Simbolica ecclesiale. La parola della fede. Introduzione alla simbolica ecclesiale [Vol. 1] [PDF]

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Zitiervorschau

SIMBOLICA ECCLESIALE - 1

BRUNO FORTE

SIMBOLICA ECCLESIALE Una teologia come storia 1. La Parola della fede Introduzione alla Simbolica Ecclesiale (1996) 2. La teologia come compagnia, memoria e profezia Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia (1987) 3. Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia Saggio di una cristologia come storia (1981) 4. Trinità come storia Saggio sul Dio cristiano (1985) 5. La Chiesa della Trinità Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione (1995) 6. L'eternità nel tempo Saggio di antropologia ed etica sacramentale (1993) 7. Teologia della storia Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento (1991) 8. Maria, la donna icona del Mistero Saggio di mariologia simbolico-narrativa (1989)

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 1996 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

INTRODUZIONE

Il titolo di questo libro è tratto da un'espressione di Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (Rm 10,8). Intento dell'Apostolo è non solo quello di evidenziare come l'abisso che separa il cielo dalla terra sia stato superato grazie all'atto dell'infinita misericordia di Dio, che ha voluto farsi vicino agli uomini servendosi delle parole del loro linguaggio ed abitando nel loro cuore, ma anche quello di mostrare come questa parola vicina sia precisamente l'oggetto dell'annuncio apostolico e il contenuto della fede, da cui nasce la Chiesa. In tal modo la frase di Paolo viene a rispondere tanto all'interrogativo sulla possibilità del parlare di Dìo, quanto e soprattutto a quello su che cosa sia necessario credere per avere salvezza e vita. È perché Dio si è fatto vicino a noi nella Sua parola, che ci è dato di dire qualcosa del Mistero santo, ed è a questo stesso Mistero, resosi accessibile a noi, che siamo chiamati ad affidarci con l'intelligenza e con il cuore per essere liberi e salvi: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Sono i medesimi interrogativi di cui si occupa questo libro: da un lato esso affronta la questione della possibilità di parlare di Dio, dall'altro vorrebbe offrirne un esempio concreto. La risposta all'interrogativo sul linguaggio teologico è colta nel fatto stesso che ci sia una parola della rivelazione, che, lungi dall'annullare la dignità della ricerca umana di dire il Mistero più grande, ne fonda autenticamente il valore e ne porta le possibilità al compimento più alto. Se V'Eterno non ha disdegnato di abitare le nostre parole e il nostro cuore, non solo l'uomo può essere ritenuto "capace di Dio", ma anche il suo linguaggio rivela possibilità altrimenti impensabili. Certamente, Dio resta sempre più grande di ogni nostro sforzo di dire di Lui: anche nell'atto del Suo rivelarsi egli si dice e si tace, si rivela, velandosi, e si nasconde, comunicandosi agli uo5

mini. Perciò l'abbandono della fede è condizione necessaria per accogliere l'indicibile trascendenza divina, e per lasciarsi docilmente condurre verso le profondità intraviste, ma non possedute, nella rivelazione del Mistero. Proprio così, però, la parola della fede tiene insieme "simbolicamente" la terra e il cielo, e consente al credente di dire Dio restando nel santuario dell'adorazione e di lasciarsi raggiungere e trasformare dal Suo avvento al di là di ogni rinuncia a parlare di Lui o a cercare il Suo volto. Di questo parlare "simbolico" questo libro cerca anche di offrire un saggio attraverso una sintetica presentazione teologica della "parola della fede", a partire dalla testimonianza che dì essa dà la vivente tradizione ecclesiale. La struttura del libro rispecchia il contenuto: se ì primi due capitoli sono dedicati rispettivamente alla questione del linguaggio teologico e alla presentazione della "simbolica della fede" come via per dire il Mistero senza violarne l'abissale eccedenza, gli altri tre si sforzano di presentare compendiosamente il contenuto della fede, raccogliendolo nell'esposizione del Mistero proclamato, celebrato e vissuto. Il Credo, i Sacramenti, la vita teologale ed i comandamenti costituiscono i capisaldi di questo sguardo d'insieme sui contenuti della parola della fede, utile non solo quale introduzione breve e densa al Mistero cristiano, ma anche quale compendio della Simbolica Ecclesiale, atto a meglio situare e comprendere le singole parti nell'organicità del tutto. Gli otto volumi di quest'opera1 si offrono in tal modo nella loro unitarietà contenutìstica, anche se ciascuno vive dell'autonomìa del tema centrale dì cui tratta. In tal senso il sottotitolo del libro — «Introduzione alla Simbolica Ecclesiale» — è pienamente giustificato, sia perché rimanda alle questioni preliminari in esso affrontate della possibilità e dei lìmiti del parlare di Dio, sia perché richiama la presentazione d'insieme dei contenuti della fede, in esso tentata. L'Indice analitico dell'intera Simbolica, infine, contribuisce ad evidenziare l'unità organica dell'opera nella specificità delle sue partì: esso consente di servirsi dei diversi volumi, percorrendoli in maniera tra1 Secondo l'ordine del progetto (con l'anno di pubblicazione fra parentesi): La Parola della fede. Introduzione alla Simbolica Ecclesiale (1995); La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia (1987.19922); Gesù di Nazaret, storia di Dìo, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia (1981; 19947); Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano (1985; 19935); La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione (1995.19952); L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale (1993); Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento (1991; 19912); Maria, la donna icona del Mistero. Saggio dì mariologia simbolico-narrativa (1989; 19962).

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sversale in rapporto ai vari temi fondamentali della riflessione teologica e dell'esperienza cristiana. Con questo volume si conclude il lungo cammino di elaborazione della Simbolica Ecclesiale: mi sia consentito ancora una volta, al termine del percorso, di rendere grazie al Dio della storia per tutti i Suoi doni, e di farlo in quella comunione della fede della Sua Chiesa ed in quel desiderio di dialogo e di servìzio agli uomini e alle donne del nostro tempo, che hanno sostenuto l'intera impresa. Possa anche quest'opera costituire un contributo alla causa del Regno del Signore, che è poi nel senso più vero e profondo anche la causa dell'umanità sana, buona e felice, corrispondente al disegno di Colui che per amore l'ha voluta e per amore la chiama alla vita piena della comunione con Luì, oggi nella fatica del pellegrinaggio e nella compagnia del Suo popolo, domani nella festa dell'universo riconciliato, in cui Dio sarà tutto in tutti e il mondo intero sarà la patria di Dio. Napoli, 31 luglio 1995 Memoria di Sant'Ignazio di Loyola, Maestro nel discernimento spirituale e nella vita vissuta "ad maiorem Dei gloriam"

BRUNO FORTE

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1. IL M I S T E R O E LA PAROLA

La teologia parla di Colui, di cui si dovrebbe piuttosto tacere. Consapevole di questa sua condizione paradossale, essa sa tuttavia di non poter non parlare di Lui: per sua natura la teologia è parola su Dio ("Xóyo? del Dìo", nel senso del genitivo oggettivo), che costitutivamente rimanda alla parola, che Dio dice di sé ("xoù Geoù Xóyo?", "parola di Dio" nel senso del genitivo soggettivo). La parola teologica è tanto inevitabile, quanto gravida di silenzio, di interruzione e di attesa: essa dice, tacendo; tace, dicendo; ascolta, interrogando; interroga, ascoltando. È parola di domanda ed insieme parola di risposta. In quanto discorso umano, la teologia parla a partire dall'uomo; eppure, è vera teologia quando accetta di parlare a partire da ciò che l'Altro ha detto di sé: «Omnis recta cognitio Dei, ab oboedientia nascitur» (Calvino). Se retta è solo quella conoscenza di Dio, che nasce dall'obbedienza, a chi obbedisce il teologo quando inizia a parlare di Dio? a chi corrisponde? per chi e di che cosa è responsabile? e a quali condizioni il suo parlare è strutturalmente preciso? quali limiti esso porterà inevitabilmente con sé, come stigmate impresse nella carne della parola? quali caratteri presenterà una "parola della fede", che voglia dire Dio senza violarne il mistero ed insieme senza rinunciare a parlare sensatamente di Lui? A queste domande anzitutto deve rispondere un'esposizione della fede cristiana, che voglia essere responsabile tanto verso il suo oggetto, quanto verso coloro cui si rivolge e verso la comunità ecclesiale, di cui si fa in certo modo voce e coscienza riflessa. Così, fra l'esodo, che è la condizione umana in permanente ricerca e attesa del Mistero più grande, e l'Avvento, in cui la 9

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Parola di Dio e il Suo Silenzio hanno abitato il tempo degli uomini, la teologia è parola di frontiera: sta al confine, continuamente rinviando dall'una e dall'altra parte, fra la fragile terra dove poggiano i nostri piedi e l'abisso insondabile, che è la regione dell'Altro. Due movimenti l'attraversano, fra di loro totalmente asimmetrici: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e combattere la sua lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l'altro esisterebbe, dell'Origine, inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi dal Suo insondabile Silenzio. Il ponte che percorre questa asimmetria è chiamato nel Nuovo Testamento "amore" (cfr. lGv 4,8.16), come a dire che nessun'altra ragione può darsi per il passaggio all'esistenza di tutto ciò che esiste che un atto di purissima gratuità, di libertà totale ed amante, un bene diffusivo di sé per l'esigenza intrinseca a sé del puro donarsi. Sul piano del linguaggio, è il simbolo che tiene insieme i distinti nell'abisso dell'asimmetria che li costituisce come tali: ed è il pensiero dell'analogia quello che tenta di render ragione della possibilità di una vicinanza nell'infinita separatezza e della lontananza nella prossimità, postulate dal linguaggio della fede, che è nel senso più alto "verbum caritatis", linguaggio dell'amore.

1.1. L'ATTESA DELLA PAROLA

a) La sfida dell'interruzione Basta uno sguardo all'esistenza umana in questo mondo per constatare come e quanto la vita degli uomini sia determinata dal loro inesorabile essere "gettati" verso la morte: «La morte sovrasta l'Esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto al minimo, ma è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta... La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile»1. L'immediata evidenza riconosce nella vita il viaggio senza ritorno verso le tenebre, che prima 1

M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino 19862, 377s (§ 50).

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o poi aspettano ogni vivente come l'ultima sponda, l'assoluto silenzio oltre ogni parola: perciò la vita è impastata di finitudine e di dolore e agli abitatori del tempo la loro dimora appare sempre troppo corta e troppo breve. «L'esser-gettato nella morte si rivela all'Esserci nel modo più originale e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia... Il "davanti-a-che" dell'angoscia è l'essere-nel-mondo stesso» 2 : l'unica vera domanda, quella sulla quale sta o cade la verità di ogni risposta, è la domanda sull'interruzione, l'angoscia in cui essa si esprime. Veramente, il pensiero nasce dal dolore. Se non esistesse la morte non esisterebbe la vita pensante, non si schiuderebbe il mondo alla coscienza: «L'angoscia apre originariamente e direttamente il mondo come mondo» 3 . E il patire che suscita in noi la domanda, accendendo la sete di ricerca, lasciando aperto il bisogno di senso. Dove non si fa esperienza dell'interruzione, la coscienza resta assopita in una sorta di assente letargo, sazio di sé, vuoto di vita. Pensare vuol dire allora accogliere l'invito ad attraversare l'abisso del negativo: «Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione, anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare se stesso nell'assoluta devastazione... Lo spirito è questa forza perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell'essere» 4 . Pensare è perciò l'operazione più responsabile, più seria, più realizzante, ed insieme la più lacerante e faticosa che sia dato compiere all'uomo. Pensare è portare al concetto la verità totale, che è la vita, senza nascondere o rifiutare «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo» 5 . E nella forma della "coscienza infelice", che il ruolo del negativo si affaccia: « La coscienza infelice è la coscienza di sé come dell'essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione» 6 . Il dolore non è che la coscienza della scissione irrisolta del vivere per la morte: «La coscienza della vita, la coscienza dell'esistere e dell'operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare» 7 . 2 3 4 5 6 7

Ib., 379. Ib., 295 (§ 40). G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. di E. De Negri, Firenze 1973, 26. Ib., 14. Ib., 174. Ib., 175.

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La sola via che sembra aprirsi all'uomo per uscire dalla situazione della coscienza infelice è quella di capovolgere il processo: resistendo al cammino che la getta verso il nulla, occorre che la coscienza sappia pro-gettarsi, ritrovando in se stessa la sorgente di vita più forte della morte. E questo il compito del pensiero, la sua più alta "pietas": e ciò avviene quando la coscienza diviene autocoscienza, si scopre cioè come ragione, presenzialità dello spirito a se stesso, che unifica in sé i diversi aspetti della realtà e della scissione: «Soltanto nell'autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di svolta: qui essa, movendo dalla variopinta parvenza dell'ai di qua sensibile e della vuota notte dell'ai di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della presenzialità»8. La coscienza del dolore, divenendo problema e domanda da cui nasce e di cui si nutre lo spirito indagante, rivela come il cammino verso la vita sia in realtà più profondo e più forte di quello verso la morte, e mostra cosi come l'essere umano non sia semplicemente gettato verso l'abisso del nulla, ma sia più radicalmente resistente alla morte, chiamato alla vita. È questo l'itinerario del pensare: dalla morte si nasce pellegrini verso la vita. E questa la "svolta": «Questo correre innanzi in direzione della morte non è perché così venga raggiunto il semplice "nulla", ma al contrario affinché l'apertura per l'essere si apra del tutto e a partire da qualcosa di estremo»9. Il cammino dell'uomo si delinea dunque nella sua verità in questo prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non stordendosi rispetto ad essa, ma aprendosi ad un più radicale trascendimento. In chi guarda negli occhi la morte si compie il miracolo: vivere non sarà più soltanto un imparare a morire, ma diventerà un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l'uomo non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla vittoria che copre col suo silenzio tutte le cose, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l'uomo si riconosce non come un condannato alla terra, ma in essa e per essa come un «mendicante 8

Ib., 152. M. Heidegger, Beitràge tur Philosophìe. (Vom Ereignis), a cura di Fr.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M. 1989, 283. Quest'opera, scritta fra il 1936 e il 1938, non fu pubblicata da Heidegger. La sua pubblicazione nella Gesamtausgabe, voi. 65, consente nuove interpretazioni dell'itinerario heideggeriano e della svolta (Kehre) che lo caratterizza. 9

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del cielo» (J. Maritain): «Hai fatto il nostro cuore per Te ed inquieto è il cuore nostro finché non riposi in Te » (Agostino). L'uomo è un cercatore di senso, che invoca la luce che riesca a vincere l'oscurità ultima della morte e dia valore alle opere e ai giorni, offrendo dignità e bellezza alla tragicità del nostro vivere e del nostro morire. Perciò la condizione dell'essere umano è quella dell'esodo: pellegrino è l'abitatore del tempo.

b) L'esistenza come esodo L'uomo è un cercatore della patria lontana, che, lottando contro l'apparente trionfo della morte, si lascia permanentemente provocare, interrogare ed attrarre dall'ultimo orizzonte. In quanto questo orizzonte è la contestazione radicale della vittoria della morte, esso si offre come il mistero assoluto della vita, il grembo che avvolge l'esistere e lo custodisce più fortemente del silenzio dell'interruzione. Attratto da questo ultimo orizzonte, che lo rende pensante, l'essere umano sperimenta se stesso come "auto-trascendenza", esodo verso il Mistero che avvolge ogni cosa, desiderio e ricerca dell'inafferrabile e dell'indefinibile, non riducibile a una cattura indiscreta. Di questo orizzonte non si può disporre: «L'ultima misura non può a sua volta essere misurata... L'ampiezza infinita che tutto abbraccia e tutto può abbracciare non si lascia a sua volta abbracciare... L'orizzonte della trascendenza si sottrae non solo fisicamente, ma anche logicamente a ogni disposizione del soggetto finito» 10 . All'orizzonte misterioso della trascendenza ci si può solo disporre in attesa, in ascolto: «L'orizzonte della trascendenza si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silenzio, della lontananza, di uno che si mantiene costantemente in uno stato di non espressività, cosicché qualsiasi discorso da parte sua, per essere percepibile, ha sempre bisogno che tendiamo l'orecchio a un silenzio» 11 . In quest'orizzonte ultimo si affaccia la misteriosa figura, di cui scrive lo Heidegger "segreto": «L'ultimo Dio non è la fine, ma l'altro inizio, l'inizio delle innumerevoli possibilità della nostra storia. Grazie a lui, alla storia che c'è stata finora è consentito di non perire; grazie a lui, essa deve essere por10 11

K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977, 95. Ih.

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tata alla sua fine. Dobbiamo far sì che venga approntata per tale passaggio la trasfigurazione delle sue essenziali posizioni di fondo»12. La struttura portante della esistenza umana è pertanto il suo movimento esodale, la sua autotrascendenza, la permanente tensione ad uscire da sé per superarsi verso il Mistero assoluto. L'uomo è «la sentinella della silenziosa quiete del transitare dell'ultimo Dio»15, di quel Dio non "penultimo", non disponibile alle nostre catture, ma altro, sovrano ed eccedente, sempre in atto di venire. Davanti a questo ultimo orizzonte che lo inquieta e lo attrae, l'uomo si manifesta a se stesso come l'esserci dell'assoluta apertura verso il Trascendente: «L'uomo è spirituale, vive cioè la sua vita in una continua tensione verso l'Assoluto, in una apertura a Dio»14. Questo movimento di autotrascendenza non si compie nella forma di una pura e semplice necessità, di un processo dialettico che escluda la possibilità del rifiuto e perciò la dignità dell'assenso: l'idea di una rivelazione ridotta a spiritualizzazione progressiva dell'uomo secondo la sua "naturale" legge interna va semplicemente rigettata, perché lascia l'uomo nella sua solitudine, prigioniero di sé, costretto nella necessità già tutta disponibile della ripetizione dell'identico. La misteriosità dell'essere, il suo nascondimento nonostante la sua luminosità, è precisamente la condizione che rende possibile l'esercizio della libertà da parte dello spirito finito: il libero nascondersi e rivelarsi di Dio è il fondamento ontologico della condizione di libertà della creatura. Senza l'assenso gratuito dell'amore in se stesso libero né Dio si aprirebbe all'uomo, né l'uomo si aprirebbe alla profondità dell'essere divino. L'autotrascendenza non si realizza al di fuori di una scelta, di un'autodeterminazione morale: l'esodo della condizione umana è cammino di libertà. Perciò si può dire che «l'uomo è l'ente che, amando liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione. L'uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazione»15. La decisione della libertà, di cui l'autotrascendenza ha bisogno per realizzarsi, non può compiersi però in astratto, ma 12

Al Heidegger, Beitrage, o.c, 411. » Ih., 294. 14 K. Rahner, Uditori delta parola, Torino 1967, 97. 15 Ib., 145.

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— come è di ogni "de-cidere" — deve compiersi in rapporto a un luogo determinato e ad un evento concreto, con cui si incontri l'apertura del cuore umano. È pertanto necessario che questo luogo dell'incontro con la trascendenza del Mistero venga a precisarsi e che l'esistenza come esodo si disponga all'ascolto di un possibile avvento dell'Altro nell'orizzonte del tempo: «L'uomo è l'ente che nella sua storia deve tendere l'orecchio a un'eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana» 16 . L'atto di una possibile autocomunicazione di Dio non può che essere storicamente determinato, perché l'uomo è spirito come essere storico e comunica l'oggetto della sua conoscenza mediandolo nella parola, pur senza alcuna pretesa di esaurirlo: «Finché quindi l'uomo non partecipa della visione immediata di Dio, è sempre ed essenzialmente — in forza della costituzione fondamentale della sua esistenza — un uditore della parola di Dio, colui che deve prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella manifestazione diretta del contenuto dell'oggetto rivelato nella sua propria essenza, ma nella sua comunicazione mediante segni rappresentativi, che indichino ciò che deve essere rivelato, pur essendo da essi diverso» 17 . Nell'ascolto della parola, carica di silenzio perché evocativa della realtà che in essa si comunica ma che pur sempre la trascende, l'uomo si apre liberamente alla libera autocomunicazione di Dio: lo spirito come autotrascendenza viene ad incontrarsi con l'autotrascendenza dell'essere divino, in un cammino di libertà, storicamente determinato e tale da realizzare e al tempo stesso stimolare la trasparenza dell'essere a se stesso che si compie nella coscienza dell'uomo.

e) Le religioni fra esodo e Avvento L'apertura trascendentale dell'essere umano trova dunque nella Parola della rivelazione il suo compimento possibile ed adeguato: un compimento che, tuttavia, rimanda alle profondità al di là del Verbo e richiede la permanente tensione della fede, chiamata ad aprirsi sempre più al Mistero divino, che nella Parola si è al tempo stesso rivelato e nascosto. In questa dialettica di "già" e "non ancora" si fonda da una parte la "pretesa" del16 17

Ih., 208. lb., 153.

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l'assolutezza del cristianesimo, in quanto religione della rivelazione storica del Dio vivente, dall'altra l'esigenza di interpretare correttamente le religioni, che avanzano pretese di rivelazione. La coniugazione della "pretesa" cristiana e del rispetto e discernimento del valore e dei valori delle religioni non cristiane non è facile compromesso o riduzione, ma obbedienza alla trascendenza del Mistero, che — pur comunicandosi nella più alta pienezza storicamente possibile nella parola e nel silenzio della rivelazione trinitaria — resta "assoluto", e perciò libero di disporre di sé secondo economie diverse, che non fanno concorrenza al Vangelo cristiano, ma anzi nella loro autenticità si prestano ad incontrarsi con esso ed a manifestare nella verità liberante di questo incontro la loro più profonda ricchezza, insieme all'attesa ancora incompiuta. Le religioni si offrono in questa luce anzitutto come possibile espressione autentica dell'esodo umano, in quanto autotrascendenza dell'uomo verso il Mistero santo: la decisione libera di apertura e di accoglienza della Trascendenza, dovunque si compia, è condizione di possibilità dell'incontro col Dio vivente e costituisce il fattore soggettivo che può rendere autentica ogni esperienza religiosa e che va perciò sempre riconosciuto e rispettato in qualunque ricerca del divino ed in tutte le religioni storiche. Non di meno è possibile riconoscere nelle grandi religioni delle forme dell'avvento divino, anche se non andranno mai sottovalutati né il loro carattere parziale, né l'eventuale mescolanza con resistenze e perfino contraddizioni rispetto alla buona novella. Non è perciò condivisibile una valutazione puramente negativa dei mondi religiosi non cristiani, come quella legata alla contrapposizione fra fede rivelata e religione intesa come struttura mondana di pretesa nei confronti del divino18; né, d'altra parte, si può condividere il pluralismo indifferenziato di alcune teologie delle religioni, ispirato a un effettivo «prender le distanze dall'insistenza sulla superiorità o finalità/definitività di Cristo e del cristianesimo, muovendosi contemporaneamente verso il riconoscimento dell'indipendente validità di altre vie»19. Fra que18 Per la tesi della religione come «faccenda dell'uomo senza Dio» cfr. K. Barth, Die kirchlìche Dogmatìk, 1/2, Zùrich 1938, § 17. In particolare Barth contesta all'eredità teologica liberale «l'inversione (XJmkehrung) del rapporto fra rivelazione e religione »: 318. 19 P. F. Knitter, Prefazione a L'unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, a cura di J. Hick e P. F. Knitter, Assisi 1994, 50s. Cfr. l'intero volume, che, pur nella diversità e complessità degli approcci, può essere nell'insieme considerato espressione di questa cosiddetta posizione pluralista.

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sti orientamenti contrapposti occorre perseguire la strada del dialogo nella verità e nella reciproca accoglienza, che mentre discerne le vie dello Spirito e i semi del Verbo dovunque presenti, non rinuncia a proclamare la grazia e lo scandalo della buona novella20. Non è dunque la religione in quanto tale che può opporre resistenza al dono dell'autocomunicazione divina: essa può anzi costituire una vera e propria praeparatìo evangelica. Se l'uomo è strutturalmente un pellegrino verso la vita, ciò che costituisce la vera tentazione paralizzante è il sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe fermare la permanente trascendenza del cammino: «L'esilio vero d'Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo»21. L'esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non si ha più nel cuore la nostalgia della patria. L'illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi compiuti nella propria vicenda, il catturare Dio nella misura del nostro orizzonte, è la malattia mortale: si è morti quando non si vive più l'inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora. E questo può accadere all'interno di ogni esperienza religiosa, compresa quella cristiana: perciò anch'essa sta sotto il permanente giudizio della Croce. Il verbum Crucis è parola scandalosa, che inquieta sempre, invitando ineludibilmente a scegliere fra il crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo, lasciandosi turbare da Lui, e il crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese, presumendo di averlo catturato. Perciò, «nel cristianesimo la tendenza a rendere finito l'Infinito, così tipica del comportamento religioso dell'uomo nei confronti di Dio, viene superata dall'avvenimento della rivelazione di Dio... Ma, come insegna l'esperienza, nemmeno i membri della Chiesa cristiana sono esenti dal rischio di stravolgere la religione in magia»22. In qualunque esperienza religiosa, dunque, l'uomo che si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, per il quale perciò essa non è più il Mistero ultimo da cui la20 E ad esempio l'orientamento presente in La teologìa pluralista delle religioni: un mito? L'unicità cristiana riesaminata, a cura di G. D'Costa, Assisi 1994. Cfr. pure B. Forte, Jesus Christ, Lord and Saviour, and the Encounter of Religions: The Paradox of Christianity and the Way of Dialogue, in Pontificium Consilium prò Dialogo Inter Religiones, Pro Dialogo, Theological Colloquium Fune, India, August 1993, Bulletin 85-86, 1994/1, 58-68. 21 I racconti dei Chassiditn, a cura di M. Buber, Milano 1979, 647. 22 W. Pannenberg, Teologia sistematica, I, Brescia 1990, 214: cfr. tutto il capitolo III ("La realtà di Dio e degli dèi nell'esperienza delle religioni": 139-214).

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sciarsi sempre più profondamente possedere, è l'uomo che ha ucciso in se stesso non solo Dio, ma anche la propria dignità di persona umana. Pienezza di umanità e autenticità religiosa si trovano soltanto in chi accetta di essere sempre in esodo, chiamato permanentemente ad uscire da sé per cercare una patria...

1.2. LA PAROLA NELLE PAROLE

Il Dio della fede ebraico-cristiana è il Dio dell'avvento, l'Eterno che ha tempo per l'uomo. Venendo nella storia, Egli dischiude il cammino, accende l'attesa, offre una promessa sempre più grande del compimento realizzato. Perciò, il Suo avvento è "ri-velazione": uno svelarsi, che vela, un venire, che apre il cammino, un ostendersi nel ritrarsi, che attira. A questa dialettica di apertura e di nascondimento rinvia lo stesso termine "revelatio" (analogo al greco ànoxalv^ii;), in cui il prefisso "re-" (àiró) ha tanto il senso della ripetizione dell'identico, quanto quello del passaggio alla condizione opposta: la rivelazione del Dio che viene toglie il velo che cela, ma è anche un più forte nascondere, è comunicazione di sé, che inseparabilmente si offre come un nuovamente "velare". Perciò la tradizione ebraicocristiana abbraccia accanto a una teologia della Parola, inseparabile da essa, una teologia del Silenzio: il dire di Dio non si compie mai senza un Suo più alto tacere...23. a) II Silenzio, provenienza e attesa della Parola Il silenzio è il grembo fecondo dell'Avvento, lo scenario in cui risuona la Parola, lo spazio dell'ultimo giorno24. Nel silenzio della rivelazione risuona l'eco di un altro Silenzio, quello 23 Per un inquadramento organico delle riflessioni qui proposte ed un maggiore approfondimento rinvio al volume settimo della Simbolica Ecclesiale: Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento, Milano 1991 2 , specie la Parte Prima, 36ss. Cfr. pure B. Forte, In ascolto dell'Altro. Filosofia e rivelazione, Brescia 1995. 24 Cfr. ad esempio A. Neher, L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato 1983. In una direzione analoga, sebbene con taglio più meditativo-letterario, si pone C. Vigée, Dans le sìlence de l'Aleph. Écriture et Révélation, Paris 1992.

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nel quale il mistero è stato avvolto per secoli (cfr. Rm 16,25), quello da cui procede la Parola nell'eternità e nel tempo. Al Silenzio divino corrisponde un umano silenzio: mentre però il primo è la Sorgente pura del Verbo, l'Origine senza origine e il Principio senza principio della divinità, silente Inizio di tutto ciò che esiste nell'assoluta gratuità dell'atto creatore, il silenzio mondano è preparazione, destinatario, accoglienza, spazio aperto per il sorprendente nuovo inizio, ascolto in attesa di essere fecondato dalla Parola. E tuttavia, pur nell'infinita distanza, il silenzio creaturale è impronta dell'altro: anch'esso grembo, sebbene di ciò che non produce, ma che ad esso procede dall'Altro; anch'esso aperto, sebbene non nella sorgività feconda, ma nella recettività umile e casta; anch'esso dimora, fatta per essere abitata dall'Altro, che è il Figlio eterno, procedente dal Silenzio. L'analogia del silenzio unisce i due mondi — di Dio e degli uomini — nella pur sempre più grande dissomiglianza e rivela non solo una condizione ontologica della creatura — il "silenzio dell'essere" —, ma anche una sua condizione storica ed una sua vocazione. La condizione ontologica può essere descritta come una "corrispondenza": «Il silenzio "cor-risponde" a quel suono senza suono della quiete col quale il Dire originario nel suo mostrare e appropriare si identifica» 25 . «L'Essere, in quanto destino che destina la verità, resta nascosto... Può darsi che allora il linguaggio richieda, invece di una espressione precipitosa, un giusto silenzio» 26 . La condizione storica è l'esperienza dei tempi del silenzio sino al suo vertice più drammatico, che è l'esilio della Parola, nella forma negativa del rifiuto dell'uomo o in quella positiva — anche se terribile — del silenzio di Dio. La vocazione ultima dell'uomo, in quanto essere della trascendenza, è quella di raggiungere il Silenzio dell'origine riconoscendovi la figura della Patria: tutto ciò che viene dal silenzioso Principio senza principio tende a ritornarvi come alla sua dimora e al suo riposo. Il divino Silenzio, da cui è creato il mondo, è anche la Patria della sua identità, il luogo del compimento finale, quando «Dio sarà tutto in tutti» (ICor 15,28) e ogni creatura sarà finalmente e pienamente se stessa in Lui. Verso 25 M. Heidegger, in cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano 1984, 207. 2f> Id., Lettera sull'umanismo, in Id., La dottrina dì Platone sulla verità. Lettera sull'umanismo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino 1975, 105. 110.

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questa Patria anela il silenzio dell'attesa: il Dio silenzioso e raccolto è la vocazione del mondo, l'approdo della nostalgia inscritta nell'essere silenzio della creatura. Dal Silenzio al Silenzio: in questa formula potrebbero evocarsi l'Origine e la Patria, l'Inizio e il Compimento degli esseri, che tendono a Colui da cui provengono. Come concepire il Silenzio, che sta nelle profondità dell'eterno al di là del tempo, del nascosto al di là del rivelato? La forma, in cui pensare il rapporto della Parola pronunciata nel tempo col Silenzio al di là di essa, deve tener conto della continuità ed insieme della differenza fra le due sponde: dove non si affermasse la continuità, il Silenzio resterebbe inaccessibile e la Parola vuota; dove non si tenesse conto della differenza, il Silenzio sarebbe risolto nella Parola e questa veicolerebbe un contenuto proprio soltanto di questo mondo. Occorre, dunque, che il modo di pensare il rapporto neghi ed affermi nello stesso tempo, ed insieme neghi ed affermi la negazione e l'affermazione ad un più alto livello. È la triplice via, divenuta classica a partire da Dionigi l'Areopagita: via negationis, via eminentiae, via causalitatis21. Se la prima via attraverso la negazione intende affermare la differenza, la seconda attraverso l'affermazione intende evidenziare la continuità: la terza via rappresenta un superamento delle prime due, perché congiunge i poli nell'indissolubile continuità e nell'irriducibile distinzione del rapporto di causalità. Dionigi propone la triplice via per elevarsi verso l'"al di là di tutte le cose": il tutto, oltre il quale andare, è l'orizzonte di questo mondo, visitato e rischiarato dal miracolo della rivelazione, che fa risuonare la Parola eterna nelle parole del tempo. La via negativa conduce alla tenebra intesa come semplice assenza di luce, al Silenzio percepito come puro ritrarsi della Parola. Questo negare non è affermazione del niente: il non detto al di là del detto è l'In-generato al di là del Generato, il Padre del Figlio. La negazione, cioè, afferma la distinzione fra i poli a partire da quello che si è reso accessibile a noi: con ciò essa 27 Cfr. De divinis nomìnibus, VII/3: PG 3,869-872, con la parafrasi di Pachimele, che apre il passaggio alla dottrina scolastica dell'analogia: PG 3,885-888. Sulla corrispondenza della via discensiva o "catafatica" e di quella ascensiva o "apofatica" in Dionigi cfr. B. Forte, L'universo dionisiano nel Pròlogo della "Mistica Teologia", in Medioevo 4 (1978) 1-57 (ora anche in Id., Sui sentieri dell'Uno. Saggi di storia della teologia, Milano 1992, 11-64).

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non svuota la consistenza dell'Altro, ma vi si approssima con la cautela e la modestia di un superamento della Parola vissuto in obbedienza alla Parola stessa: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9; cfr. 12,45). Il negare appare così come un più alto affermare: la via negativa si rivela del tutto complementare a quella positiva dell'eminenza. Il Silenzio della Non-Parola non si sposa al mutismo del non dire, ma al tacere eloquente del celebrare, all'adorante stare aperti verso la Trascendenza. Se la via negativa conduce al Silenzio come tenebra, notte del nostro conoscere e pensare, la via positiva eleva dalla Parola dell'Amato al Silenzio dell'Amante, alla sorgiva pienezza che si irradia per la limpida forza della Sua gratuità. Certamente anche qui la tenebra non è dissipata: essa però si offre non più nella forma negativa della nostra incapacità a trascendere, ma in quella positiva della divina accondiscendenza a discendere nella notte del mondo. E la tenebra come pienezza accecante di luce, come sovrabbondanza dell'amore che nessuna capacità umana di amare può circoscrivere o comprendere. E il Silenzio come pienezza fontale, gratuità pura dell'Amante, da cui viene la pura gratitudine dell'Amato, seno fecondo da cui procede il Verbo, e in Lui è creata ogni cosa. Mentre la via negativa mostra l'inesorabile incompiutezza di ogni esodo umano che sfocia nella tenebra al di là di ogni luce e nel Silenzio al di là di ogni parola, la via affermativa mostra l'infinita benignità dell'Amore, che gratuitamente si offre come sorgente della luce al di là di ogni tenebra e fonte della Parola al di là di ogni silenzio, come pura e sorgiva autocomunicazione divina, che supera l'abisso e raggiunge la notte e il silenzio del mondo come Tenebra luminosa e silente Inizio della vita. La "via eminentiae" viene così a congiungersi alla "via causalitatis": questa riassume e supera le altre due, perché riconosce nel Silenzio al di là del Verbo la Potenza originaria, il Primo Principio degli esseri, il Mistero fontale dell'eternità e del tempo, dal quale ha inizio ogni cosa, in cielo e in terra, visibile ed invisibile. Nella Parola il Dio del Silenzio si offre come il mistero del mondo, il grembo oscuro che avvolge ogni vita e a tutte dà esistenza ed energia. Il divino Silenzio, ascoltato attraverso la Parola come l'ai di là di essa, è la caligine oscura della via negativa, la tenebra luminosa dell' amore irradiante della via positiva, il Padre che è origine e fonte, principio senza principio del Figlio e dello Spirito nell'eternità divina e di ogni co21

sa nel tempo secondo la via dialettica della causalità, che unisce e distingue i due poli. Sullo sfondo di questo Silenzio divino il Verbo si offre come la luce che viene nelle tenebre, la rivelazione dell'amore fontale attuata nella "consegna" di sé sino alla fine, il Figlio che solo può renderci figli aprendoci l'accesso al mistero del Padre... b) La Parola, avvento del Silenzio Nel "frattempo", che sta fra il primo e l'ultimo Silenzio, si situa l'evento della Parola, coeterna nell'eternità, anche se generata e determinata temporalmente nella storia del Suo avvento fra gli uomini. Proprio, però, perché "inscritta" nel Silenzio, la Parola ne è mediazione, rimando alle profondità silenziose, che costituiscono la provenienza della sua venuta, nel tempo e nell'eternità. Ecco perché accoglie veramente la Parola fatta carne solo chi ascolta il Silenzio, da cui essa proviene ed a cui essa dischiude. L'autentico "ascolto" del Verbo è udire il Silenzio al di là della Parola, il Padre di cui il Figlio è rivelazione nel mistero della sua incondizionata obbedienza: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44). «Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). L'approfondimento trinitario della rivelazione, sviluppato già nel Nuovo Testamento, mostra dunque come il termine ultimo dell'accoglienza dell'evento rivelativo non sia la Persona del Verbo che in esso agisce, ma — in essa e attraverso di essa — la Persona del Padre, il Dio nascosto nel silenzio, resosi accessibile nell'incarnazione del Figlio. La Parola di rivelazione richiede di essere trascesa, non nel senso che possa essere eliminata o messa in parentesi, perché questo precluderebbe semplicemente ogni accesso alle profondità divine, ma nel senso che essa è verità e vita proprio in quanto è via (cfr. Gv 14,6), soglia che schiude sul Mistero eterno, porta per la quale è necessario passare per entrare nell'ovile delle pecore (cfr. Gv 10,7), luce venuta nelle tenebre per essere la luce, in cui vedremo la luce (cfr. Gv 1,9 e Sai 36,10). Ciò che sta prima nella conoscenza della fede è la Pa22

rola: credere è assentire al Verbo uscito dall'eterno Silenzio. La fede nasce dall'ascolto: «La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17). L'ascolto trova il suo compimento in quanto nella storia si è compiuto l'evento della parola: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (Rm 10,8). L'obbedienza della fede non è che l'ascolto profondo (oboedìentìa da ob-audìo = órcaxori) di ciò che sta sotto e oltre (ob-, UTCÓ) rispetto alla parola immediatamente udita. Si accoglie veramente la parola soltanto quando la si "supera", le si "obbedisce", ascoltando ciò che sta oltre e dietro e più in profondo rispetto ad essa: alla dialettica di apertura e di nascondimento, segnalata nella stessa struttura della "re-velatio", viene così a corrispondere il movimento di trascendenza proprio dell'obbedienza della fede, che non si ferma all'immediatezza del Verbo, ma la supera andando verso l'ai di là del detto28. Grazie alla dialettica trinitaria di Parola e Silenzio, nell'evento di rivelazione la trascendenza non è consegnata all'immanenza, ma è anzi l'immanenza delle creature ad essere chiamata a consegnarsi sempre più perdutamente alla trascendenza divina insondabile per la mediazione della Parola^ che ha messo le sue tende in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14). E per questo che l'accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se essa è ascolto del Silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia, l'insondabile profondità di questo divino Silenzio motiva l'inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo. E su questa via che lo Spirito guida i credenti alla verità tutta intera (cfr. Gv 16,13), attualizzando la memoria del Cristo ed insegnando ogni cosa: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,2-6). Se il Verbo incarnato è l'esegeta del Padre (cfr. Gv 1,18), lo Spirito è l'esegeta del Figlio, Spirito di verità, che glorificherà Gesù manifestando le ricchezze del Suo mistero: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché n o n parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunc i , su questi temi B. Forte, «Offenbarung» aut «re-velatio»? Dalla Scrittura alla Parola ed al Silenzio di Dio, in Archivio di Filosofia 60 (1992) 389-402.

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zierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà» (Gv 16,13s). L'accoglienza della Parola, in quanto ascolto del divino Silenzio in essa nascosto, è "estasi", uscita da sé verso le profondità di Dio, dalle quali ci attrae la pura Sorgente della luce, il Padre del Verbo eterno. È come se l'amore "estatico" di Dio, quello per il quale Egli esce dal silenzio e si comunica nella Parola della creazione e della redenzione, susciti un amore di risposta, parimenti "estatico", bisognoso di uscire dal chiuso del proprio mondo, per immergersi nei sentieri senza fine del Silenzio, cui fedelmente conduce l'evento di rivelazione. All'esodo da sé del divino Silenzio viene a corrispondere — nell'asimmetria del rapporto che c'è fra la creatura e il Creatore e per il dono puro della Grazia — l'esodo da sé del silenzio degli esseri, la loro apertura al Mistero che si offre attraverso la Parola e in essa, lo stupore e la meraviglia dell'adorazione del Dio rivelato nel nascondimento e nascosto nella rivelazione. È perciò che ascoltare il Silenzio dell'avvento è permanere nel santuario dell'adorazione, lasciandosi amare dal Dio rivelato e nascosto ed attrarre a Lui attraverso l'insostituibile e necessaria mediazione del Verbo: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6b). «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44). Si comprende allora che il Silenzio, in cui vive e risuona in noi la Parola come nel grembo della Vergine Madre, è l'ombra dello Spirito, "estasi di Dio", Sua "memoria" (Gv 14,26), attualizzatore del Verbo. Così, la Parola sta fra due silenzi, il Silenzio dell'origine e il Silenzio della destinazione o della patria, il Padre e lo Spirito Santo. Tra questi due Silenzi — gli «altissima silentia Dei» — è la dimora della Parola. Il Dio dell'avvento è trinitario nel Suo mistero più profondo e nel Suo stesso modo di comunicarsi agli uomini. e) La rivelazione della Parola e del Silenzio Questa struttura trinitaria della rivelazione è stata a lungo obliata: specialmente nel tempo della modernità, segnato dalle pretese del razionalismo più audace, l'autocomunicazione divina è stata concepita per lo più nella logica della manifestazione totale, di quel puro e semplice venire all'aperto del na24

scosto, reso dal termine, che traduce in tedesco revelatio: Offenbarung (etimologicamente: "gestazione e apertura dell'aperto") 29 - Così, l'avvento di Dio ha potuto essere pensato come esibizione senza riserve: dicendosi, il Mistero assoluto si sarebbe consegnato alla presa del mondo; l'ingresso dell'Eterno nel tempo avrebbe fatto della storia il "curriculum vitae Dei", il pellegrinaggio della vita di Dio per divenire se stesso. Ma da principio non fu cosi: interpretare la rivelazione come manifestazione totale, come pensiero solare, apertura incondizionata e senza riserve, vuol dire semplicemente consumare il tradimento della fede ebraico-cristiana nel suo significato originario e fondante. È necessario perciò liberarsi dal fraintendimento radicale del concetto di rivelazione, prodotto dall'ideologia moderna. Dio, rivelandosi, non soltanto si è detto, ma si è anche più altamente taciuto: maestro del desiderio, il Dio della rivelazione è colui che dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo e attira alla Sua profondità silenziosa e raccolta. Dio rivelato e nascosto, "absconditus in revelatione — revelatus in absconditate", il Dio dell'avvento è il Dio della promessa, dell'esodo e del Regno. Perciò, la Sua rivelazione non è visione totale, ma Parola che schiude i sentieri abissali del Silenzio. Veramente allora obbedisce alla Parola chi "tradisce" la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma, ruminandola, scava in essa per accedere ai sentieri del Silenzio. Accoglie il Verbo incarnato chi non si ferma all'evidenza della carne, ma in essa e per essa si lascia condurre dallo Spirito verso l'abisso della prima Origine e dell'ultima Patria. Perciò è doveroso non ripetere mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio: «Il Padre pronunciò una Parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima» 30 . Credere nella Parola dell'avvento sarà allora lasciare che la Parola, schiudendo i sentieri del Silenzio, contagi al cuore umano la forza pervasiva di questo Silenzio fecondo, accogliente. Il Dio dell'avvento 29

Da "offen", aperto, e "baren", che nel tedesco medievale esprime il "portare in grembo", l'"esser gravido". Sulla rilevanza dell'idea di "Offenbarung" nella teologia della modernità cfr. ad esempio P. Eicher, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, Miinchen 1977. 30 S. Giovanni della Croce, Sentenze. Spunti d'amore, n. 21, in Opere, Roma 19672> 1

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non è il Dio delle risposte pronte a tutte le domande, né il Dio delle certezze a buon mercato, ma il Dio esigente, che amando e donandosi si nasconde e chiama a uscire da se stessi in un esodo senza ritorno che porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo. Ogni parola di Lui, ogni parola su Lui, sta fra l'Origine e la Patria, fra il Silenzio fontale e l'ultimo Silenzio... La libera auto-destinazione di Dio all'uomo nel dono della rivelazione si presenta così con tanta discrezione da non forzare mai in alcun modo l'accoglienza libera della creatura: la Parola è accolta solo quando l'apertura implicita del cuore umano al Mistero si fa esplicita consegna all'Eterno. Senza la decisione della libertà, senza la fiducia dell'assenso, che la dialettica di Parola e Silenzio della rivelazione domanda, ma non forza, non si compie l'incontro fra l'esodo e l'Avvento. Se all'iniziativa trinitaria del Dio vivente non corrisponde una consapevole e responsabile auto-destinazione dell'uomo a Colui che si rivela, la gratuita auto-destinazione divina alla creatura resta luce non accolta dalle tenebre, parola cui risponde il muto silenzio dell'indifferenza o del rifiuto, invece che il silenzio eccedente dell'amore. E qui che vengono ad operare, nel dinamismo della libera accoglienza della Parola, «la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità»31. Si realizza così una convergenza di motivi esterni e di aiuti interiori, che rendono la rivelazione accessibile all'accoglienza della libertà umana, senza togliere a questa rischio ed audacia, perché non manchi la gratuità della risposta. Attraverso la Parola liberamente entrata nella storia la creatura umana si schiude liberamente al Mistero santo, verso il quale la sospinge l'originaria destinazione degli esseri, e ne sperimenta l'inesauribile profondità e bellezza. Allora l'esodo si apre all'Avvento e si lascia abitare da esso. Questo incontro di libertà, questa inabitazione reciproca, pur nell'asimmetria del rapporto, è la fede: in essa trova il suo posto adeguato il linguaggio, che osa dire Dio, pur rispettandone l'alterità incatturabile...

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Costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione Dei Ver-

bum 5.

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1.3. L'ANALOGIA DEL MISTERO

a) Dove l'esodo accoglie l'Avvento: la fede La Parola che viene dagli eterni silenzi di Dio raggiunge l'uomo nella sua condizione esodale: al permanente uscire da sé della creatura, che lotta con la morte per camminare verso la vita, si fa incontro il Dio dell'avvento. Egli esce dal silenzio ed abita il tempo perché la storia entri nel silenzio della patria e vi dimori. L'incontro dell'umano andare e del divino venire, l'alleanza dell'esodo e dell'Avvento è hfede. Essa non è riposo tranquillo, non possesso e certezza, ma lotta, agonia. Tale fu l'esperienza di Giacobbe al guado (cfr. Gen 32,23-33): come per lui, così per chi crede il Dio vivente è l'assalitore notturno, tutt'altro che il "Deus mortuus", proclamato dalla ragione ideologica, o il "Deus otiosus", esiliato dalla ragione strumentale. Il Dio della rivelazione è l'Altro, non riducibile alla misura umana: guai a perdere il senso di questa distanza e della sofferenza della non identità, che ne consegue per l'uomo che «cade nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31)! Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere "risolta" né "fermata". Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combattimento, resistenza e resa: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!" Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,7.9). La pace della fede, la gioia che il mondo non conosce, la bellezza che sola salverà il mondo, non è l'assenza di agonia e di passione, ma è il vivere al tempo stesso in lotta con l'Altro e a Lui perdutamente arresi, consegnati allo Straniero, che invita: il Dio della fede è "fuoco divorante" (cfr. Dt 4,24; Is 33,14; Eb 12,29)... Perciò la fede è scandalo: «Non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo» (S. Kierkegaard). La "noche oscura" (Giovanni della Croce) è il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, nella notte dei sensi e dello spirito. La tenebra è il luogo della fede speranzosa, dell'amore credente, della pace. La fede 21

è e resta scandalo: non la risposta tranquilla alle nostre domande, ma la sovversione di ogni nostra domanda. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto diviene il Dio delle consolazioni e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide » (Lutero). Dio non è risposta, è custodia: in Lui soltanto restano l'ultima Parola e l'ultimo Silenzio, anche se qui ed ora ci è già dato di accoglierli in noi nella speranza. Perciò il credente è, in un certo senso, nient'altro che un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se non fosse tale, la sua fede non sarebbe altro che rassicurazione mondana. Diversamente da ogni ideologia, che lascia l'uomo prigioniero di sé, la fede è un continuo convertirsi all'Altro, un continuo consegnare il cuore a Dio, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di sperare e di amare. Se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse anche l'ateo un credente che ogni giorno vive la lotta di cominciare a non credere? Non sarà l'ateo, che vive l'agone con coscienza retta e che, avendo cercato e non avendo trovato, patisce l'infinito dolore dell'assenza di Dio, non sarà questo ateo l'altra parte di chi crede? Perciò nessuna negligenza della fede è ammissibile, nessuna fede indolente, statica ed abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell'amore. La fede deve essere pensante, sempre interrogante e viva, anche dubbiosa, ma capace ogni giorno di cominciare di nuovo a consegnarsi all'Altro, a vivere l'esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Qualunque prezzo, anche il più costoso, vai la pena di essere pagato per accendere sempre di nuovo in noi il desiderio della patria e tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine, obbedendo al Mistero santo che attira, vivendo la trascendenza verso il Silenzio di Dio in obbedienza alla Sua Parola. È in questa luce che si comprende perché a chiunque pensi in maniera non negligente non sia possibile non parlare di Dio: è la condizione esodale dell'esistenza umana che lo richiede; è la rivelazione stessa che interpella l'ascolto e la ricerca. La fede ha bisogno di teologia: ma al linguaggio teologico non può rinunciare neanche il pensiero di chiunque cerchi veramente di trascendersi in obbedienza al Mistero che lo attira32. 32 Su questi temi cfr. B. Forte, Confesso Tbeologì. Ai filosofi, Napoli 1995, qui ripresa in alcuni punti.

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b) Dove il Mistero si dice e si tace: l'analogia In rapporto al bisogno che il pensiero non negligente e la fede indagante hanno di portare alla parola il Mistero, sia pur solo evocandolo, si profila l'urgenza di precisare le condizioni di possibilità del linguaggio su Dio e lo statuto della conoscenza attingibile del Trascendente. Per rispondere a questa urgenza è stata elaborata nella storia del pensiero della fede la dottrina dell''analogia^: essa non nasce da un'astratta curiosità intellettuale, ma fa preciso riferimento al bisogno di offrire una giustificazione riflessa dell'uso teologico del linguaggio umano. E perché la fede parla di Dio in obbedienza alla rivelazione, è perché la Parola eterna si è detta nelle parole del tempo, è perché l'esodo dell'autotrascendenza umana verso l'orizzonte ultimo non può non investire il linguaggio, che si avverte l'esigenza di render ragione delle affermazioni che si fanno intorno al Mistero: ciò che fa problema è precisamente il come, parlando di Dio, possa darsi la continuità del senso nella differenza incolmabile del significato. Esemplare è la ricerca di Tommaso d'Aquino, proprio perché nasce dalla chiara consapevolezza di come nel tentativo di dire Dio ci si muova sempre fra due estremi possibili, l'univocità indiscreta, che fa del divino un semplice momento dell'identità già conosciuta e disponibile, e l'equivocità radicale, che scava l'abisso incolmabile dell'incomunicabilità fra il mondo di Dio e il mondo degli uomini. Fra queste due sponde si costruisce il suo pensiero sull'analogia34: «Questo modo di tenere in33 Nell'ambito dell'immensa bibliografia cfr.: Analogie et dialéctique, Genève 1983; E. Coreth - E. Przywara, Analogia entìs (Analogie), in Lexikonfùr Theologie una Kirche 1, Freiburg 1957, 468-476; C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d'Aquino, Torino 1960; A. Guzzo - V. Mathieu, Analogia, in Enciclopedia Filosofica 1, Firenze 1967, 247-257; V. Melchiorre, L'analogia chiave di lettura della creazione, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica 84 (1992) 563-584; Metafore dell'invisibile. Ricerche sull'analogia, Brescia 1984 (bibl. 285-290); A. Milano, Analogia Christi. Sul parlare intomo a Dìo in una teologia cristiana, in Ricerche Teologiche 1 (1990) 29-73; G. B. Mondin, The Prìnciple of Analogy in Protestant and Catholìc Theology, The Hague 1961; Id., Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi, Brescia 1971; Origini e sviluppi dell'analogia. Da Parmenide a S. Tommaso, a cura di G. Casetta, Vallombrosa 1987; W. Pannenberg, Analogìa e dossologìa, in Questioni fondamentali di teologia sistematica, Brescia 1975, 205-227; P. Ricoeur, La metafora viva, Milano 1981; P. Sequeri, Analogia, in Dizionario Teologico Interdisciplinare 1, Torino 1977, 341-351; G. Sohngen, Analogie und Metapher. Kleine Philosophie und Theologie der Sprache, Freiburg 1962; J. Track, Analogìe, in Theologische Realenzyklopddie 2, Berlin - New York 1978, 625-650. Sull'analogia in Tommaso cfr. in particolare H. Lyttkens, The Analogy between God and the World. An Investigatìon of its Background and Interpretation of its Use by Thomas of Aquino, Uppsala 1952.

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1 sieme sta in mezzo fra la pura equivocità e la semplice univocità. Infatti nelle cose che si dicono per analogia non vi è un'unica e sola ragione, come avviene per ciò che è univoco; né vi è una ragione totalmente diversa, come succede per ciò che è equivoco; ma il nome che così molteplicemente si dice, significa proporzioni diverse in rapporto ad uno stesso» 35 . L'analogia unisce i diversi, custodendoli nella loro diversità e mostrando la prossimità delle lontananze. Questa prossimità è fondata su ciò che è comune ai diversi: Yunum commune. Poiché esso può essere inteso in maniera diversa, diverse sono le stesse forme di intendere l'analogia: se lo si concepisce come rapporto di somiglianza fra rapporti (il che richiede almeno quattro termini, di cui uno, parlando di Dio, non può essere che ignoto: a sta a b, come e sta a x), allora il punto di incontro che giustifica l'analogia è nella somiglianza del tipo di relazione che si ritrova all'interno delle due coppie di termini. Si parla in tal caso di "analogia di proporzionalità". Se invece ciò che è comune viene concepito come l'unica e stessa realtà, a cui in diversi gradi molti partecipano, si ha la cosiddetta "analogia di attribuzione", fondata nella relatio ab uno o ad unum dei più. Nell'uno e nell'altro modello, l'analogia pensata da Tommaso sembra muoversi al livello del giudizio, piuttosto che del concetto: l'analogia qualifica, cioè, una modalità della predicazione, un rapporto fra i concetti, più che il contenuto rappresentativo dei concetti stessi. La staticità cosale del concetto non deve essere confusa con la dinamicità relazionale del giudizio, con cui del nome si predica qualcosa. Si comprende così la precisa messa in guardia di Tommaso nei confronti delle rappresentazioni concettuali del divino, che sono e restano rappresentazioni mondane, e perciò del tutto inadatte a rendere la semplicità dell'essenza divina: «Tutto ciò che la nostra intelligenza concepisce di Dio non riesce a rappresentarlo, per cui ciò che è proprio dello stesso Dio ci resta sempre nascosto e la più alta conoscenza che possiamo avere di Lui nel nostro essere in cammino sta nel riconoscere che Dio è al di sopra di tutto ciò che pensiamo di Lui» 36 . 33 « Iste modus communitatis medius est inter puram aequivocationem et simplicem univocationem. Neque enim in his quae analogice dicuntur, est una ratio, sicut est in univocis; nec totaliter diversa, sicut in aequivocis; sed nomen quod sic multipliciter dicitur, significat diversas proportiones ad aliquid unum »: Summa Theologiae I, q. 13, a. 5c. 36 «Quidquid intellectus noster de Deo concipit, est deficiens a repraesentatione eius; et ideo quid est ipsius Dei semper nobis occultum remanet; et haec est summa

Per Tommaso, dunque, l'analogia «rappresenta essenzialmente un criterio di restrizione dell'equivocità, necessario per evitare di destituire di senso il nostro parlare di Dio»37. E questa preoccupazione che lo porta a privilegiare in alcuni testi l'analogia di proporzionalità, che pare più rispettosa della distanza fra Creatore e creatura38, in altri l'analogia di attribuzione, legata al rapporto causale fra Dio e la creatura, sulla base del riferimento al fondamento ontologico dei rapporti analogici nella causalità: l'attribuzione di significato a Dio è infatti fondata nel «rapporto della creatura a Dio, suo principio e sua causa, nel quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose»39. Non di meno, Tommaso non evita di sottolineare il carattere di equivocità dello stesso rapporto causale riferito al divino: causa aequìvoca è quella raggiunta passando dall'effetto noto alla causa ignota, per cui l'analogia di attribuzione resta subordinata a una sorta di analogia di proporzionalità. Questa però sembra a sua volta supporre un tertium quid fra Dio e la creatura, comune a entrambi, e non sfugge perciò del tutto al rischio dell'univocità. Ecco perché Tommaso sembra restare in ricerca, pur preferendo negli ultimi testi l'analogia che si muove sul terreno più certo del rapporto causale fra Creatore e creatura. Queste oscillazioni in un genio dell'intelligenza della fede del valore di Tommaso mostrano come nel discorso intorno a Dio l'analogia serva più per non tacere che per dire: nel linguaggio teologico resta fermo il primato dell'indicibilità40. Tuttavia, la via negativa ha un valore dialettico e non si risolve in un principio agnostico. Né è possibile negare che si possa dire affermativamente qualcosa di Dio41: motivo inoppugnabile è il fatcognitio quara de ipso in statu viae habere possumus, ut cognoscamus Deum esse supra omne id quod cogitamus de eo»: De Ventate q. 2, a. 1, ad 9 m . 37 P. Sequeri, Analogia, o.c, 345. Si noti come la stessa ragione spinga Scoto a sottolineare l'univocità fondamentale del significato con differenti modalità di attribuzione nel parlare di Dio: cfr. Th. Barth, De univocationis entis scotisticae intentione principali necnon valore critico, in Antonianum 28 (1953) 72-110; M. Schmaus, Zur Diskussìon tiber das Problem der Univozitdt im Umkreis des Johannes Duns Skotus, Mùnchen 1957. 38 Cfr. De Ventate q. 2, a. He. 39 «Quidquid dicitur de Deo et creaturis, dicitur secundum quod est aliquis ordo creaturae ad Deum, ut ad principium et causam, in qua praeexistunt excellenter omnes rerum perfectiones»: Summa Theologiae I, q. 13, a. 5. 40 « Convenientissimus modus significandi divina fit per negationem»: In I Sent. 34, 3, 2. 41 «Propositiones affirmativae possunt vere formari de Deo... »: Summa TheoloSiae I, q. 13, a. 12.

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to che esistono asserti di fede, fondati sulle parole in cui si è detta la Parola dell'avvento42. Dunque, è il bisogno di obbedire alla rivelazione, è l'accettazione della struttura assertoria della fede a fornire la base della ricerca di Tommaso sull'analogia. Dove il ragionamento farebbe trionfare l'equivocità, è la rivelazione ad aprire ponti di comunicazione. Né ciò comporta il cedimento a una univocità indiscreta, perché resta sempre ben chiaro che la semplicità divina non potrà mai essere raggiunta dalla complicazione di un intelletto finito, incapace di cogliere in unità il tutto 43 . Ciò che caratterizzerà la successiva interpretazione dei testi di Tommaso, nel conflitto fra i fautori di un primato dell'analogia di attribuzione, come Suarez, e i fautori della rilevanza della sola analogia di proporzionalità, come il Gaetano, sarà uno slittamento dal piano del giudizio a quello del concetto, che farà accentuare la tendenza alla cosificazione e all'ontoteologizzazione del pensiero della fede. Il tema dell'analogia verrà così utilizzato in connessione con la dottrina della conoscibilità naturale di Dio contro ogni possibile fideismo, agnosticismo e ateismo. Certo, lo stesso san Tommaso — a partire da differenti aspetti della realtà: il movimento, la catena delle cause e degli effetti, la contingenza o caducità degli enti, i gradi dell'essere e il finalismo che governa ogni cosa — ha segnalato cinque vie di approccio al Mistero trascendente44: esse rimandano tutte ad una causa ultima, che non fa parte della catena delle cause penultime, perché questa, per quanto infinita, resta caratterizzata dalla limitatezza di non darsi l'essere, ma di riceverlo. Quest'ultimo approdo, che dà l'essere a tutto e non lo riceve da alcuno, è il primo motore, la causa prima, l'unico necessario, dotato di ogni perfezione e della suprema intelligenza ordinatrice dell'universo: è Dio, il fondamento supremo contro ogni precipitare nel nulla, il grembo eterno su cui riposa il destino dell'uomo e del mondo, il senso e la patria di tutte le 42 « Propositiones quaedam affirmativae subduntur fidei, utpote quod Deus est trinus et unus, et quod est omnipotens»: ih., Sed contra. 43 «Deus auterti, in se consideratus, est omnino unus et simplex: sed tamen intellectus noster secundum diversas conceptiones ipsum cognoscit, eo quod non potest ipsum ut in seipso est, videre. Sed tamen, quamvis intelligat ipsum sub diversis conceptionibus, cognoscit tamen quod omnibus suis conceptionibus respondet una et eadem res simpliciter »: ib., Corpus. 44 Cfr. Sumtna Theologiae I, q. 2, a. 3.

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cose. Di Dio, però, le cinque vie possono tutt'al più dire che ci sia, non chi sìa: perciò non è infondato affermare che esse sono più un esercizio di analogia teso a render ragione dell'esperienza dell'ineliminabile autotrascendenza dell'uomo verso il Mistero santo, che non una chiarificazione di questo stesso Mistero. In tal senso esse sono più vicine di quanto si pensi all'altro grande approccio razionale al Mistero, prodotto dal pensiero della fede: l'argomento ontologico^. Esso perviene alla stessa soglia scrutando non all'esterno nel vasto mondo degli enti, ma all'interno, nell'abisso che si affaccia nel pensiero umano. Per Anselmo d'Aosta Dio non è solo «ciò di cui nulla di più grande può essere pensato» 46 , ma anche «ciò che è più grande di tutto quanto possa essere pensato» 47 , e perciò non solo il Sommo degli esseri, ma l'ai di là del tutto 4 8 , il Presupposto e POltre, che pensa tutte le cose e così le crea e che perciò non può essere pensato se non come ciò che è oltre l'estremo pensiero della creatura, l'ultima sua sponda, il suo supremo, incatturabile orizzonte. Fra questi due approcci al Mistero, che conducono l'uno all'Oggettività suprema, l'altro alla Soggettività infinita, trascendente e onnicomprensiva (nella forma, quasi, di un «cogitor, ergo sum»: «sono pensato, dunque esisto»), l'intelligenza credente ha spesso cercato una conciliazione, cogliendo in Dio la risposta assoluta alla nostalgia di infinito, presente nell'uomo, o riconoscendo in Lui l'Altro che viene a visitare il cuore umano e lo libera dalla prigionia della sua solitudine e dalla violenza di una ragione presuntuosa, mossa solo dalla "volontà di potenza". Entrambi gli approcci mostrano però come la via propria per parlare di Dio possa essere solo quella che si costruisce in obbedienza al Suo movimento verso l'uomo, e perciò in ultima istanza alla Sua rivelazione: l'analogia si edifica sull'Avvento, più che sull'esodo, o meglio in quel campo di incontro di esodo e Avvento, che è il mondo della fede, dove l'asimmetria è tutta dalla parte del primato assoluto di Dio. Per ribadire questo primato in opposizione all'eccesso di continuità fra divino e umano, che sarebbe proprio della dottrina cattolica dell'analogia, interpretata come analogia entis, Karl 45

Cfr. di recente L'argomento ontologico, a cura di M. M. Olivetti, Padova 1990. «Aliquid quo nihil maius cogitari possit»: Proslogìon e. 2. «Quiddam maius quam cogitari possit»: Proslogìon e. 15. Cfr. Proslogìon e. 5: «Summum omnium sive Maius omnibus».

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Barth ha proposto il ricorso all'analogia /idei49, utilizzando la formula paolina, che ha in realtà il senso di «concordanza» («mensura»: Girolamo; «regula»: Agostino) con la fede, criterio di autenticità della profezia: «Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo l'analogia (àvaXo-Yi'a) della fede» (Rm 12,6). Ciò che Barth vuole affermare è che Dio si può conoscere solo a partire da Dio, dalla Sua rivelazione storica in Gesù Cristo: l'analogia entis è «invenzione dell'Anticristo» 50 precisamente in quanto sembra supporre un ens commune, che abbraccerebbe il Creatore e la creatura e consentirebbe perciò l'accesso a Dio non a partire da Lui, ma in base all'esperienza umana e all'evidenza dell'essere allo spirito conoscente. Così verrebbe meno la distanza fra il cielo e la terra, l'«infinita differenza qualitativa» fra di essi, e si svuoterebbe la drammatica serietà delle conseguenze del peccato. Già il giovane Barth aveva affermato contro ogni presunzione della ragione umana: «Se ho un "sistema", esso consiste in ciò che io mi tengo davanti agli occhi, con tutta la tenacia possibile, quella che Kierkegaard ha chiamato "l'infinita differenza qualitativa" del tempo e dell'eternità, nel suo significato positivo e negativo. "Dio è in cielo e tu sulla terra". Il rapporto di questo Dio a questo uomo, il rapporto di questo uomo a questo Dio è per me il tema della Bibbia e insieme la somma della filosofia. I filosofi chiamano questa crisi del conoscere umano "origine". La Bibbia vede in questo punto cruciale Gesù Cristo» 51 . L'abisso non può essere dissolto — nulla proportio finiti ad ìnfimtuml —, anche se in Gesù Cristo il punto di incontro fra il mondo di Dio e il mondo degli uomini ci è stato dato: «Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale, né una forza dell'anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro somma, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla A9 Cfr. specialmente Die kirchliche Dogmatik, I/I: Die Lehre vom Wort Gottes, Zùrich 19648. Cfr. sulla posizione barthiana e il suo rapporto con la tradizione cattolica H. U. von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Milano 1985. 50 Cfr. Die kirchliche Dogmatik, I/I, o.c, Vili: è a motivo di essa, per Barth, che «non si può divenire cattolici». 51 Prefazione alla seconda edizione del Romerbrief, in Le origini della teologìa dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, 145.

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e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l'origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e "soprannaturalmente" sopra, ma al di là di tutte le forze condizionate-condizionanti, né deve essere scambiata con esse, né messa in linea con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse. La potenza di Dio, che stabilisce Gesù come Cristo, è nel senso più stretto pre-supposizione, libera di ogni contenuto tangibile. Essa avviene nello Spirito e vuole essere conosciuta nello Spirito. Essa è autosufficiente, incondizionata e in sé vera» 52 . Se 1'"infinita differenza qualitativa" rende impossibile per Barth ogni analogia fondata sulla continuità fra l'essere finito e l'essere eterno, non per questo egli ritiene che si debba rinunciare a ogni forma di analogia: se così fosse, ogni discorso su Dio sarebbe insensato. L'analogia di cui ci si può e ci si deve servire è quella fondata sull'iniziativa del Dio della rivelazione: una analogia costruita e misurata sulla libera autocomunicazione divina in Gesù Cristo, e perciò una analogia fidei, la cui possibilità è data dal fatto che uno e unico è il Dio creatore e il Dio che si rivela, e la cui effettualità storica è totalmente connessa al libero atto divino del rivelarsi. «Gesù Cristo nostro Signore: ecco l'Evangelo, ecco il significato della storia. In questo nome si toccano e si dividono due mondi, si tagliano due piani, uno sconosciuto e uno conosciuto. Quello conosciuto è il mondo della "carne", creato da Dio ma decaduto dalla sua originaria unità con Dio, e perciò bisognevole di salvezza; il mondo dell'uomo, del tempo, delle cose, il nostro mondo. Questo piano conosciuto viene tagliato da un altro sconosciuto, il mondo del Padre, il mondo della creazione originaria e della redenzione finale. Ma questa relazione tra noi e Dio, fra questo mondo e il mondo di Dio, ha da essere conosciuta. Vedere la linea di intersezione tra i due mondi non è una cosa che va da sé. Il punto della linea di intersezione, nel quale questa può essere veduta, ed è effettivamente veduta, è Gesù, Gesù di Nazaret, u Gesù "storico", nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. Gesù", come indicazione storica, significa il luogo di rottura tra il mondo a noi conosciuto e un altro sconosciuto» 53 . La critica di Barth non va dunque all'analogia, ma alla pre52 53

K. Barth, L'Epìstola ai Romani, a cura di G. Mieege, Milano 1974, lls. Ih., 17.

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tesa fondazione ontologica di essa: è una fondazione puramente teologica del parlare umano dell'Eterno quella che egli rivendica in nome della sola gratta ed in difesa della libertà divina rispetto a ogni indebita cattura mondana. La critica barthiana raggiunge così solo un certo modo di interpretare l'analogia, quello che confonde la regolamentazione ermeneutica del discorso su Dio con la rappresentazione della struttura ontologica dell'intero esistente, come a Barth sembrava avvenisse specialmente nel suo interlocutore polemico in campo cattolico, Erich Przywara54. Questi aveva certamente accentuato la rilevanza della dottrina dell'analogia come specifica del cattolicesimo contro il pessimismo della Riforma riguardo alle capacità della conoscenza umana di Dio e al suo fondamento ontologico: al tempo stesso, però, aveva sottolineato riguardo al conoscere analogico la maior dissìmilìtudo fra Creatore e creatura di cui parla il Concilio Lateranense IV55. In questo senso la critica barthiana è imprecisa e viene addirittura a coincidere con alcune delle istanze più profonde della ricerca di Tommaso e della posizione cattolica: si può anzi osservare come la debolezza di Barth stia proprio nel non aver distinto — come spesso avviene nella tradizione scolastica — il piano dei giudizi da quello dei concetti nella concezione dell'analogia, confondendo così i rapporti dinamici e perfino dialettici connotati dal giudizio con l'immagine statica delle rappresentazioni degli enti, fra cui l'Ente supremo starebbe come uno dei tanti. Risulta così fondato il rilievo di Bonhoeffer a Barth circa un suo "positivismo della rivelazione"56: questa garantirebbe l'analogia in modo da farla valere come via di corretta, anche se inadeguata, "rappresentazione" concettuale del divino, in maniera dunque del tutto "positivistica". Peraltro, sarà lo stesso Barth a temperare la sua critica all'analogia entis attraverso il successivo ricorso a una analogia relationìs crea54 Sull'analogia cfr. di E. Przywara specialmente Religionspbilosopbie Katholischer Analogie, Mùnchen 1926; Analogia entis, Mùnchen 1932, ed. ampliata Einsiedeln 1962. Sulla polemica fra Barth e Przywara cfr. J. Greisch, "Analogia entis" et "analogia fidei"', une controverse théologique et ses enjeux philosophiques (K. Barth et E. Przywara), in Etudes Philosophiques 1989, 475-496; E. Mechels, Analogie bei Erich Przywara und Karl Barth. Das Verhàltnis von Offenbarungstheologie und Metaphysik, Neukirchen 1974. 55 DS 806. 56 Cfr. ad esempio D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo 1988, 401: lettera dell'8 giugno 1944.

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turale, più attenta alla necessità di distinguere l'aspetto linguistico da quello ontologico, pur senza separarli: una cosa è la pertinenza di asserti teologici, che chiunque accetti la rivelazione di Dio non può negare; altra è la rete dei rapporti ontologici fra il Creatore e la creatura. Su questo secondo piano la critica barthiana converge con quella che da tutt'altra prospettiva Martin Heidegger muove all'"onto-teo-logia": il pensiero della cosificazione o entificazione di Dio non è per lui che un caso particolare, e forse il più esemplare, del nichilismo dell'Occidente, terra dell'occaso, del tramonto e della dimenticanza dell'essere. Ridurre Dio a oggetto fra gli oggetti del pensare, spiegarlo con l'idea di causa sui in una rete continua ed ordinata di cause ed effetti che a Lui fa capo, significa svuotarlo di tutta la santità e la sublimità, di tutta la misteriosità del suo esser altro, per farne un ente disponibile al gioco strumentale dei concetti umani: «Là dove tutto ciò che è presente si dà nella luce del nesso causa-effetto, persino Dio può perdere per la rappresentazione tutta la santità e la sublimità, la misteriosità della sua lontananza. Dio, nella luce della causalità, può decadere al livello di una causa efficiens. Allora anche nell'ambito della teologia egli diviene il Dio dei filosofi, ossia di coloro che definiscono il disvelamento e il nascosto sulla base della causalità del fare, senza mai prendere in considerazione l'origine essenziale di questa causalità»57. Davanti a questo Dio dell'onto-teo-logia non è possibile alcuna esperienza dell'ascolto del silenzio dell'essere, né alcuna dossologia: «Davanti alla causa sui l'uomo non può né cadere in ginocchio pieno di riverenza, né può davanti a questo dio produrre musica e danzare. Così, il pensiero privo di un dio, il pensiero che deve fare a meno del dio della filosofia, del dio come causa sui, è forse più vicino al dio divino»58. Dove si perde il senso del silenzio dell'essere la causa del "dio divino" è compromessa: nell'oblio dell'essere naufragano anche il nascondimento e la rivelazione del Totalmente Altro! La "pars destruens" — come critica della dimenticanza dell'essere — rivela qui la sua possibile rilevanza a favore di una teologia del "dio divino'', contro il "Deus mortuus et otiosus" della onto-teo-logia. È come un " M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. G. Vattimo, Milano 1976, 20. Id., La costituzione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza, in Aut-Aut 1982, nn. 187-188, 35s.

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rivendicare i diritti del Dio del silenzio della "re-velatio" contro il Dio troppo umano della chiacchiera filosofica e teologica! Se così netto è il giudizio sulla metafisica e la teologia in quanto espressioni della storia dell'oblio dell'essere, e quindi del nichilismo occidentale, non altrettanto netto è il sentiero della "pars costruens" heideggeriana alla ricerca di un modo di dire la differenza superando il linguaggio dell'identità: dal punto di vista del porsi del pensiero questo cammino è una sorta di educazione all'ascolto del Dire originario e del non meno originario tacere. Questa via dell'ascolto è quella in cui solo può comunque apparire l'essere al di là dell'essenza e il sacro (das Heilìgé), ad esso indissolubilmente congiunto. È la via di un pellegrinaggio verso la patria, che è la vicinanza dell'essere: «Solo in questa vicinanza si decide se e come Dio e gli dei si rifiutano e resta la notte, se e come il giorno del sacro albeggia, se e come in tale albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo ad apparire Dio e gli dei. Il sacro, però, che è solo lo spazio essenziale della divinità, la quale a sua volta garantisce solo la dimensione per gli dei e per Dio, giunge ad apparire solo se dapprima e in una lunga preparazione l'Essere stesso si è aperto ed è stato esperito nella sua verità. Solo così comincia, a partire dall'Essere, il superamento di quella mancanza di patria, in cui oggi sono sperduti non solo gli uomini, ma la stessa essenza dell'uomo» 59 . Sulla via dell'ascolto della Donazione originaria, sui "sentieri interrotti" che si immergono verso il cuore del fitto bosco dell'essere, l'essere stesso si offre, rivelandosi al tempo stesso in cui si ritrae e si vela: il Sacro appare proprio nella forma del ritrarsi dell'essere, quando esso si è aperto, ma aprendosi si è necessariamente ritratto per consentire all'atto del suo aprirsi di determinarsi. Il giorno del sacro albeggia nella notte dell'essere, lì dove l'essere venendo al linguaggio resta raccolto come il silenzio della provenienza e dell'orizzonte, su cui si staglia l'accadere degli enti: nello spazio dell'ascolto "transita" nella forma dell'avvento in una raccolta quiete 1"'ultimo D i o " , negazione e misura di tutto ciò che è penultimo 60 . Il linguaggio è allora al tempo stesso il luogo dell'avvento dell'essere e la ripetizione del suo esodo: ri-velazione nel dop59

Id., Lettera sull'umanismo, o.c, 105. Sulla rilevanza della figura dell"'ultimo Dio", presente nello Heidegger "segreto" dei Beitrà'ge zur Philosophie, in ordine a una nuova comprensione dell'intero itinerario heideggeriano, ha insistito U. Regina, Servire l'essere con Heidegger, Brescia 1995. 60

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pio senso dell'offrirsi presente del velato e del nuovamente velarsi del nascosto 61 . «Il linguaggio è il manifestante-occultante avvento dell'Essere stesso» 62 . Se nel linguaggio l'essere viene alla luce, ciò si compie precisamente in quanto la provenienza di questo avvento rimane misteriosa e nascosta: «L'Essere, in quanto destino che destina la verità, resta nascosto» 63 . Questo silenzio dell'essere — notte al di là dell'illuminazione, alba in cui il rivelato rimanda al nascosto, e il nascosto si offre come il Destinante originario — non è puro e semplice "non-essere": esso può ricondursi al "nulla" solo in quanto il "nulla" venga pensato come assenza della presenza, o presenza dell'assenza, che incide sulla presenza proprio in quanto provenienza e dimora, cioè come assenza che è tale senza cessare di essere. «Il nulla non è un oggetto, né in generale un ente; esso non si presenta per sé, né accanto all'ente, al quale pure inerisce. Il nulla è la condizione che fa possibile la rivelazione dell'ente come tale per l'essere esistenziale dell'uomo. Il nulla non dà soltanto il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all'essenza dell'essere stesso» 64 . Questo silenzio dell'essere, questo essere assente senza per questo non-essere, questo nulla misterioso e nascosto, è dunque lo spazio del Sacro? e, poiché «solo a partire dall'essenza del sacro va pensata l'essenza della divinità» 65 , è lo spazio del Dio misterioso e nascosto? Due punti emergono con evidenza dalla critica all'onto-teo-logia: da una parte, la non identità di Dio e dell'essere, e quindi la non pertinenza del termine essere in teologia, onde evitare ogni cosificazione ed entificazione dell'essere divino; dall'altra, la pertinenza della dimensione dell'essere per fare l'esperienza di Dio. «Io credo che l'essere non possa assolutamente venir pensato alla radice e come essenza di Dio, ma credo peraltro che l'esperienza di Dio e del suo esser manifesto, appunto in quanto questo esser manifesto può 61 Si comprende in tale luce l'esigenza heideggeriana di superare la terminologia della "Offenbarung": si pensi ad esempio all'uso della radice di "bergen" = "mettere in salvo" : "Ent-bergung", "Verbergung" in M. Heidegger, Beitrdge zur Phìlosophie {Vom Ereignis), o.c, 389, Nr. 243: "Die Bergung"; 249, Nr. 131: "Das ùbermap irti Wesen des Seyns (das Sichverbergen)". 62 Id., Lettera sull'umanismo, o.c, 90. « Ih., 105. 64 Id., Che cos'è la metafìsica? tr. di A. Carlini, Firenze 1953, 24. Cfr. su questo tema S. Givone, Storia del nulla, Roma-Bari 1995. 63 Id., Lettera sull'umanismo, o.c, 119.

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incontrare l'uomo, sfolgori proprio nella dimensione dell'essere, il che però non significa in nessun modo che l'essere possa avere il senso di un predicato possibile per Dio»66. Da queste due affermazioni se ne può ricavare una terza: se Dio non può venir ridotto ad uno degli enti, e se tuttavia del suo avvento può farsi esperienza solo nella dimensione dell'essere, lo spazio per Dio potrebbe risiedere in quella regione dell'essere che non viene alla luce, che resta silenziosa e nascosta al di là dell'essenza e che non è il nulla come semplice e puro non-essere: «L"'uomo" e "Dio" sono gusci verbali vuoti di storia se in essi non si porta alla parola la verità dell'essere. L'essere sussiste come il "fra" Dio e l'uomo, ma in modo tale che questo stare in mezzo faccia spazio alla possibilità essenziale per Dio e per l'uomo... Ma anche così e anzitutto così l'essere deve restare senza interpretazione: la rischiosa impresa contro il nulla, nulla che all'essere deve l'origine»67, al di là dell'essere in quanto essere determinato, notte e silenzio dell'essere. Verso questa profondità misteriosa il pensiero rimane aperto, perenne viandante in attesa di un avvento: «Restiamo, dunque, anche nei giorni che ci attendono, in cammino, come viandanti diretti alla vicinanza dell'Essere»68. Il silenzio dell'essere, allora, come testimone della differenza ontologica in quanto questa è inesprimibile nel linguaggio dell'identità, si offre come il possibile luogo di provenienza dell'Avvento, il silente luogo fecondo delle parole, e quindi la possibile silenziosa Origine della Parola, che possa venire ad abitare nelle parole: «La stessa differenza ontologica, ed anche l'Essere quindi, diventano troppo corti... per pretendere di offrire la dimensione, ed ancor meno il "soggiorno divino", nel quale Dio potrebbe diventare pensabile... La differenza ontologica, quasi indispensabile ad ogni pensiero, si offre così come una propedeutica negativa al pensiero impensabile di Dio... L'impensabile... caratterizza Dio come l'aura del suo avvento, la gloria della sua insistenza, lo splendore del suo ritiro»69. Il nulla — pensato al di fuori delle maglie dell'identità che lo rapporta al66 Aussprache mit Martin Heidegger an 06/XI/1951, edizione a cura della Vortragsausschuss der Studentenschaft der Università^ Zùrich, Ziirich 1952, citato da J. L. Marion, Dio senza essere, Milano 1987, 84s, n. 17. 67 M. Heidegger, Beitràge, o.c, 476. 68 Id., Lettera sull'umanismo, o.c, 111. 69 J. L. Marion, Dio senza essere, o.c, 67s.

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l'essere come semplice sua negazione (non-essere = non ente = niente) — è dunque pienezza originaria e nascosta, è l'assenza del farsi presente, il silenzio in cui risuona la parola, la notte in cui risplende l'illuminazione, il nascosto, a partire da cui ed in cui si compie la rivelazione. In quanto tale, esso è al di là delle essenze, degli enti e del loro definirsi, negazione non dell'essere, ma della determinazione dell'essere e perciò ritrarsi o autonegarsi dell'essere come Donazione originaria. Il nulla come "silenzio dell'essere" potrebbe forse allora costituire la traccia, individuata nella notte del mondo, per aprirsi al canto del Sacro, per inseguire non gli Dei fuggiti, ma il Dio silenzioso e nascosto nel tempo dell'essere, che è venuto a dirsi nella discrezione del suo rivelarsi... 70 . Ed è qui che il linguaggio dei poeti, invocato da Heidegger 71 , può forse affiancarsi a quello dei mistici, che precisamente risponde all'esigenza di dire l'assente presenza senza violarla: «L'assente fa scrivere... Ciò che dovrebbe esserci non c'è: è una constatazione che lavora sommessa, quasi senza dolore. Raggiunge una zona che non sappiamo localizzare, come fossimo stati colpiti dalla separazione assai prima di saperlo. Infine, quando la situazione giunge a dir-si, la lingua può ancora essere quella dell'antica preghiera cristiana: "Che io non sia separato da t e " . Non senza di te... Si è malati di assenza perché si è malati dell'unico. L'Uno, non c'è più. "L'hanno portato via' ', dicono numerosi i canti mistici che, raccontandone la perdita, inaugurano la storia dei suoi ritorni, altrove e altrimenti, ma in registri che sono effetto più che confutazione della sua assenza... Così, l'assente che non è più in cielo e nemmeno sulla terra, abita la regione di una terza estraneità (né l'una, né l'altra). La sua " m o r t e " lo ha collocato in questa zona intermedia. In via approssimativa, è la regione che viene designata da70 Cfr. su questi temi oltre che Heidegger et la question de Dieu, Paris 1980, F. Costa, Heidegger e la teologia, Ravenna 1974; G. Penzo, Pensare heideggeriano e problematica teologica, Brescia 1970; U. Regina, Heidegger. Esistenza e sacro, Brescia 1974; Id., Servire l'essere con Heidegger, o.c. Suggestiva la lettura di P. Coda, Dono e abbandono: sulle tracce dell'essere heideggeriano, in Nuova Umanità 6 (1984) n. 34/35, 17-59. 71 « Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. E già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza... E perché i poeti nel tempo della povertà?... Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro»: M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, Firenze 1984, 247. 249s.

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gli autori mistici»72. Ascoltare la parola di questi testimoni dell'assente Presenza è ascoltare il Silenzio, che analogicamente si dice: e se dire il Silenzio ascoltato è compito necessario dell'intelligenza indagante, ineludibile urgenza dell'anima attenta al Mistero, non di meno è e resta impresa sempre interrotta, apertura che schiude sentieri non percorsi verso l'Altrove, "fabula mystica" evocatrice di altri mondi, di patrie altre e straniere, anche se avvertite vicine e suscitatrici di nostalgia struggente. Linguaggio "analogico", appunto... e) La parola della fede Questi diversi sforzi per portare alla parola il Mistero più grande mostrano come, parlando di Dio, non si possa prescindere da quel modo di pensare e di dire, che viene indicato dalla analogia: la parola della fede è analogica! «Perché il discorso umano su Dio sia adeguato a Dio deve essere analogico. La teologia deve perciò concentrare la sua attenzione sull'analogia. L'opinione che ci si possa sottrarre al problema caratterizzato con il termine "analogia" e fondare tuttavia un discorso adeguato a Dio a partire dalla scoperta delle condizioni della sua possibilità, è fondamentalmente insensata. Senza analogia non ci sarebbe discorso responsabile su Dio. Ogni comunicazione linguistica che corrisponde a Dio si muove da sempre nell'orizzonte di ciò che viene reso possibile dall'analogia. E perfino un tacere che sia adeguato a Dio potrebbe essere reso possibile solo da un'analogia che raggiunga il proprio scopo ammutolendo»73. L'analogia è necessaria a partire dall'esodo della condizione umana, perché esprime nel linguaggio l'apertura trascendentale dello spirito; a partire dall'avvento divino, perché dice tacendo, così come avviene nella "re-velatio Dei"; ed a partire dall'incontro di esodo e Avvento nell'atto di fede, perché esprime al tempo stesso il continuo rimando delle parole alla Parola e al Silenzio di Dio risuonati in esse, e la libera autodestinazione del Dio vivo alla comunicazione di sé agli uomini nelle parole del loro 72 M. de Certeau, Fabula mystica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Bologna 1987, 37s. 73 E. Jiingel, Dio, mistero del mondo, Brescia 1982, 367. Sulla concezione che questo pensatore evangelico ha dell'analogia cfr. P. Gamberini, Nei legami del Vangelo. L'analogia nel pensiero dì Eberhard Jiingel, Roma-Brescia 1994.

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linguaggio. Proprio in questa sua triplice necessità l'analogia si presenta come «la solitaria custode del mistero»74. Necessaria per parlare di Dio, l'analogia va utilizzata nell'indispensabile combinazione delle due forme in cui essa propriamente si articola, l'analogia di proporzionalità e l'analogia di attribuzione: se la prima esprime meno inadeguatamente l'incomparabile distanza fra l'esodo e l'Avvento, la seconda evidenzia la continuità, nella distanza sempre maggiore, che fra essi sussiste, sia in forza dell'unità del disegno e dell'azione divina verso il mondo, sia grazie al mistero dell'incarnazione di Dio, in cui l'Eterno stesso ha fatto Sue le parole del tempo. All'interruzione, segnalata dall'analogia fra i rapporti (o "di proporzionalità"), va sempre congiunta la corrispondenza, supposta dalla continuità che rende possibile l'attribuzione di uno stesso termine alle realtà mondane e a Dio, nell'unità dell'orizzonte di senso e nella diversità radicale di significato. Così, ad esempio, la parola della fede è in ogni sua affermazione o negazione parola di salvezza, che riguarda il rapporto vitale dell'uomo con Dio, Origine, Signore e Datore di vita: in ciò sta il suo senso, il suo valore sempre attuale e prezioso. Ma proprio in questo orizzonte di senso, la parola della fede riconosce di dire tacendo in obbedienza alla re-velatìo, di pronunciare significati, connessi alle rappresentazioni concettuali, che restano comunque inadeguati alla trascendenza del Mistero santo. Solo unendo i due campi dell'analogia diventa possibile conservare la differenza sempre maggiore fra il mondano e il divino di cui si parla, nella prossimità pur così grande, stabilita dall'iniziativa di Dio, che destinandosi originariamente all'uomo lo ha reso costitutivamente capace di quell'incontro di grazia, che è la salvezza offerta in Gesù Cristo: homo capax Deil La necessità di congiungere proporzionalità e attribuzione nell'uso dell'analogia si rapporta all'esigenza di tenere insieme, pur senza confonderli, anche il momento linguistico e quello ontologico: sta qui la verità ribadita con tanta forza al nostro tempo da Erich Przywara. La formula del Concilio Lateranense IV — «fra il Creatore e la creatura non si può notare tanta somiglianza, senza che fra di essi si debba notare una maggiore dissomiglianza»75 — non avrebbe alcun senso se non si accettasse il 74

E. Jùngel, Dìo, mistero del mondo, o.c, 371. «Inter Creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda»: DS 806. 75

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fondamento ontologico del rapporto di prossimità nella pur sempre maggiore lontananza che c'è fra il mondo di Dio e il mondo degli uomini. Anche qui la giusta preoccupazione è quella di evitare ogni cattura del divino nell'umano: ma, come noterà lo stesso Barth negli sviluppi del suo pensiero, l'umanità di Dio, espressa nell'incarnazione, pone piuttosto il problema di evitare ogni separazione assoluta fra l'umano e il divino. «C'è certamente un effettivo vestigiutn Trìnìtatis in creatura, una illustrazione della rivelazione, ma noi non dobbiamo né scoprirla, né renderla efficace. Essa consiste... nella forma, che Dio stesso ha assunto nella sua rivelazione nel nostro linguaggio, nel nostro mondo e nella nostra umanità. Ciò che noi ascoltiamo, quando con le nostre orecchie umane e i nostri concetti ascoltiamo la rivelazione di Dio, ciò che percepiamo nella Scrittura (come gli esseri umani possono percepire), ciò che è effettivamente l'annuncio della Parola di Dio nella nostra vita, tutto ciò è la triplice unica voce del Padre, del Figlio e dello Spirito. Cosi Dio è qui per noi nella sua rivelazione. Così egli stesso rende manifesto un vestìgìum di se stesso e dunque del suo essere Trinità»76. Dio resta Dio, la Differenza non è risolta, l'alterità dell'Altro è rispettata: ma se nell'atto di rivelazione Dio impegna totalmente se stesso come Dio, le parole in cui si dice la Parola eterna dovranno pure essere in qualche modo abitate — oltre che trascese — da essa. Se il rifiuto dell'univocità richiede il forte senso della Trascendenza, il rifiuto non meno necessario dell'equivocazione, e quindi dell'incomunicabilità, esige una contiguità di Dio e dell'uomo nell'orizzonte del senso, e perciò un loro incontrarsi in quel misterioso fondamento che è l'essere al di là della parola, il silenzio della differenza ontologica su cui si stagliano nella loro specificità gli enti e le parole del linguaggio dell'esserci. Non è l'essere che unifica per via di diversa attribuzione Dio e il mondo, quasi che Lui sia un ente fra gli enti, fosse pure il sommo degli enti: ma è certamente nella dimensione dell'essere che Dio si fa accessibile e l'uomo può fare esperienza di Lui, anche se come l'ai di là di ogni determinazione dell'essere, e quindi come il Mistero santo che si lascia solo intravedere nell'evento della parola di rivelazione, come il silenzio dell'essere o l'"ulti76 K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, 1/1, o.c, 366s. Cfr. la conferenza di K. Barth del 1956 su L'umanità di Dio, Torino 1975.

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mo Dio", da cui la parola procede nel tempo e nell'eternità. È dunque la rivelazione come evento della comunicazione e del nascondimento di Dio il fondamento più preciso dell'analogia, sul piano linguistico, come su quello ontologico: lo si è visto in san Tommaso, che supera l'evidenza logica dell'equivocità proprio in obbedienza al fatto che esistono asserti della fede, fondati sulla Parola dell'avvento; lo si è visto in Barth, che recupera il valore dell'analogia come analogia fidei e analogia relationis. Su questa via si potrebbe parlare propriamente di una «analogia dell'Avvento» o anche di una «analogia Christi»77: queste espressioni vogliono esprimere la verità semplice e grande che le regole del parlare umano di Dio sono state date da Dio stesso nel suo parlare di sé in Gesù Cristo. «Si tratta di comprendere il Vangelo come evento della corrispondenza... L'evento della corrispondenza del discorso umano a Dio non è una capacità propria del linguaggio, non è una sua possibilità, ma una possibilità estranea che gli è aperta e attribuita»78. Questa corrispondenza si esprime propriamente nella forma della parabola: il Verbo incarnato è la parabola del Padre; in Lui il Silenzio dell'Origine si dice, pur senza risolversi. Il suo stesso parlare in parabole rinvia alla grande parabola che è l'intera sua presenza e azione storica: in Gesù Cristo l'umano rinvia al divino continuamente, senza confusione o mescolanza, ma anche senza divisione o separazione79. La parabola è come una metafora in esteso: essa opera una trasposizione di senso, che interpella l'uditore senza costringerlo, ma avvincendolo nella forza pratico-critica del racconto. Cosi, Gesù parla di Dio raccontando il Suo amore, rinviando al Suo trascendente Silenzio, ma insieme proponendolo come mistero santo di grazia e di misericordia, che si offre ed attrae nella libertà e da cui ci si lascia coinvolgere nella fede. L'analogia, operante nelle parabole del Profeta galileo e nella parabola che Lui stesso è, è «l'evento interpellante della libertà avvincente»80: essa è «l'espressione 77 Cfr. E. Jiingel, Dio, mistero del mondo, o.c, specie 367ss. ("Il Vangelo come discorso analogico su Dio") e A. Milano, Analogia Christi, o.c. 78 E. Jùngel, Dio, mistero del mondo, o.c, òli), 377. 79 Cfr. i quattro avverbi usati dal Concilio di Calcedonia (451) nel doppio rifiuto della confusione monofisita e della separazione nestoriana fra le due nature del Verbo incarnato, per affermare l'unità di esse nell'ipostasi divina, nella persistente asimmetria o dissomiglianza fra di loro: DS 302. 80 E. Jùngel, Dio, mistero del mondo, o.c., 381.

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logico-linguistica dell'essere di Dio che si compie come abnegazione sempre maggiore in una pur così grande relazione a se stessi e in questa misura è amore. Ma l'amore preme per essere espresso. Dell'amore fa parte la dichiarazione e la conferma dell-'amore. Poiché Dio non è solo uno che ama, ma è l'amore stesso, non solo si deve, bensì si può anche parlare di lui. Infatti l'amore è padrone del linguaggio: carìtas capax verbi»81. E l'amore che unisce i distinti e avvicina i lontani, pur senza eliminare la distinzione o la lontananza: perciò, l'amore vuol dirsi in parabole... La parabola, come esercizio dell'analogia, fondata sulla buona novella della rivelazione, richiede dunque che nel parlare di Dio si debba raccontare oltre che argomentare: se la narrazione è la forma concreta che prende nella testimonianza evangelica l'analogia della fede, l'argomentazione discreta, condotta sull'esempio della stessa tradizione biblica, corrisponde alla ricerca di senso unificante dell'esodo umano. Un cammino integrale di conoscenza della fede non potrà mai rinunciare ad unire le due prospettive: occorre parlare di Dio, raccontando il Suo Amore, ed insieme trasferire il senso del racconto alle domande più vere che nascono nel cuore umano. A questa duplice operazione si presta propriamente il pensiero simbolico: in origine il "simbolo" (CJU[JLPOXOV) era un segno di riconoscimento, una tessera, spezzata in due perché ognuno dei contraenti di un patto potesse all'occorrenza mostrare la corrispondenza della propria parte a quella dell'altro, e cosi attestare la consistenza del legame liberamente contratto. È da qui che la parola passa a designare l'unità dei due (espressa dalla preposizione auv, indicativa di comunione e di convergenza) nell'autonomia di ciascuno (significata dall'immagine del (ìàXXetv, del "gettare" o "lanciare" la propria parte perché converga in uno), e perciò anche la specifica appartenenza al patto, che caratterizza tutti e ciascuno senza massificare nessuno, ma anche portando ognuno fuori dal proprio isolamento e dalla prigionia della propria altrimenti insuperabile incomunicabilità. Sul piano traslato si spiega allora come il termine "simbolo" passi a significare ciò che tiene insieme senza costringere, e quindi ciò che relaziona i diversi senza cadere nell'univocità e mantiene l'unità di senso, anche nell'eccedenza o nella radicale discontinuità dei differenti significati. Come la parabola e la metafora, il simbolo "traspone": in esso 81

Ib., 389.

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l'analogia supera l'incomunicabilità dell'equivocazione perché l'orizzonte di senso (l'arco del "patto" contratto) è unitario e totalizzante, ma si tiene anche lontana dalla confusione che dimentica la differenza ontologica, perché i significati non vengono appiattiti l'uno sull'altro (i "contraenti" restano se stessi). È così che nel simbolo si dà un'unità di senso nell'eccedenza del significato82. E in rapporto a questa sua complessa valenza che il "simbolo" risulta particolarmente adatto al linguaggio teologico: nell'orizzonte simbolico gli asserti di fede mantengono il loro senso radicalmente soteriologico, pur nella discrezione esigita dalla varietà dei significati di ciò che è detto in rapporto a Dio e agli uomini, nell'ascolto della Parola e del Silenzio dell'Eterno entrato nel tempo. Perciò, volendo parlare di Dio raccontando il Suo Amore e, al tempo stesso, volendo argomentare pensando a ciò che questo racconto dice alla quotidiana fatica di essere uomini, senza costringere il divino nella misura del mondo e senza vanificare il mondano al contatto col "fuoco divorante", è proprio la via del simbolo che si offre come traccia possibile: espressione dell'analogia dell'Avvento, che si costruisce sullo stesso dirsi e ritrarsi della Parola nelle parole del nostro linguaggio, il parlare "simbolicamente" di Dio sarà la forma meno inadeguata che la "parola della fede" possa assumere per dire insieme la vicinanza del Dio infinitamente lontano e la trascendenza del Suo essere più intimo a noi di noi stessi. Anche così si delinea il compito che una "simbolica" della fede ecclesiale è chiamata ad assolvere...

82 Su questi temi ha scritto molto ed efficacemente P. Ricoeur: cfr. un'utile raccolta di diversi suoi saggi in P. Ricoeur, Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, Napoli 1994.

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2. LA PAROLA DEL M I S T E R O

«Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore»: la «parola della fede, che noi predichiamo» (Rm 10,8; cfr. Dt 30,11-14) è la parola "vicina" del Dio vivente, che si è fatto prossimo alla vicenda umana, abitando — Lui, totalmente Altro — le nostre parole, per essere anche così totalmente dentro alla nostra storia, al nostro cuore: è la parola del Suo amore eterno, che ha scelto di destinarsi alla creatura da Lui stesso liberamente voluta secondo un disegno di grazia e di misericordia, che è andato realizzandosi nel tempo e resta avvolto nel silenzio dell'eternità. Questo disegno, che si compie nel divenire del mondo, è il "mistero" nel senso biblico-paolino, la Gloria che viene a nascondersi ed insieme a rivelarsi sotto i segni della storia: la parola della fede è la parola del Mistero, l'accedere al linguaggio dell'"economia della salvezza", il dirsi tacendosi dell'amore eterno per noi uomini e per la nostra salvezza. Narrare questa economia — "dispensazione" del dono divino nel tempo degli uomini — ed argomentarne il senso per la vicenda del singolo e la storia dell'umanità intera è il compito della simbolica ecclesiale, che viene a toccare perciò le domande più vere e profonde presenti nel cuore umano. Di conseguenza, essa non potrà non confrontarsi da una parte con l'esercizio critico del pensiero indagante, che è la filosofia {simbolica della fede e filosofia), dall'altra con la prassi, da cui parte ed a cui ritorna il pensiero della fede illuminato dalla memoria viva e trasformante dell'Avvento divino nella storia degli uomini {simbolica ed etica).

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2 . 1 . LA "SIMBOLICA ECCLESIALE"

Perché chiamare "Simbolica" un'esposizione critica, al tempo stesso narrativa ed argomentativa, della fede della Chiesa? perché esplicitarne sin dal titolo il carattere "ecclesiale"? A queste domande va data risposta sul duplice piano contenutistico ed esistenziale, in riferimento cioè all'oggetto di cui si parla e al soggetto che parla {il Simbolo e la fede ecclesiale). L'esplicitazione della risposta richiederà di indicare quale sia il metodo della "Simbolica ecclesiale" e quale la forma di pensiero che la pervade {una teologia come storia), mentre la molteplicità di approcci e di tematiche, delineata nell'illustrare l'itinerario che essa è chiamata a percorrere, richiederà di porre l'interrogativo intorno all'unità fondamentale dell'insieme e al suo carattere aperto, non totalizzante {un sistema aperto). a) Il Simbolo e la fede ecclesiale L'uso del termine "Simbolica" per indicare l'esposizione articolata e riflessa del messaggio cristiano fa riferimento anzitutto al fatto che i contenuti in essa esposti si trovano densamente compendiati nel Simbolo della fede, formula breve e grande in cui la tradizione viva del popolo di Dio ha raccolto gli articoli fondamentali, in base ai quali stanno o cadono la confessione e la sequela di Gesù come Signore e Cristo. Il termine "Simbolo" si affermò per indicare il Credo prima in Occidente, poi anche in Oriente, sia per il suo significato di "segno di riconoscimento", che consentiva di distinguere l'autentica dottrina apostolica da quella degli eretici, sia per il suo rinvio all'idea di "patto", connessa con l'alleanza del battesimo, nel cui contesto il Simbolo ha avuto la sua originaria collocazione, sia perché la confessione di fede "tiene insieme" gli articoli decisivi da credere e su cui edificare l'esistenza redenta, alla cui formulazione è occorso il contributo di molti (nel senso — erroneamente ritenuto equivalente a aufJL^oXov — della parola latina "collatio")1. 1 Sulla complessa questione dell'origine e del significato del nome "Symbolum" cfr. la documentata presentazione di J. N. D. Kelly, I Sìmboli dì fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del Credo, Napoli 1987, 51-59.

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In verità, il termine più comunemente usato per indicare l'esposizione della fede cristiana, condotta in maniera al tempo stesso criticamente elaborata e responsabile nei confronti del consenso dottrinale della Chiesa, è quello di "dogmatica". In quanto il "dogma" è una proposizione determinata che esprime un contenuto della fede, legittimata da parte dell'istanza magisteriale autorizzata a definirlo e proclamarlo o dalla effettiva "recezione" ("receptio") del popolo di Dio, la dogmatica si presenta già nel nome come «scienza della fede in quanto vigila sulla "adeguatezza oggettiva" del discorso ecclesiale su Dio e sul mistero della sua autocomunicazione. Oggettivamente adeguato è questo discorso, allorché esso parla di Dio e della sua opera salvifica in maniera tale da corrispondere al modo in cui Dio parla di sé nella sua autorivelazione, nella sua parola essenziale — il Logos Gesù Cristo —, e mediante il suo Spirito Santo nella comunità dei credenti»2. Il termine "dogmatica" non ha però un'autorità peculiare o esclusiva nella tradizione del pensiero teologico: esso viene adoperato soltanto a partire dal secolo XVII in ambito protestante per designare la disciplina, che si occupa del contenuto dottrinale della fede, in quanto distinta dalla teologia storica e dalla teologia morale. In ambito cattolico il termine sostituì l'espressione "sacra doctrina" non prima della fine del XVII secolo, in parallelo all'uso per cui la parola "dogma" prese il posto della formula "articuli fidei": "dogmatica" fu intesa così come la scienza dei dogmi, l'esposizione della dottrina della fede autorevolmente proposta dalla Chiesa. Con l'Illuminismo al termine "dogmatica" fu dato un senso peggiorativo, in quanto lo si intese in opposizione ai valori di autonomia e di libertà del sapere razionale e storico-critico: "dogmatico" fu considerato tutto ciò che è condizionato dall'assenza di un'adeguata consapevolezza delle condizioni trascendentali del pensiero ed è di conseguenza elaborato in maniera ingenuamente oggettivistica (I. Kant), o senza la necessaria attenzione alla mediazione storica della conoscenza e dello sviluppo degli oggetti presi in esame (E. Troeltsch). Perciò, specialmente in ambito evangelico, si cominciò a preferire a dogmatica l'espressione "teologia sistematica", usata già all'inizio del secolo XVIII per indicare un'esposizione unitaria e coeren2 J. Werbick, Prolegomeni, in Nuovo Corso di Dogmatica, ed. da Th. Schneider, 1, Brescia 1995, 55.

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te della dottrina cristiana, argomentata e documentata in tutte le sue parti, specialmente mediante la spiegazione del nesso esistente fra i vari contenuti dottrinali3, il rapporto fra il momento speculativo e quello positivo nella teologia dogmatica o sistematica verrà inteso in maniera diversificata: da parte protestante criterio normativo per entrambi saranno ritenute l'autoevidenza della rivelazione {Scriptum, sui ipsius interpres) e la forza dimostrativa dell'atto di fede (sensus fideì); da parte cattolica decisivo sarà invece considerato il rapporto alla tradizione viva dei contenuti normativi della Scrittura nel popolo di Dio (consensus fidelium), in quanto però verificata e garantita dal ministero di unità dottrinale nella Chiesa, custode e vigile nei confronti del deposito della fede da cui essa nasce e di cui si nutre. Perciò, in ambito cattolico l'uso del termine "dogmatica" sarà prevalente rispetto a quello dell'espressione "teologia sistematica". Il termine "simbolica" fu adoperato da Johannes Adam Mòhler come titolo della fortunata opera, nella quale venivano presentate le antitesi dogmatiche del cattolicesimo e del protestantesimo sulla base dei loro scritti confessionali pubblici ("Bekenntnisschriften")4: "simbolico" ha così in quest'opera quasi sempre il significato di "relativo ai Simboli di fede". Di fatto però al significato contenutistico la struttura stessa dell'opera viene ad aggiungere al termine un senso metodologico, formale, che rinvia al "tener insieme" il diverso non nonostante, ma proprio attraverso la sua diversità: costruita sull'esposizione e il confronto delle professioni di fede, l'opera si propone di far conoscere con obiettività le differenze, non senza evidenziare l'orizzonte comune in cui si collocano. Scrive Mòrder: «Vorrei portare un piccolo contributo alla promozione della pace nel tempo in cui viviamo, contributo derivante dalla vera conoscenza della divisione, in quanto essa permette di capire come quest'ultima sia stata frutto del desiderio quanto mai serio delle due parti di conservare la verità, di conservare il cristianesimo puro e inalterato. Mi sono perciò proposto di delineare in maniera molto netta le opposizioni e non ho mai e in nessun 3 Per una storia di questa terminologia cfr. W. Pannenberg, Teologia sistematica, I, Brescia 1990, 26ss. 4 A. J. Móhler, Simbolica o esposizione delle antitesi dogmatiche tra cattolici e protestanti secondo i loro scritti confessionali pubblici (1832), Milano 1984. Questa traduzione è fatta sul testo della quinta edizione ampliata e migliorata (1838).

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punto cercato di nasconderle o di velarle»5. È precisamente nell'esposizione oggettiva delle posizioni diverse che risalta l'orizzonte ermeneutico comune ad esse, e cioè la ricerca e la pretesa di obbedienza alla verità del Mistero divino rivelato nella storia: in tal senso, il termine "simbolica" designa tutt'altro che un'intenzione polemica, per indicare anzi una metodologia ispirata al dialogo, nella conoscenza e comprensione onesta delle rispettive posizioni in vista dell'unità della Chiesa, voluta dal Signore, e quindi al tempo stesso un'opera fedele all'identità cattolica e pervasa dall'ansia ecumenica6. Delle tre espressioni "dogmatica", "sistematica" e "simbolica", è allora possibile dire che la prima accentua il riferimento al contenuto oggettivo dell'esposizione della fede cristiana, rischiando proprio per questo di trascurare il referente soggettivo, e quindi di venire fraintesa nel senso di ciò che verrà bollato in epoca moderna come "dogmatismo"; la seconda evidenzia il contributo organizzatore e critico del soggetto, fondato su una criteriologia normativa che però, in quanto diversificata nelle grandi tradizioni cristiane, finisce col dare alla parola sensi abbastanza diversi, e non del tutto estranei al rischio di protagonismi arbitrari e, in ultima analisi, "idealistici" o "soggettivistici"; la terza espressione sembra invece tener insieme senza confondere l'elemento oggettivo e quello soggettivo, da una parte rinviando ai Simboli di fede, il cui contenuto in quanto fondato nella rivelazione è l'oggetto da presentare in forma articolata e critica, dall'altra supponendo la libera creatività del teologo, che organizza l'esposizione con il linguaggio e secondo le istanze fondamentali della situazione storica del cristianesimo con cui entra in dialogo. La preferenza accordata al termine "simbolica" viene dunque ad indicare l'attenzione programmatica sia ai contenuti oggettivi della fede ecclesiale, sia al contesto delle mediazioni linguistiche e degli orizzonti di senso in cui la riflessione si muove. In rapporto a questo duplice significato del termine "sim5

Ib., Prefazione, 43. Nell'opera di C. A. Bernard, Teologia simbolica, Roma 1981, il titolo fa riferimento all'analisi dell'attività simboleggiante, a partire dalla riflessione sul campo simbolico fino al rapporto fra simbolo e ricerca di Dio, concretamente esemplificato dall'uso dei simboli specialmente negli Autori mistici, ed all'esame della trasformazione simbolica, che rinvia al nesso fra simbolo e sacramento. Come si vede, il significato dei termini "simbolo" e "simbolico" non è anzitutto quello qui preso in esame. 5

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bolica" anche l'aggettivo "ecclesiale" assume il suo pieno valore: da una parte, esso caratterizza l'elemento contenutistico dell'esposizione, rinviando alle professioni di fede della Chiesa, ed in particolare ai "Simboli" nella loro compiuta densità, che — in quanto testimonianze autoritative del contenuto dottrinale della rivelazione — costituiscono l'oggetto da esporre, spiegando, argomentando e documentando i vari articoli specialmente mediante il ricorso alla Scrittura e alla tradizione vivente della fede proclamata, la "fides quae creditur"; dall'altra, l'aggettivo "ecclesiale" rimanda alla fede vissuta del popolo di Dio, a quella "fides qua creditur", senza la quale le parole dei Simboli non avrebbero alcuna risonanza interiore e non evocherebbero alcuna esperienza veramente trasformante dell'incontro con la grazia divina. L'ecclesialità della Simbolica è dunque materiale e formale, contenutistica ed ermeneutica: essa dice l'oggetto dell'esposizione ed il soggetto vivente, che determina il campo intenzionale in cui il messaggio è pienamente significativo e sensato. In tal senso, l'aggettivo "ecclesiale" esprime una qualifica essenziale dell'esposizione: esso non si limita a rimandare alla doverosa responsabilità che il teologo avverte nei confronti della comunità di fede al cui servizio è posta la sua riflessione, ma vorrebbe «richiamare l'attenzione sul fatto che la dogmatica non è "libera", ma legata allo spazio della Chiesa, ed è là, soltanto là, ch'essa diventa una scienza possibile e piena di significato» 7 . In altre parole, senza il riferimento costitutivo e fondante al soggetto vivo, che è la comunità ecclesiale, che gli trasmette la rivelazione e gli consente di fare esperienza della grazia e di apprendere e sempre di nuovo ricreare il linguaggio della fede, il teologo semplicemente non potrebbe elaborare alcuna "simbolica": egli sarebbe in condizione al massimo di produrre un proprio "sistema", più o meno dipendente dalle mode del tempo, ma non uscirebbe dal chiuso dell'identità prigioniera di se stessa e perciò dei mondi ideologici e delle loro pretese totalizzanti. Soltanto la Chiesa è lo spazio vitale in cui l'Avvento si fa pienamente presente all'esodo umano e si comunica al cuore di chi crede: perciò, è nell'ambiente della fede proclamata, celebrata e vissuta del popolo di Dio, che il teologo at7 Così Karl Barth motiva il cambiamento del titolo rispetto al volume uscito nel 1927: la Christliche Dogmatik diventa Kirchliche Dogmatik: I/I, Zùrich 1932, Vili. Nella stessa pagina rileva: «Se nel titolo del volume al posto dell'aggettivo "cristiana" è subentrato "ecclesiale", ciò sta ad indicare una cosa essenziale...».

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tinge il suo oggetto ed apporta nella comprensione e nell'esposizione di esso l'originalità del suo contributo, nello sforzo di pensare l'incontro sempre nuovo e trasformante delTautocomunicazione divina in Gesù Cristo con l'accoglienza della condizione esodale dell'esistere umano. In tal senso si può dire che il soggetto che esprime propriamente la "Simbolica" non è il singolo teologo, ma questi in quanto inserito nel rapporto vitale con l'intera Chiesa confessante, da cui attinge ed a cui ripropone creativamente i contenuti ed il linguaggio della fede. L'ecclesialità è insomma condizione ermeneutica perché il pensiero che ascolta e indaga possa veramente aprirsi al dono dell'Altro: la riflessione critica sui contenuti dogmatici «perde inevitabilmente il contatto con la realtà della fede, se perde il contatto con il linguaggio della fede. E diventa sterile se non è capace di creare un nuovo linguaggio partecipando alla responsabilità per il linguaggio della fede. Il suo compito è dunque di tipo ermeneutico nel senso più ampio del termine»8. Lungi dall'essere prigione, l'appartenenza consapevole e responsabilmente critica alla comunione del popolo dei credenti è per il teologo garanzia di libertà da se stesso e di creatività di pensiero e di linguaggio, al tempo stesso in cui è misura e regola dell'autenticità dell'incontro col mondo dell'Avvento, da cui soltanto può venire l'oggetto del supremo stupore, che è la Verità che libera e salva. Si comprende in questa luce perché l'aggettivo "ecclesiale" non si coniughi altrettanto bene con l'espressione "teologia sistematica": un "sistema" è una costruzione organica di idee, sviluppata sulla base di un certo numero di interrogativi e di principi fondamentali, scelti secondo il criterio di una particolare visione del mondo ed articolati secondo un metodo ritenuto ad essi appropriato. La teologia non può essere equiparata ad una simile costruzione, soprattutto perché suo oggetto è la storia del rapporto di alleanza fra Dio e l'uomo, cosi come essa ci viene attestata nei documenti dell'Antico e del Nuovo Testamento e di cui la Chiesa ritiene per fede di essere attualizzazione e realizzazione continuata nel tempo. Se oggetto della teologia è la "parola della fede", rivelata, proclamata, celebrata e vissuta, nella scelta delle sue vie, delle sue domande e dei suoi principi, nella stessa elaborazione del suo linguaggio, il teologo 8

G. Ebeling, Dogmatica della fede cristiana, I, Genova 1990, 53.

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è responsabile di fronte alla Parola di Dio, vitalmente custodita e trasmessa nella Chiesa, nella varietà e ricchezza delle sue articolazioni ministeriali: la libertà della teologia è totalmente fondata nella sovrana libertà della Parola e del Silenzio di Dio. In quanto l'espressione "teologia sistematica" fa risaltare in primo piano la funzione organizzatrice del protagonista del pensiero critico della fede, essa segnala un'operazione in sé degna del massimo rispetto ed anche certamente necessaria all'intelligenza della rivelazione, ma per questa prevalente attenzione all'elaborazione soggettiva non sembra prestarsi ad essere coniugata opportunamente all'aggettivo "ecclesiale", che rimanda piuttosto al carattere oggettivo, normativo e fondante della "fides Ecclesiae", in rapporto a cui va condotta l'esposizione organica dei contenuti della fede. E questo carattere, invece, che l'aggettivo "ecclesiale", aggiunto a "simbolica", propriamente esprime: esso rinvia immediatamente alla forza autoritativa della rivelazione e della sua trasmissione ecclesiale come sorgente autentica di conoscenza della verità dell'Altro, che viene a noi. Certo, l'aggettivo "ecclesiale" potrebbe opportunamente coniugarsi anche al sostantivo "dogmatica", secondo la scelta operata da Karl Barth: in questo caso, però, è la componente creativa del soggetto che sembra in qualche modo venire oscurata, specialmente se il sostantivo è inteso alla luce dei dibattiti e dei pregiudizi della modernità. Senza dubbio la verità del dogma e lo splendore, che le è proprio, rettamente intesi, non annullano le capacità del soggetto ricevente, le esaltano anzi e le sviluppano secondo l'originaria vocazione del cuore umano all'autotrascendenza verso il Mistero assoluto. Proprio questa valorizzazione dell'incontro fra il divino venire e l'umano andare sembra però essere meglio espressa dalla formula "simbolica ecclesiale", soprattutto in un'epoca in cui la crisi dei modelli totalizzanti della ragione ideologica produce un'istintiva insofferenza verso ogni forma di sistema chiuso e un immediato sospetto verso tutto ciò che possa sapere di dogmatismo. Inoltre, i due termini dell'espressione "simbolica ecclesiale" vengono ad illuminarsi ed arricchirsi reciprocamente, dissipando le riserve tanto di un accentuato oggettivismo, quanto di un possibile soggettivismo: se "simbolica" aggiunge immediatamente al costitutivo riferimento contenutistico al Simbolo della fede la prospettiva formale di un pensiero aperto, che tiene insieme senza catturare o costringere, l'aggettivo "ecclesiale" eviden55

zia il carattere comunitario del messaggio presentato e dell'esperienza vitale in cui esso può essere fino in fondo percepito e vissuto, mentre richiama la forza dell'oggetto puro che nella rivelazione si è offerto e ci raggiunge attraverso la fedele trasmissione di essa nella tradizione vivente del popolo di Dio, sostenuto e guidato dallo Spirito. "Simbolica ecclesiale" dice dunque al tempo stesso un compito, una responsabilità ed un progetto, nella piena corrispondenza di soggetto e oggetto: attingendo all'incontro fra esodo e Avvento, attuato nella comunione della fede, essa intende provocarlo nella forza del Mistero proclamato, celebrato e vissuto dal popolo dei pellegrini di Dio...9. 9 Naturalmente i caratteri indicati non sono esclusivi della Simbolica Ecclesiale, ma si ritrovano in vario modo e con accenti diversi anche nelle numerose esposizioni critiche della fede cristiana prodotte in anni recenti. Cfr. di singoli autori: P. Althaus, Die christlìche Wabrheit. Lehrbuch der Dogmatìk, Gutersloh 19523; H. U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologìsche Àsthetik, Einsiedeln 1961ss (tr. it. Gloria. Un'estetica teologica, 1 voli., Milano 1971ss); Id., Theodramatik, Einsiedeln 1973ss (tr. it. Teodrammatica, 5 voli., Milano 1980ss); Id., Theologik, Einsiedeln 1985ss (tr. it. Teologica, 3 voli., Milano 1989ss); K. Barth, Kirchliche Dogmatìk, I/l-IV/3, Zollikon-Zùrich 1932ss; E. Brunner, Dogmatìk, 3 voli., Ziirich-Stuttgart 1946-1960. I960 3 ; F. Diekamp, Katholische Dogmatìk, rielaborata da K. Jiissen, 3 voli., Mùnster 1958ss13; G. Ebeling, Dogmatìk des chrìstlichen Glaubens, Tùbingen 1979ss (tr. it. Dogmatica della fede cristiana. I. Prolegomeni. La fede in Dio creatore del mondo, Genova 1990); J. H. Nicolas, Synthèse dogmatique de la Trinità à la Trinità, Fribourg-Paris 1985 (tr. it. Sintesi dogmatica. Dalla Trinità alla Trinità, 2 voli., Roma 1990-1991); L. Ott, Grundriss der katholìschen Dogmatìk, Freiburg i. Br. 19657; W. Pannenberg, Systematische Theologie, 3 voli., Gòttingen 1988-1993 (tr. it. Teologia sistematica, Brescia 1990ss); K. Rahner, Grundkurs des Glaubens. Eìnfùhrung in den Begriff des Cbristentums, Freiburg i. B. 1976 (tr. it. Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977); M. J. Scheeben, Handbucb der katholìschen Dogmatìk, 6 voli., Freiburg i. Br. 1948ss.3; E. Schlink, Okumenìsche Dogmatìk, Gòttingen 19852; M. Schmaus, Katholische Dogmatìk, 5 B.de, Miinchen 1947ss3 (tr. it. Dogmatica Cattolica, 4 voli, in 6 tomi, Torino 1966ss3); Id., Der Glaube der Kirche, 7Bde., St. Ottilien 1979-1982; P. Tillich, Systematic Theology, 3 voli., 1951-1963, in un unico volume Chicago 1967; G. Wainwright, Doxology. A systematic Theology, New York 1980. Fra le opere in collaborazione cfr. ad esempio; in area francese: Le Mystère Ghrétien, 17 voli., Tournai 1962-1970; Inìtìation à la pratìque de la théologie, sous la dir. de B. Lauret e F. Refoulé, 5 voli., Paris 1982-1983 (tr. it. Iniziazione alla pratica della teologia, 5 voli., Brescia 1986-1987); Le christìanìsme et lafoi chrétienne. Manuel de Théologie, sous la dir. de J. Dorè, 10 voli, più 3 di Introduction à l'étude de la théologie, Paris 1985ss (tr. it. Il cristianesimo e la fede cristiana. Manuale dì teologìa, Brescia 1987ss); in area tedesca: Mysterium Salutìs. Grundriss heilsgeschìchtlicher Dogmatìk, Einsiedeln 1967ss (tr. it. Mysterium Salutìs. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, a cura di J. Feiner e M. Lòhrer, ed. it. in 11 voli., Brescia 1967ss); Handbuch der Dogmatìk, 2 B.de, Dusseldorf 1992 (tr. it. Nuovo Corso di Dogmatica, ed. da Th. Schneider, 2 voli., Brescia 1995); in italiano: Corso di teologia sistematica, dir. da C. Rocchetta, 11 voli., Bologna 1985ss; in area latino-americana: Teologia y lìberacìón, collana prevista in 55 voli., Buenos Aires - Madrid 1985ss (in it. Teologìa e liberazione, Assisi 1987ss); Mysterium liberatìonis. Conceptos fundamentales de la teologia de la lìberacìón, a cura di I. Ellacuria e J. Sobrino, 2 voli., Madrid

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w" b) Una teologia come storia Dal punto di vista della forma di pensiero e del metodo di esposizione la "Simbolica ecclesiale" si caratterizza come una teologia storica, una teologìa come storia10: questo carattere le deriva dalla sua originaria apertura all'Altro che visita il tempo, dal riferimento costitutivo all'esperienza di Lui nell'ambiente vitale del popolo di Dio, in cui il mistero dell'Avvento si fa presente nelle più diverse situazioni storiche e dove è determinante il rapporto ad altri nelle dense e corpose relazioni che fanno la storia e la vita ecclesiale. La storicità della teologia, che si esprime nella "Simbolica ecclesiale", non è allora soltanto il riflesso ineliminabile della struttura esodale della condizione umana, ma rimanda in profondità all'incontro fra l'esodo mondano e l'avvento divino. In tal senso si può dire che l'esposizione teologica della fede ecclesiale è il pensiero critico che nella forma più alta "corrisponde" alla domanda di coniugare "simbolicamente", e dunque senza confusione o mescolanza, ma anche sen1991 (tr. it. Mysterium liberationis. Concetti fondamentali della teologia della liberazione, 2 voli., Roma 1992). Cfr. pure Amateca. Manuale di teologìa cattolica, previsto in 22 voli., che esce in varie lingue (in italiano: Milano 1993ss). 10 Cfr. Teologia e storia, a cura di B. Forte, Napoli 1992, nonché II Concilio venti anni dopo. L'ingresso della categoria "storia", a cura di E. Cattaneo, Roma 1985. Che l'ermeneutica storica caratterizzi la teologia espressa nella Simbolica ecclesiale è stato sottolineato da molti: così ad esempio W. Kasper, Nuova Prefazione (1992) a Id., Gesù il Cristo, Brescia 19927, Vili, scrive: «Il problema "cristologìa e storia" è il punto focale dell'opera cristologica di Bruno Forte. Alla luce di questo problema centrale egli tenta di presentare, con un'impostazione originale, una cristologia dopo l'illuminismo e lo storicismo. La sua istanza è quella di mediare tra la storia concreta di Gesù e la professione di fede in Cristo formulata in concetti metafisici... Forte presenta la storia di Gesù come la storia del Dio trinitario con gli uomini... Il suo è un contributo promettente alla soluzione del problema del rapporto fra cristologia e storia». A sua volta J. Moltmann, Nella storia del Dio trinitario, Brescia 1993, 19s, osserva: «Pare che il pensiero trinitario si muova in orbite eterne e al pari delle dossologie liturgiche ami le ripetizioni. Il pensiero storico invece a partire dall'età moderna presenta un andamento lineare... A mediare le due prospettive interviene un ribaltamento della Trinità storico-salvifica in una storia della salvezza concepita in chiave trinitaria... Il teologo italiano Bruno Forte, muovendosi nella tradizione del pensiero storico dell'Italia meridionale,... intitola la sua dottrina trinitaria Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, e vede la Trinità come storia sviluppando una concezione trinitaria della storia che rimanda alla "patria trinitaria" (ICor 15,28). Io mi sento molto vicino a queste posizioni... ». Nota infine B. Mondin, Dizionario dei Teologi, Bologna 1992, 244: «Dal punto di vista ermeneutico la teologia di Bruno Forte è caratterizzata da una consapevole assunzione della "coscienza storica", che la situa nella linea della grande tradizione italiana... (basti pensare a G. B. Vico, e, in campo propriamente teologico, alla rilevanza dell'elemento storico in Gioacchino da Fiore, Tommaso d'Aquino e Alfonso de Liguori) ».

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za divisione o separazione, l'Assoluto e la storia, l'autotrascendenza umana e l'offrirsi del Mistero santo. Pensiero della vita nel tempo, la teologia come storia è non di meno pensiero dell'Eterno entrato nel tempo, e, soprattutto, è pensiero dell'incontro fra l'umano andare e il divino venire. Essa nasce dalla storia, ma non si risolve in essa: assumendola, la interpreta e la orienta grazie all'impatto trasformante con la Parola uscita dal Silenzio, che viene ad abitare le parole degli uomini e ad illuminare il silenzio dell'essere ed i silenzi e le interruzioni della vicenda storica. Pensiero esodale, inevitabilmente segnato dalle situazioni e dai trapassi epocali della vicenda umana, la teologia come storia è non di meno pensiero cui sta a cuore l'Eterno, e che pertanto si sforza di portare al concetto la vita che viene dall'alto, nella consapevolezza di evocare, più che dire o fermare l'Altissimo. Carica della prassi, determinata dalla compagnia della vita e della fede ecclesiale, la teologia come storia ne è al tempo stesso momento riflesso e critico alla luce della rivelazione, «teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale»11. Coscienza del presente e memoria dell'Eterno, entrato nel tempo, docta caritas e docta fides, la simbolica teologica si fa profezia, docta spes, coscienza evangelicamente critica, che la Chiesa ha di sé nel suo peregrinare da questo mondo al Padre, theologia viatorum12.

In questa prospettiva, la storia è percepita come il luogo dell'incontro con la verità, della sua mediazione ermeneutica, non certo come la verità stessa nel suo farsi: una teologia come storia non ha nulla a che vedere con una concezione della verità risolta nella storia. Una tale concezione si ridurrebbe a puro relativismo, del tutto incapace di garantire l'apertura del divenire storico alle sorprese della Trascendenza e del Suo avvento: lo storicismo assoluto è padre dell'ideologia e delle sue chiusure asfissianti, produttrici di totalitarismo e di violenza. Nella 11 W. Kasper, La funzione della teologia della Chiesa, in Avvenire della Chiesa. Il libro del Congresso di Bruxelles, Brescia 1970, 72. Cfr. pure Id., Per un rinnovamento del metodo teologico, Brescia 1969: la Scuola di Tubinga presenta un'insistenza sul carattere storico della teologia, in obbedienza al carattere storico della rivelazione cristiana, analoga a quella caratteristica della tradizione teologica napoletana: cfr. B. Forte, ha Scuola Teologica Napoletana. L'eredità e il progetto, in Communio n. 138 (1995) 32-47. 12 Su questi temi cfr. B. Forte, La teologìa come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologìa come storia, Simbolica Ecclesiale, volume 2, Milano 1987.

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w concezione della teologia come storia la verità "avviene" nella storia, non "diviene" in essa, viene cioè a manifestarsi nella mediazione del linguaggio e della comunicazione, pur eccedendo sempre la capacità di presa del concetto e dell'interpretazione. L'assunzione della "coscienza storica" in teologia non si compie pertanto a prezzo di una perdita della verità, di una sua caduta nelle maglie dell'ideologia o, dopo l'evidenza del fallimento storico di questa, nella cattura nichilista caratteristica del "pensiero debole". Al contrario, la reciproca conversione di "veruni" e di "factum", propria dell'intuizione vichiana, rende attenti a quel "farsi" della verità, che la rende significativa e liberante per gli uomini, situati nella corposità del divenire mondano, senza per questo risolverla semplicemente nella prassi. E così che «nell'esaminare il carattere storico della verità si incontrano oggi l'ermeneutica filosofica e la concezione specificamente biblica... Per il concetto biblico di verità è caratteristico che la verità non può e non deve soltanto essere conosciuta ed espressa, ma anche fatta. Verità e fedeltà sono intimamente collegate»13. Conseguenza di queste premesse è che una teologia simbolica, intesa come teologia storica, non comporta in alcun modo la rinuncia ad ogni possibile impianto metafisico: l'attenzione all'esserci, come luogo concreto dell'avvento della verità, non esclude, anzi esige l'attenzione all'essere fondante della verità stessa. Avvenendo nella storia, la verità non perde la sua forza originaria e originante, la sua consistenza ontologica, lo spessore della differenza che la caratterizza: semplicemente, essa si rende almeno in parte accessibile, comunicabile e significativa per l'uomo. «Effettivamente un pensiero storico che si intenda rettamente non può affatto rinunciare a categorie metafisiche... In definitiva ogni storia, proprio in quanto storia, deve essere concepita solo come derivante dalla tensione fra infinito e finito, dalla differenza ontologica tra essere ed esistente, dal gioco congiunto di libertà e legame con la tradizione, di individuo e società. Senza queste strutture, che la caratterizzano metafisicamente, la storia non può affatto esistere ed essere concepita come tale»14. Già l'uso delle categorie strutturali di "esodo" e "Avvento" per esprimere la dialettica dei poli in gioco e il 13 14

W. Kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, o.c, 66. lb., 71.

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carattere inaudito dell'incontro che il pensiero della fede è chiamato a portare alla parola, mostra la portata ontologica di una teologia storica, che, partendo dalla condizione esodale dell'esserci, prenda sul serio l'Alterità che ad essa incombe e che nel suo avvento profondamente la determina15. Percepire la verità nella storia non significa, dunque, in alcun modo esaurirla in essa: al contrario, vuol dire intenderla nella sua oggettività reale e trascendente, in modo tale, però, che parli alla soggettività dell'uomo e la coinvolga nell'incontro della conoscenza e dell'amore. Così l'autodestinarsi originario della verità può essere riconosciuto nell'atto della libera autodestinazione dell'essere umano all'accoglienza della verità nel tempo e mediato nelle forme del linguaggio: una teologia come storia non sacrifica il dirsi della verità, ma lo valorizza precisamente nella sua natura di evento linguistico, di mediazione espressiva storicoconcreta e comunitaria, in cui la verità viene a donarsi all'esistente e questi ad aprirsi alla sua originaria destinazione ontologica. Cristo appare qui come il luogo supremo in cui «una volta (e una volta per tutte!) l'Essere fu nell'esserci» (H. U. von Balthasar), e il discernimento della presenza del Mistero assoluto nella storia in cui "avviene" si mostra come una forma di obbedienza all'incarnazione della Parola eterna. La ricerca del senso della verità, del suo offrirsi significativa ed eloquente alla vita degli uomini, non è sacrificio della profondità e dell'oggettività del vero, ma riconoscimento del fatto che la verità è insieme bontà attraente e bellezza irradiante. La verità in sé si fa verità per noi, senza perdere la sua trascendenza: soltanto, essa si dona all'orizzonte di senso, si fa intelligibile e significativa, non a prezzo della sua eccedenza, ma proprio grazie ad essa e al suo mantenimento. Una teologia storica, attenta al senso della verità, aperta alla « Bellezza che salverà il mondo » (F. Dostoevskij), senza per15 Queste categorie pervadono la "teologia storica", presentata nei volumi della mia Simbolica Ecclesiale e ne rivelano anche in parte l'impianto filosofico: cfr. ad esempio U. Regina, Teologia e filosofia dopo la modernità, in Humanitas 49 (1994) 274-287, specie 280ss, e l'efficace presentazione valutativa di C. Scilironi, La "filosofia positiva" di Bruno Forte, in Sapienza 48 (1995) 75-85. Anche A. Fabris, Esperienza e paradosso. Percorsi filosofici a confronto, Milano 1994, 146 e 153, n. 70, ha ben colto la rilevanza strutturale, filosofico-teologica, di queste categorie. Un confronto significativo e originale di posizioni si trova sia in Sull'inizio e la fine della storia, Colloquio tra Massimo Cacciari, Bruno Forte e Vincenzo Vitiello, in II Pensiero. Rivista di Filosofia 34 (1995) 7-31, che in V. Vitiello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Milano 1994, 103-108 ("Sulla soglia, indugiando. Breve dialogo tra un teologo e l'autore").

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derne per questo la purezza e la trascendenza, non è meno, ma più fedele alla verità di quanto non sia un pensiero, che voglia cogliere il vero in sé, senza indagare sul suo rapporto con l'esodo della condizione umana e quindi sul suo senso per noi. Veramente, allora, «un pensiero storico, inteso bene, non ha nulla a che fare col relativismo e lo scetticismo. La storia non esclude, anzi include la Tradizione, i vincoli sociali, le strutture essenziali della metafisica, anche se in modo storico, non statico e fissistico»16. Assumere la coscienza storica non sarà dunque per la teologia un rinunciare alla "memoria" sovversiva dell'Eterno entrato nel tempo, ma un viverla in modo tale, che in essa l'Avvento faccia veramente presa sul cammino esodale dell'uomo. La condizione dell'esistenza teologica, che prende coscienza della propria storicità e ne assume esplicitamente le conseguenze, diventa così quella della fedeltà al mondo presente, coniugata alla fedeltà al mondo che deve venire: la teologia come storia, implicata nell'elaborazione della simbolica della fede ecclesiale, è scienza delle cose presenti e del senso che ad esse schiude l'avvento divino, ed è insieme sapienza del Mistero, apertura ad accogliere l'inesauribilmente nuovo, che viene ad offrirsi nella Parola del Dio vivo, conoscenza secondo quelle "altissime cause' ', che si radicano nelle profondità stesse del Silenzio dell'origine, e cui solo la rivelazione conduce nella discrezione del dire tacendo17. Fedele all'interrogativo sgorgante dalla coscienza scissa di fronte all'infinito dolore del mondo e all'apparente trionfo della morte, la teologia come storia è pensiero dell'esodo in quanto determinato dall'Avvento ed insieme pensiero dell'Avvento in quanto mediato nelle parole e negli eventi della condizione umana18: pensiero riflesso dell'esistenza credente, segnata dal Deus adveniens e dal suo insondabile Mistero, espressione linguistica della coscienza critica dell'esperienza ecclesiale della fede, la simbolica teologica è un dire l'Avvento con le parole dell'esodo e un caricare il cammino esodale degli uomini dell'impatto con l'avvento della Trascendenza19. 16

W. Kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, o.c., 71. Cfr. Stimma Theologìae I, q. 1, a. 6c: «Utrum haec doctrina sit sapientia». La rilevanza di queste idee per la concezione cristiana dell'uomo è sviluppata ad esempio in B. Forte, L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, Simbolica Ecclesiale, volume 6, Milano 1993. 19 Si comprende perciò quale ruolo centrale rivesta la cristologia in una simile impostazione teologica, poiché in essa si affronta il luogo più alto dell'incontro fra esodo 17 18

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La teologia come storia viene a profilarsi allora nella sua originale criticità: storia è memoria che nella coscienza responsabile del presente diviene progetto. Senza memoria il progetto sarebbe utopia, senza progetto la memoria sarebbe rimpianto, senza coscienza responsabile dell'adesso memoria e progetto sarebbero evasione. È nell'unità dei tre momenti che il pensiero della storia si fa veramente critico, ricco cioè del discernimento e del giudizio, capaci di valutare ed orientare il presente. La teologia come storia è "critica" precisamente nella misura in cui vive di questa unità dinamica: tutt'altro che operazione asettica, essa è coscienza dell'oggi, ecclesiale e mondano, in cui si pone, compagnia della vita e della fede, in cui l'esperienza esodale dell'Avvento viene di fatto ad essere vissuta ("caritas quaerens intellectum"); è memoria del passato normativo e fontale della rivelazione, dell"'una volta per sempre" del venire di Dio nella pienezza del tempo e dell'attualizzazione di questa venuta nella vivente tradizione della fede ("fides quaerens intellectum"); è profezia, progetto provvisorio e credibile, scaturente dall'incontro fra il presente e il ricordo, rischioso e liberante, della Parola dell'avvento ("spes quaerens intellectum"). Stimolata dagli interrogativi e dalle istanze del presente, la riflessione critica della fede ecclesiale ripropone in risposta ad essi la fedeltà dell'Eterno, che viene a dirsi nelle parole dell'oggi per suscitare futuro. La criticità della teologia come storia sta dunque esattamente in questo confronto fra la complessità del presente, assunta consapevolmente e responsabilmente, e la forza inquietante della rivelazione compiutasi nel tempo, per discernere il significato della Parola di Dio per le opere e i giorni degli uomini e segnalare i cammini dell'attesa e dell'anticipazione del Regno. La teologia, come coscienza critica della fede ecclesiale, vive dunque indissolubilmente della triplice tensione, caratteristica della coscienza storica: ponendosi nel solco vivo della tradizione della fede, recepisce la vita del tempo presente con le sue aperture e le sue resistenze, per verificarla alla luce dell'avvento del Dio vivo e stimolarla in vista del compimento della e avvento e ci si apre all'abisso dell'approfondimento trinitario: cfr. B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologìa come storia, Simbolica Ecclesiale, volume 3, Milano 19947, e Id., Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Simbolica Ecclesiale, volume 4, Milano 19935. Ben ha colto questo punto B. Mondin nell'articolo dedicato alla mia teologia nel suo Dizionario dei teologi, o.c, 243s.

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promessa. Ascolto del tempo, ricordo rischioso e orientamento anticipante dell'avvenire, sono pertanto i momenti, profondamente connessi ed implicantisi, della coscienza critica della fede ecclesiale, che è la teologia vissuta come storia, nella storia e per essa: parola dell'uomo a Dio nella compagnia dell'esistenza in esodo; parola di Dio all'uomo nella memoria potente dell'Avvento; parola su Dio e sull'uomo, di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio nella profezia della vita veniente e nuova. Caratterizzata da un tale metodo, la simbolica teologica realizza in maniera originale il compito che le è proprio all'interno della comunione della fede: essa coglie il Mistero dall'analogia con le realtà conosciute per via naturale, nella fedeltà all'ascolto del mondo e dei suoi orizzonti di senso («ex eorum quae naturaliter cognoscit analogia»: compagnia dell'esistere umano); lo ripresenta nella sua purezza e fedeltà a se stesso, trascendente nella sovrana libertà del «nesso dei misteri fra loro» («e mysteriorum nexu inter se »: memoria della Parola e analogia della fede) ; ne scruta e ne offre la capacità di realizzare la libertà dell'uomo per una vita sempre più significativa e piena, cogliendone il nesso col futuro ultimo della condizione umana (« e nexu cum fine hominis ultimo»: profezia del futuro dell'uomo nel futuro di Dio)20. e) Un sistema aperto La forma del pensiero storico e il metodo che, corrispondendo ad essa, coniuga compagnia, memoria e profezia, tracciano anche l'itinerario organico che la "Simbolica ecclesiale" è chiamata a percorrere. Esso abbraccia precisamente i tre momenti della memoria, della compagnia e della profezia, intendendoli non solo come dimensioni formali presenti ad ogni tappa, ma anche come tappe essi stessi, che scandiscono la successione delle parti. E cosi che il valore normativo e fontale della memoria dell'Avvento esige la rivisitazione dell'evento Cristo e l'approfondimento di esso in direzione della contemplazione trinitaria (cristologia e dottrina sul Dio cristiano); la riflessione sulla compagnia porta a considerare l'esistenza redenta nella sua 20 Cfr. il testo del Vaticano I, Const. dogmatica "Dei Filtus" de fide catholìca, cap. 4: DS 3016.

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espressione comunitaria (ecclesiologia) e personale (antropologia ed etica sacramentale); lo sguardo sulla profezia, fondato sulla coniugazione dei due momenti precedenti, consente non solo di abbracciare l'insieme della storia a partire dalla rivelazione, in direzione tanto dell'inizio, quanto del compimento (teologia della rivelazione, protologia ed escatologia: teologia della storia), ma anche di contemplare nella densa concretezza della Vergine Madre Maria, la donna "icona" dell'intera economia del mistero (mariologia). Questa triplice scansione esige di essere giustificata sia a livello di senso e di metodo (introduzione alla teologia), sia approfondendo le possibilità e i limiti del linguaggio della fede come linguaggio analogico e fornendo una sintesi contenutistica del percorso, raccolta intorno ai tre momenti costitutivi del Mistero proclamato, celebrato e vissuto (introduzione alla simbolica della fede ecclesiale). L'insieme di questa giustificazione contenutistica e formale, metodologica e linguistica, costituisce quelli che possono essere chiamati i prolegomeni della "Simbolica ecclesiale". La struttura dell'intera opera comprende pertanto due volumi introduttivi e due volumi per ciascuna delle tre sezioni fondamentali in cui viene ad articolarsi21. Il volume primo, La Parola della fede - Introduzione alla Simbolica ecclesiale (1996), pone la questione preliminare di "dire Dio", articolandola nell'approfondimento del rapporto fra il Mistero e la parola, fino a tracciare un progetto plausibile di presentazione della "parola della fede", costruita per via analogicosimbolica (quello appunto sotteso alla "Simbolica ecclesiale"), dandone un concreto saggio espositivo, che può considerarsi una sorta di Simbolica in compendio. L'utilità di questo accostamento immediato fra questioni preliminari ed esercizio propositivo sta nel liberare subito la riflessione critica della fede da ogni pretesa impropria, che potrebbe derivarle da pregiudizi sistematici non fondati sull'ascolto della Parola e del Silenzio di Dio: «È 21 La Simbolica Ecclesiale è stata scritta nell'arco di circa venti anni: ciò spiega la presenza di alcuni elementi di eterogeneità formale, che non sembrano tuttavia indebolire l'organicità dell'insieme, mentre sottolineano il carattere storico della stessa elaborazione. Per esigenze intrinseche alla trattazione dell'immenso materiale l'ordine di pubblicazione dei volumi non coincide con quello del piano dell'opera: così ad esempio il volume introduttivo generale ha potuto essere scritto solo alla fine, mentre è stato necessario partire dalla cristologia e dalla dottrina trinitaria per rendere conto solo dopo del metodo messo in atto, e che ha guidato anche gli altri volumi, per la cui stesura è stata peraltro decisiva la precedente trattazione su Cristo e la Trinità.

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questo, in fondo, anche il modo più idoneo di approccio ai problemi teologici di principio: non con un ragionare preliminare, che non sarebbe mai realmente finito e perciò non giungerebbe mai davvero al cuore della cosa, ma penetrando nel materiale dogmatico, nei contenuti degli asserti di fede, fino alla sua dimensione profonda. In questo modo la dogmatica può affrontare al più presto il suo compito: non limitarsi a parlare della fede, ma far parlare la fede stessa»22. La visione d'insieme che si guadagna dalla sintetica presentazione del Mistero proclamato (in rapporto al Credo), celebrato (in relazione ai sacramenti) e vissuto (in riferimento alla vita teologale e ai comandamenti), consente di cogliere più facilmente il nesso fra le parti che saranno successivamente approfondite nello sviluppo della Simbolica, e pertanto di percepire meglio il senso di ciascuna nell'organicità del tutto 23 . Il volume secondo, La teologìa come compagnia, memoria e profezia - Introduzione al senso e al metodo della teologìa come storia (1987), intende rispondere al triplice interrogativo: che senso ha fare teologia oggi? come è stata fatta teologia nella storia? come fare teologia oggi? Già nella sua articolazione esso consente di sperimentare il metodo teologico che propone, nella triplice scansione di compagnia, memoria e profezia: in modo particolare, il libro giustifica l'assunzione consapevole dell'ermeneutica storica, nella linea del pensiero di Giovan Battista Vico, che — grazie alla sua apertura nei confronti del Trascendente, mediata col riferimento all'idea della "Provvedenza" — ben si presta ad essere adottato nell'esercizio del pensiero critico della fede. In dialogo con i contesti in cui la parola cristiana risuona ed accogliendo le sfide della condizione umana e della stessa esistenza credente, il volume, dopo aver rivisitato il modo di elaborare la riflessione teologica nelle grandi stagioni del cammino della Chiesa nel tempo, propone una teologia come storia, intesa cioè come pensiero della compagnia del22

G. Ebeling, Dogmatica della fede cristiana, I, o.c, 37. Questo compito è svolto dai capitoli 3-5 di questo volume, dove riprendo, rieiaborandoli, i contenuti espressi con taglio maggiormente spirituale e intento direttamente pastorale nei volumetti, che ho dedicato ai capisaldi della catechesi, arricchiti nella trattazione delle singole parti da preghiere volte a facilitare il passaggio al vissuto: cfr. B. Forte, Piccola introduzione alla fede, Milano 1992. 19943; Id., Piccola introduzione ai sacramenti, Milano 1994; Id., Piccola introduzione alla vita cristiana, Milano 1995. 23

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la vita e della fede ("docta caritas"), memoria viva e inquietante della Parola dell'avvento ("docta fides") e incontro fecondo e aperto al futuro dell'uno e dell'altra, profezia teologica, che è pensiero della speranza e nella speranza ("docta spes"). Un ruolo centrale vi giocano le categorie di "esodo" ed "Avvento", evocative rispettivamente della condizione umana di incessante autotrascendenza e del venire del Dio della rivelazione: la stessa teologia come storia può essere in tal senso caratterizzata come pensiero dell'esodo e dell'Avvento e del loro incontrarsi, sempre asimmetrico a favore dell'inesauribile e incatturabile trascendenza di Dio24. Col volume terzo la Simbolica entra nel terreno della memoria fondante della fede: Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia - Saggio di una cristologia come storia (1981; 19947) è un testo che va dritto al cuore del Mistero cristiano, al centro vivo della "parola della fede": «E lui infatti che noi annunciamo» (Col 1,28)! Con un respiro il più possibile ampio e solidale alla condizione umana, le cui domande vengono evocate in stretta continuità con la fondazione del senso della parola teologica nel volume metodologico, il libro entra in dialogo col passato fontale della fede, per individuare come hanno atteso, incontrato e testimoniato Gesù come Signore e Cristo coloro che ci hanno preceduto nel movimento cristiano nella storia, a partire dalla "santa radice", che è l'alleanza con Israele, e dall'esperienza pasquale, da cui nasce propriamente la Chiesa nel tempo. In quanto si sforza di mostrare come il Crocefisso Risorto possa dare senso, speranza e forza agli uomini e alle donne del nostro presente con tutto il peso delle loro contraddizioni irrisolte, il volume testimonia l'esercizio di una memoria non innocua, ma "pericolosa", contagiosa e liberante proprio perché in essa la fede riconosce all'opera l'azione dello Spirito, che attualizza nell'oggi la novità e la sorpresa dell'avvento della Parola e del Silenzio di Dio. Del libro su Cristo il volume quarto della Simbolica, Trinità come storia - Saggio sul Dio cristiano (1985; 19935), è necessario sviluppo25: dall'economia della rivelazione la memoria pen24 Su questa "asimmetria" insiste nella sua originale proposta di teologia fondamentale J. Marti'nez Gordo, Dios, amor asìmétrico. Propuesta de Teologia fundatnental pràtica, Bilbao 1993. 25 Lo ha mostrato con efficacia M. Florio, Da Gesù Cristo alla Trinità. Pluralità dei registri linguistici: dossologia, omologia, mito, narrazione, Pesaro 1994 (exc. diss. Università Gregoriana), 50-100 ("Pensare cristianamente la divinità di Dio: B. Forte").

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sante della fede si spinge verso le profondità dell'immanenza del Mistero, per scandagliare in esse l'origine, il grembo e la patria ultima della vita e del mondo. Il libro «parla della Trinità parlando della storia, e parla della storia parlando della Trinità. La storia che racconta è anzitutto quella dell'evento pasquale della morte e risurrezione di Gesù di Nazaret, che Dio ha risuscitato dai morti e costituito con potenza secondo lo Spirito di santificazione Signore e Cristo (cfr. Rm 1,4): in questa storia si affaccia un'altra storia, quella di Colui che nell'evento di Pasqua si è rivelato come Amore (cfr. lGv 4,8.16), consegnando il Figlio amato alla morte e riconciliando con sé Lui e in Lui il mondo, nella forza dello Spirito di unità e libertà nell'amore. Il racconto dell'evento pasquale si apre così al racconto della Trinità come eterno evento dell'amore, come storia dell'amore eterno. Perciò questo libro parla di Dio raccontando l'amore»26. E, parlando di Dio, il volume parla dell'uomo: «Nella vicenda pasquale, accolta come evento trinitario dell'amore, può essere letto il senso e la speranza della storia. La Trinità, come storia da narrare, non è un astratto teorema celeste: nel suo rivelarsi salvifico essa si presenta come l'origine, il presente e l'avvenire del mondo, il grembo, adorabilmente trascendente, della storia»27. E qui che la riflessione richiede di essere continuata in direzione di un'articolata comprensione teologica dell'esistenza redenta, nella sua costitutiva dimensione comunitaria, oltre che in quella personale. Si entra cosi nella riflessione caratterizzata dal predominio della compagnia, dell'attenzione cioè alla condizione del popolo di Dio, pellegrino fra il "già" della prima venuta del Signore e il "non ancora" della promessa del Suo ritorno: il volume quinto della Simbolica, La Chiesa della Trinità - Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione (1995; 19952), è dedicato appunto all'ecclesiologia, sviluppata in chiave trinitaria. Esso presenta la Chiesa come comunione, che nasce dalla Trinità grazie alle missioni del Figlio e dello Spirito Santo, è strutturata a immagine della comunione trinitaria, e va verso la patria trinitaria attraverso il lungo pellegrinaggio della storia. Mistero sgorgante dall'alto, popolo di Dio, fondato sulla santa radice che è Israele e chiamato ad essere segno fra i popoli, Corpo di 26 27

B. Forte, Trinità come storia, o.c, 7. Ib.

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Cristo e "koinonia" dello Spirito nel tempo e nello spazio, la Chiesa è comunione costitutivamente missionaria, "buona novella" dell'unità fra i singoli e fra i popoli, che i credenti devono continuamente accogliere, sperimentare ed annunciare, lasciandosi riconciliare con Dio e manifestando al mondo l'unità, per la quale Cristo ha pregato e consegnato se stesso. Il volume vorrebbe far conoscere e amare la Chiesa nella sua profondità teologico-trinitaria, muovendosi in questo nella fedeltà alla grande tradizione della fede cattolica, nell'apertura ecumenica, nell'attenzione al dialogo con le religioni e con tutte le genti. Ne risulta un'ecclesiologia nella luce del Concilio Vaticano II e dei suoi sviluppi, nutrita di Sacra Scrittura, di spirito patristico e liturgico, di tensione spirituale e pastorale. Ed è nel quadro della comunione cosi delineata che il volume sesto della Simbolica, L'eternità nel tempo - Saggio di antropologìa ed etica sacramentale (1993), in un'epoca segnata dal tramonto delle visioni totalizzanti dell'uomo e della storia e dal profilarsi di un diffuso cedimento del pensiero e della vita alla vittoria del nulla e del non senso, vorrebbe testimoniare in maniera articolata e critica il valore della concezione dell'uomo, che la tradizione ebraico-cristiana ha offerto ed offre alla storia. Partendo dall'esistere concreto della persona umana nell'economia dell'alleanza col Dio vivente ed in dialogo con l'antropologia filosofica, il volume considera anzitutto il soggetto storico nelle sue strutture costitutive e nei suoi dinamismi di chiusura ed apertura all'Eterno; quindi, in ascolto della rivelazione del Dio trinitario, scruta il mistero della grazia, come storia di Dio nella storia dell'uomo, e l'economia sacramentale, in cui la grazia si media agli uomini; per evocare, infine, il paradosso del tempo accolto nell'eternità e i dinamismi anticipanti della coscienza e della libertà della creatura chiamata, attraverso l'approfondimento dei temi della predestinazione, dell'orientamento e dell'anticipazione, che è la vita eterna già ora pregustata nelle opere e nei giorni dell'esistenza redenta. In tal modo i due volumi di ecclesiologia e di antropologia teologica costituiscono una sorta di riproposizione della buona novella del cristianesimo all'uomo fasciato dal nulla della inquieta stagione post-moderna, ed alla folla delle solitudini, in cui si risolve spesso la convivenza umana nel tempo del nichilismo, seguito al crollo delle ebbrezze alienanti dell'ideologia totalitaria e violenta. 68

Col volume settimo, Teologia della storia - Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento (1991; 19912), la Simbolica entra nello spazio della profezia, di quel pensiero che, coniugando esodo e Avvento, cerca il senso e il valore dell'opera del mondo e del divenire della storia nel mistero della Trinità adorabile di Dio. Il volume comprende anzitutto una teologia della rivelazione, pensata in maniera coerentemente trinitaria che — nel dialogo con la filosofia specialmente moderna e contemporanea — si sforza di approfondire i tre livelli, fra loro inseparabili, del Silenzio, della Parola e dell'Incontro, corrispondenti nelle profondità divine e nella storia della salvezza all'opera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Alla luce di queste riflessioni, vengono proposte una teologia trinitaria della creazione e del creato, che assume il suo pieno valore nel contesto dell'attuale crisi ecologica, ed una teologia trinitaria del compimento e del suo significato per il presente, che acquista rilevanza in rapporto alla crisi del senso, caratteristica dell'attuale tempo postmoderno. Il libro, mentre unisce la riflessione sull'atto trinitario della rivelazione a quelle sulla protologia e l'escatologia in precisa continuità con l'esperienza biblica, che dal Dio salvatore perviene al Dio creatore e signore della storia, viene anche a coniugare il messaggio della fede ecclesiale alla vicenda moderna e ai suoi sviluppi critici, che tanto fortemente caratterizzano l'attuale situazione del cristianesimo, non solo in Occidente. La lontananza di questa proposta da ogni moderna "filosofia della storia" è facilmente riscontrabile, se si tien conto della sua totale radicazione nel tessuto della rivelazione trinitaria. Conferma di tale decisiva diversità è peraltro il volume ottavo della Simbolica, Maria, la donna icona del Mistero - Saggio di mariologia simbo lieo-narrativa (1989; 19892), che, partendo dall'ascolto della testimonianza biblica sulla Madre del Signore e percorrendo la storia della fede intorno a lei, propone una lettura d'insieme della figura di Maria, raccolta intorno ai tre titoli di Vergine, Madre e Sposa, per scrutare in ciascuno di essi la profondità nascosta che vi si lascia cogliere riguardo al mistero della Trinità, della Chiesa, dell'uomo e della femminilità dell'umano. In tal modo l'intera economia della salvezza è colta nel denso compendio della "donna, icona del Mistero", e lo sguardo globale sul divenire del tempo e sul significato e fine della storia appare chiaramente fondato nella rivelazione e perciò aperto all'eccedenza silenziosa e raccolta del Dio tre volte 69

santo, da cui tutto viene, in cui tutto vive, a cui tutto torna nei cammini della libertà e della Grazia. L'articolazione della Simbolica ecclesiale mostra così anche la sua profonda organicità, che non è la forzata compattezza di un sistema ideologico, dove tutto è chiuso nel cerchio della presunzione di esaustività della ragione, ma la connessione dinamica di una "economia" vivente, in cui le parti si tengono insieme per legami vitali, storicamente testimoniati e radicati nel disegno divino della salvezza. Si tratta, cioè, di un itinerario aperto, espressivo della ragione storica del pensiero della fede, che come tale non presume mai di catturare la totalità, ma si riconosce sempre trasceso dalla ulteriorità del Mistero santo. Dal punto di vista contenutistico, l'unità della Simbolica si manifesta nel permanente rapportarsi di tutti i temi e i problemi al Vangelo del Dio amore, a quella rivelazione della Trinità santa, che — pur nella discrezione rispettosa dell'eccedenza del silenzio rispetto a ogni parola — dà ragione di tutto ciò che esiste nella gratuità irradiante del primo, purissimo Amore. Il centro e cuore del cristianesimo è così presente all'esposizione di tutti i suoi molteplici aspetti: la Simbolica è trinitaria in ognuna delle sue parti, e non per una sorta di ritorno sistematico, dedotto speculativamente, ma per esigenza intrinseca dell'obbedienza della fede, che riconosce nel Dio vivo della rivelazione avvenuta in Gesù Cristo il mistero del mondo, al quale tutto rinvia, dal quale tutto proviene, nel quale tutto riceve consistenza, energia e vita. Se la Trinità, nel dinamismo insondabile delle sue relazioni e nell'unità profondissima dell'essenza divina, è il principio unificante di tutti i contenuti della simbolica della fede ecclesiale, la "ragione storica" in quanto "ragione aperta" può considerarsi il principio unificante formale dell'intera esposizione. Si è visto come l'ermeneutica storica corrisponda nella maniera più opportuna al dinamismo delle relazioni del mondo dell'identità con la differenza dell'Altro che viene a noi e degli altri cui siamo solidali nel cammino. Pensare in termini di "storia aperta", fondata sul destinarsi di Dio agli uomini nel dono della creazione ed in quello ancor più mirabile e sorprendente della redenzione, significa rinunciare in partenza ad ogni presunzione di totalità chiusa, ad ogni sistema dell'identità ripetitiva di sé. La coscienza storica, assunta consapevolmente nella teologia cristiana, rende quest'ultima libera dalle seduzioni dei modelli ideo70

logici, facendola anzi vigile e critica nei loro confronti, e apre il pensiero della fede ad esercitarsi nella sua forma propria, analogico-simbolica, in modo da tener insieme esodo e Avvento, umano e divino, senza catturare l'uno nell'altro e rispettando l'asimmetria a favore della permanente ulteriorità e trascendenza di Dio. E cosi che lo stesso principio formale di unità della Simbolica, la ragione teologica intesa come ragione storica e perciò come ragione aperta, ne garantisce il carattere di sintesi non conclusa, permanentemente disposta a essere trascesa, costitutivamente aperta al nuovo che l'approfondimento delle insondabili ricchezze del Mistero, dischiuse nella parola e al tempo stesso custodite nel silenzio della rivelazione, invita sempre di nuovo a scrutare...

2.2. SIMBOLICA E FILOSOFIA

Il problema del rapporto fra la simbolica della fede e la filosofia è anzitutto quello di riconoscere la domanda, da cui entrambe nascono, non solo al livello dell'esperienza individuale della finitudine e della morte, che ogni essere umano continuamente conosce, ma anche e specialmente al livello dell'esperienza solidale dell'essere e del volersi umani nella complessità della storia, in cui siamo posti. Al di là delle interpretazioni possibili della crisi delle ideologie, della fine della modernità e del profilarsi del tempo post-moderno, ciò che oggi accomuna tutti è l'interrogativo che sorge dal dolore dell'abbandono, da quell'assenza di patria (la Heimatslosigkeit heideggeriana), che è mancanza di un orizzonte rispetto a cui porre 1'"ethos", non soltanto come prassi e costume, ma anche come radicamento e dimora, ultimo fondamento del vivere, dell'agire e del morire umani. È qui che si apre un nuovo spazio di possibilità per il dialogo fra filosofia e teologia, al di là dalla caduta del senso provocata dalla crisi dei mondi ideologici della modernità: in quanto teoria critica della storia reale, la filosofia può tradursi in un puro commento dell'ora presente, e quindi risolversi in giustificazione ideologica dell'adesso, se non si lascia provocare dall'alterità irriducibile, dalla novità imprendibile della differenza, non risolvibile in identità. Non può bastare al filosofo l'esercizio responsabile della memoria, né quello critico della cosciente compagnia del pre71

sente: egli non può sottrarsi all'interrogativo sull'inizio e sulla fine, che nasce dal più profondo del dolore presente. Le interruzioni e le cadute, le riprese e i nuovi inizi pongono la domanda inevitabile intorno a un possibile senso di tutto questo, stimolando la ricerca di una sorta di "filo rosso" che unifichi la frammentarietà delle opere e dei giorni degli uomini e renda in qualche modo accettabile la fatica di vivere. Il senso di fragilità e debolezza, connesso all'esperienza del cadere e del permanere nella caduta, propria del tempo postmoderno, è allora il luogo in cui filosofi e teologi non possono più confrontarsi o combattersi muovendo da certezze scontate. L'insopportabile peso del dolore dell'abbandono può essere evaso o nascosto: si può tentare di fuggire la profondità del pensiero, di essere negligenti di fronte alla condizione del naufragio. Ma nel momento in cui si pensa con responsabilità e coscienza della sfida, la lama del dolore del tempo, cui ci è dato di appartenere, non può non interrogare tutti con pari forza e radicalità, filosofi e teologi. In queste condizioni, si presenta più che giustificata la doppia domanda: «Può essere la filosofia fedele a se stessa, rinunciando a "comprendere" il teo-logico? E può la teologia non esigere di ritrovare nella ricerca filosofica testimonianza o promessa della stessa Rivelazione?» 28 . La risposta va cercata nei luoghi dell'incontro (la questione dell'Altro), del confronto {ilpensiero "di" Dio) e della differenza, che unisce filosofia e teologia nella storia dell'Occidente e nel nostro presente {la sfida della Croce).

a) La questione dell'Altro Teologia e filosofia più povere, meno ideologiche, sono proprio per questo più aperte alla ricerca, accomunate nell'attesa o nel bisogno dell'Altro: se il moderno è il tempo delle avventure del soggetto e del dominio dell'identità, la categoria che 28 M. Cacciari, Filosofia e teologia, in La filosofia, diretta da P. Rossi, voi. II, Torino 1995, 365. Cfr. l'intero, densissimo saggio: 365-421. Cfr. pure tra l'altro: Teologia e filosofia. Alla ricerca di un nuovo rapporto, a cura di S. Muratore, Roma 1990; Dio e la filosofia, a cura di D. Goldoni, Milano 1991; 7/ Cristo. Nuovo criterio in filosofia e teologia, a cura di A. Ascione e P. Giustiniani, Napoli 1995; // Cristo dei filosofi, Roma 1995. Cfr. inoltre J. Greisch, La philosophie de la religion devant le fait chrétien, in lntroduction à l'étude de la théologìe, o.c, I, Paris 1991, 243-514.

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più provoca il pensiero del tempo post-moderno sembra sia quella dell'alterità29. Non si tratta di pensare semplicemente un "essere altrimenti", come ha fatto riguardo a Dio come Ente supremo Ponto-teo-logia. Si tratta — molto più radicalmente e problematicamente — di pensare 1'"altrimenti che essere" o l'"al di là dell'essenza", che non si lascia ridurre al chiuso mondo degli enti disponibili o conosciuti. Si tratta di infrangere la totalità, in cui è stata pensata la metafisica dai Greci fino ai moderni, per riscoprire l'alterità irriducibile al semplice esserci dell'ente e quindi sovversiva rispetto alla violenza esercitata dal totalitarismo proprio dei sistemi prodotti dal "logos" occidentale. E soprattutto in tre forme che questa sfida dell'alterità sembra offrirsi come il luogo, in cui filosofi e teologi possono oggi in modo nuovo ritrovarsi: la meravìglia, Vagonia e l'etica. Nella meravìglia l'alterità si presenta in maniera pura e forte, con la sua indeducibile e improgrammabile presenza, con la sua assenza inquietante. E dall'impatto con l'Altro, che nasce quello stupore e timore del meravigliarsi (xò Gaujjiàìjeiv), in cui consiste la passione del filosofo (xò rcàOoi; xoù cpiXoaócpou): «E una sentenza nota di Platone: la passione del filosofo è la meraviglia. Se questa sentenza è vera e profonda, allora la filosofia, invece di essere limitata a ciò che deve essere compreso come necessario, sentirà piuttosto la tendenza a trapassare da ciò che essa deve riguardare come necessario, che pertanto non provoca nessuna meraviglia, a ciò che sta fuori e al di sopra di ogni esame e conoscenza necessari; essa non troverà nessuna pace, prima di essere arrivata a qualcosa che sia degno di una assoluta meraviglia»30. Lo stupore è però anche condizione propria del teologo: «L'assenza di stupore guasterebbe sin nelle radici anche l'impresa del miglior teologo, mentre persino un cattivo teologo non sarebbe del tutto perduto per il proprio servizio e il proprio compito, se fosse ancora capace di stupirsi, se lo stupore, come un guerriero armato, potesse avventarsi ancora su di lui»31. La meraviglia è sapere di non possedere l'Altro, ma di essere raggiunti e provocati dalla sua inafferrabile alterità. Chi pensa con radicalità assoluta, spingendosi fino alla so29 Ho cercato di mostrarlo nel volume In ascotto dell'Altro. Filosofia e rivelazione, Brescia 1995. 30 F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Bologna 1972, II, 121. La citazione di Platone è dal Teeteto, 155 D. 31 Cfr. K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, Milano 1990, 110.

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glia dello stesso pensiero, sa di avere a che fare con il "novum", l'ignoto, con la pura e forte alterità dell'Altro. Questo Altro il teologo lo esperisce non soltanto mediante la via dell'ascolto intellettuale, ma anche nella forma, densissima e provocatoria, che è la preghiera, esperienza "mistica", perché data dall'alto, dell'Altro. Tuttavia, anche il filosofo non può non esperire l'alterità dell'Altro, in quel forte, tremendo stupore del suo interrogarsi sull'abisso dell'ultimo rispetto a tutto ciò che è penultimo. Il pensiero abissale dell'inizio è in tal senso una possibile disciplina dell'intelligenza filosofica per arrivare sulla soglia, dove timore e tremore stanno davanti all'indifferenza dell'Altro, dove si esperisce perciò la meraviglia coscientizzata del pensare 32 . Agonia è l'altro volto dell'esperienza dell'alterità: se l'Altro è altro, il rapporto all'Altro è àywv, lotta. Agonia è sperimentare fino in fondo l'alterità, teoreticamente ed esistenzialmente: è vivere in sé la frontiera. È questa la ragione speculativa più profonda della compresenza della fede e della non credenza in ciascuno di noi, perché tutti, nel momento in cui siamo non negligenti nel pensare e pensiamo fino in fondo l'alterità dell'Altro, tentando di aprirci alle sue sorprese e al suo avvento, viviamo la lotta, l'inquietudine di questa inafferrabile alterità. Non si dà solo un esistere davanti all'Altro, che viene a noi e ci turba, sia esso inteso come in-differenza dell'Inizio o come il Deus adveniens, ma anche un esistere con l'Altro nella lotta, vivendo il pensiero come fatica, passione, agonia. Teologia è portare al pensiero le agonie dell'avvento del Dio, che chiama inesorabilmente al cambiamento del cuore e della vita, mentre filosofia è pensare le agonie dello stesso pensiero, consapevole della propria ignoranza. In questo momento agonico, abissale, filosofi e teologi trovano ancora una volta un luogo di incontro nella comune ricchezza e povertà: «La comunità di una "dotta ignoranza" va stringendosi tra loro, come lo spazio più proprio del loro intendersi e confliggere» 33 . È, infine, la responsabilità verso la prassi l'ulteriore ambito in cui si aitacela la sfida dell'alterità: l'etica non è solo esistere 32 Cfr. in tal senso M. Cacciari, Dell'Inizio, Milano 1990, su cui B. Forte, Nostalgia di unità? L'In-differenza dell'Inizio, in Id., Sui sentieri dell'Uno, Milano 1992, 274-283. 33 M. Cacciari, Filosofia e teologia, o.c., 414. Su questi temi cfr. B. Forte, Confesso theologi. Ai filosofi, Napoli 1995.

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davanti all'Altro e con l'Altro, ma anche esistere per gli altri e con loro. «L'etica è il campo che disegna il paradosso di un Infinito in rapporto col finito senza smentirsi in questo rapporto»34: l'etica è l'esplosione dell'unità originaria ed assoluta dell'io, l'apertura all'ai di là del soggetto, il luogo della testimonianza — e non della tematizzazione — dell'Infinito a partire dalla responsabilità per gli altri di chi sopporta tutto, si fa carico di tutto, soffre per tutti ed è responsabile di ognuno. Anche qui filosofi e teologi sono accomunati dall'urgenza dell'appello: gli altri non possono essere misurati come produzione del nostro pensiero, ma sono condizione del nostro operare, limite o sfida della nostra libertà e delle nostre scelte, esigitività radicale, fondamento dell'esistere eticamente responsabile35. Ancor più radicalmente essi sono l'altro della caritas evangelica, del comandamento "simile" al primo, partecipativo e realizzativo di esso, che è il comandamento dell'amore. L'alterità sfida così filosofi e teologi a superare la falsa separatezza di teoretica ed etica: la dimensione morale investe la teoresi filosofica e teologica in maniera forte, come domanda di esistere e di pensare l'esistere non solo in sé, ma per gli altri. Su questi fronti siamo oggi tutti più poveri: è questo il frutto dell'orfananza dall'ideologia? è questa la nuova primavera, che il ritorno alle fonti, e dunque alla narratività biblica, che non imprigiona l'Altro, ma lo fa sperimentare nella sua apertura, ha donato alla teologia cristiana? Le analisi storiche si sforzeranno di comprenderlo. Intanto, ciò che sta e resta è la condizione di smarrimento, di debolezza, di naufragio, che può essere accolta come sfida a fuggire, a cadere e, dunque, a non pensare, o può esser vissuta come provocazione a un pensiero non negligente, che abbia il coraggio di lasciarsi interrogare dall'Altro nella meraviglia e nello stupore inquieto, facendosi carico del dramma dell'agonia e della responsabilità verso gli altri nel primato dell'amore. 34

E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Milano 1983, 186. È precisamente l'altro invocato da E. Lévinas come crisi della metafisica a favore di un suo superamento nell'etica: «Si può risalire a partire dall'esperienza della totalità ad una situazione nella quale la totalità si spezza, mentre questa situazione condiziona la totalità stessa. Questa situazione è lo sfolgorio della esteriorità o della trascendenza sul volto d'altri. Il concetto di questa trascendenza rigorosamente sviluppato si esprime con il termine di infinito»: Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano 1980, 23. 35

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b) Il pensiero "dì" Dio Se l'alterità è la sfida che accomuna il pensiero del filosofo e quello del teologo, il tema centrale, che a questa sfida corrisponde nella forma più radicale e che da sempre ha impegnato la ricerca speculativamente più alta, teologica e filosofica, è la questione di Dio, la cogìtatìo DePé. Si può affermare che nel rapporto fra filosofia e teologia il vero problema consista nel comprendere che tipo di genitivo sia questo "di Dio", perché la risposta a prima vista evidente — che per la filosofia il genitivo sia oggettivo, per la teologia soggettivo — è soltanto apparentemente corretta. Non è plausibile di fatto la semplicistica equiparazione per la quale la filosofia sarebbe un "disputare de Deo", destinato a cadere sotto gli strali di chi ritiene "magnum peccatum" una simile disputa (Lutero), e la teologia un puro "auditus fidei", un'"obbedienza della fede" in cui si consumerebbe l'ascolto adeguato di ciò che è dietro, nascosto, ultimo e più profondo al di là del Verbo. Che la distinzione per la quale la filosofia parla di Dio, mentre la teologia ascolta la parola di Lui, sia solo apparentemente corretta, lo dimostra l'esistenza nella storia del pensiero occidentale di figure della teologia e della filosofia che manifestamente la smentiscono. C'è una teologia che interpreta il genitivo della "cogitatio D e i " in senso meramente oggettivo: è quella che Lutero chiama la "theologia gloriae", una teologia cioè che parla di Dio come del suo oggetto, di cui disporre e decidere, e rispetto al quale argomentare; è quanto Heidegger definisce "onto-teologia", pensiero che riduce Dio ad ente, e che è possibile incontrare in quella Scolastica che, abbandonando in realtà Tommaso, ha trasformato l ' " e n s " da "actus essendi" in " r e s " , interpretando Dio stesso come la suprema fra le "cose", l'"ente supremo". Scrive Lutero nelle tesi della disputa di Heidelberg: «Non è degno di essere chiamato teologo colui che considera la natura invisibile di Dio comprensibile per mezzo delle sue opere, ma colui che comprende la natura di Dio, visibile e volta verso il mondo, per mezzo della passione e della croce. Il teologo della gloria chiama bene il male e male il bene, il teologo della croce chiama le cose con il loro vero nome. Quella sapien36 Testimoniano di questa centralità ad esempio anche le rivisitazioni raccolte nel mio volume Sui sentieri dell'Uno. Saggi di storia della teologia, Milano 1992.

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za che riconosce e contempla la natura invisibile di Dio nelle sue opere, gonfia, acceca e indurisce totalmente. E la legge suscita l'ira di Dio, uccide, maledice, rende peccatore, giudica, condanna tutto ciò che non è in Cristo. Tuttavia questa sapienza non è in sé cattiva, né la legge dev'essere evitata; ma l'uomo senza la teologia della croce fa pessimo uso delle cose migliori»37. Queste tesi riassumono la contrapposizione che Lutero fa fra i due opposti modelli di teologia: mentre per gli Scolastici oggetto della conoscenza teologica sono gli «invisibilia Dei», il luogo di essa è il creato («per ea, quae facta sunt»), e lo strumento conoscitivo è la contemplazione di quanto l'intelletto ha raggiunto («intellecta conspicit»), per il teologo della Croce contenuto della teologia è quanto Dio stesso ha reso visibile e accessibile di sé nella rivelazione (i «visibilia et posteriora Dei», non il «facie ad faciem», il Dio di spalle, non il Dio contemplato in volto della visione beatifica), il "locus theologicus" è la passione e la croce del Signore, e la via conoscitiva è l'intelligenza delle cose contemplate («conspecta intelligit »). Mentre dunque per lo Scolastico la ragione umana scruta il mistero di Dio con i propri strumenti e a partire dagli oggetti creati, facendone un oggetto di cui disporre, per il teologo della croce la "ratio theologica" vive nel regime esclusivo della fede, non obbedisce che alla Parola rivelata, non si appaga di quanto ha raggiunto, ma cerca di intendere quanto ha contemplato. Esiste dunque una teologia che concepisce in senso oggettivo il genitivo della "cogitatio Dei". Non di meno, esiste una filosofia che lo interpreta in senso puramente soggettivo: è la filosofia intesa come "ragione di Dio", nella quale sarebbe Dio stesso ad autoconoscersi e rivelarsi. La critica di Karl Barth riconosce l'espressione compiuta di questa filosofia nel pensiero di Hegel, che avrebbe fatto della ragione umana la "ragione di Dio" nel forte senso soggettivo di questa espressione, ragione di un Dio che diventa manifesto a se stesso nell'intelligenza del 37 Weimarer Ausgabe 1, 354, 17-28: «19. Non ille digne Theologus dicitur, qui invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspicit. 20. Sed qui visibilia et posteriora Dei per passiones et crucem conspecta intelligit. 21. Theologus gloriae dicit malum bonum et bonum malum, Theologus crucis dicit id quod res est. 22. Sapientia illa, quae invisibilia Dei ex operibus intellecta conspicit, omnino inflat, excaecat et indurat. 23. Et lex iram Dei operatur, occidit, maledicit, reum facit, iudicat, damnat, quicquid non est in Christo. 24. Non tamen sapientia illa mala nec lex fugienda, sed homo sine Theologia crucis optimis pessime abutitur».

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sistema: è il Dio della parodia di Nietzsche, «divenuto finalmente comprensibile a se stesso nel cervello hegeliano ». E il Dio che conosce se stesso e non può che autoconoscersi nel processo della sua manifestazione ("Offenbarung"), che è in realtà il sapere: la fatica del concetto giunge così al trionfo ebbro della ragione. «Dio è dunque qui rivelato com'egli è; egli è là così come è in sé; è là come spirito. Dio è raggiungibile soltanto nel puro sapere speculativo, ed è soltanto in quel sapere, ed è soltanto quel sapere stesso, perché egli è lo spirito; e questo sapere speculativo è il sapere della religione rivelata» 38 . «Dio si rivela. Rivelarsi vuol dire... questa conversione della soggettività infinita, questo giudizio della forma infinita, il determinarsi per sé, essere per un altro; questo manifestarsi appartiene all'essenza dello spirito stesso. Lo spirito che non si manifesta non è spirito... Dio come spirito è essenzialmente questo: essere per un altro, manifestarsi... Dunque questa religione si manifesta: poiché essa è lo spirito per lo spirito, è la religione dello spirito e non del mistero, non del chiuso, ma del manifesto, determinato, dell'essere per un altro che solo momentaneamente è un altro. Dio pone l'altro e lo toglie, nel suo eterno movimento. Lo spirito è apparire a se stesso» 39 . Queste figure della teologia e della filosofia smentiscono dunque con evidenza la banale riduzione del rapporto fra pensiero filosofico e pensiero teologico alla diversa interpretazione del genitivo della "cogitatio Dei", soggettivo per il teologo ed oggettivo per il filosofo. Davanti alla problematicità dei modelli indicati, la cui compiuta descrizione significherebbe riscrivere e ripensare l'intera storia del pensiero occidentale, occorre concepire una sorta di incontro, che sia ben più radicale e paradossale della loro semplice giustapposizione. Occorre impostare un'apologia dell'altro in ciascuno dei due modelli: questo significa per la teologia riscoprire la necessità del fatto che in essa venga mantenuto il forte senso soggettivo del genitivo "di Dio", e per la filosofia disporsi all'ascolto dell'Altro, che viene come il Vivente e si offre come l'assolutamente ultimo. La teologia ha e deve avere a che fare con il "Deus adveniens", con il Dio vivo: il suo oggetto, prima di essere qualcosa, deve essere rico38

Fenomenologia dello spìrito, tr. di E. De Negri, Firenze 1979, II, 263. Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, 2 voli., Bologna 1974, Parte Terza: II, 250. 39

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nosciuto come Qualcuno. Occorre affermare anche in teologia il primato di Dio come il Dio vivente, e celebrare anche in essa il "soli Deo gloria": il "Deus dixit" è il riferimento assoluto, sotto cui sta e deve restare il pensiero teologico, come appeso alla parola e al silenzio della Croce. Non di meno, però, per la filosofia è importante mantenere aperta la questione hegeliana del Dio vivo: anche per essa la verità non va pensata soltanto come qualcosa, come oggetto, ma pure come soggetto. Questo significa che il pensiero deve aprirsi ad accogliere e tollerare in se stesso la potente tensione della vita, rinunciando a disporre dell'oggetto, specialmente del suo oggetto supremo, come cosa, per avere a che fare con esso come con la dialettica del vivente. Spingendo fino in fondo questa esigenza, l'impianto hegeliano è costretto a superare se stesso: Dio è il Dio vivo se è l'Altro irriducibile al medesimo; il vero come soggetto, e non solo come oggetto, esige che la ragione si misuri con la sua indeducibile consistenza ed alterità. E così, dunque, che per entrambe, filosofia e teologia, la forza dell'interpretazione soggettiva del genitivo della "cogitatio D e i " resta provocatoria. Analogamente al passo compiuto a favore della soggettività, che abita come forza latente, ma sempre operante nel genitivo "di Dio", va ora tentata un'apologia dell'oggettività di esso, del fatto cioè che Dio è e resta in qualche misura un "oggett o " del sapere. Per la teologia questo vuol dire che essa è chiamata a non ignorare l'esercizio critico dell'intelligenza, il protagonismo dell'esodo umano nel pensiero: una teologia che presumesse di essere "verbum creatura Verbi", parola creata dall'evento della Parola increata, senza alcuna mediazione dell'attività critica della ragione, sarebbe manifestamente falsa. Un esempio eloquente della necessità di superare ogni ' 'positivismo della rivelazione" può essere rappresentato dal passaggio di Karl Barth dalla dura polemica degli inizi contro l'uso di qualsivoglia filosofia in teologia, al finale riconoscimento dell'ineliminabile apporto della mediazione del pensiero umano ad ogni itinerario teologico 40 . L'umanità di Dio consiste anche in questo, che il Suo Verbo si presti ad essere detto e pensato dalla ragione umana, e perciò accetti di essere mediato dai diversi possibili modelli filosofici che l'intelligenza può elaborare, fermo re/, ° E in generale di tutto ciò che è umano, come sottolinea la conferenza del 1956 Die Menschlichkeit Gottes: K. Barth, L'umanità dì Dio, Torino 1975.

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stando il nocciolo irriducibile di resistenza che il pensiero di Dio come Dio vivente oppone ad ogni identificazione dell'Assoluto con la fragilità del soggetto storico. C'è insomma un debito che resta sempre da parte del teologo alla filosofia come esercizio critico e radicale questionamento. D'altra parte, però, anche per la filosofia è importante che venga mantenuto il processo di oggettivazione, che cioè la verità non venga pensata soltanto nella forma del soggetto, altro e irriducibile al medesimo, ma che si dia anche una sua dimensione di obiettivazione. E questo anzitutto in senso fenomenologico: l'esperienza dell'Assoluto, la ricerca e l'incontro con Dio, la stessa "cogitatio D e i " , si offrono nella storia come "fenomeno" religioso storicamente rilevabile, come tradizione fondata su eventi, riconosciuti rivelativi dalla fede. Non si vede perché la filosofia non dovrebbe lasciarsi interpellare dal "revelatum", inteso non nel senso di una totale apertura ("Offenbarung") del nascosto, ma di un dirsi tacendo, di un tacere dicendosi di Dio ("re-velatio"), non perché insomma l'ultimo venga catturato nelle maglie del penultimo, ma perché la ragione si lascia provocare al proprio trascendimento e all'essere visitata dall'Altro. Se certamente non si può dire che non ci sia filosofia senza cristianesimo, parimenti non si può negare che nel contesto storico dell'Occidente, il cui ethos è cosi fortemente marcato dal fatto cristiano, ogni discorso filosofico si misura con il dato della "re-velatio" cristiana, vitalmente trasmessa dalla comunità ecclesiale...

e) La sfida della Croce È in questo senso che si può affermare che la Croce di Cristo è problema anche per il filosofo: non è difficile constatare come il pensiero filosofico dell'Occidente, anche nelle più alte delle sue espressioni nel tempo della modernità, si sia lasciato provocare dallo scandalo che è l'incarnazione di Dio, incontro paradossale nell'abissale differenza fra la terra e il cielo, testimoniato dal testo che più di ogni altro ha dato a pensare nella vicenda del cristianesimo e dell'intero ethos occidentale: «E il Verbo è divenuto carne» (Gv 1,14: ó Xó-fo? aàp? èyéveTo). È qui tutto il problema del cristianesimo, ma anche la questione radicale che il cristianesimo pone al mondo greco, al rapporto del80

l'Uno e dei molti, avanzando la convinzione inquietante che il molteplice dimori nel seno stesso dell'Uno, Trinità divina. Per la fede cristiana il silenzio del Venerdì Santo è il luogo in cui l'Avvento, in tutta l'indeducibile novità che lo caratterizza, ha incontrato l'esodo della condizione umana, in tutta la profondità e il peso delle sue contraddizioni e delle sue incompiutezze, riassunte nel "verbum abbreviatum" della finitudine umana: la morte. La stessa domanda della "croce della storia" ha motivato nel profondo le moderne "filosofie della storia", la cui parabola di trionfo e di decadenza ripropone con nuova attualità lo scandalo della Croce del Figlio di Dio come possibile senso alla "croce del tempo", e perciò come fondamento e contenuto di una visione del mondo e della vita che possa dare significato e speranza alla storia. Quando la violenza esercitata sul reale dall'ideologia si è scontrata con la dura resistenza del reale stesso, è risultato evidente che non basta cambiare il mondo e la vita nel pensiero per poi cambiarli effettivamente nella concreta complessità che li caratterizza. La crisi delle ideologie del progresso storico è crisi di una totalità chiusa, è rottura di un orizzonte che ha voluto imporsi come ultimo, e che — proprio nella fragilità e nelle incompiutezze di ciò che ha saputo contenere e produrre — si è manifestato palesemente "penultimo". Al di là del tutto che la filosofia della storia ha voluto abbracciare e comprendere, si affaccia un paese sconosciuto e straniero, una regione altra, un essere non deducibile, una Patria, intravista, ma non posseduta. «Il cristianesimo, oggi, non è cosa davanti a cui si possa restare indifferenti. Bisogna scegliere o per o contro. Non c'è via di mezzo: ogni posizione intermedia è stata spazzata via dalla crisi della cultura moderna. Nella sua caduta, la cultura moderna si è scissa nei suoi due aspetti, e la filosofia, come sua coscienza critica, ha configurato questi due aspetti come termini d'un'alternativa. La questione è dunque filosofica, nel senso più intenso della parola: ecco perché essa è ineludibile, e il dilemma che ne risulta è perentorio. Inutile obiettare che si tratta invece d'una questione extrafilosofica, esclusivamente religiosa, e quindi intima e privata, che interessa soltanto un determinato genere di persone. Come questione filosofica, che emerge dalla coscienza critica d'una concreta situazione storica, essa interessa tutti: di fronte alle rovine della cultura moderna, nasce il problema d'una nuova cultura, di un nuovo mondo da edifi81

care, nel quale tutti abbiamo da vivere {de re nostra agitur), ed è qui che la scelta per e contro il cristianesimo diventa decisiva. Non meno che la questione, è filosofica anche la decisione: è la filosofia che configura il dilemma, che pone Vaut aut, che esige la scelta. Non ci si può sottrarre: il faut choisir»41. E possibile così pervenire ad una conclusione, che è al tempo stesso un inizio e una domanda: davanti alla questione di Dio filosofia e teologia si ritrovano in qualche modo entrambe spiazzate, precisamente a causa del gioco complesso di significati del genitivo "di Dio", che è irriducibile ad ogni interpretazione univoca. Pensiero critico e simbolica della fede, allora, saranno vivi precisamente nella misura in cui non si lasceranno definire o fermare in una contrapposizione, ma resteranno aperti l'uno all'altra, nel comune ascolto della suprema interruzione della Croce del Figlio: è questo "déplacement" che rende filosofia e teologia più libere, più disposte ad incontrarsi per vivere l'agone più bello, la lotta dove vince chi perde, chi si lascia raggiungere e sovvertire dall'Altro. Lottare con Dio è al tempo stesso la debolezza e la forza del teologo, ma è anche la forza e la debolezza del filosofo, che non sia negligente: sta qui la dignità del pensiero, la sua vocazione e il suo compito. Questa lotta suprema, in cui il protagonismo del Dio vivente si congiunge a quello dell'uomo vivente, a prezzo di una morte, che è vita, è rivelata nel Crocefisso: nel silenzio della Croce, Dio parla; in quella morte, la vita vince. La Croce è la suprema teologia: ma non di meno essa è per il filosofo della tradizione occidentale il luogo della provocazione più alta, con cui non può non confrontarsi, non per una sorta di pretesa d'assolutezza del cristianesimo, ma per la storia degli effetti della rivelazione cristiana sull'ethos, di cui tutti siamo figli in Occidente. Solo in quell'evento si proclama la morte della morte: e, in un mondo che resta bisognoso di salvezza, nonostante tutto e al di là di ogni naufragio, una simile sfida è troppo alta per essere messa da parte e non venire accolta da tutti, credenti e non credenti. Qui filosofia e teologia vivono il rischio più grande: qui si incontrano nella loro nuova povertà; qui si aprono alla novità possibile dell'avvento dell'Altro nel pensiero e nella vita. Qui non possono fuggire o fuggirsi, ma devono insieme lasciarsi sfidare dall'alterità inde41

L. Pareyson, Esistenza e persona, Genova 19854, lls.

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ducibile e sorprendente. Qui la filosofia riconosce di aver bisogno di ciò che la simbolica della fede le può dare a pensare. Qui la teologia testimonia il suo debito al pensiero indagante, che non si ferma a possessi tranquilli, prigionieri del mondo dell'identità, ma si spinge con radicalità assoluta verso l'ultimo e il nuovo...

2.3. SIMBOLICA ED ETICA

L'autonomia ed insieme l'interdipendenza delle varie discipline teologiche, fra le quali si collocano, con statuti propri ed originali, la teologia dogmatica o sistematica e la teologia pastorale o pratica, possono esser date per acquisite dalla coscienza critica della fede nel tempo della specializzazione dei saperi, che è la modernità. La domanda che qui ci si pone, pertanto, non riguarda né una loro ipotetica identificazione, né una loro presunta separazione o addirittura contrapposizione, ma tocca la qualità pastorale, al tempo stesso etica e pratica, della simbolica della fede, il suo rapporto originario con la prassi e la sua intrinseca destinazione ad essa nella comunione del popolo di Dio. Ci si pone cioè l'interrogativo sul perché e sul come il carattere dottrinale della simbolica teologica vada coniugato con la sua specifica dimensione pastorale. Non si tratta di ipotizzare "applicazioni" pratiche della verità dommatica, ma di chiedersi se e in che forma l'intera riflessione critico-simbolica sulla parola della fede abbia a che fare con la prassi cristiana, con i suoi agenti e i suoi dinamismi, con le sue forme strutturali e le sue modalità operative, con le sue domande e i suoi apporti. La rivisitazione storico-sistematica della questione consente di individuare tre tappe, che corrispondono al tempo stesso a tre modelli: il passaggio dall'unità alla separazione fra dogmatica ed etica, peculiare dell'epoca del trionfo della razionalità, è superato dai modelli costruiti sulla reciproca tensione, per pervenire ad una nuova forma di unità, percepita in chiave propriamente simbolica0,2. 42 Cfr. per quanto segue B. Forte, Qualità pastorale dell'insegnamento della teologia sistematica, in Qualità pastorale delle discipline teologiche e del loro insegnamento, a cura di M. Midali e R. Tonelli, Roma 1993, 61-74.

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a) Dall'unità alla separazione Il rapporto con la prassi caratterizza la fede ebraico-cristiana in ogni sua espressione, e dunque anche in quella dell'intelligenza credente, in maniera costitutiva e fontale. La stessa rivelazione divina si compie in una storia di salvezza, intessuta di eventi e parole intimamente connessi, in cui la verità che salva non è mai separata dall'esperienza che se ne fa, e l'unità fra alleanza e legge dell'alleanza, fra messaggio e vita in cui realizzarlo, è colta come un dato originario proprio a partire dalla concretezza coinvolgente e trasformante dell'incontro col Dio salvatore (si pensi all'unità delle due sezioni del Decalogo in Dt 5,6-21 ed Es 20,1-21, e all'inseparabilità dei due aspetti del comandamento nuovo in Gv 13,34 e Mt 22,34-40). La corrispondenza fra verità dell'Avvento ed etica dell'esodo raggiunge il suo vertice nella stessa persona del Verbo incarnato, in quanto il Signore Gesù è in unità inscindibile la verità che salva, la vita e la via per andare al Padre (cfr. Gv 14,6). La Chiesa nascente, a sua volta, mostra di aver fatto propria la convinzione che è l'incontro salvifico col Dio dell'alleanza a fondare il nuovo agire del cristiano: il comandamento appella contemporaneamente alla fede nella rivelazione del Dio vivo e all'amore al prossimo che ne consegue. «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato» ( l G v 3,23s). Secondo la testimonianza biblica, dunque, la verità dell'amore salvifico di Dio motiva l'esigenza dell'amore operoso verso il prossimo: l'indicativo teologico fonda l'imperativo pratico; il dogma si esprime nell'etica. L'incontro col Dio vivente si offre come la radice e la sorgente del nuovo agire dei redenti: la verità che salva è "dimora" (f)9o" Silenzio Pastorale 1, 83-97 Pasqua 2, 84 61 131 3, 118 135 180-187 279 292 296s 315 4, 41 139s 5, 64 86 7, 317s — e creazione 7, 226-232 — ed escatologia 7, 304-309 — e storia 7, 18s 317-327 — eterna 7, 355s Patripassianesimo 4, 63 Patristica 2, 173 4, 80s 6, 130s Peccato 1, 196-198 3, 229 5, 360-363 — Remissione del peccato 1, 139s; / Penitenza Peccato originale 1, 196 4, 165 6, 88-105 7, 221-223 276s 8, 131-133 Pelagianesimo 6, 150s 181 8, 131 Penitenza 1, 180-185 6, 231-235; >" Peccato Perdono 6, 214s Pericoresi 2, 54 4, 80s 86 125 143s 5,3136 265 284 287 293 6,261 Perseveranza 6, 306s Persona 3, 175-179 182 188 4, 70 73 77 79 8183 86 141 151-155 176 6, 68-81 7, 257-261 Personalismo 6, 75-81 Platonismo 6, 83 Pneumatologia 4, 131 195s Pneumatomachi 4, 122 140 Poesia 2, 22 Politica 4, 181-183 5, 349s

Popolo 8, 93s 96s — di Dio 5, 79-105 — eletto 6, 275-279 Post-modernità 2, 22 7, 289-295 Potenza obbedienziale 6, 120-122 Povertà 3, 236-239 6, 256s Prassi 1, 83 93-97 3, 49-51 — ecclesiale 3, 52s 15ls 225-227 256-259 283-285 Predestinazione 6, 275-294 Preesistenza del Figlio 4, 105-113 Preghiera 1, 160-164 2, 203-205 3, 183 306s 4, 56 191s 6, 265-272 7, 333 Premio 6, 165 Presbiterato 1, 187 5, 289-291 6, 239 Presenza reale 6, 228 Primato 5, 133s 250 255-263 — ed episcopato 5, 264-269 — ed eucaristia 5, 269-276 Processioni trinitarie 4, 72s 107 121 125 7, 156 Profetismo 3, 75 77 Profezia 2, 88 135s 182-199 Progresso 6, 314s 7 200-204 206s Protestantesimo 6, 95; ? Riforma Protologia 7, 197-285 Provvidenza 2, 118 6, 283 7, 271-274 Purgatorio 1, 146 7, 332s Racconti delle apparizioni 2, 82 3, 96-102s 4, 29s 7 130-134 317s Racconti del sepolcro vuoto 3, 102s Racconto 2, 187s 4, 86-88 94-96 102-105 114-116 170 188 Ragione — moderna 2, 16 20 116 6, 12s 7, 289-293 — storica 1, 70s 2, 187s 3, 58s — teologica 2, 48 61 126 185-189 3, 46s Razionalismo 2,16 18 116 7, 289-293 Receptio 5, 180s Redenzione 3, 276s 292 8, 129-134 — e sacramenti 6, 197-202 — e peccato originale 6, 88-94 Regno di Dio 3, 198 5, 91 116-119 140 143 353s

245

Relazione 3, 177 4, 144 153-155 Religione/i 1, 15-18 148s Religiosi 5, 305-307 358-360 Resurrezione dei morti 1, 140-143 7, 316 319s 350s Resurrezione di Cristo 1, 126-130 3, 88-103 4, 27 32-35 7, 317-320 Riconciliazione /" Penitenza Riforma 2, 114s 8, 134-138 — della Chiesa 5, 361-363 — e giustificazione 6, 160-177 — e predestinazione 6, 284-292 Rivelazione 1, 26-28 2, 48 56 59 83s 166s 183 3, 37s4, 18 5, 110 6, 30-32 7, 39-61 121-141 8, 84s 94s 172-177 200-205 — economia della rivelazione 6, 200s 7, 121-134 — ed ethos 6, 245-248 — e linguaggio 6, 48s 7, 116-118 — e creazione 7, 214s — e storia 7, 15-19 — teologia della rivelazione 7,39-193 Sacerdozio — comune dei fedeli 5, 65 299-301 — comune e sacerdozio ministeriale 5, 302s; /* Ordine sacro Sacramentalità 5, 166-168 6, 186-196 7, 190-192 Sacramentaria 4, 129 6, 186-196 Sacramenti 1, 150-191 225s 3, 329 6, 197-244 7, 192 — celebrare i sacramenti 1, 158-164 — dell'iniziazione 1, 167-179 6, 210-230 — della storicità 6, 230-244 — ed ethos 1, 165-167 6, 197-209 Sacramento 1, 150-152 5, 35 6, 187-189 7, 190-193 — Chiesa sacramento 1, 153-156 4, 166-168 6, 192-196 7, 191 — Cristo sacramento originario 1, 152s 6, 189-192 7, 191 Sacrificio 3, 276s — eucaristico 6, 226s Sadducei 3, 241 Salvezza 3, 274s 5, 81-83 6, 160-163

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— nella Chiesa 5, 112-116 — universalismo della salvezza 5, 136-140 /* Predestinazione Samaritani 3, 246s Santi 1, 137s 2, 63 6, 261 Santità 2, 205s 5, 36s 188 301 305 356-358 6, 173 243 8, 242-244 248s 253 Satana 1, 111 7, 265s Scandalo 3, 300-302 Scienza 3, 17 Scrittura 2, 76-89 169 171 5, 174-182 S Bibbia; ? Parola di Dio Secolarità 3, 14-21 5, 338 341 Secolarizzazione 3, 18 5, 332 Segni dei tempi 1, 219s 2, 160s 163 3, 60 318s 6, 259 Sensus fidei/consensus fidelium 5, 179 Sequela 1, 217-228 3, 223-227 256-259 283-285 6, 205s Servizio 2, 67s 208s 5, 253s 349s 6, 209 229 Sessualità 1, 191 6, 54s 8, 21s 174-176 Silenzio 1, 18-22 7, 63-100 179 — di Dio 1, 20-22 2, 4 7, 86-92 Simbolica 1, 49-56 — ed etica 1, 83-97 — e filosofia 1, 71-83 Simbolica Ecclesiale 1, 49-71 Simbolismo 2, 97-98 8, 15-17 Simbolo 1, 46s 98s 2, 191 5, 43 — apostolico 1, 98-148 — della fede 1, 49 — di fede e storia trinitaria 4, 61 — di Nicea (325) 3, 139-142 4, 65s — di Costantinopoli (381) 1, 149 3, 141s 4, 67s 8, 112s Società 3, 25 Soddisfazione 3, 276s 6, 233 Sofferenza ? Dolore Soggettivismo 2, 186s 8, 129s Soggettività 2, 114-116 186s Soggetto 4, 76-80 141 153s Soprannaturale 6, 112-115 Soteriologia 3, 56-63 15 — Dogma trinitario e soteriologia 4, 65

Specifico cristiano 6, 145s Speranza 2, 21 46-49 197-199 3, 20s 32 306 4, 190 5, 355 7, 180s 339-348 8, 244s 247s 249s 254s — virtù teologale della speranza 1, 201s 6, 255s Spirito Santo 1, 128-131 2, 139 157 201-203 3, 181 278 281-283 288s 309s. 322 328 4, 34s 38s 98-101 114-138 152 7, 151-162 231s 243-245 326 8, 203-205 232 235-241 241-245 — dono 4, 136-138 — e battesimo 6, 217s — e Chiesa 5, 157-200 — e comunione 5, 167s 241 — e confermazione 6, 222s — e creazione 4, 164-166 — ed eucaristia 6, 228s — e matrimonio 6, 243s — e ordine sacro 6, 240 — e penitenza 6, 234s — e tradizione 5, 168 — e unità della Chiesa 5, 36s 39 52s 118 189-200 207 — e unzione degli infermi 6, 236 — vita secondo lo Spirito 1, 209-216 Spiritualità 2, 203-207 6, 265-272 8, 138-140 — ecologica S Ecologia Sposa (Maria) 2, 201-203 8, 231-259 Stato originario (Dottrina dello) 4, 163 Storia 1, 62 2, 118 123-127 133 154 160-162 3, 45-51 57s 4, 19 21 31-42 57s 80-88 142s 159s 195 207-209 5, 58s 75 85s — concezione arcaica 7, 10-14 — concezione biblica 7, 15-19 — senso della storia 7, 9s — storia della Chiesa 2, 174 — storia e teologia 2, 127 131-137 150 154s 160 163 3, 45-51 — e Vangelo 2, 158s 163; /" Teologia storica Storia della salvezza 4, 135s 5, 88 7, 121-134 Storicità 2, 132s 3, 192s 6, 131-139

230s 252 — dell'esperienza d'Israele 4, 49 — come immagine della Trinità 4, 178s Successione apostolica 5, 182-188 278s Sussistenza (modi di) 4, 79 Tecnica 3, 16s Tempio 3, 251 Tempo 3, 312s 4, 63 185-187 7, 198-201 218s 252-257 — ed evento pasquale 7, 32-34 — ciclico / Storia, concezione arcaica — lineare ? Storia, concezione biblica Teologia 1, 9s 2, 13 25-27 34s 61s 69 131 134s 141-144 154 159 164s 166s 179s 182 184s 193-197 200-203 207 209s 3, 40s 43s — compito 2, 47 — finalità 2, 151-153 — oggetto 2, 148-151 — senso 2, 9 — soggetto 2, 138-148 — della croce 2, 41s 3, 266-285 — della liberazione 2, 27-35 — della speranza 2, 46-49 7, 302-304 — della storia 2, 9 87-88 127 131-137 3, 45-51 7, 9-36 — dialettica 1, 86-91 2, 100-111 — e carità 2, 164s 200s — e Chiesa 2, 62-70 147 150s — e contesti 2, 15-35 3, 54s — e dogma 2, 145s — e fede 2, 10 57 60-62 200s — e filosofia 1, 71-83 7, 76 — e magistero 2, 66s 145s 147 172 — e mediazione sociale 2, 33 — e Parola di Dio 2, 9 65 77 150 162 169 — e preghiera 2, 203-205 — e rivelazione 2, 167 — e servizio 2, 67-69 208s — e speranza 2, 47-49 197-199 200s — e storia 1, 57-63 2, 6 127 131-137

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150 154s 160 163 167s 3, 45-51 — e Tradizione 2, 66 170 3, 50 — femminista 8, 23-28 — kerygmatica 1, 89-91 — narrativa 2, 24 188 — naturale 4, 17 Is — positiva 3, 46-47 — simbolica 2, 90-99 — sistematica 1, 50s 2, 193-197 — storica 2, 112-125 Teologia scolastica — e grazia 6, 155-157 — e sacramento 6,188s 201 204-207 Teologo 2, 132 136 141-144 146s 152s 161s 169 173 202s 207-209 Testimonianza 3, 4 320 5, 347-349 6, 229 Tradizione 2, 66 170-172 4, 195 5, 171s 249 — apostolica 5, 169-173 — e teologia 2, 66 170 — e Scrittura 2, 171s 5, 174-182 Transustanziazione 6. 227 Trascendenza — di Dio 4, 49s — e Avvento 6, 29-32; /" Soprannaturale Trinità 1, 70s 103-105 2, 53-55 3, 174 181s 183-186 191 221-225 255 272s 312 4, 13-24 8, 160s 179s 203-205 234-241 — esilio della Trinità 4, 13 s — come patria 4, 14-17 7, 338-359 — come senso 7, 310-337 — e antropologia 4, 188-192 — e battesimo 6, 213-217 — e confermazione 6, 222s — e creazione 4, 161-166 7, 207-211 235-245 247-257 — ed ethos 1, 192 6, 245-257 — ed eucaristia 6, 225-229 — e matrimonio 6, 242-244 — e ontologia 7, 266-271 — e ordine sacro 6, 240 — e penitenza 6, 233-235 — e persona 6, 71-75 — e preghiera 6, 265-272 — e racconto 4, 61

— — — —

e rivelazione 7, 39-61 e storia 4, 204-210 7, 24s e unzione degli infermi 6, 236 economica - immanente 4, 18 23 127-129 137 — origine della Chiesa 5, 68-71

Umanità — di Dio 4, 15 Unione ipostatica 3, 172-179 6, 191 Unità 5, 10 12 24 28 33 34-36 38 — carismatica e ministeriale 5, 293-301 — della Chiesa 5, 204-220 246-252 6, 260-263 — del mistero 6, 119-124 — della Simbolica 1, 72s — di Dio secondo Israele 4, 150 — e Persone trinitarie 4, 153 — e Spirito Santo 5, 307 — sacramentale 5, 215-220 — trinitaria e Persone 4, 144 151-155 — trinitaria e pensiero storico 4, 142s — trinitaria e rivelazione pasquale 4, 140s Uno, filosofia greca dell'Uno 4, 63s 6, 69 Unzione degli infermi 1, 183-185 6, 235-237 Uomo 1, 13s 2, 36 3, 25 6, 8s 8, 164-167 189-192 222-224 251255 256-259 — concezione greca 4, 63 — immagine di Dio 7, 210s 219s 257-261; S Antropologia Utopia 3, 33s Vangeli dell'infanzia di Gesù 8, 53-87 Vangelo e storia 2, 158s 163 Verginità 6, 242; /* Maria Vergine Verità 1, 58-61 217s 2, 43 133s 155 3, 317 6, 33 — gerarchia della verità 8, 126 Vescovi 5, 51 222 229 231 253 287-290 6, 223 225 229s 233 239 — di Roma 5, 73 187 234 243 259 262s 271-274 284

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^ Episcopato Virtù — cardinali 1, 213s 6, 137-139 — morali 1, 213s 6, 131-134 — teologali 1, 198-202 6, 250-257 Visibilismo 4, 20 Vita 1, 224-228 2, 37s

Vita eterna 1, 142-144 6, 307-311 7, 328-338 Vita teologale 7, 178-182 Vocazione 1, 193-198 8, 6 Volontà di potenza 5, 17s Zeloti 3, 243s

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INDICE

Introduzione 1. Il mistero e la parola 1.1. L'attesa della Parola a) La sfida dell'interruzione b) L'esistenza come esodo e) Le religioni fra esodo e Avvento 1.2. La Parola nelle parole a) Il Silenzio, provenienza e attesa della Parola b) La Parola, avvento del Silenzio e) La rivelazione della Parola e del Silenzio 1.3. L'analogia del Mistero a) Dove l'esodo accoglie l'Avvento: la fede b) Dove il Mistero si dice e si tace: l'analogia e) La parola della fede 2. La parola del Mistero 2.1. La "Simbolica ecclesiale" a) Il Simbolo e la fede ecclesiale b) Una teologia come storia e) Un sistema aperto 2.2. Simbolica e filosofia a) La questione dell'Altro b) Il pensiero "di" Dio e) La sfida della Croce 2.3. Simbolica ed etica 251

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10 10 13 15 18 18 22 24 21 27 29 42

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49 49 57 63 71 72 76 80 83

a) Dall'unità alla separazione b) In tensione reciproca e) Verso l'unità simbolica 3. Il Mistero proclamato . 1 . La storia del Padre a) Credo in Dio b) Padre onnipotente e) Creatore del cielo e della terra .2. La storia del Figlio a) Credo in Gesù Cristo, suo unico Figlio b) Storia di Dio e) Dio della storia .3. La storia dello Spirito a) Credo nello Spirito Santo b) Nella comunione dei santi e) Per la vita eterna

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103 103 105 109 113 113 119 124 128 129 131 138

4. Il Mistero celebrato

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4.1. L'economia sacramentale a) Cristo, Chiesa, Sacramenti b) Celebrare i sacramenti e) Vivere i sacramenti 4.2. L'iniziazione cristiana a) Il battesimo b) La confermazione e) L'eucaristia 4.3. I sacramenti della guarigione e del servizio della comunione a) Penitenza e unzione b) L'ordine sacro e) Il matrimonio 5. Il Mistero vissuto

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150 152 158 165 167 169 174 176

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179 180 185 188

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5.1. Vivere alla presenza del Padre a) La vita come vocazione b) Le virtù teologali e) I comandamenti dell'Alleanza 252

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193 193 198 202

5.2. La vita secondo lo Spirito a) L'incontro che cambia la vita b) Il dono e l'impegno morale e) Contemplativi nell'azione 5.3. Nella sequela del Signore Gesù a) Discepoli della Verità b) Nel popolo dei pellegrini e) Alle sorgenti della Vita

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Conclusione "Confessio /idei - narratio amoris"

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Indice dei nomi Indice analitico della "Simbolica Ecclesiale''

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OPERE DI BRUNO FORTE La distinzione fra i tre gruppi, la Simbolica della fede, la Dialogica dell'amore e la Poetica della speranza, oltre che corrispondere al pensiero delle tre virtù teologali, evoca le tre diverse forme del pensare: l'argomentare narrando della simbolica, il dialogare argomentando della dialogica, e il narrare dialogando della poetica. SIMBOLICA DELLA FEDE Simbolica Ecclesiale (Edizioni San Paolo): 1. La Parola della fede. Introduzione alla Simbolica Ecclesiale (1996) 2. La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia (1987; 19962) 3. Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia (1981;19947) 4. Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano (1985; 19935) 5. La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione (1995; 19952) 6. L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale (1993) 7. Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento (1991; 19912) 8. Maria, la donna icona del Mistero. Saggio di marìologia simbolico-narrativa (1989; 19963) DIALOGICA DELL'AMORE La Chiesa nell'Eucaristia, D'Auria, Napoli 1975; 19882 La Chiesa icona della Trinità, Editrice Queriniana, Brescia 1984; 19906 Laicato e laicità, Marietti, Genova 1986; 19884 Cristologie del Novecento, Editrice Queriniana, Brescia 1983; 19852 Sui sentieri dell'Uno. Saggi di storia della teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1992 Confessio theologi. Ai filosofi, Cronopio, Napoli 1995, 19953 In ascolto dell'Altro. Filosofia e rivelazione, Morcelliana, Brescia 1995

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POETICA DELLA SPERANZA Corpus Christi, D'Autia, Napoli 1982; 19832 Preghiere, D'Auria, Napoli 1984; 1989' Sull'amore, D'Auria, Napoli 1988 Camminando nelpresepe, con fotografie di Papi Merisio, D'Auria, Napoli 1989 Sul sacerdozio ministeriale. Due meditazioni teologiche, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1989; 19902 Nella memoria del Salvatore. Esercìzi spirituali, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1992; 19942 Pìccola introduzione alla fede, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1992; 19943 Piccola introduzione ai sacramenti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994 Piccola introduzione alla vita cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995 Di Te ricordo quando... Poesie, Piemme, Casale Monferrato 1995

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Stampa: 1996 Società San Paolo, Alba (Cuneo) Printed in Italy