. En Afrique noire parfois présentée comme professant une “morale sans péché”, la conscience morale a été niée ou est mise en doute, pendant que la non jouissance des droits fondamentaux semble annuler toute prétention à la dignité humaine. En partant de l’élucidation de l’expérience morale vécue au Congo-Kinshasa, la thèse réoriente le débat et démontre que la dignité humaine est plus que la jouissance des libertés et droits fondamentaux parce qu’elle se fonde, dans la perspective christologique d’une morale négro-africaine découlant de l’ontologie (l’être-avec-la vie), dans la conscience comme le centre le plus secret de la personne.

NTABANA, Augustine (Uganda - diocesi di Masaka): Respect, Protection and Promotion of Fundamental Civil and Political Rights and Freedoms: A Moral Theological Study of Uganda since 1962-1999 in the Light of Some Selected Social Encyclicals. - 2 giugno 2000; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher

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The study aims at making a contribution within the context of Moral Theology, to building up a new culture in Uganda, whereby Government leaders would become committed to respecting and guaranteeing the free enjoyment of the people’s civil and political rights and freedoms. A moral analysis of the various violations reveals that the leaders responsible for the violations were egocentric and power hungry. Their sole concern seems to have been to acquire power and to retain it even at the expense of the citizens’ civil and political rights. To correct this situation we have proposed some moral principles that need to be inculcated among the people at the various levels of society, beginning with the family.

PANZETTA, Angelo (Italia - diocesi di Taranto): La legge naturale e la legge della grazia nel secolo XVIII. La riflessione di Pasquale Magli. - 15 aprile 2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano La dissertazione, che si inserisce nel contesto della storia della teologia morale del secolo XVIII, prende in esame le interessanti tesi sulla legge naturale e sulla legge della grazia di un autore fin ad ora praticamente sconosciuto, Pasquale Magli (17201776). Si tratta di un sacerdote di Martina Franca (TA), studioso di questioni filosofiche e teologiche. Per analizzare criticamente le tesi del Magli sulla legge naturale e sulla grazia, viene ricostruito prima il contesto filosofico, teologico e personale in cui sono nate, poi si analizza la proposta specifica partendo dai fondamenti antropologici e teologici su sui è costruita e, da ultimo, si ricostruisce il dibattito che il martinese ha avuto con s. Alfonso de Liguori sulla questione della legge naturale.

PARAYIL, Thomas (India - diocesi di Berhampur): The Position of India on Nuclear Disarmament: A Moral Assessment in the Light of the Teaching of the Catholic Church. - 11 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone Our study shows that the Catholic Church maintains that nuclear deterrence can be morally acceptable on the condition that it is a step towards complete nuclear disarmament. There is a strong indication in the Church’s teaching against the use of the-

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se weapons. The Church advocates multilateral and verifiable nuclear disarmament. Based on the teaching of the Church we conclude that the position of India on nuclear disarmament is morally acceptable. In our conclusion we note that an important step on the road to nuclear disarmament would be for all nuclear powers to abandon nuclear deterrence.

PERCHINUNNO, Michele (Italia - diocesi di Cerignola - Ascoli Satriano): La dimensione pneumatologica della vita cristiana nei manuali italiani di teologia morale degli ultimi due decenni (1970-1990). - 3 giugno 2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano Lo scopo di questa tesi è stato quello di evidenziare il rapporto che la proposta morale di alcuni manuali italiani ha potuto avere con la pneumatologia nel post-Concilio. In primo luogo si è cercato di ricordare le indicazioni pneumatologiche del Concilio Vaticano II, per poi ricostruire il contesto sociale ed ecclesiale degli anni ’70 e ’80, insieme ai piani pastorali CEI ed i convegni ecclesiali di Roma (1976) e Loreto (1985), ed infine si è tentato di delineare il cammino di alcuni movimenti ecclesiali e della teologia morale fondamentale in Italia. In secondo luogo sono stati analizzati i manuali, evidenziando le linee portanti di ciascuna opera e il loro possibile rapporto con la pneumatologia ripercorrendo le categorie fondamentali della vita morale. Il lavoro si conclude con un bilancio di quanto è emerso nel lavoro analitico dei manuali e tentando di delineare alcune indicazioni di prospettiva.

PETROSINO, Luigi (Italia - c.ss.r.): La catechesi morale missionaria redentorista nel Mezzogiorno d’Italia a metà ottocento. 4 aprile 2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano E’ una ricerca storico-catechetico-morale sulle istituzioni delle Missioni Redentoriste a metà Ottocento. Nei primi due capitoli, l’autore si sofferma sui contesti socio-culturale ed ecclesiale-pastorale del periodo trattato. Nel terzo, su “I redentoristi e la Missione alfonsiana”, riporta “la comune opinione favorevole” dell’apostolato missionario redentorista. Nei capitoli quarto e quinto,

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basandosi su numerosi manoscritti dell’epoca, lo stesso sottolinea quali sono state le preoccupazioni fondamentali di una tale catechesi rimasta sostanzialmente fedele al Tridentino e per quanto riguarda, in modo particolare, il Sacramento della Penitenza, interpretando però in maniera “benigna” le indicazioni della Sessione XXII. Infine, l’autore lamenta la mancanza di creatività e la conseguente ripetitività che si riscontrerà a partire dalle vicende dell’Unità d’Italia in poi.

POZNIC, Andres Marko (Slovenia - diocesi di Ljubljana): Un futuro para la nación en la Unión Europea. Una propuesta ético-moral. - 1 giugno 2000; Moderatore: Prof. Martin McKeever La tesis propone a la nación como materia relevante del estudio moral. 1) Con una breve reseña en “clave nación” justificamos la importancia del tema. 2) Con la ayuda de la sociología intentamos comprendere mejor la conplejidad y dimensiones del fenómeno “nación”. 3) A continuación esbozamos una propuesta teológico-moral sobre el tema. Exponemos en especial la participación de la nación en la formación de la identidad de individuo y la sociedad. 4) Analizamos las relaciones institucionales en la Unión Europea desde la óptica de la nación.

RANIERO, Lorenzo (Italia - o.f.m.): Gesù Cristo è il fondamento della morale per ogni uomo? Analisi e confronto con alcuni laici in Italia. - 10 marzo 2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay La ricerca intende mostrare come la fondazione cristologica della teologia morale cattolica tocchi l’intimo essere di ogni uomo creato sulla terra e di conseguenza risulti essere un’offerta legittima e fondata anche per coloro che in Italia sono gli esponenti del laicismo liberale. La proposta che la teologia fa ai non credenti si innesta all’interno della loro ricerca di fondazione dell’etica, e in essa nel mai assopito desiderio di approdare ad un qualche valore morale ultimo e definitivo che conduca l’indagine dei laici alla quiete fondativa. L’analisi del pensiero morale di alcuni esponenti laici italiani in ordine alla questione della fondazione ultima dell’agire morale, intende evidenziare come an-

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che in essi, sia pur in varie forme non sempre esplicite, si celi una insopprimibile sete di assoluto, preparando in tal maniera il terreno alla proposta di una teologia morale fondata sul mistero di Cristo.

REHMAT, Indrias (Pakistan - diocesi di Faisalabad): Christian Marriage and Family in Modern Pakistan: The Challenge of Pastoral Care in a Muslim Society. - 16 febbraio 2000; Moderatore: Prof. Seán Cannon Marriage and family are the most basic institutions of society as well as of the Church. But, everywhere they are troubled by various problems like polygamy, the plague of divorce, so called free love and similar blemishes. Furthermore married love is too often dishonoured by selfishness, hedonism and unlawful contraceptives. Besides, the economic, social, psychological and civil climate of today has a severely disturbing effect on family life. In this research the author has focused on Pakistani Christian marriage and families, analysing its strengths and weaknesses in the given context and has tried to find a pastoral remedy to help out and deepen the Christian vision of marriage among the Christian youth and married in modern Pakistan.

SAVARIMUTHU, Gaspar (India - diocesi di Kumbakonam): The Doctrine of non-Violence according to Jayaprakash Narayan: for a Comprehensive socially changed Society - 10 dicembre 1999; Moderatore: Prof. Brian Johnstone Jayaprakash Narayan was a follower of Mahatma Gandhi and a true Satyagrahi. Keeping the principle of Non-violence of Gandhi and socialist values, Narayan evolved his doctrine of Non-violence of the brave, consisting of human, spiritual and moral values. Peace is the vital and essential element of his doctrine. Liberty, equality, fraternity, justice, love and the common good are the goals of his doctrine. This research presents a positive and critical account of Narayan’s thought, comparing it with the social teaching of the Catholic Church. On the basis of the research proposals are offered for a concrete programme.

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SMITH, Anthony Joseph (U.S.A. - c.ss.r.): AIDS and the Ethics of Mercy. An Analysis of Moral Theology’s Response to the Aids Epidemic. - 19 maggio 2000; Moderatore: Prof. Terrence Kennedy The thesis examines the response of moral theology to the AIDS epidemic in the English-speaking world, and argues that an “ethic of mercy”, drawn from both traditional and feminist sources, can better embrace the complex ethical difficulties presented by the epidemic.

SNIGIER, Arkadiusz (Polonia - diocesi di Elblag): La giustizia sociale: dimensione fondamentale del mondo contemporaneo nell’insegnamento di Giovanni Paolo II degli anni 1978-1995. - 12 novembre 1999; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi Un tema di grande attualità e complessità, di dimensione mondiale, è al centro di questa tesi dottorale. Attraverso l’analisi dei documenti e della pastorale del Pontefice, l’autore illustra che cosa il Santo Padre intende per giustizia sociale: è una virtù morale, un diritto inalienabile della persona umana, che ha come oggetto il bene comune. Ha inoltre carattere dinamico ed è strettamente legata alla carità ed alla pace. L’autore espone poi la via indicata dal Pontefice per l’attuazione della giustizia sociale. Sia la società civile sia la Chiesa sono chiamate alla costruzione di una società più giusta.

SUJOKO, Albertus (Indonesia - m.s.c.): Personalist Method in Moral Theology. Critique and Further Development of the Thought of Louis Janssens and Bernard Häring. - 29 ottobre 1999; Moderatore: Prof. Brian Johnstone The personalist method of moral argument holds that morality in the true sense of the word deals with the human person rather than human actions. Only the human person can be moral. The document of Vatican II, Optatam Totius in no. 16 teaches that the presentation of moral theology should shed more light upon the exalted vocation of the faithful in Christ. And Gaudium et spes 51 points out that the objective criterion of morality must be drawn from the nature of the human person and human action. These

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are the foundations of personalist moral theology, which focuses on the human person rather than on the human action in itself.

TRACY, Joseph A. (U.S.A. - diocesi di Philadelphia): The Challenge to Catholic Morality from a Postmodern Culture of Consumption as manifested particularly in the United States of America. - 30 maggio 2000; Moderatore: Prof. Stephen Rehrauer The omnipresence of consumerist attitudes and lifestyles is evident in the developed world and particularly in the U.S.A. These contribute to the formation of a culture of consumption increasingly focused on commodities and acquisition. This dissertation studies the phenomenon of consumer culture in the United States, its origins and development, and the moral and theological significance of inordinate consumption. Using concepts from Catholic social teaching, it attemps to raise consciousness about the potential moral dangers of unrestrained consumer spending by critiquing the American culture of consumption and by examining its impact on personal dignity, community, and human solidarity.

VALLATE, Mathew (India - diocesi di Bhopal): “The Inner Voice”. A Study of Conscience in Bernard Häring and Mahatma Gandhi. - 4 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone This comparative study examines the concept of conscience in Häring and Gandhi. It argues that conscience, more than a faculty of will or intellect, is the reaction of the whole person. Despite belonging to two different traditions, there are more elements of convergence than divergence in their understanding of conscience. If incorporated into the Catholic Moral tradition, it can enrich its understanding of conscience.

WOO, Jae Myung (Corea del Sud - s.j.): Genetic Privacy Balanced with the Good of the Community in the Use of Genetic Information by a Third Party: An Analysis in the Light of Catholic Moral Principles. - 24 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone The use of genetic information generated by the Human Genome Project is a complicated issue since it raises the conflict

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between genetic privacy and the good of the community. The justification of each party is partially flawed. The purpose of this dissertation is to reach a balance between genetic privacy and the good of the community. Here I argue for my own notion of “freedom with” a balance between genetic privacy and the good of the community. I argue that a person’s right to privacy is a foundational principle, but is not necessarily an absolute right since each person is always a moral self who achieves his or her own ends only in relationship with others.

8.2. Dottori proclamati Durante l’anno accademico 1999-2000 i 29 studenti di seguito indicati, ai quali è stato conferito il titolo di dottore in teologia con specializzazione in teologia morale, hanno pubblicato, alcuni in versione integrale, la loro tesi dottorale:

AUDU, Mathew, A Smaller Family Size, the Alleged Solution to the Predicaments of Poverty and Hunger in Developing Countries (A Moral Evaluation of the Arguments For and Against). (Excerpta) Roma 1999, 234 pp. AWIRIA OZITILE, Pax, Thomas Aquinas’s Teaching on Just Price. A Theological Reading of Summa Theologiae II-II, q.77. (Excerpta) Roma 2000, 187 pp. BOWA KATETA, Grégoire, Le mal zaïrois. Essai d’une étude comparative. (Excerpta) Roma 2000, 233 pp. BULEYA, George, The Concrete Human Condition: A Privileged Locus for Moral Truth. The Implications of Gaudium et spes 4-10 (the Expositio introductoria) in Shaping Moral Proposals. (Excerpta) Roma 1999, 156 pp. DANKA, Sami, L’uomo immagine e somiglianza di Dio secondo Narsai di Nisibi. (Excerpta) Roma 1999, 182 pp.

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ETTIEN, Narcisse Kakou, Des exigences éthiques, préalables à un développement authentique. Réflexions à partir du cas du Sahel. (Excerpta) Roma 1999, 226 pp. FISCHETTI, Eugenio, La libertà religiosa, fondamento dei diritti umani nel Magistero di Giovanni Paolo II (1978-1995). (Excerpta) Roma 1999, 169 pp. FOLTYN, Piotr, L’uomo nel matrimonio come marito e padre secondo il magistero universale della Chiesa, 1878-1995. (Excerpta) Roma 2000, 116 pp. HERNANDEZ MEDRANO, Rodolfo, La Solidaridad como Exigencia Etica de Promocion Humana en las ONGs de Derechos Humanos en Mexico. Una Reflexion Desde la IV Conferencia del Episcopado Latinoamericano. (Excerpta) Roma 1999, 269 pp. KAITHARATHOTTIYIL, Lukose, Somatic Cell Gene Therapy. Scientific and Ethical Aspects. (Excerpta) Roma 2000, 140 pp. KANAPKA, Algirdas, L’interdipendenza tra l’amicizia cristiana e il perdono accordato ed accolto secondo l’insegnamento di Paolo VI. (Excerpta) Roma 2000, 132 pp. KARUTA, Wenceslas, La sacramentalité de la famille. Données théologiques fondamentales pour une redécouverte de l’identité de la famille. Conséquences pour la réflexion de l’Eglise. (Excerpta) Roma 1999, 143 pp. MARRONE, Domenico, Il messaggio morale cristiano nel magistero episcopale di Mons. Antonio Bello (1935-1993). Roma 2000, 251 pp. MBUMBA N., Bonaventure, La théologie politique selon J.M. Aubert. Jalons pour un engagement socio-politique du chrétien africain. (Excerpta). Roma 1999, 177 pp. MRIGHWA, Novatus Silvery, The Pastoral Diocesan Synod as an Instrument of New Evangelization and Moral Renewal. Roma 1999, 239 pp.

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NSAMBI-e-MBULA B., Jean-B., La conscience morale comme fondement de la dignité humaine dans la société congolaise. Approche contextuelle et élucidative de l’ethos négro-africain. Roma 2000, 321 pp. NTABANA, Augustine, Respect, Protection and Promotion of Fundamental Civil and Political Rights and Freedoms: A Moral Theological Study of Uganda since 1962-1999 in the Light of Some Selected Social Encyclicals. (Excerpta) Roma 2000, 148 pp. OSORIO SIERRA, Rosa Adela, Kuñaité en Abia Yala. Una Aproximación Moral a la Obra de Waman Puma. (Excerpta) Roma 1999, 76 pp. PANZETTA, Angelo, La legge naturale e la legge della grazia nel secolo XVIII. La riflessione di Pasquale Magli. (Excerpta) Martina Franca 2000, 92 pp. ROSARIO, Manuel A. G. do, Discernimento dos sinais dos tempos e consciência moral, a partir do magistério da Conferência episcopal Portuguesa (1974-1995). Porto 1999, 360 pp. SIMONE, Giannicola Maria, Lo Spirito Santo radice del rinnovamento della vita cristiana. Il contributo di Paolo VI alla svolta pneumatologica del Concilio Vaticano II. (Excerpta) Milano 2000, 144 pp. SMITH, Anthony Joseph, AIDS and the Ethics of Mercy. An Analysis of Moral Theology’s Response to the Aids Epidemic. (Excerpta). Roma 2000, 109 pp. SNIGIER, Arkadiusz, La giustizia sociale: dimensione fondamentale del mondo contemporaneo nell’insegnamento di Giovanni Paolo II degli anni 1978-1995. (Excerpta) Roma 1999, 109 pp. SUJOKO, Albertus, Personalist Method in Moral Theology. Critique and Further Development of the Thought of Louis Janssens and Bernard Häring. (Excerpta) Roma 1999, 141 pp.

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TRACY, Joseph A., The Challenge to Catholic Morality from a Postmodern Culture of Consumption: as manifested particularly in the United States of America. (Excerpta) Roma 2000, 224 pp. VALLATE, Mathew, “The Inner Voice”. A Study of Conscience in Bernard Häring and Mahatma Gandhi. (Excerpta) Roma 2000, 92 pp. VERRE, Leonardo, L’etica del risveglio nell’opera drammatica di Gabriel Marcel. (Excerpta) Rome 2000, 96 pp. WOO, Jae Myung, Genetic Privacy Balanced with the Good of the Community in the Use of Genetic Information by a Third Party: An Analysis in the Light of Catholic Moral Principles.(Excerpta) Roma 2000, 89 pp. ZAPALA, Janusz, La configurazione a Cristo Buon Pastore fondamento e fulcro della vita sacerdotale alla luce dell’esortazione post-sinodale PASTORES DABO VOBIS. (Excerpta) Roma 1999, 309 pp.

8.3. Licenza in teologia morale Nel corso dell’anno accademico 1999-2000, 47 studenti hanno ottenuto la licenza in teologia morale:

ADUSE-POKU, Joseph (Ghana - diocesi di Sunyani): “Mercy” as the Interior Form of Agape: The Moral Implications, especially in Matthew’s Gospel. BARRIONUEVO, Jorge Marcelo (Argentina - diocesi di Tucuman): Conceptos antropológicos sobre la vida humana. Análisis sobre la concepción de la vida humana en la “Declaración Universal sobre el genoma humano” a la luz de “Evangelium vitae”.

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BISHAY, Khaled Ayad (Egitto – diocesi di Sohag): Il grave difetto di discrezione di giudizio come capo d’incapacità matrimoniale secondo i CIC can. 1095 §2 – CCEO can. 118 §2 CALVARUSO, Francesco (Italia – o.f.m.conv.): Il discernimento vocazionale di sequela di Cristo nei messaggi di Giovanni Paolo II in occasione delle giornate mondiali di preghiera per le vocazioni. CEBALLOS DAVILA, Adolfo León (Colombia - diocesi di Santa Fe): La familia primera responsable de la formación del sentido moral. CISNEROS FIGUEROA, Cristobal (Messico – diocesi di Guzman): La parroquia espacio donde el cristiano discerne su vocación. COMENSOLI, Peter A. (Australia - diocesi di Wollongong): Practical Reasonableness in the Writings of John Finnis. D’AURIA, Renato (Italia – diocesi di Termoli): La formazione della coscienza degli adulti: analisi del catechismo degli adulti. “La verità vi farà liberi”. DE OLIVEIRA BARROS, Acúrcio (Brasile - diocesi di Quixada): A vocaçao da família na formaçao integral dos filhos na Diocese de Quixadá, Nordeste brasileiro. DE STEFANO, Dario (Italia – diocesi di Oria): Prudenza e comunicazione della verità morale nel ministero del confessore. DEVIA, Roberto (Colombia – s.d.b.): El sacramento de la reconciliación según la propuesta de Bernhard Häring. DIMAFILIS, Jessie (Filippine – m.c.c.j.): The Catholic Social Doctrine’s Approach on External Debt. DOMINIC, Thingshung Shang (India - diocesi di Imphal): Tolerance: Based on the Image of God in Man according to Vatican II (Gaudium et spes).

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FERNANDES, Cosme Santos (India – s.f.x.): Conjugal Love and the Scope of Marriage. Historical, Doctrinal and Future Perspectives. GOMES, Shorot Francis (Bangladesh - diocesi di Dhaka): Conjugal Love among the Bengali Christian Couples in Bangladesh: An Analysis in the light of the Church’s Teaching after Vatican II. GRUBER, Laszlo (Ungheria - diocesi di Szeged): La questione dell’omosessualità nella teologia morale cattolica postconciliare. Analisi critica e proposta pastorale. GUERRINI, Gian Pietro (Italia – diocesi di Pitigliano): L’esigenza di un’etica planetaria in Ernesto Calducci. HARMAN, Peter (U.S.A. - diocesi di Springfield): Cognitive Healing and Personal Harmony in the Sacrament of Reconciliation. INNACI, Sathian (India – o.f.m.cap.): A Study on Christian Moral Development. JOSE, Wilson (India – s.d.b.): Sacred Scripture, Moral Dilemmas and the Church in India. An analysis in the light of the instruction to the disciples in Mk 9, 33-50. JUANICH, Adolph (Filippine – o.s.a.): La famiglia alla luce della conferenza del Cairo (1994). KILPATRICK, Andrew (U.S.A. - diocesi di Scranton): The American Adolescent and the Christian Moral Life: Evangelization through Personal Dialogue. KOOVANNIL, José Paul (India – c.s.s.): Human Genome Project: An Anthropological and Ethical Analysis. LIA, Francesco (Italia – o.m.): I divorziati-risposati: Esigenza di un confronto sereno.

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LING THANG, Christopher (Myanmar - diocesi di Hakha): Freedom according to Daw Aung San Suu Kyi in the Context of Burma. MALI, Mateus (Indonesia – c.ss.r.): Option for the Poor as a Basis of Human Development in the Light of Populorum Progressio. MARI, Mitzi (Italia – a.d.m.): L’amicizia nella manualistica di teologia morale in lingua italiana (1965-1999). MARICAN NAHUELFIL, Andrés A. (Cile - diocesi di Araucaria): La Familia Formadora de la Conciencia Moral a la Luz de los Documentos del Episcopado Latinoamericano Medellín Puebla y Santo Domingo. MASSOTTI, Vincenzo (Italia - diocesi di Avezzano): Le proposte della Santa Sede alla conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo / 5-13 settembre 1994. NADEAK, Largus (Indonesia – o.f.m.cap.): Il bene vero dei malati terminali. Una riflessione sull’eutanasia alla luce dell’enciclica “Evangelium vitae”. NYASI, Julius (Nigeria - diocesi di Jalingo): Health and Sickness: A Moral Challenge for Today’s Medicine and Health Care Workers. OBIKA, Damian U. (Nigeria - diocesi di Onitsha): Friendship in Aristotle’s Nicomachean Ethics and its Influence on Christian Ethics. OTOO, James Felix K. (Ghana - diocesi di Cape Coast): Justice in Christian Moral Formation and its Particular Relevance among the Youth in Southern Ghana. PATRICK, Xavier (India - diocesi di Mysore): Man the Steward of Creation. POLISETTI, Innaiah (India - o.f.m.cap.): Moral Imagination and Christian Moral Life.

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PRONESTI, Giuseppe (Italia - diocesi di Potenza): Itinerario formativo per i giovani oggi nei discorsi di Giovanni Paolo II ai giovani. RODRIGUES, Donato (India - diocesi di Goa): The Role of the Priest as a Moral Teacher: According to Canon Law, Vatican II and Subsequent Papal Statements. RODRIGUEZ ANDRES, Félix Ramón (Spagna – f.m.s.): La propuesta “misericordiosa” de la verdad, para el crecimiento de la conciencia moral de los jóvenes, hoy. SALAS GAMEZ, Maurino (Messico - diocesi di Saltillo): El problema de los divorciados vueltos a casar. Perspectivas y discernimiento ético para la práctica pastoral. SCIUTO, Domenico (Italia - diocesi di Catania): “Sequela Crucis” e vita cristiana. Il messaggio etico-spirituale di Lucia Mangano (1896-1946). SEKO, Roman (Slovacchia - diocesi di Banska): L’opzione fondamentale come obbedienza della fede nel personalismo di Giovanni Paolo II. TAMAS, Petre (Romania – diocesi di Lugoj): Bioetica dell’infanzia. Problemi emergenti nell’ambiente romeno. TRAN, Quoc-Bao (Canada – c.ss.r.): Human Ultimate End and Christian Moral Life. VECHOOR, Dominic (India - diocesi di Palai): Human Freedom According to St. Ephrem with Special Reference to his “Hymns on Paradise”. VYSOTCHAN, Petro (Ucraina – diocesi di Ivano Frankivs): L’amore coniugale nella costituzione pastorale “Gaudium et spes”. YUSTINUS, Yustinus (Indonesia – c.m.): La moralità dello sciopero della fame. Uno studio morale sullo sciopero della fame di Gandhi dal punto di vista della morale cattolica.

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ZEIKAN, Vasilij (Ucraina - diocesi di Mukachevo): Il problema del peccato nell’opera “La colonna e il fondamento della verità” di Pavel Florenskij. DANIELLE GROS Segretaria Generale

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Álvarez Verdes, Lorenzo, Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo. Roma: Editiones Academiae Alphonsianae 2000, 544 p. Nos encontramos ante una magna obra sobre la ética del Nuevo Testamento, más concretamente sobre la ética paulina. En ella se remansa gran parte del acreditado saber que el autor ha desplegado a lo largo de varias décadas en la investigación, en la docencia, en congresos, en misceláneas y en otras formas de actuación correspondientes a su especialidad bíblica. En beneficio principalmente de los estudiosos de la Biblia y de la Teología moral, recoge ahora estudios previamente publicados, si bien “todos estos estudios han sido revisados y oportunamente actualizados” (p. 20). La amplitud cronológica de esa inicial procedencia no constituye un inconveniente sino una ventaja, ya que nos describe, en cierta medida, la historia de los intereses temáticos y de los métodos por los que ha pasado la biografía intelectual del autor. Por lo demás, los capítulos están de tal modo trabados que configuran un libro perfectamente unitario en temática, en metodología y en orientación. No soy yo competente para analizar esta obra desde el punto de vista de las ciencias bíblicas; habrá quienes lo hagan en esta misma revista o en otros ámbitos de expresión de la comunidad científica. Mi perspectiva es la de un teólogo moralista sistemático, es decir, de alguien que pretende tomar en serio la orientación del Concilio Vaticano II, al pedir que la Biblia sea “como el alma de toda la teología” (DV, 24) y, más concretamente, que la teología moral “se ali-

* Las obras están ordenadas según el orden alfabético. / The works are arranged in alphabetical order.

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mente en mayor grado con la doctrina de la Sagrada Escritura” (OT, 16). De hecho esta “lectura” desde la Teología moral sistemática no supone forzar los objetivos de la presente obra. Sin dejar de servirse del utillaje más crítico y más actual de las ciencias bíblicas, el autor mantiene una preocupación constante por lanzar puentes hacia la reflexión teológico-moral sistemática. Esta preocupación se advierte, sobre todo, en la propuesta de una hermenéutica bíblica que hable a las preguntas éticas de la situación presente (cf. p. 81). La orientación general de la presente obra se sitúa, a mi modo de ver, dentro de dos grandes opciones que constituyen, al mismo tiempo, dos grandes méritos. Por una parte, hay un dato bibliográfico impresionante por su amplitud y por el uso que de él se hace. En cada uno de los temas tratados se expone, se analiza y se pondera la bibliografía correspondiente; en esta labor, que otros abandonan por pereza o por incompetencia, se advierte una gran maestría en cuyo origen hay que situar no sólo el conocimiento de idiomas sino también la experiencia en la docencia académica de carácter internacional. Al moralista sistemático le serán de gran ayuda las lúcidas y ponderadas panorámicas que se ofrecen sobre el estado de la cuestión en determinados temas de la moral bíblica. La segunda opción se refiere a la elaboración personal de la cuestión analizada. El autor no se reduce a repetir el pensamiento de otros, sino que ofrece su propia visión; en este sentido, la obra tiene un gran potencial de carácter creativo y hace avanzar las propuestas existentes. Por lo general, en la propuesta que hace el autor pocos dejarán de reconocer una gran dosis de creatividad, de coherencia bíblica, y capacidad dialogante y transformadora en relación con la situación actual. No falta tampoco la sensibilidad hacia la causa liberadora de los más pobres. En el espacio disponible para esta recensión es imposible recoger todo el amplio contenido que ofrece la obra. Aludiré únicamente a los aspectos temáticos más sobresalientes y de mayor interés para el moralista sistemático. El libro se organiza en dos partes. La primera se refiere a la ética neotestamentaria en general y aborda, en tres capítulos, las cuestiones fundamentales del método y de la hermenéutica (pp. 23-127). La segunda analiza, a lo largo de catorce capítulos, la temática más importante de la ética paulina (pp. 129-513), dividida en tres bloques: el imperativo cristiano, la proyección social del imperativo cristiano, la soteriología cristiana en relación con la ética. La obra se completa con una conclusión general, con el índice de autores, con

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el índice de citas bíblicas y con el índice general. El conjunto resulta armónico y corresponde a las exigencias de una obra de gran calado científico. En la primera parte se ofrecen tres elementos valiosos para el conocimiento de la moral neotestamentaria y para una impostación bíblica de la moral cristiana por parte del teólogo sistemático. El primero es una visión panorámica sobre los estudios actuales acerca de la ética neotestamentaria (c. 1); el segundo consiste en una original exposición sobre la hermenéutica aplicable a la ética bíblica en el contexto de la cultura actual (c. 2); el tercero se concreta en el análisis del método sociológico en cuanto tal y de su aplicación al estudio de la ética bíblica (c. 3). Las cien apretadas páginas que componen esta primera parte pueden muy bien ser consideradas como un libro autónomo de iniciación a las cuestiones básicas de la ética bíblica. Del conjunto de la primera parte quiero resaltar algunas aportaciones que, a mi juicio, han de ser retenidas como decisivamente orientadoras para el trabajo teológico-moral de hoy. En primer lugar, es de agradecer al autor su probado convencimiento acerca de la importancia del mensaje ético de la Biblia; sin negar su carácter fundamentalmente religioso, la Sagrada Escritura es también para la ética cristiana la “norma normans” (p. 77) y, en cuanto tal, el referente decisivo para todo discurso teológico-moral. En este contexto hay que entender la afirmación de que “no debemos olvidar que el mensaje bíblico es ante todo un discurso ético” (p. 26). La consideración de la Biblia como referente normativo para la ética cristiana no cae en las tentaciones del simplismo ingenuo, del fácil concordismo y, mucho menos, del acrítico fundamentalismo. Son dignas de lectura reposada y de atenta reflexión las páginas que dedica el autor a la articulación del dato bíblico con la relectura de la tradición, una relectura que en muchas ocasiones está ya operando en el mismo texto bíblico (pp. 62-67). Esta comprensión integradora (en auténtico y no vicioso “círculo hermenéutico”) de la normatividad del texto bíblico corresponde, según acertadamente prueba el autor, a la más genuina interpretación eclesial de la Revelación y a las exigencias de la hermenéutica actual (pp. 77-78). Partiendo de los presupuestos anotados, el autor se lanza al estudio del problema hermenéutico en relación con la ética bíblica, objeto del capítulo 2. Considero estas veinte páginas como las más profundas y originales de la primera parte del libro (pp. 61-88). Para el autor “la labor hermenéutica se presenta como la coronación de los

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esfuerzos realizados en los demás niveles” (p. 87). No es posible reproducir aquí ni siquiera el esquema de esa propuesta hermenéutica; me permito indicar al lector una apretada síntesis en las pp. 8788. La aportación más decisiva del autor a la hermenéutica de la ética bíblica es haber enfatizado la importancia del “recurso a la elaboración analógico-metafórica” (pp. 81-86). Desde esa cima del proceso hermenéutico, se puede afirmar que “la Biblia ofrece algo más importante que las simples soluciones concretas (...): la Biblia proporciona el saber y el poder usar la inteligencia (noûs) renovada para poder discernir (dokimázein) lo que en cada caso concreto es exigencia de la voluntad de Dios, e. d., lo bueno y lo perfecto (Rom 12, 2; cf. 2 Cor 3, 6)” (p. 87-88). Como base de la hermenéutica está el método. El autor dedica un capítulo entero (el 3) a la exposición y valoración de los métodos de carácter sociológico. Aunque dependiente de las investigaciones de los estudiosos norteamericanos, se trata de una aportación valiosa en sí misma y también merecedora de elogio por ser de las primeras síntesis en el panorama de la exégesis europea. Los métodos sociológicos son particularmente funcionales para el estudio de determinados temas de moral neotestamentaria, en los que la relación individuogrupo adquiere una importancia especial. El autor sabe utilizarlos adecuadamente en varios capítulos de la segunda parte de la obra (cf. capítulos 11, 12 y 13). Sin embargo, no se excluye el uso de otros métodos, de los que se hace una sucinta exposición y una acertada valoración (pp. 91-95). Expresamente se afirma: “la ética del N. T. deberá arrancar de una investigación que combine en forma adecuada los métodos crítico-literarios, que permiten identificar la sucesión de estratos a nivel textual, con el método sociológico-histórico que permite avalar la sucesión ‘literaria’ con la evolución ‘sociológica’ del grupo que ha vivido, configurado y transmitido los textos del N. T.” (p. 60). El autor tampoco olvida el método estructuralista (p. 93-94), del que se sirve de forma expresa en otros capítulos de la segunda parte, al analizar el sentido ético de la “justicia” en Rom 6 (c. 8) y los modelos soteriológicos del N. T. (c. 16). Recopilando cuanto se dice sobre el método (y los métodos) a usar en la ética bíblica, el moralista sistemático tiene a su alcance la exposición y la valoración que precisa para una cuestión de tanta trascendencia como es la lectura del contenido ético presente y operante en la Sagrada Escritura. El conjunto de cuestiones básicas, a las que estamos aludiendo,

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no las trata el autor en monólogo abstracto sino en diálogo con las más conspicuas propuestas de ética bíblica que existen actualmente. También en este aspecto el moralista sistemático recibe una notable aportación, ya que puede contrastar y acrecentar su propia información con la valoración de un experto en estudios bíblicos. Es, sobre todo, en el capítulo primero (pp. 25-60) donde el autor ofrece un vasto panorama de las producciones actuales sobre ética bíblica. Para hacer la presentación de las obras, el autor utiliza dos tipos de parrilla: el criterio de la organización del material ético de la Biblia y el criterio de la hermenéutica utilizada para leer ese contenido ético; la segunda metodología es más valiosa, ya que baraja claves hermenéuticas tan importantes como: la capacidad de actualización del mensaje bíblico, la propuesta de la especificidad de la ética neotestamentaria, su dimensión cristológico-escatológica. La valoración que el autor hace de las principales obras dedicadas a la exposición de la ética neotestamentaria es iluminadora. Por ejemplo, es crítico ante la estructuración sistemática de C. Spicq y de K. H. Schelke y ante la forma de entender la posible (o imposible) actualización del mensaje bíblico propuesta por L. A. Marshall, J. L. Holden, y J. T. Sanders; sabe descubrir lo valioso de las propuestas de W. Marxen y de R. B. Hays aunque no comparte del todo el modo de comprender la ética bíblica en su conjunto; se muestra receptivo ante estudios como los de H. Halter y R. Dillmann, que se concentran sobre el análisis de la especificidad cristiana de la ética neotestamentaria; con reservas desde la perspectiva del método y de la hermenéutica, valora positivamente las obras de S. Schulz y de E. Lohse. La valoración más positiva -no podía ser de otro modo- la reciben las síntesis del protestante W. Schrage y del católico R. Schnackenburg. En la primera critica el empleo “del material de los evangelios sinópticos sin una adecuada atención a la crítica histórica” así como la debilidad hermenéutica de la ética joanea; pero “a pesar de todo, es justo reconocer que la obra de Schrage, por la densidad de contenido, la claridad de exposición y el equilibrio de sus juicios, es en la actualidad el manual más completo y mejor estructurado de la ética bíblica” (p. 49). Parecidas “debilidades” ve en el manual de R. Schnackenburg y similar alabanza le tributa en su conjunto: “nos encontramos ante una ‘ética del N. T.’ que es sin duda la más completa en el campo católico y que legítimamente se puede parangonar con la de W. Schrage. Hay en ella un inmenso material y un esfuerzo hermenéutico grande por combinar la pluralidad (de ahí el recurso al método

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histórico-crítico) con la unidad (cf. la centralidad dada al ethos del Reino y a la radicación teológica del imperativo cristiano). Este esfuerzo hermenéutico se prolonga en la voluntad de actualización del ethos del N. T. en el cuadro de la problemática moral de nuestros días” (p. 54). En la segunda parte, cuatro veces más extensa que la primera, el autor se centra en la ética paulina. No en vano el título de la obra reproduce un texto básico de Pablo (Gál 5, 25) y el subtítulo alude expresamente al “pensamiento ético de S. Pablo”. A nadie se le escapa la importancia de la ética paulina. “Entre los escritos del N. T. S. Pablo es sin duda quien nos ha dejado una exposición del mensaje cristiano más elaborada sea desde el punto de vista doctrinal que desde el de su proyección pragmática. Sin que ello signifique que el apóstol haya construido un sistema orgánico de moral” (p. 132). Llevado de este criterio, el autor no traza un esquema formal sobre la ética paulina. Sin embargo, si se descuentan los capítulos dedicados al carisma del apóstol (c. 10) y a la resurrección de Cristo (c.17), los aspectos tratados en los restantes capítulos de la segunda parte aluden a puntos esenciales de la ética paulina y pueden ser estructurados dentro de un esquema orgánico de la misma: fundamentación, categorías éticas, aplicaciones concretas. Hago unas breves alusiones a cada uno de los tres grupos. La fundamentación de la ética paulina es expuesta mediante la estructura dialéctica del binomio indicativo-imperativo (pp.131156). Desde el trabajo de tesis doctoral, el autor es un acreditado conocedor y expositor tanto de las diversas interpretaciones dadas a esta peculiaridad, lingüística y semántica, del pensamiento paulino como de la función que ella posee para fundamentar la ética cristiana. Para Pablo la ética no es algo autónomo sino la consecuencia de la transformación operada por la fe y significada mediante los ritos, singularmente el Bautismo. El tema del indicativo-imperativo (capítulo 4) es completado y desarrollado en otros dos capítulos ulteriores: sobre el sentido ético de la justicia en Rom 6 (capítulo 8) y sobre los modelos soteriológicos (capítulo 16). Quizás podría haberse pensado en una “refundición” de la temática de los tres capítulos y construir una fundamentación de la ética cristiana según Pablo. Desde esa opción se podría haber aligerado el capítulo cuarto, no adelantando (pp. 143-151) la temática que será desarrollada más adelante de forma amplia (razón, conciencia, ley de Cristo). Acabo de aludir a las tres categorías éticas que configuran, según

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Pablo, el modo de realizar el discernimiento ético cristiano. A cada una de ellas le dedica el autor un capítulo expreso. Es novedosa la elección y es original el tratamiento de la categoría de “razón humana” en cuanto criterio de discernimiento ético en Pablo (“la ley de la mente”: Rom 7, 23). Su estudio (c. 5) constituye una filigrana de análisis exegéticos combinada con referencias al mundo religioso-cultural hebreo y helenista, dando como resultado una presentación vigorosa y original del pensamiento paulino. La Teología moral sistemática no ha incorporado suficientemente esta categoría paulina, habiéndose limitado al factor del “discernimiento” (dokimázein) (factor que el autor estudia en relación con la razón o noûs: pp. 175-180). La categoría paulina de la “conciencia” ha sido asumida suficientemente por la reflexión teológico-moral sistemática, dado que existen desde hace tiempo estudios exegéticos fácilmente asequibles. No por ello deja de tener interés la síntesis que ofrece el autor en el c. 6. En este estudio son de destacar las referencias al contexto cultural en que se mueve el pensamiento de Pablo (pp. 190-195) y los análisis precisos y minuciosos de los principales textos paulinos en referencia a situaciones éticas concretas; es original la relación de la syneídesis paulina con la especificidad de la ética cristiana (p. 217-219). Como en relación al tema de la “razón” (pp. 182-184), también aquí hay un excursus sobre el tema de la “conciencia” en los escritos posteriores a Pablo (219-222). La tercera categoría ética paulina estudiada es la de la “ennomía crística” (1 Cor 9, 21) o “ley de Cristo (Gál 6, 2), un principio que expresa una doble dimensión del obrar ético cristiano: la liberación de la ley exterior y la incorporación en la forma de vida de Cristo. La exposición del tema se concreta en un análisis minucioso y lúcido de los textos citados y del contexto en que tales categorías aparecen. Del análisis el autor deduce una orientación original para el planteamiento de la ética cristiana: el “principio de flexibilidad ética” (pp. 349-351). A partir de la fundamentación en el indicativo cristiano y mediante el uso de las categorías mencionadas, el autor estudia una serie de temas morales concretos. No podemos hacer otra cosa que enumerarlos, animando a los moralistas sistemáticos a que acudan a la lectura de estos estudios para tener una exacta información sobre el pensamiento paulino en relación con: carisma y moral (c. 9), la solidaridad cristiana (c. 11), la “casa” en cuanto ámbito de valores éticos (c. 12), la ética de la familia (c. 13), indisolubilidad y divorcio en el matrimonio (c. 14), la ética de la paz (c. 15).

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A la valía del contenido de la obra recensionada hay que sumar otras cualidades formales a las que nos tiene acostumbrados el autor. Es de destacar: la claridad en la exposición, la maestría en la organización, el dominio tanto del análisis como de la síntesis; a este respecto, son de alabar los encabezamientos de los temas así como las valiosos resúmenes al final de casi todos los capítulos. Dada su prolongada permanencia en Roma, no es de extrañar la presencia de algunas expresiones un tanto “extranjeras” al léxico castellano, como “Iluminismo” en lugar de Ilustración, “avalación” en lugar de aval, “distanciación” en lugar de distanciamiento, “conglobante” en lugar de englobante, “provocatorio” en lugar de provocativo. La obra está incluida, como n. 12, en la colección de “Quaestiones Morales” que edita la Academia Alfonsiana de Roma; en este caso, la obra y la colección mutuamente se prestigian. Confiamos que la Academia Alfonsiana pueda seguir ofreciéndonos productos tan valiosos como hasta hora. Y del autor de la presente obra esperamos nuevos estudios que se mantengan y, si dado fuere, superen la alta cota alcanzada en este libro que aquí presentamos. MARCIANO VIDAL C.SS.R.

Bruch, Richard, Person und Menschenwürde. Ethik im lehrgeschichtlichen Rückblick. Münster: LIT Verlag 1998, 120 p. (Studien der Moraltheologie. Abteilung Beihefte, 3). In moral theology, as in other branches of learning, the seemingly most self-evident terms often mask a range of problems and complexities. An excellent example of this phenomenon is the term “human dignity” (Menschenwürde). It would be difficult to find a contemporary study of social ethics which does not make appeal at some point to this idea, while in official Catholic teaching it is often the conceptual corner-stone upon which ethical argument is constructed. It is therefore understandable that the term has come to be taken for granted and seems at first sight to be in no need of elucidation. Yet a host of questions arises when one tries to explain human dignity more systematically and critically: what is the basis of this dignity?, is it innate or acquired? can it be damaged or destroyed? is it universal?, is it a specifically christian conviction? what are the ethical corollaries of this belief and how do these corol-

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laries relate to other key ethical categories such as freedom, conscience, sin and virtue? The primary contribution of this collection of essays by Richard Bruch is to explore and analyze such conceptual intricacies. As the subtitle of the work indicates, he does so by narrating the evolution of the idea of human dignity in historical terms and explaining its increasingly important role in theological and ethical reflection. The historical dimension is primarily treated in the first two essays while the others take up a number of correlative themes such as natural law, the ideal of fraternity and the relationship between the natural and the supernatural. Consciously employing broad historical swoops, the first two essays explore the background, origins and development of the idea human dignity in the Bible, Stoicism, the Fathers, Scholasticism (Bernard and Thomas) and the modern period (Kant, Sailer, Schenkl and others). Bruch shows a marked ability to marshall historical detail and create a readable, synthetic version of how such a key idea develops. Given the amount of ground he covers within 50 pages, this section inevitably takes on an almost lexical quality, but thanks to a certain thematic unity never becomes tedious or superficial. The value of such an overview is that it helps one to understand that the way human dignity is understood depends very much on the broader theological, philosophical and anthropological vision of each cultural context. Thus the Patristic preoccupation with the consequences of human sinfulnes and the early 19th century “inflation” (54) of dignity both need to be understood in terms of the current cultural milieu. Within the physical limits of this work Bruch cannot attend closely to these historical circumstances, but he does manage to sketch out the play of theoretical and ideological forces which shape the understandng of each period. It would be unfair to this work, however, to see it as a merely historical narration of the evolution of ethical and theological concepts. As he tells the story of how human dignity comes to be so central to ethical thought, Bruch touches, almost en passant, upon many questions of a more fundamental and systematic nature. This is particularly true in the remaining essays in which specific themes are studied. These remain historical studies but include illuminating comment on the implications of the various positions for ethical and theological theory. In the essay on Natural Law in Thomas, for instance, Bruch is determined to refute, by means of detailed textual

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argument, any misreading which would claim that Thomas ascribed to the human being an autonomy to the point of making him\her the maker of the law, rather than the one who discovers through reason a law which is given by God. Bruch´s argument here is balanced, prudent and convincing in that he manages to recognize the legitimate creativity of human reason without being swept away by the modern enthusiasm for human autonomy. The study of the idea of fraternity provides an interesting point of comparison with the idea of dignity, not least because of the ethical implications that this idea has in different contexts, including that of Christian communities. Here again one notes the value of Bruch´s method in that it brings out the influences of such diverse historical circumstances as flourishing monasticism, the Reformation, the French revolution and socialism on a term such as fraternity. Without such historical awareness, there is a danger of assuming that the term is univocal in meaning and the product of a single culture. While thematically the last essay on the relationship between the natural and supernatural is something of an appendix, it is both in itself informative and stimulating, and has at least a tangential relevance to the central theme of human dignity in an ethical and theological perspective. From the point of view of moral theology the main interest of this work lies in the way in which it manages to elucidate the idea of human dignity (the idea of person is not explicitly treated in any detail) through a conscise presentation of historical sources, some of which are not well known. The overall effect is to understand better the way in which the idea of human dignity is tied into other ethical ideas. The book ends rather abruptly with the essay on the natural and the supernatural. A general conclusion which attempted to incorporate the main results of the historical studies for moral theology would have been appreciated. Indeed, these essays are so stimulating and the argument so topical that the theme merits a more monographical study - Bruch´s historical knowledge and theological competence undoubtedly equip him admiraby for such an undertaking. MARTIN MCKEEVER C.Ss.R.

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Carlotti, Paolo, Etica cristiana, società ed economia. Roma: LAS 2000, 169 p. (Biblioteca di Scienze Religiose, 158). Those not professionally engaged in the sector of theology usually referred to as “the social doctrine of the Church” sometimes cast a jealous eye in the direction of those who are. The reason lies in the abundance of Magisterial documentation in this sector, some of a notable quality. The presumption is that it must be “easy” to teach in this sector: rich sources, solid teaching and little public controversy compared to other theological areas. CARLOTTI’S recent book is a reminder that the impression is deceptive. In the book one finds various nomenclatures for this theological sector: besides “the social doctrine of the Church”, he refers to “Christian ethics of the economic life”, “social ethics” and “catholic social teaching”. In a recent survey on the teaching of the social doctrine of the Church in Europe one finds the rather astounding figure of 46 different titles given in various Universities to courses in this general area (Atti del Convegno su L’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa in Europa, Città del Vaticano, 1997. Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblicazione gratuita, 1998, at 37). CARLOTTI’S work is best interpreted against this background. The book has three sections: Christian ethics and society in two chapters, Christian ethics and the economy in two chapters, and some specific themes, again in two chapters. The material is not new, being a re-working of previously published essays. Despite the disparate origin of the chapters the book coheres well, mainly due to a consistency of methodology. CARLOTTI outlines this at 10: starting from empirical facts, he tries to draw out the moral significance of these facts before giving a theological evaluation. This method is most clear in Chapter One when he analyses the sociological theory of Peter Berger (15-38) and in Chapter Four in his analysis of the world of finance (95-119). CARLOTTI, by following a consistent methodology, takes seriously the challenge first articulated by the Magisterium in Solicitudo rei socialis, 41 and repeated in Centesimus annus, 55 and Evangelium vitae, 10: catholic social doctrine belongs to the science of theology, and particularly that of moral theology. This, indeed, is the theme specifically treated in Chapter 5 (127-139). But what does such a formal affirmation mean and why was it necessary to re-iterate a rather obvious fact? The answers lie in the developments since 1891. The manualists persisted with a tract on

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De iustitia et iure while the Magisterium, with varying success, addressed concrete historical social questions: the method of the manualists continued along an abstracted casuistic track, while the Magisterial method became increasingly practico-historical. The result, in rather crude terms, was a Magisterial body of teaching that had no clear theological locus and a manualist corpus of norms that had little relevance to the res novae. CARLOTTI does not claim to have solved this problem as it remains “un compito da svolgere” (139). His effort is nonetheless noteworthy, not so much for its originality, but for a consistent effort to set the parameters of a solution. Clearly, everything depends on what one means by ‘theology’ or ‘moral theology’ if one is going to say that catholic social doctrine belongs to these disciplines. Returning to the methodology employed (noted in paragraph two above) I would highlight the following points as the central ones in CARLOTTI’S effort to establish catholic social doctrine as part of (moral) theology. The most obvious factor is his insistence on the anthropological question as the fundamental one (confer 65, 83, 93, 145). I understand CARLOTTI to mean this in a precise way. Given that his methodology starts with empirical facts, he consistently points out how some of these undeniable facts (pluralism, a post-industrial society, the ecumenical imperative) force the contemporary human person to reassess what it means to be a responsible agent in a ‘new’ type of society. From this empirically-based anthropology follows a second point, linked to the second point of his general methodology (see, again, paragraph two above). The cognitive implications of a contemporary anthropology demand a fresh epistemological way of defining morality: historically conscious (40), committed to social tolerance (57), respectful of the autonomy of sciences like economics while retaining a skepticism about their method of arguing through instrumental reason (94 and following) and, in the most general of terms, favouring an ethics of responsibility (46). The theological interpretation of these anthropological and epistemological data is a restatement of the systematic and christological points familiar to us from the Encyclicals of Pope John Paul II. This book marks an advance in the theological discussion of the relationship between christian ethics, society and economy. Too many books of this genre are little more than popularised versions of what is already known from Papal Encyclicals. It is to the merit of CARLOTTI that he identifies the problem as one of theological method

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rather than the more limited one of interpreting magisterial documents in isolation. His range of reading is impressive (ABBÀ, FUCHS, J. AND E., HABERMAS, LÉVINAS, MACINTYRE, MARITAIN, RAWLS, RICOEUR, TAYLOR, SEN AMARTYA, TOSO, WEBER etc.) and well integrated into the text. The question remains, however: is the method employed in this book the one that will solve the question of the theological status of catholic social doctrine? I am not so convinced. Re-reading a classic like H. DE LUBAC’S Catholicism – A Study of Dogma in Relation to the Corporate Destiny of Mankind (English Edition, 1950) makes me cautious about the apparently empirical starting point of CARLOTTI’S methodology. I would prefer the following steps in establishing the theological nature of catholic social doctrine: (a) the historical nature of Christianity, (b) the worldly dimension of the Church, (c) the autonomy of the human sciences and (d) the call to responsible discipleship in society as the task of the Christian. That is certainly not DE LUBAC’S scheme, nor is it meant to be a programme for immediate study. It is a generic idea and it is due to the work of CARLOTTI, innovative without being a breakthrough book, that one can begin to imagine such future steps. RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.

Colom, E., Rodríguez Luño, Angel, Scelti in Cristo per essere santi. Elementi di Teologia Morale Fondamentale. Roma: Apollinare Studi 1999, 396 p. (Sussidi di Teologia). Le noyau dur du présent ouvrage est de démontrer comment la régénération ontologique de l’homme dans le Christ (1e partie) se manifeste moralement comme un passage des vices aux vertus chrétiennes. Tandis que le fondement de cette régénération (perçue, dans la ligne de l’ouvrage, comme “possession initiale des vertus théologales et des vertus morales infuses”) reste, à mon sens, sous-développé (j’y reviendrai), “le passage des vices aux vertus” est étudié à fond. D’allégeance thomiste explicitement déclarée (p. 317), les auteurs passent au fil d’une analyse précise comme une opération de chirurgien tout ce qui a trait à l’agir moral vertueux ouvert sur la béatitude constitutif de la réponse à l’appel de Dieu à la sainteté inscrit dans l’identification au Christ. Ils s’arrêtent d’abord aux conditions

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de possibilité de cette réponse, les “principes (d’action) naturels et surnaturels” qui recouvrent pratiquement l’anthropologie morale comprenant tour à tour la nature, la structure et l’évaluation de l’action morale, les passions et les sentiments, les vertus morales et les dons de l’Esprit-Saint, la liberté chrétienne et la grâce (2e partie). Ils parlent ensuite des “points de référence normatifs” qui balisent cette réponse comme la loi (conçue dans le contexte de la doctrine des vertus), la conscience morale, la conversion inversion du péché (3e partie). On doit savoir gré aux auteurs d’avoir passé en revue des données classiques de la morale fondamentale en les purifiant de toutes les excroissances au nom de l’essentiel et en les mettant à jour, compte tenu des récentes interventions du Magistère, du progrès de la réflexion théologique et des sensibilités nouvelles de notre temps. Il résulte de tout cela que les étudiants pour qui ce livre-manuel a été d’abord écrit pourront en tirer profit. Mais jusqu’à un certain point. En effet, ni les interventions du Magistère, ni les progrès de la théologie, ni les sensibilités du monde présent n’ont été compris à fond et organiquement intégrés. Je me réfère ici particulièrement à la conception que les auteurs se font de la personne du Christ et du rôle qu’ils lui attribuent dans la définition de l’homme sujet de l’agir moral. En dernière analyse, ce n’est pas d’abord la personne de Jésus en son mystère pascal qui détermine leurs réflexions sur l’identité de l’homme (cf. GS 22, 1), mais la philosophie grecque christianisée par la suite par l’ajout de données évangéliques. J’illustre ma pensée avec un exemple choisi parmi bien d’autres. La tension vers la fin ultime donnant sur le bonheur ne relève pas pour le théologien chrétien du constat de l’existence d’une telle tension dans les facultés humaines, mais du fait que l’homme est créé par le Christ Oméga qui l’attire vers lui comme à sa perfection. Si la tension issue de cette attraction christique ne s’oppose pas aux observations du philosophe (le surnaturel ne nie pas la nature), elle les dépasse en dévoilant le pourquoi définitif de cette tension et en la revêtant d’une consistance nouvelle qui a son impact sur la théologie morale. À partir d’elle en effet, comment concevoir les traits essentiels de la morale chrétienne comme une performance de l’homme ordonnée à son accomplissement béatifiant? En régime chrétien, la réalisation ou la gloire de l’homme, c’est de disparaître devant Dieu, entendons de faire briller dans le monde la gloire du Père qui resplendit sur la face du Fils mort et ressuscité (cf. 2 Co 3, 18; 4, 4; Mt 5, 14-16; Ph 2, 15; etc). C’est grâce à

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cette priorité donnée à Dieu que l’homme se trouve et qu’il devient capable d’attirer l’attention de l’homme post-moderne (→ la “nouvelle évangélisation”) fatigué de ses performances qui génèrent l’ennui et le scepticisme. Qu’on n’aille pas me rabâcher que de telles réflexions et d’autres semblables dont témoignent des milliers de pages écrites récemment par des moralistes de pointe n’appartiennent pas à la théologie morale. On pourrait penser que c’est l’avis des auteurs de cet ouvrage puisque l’essentiel de la contribution de ces théologiens brille par son absence (pour un contrôle rapide, voir la liste des auteurs cités). Si c’était vraiment le cas, il faudrait le déplorer. A la fin de l’introduction de leur ouvrage, les auteurs écrivent: “Ci auguriamo che la nostra fatica possa essere di qualche utilità per i lettori, e che i suggerimenti e le giuste critiche dei colleghi ci consentano di migliorare ulteriormente il servizio che con questo libro abbiamo inteso offrire” (p. 8). C’est dans l’esprit souhaité par ces auteurs qu’est formulée ma critique. Espérons qu’elle sera comprise comme telle et qu’elle contribuera à conférer à cet ouvrage éventuellement refondu un visage plus profondément christique et, par là, plus interpellant pour l’homme d’aujourd’hui plus que jamais assoiffé de “Vérité”. RÉAL TREMBLAY C.SS.R.

Doglio, Claudio (a cura di), Cristo Omega e Alfa. Genova: Marietti S.p.A. 1999, 492 p. (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Sezione di Genova). Con ocasión del Jubileo del 2000 un grupo de Profesores de la Facultad Teológica de Italia Septentrional (sección de Génova) ha abordado diversos aspectos de la persona de Cristo, que le configuran como principio (alfa) y como fin, sentido y meta (omega) para el hombre de nuestro tiempo. La acentuación de este segundo aspecto es lo que ha movido al editor a invertir los términos de la expresión apocalíptica, dando al libro el título de Cristo omega y alfa. Aunque la obra no ofrezca una estructuración formal de carácter general, los artículos se van sucediendo siguiendo un hilo bastante lógico. Se parte, del Antiguo Testamento, con un estudio de Roberto Fornara sobre el concepto de lo “nuevo” (17-66), y otro de

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Sandro P. Carbone sobre la proyección escatológico-mesiánica del libro de Job (67-91). En el marco del N.T., Claudio Doglio aborda el estudio de la Apocalipsis de S. Juan, que el autor entiende más que como descripción del tiempo final, como profecía cristiana sobre el sentido de la vida (91-140). Sigue un estudio de Ruggero Dalla Mutta sobre la presencia de la fórmula “Cristo alfa y omega” en el uso litúrgico (142-152). Giuseppe Cavalli, por su parte, estudia la importante aportación de la Patrística a la reflexión teológico-pastoral sobre la centralidad de Cristo en la vida del cristiano (153-194). Toman a continuación la palabra los representantes de la reflexión teológica. Francesco Moraglia estudia la figura de Cristo como centro y clave hermenéutica de la historia (195-230). Giuseppe Torre, siguiendo las huellas de la evolución de la fe y de la reflexión teológica de las primeras comunidades cristianas, pone de relieve la línea ascendente de la cristología: de la experiencia del Cristo resucitado, mediador único de los hombres, se habría llegado a la contemplación de Cristo como centro de la creación. Cristo es la meta porque ha sido el principio (231-276). El estudio de Giuseppe Noberasco (277-324), de corte filosófico, toma como punto de referencia la escatología del novecientos. Es una excelente aportación al esclarecimiento de la dimensión histórica de la revelación de la verdad de Dios en Cristo. Siguen otros cuatro artículos que estudian la centralidad de Cristo en diversos ámbitos concretos: en la eclesiología (Gianfranco Calabrese, p. 325-390), en la moral (Angelo Bellon, 391-430), en el estudio de la sexualidad (Marco Doldi, (p. 431-470), y en la ciencia canónica (Guido Marini, p. 471-490). En el momento de valorar la obra desde un punto de vista científico, nos encontramos con la lógica dificultad que nace de la pluralidad de autores y de temas tratados. Queremos resaltar el interés que en la línea del argumento general del libro representan algunos estudios, como el de G. Torre, en el que se pone de relieve la interrelación entre soteriología y protología. Nos parece muy acertada la distinción entre el nivel “genético-gnoseológico” y el orden “históricoontológico”.(231ss.), que permite estructurar una cristología “ascendente” sin renunciar a un discurso intratrinitario. Para el autor, ambos niveles se reclaman y se complementan. A nivel de “discurso” juzgamos bíblicamente fundada tal complementariedad. Queda, sin embargo, sin tratar en forma adecuada en qué grado el nivel del discurso (especialmente el bíblico) permite identificar una precisa ontología. Creemos, por ejemplo, que las expresiones cristológicas

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paulinas dejen un espacio muy amplio para la discusión en este campo. De ahí la necesaria cautela ante ciertas expresiones que no tienen suficientemente en cuenta esta distinción de niveles, como cuando el autor considera la elevación de Cristo en la resurrección como simple “retorno” a su posición ontológico-protológica: “Il centro del nostro discorso è che il Crocifisso Risorto nel pervenire alla sua altissima elevazione postpasquale, in realtà è ritornato alla gloria che aveva da sempre presso il Padre” (p. 246). Tal idea de “retorno” creemos cuadre poco con el texto clásico paulino de Rom 1-4. Otra colaboración que nos ha parecido excelente es la de G. Noberasco (Gesù Cristo e la verità dell’uomo). El autor sitúa el centro del problema de la escatología en la correcta combinación de historicidad y definitividad (323). Antes de exponer su interpretación del problema, hace un análisis detenido de las dos propuestas teológicas que han despertado mayor interés en los últimos tiempos: la teología de la esperanza de J. Moltmann (con su correspondiente crítica de la explicación barthiana) y la escatología de E. Jüngel. En la explicación moltmaniana, el autor pone de relieve la incapacidad de la misma para valorar la historia en cuanto tal y, por tanto, el carácter verdaderamente revelador del presente, por cuanto éste, según Moltmann, adquiere su valor salvífico solamente del futuro, con el cual la historia presente estaría en una necesaria tensión dialéctica. De aquí se deduciría la dimensión esencialmente ética de la escatología: el “eschaton” indicaría al hombre el sentido que debe imponer a su transformación de la historia (292). Tal explicación, en opinión de G. Noberasco, pondría de relieve la dimensión negativa de la historia (a través de la categoría de incompletez: mancanza) sin lograr explicar el empeño de verdad que todo instante de la historia comporta (294). De la explicación de Jüngel, Noberasco acepta la validez de su crítica tanto a la teología de Barth como a la de Moltmann, autores que según Jüngel terminarían por caer en las mismas reducciones. Así, no obstante, el contraste aparente, ambos coincidirían en privilegiar la “realidad” sobre la “posibilidad” (en el caso de Moltmann, el aun-no sería de hecho un aun-no de realidad (298), que, en definitiva, llegará a ser tal por la acción del hombre desde la historia (299). Esta última circunstancia pone en entredicho la dimensión teológica de la esperanza. Para evitar cualquiere tipo de reducción practicista de la escatología, Jüngel retoma la doctrina de la creación: es Dios mismo quien desde el principio salva a la creación de la “nada” y la llena de “posibilidad” (300). Dios es plenitud de

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la historia no sólo en cuanto anuncio de algo meramente futuro, sino en cuanto permite al hombre asumir integralmente el proyecto de su vida, preservándola, ya desde “ahora” de la amenza de la nada (302). Esta sería, según Jüngel, la auténtica interpretación de la presencia ya operativa del Reino, cuya dinámica escatológica habría encontrado la expresión máxima en la resurrección de Jesús (superación real y presente de la angustia de la muerte). Al presentar el evento escatológico como algo que se ha realizado verdaderamente en la historia, Jüngel proclama, frente a Moltman y frente al dualismo de la metafísica, la positividad y la unidad de la historia. La tesis de Noberasco retoma algunos elementos de la propuesta de Jüngel, como el de la positividad de la historia entendida como “posibilidad”, pero trata de corregir el aspecto de “pasividad” y de “exterioridad” con que el sujeto histórico quedaría frente a la gratuidad de la oferta divina. La pasividad y la pertinente interrupción de la historia, introducidas por la irrupción del evento escatológico, más que proclamar la irrelevancia del proyecto humano, pondrían de manifiesto su verdad definitiva y su trascendente unidad (320). Los restantes estudios ofrecen también numerosos puntos de interés. En algunos casos, sin embargo, hubiera sido de desear un tratamiento más nuclear del argumento, como en el caso de “la belleza moral de Cristo como principio inspirador de la moral cristiana” (391ss.). Creo que S. Pablo, por ejemplo, ofrezca elementos mucho más importantes sobre el tema. Algo semejante pudiéramos decir de la presentación de la Iglesia bajo el lema ”tra il seme e l’albero” (325ss.). En otros casos, hubiéramos deseado un más amplio recurso a la bibliografía científica existente, como en el caso del estudio de lo “nuevo” en el A.T. (17-66) o de la “actividad legislativa de Jesús” (471-490). Tornando a la reflexión inicial, no es fácil una valoración unitaria de una obra compleja, como la presente, como tampoco es fácil al editor, en el momento de emprender su edición, poder contar con aportaciones del mismo calado científico. En todo caso, creemos que la publicación de la obra ha sido un proyecto meritorio, ya que en él se han podido dar cita estudios que, desde diversas angulaciones, ayudan al hombre de hoy a comprender la centralidad de la figura de Cristo LORENZO ALVAREZ VERDES

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Durrwell, François-Xavier, Aux sources de l’apostolat. L’apôtre et l’eucharistie. Paris/Montréal: Médiapaul 1999, 102 p. (Thabor). Dans le présent opuscule, l’auteur nous propose une réflexion approfondie sur les rapports de l’apostolat à l’eucharistie qui vient combler un vide laissé dans son ouvrage Le mystère pascal source de l’apostolat (1970). Qui connaît bien la pensée durrwellienne y trouvera peu de nouveautés. L’auteur y reprend à toute fin pratique quelques thèses majeures formulées et développées surtout en ses derniers grands ouvrages pour expliciter et illustrer des intuitions sur le binôme en cause déjà présentes, pour la plupart, en son livre désormais classique: L’Eucharistie, sacrement pascal. Ce constat n’entend pas mettre en cause la densité théologique et spirituelle de ce petit livre. Car qui le lira avec attention y trouvera à coup sûr une nourriture abondante et stimulante pour l’intelligence et le cœur. De ce point de vue, le P. Durrwell a eu raison de nous offrir ce fruit mûr de sa mission de théologien de la résurrection, fruit particulièrement de saison en cette année jubilaire consacrée à la contemplation de la présence du Kyrios par le truchement de cette sublime “invention” de son amour pro nobis qu’est l’Eucharistie. RÉAL TREMBLAY C.SS.R.

Dwyer, Judith A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints in the Catholic Tradition. Washington, D. C.: Georgetown University Press 2000, xiv + 210 p. This book is a collection of ten essays that seek to “…demonstrate both the richness and the vitality of the Catholic theological tradition.” (p. vii). Six of its authors are professors of Villanova University who have contributed to the renewed emphasis on ethics in that university’s undergraduate curriculum. The other four are Catholic theologians from other universities who offer promising perspectives on the way that future ethical reflection within the Catholic tradition should go. As the editor states in her general Introduction, “[t]he text… deliberately attempts to present not only foundational issues but also the practical implications of analyzing contemporary issues from the vision and values embraced by the Catholic community” (p. vii). The essays are well-written and well-

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researched. Taken together, they succeed in demonstrating the variety of ethical viewpoints that need to be taken into account in any in-depth discussion of the Catholic tradition. The contributions also cover a wide range of topics. In chapter one (“Scriptural Sources,” pp. 1-25), Paul Danove examines the strengths and weaknesses of the fundamentalist and historical critical approaches to Biblical interpretation. In chapter two (“Christian Anthropology and Ethics,” pp. 27-51), Michael J. Scanlon examines the ethical implications of the various understandings of human existence in the Christian tradition and discusses their relevance for the postmodern era. In chapter three (“Turn to the Heavens and the Earth: Retrieval of the Cosmos in Theology,” pp. 53-69), Elizabeth A. Johnson discusses the need for a “cosmological turn” in North American theology and its need for the intellectual and moral integrity of theology. In chapter four (“Reverence for Human Life,” pp. 71-98), James J. McCartney examines the key principles that have guided the Catholic tradition in its reverence for human life in all of its dimensions: the biological, psychosocial, ethical, and spiritual. In chapter five (“The Prophetic Role of Feminist Bioethics,” pp. 100-12), Marie J. Giblin criticizes current approaches to bioethics, outlines six characteristics of a feminist approach, and proposes two tasks for future developments in the field. In chapter six (“Sexuality and Intimacy,” pp. 113-28), William Werpehowski points out the strengths and weaknesses of both the “traditional” and the “revisionist” understandings of marital love, sexuality, and reproduction. In chapter seven (“Responsibilities Within the Family,” pp. 129-47), SarahVaughan Brakman discusses the role of the family in the Christian tradition with special emphasis on the responsibilities and obligations that adult children have toward their parents. In chapter eight (“The Evolving Teaching on Peace Within Roman Catholic Hierarchical Thought,” pp. 149-61), Judith A. Dwyer examines the development of Roman Catholic magisterial thought on the concept of peace in the modern world. In chapter nine (“The Dignity of Work and Economic Concerns,” pp. 163-78), Sally J. Scholz articulates a Christian ethical stance on the nature, rights, and obligations that pertain to the issue of work. In chapter ten (“Is Tolerance Enough? The Catholic University and the Common Good,” pp. 179-95), David J. Hollenbach argues that the Catholic university must not “tolerate” the cultural pluralism of the postmodern era, but engage it with an intellectual and social solidarity rooted in a concern for justice and the common good.

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Taken together, the essays are engaging and live up to a high scholarly standard. The editor has done an excellent job in bringing together Catholic scholars from a variety of disciplines who have reflected seriously on the ethical implications of their work and their relevance for the Catholic moral theological and philosophical tradition. The book’s greatest strengths are its capacity to emphasize the great amount of diversity within the Catholic moral tradition and its implicit plea that such diversity can be critically engaged to provide creative solutions to the problems facing us today. Its greatest weakness lies in the lack of a unifying thematic thread that would tie one article to another and allow for summary findings at the end. Although some may say that such a weakness is endemic to scholarly collections of this sort, this reviewer holds that the volume would have been greatly improved if the editor had found someone to provide a strong concluding essay that critically discussed the findings of the previous authors. In doing, so the volume might have succeeded not only in uncovering a variety of ethical viewpoints within the Catholic tradition, but also in examining how they interacted with one another on a wide range of issues. This criticism aside, the book is a valuable contribution to the study of the Catholic moral tradition. It is rare to find so many essays of high philosophical and theological quality in a single volume. DENNIS J. BILLY, C.SS.R.

Fabri Dos Anjos, Márcio, (organizador), Teologia aberta ao futur. Sâo Paulo (Brasil): Publicaçôes Soter-Loyola 1997, 261 p. La obra Teologia aberta ao futur, cuya introducción hace Márcio Fabri Dos Anjos, reune la participación de 15 colaboraciones de autores diversos que en su momento fueron relaciones presentadas en el congreso organizado por SOTER (Sociedade de Teologia e Ciências da Religião) en torno al tema “Teología e Novos Paradigmas” (8-12 Julio, 1996). A los autores de las distintas colaboraciones les fueron planteadas tres cuestiones: 1. Ia emergencia de nuevos paradigmas en las ciencias, 2. Ia emergencia de nuevos paradigmas en teología y 3. Ia práctica de la teología con unos nuevos paradigmas. Estas colaboraciones, en general son breves, 10 a 20 pp. y alguna cubre más de 30.

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Tres de los primeros temas, que se centran sobre ‘paradigma y epistemología’ (pp. 21-97), fueron expuestos por M. Araújo de Oliveira, H. Assmann y E. R. Cruz, respectivamente. Otros dos estudios asumen, por caminos distintos, el tema de la relación entre la convicción profunda de la fe y la experiencia religiosa de nuestra vida, a cargo de M. C. Bingemer y L. C. Susin “Os desafíos dos novos paradigmas para a prática teológica”, tema desarrollado por Antonio J. de Almeida, propone dos aspectos: la exigencia de la teología de acompañar a la iglesia en la misión de construir la justicia y la paz y el desafío del quehacer teológico que hace frente a una diversidad de cuestiones y modalidades de la teología. La línea de reflexión llevada adelante por la mujer es hoy manifestación patente del intento de buscar nuevos paradigmas. En esta dirección Teologia aberta ao futur recoge dos colaboraciones: una de Luisa Tomita sobre “a teologia feminista no contexto de novos paradigmas” y otra de Margarida Brandâo sobre “Género e experiência das mulheres”. Benedito Ferraro en “Teologia en tempos de crise” se pone delante una serie de interrogantes que plantea la crisis a la práctica teológica y al quehacer teológico. José Comblin en “Notas sobre as tarefas de una teologia da libertaçâo no final do século XX” se pregunta por los paradigmas de una teología de la liberación. Hugo Assmann con “Um ponto cego do pensamento cristâo?” recoge las críticas de los ecologistas y el impacto que éstas hacen en el campo eclesial y teológico. Los dos últimos ensayos, de Antonio Moser y de Alfonso García Rubio, respectivamente, nos proponen una visión de conjunto sobre la incidencia de los nuevos paradigmas en el quehacer teológico. En el fondo de todas las contribuciones está latente, sea implícita o explícitamente, el tema de los nuevos paradigmas, pues la teología que está en crisis busca otro u otros paradigmas para expresarse en esta nueva época, porque el paradigma tradicional de que se sirvió no tiene validez hoy. De ahí que Carlos Palacio haga referencia a “o fim de una era teologica” (p. 89) que no es otra que “essa longa convivência da teologia com a razâo ocidental”. Pero esto no significa que la alternativa sea el abandono de la razón, sino que también la teología debe hacer su propia autocrítica; dicho de otro modo: la razón teológica debe demostrar qué es la razón y qué es la teología, o sea, que es un saber sensato, y por tanto que es racional; ni puro sentimiento ni mera experiencia ciega.

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Un elemento que está contribuyendo al cambio de paradigma es la participación de la mujer en el campo teológico; de aquí se deduce que una nueva teología no se hará sin el diálogo fecundo entre hombres y mujeres (p. 164). La teología deberá liberarse de los paradigmas tradicionales. A ello apuntan las varias colaboraciones que señalan cómo el diálogo con las ciencias humanas constituya un verdadero desafío para la teología si ésta quiere ser considerada como ciencia, si quiere tener un puesto significativo entre las ciencias y si quiere dar a éstas una contribución válida para el momento presente y para el futuro. Se trata entonces de buscar el paradigma válido para hacer teología hoy, para que así pueda cumplir mejor su tarea. El término ‘paradigma’ sustituye hoy el de método, patrón, tendencia, orientación o modelo. Los diversos colaboradores de Teologia aberta ao futur apuntan en la dirección de subrayar la necesidad de un nuevo esquema en el campo de la teología, simple u ontológico, histórico o complejo, unos y otros comportan sus respectivos límites. Moser alude a un paradigma ‘holístico’ que, como lo indica el vocablo, pretende sugerir una cosmovisión que abraza diversas realidades (p. 217) y que tiene la ventaja de ser flexible y abierto, y de integrar los paradigmas anteriores. “O paradigma da teologia da libertação” es el que aparece aplicado con preferencia particular por dos razones: los teólogos expositores son brasileños y la teología de la liberación tuvo allí su origen (p. 224). Las notas de pié de página revelan que en su gran mayoría la literatura de base es brasileña. De todas las contribuciones, las que más directamente tocan el tema del paradigma en teología, son las de Antonio Moser y Carlos Palacio. Teologia aberta ao futur se cierra con la reflexión de Alfonso García Rubio, “Prática da teologia em novos paradigmas”, la más extensa de todas (pp. 223-261) que integra el aporte de las demás en una cosmovisión única. En la medida en que la teología trabaje con un paradigma englobante necesitará cada vez más la ayuda de las ciencias con las que el teólogo no estaba familiarizado. Teologia aberta ao futur no es fácil de comprender a una primera lectura a causa de las categorías técnicas que emplea. Es a partir de la última colaboración - “Práctica da teologia em novos paradigmas” - como se puede entender mejor. Su lectura puede recomendarse a personas de un nivel académico suficiente que capacite para estar a la altura de un lenguaje interdisciplinar. De otra parte, esta obra toca

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un tema que está hoy en el centro de la reflexión teológica por lo que se refiere a la categoría de ‘paradigma’, que la literatura teológica actual está interesada en exponer, profundizar y aprovechar. J. SILVIO BOTERO GIRALDO, CSSR.

Frattallone, Raimondo, L’educazione sessuale. Interrogativi e risposte alle domande di senso sull’amore. Messina: Istituto Teologico S. Tommaso 1999, 254 p. (Cultura e vita 3). Tra i tanti libri riguardanti l’educazione sessuale, questo nuovo testo si ritaglia uno spazio preciso e significativo. Incrociando gli interrogativi, anche più duri, che salgono dalla realtà quotidiana, con la proposta chiara e articolata dei significati e dei valori, che sono in gioco, riesce a delineare una proposta pedagogica globale. In essa i dati delle scienze umane sono messi costantemente in rapporto con le prospettive della fede cristiana, in una visione dinamica e costruttiva, che insiste sulla «pienezza di significato». L’ampia bibliografia, riportata al termine e arricchita con alcune note orientative nei riguardi dei testi ritenuti più importanti, dà ulteriore valore a un testo che è già prezioso per il procedere chiaro. Mirando a tracciare un approccio organico, il libro si sofferma innanzitutto su «la natura, gli obiettivi e le modalità principali dell’educazione morale» (parte I). La prospettiva è quella personalistica che si propone di «formare l’educando alla piena espansione della sua libertà e alla capacità di instaurare relazioni interpersonali che maturino la condivisione di valori autenticamente umani» e opta per il metodo del «dialogo educativo e progressivo» (p. 73). Alla luce dell’unità del processo formativo, si approfondiscono poi le dimensioni specifiche di quella sessuale (parte II): a livello sia di contenuti (valori, atteggiamenti etici, comportamenti, norme) sia di modalità (silenzio, ingiunzione normativa, istruzione). L’insistenza è sulla necessità di un progetto educativo organico che sappia comporre «istruzione intellettuale graduale», «allenamento della volontà» e «verifica dei risultati ottenuti» (p. 103). Questa visione globale viene ulteriormente specificata alla luce delle sfide della cultura odierna (parte III). Accanto ai fattori di crisi (rivoluzione sessuale degli anni Sessanta-Settanta, desacralizzazio-

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ne, perdita di senso), si pone in risalto lo sforzo per una ricomprensione personalista, a livello sia educativo che teologico. Si arriva così al cuore della proposta educativa del libro (parte IV: «Le tappe ideali dell’educazione sessuale»). Vengono sottolineate tre tappe fondamentali: quella della «identità sessuale individuale», quella della «identità sessuale espressa nel rapporto interpersonale io-tu» e quella «in cui l’identità sessuale si proietta verso il noi». Per ognuna di queste tappe si approfondiscono gli interventi educativi per quanto concerne sia le forme normali di espressione dell’identità sessuale, sia le manifestazioni non normali della stessa. Senza mai perdere di vista le prospettive fondamentali e ispirative, il discorso acquista, in questa parte, quella ulteriore concretezza che è indispensabile a chi vuole effettivamente aiutare gli educatori. L’ultima parte del libro è dedicata agli agenti dell’educazione sessuale, sottolineando il ruolo della famiglia, della scuola e della comunità ecclesiale, ma ricordando al tempo stesso l’importanza dei «pari» e il compito della società civile. Si tratta di un testo che riesce a tracciare un quadro corretto e informato delle diverse problematiche. Soprattutto però è un testo che invita a riflettere con chiarezza metodologica. La capacità dell’autore di portare il discorso a livello pratico, senza mai perdere la preoccupazione per la corretta impostazione fondamentale, ne fa un valido strumento a livello non solo di studio organico, ma anche di impegno formativo concreto. S. MAJORANO C.SS.R.

Gerardi, Renzo, Alla sequela di Gesù. Etica della beatitudini, doni dello Spirito, virtù. Bologna: Centro editoriale dehoniano 1998, 161 p. La vita morale dell’uomo, come quella spirituale, è “camminare nella legge del Signore”. Allora “beato l’uomo di integra condotta”, che “si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte” e “trova grande gioia nei suoi comandamenti”. Ma le “beatitudini” della Prima Alleanza – secondo R.Gerardi – “non si preoccupano tanto di descrivere la felicità cui si richiamano” perché “la loro attenzione è attratta piuttosto dalle vie che conducono a questa felicità”. Gerardi sollevando la sua riflessione sulla vita morale e spiri-

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tuale del cristiano, uomo della Nuova Alleanza, (da qui il titolo Alla sequela di Gesù), ha voluto “collegare insieme beatitudini, virtù, doni dello Spirto Santo, grazia di Dio nella nuova legge” (da qui il sottotitolo Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù) come gioiosa risposta alla chiamata di Gesù, modello e maestro (Introduzione). Nel capitolo I R.Gerardi elabora e presenta una base metodologico-dottrinale della sequela di Gesù in chiave di “via-camminare”. Gesù Cristo non soltanto illumina e completa la Prima Alleanza espressa nel decalogo, ma soprattutto rivela la piena dignità umana e la perfezione alla quale l’uomo è chiamato. Nel suo donarsi fino alla croce, Gesù insegna la via del dono totale di sé, come l’unica via per comprendersi e realizzarsi. Seguire Gesù Cristo non consiste solo nel riconoscerlo come modello da imitare, oppure come maestro del quale si ammirano gli insegnamenti morali, ma nel sapere che egli ci chiede di condividere la sua vita, fino alla identificazione con lui. Il cristiano, attraverso il battesimo, è configurato a Cristo nel Mistero Pasquale, sicché seguire Gesù è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana. Gesù Cristo è Persona viva, presente e determinante nell’oggi della storia di ognuno: è la Via da percorrere per avere la Vita ed essere nella Verità. In Cristo-Via-Verità-Vita il cristiano trova la risposta personale come pienezza del dono totale a Dio e la forza di coesione che dà senso e unità a tutta la sua esistenza. In questa prospettiva, Gerardi presenta la morale cristiana come l’inveramento della nuova ed eterna alleanza che Gesù attua con la propria morte e risurrezione, e perciò essa è fondata sulla realizzazione della comunione personale dell’uomo con Dio. La scelta di seguire Gesù trova la sua prima e fondamentale esplicitazione nel vivere la fede, la speranza e la carità, che abilitano il cristiano ad attuare nel suo agire la partecipazione alla vita trinitaria, ricevuta in dono dallo Spirito. La beatitudine piena della comunione totale e definitiva con Dio Trino ed Unico si prepara e si realizza nella vita vissuta secondo le beatitudini, e per questo ad ogni beatitudine è collegata una promessa di raggiungere la felicità. Mentre proclama le beatitudini, Gesù di Nazaret le vive: egli è il povero, il mite, il misericordioso, il giusto, ossia il perseguitato. Gesù Cristo è il prototipo dell’uomo nuovo descritto nelle beatitudini. Da queste promesse si può trarre, allora, la forza e l’ispirazione per l’esperienza personale della sequela (le virtù). Prima di essere scelta dell’uomo, la beatitudine è dono dello Spirito che anima e guida l’esistenza cristiana. La prima nuova beatitudine non può non essere che

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per Maria: beata per la fede. La Madre di Gesù è modello del credente che, con fiducia e generosità, risponde alla parola che Dio gli ha rivolto. Nell’ascolto e nell’obbedienza Maria è l’icona non soltanto per ogni cristiano ma per la Chiesa universale, perché il cammino alla sequela di Gesù Cristo non è individuale. La risposta alla chiamata è sì personale, ma viene compiuta e si inserisce in un popolo. La Chiesa è “popolo in cammino” perché viene da Dio e cammina verso Dio. I seguenti otto capitoli sono l’applicazione concreta e pratica dello schema beatitudini-doni dello Spirito-virtù, nella prospettiva dinamica della sequela di Gesù. Ad esempio, i “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3) con il dono dello Spirito del timore di Dio (per diventare “poveri in spirito”) sono chiamati a vivere la fede (Capitolo II); i “Beati i perseguitati per causa della giustizia” (Mt 5,10), a cui viene dato in dono il regno dei cieli, sono chiamati a vivere la fortezza (Capitolo IX). Le beatitudini proclamate da Gesù sono – secondo R.Gerardi - i frutti più perfetti delle virtù e dei doni, il culmine della vita cristiana, il coronamento della presenza e dell’opera dello Spirito Santo nei credenti, anticipata pregustazione della felicità eterna – la vita con Dio. Questa impostazione è una novità metodologica in quanto collega tre prospettive di solito considerate a sé stanti. Beatitudini-doni dello Spirito-virtù fondono la prospettiva etica con quella spirituale e nel medesimo tempo delineano un itineraio interiore personale e comunitario alla sequela di Gesù. Il libro scrittto con stile chiaro ed essenziale invita il lettore-credente non soltanto alla lettura, ma soprattutto ad approfondire la sua vita cristiana e a viverla giornalmente come la via alla sequela di Cristo, sua guida, suo modello e suo maestro, nello Spirito Santo verso il Padre. EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.

Hoose, Bernard (ed.), Christian Ethics. An Introduction. London: Cassell 1998, 337 p. The pattern of moral theology (or Christian ethics, as this book prefers) over the last forty years has followed a particular route, clearer of course with hindsight. The manuals reigned in an absolutist manner in 1960. Their collapse, broadly speaking from 1965 onwards, was as total as that of analogous absolutisms. In their place came a plethora of hastily written books, often in paperback, and these were

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the standard fare for about ten years. Few of these have lasting significance. This is not meant to disparage the good-willed authors who strove mightily to provide some material for hard-pressed professors, not to mention students eager to have a reference-book: the fundamental questions raised by the Council were too fresh to be digested in an enduring form. A third phase is discernible from the early 1970’s. In the wake of Humanae vitae the norms question came to the fore, and there was a period, lasting about ten years, of notable writing on this and related issues. The debate became polarised (autonomy ethics/faith ethics, traditional principles/ revisionism) and, increasingly, too in-house for those outside the circle to understand what was being debated. The needs of ministry in the first place, and education in the second place, forced a change in the late 1980’s and early 1990’s. Once more ethicists and moral theologians became interested in the fundamental questions of the whole field of moral theology, and many of them wrote coherent accounts of their particular methodological approach to moral theology. The names indicate that this was a trend that crossed linguistic barriers and particular theological perspectives. A random selection confirms this. G. Grisez and C. Curran: R. García de Haro and M. Vidal; G. Angelini and C. Zuccaro; B. Ashley and R. Gula; S. Pinckaers and J.-L. Bruguès; J. Römelt and C. H. Peschke; T. Kennedy and K.W. Merks. Two things are to be noted about this trend. During the 1990’s these authors, among many other notables, have written coherent accounts of the moral life with a view to offering a tool for theological reflection. They are not ‘manuals’ in the sense of what prevailed in 1960. But they seem to me to confront the ministerial and educational void left by the demise, in a five-year period, of a system of moral theology that had a 250 year old pedigree to sustain it. The other notable fact is rather obvious. There is a variety of approaches being offered in this field. The book edited by HOOSE is part of this trend, but with an important nuance. It is not a presentation by one author, but by 19 authors who collaborate in writing a book of 22 chapters. Three of the authors (SELLING, HOOSE AND GULA) are doubly represented. The aim is succinctly put at xi: “Clearly worded introductions to the various elements of Christian ethics are not many in number. This volume is an attempt to improve matters”. I think the number of introductions may be more numerous than the editor suggests. But this book does offer a novelty in that theologians who are noted

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experts in their particular field offer succinct introductions to particular questions. The book, for me, would be better qualified as a clearly worded introduction to the thought of important Christian ethicists writing on particular questions. And expert they are: T. DEIDUM, P. HANNON, G. J. HUGHES, J. F. KEENAN, K. T. KELLY, K. LEBACQZ, and V. MCNAMARA have, for instance, all written substantial books on the topics which they present in a more summary form here. The book has two sections, one of 10 Chapters on “Basic Christian Ethics” and one of 12 Chapters on “Applied Ethics”. The first section is reasonably comprehensive in its treatment of the fundamental questions (Bible, Natural Law, Authority, Norms, Virtue, Conscience, Person etc.). The second section, inevitably, is more selective, for reasons of space. Though I found all the Chapters of a good scholarly quality, not all meet the editor’s desire for clear wording. The person reading this work as a first introduction to Christian ethics will need some guidance. I would classify the book as representing those moral theologians who wish to retrieve the tradition to face new challenges. This task of retrieval is a noble one, and not easy. How do you deal with natural law or virtue (traditional ideas) in view of the challenge of feminist ethics or hypnosis (not so traditional ideas for Christian ethics)? HOOSE has gathered a formidable array of scholars to face this challenge. Though I am suggesting that the ‘retrievalist’ thread is the important one in the book, and gives it a sufficient consistency, it is clear that not all the authors are of one mind on the approach to moral theology. It would have been valuable, I believe, if there had been a concluding Chapter to bring the strains of the book together, if only to clarify the questions that need further study or that would be challenged by those not happy with this retrievalist approach. This book could be at its most valuable as a source for a serious under-graduate seminar in Christian ethics. It provokes thought, and leaves questions to be studied by an inquiring mind. RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.

Jones, Frederick M., ed., Alphonsus de Liguori: Selected Writings. New York/Mahwah, N. J.: Paulist Press 1999, xiii + 423 p. (The Classics of Western Spirituality) [With the collaboration of Brendan McConvery, Raphael Gallagher, Terrence J. Moran, and

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Martin McKeever. With the consultation of Sean O’Riordan and Carl Hoegerl. With a Preface by Sean O’Riordan]. The Classics of Western Spirituality series published by Paulist Press has, for years, provided quality English language anthologies of the great spiritual masters. The present volume dedicated to the writings of Alphonsus de Liguori (1696-1787) is no exception. Frederick M. Jones, the editor of this fine collection and the author of the first original life in English of the saint, has done a masterful job in coordinating the work of a devoted (and highly competent) team of Redemptorist translators. In keeping with the goals of the series, the intention of this team was to produce a single volume that would make the writings of this great Doctor of the Church and founder of the Redemptorists more accessible to today’s English-speaking audience. In doing so, they have managed to convey a sense of the saint’s complex character yet single-minded devotion to the great truths of the Gospel message. Although they would not meet the stringent standards of a critical edition (and were never intended as such), the translations are accurate, consistent in style, and pleasant to read. They are a long way from the archaic syntax of the Centenary Edition of Alphonsus’ ascetical writings edited by Eugene Grimm from 1886-1897 and which, until now, was the major access English readers had to the works of Alphonsus. For this reason alone, the volume represents a major contribution to the English-language scholarship on the renowned “Saint of Bourbon Naples” and will, in time, surely become the primary point of contact for English readers interested in his writings. The volume has many other commendable qualities. Its Preface and General Introduction set the tone for the volume and place Alphonsus historically in the spiritual, intellectual, and cultural climate of his day. Valuable editorial introductions to each selection, helpful notes that explain otherwise obscure references and allusions in the text, and a sizeable amount of helpful reference material guide the reader through this representative selection from Alphonsus’ rather substantial literary output. The selections themselves are categorized under seven sub-headings: (1) Spiritual Writings, (2) Spiritual Direction, (3) Devotional Writings, (4) Prayer, (5) Moral Theology, (6) Advice for Priests Who Minister to Those Condemned to Death, and (7) Letters. These, in turn, are supplemented by a chron-

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ological list of Alphonsus’ writings, a select bibliography, a general index, and a detailed Scripture index. It bears noting that some of the entries have never before appeared in English translation. Beyond this general appreciation of the volume, three particular observations come to mind. In the first place, this reviewer was impressed that the work of five different translators displayed such a cohesive literary style. He could detect no major shifts in language or syntax and was often struck by the creative ways they found to translate difficult Italian phrases. With one exception (to be explained later), this reviewer was also happy with the selections from Alphonsus’ writings chosen for the anthology. Even though the sheer weight and quality of Alphonsus’ literary output made the choice of entries for this volume extremely difficult, the editor and his collaborators have succeeded in presenting a highly accurate portrayal of the saint’s wide-ranging concerns as a pastor, theologian, and spiritual writer. Finally, this reviewer was encouraged to see a representative selection of Alphonsus moral writings included in a volume explicitly dedicated to his spirituality. In recent years, Alphonsus’ title of patron saint of confessors and moral theologians has greatly overshadowed the role he played as one of the preeminent spiritual authors of his day. The placement of his moral writings in a volume such as this should help to retrieve some of this lost perspective and work to keep alive his reputation as a major voice in the Church’s spiritual tradition. This inclusion is also in keeping with the current theological interest in the dialogue and ongoing interaction between the spiritual and moral dimensions of human existence. As far as the volume’s shortcomings are concerned, this reviewer was surprised that some of the entries do not make specific reference to the Latin or Italian editions upon which they were based. He was also disappointed that from the thousands of letters available for inclusion in this anthology, the editor decided to open the book’s epistolary section with Alphonsus’ scathing critique of Sister Maria Celeste Crostarosa (1696-1755). This mystic and visionary, whose revelations were instrumental in the founding of the Redemptorist and Redemptoristine orders, is a significant figure in the history of Christian spirituality in her own right and deserves to be represented with editorial circumspection. In choosing to include this particular letter in the volume, the editor has consciously inserted himself into (and seemingly taken sides in) an ongoing debate over Crostarosa’s role in the shaping of the spirituality of the two religious institutes.

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For this reason, the volume will unfortunately be received by some of its readers as partisan in nature and ultimately counterproductive to the goals it was seeking to attain. On another note, the inclusion of a selection of Alphonsus’ moral writings in the volume aside, this reviewer found little dealing with the saint’s actual understanding of the interaction between the moral and spiritual dimensions of life. Such a relevant connection could easily have been made in the General Introduction or at appropriate moments in the Editor’s Notes. The volume, one might add, is hampered by a small but potent number of typographical faux pas that impede the reader’s appreciation of some of Alphonsus’ better known statements (e.g., “…whoever does in the Congregation…” instead of “…whoever dies in the Congregation…,” p. 359). It is virtually impossible to produce “the perfect book.” These minor shortcomings confirm this popular editorial premise and point to areas where the editor and his team of translators might have honed their skills in order to produce an even better work. Be that as it may, their work remains an extremely valuable addition to the field of Alphonsian studies. Anthologies (and especially anthologies in translation) are works of interpretation. In this reviewer’s judgment, the interpretation of Alphonsus rendered by the editor and his team of translators is accurate, attractive, relevant, and surprisingly comprehensive. They are to be commended for providing English readers with a first rate and highly readable collection of selected writings from one of the most popular (and prolific) spiritual authors in the Christian tradition. DENNIS J. BILLY, C.SS.R.

Keenan, James F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS Prevention. New York/London: Continuum 2000, 351 p. James F. Keenan, Professor of Christian Ethics at the Jesuit Weston School of Theology in Cambridge, Mass., has brought together in one volume thirty five contributions from catholic moral theologians around the world on the ethical dilemmas of HIV/AIDS prevention. Assisted by his Jesuit colleague at Weston, Jon D. Fuller M.D., and Lisa Sowle Cahill of neighbouring Boston College, this considerable work also includes a Conclusion from Kevin Kelly of

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England. The editorial team helped solicit contributions from as far afield as Brazil and Australia, Bangladesh and Costa Rica, the inner cities of America as well as the low income housing projects of Edinburgh, Scotland. In a Foreword to this international compendium, Keenan explains that the project sets out “to address the problematic that certain moral positions adopted by church personnel are at odds with some relatively effective HIV prevention measures favored by Catholic health workers involved in the pandemic.” (p. 13). Specifically, the moral liceity of HIV prevention methods in general, and condom distribution and clean needle exchange programs in particular. The book is divided into two parts. The first presents twenty-six case studies from around the world, highlighting the complexities of HIV prevention especially in different cultural contexts. These include difficult cases from first nation communities in northern Canada (M. Miller), women and childrens’ risk of infection in places as diverse as Egypt (N. Michel), Latin America (O. Rojas), Haiti (P. Farmer & D. Walton) or contemporary Italy (M. Faggioni). Analysis of cases of needle exchange programs in settings as far apart as Puerto Rico and Australia also serve to underscore the sheer pandemic nature and enormity of AIDS throughout the world. There is a strong educational thrust to many of the cases presented, with situations outlined often in the context of college or classroom, hospitals or medical schools. The cases, clustered under such chapter headings as the marginalized, cultural difference, inequity and education, cooperation and counsel, reveal some of the complex ethical difficulties that HIV issues of prevention can provoke. While international in scope, there are no cases from China or data from the former Soviet Union, and only one contribution from South Africa (S. Bate) where HIV has escalated to devastating and tragic proportions. The second part of the book moves away from the case study and commentary method to address some fundamental moral issues for HIV prevention in longer essay form. Contributors here include R. Burggraeve, E. McDonagh and K. Kelly, three catholic moralists who have written extensively on AIDS and its problems previous to this collection. Burggraeve suggests that an interim ethic of growth and of mercy be offered to young people in a time of AIDS. McDonagh, who coined the term, “Theology in a Time of AIDS” points up the centrality of a model of “Kingdom values” in establishing an ethic that more credibly meets the moral complexity of AIDS. Kevin Kelly

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concludes that a more positive, person-centered sexual ethic in keeping with the rich meaning of the moral tradition outlined by M. Vidal and R. Gallagher in this section might better serve the millions of people impacted by the virus. Significantly, almost all of the contributors would admit of the moral liciety of the use of condoms in preventing the spread of HIV and in promoting clean needle exchange programs for the drug addicted. Important though such medically indicated proposals may be in reducing the transmission of HIV, any discussion of the ethics of AIDS prevention cannot be concentrated on the theological cul de sac of the condom alone. Rather, certain recurring realities also emerge in these pages that affect the success or failure of AIDS reduction in the world. These realities include the continued subordination of women in society, religious ‘discomfort’ with AIDS issues, widespread homophobia and indifference to the plight of millions on the part of the developed world, and the enormous vulnerability that women and children still experience with continued risk of infection. These issues are where the real ethics of prevention start. Keenan, in bringing together such diverse contributions in both case study and theological reflection on AIDS, has done a remarkable service for the pastoral life of the Church, while the various case responses collected here reveal the richness and the subtlety of the catholic moral tradition trying to respond - if somewhat late in the day - to the greatest moral and medical crisis of the twentieth century. TONY SMITH, C.SS.R.

López, Teodoro, Mancio y Batolomé Medina: Tratado sobre la usura y los cambios. Pamplona: Eunsa (Ediciones Universidad de Navarra, S.A.) 1998, 188 p. El libro se coloca en la serie de estudios, que intentan extraer del fondo de los archivos, escritos de incalculable valor histórico, que nos permiten entrar en contacto con las grandes figuras del pensamiento de los siglos pasados. Teodoro López, Profesor de Teología Moral de la Universidad de Navarra, nos ofrece en la presente obra la posibilidad de acercarnos a dos grandes teólogos moralistas de la famosa Escuela de Salamanca: Mancio y Bartolomé de Medina, a través de las lecciones que estos grandes teólogos dictaron en el

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curso 1566-1567 en la cátedra de Prima de la universidad salmantina. Se trata del comentario a la cuestión 78 de la Summa Theologica, que tiene como tema central la usura. El autor no pretende ofrecer obras inéditas salidas directamente de la pluma de los citados autores, sino la transcripción de textos que, en forma de apuntes de clase, elaboraban los alumnos para preparar sus exámenes. Las notas trataban de recoger con “fidelidad” las lecciones del Profesor, siendo a veces corregidas por el Profesor mismo. El texto aquí presentado forma parte del Códice 1853 de la Biblioteca de la Universidad de Coimbra. La determinación de la parte del texto que corresponde respectivamente a Mancio y a Bartolomé de Medina resulta, en nuestro caso, relativamente fácil, ya que en el margen del códice existe una indicación explícita, escrita por los propios redactores, en la que se dice: “Hasta aquí el M. Mancio; desde este artículo, el M. Medina”. Tal indicación se encuentra al final del art. 3. Ello significa que en el art. 4 comienzan las lecciones del Maestro Medina. El carácter de “notas”, tomadas de oídas por los alumnos, hace que el texto presente características peculiares, como la falta de puntuación correcta y de divisiones lógicas, citas incompletas o incluso incorrectas tanto de autores como de la Biblia. T. López se ha sentido, por lo mismo, en la precisión de corregir y completar y de introducir algunas divisiones lógicas (27). Tarea no siempre fácil, sobre todo en cuanto se refiere a las citas. A todo ello hay que añadir, como indica el autor, la circunstancia de que, por el estado de deterioro del manuscrito, se ha hecho necesario en más de un caso recurrir a “conjeturas” de carácter personal. En estos casos, sin embargo, el lector es oportunamente advertido. Los criterios concretos seguidos en la edición del manuscrito son indicados en la p. 27. La edición del texto del manuscrito, que representa el cuerpo central de la obra (p. 59-183), se hace en texto bilingüe (latino y español) colocado en páginas paralelas. En las páginas primeras (9-58) el autor ofrece información sobre la situación actual de los estudios en torno a la aportación de los teólogos de Salamanca y sobre la personalidad de los Profesores Cancio y Bartolomé de Medina, así como una síntesis doctrinal sobre la temática del texto editado. Al informar sobre la situación de los estudios actuales (introducción), el autor hace notar el giro positivo que se ha producido en los últimos decenios en la valoración de la aportación de los teólogos

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de la Escuela de Salamanca. Los autores recientes consideran en cierto modo superada la tesis de M. Weber, que ve en la tendencia calvinista en favor de la libertad individual y en la autodisciplina la clave del progreso económico en el mundo protestante, mientras atribuye a la actitud religiosa de la ortodoxia católica, autoritaria e inflexible, la clave del retraso económico en el mundo católico. La teoría weberiana, que ha tenido notable influjo en la marginación y olvido de la aportación de los grandes teólogos de la Escuela de Salamanca, no haría justicia, según los estudios recientes, a la atención y a la flexibilidad que frente a los problemas económicos manifestaron los grandes teólogos salmantinos. Hay que reconocer, ciertamente, que dichos autores afrontaban los problemas económicos, no como cosa “a se” sino desde el punto de vista de la moral, como muy acertadamente señala T. López: los teólogos de los siglos XVIXVII intentaban ante todo “formar la conciencia cristiana, en este caso la conciencia de los agentes de la actividad económica, sobre qué prácticas son justas y cuáles son injustas. El valor de referencia es siempre el mismo: la justicia; el peligro que acecha a estas prácticas comerciales está bien identificado: la usura” (p. 12). A pesar de todo y no obstante esta preocupación de fondo, se advierte en ellos una marcada evolución hacia posturas cada vez más flexibles y cercanas a la realidad económica del tiempo. T. López añade a continuación (p. 29-58) una síntesis doctrinal de los temas abordados en el manuscrito. Este apartado, que consideramos muy oportuno, ayuda a colocar las opiniones de los autores en el contexto de la amplia y a veces acalorada discusión de aquel tiempo en torno al tema general de la usura y de las actividades comerciales relacionadas de algún modo con el fenómeno de la usura, como eran los “censos” y los “cambios”. En este contexto no podía faltar una referencia explícita a los “Montes de Piedad”, sobre cuya legitimidad moral Bartolomé de Medina mantiene, en general, una postura crítica, en línea con la tradición de la escuela dominicana (particularmente de Cayetano y Soto). Su juicio sobre el tema podría sintetizarse en el enunciado lacónico: “El Monte es usurario”, juicio que trata de defender, no obstante la toma de posición definitiva sobre el caso por parte de los Concilios Lateranense Vº y Trento. En opinión de B. de Medina, tal defensa, así como la consiguiente pena de excomunión, alcanzarían solamente a aquellos capítulos que no van contra la moral. Sobre los “censos”, Bartolomé de Medina se muestra bastante

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comprensivo , exculpando “del vicio de la usura gran parte de las prácticas mercantiles y crediticias realizadas bajo la figura de los censos” (p. 40). Sobre el tema de los “cambios” su posición es muy matizada. No obstante su afirmación de principio de que “el arte de cambiar, si se considera en sí mismo, es peligroso y digno de censura”, reconoce que, “en las debidas circunstancias, puede ser cohonestado si se guardan las leyes ya de la justicia ya de la caridad” (cit. en p. 44). Como se puede fácilmente advertir, T. López se limita en esta síntesis a la exposición de la doctrina de los autores estudiados, sin completar por su parte la perspectiva con el estudio personal de otras fuentes, ni siquiera de las fuentes bíblicas del A.T., que estaban en la base de la discusión moral sobre la usura, tanto por parte judía como cristiana. Dado que la bibliografía sobre el argumento es relativamente abundante, el lector se hubiera esperado aquí una aportación más sustanciosa del autor. A la síntesis doctrinal sigue, como indicábamos más arriba, la presentación bilingüe (latín y español) del texto del Códice 1853. La obra se concluye con una bibliografía de carácter fundamental sobre los temas estudiados. Nuestro juicio sobre la obra de Teodoro López es positivo, no obstante algunas limitaciones, como las que acabamos de señalar. Poner al servicio de los estudiosos de la historia de la moral y de la economía la aportación de los grandes Maestros de la Escuela de Salamanca en materia de usura y de las diversas formas de actividad comercial de su tiempo representa sin duda un esfuerzo digno de todo encomio, aunque se trate de documentos “relativizados” por su condición de “apuntes de clase”. En cuanto a los criterios adoptados para la edición de la obra, habrá sin duda diversidad de pareceres, como el mismo autor reconoce (p. 27). Podría evidentemente haberse optado por una reproducción exacta del texto latino original, completado con el correspondiente aparato crítico en el que podrían insertarse las modificaciones y sugerencias pertinentes. El autor ha preferido, sin embargo, llevar al propio texto latino las oportunas variaciones gráficas y estructurales. Este procedimiento, que puede, sin duda, suscitar un cierto desagrado entre los amantes de la crítica textual, ofrece el reverso positivo de una más fácil utilización del texto por parte de los lectores normales. LORENZO ALVAREZ VERDES

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Merks, Karl-Wilhelm, Gott und die Moral, Theologische Ethik heute. Münster: LIT Verlag 1998, 414 p. (Schriften des Instituts für christliche Sozialwissenschaften 35). As a German-born theologian working as professor of Theology in Tilburg (Holland) for more than 20 years, Karl-Wilhelm Merks has naturally published most of his work in Dutch. Looking back on his career he muses “Nederlandica non leguntur” (10) and, encouraged by some colleagues, sets about the arduous task of translating his own work into German. The result is a substantial and handsome volume of articles, essays and interventions on a range of ethical and theological themes. In a brief review such as this it will clearly not be possible to treat thematically the many issues, a number of them controversial, raised in this study. The approach taken here will be to outline briefly the contents of the book and then describe and discuss Merks’ treatment of just two touchstone themes (autonomy and modernity); it is hoped this will suffice to give at least a flavour of the overall contents. The first sentence of the Introduction, reproduced on the back cover, (“The modern ideal of freedom does not stall even at the door of the Catholic Church” - my translation-) announces the theme which runs through the whole work: freedom. One way of construing the contents of the book, in fact, is to think of the introduction and the first section as a plaidoyer for a “morality of autonomy” (= autonome Moral), the following sections as the application of this view of morality to specific ethical issues (obedience, moral evil, the normative value of Sacred Scripture, human rights, cultural pluralism etc.) and the epilogue as a theological\doctrinal reflection upon which Merks rests his case. While any one piece can be read without any difficulty in its own right, the collection moves thematically from a focus on moral theory to a broader consideration of social and cultural issues. From beginning to end it is the theme of freedom which dominates. Having thus briefly described the structure of this work, we may now consider briefly two of its recurring themes: autonomy and modernity. With an insistence and a virulence which recall the discourses of Ludovico Settembrini in Thomas Mann’s The Magic Mountain, Merks expounds his convictions concerning freedom, particularly when viewed in theological perspective. His line of argument here is familiar to anyone who has followed the debate between the proponents of an autonome Moral and the proponents of a

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Glaubensethik : given the pluralistic nature of modern, liberal culture and given the changed view of the world among christians living in this culture, human morality is best understood as based on the free, rational choice of the individual rather than on values and norms derived “heteronomously” from religious teaching and tradition. As well as rehearsing the usual arguments used to defend this position, Merks develops an interesting and more original argument concerning the link between this view of morality and the classical Thomistic version of natural law ( e.g. 24, 62). With considerable plausibility, he argues that a morality of autonomy is the legitimate inheritor of this tradition in that it seeks to understand the competence of reason in making moral law. While this debate has given way today to other vexed questions, it remains of real historical and thematic interest to moral theology. This book is a useful articulation of one side of the argument, paying surprisingly little attention to the weighty arguments which have been brought against this position over the last few decades (a representative of the Glaubensethik school might take other texts of Aquinas and construct an equally convincing case for the claim that reason discovers a law given by God and that this is best unfolded and realized in the context of faith). The other theme which binds these different pieces, and which is perhaps the best chiave di lettura for the volume, is the idea of modernity. As a theologian Merks is particularly interested in the way in which christian faith and morality can be articulated and lived in the social context of modernity. His conclusion seems to be that the christian should take on the key features of the modernist mentality such as a sense of historicity, an appreciation of pluralism and, of course, the priority of personal autonomy. He wishes to maintain that “the modern person” finds his or her way to God not primarily through traditional practices and convictions but through a new found, healthy anthropocentrism. A major corollary of this position is the centrality of human rights in social discourse; a centrality which the Church has only gradually and reluctantly come to recognize. Merks, by contrast, is confident that if only christians would fully and wholeheartedly accept the principles of the French Revolution (370) they could discover a new harmony between their faith and modern culture, as well as undreamt of creative possibilities for themselves. All of this, he maintains, without abandoning the essentials of the christian faith and the core values of christian mora-

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lity. On this score it is striking that apart from a few fleeting references the author does not feel the need to answer the lacerating criticism of modernity and modernist ethics which postmodernism has been proposing. He seems equally impervious to a socio-political critique of modernity that is not born of reactionary nostalgia for the ancien régime but of the conviction that aspects of modern culture are inimical to the Gospel. In making an evaluation of this work it is of course necessary to remember the genre with which we are dealing: a redaction of separate pieces written over a period of twenty years. Each piece in its own right represents an informed, readable and honest articulation of the author’s views on a wide range of issues. Read as a unit, the book can seem rather repetitive and excessively focussed on an argument which has lost much of its punch in the light of the postmodernist challenge, where the question is not whether we should favour a faith ethic or an autonomy ethic but whether there is any such thing as ethics in the first place! MARTIN MCKEEVER C.SS.R.

Moreno Rejón, Francisco, Historia de la Teología Moral en América Latina: Ensayos y materias. Lima: Cep 1994, 258 p. F. Moreno Rejón es sacerdote redentorista que desde hace varios años realiza su labor pastoral en el Perú. Es autor de varias obras, entre ellas: Moral fundamental en la reflexión teológica desde América Latina (1968-1984), Madrid 1986, Salvar la vida de los pobres: aportes a la teología moral, Lima 1986, Moral Theology from the Poor. Moral Challenge of the Theology of Liberation, Quezon City 1988. Historia de la Teología Moral en América Latina reune siete ensayos breves, entre 12 y 20 páginas. Está dividida en dos secciones: ensayos y materiales para el estudio de la teología moral en América Latina. La segunda sección incluye entre los materiales un amplio elenco de 104 fichas bibliográficas de los autores y obras principales de los siglos XVI y XVII que “interesan de modo particular al estudio de la teología moral en América Latina” (pp. 139-172). A éstas añade una antología de 23 textos básicos “que permiten tener conocimiento directo de algunas fuentes más significativas de la teología refe-

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rente a la problemática de las Indias” (pp. 173-226). Finalmente, ofrece una amplia bibliografía dividida en 8 apartados. Varios de los ensayos que aparecen en la primera sección fueron publicados en un primer momento como artículos en revistas españolas, peruanas y brasileñas mientras que los ensayos tercero y cuarto (“Hecho, derecho y justicia” y “Primeros tratados teológicomorales contra la esclavitud”) eran inéditos. El objetivo del autor es el de “dirigir una mirada de conjunto sobre la problemática teológico-moral de las Indias y su reflejo en las obras y autores del siglo XVI (p. 18). La obra tiene su mérito porque “durante cuatro siglos prácticamente han sido escasas las publicaciones sobre teología, espritualidad y derecho canónico en nuestro continente. La costumbre era utilizar los libros que nos venían de España y escritos en latín, español y francés con traducción castellana” (p. 9), escribe José Dammert Bellido al hacer la presentación del libro. Pero el objetivo no se centra solo en el pasado, anota Moreno Rejón, sino que de acuerdo con Sto.Domingo “es la hora de divulgar las grandes controversias teológicas y jurídicas que cuestionaron la conquista y la colonización y sentaron las bases del derecho de gentes y del Derecho Internacional” (p. 18). En el prólogo comenta la forma como fue madurando en su mente una tras otra las diversas contribuciones que reune en este libro. La obra, como es natural, tiene sus límites, lo afirma el propio autor: “la escasísima atención prestada al siglo XVIII y por ende la dificultad para hallar material propicio; constata el autor que entre los autores fue poca la creatividad teológico-moral en Europa, y en A. L. predominaba una teología que se limitaba a repetir las tesis europeas vigentes” (p.14). Moreno Rejón se propone dar una mirada sintética a la historia de la moral en A. L. en los siglos XVI, XVII, XVIII y XIX junto con una reflexión sobre una ética de la liberación, y como epílogo, la perspectiva ética de la liberación en A. L. en el umbral del año 2.000. Los primeros cuatro ensayos se centran en la cuestión esclavista que toca secundariamente el problema indigenista. Los tres últimos asumen el tema de la teología latinoamericana en su aspecto típico de la liberación. Los siete ensayos aparecen unidos por un hilo histórico: la evolución de la teología moral en un marco geográfico determinado, tomando como aspectos centrales las cuestiones morales de la primera teología indiana, el pensamiento de una serie de personajes representativos en torno al problema de la esclavitud y la génesis y

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desarrollo de la ética de la liberación hasta la IV. Conferencia del Episcopado Latinoamericano en Sto. Domingo (1992). En el fondo, el autor quiere hacer la crítica a “una teología concreta que llegó a América Latina con los conquistadores y misioneros pero que no puede estatificarse, pues se hace necesaria una teología permanentemente creativa y no meramente repetitiva (p. 19). Este sentido creativo aparece pronto entre los misioneros que cuestionan aquella teología de la conquista. Una teología creativa tuvo muy en cuenta que evangelizar no puede ser sinónimo de incorporar las culturas nativas a la cultura dominante de los evangelizadores”. Uno de los mejores momentos de la teología es “el giro copernicano” en el campo de la teología moral: se trata de juzgar la realidad (esclavitud, guerra colonianista, discriminación racial) a la luz del evangelio y no acomodar la ética a la realidad (p.59), como sucedía en muchos autores que defendían la esclavitud “acomodando el derecho al hecho, la moral a los intereses” (p. 79), lo que lleva a Epifanio de Moirans a preguntarse “qué teología es esta?”. La teología moral en Latinoamérica alcanza un nivel notable de desarrollo: “no solo muestra un crecimiento constante, sino que ha logrado una consolidación y una madurez en la elaboración y expresión de sus propuestas” (p. 111), sea a nivel de las publicaciones como en el campo de la investigación y la docencia, en tal forma que ya se puede hablar de “la mayoría de edad de la teología en América Latina”. (p. 112). Los siete ensayos se cierran con 12 pp. sobre “la perspectiva ética de América Latina en el umbral del año 2.000. Son unas pocas páginas que contienen un breve examen (económico, político y social) del contexto actual de la reflexión teológico-moral en América Latina. Moreno Rejón cierra prácticamente su obra con la propuesta de Sto. Domingo de “promover un nuevo orden económico, social y político” sabiendo que “ello plantea la exigencia ética fundamental de que ese nuevo orden se asiente sobre las bases de ‘una economía de la solidaridad y de la participación” (p.134). Historia de la teología moral en América Latina revela que Moreno Rejón es un buen conocedor de esta historia; se siente a lo largo de las páginas la empatía que lo une con América Latina. El lenguaje sencillo y ágil hace la lectura de esta obra amena y aleccionadora. J. SILVIO BOTERO GIRALDO, CSSR.

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Palumbieri, Sabino, L’uomo, questa meraviglia. Antropologia filosofica. Roma: Urbaniana University Press 1999, 414 p. (Manuali 3). L’eterno interrogativo su chi è l’uomo si ripropone ai nostri giorni in termini ancora più pressanti. Lo sviluppo tecnico-scientifico, infatti, non cessa di aprire ulteriori possibilità di intervento sull’uomo, arrivando alle stesse radici della sua vita. Si tratta però di possibilità che vediamo per lo più gestite in funzione del profitto. Una seria e approfondita riflessione antropologica, che affronti con coraggio le domande più decisive, si svela perciò indispensabile, se si vuole evitare di cadere in una riduzione consumistica totale. Orientarsi nell’attuale dibattito antropologico non è però cosa facile a causa della molteplicità e diversità delle proposte. Occorre, infatti, un attento discernimento per coglierne, mettendole in costruttivo dialogo, gli elementi positivi. L’itinerario tracciato da Sabino Palumbieri in questo suo ultimo libro, frutto di anni di ricerca e di insegnamento, costituisce un prezioso strumento per tale orientamento. Dettata dal convincimento che occorre ricominciare «dalla ripresa profonda della propria identità, purché criticamente fondata», l’opera mira a «descrivere la fisionomia costitutiva» dell’uomo, in maniera che possa meglio cogliersi che egli «non è una mera parte misurabile del mondo, ma è un mondo mirabile a parte. Tutto, sempre, da ricostruire. Nella storia, come cantiere. Nella speranza, ogni giorno rinascente» (p. 23). Il senso critico, con il quale vengono vagliate le maggiori affermazioni antropologiche – sia del pensiero classico sia della riflessione contemporanea –, è arricchito da una chiara prospettiva testimoniale: la vita, essendo dinamismo, «esige un senso direzionale. Il significato della vita non è un problema accademico, ma vitale» (p. 63). Le scelte metodologiche, operate dall’autore, sono di stampo fenomenologico, «non nel senso idealistico, come in Hegel, e neppure nel senso essenzialistico eidetico, come in Husserl, ma piuttosto in quello descrittivo heideggeriano, o descrittivo ontologico come in Edith Stein» (p. 55). I capitoli iniziali sono di carattere introduttorio: contestualizzata e motivata la riflessione (cap. I), l’autore si preoccupa di precisare la domanda antropologica come «domanda fondamentale» (cap. 2). Può così presentare e giustificare le scelte metodologiche (cap. 3) e ripercorrere, evidenziando il filo rosso ad esse sotteso, le tappe della riflessione antropologica (cap. 4).

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La costituzione esistenziale dell’uomo viene approfondita nelle tre fondamentali strutture fenomenologiche: l’in-sé, il per-sé e il peraltri. Esse vengono così specificate: «L’in-sé è la dimensione dell’essere ravvolto, per dir così, nel suo spazio. Il per-sé connota l’essere in quanto si coglie presso di sé, capace di prendere le distanze da sé, in quanto tensionale dell’al di là di sé. Il per-altri connota l’essere in quanto tendente all’altro-da-sé, simmetrico a sé, o al totalmente Altro da sé. Possiamo anche considerare queste tre dimensioni come tre movimenti metafisici dell’essere uomo in tre direzioni: il primo verso il sé; il secondo a partire dal sé; il terzo verso l’altro da sé» (p. 63). La prima struttura o dimensione viene approfondita attraverso la riflessione sulla corporeità, in quanto esperienza (cap. 5) e linguaggio (cap. 6), e sulla vitalità sottolineando la «meraviglia e salto qualitativo» propri della vita dell’uomo (cap. 7). Lo studio della seconda (il per-sé) indica nella complessità del conoscere la base di partenza (cap. 8), ponendone poi in risalto la fondamentale dimensione metasensitiva (cap. 9), che rende ogni uomo ricercatore della verità (cap. 10) e trova nell’autocoscienza il «centro» e lo «snodo» (cap. 11). Il successivo approfondimento della volontà, in quanto culmine della intenzionalità (cap. 12), apre sulla libertà, «punto cruciale» di ogni antropologia (cap. 13): la considerazione del suo collocarsi tra verità e limite (cap. 14), porta a cogliere nell’assiologia il «riferimento» e al tempo stesso il «rifornimento» (cap. 15). Il per-altri, inteso come «co-essere, pro-essere, in-essere», viene infine enucleato mediante la riflessione sulla socialità come dimensione imprescindibile (cap. 16), da attuare alla luce della bipolarità e dell’incontro, che mettono in primo piano il volto dell’altro (cap. 17), e la giusta valorizzazione del sentimento (cap. 18). Da questo rapido sguardo emergono, oltre la ricchezza dei contenuti, la chiarezza e la gradualità del percorso antropologico proposto dal libro. Le suddivisioni dei capitoli rendono ancora più evidenti i singoli passi. E questo senza mai cadere in aridi schematismi scolastici, pur essendo pensato come manuale. Il linguaggio resta sempre vivo e coinvolgente; a volte anzi il taglio evocativo che lo caratterizza rischia di renderlo troppo difficile, soprattutto per chi è agli inizi dello studio dell’antropologia. Ma forse è un rischio inevitabile per chiunque voglia fare antropologia amando l’uomo e per fare amare l’uomo. SABATINO MAJORANO C.SS.R.

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Raponi, Sante, Alla Scuola dei Padri. Tra cristologia, antropologia e comportamento morale. Alcuni Saggi. Roma: Editiones Accademiae Alphonsianae 1999, 316 p. (Quaestiones Morales 11). L’Accademia Alfonsiana di Roma ha introdotto un’usanza degna di essere imitata da altri Centri teologici dell’Urbe e dell’Orbe. Si tratta della “raccolta” dei principali studi dei Professori emeriti o in fase di pienezza accademica; questi lavori, essendo sparsi in riviste o in pubblicazioni collettive, non sono facilmente reperibili. La Raccolta che presentiamo riguarda il professore emerito Sante Raponi, di formazione biblica e con una lunga docenza di morale patristica. I numerosi alunni che ne hanno frequentato i corsi hanno potuto sperimentare non solo l’accoglienza fraterna e l’eleganza umana di p. Raponi, ma hanno potuto anche godere e beneficiare delle sue molteplici conoscenze della cultura classica grecoromana, del pensiero biblico e della primitiva letteratura cristiana. Quest’ampia e profonda preparazione classica, biblica e patristica costituisce la trama sulla quale vengono intessuti, con fili d’oro, i disegni che compongono l’insieme della tappezzeria dell’opera. L’Autore non pretende fare una sintesi o un manuale di morale patristica. Nella situazione attuale degli studi è difficile avanzare una proposta sistematica sull’insieme del pensiero morale patristico. Il periodo considerato è molto vasto – sei o sette secoli – e lo spessore del pensiero è talmente denso e variegato, sia dal punto di vista diacronico che sincronico, da rendere difficile una sintesi unitaria. Il Raponi è cosciente dell’esistenza e della peculiarità di varie “tradizioni” nella patristica. Non ne trascura nessuna. Conosce la prevalenza esercitata dalla tradizione “alessandrina” sul cristianesimo posteriore; senza trascurare quest’ultima né la tradizione orientale (siriaca, ecc.), egli preferisce incentrare la sua attenzione sulla tradizione “asiatica”, ritenuta più vicina all’universo biblico e più conforme alla cultura attuale segnata dal personalismo. I sei contributi che compongo il volume hanno come obiettivo comune l’articolazione tra cristologia, antropologia e morale nel pensiero patristico. Si tratta di una messa a fuoco altamente significativa che deve essere tenuta in grande considerazione quando si parla della morale cristiana primitiva. Di fatto, questa non è altro che l’esplicitazione (morale) del dinamismo del soggetto cristiano (antropologia), il quale è tale perché è una creatura nuova in Cristo (cristologia). Il Raponi allude ad altre prospettive, come la trinitaria e la

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sacramentale, ma le sue preferenze sono di carattere antropologico – cristologico. Questi i temi concreti: la verità della vita morale cristiana secondo gli apologisti del secondo secolo; la categoria antropologica di immagine e sommiglianza nel pensiero patristico; le tentazioni del cristiano alla luce del Cristo tentato, come appare nell’esegesi dei Padri; l’uso del decalogo nell’esposizione della morale cristiana; il cristocentrismo etico negli scritti dei cosiddetti Padri Apostolici; la pienezza portata da Cristo secondo sant’Ireneo. La semplice ennunciazione dei temi è significativa dell’ampio arco di opere prese in considerazione, dell’oggettiva importanza degli argomenti, e dei contributi che questi studi possono offrire per l’impostazione della morale attuale. Tra i temi considerati, uno spicca in modo particolare, sia per la sua estensione che per il suo valore: quello dedicato alla categoria di immagine/somiglianza nell’antropologia dei Padri. Lo considero un capolavoro all’interno della produzione che conosco su questa decisiva questione della teologia patristica. Qui si trova il migliore Raponi: colui che conosce e valuta la bibliografia esistente sul tema; che si confronta con i testi direttamente, in un corpo a corpo degno del migliore atleta; che sa leggere il pensiero patristico sullo sfondo della cultura greca e delle referenze bibliche; che sa distinguere tra le differenti tradizioni patristiche per precisare e arricchire la dottrina comune; che è capace di proporre una sintesi personale partendo da analisi dettagliate e minuziose. Nella teologia attuale si utilizza frequentemente – e penso con profitto – la categoria antropologioca di immagine e somiglianza come fondamento della morale cristiana. A tale scopo sarebbe bene tener presente il contributo di S. Raponi, perché le proposte siano fondate nella più genuina Tradizione cristiana. Non mi resta che felicitarmi col prof. Raponi per questa raccolta di studi e attendere altri frutti maturi dalla sua ampia e profonda preparazione classica, biblica e patristica. MARCIANO VIDAL C.SS.R.

Russo, Giovanni (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica. Torino: Editrice Elle Di Ci 1999, 541 p. (Collana «Evangelium vitae» 6). L’ambivalenza dei progressi biomedici mette in gioco le nostre convinzioni più profonde; le interpretazioni oscillano tra speranza e

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paura: speranza di una liberazione da pesanti fardelli, paura di una violenza fatta alla nostra umanità. Le tecniche della procreazione assistita si configurano come una procreazione senza sessualità, contrariamente alla contraccezione che è sessualità senza procreazione ed anche alla prostituzione che è sessualità senza amore. Ma che cosa è la sessualità? Una ampia risposta a questa domanda fondamentale la troviamo nel libro di G.Russo intitolato Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica che qui presentiamo. Il libro è frutto della collaborazione di specialisti impegnati sul campo della sessualità e della bioetica. Gli argomenti trattati sono tutti di estremo interesse ed attualità. Dopo una introduzione di G.Russo su Origini della sessuologia e antichi costumi sessuali (da cui possiamo apprendere che molti ambiti della sessuologia di oggi derivano dalla cultura greca), vengono analizzate – dallo stesso autore – Le dimensioni biomediche della sessualità (fisiologia del sesso maschile e femminile). Seguono I linguaggi della corporeità (abbraccio, carezza, bacio, piacere; il pudore e la sessuallità nell’unitotalità della persona). G.Gatti esamina la Psicologia e sessualità in prospettiva morale (approccio pulsionale, evolutivo, relazionale per arrivare alla psicologia e all’etica dell’amore). S.Palumbieri studia l’Antropologia e filosofia della sessualità (aperta all’amore interpersonale e alla trascendenza), mentre R.Pegoraro approfondisce i Fondamenti biblico-teologici della sessualità (a partire dai testi dall’Antico e Nuovo Testamento per arrivare all’analisi del matrimonio e della famiglia nella storia della communità di fede), e Teodora Rossi Bioetica e questione femminile (vissute, vedute e presentate criticamente da parte della donna). G.Russo e Tiziana Forzano mettono in relievo alcuni dei più scottanti Problemi di bioetica sessuale (l’autoerotismo, l’omosessualità, il transessualismo, i rapporti prematrimoniali, il sesso deviato e le nuove pratiche sadomaso). Nel capitolo 8 G.Russo analizza il sempre più preoccupante e drammaticamente attuale problema della Pedofilia e abuso sessuale dei bambini (dal punto di vista biblico, storico, sociologico, psicologico, pedagogico e legislativo). Seguono Clinica degli stati intersessuali (G.Romero), Il trapianto di gonadi (M.P.Faggioni), La procreazione responsabile e Fedeltà coniugale e divorzio (R.Frattallone), Tecnologie riproduttive, procreatica e ingegneria genetica (S.Leone), La clonazione di soggetti umani (G.Russo) e infine, Bioetica in pediatria (G.R.Burgio). La lettura del volume, interessante, stimolante e arricchente, porta a constatare che tutti gli autori – dall’ orientamento chiara-

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mente cristiano – concordano nel vedere, analizzare e presentare la sessualità come un problema antropologico che trova adeguata soluzione nel “paradigma dell’amore interpersonale”. La sessualità umana si esprime nell’essere uomo e donna che, nella mutua attrazione e nel vicendevole completamento, diventano veramente tali. La sessualità, infatti, si realizza soltanto nella autenticità e pienezza dell’amore, cioè nel dono totale di sé. Gli argomenti elaborati nel libro mostrano che senza questa prospettiva la sessualità umana rimane genitalità, violenza, strumento per il proprio egoismo (G.Russo). Le ricchezze bio-psico-spirituali della sessualità umana si presentano come energie nel segno dell’ambivalenza. Possono diventare o forze autodistruttive, deprimenti e motivi di degrado umano, ovvero forze autocostruttive ed elementi, nonché motivi, di promozione propria e della comunità intera (S.Palumbieri). Non soltanto la sessualità umana, ma tutta la bioetica - che studia dal punto di vista morale la vita umana nel suo nascere, crescere e morire – evidenzia la necesssità di riferirsi prima di ogni fase applicativa al significato semantico della persona, cioè alla verità della sua natura e identità. Per la complessa valutazione di certe proposte tecnoscientifiche la bioetica non può che assumere l’inviolabilità della persona umana integrale. L’etica della vita umana, infatti, suppone, come fondamento, l’antropologia integrale e, come capitolo essenziale, l’antropologia della sessualità con le sue implicanze ed esigenze. Il volume curato da G.Russo fa parte di una voce, forse minoritaria, ma forte, consapevole e deliberata contro la neutralità della sessualità umana e della bioetica come scienza; una voce unanime contro la riduzione antropologica della vita e della sessualità umana. Il lettore di questo libro, di fronte a una casistica che minaccia il valore dell’umanità, della famiglia e della persona, come sono i risultati concreti e pratici della scienza e della sessualità applicata senza l’uomo, cioè senza la morale, è invitato a ripensare e ad approfondire il suo essere-agire umano sapendo che dietro ogni comportamento o intervento ci deve essere la ricerca di senso di ogni persona. EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.

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Schwaiger, Clemens, Wie glücklich ist der Mensch? Zur Aufnahme und Verarbeitung antiker Glückstheorien bei Thomas von Aquin. München: Don Bosco Verlag 1999, 26 p. (Benediktbeurer Hochschulschriften, Band 13). In the slip-stream of the Encyclical Fides et ratio (1998) there has been a flurry of articles on the relationship between philosophy and theology, some of them quite banal in content. This slight volume, though not in any way a response to the Encyclical, is exemplary in its treatment of a philosophical problem that has crucial theological implications. The central issue treated is the meaning of human happiness. Starting with a comment on the different views of the Athenian political thinker SOLON (640-588 B.C.) and the Lydian King CROESUS (560-546 B.C.), which centered on the interpretation of eutychia (prosperity as a result of good luck) and eudaimonia (prosperity as a result of personal happiness), SCHWAIGER notes how the different emphases have persisted in various languages, for instance in the difference between fortuna and vita beata. The interest of the author is in the thought of ST. THOMAS AQUINAS on the question, but to reach this point SCHWAIGER, in a first move, examines the Aristotelian commentary on the question. For the author, this commentary is insufficient because of the lack of a proper distinction between the fragility of goodness, in its worldly form, and the stability of goodness, in its non-worldly form. The genius of the solution of AQUINAS lies in his ability to see how felicitas can be both beatitudo perfecta and beatitudo imperfecta. Clearly, for AQUINAS it is the former type of happiness which counts most. The insight of the work of SCHWAIGER is his exposition of how AQUINAS comes to explain this. The philosophical problem is enduring because of its complex simplicity: how can the human person have a happiness that is, literally, end-less seeing that human life is end-bound by the fact of death? Logically, therefore, endless happiness cannot be linked to earthly realities so we enter into a discourse on the relationship between this world and utopia (in its classic meaning of an imaginary no-place of perfect happiness). Though he is not the first to note the point, SCHWAIGER explains the source for the classic resolution of how the human search for happiness-without-end fails because of our placing this search within a world of goods that are earth-bound and, therefore, not-without-end. The key source for the Thomistic solution is the De consolatione philosophiae of BOETHIUS, who is in some ways the last of

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the Romans (he lived from 480 to 524 A.D.) both in the manner of his political life and death as well as his intellectual training. The author comments that the Thomistic reliance on BOETHIUS for this question has not been much noted (page 24, note 17). This was confirmed for me in some authoritative commentaries, not mentioned in this book: B. DAVIS and J. P. TORRELL give little attention to the source in their excellent reference works, and though it appears a trifle more in the classic works of M. D. CHENU and J. A. WEISHEIPL the attention given to the Boethian influence on AQUINAS has ceded somewhat because of the emphasis on Aristotelian sources. The thesis of this short book is that BOETHIUS advances the Aristotelian discussion of the SOLON – CROESUS debate by seeing that happiness is the status bonorum omnium congregatione perfectus which cannot, on the basis of BOETHIUS’ own tragic life and death, be based on a this-worldly experience. The merit of the book under discussion here is to remind contemporary readers of this possible lacuna in our interpretation of a crucial author (AQUINAS) on a question of enduring importance. Though this work is too slight to make a major impact I judge it to have three merits for ethicists and moral theologians. It can remind us of the importance of the series of the “Benediktbeurer Hochschulschriften”, now in its 14th volume: the series is more a series of monographs than books, but precious none the less. A second merit is that it demonstrates how intellectually superior, and more honest, it is to deal with texts and their development than write exhortatory articles about the importance of philosophy for theological discourse. The most enduring contribution is an implicit one. The question of happiness is as old as the dispute between SOLON and CROESUS and as contemporary as a debate between an exponent of a common-good philosophy confronting a defender of the so-called new economy as the bearer of the happiness we all seek. For anyone wishing to have a useful dialogue on the enduring question of happiness with those who may not necessarily share a Christian view of life this brief book has treasures belied by its size. It could lead the reader to more substantial works, such as M. Nussbaum’s The Fragility of Goodness (1986) which is not mentioned in the book under review but may be accessible to English readers. RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.

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Spiteris, Yannis, Salvezza e peccato nella tradizione orientale. Bologna: Edizioni Dehoniane 1999, 282 p. (Nuovi saggi teologici 47). En s’inspirant d’une homélie d’Origène sur la Genèse, Spiteris termine son ouvrage en ces termes: “L’ascèse est comparée (par Origène) au long et patient travail de la restauration d’une peinture. Pour rejoindre l’image primitive d’un tableau, on a besoin d’enlever les dépôts, les couleurs étrangères. Ainsi en est-il de l’image de Dieu en nous. En dépit de son péché, l’homme ne peut pas détruire cette image; ses mauvaises actions créent plutôt la superposition d’autres images: l’image du terrestre se superpose à celle du céleste (le Christ en nous). Avec l’aide de Dieu et moyennant l’ascèse, il faut éliminer l’horrible image du terrestre pour libérer la splendeur du Christ” (257). Cette paraphrase de la pensée du grand Alexandrin constitue le résumé de ce livre qui se présente à toute fin pratique comme une somme abrégée de la sotériologie de l’Orthodoxie gréco-russe. Donnant la parole aux meilleurs théologiens anciens et modernes de ces Églises de même qu’aux Pères orientaux qui les inspirent, l’auteur traite tour à tour de la structure trinitaire de l’histoire du salut, de la divinisation de l’homme intégral, cœur de ce dessein salvifique, de la structure christologique et de la dimension pneumatologique du “projet” de Dieu, du péché comme refus de la communion avec le divin, de l’œuvre restauratrice du Christ, du rôle de Marie, de l’appropriation de la grâce moyennant les sacrements et enfin du rôle de l’homme dans l’œuvre de son salut. L’exposé (pourvu en finale d’un index analytique) est limpide et riche de renseignements. Les notes sont abondantes et stimulantes. Le contenu donne à penser, mais il n’est pas toujours convaincant. On l’aurait en effet souvent désiré plus systématique et moins répétitif. On l’aurait aussi désiré moins ingénu eu égard au fait que bien des données théologiques présentées ici comme des nouveautés par rapport à la théologie occidentale font non seulement partie intégrante de cette théologie (presque sans exception pour celle des dernières décennies), mais encore sont dépassées par elle. On a l’impression que pour mieux mettre en relief l’originalité de la théologie orthodoxe, le point de comparaison est réduit à ce que les occidentaux pensaient il y a des années. Je signale par exemple la théorie de la “théologie juridique” empruntée plus au moins à tort à s. Anselme de Cantorbéry (voir en l’occurrence les travaux importants de Michel

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Corbin) et présenté comme caractéristique essentielle et toujours actuelle de la théologie occidentale. Les recherches récentes de Bernard Sesboüé sur la sotériologie chrétienne (non mentionnées par l’auteur) ont montré de façon indubitable que ce modèle a bel et bien rendu l’âme dans la théologie occidentale contemporaine. On aurait enfin désiré plus de précisions sur certaines affirmations théologiques de très grande portée. Pour faire bref, j’en relève une d’importance majeure pour toute saine théologie de quelque allégeance qu’elle soit. En se référant à s. Maxime le Confesseur, l’auteur écrit: “Bien que l’incarnation soit liée à la divinisation de l’homme, elle ne dépend pas dans le projet de Dieu de cette dernière; elle n’est pas un simple instrument en vue de la divinisation de la nature humaine. Au contraire. C’est l’homme qui, avec tout l’univers, est créé pour pouvoir rendre possible l’incarnation du Verbe” (p. 85). Je ne sais pas si Maxime le Confesseur, si soucieux de sauvegarder l’identité de l’homme au sein même de son union avec Dieu, entérinerait ce commentaire de sa pensée. Je m’explique. S’il est vrai de dire que le Verbe/Fils incarné a priorité sur l’homme au plan de la réalisation du plan de Dieu en faveur de l’homme (le “vers le Christ” paulinien), n’y a-t-il pas aussi une priorité de l’homme sur le Christ au plan de la conception de ce même projet (la divinisation cause finale de l’incarnation). Autrement dit, si par l’amour libre et imprévisible de Dieu en faveur de l’homme le Fils incarné est essentiellement “pro-existant”, ne fautil pas concéder à l’homme une certaine préséance? Si ce n’était pas le cas ou si l’on concevait l’homme (et son univers) uniquement comme condition de possibilité de l’incarnation, qu’en serait-il de la consistance propre de l’homme devant Dieu? Au grand dam d’une donnée majeure de l’anthropologie de Maxime, ne tomberait-on pas par là dans les travers de la “concentration christologique” du premier K. Barth par exemple? Même si d’autres questions de ce genre pourraient être posées, la valeur déjà signalée de ce volume reste entière. Espérons que de nombreux lecteurs, y compris les moralistes, sauront en profiter. RÉAL TREMBLAY C.SS.R.

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Zuccaro, Cataldo, La vita umana nella riflessione etica. Brescia: Editrice Queriniana 2000, 352 p. L’applicazione delle nuove tecnologie alla medicina chiama l’etica a modificare la riflessione tradizionale e ad applicarsi anzitutto ai problemi di fondo della vita umana. Tendezialmente, secondo C.Zuccaro, essa diventa etica applicata, favorendo un nuovo ritorno della casistica. La vita umana nella riflessione etica si propone, come obiettivo particolare, di far emergere i nodi di fondo che spesso vengono tacitamente presupposti o ignorati nella discussione dei capitoli centrali dell’etica della vita. Zuccaro nella sua riflessione filosofico-teologica cerca di cogliere “ora l’insufficienza di alcune argomentazioni, ora alcuni aspetti dimenticati, ora la necessità di riaffermare prospettive già condivise” (Prefazione). Il suo metodo di analizzare e presentare gli argomenti (alcuni dei quali già pubblicati in forma di articoli) consiste nella problematizzazione degli aspetti presi in esame e nel tentativo di esporli in una lettura antropologica (la persona come essere bisognoso dell’atteggiamento accogliente e curante da parte dell’altro, il pianto dirotto del neonato, il rantolo cadenzato del morente), seguita dall’interpretazione etica e proiettata in chiave teologica, che viene sottolineata, in conclusione di ogni capitolo, in un’icona presa dal vangelo. Il volume di C.Zuccaro si struttura in sei capitoli, che prendono in esame questioni fondamentali dell’etica della vita. Il primo capitolo offre il quadro di riferimento generale delle attuali concezioni del vivere, dal suo nascere al morire, non dentro l’ambito di competenza della bioetecnologia applicata, ma dentro il terreno del quotidiano vissuto. Gli atteggiamenti oggi comunementi diffusi nei confronti della vita-morte sono espressi nelle visioni antropologiche soggiacenti: il miraggio dell’onnipotenza dell’uomo (homo potens), la paura della morte che tradisce in fondo la paura della vita (homo pavidus), l’uomo che contempla se stesso per sfuggire agli altri e che rifiuta la morte (homo narcissus). La vera risposta alla qualità della vita è la santità della vita umana data, come dono da accogliere responsabilmente, dal Creatore e vissuta da Gesù come kénosis (L’icona di Cristo, Homo Novus). Nei capitoli successivi l’autore si addentra nelle nozioni di tempo (come rapporto con lo stesso Infinito – il kairòs in tensione verso l’éschaton), corpo umano (come autentico momento epifanico della persona, occasione e possibilità di incontro), nascita, salute, malattia e morte, cercando di compren-

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derle nella concreta applicazione ad alcuni casi particolari (aborto, clonazione, trapianto da cadavere, eutanasia o suicidio). Dopo la lettura del volume mi sembra di constatare che i sei capitoli, che avrebbero dovuto prendere in esame i problemi fondamentali della vita umana, in realtà non sono stati discussi in modo esaustivo, come del resto segnala l’autore stesso nella prefazione; egli infatti ha voluto indicare un metodo di riflessione piuttosto che percorrere fino in fondo la strada intravista. È per questo “piuttosto” di Zuccaro, secondo il mio parere che, rispetto al primo capitolo, i cinque capitoli successivi siano una negazione dell’intenzione - annunciata nel I Capitolo (di riferimento generale) - di analizzare le attuali concezioni del vivere dentro il terreno del quotidiano vissuto. Il linguaggio bello e sofisticato (spesso preso da altri autori) tradisce in verità la distanza e la lontananza dall’ospedale, dal letto del paziente in fase terminale o del morente (come dire paura dell’homo pavidus). Inoltre, la chiave metodologico-epistemica centrata sulla persona intesa come essere del bisogno mi sembra un fondamento artificiale non organicamente correlato, in quanto la riflessione risultante dalla volontà di salvare un insieme di articoli, non impedisce a C.Zuccaro di cadere, paradossalmente, nella parzialità e nella casistica. Ad “appesantire la lettura” non è tanto la mancanza di precisione tecnica nel descrivere le nozioni mediche implicate nella discussione – mancanza confessata del resto dall’autore stesso – bensì la frequenza sproporzionata delle auto-citazioni (Zuccaro da Zuccaro).

EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.

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Books Received / Libros recibidos

ARCHIDIOCESI DI GENOVA. UFFICIO SCOLASTICO. M. Doldi, M. Picozzi (a cura di), Introduzione alla bioetica. Leumann (Torino): Elle Di Ci 2000, 95 p. [Con presentazione di S. E. Card. D. Tettamanzi, Arcivescovo di Genova]. BEESTERMÖLLER, GERHARD, JUSTENHOVEN, HEINZ-GERHARD (Hrsg.), Friedensethik im Spätmittelalter. Theologie im Ringen um die gottgegebene Ordnung. Stuttgart/Berlin/Köln: Verlag W. Kohlhammer 1999, 100 p. (Beiträge zur Friedensethik 30). BOMBACI, NUNZIO, Una vita, una testimonianza: Emmanuel Mounier. Messina: Armando Siciliano 1999, 367 p. CARLOTTI, PAOLO, Etica cristiana, società ed economia. Roma: LAS 2000, 169 p. (Biblioteca di Scienze Religiose 158). COLOMBO, ALESSANDRO (a cura di), Primo catalogo dei documenti sociali dei vescovi italiani (1991-1997). Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore. Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa 1999, 279 p. (Quaderni 7). DOGLIO, CLAUDIO (a cura di), Cristo Omega e Alfa. Genova: Marietti S.p.A. 1999, 492 p. (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Sezione di Genova). DWYER, JUDITH A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints in the Catholic Tradition. Washington, D. C.: Georgetown University Press 2000, xiv + 210 p. FLECHA, JOSÉ ROMÁN (ed.), 50 aniversario de la declaración de los derechos humanos. Inauguración de la cátedra “Cardenal Ernesto Ruffini” (Salamanca, 10 de diciembre de 1998). Salamanca: Universidad Pontificia de Salamanca 1999, 76 p. (Cátedra Cardenal Ernesto Ruffini 2). FRATTALLONE, RAIMONDO, L’educazione sessuale. Interrogativi e risposte alle domande di senso sull’amore. Messina: Istituto Teologico S. Tommaso 1999, 254 p. (Cultura e vita 3). GAINO, ANDREA, Esistenza cristiana. Il pensiero teologico di Juan Alfaro e la sua rilevanza morale. Roma: Editrice Pontificia Università Gregoriana 1999, 340 p. (Tesi Gregoriana. Serie Teologia 54).

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BOOKS RECEIVED

/ LIBROS RECIBIDOS

HOOSE, BERNARD (ed.), Christian Ethics. An Introduction. London: Cassell 1998, 337 p. KEATING, JAMES (ed.), Spirituality and Moral Theology. Essays from a Pastoral Perspective. New York/Mahwah, N. J.: Paulist Press 2000, 153 p. KEENAN, JAMES F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS Prevention. New York/London: Continuum 2000, 351 p. LOBO HERNÁNDEZ, ERICK, “Para que deis fruto, y vuestro fruto permanezca” (Jn 15, 16). Documentación moral de la Iglesia (EnMo). Heredia, C. R.: Litografia Morales 1999, 460 p. MCINERNY, RALPH M. S. L. Brock (a cura di), F. Di Blasi (trad.), L’analogia in Tommaso d’Aquino. Roma: Armando Editore 1999, 188 p. (Studi di filosofia). MARET, MICHEL, L’euthanasie. Alternative sociale et enjeux pour l’éthique chrétienne. Saint-Maurice: Éditions Saint-Augustin 2000, 383 p. MERKS, KARL-WILHELM, Hacia una ética de la fe. Moral y Autonomía (Curso de Teología Moral) = Tópicos ’90. Cuaderno de Estudios 9 (Diciembre 1999), 187 p. [Centro ecumenico Diego de Medellin]. MONTI, EROS, Alle fonti della solidarietà. La nozione di solidarietà nella dottrina sociale della Chiesa. Milano: Glossa 1999, 532 p. (Dissertatio. Series romana 25) [Presentazione di Ivan Fucek, s.j.]. RUFFINI, ERNESTO. J. R. Flecha (a cura di), Fe cristiana y sociedad. Salamanca: Universidad Pontificia de Salamanca 1998, 197 p. (Cátedra Cardenal Ernesto Ruffini 1). RUSSO, GIOVANNI (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica. Torino: Elle Di Ci 1999, 541 p. (Collana “Evangelium vitae” 6). SCHUMACHER, BERNARD N., Une philosophie de l’espérance. La pensée de Josef Pieper dans le contexte du débat contemporain sur l’espérance. Fribourg, Suisse/Paris: Éditions universitaires de Fribourg/Éditions du Cerf 2000, 281 p. (Études d’éthique chrétienne / Studien zur theologischen Ethik 86). SCHWAIGER, CLEMENS, Wie glücklich ist der Mensch?: Zur Aufnahme und Verarbeitung antiker Glückstheorien bei Thomas von Aquin. München: Don Bosco Verlag 1999, 26 p. (Benediktbeurer Hochschulschriften 13). THEOLOGISCHE FAKULTÄT DER UNIVERSITÄT LUZERN. E. Christen, W. Kirchschläger (Hrsg.), Erlöst durch Jesus Christus:

BOOKS RECEIVED

/ LIBROS RECIBIDOS

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Soteriologie im Kontext. Freiburg, Schweiz: Paulusverlag 2000, 146 p. (Theologische Berichte 23). TUPINI, GIORGIO, Morale e ritardi cattolici. Ragione, istinto, etiche di turno. Roma: Gangemi 2000, 127 p. (Secolo XXI. Saggistica e Progetti 2). VIEIRA SILVA, RAFAEL, De Babel a Pentecostes. Um itinerário ético para a informação planetária. Aparecida, SP, Brasil: Editora Santuário 1999, 220 p. (Coleção teológica 3). ZUCCARO, CATALDO, La vita umana nella riflessione etica. Brescia: Editrice Queriniana 2000, 352 p. (Giornale di teologia 269).

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INDEX OF VOLUME XXXVIII 2000 ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII 2000

ARTICLES / ARTÍCULOS BILLY, D. J., Models and Multivalence: On the Interaction between Spirituality and Moral Theology . . . . . . . . BOTERO GIRALDO, J. S., El ‘fracaso conyugal’ en una nueva perspectiva. Breve reflexión teológica para nuestros tiempos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . FAGGIONI, M. P., La sfida del riduzionismo tecnoscientifico al progetto uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . GALLAGHER, R., The Alphonsian Tradition in the Light of Consueverunt omni tempore. The Theological Significance of an Ecclesial Event . . . . . . . . . . . . . . GILBERT, P., Le pardon dans la culture contemporaine . . HAJDUK, R., Therapeutische Beichtpraxis. Eine Rückbesinnung auf die Rolle des Beichtvaters nach dem Buch Praxis Confessarii von Heiligen Alfons Maria de Liguori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . JÉRUMANIS, A.-M., Le défi de l’espérance aux espérances intramondaines. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MAJORANO, S., Il confessore, pastore ideale nelle opere di sant’Alfonso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MCKEEVER, M., Tempi, testi, tradizioni: riflessioni conclusive [al convegno “La morale alfonsiana…”]. . . . MCKEEVER, M., The Use of Human Rights Discourse as a Category of Ethical Argumentation in Contemporary Culture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MERKS, K.-W., Tradition und moralische Wahrheit. Eine Antwort an Brian V. Johnstone . . . . . . . . . . . . . . . . . MÜNK, H. J., Sustainable Development as a Task of the State. Ethical Aspects of Political-Legal Realisation RAMOSE, M. B., Only the Sovereign May Declare War and NATO as well. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

45

141 437

297 405

5 475 321 511

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INDEX OF VOLUME XXXVIII

/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII

REHRAUER, S. T., The Injustice of Justice and the Justice of Injustice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TORCHIA, J., St. Augustine’s Critique of the Adiaphora: A Key Component of his Rebuttal of Stoic Ethics . . . TREMBLAY, R., “Hors de moi, vous ne pouvez rien faire” (Jn 15, 5). À propos du fondement ultime de la morale chrétienne. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TREMBLAY, R., Le pain rompu à manger et le vin versé à boire, visage du Crucifié ressuscité dans le temps de l’Église. Dans le sillage de Lc 24, 13-35. . . . . . . . . . . VIDAL, M., Rasgos innovadores en la moral de san Alfonso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VIDAL, M., La Trinidad: origen y meta de la moral cristiana. En las huellas de San Agustín y de San Buenaventura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONCERNING / A PROPÓSITO DE FIDES ET RATIO LAFFITTE, J., L’agir rationnel du croyant. L’apport de l’encyclique Fides et ratio à la théologie morale . . . . EVENT / EVENTO HIDBER, B., La morale alfonsiana: strumento ermeneutico per una risposta alle sfide di ieri e di oggi? Presentazione, scopo e struttura del Convegno . . . . TOBIN, J. W., Saluto ai partecipanti [al convegno “La morale alfonsiana…”]. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CHRONICLE / CRÓNICA GROS, D., Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . REVIEWS / RECENSIONES ÁLVAREZ VERDES, L., Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo (M. Vidal) . . . . . . . . . . . . . BRUCH, R., Person und Menschenwürde. Ethik im lehrgeschichtlichen Rückblick (M. McKeever) . . . . . . . . . . CARLOTTI, P., Etica cristiana, società ed economia (R. Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . COLOM, E., RODRÍGUEZ LUÑO, A., Scelti in Cristo per essere santi. Elementi di Teologia Morale Fondamentale (R. Tremblay) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

229 165 381

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INDEX OF VOLUME XXXVIII

/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII

DOGLIO, C. (a cura di), Cristo Omega e Alfa (L. Álvarez Verdes). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DURRWELL, F.-X., Aux sources de l’apostolat. L’apôtre et l’eucharistie (R. Tremblay). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DWYER, J. A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints in the Catholic Tradition (D. J. Billy) . . . . . . . . . . . . FABRI DOS ANJOS, M. (organizador), Teologia aberta ao futur (J. S. Botero Giraldo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . FRATTALLONE, R., L’educazione sessuale. Interrogativi e risposte alle domande di senso sull’amore (S. Majorano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . GERARDI, R., Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù (E. Kowalski) . . . . . . . . . . . HOOSE, B. (ed.), Christian Ethics. An Introduction (R. Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . JONES, F. M. (ed.), Alphonsus de Liguori: Selected Writings (D. J. Billy) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . KEENAN, J. F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS Prevention (T. Smith) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LÓPEZ, T., Mancio y Bartolomé Medina: Tratado sobre la usura y los cambios (L. Álvarez Verdes) . . . . . . . . . . MERKS, K.-W., Gott und die Moral, Theologische Ethik heute (M. McKeever) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MORENO REJÓN, F., Historia de la Teología Moral en América Latina: Ensayos y materias (J. S. Botero Giraldo). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . PALUMBIERI, S., L’uomo, questa meraviglia. Antropologia filosofica (S. Majorano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RAPONI, S., Alla scuola dei Padri. Tra cristologia, antropologia e comportamento morale. Alcuni saggi (M. Vidal) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RUSSO, G. (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica (E. Kowalski) . . . . . . . . . . . . . SCHWAIGER, C., Wie glücklich ist der Mensch? Zur Aufnahme und Verarbeitung antiker Glückstheorien bei Thomas von Aquin (R. Gallagher). . . . . . . . . . . . SPITERIS, Y., Salvezza e peccato nella tradizione orientale (R. Tremblay) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ZUCCARO, C., La vita umana nella riflessione etica (E. Kowalski) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII

BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS . . . . . . . . . .

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