137 107 4MB
Italian Pages 153 Year 2000
Marta Boneschi
Senso: i costumi sessuali degli italiani
© 2000, Arnoldo Mondadori
INTRODUZIONE Quanto è cambiato il costume sessuale degli italiani in poco più di cento anni? Per averne una prima, sommaria idea, basta confrontare le successive edizioni di un qualsiasi dizionario della lingua italiana: il lessico relativo al sesso cambia radicalmente nei diversi periodi. Dai termini anatomici, alle perversioni, allo stesso matrimonio, con il passare degli anni ogni parola è diversamente definita. Così nel dizionario Bergoglio del 1896 troviamo che lo stupro è «corrompimento di verginità» e nel Garzanti del 1994 invece esso diventa un «atto sessuale imposto con la violenza»; una vergine, d'altra parte, risulta essere una «femmina pura e innocente» a fine Ottocento, ma un secolo più tardi è una «donna che non ha mai avuto rapporti sessuali». Della masturbazione non si fa menzione per quasi tutto il secolo, perché è nota soltanto sotto eufemismi come «Venere solin-ga» o «atti innominabili», ma nel 1994 essa risulta l'«atto di manipolare i genitali al fine di procurare il piacere sessuale». Il cambiamento del linguaggio rispecchia qualcosa di profondo e radicale: un secolo fa, il sesso non coniugale e non finalizzato alla riproduzione era considerato un vizio. Oggi, qualsiasi pratica sessuale che non comporti violenza e sopraffazione è giudicata, invece, come l'esercizio di un diritto. Quando si pensa alla rivoluzione sessuale, si è portati immediatamente a identificarla con gli anni Sessanta e Settanta, a quel succedersi di idee e di eventi che va dall'esortazione «Fate l'amore non la guerra» dei movimenti giovanili, alla pillola anticoncezionale che ha separato sessualità e procreazione, alla legge che regola l'aborto del 1978, alla tolleranza nei confronti del sesso fuori dal matrimonio, dell'omosessualità e di molte di quelle che un tempo erano considerate perversioni. La pensavo così anch'io quando ho cominciato a lavorare a questo libro, ma ogni volta che affrontavo un problema, ero inevitabilmente respinta al-l'indietro: alla campagna demografica del fascismo, al primo femminismo, alle leggi risorgimentali e postunitarie sulle case chiuse. Mi sono convinta - e di ciò vorrei persuadere anche i lettori - che il moto di liberazione degli anni Sessanta e Settanta non è che l'approdo di un processo iniziato negli ultimi due decenni dell'Ottocento, con il decollo industriale, l'urbanizzazione, l'emancipazione femminile e, più di ogni altra cosa, con le scoperte scientifiche e il dibattito culturale, che a quell'epoca era intenso, impegnato, aperto e globale. Non è dunque alla generazione dei baby boomers, agli hippies, o al Sessantotto che siamo debitori della cosiddetta «liberazione» sessuale (la quale, fra l'altro, è largamente incompiuta, come possiamo constatare dalla massiccia dose di infelicità sessuale che emerge dagli innumerevoli sondaggi condotti - potremmo dire minuto per minuto presso la popolazione per conoscere gusti e abitudini nell'intimità). Insomma, i nostri avi ottocenteschi sono stati ben più sovversivi dei loro nipotini. Alle menti geniali di Sig-mund Freud, di Henry Havelock Ellis, di Paolo Mante-gazza, di Wilhelm Reich, di Alfred Kinsey, di Gregory Pincus e altri dobbiamo l'impostazione dei grandi quesiti che riguardano la sessualità e l'impianto fondamentale della sessuologia contemporanea. Sono stati loro a rompere il silenzio, a interrogarsi sull'anatomia maschile e femminile, a cercare un rimedio alle malattie veneree, a dare una risposta all'esigenza di controllare le nascite, a chiedere per le donne lo stesso rispetto tributato agli uomini. Alla gente comune è toccato il compito di imparare la lezione, di liberarsi dei pregiudizi, di apprendere nuovi comportamenti. Non è stato, quest'ultimo, un processo semplice e lineare. Negli ultimi anni dell'Ottocento, proprio quando il sesso era disciplinato da regole ferree e costretto entro steccati invalicabili, veniva affermandosi la libertà di pensiero e di azione, tra la pratica godereccia dei libertini, le utopie dei socialisti, le discussioni dei riformatori e le richieste delle femministe. Nel ventennio fascista bisognava sì obbedire al dettato demografico - non solo in Italia, ma in tutta l'Europa decimata dalla Grande Guerra e dall'epidemia di spagnola -, ma è altrettanto vero che poi gli uomini e le donne si arrangiavano altrimenti, facendo l'amore a loro gusto (la statistica rivela
che mai, come negli anni Trenta, è stato così alto il numero di figli concepiti fuori dal matrimonio). La Chiesa, che in questo campo non è mai neutrale, e anzi ha sempre preteso di imporre la sua morale restrittiva, negli anni tra le due guerre esercita invece un'azione riformatrice di vasta portata, incoraggiando le donne ad assumere un ruolo nella vita intima coniugale per dare solidità, compattezza e calore alla famiglia. Nel secondo dopoguerra, invece, concentra tutti i suoi sforzi a combattere - insieme al comunismo - ogni rinnovamento dei costumi e nel 1968, con l'enciclica Humanae vitae, depone una pietra tombale sulla liceità per un buon cattolico della contraccezione con metodi moderni. Tra passi avanti è situazioni di stallo, per oltre cento anni il costume sessuale ha continuato a cambiare. Che differenza tra gli educatori ottocenteschi che infilavano il cosiddetto anello d'avviso (di metallo dentato) sul pene dei ragazzi per bloccare l'erezione e la medicina moderna che definisce la masturbazione un'abitudine normale e perfino benefica! Quale dinamismo ha avuto il sesso, di volta in volta unito o separato dall'amore: nell'Ottocento un uomo si accoppia con la moglie che non necessariamente ama, ma lo fa anche con la prostituta o la cocotte, con o senza affetto; negli anni Trenta, invece, il matrimonio acquista una componente erotica, i coniugi devono amarsi e fondersi nello spirito e nella carne. Alla fine del Novecento, di nuovo la pratica sessuale è scorporata dall'amore: si esercita perché fa bene alla salute, con il coniuge, con l'amante o a pagamento, in stile ginnico o via cavo, con strumenti o a mano libera, ma non è assolutamente condannato chi non lo fa per amore. È stata lunga e tortuosa la marcia dal sesso monogamico e procreativo - l'unico autorizzato fino a quarant'anni fa - a quello etero o orno, adulterino, senza concepimento, senza età, via internet, sodomitico, orale, fantasioso, che è tipico della fine del Novecento. Ai nostri giorni, curiosamente, il sesso viene definito «liberato» ma, se dobbiamo giudicare dalle ricerche su come e quanto lo si fa tra gli italiani, sarebbe il caso di chiamarlo «noioso»: tra contatti dilazionati nel tempo, fugaci infedeltà e orgasmi di pochi secondi, trionfa piuttosto la libertà di non farlo o farlo malamente. In questo libro ho cercato di raccontare il sesso non come è stato vissuto - cosa impossibile, poiché si tratta della sfera più riservata dell'esistenza - ma come è stato a sua volta narrato sia dagli studiosi, sia dalle persone comuni. Quando sono arrivata alla fine della storia, mi sono resa conto, appunto, che abbiamo ancora parecchio da fare prima di vantarci di essere liberi. Le schiavitù sessuali di cent'anni fa si chiamavano sifilide, inferiorità femminile, procreazione obbligata, bordelli di Stato, quelle di oggi vanno sotto il nome di AIDS, prostituzione, incompetenza, consumismo. Non c'è dubbio che, anche in questo campo come in numerosi altri, il Novecento ha allargato le libertà individuali (quelle delle donne, in particolare), permettendo a milioni di persone di attraversare momenti di felicità affettiva e appagamento fisico. L'area delle cosiddette perversioni si è enormemente ristretta, la quantità di paura che il sesso incuteva è diminuita, la miseria sessuale può essere scongiurata, basta volerlo. Questo - questo soltanto - è già sufficiente per decretare che i cambiamenti del secolo meritano davvero la definizione di «rivoluzione». Ma, a somiglianza di tutti i rivolgimenti che promettono il paradiso in terra, anche questo si è rivelato inferiore alle attese, non ha regalato la felicità, e i principi su cui si è fondato incontrano ancora molte resistenze: dell'omosessualità ci si vergogna, la contraccezione è un peccato, la fedeltà coniugale è vissuta con la stessa ipocrisia di cent'anni fa. A spingermi verso la modesta fatica di scrivere questo libro è stato Ettore Mocchetti, direttore di «AD», una rivista che si guarda e si legge con profondo piacere, cosa che nell'epoca di internet non è da poco. Ho avuto il privilegio di lavorare con lui e di apprezzarne sopra ogni altra una virtù: è una persona che ha il coraggio di inventare. Senso è nato da una sua proposta: avendo scritto del miracolo economico e del mutamento femminile - mi ha detto -, dovevo affrontare per i miei lettori la terza grande rivoluzione del costume del Novecento, cioè quella del sesso. Ho seguito il suo suggerimento volentieri, la sua idea è buona, spero che il risultato ne sia all'altezza.
Nei momenti di disorientamento e di frustrazione che accompagnano il lavoro di ricerca, ho potuto contare sull'appoggio di alcuni amici, che sono troppo generosi per rendersi conto di quanto bene mi hanno fatto. Francesco Cego Pernigotto si è dedicato alle corse in biblioteca e in libreria, alle schedature, ai riassunti, con l'umiltà che gli è consueta, ma con impegno, devozione e spirito critico. Fra l'altro, sono sue le ricerche sui dizionari, sulla Chiesa negli anni Cinquanta e sulla letteratura giovanile di fine Nove cento: se ne ho fatto cattivo uso, la colpa non è sua. Paolo Lombardi è un collezionista di libri (che si premura di leggere) e un attento spettatore di film; le sue lettere, e-mail, telefonate, conversazioni hanno aggiunto qualche cosa di non irrilevante a queste pagine. Pasquale Guadagnolo, come non manco di dirgli da trentacinque anni, da quando cioè ci conosciamo, è una bibliografia in giacca e cravatta, che non ho resistito alla tentazione di consultare spesso, con grande soddisfazione. Vorrei ringraziare, senza citarne nomi e cognomi, anche le amiche e gli amici che mi hanno raccontato le loro storie, quelle delle mamme e dei papa', dei nonni, dei dottori, dei fidanzati, dei mariti e delle mogli, degli amanti. Oppure che mi hanno chiarito alcuni termini del gergo sessuale e segnalato episodi di cronaca, articoli e saggi che non conoscevo. Con loro mi sono divertita lavorando, ci siamo fatti qualche risata e spero che, alla fine, ne abbiano guadagnato soprattutto i lettori. A Marco Vigevani, che ancora una volta ha voluto scommettere sulla mia capacità di raccontare una storia, va il mio intramontabile affetto. Come mi è già capitato di appurare, alla Mondadori un libro così così può diventare un buon libro se passa per le mani di Nicoletta Lazzari, che nel suo lavoro è accanita, precisa e acuta come lo è stato Alfred Kin-sey nell'indagare la vita degli insetti e le abitudini sessuali degli umani. Sono grata a Caterina Soresina Stoppani per l'impegno che ha profuso nel «setacciare» il testo. Vorrei infine dedicare questo libro a tutte le persone che condividono la mia opinione sulla pratica del sesso nell'esistenza umana: non è un vizio né un pericolo né un obbligo né una vergogna. È una risorsa, una delle poche che sposa lo spirito alla carne. Se esercitato con affetto e competenza, illumina i momenti bui e glorifica quelli felici.
Parte prima UNA SCOPERTA ESPLOSIVA 1880-1918 Nel 1889 un giovane scrittore, Gabriele d'Annunzio, da alle stampe il suo primo romanzo, Il piacere. L'amore disperato del protagonista Andrea Sperelli per Elena e la parallela vicenda di Andrea e Maria sono narrati con una sensualità palpabile non solo per l'audacia espressiva, ma soprattutto per i contenuti: il conte Sperelli Fieschi d'Ugenla si crogiola nei piaceri e da questi è soggiogato. Ma è anche vero che in quel libro non mancano pagine apertamente oscene. Il lettore entra in camera da letto, scorge la nudità di Elena, accoccolata davanti al caminetto, «i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne»; impara i passatempi a due dell'aristocrazia libertina: «Poi, sul divano, ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse», e ancora: «se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo.... Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito». Le quarantott'ore che precedono l'assassinio di Umberto I a Monza, il 29 luglio 1900, l'attentatore Caetano Bresci le trascorre ospite della prostituta Alberta Magnani, in un infimo bordello detto El Peocett (il pidocchietto), nella contrada del Bottonuto, vicino al Duomo di Milano. La Magnani riconosce il cliente dal ritratto pubblicato su un giornale, e racconta alla polizia che l'anarchico ha pagato il soggiorno, rinunciando alla prestazione ma non ai panini e al barbera che gli sono stati offerti. Al processo, Bresci smentisce la storia della Magnani, ma che cosa importa? Il capo del governo Saracco tuona: «Egli meditò il suo delitto in una casa infame!». Milano, con la sua modernità corrotta, fa paura ai benpensanti: qui allignano femminismo, prostituzione, rivoluzione. Sesso, sangue e sovversione si confondono nel sentimento collettivo. Ha undici anni la piccola milanese che finisce all'Asilo Ma-riuccia, un istituto per la rieducazione delle ragazze perdute. La «mala vita» per lei è cominciata a poco a poco, adescata per strada da signori ben vestiti, pronti a offrirle denaro purché si lasci toccare: un avvocato, un medico, un ufficiale... Tutti le raccomandano il silenzio. Un signore con la barba bianca, racconta la piccola, «voleva bocca». Quando lei rifiuta, il gentiluomo la prega di mandarle un'amica, purché disposta a rendergli il servizio. Lui sa bene di esercitare un commercio turpe, ma tollerato. Un'adolescente che ha concesso la sua pelle morbida alle carezze dell'avvocato, dell'ufficiale, del signore dalla barba bianca, finirà per generare uno dei tanti illegittimi, un bimbo abbandonato, una bimba magari, che seguirà una sorte uguale a quella della madre. Nel 1888 Elide Verardi, una diciottenne di buona famiglia, è fidanzata con Mario, studente. I due progettano di sposarsi e non manca molto tempo alle nozze quando Mario scrive a Elide che può considerarsi libera. Lei è disperata, ma lo è ancor di più quando apprende che, scritta la lettera, Mario si è sparato un colpo al cuore. Viene a galla la verità: era malato di sifilide, e la malattia non lascia speranza. Nei due decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento suona un allarme generale: il sesso è presente e visibile, inquina le giovani menti, irretisce le fanciulle, entra nei libri, diffonde la malattia, diventa un fattore di sovversione. Lo sviluppo industriale e urbano allestisce un palcoscenico dove il sesso è protagonista, occulto o palese. È un vizio - nessuno lo mette in dubbio, tanto più se non ha come scopo la prolificazione - che mette in pericolo il sogno di ogni borghese: un panorama ordinato di classi, ruoli, gerarchie, regole e norme. A questo allarme ognuno risponde a modo suo: scienziati, medici, femministe, scrittori, padri di famiglia, filantropi, preti, politici e moralisti. I primi si dedicano a studiare la «sessualità», la sfera dell'esperienza umana che riguarda il sesso, mentre i secondi cercano una cura alle malattie veneree. Le femministe invocano un maggior rispetto per le donne e si battono contro la prostituzione in ogni sua forma. Gli scrittori, e presto anche i fotografi, i
registi del cinema, gli artisti invocano la libertà di espressione: storie d'amore, prostituzione e perdizione fanno parte della vita vera, perché non rappresentarle? I padri di famiglia, integerrimi tra le mura domestiche e lascivi nella casa di tolleranza, tengono soprattutto a mantenere intatta la facciata. Preti, politici e moralisti hanno una sola ricetta: proibire. Che cosa sta accadendo? I migliori cervelli dell'epoca cercano di rispondere, dopo aver compiuto un viaggio di esplorazione che attraversa i terreni dell'anatomia e della psicologia, della morale e del costume, che incontra ostacoli e dilemmi, ma non si ferma. Incuriosisce, è ovvio, il mistero sessuale. Inquieta, perché è opinione comune che il sesso sia un vizio e la sessualità una malattia. Appassiona, perché è una materia quasi vergine, popolata di idee consolidate e antiche, talvolta prese di peso dalla Bibbia. Non da tregua, perché tutta l'Europa civile ne sta trepidando. Mai si era affrontato il sesso con tanta libertà, mai si era speso tanto inchiostro per indagare in una sfera così ignota e scabrosa.
I COLPA DELLE FEMMINE Negli anni della Belle Epoque, quella dei bordelli è una piaga sociale, ma anche il segno di una civiltà e una cultura, capace - a suo modo - di toccare vertici di raffinatezza. Parigi non va forse fiera delle sue celebrate maisons? Milano non è da meno e lo scrittore Umberto Notari, autore di Quelle signore, scene di una grande città moderna, spiega perché: le milanesi sono tanto brave e buone, le fidanzate caste, le mogli fedeli. Tale rettitudine spinge i maschi verso le braccia più accoglienti delle donne di piacere. Perché essere immacolati o, peggio ancora, ipocriti? Il piacere si paga, e questa è una realtà. «Si vuol dissimulare il vizio e il malcostume sotto i comodi veli d'una falsa pruderie» scrive Guido Da Verona «quando tutta la maniera di vivere questo secolo, i gusti, i discorsi sono lontani mille miglia da quell'ascetismo e purezza di costumi che si pretende di far passare per autentici.» Milano racchiude maisons leggendarie. La casa di via Tadino, un'istituzione di prim'ordine, vanta una sala da ballo e la cucina «supera quella dei primi restaurants. Non c'è spilorceria. Vi si mangia divinamente. Vi passano dalla tavola tutte le leccornie. Vi è tutto il confort [sic]. Peccato che le sue signorine non possono rimanervi più di quindici giorni». Quella di via Porlezza, invece, è situata in un «magnifico palazzo», giura lo scrittore Paolo Valera, che pure è un nemico delle case di tolleranza, «affollato di odalische, di baiadere, di meretrici che hanno fatto carriera». Tra saloni di marmo e salottini privati, mobili preziosi e decorazioni, «il gozzovigliante ha modo di sognare, di bere delle buone bottiglie di champagne e della chartreuse sopraffina». Il luogo è riconoscibile dall'insegna sulla strada, «un corpo con una testa birichina sdraiata per la parete ha il braccio teso con il prezzo in mano: lire 20». Tra luci sfolgoranti, ingressi riservati, tappeti, ambiente accogliente, ospitalità e fasto, l'avventore è accolto da una «violenza dei colori smargiassi», salutato da ragazze acconciate con bandeaux botticelliani, e nell'arredamento «il pompadour fornica con il giapponese; il primo impero col ciociaresco». Che cos'è un postribolo? Risponde, senza possibilità di equivoci, il Dizionario della lingua italiana, opera di Bergoglio, nell'edizione del 1896: una casa di delizie. A Roma, città popolana e aristocratica, le signore del gran mondo sono più flessibili e i mariti meno severi. Ippo-lita, Elena, Maria, le eroine dannunziane che amano e soffrono sulla carta, così come le amanti in carne e ossa del poeta, Barbara Leoni o Maria Gravina, sono tutte maritate. Ne Il trionfo della morte, nel primo anniversario del loro amore, Giorgio ricopre Ippolita di petali di rosa che infila nelle maniche e nel collo. Più tardi lei confida: «Mio marito, quando rientrai, scoperse una foglia sul mio cappellino, in una piega del merletto!». Nessun dramma, i coniugi della buona società sono tolleranti. Dunque non è vero quel che sostiene Notari - la rettitudine delle signore fa prosperare la prostituzione - perché anche a Roma i bordelli sono numerosi e frequentati, proprio come nelle altre città. A Napoli, i postriboli fungono da istituzioni educative. Donna Nina, grassoccia e vestita di seta, da il proprio nome alla lussuosa casa che vede passare padri, figli e nipoti, ai quali la signora offre un caffè, complimentandosi per somi-glianze e diversità nelle fisionomie: «Che belli mustaccielle teneva papa all'età toial». A Palermo, dall'inizio del secolo fino al 1958, Teresa Valido gestisce il Roccella, ospitato in un palazzo rinascimentale ricco di «civettuoli salottini e camere». La dolce vita delle ragazze pubbliche è tale che Marchetta, protagonista di Quelle signore, rifiuta di sposare un pretendente per bene e abbandonare la prostituzione, perché non vuole rinunciare alla propria libertà «incondizionata, senza freni, senza pregiudizio e senza finzioni», con i mille vantaggi che lei stessa enumera: bei vestiti, tavola gustosa, letture piacevoli, teatro, vacanze, gioco in Borsa, pianoforte e perfino «un grammo di morfina per la neurastenia». Sono, tutto sommato, buone figliole, che qualche letterato esalta fino a farne patetiche eroine. Benché non sia una prostituta ma una cocotte, Mimi Bluette, protagonista
della storia di Guido Da Verona, è tanto cara, «un poco inerte, un po' sbadata, un po' ironica... Era una donna venduta, eppure non chiedeva mai nulla, non faceva mai un vero calcolo, nemmeno rispetto a quegli amanti cui non si dava per piacere». La prostituzione è una realtà, ma i buoni borghesi che vi ricorrono gradirebbero maggiore discrezione. Nel 1912 alcuni cittadini milanesi protestano perché «non si è potuto ancora far cessare lo scandalo dei teppisti e donne patetiche [sic]... che con grida e schiamazzi disturbano nelle ore tardi [sic] della notte la quiete pubblica». Nel centro della città, a ridosso del Duomo, a Porta Ticinese, in piazza Vetra, si ammucchiano l'uno sull'altro i postriboli; all'incrocio delle Cinque Vie le femmine di malaffare non danno tregua ai passanti. Di giorno e di notte, il sesso da spettacolo; non è una visione edificante, deturpa il panorama urbano e mette in pericolo la gioventù. Milano, che si avvia a diventare una metropoli industriale, merita per questo il titolo di capitale immorale d'Italia. Così, almeno, la pensano quanti vorrebbero fare piazza pulita del malcostume. Altri, invece, prendono la cosa - sesso, femmine, moralità -con maggior disinvoltura. C'è chi esalta le case di tolleranza, fiore all'occhiello della nazione e segno di civiltà superiore. Se tali descrizioni fiabesche scaturiscono da penne maschili, al benessere e agli agi delle case di tolleranza credono tuttavia anche le donne. Ersilia Majno Bronzini, femminista, lamenta la durezza della battaglia contro il vizio: le ragazze, afferma, faticano ad accettare il riscatto morale perché sono affezionate alle «abitazioni di lusso, di ozio, di cibi raffinati, di bevande alcooliche» e al «bisogno di continui mutamenti, di svaghi». Nei postriboli più raffinati, dispongono di camera, letto con lenzuola, asciugamani, cibo nutriente e visita medica, in cambio di un lavoro che, sì, è degradante, alla mercé del cliente e della maitresse, però assicura di che vivere. Ma che vita è - ribattono i nemici della prostituzione - se abiti e gioielli sono dati in uso dai padroni alle ragazze, che li rimborsano caricandosi di debiti. Finché i conti non tornano, una prostituta non può lasciare il mestiere. Se si ammala non può lavorare, non ripaga la somma dovuta e va in rovina. Quando invecchia, poi, le verrà meno ogni sostentamento. I clienti si divertiranno con altre ragazze o, come recita il gergo crudele da postribolo, con altra «carne fresca». Il «mercimonio del sesso», secondo Paolo Valera, non ha rimedio: la naturale sensualità del maschio e della femmina non ha diritti, viene negata e repressa, «non può esistere nella società che esige la separazione dei sessi fino al matrimonio, che si ostina a negare la prepotenza del bisogno fisiologico e a considerare l'unione della donna e degli uomini del libertinaggio, del concubinaggio». Su un punto, però, quasi tutti concordano: la prostituzione è un male necessario. Il «mercimonio dell'amore» (l'eufemismo è di Paolo Mantegazza, medico monzese emigrato in Argentina, eminente patologo e studioso dei comportamenti sessuali) è vasto, esteso, onnipresente. Per Notari i bordelli sono «aziende che hanno i più accaniti denigratori in coloro stessi che le fanno prosperare, vale a dire gli uomini». La prostituzione è parte del panorama di fine secolo, come il cielo, le colline, il sole. Quando Arden-go Soffici scrive la poesia «Firenze», la affronta in toni linci: «La prostituzione imbelletta le cantonate / Sul fondo di vecchie réclames. / Ogni donna è un fiore / Caduto da questi giardini sepolti di tenebra / Inzuppato di menta glaciale / E impolverato di minio / Cerne l'aurora». In fondo, il meretricio non sarebbe così nefasto, quando la casa è di prima categoria, perché gli scrittori possono celebrarne i fasti, gli uomini frequentarne le delizie, le loro mogli compiacersi in silenzio che la virilità maritale sia scaricata lontano dal letto coniugale. Comodità e discrezione fanno scudo alla ricreazione dei gentiluomini. Ma quegli stessi signori sono invece turbati e avviliti quando il «mercimonio dell'amore» viene esercitato dal popolo, senza pretese di civiltà e, anzi, nella sporcizia e nella malattia. Le squallide donne che ricevono in una topaia, come quelle milanesi descritte da Paolo Valera in via San Carpoforo e in via delle Quaglie, provocano solo disgusto. Loro sì, odorano del «lezzo delle pratiche vergognose», di sudore e orina. Nei miseri alloggi l'aria è fetida, la biancheria
sporca; le stanze contengono «mobilia andata in malora o divani che non sono ancora sprofondati... un letto, un catino con salvietta, uno scranno, un attaccapanni, un baule, un tappeto al piede del letto». Deturpano il paesaggio urbano, diffondono le malattie veneree e in questo caso, occorre ammetterlo, la prostituzione da un orrendo spettacolo di sé. Accanto ai bordelli puliti, illuminati, arredati, esistono le stamberghe e tutti quanti sono autorizzati dalle leggi del Regno. Il fatto è che, purtroppo, nelle città, in quell'andirivieni di artigiani e operai, di giovanotti scansafatiche e commercianti, prospera la prostituzione di strada (detta anche «slibrettata», ih quanto esercitata da donne senza libretto). Questa è particolarmente nociva, perché sfugge al controllo sanitario e mette in pericolo la salute di bravi padri di famiglia e di onesti lavoratori (i quali trasmettono poi il contagio alle rispettive signore). Per combatterla, la polizia compie una retata di tanto in tanto. Poi le sli-brettate ricominciano a passeggiare, i cittadini a protestare e, mentre gli anni passano, generazioni di maschi si compiacciono di pagare e generazioni di femmine intraprendono il mestiere. Quelle case Le case di tolleranza, regolate dallo Stato, sono un'invenzione di Napoleone I, che le fa funzionare per il benessere della truppa, mentre il ministro di polizia Fouché le usa come centro di raccolta di informazioni e spionaggio. Al pari di numerose altre, anche questa moda francese attecchisce in Italia. Quando Napoleone III si accinge a scendere in Italia nel 1859 per combattere gli austriaci, esige che vengano preparati prostitute e postriboli per il suo esercito. È una lezione di modernità che l'Italia si affretta ad apprendere, an-cor prima di nascere. Benché l'argomento non sia degno di persone per bene, gli uomini politici spendono fin d'allora molto fiato sulla materia: il regolamento del Regno di Sardegna, modellato nel 1859 su quello francese, passa in eredità al Regno d'Italia, grazie a un tempestivo decreto che istituisce le case di tolleranza, voluto da Camillo Cavour e varato il 15 febbraio 1861 - un mese prima della proclamazione dell'Unità - per «proteggere la salute e la morale della nuova nazione». Sia chiaro che non si tratta di case di piacere, amano precisare politici e giuristi. Si tratta di un servizio moralmente riprovevole - e quindi soltanto tollerato - ma utile. C'è poco da divertirsi, le case servono allo sfogo maschile, a fini di ordine pubblico e tranquillità sociale. I legislatori lavorano alacremente nei decenni successivi a ribadire e perfezionare il carattere spoglio, severo e mutualistico di tale istituzione. Nel 1862 un illustre ministro, Urbano Rattazzi, si preoccupa di fissare con una legge la «semplice» - un coito veloce, un susseguirsi ritmato di erezione ed eiaculazione, come soffiarsi il naso o bere un bicchiere d'acqua - a venti minuti. Se fosse più lunga, l'«operazione» si trasformerebbe da sfogo dell'istinto a piacere, dunque un peccato e una vergogna, due cose che la maestà dello Stato non si sente di avallare. Vista la costante prosperità dell'affare, nel 1880 il governo di Agostino Depretis aumenta la tassa versata all'erario dalle case di tolleranza. Nel 1888, durante il governo di Francesco Crispi, viene modificata la legge di Pubblica sicurezza, con un giro di vite sui controlli medici e il divieto di aprire bordelli vicino agli asili infantili, alle scuole e alle chiese. Le prostitute, come i clienti, devono essere maggiorenni e cambiare casa ogni quindici giorni. È obbligatorio chiudere le persiane delle finestre che si affacciano sulle strade per non offrire spettacolo ai passanti (per questo si chiamano «case chiuse»); ci dovrà essere un unico accesso, per controllare chi entra e chi esce. Al cliente è riconosciuto lo stato di necessità, ma non gli dev'essere risparmiata la vergogna; tuttavia, in barba alle norme, un buon bordello concede entrate e uscite segrete alle personalità in vista, ai preti, ai politici. Sono rigorosamente vietate le bevande alcooliche e la musica, nonostante l'appassionata perorazione di Felice Cavallotti in Parlamento: certo, il piacere che vi è dispensato è relativo, «non solo perché mercenario, ma altresì perché è bruttato dalla necessità fisiologica, lungi da qual-sivoglia sentimento o sincero trasporto», però «togliere in quelle case perfino la possibilità di un onesto bicchier di vino, di uno spuntino, di una chitarra e di un canto, significa davvero ridurne la funzione a quella di brutali sfogatoi della libidine popolare». L'oratoria di Cavallotti non serve e, dopo otto sedute e quarantatré interventi, nelle case di tolleranza ogni piacere è bandito. Quando diventa ministro dell'Interno, Giovanni Nicotera adotta un provvedimento
popolare: saranno applicati sconti per soldati e sottufficiali, ma soltanto nei bordelli di infimo ordine. Sia benedetta allora questa «valvola di sicurezza del matrimonio» proclama un deputato alla Camera nel 1899. Tutti sono clienti: il presidente del tribunale, il parroco e il vescovo, il giovanotto alla prima esperienza, il padre di famiglia, lo studente di università, il poveraccio, il rentier e il commendatore. In Quelle signore, quest'ultimo, che ha passato la sessantina, si denuda e poi si accuccia carpo-ni, mentre Marchetta lo frusta senza pietà per farlo contento. La ragazza è anche chiamata ad assistere agli incontri fra un avvocato sulla cinquantina, ex parlamentare, e un deputato di una quindicina d'anni più giovane, di cui si è innamorato e al quale ha ceduto il proprio collegio elettorale. L'avvocato spasima per l'amante, bello e gelido, ed entrambi adorano essere guardati mentre eseguono giochi erotici. Si favoleggia di mirabili oggetti di piacere che si trovano nelle case: fruste e staffili, letti di contenzione, cinture di castità e gatti a nove code. Qualsiasi cliente può chiedere prestazioni speciali, come la «doppia» (che dura più a lungo) o la «bilancia» (due ragazze alla volta), purché paghi un supplemento. Tra la semplice e la doppia è possibile contrattare la via di mezzo, il cosiddetto «quartino». Alla prostituta che si attarda e non rispetta i tempi, la maitresse applica una multa. Si dice che le case di tolleranza siano un sistema efficace per contenere il contagio venereo, ma non è del tutto vero. Le ispezioni mediche, per esempio, vengono effettuate nella più totale mancanza di igiene. Le prostitute - che devono essere maggiorenni - vengono visitate da medici che non lavano le mani né gli strumenti, mentre i clienti non si toccano (a meno che non si tratti di militari, ma sono esentati ufficiali e sottufficiali). Se qualcuno solleva il problema dei clienti, subito le autorità replicano che non è giusto disturbarli, perché essi si limitano a «indulgere a un impulso naturale», mentre la prostituta fa sesso venale. I primi sono moralmente giustificati, la seconda no. Negli ultimi anni dell'Ottocento, il direttore della Sanità pubblica Santoliquido espone i fatti: la prostituzione aumenta negli anni di prosperità, quando circola più denaro. Ecco, dunque, che lo sviluppo economico mostra il suo volto turpe: soldi, vizio, malattie veneree. Per giunta, quando sale la domanda di «sfogo sessuale», l'offerta si gonfia tumultuosamente e aumenta la prostituzione libera, esercitata fuori dalle case di tolleranza. Lo Stato fa quel che può per esercitare la sua missione, diciamo così, igienica e moralizzatrice, ma non riesce a tenere in pugno l'istinto del maschio e la sua salute. Le «case di meretricio», che sono 528 nel 1888 (e due già funzionano a Massaua, sul Mar Rosso), salgono a 1115 nel 1898, per scendere a 882 nel 1908, mentre cresce il numero di prostitute schedate, da 5244 a 6196, cui vanno verosimilmente aggiunte quelle «slibrettate». L'allarme dei moralisti, dei filantropi, degli abolizionisti è perciò giustificato, ma gli uni e gli altri hanno idee molto diverse, anzi divergenti, su come far fronte al flagello morale e sanitario. La voce degli abolizionisti proclama che il sistema della tolleranza rappresenta una forma d'inciviltà: la schiavitù che vige lì dentro è sotto gli occhi di tutti e non basta a giustificarla l'argomento della «valvola di sicurezza» del matrimonio, della salute e dell'ordine pubblico. Povertà, repressione, basso livello d'istruzione e mancanza d'igiene accompagnano il fiorire di questo male. Paolo Valera condanna i postriboli «dove la carne è a prezzo fisso e dove stanno briache fanciulle impaludate nel vizio per far pompa della voluttuosa opulenza delle forme». Filippo Turati avversa la prostituzione e denuncia: «Nei bordelli controllati dallo Stato borghese i lavoratori si avviliscono, corrompendo le loro figlie più sfortunate». Gli abolizionisti, dunque, non pretendono la scomparsa della prostituzione ma - come mezzo secolo più tardi la socialista Lina Merlin - la fine del suo sfruttamento da parte dello Stato. A sostegno della loro battaglia, fanno notare che il sistema della tolleranza non impedisce affatto la diffusione delle malattie veneree e aggiungono che siamo di fronte a una questione di civiltà, tanto che i bordelli autorizzati si concentrano nelle zone del Sud più profondo e abbandonato. Nel 1902, per esempio, si contano in Puglia 83 bordelli autorizzati, 142 in Sicilia
e 69 in Campania, ma 78 in Lombardia e 109 nel Veneto, due regioni ben più densamente popolate. A metà del novembre 1910 la rivista di Giuseppe Prez-zolini, «La Voce», organizza alla Biblioteca filosofica di Firenze un convegno sulla questione sessuale. In quel consesso si respira un'aria di intensa moralità. Roberto Mi-chels, autore, nel 1912, de I limiti della morale sessuale, che vi partecipa, ricorda che l'occasione «costituì una dichiarazione di guerra a tutti coloro che si sentono la coscienza tranquilla se hanno collocato davanti a ogni postribolo un distributore automatico di preservativi». Nascondersi dietro il diritto dell'igiene, dunque, non è sufficiente. Alle donne, chi ci pensa? E ai ragazzi, iniziati all'amore a prezzo fisso? No, non è questa una soluzione moralmente accettabile alla questione sessuale. Poi, la Grande Guerra interrompe il dibattito sulle ragioni della civiltà e del buon costume e balzano in primo piano altre emergenze. A sostegno della patria, non si deve far mancare il necessario ai combattenti. Il generale Luigi Ca-dorna, comandante in capo, ha un atteggiamento severo, contrario a ogni forma di svago: per i soldati non si tengono recite, né balli, né intrattenimenti. Nelle retrovie non circolano donne per bene, eccetto le crocerossine. Ma la mentalità dell'epoca giudica il sesso non uno svago ma una necessità fisiologica, e quindi si installano postriboli di guerra, bordelli da campo, con l'intento di compiere un'azione di civiltà e pulizia. I soldati semplici fanno la fila al l'aperto e consumano in pochi minuti a tre lire l'uno, mentre gli ufficiali dispongono di qualche agio in più. La raffinatezza commerciale degli alleati fa pervenire al fronte italiano, come racconta lo scrittore Giovanni Comis-so, una pubblicità che gira di mano in mano; una ditta francese propone articoli erotici adatti alle particolari esigenze dei militari: un manichino in gomma a forme femminili, intero, oppure a mezzo busto, o ancora in versione economica, che comprende soltanto il ventre avec poils. È garantito un «godimento sicuro e straordinario». Soddisfare centinaia di migliaia di uomini, come si può constatare, comporta un colossale sforzo organizzativo. Ma neppure la giustificazione dello sforzo bellico convince Paolo Valera, avversario instancabile di ogni forma di sfruttamento. Egli fa osservare come gli imprenditori di questo commercio favorito dallo Stato «han fatto più denari che non si è immaginato.... Mandando la loro mercanzia molto bassa nelle retrovie per la truppa, il governo li pagava bene». La mercanzia e i combattenti non ne ricavano altrettanto colossali piaceri. Tra colpi di cannone, assalti alla baionetta e montagne di cadaveri, tuttavia, il dibattito tra sostenitori e abolizionisti perde temporaneamente vigore. Quei batteri Nel 1909 un medico, Pio Foà, calcola che metà dei maschi sopra i trent'anni ha contratto almeno un'infezione venerea, e sostiene che occorre informare e educare i giovani per difenderli dal flagello. In Germania, si dice, un terzo dei maschi adulti ha contratto la sifilide. In tutta Europa, gente comune e personaggi famosi si ammalano e muoiono, colpiti da una malattia che non perdona e che non si riesce a fermare. Del sistema delle case di tolleranza, nato per tenere sotto sorveglianza il contagio, qualcuno comincia a dubitare: non saranno invece proprio loro il veicolo del contagio? I medici non hanno dubbi: il luogo dove i batteri si trasmettono alle persone oneste è la casa di tolleranza. Le mogli timorate, quando si ammalano di sifilide o gonorrea, sanno che il marito ha fatto una capati-na - o più d'una - in una casa di malaffare. Ogni maitresse conosce perfettamente il modo di eludere i controlli: una mancia al medico, all'ispettore, al poliziotto. La battaglia contro le malattie veneree si svolge sul fronte della cura e su quello della prevenzione. Negli ultimi due decenni dell'Ottocento medici e scienziati di tutta Europa si affannano a studiare le malattie veneree e a cercarne i possibili rimedi. I primi passi verso una terapia efficace risalgono all'inizio del Novecento, ma intorno al 1920, a Milano, si contano ancora ottanta, cento donne al giorno che «si presentano all'ospedale di via Pace», dove ha sede la clinica dermatologica. Il treponema pallidum, responsabile della sifilide, è un batterio che si trasmette per via sessuale, capace di danneggiare irreparabilmente il sistema nervoso centrale. La malattia è lunga, dolorosa, non perdona: provoca una paralisi progressiva, la distruzione dei tessuti e
infine lesioni del midollo spinale. Meno grave della sifilide, pure altrettanto diffusa, è la gonorrea, derivante dal batterio neisseria go-norrhoeae, e conosciuta come «scolo» tra gli adepti delle case di tolleranza. Nell'apparato genitale femminile, quando il batterio arriva alle tube di Falloppio, può determinare la sterilità; nei rapporti orali, si può trasmettere alla gola. È anche lui, come il treponema, un nemico dell'umanità. Da più di tre secoli la sifilide imperversa in Europa, accompagnata dalla convinzione che si tratti di una punizione divina per i rapporti carnali illeciti. Ma negli ultimi decenni dell'Ottocento essa ha assunto le proporzioni di un flagello che appare incompatibile con le grandi innovazioni di fine secolo: le metropoli, le ferrovie, l'elettricità, il telefono. Le malattie veneree, qualcuno comincia a convincersene, non rappresentano la punizione divina, ma la conseguenza di pessime condizioni igieniche - lavarsi in maniera assidua e regolare diventerà una prerogativa delle masse soltanto verso la fine degli anni Trenta -, di una radicata ignoranza e di solidi pregiudizi. Non è affatto scomparsa, per esempio, la convinzione che la congiunzione carnale con una vergine guarisca istantaneamente da ogni male di origine sessuale, e pratiche come questa finiscono per diffondere ancora di più il contagio. Il maschio ammalato si comporta come un untore, ma ne ha piena licenza. La cura tradizionale, a base di mercurio, serve a poco o nulla. I progressi nella lotta alla sifilide, sia nel campo medico-scientifico che in quello sociale, sono piuttosto lenti, ma nel 1905 lo scienziato tedesco Friedrich Schaudinn identifica il batterio del treponema, e quattro anni più tardi il suo collega e compatriota Paul Ehrlich mette a punto un preparato, il Salvarsan, che si dimostra efficace nel bloccare il progresso della sifilide. Con il Salvarsan, tutta l'Europa tira un sospiro di sollievo. Quello della lotta alla sifilide è un terreno sul quale fiorisce un dilemma: combattere la prostituzione che diffonde la malattia o limitarsi a combattere il morbo? La prima soluzione comporta un cambiamento di mentalità e di costumi, la seconda chiede tutto alla scienza. I riformatori, seguaci della prima soluzione, rifiutano il sesso pagato e regolamentato dallo Stato, aborriscono le case di tolleranza e compatiscono le prostitute. Ma restano molto prudenti per quanto riguarda l'emancipazione sessuale femminile. I sostenitori dei bordelli, invece, puntano a curare esclusivamente la malattia, a fermare il flagello senza toccarne le cause profonde. E così, mentre medici e scienziati cercano un farmaco, politici e filantropi propugnano un mutamento dei costumi, altri invocano controlli sulle prostitute e una severa lotta alla prostituzione di strada. In questo clima di preoccupazione generale, ma anche di attivo dibattito, nel settembre 1899 Bruxelles ospita una Conferenza internazionale sulle malattie veneree. Santoli-quido, che fa parte della delegazione italiana, mette in luce un ulteriore ostacolo nella battaglia contro la sifilide: la vergogna di confessare, insieme alla malattia, il peccato di aver fornicato a pagamento. La paura è soverchiante: è noto che si tratta di una malattia incurabile, è evidente il calvario che conduce alla morte, e questo fin troppo spesso spinge a imboccare strade laterali, capaci apparentemente di salvare intimità e pudore, ma che portano a risultati peggiori, talvolta tragici, come abbiamo visto nel caso di Mario, il fidanzato suicida perché sifilitico. Non tutti gli innamorati e i mariti sono fatti così. In Una donna Sibilla Aleramo narra una travagliata giovinezza e rievoca, con estremo pudore, la sua personale vicenda di sposa contagiata dal coniuge. Lei, ormai malata, non osa fare domande, si vergogna, e così sta sempre peggio. Poi il marito parla. «Quando restammo soli, egli mi disse di un'indisposizione avuta durante la mia assenza. Parlava abbondantemente e confusamente. Si trattava di una cosa leggera, diceva, di un'infermità avuta molti anni addietro, da soldato.» Dopo la rivelazione, lui cerca di fare l'amore e, quando lei rifiuta, assume «un'aria di vittima infastidita». Più tardi apprende dalla domestica che, in sua assenza, il marito era stato in città e che «al ritorno si era ammalato». Sulla base di questa e di altre esperienze, Sibilla Aleramo conclude che «nel mondo sono a centinaia di migliaia le donne che non sanno di esser debitrici di oscuri e lenti travagli ai mariti».
Nel 1899 la scrittrice visita un ospedale a Roma, dove «accanto al reparto femminile dell'ospedale celtico [c'era] una specie di scuola per quelle disgraziate, una sala bianca, dove le inferme potevano ricevere un po' di istruzione elementare, ascoltare qualche parola che agitasse in fondo alla loro povera sostanza calpestata una brama di rinnovamento, di salvezza». Reclusione e rieducazione rimangono riservate alle prostitute, trattate alla stregua di untori. I mariti, a piede libero, diffondono il contagio. «La vampa del secolo Ventesimo» Poco più che trentenne, bionda, lo sguardo chiaro e la carnagione luminosa, Anna Kuliscioff tiene una conferenza al Circolo filologico milanese. È il 27 aprile 1890. La «dottora» russa, la «libera sposa» di Filippo Turati, parla del «monopolio dell'uomo», un tema appropriato in una sede di solito riservata agli uomini. Questa volta, però, la sala è affollata di signore, attente al racconto di una millenaria oppressione che non è ancora finita. Ascoltano, emozionate al preannuncio di emancipazione e libertà. Asservita al marito e schiava del capitalista, la donna moderna - spiega la Kuliscioff -«collaborando direttamente alla produzione delle ricchezze sociali, ha potuto diventar consapevole della sua equivalenza all'uomo». Il mondo industriale, dunque, chiama le donne al lavoro fuori casa, e questo sta già cambiando la condizione e la coscienza femminile. Con l'aiuto del socialismo e dei suoi ideali, avrà fine la doppia servitù: quella della prostituzione e quella del matrimonio. Anna non è una delle tante. È una pioniera, studiosa di marxismo, perseguitata politica, e soprattutto ha vissuto in piena coerenza con il suo credo. Nata a Odessa nell'agiata famiglia Rosenstein, emigrata in Svizzera, sposata a di-ciott'anni al russo Pètr Makarevic, in carcere a Firenze per la sua milizia socialista, compagna di Andrea Costa - dal quale ha avuto una figlia, Andreina -, quindi innamorata di Filippo Turati; dottoressa dei poveri, organizzatrice sindacale, avversaria tenace del matrimonio, la Kuliscioff ha attraversato tutte le esperienze che la morale ottocentesca nega alle donne per bene. «Avrebbero dovuto buttarla dalla finestra per quello che diceva» commenta Filippo Turati. E invece il pubblico segue attento, sia perché i milanesi amano mostrarsi all'avanguardia, sia perché l'emancipazione femminile e la questione sessuale preoccupano le menti elette della città. Milano è pioniera dell'industria e della cultura, culla del socialismo e del libero amore, campo di battaglia delle femministe, ma anche «feconda metropoli di ogni specie di commerci», tra i quali fa spicco quello del sesso, con un corollario di malattie veneree, bimbi illegittimi, perversioni, pornografia. Da qualche tempo le donne sono al centro dell'attenzione, sotto la luce nuova e particolare della loro sessualità, una scoperta recente, che mette in luce un risvolto oscuro e inquietante, nel caso delle pazienti isteriche di Sigmund Freud, delle «donne criminali» di Cesare Lombroso o delle sensuali eroine di Gabriele d'Annunzio, e genera allarme. La questione sessuale cova sotto le braci della questione femminile, che a sua volta è una conseguenza della rivoluzione industriale. Se le donne rinunciano al ruolo assegnato loro dalla tradizione - o dalla natura, secondo i punti di vista - l'ordine sociale verrà sovvertito. Nel 1898 Mario Morasso, anarchico autore del saggio Uomini e idee del domani. L'egoarchia, formula una profezia: il sesso è «la vampa del secolo Ventesimo», durante il quale i giovani si rivolteranno contro ogni restrizione. È vero, Mo-rasso vede ben lontano: la fioritura di scoperte e lo scontro di idee, in quest'ultimo scorcio dell'Ottocento, traccia le linee di una rivoluzione dei costumi più privati che, impostata adesso, percorrerà tutto il Novecento. La fabbrica del malcostume Intorno al 1900, per il giovane pittore Umberto Boccioni non c'è dubbio: vale la pena di risiedere a Milano, perché è l'unica città in cui succede qualcosa. Centro di sviluppo industriale, luogo di formazione dei capitali, crocevia commerciale e culla della cultura avanzata, Milano è anche il punto focale del sovvertimento dei costumi, una sorta di laboratorio, dove si sperimenta la modernità e se ne godono i benefici, ma dove si studiano anche i rimedi ai guai portati dallo sviluppo. Quel che accade per ora solo a Milano interesserà presto tutto il paese. La metropoli si sta allargando, vede crescere il numero di abitanti, come
Parigi e Londra nei decenni passati. Vengono dal contado e tra loro ci sono donne giovani e sole, che si aggirano senza protezione, rischiando il decoro e spesso l'onore, e procurando tentazioni irresistibili ai maschi. «Correre dietro alle donne» afferma lo scrittore Antonio Fogazzaro «non ha mai fatto male a nessuno. Ma raggiungerle è pericoloso.» A Milano 4 lavoratori dell'industria su 10, rivela il censi-mento del 1881, sono donne. Nei servizi domestici sono 6 su 10 e 8 su 10 nell'abbigliamento, i due settori che impegnano i tre quarti delle donne che operano in città. Il lavoro può svanire dall'oggi al domani, insieme allo stipendio, che è misero, ancora più misero di quello dei maschi. Il commercio di sesso, invece, non è mai in crisi. E rende qualche lira, mentre essere violentata in casa, in famiglia, non ha re-munerazione. Capita spesso, questo, nelle povere case sovraffollate, e bisogna subire, perché mariti, padri, zii, pensionanti sono i padroni. Nel 1884, negli alloggi più piccoli due o tre stanze - si stipano in media più persone. Vent'anni dopo la situazione non è cambiata. Un'indagine comunale ripete le stesse cifre e precisa che le abitazioni non sono conformi alle più semplici «regole di sicurezza personale e non sono certo quel paradiso che può rigenerare le forze, le energie e il morale». Nel periodo a cavallo dei due secoli si sviluppa anche il lavoro impiegatizio femminile, e nel 1911 banche, compagnie di assicurazione e uffici pubblici contano già 50 mila donne, assunte con estrema cautela: di «seria e provata moralità», di «ottima famiglia», di «irreprensibile reputazione», e non se ne fa nulla se non sono raccomandate dal parroco. La Grande Guerra, poi, accelera i cambiamenti e conduce altre donne in città: nel 1914 esse rappresentano un quinto dell'immigrazione totale, ma nel 1918 sono diventate un terzo. Tra loro, le donne nubili, che erano 1 su 10, sono salite a 1 su 5. Nel primo anno di guerra, la Pirelli conta 3500 operai, 1500 dei quali sono donne. Nel 1918, il servizio tranviario annovera 1220 fra manovratóri e bigliettaie, un incarico pericoloso e sgradito, per la vicinanza del pubblico maschile e gli incidenti che ne conseguono: una tranviera, insultata da un passeggero con un epiteto che allude alla sua moralità, lo segue e, armata gli spara. È arrestata. Un'altra viene accompagnata a casa, fin dentro il portone da un collega, immediatamente cacciato dalla portinaia. «Intrattenersi in sala uomini» dopo l'orario di lavoro è proibito dal regolamento. I cittadini per bene insorgono, per impedire «che il tram sia luogo di appuntamenti e convegni amorosi e illeciti, che potrebbero anche turbare la pace di tante famiglie e portare dolorose conseguenze». È vero, il conflitto genera mostri come il lavoro femminile e la licenza amorosa. Nella confusione bellica si costituiscono coppie precarie di mogli adultere con il marito al fronte, di ragazze andate a lavorare in fabbrica o in ufficio, di imboscati e sradicati. Nascono bimbi senza padre da ragazze nubili, e altri da poverette stuprate nella terra di nessuno, da prostitute occasionali o professionali nelle retrovie. Nel 1929, ne L'igiene dell'amore sessuale, nota Giulio Ca-salini: «La guerra fu una grande stimolatrice di corruzione, un'immane fabbrica di donne pubbliche». La conclusione è inquietante, perché quando le femmine sfuggono - sia pure per cause di forza maggiore - al controllo dei padri e dei mariti, non può che verificarsi un cataclisma, un'esplo-sione innescata dal sesso.
II POVERE RAGAZZE È una bimbetta, Eugenia, quando il padre pretende da lei prestazioni «con atti osceni, compresa la congiunzione carnale, senza compiersi però la copula». O almeno, così recita il verbale del fattaccio. La piccola, orfana di madre, scappa e si rifugia in casa della sorella maggiore, che è sposata. Dalla padella alla brace: questa volta è il cognato a farle violenza, compiendo l'azione lasciata a metà dal padre. La piccina viene ricoverata in un istituto dove imparerà a lavare, stirare, cucire, a essere casta, a diventare una buona moglie e una buona madre. È il destino di tante coetanee di Eugenia, iniziate al sesso brutalmente da stupratori, i quali spesso sono parenti stretti. La povera Eugenia - e tante come lei tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento - segue il proprio destino di vittima impotente. È una femmina, e per giunta bambina. Le storie di povere ragazze cominciano a venire a galla con il nuovo secolo, insieme alla pietà e al desiderio di aiutarle. Bruna, milanese, anche lei ricoverata, racconta di essere stata presa con la forza dal garzone del salumiere che, per giunta, le regala la gonorrea. Come Eugenia, anche Cora, una delle prostitute di Quelle signore di Umberto Notari, è orfana di madre. Lei, il padre, i fratelli e le sorelle vivono stipati in un'unica stanza. Una notte d'inverno il padre se la prende, così, per scaldarsi. Cora finisce nel bordello e ci resterà. Le bambine dai dieci ai tredici anni, in una città grande come Milano, sono poco più che prede. Non accade solo qui, ma dovunque una di loro si muova da sola e senza protezione: il primo che la vede può farla sua, senza conseguenze o quasi. Il numero delle ragazzine prese e sciupate, stuprate e corrotte è tale da suscitare, ancora una volta, un allarme generale. Per difenderne i diritti, e per ricondurle sulla retta via, nasce nel 1902, in via Monte Rosa, l'Asilo Mariuccia. L'ha fondato - e intitolato alla figlia morta in giovane età - Ersilia Majno Bronzini, signora di buona famiglia, benefattrice, impegnata nella causa dell'emancipazione femminile. A differenza degli istituti religiosi, come la Pia casa di Nazareth, il Buon Pastore o la Pia casa della Provvidenza, che si limitano a rinchiudere, per isolarle, le ragazze perdute, all'Asilo Mariuccia contano che l'etica della purezza e l'impegno nel lavoro salveranno le fanciulle dal vizio. La rieducazione le trasformerà in mogli e madri esemplari, cancellando il ricordo del sesso che hanno assaggiato più per forza che per amore. Nel giorno dell'inaugurazione, la scrittrice Ada Negri si rivolge alle ospiti: «Salutiamo in voi le future madri operaie, sane di corpo e di cuore». Ma per uscire di lì un giorno «sane di corpo e di cuore» le ragazze si impegnano a riconoscere l'errore, dimostrare «sentimenti di ripugnanza e orrore della colpa» e a cambiare strada. Angela, quindicenne milanese, è un'ingenua; nel 1907 conosce in una sala da ballo un giovanotto che la conduce in campagna, dove entrambi vengono aggrediti da cinque teppisti che violentano e derubano la ragazza. Non più vergine, respinta dai parenti, disonorata e senza mezzi per campare, si rifugia all'Asilo Mariuccia. Maria, diciassettenne, arriva al ricovero dopo una divergenza con la madre che vorrebbe iniziarla alla «vita», un modo facile e redditizio per tirare avanti in due, ma lei rifiuta e scappa. Fernanda, invece, lavora in una stireria, dove è oggetto delle attenzioni dei clienti; la madre, fuori casa tutto il giorno a lavorare, preferisce consegnarla all'istituto. Povere ragazze, vittime dell'insaziabile brama dei maschi, colpevoli e incapaci di resistere alla prepotenza dell'istinto. L'Asilo Mariuccia ospita anche piccole senza famiglia, raccolte prima che accada il peggio. Come Germana, undicenne, orfana di madre e con il papa' richiamato alle armi. O Teresa, figlia illegittima, abbandonata dalla madre e ospitata da una zia che la lascia violentare dal suo pensionante. Qui finiscono bambine prese dalla strada, dove hanno intrapreso la carriera, se non dopo uno stupro, probabilmente per fame. Molte non ricordano neppure la prima volta, altre ignorano quando hanno contratto la malattia venerea che le affligge. Sono troppo inesperte per
sapere che i maschi vogliono una cosa sola, e per questo non sanno difendersi. E talvolta pensano che essere possedute sia del tutto naturale, il destino di ogni femmina, forse perfino un onore. Il fatale egoismo maschile Qualche censura, modici castighi o l'impunità aspettano i seduttori. Nessuna rieducazione, naturalmente, è prevista per padri, cognati, zii, fratelli, amanti o clienti della madre, che sono gli abituali assalitori delle bambine. Obbediscono all'istinto, e la società ottocentesca contempla un blando diritto all'uso maschile della proprietà - e che cos'altro sono le donne di famiglia? - anche se la legge condanna sia lo stupro sia l'incesto. La giustizia però ha maglie larghe, le antiche usanze sono difficili da sradicare, l'omertà resiste. A Milano, nei primi anni del Novecento, le tre sorelle Caterina, di undici anni, Giuseppina di nove e Romana di otto sopportano in silenzio se il padre le porta nel letto, una dopo l'altra, ma sembrano terrorizzate allorché il fattaccio viene scoperto dalla maestra, e tutto il vicinato ne viene a conoscenza. Alla violenza, in questo caso, si aggiunge la vergogna. Il «fatale egoismo maschile», come lo definiscono le buone signore dell'Asilo Mariuccia, incontra facilmente la compiacenza dei magistrati. Nel 1909 i giudici della Corte di cassazione giustificano un fidanzato che possiede una minorenne contro la volontà di lei, perché realizza una «semplice congiunzione carnale», non commettendo «atti turpi». L'opinione comune non approva, ma accetta tacitamente il diritto dell'uomo di fare sua la donna, anche se bambina. Lei, di solito, non può sottrarsi: le hanno insegnato a obbedire, ad avere soggezione degli adulti e in particolare degli uomini. Ovunque siano i maschi, una fanciulla è in pericolo. «Cadere vittima del fatale egoismo maschile» è un evento che può verificarsi in qualsiasi momento. Per Carolina, che consegna la biancheria stirata a domicilio, tutto comincia quando bussa alla porta del signor Tibaldi che, una volta ritirati gli indumenti, si serve di lei e le da quattro lire. Quando la padrona della stireria viene a saperlo la licenzia perché ormai è una ragazza corrotta, ma si guarda bene dal farne parola al signore, perché il cliente ha sempre ragione. Ormai però Carolina ha imboccato una strada redditizia e viene acchiappata poco dopo dalle forze dell'ordine, a quattordici anni, mentre adesca i passanti a Porta Genova. Sono più esposte al rischio di perdere la verginità e di scivolare nel vizio le orfane, le bimbe senza fratelli maggiori o zii, le ragazze povere di città; sono meno esposte quelle che hanno due genitori per bene, un padre muscoloso, una mamma in casa, fratelli grandi e grossi. Certo, le giovani di campagna possono essere stuprate su un sentiero, nei campi, o anche nel letto dei genitori, ma nei villaggi il controllo dei parenti e della comunità è ancora vivo. Il seduttore o lo stupratore può sfuggire alla giustizia, tuttavia non si potrà sottrarre alla riprovazione generale, dovrà sottomettersi al matrimonio riparatore, oppure a un risarcimento. In città, invece, le fanciulle si trovano allo sbaraglio, abbandonate a se stesse; vanno a lavorare non appena sono in grado di portare a casa qualche soldo, e il solo vederle rappresenta per i maschi una tentazione. Nessun luogo di lavoro è sicuro: in sartoria i mariti delle clienti, in stireria i clienti stessi, in negozio gli avventori storcono il collo per sbirciare una caviglia, allungano le mani per concedere una carezza e far scivolare una moneta. Qui le giovani sono a contatto con donne più grandi, smaliziate o addirittura disoneste, che non hanno scrupoli a improvvisarsi mezzane. O sono gli stessi genitori che, disperati per la fame, cedono le figlie al primo offerente. La novità del ventesimo secolo sta nella nuova sensibilità verso il sesso e le sue conseguenze sociali. Il «fatale egoismo maschile» si scontra con le ragioni della civiltà. Il problema delle povere ragazze balza in primo piano e subito schiera due opposti pareri: da una parte quello di uno stuolo di maschi cinici, lascivi e conservatori, dall'altra quello dei filantropi di entrambi i sessi, impegnati a tutelare l'integrità dell'infanzia. Mentre i primi difendono un costume antico e radicato, i secondi si battono per le bambine, in nome dei diritti dei deboli, dell'ordine sociale, della sopravvivenza della famiglia. Questi ultimi si dichiarano nemici della prostituzione: una bambina cui il padre ha rubato la verginità, infatti, andrà sicuramente a
ingrossare l'esercito di venditrici di sesso e a gonfiare il numero dei sifilitici. Il lurido commercio deve finire, tanto più che nei primi anni del Novecento è convinzione diffusa che, come tutti gli affari in un'epoca di sviluppo forte e tumultuoso, anch'esso abbia assunto le caratteristiche di un'organizzazione su scala industriale. A Milano, al volgere del secolo, si costituisce il Comitato contro la «tratta delle bianche». Questo mercato, tuona Rodolfo Bettazzi, un professore del liceo Cavour di Torino che nel 1902 fonda la Lega per la moralità, «rinnova e supera gli orrori» della tratta dei negri che ci vantiamo di aver abolito. Cresce la denuncia dei fattacci, sorgono gruppi a difesa delle fanciulle, si discute delle cause (è la miseria? è una vocazione? è la promiscuità degli alloggi? è l'ignoranza?), si comincia a propagandare la purezza anche a beneficio delle classi più povere, ci si interroga sui metodi più efficaci per mettere fine a una simile vergogna. Forse è il destino naturale della donna, fin dall'infanzia, quello di «esser preda dell'uomo»? Cesare Lombroso diceva che la prostituta è una criminale nata. I seguaci di Lombroso credono al ricovero in istituti di correzione e di punizione, mentre altri puntano sulla rieducazione e sul lavoro. Quando, nel 1911, Rodolfo Bettazzi tiene una conferenza all'Unione dei giovani cattolici milanesi, i termini della questione gli sono chiari: la sensualità irrefrenabile del maschio, invece di guidare e onorare la donna, lo spinge a sedurre le giovani innocenti e «costringe donne sventurate a vivere in case vergognose, riducendole femmine senz'anima, ministre di piacere, quasi senza speranza di resurrezione, e impone loro odiosi regolamenti governativi che le avviliscono e le ribadiscono nel male». Qualcuno fa i calcoli e si accorge che gli uomini muoiono in guerra e sul lavoro. Le donne, fortunate loro, vivono di più. Su tali basi aritmetiche, il sovrappiù femminile deve cavarsela in qualche modo, in «quel modo». Sarebbe questa la causa positiva della prostituzione: «Nella razza umana, in cui le donne hanno tendenza a esser più numerose degli uomini... e si trovano in condizioni di vita così precarie e dipendenti, furon le donne che ebbero bisogno dell'uomo» afferma Paola Lombroso. Inesorabilmente deboli, dunque, le fanciulle camminano sul filo del rasoio e vanno protette. Il pessimismo non risparmia i riformatori: sì, è il destino naturale delle donne, afferma Roberto Mi-chels, quello di essere prese, perché l'uomo brama le donne, tutte le donne. È difficile educare o rieducare i maschi - ma i riformatori non lasciano intentata questa soluzione con un forte appello alla castità - mentre è meno complicato, e anzi indispensabile, tutelare le femmine. La bandiera della purezza Lo spettacolo delle povere ragazze, con il suo corollario di pietà e sollecitudine, così caratteristico del primo decennio del Novecento, impone un intervento collettivo a loro difesa. Gli avvertimenti alle bambine, l'intervento degli insegnanti, la premura dei filantropi diventano una consuetudine, un dovere civile. Inizia così un processo, destinato a durare per quasi tutto il secolo, imperniato sulla propaganda della verginità e sulla regola della sorveglianza, che dalla classe media si estende nel corso dei decenni alle classi più povere e più incolte. Una buona famiglia si distingue per come educa la figlia, tenendola in casa, come un prezioso fiore di serra, da consegnare intatto allo sposo il giorno delle nozze. L'idea che una donna, sia pure piccola, non è un oggetto disponibile ma una persona che ha a sua volta un diritto di esistenza e una possibilità di scelta comincia lentamente a mettere radici. Fuori di casa, ogni contatto impuro è più che probabile, e quindi va scongiurato. Della sua infanzia agiata, Elda Mazzocchi Scarzella, nata nel 1904 e fondatrice, nel 1945, del Villaggio della Madre e del Fanciullo, ricorda in Percorso d'amore come ha fatto conoscenza con il mistero dell'altro sesso: «Un uomo uscì da un cupo vespasiano impugnando il grosso pene violaceo. Mi aggrappai al braccio della mamma; dovevo essere piccola per aggrapparmi. Il senso di paura scomparve al contatto del suo braccio, ma mi rimase dentro una sconosciuta sensazione di disgusto». A differenza di Eugenia, Elda è stata educata bene, e ha già acquisito l'orrore per la violenza, il timore del maschio: vale a dire il primo baluardo di difesa della purezza e dell'onore. Non è una vocazione, quella della prostituzione, sostiene Michels, e solo una minoranza
delle donne che la praticano è composta da viziose. La maggioranza è viceversa spinta a vendersi dalla miseria e dalla mancanza di lavori onesti. Poiché troppe ragazzine sono costrette a esercitare mestieri rischiosi in quanto a contatto con il pubblico, sarebbe opportuno proibire alle figlie di servire nei locali, nonché di esibirsi sul palcoscenico come attrici o ballerine. Se l'istinto dell'uomo è considerato un fatto naturale, viene ritenuto invece contro natura che una giovane donna sia consegnata alla vista e alla libidine pubblica, per esempio, in ufficio o in fabbrica. La sedicenne Rina Faccio viene sedotta, appunto, da un collega, una sera in cui l'ufficio è deserto: «Le labbra di lui scesero sulle mie. Non mi svincolai... La mia vita di fanciulla era finita» racconta quando, parecchi anni dopo, intraprende la carriera letteraria con il noni de piume di Sibilla Aleramo. Ragazza di buona famiglia borghese, Rina è costretta a sposare il seduttore e il disinganno è tragico: la lettura dei romanzi le aveva presentato l'amore come un'esperienza elevata, ben diversa da «quella che mi aveva colpito disgustosamente: immaginavo un compenso avvenire di ebbrezze ineffabili che avrei goduto da sposa». Qualche volta è possibile rivolgersi alle forze dell'ordine. È una magra soddisfazione, se ormai l'irreparabile è compiuto. A Imola, nel 1900, Emma ha vent'anni e il vicebrigadiere Antonio è innamorato di lei. Nel rapporto di polizia si legge che egli «sul mezzodì si recò a casa della Emma e attese il suo ritorno dalla scuola di stiratrice ed essendo rimasto solo con essa cominciò a palpeggiarla, quindi acceso dalla brama di farla sua la sdraiò sul letto e si congiunse carnalmente con essa». Resistere è fuori discussione. Non è una pura questione di forza fisica; Eugenia, Cora, Bruna, Carolina, Rina, Emma e le altre nutrono una profonda soggezione dei maschi che le assaltano. A questo sono state addestrate: subire, sottomettersi. Il recupero inizia se inizia - soltanto quando apprendono che al sesso senza matrimonio è obbligatorio dire «no», opporre un rifiuto fermo e coraggioso. La più fulgida delle povere ragazze si chiama Maria Goretti. Appartiene a una famiglia di contadini poveri, di origine marchigiana, trasferiti nell'Agro Pontino dopo le prime bonifiche. Viene aggredita nell'estate 1902, a dodici anni, da un ragazzo poco più grande di lei. Gli resiste, lui la trafigge con un punteruolo e la uccide. Muore casta, la piccola Maria che, lì per lì, viene compianta come altre vittime dell'istinto prepotente del sesso maschile, come altre protagoniste dei fattacci di cronaca nera. Più tardi, però, il suo esempio verrà largamente propagandato dalla Chiesa per convincere le fanciulle che la verginità è il bene più caro, e che va difeso a costo della vita. Ma il flagello delle povere ragazze continua a imperversare. Il partito dei clienti, mossi dalla voglia, dalla prepotenza e dalla tradizione, non accenna ad assottigliarsi. Il maschio adulto, di solito, non vede scandalo in questo semplice servirsi di un ben di Dio, meglio se intorno alla freschezza dei dieci anni. Tanto più che, come abbiamo già ricordato, una diceria diffusa insegna che la congiunzione carnale con una vergine guarisce all'istante da ogni malattia venerea. Una brava ragazza non si lascia «fare», sostengono i seduttori, convinti che se l'istinto maschile è quello della caccia, quello femminile è della civetteria. Per molti maschi, si tratta di un «credo», e vanno in cerca delle più pudiche e ingenue, sicuri che pudicizia e ingenuità rappresentano nient'altro che la maschera, mentre il volto vero è la lascivia. Siamo proprio certi che la piccina non abbia in qualche modo allettato, lusingato il desiderio virile? Nel libro Le adolescenti, del 1909, una galleria di ritratti infantili e una rassegna di avventure erotiche, Mario Mariani si fa portavoce delle legittime - a suo parere - pretese della categoria, ovvero del punto di vista di padri o cognati vogliosi, di avvocati, commendatori, ufficiali e signori con la barba bianca. Quelle bimbe sono furbette, adescatrici, avide e maliziose: è vano resistere agli allettamenti. La vera vittima è il pover'uomo che incontra una graziosa fanciulla come, per esempio, Gina: «Una bambina di undici anni, senza cappello, con una treccina nera giù per le spalle, andava piano, con il nasino all'aria.... Le undicenni che vanno piano, con il nasino all'aria, sono sospette.... L'ho seguita. Allora mi sono accorto che aveva le sottanine molto corte e le calze di seta e le scarpette di pelle lucida». Gina si volta e sorride, a segnalare che la via è libera. Il nostro eroe, che finora ha usato solo lo sguardo, si fa
avanti e allunga le mani. Vanno ai giardini, dove si appar tano, mentre lei confessa di essere del mestiere (già si capiva dalle calze e dalle scarpe costose): abita a Greco, ma lavora a Milano consegnando la biancheria a domicilio. Danno inizio al traffico e lui è estasiato quando, ai primi approcci, si accorge che Gina indossa le mutandine abbottonate, così infantili, così attraenti. Quattordicenne, Maria Veraldi - un'altra delle ragazzine di Mariani - si è concessa a un amante che descrive in questo modo la seduzione: «La mia mano accarezzò le gambine sottili, incespicò nei merletti delle mutandine, salì avida verso tepori e tenerezze chiuse e misteriose. Ella lasciava fare, felice.... Godevo di vederla godere e la baciavo, la baciavo sulle due bocche e più a lungo sulla più ardente, per ore e perdutamente, fino a farla svenire di dolcezza». I seduttori restano, in pratica, impuniti. Il Codice Za-nardelli prevede per lo stupro una pena da tre a dieci anni. Ma quante lo denunciano, se è convinzione comune che la vittima se lo è cercato, oppure quanto meno meritato, con un consenso tacito o esplicito? All'eventuale processo, dicono i giuristi dell'epoca, occorre dimostrare di aver opposto all'assalitore «grida o atti di forza», e l'aggressore, di solito unico testimone, ovviamente nega tutto. Un pregiudizio ancora piuttosto diffuso afferma che, per ottenere il concepimento, è necessaria un'attiva partecipazione femminile alla copula. Ogni ragazza madre, dunque, non può essere stata stuprata. Se l'è voluto e perfino goduto. I confini tra seduzione e violenza carnale sembrano invisibili. Spesso lui e lei si conoscono e magari hanno «percorsa, con mutua soddisfazione, l'intera via voluptatis», osserva Roberto Michels. Ingenua, la ragazza non sa che il desiderio maschile è inarrestabile, e magari «indietreggia sbigottita» quando ormai è troppo tardi. La virtù se n'è andata, in un batter d'occhio si consuma una tragedia esistenziale e, aggiunge l'illustre studioso con una nota caduta di linguaggio, come dice un noto proverbio, «e... duro non ragiona». La pena massima prevista per i corruttori di minorenni, nel Codice Zanardelli, è di due anni e mezzo. I giuristi si dilettano a discutere se, per avere un reato vero, sia necessaria Yimmissio penis in vaginam; se sia indispensabile appurare che c'è stata libidine - e senza libidine che reato sarebbe? - e, infine, se la copula priva delle nozze sante e benedette non costituisca comunque e sempre un reato. Quasi tutti se la cavano, tranne un prete, don Bueti, incappato nella ventata di anticlericalismo fin de siede: amante della cugina minorenne, il sacerdote viene riconosciuto colpevole di corruzione. Fino allo scoppio della Grande Guerra, quando subentrano altre urgenze, l'allarme per le povere ragazze non si placa. Nel 1911 il criminologo Luigi Ferriani calcola che su 100 ragazze meridionali trasferite in città 12 sono rimaste oneste, 7 sono maritate, 47 corrotte, 25 fanno le prostitute nei bordelli e 9 sono ragazze madri o infanticide condannate. Le ragazzine sono anche capaci di adattarsi a questo destino, e imparano a muoversi nel percorso accidentato delle trappole maschili. Per esempio, alcune sartine torinesi, che sono oggetto di attenta osservazione da parte di Roberto Michels: «Uomini corrotti, appartenenti ai ceti superiori... [le] impegnano in un commercio sessuale discreto e non compromettente» ma redditizio. Il primo approccio si svolge in sartoria, o nella strada; è pattuito un compenso e si stabilisce che la prestazione non intaccherà la verginità (si tratta probabilmente di coitus intra femora, di sesso orale o manuale, o altri espedienti). Queste sartine, conclude Michels, hanno una segreta «duplice funzione sociale» in quanto incassano il salario ufficiale da sarte (o ricamatrici o pizzettaie) e il salario «nero» del commercio sessuale. Sono perciò doppiamente condannabili, perché si prostituiscono e insieme contribuiscono a deprimere il salario di tante brave ragazze che, al contrario, conservano una genuina virtù. Le povere ragazze, vittime della cupidigia maschile, trovano in questo caso una via d'uscita. Si sposeranno, con una discreta dote, e avranno tanti figli, così, almeno, la faccia della virtù rimarrà intatta. A Civitanova, negli ultimi anni del secolo, Sibilla Ale-ramo osserva che «molte ragazze si vendevano, senza la costrizione della fame, per la smania di qualche ornamento; a quattordici anni nessuna rimaneva del tutto ignara. Ma restavano in casa, ostentando il candore, sfidando il paese a portar prove contro la loro onestà. L'ipocrisia era stimata una virtù».
Nessuna torna indietro Provocante o provocata, una giovane può scivolare nel peccato in qualsiasi momento. Per le ospiti dell'Asilo Ma-riuccia, come si è visto, la verginità si perde in casa, in strada, nei sottoscala o ai giardini. Il canapè e la carrozza sono invece i luoghi dove usualmente una ragazza piacente dice addio all'innocenza. Mimi Bluette, racconta Guido Da Verona, viene presa appunto sul canapè: «Perdette la sua verginità... una sera del mese d'aprile, per uno di quei tanti casi accidentali che toccano alle vergini, le quali sono per natura destinate a non esserlo più». La mamma l'aveva avvertita: «Con quei tipi, mia cara, bisogna stare attente ai canapè!». Polette, una delle zies de pie immaginate da Umberto Notari, si concede all'impresario teatrale che la corteggia durante un «lungo giro» in carrozza, poiché il «giro breve» si era rivelato insufficiente. «Divina complicità delle vetture chiuse!» invoca Dindymus su «La Voce» nel 1915. Egli immagina di incontrare il suo primo amore, «non più quella dispettosa e impacciata gracilità di ragazza, ma una formosità viva, cordiale, di sposa», di spingerla in una vettura chiusa, poi baciarla sull'orecchio e cominciare una manovra esperta finché lei «sia tutta sgomenta, esagitata, ossessa». Sappiamo cosa accade nelle carrozze chiuse. Ai metodi sinuosi di d'Annunzio, Dindymus preferisce l'attacco frontale, a differenza di «taluni che, per far capitolare una donna, si valgono di una quantità d'insidie e tranelli, come invitare la vittima a veder delle stampe antiche o ascoltare della musica di Schumann eseguita da lor scellerate mani. Io, invece, vado per le spicce e oneste. A colei che bramo non propongo che la grandezza del mio desiderio». Il canapè segna un confine irrevocabile. E a un pugno di fanciulle redente dell'Asilo Mariuccia, fa da contrappeso una folla di ragazze che non conoscono la via del ritorno. Persa la verginità, molte non si rialzeranno mai più. Sedotte e quindi abbandonate, un solo futuro le aspetta: la prostituzione. Nessun genitore, nessun educatore lo insegna esplicitamente - di «quelle» e di sesso si tace sempre -, ma la letteratura e la canzonetta lo fanno capire in maniera convincente. Nel 1918 Armando Gil scrive Come pioveva, un motivo malinconico di grande e duraturo successo, in cui si racconta di due amanti che si incontrano dopo tanto tempo, rifugiandosi «per la pioggia in un porton». Così «il ricordo del passato fu per lei il più gran dolor / perché al mondo aveva dato la bellezza ed il candor», e i due, ancora innamorati, si lasciano perché lei è indegna: caduta una volta, non sarà mai una moglie e madre esemplare. Nel 1916, quando Guido Da Verona pubblica Mimi Bluette, fiore del mio giardino, assicura che l'eroina «aveva camminato fra il vizio ed era il vizio, ma pareva che nulla di tutto ciò le fosse giunto fino al cuore». Però nessun destino lieto attende la protagonista, che muore per amore, dopo una vita agitata e intensa. È forse preferibile questa sorte a quella di moglie piccolo borghese e di madre prolifica? Anche Marchetta, nome d'arte di Anna, protagonista di Quelle signore, scivola per leggerezza e non tornerà indietro. Anna cede al fidanzato, che poi si stanca «lasciando il conto aperto e insoluto». Da allora lei si impiega proficuamente nelle case di tolleranza, dove incontra spesso uomini che vogliono redimerla, non senza averne goduto prima i favori. Marchetta ci prova, una volta sola, a tornare sulla retta via, per amore della figlia. Va a vivere in campagna con la bimba, che però si ammala di difterite e, poiché la madre non ha i soldi per acquistare le medicine, muore. Marchetta torna nel bordello, perché deve pagare a vita il prezzo di quell'antico scivolone. Le povere ragazze di campagna che vanno a servizio in città non sono affatto esenti da questo rischio. A cavallo dei due secoli è uso delle famiglie benestanti preferire cameriere giovani e carine, ma soprattutto orfane e figlie uniche. Se non c'è in vista padre o fratello che possa difenderne l'onore, la giovane viene assunta come «tuttofare»: pulisce, spazza, spolvera, stira, cuce, cucina e si presta agli appetiti carnali del signore o del signorino. Un paradiso per i maschi, una pena per le ragazze. In caso d'incidente, se cioè la giovane resta incinta, viene licenziata. Senza verginità e senza lavoro, con un figlio in collo, la poveretta ha davanti a sé una sola carriera sicura: ancora una volta la prostituzione. Non è giustizia quella che consente all'uomo di fare qualsiasi cosa gli piaccia, da scapolo, da marito, da padre, osserva Rodolfo Bettazzi, mentre «la donna, alla minima caduta, se non
troverà i rigori della legge, troverà quelli della pubblica opinione». Ne sa qualche cosa Maria Montessori, nata nel 1870, medico e pedagogista, una donna indipendente e colta. Nel 1898 da alla luce Mario, figlio dell'amore proibito con il collega Giuseppe Montesano. Maria e Giuseppe non intendono sposarsi, lei non vuole rinunciare agli studi e alla carriera. Della nascita di Mario nessuno è al corrente nell'ambiente professionale dei due genitori, l'onore e la carriera sono salvi. Il bimbo viene nascosto, affidato a una famiglia presso la quale rimane fino all'adolescenza. La madre naturale si reca di tanto in tanto a trovarlo, senza mai rivelare quale rapporto la leghi a lui. Quando Mario ha quindici anni, Maria lo prende con sé, ma ancora non ne dichiara la vera identità. I due resteranno sempre insieme, fino al 1952, anno della morte di Maria, pedagogista di fama mondiale e madre nubile clandestina. Non c'è bisogno di cercare a lungo quali danni infligge il fenomeno delle povere ragazze all'ordine sociale: è enorme il numero di nati illegittimi all'inizio del secolo, un numero che si gonfia negli anni del decollo industriale e dell'afflusso in città. E crescerà ancora con il disordine generato dalla Grande Guerra. A differenza di quanto accade in campagna, in città è molto più difficile identificare il padre, rintracciarlo e costringerlo al suo dovere, alle nozze riparatrici che, salvando l'onore, danno un nome al figlio e cancellano la vergogna dell'intera famiglia. Se in campagna l'infanticidio sostituisce tragicamente la contraccezione, in città è più complicato sbarazzarsi dei neonati senza essere scoperte. La ricerca di paternità è proibita dalla legge, con l'eccezione dei casi di stupro e di rapimento, e le madri non possono riconoscere legalmente i figli naturali (cosa che, in alcune regioni, era consentita prima dell'unificazione d'Italia e che è permessa a Trieste, città asburgica, fino al 1918). All'inizio del Novecento le nascite illegittime ammontano al 12-16% di tutte le nascite, con una punta massima nel Lazio che vede un quinto di illegittimi sul totale dei nati, e un minimo in Lombardia dove 1 su 100 nasce fuori dal matrimonio. Con il passare degli anni, i riconoscimenti da parte dei padri tendono a crescere, e le diversità tra le varie zone della penisola si attenuano. Funziona ancora la ruota, l'arcaico sistema della consegna del neonato ai conventi e alle chiese, attraverso un pertugio che garantisce l'anonimato dell'offerente. Poi, nel 1907, l'usanza viene abolita. Nel 1911 Ada Negri scrive un racconto, «Il figlio», e invoca che sia riconosciuto a una giovane nubile quel che è permesso a un maschio: avere figli senza nozze e senza scandali. Ben lontano dall'ammettere la ricerca di paternità o il riconoscimento legale da parte della madre, o ancora l'uguaglianza anagrafica dei cosiddetti «bastardi», l'ultimo governo democratico prima della dittatura fascista prepara una legge per l'assistenza agli illegittimi. Si tratta di istituire un ente che si prenda cura delle madri nubili e dei bimbi. Nel tumultuoso dopoguerra al Parlamento manca il tempo di realizzare questa innovazione e sarà quindi il fascismo, nel 1925, a dare vita all'Opera nazionale maternità e infanzia. Il problema permane: le povere ragazze continuano a essere oggetto di violenza e poi di discriminazione, anche se l'accoppiamento non l'hanno né cercato né voluto. Esistono anche giovinette che s'imbattono in un colpo di fortuna: per loro la perdita della verginità, a differenza di quanto dicono educatori e moralisti, è l'anticamera del matrimonio e di una vita stabile e serena. Si tratta di incontrare l'uomo giusto che, pur avendole iniziate al «vizio», accondiscende a salvare la reputazione. Nel 1920 Bernardo ha soltanto diciottanni, ma non ha resistito alla passione per la sua ragazza. Hanno fatto l'amore d'impulso: «Ero così innamorato e dal momento che lei era rimasta in stato interessante, per far le cose per bene decisi di sposarla». Tuttavia neppure il matrimonio riparatore rappresenta sempre e comunque una buona soluzione. Può rivelarsi, come diceva Anna Kuliscioff, una forma di prostituzione legalizzata. Alle ragazze, prima che cedano alla tentazione o all'insistenza del fidanzato, si rivolge Michels, e le ammonisce che «nei matrimoni conclusi a mezzo di minacce e di pressioni di ogni sorta, esse non guadagnano un gran che». Sono oggetto di compassione anche le ragazze che, presa alla lettera la raccomandazione della purezza, non hanno mai trovato un marito. Il matrimonio costituisce infatti l'approdo
giusto e obbligato di ogni donna: chi non raggiunge tale traguardo ha fallito e merita la pietà altrui. Le povere ragazze vergini si chiamano zitelle, non sono oggetto di disprezzo e di rimprovero, ma sono compatite non meno delle altre che la verginità l'hanno perduta. Può trattarsi di una nubile borghese, per la quale «la conservazione della verginità è il risultato di un'assidua vigilanza, e di una condizione soddisfacente di abitazione». Oppure sarà una ragazza che non gode di buona reputazione e nessun giovanotto vuole accollarsi il rischio di trasformare in sposa e madre una creatura dalla moralità vacillante. Può essere una cameriera, profondamente affezionata alla famiglia padronale, paga di allevare un paio di generazioni di bambini non suoi. Nelle classi lavoratrici lo zitellaggio è meno diffuso, perché i ragazzi non hanno altro sfogo per la libidine se non il matrimonio. Insomma, all'inizio del Novecento, l'unica soluzione al pericoloso dilagare del sesso e alle terribili conseguenze che si abbattono sulle povere ragazze, sembra la morigeratezza dei costumi: purezza per le giovani, castità per i giovani è la raccomandazione dei riformatori che vogliono l'ordine senza cambiare le regole sociali. Alle ragazze si dice a chiare lettere che la verginità è una cosa seria, una barriera che, una volta crollata, non consente ripensamenti. Chi ha sperimentato il sesso, non potrà farne a meno e lo sperimenterà di nuovo. Non importa se è stata sedotta, presa con violenza o con astuzia. Non fa differenza se non l'ha voluto, le conseguenze ricadono interamente sulle sue spalle. È un messaggio terrorizzante che comincia a farsi strada nel mondo femminile, ma il terrore rappresenta l'unico strumento efficace: una vita miserabile attende la fanciulla che ha trasgredito. La purezza diventa parte integrante della formazione femminile in tutti i ceti, la scelta più sana e più saggia vede l'amore soltanto nel letto coniugale.
III GLI INVENTORI DEL SESSO Che sia stato il filosofo francese Auguste Comte a coniarla, dopo il 1860, oppure il dermatologo tedesco Iwan Bloch parecchi anni dopo, o altri ignoti sapienti, la parola «sessualità» entra nei vocabolari delle lingue europee ben prima che tramonti l'Ottocento. Forse vi entra, ancora una volta, per colpa delle donne: uno studio del 1889, infatti, osserva che esistono malattie delle quali esse sono vittime, forse a causa della loro «sessualità», che è tortuosa e nascosta, tutta diversa da quella, semplice e diretta, del maschio. Bisogna studiare il sesso, senza vergognarsi di curiosare in una materia tanto delicata. Non è interesse morboso, ma una questione igienica e morale. In questo modo i comportamenti sessuali, che erano segreti, stanno venendo alla luce. È necessario comprendere meglio che cos'è il sesso - necessità fisiologica, vizio, piacere - perché il suo nuovo dilagare ha conseguenze, anche nefaste, sul vivere sociale. Una volta tanto, gli studiosi italiani non sono affatto isolati né provinciali. Anzi, in questo dibattito, che attraversa le frontiere, occupano una posizione centrale e universalmente rispettata. Negli anni tra il 1880 e lo scoppio della Grande Guerra la fioritura di studi e di idee, di scoperte e di proposte raggiunge livelli mai visti in precedenza. L'impegno degli studiosi ruota intorno a un primo, fondamentale interrogativo: il sesso è un vizio? Nei primi anni del Novecento, Gemma Muggiani, una benefattrice milanese che assiste le ragazze perdute ed è tra le fondatrici dell'Asilo Mariuccia, deplora la malvagità e l'appetito maschile, che alimentano la prostituzione e ne nutrono i disastri. Ci sarà pure un rimedio! Perché non ricorrere, suggerisce la buona signora, all'«atrofizzazione del sesso, causa di tanta miseria»? Rodolfo Bettazzi si schiera dalla stessa parte: il sesso è un male, la sua pratica porta solo guai. Il 26 marzo 1911, nella citata conferenza presso l'Unione dei giovani cattolici milanesi afferma: siamo nell'«epoca dei grandi ardimenti della scienza e delle grandi audacie del pensiero.... Questa ascensione di umanità non è sempre ordinata», ma può condurre a uno «scadimento delle coscienze», turbate dal malcostume, e tentate di cedere alla corruzione che si presenta con i due volti della gola e della sensualità. Abbiate dunque il coraggio di «una santa ribellione al male», esorta Bettazzi, come cattolici schieratevi in prima linea, al posto d'onore. Ma c'è anche chi non considera il sesso un vizio. Margherita Sarfatti ricorda che «i perfidi anni Novanta tagliavano i ponti con la rigidità puritana del periodo vittoriano», dove il sesso era una vergogna nascosta, la famiglia marciava sotto l'egemonia incontrastata del maschio e le donne, mogli e madri, stavano al posto assegnato dalla natura. La Belle Epoque scatena i sensi e ne offre spettacolo, come se la sensualità fosse diventata un legittimo passatempo. Se Bettazzi non si muoverà mai più dalla sua convinzione, c'è chi ritiene che, opportunamente addomesticati, gli istinti offrono a uomini e donne una possibilità di essere felici. Al convegno de «La Voce» del novembre 1910 risuonano per esempio opinioni meno bellicose. La platea è affollata di nomi illustri, come Giuseppe Prezzolini, Paolo Orano, Gaetano Salvemini, Ersilia Majno Bronzini, Roberto Michels e altri. Il convegno ha un'impronta scientifica e sociale, e i partecipanti affrontano la questione con spirito laico e razionale. Discutono di diritti e doveri, di controllo delle nascite, di continenza e castità, di difesa dalle malattie veneree, e proclamano che «per risolvere la crisi sessuale contemporanea occorre liberarsi di quei pregiudizi che hanno fatto finora ritenere un male la vita sessuale e l'amore come qualcosa di vergognoso e di peccaminoso». Il dibattito, percorso da una forte tensione morale, fa emergere pareri diversi e, come osserva uno dei partecipanti, non manca «un elemento idealistico, che renderà preziosi servigi, quali mai saprebbero rendere da soli i meri materialisti». Il sesso, fonte di corruzione, si avvia così a diventare sorgente di virtù. Grazie ai riformatori, l'umanità non ne sarà più schiava, ma lo dominerà a proprio favore. Sono gli scienziati i primi a muoversi per appurare la natura e l'identità del sesso. E sono
certe novità, proposte proprio da loro, a indirizzare verso una revisione dell'antico credo. Quando, nel 1865, Gregor Mendel mette a punto le sue leggi sulla genetica, afferma che la combinazione dei cromosomi è casuale, e quindi è casuale la nascita di una femmina o di un maschio. L'origine del genere è dunque paritaria. È possibile - questa è una pura ipotesi - che le donne siano quasi uguali agli uomini. E non è colpa di una madre se genera soltanto femmine, gli eredi meno desiderati in una famiglia normale. Nel 1876, invece, Cesare Lom-broso pubblica L'uomo delinquente, e si dichiara convinto della predestinazione genetica: chi ha la fronte bassa non sarà mai un benefattore o un santo, ma un criminale, e chi è criminale non può redimersi. Ne La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, del 1893, identifica poi la massima espressione della delinquenza femminile: la prostituta, che è tale per costituzione «atavica e congenita». Una donna onesta non diventerà mai prostituta, dal momento che una prostituta è nell'impossibilità di riscattarsi. Che cosa le divide? Alla donna criminale quella tal cosa piace. La sessualità femminile, quindi, sarebbe una tara genetica, fonte di ogni male. La scoperta della sessualità e gli studi sull'argomento, dirà cent'anni più tardi Michel Foucault, sono tutti imperniati sulla volontà di tenere sotto controllo le persone, di regolamentarne i comportamenti, di mantenere la società ordinata. Mentre gli scienziati cercano i moventi più profondi, fisici e psichici, i moralisti vedono del sesso le manifestazioni nefaste che vorrebbero arginare, e i riformatori prendono atto di quello e di questo, per indicare volonterosamente la via del futuro. Rotto il silenzio che nell'Ottocento circonda la spinosa faccenda - sia pure nei circoli ristretti della scienza e della cultura, in un linguaggio astruso e frammisto al latino, tra censure e reticenze -, emerge un fatto: il comportamento sessuale umano è complicato, può cambiare nelle diverse circostanze, ma merita di essere studiato e capito più a fondo. Non è un caso che nel 1896 il Dizionario della lingua italiana di Bergoglio dia spiegazioni su una quantità di parole attinenti alla materia, che nei decenni successivi scompariranno, per riaffiorare soltanto dopo la metà del Novecento: pene, cazzo, clitoride, vulva, masturbazione, ninfomania, sono puntigliosamente registrati e spiegati. In quell'anno, forse, il sesso è un vizio, ma il sapere è una virtù. Quello giusto in migliaia di pagine C'è un posto, un solo posto, dove il sesso si spoglia della sua natura viziosa e corruttrice: il letto coniugale. Su questo la maggioranza concorda, con l'eccezione di un pugno di libertini e di qualche socialista che vagheggia il libero amore. Dapprima scienziati e moralisti non si discostano dal principio che ha retto la morale dell'Ottocento: esso ha funzione procreativa. Quindi, quello buono e giusto si fa in un modo solo: tra un uomo e una donna, nella posizione del missionario, nella sequenza di operazioni che costituisce il coito e comprende erezione, penetrazione, eiaculazione e fecondazione, meglio se in fretta, senza compiacersene. Al di fuori di questo copione nulla è permesso, tutto è schifoso. Anche tra coniugi, carezze, baci, abbracci e giochi erotici stanno ai confini dell'illecito. La pratica anale, orale, omosessuale, bestiale o solitària è puro orrore, e perciò l'area della perversione è molto vasta. Ogni racconto o rappresentazione, specialmente se diversa da quella canonica, si chiama pornografia. Eppure, affiora qualche dubbio. Lo schema rigido costruito intorno al sesso come vizio e alla famiglia come santuario comincia a sgretolarsi. Qualcuno si domanda se i numerosi perversi, cioè i fantasiosi, i trasgressivi, gli omosessuali, i masturbatori, siano criminali o malati. Come fenomeno genetico e irreversibile, la perversione sessuale era stata studiata da Cesare Lombroso, il quale era giunto alla conclusione che essa fosse il frutto di istinti criminali. Il masturbatore giovanile, se non viene fermato per tempo, si rivelerà poi un ladro o un assassino. Nel 1886 il tedesco Richard von Krafft-Ebing pubblica Psychopathia sexualis, opera presto conosciuta anche in Italia, dove espone invece idee innovative che esercitano una profonda influenza sui contemporanei. Krafft-Ebing costruisce un dettagliato catalogo del sesso diverso o perverso, e insiste sul fatto che le perversioni sono frutto di una tara fisica, hanno un'origine biologica o anatomica. Non si tratta perciò di istinti criminali, ma di patologie da
curare. A partire dalle malattie - quelle femminili hanno dato origine al concetto di sessualità - e dalle perversioni - che costringono a precisare che cosa sia il vizio -, la scienza compie i primi passi per dissipare l'ignoranza che circonda la materia e ne svela aspetti ignoti. Nel 1897 l'inglese Have-lock Ellis intraprende un'opera gigantesca, Studies in the Psychology ofSex, dove si propone di descrivere ogni manifestazione segreta, nessuna esclusa. Per tale motivo, e per la cura minuziosa dedicata al lavoro, impiegherà un trentennio a completarla. Grazie all'analisi dei comportamenti diversi da quelli considerati normali, lo studioso conclude che molte delle cosiddette perversioni sono innocue, e che lo sono certamente quando non comportano violenza sulla persona. Ancora più ardito, il tedesco Iwan Bloch avanza, verso la fine del secolo, un'ipotesi non convenzionale: la società moderna vuole imporre a tutti una sola morale, tuttavia non è escluso che, se i gusti sessuali inconsueti fossero liberi di esprimersi senza punizioni, le conseguenze sarebbero irrilevanti. Dai criminali di Lombroso alla libertà di comportamento di Bloch, passando per i passatempi innocenti di Havelock Ellis, la strada è lunga, ma in pochi decenni questa nuova scienza, la sessuologia, prende atto che non sempre il suo oggetto è un vizio, neppure quando è praticato in un modo che appare strano. Quando poi Sigmund Freud comunica al mondo che la sessualità è al centro dell'esperienza umana, che da quel cuore pulsante scaturiscono importanti conseguenze sulla formazione della personalità, sull'origine delle malattie mentali e sul comportamento individuale, ormai il modo di guardare la questione si è rovesciato: non si tratta più di una funzione biologica, né di un'abitudine viziosa. E piuttosto una naturale ed essenziale manifestazione della personalità, il pilastro sul quale si regge l'equilibrio fisico e mentale di una persona, uomo o donna. Se questo è vero, tutti hanno diritto a un'esistenza intima soddisfacente, per il bene individuale e per il bene dell'umanità. Intorno all'idea del sesso come diritto umano, si combatterà nei primi sessantanni del Novecento. Il vizio solitario Nel 1760 il medico svizzero Samuel Auguste Tissot aveva espresso una sua verità, destinata a diventare il credo di parecchie generazioni: masturbarsi fa male, provoca malattie dello stomaco e dei polmoni e, a lungo andare, perfino un tracollo del sistema nervoso. Sulle teorie di Tissot, a distanza di oltre cent'anni, la scienza presenta un fronte compatto: la masturbazione è un «innominabile vizio», uno dei più ostici avversari degli educatori. Chi cerca di sradicarlo, con qualsiasi mezzo, non farà mai abbastanza bene. Non è quindi soltanto questione di rifarsi alla Bibbia, la quale insegna che il seme maschile non va sparso inutilmente. L'infanzia, nella concezione romantica, è l'età dell'innocenza, dunque un ragazzo che si masturba non può essere che un malvagio e un perverso. Secondo il dizionario Bergoglio, la masturbazione è una «polluzione volontaria, abbominevole e nocevolissima abitudine di eccitare od accelerare la giaculazione voluttuosa dello sperma mediante il toccamento, lo sfregamento ed il dimenamento delle parti genitali». Insomma, è un abominio. Il «mostricino grottesco e schifoso», avverte Mantegazza, si corica accanto ai bimbi fin dalla culla. C'è anche dell'altro, a giustificare l'orrore per la masturbazione. Alla fine dell'Ottocento è in voga la teoria dell'economia seminale: nel corso dell'esistenza i maschi avrebbero una quantità data di sperma, una dotazione di «cartucce» fissa. Sprecare le munizioni, perciò, comporterebbe come conseguenza una sterilità precoce. Non tra le lenzuola, ma nel grembo femminile va depositato lo sperma. Sentenziano inoltre alcuni scienziati che il pallore adolescenziale, del quale certi genitori si preoccupano, non è che il sintomo di una grave, irreparabile perdita di sperma e con esso di sostanze preziose, quali fosforo e proteine. Sullo «schifoso argomento» si riascoltano gli echi di cent'anni di presunta esperienza dei medici e degli educatori: oltre alle malattie dello stomaco e dei polmoni, già riscontrate da Tissot e confermate dalla pratica medica, questa «piaga della civiltà» provoca caduta della vista e perdita di memoria. Bisogna resistere alla tentazione di masturbarsi, perché l'abitudine a controllare gli istinti educa la volontà e tempra il carattere. Sarà quindi un grand'uomo quello
che fin da adolescente è riuscito a far fronte agli assalti della carne; sarà un debole, se non un criminale, chi soccombe al desiderio. Allo stesso modo della masturbazione vengono trattate le polluzioni notturne. Non si tratta di un evento casuale e involontario, ma di una colpa, poiché esse sono il risultato di fantasie oscene e morbose, il frutto delle impressioni ricevute dai ragazzi durante il giorno, cioè di cattive letture, compagnie malvagie, immagini proibite. Al pari dell'abitudine a masturbarsi, vanno sradicate al più presto. L'attenzione alla masturbazione femminile è meno intensa, sia perché si ritiene che le donne abbiano un «desiderio languido», e quindi siano meno soggette al vizio solitario, sia perché la perdita di sperma maschile è giudicata irreparabile. Comunque, per uomini e donne, al fine di combattere il problema si inventano i rimedi più crudeli: corde alle mani, sacchetti di ciottoli sulla schiena per impedire di giacere supini, vescicanti sparsi sul prepuzio o nella vulva, ma anche la castrazione e il taglio del clitoride. Una rivista per sacerdoti, molti dei quali insegnano nei collegi maschili, assicura che è utile che i ragazzi dormano con un asciugamano annodato sotto le reni, capace di risvegliare al primo allarme. Nei casi più ostici, è utile inserire una sonda metallica nell'uretra, oppure praticare un clistere di acqua fredda prima di coricarsi. È anche stato sperimentato, con buoni risultati, il cosiddetto «anello d'avviso», un cerchio metallico dentato da infilare intorno al giovane pene: quando inizia l'erezione, i denti mordono la carne e l'erezione si placa. Ai genitori si consiglia una quantità di espedienti: entrare in camera da letto all'improvviso, ispezionare le lenzuola per scoprire i reperti, interrogare i figli guardandoli negli occhi per capire se mentono. È uso proibire ai ragazzi di tenere le mani in tasca, impedire alle ragazze di scendere le scale a cavalcioni sul corrimano (e anche la bicicletta non è il mezzo di trasporto più consono alla virtù). Occorre fare attenzione alle cattive compagnie: a scuola è possibile incontrare compagni smaliziati che spargono zucchero sul prepuzio per farselo succhiare dai golosi. Le ragazze non vengono abbandonate alle loro cattive abitudini. Nel 1907 un medico, il professor Soltz, dedica a loro il Vademecum della giovane che entra nella vita pubblica, dove avverte che il «vizio impuro» può condurre al suicidio. Ogni mezzo è dunque lecito per strapparle alle nefaste conseguenze della masturbazione. L'orfana Cesira, quindicenne masturbatrice, è ospite della Congregazione di carità a Greco Milanese nei primi anni del secolo, ma le suore, che nulla possono per salvare la fanciulla, la trasferiscono all'Asilo Mariuccia, dove viene «curata» e «abbandona il vizio». Nel 1908 Paolo Mantegazza, rivolto ai maschi, classifica la masturbazione come un vizio peggiore del «mercimonio dell'amore»: «Cento volte meglio la gonorrea che la viltà della masturbazione, meglio la vergogna divisa in due persone di sesso diverso, che la vergogna cresciuta, cucinata e digerita in casa propria». Non serve che nel 1892 un dottore, Eriberto Aievoli, avanzi il dubbio che, se il giovane maschio si masturba, risolve il suo problema senza l'umiliazione del bordello e il pericolo costituito dalle prostitute. O che, nello stesso anno, Silvio Venturi affermi che l'abitudine a masturbarsi darà risultati positivi nell'età adulta, quindi farlo non è un vizio ma un esercizio. Questi punti di vista, nonostante l'evidenza delle malattie veneree, rimangono inascoltati. Aievoli e Venturi contano illustri colleghi all'estero, come l'inglese Mott o l'americano Sturgis, che spengono gli allarmi: la masturbazione è piacevole e gratificante e fa meno danni di una prostituta, specie se infetta. Ai primi del secolo, Freud spiega che anche i neonati cercano il piacere, che l'infanzia non è esente da sessualità. Il medico viennese deve far fronte alle accuse di essere egli stesso un pervertito, di vedere il sesso dappertutto e di voler rovesciare una morale secolare. Eppure, l'eco della voce di Freud suggerisce a qualche medico di riconsiderare le proprie posizioni: la masturbazione è davvero tanto dannosa? Occorre soppesare il danno fisico - ma è proprio vero che il «vizio solitario» provoca cecità e sterilità? - e quello psichico, perché anche la repressione di un istinto naturale non giova alla salute. È peggio provare un senso di colpa o essere vittime della nevrosi? Lo stesso Havelock Ellis consiglia di non esagerare con il problema della masturbazione, non è
così grave. Il dilemma, tuttavia, non esce dall'ambiente scientifico e quindi questa pratica rimane uno spauracchio per le generazioni a venire, ossessione dei genitori, passatempo clandestino dei ragazzi. Soltanto negli anni Venti Wilhelm Reich, del tutto controcorrente, dirà che non considera guarito «alcun malato che non sia in grado di masturbarsi senza senso di colpa». Ma di nuovo, quella di Reich sarà destinata a restare una posizione isolata. Mezzi uomini, mezze donne Se gli omosessuali non vengono arsi vivi, come nel Medio Evo, suscitano comunque ripugnanza nell'Ottocento che ama i ruoli, le gerarchie e le regole. Gli uomini devono essere tali, e le donne anche. In alcuni paesi europei, come la Gran Bretagna e la Germania, l'omosessualità costituisce un reato, a volte severamente punito. Nel 1895 Oscar Wilde è processato a Londra e condannato a scontare due anni di carcere per i suoi rapporti «contro natura» con Lord Alfred Douglas. In Italia no, l'omosessualità non trova posto nel Codice ma, come ogni pratica sessuale non finalizzata alla procreazione, è moralmente riprovata e può essere perseguita nel caso comporti offesa al pudore o corruzione di minore. Dei maschi omosessuali Cesare Lombroso scrive che «hanno una psicologia amorale e spesso criminale, e soprattutto strana», ma si dimostra indulgente quando afferma che non vanno temuti perché «i loro misfatti sono molto più limitati e si può star certi che cesseranno con la perdita dell'attività sessuale, cosa che non si può dire dell'uomo criminale, pericoloso fino all'ultimo giorno della sua vita». Krafft-Ebing, da parte sua, calcola che su dieci criminali uno è omosessuale. Come per altre perversioni, gli scienziati si domandano se si tratti di una colpa o di una malattia. Il sessuologo Karl Maria Benkert, che nel 1869 conia i due termini «omosessuale» ed «eterosessuale», studia i due comportamenti, arrivando a concludere che entrambi sono congeniti e non acquisiti. È un destino biologico a spingere verso il proprio o verso l'altro sesso, non una scelta. Ancor più benevolo si dimostra Mantegazza, quando definisce «mezzi uomini» i maschi omosessuali. Le parole «travestito» e «travestitismo», invece, entrano nell'uso degli studiosi grazie a Magnus Hirschfeld, omosessuale e progressista, che, dopo l'unificazione tedesca e la proclamazione dell'impero, si batte contro il mantenimento del Codice prussiano, severo con questo reato. L'Europa è divisa tra punizione, compatimento e derisione, tuttavia l'omosessualità è praticata nei collegi e nei seminari, tra le persone eccentriche e anticonformiste, tra gli adolescenti e i letterati. Perfino le donne, avvertono gli scienziati, frequentano carnalmente il loro stesso sesso, e la cosa è giudicata strana, quasi incomprensibile, dato il «desiderio languido» che, come abbiamo visto, viene considerato una prerogativa femminile. Nel 1898 Giulio Obici e Giovanni Marchesini rendono pubblico uno studio su Le amicizie di collegio. Ricerche sulle prime manifestazioni dell'amore sessuale, dove risulta chiaro che i rapporti teneri tra adolescenti dello stesso sesso rappresentano la norma. Due terzi delle ragazze intervistate hanno sperimentato «relazioni fiammesche», anche se non tutte culminano in un episodio carnale. Contro l'«orribile pratica che è la pederastia del sesso gentile» non servono rimedi, benché se ne siano sperimentati tanti, come bromuro, canfora, belladonna; non serve neppure la cauterizzazione del clitoride, lamenta Cesare Lombroso, perché il vizio risorge. L'omosessualità non trova difensori. E neppure rei confessi. Soltanto dopo la Grande Guerra, susciterà scandalo il racconto che Andre Gide fa della sua infanzia. Messo sotto processo in famiglia perché si tocca i genitali, il piccolo viene minacciato: «Se lo fai ancora, ti dovremo castrare», ed è quindi preda dell'angoscia e del terrore. Adulto, Gide difende la naturalezza dell'omosessualità e respinge ogni accusa di perversione, anche se, quando pubblica Corydon nel 1924, non incontra alcuna indulgenza nella Francia afflitta dal calo demografico: chi propaganda il sesso senza procreazione è un reietto, un criminale. Molto più tardi, nel 1953, Umberto Saba scrive il romanzo autobiografico Ernesto, dove narra un episodio adolescenziale. Il ragazzo sedicenne - siamo nel 1899 - è avvicinato da un adulto, che gli domanda: «"Noi sa quel che me piasarìa tanto farghe?" "Mettermelo in culo"
disse, con tranquilla innocenza, Ernesto». I due si spogliano e si sistemano su un cumulo di sacchi. «Tutto, del resto, andò più semplicemente e durò meno di quanto Ernesto avesse preveduto.» L'iniziazione è narrata in poche parole e senza toni drammatici, ma non è questo, all'epoca, il sentimento comune nei confronti degli uomini che amano altri uomini. Lui aggressivo, lei languida Lui è cacciatore, lei preda. Lui è padrone, lei schiava. La femmina, sostiene Cesare Lombroso, è indifferente agli impulsi carnali e l'eccezione conferma la regola: una donna sensibile al piacere fisico è una prostituta, cioè una criminale. L'esperienza insegna che le donne per bene si lagnano «come di una tortura dell'amore positivo del marito». «L'uomo che fugge la donna, e questa che cerca l'uomo, sono fenomeni anormali» decreta Krafft-Ebing. L'appetito del maschio non ha mai fine. Si vergogni l'uomo di scarso appetito - o addirittura impotente - e ci si guardi dalla donna affamata e attiva. Lei deve avere un «desiderio languido», aspettare solo di essere presa. Domanda il giovane d'Annunzio, che non ha nulla di cui vergognarsi: «Una sola donna? Tutte le donne? O nessuna? Qui sta il gran nodo. Una sola ed ecco la morte del desiderio; tutte, ecco il satirismo; nessuna ed ecco mali maggiori». Il satirismo, un problema maschile, è una parola che non trova posto nel dizionario Bergoglio del 1896, il quale però illustra che cosa sia la ninfomania: quel «certo ardore eccessivo e veramente morboso pei piaceri venerei, il quale si impossessa talvolta della donna, allorquando i suoi organi genitali sono dotati di soverchia energia vitale». Del resto, osserva il giurista Enrico Ferri, lo spermatozoo è dinamico per sua natura, così come l'ovulo è statico. Al maschio spetta l'iniziativa, mentre alla donna è assegnato un ruolo di puro contenitore, di sacco da riempire per procreare. Nell'accoppiamento - questo è dato per ovvio - lei è passiva, non partecipa e non sente. Il sesso piace agli uomini, disgusta le donne. È così chiaro che sembra inutile ripeterlo, ma il ginecologo bolognese Muzio Pazzi ne esibisce la prova concreta. Nel 1908 rende pubblici i risultati di un'indagine che ha condotto sulle pazienti: metà di loro non conosce l'orgasmo. Però le «brune, magre, pallide, a mascella angolare, a grandi occhi neri» assicura Ferri, sono più dotate per il piacere fisico. Del resto, la cultura della razza, di moda alla fine dell'Ottocento, assegna ai latini, di carnagione scura e focosi, una passionalità maschia. Secondo questa scuola di pensiero, i nordici, biondi e pallidi, sono più femminili e si accendono più difficilmente. Ma davvero soltanto le prostitute provano il piacere dell'orgasmo? Qualche volta è il galateo a suggerire alle mogli la bugia dell'indifferenza. L'orgasmo lo conoscono; tuttavia, poiché far trapelare le gioie dei sensi è una prerogativa delle donne di malaffare, è meglio mostrarsi insensibili. Qualche volta le mogli si trattengono - magari a fatica - dal provare piacere, perché credono all'insegnamento antico di Galeno che senza orgasmo il concepimento non è possibile. Meglio quindi rinunciarvi che caricarsi di un'altra gravidanza. Alle prostitute, invece, è la natura del mestiere che consiglia l'entusiasmo: il cliente sarà tanto più soddisfatto quanto più piacere avrà procurato alla sua mercenaria compagna:~Ma sono tutte bugie: quelle delle mogli e quelle delle prostitute. Messe così le cose, in questa commedia degli equivoci è normale che il coniuge faccia una scappata al postribolo. Meno convenzionale di molti colleghi, Mantegazza esce dal coro. Nel 1893 pubblica Fisiologia della donna, dove ammette che l'orgasmo non è un'esclusiva maschile: «Studiai e studiai l'astrusa e scabrosa questione, che del resto non potrà mai essere risolta con esattezza scientifica, trattandosi di un fatto di coscienza, che non si può sottoporre al cimento della misura». Dunque, siamo costretti a procedere, insieme a Mantegazza, per sentito dire: «Conosco una signora, che ad ogni amplesso perde la coscienza per una o due ore, e un'altra, a cui il marito deve sempre badare di non concedere l'amore quando sta per partire in viaggio, dacché essa cade in una catalessi, che dura dalle quattro alle sei ore». Più tardi, Freud studia l'orgasmo femminile e stabilisce che quello clitorideo è tipico dell'età immatura. Una donna adulta, per essere tale, deve avere un orgasmo vaginale, il solo che può verificarsi quando c'è penetrazione. Per portare alle estreme conseguenze gli insegnamenti del maestro, la sua allieva Marie Bonaparte arriva a proporre l'asportazione del
clitoride, almeno per le donne incapaci di provare l'orgasmo vaginale: in seguito a tale operazione, che rende impossibile l'orgasmo clitorideo, la donna potrà accedere all'unico, vero e pieno piacere. Anche gli studiosi più rivo-luzionari - come sono considerati nei primi decenni del Novecento i seguaci di Freud - non sfuggono al desiderio di classificare e regolamentare, di imporre una pratica del sesso convenzionale, uguale per tutti. Se non è importante che la donna assaggi l'orgasmo, è invece importante che lui lo cerchi. Un uomo che non ha appetito per una donna, che non segue «l'imperioso suo istinto», dice Mantegazza, non è un vero uomo. L'impotenza maschile è considerata perciò una vergogna, un fenomeno contro natura, che deve essere affrontato con fede più che con scienza, e quindi gli esperti consigliano pozioni, riti e magie: cibi afrodisiaci, come ostriche, tartufo, cantaride e carni di capriolo, quasi sempre sostanze piuttosto rare e costose. Nel 1926 la tecnica ha compiuto grandi passi avanti e al maschio che ha smarrito l'«impedoso suo istinto» viene suggerita la cura elettrica, senza trascurare una dieta appropriata a base di pesce, tartufi, lenticchie, carote, asparagi selvatici, montone cotto, pinoli, pistacchi. Mentre la tradizione gastronomica si sposa con la medicina d'avanguardia, è ancora normale che le donne non conoscano l'orgasmo, anche se la stessa cosa è giudicata intollerabile per un uomo. L'impulso aggressivo del maschio è, in realtà, molto spesso responsabile della ritrosia femminile. L'uno si rispecchia nell'altra, e appartengono tutti e due ai comportamenti insegnati per generazioni. Certi uomini neppure sospettano l'esistenza del piacere femminile: una donna si prende, si adopera e basta. Da parte loro, le donne sopportano il sesso come una croce, perché gli uomini lo gettano sulle loro spalle come una croce. Il buon diritto a esigere il «debito coniugale», a pagare la prostituta o a stuprare viene a stento messo in discussione. Sono le pioniere del femminismo, per prime, a chiedere un po' di rispetto, a invocare che il maschio sia addomesticato. La rapacità dell'uomo, socialmente tollerata e anzi incoraggiata, comincia a essere messa sotto accusa: già nel 1877 Jessie White Mario, antesignana sostenitrice dei diritti delle donne, lamenta che il loro «solo destino è di soddisfare i brutali istinti dell'uomo». A suo parere l'unico rimedio sta nell'educare l'uomo alla continenza. Scartata l'atrofiz-zazione del sesso, cara a Gemma Muggiani, è sempre possibile, benché più difficile, educare i maschi a saperci fare e le femmine a saperci stare. Si tratta di un'idea d'avanguardia, che tuttavia qualche ardito riformatore comincia a mettere a punto. La ritrosia di stampo vittoriano, in fondo, è una barricata femminile contro l'incontinenza del sesso forte. La letteratura romantica paragona la donna a un fiore, a un angelo, a tutto quanto è delicato. Il gingillo va maneggiato con cura, se il proprietario non vuole sciuparlo. Quindi ai mariti si insegna a non copulare con una sposa mestruata, incinta, puerpera o nell'età della menopausa. Sarà una coincidenza, ma si tratta dei momenti in cui è impossibile concepire e per questo si può sospettare che l'amore in tali condizioni sia cercato per puro piacere. Comunque, almeno per qualche settimana della vita, la moglie è al sicuro dall'assalto maritale, ma al prezzo di subire essa stessa una quantità di limitazioni: perché è impura - come insegna la Bibbia - e contamina chi si accosta, rovina ogni iniziativa, fa appassire i fiori e «impazzire» la maionese. Lei e gli altri dovranno comportarsi come se fosse un'appestata. Il ciclo mestruale, del resto, rappresenta il marchio della sua infima condizione, come illustra il tedesco Paul Ju-lius Moebius ne L'inferiorità mentale della donna, pubblicato in Italia nel 1904. Vittime delle fluttuazioni psicofisiche dovute ai cicli mestruali e alle gravidanze, le donne hanno un intelletto più limitato. Il mondo moderno le carica di responsabilità nuove e pesanti, che si aggiungono a quelle proprie di sposa e madre; ecco perché sono spesso malate, intrattabili, nervose. Anche prima che Freud si prenda cura delle sue pazienti isteriche, la psichiatria si accorge del curioso fenomeno, appassionandosi di quelle patologie femminili, chiuse nella sfera affettiva, sigillate nell'ancora più segreta sfera sessuale. Le donne di fine Ottocento sono troppo spesso isteriche (così come cent'anni dopo saranno anoressiche o bulimiche), perché, povere creature, male si adattano alla sessualità. «Occorre parlar chiaro» Donne e bambini, nella concezione romantica, sono puri e innocenti,
e non sono contaminati dal vizio, cioè dal sesso. Questa concezione comincia a vacillare sotto la pressione del dubbio: come proteggere ragazze e fanciulli da stupri, maternità indesiderate, perversioni, malattie veneree? Può darsi che qualche nozione in proposito sia meglio di niente, purché sottoposta a un rigoroso controllo morale. Da queste preoccupazioni nasce l'idea dell'educazione sessuale. Ma è dall'identificazione, intorno agli anni Ottanta, di quella fase della nostra vita tra l'infanzia e l'età adulta che è l'adolescenza, che questa idea si conferma utile e necessaria. Dal punto di vista sessuale, l'adolescente percepisce e subisce gli istinti, tuttavia non è ancora nella condizione di esercitarli pienamente. G. Stanley Hall ne spiega le caratteristiche in un libro pubblicato nel 1904 dal titolo L'adolescenza. Si tratta di una specie di intermezzo tra due capitoli della vita umana, dicono gli studiosi, risultato di vari cambiamenti, come la diffusione dell'istruzione, il rinvio del lavoro, il ritardo nella pubertà. È necessario far tesoro di questa fase dell'esistenza per preparare i ragazzi all'avvenire: l'educazione sessuale li rafforzerà contro i pericoli, e in futuro farà di loro buoni mariti e mogli perfette. La Chiesa è contraria all'educazione sessuale, a meno che non si tratti di reprimere e punire ogni manifestazione dell'esuberanza giovanile. Quanto al mondo laico, individuare i principi ispiratori dell'educazione sessuale e disegnarne le grandi linee si rivela molto difficile. Gli educatori si scontrano, infatti, con una prima, colossale contraddizione: se il sesso è un vizio, se è lecito solo nel santo matrimonio e ai fini della procreazione, ogni insegnamento è inutile. Un buon marito provvedera' con la sposa che gli è destinata. Infaticabile nello studio e nella divulgazione della sessualità, Paolo Mantegazza consiglia comunque vivamente ai genitori di educare i propri figli a questo mistero. La scienza non ha pudore, e non sarà certo lei a insegnare «qualche vizio nuovo alla gioventù, che perde il fiore dell'innocenza nelle clandestine conversazioni con la cameriera o contemplando le fotografie che si vedono nei caffè e nelle osterie». Fate leggere ai ragazzi un buon libro, suggerisce, poiché sono soprattutto i maschi a essere vittime di forti e irresistibili impulsi, ma non lasciate all'oscuro le figlie, benché quiete e passive. Nelle famiglie italiane il silenzio è sempre stato la buona norma e continua a esserlo: nonne, madri e sorelle maggiori sono atterrite alla sola idea di sfiorare l'argomento. Ne sanno ben poco, e per giunta qualsiasi nozione di sesso potrebbe essere scambiata per familiarità con il vizio. I genitori ritengono inoltre che quanto maggiore è il silenzio sulle cose del sesso, tanto più fresco sarà il fiore di verginità che la sposa offrirà allo sposo: spetterà a lui plasmarla a suo modo. «Non è niente» dicono le mamme alle adolescenti spaventate dal loro primo sangue, ma subito dopo raccomandano di mettersi a letto, di non saltare alla corda, di allungare le gonne, di stare lontane dai coetanei maschi. Rivolto alle madri, Mantegazza dice che non dovranno fare «dell'ignoranza e dell'innocenza due sinonimi», perché quanto più una fanciulla conoscerà, tanto meno sarà in balia del maschio e dei suoi bassi istinti, e non avrà paura alla vigilia delle nozze, perché saprà quel che l'aspetta. Nonostante simili raccomandazioni, tuttavia, l'educazione del silenzio finisce per prevalere nelle generazioni successive. Gli adulti non si dimostrano solleciti nell'insegnare e i giovani si fanno volonterosi complici dell'ignoranza. Se si tratta di una cosa sporca, se ogni discorso è imbarazzante, perché insistere con le domande? Meglio tacere e obbedire, perpetuando la secolare ignoranza in materia, che regna sovrana e finisce per insegnare più della scienza. Nell'intimità con il fidanzato, le future spose rifiutano il bacio perché una compagna di collegio ha detto che basta un solo bacio per restare incinta; è la saliva del maschio che provvede allo scopo. L'ombelico, sussurrano tra loro le ragazzine, è il pertugio dal quale nascono i bambini. Sulla prima notte di nozze circolano racconti fantastici e oscuri: quando gli sposi resteranno soli, lui farà cose terribili, schifose, inimmaginabili. Il dizionario della lingua italiana non è di grande aiuto. Nel 1896 si limita a confidare che la parola «mestruazioni» indica la «purga di sangue che ogni mese hanno le donne dopo la pubertà e fino ad una certa età». Bisogna aspettare a lungo, ma nel 1927, quando Ale pubblica il libriccino Quello che deve
sapere una giovane signora, ogni dubbio è dissipato: l'ignoranza delle giovinette era un'ipocrisia, assicura l'autrice, però «questa mentalità oscurantista e dispotica» è davvero defunta. Almeno nelle intenzioni. I maschi adolescenti guardano sconsolati quel coso tra le cosce e si domandano se sono anormali: sarà sempre così? Ce la farò? Sarà abbastanza grande? Però, davanti a un'erezione, sono ugualmente terrorizzati: sono un vizioso, finirò in prigione! I fanciulli di entrambi i sessi rimangono prevalentemente autodidatti. Lo è Sebastiano, un ragazzo di Lodi che nel 1908 ha sedici anni e, come racconta in età adulta, diserta l'oratorio: «Con alcuni amici andavamo in giro per prati a guardare le coppie degli innamorati che facevano all'amore». «Occorre parlar chiaro e senza pudore della complessa questione sessuale che ci preoccupa» dicono i partecipanti al convegno de «La Voce» «non per reprimere ma per educare», per cancellare la vergogna della prostituzione regolata dallo Stato e l'umiliazione della prostituzione matrimoniale, che fa della donna una schiava. Quando Freud fa crollare il mito dell'innocenza infantile, diventa chiaro che la conoscenza serve a disciplinare gli impulsi, evitare la repressione, formare una personalità equilibrata. Ma i riformatori propugnano l'educazione sessuale anche per difendere i giovani dai pericoli connessi alle possibili pratiche del piacere fisico. È questo lo scopo del pastore protestante Sylvanus Stall, autore di un manuale in ben otto volumi, conosciuto anche in Italia. Traduttore e curatore dell'opera di Stall è il fisiologo torinese Pio Foà, che dal 1908 tiene corsi di educazione sessuale. Più tardi, dopo la Grande Guerra, Aldo Mieli fonda la Società italiana per lo studio delle questioni sessuali, che ha come scopo la divulgazione di nozioni igienico-sa-nitarie e morali. Sono questi solo un pugno di pionieri, piuttosto isolati. In Italia bisogna cominciare da meno di zero e lottare contro l'opposizione preponderante dei bigotti di ogni tipo. Nelle famiglie povere la promiscuità e la sporcizia sono la regola, in quelle agiate e colte è proibita la scoperta e l'esplorazione del proprio corpo, così come è mal vista ogni manifestazione di affettività e l'abitudine al contatto fisico. All'inizio del Novecento, una buona madre dice ai figli: «Fatti, non baci. Questo è amore». I fautori dell'educazione sessuale, comunque, sono molto prudenti. Bisogna insegnare ai giovani quel tanto che basta e non di più, ma dov'è il limite da non valicare? Se i ragazzi scoprono che il sesso riserva soddisfazione, piacere e serenità, cade ogni freno e trionfa l'anarchia. E allora il confine dell'educazione sessuale si attesta sul principio che, al di fuori del matrimonio esso rimane un peccato di lussuria. Per di più, tra la conoscenza e l'eccitazione il passo è breve. Ne è convinto Paolo Goy, autore di Purezza razionale. Studio intorno alla questione sessuale dal punto di vista psicologico, giuridico, morale, dove osserva che le femmine non hanno impulsi perché sono tenute all'oscuro della delicata materia. Quanto ai maschi adolescenti, sono vittime delle polluzioni notturne a causa delle «impressioni morali ricevute nella veglia». Chi si abbandona agli istinti e cerca i piaceri carnali fin da giovane, ammonisce Paul Good, autore di Igiene e morale. Studio dedicato ai giovani, «è fatalmente predestinato alla degenerazione delle sue facoltà mentali». I fautori di una vera istruzione - nozioni di anatomia maschile e femminile, rudimenti del coito, meccanismo della riproduzione, igiene e cura delle malattie - vengono accusati di corrompere la gioventù. Si tratta in genere di studiosi stranieri, o di italiani che hanno contatti con l'estero, familiarità con altre lingue e conoscenza di quanto avviene in altri paesi. Nel 1910 viene pubblicato in italiano il manuale della dottoressa svizzera Anna Fischer Dueckelmann, La donna medico in casa, che consiglia di rispondere sempre ai quesi-ti dei piccini, traendo esempio dalla natura per arrivare, passo dopo passo, alla vita riproduttiva dei mammiferi. Ed è a questo punto che per i genitori comincia il momento dei quesiti scabrosi. Ma non c'è da preoccuparsi, il resto verrà da sé, assicura l'autrice. Ne I limiti della morale sessuale, del 1912, Roberto Michels sostiene che l'insegnamento va impartito fin dall'infanzia e completato
nella pubertà. Alle ragazze è particolarmente necessario insegnare che la natura ha fatto uomini e donne diversi: accostandosi al sesso, ammonisce lo studioso, una donna va incontro a conseguenze - cioè alla maternità - mentre l'uomo è immune da tale rischio. È evidente perciò che da parte della donna esiste «la necessità di una prudenza e di un ritegno maggiori nella vita amorosa e, quindi, anche presupposto un ugual bisogno fisiologico, di una maggiore sobrietà sessuale». Ai maschi Michels consiglia di «conservare intatte le loro energie vitali e non abusare della potenza fisica», ricordando che la castità non è solo quella del corpo ma si accompagna alla serietà del carattere e che «l'amore profondo preserva dai volubili amoretti». Sia per l'uomo che per la donna, prima delle nozze, la castità è la soluzione migliore e più igienica perché protegge dalle malattie veneree e si conforma alla teoria dell'economia seminale. Quello della castità maschile è un argomento che viene fittamente discusso a Firenze nel convegno del 1910. Michels ne illustra i vantaggi: è l'unica soluzione ugualitaria tra maschi e femmine; salvaguarda dalle malattie; serve a rafforzare il carattere e, infine, è il metodo più sicuro per il controllo delle nascite. Mentre la castità delle femmine prima del matrimonio non viene messa in discussione, quella dei maschi è un argomento che suscita divisioni e contrasti. Contrario alla castità è Alfredo Niceforo nel 1897, quando scrive Le psicopatie sessuali acquisite e i reati sessuali: a suo avviso queste «sbocciano da ogni parte» perché il «pudore ufficiale» pretende la repressione degli istinti carnali. Perfino tra i socialisti, che sognano la libertà amorosa, sorgono divergenze sull'argomento. Scambiano i rispettivi punti di vista su «Critica sociale» due personaggi autorevoli. Rodolfo Mondolfo, il più cauto, dichiara che si può evitare l'uso avvilente del corpo di una prostituta; è meglio praticare la castità, che costa qualche fatica, ma il rimedio (astenersi) non è affatto peggiore del male (l'amore mercenario). Filippo Turati non è affatto d'accordo con lui. Coerente con la sua scelta personale-vive senza vincoli nuziali con Anna Kuliscioff - ribatte che la castità va respinta, in quanto nega e mortifica un'esigenza umana. Il sesso è una manifestazione d'amore, dice Turati, e l'amore è unione fisica e spirituale. Perché reprimerlo? Anna Fischer Dueckelmann affronta la questione in termini molto pratici. Quando si è giovani, si ha voglia di fare l'amore. Ma le ragioni economiche, spesso, non consentono le nozze all'età giusta, cioè intorno ai ventitré o ventiquattro anni; bisogna rinviare il matrimonio, qualche volta fino ai trent'anni, e allora i giovanotti ricorrono al «commercio illegittimo», insoddisfacente e imprudente. Meglio per lui «vivere casto per conservare la sua energia per il matrimonio e farne profittare i suoi figli», più saggio infischiarsene della sicurezza economica e privilegiare l'unione amorosa tra persone che si amano. La dottoressa consiglia quindi ai fidanzati di sposarsi presto, di vivere in parsimonia - abitazione modesta, pasti vegetariani, abiti cuciti in casa, niente alcool e niente fumo - perché questa scelta procurerà serenità e soddisfazione delle naturali esigenze dell'istinto. A un giovane medico dalla promettente carriera, purtroppo squattrinato, tocca attraversare il calvario della castità. Sigmund Freud è fidanzato con Martha a ventisei anni ma, per mancanza di denaro, la sposa soltanto quando ha trent'anni, nel 1886. L'anno dopo nasce la prima figlia. In nove anni i coniugi Freud mettono al mondo sei figli. A trentanove anni, ormai celebre, egli mette fine alla propria vita sessuale: all'eventualità di altre bocche da sfamare, preferisce la castità. Durante la nascita della sua numerosa prole, Freud si preoccupa della contraccezione, tuttavia soltanto per concludere che nessun metodo, al momento, è efficace e che forse una soluzione non si troverà mai. Per uno scherzo del destino, colui che ha svelato l'importanza della sessualità è costretto a quella repressione che egli stesso ha denunciato come causa di tante malattie nervose.
IV SCUOLA DI VIZIO, SCUOLA DI CRIMINE Nel 1913 Gabriele d'Annunzio scrive la sceneggiatura - e forse cura anche la regia - del film Saffo e Priapo. La pellicola mostra due signore intente a giochi erotici, mentre la cameriera si fa possedere da un frate. A un certo punto le due coppie si mescolano, e la girandola prosegue quando le due insaziabili femmine sodomizzano il frate, servendosi di un godemiché. Le scene audaci si accompagnano al dialogo che prevede, fra l'altro, un elogio dei genitali femminili: «La tua natura è come un fiore di porpora pieno di miele e di profumo. Essa è come un'idra marina viva e molle. È la umida grotta, il ricovero sempre caldo, lo scrigno prezioso dei miei baci più ardenti». Pioniere della pornografia cinematografica, il poeta consegna allo spettatore immagini e parole assai piccanti. Nel 1916 la diva Pina Menichelli recita in un film che di dannunziano ha soltanto il titolo, Il fuoco, e l'ispirazione: una poetessa (Pina Menichelli) e un pittore (Febo Mari) sentono scoccare tra loro una scintilla, che presto si trasforma in una vampa, ma, come accade all'amore, anche questa si consuma, non lasciando che ceneri. Tra gli innamorati s'intreccia un gioco di sguardi e di movenze che non lascia dubbi su quel che fanno non appena sono fuori campo. Non c'è bisogno, negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra, di scegliere gli esperimenti porno-cinematografici di d'Annunzio per sentirsi lambire dalla fiamma del peccato. Le vicende rappresentate sullo schermo narrano di amore e di avventura. La gente comune poiché almeno una sala di proiezione viene aperta in ogni città, promettendo paradisi sotto l'insegna luminosa Eden, Ex-celsior o Astra - può vedere cose che erano state negate ai loro padri e alle loro madri: braccia nude coperte di braccialetti, scollature appetitose, gambe flessuose, baci sulla bocca, amanti avvinghiati, occhiate seduttive e trasparenze inquietanti. Così appare, per esempio, Lyda Borelli, fascinosa e attraente, in Ma l'amor mio non muore!, una pellicola del 1913. Per la prima volta, il cinema mette la sensualità a disposizione delle grandi masse che, lì nella sala buia, vedono cosa fa l'amore quando è passionale, travolgente, fisico. Anche se non tutto è proprio visibile, la rappresentazione è più che verosimile, con una trasparente allusione ai piaceri e ai dispiaceri della carne. Nei diciassette anni che separano Il piacere da Il fuoco, le storie d'amore sensuale passano dalle pagine di un libro, lette da una minoranza colta e spregiudicata, allo schermo, visitato da decine di migliaia di persone. Il cinema ha un numero crescente di adepti, ma anche una robusta quantità di detrattori. L'enfasi di Rodolfo Bettazzi, che già nel 1891 si mobilita a Milano in un comizio contro la pornografia, piove a scroscio: «Guardate! Guardate i muri delle vostre case, le verrine delle botteghe, le edicole dei giornali: vignette, cartoline, fotografie, immagini da fare arrossire, nudità impudiche, riproduzioni di oscenità illustrata da motti infami, e carne che si mostra, e carne che freme, e carne che si vende.... Non v'ha discorso fra giovani che non cada nello scurrile, né quasi si gusta scherzo che non sia salace o osceno, turpe profanazione di una lingua che era fatta per la poesia più dolce». Lo slogan che «il cinema è scuola di vizio, scuola di crimine» risuona qui e là per la penisola. «L'oscurità dell'ambiente, la promiscuità dei sessi, la musica che accompagna e vivifica lo svolgimento della scena, aumentano ed aggravano la potenza suggestiva dello spettacolo» ammonisce Pietro Pesce Maineri nel 1922, quando ormai è chiaro che il cinema, esaltatore di sensualità, è destinato a lunga vita. Una cartolina, una pagina, un manifesto - i moralisti ne sono certi - eccitano i giovani spingendoli al vizio. Non è già abbastanza nefanda la fotografia, che ha reso merce corrente il nudo femminile, quello vero e non solo quello disegnato? Non è sufficiente la riproduzione in migliaia e migliaia di esemplari, corruttori di altrettante e più anime innocenti? In una delle numerose versioni della tragica vicenda di Maria Goretti si legge che la suggestione delle immagini oscene - forse una cartolina pornografica - ha scatenato la mano dell'assassino. Quando nel 1914 si riunisce il Comitato per la pubblica moralità - una delle organizzazioni nate
per combattere la corruzione dei costumi - uno degli oratori dichiara che «giornali, libri, scritti, dipingono a tinte seducenti il male, lo legittimano e cercano di diffonderlo» e inoltre «fotografie, cartoline e immagini oscene... riescono di eccitamento ai sensi e aumentano il numero degli astenici e dei neuropatici». La patria è in pericolo quando, allo scoppio della guerra, un deputato, Eugenio Valli, ammonisce che tale stampa si diffonde «anche in mezzo al nostro esercito». Arte immonda ma istruttiva Prima che con le cartoline, prima che con il cinema, i moralisti se la prendono con l'arte. Nel 1895 l'infaticabile Bettazzi lancia una campagna contro l'arte oscena e suo bersaglio è un'opera di Giacomo Grosso, che espone i suoi quadri alla Biennale di Venezia. Nel 1902, attira l'attenzione di quella stessa gioventù che intende salvare sul nudo femminile che, a Torino, decora il monumento a Galileo Ferraris, perché la statua è «in posizione del tutto invereconda». Nel 1903 è il cardinale Sarto, patriarca di Venezia e futuro Papa Pio X, che invoca lo sfratto dalla Biennale di un quadro di Grosso, dal titolo L'ultimo convegno, un'immagine funebre dove il defunto è attorniato da donne piangenti ma nude. Soltanto la mediazione di Antonio Fogazzaro evita la censura. Le colpe del degrado vanno gettate sulla «letteratura immonda» scrive Paolo Goy «sia che si presenti a voi sotto forma di libro o di giornale... Fuggite gli spettacoli licenziosi e non abbiate che sguardi di disprezzo per tutte le produzioni ignobili che col pretesto dell'arte si mettono in mostra un po' dappertutto». Non soltanto l'arte figurativa è maestra di oscenità. In effetti, dalla carta stampata è possibile imparare i rudimenti della seduzione ed essere introdotti ai piaceri della carne (e perciò corrotti). Approfittando delle compere natalizie, suggerisce d'Annunzio, «potete sfiorare la mano di una signora nel palpare una seta ricamata, furtivamente, sotto le pieghe; potete fare un'infinità di madrigali dandole consigli sulla scelta delli [sic] oggetti; potete indicarle una qualche curiosità vista in una bottega mal nota, offrendovi di accompagnarla; potete, nel chinarvi abilmente insieme con lei, sentirvi vellicare l'orecchio dai suoi capelli; potete in mille modi insinuarvi nel suo cuore, suscitare in lei una sensazione dolce e candida, muovere in lei la sentimentalità che in questi giorni cristiani galleggia in tutte le anime muliebri». Secondo i moralisti, anche le «instancabili romanzatri-ci», che godono di un'immensa popolarità presso il pubblico femminile, e che non si spingono mai oltre le descrizioni dei sentimenti, con i loro libri sortiscono discutibili effetti sulla delicata sensibilità delle giovinette. Ma sono gli scrittori audaci, i quali si rivolgono al pubblico maschile, che vanno decisamente condannati, giacché il loro insegnamento è diretto ed esplicito. Nel 1916 Guido Da Verona descrive come Mimi Bluette e Castillo cedono al reciproco desiderio in automobile: «Bluette non rispose; alzò le braccia perdute, l'avvolse nel tepore del suo corpo e la baciò». Poi Mimi «per due giorni e due notti era stata con lui, perdutamente con lui, nella sua casa nascosta, baciandolo fino a uccidersi, come si fa quando l'amore diventa una follia... per due giorni e due notti gli diede il suo corpo inesaustamente; lo avviluppò ne' suoi capelli non pettinati, lo strinse nelle sue braccia fervide, si contorse in lui fino al delirio con una disperata felicità.... Gli diede la sua fragranza rorida e violenta, lo impregnò di se stessa come un fiore impolvera del suo polline il calice che lo feconda». Questa donna corrotta si concede anche a Jack, con altrettanta velocità: lei «non portava che una sbadata vestaglia. Jack d'improvviso, tacendo, la rovesciò sui cuscini e, con la bocca premuta nel tepore del suo collo, fece un tentativo quasi brutale per impadronirsi di lei». Marinetti cattivo maestro Anche senza la letteratura, senza la fotografia, senza il cinema, il tramonto dell'Ottocento si consuma dentro un orizzonte di sensualità. I giovani, osserva Mantegazza, sono sollecitati all'«imperioso istinto» dalla moda, che stringe la vita della donna in modo così inverosimile «da far sporgere i due templi consacrati all'amore». I genitori conducono le f iglie a teatro, «dove, sommando insieme la metà superiore delle signore che si mostrano nei palchi e la metà inferiore delle ballerine che danzano sulle scene, abbiamo tutta una donna nuda, che ammaestra i casti giovanetti e risveglia i vecchi dormienti». La figura femminile spira tentazione perfino quand'è nascosta sotto gli abiti. Per d'Annunzio
è sufficiente che si intravedano le forme, per giunta in un luogo sacro come la basilica di San Pietro, dove «o mio Dio, la profanazione è maggiore. Le dame portano abiti neri di una studiosa semplicità che rendono più snelle ed evidenti le grazie dei corpi loro; talune hanno su la faccia veli sottilissimi a traverso i quali li occhi sono più insidiosamente languenti». Più disincantato, ma anche ben più esplicito riguardo alle tentazioni offerte dalla contemplazione di un corpo di donna è Filippo Tommaso Marinetti. Racconta il pittore Enrico Sacchetti che il 15 ottobre 1911 Mata Hari (la quale sarà fucilata come spia tedesca il 15 ottobre 1917) balla alla Scala. Interpreta la parte del Piacere nell'Armide. Qualche ora dopo, al ristorante Savini, Marinetti la incontra. «Guardava l'immenso cappello» e, prosegue Sacchetti, «io ero seduto proprio di fronte a lui e registrai subito quel piccolo trauma psichico maschile che ha caratteri così inconfondibili.» La serata finisce a casa Marinetti, dove Mata Hari inscena una danza magica assicura lei - di provenienza indiana. Balla seminuda, con «due grosse borchie metalliche posate sui seni e sorrette da due spallacci di finte perle» (e «sorrette» si fa per dire, data «l'indigenza dei seni»). L'anticonformista Marinetti sembra essere sedotto più dal cappello che nasconde il viso di Mata Hari che dal reggiseno che ne mostra la nudità. Togliere di mezzo libri, cartoline, pitture, statue, proibire ogni visione evocativa del sesso è la tentazione eterna dei moralisti. Nel 1906 il Comitato per la pubblica moralità, riunito a congresso, auspica una severa legge di censura: occorre che i giornali limitino le notizie di cronaca giudiziaria e non diano resoconti di processi a porte chiuse, che gli editori non pubblichino libri dal contenuto osceno, che siano sequestrate le immagini immonde. Nel 1909, fin dagli albori di quest'arte, si costituisce la Federazione cinematografica cattolica, con l'obiettivo di tenere sotto controllo la moralità delle pellicole. Dal 1914 vige la censura cinematografica, giacché, tuona ancora Bettazzi, lo schermo offre al pubblico «l'amore libero e sfrenato, la passione ardente, la voluttà in veste elegante e aristocratica», spingendo la gioventù alla perdizione e la nazione alla rovina. Nei primi anni del secolo si assiste a un duro braccio di ferro tra i moralisti e gli scrittori audaci, arbitra la giustizia. Ma la giustizia del Regno è ispirata dai tempi, indipendente, liberale, niente affatto clericale. A Quelle signore di Umberto Notari, un successo letterario da oltre 200 mila copie, viene mossa l'accusa di offesa al pudore. Il processo si celebra a Parma nel 1906 e si conclude con una sentenza di assoluzione, perché l'autore narra, è vero, la vita di una prostituta, tuttavia lo fa con il nobile intento di condannare chi pratica quel mestiere: «Se dovessero porsi all'indice tutte le opere che contengono brani o pagine di non sufficiente castigatezza... la letteratura antica e moderna... dovrebbe subire una immane ecatombe». Un'occasione per il bel mondo milanese si presenta quando, nell'ottobre 1910, tocca proprio a Marinetti di subire un processo per l'opera Mafarka il futurista, storia delle imprese guerriere ed erotiche di un capo africano, con un pene lungo dieci metri, che vuole generare un figlio senza copula con una femmina, e ci riesce. Mafarka, vittorioso su parecchi nemici, viene circuito da una torma di ragazze che accoglie con queste parole: «Anch'io so come si vezzeggia e come si addomestica la gattinà furba che vi si cela tra le cosce, col suo musetto roseo e il suo pelo vellutato... Io so quel che ci vuole per farvi contorcere nelle voluttà solleticandovi dappertutto, dappertutto... sulla pianta dei piedi e nei ciuffetti odorosi delle ascelle, che gridano d'amore come cani alla luna d'aprile!... Quando ve lo racconterò vi terrete a due mani la bella pancina rotonda, aprendo le gambe che s'agitano come per gli addii della partenza e si serrano sulla loro preda come le chele di un granchio». E, rifiutando ogni congiungimento, se ne va. Il prodigioso eroe s'incontra poi con le due danzatrici Libahbane e Babilli: una lo tocca «soave e sinuosa, ed egli sentì sconvolte le viscere dalla delizia e dal terrore», ma di nuovo si sottrae all'allettamento e ordina di darle tutte e due in pasto ai pesci. È vero, riconoscono i giudici milanesi dopo trenta minuti di camera di consiglio, queste sono pagine che si distinguono per «la più efficace descrizione di lascivi accoppiamenti, le lubriche manifestazioni di un ributtante erotismo, le frequenti e sfacciate allusioni a quelle parti del corpo umano che ebbero il nome significativo di pudende», e che in questo testo regna
«laidezza, turpiloquio spregevole», ma la copertina non svela un contenuto tanto audace. Marinetti esce assolto, nel tripudio dei seguaci. La battaglia contro la sconcezza non da tregua. Nel 1914 viene sequestrato il Kamasutra e altri testi dai titoli assai espliciti, come L'utilità della flagellazione nei piaceri dell'amore, La masturbazione della donna e Amate, non generate. Tra il 1919 e il 1920 è sotto processo Mario Mariani per Le adolescenti e viene condannato a quindici giorni di reclusione, forse perché l'argomento tocca la delicata questione delle povere ragazze, ben più inquietante e tragicamente reale delle grottesche vicende di Mafarka. I moralisti stessi vengono messi sotto accusa da Notari quando, nel Maiale nero, afferma che essi non soccorrono le fanciulle insidiate dal vizio, non si preoccupano del flagello della sifilide, ma si aggirano tra i banchi delle librerie e scrutano le pubblicazioni «oscene» che poi denunciano alla magistratura come lesive del pubblico pudore. Eppure, con elude lo scrittore alludendo a un caso di cronaca recente, «la giustizia italiana può permettere che per un semplice recesso di querela possa andare impunito uno stupratore di fanciulli» soltanto perché è un sacerdote. Il prete e la sua ipocrisia, la cultura bigotta e la giustizia che eventualmente la serve, tutti abbigliati in scuro, sono il «maiale nero» agli occhi di Notari, non la letteratura audace ma innocua. In questi anni ogni paese europeo vede la rilassatezza dei costumi, la libertà di ricerca degli scienziati, lo sviluppo delle nuove arti visive, nonché la diffusione della letteratura audace o oscena che accompagna la diffusione dell'istruzione. Nel 1910, quindi, è convocata a Parigi la Conferenza internazionale sulla pornografia, dove la trepidazione dei partecipanti per il dilagare della corruzione sessuale si risolve con l'auspicio di un giro di vite repressivo: leggi severe e severamente applicate. In seguito a questo solenne appello, le italiche forze dell'ordine, sguinzagliate per musei e gallerie, sequestrano diverse opere d'arte. Poi, l'entrata in guerra porta in primo piano altre ansie. A chi ritiene che un nudo femminile faccia meno male di una pallottola, il generalissimo Luigi Cadorna vuole far cambiare idea. Il Comando supremo delle Forze armate, nel 1915, dirama precise istruzioni agli ufficiali: vigilare sulla diffusione del materiale pornografico fra la truppa! L'incorreggibile Marinetti inneggia alla guerra come occasione di sesso, perché essa «distrugge nella donna il pudore, la parola data e la invita al pronto rinnovamento del cuore e dei sensi.... Il sesso della donna diventa imperialista, espansionista e colonizzatore». Ma il poeta sa essere più frivolo: «Una signorina che si rispetta ha per lo meno tre fidanzati in tempo di guerra». Dal momento che il generalissimo impedisce di rivolgersi ai combattenti per non infiacchirne il morale, Marinetti predica alle donne, con esortazioni inequivocabili: «Se rimani la donna dei romanzi di Fogazzaro: vile, indecisa, ipocrita, piena di rimorsi, neutrale, conservatrice, reazionaria, voglionon-voglio, sarò-non-sarò-tua, forse-domani-un-poco, fi-no-al-petto-ma-non-più-giù», allora no, non sei una femmina moderna. E poi decreta che «la donna deve essere libera di disporre del suo corpo e della sua anima a suo capriccio». Nel dicembre 1916 il Parlamento discute e approva una legge contro la pornografia, in obbedienza a quanto stabilito a Parigi sei anni prima. Un paese nel pieno dello sforzo bellico deve imporsi l'austerità dei costumi, al contrario di quel che vorrebbe Marinetti. Tuttavia la pornografia ignora la severità della legge e continua a prosperare. Anzi, quando esplode la pace, si scopre che non solo gli uomini ma anche le donne si dilettano con le letture piccanti. Il futurista Marinetti è stato esaudito.
V ESTRANEI NEL LETTO Un po' per il freddo, un po' per pudore, quando vanno a letto uomini e donne si coprono bene: camicia da notte per entrambi; d'inverno, berretto per lui e cuffia per lei. Le persone ammodo si spogliano il meno possibile e, se lo fanno, evitano di guardare il proprio corpo o di toccarlo. I poveri hanno poco di che abbigliarsi, i ricchi ne hanno in abbondanza e ne avranno sempre di più perché l'invenzione della macchina da cucire, l'industria dell'abbigliamento e le nuove fibre contribuiscono ad allargare il guardaroba. Vestire e svestire un'aristocratica o una benestante borghese è un'operazione lunga e complessa, che richiede tempo e l'aiuto di una o più cameriere. Quando, nel settembre 1898, muore pugnalata a Ginevra l'imperatrice Elisabetta d'Austria, se ne va una leggendaria bellezza: per tutta la vita Sissi ha dedicato due ore al giorno soltanto a lavare, spazzolare e pettinare la capigliatura. Queste complicazioni non sono un irrilevante baluardo alla virtù femminile: per espugnarla occorre saperci fare, maneggiando lacci e bottoni. Dal rito della vestizione le donne escono trasformate. L'aspetto esteriore di fine Ottocento è tutt'altro che naturale: sotto e sopra gli abiti modellano il corpo, un corpo di cui ogni maschio può sognare la forma reale. La moda mette in risalto le rotondità del seno e del sedere, separate da un giro di vita strizzato al massimo. Il seno è uno solo, a sterno di piccione, come una prua; per chi non ha esperienza diretta, non è facile indovinare come sia veramente. La biancheria femminile è tanta e tale da mettere a dura prova un seduttore. Se ne compiace d'Annunzio: «Ormai per le nostre signore il lusso della biancheria è diventato addirittura rovinoso. Le più squisite eleganze e le raffinatezze più procaci sono profuse in quei leggeri vestiti di batista o di finissimo lino che nella loro trasparenza prendono il profumo e il dolce color roseo della cute femi-nile [sic]». A contatto con la pelle, lei porta una camicia leggera di batista, magari ornata di pizzi, sopra la quale si allaccia il corsetto o il busto dal vitino di vespa, tenuto stretto da lunghi nastri. La giarrettiera, attaccata al busto, è una sola, sul davanti. Le calze, di cotone o di seta, possono essere color carne, bianche o nere, ma se ne trovano anche a strisce colorate e a piccoli disegni. Le mutande, lunghe fino alle ginocchia, sono scucite tra le gambe per la soddisfazione dei bisogni fisiologici (o forse per l'accoppiamento veloce). La sottoveste può coprire l'intera figura, oppure è un jupon dalla vita in giù. In camera da letto, la signora si aggira in vestaglia o in peignoir, fuori da lì indossa abito, mantello, mantellina, cappello - con o senza veletta - e guanti. Nel più fortunato dei casi, un maschio vede di una femmina - che non sia la moglie o l'amante - il viso e le mani. Il resto è frutto dell'immaginazione. Quello di spogliare una donna è un esercizio, che gli uomini galanti, come d'Annunzio, eseguono con perizia e con un solo scopo: «Con la mano furtiva scioglieva i nodi, faceva uscire a uno a uno i bottoni dagli occhielli, tirava abilmente il laccio del busto, apriva il fermaglio della giarrettiera, dove splendeva un mirabile zaffiro a similitudine d'un occhio cilestro acceso dal riso». Per quanto sia esperta e disponibile, lei lascia fare, l'iniziativa spetta al maschio. A lui il rito piace, lo eccita e gli da il tempo di prepararsi al più bello dell'impresa. La biancheria è uno dei molti segni d'identificazione femminile: una signora non indossa nulla di simile a «quelle», alle «femmine da controllo», che portano una divisa da lavoro trasparente, colorata, chiassosa e volgare. Come abbiamo visto nel caso delle povere ragazze, è possibile transitare dal mondo della virtù a quello del vizio, ma il ritorno è fuori questione. Con qualche eccezione. «Le due categorie» precisa infatti Roberto Michels «sono separate da un abisso che talvolta viene colmato dall'ipocrisia. In parole più esplicite, esistono tra noi vergini apparenti, che hanno già conosciuto l'amore, ci sono ingannatrici abili e mogli astute.» Bionde e brune La donna ideale è docile, pudica, digiuna di sesso nelle parole e nei fatti. È di moda la bionda, che Turati e d'Annunzio chiamano «flava», oppure dal «flavo crine», come la regina
Margherita, che si pettina con ariosi toupets e chi-gnons alti sulla testa. «Prima, circa una trentina d'anni fa, tutte le donne erano brune, d'un bruno profondo e fatale, mer d'ébène, noir ocean, pavillon de ténèbres tendues, come cantava Baudelaire. Ora, invece, una donna che non è bionda non è una donna» osserva il Vate. Alla bionda si attribuiscono parecchi vantaggi: «Se la ragazza è bionda,» insegna Mantegazza ne L'arte di prender moglie «occhi blu, calma e labbra sottili, sa tener a freno gli esagerati desideri della carne». È la fidanzata ideale, sulla quale non serve indagare; sarà la sposa perfetta, che non occorre sorvegliare. La bruna dagli occhi neri ha, invece, un temperamento ardente. Un destino biologico corre di madre in figlia: «È raro che una madre libertina abbia una figlia casta. Il fiore della virtù, quando c'è, va colto presto, e la bellezza sfiorisce rapidamente, come la fecondità; la vita coniugale è quasi sempre breve, data la brevità dell'esistenza media. All'inizio del Novecento a trent'anni si è zitella, a cinquanta una vecchia, a sessantaquattro agli sgoccioli dell'esistenza terrena. Poiché il matrimonio serve a fabbricare prole, un uomo si sposa a qualsiasi età, mentre le opportunità nuziali di una ragazza sfumano al solo sospetto che non sia più in grado di generare. Al climaterio, quando una donna non serve allo scopo, diventa un rifiuto della società. A questi confini tassativi, a queste stagioni spietate, qualche pioniera si ribella e qualche femminista prova a illuminare di luce nuova la maturità delle signore. Donna Clara, che scrive un galateo, conforta le lettrici: «Siamo calme dinanzi all'avvicinarsi di quest'età; pensiamo che la crisi non è così fatale». Vista la rapacità maschile, è sconveniente che una donna esca di casa da sola, a meno che non sia sposata, e quindi non più vergine. Passati i quarant'anni, invece, ormai fuori gioco, può fare quel che vuole, perfino viaggiare, e non sarà oggetto di indebiti appetiti. Nel 1911 qualcuna di loro legge e medita su un romanzo che fa scalpore: L'età pericolosa di Karin Michaèlis, dove la non più fresca protagonista sta in equilibrio tra due uomini, uno più anziano e uno giovane. La cultura e il linguaggio femminili sono ispirati alla più cristallina decenza. Una parola, una locuzione, può tradire la mancanza di educazione e - quel che è grave -di virtù. Una volta la regina Margherita, conversando con il ministro Ferdinando Martini, un colto toscano, gli domanda in quale circostanza si deve usare l'espressione «fare all'amore». A Martini si «arriccia la pelle», il quesito è imbarazzante, la sovrana però aspetta un chiarimento, non è possibile deluderla. Decide di cavarsela così: «Maestà, non si dice fare all'amore, ma fare l'amore» e poi tranquillizzato aggiunge: «Maestà, le espressioni sboccate lasciatele agli omacci». Dagli omacci e dalle donnacce è lecito aspettarsi il peggio. Francesco Bonmartini, aristocratico veneto, rozzo e volgare, sposa Linda, figlia del celebre medico Augusto Murri, ma ha per amante Clelia, la quale, a sua volta, non si nega agli uomini, anche se scrive biglietti d'amore a Bonmartini dove si esprime nel linguaggio delle poco di buono: tutti gli altri amanti, assicura lei, sono «migragnosi e la salvo per te solo, per te che ti amo e che non vedo l'ora di stringerti tra le braccia in un dolce amplesso». Nessuna moglie per bene allude alla conoscenza carnale, soltanto una donna di malaffare può spingersi tanto in là. L'uomo ideale, invece, è forte, volitivo ed esperto. Un bel maschio latino assomiglia a Castillo, amante di Mimi Bluette: «Non era più giovine; doveva esser quasi vicino ai quarant'anni, sebbene la sua pelle bronzata conservasse un liscio colore di gioventù. Robusto, arido, agile, mostrava un singolare aspetto fra il gentleman e il caw boy [sic]. Qualche riflesso bianco gli correva tra i capelli nerissimi, ed i baffi aspri, tagliati fin su l'orlo del labbro, mettevano un segno di ruvidezza nella sua faccia quasi delicata». Un uomo può conservarsi affascinante anche dopo i quarant'anni e poco importa che non sia desiderabile, è infatti a lui che tocca concupire e prendere. Non si fa spogliare, non si fa sedurre, la sua biancheria è essenziale e sobria: maglia e mutandoni, più o meno pesanti, più o meno lunghi, secondo le stagioni e i climi, in cotone o in lana. L'abito maschile ha la severità di una divisa, è la tenuta della borghesia in ascesa, funzionale al compito di lavorare, produrre, essere di esempio: camicia, cravatta, gilet, giacca e pantaloni, scuri d'inverno, chiari d'estate. C'è poco spazio per la fantasia e gli ornamenti: chi porta l'orologio con catena al panciotto, chi
un anello con sigillo o stemma. Anche degli uomini le donne vedono ben poco, oltre al viso e alle mani, ma non importa: come spesso in natura, è lei che deve attirare l'attenzione su di sé, al pari di una farfalla leggiadra e multicolore. Sulle robuste spalle maschili pesa ogni responsabilità della vita intima: lui dev'essere padrone, prima delle nozze, di ogni nozione, esperienza, soluzione ed espediente utili alla riuscita. Mentre a una ragazza nuoce - e sono sufficienti una voce, un pettegolezzo - la reputazione di «esperta», al giovanotto «una vita galante conferisce persino, di fronte ad amici e nemici, un non so che di superiore». «Quelle donne» sono a disposizione dei ragazzi alle prime armi; oltre alle prostitute, è possibile cogliere un'occasione con vedove piacenti, cameriere non scontrose, sartine in cerca di occasioni, ragazze del popolo di bell'aspetto, co-cottes, ballerine, attrici. Nel migliore dei casi, si tratta di donne che sono state istruite da maestre abili, hanno avuto uno o più amanti, sanno come si fa, lo sanno fare con garbo e lo insegnano volentieri. Nel peggiore dei casi, il giovanotto si limiterà a ottenere la prova che la sua macchina da riproduzione funziona a dovere. Sulla disparità di esperienze prima delle nozze, si comincia a levare qualche voce di dissenso. Perché lui sì e lei no? La risposta tradizionale è che un maschio non rischia nulla, una femmina può restare incinta. Ma la differenza inquieta le mogli più orgogliose e l'ombra delle rivali si proietta sull'intimità coniugale. Per Sibilla Aleramo le storie che gli sposi hanno alle spalle sono troppo diverse per essere conciliabili: «La vergine ignara e sognante trova nello sposo un cuore triste e dai sensi inariditi; fatta donna ed esperta, comprende come il suo amore sia stato pervertito da una brutale iniziazione. Fra i due torna spesso l'intrusa, e il solo ricordo avvilisce ogni loro bacio». La morale sessuale del maschio sembra una sola: obbedire all'imperioso istinto; e invece è doppia: quella privata è distinta da quella pubblica. Lui potrà sfogarsi o reprimersi, a sua scelta, in qualunque momento, con la donna che vuole, da scapolo e da coniugato. Perfino a quest'ultimo è consentito lo strappo alla monogamia, purché sia discreto, non offenda la signora e non intacchi il patrimonio. Ai maschi è concessa una facciata irreprensibile e un retrobottega libertino. Così diversi, maschi e femmine compongono qualsia-si conflitto in uno schema gerarchico, perché nell'intimità, come in pubblico, comanda lui. Ma le cose non sempre filano lisce e, negli ultimi anni dell'Ottocento, aumentano lo scontento e il disgusto delle donne, lo sdegno dei moralisti, l'accanimento dei riformatori contro la licenza maschile. I due sessi si guardano da opposte barricate. Dei maschi del suo tempo Gemma Mug-giani scrive nel 1903: «Noi donne non sappiamo fino a qual punto sono schifosi e porci...». Tuttavia del matrimonio non si può fare a meno, esso resta un punto fermo nella vita del singolo e un pilastro dell'ordine sociale. Un contratto fra due patrimoni o due miserie Nel Saper vivere, che porta la data del 1905, Matilde Serao rimpiange il buon tempo andato, quando il fidanzato faceva visita alla promessa sposa «una volta la settimana, o, al più, due volte la settimana, il giovedì e la domenica». Quanto a lei, prima delle nozze, non metteva mai piede in casa del futuro marito. Una fanciulla virtuosa non da adito al sospetto di andare in cerca di un uomo. Ora i fidanzati si vedono troppo spesso e godono di intimità che in passato erano vietate. Che bisogno c'è di frequentarsi, di conoscersi meglio? Celebrato il matrimonio, che è indissolubile, avranno tutta la vita per stare insieme. Senza contare che, uno vicino all'altra, i due rischiano di essere travolti dai sensi, lui dall'«imperioso istinto», lei dal «desiderio languido». Gli incontri fra fidanzati sono da evitare, per il buon nome di lei, per la serenità di lui. A cavallo dei due secoli vige una completa separazione dei sessi, come tra universi distinti. Il contatto dei corpi è minimo, così che ogni avvicinamento rappresenta una scoperta, e per queste ragioni, l'iniziazione con la prostituta o la prima notte tra gli sposi segnano un confine tra due capitoli della vita, oltre il quale una persona non è più la stessa. Come un battesimo del fuoco, l'esperienza carnale cambia la condizione di uomini e donne.
I riformatori del sesso invece sono favorevoli a un contatto ravvicinato, purché sfoci nel matrimonio: a lei servirà per smaltire la tensione nervosa che precede la prima notte, a lui diluirà i bollenti spiriti. Mantegazza caldeggia un po' di conoscenza, perché «lo stupido pregiudizio che tiene celato alle fanciulle ogni mistero che si riferisce all'amore, le da braccia e piedi legati a un marito che forse è un logoro libertino a cui la legge da il diritto di stupro legale, perché stupro legale è spesso la prima notte d'amore dei due sposi». A fine Ottocento, corre voce che in America le donne siano disinvolte al punto di praticare il flirt, a base di baci, carezze, abbracci. Ma da noi questa moda non attecchisce, salvo che nella grande borghesia o nell'aristocrazia. I nemici del flirt asseriscono che, nel clima caldo della penisola, con il sangue bollente dei latini, sfocerebbe presto nell'amplesso. È meglio mettere in guardia le fanciulle: badate bene a non cominciare, neppure una volta! L'Ottocento privilegia il matrimonio di convenienza o, come lo chiama Gerard Vincent nel saggio Il corpo e l'enigma sessuale, il «contratto tra due patrimoni o due miserie». Un equo scambio, nel quale lui da cibo, protezione, sicurezza, e lei una prole. L'amore non c'entra, la passione neppure. L'intimità tra i coniugi è limitata all'obiettivo della procreazione, non c'è bisogno di affetto, comprensione o stima. Un minimo di rispetto formale è più che sufficiente, sottolineato dall'uso del «lei» o del «voi» secondo le circostanze e le regioni - che mogli e mariti si scambiano in pubblico e in privato. Una clausola tacita del contratto è che la sposa, la «merce», sia fresca e pura, perché lui pretende una prole certa, sangue del suo sangue. Durante la guerra, a Pratola Serra, nell'avellinese, Antonia aspetta notizie dell'innamorato al fronte. Lui scrive i suoi baci sotto il francobollo, perché i parenti non li vedano. La ragazza viene smascherata dai genitori, quindi costretta a una visita ginecologica per ordine della suocera. A questo punto, visto che ormai la fanciulla è disonorata, le due famiglie impongono un rapido matrimonio per procura con il soldatino lontano. I due, però, non si sono ancora sfiorati. Il fidanzato di Maria Assunta è invece meno cauto e i suoi baci non li nasconde, li inserisce proprio nella lettera. Indignato, il padre della ragazza ragiona così: «Se scrive baci, è segno che te li ha dati», e impone, anche lui, la visita ginecologica e le nozze per procura. Se il fidanzamento non serve a parlare d'amore, baciarsi, conoscersi meglio sia a parole sia a mano libera, è però utile alle famiglie, che presentano i promessi sposi ai parenti e alla comunità. Verso la fine del secolo prende piede l'uso del viaggio di nozze, che giova agli sposi finalmente soli - per fare conoscenza, soprattutto intima, in santa pace. È il primo capitolo della nuova vita, così diversa dalla precedente e così irreversibile. Circondata da un alone di poesia, la luna di miele può riservare anche sorprese spiacevoli. Alla sedicenne Sibilla Aleramo, l'esperienza riserva un pronostico negativo: «Io recavo dal viaggio di nozze un'impressione confusa, o piuttosto già sbiadita: nessuna forte compiacenza spirituale, nessuna vibrante rivelazione dei sensi». In un'unione di convenienza, magari combinata dai parenti o dai sensali, i coniugi possono restare estranei l'uno all'altra per sempre. Avvolti nelle camicie da notte - per le quali il corredo più bigotto prevedeva il ricamo «non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio» -, gli sposi procedono alla procreazione. Possono anche innamorarsi, non è però strettamente necessario. «Gli uomini non debbono mai innamorarsi delle donne che vogliono sposare» afferma Marchetta in Quelle signore, riecheggiando l'opinione dei suoi clienti. La moglie dev'essere prima di tutto un buon affare: graziosa, obbediente, innocente, prolifica. Il marito rappresenta la sistemazione: forte, responsabile, danaroso. Secondo tale schema, le fanciulle vengono consegnate al futuro coniuge e padrone, passano cioè da una potestà all'altra, senza possibilità di scelta autonoma. Per questa ragione, il pastore Melchiorre, ne Il vecchio della montagna di Grazia Deledda, è convinto del proprio diritto di prelazione sulla cugina povera Paska, che pretende di sposare. Paska allora scappa e va a servizio in città, dove è protetta dalla famiglia presso la quale lavora. Se il matrimonio ha poco a che fare con l'amore, anche il sesso coniugale è quasi estraneo all'attrazione fisica. Quel che si trova tra le pagine dei romanzi non accade quasi mai nella vita
reale. Nel mondo contadino ci si sposa per aumentare, con la famiglia, il numero di braccia da impiegare nei lavori di campagna. In quello piccolo borghese di città per riprodursi, e, lavorando, garantire ai propri figli un destino migliore. Nel dorato mondo dei blasoni, l'unione tra due persone serve a tramandare titolo e patrimonio, ma lascia spazio per divertirsi con altri uomini e altre donne. Nel sesso coniugale le differenze di classe contano parecchio. Tra i più poveri, operai e contadini, il comportamento è rude e sbrigativo, d'ispirazione zoologica. Nella classe media la parola d'ordine è sobrietà e ordine, quindi la copula è orientata a procreare. Erotismo e libertà abitano di preferenza nelle classi elevate, dove gli scrupoli si attenuano. «Della castità si faceva poco conto,» ricorda Giuliana Benzoni, aristocratica romana, nata nel 1895, «allora ci si sposava per interesse. Questo spiega i frequenti adulteri... Come resistere tutta la vita accanto a un uomo, senza amore? Così erano tutti molto elastici e comprensivi in materia amorosa.» La mamma di Giuliana, Titina, figlia del ministro Ferdinando Martini, suggerisce alla nuora la flirtation come rimedio alla noia della vita coniugale: «Perché non flirti un po'?». La classe media, invece, tiene in particolare a salvare le apparenze. Quindi, i coniugi dissimulano l'infelicità. Della vita di provincia, a Civitanova nelle Marche, Sibilla Ale-ramo osserva: «Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle collettive troppo deboli ancora». Ada Negri è nata in una famiglia povera di Lodi, ha ottenuto uno stipendio da insegnante ed è già una poetessa affermata, quando, a ventisei anni, sposa l'industriale biellese Giovanni Gar-landa, che si è innamorato delle sue opere. È un'unione di convenienza: Ada è angosciata dai soldi, che cerca affannosamente. Dopo la nascita di una figlia, il matrimonio resiste fino al 1913 e si conclude nella separazione. Eppure il contratto fra due patrimoni o due miserie ha una sua robusta solidità, garantita dalla dipendenza della moglie e cementata con il denaro. È un'armonia geometrica, che Guido Da Verona descrive così: è dovere dell'uomo fare l'amore con la sposa per procreare, ma è suo piacere farlo con l'amante (o con la prostituta); i mariti facoltosi hanno un'amante che mantengono nel lusso, mentre lei se la spassa con un giovinastro di bell'aspetto. La moglie legittima, brutta, ricca e pia, sta chiusa in casa, e la quadriglia danza alla perfezione. Sogni di voluttà, notti di disinganno «Il giorno delle nozze non dovrà cadere nel periodo delle mestruazioni» consiglia Michels «e per esser ben sicura di ciò, la madre previdente interrogherà essa stessa in proposito la sua figliola.» Le scadenze igieniche in vista della cerimonia non finiscono qui, giacché «la fidanzata prende, alla vigilia delle nozze, un rapido bagno e il fidanzato pure». Il corredo è pronto, e lì si attinge per scegliere una camicia da notte «della tela più fina e adorna di merletti, naturalmente trasparenti e preziosi il più possibile». Le fidanzate sanno poco o nulla di quel che le aspetta da quel momento in poi. Possono incontrare un uomo gentile e comprensivo, un affamato di sesso, un assetato di potere, un impacciato che non ci sa fare o anche un impotente. Nel mondo contadino, a Novecento inoltrato, la prima notte è un rito feroce. La violenza dello sposo è quasi un obbligo, un segnale precoce su chi comanda e chi è sottomesso, sia tra le lenzuola sia fuori. La prova di verginità della sposa va esibita, perché è decisiva e condizionerà il resto della vita. Nelle comunità rurali del Sud il fatto compiuto diventa pubblico con il rito dell'esposizione del lenzuolo macchiato di rosso. La mancanza di purezza può risolversi in una catastrofe. In Un delitto d'onore di Giovanni Arpino, Castiglia non vede scorrere il sangue di Sabina la prima notte di nozze, ne è sconvolto, e pensa che lei sia già stata di un altro. Tra i contadini, la verginità della sposa conta molto, ma se interviene un matrimonio riparatore conta meno: il fatto che lei sia incinta fa presumere che potrà fare molti figli, quindi tante braccia capaci di lavorare e a loro volta proliferare. La gravidanza costituisce talvolta la seconda mossa di una strategia matrimoniale. A metà dell'Ottocento, nella Roma papalina, una ragazza si lasciava sedurre - questa è la prima mossa -,
poi si mostrava spesso in pubblico con il seduttore, talvolta gli strappava una promessa di nozze e infine, se lui recalcitrava, ricorreva al Tribunale del vicariato che, vagliate le prove e ascoltati i testimoni, poteva imporre lo sposalizio. Questi imbrogli, però, sono vietati dal decoro borghese. Le ragazze virtuose, invece, incontrano il sesso la prima notte di matrimonio. È un addio al passato di fanciulla, per lei, e per lui al passato di vagabondaggi sessuali (o di castità), e prevede un rituale stretto, che varia secondo la condizione sociale: per lei tutto ruota intorno alla paura e alla perdita della verginità, per lui intorno alla dimostrazione di virilità. La prima notte, secondo Michels, la sposa è «bramosa e timida insieme davanti al primo amplesso sessuale». Timida perché deve denudare parti che non ha mai esposto; bramosa per la gioia di essere soggiogata e vinta. E, insomma, divisa tra il piacere della scoperta e la paura delle conseguenze. Quando il rito è crudele, provoca un duraturo disgusto. Nel racconto di Ada Negri «Le solitàrie», Franceschetta, sedicenne, va a nozze con Bernardo: «Spinta al matrimonio, presa, maneggiata con allegra brutalità, nulla aveva ceduto di sé se non il corpo; e l'aveva ceduto male, nella contrattura di un disgusto fisico che ad ogni volta si rinnovava, eccitando, invece di stancarla, la massiccia sensualità del marito». Rosa, una donna dell'Irpinia nata nel 1923, racconta: «Quando mi sono sposata, sapevo poco. Mia madre mi disse una mezza cosa solo il giorno del matrimonio. Nella sua testa, se lo diceva prima, potevo fare uno sbaglio. Così ho fatto con mia figlia. Però sono rimasta delusa. Lei già sapeva... Mia madre mi disse che se volevo fare un figlio mi dovevo coricare con il marito. Mica disse quel che si faceva! E non mi disse neanche che nella stanza con noi c'era mia suocera con mio suocero. La sera io e Peppo andammo a dormire. Stavo mettendo la camicia da notte quando sento aprire la porta e i miei suoceri si siedono e aspettano. Io guardo Peppo e penso tra me: "Ma questi che vogliono? La festa è finita, perché non se ne vanno?". Peppo si corica e mia suocera mi dice: "Perché non ti corichi pure tu?". Quando le chiedo perché non va via, mi risponde che deve vedere se sono la donna per il figlio. Quella sera è stato il momento più vergognoso della mia vita». Le fidanzate borghesi non sono immuni da tali iniziazioni. Nel 1883 Anna Franchi, che ha sedici anni, sposa Ettore Martini e quel giorno passa «dall'altare della comunicanda a quello della sposa». Racconterà più tardi che, fin dalla prima notte, «non rassegnata ma irrigidita chiusi in me la nausea, il disgusto». Sibilla Aleramo è altrettanto afflitta dagli assalti notturni del marito: «Io sentivo una massa pesante stendermisi accanto; nel silenzio, qualche parola, che voleva esprimere passione, ebbrezza; ed ero in suo potere... Questa la mia vita. Essere adoprata come una cosa di piacere, sentir avvilita l'intima mia sostanza. E vedere i giorni seguir le notti, un dopo l'altro, senza fine». E per giunta il marito «non era capace di rispettar la donna sua neanche quando un malessere o una stanchezza la prostravano». Alla fine del secolo, come abbiamo visto, le femministe auspicano che il maschio sia addomesticato, educato al rispetto. Michels esorta i fidanzati al buon senso: sono giorni di emozioni, quelli che precedono le nozze, non bisogna eccedere nell'esaltazione, non occorre giocare il tutto e per tutto in un solo attimo. È meglio affrontare le cose con calma e serenità, altre notti seguiranno, bisogna portare avanti un'intera vita a due. Alla vigilia è invece bene riflettere sul fatto che il matrimonio non diventi «un amaro e doloroso disinganno dopo un breve momento di voluttà». Il matrimonio monogamico, secondo Michels, richiede una «metodica educazione dei due sessi», perché troppi fidanzati arrivano alla prima notte con un amore che «non ha altro contenuto che la sensualità» e, quando questa si consuma giorno dopo giorno, non restano che le ceneri. Se qualche cosa tra i coniugi non va, e specialmente se si tratta di sesso, ci si rivolge al confessore. Una signora di buona famiglia ne ha uno personale, o addirittura un direttore spirituale; le donne di campagna si confessano al parroco. Comunque sia, i sacerdoti conoscono la vita intima delle persone più di chiunque altro. Nel corso degli anni, può succedere che il sesso divida i coniugi più che unirli. Sibilla Aleramo descrive la propria reticenza: «Se una causa di malcontento gli davo, risiedeva nella
insofferenza sempre più acuta dei miei sensi a ogni tentativo di perversione. Ignorante più ancora che brutale, egli non si spiegava il fatto e si tormentava, mentre io non badavo che a difendermi». Ma lui ha ogni diritto di pretendere. L'usanza del debito coniugale comporta a volte la ripetizione all'infinito della brutalità originaria. In questo caso, il matrimonio diventa un «istituto di violenza legalizzata ed ufficialmente autorizzata», che pesa soprattutto sulla sposa. Però, conclude Michels, esso resta «pur sempre la miglior forma di convivenza sessuale». Va migliorata, civilizzata, ma non soppressa. Le ragioni del cuore Non sempre il terreno del sesso è un campo di battaglia tra la voglia di lui e il disgusto di lei. Nel 1902 Isabella Bossi sposa Cesare Mazzocchi. Lei ha un diploma di maestra, lui è architetto. Sono cugini e coetanei, si vogliono bene e hanno superato molti ostacoli prima di convolare a nozze. I genitori di Isabella, poco convinti di questa infatuazione, avevano spedito la ragazza a Londra per quattro anni, ma poi avevano ceduto davanti alla sua determinazione. Quando si sposano, Cesare disegna e fa costruire un grande letto, appoggiato su una pedana alta dieci cen-timetri e ricoperta di feltro violaceo, corredato di quattro zampe di leone realizzate da un amico scultore. Come testimonia la figlia maggiore Elda, quel letto è il monumento a una quarantennale storia d'amore fisico e di intesa spirituale, che ha visto la nascita di tre figli, gioie e lutti familiari, soddisfazioni e sofferenze. In quegli anni di cambiamenti e di progresso, le nozze di pura convenienza a poco a poco sfumano e si trasformano. Nei progetti matrimoniali avanzano le ragioni dell'inclinazione, della reciproca scelta sulla base dell'attrazione, dell'affetto, della stima. Mantegazza è un difensore della libera scelta degli sposi rispetto all'unione negoziata dai parenti, perché «uomini e donne hanno bisogno d'amore sincero, libero, ardente, e se il matrimonio esclude l'amore, uomini e donne lo cercano altrove». È complicato mettere d'accordo le ragioni dell'interesse con quelle del cuore, eppure i giovani lo fanno, con sempre maggiore convinzione. Per molto tempo ancora, però, il matrimonio resta un affare di famiglia, una questione che riguarda la comunità dei parenti. Fino al 1920, anno in cui viene cancellata dai contratti agricoli la clausola che concede al proprietario la facoltà di autorizzare il matrimonio dei mezzadri, un contadino non può formarsi la famiglia a sua scelta. In campagna, quando mancano beni e denaro, è più facile seguire il proprio sentimento per trovare il compagno o la compagna della vita. Nel matrimonio d'inclinazione, le donne guadagnano terreno e potere. Non soltanto sono autorizzate a scegliere in nome dell'amore, ma vengono anche incoraggiate a portare un tocco di gentilezza femminile nella vita a due. La donna medico in casa di Anna Fischer Dueckelmann si presenta con sagaci insegnamenti per lei, «sposa e madre e soprattutto infermiera». Un capitolo molto franco è dedicato alla vita sessuale: «Pochissime persone sanno quale comportamento tenere nella vita coniugale. Quando nuoce il coito e con quale frequenza debbono riunirsi i coniugi sani?». Dunque, d'ora in poi le donne cominciano a essere depositarie, anche loro, dei segreti del sesso. L'autrice ammonisce che esso va esercitato con moderazione, perché altrimenti fa male agli sposi e ai figli che nasceranno. Molti, troppi guai derivano dalle «sfrenatezze» del primo anno di matrimonio, consumate per la brama del maschio e nell'ignoranza della femmina. Quel poco di sesso consentito, comunque, deve obbedire a un pugno di regole igieniche e morali. Per la felicità coniugale, si legge, ci vogliono bellezza fisica e funzioni fisiologiche normali: «i fenomeni morbosi, i cattivi odori, la pelle brutta, i sintomi nervosi durante l'amplesso, gli scoli anormali» raffreddano i sensi. Tocca a una buona moglie vigilare, insegnare e temperare il marito: «Nella vita coniugale la mancanza di riguardo e l'indelicatezza dell'uomo sono in gran parte il prodotto della debolezza, dell'impudicizia e assenza di dignità della donna». È lei che deve dire di no o esaltare l'astinenza; seguendo queste regole gli «incontri» tra di loro, diventati preziosi, saranno migliori della «sfrenatezza». I riformatori si schierano dalla parte delle donne: è giusto che lei abbia voce in capitolo sotto le lenzuola. Una moglie può fare davvero molto, afferma Michels, per rendere il matrimonio
duraturo e felice, perché «ha un mezzo non infallibile, ma potente, di por argine alle pericolose tendenze centrifughe del marito, conservandogli in pari tempo quel diritto alla varietà sessuale, senza di cui la vita erotica del maschio rimane monca ed incompleta». È compito femminile, dunque, arbitrare tra le ragioni contrapposte del disgusto e della sfrenatezza, le due ragioni del conflitto così frequente nei matrimoni di convenienza. Lei può evitare «l'amplesso compiuto stupidamente, senza raffinatezze», e non vergognarsi di figurare come una di quelle, se sarà capace di adottare la «radiosa purezza e maestà della moglie e non l'impudicizia della prostituta... La fede coniugale guadagnerà in vitalità quanto i rapporti sessuali tra i coniugi avranno guadagnato in vivacità». Nel matrimonio d'amore, come in tutte le sedi per bene, ogni stravaganza è bandita. La pratica del sesso è finalizzata a procreare, anche divertendosi, ma non a divertirsi, anche procreando. Nel 1894 Giuseppe Petrai pubblica Bacco, Tabacco e Venere, dove si preoccupa di confutare Tommaso d'Aquino e le convinzioni, ormai dimenticate dai più, del filosofo medievale. Se Tommaso ammette che in caso di impedimento «non cercherai altra donna; piuttosto godrai di lei in quel modo che potrai meglio», Petrai precisa che ormai «la scienza medica ha dichiarato che l'atto compiuto in modo diverso dalle ispirazioni dell'istinto è causa pressoché certa di malattia per i due sessi» e così bandisce il coito interrotto, il sesso orale, la masturbazione reciproca e la sodomia. Socialista, quindi libero Mentre il matrimonio d'amore è incoraggiato, l'amore senza matrimonio e difeso solo da anarchici e socialisti (con le dovute eccezioni). Contro l'ipocrisia borghese della doppia morale maschile, delle donne divise in due categorie, della disparità di poteri tra uomini e donne, i socialisti pronosticano che al sorgere del sole dell'avvenire tutti saranno uguali, e del matrimonio non ci sarà più bisogno. Spariranno così la violenza, la sopraffazione e la prostituzione. Ci crede fermamente Paolo Valera: «Nel libero amore è la cessazione del commercio più vituperevole sul mercato delle abiezioni sociali». Si tratta di una posizione rivoluzionaria, derivata dall'avversione per la società borghese, più che di un autonomo progetto per i rapporti sessuali del futuro. Ed è una scelta che suscita molti dubbi e divisioni in seno agli stessi liberi pensatori. L'esempio di Filippo Turati e Anna Kuliscioff è luminoso e tuttavia non ripetibile; del resto Filippo abita con Anna nell'appartamento in piazza del Duomo, ma la sera torna a casa della mamma, dove si ferma a dormire. Sarà più per affetto che per decenza, però la singolare consuetudine perdura finché vive la signora. Quanto ad Anna, sa bene a quali sofferenze e discriminazioni va incontro una donna «con un passato», e una delle sue massime preoccupazioni, quando la figlia Andreina è ormai adulta, sarà quella di avviarla a un matrimonio d'amore e di convenienza. Il libero amore comporta rischi e storture che gli creano parecchi avversari. Secondo Michels esso «è oggi per la società un pericolo... che può degenerare in una corruzione generale, e per gli individui onesti in una specie di sport sentimentale che con la comparsa del primo bambino torna a battere la via maestra della legalità». Guido Podrecca, un socialista che si è sbilanciato non poco come propagandista e come attivo praticante dell'amore senza legami, nel 1907 - dopo una schiera di donne e una ricca prole - scrive sull'«Avanti!» che ha cambiato idea. Che cosa succederà, domanda Podrecca, alle donne, una volta che si sarà affermato il libero amore? A qual destino andranno incontro i loro figli senza padre? Chi difenderà le une e gli altri? In-somma, il libero amore potrebbe tradursi in una nuova forma di sfruttamento sulle donne, prese e lasciate, emarginate, abbandonate. È proprio quel che capita a Regina Terruzzi, una femminista milanese. Siamo nei primi anni del secolo quando lei, madre nubile e insegnante a Milano in un istituto tecnico, viene presa di mira dalle famiglie di alcuni allievi. Benpensanti, bigotti e clericali scatenano una persecuzione che culmina nel suo licenziamento: se si è data a un uomo senza il sacro vincolo, non può stare a contatto con giovani innocenti, ed è inammissibile che pretenda di educarli. A difesa di Regina, Filippo Turati denuncia il caso in Parlamento, dove afferma che si tratta di
un'ingiustizia e si guadagna -cosa piuttosto rara - le congratulazioni senza riserve della Kuliscioff: «La vittoria contro la morale cattolica-apostoli-ca-romana e contro tutta la moderateria clericale non fu soltanto anticlericale, fu contro la morale sessuale dei maschi in genere». Tra i socialisti, c'è qualcuno che non si perde in chiacchiere, ma pratica il libero amore con un'intensità che sgomenta i compagni e travolge le compagne. La diciottenne Rachele Guidi accetta nel 1910 di andare a vivere con il ventisettenne Benito Mussolini senza alcuna cerimonia. Come si usa tra socialisti. Nel 1913 Mussolini si trasferisce a Milano e infila conquiste una dopo l'altra, benché abbia una famiglia sua - libera unione, non benedetta dalle nozze - composta da Rachele e dalla piccola Edda. Tra le predilette dell'harem, c'è Leda Rafanelli, che è stata l'amante del pittore Carlo Carrà e si è convertita alla religione islamica. I due si incontrano tre volte alla settimana all'albergo Promessi Sposi, a Porta Venezia. A chi lo critica per l'abbondanza quasi immorale delle sue conquiste femminili e per l'assiduita con Leda, Benito risponde che non può farne a meno. Lei ha il merito di dispensare, giura il rivoluzionario Mussolini, «i più bei masticazzi di Milano». Indegne precauzioni Nel 1908 il demografo Giorgio Mortara constata che la «scarsa frequenza dei nati vivi» nelle grandi città non è dovuta al numero di nati morti oppure ad aborti. Conti alla mano, si deve concludere che è dovuta a scarsi concepimenti. Dunque, i casi sono due: o la popolazione pratica la castità, oppure ha trovato il modo di limitare volontariamente le nascite. La seconda ipotesi è la più accreditata, anche se non si sa come (forse grazie al coito interrotto). Tra il 1890 e il 1920 di controllo delle nascite si discute: è un argomento scabroso ma che interessa il destino della famiglia e della nazione. Per i neomalthusiani è una questione economica (con una simile crescita della popolazione, le risorse non basteranno a sfamare), per la Chiesa cattolica una questione morale (intralciare il mistero della vita è un peccato mortale), per le coppie progredite una scelta di pianificazione familiare (i pochi figli possono essere educati e istruiti con maggiore cura), per le prostitute una necessità. Qualcuno considera le pratiche contraccettive un orrore, altri le ritengono un segno di civiltà, i neomalthusiani le giudicano un dovere morale e sociale. A cavallo dei due secoli il controllo delle nascite - le «indegne precauzioni» come vengono bollate dagli avver-sari - viene trattato con una libertà e un rumore che resteranno sconosciuti nei successivi sessant'anni. In Italia, benché sia un paese cattolico, così come in tutta Europa e negli Stati Uniti, la questione è particolarmente viva. Medici pionieri, scienziati sociali, economisti e femministe affrontano senza confini il problema, che ruota intorno a due punti focali: se sia giusto o meno limitare le nascite e con quali mezzi. Arriva così fino a noi il credo di Margaret Sanger, infermiera americana e autrice di un libro sul controllo delle nascite. Troppe famiglie, dice la Sanger, non raggiungono il benessere fisico e morale perché sono gravate da una massa di figli. È ora di mettere da parte il termine neomalthu-sianesimo, che per alcuni rimane incomprensibile e ha un sapore eccessivamente economico, e parlare invece di controllo delle nascite, che richiama a scelte squisitamente individuali e soprattutto femminili. Non è amata neppure in patria, Margaret; perseguitata per le sue idee, accetta la vessazione giudiziaria, perché dalle aule dei tribunali può predicare il suo verbo e divulgare le sue scoperte. Più tardi anche l'opera dell'inglese Marie Stopes è conosciuta e trova adepti da noi, dove si leva una voce di stampo anglosassone e femminista, quella di Paola Grosson Baronchelli. Donna Paola - è lo pseudonimo che usa per le sue lettrici -tuona contro i sistemi di controllo delle nascite «di buona memoria», perché inutili, micidiali e soprattutto maneggiati dal maschio: è ora di accantonare i pregiudizi sulla donna «la quale ha bisogni sessuali tali e quali quelli dell'uomo, se pure l'educazione inculcatale sin dai primi anni, a base di freno religioso e morale, sia riuscita a tenerli in riga fino all'ora della "rivelazione"». È vero, il coito interrotto è rozzo, crudele, insicuro e maschile. I moralisti, poi, lo chiamano «frode coniugale». Benché nella seconda metà dell'Ottocento l'arte di inventare contraccettivi faccia notevoli passi avanti, la loro diffusione è minima, ed è ostacolata in ogni modo.
Nel 1843, la scoperta della vulcanizzazione, che rende la gomma più elastica, apre nuove e più ampie possibilità per il condom, il nome inglese del preservativo. Fino a quel momento esso era un aggeggio di stoffa imbevuta di varie sostanze ritenute spermicide, oppure di intestino di pecora trattato con soda, malsicuro e scomodo. D'ora in poi sarà in gomma, e verrà usato soprattutto come un'efficace protezione dal contagio venereo. Un numero sempre maggiore di maschi - più in Europa che in Italia, che è ancora un paese di agricoltori, di analfabeti e di confessori - fa uso del preservativo sia quando si accompagna a una prostituta sia quando copula con la moglie, in modo da non essere contagiato e da non contagiare. Negli anni Settanta un tedesco, il dottor Mensinga, inventa un cerchio di gomma dal bordo rigido - capace di bloccare il collo dell'utero come un coperchio -, che nel 1882 entra in commercio, anche se si tratta di un commercio molto limitato. Il diaframma, come viene chiamato, è per la prima volta uno strumento femminile, efficace e tecnicamente avanzato. Il suo successo è scarso, benché parecchi manuali lo consiglino alle spose, proprio per il basso livello di istruzione e di informazione, e per la soggezione al maschio che caratterizza il mondo femminile. Tra le prostitute, più che nelle coppie per bene, vengono adottate le lavande, le spugne, il tappo di stoffa, il chinino in vagina, oltre naturalmente al preservativo. Anna Fischer Dueckelmann incoraggia il controllo delle nascite, illustrando i mezzi più efficaci e più innocui - e il coito interrotto a suo parere non lo è perché «toglie alla donna la soddisfazione necessaria alla sua salute», mentre il diaframma ha «ricondotto la pace tra molti coniugi» -nonché la continenza: il sesso due o tre volte al mese, dice la dottoressa svizzera, è sufficiente a una coppia giovane e felice, «in questo campo si farà sempre troppo, mai troppo poco» e del resto «in molti casi, il godimento sessuale è nocivo». Il primo anticoncezionale, dunque, gli sposi lo troveranno nella continenza e, per facilitare le cose, non devono dormire nello stesso letto perché «non si eccitino mutualmente nel connubio intimo». Non tutti dispongono di appartamenti o case grandi, ma quando gli sposi devono per forza dividere la stessa stanza, la dottoressa suggerisce di allontanare i letti l'uno dall'altro, accostandoli a pareti opposte. Occorre aggiungere un'ultima precauzione: il giaciglio di lei sarà nascosto da un paravento e lui sarà meno crudelmente esposto a tentazioni. Nel 1910, al convegno de «La Voce», Luigi Maria Bossi, ginecologo, si pronuncia contro il controllo delle nascite ottenuto in qualsiasi modo: con il coito interrotto, il preservativo o la castità. I primi due, sostiene, sono responsabili di molte malattie femminili. Bossi è socialista, come Rodolfo Mondolfo, Filippo Turati e Benito Mussolini, eppure i quattro hanno opinioni diverse a proposito della castità, sia come regola igienica e morale, sia come metodo contraccettivo. Benito Mussolini, che non partecipa al convegno, si dichiara però pubblicamente entusiasta del controllo delle nascite: «Un atto di saggezza, responsabilità e probità, un sacro dovere». Giuseppe Prezzolini, Gae-tano Salvemini e Roberto Michels parlano a favore della contraccezione. Michels non ha dubbi, il controllo delle nascite «è una necessità» per evitare lo stuolo di figli trascurati e mal nutriti: «Il tipo della continua procreatrice è, del resto, un tipo primitivo, in contrasto con le esigenze che nascono da un concetto più civile della vita moderna». È addirittura sconsigliabile che una giovane sposa, già provata dal rivolgimento che l'ha portata dalla vita di fanciulla a quella matrimoniale, si trovi immediatamente impegnata in una gravidanza e poi in tutte quelle successive. Il rispetto della donna come creatura umana impone un po' di comprensione e di pazienza: con il matrimonio la giovane affronta, uno di seguito all'altro, «una cruda iniziazione ai misteri della vita sessuale, l'assunzione diretta ed autonoma del governo della casa», l'emancipazione sociale, l'incontro con i nuovi parenti e così via. Il problema è uno solo: quale metodo contraccettivo è efficace, sicuro, innocuo? Spetta alla scienza e alla medicina trovarlo e indicarlo. Nel frattempo bisogna accontentarsi di quelli esistenti, e affidarsi alla continenza. I pionieri della contraccezione, come sarà per i loro figli, nipoti e pronipoti, devono rassegnarsi alle persecuzioni giudiziarie. L'arte di non far figli, un manuale scritto da Luigi Berta e Secondo Giorni, venduto in parecchie decine di migliaia di copie, subisce una denuncia
per oscenità. È l'implacabile Rodolfo Bettazzi, nel 1913, a trascinare gli autori in tribunale, ma non riesce a farli condannare. Come abbiamo visto nel caso della pornografia, i magistrati - figli del loro tempo di progresso, civiltà e laicismo - non sono particolarmente inclini a comminare dure sentenze nel campo dell'offesa al pudore. Berta e Giorni pubblicano anche una rivista, «L'educazione sessuale», per propagandare il controllo delle nascite in chiave socialista: finché le famiglie dei lavoratori saranno numerose, dicono, il benessere sarà irraggiungibile. Nello stesso periodo, Ettorina Cecchi pubblica Malthu-sianesimo pratico, un manuale fortemente orientato alle necessità delle donne: esorta le lettrici a usare il diaframma o la spugna senza informarne il marito. Accusata di oltraggio al pudore, anche lei viene assolta. «L'educazione sessuale» è anche il titolo della rivista di Felice Marta, che nel 1914 è denunciato, processato e assolto dalla stessa imputazione. Dopo l'«inutile strage» della Grande Guerra, dopo il massacro di uomini giovani e potenziali padri, quello della contraccezione diventa un argomento proibito, una faccenda da criminali. Si levano voci per la moltiplicazione della specie umana, ma nessuna risuona a favore della limitazione delle nascite. Non se ne riparlerà per decenni. Lui può, lei non deve Nel 1905 le cronache puntano l'attenzione su Torino, dove si celebra il processo per l'omicidio di Francesco Bonmartini, marito di Linda Murri. Oltre a Linda, siedono sul banco degli accusati Tullio Murri, il fratello, e Carlo Secchi, l'amante di lei. Una parte dell'opinione pubblica è scossa dal fatto che Bonmartini è stato un pessimo marito, un ricattatore del suocero, il che l'ha condotto alla morte violenta. Una tragedia, questa, che si sarebbe potuta evitare se - come in altri paesi - anche in Italia fosse stato possibile il divorzio, sollecitato ormai da molte persone. Un'altra parte degli italiani vede, invece, nel conte padovano, rozzo, adultero e malvagio, una vittima della moglie, infedele anche lei, capricciosa, colta e desiderosa di costruirsi un'altra vita. Linda viene condannata a dieci anni di carcere e nel 1906 è graziata dal re Vittorio Ema-nuele III. Il caso Murri appassiona gli italiani perché contiene tutte, ma proprio tutte, le forti tinte del dramma: sangue, sesso e buona società. Problemi come l'adulterio, il divorzio, l'emancipazione femminile spuntano dietro alla storia di amore e delitto. E anche le questioni di sesso e di donne vengono affrontate con ricchezza di particolari e da diversi punti di vista, e seguite attentamente dal pubblico. Nell'opinione comune, confortata dal Codice Zanardelli all'articolo 353, l'adulterio della moglie è una caduta imperdonabile, quello del marito un'inezia. Nel matrimonio che ha come fine la procreazione, la discendenza deve essere certa. Michels sottolinea che, nei fatti, l'adulterio femminile è più grave perché una moglie che si concede a un altro uomo «regala al marito una prole che non è sua». Lui può seminare figli, tra amanti e prostitute, lei è incatenata al dovere della monogamia, e quindi il reato di adulterio prevede per la donna una pena da tre a trenta mesi, mentre per il marito è fissata una sanzione solo se mette a repentaglio il decoro, mantenendo una concubina in casa «o notoriamente altrove». Non serve che un giurista pronunci parole accorate per l'abolizione del reato perché «il predominio del pathos nella vita sessuale giunge a tal punto di soverchianza che l'esigua parte lasciata al libero volere confina con la mancanza di responsabilità giuridica», il che, tradotto in parole semplici, significa che all'amore non si comanda. Lo sa - e vi si rassegna con serenità - la signora Malfenti ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Giovanni Malfenti perde dal portafoglio una lettera compromettente. Si preoccupa, si agita. La trova sua moglie, e la infila di nuovo nel portafoglio del co-niuge, senza una parola di rimprovero e recriminazione. Meglio tacere, meglio non sapere. Il concetto che la giustizia deve essere esemplare, anche quando sfiora il letto coniugale, viene più volte ribadito. Nel 1903 una sentenza della Cassazione specifica che l'adulterio femminile è reato anche in assenza di rapporti carnali. Quando lei, sposata, convive con un altro, è adultera. L'amante è complice del reato anche se «mancante, per amputazione, dell'asta virile» e privo dell'«istrumen-to per spargere il seme». È l'ordine sociale a essere minacciato e le donne sono custodi del focolare, anche quando il focolare non esiste più. La Corte d'appello
di Palermo non concede attenuanti alla moglie di un carcerato che sconta trentasette anni, perché la prigionia del Marito «non costituisce abbandono». Una soluzione razionale, etica e igienica, ma soprattutto paritaria, è quella proposta da Michels: poiché qui boit boira (chi beve continuerà a bere), l'abitudine al controllo dei propri istinti è la migliore garanzia della fedeltà matrimoniale. Che cosa farà un uomo abituato a sfogarsi quando la moglie è malata, mestruata, gravida o puerpera? Dovrà andare con una prostituta. Il marito che invece ha familiarità con l'autocontrollo resterà fedele. È giusto perseguire la sposa, se è rea, ma è del maschio la responsabilità morale della trasgressione: in Igiene e morale. Studio dedicato ai giovani, un manuale di Paul Good pubblicato nel 1903, si avverte che una moglie è come il marito la plasma. Se lui le rende «insoffribile l'idea del contatto sessuale» o se le consente di provare un piacere smodato, ne fa una donna fredda, oppure passionale e quindi più incline all'adulterio. Tra pochade e tragedia, gli adulteri non cessano affatto per il timore della pena. A Milano fa scalpore un'altra vicenda di buona famiglia. Il capitano Mancini, figlio del ministro di Grazia e Giustizia, rientra a casa e non vi trova la moglie. Interroga la cameriera, la quale confessa e rivela l'indirizzo dell'amante di lei. Mancini lo trova, sfida a duello l'amante della signora, un ragazzo di vent'anni, e lo uccide. Della donna - usata da un altro, priva ormai di onore - non sa che farsene e quindi convoca gli amici e proclama: «Essa non è più mia! Chi la vuole, se la prenda. Non fate complimenti». Tra i due adulteri, non c'è dubbio, è lei a meritare il disprezzo, perché l'infedeltà di un marito si può affogare nel silenzio, ma quella di una moglie finisce per dare scandalo e rovinare le famiglie. Ernesto Rossi, che diventerà un economista, un perseguitato del fascismo e un uomo politico dopo il 1945, è appena adolescente quando la sua famiglia viene spaccata da tre colpi di pistola. Antonio Rossi della Manta, nobiluomo piemontese, padre di Ernesto, uomo noioso e inflessibile, ha cinquantotto anni quando una mattina sorprende la moglie Elide Verardi, quarantatreenne, insieme allo studente Giacomo Spagnoletti, nel letto di quest'ultimo. Giacomo è pensionante in casa Rossi ed è amante della donna da un mese. Antonio finisce in prigione. Guarita dalle ferite, Elide, definita dal quotidiano «La Nazione» «la cattiva moglie, la pessima madre», alleva da sola i sette figli che l'adorano e le resteranno devoti per il resto della vita. Segreto, ironico, triste ma non cruento, è l'adulterio letterario di Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Sposato con Augusta, che ama molto, ha bisogno di svago, e cerca di mitigare i propri nevrotici tormenti in un affare amoroso con Carla. Talvolta ci riesce: «Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per Augusta». A fine secolo, a Civitanova, i maschi adulteri godono della complicità dei concittadini: «Poche coppie mantenevano la fedeltà reciproca, e di parecchi signori s'indicava l'amante in qualche donna che viveva sola, o con un marito, su cespiti inconfessabili». I signori godono dell'indulgenza generale, le signore no, e in questa città Sibilla Aleramo ne paga le conseguenze. Corteggiata da un uomo sposato, non cede alla tentazione, ma, quando la faccenda viene alla luce, lei è messa al bando prima di tutto dalla sua famiglia. Cerca di avvelenarsi con il laudano, però sopravvive e viene segregata in casa dal marito, il quale non manca di esibire la propria generosità: ti perdono, le dice, e non ti scaccio. Nel 1902 Anna Franchi scrive Avanti il divorzio!, dove, denunciando l'orrore dei matrimoni infelici, auspica che la rottura già consumata delle unioni venga riconosciuta dalla legge. Non c'è niente da fare. Nonostante gli orrori della camera da letto, il divorzio non avanza affatto.
Parte seconda PER LA PATRIA 1919-1939 «Sei un'asina!» esclama contrariato Giuseppe Levi, professore di anatomia e padre di famiglia nella Torino degli anni Trenta. La moglie, infatti, ha tagliato i capelli, preferisce un'acconciatura pratica e moderna. Come racconta in Lessico famigliare Natalia Ginzburg, che è la figlia di Giuseppe Levi, a quell'epoca la scelta del taglio di capelli rappresenta da parte di una donna un gesto coraggioso e simbolico, i capelli corti - o, come si usa dire, un'acconciatura alla maschietta - significano per le donne indipendenza e modernità. Per i conservatori invece comportano un'abdicazione alla femminilità, appaiono una bizzarria da ballerina o da cocotte, e prefigurano un pericoloso scivolare verso l'uniformità dei sessi. «Fra le due guerre il cinema da ai popoli un'interminabile lezione d'amore: insegna il fascino nelle più oscure provincie» scrive Orlo Vergani. «La girl e la vamp si alternano...Il cinema è tutto una serie di avventure di donne belle, per la stupefazione delle platee borghesi o aspiranti borghesi.» La virilità italica è anche quella, narrata ne I coetanei, del gerarca anziano che il 9 giugno 1940 - alla vigilia dell'entrata in guerra - compie una gita in barca con Elsa de Giorgi e Anna Magnani e non si lascia sfuggire l'occasione di dimostrare a quale razza appartiene. Quando Nanna (la Magnani) stenta a risalire sulla barca, «per quanto banfante, le dava di gusto dei gran colpi al sedere per aiutarla, diceva lui, a darsi un po' di slancio. "Ma non ci mettete buona volontà, cara" sbuffava sprizzando acqua da tutti i peli; e dava gran manate. "Ce ne mettete tanta voi, Eccelle', che dovrebbe bastare per due" rispondeva la Nanna sfiatata». Non si può ridere del duce, dei gerarchi e della pomposa retorica del regime, ma si può ridere delle «corna», ovvero dell'infedeltà coniugale. Chi legge il giornale umoristico «Marc'Aurelio» trova, per esempio, la vignetta dal titolo Con l'amica, che raffigura due giovani donne in conversazione. «Il tuo bambino somiglia tutto al padre» osserva una delle due. E l'altra: «Per carità, non farti sentire da mio marito.». È segreta, invece, al culmine della gloria del regime, la storia d'amore di Rachele Mussolini con il capostazione di Forti, l'unica trasgressione conosciuta della prima signora del fascismo. La vicenda clandestina non sfugge tuttavia alla polizia, che la riferisce al coniuge interessato, il duce, il quale da parte sua non si è mai risparmiato le avventure galanti, e quindi chiude tutti e due gli occhi. Tra la prima e la seconda guerra mondiale si stendono gli anni della dittatura, quando Benito Mussolini vuole dirigere, plasmare e dominare ogni aspetto della vita degli italiani, anche quella intima. Il sesso è una risorsa della nazione, serve alla campagna demografica, che renderà numeroso, forte e invincibile il popolo italiano. Al duce piace la massaia, la madre di famiglia, la poderosa fattrice di prole; è contento che il maschio italico sia - come è lui - un forte e assiduo fornicatore, frequentatore di casini, conquistatore marziale della femmina. Da parte sua Pio XI caldeggia la verginità delle fanciulle, il calore della sposa e madre, la solidità della famiglia, e condanna senza appello il controllo delle nascite. Ma non tutti gli obiettivi della dittatura e della Chiesa vengono raggiunti. Fin dagli anni Venti emerge una figura di donna più indipendente e disinvolta; la letteratura e il cinema propongono modelli di bellezza sensuali e inquietanti; crescono le nascite illegittime e, malgrado la diffusione del culto di Maria Goretti, un gran numero di bambini è concepito prima delle nozze. In un'Italia che sembra congelata, incatenata e repressa, qualcosa si muove sul fronte dei comportamenti intimi. Prosegue quel lento sgretolarsi della morale ottocentesca e, se le leggi, i codici, gli usi consolidati del buon costume oppongono un argine a ogni cambiamento, le persone comuni adottano sempre più frequentemente comportamenti disinvolti, seguono mode ardite e vanno, insomma, controcorrente.
VI IL MASCHIO SUPREMO «Lui ha sempre il cannone carico» confida Rachele Guidi, compagna per trentacinque anni di Benito Mussolini. Interprete sommo della «vittoria mutilata», Mussolini non è soltanto l'inventore del fascismo, il primo tra i dittatori europei, il pioniere della lotta al bolscevismo. Il duce è il propagandista di un modello, spesso sognato e mai realizzato: quello di una virilità piena, pronta e audace. Per secoli sudditi dello straniero, succubi dei signori, coccolati dalla mamma, istruiti dai preti, e ora anche beffati dagli alleati della Grande Guerra, i maschi italiani del fascismo si sentono finalmente uomini. Nella dura, tragica esperienza della trincea hanno dato prova di eroismo, non vogliono rispecchiarsi più in un ritratto umile e imbelle. Trovano in Mussolini il maestro che indica loro la strada del riscatto, della vittoria, della grandezza imperiale e, non ultimo, del possesso dominatore della femmina. Padrone in casa propria, in cucina e a letto, l'italiano fascista prende a modello il suo duce e, con lo stesso tono perentorio con il quale ordina di versare la minestra, ingiunge alla sua donna: «Vieni qui che ti adopero». Fin da giovane Benito Mussolini denuncia i tratti del vitellone - che gli angloamericani traducono all'incirca playboy -, la foga del romagnolo e la tenacia del rivoluzionario di professione. Anche nelle circostanze più difficili dell'esistenza, come quando, diciannovenne, nel 1902 si trova a Losanna, un po' esule e un po' latitante per diserzione (non ha risposto alla chiamata di leva), lui non perde lo sguardo di fuoco, specchio di un'anima ribollente. Lo scorge Angelica Balabanov, militante socialista, esule anche lei. Pensa tra sé che quel ragazzo ha «occhi inquieti e una faccia da fame» e, come ricorderà anni dopo, «mi fece pena». Lo invita a lavorare a una traduzione, per consentirgli di guadagnare pochi franchi. Sul libro galeotto lei, brutta, colta, appassionata e marxista, viene travolta dalla virilità affamata del giovane. Nel 1904 l'amnistia per la nascita del principe Umberto interrompe il libero amore dei due socialisti. Mussolini torna in Italia per fare il soldato, ma la storia è tutt'altro che finita. Nel 1909, anzi, comincia una girandola di femmine, destinata a durare tanto a lungo quanto la dittatura fascista. Sembra che Mussolini metta tanta più energia nel progettare la rivoluzione, quanto più numerose sono le sue donne e quanto più varie sono le copule. Ritrova Ida Dalser, una bizzarra signora che aveva conosciuto anni prima a Trento. Si è stabilita a Milano, dove ha impiantato un salon de beante, che venderà nel 1914 per contribuire a finanziare «Il popolo d'Italia», un gesto di generosità per sostenere, con l'intervento italiano in guerra, l'adorato bene. Nel gennaio 1910 inizia la convivenza con Rachele e in settembre nasce la piccola Edda. Più o meno contemporaneamente viene alla luce un altro piccolo Mussolini, figlio di Fernanda Ostrowski, esule russa anche lei, come la Balabanov. In quello stesso anno, al congresso del Partito socialista, Mussolini incontra per la prima volta Margherita Sarfatti. L'attrazione fisica e intellettuale è reciproca, anche se il vero colpo di fulmine tra i due esploderà soltanto verso la fine della guerra. Benito e Margherita si conoscono meglio quando lui diventa direttore dell'«Avanti!», anche se egli sa già - come confessa a un amico - che non può resistere alle bionde dalle curve morbide. In realtà non resiste a nessuna tentazione carnale, e comunque Margherita, una gran signora, colta, ricchissima ed elegante, è appunto rotondetta e chiara di capelli. Quando iniziano gli appuntamenti segreti con Margherita, Mussolini incontra di nuovo Leda Rafanelli e - come abbiamo visto - non perde tempo con questa donna eccentrica. Nel frattempo ha riallacciato la relazione con Angelica Balabanov, e Rachele è esasperata dal carosello di femmine intorno al suo uomo. Lui da fondo alla fantasia e proclama che «se fossi nel deserto e Angelica fosse l'unica donna nei dintorni, preferirei farmela con una scimmia». Tutti e due sanno che non è vero, ma è difficile ribattere a tale secca eloquenza. Questa volta accade qualcosa di grosso nella tumultuosa corsa al sesso di Mussolini. Nel novembre 1915 Ida Dalser partorisce un bambino, che chiama Benito, e pretende di essere sposata. O quanto meno, chiede al padre naturale il denaro per provvedere al piccolo. Invece, in dicembre, Benito sposa
Rachele. Margherita Sar-fatti, che ha caldeggiato le nozze riparatrici, è incaricata, insieme a Regina Terruzzi, di battersi sull'altro fronte, cioè di negoziare con la Dalser per tacitarla e, probabilmente, di sborsare il denaro necessario a sopirne le pretese. Milano, capitale immorale, è un paradiso dei sensi mus-soliniani. Oltre alle signore di ogni ceto e di varia bellezza, l'ex socialista frequenta con assiduita le case di tolleranza, nelle vie San Carpoforo, Fiori Chiari, Chiaravalle, Pantano, queste ultime due vicine al covo di via Paolo da Cannobio, dove Mussolini medita e trama intorno alla presa del potere. Afferma che «non c'è come il sesso per chiarirsi le idee» e il suo successo politico lo conferma. Di se stesso dice: «Il maschio viene prima del politico». Eppure, lui non è privo di sentimento. Si innamora, come testimonia la sorella Edvige, che lo incontra a Milano alla fine della guerra. La donna del cuore è appunto Margherita Sarfatti. Questa è, sì, una relazione carnale, ma anche un'intesa solida tra due personalità molto diverse. Se Margherita scrive poesie, lui replica con bigliettini teneri. Scrive lei: «Altre donne prendi lasci riprendi / Rido e soffro: lo so. / Verrà giorno: scoprirai che mi porti entro te / Io tuo spirito e carne per sempre / Amarti è una lunga pazienza / Rido e soffro: lo so». Nello stesso periodo, quando si incontrano dopo il lavoro al «Popolo d'Italia», dandosi appuntamento vicino a corso Venezia, dove abita lei, Mussolini le invia messaggi appassionati e allusivi al loro segreto amore: «Pensa al tuo devotissimo selvaggio, che è un po' stanco, un po' annoiato, ma tutto tuo, dalla superficie al profondo. Dammi un po' di sangue dalle tue labbra». E ancora: «Ti bacio forte, ti abbraccio con tenerezza violenta». Questo non gli impedisce di confidare a Leda Rafanelli che Margherita è bella e intelligente però avara, ed è avara perché ebrea. Tutti sanno che i due - entrambi sposati -sono amanti, ma il codice della clandestinità viene rispettato, con qualche scenetta degna di una pochade. Nel 1921, per esempio, Margherita si reca a casa Mussolini per discutere questioni urgenti, politiche e giornalistiche. Brontola Rachele, costretta a ricevere l'amante del marito: «È proprio vero, certe persone non hanno vergogna di niente, bisognerebbe buttarle giù dalla finestra». Dopo la marcia su Roma, quando Mussolini è capo del governo, alloggia temporaneamente al Grand Hotel. Margherita sbarca invece al Continental, per discrezione, dove Benito la raggiunge sfuggendo alla sorveglianza organizzata per proteggerlo. L'indomani la sua scappata è di pubblico dominio e l'allarme raggiunge orecchie autorevoli. Commenta piuttosto preoccupato Giovanni Giolitti: «Se si comporta in questo modo, è più facile ammazzarlo». Ma il quadrumviro Michele Bianchi difende il capo e replica: «L'uomo non è di legno». Ne sa qualcosa Margherita Sarfatti, che nel 1926 scrive Dux, un ritratto umano e politico del suo idolo, dove celebra il mito della virilità fascista, portata ai massimi trionfi da Lui, che adesso si scrive con l'iniziale maiuscola. Al culmine del potere, il duce dovrà fare i conti con un passato così intenso. Nel 1918 ha avuto un figlio, Glauco, da Bianca Veneziana, nel 1921 una figlia da Angela Curti Cacciati. Molti ragazzi e ragazze tentano di essere riconosciuti come figli naturali di Benito Mussolini. Lui cerca di far fronte all'assedio dei figli veri o presunti, poi si confida con la sorella Edvige e se ne lamenta: «Questo è il mondo alla rovescia: un tempo, se qualcuno era figlio di un corno, taceva il fatto e cercava di nasconderlo. Ma ora ci dev'essere nei cervelli qualche stravolgimento». La carriera erotica mussoliniana corre parallela a quella politica. Nulla riesce a fermarla e, del resto, il duce piace a tutte. La sua faccia è «di una durezza e di una fermezza così maschia» scrive la giornalista tedesca Louise Diel. Occhi di carbone, torace gonfio, mento in fuori come i pettorali, «è mille uomini e mille uomini sono in lui» decreta l'attrice francese Cécile Sorel. Il supremo maschio riceve proposte d'amore epistolari, come quella di Michela che, nel dicembre 1925, va diritta alla scopo: «Malmaritata con un uomo freddo come un canapo stretto alla gola... temevo di non conoscere più, nella vita, l'amore... Ora qui c'è un fiore che attende d'essere colto. Non lasciatelo sfiorire perché, se v'accosterete, scoprirete tutto un giardino appassionato, devoto, discreto».
Lui è all'apice della gloria e ha quasi dimenticato la giostra vorticosa di femmine che aveva preceduto la marcia su Roma, ma il cuore (come il cannone) è sempre pronto. Claretta Petacci ha ventun anni l'8 settembre 1933, quando incontra per la prima volta Benito Mussolini. Lei sta correndo in auto verso Ostia con la famiglia, lui la supera volando sull'Alfa con l'autista. È in divisa, come un eroe da romanzo. Claretta si fa di fuoco per l'emozione: «Il Duce, il Duce!» grida. Non è bionda, ma bruna; non è rotondetta, ma piena e pepata. Ha scritto diverse poesie che ha inviato al suo idolo. Lui non le ricorda ma, a buon conto, osserva che ha ravvisato «molto sentimento» in quei versi. La convoca a palazzo Venezia per parlare di poesia. Lei è fidanzata con il tenente d'aviazione Riccardo Federici che non è geloso perché, come dice la canzone: «Se tu mi dice: 'Scine /voje bene a Musoline /F che so' lu spose / mbe' nen so' gelose». Si sposano nel giugno 1934, ma le nozze così precarie finiranno nell'annullamento. Mussolini ha compiuto cinquant'anni, eppure ripete ancora: «Io non mi stanco mai», e Claretta lo può confermare. Era inevitabile che andasse a finire così. Un manuale dal titolo Vita sessuale, pubblicato proprio nel 1933, insegna che: «Il sesso si impone sovrano sia nella vita fisica che nella vita psichica ed intellettuale dell'individuo». I maschi e le femmine sono fatti apposta per l'unione carnale, non possono avvicinarsi né somigliarsi, ma solo incontrarsi nel supremo istante della copula. E lui, il numero uno, lo sta dimostrando al suo popolo. Alla prima visita a palazzo Venezia ne seguono altre. Si ripete innumerevoli volte il rito del ricevimento: l'usciere Navarra introduce Claretta nella sala dello Zodiaco, lei siede e aspetta, sfogliando riviste di moda e bellezza (o scrivendo altre poesie?). Aspetta che lui sia libero e che, quando proprio non ha altro da fare, la raggiunga. Lei è felice di tanta passione, la famiglia Petacci è soddisfatta dei privilegi che ne derivano. Claretta è completamente sottomessa, ma fiera di esserlo a un uomo tanto importante, che sta per consegnare un impero al re e ai connazionali. Consumano lì, corre voce. Lui è estasiato, secondo quanto riferisce Navarra, dal pesante seno di lei. Quando descrive i suoi gusti in fatto di donne, Mussolini insiste su questo punto: una bella italiana avrà fianchi ampi, guance rubizze e seno prosperoso per essere una «fattrice» di prole numerosa. Nel 1941 Claretta è ancora innamorata, Rachele sempre gelosa, però il quadrumviro Emilio De Bono annota nel diario che lui, Benito, è cambiato. Non il sesso, ma il tempo consuma nella sala dello Zodiaco, suonando il violino mentre l'amante lo ascolta. Ormai è rimbambito, giura De Bono. Comunque sia, l'amore di Claretta resiste al tramonto dell'eros e alla morte stessa. Lei lo segue a Salò, a Milano, in fuga verso la Svizzera, e con lui viene fucilata a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile 1945. Il ricordo della Petacci e la fine del duce ispirano a Pietro Nenni che lo conosceva bene fin dall'inizio del secolo, quando nella ribollente Romagna l'uno era socialista e l'altro repubblicano - una generosa conclusione: «Le donne non sono quel che c'è stato di peggio nella vita di Mussolini». Quando il duce incontra l'ultimo amore della sua vita, Gabriele d'Annunzio si è ritirato al Vittoriale, sul lago di Garda. Sembrano passati secoli dalle delizie della sensualità dannunziana, da quelle camere riscaldate dal caminetto, dagli amanti che si preparano un té, si ricoprono di fiori e intrecciano conversazioni d'arte, di musica e d'amore. Il poeta si compiace di esplorare le sue donne, che pure non manca di sfruttare. A Mussolini non interessa la profondità dell'anima femminile, ma soltanto se stesso. L'eros dannunziano innova il gusto letterario e propone ai lettori un'estetica moderna e meno provinciale. L'eros mussoli-niano è quello di un superuomo (benché la sua conoscenza di Nietzsche, secondo Margherita Sarfatti, sia sommaria e superficiale) che preferisce chiudere i confini della mente ai sudditi, per rintanarli tra il tinello, il postribolo e l'adunata di partito. Prendere e lasciare le donne è per entrambi un gioco esistenziale. Ma un abisso separa la sensualità della Belle Epoque dalla sbrigatività del ventennio fascista. Forse nei letti italiani le cose non cambiano gran che, tuttavia cambiano le mode e le regole. E quando il poeta muore a Gar-done, il 1° marzo 1938, Mussolini non nasconde la proprie opinione sul defunto: a lui non sono mai piaciuti i personaggi estenuati come Andrea Sperelli. Meglio quelli di Emilio Salgari,
che «sono sempre schietti, puri, prima uomini e poi maschi. Mai contaminati dagli istinti animaleschi... Mentre l'eroismo dannunziano puzza sempre di sperma, di cosce». Il sesso di fine secolo si ambientava tra tappezzerie, vestaglie, cineserie e madonne quattrocentesche. Al Vate piace svelare il mistero femminile. Ne Il trionfo della morte, Giorgio dice a Ippolita: «Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile». Il modello fascista invece è Benito Mussolini, campione di quantità e di energia, poco interessato all'anima delle amanti. L'eros dannunziano è raffinato e perverso, ma non fine a se stesso: «Non riesco a vincerlo, a dominarlo. E, davanti alla mia anima» spiega il poeta a Lui-sa Baccarà nel 1923 «ho per giustificazione la ricerca dell'ignoto, del mistero che è in ogni creatura. Averne rivelato una parte, nei miei libri, non è il mio più alto pregio?». L'eros fascista, al contrario, è patriottico, nazionale, militaresco, tutto ispirato al potere. Sui bicipiti di rispetto Caduto Mussolini il 25 luglio 1943, l'ispettore generale di polizia Saverio Polito è incaricato di accompagnare in auto Rachele Mussolini, che ha cinquantatré anni, da Roma alla Rocca delle Caminate, in Romagna. Siedono uno vicino all'altra. A un certo punto il poliziotto allunga la ma-no, tocca, insomma ci prova. Rachele è insieme sorpresa e indignata, questa mancanza di rispetto è un segno sicuro del crollo del fascismo. E invece no. È piuttosto la prova di quanto profondamente la moda erotica del Ventennio abbia inciso nel comportamento maschile. Certo, Polito approfitta della disgrazia nella quale la prima donna del regime è ormai precipitata. Ma, in realtà, si limita a fare ciò che ci si aspetta da un uomo del suo tempo, da un maschio fascista: lo farebbe anche il duce, un vero uomo non può nascondere l'istinto. Da due decenni un paio di generazioni di italiani sono cresciute nel culto del capo e della sua virilità. Un vero uomo, si dice negli anni Trenta, è quello che può esibire il «bicipite di rispetto», dove il bicipite è il muscolo dell'omero che serve a sostenersi durante il coito nella posizione del missionario, mentre il rispetto è quello tributato alla fragile figuretta femminile che sta sotto, supina e schiacciata. Fin dai giorni dell'ascesa, Mussolini ha parecchi seguaci e numerosi imitatori. Anzi, tutti vogliono fare come lui: «L'amore del duce per la Petacci era stato un grande stimolo a lanciarsi verso le più audaci libertà virili». Ma a Mussolini preme che il fascismo si spogli delle vesti rivoluzionarie, del sapore di squadrismo, della «puzza di casino». Quel che è lecito a lui, non può esserlo a ogni fascista. Quindi provvede a far sorvegliare i più facinorosi tra i compagni di lotta e di regime, per scoprire che si dedicano a imprese erotiche trasgressive. Così, per esempio, Mussolini viene a conoscenza nei minimi dettagli delle preferenze del console della Milizia Evandro Cagnoni. È un frequentatore abituale del tabarin romano La bomboniera, nel quale - riferiscono i rapporti di polizia - si esibisce Panicucci Erminia, in arte Mimi de Luxor. La confidenza tra i due è tale che lei si toglie una scarpa, la porge a Evandro, lui la riempie di spumante e ne sorseggia voluttuosamente una goccia. Il quadrumviro Michele Bianchi - e questo lo sanno tutti, non c'è bisogno dei rapporti di polizia - è pazzo per Anna Fougez, diva del tabarin, diventata famosa per l'interpretazione di Vipera e per il braccialetto a forma di serpente, immancabile ornamento dell'esibizione. Con Em-ma Pappacena (o forse Annamaria Laganà), che è il nome anagrafico della cantante, il virtuoso scapolo quaranta-duenne cambia vita, cede il posto a un forsennato d'amore che, quando muore di tisi, nel 1930, forse è finalmente appagato. Le imprese erotiche dei fascisti non hanno il sapore leggendario di quelle del loro capo. Anche quando si tratta degli stretti collaboratori, non c'è niente da fare, mancano di eleganza. Nelle avventure galanti non c'è da usare il manganello. Al varietà Apollo di Roma recita Gina Frine, alias Cappellano Teresa, assidua di Cesarino Rossi, capo dell'ufficio stampa della presidenza del Consiglio, che le fa avventatamente dono di due renards argentés. Walter Dugoni è il braccio destro di Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e ha una tumultuosa relazione con Teda Giambastiani. La ricca vedova, che lo mantiene, convive con lui
all'albergo Oriente. Qui un poliziotto spia gli amanti e ne origlia le conversazioni, che però come risulta dai rapporti - si rivelano nient'altro che volgari battibecchi: «Sei solo una vecchia vacca! Io coi tuoi soldi mi ci pulisco il e...». E Teda: «Vigliacco! Pappone! Se i fascisti son tutti come te, povero Mussolini». Nella lite entra la gelosia. Dugoni ha allacciato una relazione carnale con Castello Maddalena, nota al pubblico del varietà come Lena d'Orly - la quale a sua volta è mantenuta da un prospero commerciante - che, uscita di scena la vedova Teda, finisce per essere l'unica e ignara fonte di sostentamento per gli amanti. Mussolini non ne è affatto contento e quando, nel 1926, insedia Augusto Turati alla segreteria del Partito nazionale fascista, gli da mandato di fare pulizia perché, confida, «puzziamo ancora di manganello, di menefreghismo, di casino». È vero, il profumo se lo porteranno dietro sino alla fine. Lì, tra le prostitute, il maschio fascista da sfoggio di forza. Anche troppo. Loriana è «una di quelle», che nutre forti sentimenti patriottici, ha dato l'oro alla patria, e nel 1935 scrive una lettera al duce. In una casa di tolleranza genovese dove faceva la sua quindicina, racconta la donna, alcuni «figli di papa e gagà... si sono gettati sulle donne come se non avessero mai visto femmine in vita loro, arruffando e tastando, e dopo essersi sfogati come maiali, senza tirar fuori una sola lira, a sputi e calci le hanno portate nelle sale al pianterreno, tutte denudate e illividite a sfilare e cantare... Il postribolo a questo punto non è qui ma dove si comanda». Ogni parola del credo fascista ha il sapore della forza, della virilità, della supremazia. Le teorie della razza ispirano il comportamento sessuale. Ci sono razze mascoline e razze femminine, dicono i propagandisti negli anni Trenta, seguaci di Jakob J. Bachofen. Lo svizzero insegna che lo spirito è virile e la materia femminile, dunque, a chi spetta la supremazia? Allo spirito e al maschio, naturalmente. Non importa se le teorie della razza, con il loro schematismo, giocano brutti scherzi a chi le segue. Ne I coetanei, Elsa de Giorgi è costretta ad ascoltare l'improvvisata conferenza di un ufficiale tedesco carico di decorazioni, il quale spiega - con argomenti, come dice lui, «scientifici» - che le donne italiane sono «soggiogate dal fascino degli uomini tedeschi» perché «il maschio germanico... è grande, forte, biondo; la donna italiana piccola, debole e bruna. "La legge dei contrasti, capito?" insisteva rivolgendosi ripetutamente a me. "Non so" risposi "perché a me piacciono gli uomini mediterranei piccoli, neri, magari villosi." E, dopo una pausa, sorridendo: "Come alle donne tedesche, del resto, che in genere sono bionde come me"». Gli italiani vogliono stare dalla parte delle razze virili e non perdono occasione di schierarsi. In quanto maschi, poi, non hanno dubbi su quale sia il loro diritto e dovere. Un esempio di virilità italica è quello del «Signor direttore» narrato da Grazia Deledda in Cosima: «Era un libertino, che si teneva in casa una bella ragazza mora, che la faceva camminare nuda carponi sui pavimenti e che l'aizzava come una bestia». Di razza italica è anche Giovanni Percolla, protagonista del Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, il quale «a trentasei anni non aveva baciato una signorina per bene» ma «la sua vita era, invece, piena di cameriere d'albergo e di donne facili.... Più di un'ora con una donna, Giovanni non era mai stato». A palazzo Chigi, dal 1934, risiede invece il sesso fascista che i burloni definiscono sui generis, cioè del genero del duce. Da quando ha sposato Edda, il secondo maschio del fascismo è Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo Ciano, uno degli eroi della beffa di Buccari nel 1915. Diventa ministro degli Esteri a trentatré anni, e come l'illustre suocero riceve le signore - una alla volta, ma più d'una - in un salottino privato, nelle pause dal lavoro. Sono, anche questi, incontri brevi all'insegna dell'efficienza atletica, ma di preferenza con giovani avvenenti, possibilmente di buona famiglia, meglio se dell'aristocrazia romana. Ciano è assediato anche fuori dall'orario d'ufficio. Gli amici lo osservano mentre gioca a golf e d'improvviso non lo vedono più: è scappato dietro ai cespugli, e non da solo. Per la verità anche Edda Mussolini, prima e dopo il matrimonio, ha adottato il comportamento del maschio supremo. Anche lei è sorvegliata da uomini di fiducia del padre, i quali registrano il fatto che Edda è particolarmente interessata ai maschi, purché prestanti. Sulla famigliola circola una filastrocca non proprio
garbata: «Il suo nom finisce in az-zo / il cognom finisce in ano / egli è genero di un pazzo / ed è figlio di un ruffiano. / Ti par forse cosa strana / che la moglie sia puttana?». Non c'è bisogno di essere antifascisti per coniare battute e bons mots, o per inventare barzellette sul comportamento sessuale dei gerarchi. Achille Starace è uno dei bersagli preferiti di queste frecciate. Gli scrivono un epitaffio: «Qui giace Starace / vestito d'orbace / in pace rapace / in guerra fugace / a letto pugnace», e nel pieno della campagna demografica, quando è segretario del PNF, gli attribuiscono questa esortazione ai compatrioti: «Tutti gli organi del partito funzionano: devono funzionare perciò anche gli organi genitali». Il gerarca dalla barba di tritone ne I coetanei ha quasi sessant'anni e, benché sposato «quand'era sottufficiale», è da poco padre di una bambina, frutto della relazione con un'ebrea dell'Europa orientale che lo ha «rimminchionito». Nonostante la sua posizione e l'amicizia con il duce, egli non riesce a ottenere l'annullamento del matrimonio per regolarizzare la situazione. Non è sempre possibile essere tutto in una volta maschi, sposati, fascisti e insieme divorziati, amanti di un'ebrea e padri di una «bastarda». Nell'era del maschio supremo, non c'è posto per i «mezzi uomini». Una società così fiera della propria apparente virilità non tollera neppure il sospetto dell'esistenza di omosessuali maschi. Le cronache non ne fanno menzione e quando il guardasigilli Alfredo Rocco compila il nuovo Codice penale, si pone un problema: prevedere il reato di omosessualità e la conseguente sanzione, oppure ignorarlo? È meglio fingere che in Italia non esista il problema e, caso mai, perseguire l'omosessualità come offesa al pudore o perché comporta la corruzione di minore. «Un uomo sano può tutt'al più avere qualche curiosità per le lesbiche; non potrà che sentir nausea per i pederasti» scrive in Pensieri di un libertino Arrigo Cajumi, il quale, benché non fascista, è tuttavia un uomo del suo tempo. Poiché è una vergogna, l'omosessualità viene trattata come tale, e perciò viene nascosta. Una rara allusione a tale condizione riguarda l'ex segretario del PNF Augusto Turati, che viene allontanato da Roma e mandato a Rodi per sospetta inclinazione verso il suo stesso sesso. Su di lui viene coniata questa freddura: «Libro e maschietto, fascista perfetto». I casi di reati che coinvolgono l'omosessualità sono cen-surati dalla stampa e sepolti agli occhi del pubblico. Nel 1941 il medico Livio Caucci, romano, viene condannato per corruzione di minore, radiato dall'Ordine dei medici e inviato al confino. Nessuno sa del suo peccato. Torna a Roma e ricomincia a frequentare i ragazzi, ma verrà ucciso il 24 agosto 1952 da due diciannovenni che, avendo bisogno di denaro, hanno suonato alla porta di casa dell'ex dottore, «noto nel giro degli anormali»; quindi «si sono prestati» come racconta la cronaca del fattaccio «all'avvilimento», ma non si sono voluti accontentare della somma pattuita e gli hanno rubato tutto, anche la vita. «Chi ce l'ha, lo porti in cantera!» Nel 1923 da Ginevra la Società delle Nazioni condanna la tratta delle bianche e lo fa sapere ai paesi aderenti, auspicando che questi prendano le misure necessarie. Il governo italiano risponde che da noi il problema non esiste. In Italia - precisa Mussolini da palazzo Venezia - è in vigore un insieme di provvedimenti intesi a salvaguardare «l'ordine e la salute pubblica». Cioè il sistema della tolleranza, che non ha nulla a che fare con la schiavitù, almeno secondo un punto di vista largamente condiviso. Per dimostrare che ordine e salute sono sotto controllo, proprio a partire dal 1923 le leggi di pubblica sicurezza vengono applicate con particolare solerzia. In questo modo, la prostituzione spontanea, senza libretto e senza visita medica, finisce per diventare una quota irrilevante del mercato. A parte i moralisti di Ginevra, nessuna voce si leva più a proporre l'abolizione dei bordelli autorizzati dallo Stato. Anzi, questi costituiscono uno dei pilastri del nuovo regime, che fornisce agli italiani le regole e i luoghi del piacere carnale. Si tratta di una delle poche invenzioni della democrazia postunitaria che il regime apprezza, fa sua e fa funzionare al meglio. Forse perché, essendo una maschia istituzione, minuziosamente regolata e per di più di Stato, si adatta particolarmente bene ai tratti del nuovo regime. D'altra parte questo commercio non si ferma mai. È vero che la domanda di sesso a pagamento cresce nei periodi di prosperità, e l'offerta è
abbondante nelle fasi di depressione. Fino alla seconda guerra mondiale, dunque, la tolleranza rimane, nella sensibilità comune, un'istituzione benemerita e necessaria, le prostitute moralmente condannabili ma socialmente utili. Intanto letteratura e leggenda si alleano per tramandare un'immagine dolce, casalinga e amichevole della prostituzione da casino. Secondo la mentalità ufficiale, chi non va al bordello è un perverso, un debole, un omosessuale o un malato. Nei giorni della marcia su Roma, il consumo di marchette della capitale batte ogni record. E così accade negli anni successivi, a ogni celebrazione dei fasti del regime. È segno di buona salute, di vigore giovanile, di fede fascista andare al casino. Gli studenti del GUF di Padusa - in Giovinezza giovinezza di Luigi Preti - festeggiano la proclamazione dell'impero. Concluse le cerimonie ufficiali, una parte di loro si avvia verso il bordello cantando strofette audaci. Il più scapestrato grida: «È mezzanotte, ragazzi, e si va dalla Franca. Stasera prezzo speciale!». Il gruppo passa quindi a intonare canzoni patriottiche, mentre avanzano verso il meritato premio, «cosicché quella notte, invece che sui soldati delle democrazie, i giovanotti si sfogarono sulle assai più compiacenti prostitute». Per la pace e la serenità dei cittadini, una propaganda non ufficiale ma efficace rassicura sui fondamenti e i compiti di questa istituzione risorgimentale. Come ai tempi di Cavour e di Rattazzi, viene scoraggiato l'uso del termine «casa di piacere», perché si tratta di case di malaffare che svolgono una funzione sociale e non vanno scambiate per luoghi di divertimento. Ricorda Giancarlo Fusco: «Niente alcolici, niente musica, niente balli, negli harem a prezzo fisso dell'Italia giovane, ancora memore della Giovane Italia. Niente, all'infuori dei "congressi carnali": in un'atmosfera deprimente, fra la sala d'aspetto ferroviaria (anche 1a di prima, seconda o terza classe, secondo la categoria), il corpo di guardia, il banco lotto, la sala celtica e l'anticamera del dentista». Le case non devono essere apertamente esaltate; le autorità affermano che «si fa divieto assoluto per chiunque e per qualsivoglia ragione di nominare o riprodurre in qual-sivoglia modo o maniera i bordelli, le case di tolleranza, le prostitute e la prostituzione». Dunque, c'è ma non si vede. Eppure le padrone più esperte, quando arriva la nuova quindicina, conducono le ragazze a spasso per il corso, siedono in pasticceria, si fermano a osservare le vetrine. Tutto ciò serve a esibire la mercanzia, nella speranza di ingolosire i clienti. Sia pure ufficialmente proibita, è una forma di pubblicità alla casa. Come i treni che arrivano e partono sempre in orario grazie all'autorità del duce e alla solerzia delle autorità, anche i bordelli marciano compatti e ordinati. Le ragazze sono tutte maggiorenni, le porte aprono alle dieci della mattina e, con intervalli per pranzo e cena, chiudono a mezzanotte al Nord e al Centro, all'una invece al Sud. La categoria della casa viene stabilita dopo un'ispezione della polizia e del medico provinciale. Da fedele cliente, quale era in passato, Mussolini sa come sono fatte le case di tolleranza. Servono, ma occorre che non diano guai. Raccomanda quindi al capo della polizia Arturo Bocchini: «Occhi aperti sui casotti! Possono darci delle noie! Puntare specialmente sulle fallofare [sic] straniere... Torchiare i loro sfruttatori. Mettere in guardia le padrone senza spaventarle. Esigo vigilanza e frequenti ragguagli in merito!». Sulle prostitute prevale l'opinione di stampo positivista e vecchia di mezzo secolo spacciata per verità scientifica -che un destino genetico le spinge al mestiere, o almeno una vocazione, e che quindi siano felici di ciò che fanno. In Vita sessuale, un manuale del 1933 di grande e duraturo successo, viene riportato l'insegnamento di alcuni esperti, secondo i quali le prostitute soffrono di una iperfunzionalità ova-rica. Non è del tutto vero, avverte l'autore Franceschini: «Le donne cadute nel fango del più infame mestiere» non sono degenerate, ma rappresentano un triste prodotto della miseria e dell'ignoranza. È possibile intervenire su di loro prima dei ventun anni, inducendole a cambiare vita. Oltre questa età, purtroppo, nessuna riconversione è possibile. Dunque, la spiegazione della prostituzione si sposta dal destino biologico al condizionamento sociale. Ma l'allarme per il gran numero di ragazze trascinate nel fango non è più così drammatico
come all'inizio del Novecento. Nel primo trentennio del secolo, infatti, la prostituzione infantile è in declino, forse per una maggiore compattezza familiare, forse grazie all'intensa propaganda sulla verginità. O ancora la ragione è da rinvenire nel miglioramento delle abitazioni, dell'igiene, dell'istruzione e, infine, nel severo controllo che il regime, attraverso le forze dell'ordine, impone su tutto ciò che si vede in pubblico, e quindi anche sulle prostitute di strada. Le povere ragazze vengono, almeno in parte, salvate dall'etica cattolica e da quella fascista, che si alleano nell'esaltare la famiglia e l'infanzia, e finiscono per scoraggiare l'uso delle bambine per scopi sessuali. In fondo le prostitute, secondo un'opinione piuttosto diffusa, meritano talvolta un po' di pietà, giacché si sacrificano per il bene delle fanciulle innocenti e destinate al matrimonio: «Il bordello salvava dai guai, teneva unite le famiglie, custodiva più a lungo la verginità delle ragazze» scrive Gianfranco Vene. Nel frattempo, la malvagità della sifilide è mitigata, grazie a nuovi farmaci e al miglioramento dell'igiene e, appunto, come si è appena detto, del livello di istruzione. Il sesso pagato può essere affrontato con maggiore disinvoltura, e perfino con orgoglio. Negli anni Trenta le visite mediche vengono effettuate con efficienza, pulizia e rigore; le prostitute sono tenute alla prova del sangue, la cosiddetta Wasserman, ogni due mesi. È addirittura consuetudine, nei bordelli più signorili, che le ragazze lavino il cliente prima e dopo la «consumazione». Come Ardengo Soffici all'inizio del secolo, anche gli scrittori degli anni Venti e Trenta celebrano l'epopea dei bordelli e divulgano i caratteri di questo commercio, a tinte di volta in volta eroiche o romantiche. La marchetta, il contrassegno che il cliente porta con sé in camera, e che dimostra che ha pagato, diventa il simbolo di ogni mercimonio. Nel gergo degli addetti ai lavori, la sala operatoria è la camera dove si consuma, mentre «fa flanella» chi si astiene o aspetta. Alla mattina la casa è frequentata più facilmente dai campagnoli che transitano in città, il pomeriggio invece da studenti che ripassano in pace i testi per l'esame universitario. Oppure da scrittori, come Gaetano - narrato da Èrcole Patti - che nella casa della signora Romani in via Rocca del vento, a Catania, si reca per lavorare in pace; è una casa con «le scale pulite e silenziose, come quelle di un intemerato condominio» dove i clienti sorseggiano un caffè in un clima niente affatto frettoloso mentre «passa di stanza in stanza un soffio di vento e gonfia piano le tendine di tulle ricamato, le leggerissime vestaglie delle ragazze». Ai flanellisti - soprattutto di sera, quando il casino è affollato - la padrona riserva il trattamento del pastore al proprio gregge, a base di raccomandazioni, esortazioni, esclamazioni. Nella casa di via Chiaravalle, a Milano, la signora Ida Belle strepita: «Andem in camera, andem. Se sté chi a fa'? Culatonil». Un'altra dice: «Chi ce l'ha lo porti su in camera!». Della porta riservata si servono anche padri di famiglia con figli cresciuti e frequentatori a loro volta della «casa». Questi privilegiati chiedono il cosiddetto «libero», entrano, consumano ed escono, senza essere notati. Le padrone scambiano parecchi favori con le autorità, riferendo alla polizia sia i dettagli della vita intima di certi clienti sia le opinioni politiche non ortodosse che possono affiorare nei salottini e nelle «sale operatorie». In Addio Wanda di Indro Montanelli, la protagonista è una bolognese che dirige una casa a Messina, dove tiene «su ogni mensola una fotografia, molte delle quali con dedica: un segretario federale del fascio dal nome abbastanza noto e un consigliere nazionale, ambedue in alta uniforme fascista, con stivaloni e medaglie, un generale d'Africa e molti colonnelli, maggiori, capitani, tutti in divisa coloniale». Completa il panorama una pergamena nella quale è espresso il ringraziamento delle autorità coloniali per l'opera prestata dalla padrona in Tripolitania. Piccole e grandi fortune (e grossi rovesci) si costruiscono sulla prostituzione ufficiale. Come gli alberghi, anche le case di tolleranza fanno parte di catene organizzate: l'imprenditore Cesare Albino Bianchi, per esempio, nel 1928 acquista il celebre bordello di via San Pietro all'Orto a Milano per aggiungere una stella di prima grandezza alla costellazione che già comprende i casini di via Fiori Chiari, Verziere e San Carpoforo, oltre a quelli di Pavia, La
Spezia e Firenze. Questi imprenditori godono di una certa notorietà, come Cesare Salvaneschi, padrone del famoso Otto bolognese, situato in via dell'Orso. Nonostante l'apparente solidità del commercio, che non conosce crisi, questo non è un settore destinato ad accrescere l'economia nazionale. Nella seconda metà degli anni Trenta, si registra infatti una lenta agonia delle case. Sarà la depressione, o l'autarchia, oppure i continui giri di vite polizieschi, o più tardi ancora la guerra. O forse il mutamento dei costumi. Il fatto è che le case diminuiscono, quando una tenutaria o un proprietario muore, la licenza non viene rinnovata. La seconda guerra mondiale, a differenza della prima, non alimenterà affatto il «mercimonio dell'amore». E la Società delle Nazioni lascerà il posto all'ONU, che fin dalla sua nascita emanerà più o meno la stessa raccomandazione: abolite le case di tolleranza. Sta guadagnando terreno la Chiesa e si consolida il prestigio dei cattolici nella società. Amichevolmente uniti nell'obiettivo di tenere lontano il bolscevismo, preservare la famiglia e la patria dai pericoli della modernità, il fascismo e il Vaticano non sono invece concordi sui principi e le regole della vita sessuale maschile. Se i fascisti credono all'espressione della virilità, allo spasso delle case di tolleranza e - come vedremo - alla proliferazione degli italiani, la Chiesa crede alla castità fuori dal matrimonio e al sesso per procreare all'interno del matrimonio. Il dissenso è aperto sulle case di tolleranza, benché la clientela lasci spesso sulla porta della casa chiusa le proprie convinzioni religiose per consegnare successivamente al confessore il peccato commesso lì dentro. Contro la prostituzione prende la penna Agostino Gemelli. Ne La tua vita sessuale egli afferma che il problema «deve essere inquadrato nella visione generale della vita e respingere due affermazioni erronee: la prima è che "l'istinto sessuale rivela un bisogno, una necessità biologica, che deve essere soddisfatta"; la seconda, che "il non soddisfacimento di questo bisogno determina dei danni"». Chi dice e diffonde simili errori, semplicemente si rifiuta di governare i propri istinti. Malattie e bimbi illegittimi sono la tragica conseguenza di tale rifiuto, secondo Gemelli. Guai ai giovani, dunque, che non si pongono il problema sessuale, e guai ai giovani che non lo risolvono «bene», cioè con l'esercizio della castità fino al matrimonio. La propaganda cattolica a favore della castità è intensificata all'indirizzo dei maschi e - come vedremo - ancora di più delle femmine. Ma apparentemente non serve che Rodolfo Bettazzi, sempre presente e tuttora indomito, nella primavera 1938 usi la radio per raggiungere il pubblico più vasto possibile, tenendo conferenze sulla moralità cattolica, e quindi anche contro il sesso esercitato fuori dal santo vincolo. Su questo punto certi studiosi non sono d'accordo: una buona educazione morale e sessuale giova ai ragazzi più di un'illusoria e impraticabile purezza. Per essere «buona» deve ispirarsi ai principi del regime. Scrive Enzo Grimaldo Grimaldi ne Il pericolo venereo del 1940 che non è sufficiente segnalare ai ragazzi l'orrore delle malattie, bisogna piuttosto provvedere all'istruzione sessuale del maschio fascista, per salvaguardare non tanto dal pericolo venereo quanto dalla corruzione in generale: «I nostri ragazzi hanno bisogno di molto di più: di conoscere tanti particolari, di avere tanti consigli; altrimenti continuano a rovinarsi l'anima e a soddisfare l'istinto sessuale con ogni volgarità che venga loro suggerita da quegli adulti o da quei coetanei, che sembrano - come il maiale - felici di rotolarsi nel brago». Faccette nere L'impero coloniale è difficile da conquistare e difficile da tenere, ma almeno arricchisce i sogni erotici degli uomini (e, qualche volta, anche la realtà). Gli arabi della Tripolitania, per esempio, saranno anche dei selvaggi da assoggettare, ma secondo Femando Gori, che nel 1930 pubblica Strapaese d'Africa, «si vantano di possedere le donne più belle di tutta la Libia, meravigliose statue di palpitante e voluttuosa carne, occhi fulgenti e profondi, che non si possono guardare senza sentire il morso del desiderio». La tragedia narrata da Ennio Flaiano in Tempo di uccidere comincia quando il protagonista, un ufficiale italiano che viaggia da solo verso Asmara, imbocca una scorciatoia e perde la strada. Mentre si riposa nella boscaglia, scorge la bella Mariam che si lava al fiume,
denudandosi, e suscita il suo desiderio. Benché abbia fretta di proseguire, lui si lascia sedurre dalla bellezza primitiva della ragazza. Fanno l'amore e l'ufficiale - è un gesto quasi naturale con l'indigena sottomessa - la paga con il proprio orologio. Nella notte che segue, per uno stupido errore, lui finirà per spararle e la ucciderà. Nei racconti dei reduci dalle guerre coloniali è frequente la memoria nostalgica di una ragazza locale, di un amore tra un italiano e un'africana. Non è previsto il contrario, nonostante la presenza di molte italiane in Africa, cioè che le donne coltivino sogni erotici nei confronti degli indigeni. Fa eccezione un romanzo di Carlo Comerio, Sulle vie del sole, del 1934. Qui il libico Sen s'innamora, ricambiato, dell'italiana Flavia. Sen riesce a raccogliere «il fiore più fragrante dei giardini del mondo» ma poi abbandona Flavia per convolare a nozze con una conterranea. Anche nella fantasia letteraria, per la quale un episodio di sesso interrazziale è possibile, il matrimonio è invece negato. Se il sogno è questo, e ha per protagonista la donna araba «felina e carezzevole» o la donna etiope, la realtà non manca di regalare risvolti un po' più squallidi, casini improvvisati, «madame», prostitute locali, code per sbrigare l'eros tra una battaglia e l'altra, malattie. Come il Regno d'Italia nasce con le case di tolleranza, così la conquista dell'impero si realizza sostenuta dai bordelli. Dal casino di Genova la signora Rina parte con una ventina di ragazze per seguire le truppe di Pietro Badoglio in Etiopia. Venti sono davvero poche. Aumentano, con il passare dei mesi, ma la domanda di sesso è superiore all'offerta e la disponibilità di donne indigene, in mancanza di italiane, costituisce lo sbocco naturale di questo particolare mercato. Alle autorità la cosa non piace affatto. Una circolare ministeriale del 1935 si rivolge quindi ai militari, avvertendoli che le prostitute prive di libretto sono infette, e che perfino con quelle autorizzate bisogna usare il preservativo, perché «il giovane che ha portato su questo lembo della patria il magnifico tesoro della propria giovinezza in fiore» deve tornare a casa sano nel corpo e nello spirito. Il divieto a intrattenere rapporti carnali con le donne locali - espresso in un decreto del 1937 - non viene rispettato, il contagio venereo dilaga e la purezza del sangue italico è minacciata. Corre voce che queste non si prestano al sesso orale, come conferma il cartello che qualche volta campeggia nella stanza di ricevimento dei bordelli: «No bombrilli». Non importa, gli ufficiali e i funzionari civili continuano a concedersi una «madama», una schiava tuttofare, autoctona ma clandestina. Perfino i più alti ufficiali, come il generale Pirzio Biroli, danno scandalo e così altri loro colleghi, come il comandante in capo Rodolfo Graziani, fanno la spia. Graziani si rivolge al duce in persona, il quale lo incoraggia a dare «esempio e ripulire con la massima energia i quadri». I civili colpevoli di intrattenere una «relazione di indole coniugale con nativo [sic] dell'Africa orientale», un reato che comporta pene da uno a cinque anni, vengono processati; i militari rimpatriati. Tuttavia non c'è niente da fare, ormai «conquistatori e indigene avevano stabilito un terreno d'intesa che resisteva agli assalti dei carabinieri». Alle soglie della seconda guerra mondiale, nelle colonie dell'Africa orientale vivono oltre 300 mila italiani. E le prostitute bianche disponibili in totale sono 49: 47 ad Addis Abeba, una a Mogadiscio, una ad Asmara. Non bastano davvero, così per evitare il dilagare del «madamato», vengono arruolate prostitute locali, autorizzate con libretto e sottoposte a visita medica due volte la settimana. Queste truppe di rincalzo sono divise in due categorie: una per ufficiali in case segnalate da una bandiera gialla, l'altra per i soldati semplici in case con la bandiera verde. Con le prostitute locali, l'offerta raggiunge le 1500 unità. Poiché siamo ancora al di sotto dell'italico fabbisogno, è sufficiente che un'indigena inviti il potenziale cliente a dissetarsi nella sua capanna e l'affare è fatto. Sospinti oltremare dal sogno di un amore esotico, quello che cantano in Faccetta nera durante il lungo viaggio, una volta raggiunta l'Africa gli italiani si trovano di fronte a una realtà meno romantica, tale da far rimpiangere i bei bordelli di casa.
VII LA MASCHIETTA Tra sguardi furtivi ed espressioni costernate, l'intera famiglia è seduta a tavola. I commensali sono a capo chino, il viso rivolto al piatto di minestra. Solo lui, il capofamiglia, pare ignaro o indifferente: tiene la testa eretta e mostra un cipiglio fiero. La cameriera, che in un angolo regge la zuppiera, è sul punto di tagliare la corda per non assistere alla scenata imminente. Siamo negli anni Venti e sotto la vignetta di Novello, Il veto paterno, si legge «Finora papa' non si è accorto che oggi Franceschina si è tagliata i capelli alla maschietta». Quando lo vedrà, non abbiamo dubbi, in sala da pranzo scoppierà il finimondo. Viene di moda dopo la Grande Guerra il taglio «alla maschietta», corto, appena sotto le orecchie. Via le trecce pesanti, via l'antiquato chignon, aboliti toupet, nastri, forcine, cuffie, la guerra cancella, del vecchio mondo, anche le antiche mode femminili. Capelli, biancheria, abiti si riducono, si accorciano, si alleggeriscono. È scoccata l'ora del dinamismo auspicato dai futuristi, che travolge soprattutto le donne. Le ragazze possono ottenere dalle forbici il passaporto per la libertà, perché così detta la moda. La morale, tuttavia, non si muove alla stessa velocità della moda. Così, la resistenza alla maschietta - l'acconciatura da il nome anche a un modo di essere - si manifesta a volte con la violenza della scenata che non vediamo, ma che il tratto ironico di Novello ci lascia ben intuire. Il taglio dei capelli riveste un alto valore simbolico. Quelli lunghi suggeriscono femminilità, tradizione, diversita' dei sessi, disparità di gerarchia e differenze di ruolo, corti significano invece tempi moderni, donne che corrono, fanno sport, lavorano, escono da sole e forse - non ci sarebbe da stupirsene, una cosa tira l'altra - praticano il libero amore. Che peccato, non sanno cosa perdono le sventate che inalberano tagli alla maschietta. Il dottor Franceschini, autore di Vita sessuale, se ne rammarica perché «una folta capellatura, che incornicia un giovane viso femminile, è un potentissimo elemento di seduzione per l'uomo», così come «una bella e morbida barba può diventare elemento di piacere sessuale visivo e tattile per la donna». Le conseguenze di questo avventato gesto giovanile dunque saranno terribili, perché ai maschi piace la femmina, non la maschietta. Comunque sia, negli anni Venti e Trenta si assiste a un'intera revisione della moda femminile, destinata a sopravvivere tutto il secolo. Cambia l'aspetto fisico delle donne: una torma di moralisti resta sconvolta, ma le nuove generazioni ne sono entusiaste. Ogni capo di abbigliamento congiura a svelare la figura femminile: è più alto l'orlo delle gonne, le calze sono trasparenti, le maniche corte, le camicie morbide, la biancheria si riduce. Sembra che la moda voglia offrire il corpo alla vista libera (o sfacciata). Quello nuovo è un corpo carente di curve, avaro di rotondità. Ha ragione Franceschini: le tendenze moderne sembrano annullare la differenza fisica tra i due sessi. Non più vitini di vespa legati nel busto, finite le imbottiture, il profilo femminile sale dai piedi alla testa quasi diritto, piuttosto androgino. Nel 1920 la trentasettenne Coco Chanel apre l'atelier di rue Cambon, dove vende abiti in jersey, un tessuto a maglia perfetto per un abbigliamento semplice e comodo, che appoggia morbido su seno e fianchi senza esaltarli. È lei la prima a dare l'esempio, con i capelli alla maschietta, il tailleur da uomo. Gettato il busto, ora il davanti è piatto, talvolta deliberatamente fasciato. Ma quel che è peggio per i pudibondi, il corpo femminile viene somigliando sempre più a com'è davvero. Con questa moda, ci si può perfino aspettare che i ragazzini riescano a indovinarne le linee, e che lo sposo alla prima notte non abbia più nulla da scoprire, perché ha già visto ciò che interessa: caviglie, gambe, ginocchia e perfino le due forme di quel santuario che è il seno. In America, dove le donne ne combinano di ogni colore e - si dice - comandano agli uomini, nel 1914 la signora Mary Phelps Jacobs ha brevettato un capo di biancheria leggero ma capace di sostenere i seni. In Francia, dove l'erotismo è una tradizione e una cultura, una bustaia, Her-mione Cadolle, ha disegnato un aggeggio simile e subito il famoso sarto Paul
Poiret lo ha adottato per infilarlo sotto certe sue creazioni maliziose. Nel 1927 l'americano William Rosenthal li imita entrambi - ma è la moglie Ida che conia il marchio Maidenform, «forma di fanciulla» - e inizia una produzione su scala industriale destinata a riscuotere un successo mondiale per parecchi decenni. Finiti i tempi dello sterno di piccione, finite le fasciature, ora si vedono bene, sotto i vestiti, le due piccanti rotondità. Il resto della biancheria marcia verso l'essenzialità: niente più mutandoni, ma mutandine; via il busto, restano reggiseno e sottoveste, con le giarrettiere a sorreggere le calze di seta. Insomma, siamo giunti a una svolta cruciale, ora non ci vuole quasi nessuna fatica a denudare una donna. Eppure - e forse più che mai - la biancheria femminile conserva un misterioso fascino. Intorno al 1930 l'adolescente Alberto Vigevani, futuro scrittore ed editore, si domanda: «Che cosa ci sarà sotto i vestiti delle donne?» e, con gli amici che hanno potuto sbirciare una mamma o una sorella maggiore, favoleggia di mutandine dal colore albicocca e dal profumo di lavanda. Di fronte a queste novità, i moralisti celebrano il funerale del pudore, i libertini le esequie della seduzione. Le donne si lasciano guardare e perfino toccare. Negli anni Venti i medici, ormai, adottano l'ispezione vaginale nelle visite ginecologiche. Lo sport, caldeggiato dai regimi dittatoriali perché esibisce la salute e la forza della nazione, mette in mostra tutto il corpo femminile. Alle Olimpiadi le ragazze scoprono le cosce nella corsa e mostrano il pube nel salto. Ginnastica, tennis, nuoto e bicicletta permettono di adottare pose che solo alcuni anni prima erano giudicate oscene. Se con i capelli corti, la moda androgina e lo sport, i sessi si avvicinano, si accorcia perfino la distanza tra le classi sociali. Di questo passo, tra poco non si distingueranno più l'impiegata dalla puttana, la contessa dalla maestra. È ciò a cui punta l'industria, che sforna prodotti di consumo su larga scala. Le meno agiate possono sembrare vestite di seta, grazie al rayon, una fibra inventata dal francese Rene de Réaumur nel 1905 partendo da resine sintetiche. La viscosa, prodotta a partire dal 1911 con polpa di legno e scarti di cotone, consente l'acquisto di un abito da ballo a un prezzo ragionevole. Il lastex, un derivato del lattice di gomma, serve a cancellare cordicelle, legacci e nastri: d'ora in poi la biancheria sarà aderente e niente affatto costrittiva, ma soprattutto si potrà togliere e infilare con grande facilità. È chiaro che, ancora una volta, la modernità va diritta verso la distruzione della morale e della tradizione. Il rischio è particolarmente evidente quando dall'America piombano nei nostri negozi i cosmetici e la moda del maquillage, che si aggiunge a quella dei profumi francesi. Anzi, Elizabeth Arden ed Helena Rubinstein lanciano un'accanita concorrenza alla cipria, ai rossetti, al bistro, alle parigine Nina Ricci e Coco Chanel. È imbarazzante: se una signorina stende un velo di cipria, tinge di rosso le labbra e arriccia i capelli, sembra proprio una di «quelle». E viceversa, una poco di buono, ma vestita d' rayon, con guanti e cappellino, può essere scambiata per una ragazza per bene. Nel 1922 viene tradotto in italiano La garsonne di Victor Margueritte, un romanzo d'avventure erotiche che ha per protagonista Monique Lerbier, fanciulla di buona famiglia che a Parigi si lancia in ogni genere di esperimenti come, per esempio, tagliarsi i capelli e tingerli di rosso. C'è una buona giustificazione a questo terremoto: le nuove abitudini delle donne - lavorare in ufficio, praticare lo sport, salire e scendere dal tram, prendere il sole su una spiaggia e nuotare nell'acqua marina - costituiscono la vera ragione dello stile disinvolto. Molti non ne accettano la sfacciataggine e, come il papa' di Franceschina, ne sono più che turbati. D'ora in poi tutto è possibile. Siamo di fronte a un segnale di «via libera» al maschio. E, ammesso ciò, come potranno i maschi desiderare una donna che hanno già visto quasi tutta intera? Se lo domanda anche Amilcare Magni, disincantato protagonista di Mammiferi di lusso di Pitigrilli. Egli sta ammirando la ballerina Perlowa che danza sulla scena; sulle prime ne è eccitato, solo per il costume che indossa, ma poi si chiede quanto resisterebbe il suo desiderio: «Troverei, attraverso la cipria e i veli, una donna come tutte le altre; se la immobilizzassi fra le mie braccia, se la spogliassi, se le togliessi tutti gli ordigni di gemme, di oro, di seta che servono a eccitare il desiderio, ma sono terribili inciampi a sodisfarlo [sic], non troverei nulla di ciò che
ora mi tenta». Non piace a Marinetti, di solito propugnatore di ogni novità, la biancheria moderna così essenziale e rivelatrice: viene meno il gusto della conquista e il piacere del possesso. Per motivi opposti non è gradita neppure ai preti, che raccomandano alle mamme e alle fanciulle di buongusto: non cedete alle tentazioni, la vanità sotto i vestiti e vicino alla pelle è pericolosa, travolgente, si sa fin troppo bene dove conduce. Nei collegi, le suore predicano, minacciano ed emanano istruzioni: mai scoprirsi per lavarsi, sempre evitare «operazioni prolungate», rifuggire dai «compiacimenti morbosi», la pelle dev'essere sfiorata solo dall'acqua, non dalle mani. E un'impresa quasi disperata, ben diversa da quella di Monique, la maschietta, che ogni mattina si concede una doccia fredda, seguita da un quarto d'ora di cultura fisica, poi contempla la propria nudità, se ne appaga e, quando giunge il momento, anche il suo amante osserva felice «le gambe lunghe, le rotondità dei fianchi, sotto la trasparenza della camicia corta, le braccia incrociate sul seno nudo». Purtroppo per chi la avversa, negli anni Trenta la pulizia della persona diventa un'abitudine sempre più diffusa. Le famiglie agiate installano la stanza da bagno, le altre usano il catino pieno d'acqua calda, che tengono in camera da letto. Il bagno e il cambio di biancheria una volta alla settimana fanno parte delle prescrizioni igieniche diramate dai medici e sempre più diffusamente rispettate. La tentazione, però, non si annida soltanto nella stanza da bagno e sotto i vestiti, ora fa mostra di sé anche nelle sale da ballo, dove il pubblico giovanile accorre e si corrompe. Nei balli popolari i ballerini si fronteggiano senza toccarsi; nel valzer già si sfiorano e il cavaliere allaccia la vita della dama, ma dopo la Grande Guerra approdano da noi danze ancora più audaci, che impongono addirittura di abbracciarsi. Anzi, peggio, il tango argentino vuole la coppia allacciata, intrecciata, avviluppata, le cosce dell'una infilate nell'inguine dell'altro. Lei è stretta in una morsa; non è escluso che i genitali maschili premano contro il pube femminile e che il seno di lei si appiattisca contro la cassa torà-cica di lui. Il cavaliere le sfiora l'orecchio, le bacia la guancia, immerge le narici nei suoi capelli, ne aspira il profumo. Sulla pista si recita «l'eccitamento sessuale» a suon di musica. Quando Monique balla il tango con l'amica, «serrando una gamba di Niquette tra le sue, sente ondulare il movimento della danza dentro di sé». Il tango argentino mima una congiunzione carnale, ne adotta il ritmo, con l'a-vanti e indietro del corte. Di nuovo protesta Marinetti: «Possedere una donna non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla!... Un ginocchio tra le coscie? [sic] Eh, via, ce ne vogliono due!». Dopo la guerra arriva anche il charleston, che si balla muovendosi a ginocchia libere e con la gonna corta, cortissima, come Joséphine Baker, la quale a Parigi si è esibita con i fianchi coperti da un gonnellino di banane. Poiché non c'è giovinetta che non pretenda di andare a ballare, Rodolfo Bettazzi suggerisce ai genitori un espediente di sicura efficacia: mettete loro una rosa bianca alla cintura, che sarà insieme simbolo di purezza e segnale di comportamento ineccepibile. Se il fiore tornerà a casa sgualcito, sarà a causa di abbracci o accostamenti illeciti che si sono prodotti durante la serata. Tenere le ragazze lontane dalla corruzione è piuttosto complicato, ma le autorità cattoliche non demordono, e anzi si danno da fare per scoraggiare passatempi tanto immorali, che cominciano a contagiare la classe lavoratrice di città. Condannano «gli incoordinati e nervosi salti del ballo moderno», i quali nuocciono alla salute prima ancora che all'anima, provocando «l'iperemia degli organi genitali». La Gioventù femminile di Azione cattolica bolla il piacere del proprio corpo - pulizia compresa - con il marchio di «miserie spirituali». A buon conto, per tenere quieti i moralisti, di tanto in tanto la polizia fa razzia di ballerini e ballerine. Nel 1926 a Milano, durante una retata, le forze dell'ordine acchiappano un gruppo di giovinette, tutte minorenni, ma lasciano indisturbati i maschi di ogni età che le accompagnano. Ci sono ben altre - e meno pericolose - occasioni di incontri che possono sfociare nel matrimonio. Mentre i cattolici allargano e potenziano le loro organizzazioni, il regime crea le adunate, i saggi ginnici, il sabato fascista, i treni popolari, che portano in gita maschi e
femmine, e sono promettenti occasioni di conoscenza, amoretti, avventure, fidanzamenti, magari meno scandalosi del ballo. Così, la gioventù apprende dal cinema che la scampagnata, il ballo, il lavoro consentono di incontrarsi, innamorarsi e coronare il sogno nuziale. In Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, del 1932, Mariuccia (Lia Franca) e Bruno (Vittorio De Sica) si frequentano al lavoro, si tengono compagnia quando vanno in gita in Brianza e ballano al suono di Parlami d'amore Mariù. Donne, a grammi o a metri cubi La forza del progresso spinge alla ribalta la maschietta, ma la resistenza della tradizione è forte, così la maggior parte delle italiane non fa sua quell'immagine sfrontata e moderna: le giovani di campagna, le operaie, le ragazze di paese non tagliano i capelli, non comprano biancheria co-lor albicocca e non scoprono le gambe. Per loro fortuna, poi, il fascismo al potere non concede spazio alle maschiette. La sua impostazione nazionale e patriottica prevede sessi ben distinti, ruoli assegnati e priorità precise: se il maschio è tale, la femmina non deve perdere alcuna delle sue caratteristiche tradizionali. Tra la «cosmopolita, urbana, magra, isterica, decadente e sterile» e la «patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla, prolifica», il regime - insieme alla Chiesa - boccia la prima e promuove la seconda. La Chiesa predilige le mogli e le madri, il regime scoraggia le maschiette e premia le matrone. Eppure un modello più moderno, che sta tra gli eccessi dell'una e dell'altra, finisce per imporsi. Quando diventa segretario del PNF, Achille Starace dirama circolari per favorire la propaganda della florida e carnosa: al bando i «polpacci rinsecchiti» tipici delle suffragette, anche e soprattutto se coperti dai pantaloni, che rappresentano «uno dei capitoli più mesti e risibili della dottrina democratica». In assenza di curve, la fantasia del maschio si inaridisce. In Mammiferi di lusso Pitigrilli racconta di una promessa sposa «alta, lunga, magra come un sigaro Virginia» e quindi sgradita al fidanzato, che si rammarica con se stesso: «Pensa quale reazione per me che le donne ero abituato a comperarle a metri cubi!». Il ministero della Cultura popolare scoraggia ogni forma di pubblicità alle dive americane, perché rappresentano il tipo fisico della «donna crisi» che il regime osteggia, senza successo, con tutte le sue forze. Il fascismo raccoglie consensi «anche attraverso la bellezza femminile e la gagliar-dia maschile», proponendo al pubblico divi e dive capaci di soddisfare ogni tipo di immaginario. Nel 1939 un sondaggio della rivista «Cinema» assegna ad Assia Noris il maggior numero di preferenze dei lettori, seguita da Alida Valli, Paola Barbara e, a grande distanza, Isa Miranda, Luisa Feri-da, Doris Duranti. Le maliarde, si direbbe, riscuotono un successo inferiore a quello delle giovanette acqua e sapone. Quanto ad audacia, le autorità che sovrintendono al gusto degli italiani in fatto di donne si destreggiano tra un divieto e la chiusura di uno o di entrambi gli occhi. Nel 1933 Hedy Lamarr corre nuda nel bosco in Estasi, che l'anno successivo è presentato al Festival di Venezia, dove Corrado Pavolini lo saluta come «un'analisi estremamente acuta ed estremamente tesa delle reazioni dei sensi». Ma gli spettatori non saranno mai in grado di giudicare la bellezza di Hedy Lamarr né l'esattezza del giudizio di Pavolini: Estasi è infatti bandito dalle sale cinematografiche. Nel 1941 tocca a una diva italiana di svestirsi per il pubblico. O meglio è Amedeo Nazzari che, ne La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, strappa l'abito a Clara Calamai, la quale resta a seno nudo. Nel 1937, quando debutta il mensile «Grandi firme», creato da Cesare Zavattini e disegnato da Gino Boccasile, si affaccia un tipo femminile diverso dalla massaia rurale tonda e feconda, e differente anche dalla «donna crisi». Allo sguardo è più gradevole della prima, ma non è sospetta di intellettualità come la seconda. La Signorina Grandi Firme è appetitosa, tanto slanciata quanto dotata di curve, ciarlie-ra ma non opprimente. Mostra, teso sotto i vestiti, un seno abbondante, cammina su gambe lunghe e snelle, è un'esca erotica, senza altra identità che non sia quella palesata dall'aspetto fisico. Come la collega che campeggia tra le pagine del «Marc'Aurelio», l'altro giornale satirico di moda, è oca e fa ridere. Compare di solito in vignette dal sapore di pochade, come quella dal titolo Nel talamo matrimoniale, in cui gli amanti giacciono seminudi nel letto, quando entra il legittimo consorte. Lei esclama: «Mio marito!
Fingiamo di non conoscerci». Quel che si osserva al cinema, o si legge sui giornali, si finisce per imitarlo. Così le giovani italiane si conformano a quanto vedono: una figura slanciata, una civetta che si impegna per accaparrarsi l'uomo del cuore, una ragazza indipendente che lavora in ufficio e perfino una sposa che sa dire la sua. Sia pure con cautela, non è più tanto disdicevole che una ragazza si faccia avanti. Oppure che guardi un maschio con l'occhio della sensualità. Se lo scopo è di tipo matrimoniale, la civetteria è lecita. Tuttavia non sempre romanzi, novelle e film insegnano le cose giuste. In Cosima, del 1936, Grazia Deledda descrive il primo incontro della protagonista con Fortunio, poeta zoppo, figlio illegittimo di un cancelliere, e parla dal punto di vista di lei: «Anche lui arrossì e le sue labbra tremarono: ma ciò valse a far notare a Cosima che egli aveva una bella bocca, carnosa ma non sensuale, o, se mai, di una sensualità sana e attraente come quella di un frutto maturo. Per la prima volta ella ebbe la sensazione di ciò che doveva essere un bacio, la sensazione fisica; un bacio carnale fra due che si desiderano e sono spinti ad attaccarsi l'uno all'altro da una terribile forza di natura». Dunque, ormai non restano dubbi, anche le donne provano il morso del desiderio. Dall'ingenuità alla malizia Terminata la guerra, lamenta Pitigrilli, le ragazze non sono più le stesse, sono passate «dall'ingenuità alla malizia». Certo, non sono tutte come Monique Lerbier. Lei discute di libero amore e di poligamia con l'amico filosofo Georges Blanchet, il quale profetizza «la fine dei delitti passionali, dell'ipocrisia e dei pregiudizi» una volta che le donne saranno emancipate. Coerente con queste convinzioni, la giovane consumarla propria verginità con il fidanzato Lucien, pochi giorni prima delle nozze, sul canapè della casa paterna. Ma quando scopre che Lucien, ufficialmente a cena con clienti belgi, è seduto invece al ristorante con la propria amante Cléo, Monique si lascia condurre in una camera d'albergo da uno sconosciuto. Lì i due si congiungono, e l'infedeltà di Lucien è ripagata della stessa moneta. Quel che fanno i due nella camera d'albergo è spiegato in dettaglio: «Sotto le carezze che la percorrevano tutta, o improvvisamente si attardavano, sui seni tesi, nel solco segreto, ella trasaliva a tratti per riflesso nervoso», e poi «sotto l'agro bruciante che la penetrava, ella lanciò un grido così acuto che lui si fermò». Dopo Lucien e dopo lo sconosciuto, Monique allunga l'elenco degli amanti, i quali appartengono a tutti e due i sessi. Con il ballerino Peer Rys, all'anagrafe Pietro, la maschietta «gridava, per minuti ardenti, l'ebbrezza che lui le regalava a forza di colpi furiosi, a denti stretti. Oppure, sotto la sapiente lentezza della penetrazione, lei sospirava a voce bassa, come nel lamento felice delle colombe». L'ingenuità è morta perché è scomparso ogni pudore, anche nella letteratura femminile. Nel 1923 è appunto una donna, Ada Negri, a osare la descrizione di un accoppiamento. Nel racconto «Il crimine», il momento supremo è segnato da «quel suo ridere, un po' gutturale! E quel suo modo di mormorarle sulla bocca: "Adesso ti prendo, ti prendo..."». Questo faranno le ragazze emancipate? È difficile escluderlo, data la spinta rivoluzionaria negli anni postbellici. Nel 1919 d'Annunzio vara una costituzione che prevede il divorzio e il diritto di voto alle donne nella repubblica del Carnaro, a Fiume, e poco dopo i frati fiumani reclamano la licenza di matrimonio. La marcia su Roma si distingue per una certa «promiscuità guerriera» e in seno allo squadrismo fioriscono amori focosi. Certe fasciste della prima ora hanno un piglio da maschiaccio, più che il tratto della maschietta. Le tre sorelle Campolongo, istriane, non nascondono di indossare mutande tricolori; la signorina Gujom, veneziana, si lascia corteggiare da un deputato del Partito popolare e, nel supremo istante della copula, gli ride in faccia. Quando Roberto Farinacci assume la segreteria del PNF, le donne fasciste della sua città, Cremona, gli inviano un augurio, nel quale precisano che si mettono a sua disposizione «in ogni senso». Così, quando il fascismo è saldo al potere, Mussolini mette in chiaro che non vuole né maschiette né maschiacci nell'Italia littoria, ma solo spose e madri esemplari. Bellezza e civetteria femminile sono incoraggiate dalla moda del regime, lavoro e indipendenza no. L'educazione sessuale non serve, anzi è nociva. Per essere moglie e mamma, è
sufficiente un marito. Dunque, nonostante il passaggio «dall'ingenuità alla malizia», rimane la realtà dell'ignoranza sulla materia del sesso. Le nostre fanciulle non dovranno imitare Monique che, adolescente, confronta con l'amica Zabeth la grandezza e la forma del seno. Le due amiche si toccano, esplorano parti sconosciute dei rispettivi corpi, apprendono una lezione che faranno fruttare con i rispettivi amanti e mariti. Nell'Italia cattolica e fascista, silenzio e imbarazzo continuano ad accompagnare le fanciulle fin dalla prima mestruazione, che dev'essere percepita come un fenomeno ripugnante e incutere timore. Fra l'altro, la parola «mestruo» compare nel dizionario della lingua italiana soltanto dopo la guerra, dopo il miracolo economico. Nel 1923 il ministero dell'Interno lancia un'offensiva contro la sconcezza, e i poliziotti sequestrano tutto quello che trovano: foto pornografiche e artistiche, manuali, opuscoli, romanzi e novelle, riproduzioni di capolavori pittorici. Tanto per dare un esempio di severità, nel 1926, il romanzo La cintura di castità di Pitigrilli viene denunciato per oltraggio al pudore. Il processo si conclude con un'assoluzione, ma il volume è bandito dalle librerie. Dunque le ragazzine imparano quel che riescono a sbirciare, di nascosto, nei libri di storia dell'arte oppure quando la mamma o la sorella maggiore lasciano qualche traccia di sangue. Soltanto nel 1927 Sibilla Aleramo osa scrivere del ciclo mestruale e lo fa con punte di lirismo: «Nessuna poetessa ancora, in un superamento eroico, ha analizzato ed espresso questa condizione animale, queste pause durante le quali la vita dello spirito sta sospesa in un alone torbido». Il primo contatto con l'oscuro mondo proibito avviene quasi sempre per caso. Alla piccola Elda Mazzocchi capita che l'isti tu trice, mademoiselle Charrel, nuda nel letto, la inviti a toccare la sua vagina e strofinare; poi, al primo rumore in corridoio, si copra con il lenzuolo e congedi la bimba spaventata. «Mi trasmise il suo terrore» commenta Elda. Le vecchie idee sull'inferiorità femminile, dovuta ai cicli, sopravvivono, magari aggiornate ai tempi. Si sconsiglia, in quei giorni, il taglio dei capelli, la permanente, e l'avventurarsi fuori di casa da sole. Georg Groddeck calcola che tre quarti degli stupri avvengono perché il maschio è attirato da questa particolare condizione, che lo predispone ad aggredire, e quindi è meglio che una signora resti in casa e non si cacci nei guai. Eppure, ormai, la sessualità femminile, scoperta nell'Ottocento, è quasi universalmente ammessa come una realtà visibile e concreta. Il problema, al solito, è di dare alle donne e alla loro sessualità un posto stabile, definito, limitato. Tale problema non è più appannaggio di pochi scienziati, ma una questione che interessa tutti. Nel 1935 Arrigo Cajumi, scrittore antifascista, prende atto che «dopo secoli di repressione, lo schiacciamento tradizionale della personalità femminile sbocca in aperta rivolta. E logicamente le donne scoprono i frutti proibiti». Come far fronte alle conseguenze di questa pericolosa scoperta? Semplice, «l'autorità dell'uomo... è affidata all'intelligenza, e al membro». La moderazione deve ispirare ogni innovazione e chi non innova dormirà sonni più tranquilli, perché ogni cosa intorno alle ragazze è pericolo. Armida Barelli, militante dell'Azione cattolica e pioniera delle organizzazioni femminili, non esce mai senza la mamma, neppure da adulta. Una ragazza per bene, se anche esce di casa da sola, non rivolge la parola a nessuno. Se lo fa, non è per bene. «Parlarsi», in certi dialetti, è già sinonimo di fidanzamento, di promessa di matrimonio, è un'azione compromettente. La moralità, ammoniscono gli esperti sulla scia del pensiero positivista, si tramanda di madre in figlia. È naturale quindi che in Mammiferi di lusso la mamma di Maria Simo-ni, che in gioventù è stata ballerina con il nome d'arte di Gobette Cigogne, dica: «Conosco le ragazze d'oggidì. Non avendo alcuna occupazione, si lasciano prendere dal vizio e si perdono». L'unico tipo di istruzione utile per le ragazze è quello diffuso dal sacerdote Giovanni Battista Zuaboni, che nel 1918 fonda a Brescia la Scuola della Buona Massaia (e dieci anni più tardi si conta una decina di istituti di questo genere in Italia). Le lezioni dei pionieri della sessuologia non sono state pronunciate invano. Come la moda delle gonne corte non tornerà
indietro, anche la convinzione che le donne hanno una loro parte nel rapporto sessuale non si cancella. I manuali di medicina e igiene cominciano a consigliare, sia pure con estrema prudenza, di non lasciare le ragazze completamente a digiuno della materia. Quando si sposano e a loro volta hanno delle figlie, devono rivelare loro la verità, suggerisce Alex, nel manuale Quello che deve sapere una giovane signora del 1927: una madre moderna lo fa con cautela, ispirandosi agli esempi della natura, per evitare che le «menti tenere e ignare» siano colpite da «rivelazioni pericolose perché precoci», capaci di «svegliare curiosità intempestive e dannose». L'atto d'amore si compie in natura «in modo così aereo e immateriale ed in cornice di tale bellezza che desta... soltanto ammirazione». Il volume di Alex delinea una figura femminile responsabile, anche nella sfera della vita intima. La tradizionale divisione tra «oggetto di lusso» e «macchina da riproduzione» comincia a fondersi in una donna sola, compagna consapevole anche tra le lenzuola. Nel 1930 Luigi Pasolli scrive nella Rassegna di studi sessuali che «l'uomo non è più oggi il maschio violentatore... spregiativamente indifferente della personalità sessuale della femmina; così come la donna non è più totalmente la docile preda passiva della scelta sessuale e del piacere egoistico del maschio, e nemmeno è più la creatura primitiva la cui vita è tutta concentrata e limitata nella maternità». Alle ragazze moderne la pratica del sesso non dispiace, anzi giova. Qualcuna di loro somiglia ad Anna Giudici, l'intellettuale anemica, protagonista del romanzo Io ti amo di Bruno Corra, che da «a prima vista una sensazione di tristezza e di patimento». Anna sposa Carlo Serena e «dopo quattro mesi di matrimonio non vi era più in lei il più piccolo sintomo della sua inveterata anemia». Un pugno di nottate coniugali ha scatenato la «fiamma della pienezza fisiologica». E così, alla fine, «dal bizantinismo cloroti-co del suo purgatorio di fanciulla esplodeva, paradiso o inferno, una sessualità vibrante e carnosa». Le cose vanno a questo modo, ormai, ma non tutti lo sanno. Le ragazze moderne che credono alla parità vanno incontro al disinganno, perché i maschi non sono assolutamente pronti. In certi casi, come quello di Serenella Rossi, il risultato è una tragedia. Sorella minore di Ernesto Rossi, ha circa vent'anni quando è corteggiata da un prospero commerciante siriano, di nome Malamé. Serenella è innamorata, sembra che la vicenda si avvii al matrimonio, e quindi i due fanno l'amore. Poi il fidanzato sparisce, lasciandola in preda a una depressione così grave che, nel 1929, il fratello Ernesto cerca di consolarla: «L'uomo, anche se è perfettamente onesto, vuole quasi sempre che la donna che gli piace diventi la sua amante, non la moglie... La donna, invece, anche se è disinteressata, cerca nell'uomo che le piace il marito, perché il matrimonio nella società attuale è per essa una necessità assoluta». Il 17 novembre 1929, Serenella si spara in bocca. Si sa come va a finire Il lavoro femminile, giustificato in tempo di guerra per amore della patria, nel dopoguerra è deplorato. Più che mai, le donne che lavorano vengono accusate di rubare il posto agli uomini. Spesso i reduci che hanno tanto sofferto in trincea sono disoccupati, oppure sperimentano un reinserimento difficile, mentre le donne sono sempre più richieste. Come in passato, una fanciulla non è al suo posto se è lontana dalla casa paterna, in un luogo pericoloso per la purezza e per la reputazione. In Europa sono i bol-scevichi che permettono alle donne di lavorare. E, infatti, la Russia è il regno del male, dove ormai anche l'aborto è autorizzato dalla legge. Ma la guerra, l'«inutile strage», ha anche diminuito il numero dei maschi da sposare. Perciò non è irragionevole che una ragazza progetti un destino senza marito, con un salario o uno stipendio capace di mantenerla. Non è uno scandalo che una giovane o una sposa lavorino fuori casa, ma bisogna stare molto attenti. Un sistema di moderno adescamento, frequente negli anni Venti, è quello dell'offerta di lavoro «fermo in posta»: le ragazze abboccano perché desiderano un impiego e finiscono per essere avviate alla prostituzione. Se la famiglia può evitare di mandare una figlia o moglie a lavorare, sarà per questo più stimata. Ma la povertà continua a spingere le ragazze su sentieri scivolosi. In Cronache di poveri amanti Aurora si concede a Nesi in cambio del carbone per scaldarsi, proprio lì, sul mucchio nero. Quando la verginità se n'è andata, non esiste rimedio.
Anche la denuncia del seduttore, peraltro problematica, non può restituire la purezza. Per giunta dal 1931 il Codice Rocco è schierato dalla parte dei maschi: la corruzione di minore è perseguibile solo con querela di parte ma, se il minore è già corrotto, insomma se la ragazza non era vergine, il corruttore non è punibile. Eppure quante oneste ragazze sono esposte fino a rischiare l'onore? Molte sono le occupazioni tipicamente femminili negli anni tra le due guerre. Matilde Serao compatisce le maestre, inviate a insegnare in luoghi distanti dalla casa paterna, a vivere sole e senza protezione, e le chiama «ebrei erranti». Eppure, con il passare degli anni, questa professione si diffonde tra le giovani. Le sarte, invece, sono numerose da sempre; è un mestiere esclusivamente femminile, ma - come abbiamo visto - non privo di pericoli. Le mondine, brave ragazze emiliane educate al catechismo, «ben presto dimenticano, lungi dalla casa e dalla vigilanza paterna, i precetti dell'educazione familiare... abbandonandosi senza ritegno ai piaceri dell'amore proibito» perché, commenta Roberto Michels, l'istinto sessuale è come la fame. E c'è poco da essere vigili, se è vero quello che denuncia Erminia nel 1931: a Candia Lomellina il fattore, il caposquadra e altri padri di famiglia della zona, tutti fascisti, dimostrano che «l'unico interesse che hanno per le mondine è quello della domenica sera, soprattutto se le loro mogli sono fuori tiro». A rischio - anzi allo sbaraglio -, a giudicare dalla provenienza delle ricoverate all'Asilo Mariuccia tra il 1902 e il 1933, sono le cameriere (123), le sarte e ricamatrici (96), le operaie (90), le scolare (47), le piscinine (46) e le stiratrici (26). Anche se non è più l'ignara preda del maschio, ancora nel 1940 una lavoratrice deve sapere a che cosa va incontro quando si impiega. In quell'anno Luciana Peverelli scrive Sogni in grembiule nero, dove mostra ciò che può accadere a una giovinetta in ufficio, specialmente quando si trattiene per lo straordinario, e magari gli uffici sono vuoti, il capo inizia con i complimenti, prosegue con le lusinghe, offre un regalo e perciò «non si sa dove si va a finire»
VIII FARE LE MOLTIPLICAZIONI Nel 1916 l'eugenista Giuseppe Sergi esprime preoccupazione per il declino delle «razze superiori», che sarebbe una conseguenza del rallentamento delle nascite. Nel pieno della guerra, dichiara che «il patriottismo della donna è la maternità» e «la gravidanza il servizio femminile per la patria». Se i maschi danno la vita al fronte, le donne devono generare altre vite. Il nazionalismo crede fermamente nella forza del numero, l'eugenetica nella qualità della razza, e tutti e due cominciano a presagire il disastro. Tre anni dopo, infatti, l'Europa conta i morti: sei milioni nel conflitto, saliti a un totale di tredici con le guerre residuali, alle quali si aggiunge la devastante epidemia di spagnola. È stata la «più grande catastrofe sessuale mai subita dall'umanità» afferma Magnus Hirschfeld dalla Germania, un paese dove le vedove sono ben mezzo milione. La campagna demografica che il duce lancia nel 1927 e il ripetuto monito della Chiesa cattolica a procreare sono quindi il rimedio adottato in Italia - a somiglianzà di altri paesi - di fronte al rischio di spopolamento dell'intera Europa, ovvero - come ritiene Sergi - al declino delle «razze superiori». La modesta crescita della popolazione, lo squilibrio numerico tra maschi e femmine, le legislazioni e la propaganda demografica influenzano profondamente il comportamento sessuale del periodo tra le due guerre. Anche se dopo il 1918 si esaurisce il flusso di emigranti verso le Americhe, e se nell'immediato dopoguerra aumentano i matrimoni e le nascite. I risultati sono ovunque modesti, la crescita europea è molto bassa - quella italiana è una delle più soddisfacenti -, ma è difficile stabilire che cosa sarebbe accaduto - forse addirittura un marcato declino - in assenza delle misure a favore della procreazione. Le condizioni generali dell'intero continente non favoriscono affatto un incremento della popolazione, soprattutto perché dopo il 1918 accelera l'esodo dalle campagne verso le città e nelle metropoli, come si è già constatato dagli ultimi anni dell'Ottocento, si formano famiglie meno numerose. La classe operaia urbana, fanno osservare i socialisti, è costretta in alloggi minimi e ridotta a salari da fame. La città, dicono i moralisti, favorisce l'edonismo e rafforza l'individualismo. Dunque il sesso viene praticato, forse, ma soprattutto all'insegna del piacere personale, mentre si diffondono le «indegne precauzioni» e l'aborto è usato con una certa frequenza come contraccettivo di ultima soluzione. Tanti altri paesi, oltre all'Italia, introducono leggi per favorire l'aumento della popolazione e scoraggiare ogni forma di limitazione delle nascite. Tra il 1920 e il 1936 URSS, Francia e Gran Bretagna varano provvedimenti contro l'aborto (poco applicati per la difficoltà di scoprire il reato, provarlo e perseguirlo). Nei primi quarant'anni del Novecento, la Francia registra il tasso di fertilità più basso d'Europa, e il suo modesto aumento demografico è dovuto più che altro all'immigrazione portoghese e italiana. Tra il 1920 e il 1930, alcuni paesi, tra i quali la Francia e il Belgio, vietano il commercio e l'uso di contraccettivi. In Italia, a partire dal 1930, il Codice Rocco contempla una serie di reati contro l'«integrità della stirpe», cioè contro la limitazione delle nascite e l'aborto (ma rimane in circolazione il preservativo). Tutte queste ragioni rendono la pratica sessuale più che un affare privato una questione di Stato. L'intimità di maschi e femmine si mescola al patriottismo, l'entusiasmo demografico si confonde con la voracità sessuale, gli uomini non hanno di che lamentarsi e le donne accettano, bene o male, l'alta missione di incrementare e rafforzare la specie umana più evoluta del globo. Nel giorno dell'Ascensione del maggio 1927, il duce, dichiarando agli italiani che «il destino delle nazioni è legato alla loro potenza demografica», si trova perciò in perfetta sintonia con i capi di governo dell'Europa democratica, che continuano a credere nella potenza della nazione, nella forza del numero e nella superiorità della loro razza. La propaganda demografica scatena un bombardamento di parole e di provvedimenti che entrano nel cuore della gente, e raggiungono la camera da letto. Mussolini stesso non manca di ripetere più volte il concetto in
formule diverse, ma sempre sintetiche: «Il mio programma è: figli o legnate!»; oppure: «Voi sapete qual è la mia teoria: massimo di natalità, minimo di mortalità». Dunque, fare l'amore è giusto, anzi approvato dalle autorità. È con ogni probabilità la prima volta nella storia che gli italiani vengono apertamente incoraggiati al sesso, benché sempre nel rispetto delle regole del matrimonio e a fine di procreazione. Come in altri paesi, anche in Italia si adottano misure come i premi nuziali e i sussidi alle famiglie, in particolare a quelle numerose, ma il governo fascista fa anche qualcosa di più efficace: inventa la tassa sul celibato. Un premio, ipotetico e comunque modesto, è infatti assai meno convincente di una tassa, concreta e immediata, che scatta automaticamente una volta superati i venticinque anni. Stabilisce il decreto legge del dicembre 1926 che i maschi celibi tra i ventisei e i sessantacinque anni verseranno allo Stato un quarto del reddito lordo; è una punizione pesante, che chiunque farebbe di tutto per evitare. Piuttosto che sborsare tali cifre, perché non spendere per una famiglia propria? Nel 1930 il buon esempio viene dall'alto: a venticinque anni Galeazzo Ciano sposa Edda Mussolini, ventenne. Le nozze sono premiate: con 700 lire agli operai che le contraggono entro i ventisei anni, con 1000 agli impiegati entro i trenta. Le nuove coppie hanno diritto a un prestito, il cui rimborso viene sospeso per un anno alla nascita del primogenito, poi la somma da restituire cala a ogni successivo figlio, finché viene cancellata alla comparsa del quarto figlio. Gli assegni alle famiglie numerose sono consistenti, le madri di sette figli incassano 5000 lire, a quelle con quattordici figli è garantita un'udienza a palazzo Venezia, dove Mussolini si congratula e le festeggia. I padri con prole numerosa si fregiano di una decorazione: un nastrino verde che sfoggiano con orgoglio la domenica, appuntato sul bavero della giacca. Un professore bolognese, Ferdinando De Napoli, vorrebbe punire con una tassa anche i coniugi senza figli, ma la proposta rimane inascoltata. Il sabato fascista, ribattezzato confidenzialmente il «sabato dell'amore», favorisce l'intimità degli sposi perché, come rievoca Gianfranco Vene, «diventò presto... il pomeriggio dell'amore; l'unico che consentisse di andare a letto senza nascondersi ai figli con precari sotterfugi». Per favorire le nozze precoci, la propaganda ne illustra i vantaggi, anche non economici. I figli più belli nascono da madri che hanno meno di venticinque anni, afferma l'eugenetica, e a trenta è già tardi. Nel 1925 nasce l'Opera Nazionale Maternità Infanzia, che dall'anno successivo viene finanziata con il gettito della tassa sul celibato. L'ONMI era un'idea prebellica per aiutare le povere ragazze madri, ma il fascismo la fa sua in chiave demografica. Qualcuno protesta, dicendo che è immorale spendere soldi per le pecca-trici, ma il regime non intende punire chi regala figli alla patria. È questa una politica che fa leva sulle donne, incoraggiate a civettare, conquistare, allettare il maschio, sempre al medesimo scopo: se nubili per sposarlo, se coniugate per amoreggiare. Così, nel 1933 Mussolini inventa il Giorno della madre e del fanciullo. Tra i commercianti, sono benemeriti i cartolai e i fiorai. I primi si danno da fare per vendere biglietti e cartoncini destinati alla mamma, i secondi perché incoraggiano un regalo floreale in ogni fausta occasione: fidanzamenti, nozze, nascite. Gli osti, invece, sono perseguitati, perché i maschi non devono trascorrere le serate con altri maschi, magari a giocare a carte, bensì nel letto coniugale. Per dare un segnale forte, fin dall'inizio della campagna il governo dispone la chiusura di 25 mila osterie su un totale di 187 mila esistenti. Non tutto fila liscio; qualche volta leggi e burocrazia tradiscono le intenzioni del duce. Maria Paolina vorrebbe «dare figli alla Patria», ma ha una sorella pregiudicata, che pure non vede da diciannove anni, e questo è un ostacolo sufficiente alle nozze tra lei e il carabiniere che l'ama riamato. Maria Paolina scrive a Mussolini implorando comprensione: da anni aspetta l'autorizzazione al matrimonio, ora ne ha trentacinque e comincia a disperare: «Dovrei forse rinunziare alla soddisfazione di essere madre?». Sulla moltiplicazione degli italiani, la Chiesa è perfettamente d'accordo con il regime. Pio XI ha una sua politica della famiglia, una sua visione della donna come angelo e pilastro del
focolare, una sua concezione del sesso come strumento di prolificazione. Su questi scottanti argomenti, in genere affrontati con la definizione «santità del matrimonio», nel 1930, il Papa scrive l'enciclica Casti Connubi, che ha grande diffusione perché i novelli sposi ne ricevono una copia in regalo, proprio davanti all'altare. Non è condannata la massima intensità di accoppiamento, mentre è aborrito il sesso a scopo di piacere personale, così come la contraccezione e l'aborto. Poiché proviene da tali autorità civili e spirituali, l'incoraggiamento a fare l'amore, sia pure a scopi strettamente demografici, viene preso sul serio. Forse anche per questo aumentano le nascite; in molti casi si tratta però di figli illegittimi: nel 1900 erano 59,4 per mille nati, scendono nel 1923 a 44,5 e risalgono nel 1930 a 50,1. Nel 1929 in una grande città come Milano essi rappresentano il 10,45% dei nati. Sarà colpa della nuova ondata di urbanizzazione in città il controllo è minimo e le abitudini disinvolte -, o della sfacciata libertà di movimento delle ragazze, o forse della mancanza di maschi falcidiati dalla guerra (il rapporto è di 886 uomini per 1000 donne). Una delle cause del fenomeno è il controllo severo sugli aborti, ma resta il fatto che negli anni Trenta i concepimenti prima delle nozze sono il 22,5% di quelli totali. Il 1933 è un anno da primato: un quarto dei primogeniti risulta concepito prima delle nozze. Nel quinquennio 1931-36 a Bologna 1 neonato su 3 è frutto di sesso extramatrimoniale. Le spose incinte, o le spose già madri, sono un fenomeno tutt'altro che raro, meno consueto in città e nella classe media che in campagna o nelle famiglie operaie. Cresce il numero di bambini riconosciuti all'atto del matrimonio, fino a raggiungere il culmine nel 1927, grazie all'entrata in vigore della tassa sul celibato e ai sussidi di nuzialità e di fertilità. L'emigrazione, in particolare dalle regioni del Sud, rimane una delle principali cause di rapporti extraconiugali con relativa nascita di illegittimi. Quando è al confino nel Mezzogiorno, Carlo Levi osserva che a Gagliano, 1200 abitanti e 2000 emigrati in America, le mogli dicono addio ai mariti che partono. Passano gli anni. Talvolta non accade nulla, altre volte invece «si presenta un'occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli sono illegittimi». Ma la più alta concentrazione di illegittimi, rivela la statistica, spetta alle regioni centrali dove, secondo l'opinione comune, i cosiddetti bastardi sono figli di preti. Al Sud non è uso riconoscere i figli naturali, che sono abbandonati al brefotrofio, al destino e alla carità; al Nord è invece una consuetudine perché, come abbiamo visto, in diverse regioni, prima dell'unificazione, la madre nubile vedeva riconosciuto il proprio diritto di maternità, anche sotto il profilo legale. Sempre dentro, mai fuori È convinzione diffusa, in quegli anni di entusiasmo demografico, che la popolazione italiana potrebbe moltipli-carsi con maggior rapidità, se soltanto i maschi evitassero di interrompere il coito, magari su istigazione delle loro donne, che non intendono mettere al mondo e allevare uno stuolo di bambini. Si ritiene che il sistema anticoncezionale più semplice e più economico - ma anche il più rozzo (e niente affatto sicuro) - sia il maggior responsabile delle ridotte dimensioni di una famiglia. I dotti fascisti si scagliano con vigore contro questo sistema perché limita le nascite, non perché è rudimentale. I genitori di un figlio unico, agli occhi di chi combatte per la moltiplicazione demografica, sono bestie nere. Contro di loro insorge lo zelante podestà di Bologna Manaresi, che definisce se stesso «podestà demografico, a fatti prima ancora che a parole». Alle cantonate delle strade fa affiggere manifesti con «le cifre sconsolanti della natalità bolognese» e poi in pubblico arringa il popolo: «Ascoltino i bolognesi l'alto monito del duce!». Al testo di questo discorso una mano anonima aggiunge, come a chiarire il concetto fino in fondo: «Dunque chiavate e lasciatelo dentro! Ordine del partito!». Per sottolineare che si tratta di una forma di vigliaccheria, e visto che siamo ormai nell'era dell'automobile, il coito interrotto è detto anche «marcia indietro». I suoi seguaci vengono bombardati di anatemi. Nel Trattato di medicina sociale del 1938 si specifica che il coito interrotto «froda la natura esaltando l'egoismo sessuale, froda lo Stato perché sottrae migliaia e migliaia di cittadini dai censimenti nazionali, va contro le leggi di Dio perché sopprime una manifestazione naturale e voluta».
Più raffinato del podestà, Ferdinando De Napoli mette per iscritto la propria convinzione che l'assorbimento dello sperma da parte dell'organismo è benefico per la salute femminile. Il ginecologo Salvatore Scaglione, invece, divulga il suo sapere ai colleghi, perché ne facciano partecipi le pazienti: accurati studi dimostrano che il coitus inter-ruptus è un metodo inefficace, visto che sessanta volte su cento determina un concepimento. Inoltre, occorre avvertire le donne che esse saranno vittime, a lungo andare, di una sequela di patologie, dalla frigidità alle manie ossessive, dalla sciatica ai disturbi gastrici e perfino alle crisi asmatiche. Per far capire più chiaramente la gravita di questa pratica, i medici non usano né l'espressione italiana né quella latina, ma quella, dal sapore giudiziario, di «frode coniugale». Anche se i manuali di medicina e igiene, i prontuari per le spose e madri cominciano a illustrare le delicate questioni sessuali, l'istruzione in materia resta un'area proibita. Non mancano voci non conformiste, come quella di Edoardo Tinto che, all'inizio degli anni Trenta, pubblica un Dizionario di sessuologia, nel quale si trovano affermazioni controcorrente, per esempio che «il ritenere la sessualità in se stessa peccaminosa è una favola suggestiva, che per la sua lunga influenza sulle menti dei piccoli e dei grandi ha assunto quasi il carattere di un'epidemia spirituale». La Chiesa è sempre contraria ai manuali e a ogni forma di educazione sessuale: prima delle nozze potrebbe indurre in tentazione, dopo le nozze potrebbe avviare sulla strada del piacere fine a se stesso. Con la Casti Connubi Pio XI boccia ogni forma di insegnamento «naturalistico», e Agostino Gemelli, frate francescano e psicologo, ne appoggia vivamente la posizione: una considerazione «troppo biologica» del sesso sarebbe fuorviante, il matrimonio deve essere affrontato dagli sposi come un'unione spirituale, che ha per scopo il «miracolo della vita». Nel complesso, dunque, l'educazione dei giovani al sesso poggia essenzialmente su tre pilastri: la proibizione a masturbarsi, il veto al coito interrotto e la profilassi antivenerea per i frequentatori dei bordelli. Sulla masturbazione nulla è cambiato rispetto ai tempi dello svizzero Tissot: si tratta di un vizio che va represso. Non bisogna credere al pregiudizio popolare, sostenuto da considerazioni pseudoscientifiche, che essa rafforzi e sviluppi gli organi sessuali; al contrario, indebolisce la capacità generativa e compromette il miglioramento della stirpe. È una forma di corruzione, insegnata dai giovani malvagi agli innocenti, i quali finiscono per essere irretiti e provarci gusto. Proprio per recuperare al bene le anime più pure, un manuale per sacerdoti dal titolo Direzione e confessione, negli anni Venti, consiglia di essere più indulgenti con i ragazzi che commettono «mancanze, spensieratezze, imprudenze», purché confessino e comprendano la gravita del male. Ma attenzione, non è sufficiente il rossore come segno di consapevolezza della colpa, avverte l'autore, don Boccardo, perché si può arrossire «alle volte anche quando si è già certi che ogni peccato manca». Occorre accertare che cosa esattamente il giovane ha fatto quando ha «cercato l'ombra»; sono infatti molti i passatempi nascosti dei ragazzi, alcuni dei quali innocenti. È giusto interrogarli ed è giusto indurli a confessare e punirli, solo però se hanno effettivamente commesso un peccato. Anche i maestri laici aborriscono «Venere solinga». Franceschini concorda sul fatto che la masturbazione è causata da cattive compagnie, le quali insegnano ai nostri bravi fanciulli questo «pervertimento sessuale che può condurre all'impotenza, e che bene spesso è causa di sterilità», giacché l'organismo giovanile è troppo fragile per sopportare la fatica dell'eiaculazione. È opportuno spiegare ai figli «con linguaggio temperato» quanto nocivo sia il vizio, ed è meglio spiegarlo presto, perché «una volta che sia iniziata nel giovane uomo questa triste abitudine, difficilmente egli riesce a vincerla e ad abbandonarla, poiché trattandosi di una manovra sessuale incompleta, appunto perché solitària, l'individuo non ne ritrae quella soddisfazione che è sinonimo di calma genesica». Anzi, «Venere solinga» lascia «una stizza rabbiosa» che induce a replicare e quindi a fare ancora del male a se stessi e alla nazione. È importante accertarsi che «nei giovani sani e di vita regolata le polluzioni spermatiche si verificano ogni due o tre
settimane». In tal caso, il fenomeno è fisiologico. Vigilino le madri, perché se sono più frequenti, vanno considerate morbose. Una polluzione notturna alla settimana è, invece, il limite fisiologico stabilito da Giulio Casaliri che nel 1929 pubblica L'igiene dell'amore sessuale: al di sotto o al di sopra di questa frequenza possono indicare un eccesso di «riservatezza» o uno strafare libidinoso. Ma c'è un rimedio, anzi più d'uno: date ai ragazzi tre o quattro uova al giorno, fateli dormire su un materasso duro, avvolgeteli nel solito asciugamano annodato - attenti che il nodo sia applicato proprio contro le vertebre -, fate le spugnature nella regione lombare, teneteli lontani dalle letture e dai pensieri lascivi e, se proprio occorre, fate uso di bromuro. Alle madri viene inoltre raccomandato di non risparmiare i castighi alle figlie colte nello squallido vizio. Ogni mezzo è lecito: torchiarle negli interrogatori, avviare indagini accurate, strappare confessioni, indurle a credere che si perde la verginità e che è possibile restare incinte. Non è cambiato nulla: la masturbazione resta una colpa e il primo incontro con la sessualità adulta avviene ancora in un alone di sotterfugio, terrore e sofferenza. Ma almeno dall'elenco delle terapie è scomparso l'espediente dell'anello dentato, caro agli educatori ottocenteschi. Attentati alla stirpe Dal 1926 al 1930 Lina Merlin è confinata in Sardegna. A Orune, le donne del luogo vogliono vedere da vicino e conoscere la signora che viene da lontano e che è tanto sapiente. La salutano e dicono: «Noi vorremmo sapere due cose sole: come si fa il vino artificiale e come si possa non mettere al mondo dei figli». Risponde la Merlin: «Ecco, io non so le due cose, perché né io né nessuno della mia famiglia ha mai fatto l'oste e perché non sono ancora sposata e non mi interessa». È vero, Lina Merlin non sa nulla di contraccezione, come la maggior parte dei suoi contemporanei, soprattutto se donne per bene (le prostitute ne conoscono, invece, vari segreti). In assenza di qualsiasi nozione sul sesso, le donne non hanno alcun potere sulla loro fertilità: i figli li manda il buon Dio quando vuole mandarli e se li riprende quando ha deciso di riprenderseli, convinzione che accomuna sia le donne della Barbagia che quelle delle altre regioni italiane. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti si discute almeno da un paio di decenni di contraccettivi, ma in Italia il silenzio è d'oro. Il peso della Chiesa e, ora, i divieti fascisti, lasciano da noi un vuoto culturale che durerà per decenni. Da noi c'è il coito interrotto, è il maschio che provvede. Pochi italiani conoscono un nuovissimo sistema anticoncezionale, che viene messo a punto proprio mentre Lina Merlin è confinata in Sardegna. È opera congiunta del medico giapponese Kynsaku Ogino e del ginecologo praghese Hermann Knaus, i quali hanno studiato i giorni della fecondità femminile e il metodo per calcolarli, che divulgano intorno al 1930. Nel mondo anglosassone, dove ciò che conta è il risultato, dopo qualche sperimentazione scoprono che il metodo non funziona affatto: i giorni fecondi variano da donna a donna, i calcoli sono spesso sbagliati e, insomma, l'Ogino-Knaus serve la causa della fertilità piuttosto che quella del controllo delle nascite. Tuttavia nei paesi cattolici comincia a essere apprezzato, perché in fondo «lascia fare alla natura», e così gli inglesi finiscono per definirlo la «roulette vaticana». Il diaframma, che pure viene menzionato nei manuali di igiene e medicina pratica, non ha invece alcuna circolazione, i ginecologi non lo prescrivono e la maggior parte delle donne non sa neppure che esiste. Intorno al 1920 entra in commercio il preservativo in lattice di gomma, più sottile e più comodo del suo avo ottocentesco. E nel 1923 nasce a Bologna una fabbrica, filiale della ditta tedesca Hatù - una sigla ricavata dai nomi dei fondatori, Hart-mann e Tudor -, che subito si aggiudica il monopolio della vendita alle forze armate. Il preservativo in lattice è un anticoncezionale, ma tutti lo definiscono un profilattico ed è in commercio come tale. Tant'è che viene venduto in confezioni che portano il motto «Habemus tutorem» (abbiamo un protettore) - dopo il 1945 lo slogan diventerà: «Hatù e sono tranquillo» - dove la protezione è intesa contro le malattie veneree e non contro la procreazione. È «roba da puttane», pensano concordi le mogli e i mariti, che preferiscono ancora la «marcia indietro». Tanto più che il coito interrotto evita la vergogna di entrare in farmacia, chiedere l'articolo mentre gli altri avventori
ascoltano e di fronte allo sguardo severo del farmacista (questa è una pratica imposta come vessazione dai goliardi alle matricole nelle cerimonie d'iniziazione alla vita universitaria). «Grossolani, malamente scorrevoli, del tipo secco oggi improponibile» come rievoca Gianfranco Vene, i profilattici prendono il nome confidenziale di «gondoni» o «goldoni», una corruzione del termine inglese «condom», o forse di «Gold one», il nome di una delle marche più conosciute. Il 1926 è l'anno dei giri di vite, delle strettoie, della severità dei costumi. Viene varato il decreto legge che punisce la mostra, la vendita, il possesso, la distribuzione o l'importazione di opere letterarie o scientifiche, di stampe e illustrazioni che recano offesa alla morale pubblica. È considerato offesa anche il controllo delle nascite. D'ora in poi è proibito quindi anche scrivere, stampare e vendere manuali su questo argomento. Il profilattico è consentito, perché militari e ragazzi sono stati indottrinati, hanno imparato che cos'è: una barriera contro la sifilide e la gonorrea. Con l'entrata in vigore del Codice Rocco, il 1° luglio 1931, il controllo delle nascite non è più soltanto offesa alla morale, ma qualcosa di ben più grave. Quelli previsti agli articoli 553, 554 e 555 sono reati contro l'integrità e la sanità della stirpe, quindi crimini contro lo Stato (a differenza di quanto accade in altri paesi europei). Tanto accanimento nei confronti di qualsiasi forma di contraccezione produce un effetto propagandistico tutt'al-tro che voluto (come si è visto nel caso del coito interrotto). A questo proposito nel 1933, nell'articolo Do Italian Women Obey Mussolini?, Gaetano Salvemini, esule negli Stati Uniti e sempre avversario del fascismo e di ogni forma di stupidità, afferma che tante prediche contro la limitazione delle nascite finiscono per insegnare «a molte anime innocenti che possono godersela senza pagarne il prezzo», cioè far l'amore senza conseguenze. Eppure, qualcosa sfugge alle regole e, nonostante tutto, nelle famiglie di città, del ceto medio e di buona cultura, il numero dei figli si è già ridotto e alcuni espedienti per la contraccezione - forse la castità e il coito interrotto sono i metodi più diffusi - vengono adottati. La dittatura non riesce a tenere sotto controllo le persone nell'intimità. Qualche medico coraggioso, qualche studioso tenta di capire cosa sta succedendo. Un'indagine effettuata a Trieste negli anni Trenta mostra che 4 donne su 10 controllano la loro fertilità; in un'altra indagine, svolta a Torino più o meno nello stesso periodo, le lavoratrici dichiarano di fare lo stesso. Il sesso fascista è maschio, prolifico, nazionale, ma le donne cercano di cavarsela, limitando le nascite, in un modo o nell'altro. L'educazione sessuale ispirata alla Casti Connubi e alle pene severe del Codice Rocco cancella un'occasione di libertà, tuttavia perpetua l'arte di arrangiarsi. Come nei tempi più antichi, l'aborto e l'infanticidio restano la contraccezione dei poveri e degli ignoranti. L'aborto viene praticato, al solito, clandestinamente e a rischio della vita. Tutti lo sanno, ma la cosa si menziona solo per eufemismi. La zia di Mimi Bluette «aiutava le donne al termine del nono mese; qualche volta anche prima». Anche se la guerra e l'immediato dopoguerra, periodi in cui la piaga dello stupro, le occasioni di adulterio e le gravidanze indesiderate aumentano, fanno ritenere a pochi pionieri che sarebbe opportuno affrontare il problema, in fin dei conti si stabilisce che è meglio non farlo: borrendo crimine» resta così confinato nella terra di nessuno dei silenzi e degli imbarazzi. Come la prostituzione, l'aborto esiste, è praticato, ma è possibile ignorarlo e far tacere la coscienza. Le pene previste dal Codice Rocco per chi procura l'aborto vanno da due a cinque anni, mentre da uno a quattro anni per la donna che abortisce (questi articoli resteranno in vigore, tali e quali, per quarantotto anni, fino al 1978). Data la difficoltà di scoprire e perseguire il reato, come avviene in tempi di scarsa libertà, le autorità incoraggiano la delazione, invitano i medici a spiarsi tra loro e a denunciare le ostetriche, e ai magistrati si consiglia di non trascurare lo zelo. Secondo Victoria De Grazia, negli anni Trenta l'aborto diventa un appuntamento femminile piuttosto diffuso, benché sgradito, sia nelle famiglie borghesi di città, com'era in precedenza, sia in quelle di impiegati e operai. In campagna, invece, è ancora largamente
praticato l'infanticidio. Le donne devote, strette nel dilemma tra un'altra bocca da sfamare e il peccato mortale, si fanno forza pensando che, certo, l'aborto è peccato, ma sicuramente Dio le capirà.
IX A NOZZE CON EROS Nella lingua italiana la parola «matrimonio» cambia significato rapidamente e il dizionario è costretto a prenderne atto. Nel dizionario Bergoglio del 1896 il matrimonio è definito come il «contratto fra uomo e donna di vivere insieme fino alla morte», nonché l'«unione legittima dell'uomo e della donna col vincolo coniugale». Nel 1939, in un altro dizionario, sparisce il riferimento al contratto, ma resta l'«unione dell'uomo con la donna per formare la famiglia solennemente confermata dalla legge e santificata dalla religione». Tra l'una definizione e l'altra sono passati qua-rant'anni, è tramontato il matrimonio di convenienza che ha lasciato maggiore spazio a quello d'inclinazione. Ma, soprattutto, l'eros, l'attrazione fisica, ha guadagnato visibilmente terreno all'interno della vita di coppia. E poiché è sempre meno una preda, un pegno, un oggetto, nel matrimonio moderno la moglie acquisisce potere e prestigio. Nello stesso tempo alla sposa vengono affidati molti nuovi compiti, il tocco di amore che si insinua nella vita a due porta l'impronta femminile, e la pratica del sesso tra moglie e marito sarà sempre meno quell'«aggressione brutale senza speranza» del passato. Lei sarà sempre meno un oggetto a disposizione del marito e qualcosa di più nobile di un semplice contenitore di prole. Già nel 1927 Alex, nel manuale Quello che deve sapere una giovane signora, annuncia che oggi si chiede alle ragazze che vanno a nozze qualche cosa di diverso dall'essere sposa, madre e padrona di casa, come era l'uso antico. Una fidanzata sarà d'ora in poi compagna, collaboratrice e «capitana» nelle lotte dell'esistenza; una donna dei tempi moderni «porta nel matrimonio un corredo di forze, di possibilità, di attitudini» che farebbe indignare le nonne. È finito il tempo in cui «all'uomo solo spettava il compito e la fatica di provvedere i mezzi di sussistenza». A cominciare dal fidanzamento, le regole del gioco amoroso non sono più le stesse, se si eccettuano l'obbligo alla verginità e il dovere della fedeltà, che non si toccano per non mettere in pericolo l'ordine costituito, la stabilità della famiglia, la certezza della prole. Dopo le nozze, dicono i nuovi riformatori, l'intimità tra i coniugi sarà scaldata dall'affetto, se non dalla passione reciproca: anche per lei il sesso coniugale può trasformarsi da penoso dovere a ben accetto piacere. Se il fascismo esalta il maschio supremo, la Chiesa si rivolge alle donne, incoraggiandole alla purezza, alla moderazione, finalizzando la pratica sessuale al solo obiettivo del concepimento. Mentre i modernizzatori credono che il godimento fisico sia una componente essenziale del matrimonio, i cattolici negano che esso occupi un posto centrale nella vita coniugale, dove lo scopo primario resta appunto la procreazione. Nel 1928 Maria Sticco si rivolge in Il dovere e il sogno alle ragazze della Gioventù femminile di Azione cattolica, alle quali raccomanda di tenere i piedi per terra: l'amore è una cosa, il matrimonio un'altra, e sarebbe quindi sconsiderato rifiutare «ottimi partiti per inseguire il sogno». Nell'Italia un po' arcaica, a cavallo tra vecchio e nuovo, l'uso delle nozze combinate è ancora piuttosto diffuso. Amilcare Magni, in Mammiferi di lusso, lascia che i genitori gli cerchino una moglie, una sana campagnola, perché «matrimonio d'amore o matrimonio d'interesse sono sempre il matrimonio, cioè quella pratica combinazione camuffata di sentimento». Per una ragazza, negli anni Trenta, sposarsi non è così facile, dato il forte squilibrio numerico tra maschi e femmine: a metà del decennio, nella fascia d'età tra i 18 e i 64 anni, si contano 4,5 milioni di maschi e 5,1 milioni di femmine. La concorrenza per acchiappare un marito è tanto forte da incoraggiare la civetteria, l'astuzia, i più bassi trucchi della seduzione (senza mai superare il limite estremo). Lasciarsi scappare un fidanzato comporta la certezza dell'infelicità: la condizione di zitella è davvero miserabile. Nel 1935 «L'illustrazione italiana» impartisce qualche insegnamento: «Il profumo dolce, i movimenti del corpo sensuali, ma che lasciano intendere una sorta di orgogliosa pudicizia, mettono sempre a proprio agio l'uomo forte e volitivo. Giocate con lui, stuzzicate la sua fantasia ma non concedete altro la prima sera». Le ragazze, quindi, sono invitate a comportarsi bene, perché questa è la miglior garanzia di un
buon matrimonio, anche se gli insegnamenti delle madri, delle riviste femminili o dei romanzi indicano che la civetteria è un'arma lecita, un'esca, un utile strumento negoziale. Come Maria Garetti Un bacio, qualche carezza, una conversazione d'amore, sì, sono ormai tollerati tra i giovani. Mai e poi mai, però, bisogna mettere in pericolo la purezza femminile. Dalla fine dell'Ottocento, quando l'innocenza di tante ragazze era messa a repentaglio dalla mondanità e dalla lascivia, la Chiesa aveva inaugurato l'uso dell'abito bianco per le cresimande e per le spose. Il bianco, simbolo immacolato, diventa così una sorta di bandiera, da innalzare ovunque possibile nel mondo femminile per il trionfo della moralità. Nel 1918 Armida Barelli fonda la Gioventù femminile di Azione cattolica, con il proposito di intraprendere la «ricristianizzazione» degli italiani, dopo l'anticlericalismo dell'Italia postunitaria e i lunghi decenni di tensione tra lo Stato italiano e il Vaticano. Questa operazione, a suo avviso, dev'essere compiuta dalle donne, grazie al ruolo che esse hanno di pilastro della famiglia e, quindi, naturalmente, a cominciare dal letto coniugale. La Barelli si veste sempre di bianco e il suo esempio fa scuola. La purezza - e questo non è il chiodo fisso solo dei cattolici - rappresenta il capitale da far fruttare per un buon matrimonio. Si tratta di un principio che viene ribadito vigorosamente a partire dagli anni Venti, quando l'innocenza è insidiata dalle occasioni di incontro, lavoro e svago che sono offerte alle ragazze. «In questo periodo di passaggio tra la caduta della nozione tradizionale di onore e il delinearsi del cosiddetto "libero amore"» secondo Victoria De Grazia «il valore della verginità fisica si accrebbe.» Ancora nel 1931 una rivista femminile cattolica, «Alba», ricorda alle lettrici che «lui ha il dovere di rispettare la vostra freschezza giovanile esulando persino da quelle espansioni concesse tra fratelli e sorelle». Tra fidanzati, dunque, anche solo toccarsi è rischioso. Se resta fermo il divieto di consumare sessualmente ogni intimità, cadono tuttavia altre proibizioni. Come preludio al matrimonio d'amore, il fidanzamento non è più un affare di famiglia, ma una situazione a due, un faccia a faccia per conoscersi e prepararsi al futuro comune. Resiste talora la consuetudine del fidanzato che va in visita alla promessa sposa, e la regola che vieta invece a lei la casa dei suoceri: «La donna non poteva. Prendeva della donnetta ad andare a trovare il fidanzato in casa» ricorda una promessa sposa all'epoca. Oppure: «Ti attaccavano il cartellino dietro, se lo facevi», perché comunque i ruoli non sono mutati, l'uomo è cacciatore, padrone e comandante delle operazioni. La supremazia del maschio e il precetto della verginità non sempre sono conciliabili: una futura moglie deve mostrarsi docile e compiacere il fidanzato, ma in un solo caso è autorizzata a essere disobbediente e ostinata, quello in cui le venga chiesta la suprema prova d'amore. Ora le giovani sanno che la soggezione al maschio ha un limite, e quel limite è l'amore fisico. Nelle famiglie borghesi la verginità è tenuta sotto stretto controllo, nelle classi più povere e più ricche un po' meno: la «promozione sociale» data dal matrimonio è un caso raro tra le ragazze di campagna, dove è per giunta più difficile custodire la verginità a causa dei contatti tra i ragazzi nei fienili, nei campi, al pascolo. All'opposto, il capitale della verginità conta poco tra i grandi ricchi, che di capitali abbondano, che hanno un senso della moralità meno rigoroso, perché a tutto si trova rimedio grazie al denaro. Tra le fanciulle della grande borghesia e dell'aristocrazia, la purezza non viene presa molto sul serio, si può sperperarla senza troppi rimorsi, e i futuri mariti non faranno indagini né prima né dopo le nozze. Anche in campagna, comunque, la verginità va assumendo un valore sempre più alto. Nel 1920 a Vauda di Front, villaggio del Canavese, la ventunenne Francesca querela Carlo, suo ex fidanzato, il quale ha detto che Luigi, attuale fidanzato della ragazza, «prende i suoi avanzi». La voce arriva fino a Luigi, che rifiuta quindi di sposare Francesca. Per quel che va dicendo, Carlo è condannato a due mesi e mezzo e a una multa, ma l'intera vicenda nuoce soprattutto a Francesca, la sua reputazione è infranta, e vede sfumare un matrimonio. Nel 1931 la Gioventù femminile diffonde un opuscolo su Maria Goretti, «eroico modello di fanciulla che ha saputo lottare fino a perdere la vita. È per darvi il coraggio di dire il vostro "no"
energico e costante a tutte le insidie della moda, dei cattivi esempi, delle cattive letture, della insana e pagana corrente del mondo». L'esempio di Maria Goretti serve a fissare ben bene nella sensibilità delle fanciulle l'equivalenza tra la purezza e la vita: perdere la prima è come essere morte, e quindi tanto vale lasciarsi ammazzare. Da questo punto di vista il sesso - fuori dal matrimonio - non è solo un male, o un vizio, ma un nemico giurato delle donne. Non è un caso che una scarsa cura della purezza viene attribuita al mondo pagano, dove - dice la Chiesa - le donne potevano essere prese e ripudiate, dove un maschio poteva mantenere una o più concubine e dove, soprattutto, le donne non trovavano strenui difensori. A Maria Goretti le ragazze si ispirano effettivamente come a un fulgido esempio: nel 1935, a Orgosolo, Antonia Mesina, una ragazza di povera famiglia, partecipa alla Crociata della purezza, organizzata dalla Gioventù femminile. Confida a un'amica la propria ammirazione per Maria Go-retti: se a me capitasse di essere aggredita, afferma, mi comporterei allo stesso modo. Nel maggio successivo, a sedici anni, Antonia ha fatto da poco la prima comunione. Va nel bosco a raccogliere la legna, viene assalita, si difende ed è uccisa a colpi di pietra. Solo l'arma del delitto è diversa (Maria era stata uccisa con un punteruolo) per il resto la storia è uguale, come la sua morale: rinunciare alla vita per non cedere la verginità. Perché tanta insistenza educativa e propagandistica sulla verginità? Perché rivolgersi direttamente alle fanciulle, insegnando loro a non cedere agli allettamenti della carne? È il sistema più sicuro e più adatto ai tempi moderni. Le ragazze godono di libertà di movimento e di occasioni di incontro, tra passatempi, adunate, balli e gite, vengono sottratte al controllo delle famiglie. Non c'è dunque altra soluzione che affidare a loro stesse la custodia del bene più prezioso, anche a costo di spaventarle, anzi, soprattutto incutendo loro un timore profondo delle conseguenze di una, una sola, leggerezza. A dispetto dell'esaltazione della maschietta, la libertà amorosa non deve attecchire tra i giovani. Gli anni Trenta sono dunque caratterizzati dall'alto numero di nati (o concepiti) fuori dal santo vincolo, e al tempo stesso da un martellante indottrinamento sulla purezza. Sembra che il rispetto della verginità si diffonda tra le giovani coppie di innamorati, tanto da attirare l'attenzione di Arrigo Cajumi, il quale - come racconta ne I pensieri di un libertino legge «una rivista da barbiere» mentre aspetta il taglio dei capelli, e scopre che vi si «lamenta la sostituzione dell'amore all'italiana, ossia della passione con ingravidamento e sforzamento, col flirt, ossia la masturbazione manuale od orale». Purtroppo, commenta lui, non è vero, anzi. «I ruderi dell'antica borghesia s'illudono che quando i giovani dei due sessi vanno in montagna, ci vadano per quel dato scopo: profondo errore. Ci vanno per sciare. Sul serio!» E tale rispetto pare non sia diffuso solo nella borghesia, ma anche nei ceti popolari, almeno nelle famiglie devote. Nel 1936 Armando, un operaio emigrato al Nord, si fidanza con Maria. Lui è richiamato alle armi, le guerre si susseguono, i due devono aspettare fino al 1946 per convolare a nozze «ed era la prima volta» racconta Maria «che andavamo insieme. Io non mi vergogno di dirlo che siamo stati stupidi ad aspettare tanto una cosa così bella». «Ci siamo sposati di sabato» rievoca Armando «e la domenica lei voleva avere già un bambino, tanto gli piaceva fare all'amore. Ora, dopo dieci anni che siamo sposati, è come mangiare una michetta, ma ci si prova sempre gusto.» Dunque, sembra che una nuova scoperta abbia preso piede: il matrimonio con amore è meglio di quello senza amore, e il sesso con affetto può funzionare tra i coniugi, cementando l'unione, che sarà sopportabile e duratura, anzi indissolubile come vuole la religione cattolica. La Chiesa difende le donne, le aiuta, impartisce loro nuovi insegnamenti per far fronte a fidanzati, mariti, aggressori; si erge alta e forte contro il maschio supremo e le sue imprese, contro i bordelli e il libero amore. Il sesso è sempre e comunque un vizio, che soltanto il «mistero della vita» può nobilitare. Direzione e confessione parla, senza mai nominarla, della concupiscenza: «Appena il Cristiano giunge all'età della discrezione, finché non abbia chiuso gli occhi alla luce della vita presente, sempre ed ovunque deve temerne gl'insidiosissimi agguati». Ai maschi, in particolare, occorre rivolgere il monito a non abbassare mai la guardia
perché gli assalti, proprio quando sembrano sopiti, tornano più forti che mai. Che cosa fare? Bisogna rivolgersi al sacerdote, perché la confessione «ha una forza specialissima contro la sensualità». Nel 1937 Rodolfo Bettazzi, che in trent'anni la guardia non l'ha mai abbassata e lotta ancora contro il vizio, conferma questa raccomandazione: i giovani, vittime del desiderio, non chiedano mai consiglio al medico, piuttosto al prete. I «sacerdoti della scienza» infatti sono capaci perfino di dichiarare che «il vizio è necessario alla salute». Ad aiutare la castità e la continenza c'è poi anche il poco spazio che caratterizza gli appartamenti di città e il loro affollamento, che rendono complicata, se non impossibile, ogni operazione a due di carattere riservato. È una situazione raccontata da Ettore Scola nel film Una giornata particolare. La vicenda si svolge il 6 maggio 1938, e in un condominio romano una madre di famiglia (Sophia Loren) può godersi la solitudine domestica soltanto perché Hitler è in visita a Roma e tutti sono accorsi ad applaudire lui e il duce. Nella fausta occasione, appunto, si compie l'adulterio tra la casalinga e l'annunciatore radiofonico (Marcello Mastroianni), un omosessuale che sta per partire per il confino. Sempre la scarsità di spazio che ostacola qualsiasi intimità, in Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini, costringe gli innamorati a recarsi nei prati ai margini della città per consumare i loro istanti di piacere. La verginità è essenziale, ma la vita moderna offre mille occasioni per restare soli, cioè in due. Così, mentre a poco a poco scompaiono tanti divieti formali, e si consegna alle ragazze la responsabilità della purezza, crescono e si allargano i giochi prematrimoniali. Come è confermato dal gran numero di nati (e concepiti) fuori dal matrimonio, negli anni tra le due guerre, l'abitudine ad appartarsi scivola facilmente nella sperimentazione sessuale. In Francia un terzo delle spose conosce già l'amore fisico al momento delle nozze e negli Stati Uniti forse addirittura metà. A differenza del matrimonio ottocentesco, in quello moderno i coniugi della classe media condividono sentimenti e abitudini: se saranno compagni di tutta la vita, è meglio che conoscano per tempo quel che li aspetta. Una volta stabilita la data delle nozze, il rischio di restare incinta poco comporta. Tutt'al più, come accade da che mondo è mondo, nascerà un settimino. Finalmente soli L'educazione, il martellamento di divieti, la propaganda servono a qualche cosa: la prima notte non è più l'assalto del maschio fin troppo a lungo trattenuto dalla rigida etichetta del fidanzamento. O meglio, lo è ancora per molto tempo ma più che altro nei ceti popolari, i meno raggiunti dall'istruzione, dove i modi belluini sono duri a morire. Nelle famiglie borghesi colte si assiste in genere a ciò che racconta Elda Mazzocchi Scarzella in Percorso d'amore: una civile preparazione al momento fatale. Già alla vigilia delle nozze, Elda coglie una conversazione tra la propria madre e il futuro sposo: «Sii delicato, Enzo». E poi ricorda: «Non avevo ricevuto istruzione sessuale, erano sempre così lieti il babbo e la mamma nel loro immenso letto». La prima volta non è affatto spiacevole: «Finalmente soli, in un'atmosfera tutta nostra. Erano le mani a favorire il colloquio dei corpi, erano le dita a suscitare sensazioni nuove. Mi sembrava di essere un'arpa. I seni si gonfiavano, trasfiguravano tutto il corpo, pareva che la camicia non potesse contenerli, mi sentivo umida, volevo essere nuda, i primi spasmi, le barriere del tu e dell'io si infransero. "Ti faccio male?" "Sst!" Abituata a sopportare il dolore fisico, provavo piacere anche nella strana resistenza dell'imene. Scoprii che il rapporto sessuale aveva una vita propria, non legata al concepimento, e infinite espressioni, varie come il dialogare degli spiriti di due esseri che si amano. Vissi la prima notte in una situazione ideale, grazie anche a un uomo non certo vergine, iniziato anzi da donne raffinate». È quanto accade, d'altra parte, ai maschi di famiglia borghese e colta, di essere iniziati al sesso con ogni cautela. Eugenio Colorni viene istruito dal cugino Enrico Sereni, maggiore di lui di nove anni. È la stessa madre di Eugenio, Clara, che gli conferisce il delicato incarico. Più tardi il giovane racconterà che Enrico «lo ha messo in guardia contro vizi e pericoli; lo ha iniziato ad una sua morale fra stoica e quacchera: la necessità di moralizzare l'atto sessuale, di non compierlo mai come sfogo di istinti, ma solo sub specie aeternitatis, con la donna che si
amerà sempre, per la procreazione dei figli». Al ritorno dalla Germania, dove è andato a studiare, Eugenio riferisce tuttavia agli amici di aver ceduto «di fronte alle irrefrenabili avances della figlia della padrona di casa». I futuri sposi del popolo, al contrario, continuano ad andare a nozze ignari o affamati, senza tocchi di alta moralità infilati tra lenzuolo e copriletto: «Ai miei tempi ci mandavano al matrimonio come si mandano le pecore al macello. Senza un avvertimento, niente. Secondo me, il matrimonio viene rovinato da questa ignoranza. Alla donna la brutta impressione non passa con facilità» ricorda una casalinga di Palermo, che ha cinquantasei anni quando viene intervistata da Lieta Harrison nel 1972. Il matrimonio con amore ha avuto fin dall'inizio del secolo i suoi sostenitori e seguaci. In Amore e matrimonio, Marie Stopes si dichiara contraria ai letti separati, fautrice dell'intimità tra i coniugi, convinta dei benefici del sesso costante, propugnatrice del corteggiamento continuo del marito e del diritto all'orgasmo della moglie, Marie è un'apostola dell'eros coniugale. Lei stessa è una delle tante spose vittime dell'ignoranza sessuale. Andata a nozze nel 1911, si accorge soltanto dopo un anno che qualcosa non va. Il marito, infatti, è impotente. Quest'esperienza bruciante le suggerisce di dedicare ogni sforzo all'educazione sessuale e al controllo delle nascite, tutti e due, a suo parere, armi formidabili per l'indipendenza e la dignità femminile. Il suo libro ha un successo enorme in molti paesi, perché è rivolto alle donne e perché insegna loro come essere sessualmente appagate e non gravate da una montagna di figli. Come suggerisce il titolo, Marie Stopes non è una seguace del libero amore, anzi è convinta che il sesso si debba praticare solo all'interno del matrimonio, e che solo in questa cornice esso renda felici. Il matrimonio diventa così un'unione fisica e spirituale, non più un contratto tra due famiglie, due patrimoni, due redditi o due miserie. Benché il seme sia gettato già dopo la Grande Guerra, la concezione erotica della vita coniugale si afferma con molta lentezza in Italia, ancora soprattutto un paese di contadini. Ma non esiste né legge né comandamento che possa impedire alle idee di farsi strada, se rispondono alle esigenze delle persone, e così, a poco a poco, tramontano le vecchie tradizioni. La cultura del debito coniugale (che resta a lungo un obbligo di legge) perde peso nei rapporti tra i coniugi, mentre emerge quella del diritto al piacere, e addirittura al piacere reciproco, un diritto che vale per i due sessi. Già prima della guerra, Roberto Michels aveva ammonito che la sottomissione sessuale della moglie al marito era da condannare, in quanto violenza peggiore addirittura della prostituzione (dove almeno regna la convinzione che le due parti siano consenzienti). Ora tale condanna sembra essere sempre più largamente condivisa. Nel periodo tra le due guerre, inoltre, il costume coniugale subisce influenze contrastanti: da un lato scienziati, sessuologi e letterati stranieri sono innovatori del costume e inventori di abitudini non tradizionali, come Marie Stopes, Sigmund Freud, Theo van de Velde; dall'altro il dettato fascista e la Chiesa continuano a imporsi, l'uno attraverso le leggi, l'altra attraverso le coscienze. Freud è conosciuto negli ambienti scientifici, ma non ancora divulgato. Un altro austriaco, allievo di Freud, che in quegli anni scrive le sue opere più innovative, non viene preso particolarmente sul serio, perché è un estremista fantasioso. Si chiama Wilhelm Reich e le sue teorie sono invise ai freudiani ortodossi in Austria, ai nazisti al potere in Germania, ai comunisti puritani di tutta Europa. La repressione sessuale, sostiene Reich, è tipica della società patriarcale autoritaria, e l'educazione alla repressione genera la «peste nevrotica», un insieme di sintomi che comprendono angoscia, senso di colpa e frustrazione. Nel 1939 Reich è costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove perfeziona la teoria dell'energia orgonica, un'energia vitale che, se intralciata, è responsabile di varie patologie dell'organismo umano adulto. Dalla teoria reichiana deriva che l'orgasmo è necessario all'equilibrio psicofisico. Ma che cos'è l'orgasmo? Un maschio di solito lo impara masturbandosi o al bordello. Una giovane fidanzata o una moglie può invece cercarlo sul dizionario, dove trova un generico: «stato d'eccitazione di un organo» - quale organo non è detto - e, chiuso il volume, ne sa esattamente come prima. Però, il solo fatto che di orgasmo si discuta, che esso sia attribuito -
almeno come possibilità - anche alle donne, rappresenta un rovesciamento netto della concezione matrimoniale ottocentesca. Quel che sta sedimentando nelle coscienze, in ogni caso, è la certezza che il sesso non è un vizio. Non può esserlo, se rappresenta il cemento dell'unione tra due persone. Quindi può essere perfino una virtù se viene praticato tra i coniugi, e non per forza violento, ma divertente, appassionato, affettuoso. Nello stesso anno in cui Mussolini annuncia l'inizio della campagna demografica, il 1927, viene pubblicato Il matrimonio perfetto di Theo van de Velde, un ginecologo olandese che ha avuto diverse mogli e che conquista con questo libro una larga popolarità in Europa. Egli espone una visione del matrimonio nella quale eros e affetto hanno un ruolo essenziale: il sesso coniugale dev'essere piacevole e il piacere è parte integrante della vita a due. Van de Velde incoraggia i coniugi a ottenere l'orgasmo simultaneo, che rappresenta una conquista, non essendo affatto scontato né automatico. Si può arrivare a questo traguardo, ma bisogna imparare le tecniche giuste, che egli procede a insegnare una per una. Occorre prima di tutto che marito e moglie si amino l'un l'altra, che siano reciprocamente attratti; che lui la corteggi e che entrambi diano spazio ai preliminari, non trascurando nessuna parte del corpo, neppure i genitali. Per ottenere il piacere reciproco, lui deve stimolare il clitoride o lei il pene, quanto basta, ovvero quanto l'uno o l'altra ne hanno bisogno al fine del godere supremo. Non è il caso di vergognarsi, l'uso della bocca e delle dita è giustificato ai fini dell'orgasmo, che a sua volta è legittimato perché cementa l'unione fisica e spirituale dei coniugi. Quella di van de Velde è - ancora una volta - una difesa delle mogli, un'esortazione ai mariti a essere «eterni amanti». Non basta, il medico olandese suggerisce agli sposi di non voltarsi dall'altra parte quando l'eiaculazione è conclusa, ma di prolungare le carezze e i baci, che sono un'espressione di affetto, una manifestazione di piacere, un gesto di riconoscenza. Infine, nel caso che lei non abbia ottenuto l'orgasmo, lui deve procurarglielo con il dito. L'amore coniugale non deve lasciare mai una scia di frustrazione e rancore. La terra italiana è simile a un arido deserto roccioso per un predicatore come van de Velde. La sua proposta di un matrimonio reso più solido dall'eros rappresenta una punta estremamente avanzata della pratica sessuale. In realtà, la maggior parte degli sposi si comporta come questa contadina che racconta la sua prima notte di nozze negli anni Trenta: «Non osavo svestirmi, avevo la camicia lunga fino alla caviglia, e la maglia abbottonata fino al collo, sì, sì, mio marito cercava di tirare su e io tiravo giù». La battaglia nuziale finisce con la sconfitta femminile: «Ah, ho un brutto ricordo della prima volta. Sono svenuta dal male». Come Marie Stopes, anche Franceschini insegna che l'unica sede giusta per il sesso è il matrimonio e le altre forme di unione, basate solo sul desiderio fisico, si spezzano al primo urto. A differenza di Marie Stopes, però, Franceschini non caldeggia una pratica del sesso troppo frequente, non incoraggia la passione coniugale, solo ribadisce che un marito deve rispettare la moglie nell'intimità. Prima delle nozze consiglia la continenza e dopo le nozze il rispetto della sposa: non ci sarà contatto carnale dopo il quinto mese di gravidanza, nel puerperio e durante le mestruazioni, se non altro per «estetica sessuale». È finita l'epoca del sesso «brutale e senza speranza», ora le mogli conquistano un certo rispetto. Il coito, rivela il sessuologo, provoca una «scossa nervosa» che può nuocere alla signora. Del resto nel 1939 un medico, Arnolfo Ciampolini, ricorda che per le donne «la copula è tutt'altro che un atto gradito: talora è anche fastidiosa», magari anche, ma non sempre, per «la poca accortezza di contegno per opera dell'uomo nei confronti del soggetto da possedere». Anche la Chiesa finisce per ammettere che esiste un diritto alla sessualità, sia pure con mille cautele e tantissimi distinguo. Tant'è che nel 1941 perfino un suo illustre esponente, Agostino Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica, lo scrive a beneficio dei suoi giovani lettori e dichiara che l'istinto sessuale è un bisogno fisiologico, che chiede di essere soddisfatto. Tuttavia non è vero che reprimerlo procura danno. Nella visione cattolica, il sesso non ha diritto a un'esistenza propria: si tratta di uno strumento, e quindi è necessario saperlo usare in osservanza delle regole che la Chiesa gli fornisce. Il buon Dio ha stabilito che esso serve alla
riproduzione e perciò, argomenta Gemelli, è lecito soltanto nel sacro vincolo del matrimonio. «Fuori dalla vita coniugale non è consentito... alcun uso delle funzioni sessuali» e quindi è peccato frequentare le case di tolleranza. Inoltre, avverte rivolgendosi ai maschi alle soglie dell'età adulta, «gli stimoli sessuali sono più forti, più insistenti, più imperiosi quanto più noi li soddisfiamo» e quindi contenersi è bene e sarà sempre meglio. Per una donna, a questo punto, la sensualità e il diritto all'orgasmo diventano la prova dell'impegno nei confronti della famiglia, una promessa di stabilità, una conferma alla vocazione di madre. L'orgasmo coniugale, che era inin-fluente in seno al matrimonio, finisce per occupare una posizione centrale e riconosciuta; diventa il suggello dell'eternità dell'istituto familiare, pilastro dell'ordine sociale. Nell'Italia tra le due guerre l'area della libertà individuale si restringe mentre si allarga l'area del controllo e delle prescrizioni di Stato e Chiesa, ormai alleati (e qualche volta concorrenti nel controllo delle coscienze e della sfera sessuale). L'esistenza di numerose prescrizioni non va affatto a scapito dei rapporti intimi, perché molte di queste - come abbiamo visto - sono ispirate proprio al rispetto della donna. Per contrastare l'antica brutalità del maschio, per esempio, la Chiesa esorta le donne, che hanno un maggior senso della moralità e sono dotate di sensibilità più spiccata, a educare gli uomini - figli, fidanzati e mariti - allontanandoli dalla bassezza dei loro istinti brutali. In compenso, però, controlla passo dopo passo le prestazioni dei coniugi, quasi entrando nel loro letto. Al confessore comunque non è possibile nascondere nulla e quindi, racconta per esempio una contadina piemontese: «Il prete voleva sapere perché non comperavo dei figli, e mi chiedeva che cosa facevo con mio marito, e mi parlava chiaro e tondo, e quelle cose dette da un prete mi indignavano e provavo disgusto e vergogna». I riformatori esortano le donne a non aver paura a ricercare l'orgasmo, ad avere una parte attiva nell'intimità, e asseriscono che una moglie è compagna e non oggetto del marito. Cambiano quindi anche i modelli della fedeltà coniugale: una moglie non si sente costretta a subire ogni tradimento del marito, può anche reagire, parlargliene, magari per perdonare. Nel manualetto di Alex, per esempio, una futura sposa legge che potrà «decidere secondo la propria coscienza nelle questioni controverse fra sé e il suo compagno» e dovrà essere indulgente. Alex consiglia di evitare in ogni caso scenate, gelosie e drammi: il perdono è la scelta migliore perché il matrimonio vale più della giustizia e della lealtà. Certo, non è affatto previsto il caso contrario, l'adulterio di lei, che resta un sommo obbrobrio, un peccato, un motivo di rottura della famiglia e soprattutto un reato. L'articolo 559 del Codice Rocco prevede una pena per la moglie, ma non per il marito, come già il Codice Zanardelli. Il fascismo, che ama dipingere un quadretto di ordine e serenità del paese, preferisce che della questione non si parli sui giornali, che non si dia conto di arresti o processi legati a quelle che nel gergo popolare si chiamano molto sbrigativamente «corna». Eppure, come sempre, l'infedeltà coniugale resiste nelle più varie forme, clandestine o notorie, tra-giche o ridicole: le rondinelle del pied-à-terre, secondo Gianfranco Vene, sono quelle mogli piccolo borghesi che il pomeriggio visitano l'amante di nascosto, come di nascosto viene usato quel piccante nome francese che indica il luogo degli appuntamenti, e che non va sostituito con l'altrettanto gallico garsonnière ma, caso mai, con l'italico «gio-vanottiera» o il più letterale «piedatterra». Ufficialmente l'adulterio non esiste nell'Italia tra le due guerre, anche se tutti sanno che i primi a praticarlo stanno nella suprema famiglia del duce. Parte terza TRONCARE, SOPIRE 1940-1968 Nella villa di campagna, vicino a Carpi, la famiglia N. aspetta la fine della guerra. Nel 1944 vi risiedono i nonni, la madre e quattro dei cinque figli. Il maggiore, infatti, è caduto in Africa a diciannove anni nel 1940. Il padre segue i tedeschi nella ritirata dalla Russia. Laura e Giuliana hanno rispettivamente diciannove e vent'anni quando la loro casa comincia a offrire ospitalità a ufficiali e sottufficiali tedeschi in licenza dal fronte di Cassino. Sono ragazze ricche, indipendenti e colte, hanno la patente di guida, studiano all'università e parlano il tedesco. Sono giovani, libere, piene di coraggio e di iniziativa. Il capitano Rosenkil-de, che nella vita civile è un architetto, regala a Laura un libro e
poi un altro, classici della letteratura latina e greca che ha comperato a Bologna. Sboccia un amore, e che cosa importa il futuro? Per Laura, Giuliana, per le cameriere e le contadine, quelle poche decine di ufficiali che dormono, mangiano, e si concedono un po' di svago prima di andare a morire, sono essenzialmente uomini, qualche volta affascinanti e gentili. Amoreggiano un po' tutti, mentre i nonni stanno a guardare. Rosenkilde morirà a Cassino, Giuliana si arruolerà nelle formazioni della Repubblica sociale, Laura, invece, salverà la vita a diversi partigiani grazie ai suoi rapporti con gli occupanti. Dopo la fine della guerra, Giuliana sposerà un fisico americano, Laura un ingegnere italiano e l'amore di pace sostituirà gli amori di guerra. Alba de Cèspedes è una scrittrice affermata quando nel 1952 scrive Quaderno proibito. Valeria, la protagonista, ha quaran-tatré anni, un marito e due figli. Lavora per necessità, la sua buona famiglia borghese è impoverita. Un giorno compera in gran segreto un quaderno nero e ne fa il proprio diario, al quale confida il nulla della sua vita coniugale con Michele, la ribellione della figlia Mirella, che s'innamora di un uomo sposato, e del figlio Riccardo che sposa Marina, già incinta. Sente sbocciare un tenero sentimento, ricambiato, per Guido, il suo capoufficio, ma non succederà niente. A differenza dei figli, che rompono le regole della morale sessuale tradizionale, Valeria sceglie di non cambiare. Si tiene un marito che la chiama «mammà» e rinuncia all'uomo che le vuole bene. Anche se Valeria è ormai consapevole della propria frustrazione, che con lucidità confida al diario, decide di sopportare il fardello e di far pesare il proprio sacrificio ai parenti. Nel 1947 Giovanni Ansaldo, con lo pseudonimo di Willy Farnese, pubblica Il vero signore, un manuale di buone maniere destinato ai maschi, e osserva quanto è cambiata l'intimità tra uomini e donne. Il marito, per esempio, non indossa più la camicia da notte ma il pigiama, arrivato in Italia «insieme alle ultime novelle di soggetto angloindiano di Rudyard Kipling». Meglio così, perché la camicia da notte era ridicola, benché resista ancora «nel segreto delle vecchie case di provincia». Nel 1947 un giornale che pubblica la Maya desnuda, celebre quadro di Francisco Goya, viene condannato per oltraggio al pudore. A proposito di pudore, il ministro dell'Interno Mario Scelba dichiara che «ladri e grassatori arrecano alla società danni minori della stampa pornografica». La pornografia viene perseguita con accanimento. Ancora nel 1958 la procura di Genova sequestra un giornale che ha stampato il Nudo sdraiato - anche questo un celebre quadro - con la firma di Amedeo Modiglioni. Nel 1951 Pio XII dice ai padri di famiglia francesi: «Quello stesso Creatore, che, nella sua bontà e sapienza, ha voluto per la conservazione e propagazione del genere umano servirsi dell'opera dell'uomo e della donna, unendoli nel matrimonio, ha disposto anche che in quella funzione i coniugi provino un piacere e una felicità nel corpo e nello spirito. I coniugi dunque, nel cercare e nel godere di questo piacere, non fanno nulla di male». All'inizio degli anni Sessanta, il cinquantenne Tranquillo Allevi, un facoltoso agricoltore che abita ad Arma di Taggia, muore dopo aver bevuto un aperitivo arrivatogli per posta, in una bottiglia con un tappo di sughero. Gli inquirenti scoprono senza troppa fatica che sua moglie, Renata Lualdi, ha per amante il veterinario Renato Ferrari. Nel triangolo c'era ovviamente tensione. Poco tempo prima, al Ferrari andato a rinfrescarsi con un bagno nel fiume insieme alla Lualdi, Allevi aveva sottratto i pantaloni e le chiavi dell'automobile. Seminudo e appiedato, il veterinario doveva nutrire più di un rancore; viene accusato di omicidio e processato nel 1964. Il «delitto del bitter» appassiona i lettori di rotocalchi come una delle più piccanti storie di adulterio dalla fine del conflitto. Gli anni della seconda guerra mondiale costituiscono per l'amore una sorta di zona franca, dove accadono cose prima proibite, o quanto meno mal viste. Fin dai primi momenti di pace, chi non si accorge che tutto è cambiato nell'universo del sesso? Molte donne, che hanno sperimentato una provvisoria libertà, non intendono rinunciarvi. Ma c'è anche chi pretende di chiudere la parentesi bellica e tornare al vecchio ordine, all'antico concetto di pudore e di moralità, come se nulla fosse accaduto. Questo è il sogno ufficiale degli anni tra il 1948 e il
1968. Il denaro, la modernità, i consumi del miracolo economico e soprattutto l'esempio della generazione che ha attraversato la guerra con i suoi amori improvvisati e senza cerimonie insegnano però ai giovani che è possibile e conveniente cambiare. Tanto più che, al di là dell'oceano, un ex entomologo, Alfred Kinsey, ha studiato il comportamento sessuale umano traendo conclusioni sorprendenti, e un chimico, Gregory Pincus, ha messo a punto una pillola capace di inibire l'ovulazione, cioè un anticoncezionale sicuro e relativamente innocuo. Anche la loro opera contribuisce alla caduta degli antichi divieti sessuali.
X COSE CHE CAPITANO Dopo il 10 giugno 1940, quando Mussolini annuncia dal balcone di palazzo Venezia che ha dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, la vita e l'amore si fanno più precari. Per entrambi - la vita e l'amore - ognuno combatte come può, senza rispettare le regole della morale prebellica né quelle degli schieramenti in campo. Il sesso di guerra è uno dei tanti modi di sopravvivere, tuffandosi in amori casuali, brevi e improvvisati, all'insegna della paura, della pietà o della disperazione. Uomini e donne accolgono ciò che capita e per otto anni, almeno fino al 1948, l'improvvisazione lascia il suo marchio sugli incontri intimi tra uomini e donne. Quel che prima del 1940 pareva sconveniente, diventa la normalità bellica. Nel 1944, Linda - siamo nel romanzo Giovinezza giovinezza - va a trovare Giulio, il suo ex fidanzato, che è partigiano e vive in clandestinità. Giulio le propone di vivere insieme e Linda si ferma a casa sua. Arriva la sera, la donna siede in camera e cerca di leggere: «Si sforzò per una decina di minuti, poi chiuse il libro e bussò alla porta della seconda stanza», quella del giovane. Se prima del conflitto la loro era stata una relazione difficile e tormentata fino alla rottura, nei giorni bui dell'occupazione diventa un appoggiarsi e abbandonarsi l'una all'altro. I riti di passaggio vengono abbattuti dalla forza degli eventi: fidanzamento, consenso dei parenti, corredo e cerimonia non si frappongono più al giacere in due nello stesso letto. Il confine irrevocabile dell'esistenza - il giorno delle nozze - sfuma nella confusione della partenza per il fronte o dello sfollamento, perché ormai il corso stesso della vita ha perso la linearità netta che aveva in tempo di pace. Questa guerra non concede certezze neppure ai civili, perché sono campi di battaglia sia il deserto libico o la pianura russa, sia la cucina bombardata o la strada della fuga notturna con pochi fagotti, un bambino tenuto al collo e l'altro per mano. In Guerra senza bandiera, dove racconta la propria avventura partigiana, Edgardo Sogno rievoca un breve soggiorno a Lugano nel 1944. Franchi - è il suo nome di battaglia -trascorre l'ultima serata in città: l'indomani rientrerà in Italia, passando clandestinamente la frontiera, e non sa che cosa lo attende, forse la prigionia, la tortura, la fucilazione. Ha un appuntamento con Vera, giovane impiegata presso un consolato. Lei porta «un abito a fiori quasi estivo e le braccia scoperte». Passeggiano in silenzio, allacciati l'uno all'altra; cenano in un piccolo ristorante, poi vanno in un locale, il Cerii, e bevono whisky. Lui allontana per un momento «il rimorso di essere ancora vivo» a differenza di tanti compagni di lotta già caduti. A Vera dice: «Molto probabilmente non ci vedremo più. Forse non ti cercherò. Non so che cosa sentirò domani per te. Ma so che questa sera ti desidero tanto». La giovane risponde: «Andiamo». Arrivano al portone della casa di lei. Vera estrae la chiave dalla borsetta di velluto nero, varcano il portone, lui l'abbraccia, lei resiste e lo prega: «Lasciami, sii buono». Lui non cede, e infine lei «si abbandonò. Allora mi appoggiai al battente e lo richiusi dietro le mie spalle». Amori disperati, rassegnati o gioiosi si consumano -non vi sono dubbi - perché la guerra rappresenta una parentesi tra le regole del passato e quelle del futuro. Roma è appena stata liberata quando Massimo Caprara, che sta per diventare segretario di Palmiro Togliatti, è illuminato «sulla via di Botteghe Oscure» da I. P., una staffetta partigiana, che vede scendere da un'auto militare: «le gambe tornite, i seni floridi, abbronzata, così bella e disinvolta da sembrare un capo». La ragazza è sposata, ma non importa, lui approfitta «d'una sera in cui, subito dopo il tramonto in quella prima estate del 1944, le stanze di via Zara erano ancora vuote e silenziose, per andare a letto con lei: improvvisamente sciolta e lieta, senza affettazione». Si fa l'amore con la luce spenta e perfino con la luce accesa, quasi a sfidare il pudore del tempo andato e l'oscuramento del tempo presente. Tanto franca è la zona degli amori di guerra che a volte è proprio lei ad accendere la luce: quel gesto, in altri tempi, sarebbe stato accolto come un tocco da svergognata.
A volte, addirittura, saltati i rituali della buona creanza, lei si infila tra le lenzuola. Giulio, in Giovinezza giovinezza, è richiamato alle armi e quindi inviato a Catania, dove trova alloggio nel palazzo signorile di una baronessa. Agata, la figlia della padrona di casa, abbandonata dal marito è tornata a vivere dalla madre. I rapporti tra l'aristocratica famiglia e l'inquilino sono cortesi e formali, tra pranzi, cene, scambio di convenevoli e notizie della guerra. Una notte Giulio è a letto, al buio. «Non era da molto addormentato, quando si svegliò di soprassalto. Un corpo umano premeva su di lui. Tentò istintivamente di liberarsene, ma sentì subito il caldo di due labbra incollate sul suo viso.» Agata e Giulio ripetono gli incontri per due mesi e mezzo, sempre nell'oscurità. Arriva l'ultima sera, antecedente la partenza di Giulio per l'Africa. Quella notte «finalmente Agata accese la luce» e per la prima volta i due amanti parlano tra loro, guardandosi in faccia, ma è soltanto per dirsi addio. Solo il sentimento di incertezza, il vivere giorno per giorno, sono capaci di annullare la riservatezza e la titubanza acquisite con un'educazione severa. Togliersi gli abiti, infatti, e accendere la luce rappresentano una conquista, un deciso passo verso l'intimità completa, che in passato si compiva solo nel matrimonio o dopo un lungo collaudo. In Un delitto d'onore di Giovanni Arpino, Sabina non vuole che il marito accenda la luce, perché si vergogna. Fanno l'amore senza spogliarsi, e per molto tempo, gli amanti de La bella estate di Cesare Pavese, il pittore Guido e la diciassettenne Ginia. Si accoppiano sul lettuc-cio dello studio di lui, dietro una tenda e lo fanno per parecchio tempo e numerosi appuntamenti successivi. A un certo punto, quando ormai si considerano amanti fissi, allora sì, per la prima volta, si spogliano e contemplano l'uno il corpo dell'altra. Nudi, in piena luce e senza essere sposati: tanto oltre i confini stabiliti conduce la precarietà della guerra, e da qui non si tornerà indietro tanto facilmente. Nel 1950, quando ormai la pace è cosa certa, si celebra l'Anno santo e le regole del buon tempo andato sono tornate in vigore, Dino Origlia afferma in Psicologia del matrimonio, un manuale di istruzioni per il sesso coniugale, che «il buio crea un'atmosfera più intima, più raccolta, più appropriata a quello stordimento che si connette con l'atto sessuale vero e proprio». L'autore aggiunge però che un po' di chiarore serve a illuminare le forme femminili e facilita l'eccitazione maschile. Quanto agli abiti, poi, non sono affatto appropriate «quelle borghesissime parures di seta celeste o rosa che ormai sono divenute l'abituale spettacolo di molti depressi mariti», i quali dovrebbero piuttosto comperare alle spose biancheria traforata o ricamata, preferibilmente di colore nero. Non c'è dubbio, la pace è tornata, ha portato con sé tante regole vecchie e qualche prudentissima audacia. Come era già accaduto durante la Grande Guerra, assenze, traslochi, sfollamenti e prigionie creano le condizioni adatte per amori improbabili, per l'adulterio, per la formazione di famiglie di fatto ma illegali, per la nascita di bambini dal padre incerto. Caterina Fort, detta Rina, una giovane friulana trapiantata a Milano già prima della guerra, incontra il catanese Giuseppe Ricciardi, commerciante di tessuti, che ha lasciato nella città natale la moglie Franca e tre figli. Rina e Giuseppe diventano soci in affari, amanti e istituiscono una convivenza stabile e vanno d'accordo. Poi, nel 1946, le cose cambiano. Franca raggiunge il marito a Milano, portando con sé i figli. Rina deve sloggiare di casa, cambiare lavoro e tornare a cavarsela da sola. Dopo una serie di vicende, ritorni, abbandoni e scenate, esplode la tragedia. Nella casa di via San Gregorio, una sera di novembre, Franca e i tre bambini vengono ammazzati a martellate. Accusata del delitto, nel 1950 Rina, protagonista e vittima dell'amore di guerra, come Franca e i bambini, viene condannata all'ergastolo. Il conflitto determina talvolta scambi sessuali non voluti da una delle parti in causa. Ne La ciociara di Alberto Mo-ravia, Cesira e la figlia Rosetta vengono stuprate dai soldati marocchini, che risalgono la penisola con gli Alleati. È un'esperienza che segna le loro esistenze. Qualche tempo dopo, Cesira osserva che la ragazza «da quell'angiolo di purezza e di bontà che era sempre stata, adesso era diventata un'apatica e smemorata puttana». Dall'8 settembre 1943, lo «scambio sessuale» esercitato da alcune donne con le truppe d'occupazione diventa palese agli
occhi di tutti: un paio di calze, il rossetto, la cipria, un cappotto marchiano chi li porta come un'infamia, perché sono il segno dell'intesa con l'oppressore tedesco. Durante la guerra partigiana e dopo la liberazione, le collaborazioniste più sfortunate vengono uccise con un colpo di pistola nella vagina, quelle più fortunate rasate a zero e offerte alla folla come spettacolo di umiliazione e vendetta. Ma l'eccezionalità del momento contempla una buona dose di tolleranza: si sopportano le relazioni non benedette dalle nozze, si compatiscono gli adulteri per necessità, si lasciano correre gli amori con lo straniero. Qualche volta la conseguenza è una gravidanza e nel dopoguerra non resterà che contare i bambini orfani, illegittimi, abbandonati. Un modo per abortire, però, si trova sempre: in Giovinezza giovinezza, nel 1944, Linda, dopo qualche tempo dalla serata in cui ha fatto l'amore con Giulio, si accorge di essere incinta e si rivolge alla vicina di casa che è ostetrica. Rinuncia però ad abortire quando Giulio la convince a sposarlo. Gli amori sparsi e occasionali lasciano numerose tracce, anche piccole. Alla fine della guerra, ne La bicicletta di Rosetta Loy, alcune ragazze trovano per caso, gettato a terra, un preservativo usato. Non si getta nulla, in quei frangenti di penuria: che cosa sarà? Lo raccolgono e lo gonfiano come fosse un palloncino. Con l'incertezza del vivere, la guerra consegna agli uomini e alle donne una sensazione di libertà che può condurre, come abbiamo visto, a scelte inconsuete, a rompere situazioni difficili, sopportate anche troppo a lungo. Reduce da una visita a un'amica, nel 1946 Sibilla Aleramo annota questa storia nel proprio diario: «Giovani donne, graziose e ricche, vivono insospettate situazioni tragiche. Una, sposata da sei anni, è tuttora vergine perché il marito è impotente; lui, ogni volta che tenta di possederla, se la prende poi ferocemente con lei per il proprio scacco, e come un pazzo la percuote a sangue, L'altro giorno infine lei s'è rifugiata presso il padre e ha svelato tutto». La liberazione sembra non limitarsi a spazzare via l'esercito tedesco, ma anche altre, più private, prepotenze. E consegna alle persone una rinnovata gioia di vivere, che confina con l'eccitazione dei sensi e talvolta la supera. Dei primi mesi di pace ricorda Giorgio Bocca: «Nel tripudio delle balere, delle feste, delle vacanze ritrovate sembrò che l'amore fisico coincidesse con l'amore per la vita». Si fa quel che madre natura incita a fare, anche perché la pace coincide con la primavera. La sensazione di gioiosa vitalità e di speranza per il futuro non si spegne tanto presto, e travolge perfino gli insospettabili. Sotto la spinta di questo entusiasmo, un giovane dirigente di Azione cattolica, Carlo Carretto, pubblica un libro dal titolo Famiglia piccola Chiesa che, nelle sue intenzioni, è ispirato al Cantico dei Cantici e celebra in prosa lirica l'apoteosi dell'amore coniugale: «Ci siamo amati, Maria, e forse è nato qualcosa nel tepore di te... Il tuo corpo è il mio... il tuo seno è un campo fecondo». Carretto si è lasciato trasportare molto in là, e viene ammonito. Siamo nel 1949, e la restaurazione dell'antico ordine è già in atto. Il suo vescovo gli ricorda infatti che, se un tale libro finisce in mano ai ragazzi, questi potrebbero farne un cattivo uso. Essere o non essere, senza pensarci troppo La frattura della guerra conferisce al caso un potere che, in tempi di normalità, è assai più limitato. La casualità, che si riflette nei gesti, nel pensiero, nel modo di comportarsi delle persone interviene anche sull'identità femminile e su quella maschile, con marcate conseguenze nei rapporti sessuali. Le conseguenze di questa esperienza saranno evidenti un ventennio più tardi. Il fenomeno non è soltanto italiano: un anticonformista sfortunato e autodistruttivo come James Dean, idolo delle ragazzine degli anni Cinquanta, rappresenta l'opposto del maschio tradizionale, forte e sicuro di sé. Maurizio Arena e Renato Salvatori, i due giovani innamorati, sentimentali e pasticcioni di Poveri ma belli di Dino Risi, d'altra parte non somigliano affatto ai virili esemplari del periodo fascista. L'eroe pensoso, esistenzialista, macerato dai dubbi e in cura dallo psicanalista, che impazza tra le ragazze degli anni Sessanta, è un diretto discendente dell'«intellettuale disfattista», ovvero dell'esule antifascista, del partigiano che lascia la penna o l'ufficio per imbracciare il fucile. Tra i modelli femminili, se è sempre in voga quello di sposa e madre esemplare, nel
dopoguerra comincia anche ad affermarsi quello paritario della lavoratrice, operaia o professionista, consapevole e impegnata, il che era forse inevitabile visto che durante il conflitto le donne si sono assunte nuove responsabilità. La generazione che attraverserà la liberazione sessuale degli anni Sessanta e Settanta è figlia di queste nuove identità. Le sue idee sul sesso e sul modo di praticarlo sì modellano, per imitazione o per differenza, sulle esperienze dei genitori, e particolarmente sul trauma della guerra. L'attenzione per la bellezza e l'eleganza, negli anni tra il 1940 e il 1945, passa in secondo piano per forza di cose. La figura femminile, più snella per la dieta forzata, ha qualcosa di spigliato: i pantaloni sono pratici, le gonne corte per mancanza di tessuto, mentre le calzette alla caviglia e le braccia nude scandalizzano ben pochi. Manca quasi tutto, e quindi una giacca o un cappotto militare vanno bene anche per lei. L'aspetto esteriore delle donne e quello degli uomini si avvicinano pericolosamente l'uno all'altro. Nel maggio 1941 Pio XII richiama all'ordine le fanciulle: non vanno bene «vesti così esigue o tali da sembrar fatte piuttosto per porre in maggior rilievo ciò che dovrebbero velare... certi procaci abbigliamenti rimangono triste privilegio di donne di reputazione dubbia e quasi il segno che le fa riconoscere». Nubili, spose e madri, lontano da padri e mariti, vanno a ballare, con abiti corti e striminziti, in prendisole e addirittura in costume da bagno. Dopo il 1948, da Parigi Christian Dior lancia il nezv look che cancella i ricordi di guerra: gonne ampie e lunghe, vita stretta, completi ben costruiti, con corredo di cappello e guanti. È questa una moda capace di soddisfare la morale ma anche l'industria, che vuole e può produrre tessuti e confezioni in quantità. D'ora in avanti la parola d'ordine è coprirsi e le donne tornano a vestirsi abbondantemente, con biancheria numerosa e pudica: reggisene mutandine (un modello speciale da indossare a contatto con la pelle per «quei giorni»), busto con giarrettiere oppure bustino o reggicalze, sottoveste, calze e, d'inverno, maglia di lana con le maniche lunghe, corte o con le spalline. Dal 1946, per conquistare il titolo di Miss Italia, le concorrenti sfilano in due pezzi, ma qualche anno dopo, con il soffiare del vento di restaurazione, ritorna il costume intero. Sulle spiagge il bikini è proibito, perché il ministro dell'Interno Mario Scelba è dello stesso parere di Pio XII su «certi procaci abbigliamenti»; non poche bagnanti vengono multate e costrette a cambiarsi o sloggiare. La moda si schiera dalla parte del pudore clericale: incoraggia costumi piuttosto lunghi sulle cosce, con arricciature e bretelle che dissimulano le forme. Il fatto che spesso siano di lana e rimangano umidi a lungo induce le signore a rivestirsi il più presto possibile, sottraendo alla vista le parti più ghiotte del loro corpo. Ai primi tepori del 1954 un lettore desolato scrive a un giornale: «Sta per arrivare l'estate. Sono un uomo non più giovane e non posso adattarmi nella moda sfacciata delle donne seminude sulle spiagge e vestite succintamente in città». Le donne antifasciste, schierate a sinistra, e quelle impegnate curano poco l'avvenenza. Credono nella bellezza in-teriore, forse come reazione alla civetteria esasperata dell'epoca dei «telefoni bianchi» e come reazione al modello conigliesco della «fattrice» mussoliniana. A proposito dei cosmetici, Joyce Lussu dichiara: «Mai adoperati. Giusto qualche volta, a Roma, per vedere l'effetto che faceva, sono andata dall'estetista a farmi fare le ciglia, però devo dire che non era affatto divertente». Mai portato gioielli, mai un orecchino, mai una collana. Occorre precisare che, nel suo caso, la vita da profuga, fuggiasca, combattente e viaggia-trice è la meno indicata per le civetterie. L'impegno politico e sociale, una laurea, l'attività sportiva sembrano incompatibili con la bellezza e l'eleganza che tanto attirano i maschi. Ma anche questa incompatibilità viene presto sanata. La tennista Lea Pericoli impreziosisce la sua tenuta da gara e nel 1955 delizia il pubblico internazionale, giocando a Wimbledon in una svolazzante gonnella che lascia intravedere, tra folate di vento e colpi di racchetta, un paio di mutandine orlate di pizzo. All'inizio del secolo, insegna nel 1947 Giovanni Ansal-do, nessuno mostrava lembi di pelle, tranne i pescatori. Poi ciclisti e calciatori cominciano ad accorciare i calzoni, facendo dilagare
la passione per la vita all'aria aperta grazie a una moda capace di abbattere le barriere del pudore nei saggi ginnici, nelle partite di tennis, nei bagni di sole e di mare. Quando Ansaldo scrive queste righe, è «una sbornia di nudo, sia femminile che maschile» e quindi si vedono giovanotti con mutande «attillate fino a compromettere la resistenza della maglia», portate da «Tarzan da strapazzo» con «calzoncini che permettono di buttare sotto gli occhi delle signore un paio di pelose gambe al naturale» o magari una «vellosa canizie» e «ridondanti epe». Sono assolutamente sconsigliati gli slip, un capo esibizionista ed effeminato, perché «il semplice sospetto di passare per individui appartenenti al genere Bel Ami, o peggio, è vergognoso». In questo il vero signore ha lo sguardo rivolto al passato: ormai perfino i maschi amano mostrare se stessi per la gioia dell'occhio femminile (e non solo femminile) e i Tarzan da strapazzo sono destinati a molti-plicarsi. Nel 1946 Luchino Visconti mostra in Ossessione Massimo Girotti in canottiera, a spalle nude, peluria pettorale e bicipiti in perfetto chiaroscuro, simbolo di un'irresistibile e maschia sensualità, fatta di forza muscolare e di armonia plastica. Nella pellicola viscontiana Clara Calamai, l'adultera, non resiste a tanto fascino. Anche se Girotti non è certamente il primo attore a mostrare spalle e bicipiti, nel contesto di una storia d'amore proibito, nel sapore sensuale dell'infedeltà e infine nel gusto di Visconti per la bellezza maschile, quella canottiera esercita un richiamo esplicito alla carnalità. Poi magliette e curve virili diventano, a poco a poco, comune appannaggio di cinema, fotoromanzi e rotocalchi. Alle ragazze è consentito sognare il Principe Azzurro non soltanto per «sistemarsi», ma anche per soddisfare il desiderio fisico di essere avvinta in un abbraccio solido e caldo. Nel 1951 Marlon Brando compare in t-shirt in Un tram chiamato desiderio e nel 1955 James Dean indossa lo stesso capo, a riprova del fatto - già segnalato da d'Annunzio settant'anni prima - che non è la quantità di pelle scoperta a suscitare istinti carnali (nella versione femminile come in quella maschile). È l'insieme di muscoli, sguardo, villosità che compone il messaggio sensuale del maschio all'indirizzo della femmina, e con tale innovazione si fa strada una forma di civetteria, diversa ma simmetrica rispetto a quella femminile. Oltre alla canottiera, ciò che veste il maschio nelle parti critiche cambia poco - si tratta pur sempre di mutande -, però ora si può scegliere tra il modello con grosso elastico in vita e sostegno rinforzato sotto i testicoli, gli slip (bocciati da Ansaldo) più o meno striminziti, oppure i classici boxer, che vanno e vengono, secondo le mode, dal guardaroba di lui. A letto, come abbiamo visto, è ormai di rigore il pigiama, ma con il riscaldamento domestico diventa normale per le nuove generazioni anche la completa nudità. Ci pensa l'entomologo La guerra ha messo in evidenza alcune verità: se non cade il mondo perché le donne portano i pantaloni o il bikini, se dopo un amore consumato fugacemente tra due bombardamenti una ragazza può ancora sposarsi e formare una famiglia, allora è anche possibile guardare il sesso così com'è, per comprenderlo meglio. A metà degli anni Trenta, Alfred Kinsey è un entomologo di mezza età, un ricercatore dell'Università dell'Indiana e un appassionato collezionista di fatti e cifre. Quando si accorge che un numero crescente di ragazzi desidera che venga istituito un corso di igiene sessuale, comincia a interessarsi agli umani e abbandona gli insetti. Non completamente, però: l'esperienza dell'osservazione entomologica gli servirà come metodo per lo studio del comportamento sessuale umano. Il pragmatico Kinsey parte da una constatazione di fatto: nella stessa specie di insetti si possono riscontrare ali di lunghezza diversa, fino a diciotto volte. Ogni individuo è dunque differente dall'altro. Interrogando decine di migliaia di maschi americani, Kinsey scopre che può esistere una persona che ha avuto un solo orgasmo in trent'anni, e un'altra che ne ha avuti trenta la settimana. Tra i due estremi della frequenza dell'orgasmo umano la differenza è di 45 mila volte, molto più che per le ali delle mosche o dei coleotteri. Nel 1948, dopo anni di ricerche, Kinsey pubblica i risultati della sua intensa e paziente osservazione: Sexual Behavior in the Human Male, che arriva in Italia a pezzi e stralci, sui giornali, con il titolo malamente tradotto Il comportamento amoroso del maschio e che viene presentato in genere come l'opera
«piccante» di un guardone lascivo. Con il suo approccio neutrale, Kinsey riesce invece a svelare qualche cruda ma utile verità. Constata, per esempio, che nella pratica sessuale dei maschi la masturbazione occupa il primo posto, seguita dalle polluzioni notturne, dal petting con una femmina e infine, soltanto al quarto posto, dal coito. Il coito eterosessuale è viceversa considerato - per tradizione, come fosse un dogma religioso o una norma etica - l'unico modo di esprimere davvero e compiutamente la propria sessualità. Da questa e da altre constatazioni, l'ex studioso di insetti calcola che almeno due terzi dei maschi hanno un comportamento sessuale che si dovrebbe considerare «anormale». Eppure sono persone per bene, studenti diligenti o professionisti di successo, anime timorate, sani di corpo e di mente. Non sussistono dubbi sulle risposte ottenute da Kinsey: quando chiede a un maschio se ha mai avuto un orgasmo con un altro maschio, ottiene il 37% di risposte affermative. Sì, almeno una volta. Ma soltanto il 4% ha avuto nella sua vita esclusivamente rapporti con altri uomini. Con una libertà di giudizio che non si era mai vista prima in materia di sesso, Kinsey conclude che l'omosessualità è «l'espressione di capacità che sono fondamentali nell'animale umano». Kinsey afferma che è più difficile spiegare perché «ogni persona non pratichi tutte le forme di attività sessuale» che non svelare le ragioni dell'omosessualità. Insomma, la cosiddetta normalità non sembra affatto normale, in barba alle convenzioni e ai regolamenti. Dunque i confini tra il sesso giusto e quello sbagliato non sono più così chiari. Dice Kinsey che solo i preti, i filosofi e gli psicologi hanno bisogno di categorie. Lui no, si limita inizialmente a constatare, e poi trae qualche conclusione. La prima è che il sesso non è un vizio e ciò si ricava dalla scoperta che, in questa indagine, tra i maschi sessualmente più attivi si trovano le persone di maggior successo e con un'esistenza più equilibrata. Una vita sessuale intensa, perciò, è segno di buona salute e di equilibrio mentale. La seconda conclusione è che l'espressione della sessualità non è una sola, valida per l'intera umanità, ma cambia da individuo a individuo. Quando, nel 1953, Kinsey pubblica Sexual Behavior in the Human Vernale, emergono verità ancora più dolorose per i tradizionalisti. Condotto su un campione di circa 8000 donne americane, questo studio rivela che metà di loro ha avuto almeno un rapporto sessuale completo prima del matrimonio, e che, tra le donne che non hanno mai sperimentato l'orgasmo prima delle nozze, il piacere completo dopo il matrimonio è tre volte meno frequente rispetto a quelle che hanno avuto esperienze complete prima di sposarsi. Si direbbe dunque che il piacere dei sensi non è affatto casuale, ma si impara. A confermare una fama di curiosità morbosa e di immoralità che non ha né cercato né meritato, lo scienziato americano arriva ad affermare che l'adulterio non è del tutto negativo. Nel suo lavoro di esplorazione del mondo intimo femminile e maschile egli ha, infatti, constatato che il tradimento è spesso servito a migliorare i rapporti coniugali piuttosto che a romperli. Per esempio, quando la donna stanca dell'ordinaria routine, incontra chi le insegna come ottenere l'orgasmo: insegnamento di cui può tener conto in seguito nel letto coniugale. Pochi - e soprattutto in Italia, paradiso degli stereotipi sessuali - mostrano di voler comprendere le scoperte dell'entomologo convertito allo studio della sessualità. Nel 1953, da Londra, Alberto Cavallari racconta ai lettori del settimanale «Epoca» l'ultima fatica di Alfred Kinsey, la ricerca sulle donne americane. Il titolo, questa volta, è tradotto correttamente: Il comportamento sessuale della femmina, ma l'interpretazione è forzata. Il contenuto della ricerca viene definito «scandalistico» e «piccante», e per giunta poco credibile: metà delle americane ha avuto «esperienze prematrimoniali», un quarto ha «esperienze extraconiugali» e le ragazze più istruite sono quelle che «peccano di più». Ciò che è peggio, è che lo fanno senza sentire di aver trasgredito, ma con la consapevolezza di aver esercitato un diritto. Se questa volta, senza stupirsi, qualcuno commenta che, già, lo sapevamo, metà delle donne sono «puttane», resta da capire perché oltre un terzo dei maschi si comporta da «frocio».
XI TEMPO DI SOTTANE Dopo il 1948 sono le sottane a dominare il mondo del sesso: quella del Papa, dei sacerdoti, della mamma. È l'apoteosi di un processo iniziato all'incirca con il Novecento, e che ha solide basi politiche, sociali e religiose. La Chiesa è alleata delle donne, che protegge, e che costituiscono la sua forza tra le masse popolari. All'indomani della seconda guerra mondiale, questa alleanza attraversa il suo momento di gloria. L'elettorato femminile, legato alle parrocchie, riesce a garantire la vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile 1948. Pio XII è il più illustre combattente per la causa dell'anticomunismo, il primo avversario del materialismo, il più impegnato nella restaurazione dell'ordine morale (che per la Chiesa consiste essenzialmente nel controllo sulla vita sessuale). La mamma, che come al solito combatte nelle retrovie, rappresenta il pilastro dell'assetto sociale, il fulcro della famiglia, la custode e garante del controllo della sessualità. Se dal Vaticano il monito a non cedere al vizio (cioè al sesso) e a conservare il tradizionale senso del pudore raggiunge masse quasi infinite di fedeli, dalla cucina la mamma insegna a mangiare con la forchetta, a dire le preghiere, ma, soprattutto, a non commettere atti impuri. L'Ottocento le ha affidato l'esclusiva sui figli: a differenza del passato, tocca a lei allevarli, educarli, avviare le femmine alle nozze e i maschi al lavoro. Il Novecento ribadisce e allarga il suo ruolo dominante, ne decreta il potere assoluto - dall'educazione sessuale alle strategie di consumo, dalla pratica religiosa al pronto soccorso - tra le mura domestiche Per un ventennio, dal 1948 al 1968, i pantaloni godono di un potere limitato nella sfera degli affetti e dell'intimità. Il loro ruolo, e il potere che ne consegue, è quello di procacciatori di reddito e pubblica autorità. E, a proposito di pantaloni, guai se a indossarli sono le donne. Perché diventano simbolo di disinvoltura e sfacciataggine, di modernità e di sovversione. Ai blue jeans, una moda importata dall'America che sottolinea natiche e cosce di ambosessi, e che per giunta mette in evidenza certe protuberanze maschili, il democristiano Guido Gonella si riferisce come ai «calzoni d'oltreoceano» ovvero a una «divisa da straccioni». A ciascuno il suo, è il motto della vita - e vale per ogni aspetto, anche intimo - di quel ventennio: la famiglia alle madri, l'autorità ai padri, la verginità alle fanciulle, niente classi miste, niente accenni all'avvicinamento o, peggio ancora, all'inversione dei sessi. L'uomo deve restare tale, cioè forte, dominatore, padrone. Se fa il «gallo», che male c'è? Va tutto bene quando uno fischia all'indirizzo di una graziosa turista, o pizzica un di dietro femminile in autobus: è una maschia prerogativa. Negli anni clericali trionfa il molestatore, e guai a chi lo critica. Ma una studentessa che intende laurearsi in ingegneria, questa sì merita qualche appunto, perché «abdica alla femminilità». Sugli anni Cinquanta sventolano le bandiere dell'ordine, che passa attraverso l'educazione del silenzio, la segregazione dei sessi e la verginità. A proposito dell'educazione sessuale - cui il mondo cattolico preferisce tuttora riferirsi come al «mistero della vita» - scrive Claudio Rise nel 1966: «Non vi è dubbio che il monopolio del parlare o del tacere dei problemi del sesso con i giovani non è nella società italiana detenuto soltanto dalla famiglia, ma è gestito in regime di mezzadria tra la famiglia, appunto, e i preti». Entrambi, famiglia e preti, si dedicano con accanimento a trasmettere ai giovani l'idea che questo è un vizio e un peccato. Il silenzio sul «mistero della vita» Eppure in tempi non molto lontani, nel 1947, il galateo scritto da Giovanni Ansaldo impartiva consigli diretti e franchi ai maschi. La cultura ottocentesca, osserva l'autore, ha fabbricato cavoli e cicogne «adatti per cervelli di pancotto», ma usati dalle madri per spiegare ai primogeniti com'è successo che un fratello o una sorella sono arrivati a usurpare loro l'esclusiva. Secondo Ansaldo, però, sono ugualmente grotteschi i discorsi seri tra genitori e figli, a porte chiuse e a tu per tu, corredati della solennità del
momento rivelatore. È meglio, si legge ne Il vero signore, imparare le verità «sussurrate dai coetanei», un modo meno opprimente e più paritario di penetrare i segreti del sesso. Quel che invece può fare un buon padre è, se il caso si presenta, fornire l'indirizzo di un medico al figlio che abbia ricevuto un coup de pied de Vénus - un contagio venereo - e poi non indagare, non sollecitare confidenze, tenere la bocca chiusa. Siamo maschi, non donnette pettegole, sembra suggerire l'autore. Tredici anni più tardi il concetto è ribadito, seppure corretto, da Donna Letizia nel suo Saper vivere, destinato alle lettrici più che ai lettori: non raccontate la favola del cavolo e della cicogna, perché prima o poi sarete smascherati e, quando i ragazzi scoprono come stanno le cose, si sentono ingannati e perdono la fiducia nei genitori. Per Donna Letizia è «meglio una spiegazione di mezzo, con un fondo di verità, che prepari gradualmente alla rivelazione completa»: per esempio, il bambino si forma «nel corpo della mamma, al riparo del suo cuore», insomma un discorsino da sottana, che esalta la maternità. Ma cosa succede se i figlioli non si accontentano di tale verità edulcorata? Lo si può constatare nel 1958 su «Epoca», dove gli esperti suggeriscono di informare i figli sul segreto della vita proprio come fossero quei «cervelli di pancotto» evocati da Ansaldo: la mamma ha un fiore, lì il papa mette il granellino che, giunto a maturazione, da alla luce una creatura. Perplesso di questa soluzione, un lettore domanda: e se mio figlio mi chiede come si depone il granellino, che cosa gli rispondo? Che guaio, l'educazione sessuale! Forse, tutto sommato, è meglio tacere, evitando di soddisfare le «curiosità malsane» dei giovani. Destra e sinistra ingaggiano una gara di silenzi. Nel 1950 «Noi donne», la rivista dell'UDÌ (Unione donne italiane), pubblica i consigli dell'illustre pedagogista sovietico Anton Makarenko: qual-siasi insegnamento della scottante materia eccita la fantasia e i sensi, predisponendo i ragazzi a un incontro precoce con il sesso. Come ben sanno le mentalità totalitarie, e quindi anche quella della Chiesa e dell'URSS, sul terreno del sesso si esercita la libertà individuale, perciò meglio predicare l'ignoranza, che preserva dai pericoli. La Chiesa ingaggia quindi un'accanita battaglia. Nel discorso alle ostetriche dell'ottobre 1951 Pio XII disapprova «una letteratura che si crede in dovere di descrivere in ogni particolare le intimità della vita coniugale col pretesto di istruire, di dirigere e di rassicurare». Se agli altri tocca tacere, la Chiesa si dedica, attraverso i sacerdoti e la stampa, a divulgare i propri insegnamenti. Lo fa, per esempio, Erne-sto Pisoni, un sacerdote, nel settembre 1965 a San Pellegrino, in occasione del primo Congresso dei ragazzi d'Italia, quando avverte che i fumetti «traducono l'amore in una cosa molto più brutta, cioè sesso, cioè piacere, che è la carenza dell'amore, cioè purtroppo vizio». Come settant'anni prima, siamo di nuovo al concetto di vizio e alle letture che eccitano i sensi. L'educazione sessuale, secondo Agostino Gemelli, fornisce ai giovani «troppa biologia» e uccide l'aspetto spirituale, sottolineando una sola componente del rapporto tra gli sposi, sia pure necessaria alla procreazione. Il religioso ritiene che bisogna fare argine alla cultura materialista ed evitare di suscitare gli istinti dei giovani. Tant'è che quando nel 1950 Dino Origlia pubblica Psicologia del matrimonio, viene accusato, appunto, di istigare i giovani al piacere. Non importa se il libro è un prudente manuale di istruzioni per la vita a due, in cui l'autore afferma perfino che «il mediocrissimo e dannoso espediente delle relazioni intime carnali è un vero flagello della gioventù moderna». Ciò che importa è che Origlia, laico e psicanalista, sfida il monopo-lio della Chiesa. Viene inoltre accusato di affermare che l'educazione sessuale va impartita dalla più tenera età - pur senza confondere l'educazione con l'iniziazione e sposando l'istruzione sul sesso con quella sui sentimenti - per formare una personalità forte, indipendente, capace di far fronte agli alti e bassi di lunghi anni di esistenza comune. La scuola, in quanto luogo dove si impartiscono insegnamenti obiettivi, è a suo parere l'istituzione che può assumersi il compito. Questa opinione in Italia ha il sapore di un'eresia. Nel 1963 Luisa Guarnero scrive In attesa dell'amore. Ciò che una fidanzata del XX secolo deve sapere, nel quale propugna un minimo di educazione sessuale per le ragazze catto-liche:
«La Chiesa, in questo campo, è sempre stata così decisamente sincera e forte; ma quante anime hanno trovato più comodo nascondersi nel buio!». Con i tempi moderni, la donna deve informarsi su tutto quanto concerne la sua fisiologia per essere «più preparata ad affrontare la vita con serenità e senso di responsabilità.... Deve terminare il non senso che le brave ragazze, moralmente rette, spiritualmente formate, si trovino in condizioni imbarazzanti di inferiorità rispetto alle ragazze spregiudicate e moralmente poco a posto, solo perché sono ignoranti». Nel dopoguerra, quando in Italia la psicanalisi comincia a diffondersi più largamente, Freud e i suoi seguaci diventano la bestia nera dei cattolici, soprattutto perché sottolineano la centralità delle pulsioni erotiche nella vita umana. Sentenzia quindi Gemelli che «noi abbiamo, è vero, una vita sessuale, ma meno ce ne occupiamo, meglio è», e aggiunge che «i freudisti non hanno mai studiato gli uomini sani». Quindi, alla maggioranza dei giovani italiani, tale educazione va impartita in modo indiretto: agli studenti del seminario si impone di togliere i pantaloni solo quando si sono già infilati sotto le coperte, e si insegna a non toccare alcuna parte del corpo né ad avere contatti fisici l'uno con l'altro. Alle ragazze dei collegi religiosi è fatto obbligo, anche quando si lavano, di indossare UN camicione che copre tutto il corpo. Negli anni Sessanta un libro di religione per le elementari offre ai lettori la storia di esemplare virtù del piccolo Tonino che, quando il padre offre di aiutarlo a infilare i calzoncini, risponde: «Sì, papa', grazie, ma non toccarmi». Un altro testo dichiara che «il sesto comandamento proibisce ogni impurità, ossia tutto ciò che può far perdere al vostro corpo l'incanto della bella virtù». Quanto agli «atti vergognosi che non fareste davanti alla mamma e che tanto dispiacciono a Gesù, alla Vergine Immacolata, al vostro Angelo Custode» sono ovviamente proibiti e minacciosamente pericolosi. Preti e mamme, che si presentano ai fanciulli come un'autorità, sì, ma mite e affettuosa, sono inflessibili sugli atti impuri, in modo da presentare tutto quanto riguarda il piacere fisico in un alone di male, vergogna e peccato. La paura di ciò che può capitare è tale che una diciassettenne" siciliana chiede alla piccola posta di Gabriella Parca se «il dito ha la possibilità di far nascere dei figli come l'uomo ha sulla donna». I maestri cattolici insistono sulle conseguenze, che spesso atterriscono gli allievi. Nel 1963 in Amore, matrimonio, felicità, Hervé Picard sconsiglia vivamente di essere indulgenti con se stessi: «Quando stai per cedere, devi distrarti con qualcosa che ti appassiona. Hai il calcio; per un altro sarà la bicicletta o il giardinaggio. Bisogna aggrapparsi a tutto questo». Aggrapparsi è una parola drammatica, come il destino che aspetta questi viziosi: secondo Picard, daranno la vita a creature deboli e malate. Soltanto nel 1964 compare nel manuale del dottor Astor un insegnamento diverso: la masturbazione «non è causa di pazzia, di impotenza, di sterilità» come si usava affermare in passato; si suggerisce a genitori e maestri di rassicurare i ragazzi, di mitigare il loro senso di colpa. Certo, non si tratta di un'abitudine salutare e quindi va raccomandato ai giovani di evitarla, ma senza spaventarli. Meglio ancora sarebbe avviare maschi e femmine verso un'attività sportiva, capace di distoglierli da un'attenzione eccessiva agli stimoli dei sensi. Cambiano dunque le sanzioni, non il giudizio negativo sulla masturbazione. Nel 1962 Luisa Levi pubblica per gli Editori Riuniti il vo-lumetto L'educazione sessuale, dove rivisita tutto l'apparato etico dei riformatori laici di inizio Novecento, apportando qualche novità, ma con le stesse contraddizioni. Nel libro, la Levi consiglia ai genitori di guardare con serenità e indulgenza a questa «abitudine settimanale» che poi cessa spontaneamente: «Esercizi sportivi all'aria aperta, studi severi e interessanti, un lavoro soddisfacente, famiglia serena e affettuosa... sorreggeranno il giovinetto» e lo distoglieranno da tale deplorevole passatempo. Al riparo delle sottane, i maschi crescono digiuni e affamati di nozioni, poco familiarizzati con il loro corpo e comunque spaventati. Secondo una ricerca del 1963 condotta da Ugoberto Alfassio Grimaldi sugli studenti delle scuole superiori, della prima volta che sono entrati in contatto con il sesso essi conservano «brutti ricordi»: uno è stato importunato da un uomo che compiva un atto osceno, altri si limitano a dire che hanno incontrato un poco di buono, un
pervertito, che hanno imparato una malizia. Non sono neppure padroni del linguaggio perché in questo campo la paura e l'ignoranza sono soverchianti. Commenta l'autore che queste piccole esperienze dimostrano come siamo «di fronte a un grave scadimento e disordine sociale e morale di cui la gioventù è la vittima più disarmata». Ma alla fine nota con un certo ottimismo: adesso i ragazzi sono «meno inibiti» e quindi più forti nel difendersi dalla «corruzione». Nell'ambiente delle sottane, però, a partire dagli anni Sessanta, si agitano sempre più forti le contraddizioni perché là fuori, nella società, il sesso è ora a metà strada fra l'essere considerato un vizio e l'essere riconosciuto come un'espressione fisica e affettiva della personalità. Nel 1964 il dottor Astor raccomanda alle madri di non tacere nulla alle figlie: «Il primo passo nella vita femminile non avviene quasi mai senza una scossa psichica, perché la fanciulla comincia con un'emorragia quel ritmo che l'accompagnerà per tutta la vita: la mestruazione». Dunque il sesso genera ancora paura, ma almeno quella paura può venire esorcizzata. È compito materno evitare il trauma, afferma il dottor Astor, ma quante madri ne sanno una briciola in più delle figlie? Il miracolo economico porta con sé una visione più aperta dei rapporti umani e quindi anche di quelli intimi. I ragazzi sono più istruiti, si moltiplicano i luoghi d'incontro: scuola, casa, sale da ballo, spiagge, campeggi, circoli sportivi, piste di sci, cineclub. Nei primi anni Sessanta è proprio la Gioventù studentesca - l'organizzazione fondata da Luigi Giussani, insegnante di religione al liceo classico Ber-chet di Milano - a inaugurare le gite per maschi e femmine in ambiente cattolico. Così, l'ignoranza e la segregazione vengono difese ormai solo da un pugno di irriducibili ma antiquati guerrieri della morale tradizionale, e l'educazione viene accettata, almeno in linea di principio, anche se pochi sanno da che parte cominciare. Nel 1962, accantonato il sapiente Makarenko, Luisa Levi insegna che il sesso non è un peccato né un vizio, e quindi i giovani non possono restare digiuni delle nozioni elementari di questa materia; le donne, in particolare, devono sapere, per non essere vittime degli uomini brutali. Non bisogna vergognarsi delle malattie veneree, bensì curarle. Alle ragazzine occorre spiegare che cosa significa quel sangue, per «evitare che la prima mestruazione colga la fanciulla ignara e impreparata», perché non creda a una malattia o a una colpa, magari conseguenza di un'occasionale masturbazione. Il libro si rivolge alle madri, avvertendole che la vergogna può generare grossi guai, e alle figlie affinchè non abbiano timore della loro sessualità. Questa perorazione a favore dell'educazione sessuale, quando la pillola è già in circolazione negli Stati Uniti, si inquadra nella visione igienico-moralistica cara a Michels. Il matrimonio è ancora considerato l'unica sede possibile della pratica sessuale, fuori dal letto coniugale l'unica scelta è la castità. Di nuovo, a sinistra come a destra, il tabù resiste: non è un vizio, non è un peccato, ma non si deve sperimentarlo se non dopo le nozze. Aggressioni di carta Il 1964 è l'anno di un grosso scandalo, che costringe a riflettere e discutere. Quando il settimanale femminile «Novella» propone un'inchiesta sull'educazione sessuale, molti lettori protestano vivacemente mentre quasi altrettanti se ne compiacciono. Una maestra elementare scrive al giornale: «Quando avevo sette anni nacque mia sorella, e quando chiesi alla mamma da dove era venuta, lei mi rispose che l'aveva mandata a comperare a Parigi. Ne fui paga e non chiesi altro». Purtroppo, prosegue, prima o poi si scopre la cruda verità: perché dunque affliggere i piccoli con tali orrori? Un'altra lettrice, congratulandosi per l'iniziativa della rivista, afferma che «sono veramente i genitori che devono essere educati» e, considerati i cavoli, le cicogne, i granellini e lo shopping a Parigi, è difficile darle torto. Stretti tra imbarazzo e paura, come possono papa' e mamma impartire qualche insegnamento utile? Un modo c'è: per esempio lasciare i giornali bene in vista. Quando il settimanale «Oggi» pubblica stralci del rapporto Kinsey, un genitore domanda - non senza buon senso - perché si debba avversare l'educazione sessuale nelle scuole, mentre un periodico per famiglie impartisce insegnamenti in campo sessuale, per giunta in uno stile e con un linguaggio non esattamente indicato per i giovani. In mancanza di meglio, i ragazzini afflitti dalle cosiddette «curiosità malsane» giocano tra
loro al dottore, replicando il copione degli adulti dove, di solito, lui è il dottore, mentre lei mostra che cosa c'è sotto la gonnellina. Va tutto bene, purché la bimba non «abdichi alla femminilità» pretendendo di vestire il camice del medico, una prerogativa che segna chi ha il potere e la mascolinità. Come mezzo secolo prima, risorge la paura dei benpensanti per la carta stampata, che la censura fascista aveva sopito per un paio di decenni. A metà degli anni Sessanta si scatena una campagna contro qualsiasi informazione sul tema del sesso, capace di arricchire lo scarso bagaglio conoscitivo dei giovani. Accade proprio questo quando, nel 1965, il settimanale «L'Espresso» distribuisce tra i liceali del Nord Italia un questionario sull'educazione sessuale, che contiene anche qualche quesito di carattere personale, del tipo: «Hai mai avuto rapporti?», oppure: «Ti masturbi?». Subito i cattolici insorgono: è un'aggressione! Sul «Corriere d'informazione» Giovanni Bovio tuona: «Chiedere a degli adolescenti che genere di carezze amatorie prediligono, che genere di baci e toccamenti, se accettano contatti con conoscenze occasionali o con passeggiatrici della notte... è un vero e proprio abuso». Ma intanto risulta che quasi 9 maschi su 10 si masturbano, pur non credendo alle terribili conseguenze, con profondo senso di colpa (e lo stesso vale per un terzo delle femmine). È però nel febbraio 1966 che l'offensiva dei timorati finisce per annegare nel ridicolo. «La Zanzara», il giornale studentesco del liceo classico Parini, a Milano, pubblica un'inchiesta dal titolo Che cosa pensano le ragazze d'oggi della famiglia, del sesso, del lavoro. Le domande sono chiare, piane, e nient'affatto piccanti (tipo: «Qual è la posizione della donna nella società italiana?») e le risposte serene, improntate alla moderazione: «Il divorzio, a mio parere di cattolica, non dovrebbe esistere, però sarebbe giusto che esistesse per quelle persone che non condividendo le mie idee sono costrette lo stesso a rimanere legate per tutta la vita a una persona che non amano». Tra una considerazione e l'altra, spunta l'affermazione che «entrambi i sessi hanno ugualmente diritto ai rapporti prematrimoniali». Su questa inchiesta scatta l'offensiva di un gruppo di genitori, appoggiati da sacerdoti e magistrati, ai quali si oppongono altri genitori, magistrati, giornalisti, avvocati e, come è ovvio, molti studenti milanesi che si allineano con i colleghi del Parini responsabili del giornale e dell'inchiesta: Claudia Beltramo Ceppi, Marco Sassano, Marco De Poli. Per i tre ragazzi, accusati di pubblicazione oscena, il pubblico ministero Pasquale Carcasio dispone un'ispezione corporale che, in base a una legge del 1933, servirebbe a stabilire se il minorenne è «in grado di intendere e di volere» ma che è in contrasto con l'articolo 13 della Costituzione. Claudia Beltramo Ceppi rifiuta di sottoporsi all'ispezione che, questa sì, è oscena. A Sassano e De Poli viene chiesto - e davvero si tratta di domande piccanti - se hanno avuto rapporti con prostitute o se abbiano mai contratto malattie veneree. Il braccio di ferro che vede, da una parte, i tre studenti e i loro sostenitori e, dall'altra, i benpensanti di ogni parte d'Italia, diventa sempre più duro. Un genitore accusa: «Sappiamo bene che i licei milanesi sono in mano ai comunisti» e sul «Corriere della sera» Giovanni Mosca azzarda un'ipotesi: dietro l'inchiesta sul sesso si disegna una manovra eversiva. Il comunismo, insomma, penetra fra noi attraverso i suoi insospettabili agenti segreti: le facce acqua e sapone delle studentesse di buona famiglia che hanno risposto all'indagine. Il processo viene condotto da Luigi Bianchi D'Espinosa con grande moderazione, e dal pubblico ministero Oscar Lanzi con veemente passione. Lanzi si dichiara desolato di vivere in «un'epoca di antifecondativi, di capelloni, di obiettori di coscienza, di gente allergica agli inni della patria». Ma ormai è tardi: il mito del maschio supremo e il culto di Maria Goretti sono già avviati sul viale del tramonto. I tre studenti sono assolti. D'ora in poi sarà sempre più difficile censurare l'educazione al sesso e ai sentimenti. Il bacio fuorilegge Alle amorevoli sottane delle madri, delle insegnanti e dei sacerdoti è affidato il compito di costruire e mantenere una barriera tra maschi e femmine. Il prete raccomanda per iscritto di non lasciare mai i giovani solus curri sola; e la mamma, a costo di
terrorizzare la figlia, la esorta a non fidarsi di nessuno, neppure di quel presunto «cattivo soggetto» con il quale dovrà dividere l'esistenza. Anzi, se le impedisce di uscire di casa è ancora meglio. Osserva nel 1953 un monsignore, Ettore Pintorello, in un discorso alla Gioventù femminile di Azione cattolica: «Penso che ogni genere di promiscuità debba vietarsi. L'unica promiscuità consentita dalla legge di natura è quella che si attua nel matrimonio». Stare lontano dalle tentazioni è il modo migliore di sfuggirle: «Che la gioventù femminile poi per principio debba educarsi ad uscire di casa (a questo infatti mena una certa promiscuità che si intende adottare nei loro riguardi) non penso che si possa approvare». Anche se non è approvato, tuttavia, le ragazze non solo escono di casa, ma a partire dagli anni del miracolo economico, hanno sempre maggiori occasioni di trovarsi solus cum sola. Il ballo e le feste diventano un'occasione per contatti fisici, che si ampliano quando si diffonde la motorizzazione: ora anche i giovani possono andare in due su quattro ruote. E, proprio come temono le mamme e i sacerdoti, quei contatti sono piuttosto accesi. Miriam, che nel 1964 aveva diciassette anni, ricorda un episodio comico e imbarazzante. Con un coetaneo e compagno di scuola, resta infine sola in casa. Per un po' fanno finta di studiare, poi cominciano a baciarsi. Si baciano in bocca, torcono le lingue, succhiano e insomma se la godono fino ad avere le mandibole dolenti e qualche abrasione sulla lingua. Il fatto è che nessuno dei due sa come si va avanti. Per questa volta la verginità di Miriam è salva, ma la curiosità è accresciuta. Il ballo, afferma una pubblicazione cattolica, «attutisce il pudore» e «ha capacità sensualmente eccitativa». Con il metodo consueto, le autorità ecclesiastiche classificano le danze: valzer, polca e mazurca sono tollerati, mentre mam-bo, cha cha cha, boogie-woogie, rock'n roll, twist sono giudicati immorali per le mosse audaci, per la mimica e per le strette voluttuose che esigono. Nel dopoguerra il vescovo di Pesaro istruisce i parroci: «Se il ballo fu una sola volta, basta l'ammonizione severa, se fu per più volte si neghi la benedizione alla casa dove fu tenuto». Insomma, non guadagnano il paradiso quelli che, finalmente, festeggiano la pace. Guai a chi si abbandona alle manifestazioni fisiche dell'affetto e alla reciproca conoscenza. Ma le stesse autorità, come abbiamo accennato in precedenza, lasciano via libera al maschio che, a parole o gesti, aggredisce una donna, perché si tratta di un'espressione di potere virile. E la ragazza si sentirà in colpa, perché è lei a provocare, secondo una convinzione molto antica e radicata. Dopo la guerra - il caso è raccontato da Anna Garofalo - una giovane impiegata va al mare da sola e lamenta: «Prima o poi mi si avvicinano uomini, anche non più giovani, che mi fanno oggetto di non richieste galanterie, mi credono desiderosa di compagnia e me la offrono». Il maschio supremo è caduto, ma non tutti se ne sono accorti. Sanno tutti, invece, quale pericolo per sé e per gli altri costituisca una donna sola. E perciò, ammonisce Donna Letizia, essa deve considerarsi una potenziale preda, comportarsi di conseguenza e usare mille precauzioni quando si aggira per il mondo: mai entrare nell'appartamento di uno scapolo, mai invitare a casa propria l'accompagnatore al termine di una serata, mai accettare regali dai corteggiatori, o incoraggiare barzellette e battute audaci. Soltanto varcati i quarant'anni, secondo il galateo, una femmina può cominciare a sentirsi al sicuro. E, in ogni caso, la vita è più dura per colei che non si accompagna a un maschio: «Vi sono delle regioni d'Italia» sostiene Dino Origlia «nelle quali una cliente d'albergo abituata a praticare le sue abluzioni, se chiede che le vengano forniti gli strumenti indispensabili, corre il rischio di vedersi espellere perché giudicata donna di facili costumi». Come il ballo, anche il bacio è soggetto a classificazioni. Affermano preti, magistrati, consulenti amorosi ed esperti di galateo che esso è consentito tra fidanzati «come espressione di affetto sincero» ma proibito «come ricerca egoistica di godimento sensibile». Questo godimento è però ala-cremente ricercato dai fidanzati, che amoreggiano nei giardini. Il direttore del Segretariato per la moralità di Azione cattolica, Gavuzzo, se ne lamenta: «È sempre stata mia abitudine andare con i miei tanti figlioletti, al pomeriggio dei giorni festivi, a fare una gita in collina.... Ciò mi è stato proibito poiché la zona era invasa di coppie di giovani che in pieno
giorno... facevano quello che di più immorale non si può neanche immaginare». Sottoposto ad autorevoli e accorate proteste, il ministro dell'Interno Mario Scelba fissa multe per ogni genere di sconvenienza, cioè di ogni gesto capace di evocare o rappresentare il piacere dei sensi; quindi, la multa per gli innamorati che si baciano in pubblico è di 2500 lire (circa 40 mila lire di oggi). Il linguaggio ufficiale dell'amore tra i giovani è castigato e allusivo, ma la ricchezza del gergo non ufficiale dimostra che le pratiche amorose non vengono affatto trascurate. In campagna due ragazzi non ancora fidanzati «si parlano», in città «filano» o «flirtano»; e, fra amici, si può ammettere che con la compagna di scuola si va a «pomiciare» o a «limonare», il che comporta un gran lavoro di mani su tutto il corpo senza però arrivare all'atto supremo. Sono quelle che il linguaggio pudico della cronaca giornalistica chiama «effusioni». L'accoppiamento, invece, per il linguaggio giudiziario, adottato da poliziotti, carabinieri e magistrati è «l'atto» o «il fatto». I rotocalchi definiscono «affettuosa amicizia» il legame fra le celebrità, fingendo di non sapere che si tratta di sesso furiosamente praticato. Già l'ingresso in fabbrica, negli anni Cinquanta, di un numero sempre più grande di donne aveva intaccato il fenomeno della segregazione tra maschi e femmine, e offerto agli operai e ai sindacalisti nuove occasioni di brivido sensuale, di pizzicotti, di ricatti, di do ut des. Con l'iscrizione, negli anni Sessanta, di larghe schiere di ragazze a scuola, si mette davvero fine alle esistenze separate. Si sta gomito a gomito in classe, ma anche a casa, il pomeriggio, a studiare, con il permesso della mamma e la porta aperta. Innamorarsi del compagno di banco oppure del giovane professore, come corteggiare la più bella dell'istituto diventano i piccoli esperimenti attraverso cui si viene formando la vita amorosa della femmina e del maschio adulti. Prova d'amore Sotto le gonne di una fanciulla è custodito un bene giuridico. O almeno così sostengono molti magistrati, avvolti nella solennità della loro toga nera (un'altra delle sottane che regolano la vita sessuale degli anni Cinquanta e Sessanta). Il ragionamento è sempre lo stesso: la buona sistemazione di una ragazza - unico possibile destino femminile - dipende da un matrimonio conveniente, il quale può realizzarsi meglio se la sposa è integra. La purezza, dunque, è un bene da tutelare. Se questa proprietà viene violata, la vittima merita un risarcimento. Nel 1949, per esempio, la Corte di cassazione stabilisce che una donna sedotta con la promessa di matrimonio «ha ragione di insorgere e riscattare il proprio onore vilipeso da chi l'ha ingannata». Nel 1949 un tribunale sentenzia su un fatto del 1938: la signorina defiorata e poi non sposata - in obbedienza alle leggi razziali, perché lei è ebrea e lui ariano - sarà compensata per la distruzione del «bene giuridico»; la donna non più vergine, dice il magistrato, ha subito «una profonda menomazione» nel fisico, nonché una lesione della reputazione e dell'onore. Come si vede, la verginità è una faccenda estremamente seria anche quando, ormai, le ragazze studiano, lavorano e il loro destino non dipende più soltanto dal matrimonio. Lo è per il Papa e per i preti, che ne sottolineano la qualità spirituale; lo è per la mamma, che ne valorizza gli aspetti negoziali ai fini delle nozze; lo è per il giudice, pronto a sentenziare per un compenso in denaro nei rari casi in cui sia provato che lei davvero non ci stava e non lo ha provocato. Come potrebbe non essere importante la verginità per le fanciulle? In quasi perfetta continuità con il Ventennio, la propaganda della purezza è intensa, diretta alle madri e alle fi-glie, più che ai padri e ai fidanzati, basata sul culto delle vergini antiche e moderne, e, come è ovvio, sul terrore delle conseguenze. Il risultato non si ottiene soffocando le figlie di precetti che «non hanno preservato nessuna ragazza dai guai» ricorda Giovanni Ansaldo, ma proprio questo è quel che fanno tutte le autorità familiari e morali nel ventennio della restaurazione dei costumi. E così i precetti piovono fitti come un bombardamento. Nell'epoca della guerra fredda perfino la verginità diventa - come quasi ogni cosa - una questione politica e un oggetto di culto. I cattolici hanno Maria Goretti, che Pio XII santifica nel 1950. I comunisti sfoderano Irma Bandiera, una parti-giana che è stata torturata ma si è difesa, che ha mantenuto l'onore e perduto
la vita, e perciò viene additata all'esempio delle giovani della FCCI. La verginità ha un valore ben diverso per cattolici e comunisti: è una questione di principio per gli uni, una questione etica e pratica per gli altri. Nel suo manualetto Luisa Levi non discute dell'argomento - se sia un bene o un male - ma affronta il tema della «prima volta», senza far distinzioni tra maschi e femmine. Non toglie solennità e dramma a tale appuntamento, tuttavia sottolinea che richiede maturità fisica e affettiva. Tratta la questione da un punto di vista sostanziale, piuttosto che formale: racconta il caso di una diciottenne che ci prova con un compagno di scuola e ne trae sensi di colpa, tormenti e lacrime; di un diciassettenne che va a donne con gli amici per dimostrare di essere un vero uomo, e, disgustato da questa esperienza mortificante, diventa impotente per il trauma subito. Bisogna, dunque, fissare dei confini: «In condizioni normali è bene che l'iniziazione all'atto sessuale sia ritardata il più possibile, preferibilmente fino al ventesimo anno, sia nei maschi che nelle femmine». Se negli anni Trenta, con l'esempio di Maria Goretti, si era tentato di responsabilizzare le ragazze, negli anni Cinquanta si preferisce raddoppiare la «vigilanza»: il controllo della verginità spetta alle figlie ma la supervisione materna deve essere incessante e suscitare terrore. I galatei non trascurano mai questo punto: la prima volta coincide con le nozze. Nel 1961 Elena Canino si rivolge alle giovani con il galateo La vera signora: «La signorina ci pensi prima dieci volte» e «la lussuria non è adatta per signorine». Donna Letizia invece consiglia alle madri, prima di partire per le vacanze, di controllare con cura la valigia delle figlie: «Il reggiseno del due pezzi non avrà le proporzioni di un paio di occhiali da sole, e le mutandine non saranno così piccole da potersi confondere con una foglia di fico. La signorina protesta? Le verrà ricordato che l'immodestia, se attrae i mosconi, mette in fuga i partiti seri». Un attimo di distrazione sulla verginità si paga per tutta la vita. Nel 1960, in Saper vivere, Donna Letizia avverte le ragazze che «il buon senso vi ispirerà la risposta adeguata: un NO deciso», perché le «ochette» che abboccano «se ne pentiranno molto il giorno in cui si troveranno di fronte a un fidanzato, un vero fidanzato». Il periodo di preparazione al matrimonio deve durare al massimo sei mesi, perché nell'attesa - naturalmente una casta attesa «la sposa deperisce, lo sposo si fa irrequieto, le madri portano scritta sulla fronte una sospettosa e crescente inquietudine». Come in tutte le faccende scabrose, anche in questa le madri hanno un ruolo, e lo hanno i sacerdoti. Uno di loro ammonisce: «Chi ama il pericolo perirà in esso. A tutti i fidanzati consiglio: visite brevi, visite utili, visite rare». Dal passo fatale non si torna indietro, dicono gli educatori alle ragazze, proprio come nei decenni e nei secoli precedenti. Amos, che fa l'amore con Amata nell'omonimo romanzo di Luciana Peverelli, pubblicato nel 1951, a cose fatte avverte la ragazza: «Ma lo sai che ti sei preclusa ogni strada a una sistemazione regolare?». Nel 1954 una quarantacinquenne di Gallarate scrive ad Alba de Cèspe-des su «Epoca»: come farò quando mio figlio, prossimo alle nozze, scoprirà dai certificati dei genitori che è nato prima del matrimonio? «Abbiamo fatto di tutto per nascondergli la vergogna» continua la donna, ma ora lui verrà a conoscenza di questa terribile verità, e, ciò che è peggio, lo sapranno anche i parenti acquisiti. Tra il 1955 e il 1962 scoppia una nuova moda inquietante: quella dell'adolescente maliziosa. Nel 1955 esce il romanzo Lolita di Vladimir Nabokov, dove una quattordicenne seduce il patrigno e ne fa un assassino. Nel 1962 Stanley Kubrick trae da questa storia un film: benché sia vietato ai minori di diciotto anni, chiunque sa che cosa si racconta e il viso infantile di Sue Lyon (Lolita) dietro gli occhiali scuri a forma di cuore diventa presto familiare, come simbolo della perversione in età acerba. Ormai è chiaro che gli usi americani, sia pure con un certo ritardo, approdano da noi, e infatti il nostro paese si popola poco dopo di lolite. Così, ogni traccia di rimmel sulle ciglia di una teenager mette in sospetto la madre: mia figlia è corrotta? Il manuale di educazione sessuale di Luisa Levi, del 1962, esorta a non sottovalutare i rischi: le dodici-tredicenni vogliono attirare l'attenzione degli adulti, con trucco, tacchi alti, abiti da signora. Non esitate a ricorrere ai veti: i tacchi e il busto nuocciono alla giovanile salute, come tabacco e alcoolici. Quello di Lolita non è un gioco, stiano attenti i genitori che la figliola,
magari, alla fine «rinsavisce quando il male è già avvenuto», un guaio fisico e psichico. Meglio vigilare prima del fattaccio, piuttosto che dover poi ricorrere a un matrimonio riparatore. La modernità è un susseguirsi di attentati alla purezza. Il Tampax, l'assorbente interno, è entrato in commercio negli Stati Uniti fin dal 1936, ma arriva in Italia in sordina, accompagnato da una cattiva fama: non è adatto alle giovinette perché può rompere l'imene, distruggere la verginità e fornire una prova pratica di quel che accade nel congiungimento carnale. Tuttavia, con molta lentezza, anche il suo uso finisce per perdere ogni connotazione drammatica, perché è comodo, si usa e si getta, non da fastidio, evita noiose bardature di mutandine. A rendere meno fastidiose le mestruazioni, sono arrivati anche i «pannolini», che all'inizio hanno un'imbottitura di cotone racchiusa nella garza, poi di cellulosa. Ormai, anche «quei giorni» somigliano sempre più a qualunque altro, e le ragazze sono sempre meno spaventate dalla loro femminilità. Gli uomini tengono moltissimo alla purezza, che considerano tuttora un obbligo squisitamente femminile. Nel 1950 Dino Origlia conferma che il «sono contento di essere arrivato primo è un pensiero che effettivamente corrisponde a qualcosa nella psicologia dell'uomo». Sposare una donna integra e farne una proprietà esclusiva rappresenta ancora lo scopo della maggioranza dei giovani maschi. Secondo Origlia, quindi, non è affatto bene avere rapporti prematrimoniali che avvelenano la vita e il futuro dei coniugi. Tra i fidanzati, poi, l'intimità spinta non giova al matrimonio che sta per realizzarsi, e per giunta rovina la magia della prima notte. Nel 1964 il dottor Astor torna sul medesimo concetto quasi con le stesse parole: «Oggi in America la metà e in Europa per lo meno due terzi delle donne sono già defiorate prima del matrimonio» e così finisce dissipata la «magia della prima notte». Eppure, anche lui ammette che da un'audace intimità derivano certi vantaggi, come, per esempio, il fatto che le spose hanno meno paura dell'ignoto. Oppure, la fidanzata ha compiuto in piena consapevolezza una scelta importante e questo fa di lei una compagna responsabile e non una vittima di scelte altrui. C'è poco da fare, sulla questione della verginità, che rimane una sorta di chiodo fisso, soprattutto nei ceti meno evoluti e nelle zone più isolate dalla modernità. Tra il 1967 e il 1973 Renata Pisu, con lo pseudonimo di Cristina Leed, riceve le confidenze dei lettori, ai quali risponde, sul settimanale «Abc». Un trentasettenne si è sposato con una vedova, dalla quale ha avuto un figlio che ha otto anni, e potrebbe essere felice; tuttavia si tormenta perché non avrà mai la soddisfazione e il piacere di sverginare una donna. Un fidanzato messinese, invece, domanda all'esperta: «Se saprò che ha fatto qualcosa che a me negò, ho il diritto di lasciarla?». Quando il fattaccio è ormai alle spalle, scrive Origlia «noi sconsigliamo che la donna riveli la perdita della propria verginità preconiugale nel momento stesso in cui il novello sposo sta per introdurre il proprio membro». No, davvero quello non è il momento giusto: dove va a finire la magia della prima notte? Nel 1951 «Epoca» pubblica una Statistica sentimentale delle ragazze, da cui si apprende che 9 ragazze su 100 hanno «conosciuto l'amore nella sua interezza», ma a dispetto di ciò la stragrande maggioranza delle giovani continua a sognare l'amore vero, l'uomo ideale, il Principe Azzurro. Dino Origlia, quando scrive nel suo manuale le istruzioni per la prima notte di nozze, osserva: «Partiamo dal principio (purtroppo ora raramente verificantesi) che la sposa sia vergine». Almeno a parole, sembra che i giovani maschi non annettano un'importanza decisiva all'integrità: nella parallela Statistica sentimentale dei giovani, il 44% dichiara di essere indifferente al fatto che lei abbia avuto «altre esperienze». È assai più importante, dicono in molti, che la ragazza del cuore somigli alla mamma. Mentre le autorevoli sottane predicano in particolare alle fanciulle di restare pure fino alle nozze, non si accorgono che - come emerge da questa indagine - anche i maschi hanno qualche problema: temono la propria timidezza, al primo approccio non sanno da che parte cominciare o che cosa dire, e rimediano all'agitazione per lo più accendendo una sigaretta. L'armamentario delle regole vigenti, unito alla segregazione tra maschi e femmine, rende difficile la comunicazione tra i giovani dei due sessi. E renderà complessa la vita intima dei futuri coniugi.
Nel 1959 «Epoca» conduce un sondaggio tra 1200 persone e scopre che un terzo dei maschi ritiene indispensabile la verginità per una ragazza; alcuni sostengono che la cosiddetta «prova d'amore» comporta una «menomazione anatomica», altri che la tradizione è questa e va rispettata. Al contrario oltre il 50% delle donne affermano che se un maschio «si diverte prima del matrimonio sarà più tranquillo dopo» e non è chiaro se si intenda che sarà un marito fedele oppure di modeste pretese carnali. Osserva la pedagogista Maria Ricciardi Ruocco nel 1961 che, sotto un tale bombardamento di precetti, «una ragazza è incerta tra la paura di perdere il fidanzato, cedendo, e la paura di perderlo ugualmente dopo aver ceduto» La «prova d'amore» è in realtà una prova di potere, un esperimento di sottomissione di lei a lui, o di lei alla mamma.
XII OFFESE AL PUDORE, OFFESE ALL'ONORE Nel 1949 ricorre il quinto centenario della nascita di Lo-renzo de' Medici e, per le celebrazioni, qualcuno propone di usare l'immagine della nascita di Venere, dal quadro di Sandro Botticelli, un capolavoro del Rinascimento fiorentino. L'idea è immediatamente scartata: quella donna è nuda, offende il comune senso del pudore. Liquidata, con la fine della guerra, la paura di morire, risorge prepotente nell'animo delle pubbliche autorità la paura del sesso, cioè del vizio, il quale - secondo le note convinzioni, dure a morire - si diffonde tra la gioventù per via di immagini oscene e di scritti audaci. Ne è assolutamente certo Pio XII, un uomo dell'altro secolo, che alla cerimonia per la canonizzazione di Maria Goretti, nel 1950, riprende il vecchio spunto: l'immoralità confina con l'omicidio. La leggenda gorettiana tramanda infatti che l'ignobile assassino, prima di aggredire la ragazza, si era eccitato con immagini pornografiche. Ammonisce il Papa. «Guai al mondo per causa degli scandali. Guai a quei corruttori coscienti e volontari del romanzo, del giornale, della rivista, del teatro, del film, della moda invereconda». Detto e fatto. Allorché l'Italia si schiera con l'Occidente, la Democrazia cristiana va al potere e la Chiesa diventa uno dei baluardi più sicuri contro l'avanzata del comunismo, una delle massime preoccupazioni delle autorità è tutelare il buon costume. Ogni rappresentazione di nudità va cancellata, il solo pensiero della libertà degli occhi e del corpo va estirpato. Ogni allusione al sesso deve sparire dalla vista del pubblico. Così, gli inguini delle sessantasei statue del Foro Italico a Roma - quegli uomini sono nudi! - vengono ricoperti da foglie di fico. Nell'Anno santo 1950 su 104 film prodotti, 72 passano al vaglio della censura. Prima ancora che nasca la televisione sperimentale, il Pontefice - e con lui i più autorevoli esponenti del mondo cattolico - si preoccupa che quella nuova diavoleria trasmetta immagini e parole inquietanti. Viene varato un codice di condotta e di linguaggio che conduce, fra l'altro, nel 1957 i dirigenti della RAI a stipulare un prudente contratto con la Federcalcio: le partite di pallone verranno trasmesse in TV, a condizione che i calzoncini dei calciatori siano adeguatamente allungati. In una delle fasi più floride della nostra letteratura, dello spettacolo, delle arti visive, dell'economia e dei sentimenti, si abbatte sugli italiani un'ondata censoria che prende di mira il sesso e tutto ciò che lo riguarda. Mentre il miracolo economico libera gli italiani dalla povertà, dall'ignoranza e dal provincialismo, l'autorità costituita pretende di restaurare il concetto di onore e di pudore, riportandoli ai fasti ottocenteschi. Questa scelta conduce a conseguenze piuttosto curiose: la Venere di Botticelli (come i nudi di Modigliani e di Goya) offende il pudore, le case di tolleranza no. La prostituzione, se nascosta, non lede la sensibilità, se visibile va censurata. Nel marzo 1960 il regista Luchino Visconti chiede di girare alcune scene di Rocco e i suoi fratelli all'Idroscalo, ma Adrio Casati, presidente democristiano della Provincia di Milano, proprietaria dell'area, non concede l'autorizzazione «perché si tratta di una pellicola di bella vita». Non importa che all'Idroscalo la «bella vita» prosegua giorno e notte, importa che non si veda. Un'altra conseguenza di questo modo di vedere l'immoralità - cioè il sesso - è che una ragazza può perdersi, il suo onore macchiarsi di rossetto o precipitare in una moderata scollatura, ma lei sarà premiata - anzi esaltata - se ammazza il proprio seduttore. A causa della difesa a oltranza di questo concetto del pudore e dell'onore, d'ora in poi gli interessi della Chiesa cominceranno a divergere da quelli di un grande numero di donne, che la Chiesa stessa ha a lungo protetto, tutelato e coccolato, in una solida alleanza. Sul fronte laico, a differenza di quanto molti speravano alla fine della guerra, le istituzioni della neonata Repubblica perdono prestigio, anziché guadagnarlo, almeno agli occhi dei giovani i quali, nell'arco di una
generazione, saranno pronti a disprezzarle, a disobbedire e a ignorarne l'autorità. La giovane Repubblica si proietta verso la modernità con il miracolo economico, ma si attacca ferocemente al passato per quanto concerne il costume. Tagli, sequestri, divieti Il cinema, il teatro e la letteratura sono costantemente sotto sorveglianza. Il Sant'Uffizio lavora per mettere all'indice gran parte degli autori moderni e di quelli del passato, soltanto perché le loro opere rappresentano o affrontano la spinosa questione del sesso. Curzio Malaparte e Alberto Moravia sono tra le vittime illustri di questa condanna, alla quale tuttavia il pubblico da scarso peso continuando a leggere il fior fiore della produzione italiana e straniera. Henry Miller, che è uno del mestiere e il sesso lo racconta proprio come lo vive, si trova a Milano nel 1961, quando esce in italiano Tropico del cancro, un libro del 1934. Un testo così audace sarà sequestrato? Miller non si scompone e commenta: «Tanto ci sono abituato». Simone de Beauvoir - la cui vita a due (o tre, o quattro, nei rispettivi intervalli di libertà) con Jean-Paul Sartre non costituisce un buon esempio per la gioventù - subisce un analogo ostracismo e Il secondo sesso del 1949, che oltretutto contiene un implicito incitamento alla rivolta femminile, viene pubblicato da noi soltanto nel 1962. Alla televisione signore e signorine devono essere correttamente vestite, anche se ballerine, e quindi per l'intero decennio Cinquanta la TV, ricca di proposte in ogni campo, è invece molto avara di immagini che potrebbero provocare i sensi dello spettatore: Alba Arnova si vede cancellare la trasmissione La piazzetta perché, per danzare, indossa una calzamaglia. Occorre aspettare il 1961 per vedere non uno ma due paia di gambe femminili, quelle di Alice ed Ellen Kessler, abbastanza algide per non suscitare turbamenti. Anche le parole e le circostanze rappresentate in televisione non devono avere alcuna attinenza con il sesso e quindi Casa di bambola, di Henrik Ibsen, va in onda nel 1958, con una correzione: il dottor Rank non è malato di sifilide bensì di una più etica tubercolosi. Il cinema, lo abbiamo già visto, è seguito dai censori con maggior attenzione perché - come la televisione -può raggiungere un pubblico più vasto di quello dei libri. I magistrati lavorano di forbice e di penna e colpiscono là dove sentono aroma di sesso. Le prostitute sono mal tollerate anche al cinema, che pure rappresenta di tutto. Nel 1954 la lavorazione di Maddalena, pellicola edificante di Augusto Genina, viene seguita da un consulente ecclesiastico: è la storia di don Vincenzo, un parroco che non trova nel suo villaggio una fanciulla illibata per rappresentare la parte della Madonna nella processione pasquale. Un signorotto locale lo inganna, presentandogli come pura una prostituta di città, che verrà alla fine scoperta e lapidata dalla folla. La storia di impotenza de Il bell'Antonio, tratto dal romanzo di Vitaliano Brancati, nel 1960, stenta a soddisfare i censori. Per il cinema è un anno fatale: viene infatti sequestrato anche I dolci inganni di Alberto Lattuada, dove la giovane Francesca (Catherine Spaak) affronta un'iniziazione sentimentale e sessuale con un maturo architetto (Christian Marquand). Scrive il magistrato che la pellicola è immorale per «la descrizione dei preliminari dell'accoppiamento, ossia nel denudamento, da parte della donna pervasa da erotico furore, e nell'abbigliamento scomposto del giovane amante». Il procuratore della Repubblica di Milano, Carmelo Spagnuolo, dispone inoltre il taglio da Rocco e i suoi fratelli della scena in cui la prostituta Nadia (Annie Girardot) viene stuprata. In autunno lo stesso Spa-gnuolo sequestra L'avventura perché Monica Vitti e Gabriele Ferzetti si abbracciano vicino ai binari del treno, commettendo insieme al regista Michelangelo Antonioni reati di oscenità e commercio di spettacoli osceni. Lo zelo del magistrato è giustificato dal fatto - è lui stesso a spiegarlo - che a Milano la criminalità dilaga e già si segnalano diversi casi di «degenerati che adescano e corrompono gli scolaretti». Non resta che rifarsi sul cinema e sugli spettacoli, suggeritori di immoralità. Ma è come remare controcorrente: nel 1960 il Centro cattolico cinematografico deve prendere atto che i film proibiti attirano il pubblico più di quelli consigliati. Nella classificazione del Centro le pellicole giudicate «T» (cioè per tutti), «A» e «AR» (per adulti e per adulti con riserva) hanno meno successo di quelle siglate «S» ed «E» (cioè sconsigliato ed escluso), dove lo
scabroso argomento del sesso è padrone. Forse non vale la pena di accollarsi tanta fatica per il trionfo della moralità, visto che consigli come questi vengono largamente ignorati. Di nuovo, però, se certe verità sono censurate, al cinema il «gallismo» è permesso. Un cinegiornale, la «Settimana Incom», del 1959, da notizia della nascita di un Club delle maggiorate e mostra un signore che prende le misure delle aspiranti sode; appoggia le mani su vita, fianchi, natiche e seno, dove si sofferma per registrare la distanza tra la clavlcola e il capezzolo, mentre una voce annuncia che ormai è stata dichiarata una «lotta a oltranza alle zone depresse», con allusione alla necessità che le femmine siano dotate di abbondanti curve. I cinegiornali strizzano l'occhio al pubblico maschile: in trent'anni la «Settimana Incom» presenta 130 servizi sui concorsi di bellezza, da Miss Italia a Reginetta dei fiori, senza risparmio di inquadrature sull'anatomia delle concorrenti. Neppure le rappresentazioni teatrali sfuggono al controllo giudiziario. Nell'autunno 1960 all'Eliseo di Roma va in scena l'Arialda di Giovanni Testori, ma in una versione ridotta di venti minuti per la scabrosità delle situazioni e del linguaggio. Nello stesso anno al San Carlo di Napoli non si può rappresentare il Martino di san Sebastiano, un'opera di Gabriele d'Annunzio con musica di Claude Debussy, che ha per protagonista la ballerina francese Lud-milla Tchérina. Il questore Alfredo Correrà riceve infatti un «messaggio addolorato» dell'arcivescovo D'Agnese, e dispone la cancellazione dello spettacolo, che pure è appena stato messo in scena a Parigi, dove il cardinale Eugè-ne Tisserant si è personalmente complimentato con la Tchérina. Solo nel 1965, quando ormai la censura teatrale è stata abolita, viene rappresentata per la prima volta La governante di Vitaliano Branca ti, un testo scritto nel 1952 ma sconosciuto al pubblico perché racconta un caso di omosessualità femminile. Guerra fredda e armi scottanti Se il principio fondamentale della Chiesa è che il sesso è un male giustificato soltanto dalla procreazione, negli anni della guerra fredda tra i cattolici si insinua l'idea che il comunismo si intrufoli anche attraverso il materialismo dei costumi, che comprende i piaceri della carne, della gola e la mancanza di spiritualità. Non è così. I comunisti, in materia di sesso, non sono meno totalitari dei cattolici, tanto che negli anni Cinquanta si scatena una sorta di gara a chi è più bacchettone: Gillo Pontecorvo, che dirige «Pattuglia», un giornale per i giovani, pubblica una vignetta che mostra una ragazza piacente con le natiche a malapena coperte da un minimo slip. La vede Palmiro Togliatti, segretario del PCI, che procede per vie gerarchiche. Chiama Enrico Berlinguer, segretario della FGCI, e lo rimbrotta. Berlinguer trasmette il rimprovero a Pontecorvo e lo rimuove immediatamente dal delicato incarico, che viene affidato a Ugo Pecchioli. Il pittore Renato Guttuso sostiene la causa dei bigotti quando rassicura gli italiani sulla vera natura del socialismo reale: «È l'URSS, se Dio vuole, il Paese dove le giovani donne vanno ancora vergini al matrimonio». E qualche anno più tardi, nel 1963, quando le autorità sovietiche censurano l'autobiografia del poeta Evgenij Evtusenko, Guttuso, che di solito è avversario dei divieti in Italia, difende le autorità moscovite perché - a suo parere - non si può «giudicare la società sovietica con il metro occidentale». Il capitalismo è corruttore, non il materialismo che, al contrario, ha sempre le forbici a portata di mano per difendere la moralità. È questo il punto di vista dei comunisti. Non è vero, ribattono i cattolici, i sovietici vogliono distruggere la famiglia e quindi cominciano a insegnare ai bambini al più presto le cose scabrose. Per dimostrarlo, nel 1950 «Il quotidiano» descrive a forti tinte le attività dell'Associazione pionieri italiani, che raggruppa i ragaz-zini comunisti: quella gente organizza feste, nel corso delle quali gli adulti incoraggiano i piccoli a ballare e baciarsi «con l'intendimento di accelerare la loro sensibilità sessuale e maturare il vizio». Una simile educazione, sostiene il giornale, prevede «l'innominato tentativo di pervertire i piccoli, soprattutto svegliandone, anche se in forme velate, i troppo facili ma fatali istinti di sensualità». Siccome la stupidità non corre rischi di censura, ecco che cinema, cinegiornali, TV, varietà teatrali regalano al pubblico barzellette spinte, battute a doppio senso, piccole oscenità, meglio se intorno al corpo femminile.
Negli anni Cinquanta, quando viene raccomandato alle operaie di presentarsi al lavoro con le maniche lunghe e senza rossetto sulle labbra, e allorché scolare e studentesse sono soggette all'obbligo del grembiule nero in classe, nella trasmissione televisiva a quiz «Lascia o raddoppia?» si presenta una concorrente che, a rigore, dovrebbe essere cacciata. Maria Luisa Garoppo ha come davanzale un paio di siluri che somigliano più alla doppia prua di un catamarano che a un seno femminile. Ma su quei 103 centimetri di circonferenza messi bene in vista di fronte e di profilo dalle telecamere, la censura non agisce, la Garoppo è soltanto un fenomeno circense. In modo simile si comportano la censura effettiva e quella morale sulla stampa rosa, che negli anni del miracolo è un'indefessa educatrice delle masse popolari. I rotocalchi raccontano con ricchezza di immagini dovute per lo più ai paparazzi che agitano la dolce vita romana -gli amori illeciti, multipli, adulterini, naturali e violenti, dei divi del cinema e dell'aristocrazia, dei miliardari e delle cenerentole. Walter Chiari e Ava Gardner sono fidanzati e non si decidono a sposarsi. Ira Fùrstemberg, sposa bambina del principe di Hohenlohe e madre di due figli, scappa con il play boy Baby Pignatari. Soraya, moglie ripudiata dello scià di Persia, si consola con il principe Raimondo Orsini. Elizabeth Taylor, sposata a Eddie Fischer, ex marito della sua migliore amica Debbie Reynolds, si stanca presto e allaccia una relazione con Richard Burton. Nell'estate 1967 Maria Beatrice di Savoia, figlia dell'ultimo re d'Italia, Umberto, si sistema a Casalpalocco, in casa di Maurizio Arena, un fusto romano che è anche attore. Catherine Spaak, la diva ragazzina, partorisce Sabrina senza aver sposato il padre di lei Fabrizio Capucci. E così via. Non occorre lavorare di malignità per immaginare che cosa facciano i protagonisti di tali amori, specialmente quando trascorrono le vacanze insieme o dividono la stessa abitazione. Ma sequestrare l'enorme quantità di carta stampata che narra e illustra queste storie è un'impresa disperata e impopolare, e così esse rimangono alla portata di tutti e - a modo loro - insegnano a vivere. Le ragazze imparano che forse è meglio perdere la verginità che la vita. I maschi vedono che il sesso offre qualche cosa di più del dilemma tra il letto coniugale e la casa di tolleranza. Se l'ignoranza sull'amore e sulle sue infinite possibilità viene dissipata dalla cronaca rosa, l'ignoranza sulle cose del sesso - dall'anatomia alla contraccezione - viene attenuata dalla stampa audace, che comincia a diffondersi in barba alla censura, ai sequestri, ai processi e alle condanne. Il nudo femminile si fa largo anche in Italia sulla carta patinata; imitando l'americano «Playboy» nei contenuti e nella testata, nascono «Playmen», «King», «Man» e altri. Il settimanale «Abc» che, come abbiamo visto, dispensa tra l'altro consulenza in campo sessuale, nella sola annata 1965 conta 24 sequestri su 43 numeri pubblicati e distribuiti. Nel 1964 la Pirelli inaugura la serie dei suoi calendari di nudi femminili, uno al mese. Ma, si dice, è nudo artistico. Come lo è quello dei fotografi che pubblicano le loro immagini sulle riviste «sconce». A metà degli anni Sessanta si contano 25 giornali audaci o pornografici, attentamente seguiti dalle autorità, che procedono a sequestri e processi. Nel 1968 viene addirittura arrestato il direttore di «King», e al processo il pubblico ministero Pedote invoca: «Siamo un popolo di lavoratori e non vogliamo essere infastiditi da donnine e champagne». Che cosa offende davvero il comune senso del pudore? Risponde nel 1961 Maria Ricciardi Ruocco, che avanza una proposta: «Non sarebbe il caso di ridimensionare il significato dell'aggettivo "osceno" e di escludere dall'area del termine ciò che ha relazione con l'amore?». Addio marchetta Durante la guerra e nei primi anni del dopoguerra, accanto a «quelle case» fiorisce la prostituzione per fame. È sotto gli occhi di tutti, ma è una delle tante piaghe belliche. Finito il conflitto, però, è vietato parlarne. Anna Ga-rofalo, conduttrice della trasmissione radiofonica «Parola di donna», osserva a Roma liberata le file di soldati e marinai davanti alle case di tolleranza: «Il commercio della carne umana è però più avvilente di quello dei viveri e degli indumenti», ed è tanto più vergognoso in quanto regolamentato dallo Stato. «Per le venditrici libere si tratta di una scelta, sia pur riprovevole, ma per le altre è un lavoro forzato» osserva, ma aggiunge che di tale argomento «crudo» le è proibito discorrere alla radio. E racconta di una diciottenne venuta al Nord e ospitata dai parenti, che fa la cassiera in un bar,
ma è sottoposta a pressioni familiari: «Stupida, ti ammazzi a lavorare e con poco riusciresti a fare la signora». Una donna, invece, si trova chiusa in un bordello perché vi è stata spinta dal marito, un fascista che dopo la guerra si ritrova senza lavoro e senza prospettive; lei abbandona il mestiere, vuole ricongiungersi al figlio, va dalla madre contadina che però le dice: «Sei matta? Guadagni di più a fare la vita». Il 9 aprile 1945 tocca a Sibilla Aleramo scrivere un messaggio per la radio, che viene trasmesso - parzialmente censurato - e contiene più di un tocco di moralismo. La scrittrice invita a prendere atto dell'«esistenza innegabile di una quantità di donne che redimono la specie con esempi di bravura e di eroismo», mentre altre esercitano la borsa nera o «trovano ancor più semplice vendersi a qualche soldato alleato yankee o canadese o magari negro». Nel 1947 Livorno è un'attiva città portuale, dove sbarcano e s'imbarcano merci che attraversano l'Atlantico e dove la presenza di militari americani è particolarmente fitta. In città e nei dintorni fiorisce il mercato del sesso, con schiamazzi, brutture e violenza. Alcuni cittadini benpensanti organizzano spedizioni punitive contro le prostitute (i clienti restano indisturbati), a base di botte e stupri, perché «queste segnorine arrecano offesa alle donne italiane», come dirà uno degli avvocati al processo che si svolge nel 1949. Qualsiasi donna che si faccia trovare per la strada equivale a una di quelle e merita lo stesso trattamento: ci va di mezzo la moglie di un ingegnere, che si è affacciata sulla soglia di casa per curiosità. Non importa, sarà una lezione utile, e servirà a convincere lei e gli altri che è meglio che la prostituzione stia al proprio posto, cioè nella «casa chiusa». Tra le speranze delle persone civili nel dopoguerra, c'è quella di farla finita con il sistema schiavistico della tolleranza. Non con la prostituzione, che piace a troppi, ma con i bordelli autorizzati dallo Stato. Non con il sesso a pagamento, ma con l'economia di sfruttamento di quelle case. Lo ha raccomandato anche l'ONU: chiudetele. In Gran Bretagna ci hanno pensato all'inizio del secolo, in Francia nel 1946. In Italia non è semplice farlo. L'opposizione è forte, agguerrita e insiste sulla necessità sociale dell'istituzione: se qualche migliaio di donne sono sfruttate e asservite, lo fanno per il bene della società. Va condannato, invece, il «turpe commercio» che disturba la quiete pubblica, insozza le strade ed è mostrato ai bambini. Il bordello non è un'offesa al pudore, lo è invece il racconto dello stupro sulla prostituta Nadia, che batte il marciapiede in Rocco e i suoi fratelli. Il primo va tutelato dalla legge dello Stato, il secondo è oggetto di censura. C'è una persona che la pensa diversamente, un'ostinata idealista - mandata allo sbaraglio dall'intero mondo politico - la quale ha il coraggio di agire. Lina Merlin è un'insegnante che nel 1926 ha preferito il confino al giuramento di fedeltà al regime, che le avrebbe preservato la cattedra. Più resistente del fascismo, si dimostra ben più dura dei ruffiani e della loro affezionata clientela. Nel 1949 la senatrice socialista presenta una proposta di legge per la chiusura delle case di tolleranza, che sono 724 e scenderanno a 560 nel 1958. Viene accusata di essere una visionaria: la prostituzione non può essere abolita. Lei, però, ribatte fin dal suo primo intervento in Senato il 12 ottobre 1949: questa non vuole essere una legge per cancellare la prostituzione, bensì per abolire la schiavitù. Anche dopo dieci anni di battaglia, Lina Merlin è sicura di non aver compiuto nulla di grandioso: è una legge come un'altra, dice, ed è stato «l'accanimento degli italiani nel non accettarla» ad averle dato vasta notorietà. L'abolizione delle case di tolleranza - o la fine dello Stato ruffiano, come qualcuno la definisce - incontra la resistenza di un ampio fronte, che comprende, com'è ovvio, i proprietari delle case, ma anche i maschi incapaci di entrare in relazione con una donna e quindi costretti a pagarla, e perfino le signore che preferiscono dirottare la fo-cosità dei mariti su altre donne, o le madri che ritengono tutelata la virtù delle figlie dall'esistenza dei bordelli o ancora quelle che si domandano: «E io dove mando i miei figli?» (per le quali la risposta della Merlin sarà: «Dalle figlie delle sue amiche!»). Costoro combattono tanto rumorosamente che è impossibile non prendere atto della loro verità: la prostituzione regolamentata, schiavistica, che versa le tasse all'erario mantiene l'ordine sociale e
mette a posto la coscienza perché non si vede. Lo Stato ne è responsabile, lo Stato la giustifica. Sempre purché non si veda e non disturbi. Nel 1952, quando in Italia funzionano ancora 717 case di tolleranza, David Maria Turoldo, un religioso servita, da pubblica battaglia al bordello storico di via San Pietro all'Orto, uno dei più signorili di Milano, e annuncia che intende sedersi davanti al portone finché quella vergogna non sarà abbattuta. Il casino si trova proprio accanto alla residenza dei Servi di Maria, nonché alla chiesa di San Carlo. Turoldo vince la battaglia sei anni prima che le case chiudano, ma le altre intanto funzionano a pieno ritmo. Ormai incompatibili con l'uguaglianza dei diritti, sono infatti perfettamente compatibili con la legge della cassa. Le prostitute sono «igieni-che», dicono i sostenitori. Ma se il controllo medico viene esercitato solo sulle donne e non sui clienti, è come se non esistesse. In Parlamento la Merlin presenta, tanto per fare un esempio, i dati relativi alla città di Modena nel 1949: 130 mila abitanti, 4 case, 20 signorine, 60 prestazioni al giorno per ciascuna, e una marchetta costa in media 100 lire. La metà dell'incasso va al proprietario, il 6% in tasse e ciò che rimane una volta detratti i costi spetta alle prostitute, le quali però devono versare 1000 lire al giorno di pensione, più le spese per gli abiti (e gli stupefacenti) e la percentuale al souteneur che le ha arruolate. A Roma tre bordelli con un solo proprietario danno lavoro a 43 ragazze che «sbrigano» 100 clienti al giorno a 200 lire in media, però il solo vitto e alloggio costa 2500 lire. Alcune prostitute vanno a ringraziare la Merlin in Senato: sostengono che nel bordello romano di via dei Corona-ri a ognuna di loro toccano in media 100 prestazioni al giorno, il padrone è milionario, ma nessuna ragazza lo è. Una le scrive che solo gli stupefacenti consentono di reggere un'esistenza così massacrante e umiliante, e sono le padrone stesse che li somministrano. «Se poteste immaginare ciò che avviene in queste case!» le scrive un'altra. «Più sono lussuose e più esiste spaventevole la depravazione. Sono frequentate da ogni genere di uomini sposati e da giovanotti ai quali l'accoppiamento naturale è sconosciuto. Sovente, nelle case di lusso, è tenuto alla portata di mano un ragazzo per il divertimento e la libidine dei clienti.» In Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini entrano in una casa infima Alduccio e Begalone. Alla fine della cerimonia, la prostituta di Alduccio urla: «Tutta 'sta prescia e poi me manni in bianco. A-a-a-a-ahl» davanti ai clienti e alla padrona, e la scena non è certo elegante. Dai resoconti delle prostitute, negli anni del tramonto della tolleranza, la raffinatezza - se mai c'è stata - è morta e sepolta. Dicono le ragazze che, tra i clienti, i giovani sono i più frettolosi, eiaculano precocemente, e che le trasgressioni preferite sono essere frustati, innaffiati di urina, oppure sodomizzati con l'apposito cilindro di gomma. Contro la Merlin si leva un'insurrezione, non sempre verbale. La gang dei lenoni, sostiene la senatrice nel 1949, ha stanziato un miliardo di lire per scongiurare il provvedimento; secondo «L'Espresso», invece, l'Aneca (Associazione nazionale esercenti case autorizzate), che ha sede a Milano e opera come una lobby, ha investito 40-60 milioni di lire nell'azione di contrasto. I proprietari inviano un emissario in Senato, che si presenta cortesemente alla Merlin, cerca di convincerla a ritirare la legge e, per facilitare tale decisione, le porge un testo già pronto: basta sostituire il suo con questo, non è molto diverso, solo che qui salviamo le case chiuse, e insieme tuteliamo gli interessi delle ragazze, per le quali è prevista una forma di assistenza e previdenza. La Merlin resiste a ogni attacco, mentre la proposta attraversa due legislature: tra ottobre e dicembre 1949 ne viene approvato un articolo in Senato, poi si arena. Nell'estate 1953 è ripresentata nella successiva legislatura, nel gennaio 1955 passa in Senato, nell'ottobre di quell'anno viene discussa alla Camera e infine approvata nel gennaio 1958. Entra in vigore il 20 settembre 1958, allorché le prostitute attive sono rimaste 2700. Quando chiudono le case, un torrente di lacrime miste a rimpianto scorre per la penisola. Nel 1959 si riscontra un aumento dei casi di sifilide in tutta Europa e i nostalgici gridano allo scandalo: è una conseguenza della legge Merlin! Si leva anche la voce del poeta Aldo Palazzeschi: «Ci sono delle istituzioni senza le quali la società sarebbe certamente più bella, ma che rappresentano il minor male. Provatevi a sopprimerle e vedrete, in paesi dal sangue caldo».
Risponde la Merlin: anche in altri paesi «a clima caldo, temperato e freddo», nei quali si è discussa come da noi la legge sull'abolizione della regolamentazione, i difensori dei casini hanno usato gli stessi argomenti, primo fra tutti che essi costituiscono una valvola di sicurezza. Dino Buzzati deplora che la legge Merlin abbia «troncato un filone di civiltà erotica, che, nell'ambito delle case chiuse, veniva trasmesso, con le parole e con l'esempio, di generazione in generazione, alimentando un'arte spesso raffinata, che temo si sia ormai dispersa per sempre». Come Erostrato provocò la scomparsa di una civiltà con l'incendio della biblioteca di Alessandria, così Lina Merlin ha determinato la fine di un'epoca, perché «nel giro di pochi anni, c'è stato in questo settore un crollo addirittura catastrofico», si devono cercare le prostitute sul marciapiede, sono ragazze dilettanti, tutto è più scomodo e privo di poesia. Anche per Mario Soldati «le case erano soprattutto luoghi di dolcezza e di umanità... nascosti, teneri luoghi pieni di ombre e di mistero, di luci e di risa soffocate, di balenanti nudità bianche, rosee, dorate, brune, di volti e sguardi umani». Nonostante ciò, Soldati è un sostenitore della legge, come lo è il giornalista Pietro Bianchi, che delle prostitute ricorda: «Erano oscure faticatrici, donne che pensavano alla loro professione come un cercare; illuminate dalla speranza di evadere.... Ce n'erano di avide, dure, ciniche: erano le più intelligenti, o le più belle». Dopo la chiusura delle case, le prostitute esercitano prevalentemente sul marciapiede - e vengono chiamate passeggiatrici - ma anche in casa e negli alberghi. I sostenitori della tolleranza sono pronti a esplodere ogni volta che un fattaccio di cronaca nera, un delitto, ha per vittima una di loro: vedete che erano ben protette quando le case erano aperte? Dal mondo anglosassone, intanto, arriva un nuovo modello di donna a pagamento, la ragazza squillo traduzione quasi letterale di call girl - che può essere rintracciata al telefono per fissare un appuntamento. Anche se talvolta non è che una dilettante desiderosa di integrare un reddito ufficiale con uno segreto, esercita in piena indipendenza, ha un proprio appartamento, un telefono, il suo carnet di clienti e un giro d'affari senza dover sottostare a un ruffiano, un souteneur, una padrona; proprio per questo non piace ai tradizionali sostenitori dell'inferiorità femminile e del buon diritto della schiavitù. Una delle Dieci donne anticonformiste che raccontano la loro vita e le loro scelte a Julienne Travers nel 1968, osserva che il maschio iniziato al sesso nelle case chiuse si abitua a non tenere conto della donna, che vede come un semplice oggetto del suo sfogo e non come una persona. Ma è appunto questo che piace a molti uomini. Due casi, tra i tanti della cronaca, danno fiato alle trombe della nostalgia. Nel 1959 un ingegnere milanese irreprensibile, Roberto Dalla Verde, confessa di avere assassinato Paola Del Bono, che «batteva» viale Maino. Dopo dodici mesi di galera, Dalla Verde viene prosciolto. Ha infatti ritirato la confessione, che sostiene di aver pronunciato sotto l'effetto dello stress, del superlavoro e dell'alcool. E intanto molti si domandano di nuovo se non era più sicuro per le prostitute esercitare il mestiere al riparo delle case e non in mezzo alla strada, sotto l'ala di un protettore invece che da sole e allo sbaraglio. Nel 1961, quando scoppia lo scandalo Fiore, si vede bene, d'altra parte, che la prostituzione organizzata è capace di risorgere, anche se non più come un'impresa di Stato ma come un'iniziativa privata. Maria Annunziata - detta Mary - Fiore, una piacente formosa agrigentina che a Roma possiede un negozio di scarpe e l'istituto di bellezza Jeunesse, mette in piedi un giro di ragazze per clienti danarosi, e fa affari d'oro. Arruola nel Nord Europa le giovani, attirate a Roma con il miraggio del cinema. Costano, come rivela il settimanale scandalistico «Lo Specchio», un milione al colpo. Giorgio Nelson Page, direttore del giornale, tuona che si tratta di una «clamorosa storia di vizio che l'opinione pubblica ha il diritto di conoscere», e fa parlare Hanna Rasmussen, una bionda danese, figlia di un pastore protestante, ormai decisa a vuotare il sacco. Lo scandalo, che ha qualche risvolto politico perché dovrebbe servire a «incastrare» personaggi favorevoli al centro sinistra, si spegne quando la padrona dell'impresa viene processata e condannata a tre anni e quattro mesi per sfruttamento della prostituzione. Dunque la legge Merlin, ripetono gli avversari, è servita soltanto a spostare i profitti dalle casse dello
Stato a qualche intraprendente privato, come Mary Fiore. Riscatto a suon di pallottole Il pubblico va pazzo per il melodramma, specialmente se può innaffiarlo con abbondanti lacrime per l'onore perduto della protagonista. Quando Raffaello Matarazzo presenta Catene, nel 1950, pochi ne prevedono il successo. L'improbabile trama della pellicola vuole che Rosa (Yvonne Sanson) si finga adultera per salvare dalla galera il marito Guglielmo (Amedeo Nazzari) e, poiché Guglielmo non capisce l'espediente e viceversa crede all'infedeltà, la donna perde l'onore e lo sposo, pur essendo innocente. Vuole suicidarsi, ma sarà proprio Guglielmo, illuminato e ravveduto, a salvarle la vita. L'onore, più che l'amore, è conficcato nel cuore delle masse italiche e così Matarazzo, incoronato dal successo, fa seguire a questo film altri dello stesso stampo: Tormento, I figli di nessuno, Angelo bianco, tutti di vasto e duraturo successo. Si tratta di storie ispirate all'antico principio dell'onore: se lei è pura, lui la proteggerà; inganno e malvagità congiurano a dividere gli innamorati, ma alla fine verità e decoro trionfano, anche a prezzo della felicità o addirittura della vita. Nella concezione tradizionale, non vale la pena di vivere con una macchia infame, e senza onore si può legittimamente uccidere. L'articolo 587 del Codice penale, almeno fino al 1981, tiene conto di queste arcaiche convinzioni e la giustizia, in tali casi, si fa estremamente indulgente. Subito dopo la guerra Lidia Cirillo di Torre Annunziata, trentacinquenne, spara quattro colpi al capitano inglese Sidney Lash, sposato e padre di due figli, che l'ha sedotta, e lo uccide. Dichiara che ha voluto così vendicare l'onore di tutte le donne italiane. Il Codice penale è dalla sua parte, grazie all'articolo 587, che approva il suo gesto, perché di una donna che non uccide il seduttore la gente può pensare che «era una svergognata e che se ne era andata con lui per vizio». Se invece lo ammazza, la gente le tributerà rispetto, e potrà perfino trovare un marito che sarà fiero di lei. È la pena di morte, applicata in modo surrettizio, per i seduttori, veri o presunti, per gli adulteri, per i trasgressori di ogni tipo, come dimostra negli anni Cinquanta la tragedia di Giovanna Clorinda Brignone, che ha commesso l'errore di sposare Luigi Millefiorini, un ufficiale di artiglieria, un uomo tutto d'un pezzo. Millefiorini è convinto che Giovanna abbia un amante, Leone Pontecorvo. Per chiarire la questione, da appuntamento a quelli che lui sospetta essere amanti sulla via Appia, dove uccide entrambi. Al processo, grazie ancora all'articolo 587, Millefiorini è condannato a tre anni e mezzo: un prezzo mite per due vite e una bambina orfana. Ma c'è di mezzo l'onore, che vale molto di più nella mentalità dell'ufficiale e dei suoi giudici. Nel ventennio che segue la seconda guerra mondiale, si fa sempre più evidente che esiste un abisso tra il modo di concepire e vivere gli affetti privati - e i rapporti di sesso -e le leggi vigenti, tuttavia quasi sempre vincono queste ultime, appoggiate dalla inattaccabile forza del potere e delle antiche tradizioni. Dei numerosi delitti d'onore molti italiani si vergognano, altrettanti ne vanno fieri, e la richiesta di abolire l'articolo 587 - almeno per cominciare a lanciare un segnale che il costume è cambiato e che la giustizia è uguale per tutti - viene respinta più e più volte, fino al 1981, quando esso è un relitto e ha già procurato infiniti danni. La perdita dell'onore, dunque, può essere riscattata con l'omicidio, ma anche con le nozze riparatrici, largamente utilizzate, soprattutto al Sud. Una di queste, nel 1963, viene narrata nella commedia all'italiana di Pietro Germi, Sedotta e abbandonata, un film che ha per protagonisti Stefania San-drelli e Aldo Puglisi, in cui si racconta di come un giovanotto che ha rubato la virtù ad Agnese alla fine è costretto a sposarla per le pressioni dei parenti. L'onore è salvo, però a trionfare sono la violenza sui sentimenti e l'ipocrisia. Se poi le nozze non hanno luogo, la legge è disposta a concedere il risarcimento giacché, come si è visto, la verginità rappresenta un bene giuridico. Ancora nel 1971 una donna siciliana che per quindici anni è stata legata a un uomo che non l'ha mai sposata, in seguito alla morte di lui, avvenuta nel 1965, chiede di essere compensata dell'inganno e dell'onore perduto. Dopo un lungo iter giudiziario, ottiene dagli eredi di lui una somma in denaro. Ma già nel 1976 si vede che le cose stanno finalmente cambiando: il
Tribunale di Pisa respinge una richiesta analoga - un compenso per il «bene giuridico» distrutto - perché questa pretesa, dice il giudice, fa parte di «una concezione... da ritenere del tutto superata». Come il senso del pudore, anche il senso dell'onore non è più tanto comune, la libertà e la responsabilità individuale hanno già conquistato più di una coscienza.
XIII SCHIAVI D'AMORE Nel 1947 Ugo Zatterin rivela sul settimanale «Oggi» che Maria Laura Gaino non è affatto sposata con Umberto Terracini, il quale risulta ancora coniugato con Alma Leks, e dunque il presidente della Costituente è un adultero, come la sua nuova compagna, anche lei legalmente unita a un altro uomo. In questi anni, se si applicasse davvero il Codice penale, le prigioni italiane sarebbero piene di adultere, per lo più altolocate. Palmiro Togliatti, che tanto tiene al volto per bene del Partito comunista, non può certo rimbrottare il compagno Terracini per la sua condotta immorale. Dapprima pochi lo sanno, ma poi la storia diventa di pubblico dominio: il segretario è innamorato e convive con Nilde Iotti, benché sposato con Rita Montagnana. Anche Teresa Noce è stata abbandonata dal marito Luigi Longo, che si è scelto per compagna Rina Picolato. Gran parte dello stato maggiore del PCI, insomma, vive in condizioni di irregolarità matrimoniale, ed è fin troppo facile accusare tutte queste persone di immoralità proprio perché sono comunisti. I traumi dell'esilio, della clandestinità, della guerra hanno messo sottosopra le famiglie di chi ha attraversato la dittatura e il conflitto non al riparo del conformismo e della prudenza, ma esposto al vento dell'incertezza e della precarietà. Il che spiega perché numerose unioni, nell'ambiente dell'antifascismo, si sono dissolte. E anche negli anni a venire, molti matrimoni di gente comune subiranno una sorte analoga. Oltre ai traumi della dittatura e della guerra c'è dell'altro a mettere in pericolo la stabilità del matrimonio. Esso è reso più fragile proprio dall'amore, che è ormai il suo pilastro. Ma si tratta di un sostegno ben fragile, soprattutto in un'epoca in cui si vanno affermando i diritti del singolo e delle donne in particolare. Basato com'è su un solo sentimento, e per giunta tra i più mutevoli, il matrimonio fatica a stare in piedi per la durata dell'esistenza. Niente travolge più dell'attrazione, tuttavia niente è più distruttivo di un'attrazione finita. E non basta: le condizioni oggettive della vita dal 1945 in poi congiurano anche loro a minare la solidità coniugale e familiare. Per tutti l'esistenza è diventata meno stabile, più ricca di colpi di scena, i destini individuali e della coppia possono cambiare improvvisamente, come accade durante la guerra, oppure lentamente, come avviene durante il miracolo economico. Se c'era una volta la famiglia patriarcale, dove l'affetto si intrecciava con le ragioni del reddito, del lavoro, della sopravvivenza e del mutuo soccorso, a partire dagli anni del miracolo economico si afferma in Italia la famiglia nucleare, nella quale sono importanti, sì, le ragioni del reddito, ma prevalgono l'amore, la stima, l'affetto, la solidarietà, tutti sentimenti caduchi. Per questa ragione i rapporti intimi diventano più importanti e l'attenzione si concentra su come gestirli. Nel ventennio della restaurazione, tra il 1948 e il 1968, gli sforzi dell'autorità costituita sono concentrati sul ritorno alla normalità e alla tradizione, quindi al matrimonio religioso e indissolubile, d'amore sì, ma immune da interessi economici, al fine di creare una famiglia numerosa e solida. È evidente il rischio che, in un mondo sempre più influenzato dal modello americano, il matrimonio diventi un andirivieni di uomini e donne che sperimentano la promiscuità sessuale e le figliolanze multiple. E quindi non sempre gli sforzi dei maestri di moralità giungono al traguardo. Il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, nel 1957 scopre che nella sua diocesi due parrocchiani del quartiere della Madonna del Soccorso, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, si sono sposati con rito civile. Fiordelli scrive una lettera pastorale, che il parroco Danilo Aiazzi legge dal pulpito, nella quale si dice che quello dei Bellandi non è un matrimonio «ma soltanto l'inizio di uno scandaloso concubi-nato». Insultati pubblicamente, i due coniugi reagiscono denunciando il vescovo per diffamazione. La battaglia giudiziaria dura a lungo: monsignor Fiordelli è condannato in prima istanza e assolto in appello, e intanto Mauro Bellandi si ammala, le banche non gli fanno credito, nasce un bambino, Lelio, e la famiglia si vede sottoposta suo malgrado al pubblico esame. Il matrimonio è uno solo, quello in Chiesa, afferma
determinato il vescovo Fiordelli, ma alla fine di questo turbine dovrà prendere atto che la sua foga ha sortito l'effetto opposto a quello voluto: a Prato sono aumentati i matrimoni civili. Libertà, uguaglianza, intimità Nel 1947 Giovanni Ansaldo constata nel suo galateo che ormai sono le donne a scegliersi il marito; non è più il giovanotto a prendere moglie, anche se «in quel gioco semplicissimo e complicatissimo che è il matrimonio, la scelta assoluta dell'uomo non è mai esistita». Ha ragione Ansaldo, lo dice anche la Costituzione: uomini e donne sono uguali e la scelta reciproca è un fatto comunemente accettato (benché non da tutti praticato). Il matrimonio d'amore, come è evidente dalla Statistica sentimentale delle ragazze pubblicata da «Epoca» nel 1951, è ancora l'ambizione di ogni giovane, anche se ciò comporta l'aperto dissenso con la famiglia, che preferirebbe una «sistemazione» magari senza amore. Per le ragazze assume un peso determinante l'attrazione fisica, il piacersi, il desiderarsi, e questo non lo si nasconde più come si faceva in passato. Dagli sguardi dolci, dalla mano nella mano, dal lieve brivido di due giovani che si sfiorano, tutti possono capire che sono innamorati. I fidanzati sono ormai autorizzati - e anzi incoraggiati - a scambiarsi pegni di affetto fisici, carezze, baci, purché non si tocchi la verginità. Da loro ci si aspetta perfino che sperimentino qualche forma di intimità, perché si devono incamminare verso il matrimonio indissolubile in piena coscienza e con un amore a prova di tutte le prove. Qualcuno difende la purezza come fosse un dogma, altri ricorrono al buon senso. Osserva Ansaldo: «Se i fidanzati si dedicano con trasporto a praticare quel che in America si chiama petting; se esagerano nel senso di sedersi proprio sempre sullo stesso canapè, l'aroma del matrimonio si dissolverà ancor prima che essi vadano all'altare». Ma l'apparente ragionevolezza di queste parole vale in casi sempre più rari: quando la data è decisa e non ci sono dubbi sul progetto nuziale, che differenza fa se l'aroma del matrimonio viene assaporato quindici, venti o quaranta giorni prima o sei, sette ore dopo? L'importante è che non svanisca troppo presto. Ora tutto è affidato alla scelta e alla responsabilità dei giovani. I genitori non mettono loro alle costole zie, fratelli maggiori o chaperons, la sorveglianza materna non è più necessaria, purché la figlia abbia appreso quel che è permesso e quel che è proibito fino alla partenza per il viaggio di nozze. E c'è da scommettere che, a proposito della prima notte, essa ne sa di più della madre. Quindi, secondo il galateo, «i fidanzati possono sedere insieme sullo stesso canapè», possono andare a passeggio e perfino appartarsi per «perfezionarsi a studiare le rispettive anatomie, con tutte le agevolezze concesse in proposito dalla moda sportiva e balneare. Possono fare tutto ciò che accomoda loro». Alla vicinanza fisica, del resto, devono abituarsi presto e bene, perché gli appartamenti di città non concedono alcuna indipendenza, non riservano spazi individuali, costringono ad andare d'accordo oppure soffrire le pene dell'inferno. Nel 1963, però, Luisa Guarnero illustra alle ragazze i rischi impliciti in ogni vicinanza troppo ardita: i flirt «possono essere una buona occasione di osservazione psicologica dell'altro sesso», devono però restare nell'ambito dell'amicizia e stima reciproca, giacché «quando non c'è impegno serio, quando non vi è rivelazione di affetto sincero e profondo da una parte e dall'altra, ogni dono sensibile di sé, ogni manifestazione d'affetto, d'intimità, non solo non ha senso ed è fuori luogo, è un comportamento assurdo o leggero, ma a seconda dei casi è anche colpevole, perché è inevitabilmente una sottrazione di potenziale affettivo, di energia vitale a quello che sarà a suo tempo il vero amore... Se osserviamo la natura primordiale degli esseri viventi, sempre troviamo che l'individuo femmina attira fuggendo o sfuggendo». Bisogna poi evitare che «amici» di vario genere ti riempiano di regali «che inavvertitamente finiscono col creare all'assiduo ammiratore un credito che presto o tardi sarai sollecitata a ricompensare in "qualche" modo». Ai maschi si rivolge nello stesso anno Hervé Picard: «Tu, ragazzo, senti maggiormente il tuo corpo turbarsi». L'erezione del maschio è evidente, mentre l'eccitazione femminile non si vede e non è neppure riconosciuta dall'autore, quindi la teoria del «desiderio languido» e del «fatale egoismo» rimane indiscutibilmente in voga, proprio come ot-tant'anni prima. Il «vero uomo» di Picard è colui che si presenta puro la prima notte di nozze. Egli «lotta così per degli
anni, cinque anni, dieci anni, fino al suo matrimonio. È una lotta meritoria, talvolta eroica». Alla fine occorre perdonarlo se, finalmente sposo, è «un po' brutale, un po' troppo sensuale». La moglie dovrà comprendere, perdonare e temperarne gli eccessi. La fidanzata dovrà rifiutare il flirt, che «eccita i sensi» e conduce senza dubbio al cedimento: «Non giocate con il fuoco!», perché il piacere carnale non va confuso con l'amore. Di nuovo la donna, che non è vittima del tormento dei sensi, dovrà «resistere con fermezza e arrestare dei gesti troppo arditi». Il periodo del fidanzamento «non dev'essere dedicato a scopi prematrimoniali ma a scopi promatrimoniali», secondo Origlia, che condanna gli esperimenti, non approva affatto che i fidanzati cedano al desiderio, ed esorta piuttosto a prepararsi alla vita coniugale nel suo insieme. D'altra parte, avverte lo psicologo, le statistiche confermano che sono più felici «le coppie vergini che le coppie che hanno avuto precedenti carnali», perché «elucubrare» sugli imminenti piaceri fisici, sulle posizioni da adottare nel coito, sulle zone erogene, «è indubbiamente nocivo dal punto di vista anche dell'atto sessuale vero e proprio». Nel momento culminante della prima notte, infatti, la realtà si rivelerà inferiore alle fantasie di questi sconsiderati che hanno la fissazione del piacere carnale. Due persone, un solo letto Ne «L'amore coniugale», un racconto del 1949, Alberto Mora via espone la concezione della vita a due che si è affermata negli anni tra le due guerre e che ormai sta diventando patrimonio comune. Al protagonista sembra di «penetrare il senso di ciò che sia una passione coniugale: quella mescolanza di devozione violenta e di legittima lussuria, di possesso esclusivo e senza limiti e di godimento fiducioso del possesso stesso». Per la prima volta, forse, il senso del possesso, la devozione e la lussuria diventano una prerogativa tanto maschile quanto femminile, come conseguenza della nuova posizione assunta dalle donne nella società, e dalle mogli nel matrimonio. Queste, spiega Dino Origlia, hanno un istinto dei sensi latente e un istinto materno che, invece, è pienamente espresso (e per questo motivo, a suo parere, molte di loro sono favorevoli alla fecondazione artificiale, che consente di avere un figlio senza ricorrere all'accoppiamento). È vero, alle donne viene riconosciuta una sessualità, anche se non manca fra gli studiosi chi si mostra poco convinto. «Si direbbe che l'anatomia stessa della donna le abbia imposto il pudore quale dote essenziale», sostiene il dottor Astor nel manuale del 1964, e tale pudore è «una siepe di rose che può pungerci, ma che non impedisce il passo per entrare nel giardino dell'amore». E la «naturale» ritrosia femminile è tanto più intensa quanto più alto è il livello di civiltà e di cultura. In effetti, afferma il dottor Astor, le donne di scarsa cultura «si stordiscono e si annebbiano nel momento del sesso», cosa che non si può dire di quelle più istruite. Gli uomini, invece, sono sempre pronti alla delizia della carne, ma anche in questo caso con marcate differenze di classe: se gli intellettuali e i professionisti sono talvolta afflitti da «pensieri controproducenti» che possono intralciare l'eccitazione e il trasporto amoroso, i contadini vanno invece diritti allo scopo. Trentacinque anni dopo Theo van de Velde, il dottor Astor lo segue sulla strada dell'erotismo coniugale e istruisce lettori e lettrici sui modi per far posto alla lascivia tra le lenzuola matrimoniali: troppi mariti trascurano il preliminare del bacio, che è essenziale per la felicità sessuale. Sono utili fellatio e cunnilinctus, finora poco popolari e più praticati tra le persone colte, ma la sodomia è definita aberrante in quanto snatura il piacere della copula. Una volta premesso che è l'armonia a tenere insieme moglie e marito e non una sensualità magari morbosa, anche Dino Origlia dispensa istruzioni meticolose sulle pratiche coniugali, elencando le zone erogene femminili che, a suo avviso, sono più numerose di quelle maschili: la zona re-troauricolare, la fossetta del giugulo, il cavo popliteo; ed è «la donna stessa - se esperta - che guida l'uomo in una ordinata stimolazione». Diverso è il caso del maschio, che di erogeno ha solo i genitali e «pertanto procedono erroneamente quelle donne le quali ritengono di poter destare nel maschio il piacere sessuale accarezzandolo generosamente». Alcuni maschi amano essere graffiati, e succhiotti e morsi sono utili, ma è meglio non eccedere perché «procedendo su questa strada ci si avvicina sempre più a delle forme di stimolazione aberranti».
Una buona moglie, inoltre, eviterà di radersi perché i peli svolgono «una funzione di attrazione sessuale». Nonostante gli esperti e i loro consigli, la prima notte diventa meno traumatica nel ceto medio, ma resta tale nei ceti meno istruiti, nelle campagne e nel Sud. E quel che capita alla tredicenne Grazia e alla diciassettenne Carmela nell'immediato dopoguerra si verificherà ancora per molti anni e, forse, sarà risparmiato solo alle loro figlie. Grazia viene chiusa in una stanza con il promesso sposo sedicenne. Vi restano tre giorni, mentre i parenti aspettano il fatto compiuto per costringerli alle nozze: «Per l'unuri, ora lo devi sposare». Ma Grazia è impubere e impaurita, perciò soltanto dopo un mese il marito adolescente riesce a ottenere quel che i parenti hanno imposto ai ragazzi. Carmela invece viene gettata tra le braccia del promesso sposo che, forte del suo buon diritto, si avvicina. Ma lei lo spinge giù dal letto e l'indomani, quando una zia si reca a «vedere l'onore», cioè il sangue, lo sposo spiega che non ce l'ha fatta perché Carmela aveva paura e sentiva dolore. Il sistema antico Dopo l'esplosione di nascite che fa seguito alla fine del conflitto, sembra che l'Italia in via di urbanizzazione sia pronta a discutere di contraccezione. Tanto più che in altri paesi avanzati, proprio negli anni del dopoguerra, si compiono ricerche e passi avanti verso un controllo efficace e sicuro. Tramontati nazionalismo e razzismo, ogni idea di politica demografica è scomparsa dall'orizzonte europeo. Caso mai, è il momento di attuare una politica della famiglia, imperniata intorno all'idea di parità femminile, al progetto di abitazioni igieniche e moderne, di lavoro per tutti, di infrastrutture e di servizi sociali di massa. La pedagogia diventa una scienza divulgata, e le madri vengono incoraggiate a occuparsi ancora più attivamente dei figli, non soltanto quando sono lattanti, ma fino all'adolescenza e alle soglie dell'età adulta. Se di questo bisogna tener conto, è meglio averne pochi, coccolati, ben accuditi e ben istruiti. Ciononostante la contraccezione continua a essere proibita dallo Stato e dalla Chiesa, che liquida l'intera questione come una «profanazione della famiglia» e una «ipotesi criminosa». Ma per la gente comune il problema esiste, ed è senza soluzione. Di quegli anni l'operaia Teresa ricorda che, dopo la nascita della prima figlia, «altri figli niente. Contro le nascite, niente, il sistema antico». Non c'è altro a cui si possa ricorrere, poiché ogni metodo contraccettivo è di fatto proibito, ogni informazione bandita, i medici non sono d'aiuto e i farmacisti non ne vendono. Nel 1946 Mammolo Zamboni fa conoscere agli italiani il metodo Ogino-Knaus, che la Chiesa ammetterà soltanto nel 1951 perché - dicono le autorità ecclesiastiche - non fa violenza alla natura, ovvero - dicono i sostenitori della contraccezione - perché è l'unico che non funziona e perciò garantisce la procreazione. Zamboni afferma che «impedire l'amore fisico sarebbe assurdo, e poiché esso è necessario, noi vogliamo renderlo possibile in tutti i tempi, senza eccessi fraudolenti» e pronostica che «il sistema di Ogino e Knaus renderà le unioni più virtuose, più coraggiose, più affettuose, più strette». Nel 1947 Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria pubblicano La limitazione delle nascite, un'opera di carattere pratico per la quale vengono subito denunciati e processati in quanto viola l'articolo 553. Sono assolti, ma nel 1955, quando il volume viene ristampato, i due autori sono di nuovo denunciati, processati e ancora una volta assolti. Nel 1960 il gesuita Giacomo Perico ribadisce che un «primo dato di indiscutibile evidenza che emerge dallo studio della sessualità è la sua essenziale relazione con l'atto generativo» e quindi va condannato anche il solo pensiero di fare violenza alla natura, sia controllando la procreazione nell'accoppiamento, sia provocandola artificialmente senza accoppiamento. Ma Pio XII nel discorso alle ostetriche del 1951 dice che i coniugi sono esentati dal dovere di procreare in presenza di un «grave motivo» che può essere di carattere medico, eugenico o economico, e che l'unico metodo contraccettivo è la castità. Secondo il Papa, sbaglia chi afferma che la maternità rovina la bellezza e la salute della donna; che meno figli significa figli più sani o che la popolazione aumenta eccessivamente causando disoccupazione e
impoverimento. Eppure, nonostante soffi forte il vento della restaurazione, riescono a operare alcuni pionieri. Tanto più che la fine della guerra ha riaperto i contatti con paesi dove la contraccezione ha una storia ben più lunga della nostra. Giulia Filippetti, figlia di Angelo, l'ultimo sindaco socialista di Milano, si è rifugiata in Svizzera nel 1943 con i due figli e il marito Dino Gentili, che è ebreo, e che da lì si trasferisce negli Stati Uniti, dove rimane fino alla pace. Quando ritornano a Milano, Giulia si dedica al lavoro sociale ed entra in contatto con la International Planned Pa-renthood Federation, un'organizzazione che opera in vari paesi per la pianificazione familiare. Successivamente fonda l'AIED (Associazione italiana per l'educazione demografica) ed è tra i pochi che - contro l'articolo 553 del Codice Rocco, ancora in vigore diffondono l'idea e la pratica della contraccezione. Nel 1958 l'AIED fa circolare un manuale di istruzioni, in cui spiega quali sono i metodi più semplici, da adottare in casa. A differenza di quanto era accaduto mezzo secolo prima, questa volta l'accesso alla lettura è più vasto e la sensibilità comune è pronta per accogliere questa rivoluzione sotterranea, che finirà per separare il sesso dalla procreazione. E quando il sesso si separa dalla procreazione, non ha più bisogno di stare rinchiuso nei confini del matrimonio. Per un altro decennio tuttavia i fautori della contraccezione (come gli associati all'AiED) restano poco più di una congrega semiclandestina. Più forte della loro voce risuona l'ostinato silenzio degli avversari, schierati tra l'ostilità della Chiesa, l'inerzia dei legislatori e l'acquiescenza dei medici. Nel frattempo la contraccezione è oggetto di giudizi a priori, come quello emesso nel 1962 da Franco Guarnati, autore di Vita e igiene sessuale: qual-siasi pratica di controllo delle nascite fa male alla salute, provoca irritabilità e dolori, ma ciò che più conta agli occhi dell'autore è l'aspetto etico, poiché esso riduce «l'amplesso a puro atto criminale». In quello stesso anno ormai i socialisti sono pronti - come dice il segretario del PSi Pietro Nenni - a «entrare nella stanza dei bottoni» e un pizzico di riformismo nella compagine di governo, negli anni che seguono, si fa sentire anche sul piano della legislazione sociale e del costume. Nel 1965, è vero, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull'articolo 553, sentenzia che la propaganda dei contraccettivi «viola gravemente il naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso», e quindi ogni cambiamento è rinviato. Insieme all'articolo 553, è in vigore il testo unico di Pubblica sicurezza che vieta di «fabbricare, importare, comperare, detenere, esportare, distribuire, esporre, far circolare» tutto ciò che può essere utile a impedire la procreazione o a procurare l'aborto. Non è tuttavia impedito l'uso, e quindi, una volta aggirati i divieti, chi riesce a impadronirsi di un qualche anticoncezionale, finalmente lo può adottare. Fin dall'inizio degli anni Cinquanta i partiti di centro e di sinistra, esclusa la DC, propongono al Parlamento l'abrogazione dell'articolo 553 del Codice Rocco. Pio XII replica prontamente: il fatto che si tratti di una disposizione fascista non ne mette in discussione l'alto valore morale. Quindi è meglio mantenerlo. Nel 1966 una nuova proposta in tal senso viene avanzata dal socialdemocratico Carlo Vizzini, ma è soltanto nel 1971 che la Corte costituzionale giudica quell'articolo in contrasto con la libertà di pensiero e con la tutela della salute, che sono garantite rispettivamente negli articoli 21 e 32 della Costituzione. Visto che non si può discutere di contraccezione né praticarla, ma visto anche che gli italiani sono ormai troppo civilizzati per ricorrere all'infanticidio, l'aborto rimane una sorta di soluzione di riserva: estrema, crudele, pericolosa eppure talvolta indispensabile. Non piace a nessuna donna, ma viene largamente praticato, anche se la statistica non è mai riuscita ad andare oltre le stime e la propaganda, favorevole o avversa, ne ha di volta in volta gonfiato e sgonfiato le cifre. Il fatto che già la Repubblica di Salò avesse consentito, in casi eccezionali, di ricorrere a questa pratica, viene interpretato come un eccesso criminale delle dittature vinte, dimenticando che era autorizzato solo nel nome della purezza della stirpe, e precisamente in caso di stupro da parte dei soldati alleati, specie se neri. Per questo motivo esso era nobilitato dalla definizione di «aborto per motivi d'onore».
Nel 1951, a Milano, Carmela lo fa da sola: «Ho bevuto chicchi di caffè bolliti - perché servono le cose amare - e ho messo i piedi nell'acqua bollente», ma con questo espediente rudimentale finisce solo all'ospedale. Ed è proprio quel che ci vuole: finire all'ospedale significa salvarsi la vita e, se il medico non è troppo rigido ma comprensivo, senza essere denunciate. Fino alla fine degli anni Sessanta, comunque, si abortisce in gran segreto: neppure i familiari, neppure la più cara amica ne sono al corrente. Un triangolo virtuoso: lui, lei, il consulente Il matrimonio d'amore, che a prima vista sembra più forte del matrimonio di convenienza, ha in realtà i piedi d'argilla. Poiché la vita a due si cimenta ogni giorno con la compatibilita dei caratteri, la solidità dei progetti in comune e, soprattutto, con l'intimità tra i coniugi, se quest'ultima non funziona, che cosa fare? La questione è delicata; certo, se non c'è sintonia sessuale, gli sposi ne prendono atto quando ormai è troppo tardi: il matrimonio è indissolubile. Per sostenere il matrimonio d'amore consolidando il suo pilastro più segreto e più scabroso, e per rafforzare la famiglia contro gli assalti della modernità, è la Chiesa cattolica che intraprende la consulenza matrimoniale. E se dice «no» all'educazione sessuale, favorisce invece i progetti di educazione spirituale, per la formazione di buoni mariti e buone mogli. L'avanguardia di questa azione di sostegno è costituita da un sacerdote, Paolo Liggeri, che nel 1943 a Milano fonda l'Istituto La Casa e nel 1948 il primo consultorio matrimoniale, dove lavorano diversi medici e psicologi, che nei dieci anni successivi fornisce assistenza e consulenza a circa 5000 persone. L'iniziativa è dapprima osteggiata: gli avversari affermano che una seria educazione spirituale e una fervida religiosità aiutano ad affrontare qualsiasi ostacolo dell'esperienza matrimoniale, anche i guai più strettamente legati all'intimità. Se si scorpora il problema sessuale dall'insieme della questione matrimoniale, conferendogli un'autonomia che non merita, si finisce per attribuirgli troppa importanza e metterlo in eccessiva evidenza: esso è comunque subordinato alla procreazione. Non affrontare il problema del sesso coniugale, invece, secondo Liggeri, è fonte di debolezza sia per la vita a due che per la famiglia. Una buona intesa sessuale, osserva il sacerdote, non è garanzia di un buon matrimonio, ma un buon matrimonio garantisce che ci sarà una buona intesa sessuale. A condizione che la moglie ricordi bene che all'indomani delle nozze «non appartiene più a se stessa, ma allo sposo, i cui diritti non possono essere calpestati, solo per il disgusto di certe "materialità"» scrive Liggeri nel 1952. Il sacerdote è anche un fertile divulgatore e nel suo Problemi di vita matrimoniale del 1954 non lascia in ombra nessuno dei dubbi e quesiti che potrebbero assillare i bravi coniugi cristiani, ai quali è assegnato il compito di donarsi completamente l'uno all'altro e in questa unione totale e indissolubile creare con Dio la nuova vita. Nel perseguire tale obiettivo, gli sposi devono guardarsi da due eccessi, quello spiritualista e quello materialista. Il primo si manifesta con un'eccessiva riluttanza «all'atto coniugale», dovuta a una malintesa spiritualità che è più frequente nella donna e che mette a dura prova la fedeltà del marito. Il secondo comporta un'impostazione «eccessivamente sensualistica» del matrimonio e conduce comunque alla rovina della vita a due. Non bisogna scambiare l'ebbrezza dei sensi per la felicità vera: il sesso coniugale è un'espressione dell'amore, che deve però scaturire inizialmente dall'anima, se no è solo «sessualità animale». L'eccesso materialista è d'altra parte avvilente per la sposa, che si sente usata come un oggetto. Tali esagerazioni portano al tradimento, al dramma familiare, ai figli illegittimi e al concubinato, tutti fenomeni che «corrompono il tessuto connettivo della società». Lo ha detto chiaro Pio XII: «Si vorrebbe da alcuni addurre che la felicità del matrimonio è in ragione diretta del reciproco godimento dei rapporti coniugali. No: la felicità è in ragione diretta del vicendevole rispetto tra i coniugi». E Liggeri non contraddice il Pontefice se afferma che un matrimonio è felice «quando, nell'unione fisica, gli sposi giungono all'appagamento completo, dopo aver sperimentato simultaneamente un parossismo di piacere: l'orgasmo»; per ottenere l'orgasmo simultaneo non sono consentiti «capricciosità e tecnicismo» ma soltanto «determinati
atti». La consulenza matrimoniale, che è il risultato di una morale più disinvolta, di un'aggressione al tabù e rappresenta una risposta attiva al cambiamento sociale, alla fragilità crescente della famiglia, introduce in Italia il concetto e la pratica della qualità nella vita coniugale. Ci prova anche il mondo laico a promuovere la consulenza matrimoniale sistematica, ma non riesce a scalfire il monopolio della Chiesa. Nel 1949 Mary Tibaldi Chiesa presenta un disegno di legge per l'istituzione di consultori presso gli ospedali dei capoluoghi di provincia, i cattolici però ne sono i pionieri e mantengono il primato. A Brescia, presso l'Istituto Pro Familia, il gruppo delle Apostole del focolare vara un sistema di mutuo soccorso nell'assistenza tra coloro che hanno problemi matrimoniali. I preti esercitano inoltre forme di consulenza meno evolute nel confessionale, nella predica domenicale, nella piccola posta: puntano a rafforzare il ruolo educativo della sposa e madre, ad assecondarne i diritti purché lei non dimentichi i suoi doveri di custode del focolare. Nel 1955 un prete, Alfredo Boschi, consiglia a una moglie schizzinosa di «vegliare per non manifestare un pudore esagerato o non prestarsi che malvolentieri ai legittimi desideri di suo marito, o anche a non rifiutargli il dovere coniugale per puro capriccio o perché non le aggrada». Tra gli utili consigli impartiti alle spose, c'è quello di non ridere del marito, di non parlare in modo sarcastico, di non prenderlo in giro se lui non ha un'erezione o se non riesce a eiaculare, o ancora se ha un'eiaculazione troppo rapida. È colpa della moglie, fin troppo spesso, se lui non ce la fa. La sollecitazione ad apprezzare il sesso - che proviene prima dal mondo cattolico, all'indirizzo delle spose, e poi da quello laico, ed è valida per tutte - avrà conseguenze impreviste nel mondo femminile. Allettate e convinte, le donne si accollano quel che a loro pare una nuova conquista, il diritto all'orgasmo, e che invece si rivela ben presto un peso supplementare. Nell'arco di pochi anni, «per alcune donne la notizia che dovevano sperimentare il piacere del sesso ha semplicemente significato un nuovo onere, un dovere in più da compiere», come osserva Angus McLaren. Un triangolo vizioso: lui, lei, l'altro (o l'altra) Perché restare ancorati alla tradizione romantica - domanda Giovanni Ansaldo nel suo galateo - per la quale «ogni piccola avventura extra coniugale» deve essere «una passione travolgente e irresistibile», fra strazi, tormenti ed estasi? In questa evenienza, il vero gentiluomo si comporta con discrezione e non si confida neppure con il proprio diario. Se l'adulterio c'è, è elegante non farlo vedere. Quindi, consiglia Il vero signore, prima delle nozze «su un punto siate ben fermi: quello di riservarvi un margine minimo di quelle che chiameremo le franchigie virili», cioè un pranzo con gli amici, una volta al mese l'abitudine di dormire fuori casa, una vacanza matrimoniale, perché tutto questo giova all'unione (e alla discrezione). Il vero signore è anche di larghe vedute: per quanto riguarda le eventuali franchigie muliebri «non dovrete drammatizzare niente; è peggio. Sono cose vecchie come il mondo, e che, a parte tutte le chiacchiere... non hanno mai portato via l'onore a nessuno». Infine, il marito potrebbe anche avere la saggezza di chiedersi dove ha sbagliato. Tra i «popoli del Nord», giura Ansaldo, i mariti acconsentono alle vacanze latine delle mogli e nel Reisegeld, cioè il denaro per il suo viaggio, comprendono un «regaluccio al bagnino o marinaio» che ha procurato qualche distrazione alla signora. Il fatto è che gli italiani tendono ad avere una moglie che sia una concubina «corporalmente fedele», i nordici una compagna con la quale dividersi spiritualmente. Questa visione sdrammatizzante dell'adulterio porta la data del 1947. È un caso raro, un inconsueto punto di vista, in un paese in cui le «corna» giustificano l'omicidio d'onore. E infatti, oltre il confine del 1948, simili parole non risuonano più. L'infedeltà coniugale è una cosa seria, su questo chiunque è d'accordo, a destra e a sinistra, cattolici e laici, uomini e donne. Le adultere sono punite dal Codice penale, e di ciò non si discute perché la Corte costituzionale, fino al 1968, ripete che è giusto così. Durante la ricostruzione, la severità viene prima di ogni altra cosa. Nel corso del miracolo economico, c'è troppo da lavorare per occuparsi della questione. Negli anni della restaurazione occorre innanzitutto salvare la faccia: l'adulterio è male, un male più grande se commesso da lei.
Nessuna concessione, su questo punto, viene dal mondo laico e antifascista, che vuole un radicale rinnovamento dello Stato e della società, ma se ne infischia della vita intima e ha una sola morale, rigida e ferrea. Sono anzi proprio le donne progressiste e impegnate le più contrarie al rinnovamento del costume, perché si rifanno agli ideali del primo femminismo, al precetto mazziniano (e non solo mazziniano) che l'emancipazione deve essere meritata, e anche perché condividono il punto di vista che il sesso è un vizio, e anche piuttosto schifoso. Soltanto lo spirito merita di essere coltivato, la carne invece è giusto mortificarla. Tra Anna Kuliscioff e Gemma Muggiani, le donne progressiste dell'Italia repubblicana - prima del 1968 - si schierano più facilmente con la seconda. In tarda età, Joy-ce Lussu racconta di come ha resistito alla tentazione di un'avventura extraconiugale, e perfino senza troppa fatica. Joyce, che è sposata con Emilio Lussu, incontra nel settembre 1943 Malcolm, figlio dello scrittore Axel Munthe, bello, colto, nella singolare divisa con il gonnellino scozzese, allorché lui risale la penisola con gli Alleati. Viaggiano per un pezzo insieme, poi si lasciano. Nel 1951 lui si fa vivo, è di passaggio a Roma e vuole vederla, ma lei non ci sta, rinuncia all'incontro, che forse poteva essere un'innocente rimpatriata, non vuole raccontare bugie al marito: «Non mi sarei sentita bene affatto». Elda Mazzocchi, sposata a Enzo Scarzella, incontra il generale Pietro Pintor durante una vacanza a Gressoney nell'estate 1933 e prova un grande trasporto per lui: «Dovetti dominarmi per non lasciarmi andare subito a un gesto di simpatia». Pintor dirige la Scuola di guerra, ed è il più giovane generale d'Italia. Fanno amicizia e nel 1934 è lei a rompere la riservatezza dell'alto ufficiale e lo va a trovare al comando del Corpo d'armata di Oneglia. Gli chiede: «Lei crede nell'amicizia tra uomo e donna?», e lui risponde: «È difficile e rara un'amicizia che trascenda il sesso, specie da parte dell'uomo...» e poiché Elda insiste sull'argomento, lui conclude: «Gentile signora, un mezzo sicuro sta nell'im-parare a scrivere il Libro della rinuncia, a coltivare il senso del dovere». L'amicizia tuttavia si approfondisce, senza altre implicazioni, fino al 1940, quando Pintor muore precipitando con l'aereo vicino ad Acqui. Ci sono però anche donne che hanno un'etica meno ferrea. Luisa, calabrese, moglie di un ufficiale prigioniero, intreccia una relazione con il fratello di lui, rimasto a casa. A guerra finita, il reduce sta per tornare e lei non sa come comportarsi: «Non mi rimane che morire, uccidermi prima che egli torni, insieme al mio bambino di due anni, che non è suo». Tuttavia, secondo Orio Vergani, pochi sono i drammi familiari conseguenti al disordine amoroso della guerra, e molte vicende difficili si concludono con la rappacificazione. Per i poveri, l'adulterio ha spesso a che fare con il pane quotidiano e si scambiano le mogli per fare e ottenere favori. L'operaio Gaspare, negli anni Cinquanta, aiuta un collega e questo vorrebbe ricambiare la cortesia, quindi propone: «Ti faccio andare a letto con mia moglie» ma Gaspare, sbalordito, rifiuta. Di adulterio si piange se ci riguarda, ma si ride se riguarda qualcun altro. Nel racconto «Un caso di coscienza», Leonardo Sciascia narra dell'avvocato Vaccagnino che, in viaggio da Roma a Maddà, in Sicilia, legge su un rotocalco la lettera di una moglie che si confessa adultera. La signora risiede appunto a Maddà e da questa scoperta, dal pettegolezzo riferito dall'avvocato ai concittadini fioriscono occhiate, motti, commenti, sospetti. Ogni maschio del luogo si compiace di pensare che si tratti della moglie altrui, ma ogni marito - Vaccagnino compreso - è tormentato dal dubbio che si tratti della propria moglie. Negli anni Cinquanta gli italiani la pensano per lo più come il commissario Sciancalepre ne I giovedì della signora Giulia di Piero Chiara: «La cornutezza in fondo è uno stato desiderabile, di quiete, di serenità. Il guaio è l'incertezza, il dubbio: quando uno teme e non è sicuro». Della «cornutezza» è certa la «moglie tradita», un personaggio di Franca Valeri, che scrive una lettera alla «gentile signorina» amante del marito, per rallegrarsi di aver risolto un problema, giacché il suo Goffredo ha trovato finalmente «una donna capace di dargli quella comprensione e quello sfogo vitale che io non mi potevo più permettere di concedergli e che egli tuttavia merita». La lettera prosegue e sale di tono tra minacce, lusinghe e avvertimenti: «Sappia che mio marito è povero perché la sua ricchezza siamo noi... e che ovviamente lei lo avrà nudo». Poi però la
«moglie tradita» ha uno scatto: «Ma io devo star qui a far della diplomazia con una servacela simile... Sette... zero... due... puttana... nove... quattro... nove... puttana figlia di mignotta mascalzona e ladra». A differenza degli anni prebellici, quando ogni vizio era taciuto perché nell'Italia fascista tutto funzionava a dovere, negli anni del miracolo, la stampa è libera, come il cinema, il teatro e la televisione (salvo censure preventive e consuntive). L'adulterio si vede e da di sé un formidabile e intenso spettacolo dalle pagine dei rotocalchi. Nel 1962 il doppio gioco di Cesare Mastrella, ispettore della dogana di Terni, salta in aria. Diviso tra la moglie Aletta Artioli e l'amante Anna Maria Tommasselli, entrambe purtroppo patite per il lusso, l'ispettore se la cava sottraendo un favoloso miliardo - così calcolano i giornali e i magistrati -al suo ufficio, forse con qualche efficace protezione giacché l'ispettore è un pregiudicato e ha schivato ben ventitré ispezioni. La signora Leila Motta, invece, viene scoperta nel 1960, quando il marito Cataldo Tando, capo della squadra mobile di Agrigento, è ammazzato. L'amante della donna è un medico, Mario La Loggia, fratello dell'ex presidente democristiano della Regione e sposato a sua volta con Danika Pajovic. Nell'Italia del matrimonio indissolubile due amanti sono sempre presunti assassini e così Leila e Mario subiscono un'accusa di omicidio. Lei se la cava subito, lui è rinviato a giudizio e prosciolto in istruttoria. Iris Azzali è una bolognese ventiquattrenne che completa il triangolo nero della famiglia Nigrisoli. Lui, Carlo Nigrisoli, ha una moglie, Ombretta Galeffi, e tre figli. Ne è stufo, non si diverte a fare il medico, e cerca perciò sollievo dalla giovane Iris. Quando Ombretta muore, nel marzo 1963, per un'iniezione di sincurarina, nessuno ha dubbi, l'omicida è Carlo. Che altro può fare un adultero nell'Italia del matrimonio indissolubile? Meno brividi ma qualche lacrima vengono riservati ai lettori che passano dalla cronaca nera a quella rosa. Nel 1960, quando Maria Callas lascia il marito Giovanni Battista Meneghini, un tranquillo, agiato e melomane signore di una certa età, per Aristotile Onassis, che non si sa se abbia più amanti o più miliardi, è naturale il sospetto che nella vicenda Eros, l'amore carnale, abbia scoccato la sua freccia. Maria è innamorata, «Ari» volubile. Nel 1968, quindi, Onassis convola a nozze con Jacqueline Kennedy, dopo aver sedotto, tra le altre, la di lei sorella Lee Rad-ziwill. Come insegna Sciascia, nulla è più divertente che commentare le «corna» altrui, tanto più quando esse sono di pubblico dominio, con tanto di fotografie sui giornali, particolari di cronaca e descrizioni più che allusive. Nel 1954 sono in molti a domandarsi dov'è finita la santità del matrimonio se Giuseppe Sotgiu, avvocato, e Lilia-na Grimaldi, sua moglie, sotto l'identità posticcia di signor Mario e signora Pia, danno appuntamento a diversi partner - il ragionier Sergio, figlio del loro salumiere Gil-do, e altri uomini e donne - in una casa romana di via Corridoni, perché Liliana giochi con loro al sesso mentre l'avvocato guarda. Lo scandalo esplode tanto più forte in quanto Sotgiu, che è comunista, ha tuonato dall'aula del processo Montesi contro la corruzione e la lascivia dei borghesi. Di fronte a tali spettacoli, occorre ammettere che la santità del matrimonio è in pericolo, bisogna correre ai ripari con metodi forti. A farne le spese è il campione di ciclismo Fausto Coppi, quando lui e Giulia Occhini, la Dama bianca, si innamorano: lei lascia il marito Enrico Locatelli e due figli, lui la moglie e una figlia. Enrico denuncia la moglie e le impedisce di incontrare i bambini. Nel 1954 i carabinieri fanno irruzione nella casa di Coppi a Novi Ligure. Sono incaricati di una perquisizione, devono trovare l'adultera a letto con il campione. Ma trovano solo lui. Controllano il letto, che è largo, matrimoniale. Fausto si giustifica: mi piace dormire comodo. No, la Dama bianca davvero non c'è. È scappata attraverso la porta segreta di un armadio. Manca la prova dell'adulterio, ma Locatelli non demorde. Giulia aspetta un bambino, e progetta di farlo nascere all'estero (Faustino nascerà in Argentina), in un paese dove il campione possa riconoscerlo, poiché in Italia i neonati prendono comunque il nome del padre legale; se la madre è sposata non possono assumere il nome del padre naturale. Agli amanti viene ritirato il passaporto, e Coppi non può gareggiare all'estero. In settembre la Dama bianca
viene arrestata e, dopo quattro giorni in prigione, le viene accordato il domicilio coatto, in cambio di nove milioni e della rinuncia ai due figli. E la persecuzione - che è perfettamente autorizzata dalla legge - finisce. Si può dunque ridere dell'adulterio in casa d'altri o commuoversi alle sventure di Giulia Occhini. Ma in casa propria non si transige e non si ride affatto. Non ridono i mariti che mandano le mogli in galera e non se la spassano le mogli che finiscono in tribunale. Meglio allora mettere un cerotto sulla piaga: un'indagine Doxa del 1951 rivela che 1 donna su 10 chiederebbe la separazione, se venisse a conoscenza dell'adulterio del coniuge, e che il 37% preferirebbe invece affrontare una spiegazione per mantenere e rinsaldare l'unione. Mentre qualche debole voce chiede che la parità costituzionale dei coniugi venga applicata anche in caso di adulterio, cancellando il reato penale della moglie, nel 1954 il senatore democristiano Salari è di parere opposto e propone che l'adulterio diventi un reato anche per il marito e che le pene siano inasprite rispetto a quelle fissate dal Codice Rocco. A tale proposito Manlio Lupinacci commenta su «Epoca»: una simile legge farebbe dell'adulterio «una commedia della quale si ride e che da questo riso diventa irreparabile». Due secoli prima Voltaire aveva detto che «la società ha stipulato una convenzione segreta di non perseguire questi delitti, dei quali essa ha preso l'abitudine di ridere». Ma erano altri tempi, di tenue moralità privata e in cui la società rivendicava minori pretese sul singolo. Nelle faccende coniugali la legge e la giustizia usano gli antichi strumenti, anche se abitudini, amore, convivenze sono cambiati. Nel 1959 una moglie separata, che ha avuto una figlia, viene denunciata dall'ex marito per adulterio. Ma la bambina, asserisce lei, è nata grazie all'inseminazione artificiale, e il suo avvocato Èrcole Graziadei dichiara che «non è adulterio se non c'è congiunzione carnale». Il Tribunale di Padova, però, condanna comunque la signora, perché la fedeltà sessuale e la fedeltà genitale sono beni giuridicamente protetti, al pari dell'«ordine matrimoniale». L'inseminazione artificiale, dice la corte, è contraria alla morale cattolica, secondo la quale «l'uomo non può usare del suo corpo, dei suoi organi e del suo seme, se non in ordine al loro fine naturale, che è la generazione della prole». Non basta: il seme per la fecondazione è ottenuto con la masturbazione, che è un atto contro natura e quindi tutta questa storia è «sporca». Perché, per esempio, la donna non ha adottato un orfanello? Perché vuole avere un figlio suo? Vuole generare una creatura illegittima «per placare la nevrastenia e l'isterismo»? Il giudizio del Tribunale di Padova è accolto con giubilo dal gesuita Salvatore Lener, il quale osserva che questo caso configura la forma più grave di adulterio, in quanto contravviene al principio dell'esclusività dei coniugi nel generare un figlio. In Parlamento, alcuni democristiani, ispirati dalle parole del gesuita, propongono il varo di una legge che condanni come reato l'inseminazione artificiale. L'adulterio femminile rimane un reato. La moglie può essere punita se si congiunge con un altro, ma anche se «abbandona il proprio corpo alle voglie libidinose del correo» senza coito o anche quando «sostanzia un congiungimento carnale contro natura». Poi, alla fine, il 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale cancella il secondo comma dell'articolo 151 del Codice civile, dove si afferma che «l'adulterio del marito è causa di separazione personale soltanto quando concorrono circostanze tali da rendere il fatto grave molto ingiurioso nei confronti della moglie», e l'articolo 550, dove si stabilisce che l'adulterio femminile è reato. Ancora una volta, le leggi seguono e non precedono l'evoluzione del costume: l'adulterio può diventare un dramma familiare, semmai privato, da discutere e risolvere tra le mura domestiche, o tutt'al più con l'aiuto di un consulente o di uno psicologo, e non - come in passato -un crimine da consegnare ai carabinieri e al magistrato.
Parte quarta UN'INSIPIDA LIBERTÀ 1968-2000 Nel 1967, in vista del congresso del Partito radicale che si svolge a Firenze, viene distribuito un documento, firmato da due radicali milanesi, Luca Boneschi e Carlo Oliva, dove si legge che «la società spinge il suo autoritarismo fino a sindacare sul diritto dell'individuo a disporre liberamente del proprio corpo, a godere del piacere dei sensi». È una rivendicazione politica, questa, che porterà, alla fine dei lavori, all'approvazione della seguente mozione: la libertà sessuale è «strumento non esclusivo ma certamente indispensabile per il perseguimento della felicità». In quello stesso anno i radicali organizzano un convegno sul tema Sessuofobia e clericalismo, e il successivo - che è lo stesso dell'esplosione antiautoritaria degli studenti - un altro incontro dal titolo Repressione sessuale e oppressione sociale. Non si tratta più di vizione di peccato: per il diritto umano a una sessualità pienamente espressa combattono ormai schiere di giovani. Alla fine del settembre 1975, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, due ragazze romane, vengono rapite, portate in una villa al Circeo, seviziate e violentate da Angelo Izzo, danni Guido e Andrea Ghira. Rosaria viene uccisa, Donatella chiusa nel bagagliaio di un'automobile insieme al cadavere dell'amica, e quindi abbandonata. Cristina Simeoni ha sedici anni quando viene violentata per la strada, a Vangadizza di Legnago, in provincia di Verona. Nell'ottobre 1976 si apre il processo ai suoi presunti aggressori, Roberto Pavan di ventun anni e Remigio Masin di ventidue, entrambi incensurati. Ma è Cristina a essere tartassata dagli inquirenti: era vergine prima dello stupro? Ha resistito? Quanto? Come? Al processo di Latina, che si svolge nel giugno 1976, e a quello di Verona, le femministe e una gran parte dell'opinione pubblica protestano rumorosamente per il trattamento subito dalle giovani stuprate e sopravvissute. Un numero sempre maggiore di persone si rifiuta di credere che una donna violentata «se l'è voluta» e che è colpevole quanto l'assalitore. Nel 1999 un prete sessantanovenne, pastore d'anime in una chiesa napoletana, lascia di stucco i fedeli quando annuncia che sta per sposare una monaca filippina trentunenne, proprio quella che dirige il coro della parrocchia. Nel marzo 2000 il settantenne Ezio Palombo, parroco a Fabio, vicino a Prato, lascia la tonaca, dopo cinquant'anni, per convivere con una donna sposata e configli, della quale è innamorato. Anche per i sacerdoti cattolici, che sono vincolati al voto di castità, e i matrimoni sono chiamati a celebrarli e non a consumarli, è sempre più difficile resistere alle tentazioni carnali o accontentarsi di occasionali scappatelle. L'associazione Vocatio, che raccoglie in Italia i preti sposati, conta ormai 2500 soci. L'appagamento sessuale è a portata di mano, come non approfittarne? Le sollecitazioni a cercarlo sono innumerevoli e assedianti. I suggerimenti stuzzicanti bombardano i sensi dai cartelloni pubblicitari, dal video, dai giornali. I maschi immigrati, che arrivano in Italia da soli, privi di fidanzate o mogli, e provengono da paesi e culture pudibonde, ne pagano il prezzo. Tra le patologie rare e inconsuete, i medici ne segnalano una, che colpisce prevalentemente gli stranieri: abbuffati di immagini audaci, si eccitano, ma non riescono a trovare soddisfazione e subito dopo vengono di nuovo bombardati di immagini appetitose. Si innesca così un circolo vizioso di frustrazione e depressione che, unito alla solitudine e al senso di estraneità, genera una vera e propria malattia. Nel racconto «Viaggio» di Pier Vittorio Tondelli il protagonista è in treno, dove viene abbordato da un passeggero che gli tocca la coscia e da inizio all'approccio. I due poi vanno «al cesso che puzza e fa freddo e la luce è livida...e lui tira fuori la sua anatomia e la sbatte in faccia e dice fammi un pompino e io lo prendo in mano e in bocca e gli stringo le cosce e mi faccio chiavare in bocca ma poi lui mi distacca e dice voltati e io mi volto e lo mette dentro tutto e mi brucia, ma vengo e viene anche lui dicendo ce l'hai così tenero che sembra unafiga». Nel 2000 le prostitute sono ancora mal viste dalla società, perché offrono il loro corpo a
pagamento, ma i clienti sono persone irreprensibili e rispettabili. Hanno, di solito, il culto della superiorità maschile e un'idea precisa dell'efficienza. Dice uno di loro, giovane e sicuro di sé: «Il fatto è che un ragazzo di venticinque anni che porta fuori una ragazza per sperare di andarci a letto, ci mette un aperitivo, una cena, un weekend se ha i soldi, non lo so, comunque ci mette tempo e denaro. Con una prostituta è immediato e costa - non lo so - 30-40-50 mila lire... costa poco, ottieni quello che vuoi e te ne vai, senza nessun tipo di strascico». E il piacere, le emozioni, l'affetto? Secondo Giampietro, di trentasette anni, «c'è il disimpegno forte, non hai bisogno di piacere e non hai bisogno di dare piacere». Insomma, si tratta di una transazione d'affari tra professionisti: «Loro sanno bene che cosa vogliono i clienti, anche se i clienti non glielo chiedono. È inutile fare delle fantasie strane sulle prostitute, loro ti accontentano molto di più di quanto pensi» spiega Angelo di quarantotto anni. Alla fine del Novecento «la sessualità resta il campo dell'insoddisfazione» afferma Gerard Vincent. Nonostante la rivoluzione, malgrado l'affermazione del diritto all'appagamento carnale, la larga tolleranza e la libertà di farlo come, quando e con chi si desidera, questa rimane una fonte di delusioni. Scorporato dalla procreazione e dall'affettività, caduti - o quasi - i divieti e le paure, con l'orgasmo come misura unica ed esclusiva della prestazione, il sesso libero continua - al pari di quello vincolato e proibito del passato - a non garantire la felicità. Le donne, che più degli uomini hanno guadagnato in termini di indipendenza e di iniziativa in campo sessuale, sembrano smarrite di fronte ai nuovi diritti e doveri: conquistare o essere conquistate, farlo per amore o per sport, con «lui» solo o con chi capita? Gli uomini, vittime dichiarate di un calo del desiderio, sognano mille avventure per poi accontentarsi di un rapido coito casalingo al sabato sera o, come abbiamo visto, di una prestazione a tariffa e altrettanto veloce. Gli omosessuali, oggetto di tolleranza ma non di rispetto, se non sono perseguitati (talvolta come untori, perché si dice che diffondano l'AIDS) sono tuttavia derisi. La libertà di espressione - che una volta veniva definita pornografia - si traduce spesso in una pioggia di immagini fastidiosamente martellanti e vacue sia in pubblicità che nella letteratura, sia alla televisione che al cinema, in autobus, in casa, sulla spiaggia, a disposizione di chiunque, anche dei bambini. Eppure c'è ancora qualcuno che non scambierebbe il sesso con altri passatempi: sono le persone sopra i cinquant'anni. Cresciute con un'educazione severa e nella prospettiva di un «disarmo» ai primi capelli grigi, sembra che nel 2000 siano proprio loro, uomini e donne, che maggiormente approfittano delle conquiste della rivoluzione, perché scoprono giorno dopo giorno che il sesso lo possono godere, ancor più che da giovani. Magari con amore.
XIV TRASGRESSIONI PERMESSE Alla fine del 1999 si può imparare «come si fa» a 350 mila lire. È questo il prezzo d'iscrizione al corso «Sesso OK», organizzato dall'Istituto sociopsicologico di Udine, che propone anche una versione più economica in videocassetta. Alle fruste, staffili, cinture di castità, godemiché, palline d'avorio, classici ausili di emozioni aggiuntive delle epoche trascorse, i tempi moderni affiancano preparati (come il Viagra), vibratori e oggetti più misteriosi (come le «coppette da suzione che stimolano i punti caldi» e vengono propagandate da un settimanale femminile). Il sesso si impara, si compera, si vende, è oggetto di conversazione in ufficio e dal parrucchiere, si sciorina per pagine e pagine sui giornali, mentre si allestiscono saloni del sesso, festival, fiere e trasmissioni televisive. Nel 2000 la smania erotica - anche se non è sincera - non va affatto occultata, va esibita. Una volta sperimentata la libertà amorosa, dichiarata la parità femminile, accorciato l'orlo della gonna, istituite le classi miste, messa in commercio la pillola anticoncezionale, affermato il diritto all'orgasmo, il sesso cambia etichetta: non è un vizio. Il vizioso è chi lo evita, il malato è colui che lo nega a sé e al partner. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, gli antichi tabù cedono a uno a uno. La verginità si sublima in puro principio, la castità si tramuta in bizzarria, l'adulterio è un'abitudine come un'altra e la masturbazione è incoraggiata apertamente. Non c'è niente da vergognarsi, il sesso costituisce un sano passatempo che giova alla gioventù, leviga la pelle, cura le nevrosi, diffonde l'amore e non la guerra. Le nuove generazioni, ormai, del sesso non hanno affatto paura; anzi, conoscono il loro corpo, usano consapevolmente i diversi metodi anticoncezionali e si sposano - se si sposano - quando hanno già sperimentato la masturbazione (da soli o accompagnati), le posizioni del kamasutra, rapporti orali, anali, omosessuali con diversi partner (i maschi non frequentano le case chiuse, ormai abolite, ma possono incontrare le prostitute di strada o di appartamento). A proposito della rivoluzione dei comportamenti sessuali degli anni Sessanta e Settanta, lo storico Eric Hobs-bawm sottolinea come essa rappresenti il «trionfo dell'individualismo sulla società». Uomini e donne, infatti, sono in grado di scegliere quando e come accoppiarsi e procreare, senza tener conto dell'esigenza di perpetuare la specie (o di rafforzare la nazione, secondo quanto si affermava all'inizio del Novecento). Avere o non avere figli è una libera scelta, ma quando ognuno è libero di fare come vuole e con chi vuole, tutti si sentono più soli. Negli ultimi decenni del ventesimo secolo gli individui subiscono un controllo sociale minimo, quasi irrilevante, giacché sono pochi coloro che vengono messi al bando per il loro comportamento privato; sono assai meno vincolati dei genitori e dei nonni, ma spesso si sentono anche privi di uno scopo così saldo e preciso come quello che condizionava genitori e nonni nel passato repressivo. La felicità sessuale, che pareva a portata di mano nell'entusiasmo rivoluzionario degli anni intorno al 1968, sembra però sfuggire ancora una volta, mentre sorgono nuovi divieti e altri obblighi, così diversi dal passato ma non meno onerosi. Osserva Andre Morali Daninos: «Si sarebbe portati a concludere che la repressione indiscriminata della sessualità, così come il suo abuso, portano allo stesso risultato: uno stato di frustrazione». La sessuologia degli albori, quella tardo-ottocentesca, puntava l'attenzione sulle patologie, voleva scoprirne i segreti per non doverle più temere. Il ventesimo secolo, invece, si è interessato soprattutto di fisiologia: se il sesso non è un vizio ma un legittimo piacere, occorre conoscerlo per praticarlo con soddisfazione; poiché è un diritto e un dovere, chi non lo pratica con soddisfazione è sospettato di non essere un buon cittadino, una persona sana. A partire dagli studi di Wilhelm Reich, la sessuologia ha voluto contribuire alla felicità delle singole persone. Come? Scoprendo tutti i segreti dell'orgasmo, che è l'obiettivo finale e ultimo della pratica sessuale, in particolare da quando, negli anni Sessanta, essa è separata dalla procreazione.
Se Havelock Ellis entra nel Novecento classificando il sesso strano e diverso, William H. Masters e Virginia Johnson cavalcano la rivoluzione e lavorano per garantire l'orgasmo universale, il godimento democratico e di massa. Da quando si sposano, alla fine degli anni Cinquanta, i due ses-suologi americani si mettono all'opera. Curano dapprima i maschi afflitti da impotenza o eiaculazione precoce, poi si applicano e si concentrano, con la stessa attenzione, sulle inadeguatezze femminili, e soprattutto sulla frigidità, o meglio sull'incapacità di raggiungere l'orgasmo. Dimostrano così che il piacere delle donne non è strettamente dipendente dalle dimensioni del fallo maschile, e svelano che non esiste quella precisa distinzione tra orgasmo clitorideo e orgasmo vaginale, tanto cara a Sigmund Freud. Le loro terapie, basate su una profonda conoscenza dei meccanismi fisici e psichici del piacere e sull'osservazione di numerosissimi casi, ottengono un vasto successo e quindi fanno scuola in tutto il mondo civilizzato. Presto molte donne che non conoscono l'orgasmo, e che non si vergognano di confessarlo, prendono l'iniziativa di farsi curare da Masters e Johnson. Nel 1966 i coniugi divulgano il loro prezioso sapere nel libro Human Sexual Re-sponse, dove sostengono che l'orgasmo si può ottenere con tecniche appropriate. Non c'è dunque bisogno di sondare gli abissi della psiche, seguendo gli insegnamenti di Freud, e affrontare una cura psicanalitica che dura diversi anni e costa parecchio denaro. Esistono metodi più semplici e più concreti, è sufficiente applicarli, senza alcun timore: si tratta, in fondo, di una prescrizione terapeutica. Pur non essendo medici, i coniugi Masters si presentano come tali, vestiti di un camice bianco, pronti all'uso di macchinari sofisticati. Per di più sono una coppia sposata, e questo appare agli occhi dei pazienti come una suprema garanzia di serietà, insomma una promessa di felicità. Detersivi, automobili, vacanze ai Tropici. E orgasmo La rivoluzione sessuale non segna affatto la conquista dell'orgasmo per tutti. Tra le donne, come indicano i sondaggi e come vedremo più avanti, la percentuale di coloro che non lo conoscono affatto o lo sperimentano di rado è ancora alta. Lo rende noto nel 1976 Shere Hite, una ses-suologa americana che pubblica The Hite Report on Female Sexuality: perché per tante, troppe, l'orgasmo resta una meta irraggiungibile? La sua risposta è pienamente in linea con il vento di femminismo che soffia in quel periodo: non è colpa delle femmine, ma dei maschi, ancora frettolosi, impacciati, vergognosi. Il responsabile della frigidità è lui, ed è lui allora che deve rimediare. Da quello di fine Ottocento, scottante in quanto vizio, regolamentato e procreativo, con netti confini tra normalità e anormalità, la rivoluzione trasporta uomini e donne verso un sesso salutare e perciò incoraggiato, separato dalla procreazione, tollerante di sconfinamenti (come l'omosessualità o l'adulterio), generoso nel rappresentare se stesso (dal nudo più o meno artistico al marketing della sessuologia). Il rivolgimento, osserva Morali Daninos, poggia su due pilastri: il diritto all'amore e il diritto alla felicità nell'amore. Il primo indebolisce i legami familiari e sociali, il secondo sottolinea l'importanza dell'attrazione reciproca, mina la fedeltà e l'esclusiva, determina le condizioni per la maternità e la paternità consapevole. Ma lascia ogni decisione in proposito al singolo individuo e quindi le esperienze intime finiscono per diventare scelte di consumo, come l'acquisto di un detersivo o una vacanza ai Tropici. A fine settembre 1999 un visitatore di mezza età del Mi-sex, l'annuale salone milanese, è deluso. Sul «Foglio» scrive che gli pare di trovarsi «in un mondo tutto maschile, come in un caffè di Istanbul», che «si ha la sensazione di essere capitati in un luna park minimalista senza orpelli», che è castrante lo slogan della pornodiva «chi non viene a trovarmi nel mio stand vuol dire che ce l'ha piccolo» e che infine, a guardarsi bene intorno, «niente belle facce da frustrati, da maniaci. Facce qualunque, solo un po' accese dall'esplosio-ne di testosterone». L'eros disponibile, cosiddetto libero, ha molto meno fascino di quello proibito, un po' come ricevere un dono che ha attaccato il cartellino del prezzo. Benché diversa da cent'anni fa, l'infelicità sessuale è lì, viva e vegeta. Il cambiamento è stato lungo, tumultuoso e possente, ma un ciclo si è chiuso. Scrive Lawrence Stone ne La sessualità nella storia: «Oggi, alla fine del Ventesimo secolo, la ruota della morale sessuale ha
compiuto un altro giro, e quello in cui viviamo è un periodo di tolleranza davvero senza precedenti, come anche di sessualizzazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana, dai bagni di mare alla vendita delle automobili». Le donne sono diventate, assai più che in passato, le signore e padrone in questo campo, e possono godere dei molti risultati positivi: esse vantano maggior rispetto, sicurezza e autonomia. La felicità della carne trae beneficio dall'allungamento della vita media e dalla riduzione del numero di figli (che però restano più a lungo attaccati alla famiglia d'origine nella media italiana trent'anni, anche perché in casa possono approfittare di una libertà sessuale senza precedenti). Infine bellezza, giovinezza e libido durano decenni (e non un pugno d'anni, come in passato). Ma ciò ha anche conseguenze negative: nel giudicare se stesse appunto signore e padrone, tendono a riprodurre i comportamenti maschili tradizionali e soprattutto a distinguere tra sessualità e affettività, così il piacere carnale viene spesso vissuto come sfogo e l'accoppiamento come esercizio atletico. Non appena le donne affermano un comportamento più attivo nella sfera del sesso, intorno agli anni Ottanta, gli uomini cominciano a denunciare un calo del desiderio. Quando le donne si sentono poco desiderate reagiscono con aggressività. La sessuologia contemporanea si occupa soprattutto di prestazione e consumo. Come praticare il sesso per giungere all'orgasmo è una delle principali preoccupazioni insieme ai metodi per ottenerlo: con il coito, la masturbazione, il cunnilinctus, la fellatio, non importa se questi metodi erano altamente condannati cent'anni prima. Nel 1999 Camille Paglia si augura «che quella della carnalità e della liberazione di ogni istinto sia la strada che tutte le donne vorranno seguire nel prossimo secolo». Ma come raggiungere il traguardo? Intanto, non dimenticare che «a letto quello che funziona, ed eccita uomini e donne, è il reciproco consenso a giocare ruoli tradizionali. Che, in fondo, hanno origine in una realtà biologica». Quindi, per trovare la felicità sessuale, non ci sarebbe che tornare all'uomo dominatore e alla donna preda. Si tratta forse di una strada più saggia, più autonoma dallo squallore consumistico che è l'erede del sesso regolamentato. L'educazione sessuale «fai da te» C'è poco da discutere di educazione sessuale: chi ormai nega che sia utile e doverosa? Tuttavia in Italia finisce per prevalere il concetto del «fai da te»: chi vuole saperne di più si rivolge all'esperto, acquista l'enciclopedia a dispense, domanda a un amico oppure impara con la pratica. Al silenzio e al pudore dei tempi passati, nell'arco di trent'an-ni, si è sostituita la divulgazione, ma è cresciuto anche il chiacchiericcio, il «sentito dire». Del resto, non c'è neppure bisogno di guardarsi intorno, il sesso raffigurato, spiegato, insegnato è comunque a portata di mano. Quando spuntano nelle edicole i primi giornali «per soli uomini», i ragazzi tirano a sorte chi di loro debba entrare, chiedere, pagare per la preziosa merce. Rozza, qualche volta volgare e violenta, quella del pornogiornale è pur sempre una forma di conoscenza. Tant'è che perfino le riviste impegnate e progressiste scelgono la strada dell'audacia già nella scelta delle copertine, sfidano le convenzioni, tentano di rovesciare i silenzi clericali. Su uno di questi giornali, «Abc», Renata Pisu risponde ai dubbiosi del sesso. Un ventiduenne lombardo chiede aiuto perché teme di avere un pene troppo piccolo e vuole un'informazione: esistono creme capaci di gonfiarlo? Un cinquantenne sposato, che si masturba tutti i giorni, è perplesso: è vero che questo nuoce alla salute? Un adolescente vuole sapere come si chiama quella «sostanza biancastra» che esce quando «si mena il coso». È infelice il trentenne, padre di cinque figli, soddisfatto dei suoi rapporti con la moglie: infatti, quando va con le altre donne, dice, «non si indurisce l'arto». Un diciottenne napoletano confessa di provare «attrazione per le donne limitata alla zona rettale» e quindi non combina nulla perché la vagina non lo stuzzica affatto. Per un po' di tempo, all'educazione del silenzio si sostituisce una turbinosa confusione. Negli anni Settanta un trentenne romano confessa di non sapere nulla sul sesso: è cresciuto in un collegio di preti dove «ci furono fatte tante conferenze aventi per scopo un'educazione sessuale, in cui non furono tuttavia usati mai termini sufficientemente precisi e soprattutto non fu spiegato affatto come dovesse avvenire il rapporto», così ora lui è a terra, non sa da che parte
cominciare. È una faccenda importante, ormai, intendersene di sesso, se non altro perché i mass media esortano i giovani ad affrontare il matrimonio nella piena consapevolezza dei diritti e dei doveri che esso comporta, dell'importanza di tale passo, della necessità di un'intesa fisica e spirituale tra i coniugi, e così via. Una delle Dieci donne anticonformiste di Julienne Travers ritiene che la causa dei sempre più frequenti fallimenti coniugali sia appunto l'impreparazione: «Si crede che la vita matrimoniale sia una cosa diversa, cioè sia una continuità dei rapporti che si hanno tra fidanzati e questa non è la base più solida per poter avere un matrimonio sicuro». Poi, però, diventa popolare anche in Italia Benjamin Spock, molto letto e citato tra i baby boomers. Americano, sostenitore e divulgatore dell'educazione permissiva, il dot-tor Spock ha insegnato a un paio di generazioni la pedagogia e la pediatria antiautoritaria. Quanto al sesso, contro ogni forma di autorità suggerisce ai genitori di non aver timore né remore, e di parlarne ai figli fin da piccoli. Al bambino del suo «coso», alla bambina di come cambierà il suo corpo; meglio se il padre si rivolge al maschio e la madre alla femmina, perché ognuno di loro conosce direttamente il problema. L'importante, comunque, è non tacere, non essere imbarazzati, evitare il tono da «conferenza solenne», che trasmette un senso di disagio. Con la lezione del dottor Spock si scioglie un'antica contraddizione: i genitori posso no ora dire l'intera verità ai figli per quanto la conoscono -mentre in passato padri e madri potevano spiegare come nascono i bambini, ma non dovevano lasciarsi andare ad alcuna rivelazione sui piaceri del sesso. Dopo il 1970, dapprima timidamente e poi a valanga, si moltiplicano le fonti d'informazione. Ai ragazzi si offrono antiche opportunità - il romanzo proibito, che papa' tiene nascosto dietro ad altri libri, i capolavori della pittura, le nozioni sussurrate dal compagno di scuola -, ma anche nuove, come i supplementi speciali delle riviste, le dispense, i manuali della felicità sessuale, il cinema soft porno, la televisione, dove signore bionde o dottori dai capelli argentati indottrinano sull'«atto di penetrazione», sull'«adulte-rio che fa bene alla coppia», su vaginismo, impotenza, fare l'amore in piedi e farlo in modo strano. L'offerta di istruzione, sterminata e incontrollata, avviene attraverso un'ampia gamma di stili e toni. A un estremo sta, per esempio, la seriosità di un'enciclopedia medica, la quale insegna che il rapporto sessuale è uno solo, e cioè l'«atto nel quale il pene dell'uomo viene introdotto nella vagina della donna con il consenso e la collaborazione di quest'ultima», non senza la precisazione che tuttavia «alcuni usano questo termine in senso più ampio, per indicare un numero molto più vasto di attività sessuali». All'altro estremo, in un romanzo come Ti prendo e ti porto via del 1999 di Niccolo Ammaniti, Flora e Graziano fanno l'amore nell'acqua calda e fango di Saturnia: «Si accoccolarono su dei massi sommersi. Le prese la mano e se la mise sul cazzo.... Ce lo aveva in mano. Era duro e grande e con la pelle morbida. Le piaceva toccarlo. Le sembrava di avere tra le dita un'anguilla. Lo accarezzò e la pelle si abbassò scoprendo la punta». E poi «si sentiva riempita, questo sì, e quel palo di carne ora le premeva dentro ma senza farle male». Quindi seguono le istruzioni pratiche per il sesso anale: «Voleva sverginarla davanti e di dietro. Voleva il culo di Flora Palmieri. Le allargò le chiappe, ci sputò sopra e spinse il cazzo in quella stella contratta». L'indecenza è finita I maschi italiani, adulti intorno al 1968, provano inquietudini simili a quelle dei bisnonni. Se questi ultimi si sentivano assaliti - e quindi ingolositi - dalla freschezza delle bambine, gli altri sono assediati da immagini femminili stuzzicanti: una giovane in bikini sulla spiaggia, una coscia poco coperta dalla gonna, una maglietta troppo aderente. Si consultano con l'esperto, lo psicologo, il confessore: sarò anormale? Al bar, al ristorante, in ufficio, al cinema e perfino nel salotto di casa all'ora della televisione, lui, il «coso», si erge fiero, pronto e - ciò che è peggio -visibile. A difesa di questi maschi spaesati, occorre ammettere che il pudore non è più quello di una volta: la TV di Stato- che negli anni Cinquanta controllava immagini e linguaggio (proibite le gambe, vietato dire «sostituta» che può suonare come «prostituta»), in quarantanni ha consentito lo spogliarello, la sfilata di moda in nudo e seminudo, il linguaggio sboccato, il bacio con lingua e saliva, e anche il convenzionale amore tra le lenzuola.
Il crollo della roccaforte del pudore comincia tra il 1958 e il 1959, al culmine del miracolo economico, quando due fatti di cronaca rompono il ghiaccio del comune senso del pudore: il 5 novembre 1958, durante una festa per il compleanno di Olghina di Robilant, al ristorante romano Rugantino la ballerina turca Aiché Nana si toglie i vestiti, a uno a uno, e la biancheria, fino a restare con uno slip nero. Come ogni evento mondano della capitale, anche questo si svolge alla presenza di paparazzi. Le foto vengono pubblicate su «L'Espresso», con un «francobollo» nero a coprire il seno della spogliarellista, ma un tabù è infranto: il nudo della cronaca è offerto al pubblico. Ormai, la gente può anche pagare il biglietto per vedere una donna togliersi i vestiti: nell'estate 1959 il teatro Alle Maschere di Milano mette in scena lo striptease di Coccinelle, una francese abbondantemente dotata che dichiara di essere un uomo traslocato nell'altro sesso. Ci sono tutti gli ingredienti per un brivido dei sensi, e anche questo tabù esce stracciato dal successo dell'iniziativa. Il nudo - o quasi -femminile conquista la stampa e il teatro. Nel 1962 Umberto Eco scrive un saggio dal titolo Industria e repressione sessuale in una società padana dove, nello stile degli antropologi, da conto dei riti ricreativi compiuti dai milanesi. Tra questi, lo spogliarello: «Una danzatrice appare lubricamente coperta di indumenti e gradatamen-te si spoglia mostrando le proprie membra, in modo che l'osservatore è portato a pensare che si stia preparando qui una risoluzione catartica dell'emozione, che dovrebbe sopravvenire quando la danzatrice si mostrasse pudicamente nuda». Ma ciò non accade, perché lo spogliarello è consentito fino al reggiseno e alle mutande. E quindi, conclude l'autore, «gli indigeni escono da questi luoghi ancora in preda alle loro turbe», frustrati e insoddisfatti. Non tutti hanno voglia di scherzare, quando si tratta di pudore. Più o meno nel periodo in cui Eco racconta la frustrazione del popolo padano privato del nudo integrale, il procuratore generale Pietro Trombi inaugura l'anno giudiziario occupandosi di critica cinematografica. In un certo senso, dice il magistrato, c'è da compiacersi per «un ripensamento lodevole» da parte degli autori, che hanno «abolite o ridotte al minimo quelle sequenze niente affatto funzionali rispetto alla tematica del film, quei baci saltellanti che non risparmiano un centimetro quadrato dell'epidermide facciale del soggetto maschio o femmina, quei baci a mordicchio, a risucchio, a ventosa, ad aspirapolvere, così stucchevoli». Come Eco, anche Trombi ha studiato a fondo il problema del pudore, ma è evidente che i due sono giunti a conclusioni differenti. Nel settimo anno di vita della televisione italiana, il 1961, compaiono sul piccolo schermo non uno, ma due paia di gambe lunghe e affusolate, che appartengono alle gemelle Alice ed Ellen Kessler. Abbastanza improbabili, quasi spaziali, e tuttavia gambe femminili. È una rottura con le censure del passato. Ormai la vista del corpo femminile è consueta, ma quella dell'amore fisico non ancora, finché nel 1968 Jane Fonda nei panni avveniristici di Bar-barella si spoglia al cinema in assenza di gravita e sfida le reazioni maschili, poi recita un orgasmo. La pornografia è proibita, perseguita, eppure esiste e fa affari. Nel 1972 esce negli Stati Uniti Gola profonda, pellicola in cui Linda Lovelace recita la parte di una ragazza con una gola paradisiaca per il sesso orale. Turisti e uomini d'affari di ritorno dall'America si pavoneggiano, raccontando di aver visto l'ardita pellicola o, per dimostrarsi disinvolti e scafati, si confidano con gli amici: «Oh, niente di particolare... Piuttosto noioso». Da noi il film non viene distribuito. Nel 1977, quando il monopolio della RAI è ormai in dura crisi per la nascita di numerose emittenti private, spunta lo spogliarello TV. A notte fonda, per soli adulti, lo strip-tease è un modo efficace per catturare spettatori. Ma è un decennio più tardi che lo spogliarello si piazza in prima serata ed è offerto alle masse senza distinzione di sesso: «Colpo grosso», presentato su una rete privata da Umberto Smaila, prevede che siano i concorrenti al suo quiz a farlo, cioè cassiere, impiegati, venditori di commercio, casalinghe, in caso di risposta sbagliata alle varie domande proposte dal conduttore. Tra gli articoli esibiti dalle televendite, negli anni Ottanta e Novanta, si contano anche le ragazze, che mostrano ogni loro grazia in dettaglio, e che si segnalano spesso come partner per incontri telefonici, in cui parlano di sesso, eccitando il
maschio all'altro capo del filo. Il comune senso del pudore si riduce ogni giorno di più e si allarga invece l'area dell'audacia e della provocazione. Dalla fine degli anni Sessanta, come abbiamo già visto, nascono in Italia i figli di «Playboy», la rivista americana inventata da Hugh Hefner del nudo erotico ma non pornografico. In edicola si trovano quindi anche da noi giornali cellofanati «per uomini soli o solo per uomini (letti ovviamente solo da donne)», come afferma Umberto Eco in Diario Minimo. Prodotti caserecci, i figli di «Playboy» mostrano femmine spogliate in posa sexy, ma non indignano più nessuno e non vengono perseguiti dalla legge. Qualche volta accompagnano le immagini storie che, come annota Camilla Cederna, sono sempre le medesime, di gusti arditi e promiscui, in grado di solleticare le fantasie sessuali più banali della gente comune: «La bella olande-sona si trasforma in garbata geisha giapponese per massaggiare, danzare e quindi gratificare il cliente col finalino a letto». Sono gli stessi temi ed eventi della pornografia classica: la studentessa di filosofia che, invece di pensare alla «tesi del cavolo», è indecisa tra il suo solito ragazzo o un suonatore di piffero conosciuto al mare, oppure la ragazza di buona famiglia che alla vigilia del matrimonio conveniente scappa con una compagna di studi, o la segretaria che diventa padrona ed è pronta a maltrattare il principale. Giarrettiere, fruste, stivali alle cosce, reggiseni di pizzo nero o rosso sono il condimento usuale di queste pietanze molto gradite a un pubblico costretto da sempre nell'angusto recinto del comune senso del pudore. Con gli anni Settanta perciò la marcia dell'indecenza si fa più rapida. Carta stampata, cinema, televisione non negano fremiti sensuali a chicchessia. Anche i settimanali per famiglie hanno bisogno di una copertina sexy. «Panorama» e «L'Espresso», due giornali che negli anni Settanta e Ottanta sono entrambi schierati a sinistra, per il progresso, l'uguaglianza, la democrazia e la parità dei sessi, non escono neppure una settimana senza il nudo in prima pagina. Potrebbe essere giusto ritenere che tutto questo porta a un decesso della pornografia (che, stando al significato originario della parola, è letteratura da puttane, buona per eccitarsi). Il decesso si colloca nell'ultimo decennio del Novecento, quando cade ogni barriera che divide le forme di espressione pulite e pudiche da quelle sporche e oscene. Poiché giornali, cinema, televisione e da ultimo anche internet possono alludere al sesso o rappresentarlo direttamente, dove corre il confine della sconcezza? La pornografia è morta, proprio perché si trova dappertutto. Perfino nella letteratura: in «Posto ristoro», Pier Vittorio Tondelli non risparmia nessun dettaglio per raccontare come Giusy, un piccolo spacciatore, vuole soccorrere Bibo, che soffre per una crisi di astinenza, e lo aiuta a masturbarsi, in un'operazione narrata alla frazione di secondo. Non è immune da sboccatezza e volgarità neppure la vita politica e parlamentare. Per ragioni di dissenso politico, nel 1998 Umberto Bossi esprime pesanti commenti sull'evidenza del seno di Alessandra Mussolini. Lei replica con dichiarazioni alla stampa improntate a un'uguale eleganza. «La smetta di occuparsi delle mie tette... Se io ho le tette, a lui mancano certi attributi. A Mantova ha dovuto organizzare un comizio in un bocciodromo per raccattare le palle in giro». Ma Bossi tiene a riservarsi l'ultima parola: «La ragazza non è male. Chissà se almeno Mussolini ha fatto qualcosa di buono lasciandoci questa eredità». Nel frattempo si sono adeguati al nuovo senso del pudorè perfino i comunisti, una volta così puritani. Al festival de l'«Unità» del 1992 a Reggio Emilia, il comico Patrizio Roversi da ai compagni lezioni di sesso: il pubblico ascolta l'apoteosi della masturbazione, risolve quiz erotici, acchiappa i preservativi distribuiti da Carla Corso, leader delle prostitute libere. La quale si impegna a offrire una dimostrazione di come si infila l'oggetto, e ne srotola uno sul microfono. Fino a un certo punto, le attrici che hanno intrapreso la loro carriera spogliandosi si vergognano un po' di simili esordi e si difendono dicendo: «Che male c'è? Era un nudo artistico!». Poi, ogni giustificazione è inutile: dopo la morte della pornografia, qualsiasi nudo è artistico, non occorre appellarsi a nobili moventi per difendere la propria reputazione. In questo
campo, il Natale 1999 segna il trionfo morale dei camionisti, derisi per decenni perché affiggevano ai rispettivi automezzi foto di donne discinte. Il calendario della rivista «Max», che raffigura sulla pagina di ogni mese del 2000 Sabrina Ferilli svestita in «posa artistica», vende d'un colpo un milione di copie (e non tutte a camionisti), battendo il calendario di «Panorama» che offre dodici Alessia Marcuzzi in altrettante «pose artistiche». In controtendenza con i calendari delle dive, un'azienda friulana progetta un'iniziativa analoga, che però ha per modelle le signore della porta accanto. Quando la annuncia pubblicamente, si presentano subito ben 1200 candidate. Come in passato, sono gli usi che disegnano i costumi, ma è il magistrato che difende il pudore. Quindi, nel sovvertimento delle antiche regole etiche, il verbo della Cassazione illumina la rotta al pari di un faro. Nel 1999, per esempio, la Corte proibisce ai maschi di stare nudi sulla spiaggia, e specifica: anche se i genitali sono «in stato di quiete». Meglio un pene rigonfio sotto gli slip che qualche centimetro di pelle virile all'aria aperta. Eppure, in questo caso, la sentenza di primo grado aveva stabilito che lo «stato di quiete» annullava l'eventuale indecenza. La giurisprudenza vuole che sia consentito esibire un pene finto perché «non offensivo del comune senso del pudore». Il seno femminile, sentenzia ancora la Cassazione, può restare scoperto perché è entrato nel costume (ma non è forse entrato dopo ripetuti divieti?). E l'edicolante può esporre locandine di videocassette audaci, perché anche le cassette sono entrate nel costume. L'avvocatessa può indossare la minigonna nell'esercizio della sua professione, e accoppiarsi in automobile non costituisce reato, afferma, ancora in successive sentenze, la suprema magistratura. Lo spogliarello femminile - che a fine secolo è completo: se ne vanno anche le mutandine, gli slip, il tanga - è uno spettacolo come un altro, affermano i giudici, ma se la diva cosparge di gelato il torace di uno spettatore e poi lo lecca, a loro parere offende la decenza.
XV SENZA CONSEGUENZE Nel 1950 Margaret Sanger, pioniera americana della contraccezione, incontra Gregory Pincus, un chimico impegnato nello studio degli ormoni. Lo incoraggia a proseguire e gli raccomanda di occuparsi del controllo delle nascite, di cercare un metodo di contraccezione efficace, sicuro e di massa. La Sanger, nata nel 1879, ha dedicato la vita a questa causa, con una particolare attenzione alla salute e al benessere femminile, ma anche alle dimensioni della famiglia, convinta com'è che i figli vanno accuditi ed educati uno per uno, e che non ci si può prendere cura di uno stuolo di bambini. Non ha avuto i riconoscimenti che sperava, anzi è stata ostacolata e perseguitata; all'indomani della seconda guerra mondiale, ormai anziana, non vuole lasciare incompiuta la propria fatica. Quando entra in contatto con Pincus, spera che sia lui ad approdare al risultato tanto sperato. Pincus è partito dalla scoperta, fatta in Austria nei primi anni del secolo, che gli estrogeni inibiscono l'ovulazione, ma l'obiettivo della sua fatica almeno fino all'incontro con la Sanger -non è strettamente quello della contraccezione. La ricerca non compie subito miracoli ed è solo dopo sei anni che la prima rudimentale «pillola di Pincus» viene sperimentata sulle donne del Portorico. Tra coloro che sono impegnati in questo programma di controllo delle nascite e di sperimentazione farmacologica, c'è un cattolico, John Rock, il quale appare molto ottimista sui risultati: finalmente ci siamo, ecco un metodo naturale di controllo delle nascite, la Chiesa non potrà che dirsi d'accordo. Nel 1962 la pillola anticoncezionale entra in commercio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Soltanto nel 1971 la vendita di anticoncezionali viene permessa anche in Italia, benché la pillola sia già in commercio da anni, ma sotto mentite spoglie. Per non violare l'articolo 553 del Codice Rocco, infatti, il foglietto d'istruzioni che accompagna il medicinale recita: «Il preparato è efficace nella cura delle dismenorree essenziali, nelle dismenorree mestruali, nelle dismenorree intermestruali, nelle menometrorragie funzionali, nelle ipermenorree» e altro. Tutte bugie, è un anticoncezionale, ma non bisogna incorrere nei rigori della legge. E così quando, nel 1962, Pincus è a Milano per partecipare a un convegno scientifico, i giornali danno conto dell'evento con estrema cautela: anche solo un'intervista, un articolo, un commento potrebbe inciampare nei divieti dell'articolo 553. Prima del 1971 le donne che l'assumono, ancora pochissime, sono costrette a farne contrabbando attraverso la frontiera svizzera o francese, e qualche volta si vedono sequestrare la merce che hanno acquistato per uso proprio e per le amiche. Comincia così una nuova epoca. Questa è davvero una rivoluzione: nei millenni della storia umana, mai prima d'ora il sesso era stato separato dalla procreazione con tanta nettezza. Le conseguenze sul costume e sulla morale sono molte, immediate e profonde. Riceve grande impulso una tendenza che si era manifestata con l'industrializzazione: le donne, grazie al controllo della fertilità, lavorano sempre di più fuori casa. Si rafforza, inoltre, la parità in seno alla famiglia, poiché le mogli non sono più incatenate alla maternità dell'obbligo, ma possono scegliere quanti figli avere e quando, con o senza il consenso del coniuge. Sono loro, proprio loro, a decidere, visto che la contraccezione è una tecnica ormai passata dalla responsabilità maschile a quella femminile (nessuno può impedire a una donna di adottare la pillola o di far uso del diaframma o della spirale). Perde peso, dopo il matrimonio di convenienza, anche il matrimonio d'amore: che bisogno c'è di sposarsi se si possono soddisfare le necessità carnali in tutta sicurezza -fuori dal sacro vincolo? Alla fine del secolo, dopo le nuove conquiste sulla fecondazione assistita, un altro passo è compiuto: la procreazione viene separata dal sesso. Il divorzio è completo, il sesso è ormai solo piacere, i figli si possono ottenere in tanti modi (non solo accoppiando un maschio e una femmina). Sono passati circa sessant'anni da quando lo sconsolato Freud, ormai deciso alla castità coniugale, aveva concluso che difficilmente si sarebbe trovata una soluzione al controllo delle
nascite. E invece fin dagli anni Trenta la ricerca scientifica è arrivata a individuare e isolare gli ormoni femminili, il primo passo verso la creazione della pillola di Pincus. Nel 1964 perfino un manuale di istruzioni come Erotismo e sessualità del dottor Astor afferma che la sessualità umana non ha una funzione a sé e non è neppure una funzione di riproduzione. Il sesso, si legge nel volume, mette insieme due persone per lo scopo egoistico del piacere. Questa è una novità assoluta, un rivolgimento completo rispetto al passato. Eppure la resistenza a prendere atto che le cose stanno cambiando non manca. In Amore, matrimonio, felicità, del 1963, Hervé Picard, in linea con gli insegnamenti della Chiesa, ancora una volta condanna come «frode» qualsia-si metodo contraccettivo diverso dalla continenza - le lavande spermicide, la «guaina di gomma», il coito interrotto (pur illustrando il metodo OginoKnaus). In questo decennio, molti sacerdoti negano l'assoluzione alle penitenti che confessano di aver praticato la contraccezione, ma le fedeli disubbidiscono sempre più frequentemente ai loro insegnamenti, anche perché l'atteggiamento generalmente riformista del Vaticano ha giustificato l'attesa di una più larga autorizzazione al controllo delle nascite. Una frode? Macché, è un'esigenza umana e sociale, cui la scienza ha trovato una risposta. Su tale questione viceversa la Chiesa mantiene la propria posizione, sia pure con qualche apertura: nel 1963 la Commissione pontificia nominata da Giovanni XXIII si pronuncia per un «uso responsabile dei contraccettivi». Nel 1964 Paolo VI annuncia che si ritira a Castelgandolfo per meditare su un problema così sentito e così scottante come il controllo delle nascite. Nel 1965 sembra che sia arrivato il momento di discuterne in seno al Concilio Vaticano, il quale, però, viene chiuso senza che l'argomento sia stato affrontato. Nel luglio 1968 il Papa pubblica l'enciclica Humanae vitae, che condanna la contraccezione. È un passo solenne, che non guadagna alle autorità cattoliche nuova benevolenza, almeno nei paesi avanzati. A questo proposito osserva Eric Hobsbawm ne II secolo breve che «l'autorità materiale e morale della Chiesa sui fedeli scomparve nel buco nero che si aprì tra le regole di vita e di moralità della Chiesa e la realtà della condotta pubblica e privata alla fine del ventesimo secolo». Una precauzione, non una frode Negli anni Settanta, invece, la rivoluzione si diffonde a macchia d'olio: tutto il mondo civilizzato accetta in linea di principio il controllo delle nascite, e una parte crescente della popolazione la pratica. In meno di un secolo, coito interrotto, aborto e infanticidio, che erano i principali e rudimentali sistemi per evitare le conseguenze del peccato sessuale, arretrano di fronte a metodi più sicuri, meno dannosi e meno criminali. La contraccezione si afferma come parte integrante delle scelte esistenziali, proprio come avevano sperato gli igienisti e i riformatori all'inizio del secolo, che però non erano riusciti a raggiungere risultati concreti. L'inchiesta Shell del 1973, dal titolo La donna oggi in Italia, scopre che due terzi del «sesso debole» hanno adottato un sistema per limitare le nascite; tra loro, le più numerose lavorano, e hanno tra i 36 e i 45 anni. In questo periodo, in cui la pillola debutta ufficialmente nel nostro paese, il coito interrotto conserva però il posto d'onore tra le possibili soluzioni anticoncezionali: più di metà delle interpellate lo ha scelto (o lo ha deciso il marito), mentre il 44% preferisce l'Ogino-Knaus, il 27% il preservativo e solo meno di un quinto si affida alla pillola. È quasi sconosciuto, e pochissimo usato, il diaframma. In questo decennio le donne conquistano il pieno controllo del loro corpo, come grida lo slogan femminista «L'utero è mio e me lo gestisco io». I maschi non sono più padroni delle femmine, del loro corpo, della loro sessualità e della loro fertilità. Al pari dell'orgasmo, anche la contraccezione passa sotto la giurisdizione femminile, e nasce una sorta di repubblica che è autonoma dai mariti, dai medici, dai sacerdoti e dalle mamme. Nel 1971 esce in America Our Body, Ourselves, un manuale di anatomia, igiene e sesso progettato, scritto e divulgato da un collettivo femminista di Boston. Viene tradotto in italiano nel 1974 con il titolo Noi e il nostro corpo, e vuole confermare e diffondere la nuova cultura delle donne, più libere, più indipendenti e soprattutto padrone delle loro scelte fondamentali, a cominciare dall'educazione sessuale per arrivare fino alla maternità, che non è più un destino esclusivo e inevitabile. L'autogestione della vita intima, sogno delle prime femministe - quelle che detestavano il
«fatale egoismo maschile» -, si fa dunque realtà. La pillola impiega parecchi anni prima di affermarsi, forse perché la Chiesa viene ascoltata più di quanto non si creda, forse perché sono i medici osservanti a non prescriverla, o forse semplicemente per carenza di informazione. Negli anni Ottanta si stima che soltanto il 7% delle donne in età fertile l'abbia usata, ma nel decennio successivo la percentuale sale al 16. Un'operaia, Stefania, nata nel 1952, ricorda che «i primi tempi, quando parlavo di pillola, manco fosse il diavolo! La marcia indietro era il metodo più reclamizzato, soprattutto da parte degli uomini... Nella loro mentalità ti dicono: non c'è bisogno della pillola, perché io sono bravo e faccio la marcia indietro. Senza sapere che magari le loro donne sono rimaste incinte e hanno abortito a loro insaputa, cosa che succede normalmente». Negli anni Settanta fa la sua comparsa la spirale o Iud (Intrauterine Conceptive Device), in plastica, rame o argento, che provocando una moderata infiammazione nell'endometrio, impedisce l'impianto dell'ovulo fecondato ed è efficace nel 98% dei casi. A fine secolo essa è il secondo contraccettivo per diffusione nel mondo occidentale (dopo il preservativo). Nel decennio successivo, 9 ragazzi su 10 adottano un contraccettivo (preservativo e pillola sono i più diffusi), cosa che è ormai implicita nella scelta di avere una vita sessuale attiva. Come risulta da un'indagine di Alessandro Cavalli e Antonio De Lillo, dal titolo Giovani anni Ottanta, pubblicata nel 1988, i giovani sono preoccupati più dell'efficacia e della nocività dei vari sistemi anticoncezionali che degli aspetti morali legati alla contraccezione. La scelta del metodo da usare è fonte di ansia: di chi fidarsi per un consiglio? Non dei genitori, che sono spesso piuttosto contrari al sesso precoce. Al medico? Molti ragazzi si vergognano. Nel dubbio, resta popolare il coito interrotto, che ora si chiama semplicemente «starci attenti». Negli anni Novanta la contraccezione è diventata, anche lei, un grande mercato. Sylvia, nel racconto «Mimi e gli istrioni» di Pier Vittorio Tondelli, è una prostituta. A un certo punto della storia viene molestata e, per difendersi, usa la borsetta come arma contro gli aggressori: «tanto basta perché le si rovesci sulla moquette tutt'intero il consultorio che ci teneva dentro, preservativi, vaseline, pilloline, ovuli e diaframmi, creme spermicide, oli antibambinetti, perfino il lubrificante gustoforte KY della Benny, quello di scorta». Non c'è bisogno di entrare in farmacia con la tremarella per chiedere un preservativo, che si trova al supermercato o nei distributori automatici. E non c'è da vergognarsi se lo si acquista: usare il «cappuccio» è diventata un'abitudine virtuosa, da quando l'AIDS uccide come la peste. Negli ultimi due decenni del Novecento, mentre si afferma la pratica sessuale separata dalla procreazione, si fa strada un altro fenomeno, quello che vede la procreazione separata dal sesso. All'indomani della seconda guerra mondiale, quando Pincus lavorava alla sua ricerca, il mondo avanzato assisteva a un colossale baby boom, un'esplosione demografica di grandi proporzioni, in parte conseguenza della pace, e in parte del crescente benessere. In quelle condizioni, sembrava giusto provvedere alla limitazione delle nascite. A partire dagli anni Ottanta, invece, l'Europa non può che constatare il proprio invecchiamento: nascono meno bambini, la vita media si è allungata e per di più, dicono gli scienziati, in cinquantanni la quantità media degli spermatozoi del maschio europeo si è dimezzata. Mentre quarantanni fa la ricerca concentrava gli sforzi sulla pianificazione familiare, oggi si impegna nella procreazione assistita. Se molte coppie non generano figli pur potendolo fare, molte coppie vorrebbero procreare ma non possono. Il risultato è che nel 1997 in Italia sono nati 1945 bambini frutto dell'«assisten-za» medica, che va dalla fecondazione in vitro, cioè fuori dall'apparato genitale femminile, all'aiuto nello sviluppo dell'embrione e, più di recente, alla fertilizzazione dello sperma. Invece di un concepimento godereccio sul materasso, che differenza fa se un bambino è nato dalla provetta? Dalla macelleria all'ambulatorio Alla fine del 1960 «Noi donne» da il via a un'inchiesta sull'aborto, con l'intenzione di propagandare il controllo delle nascite, non certo di reclamare il diritto a interrompere la gravidanza ma soltanto quello di denunciare una piaga sociale. A differenza di quanto avveniva prima della guerra, quando il reato era perseguito con decisione e gli eventuali fattacci di cronaca a esso legati erano nascosti al pubblico, nel pieno
del miracolo economico, del benessere e della libertà di stampa, la tragedia dell'aborto balza agli occhi di tutti. Impossibile calcolare quanti siano tali episodi, che si svolgono clandestinamente, ma i difensori della contraccezione parlano di un milione all'anno. È un evento, questo, che una donna non confida volentieri né ai familiari né all'amica del cuore. Si tratta di un appuntamento imprevisto, di un incidente che si vorrebbe scongiurare perché mette in pericolo la vita, la fertilità, la salute, e sottopone a umiliazione e vergogna. Carolina Mariuzzo, trentacinque anni, di professione domestica, muore al Policlinico di Roma nel luglio 1960 per le conseguenze di un'interruzione di gravidanza eseguita chissà dove, ma in clandestinità. Nel gennaio 1961 l'operaia Luigia Maddé chiude la sua esistenza alla clinica Mangia-galli di Milano, per le conseguenze di «pratiche illecite». A eccezione delle donne più abbienti, che possono farsi ricoverare a pagamento in cliniche all'estero o in ambulatori sicuri e asettici in Italia, tante madri di famiglia, studentesse, operaie, impiegate e professioniste si rassegnano al rischio e all'illegalità, alla probabilità di essere scoperte e perfino alle lezioni di etica del medico o della mammana: «Ma guarda qui che cosa ha combinato!», «Non poteva stare più attenta?», «Voi vi divertite e poi tocca a noi tirarvi fuori dai pasticci!». Un paese cattolico come il nostro non può tollerare la legalità dell'aborto, ma è perfettamente in grado di accettare la presenza di una tale macelleria clandestina che un profondo cinismo e la più sfacciata ipocrisia hanno ribattezzato «fabbrica degli angeli». È una delle tante punizioni che si abbattono sulle peccatrici (i peccatori al solito ne sono esenti): lesioni, emorragie, sterilità, decesso rappresentano le naturali conseguenze dell'illegalità e della clandestinità. Fino al 1978 - e in parte anche dopo - l'aborto si pratica dalle «mammane», su un tavolo da cucina, in sale chirur-giche improvvisate, oppure a casa propria, con il «fai da te» del ferro da calza, del prezzemolo, dei chicchi di caffè. A scatenare il rivolgimento anche in questo campo sarà la generazione delle baby boomers: le ragazze della parità, della pillola, dell'istruzione di massa. Cresciute nel benessere e nella libertà, non hanno intenzione di subire il rito cruento che troppo spesso è toccato alle loro mamme e alle loro nonne. Delle 1056 madri e figlie intervistate da Lieta Harrison nel 1972 - per La donna sposata ~, ben 671 hanno abortito almeno una volta. L'inchiesta Shell rivela d'altra parte che la maggioranza delle donne è favorevole alla legalizzazione. Negli anni Settanta dunque il movimento femminista chiede una riforma: che la donna possa abortire in ospedale, gratuitamente, per sua insindacabile decisione. Non si tratta di una cosa da poco: la resistenza del mondo cattolico è forte, come quella di una parte dei medici (alcuni di loro fanno affari d'oro, di nascosto dalla legge e dal fisco, proprio grazie alla «macelleria»). Le forze dell'ordine e la magistratura ne costituiscono il braccio armato. Nel 1974 a Trento vengono sequestrate 600 cartelle cliniche nello studio del ginecologo Renzo Zorzi e il magistrato provvede a 263 incriminazioni sulla base di quei documenti. Nel 1975 viene chiuso a Firenze l'ambulatorio del CISA (Centro italiano sterilizzazione e aborto), fondato da Adele Faccio. In questa ondata di denunce finisce in carcere per quindici giorni, accusata di associazione a delinquere e procurato aborto, la ventisettenne Emma Bonino. Nell'aprile 1976 a Roma 50 mila donne e uomini in corteo chiedono che venga approvata la nuova legge sull'aborto, come finalmente avviene nel maggio 1978. Ora l'aborto non è più un reato, ma non è neppure libero: è regolamentato, e per giunta i medici possono rifiutarsi di effettuare l'intervento per «obiezione di coscienza» (e la maggioranza approfitta della scappa toia). La convinzione che l'aborto proibito sia meglio di quello legale è però dura a morire: gli avversari della legge 194 chiedono un referendum abrogativo, lo ottengono e vengono sconfitti nel maggio 1981. L'ultimo decennio del secolo è costellato di tentativi- mai riusciti - di rimettere ogni cosa in discussione e di tentativi - coronati da successo - di rendere l'aborto legale quanto più penoso e doloroso possibile: certe donne vengono sospinte da un obiettore all'altro, assediate dai sacerdoti, mentre mancano i consultori e l'intervento continua a richiedere ospedalizzazione,
trauma e sangue. Nel 1998 si sono calcolati 138 mila aborti legali e ne sono stati stimati 38 mila clandestini, con una percentuale crescente di donne immigrate che lo subiscono. Il mondo cattolico continua a preferirlo fuori legge, clandestino e pericoloso. Non offre alternative, nega la liceità morale della contraccezione e lancia gravi accuse a chi abortisce che, secondo il teologo Thévénot, privatizza l'omicidio. Da parte sua, il ginecologo Romano Forleo dice che, in caso di interruzione di gravidanza, la medicina spesso prende la strada più corta ma non la più saggia. La legge 194 resiste, ma negli ospedali italiani non viene ancora adottata la pillola RU486, messa a punto in Francia nel 1980 da Etienne Beaulieu e largamente usata in Europa dal 1989, che blocca l'azione del progesterone e quindi ostacola l'impianto dell'ovulo nell'utero. Da noi abortire è ancora una questione di piccola, benché asettica macelleria, e comporta un ricovero, un intervento chirurgico, una spesa più alta per la Sanità pubblica. Non è vizio se è solitario Negli anni Sessanta lo psicanalista inglese David Cooper afferma: «Possiamo amare un altro essere solo a condizione di amare totalmente noi stessi al punto da masturbarci veramente, cioè fino all'orgasmo. Bisogna essersi masturbati almeno una volta con gioia». Se quella di Cooper è un'opinione controcorrente, tuttavia già in questo periodo la medicina e la psicologia stanno convincendosi che sulla «Venere solinga» i nostri avi si erano sbagliati. Alfred Kinsey, del resto, aveva potuto constatare che 9 maschi su 10 e 4 donne su 10 l'hanno praticata, senza per questo rovinarsi la salute o perdere la fertilità. Negli anni Settanta i sessuologi cominciano ad accettare e propagandare l'idea che i ragazzi che non si sono mai masturbati e non hanno familiarità con il loro corpo e con le sue reazioni potrebbero avere una vita sessuale infelice e compressa. Fare conoscenza con se stessi è infatti il primo passo verso una buona conoscenza del futuro partner. Nella lunga marcia delle donne verso la conquista dell'orgasmo, affermano ormai quasi tutti gli esperti, una tappa essenziale è rappresentata dall'esperienza della masturbazione. Un'indagine sui giovani negli anni Ottanta rivela che i ragazzi tra i 15 e i 19 anni non si vergognano di masturbarsi e sono consapevoli che non esiste danno per la salute; ma ne sanno poco, sono titubanti e convinti che questa sia una necessità squisitamente maschile, poco sentita dalle femmine. In sostanza questi adolescenti sono divisi tra l'ottimismo e il pessimismo: se qualcuno afferma che «serve a conoscere se stessi», altri constatano che «non ti da soddisfazione». Nel 1989 una moglie trascurata dal marito confessa che si masturba spesso, e che si sente in colpa; il consulente l'avverte che, è vero, masturbarsi non fa male alla salute, ma nuoce alla psiche: l'esercizio sessuale comporta l'amore per un'altra persona. Chi lo fa da solo, procura a se stesso soltanto nevrosi. La ricerca del piacere fine a se stesso, solitario, può diventare ossessiva. Dieci anni più tardi, una giovane donna che non ha fidanzato né marito né compagni occasionali e vuole soddisfare i suoi bisogni sessuali, chiede un parere in proposito alla sessuologa Roberta Rossi, che le risponde: «Una possibilità è l'autoerotismo, visto non come ripiego, ma come momento importante di un rapporto con se stessi che permette di mantenere aperto un collegamento con la sfera del piacere». Così il «vizio solitario» si è tramutato in virtù, chi non lo ha mai fatto non è completamente sano, chi non è del tutto sano deve praticarlo per guarire. Nella generale affermazione del sesso senza conseguenze, uno dei peccati che in passato erano condannati con maggior severità è ormai cancellato.
XVI IL VIZIO NON SI ARRENDE La prostituta? È una professionista e niente altro. Così afferma Mauro, un milanese ventisettenne, che racconta di sé e della sua passione per il piacere a pagamento, quando lo interrogano per l'indagine dal titolo Sesso in acquisto di Luisa Leonini, pubblicata nel marzo 1999. «C'è chi fa l'ingegnere, chi fa il ragioniere, chi fa la puttana» aggiunge. Intramontabili personaggi della scena sociale urbana, il cliente e la prostituta continuano a inquietare le anime pure, la gente onesta, gli amanti del sesso gratis et amore Dei, i legislatori, i sindaci e i ministri. Come Mauro, molti ritengono che questo sia un commercio non diverso dagli altri. C'è chi invece non dimentica che la prostituzione si accompagna alla schiavitù, alla costrizione, all'oppressione di esseri umani, prevalentemente di sesso femminile, assai spesso poco più che bambine. Da quando è entrata in vigore la legge Merlin, nel 1958, non si è fatto che deplorarla e rimetterne in discussione i contenuti. Gli sforzi per criticarla sono stati di gran lunga superiori all'energia messa nel perseguire quelli che essa considera reati, cioè lo sfruttamento, il favoreggiamento e l'adescamento. Per molto tempo la riapertura delle case chiuse è stato un cavallo di battaglia della destra, insieme al ripristino della pena di morte. All'inizio del secolo ventunesimo, la riapertura dei bordelli - in forma nuova e aggiornata - viene auspicata da tutti coloro, a destra e sinistra, per i quali la prostituzione che non si vede, in fondo, non esiste. L'importante, allora, è nasconderla. Ben poco impegno viene dedicato invece a depurarla dei suoi aspetti più turpi. Quindi con ciclica e lodevole puntualità di tanto in tanto si leva l'invocazione: riapriamo i bordelli! E quindi medici, sociologi o ministri spiegano al popolo che se debitamente autorizzate, pulite e cooperative, le case di tolleranza - perché di questo si tratta - guarirebbero una piaga che, ancora una volta, viene presentata come un problema morale e non come una questione di diritti e di dignità umani. Ci sono poi coloro che considerano le prostitute il punto focale del problema e quindi se la prendono accanitamente con le donne che esercitano il mestiere. Invece, al pari di ogni altro mercato, quello del sesso ha luogo tra due parti, la meretrice e il cliente, con l'intervento in genere di un terzo incomodo, il ruffiano (come in passato, può essere un individuo singolo o più spesso un racket criminale). Mauro e i suoi simili adducono motivazioni dure a morire alla loro passione per il coito sul bordo del marciapiede, dietro a un cespuglio, sul sedile dell'auto, a 50 o 100 mila lire: non impegna la sfera emotiva, permette di comandare, è veloce. «L'unica cosa che tiro fuori è l'uccello» dichiara lo studente ventottenne Franco, finalmente sicuro di sé perché può «scegliere senza essere rifiutato». Minorenni, viados o «travoni», cioè travestiti: al super-mercato del marciapiede si trova un po' di tutto e loro, la merce, «fanno qualsiasi cosa, basta che tu paghi». Con le altre donne è più difficile. «Mia moglie non faceva il pompino, l'ingoio, cose così» afferma il quarantenne Vittorio che, deluso, espone le buone ragioni che lo spingono agli acquisti notturni al bordo della strada. Sempre secondo l'inchiesta Sesso in acquisto, due terzi dei maschi, nella provincia di Milano, hanno frequentato e continuano a frequentare la prostituzione, mentre un terzo soltanto non l'ha fatto e non ha intenzione di farlo. Come tutti i numeri raccolti a spanna, anche quelli della prostituzione al volgere del millennio variano a seconda delle fonti: 20 mila puttane attive in Italia, oppure, 50-70 mila, la metà delle quali straniere; il commercio si svolgerebbe per metà in strada, il resto in appartamenti; le minorenni coinvolte sarebbero 1 su 10, o forse addirittura la metà. Secondo il Censis, l'80% delle passeggiatrici di strada proviene dall'estero (quindi in condizioni di schiavitù, non per libera scelta). Il commercio si addensa al Nord e nelle grandi città, al Sud rimane soltanto il 10% del totale nazionale. Certo, le cifre relative a questo mercato sono particolarmente difficili da calcolare per la sua natura clandestina e mobile: sfruttatori e prostitute vanno dove c'è domanda, non restano a lungo nella stessa località (un po' per non
stancare i clienti, un po' per non farsi notare dai tutori dell'ordine) e non sono disposti a divulgare numeri e caratteristiche del loro giro d'affari. La prostituzione è un orrore particolarmente gradito ai clienti, e quindi forse inestirpabile. È un fenomeno non solo italiano, ma presente ovunque, benché sia diversamente considerato dalla legge e dalla gente nei vari paesi. Il giudizio, però, è comune in tutto il mondo civile: si tratta di un turpe commercio, anche se pochi ricordano che fin dal 1949 l'ONU ha stabilito che «la prostituzione e il male che l'accompagna, cioè la tratta di esseri umani, sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana». In Germania le professioniste del sesso pagano le tasse, in Gran Bretagna è reato combinare affari sul marciapiede, molte metropoli europee offrono quartieri a luci rosse. Dal 1960 in Thailandia è proibito vendere il corpo ma non acquistarlo. Dal 1999 in Svezia è «proibito acquistare servizi sessuali» (e quindi i clienti sono soggetti a sanzioni). Si calcola che, a livello mondiale, almeno un quinto dei maschi si serva occasionalmente di prostitute, mentre un decimo è cliente abituale. A differenza di quanto sognavano i difensori del libero amore, il «mercimonio» non è affatto morto grazie alla liberazione sessuale: forse perché quest'ultima è più apparente che reale, forse perché comperare e vendere sesso è un aspetto - sia pure tutt'altro che nobile - della natura umana. A causa dei grandi rivolgimenti politici e sociali, e in seguito a considerevoli spostamenti di popolazioni verificatisi negli ultimi anni del Novecento, l'Europa è tornata - come nell'antichità e nel Medioevo - un fruttuoso mercato di schiave e schiavi, numerosi dei quali impiegati nel sesso. A Milano, una delle piazze di maggior traffico in Italia e una delle più vivaci d'Europa, si stima che «battano» i marciapiedi circa 700 prostitute donne e, più o meno, 150 fra omosessuali e transessuali. È gente che «batte», incassa, transita e sparisce secondo i piani e le direttive dei loro sfruttatori, anche perché molte ragazze - specie se sono professioniste indipendenti appena possono tornano in patria con il gruzzolo per sposarsi, costruirsi una casetta o aprire un negozio. Come un supermercato a reparti e scaffali, la città è divisa in aree di specializzazione e nazionalità: qui le nigeriane, là i viados uruguayani, e poi le ucraine, le slovacche, le albanesi, le moldave. Le italiane, secondo il Censis, non stanno più sul marciapiede, che rappresenta l'infimo gradino del mestiere. Sesso in acquisto stima che a Milano una prostituta sbrighi una decina di clienti per sera, sette giorni la settimana, a una tariffa media di 50 mila lire. Soltanto le prostitute di strada, dunque, dovrebbero realizzare un ricavo annuo globale superiore ai 127 miliardi, tenuto conto dei giorni di riposo. Il giro d'affari non è tutto qui, dato che il commercio di sesso ha luogo anche in club privati e in appartamenti (sotto professioni di copertura: estetista, massaggiatrice o «esperta linguista», come promette l'annuncio su un quotidiano). L'attività di Lara, una brasiliana che nel 1998 gestiva nel capoluogo lombardo incontri tra vip, maschi danarosi, celebrità annoiate da una parte, e ragazzi o ragazze di bell'aspetto dall'altra, constisteva nell'orga-nizzare appuntamenti da uno o due milioni, a seconda della prestazione richiesta e offerta. Al cliente non basta la bambola gonfiabile, tornata di moda negli anni Sessanta e poi di nuovo sparita: è più gustoso usare una donna vera. Per il maschio di mezza età, sposato, scontento del grigiore della propria esistenza - è questo il profilo dell'appassionato del marciapiede come risulta da un'indagine di Rowena Davis e Giampaolo Fabris nel 1978 l'andare a puttane è la chiave di «sostegno della monogamia»: il matrimonio equivale per lui a una prigione, che può sopportare soltanto se gli è concessa l'«ora d'aria», cioè un accoppiamento pagato (che peraltro due terzi degli interpellati definiscono «poco o niente soddisfacente»). In tal modo, delusi e infelici, tornano tra le braccia della moglie, trovandola né meglio né peggio di una prostituta. I moventi del cliente sono sempre gli stessi: è un consumo come un altro; in questo tipo di accoppiamento chi sborsa ha sempre ragione; costituisce un'evasione; non c'è coinvolgimento emotivo; fidanzate e mogli rappresentano la ripetitività e la noia.
Si tratta forse di motivazioni più sofisticate di quelle addotte dai clienti di cent'anni fa, che volevano soltanto sfogarsi, ma all'origine c'è sempre il peso della monogamia, la necessità di affermarsi virilmente, l'impossibilità di coniugare l'amore e il piacere fisico. Che gioia sottile maltrattare una donna, sottometterla, brutalizzarla un po': «A me piace» confessa il sessantasettenne Carlo «poter dire troia, porca, puttana, vacca». Un uomo non vuole sentirsi respinto, e sembra che ora ne soffra più di quanto non accadesse mezzo secolo fa, quando le donne nascondevano il rifiuto dietro a «un terribile mal di testa». Il fatto è che oggi una donna è in condizioni di respingere non l'offerta di accoppiarsi, ma la specifica persona che si offre. È una ferita sanguinante per l'orgoglio maschile: di gran lunga meglio una prostituta, che non può dire «no». I giovani - almeno a Milano e dintorni - inventano riti e cerimonie per rendere più emozionante la transazione commerciale. Secondo Sesso in acquisto, uno di questi è il «puttan tour», che consiste nella caccia di gruppo alla merce migliore, percorrendo viali, esplorando i quartieri a uno a uno, confrontando prezzi, caratteristiche fisiche e prestazioni promesse. Si tratta di venti o trentenni di ceto medio o medio basso, che si spalleggiano, scambiano commenti, si consigliano reciprocamente. Afferma ancora il ventisettenne Mauro che gli piace «un rapporto così dichiarato e così semplice allo stesso tempo, che non ci sono altre complicazioni, non ci sono discorsi, non ci sono perdite di tempo». Anche le ragazze in vendita non amano sprecare tempo. Paola, una prostituta albanese, tiene in pugno la situazione: «Con un cliente sto non più di un quarto d'ora, quando ci mettono tanto mi scoccio e glielo dico». Un filo di condiscendenza in più si può accordare solo al cliente fisso, che ritorna da chi sa accontentarlo, così come va dal barbiere di fiducia. Il sesso sui deboli Nel 1988 Carlo Drudi, un ferroviere comunista di Rimini, che è anche consigliere comunale, viene sospeso dal partito, reo di aver dichiarato che le donne non dovrebbero chiedere punizioni severe per gli stupratori, ma piuttosto badare a come si presentano, a essere modeste, a non provocare. In quell'anno, conferma un sondaggio, 6 maschi su 10 la pensano proprio come lui (e come i loro avi) e si dimostrano piuttosto in ritardo sui tempi: nell'ultima decina d'anni, infatti, la violenza carnale sulle donne è seriamente condannata, non solo dalla legge, ma dall'opinione comune, in quanto forma di sopraffazione maschile, e non più colpa femminile. Alcuni fatti di cronaca, il chiasso del movimento di liberazione femminista e una mentalità più paritaria che si fa strada anche tra i legislatori, i giuristi e la gente comune hanno impresso una svolta alla questione della violenza. Negli anni Sessanta, Roma si aggiudica il primato di capitale dello stupro, con 25-40 denunce l'anno (anche se, curiosamente, il 1968, un'annata nella quale le strade sono costantemente presidiate dai manifestanti e percorse dalla sovversione, le denunce per stupro scendono a 9). Poiché' la violenza carnale - e soprattutto quella esercitata in famiglia - non sempre viene svelata, per paura o per vergogna, si può presumere che i casi siano stati molto più numerosi di quelli rilevati. L'annata nera è tuttavia il 1977: se non sono aumentate le violenze, sono certamente salite le denunce. I processi più clamorosi, come quello per l'assassinio del Circeo e quello di Cristina Simeoni, contribuiscono a portare la questione della violenza sessuale in primo piano, come un'urgenza sociale e legislativa. Nel settembre 1978, dopo un convegno a Roma su questo tema, dopo manifestazioni e cortei, il Movimento di liberazione delle donne avanza una proposta di legge, che viene presentata in Parlamento nell'aprile 1979. Ritoccata, perfezionata, negoziata, e un po' annacquata, essa diventa nel 1981 un testo unificato che mette d'accordo i partiti. Al termine di un lungo cammino parlamentare, il testo è approvato nel 1996 e così anche in Italia lo stupro cessa di essere un reato contro la morale per trasformarsi in un reato contro la persona. Nello stesso anno la Commissione per i diritti umani dell'ONU condanna la violenza sulle donne, ogni forma di violenza, sottolineando che quella sessuale e le percosse sono la prima causa di morte femminile nel mondo, ma sono solo 44 i paesi dove la legge punisce la violenza in famiglia e in 17 si considera reato lo stupro coniugale.
Dovrebbe essere tutto chiaro, ormai. E invece, come è accaduto in tempi passati, le resistenze ad accettare lo spirito - se non la lettera - delle nuove leggi, si dimostrano ostinate e forti. Agli sgoccioli del Novecento una sentenza della Cassazione stabilisce che, se la presunta stuprata indossava al momento del fattaccio un paio di jeans, ed è chiaro che se li è sfilati proprio lei perché non può averlo fatto nessun altro, con ogni verosimiglianza era consenziente. Non è quindi vittima di violenza, ma complice volonterosa dell'uomo che accusa. E non importa se è stata costretta a togliere i pantaloni dalla paura del peggio, di essere picchiata, ferita o uccisa: Maria Goretti non ha forse preferito morire piuttosto che essere violata? Il sesso esercitato con la forza, comunque, adesso affiora, viene confessato e denunciato con meno vergogna e terrore; la civiltà e il rispetto delle donne hanno prodotto, fra l'altro, centri di assistenza medica e psicologica a sostegno delle vittime. Eppure il vizio non è scomparso e, se una parte esigua delle aggressioni avviene per strada, di notte, in angoli bui e deserti, la maggior parte si consuma invece - secondo le statistiche - in famiglia o nella cerchia dei parenti, degli amici, dei conoscenti occasionali e dei compagni di lavoro. Un tempo le donne erano a rischio di violenza soprattutto quando si avventuravano fuori dalle mura domestiche; ora, invece, sono a rischio un po' ovun-que, ma più spesso quando credono di essere al sicuro, in luoghi conosciuti e tra volti noti. Le più giovani, che ormai non nutrono soggezione nei confronti dei maschi, hanno imparato a reagire. È appunto in casa che si svolge il tentato stupro raccontato in Ti prendo e ti porto via da Niccolo Ammaniti: Flora si sta lavando nella doccia, quando viene aggredita dallo zio Armando, tozzo e peloso. Lei, che vorrebbe vedere l'aggressore «finire proprio in mezzo alla strada un attimo prima che passasse il 38 Barrato», dapprima è paralizzata dalla sorpresa e dalla paura. Poi, anche se nuda e inerme, si riprende, lo sbatte fuori dalla doccia e «il vecchio maiale non ci provò più». Lo stupro fuori casa è una specialità dei maschi più bruti, dei violenti abituali, per talento e per scelta. Le vittime possono essere brave ragazze che rincasano dalla scuola, rientrano dal lavoro o portano a spasso il cane in pieno giorno. Come Vanina, in Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (un libro pubblicato nel 1980, sequestrato e poi restituito al pubblico perché giudicato non osceno). Lei è una diciottenne, vergine, che viene aggredita da cinque «terroni», furfanti del posto. La caricano su un furgone e «dopo la chiavano tutti insieme facendo il turno sopra e sotto e in bocca e fra le tette che aveva già grandi e grosse e poi la sbavano di sperma e la abbandonano nuda coi suoi straccetti». Il sesso imposto ai deboli non è affatto scomparso e, oltre alle donne, ne sono vittime i bambini, come è sempre accaduto. La violenza sui più piccoli era usualmente coperta dal silenzio, a protezione sia dell'aggressore che della vittima, mentre oggi lo è un po' meno. Continua a suscitare profondo orrore e un bambino violato viene considerato «sciupato» senza rimedio. Chi ha subito gli appetiti di un adulto durante l'infanzia, constatano gli psichiatri, sarà più probabilmente lui stesso, a sua volta adulto, a nutrire appetiti analoghi nei confronti dei bambini. La pedofilia è oggetto tuttavia di molta incertezza: alcuni sostengono appunto che la violenza implicita nell'imposizione dell'adulto lascia tracce difficili da cancellare nella psiche infantile, anche quando il bambino sarà cresciuto; altri ritengono che i bambini possono uscirne indenni, a condizione che l'esperienza non venga troppo drammatizzata (per esempio, con rimproveri, indagini, processi). Se Freud aveva identificato intorno ai cinque anni una «parapubertà», caratterizzata dalla capacità di provare il piacere dei sensi, Kinsey aveva rilevato che la metà dei maschi fa risalire il primo orgasmo a un'età compresa fra i tre e i quattro anni. Una volta riconosciuta la sessualità infantile, non viene però riconosciuto agli adulti il diritto di servirsene, tanto più se questo comporta una qualche forma di sopraffazione. Del resto non è affatto tramontata la convinzione che siano proprio i piccoli a adescare i grandi. Diversi studi degli anni Cinquanta tendono a dimostrare che una buona percentuale di bambine sedotte ha catturato l'attenzione e il desiderio del maschio adulto, per curiosità e per denaro, e ancora nel Dizionario di erotismo di Ernest Bornemann, pubblicato in italiano nel 1988, «per alcuni sono molto spesso i bambini a sedurre gli adulti, e non viceversa».
Segreta come tutti i vizi, la pedofilia è difficile da scoprire e identificare: sono rari i casi nei quali un bambino denuncia spontaneamente e direttamente l'adulto (anche per l'ambiguità con la quale la seduzione è percepita dalla psiche infantile: una violenza, ma anche un onore, un riconoscimento), e sono ancora più rari i casi che vengono portati fino alle aule dei tribunali. Al pari di ogni fenomeno clandestino, l'uso dei più piccoli a scopi carnali ha dimensioni incerte. Qualche volta tale violenza non è affatto rivelata, se non anni o decenni dopo i fatti; in altre circostanze, resta occulta perché avviene nella cerchia familiare o amicale (un terzo delle seduzioni, secondo una stima, si consuma in questo ambiente). Il ricordo dei fatti può affiorare in modo indiretto, tortuoso, ma la vergogna e la paura dominano sempre le vittime. Quando «Abc» pubblica la posta del sesso, a cavallo tra il decennio Sessanta e Settanta, a Cristina Leed arrivano lettere di parecchi uomini che, violentati da piccoli dal padre, dallo zio, dal fratello maggiore, dal parroco, chiedono come possono «guarire» dall'omosessualità, per formare una famiglia regolare. La cronaca conferma che, oltre ai parenti, talvolta i sacerdoti sono coinvolti in fatti di questo genere. In un traffico di fotografie oscene infantili via internet - che, per l'anonimato e la segretezza, si sta rivelando un paradiso della pedofilia - scoperto nell'estate 2000, tra i circa cinquanta denunciati si conta anche un prete trentacinquenne, colto con una valigia piena di attrezzi adatti a pratiche sadomaso e di foto polaroid di bambini in pose seducenti, il quale subito confessa che da tre anni è entrato attivamente nel «giro». In questo caso, con un abbonamento di 50 mila lire al mese, i pedofili avevano accesso all'archivio fotografico, costruito e diramato da un'organizzazione russa. Poco tempo prima, un prete - del quale i giornali rivelano solo il soprannome, «don Grappino», meritato per l'abbondante consumo di alcoolici -, patteggia una condanna per violenza sessuale su due bambine. In seguito a ciò, egli viene, sì, allontanato dalla parrocchia dove ormai è noto per le sue abitudini, ma soltanto per essere trasferito in un ospedale provvisto di reparto pediatrico (con elevate probabilità che incontri nuove allettanti occasioni). La cronaca nera degli anni Novanta ha visto addirittura alcuni bambini vittime di omicidio, in Umbria, in Campania, nel Lazio: l'emozione e l'orrore suscitati nell'opinione pubblica sono stati pari a quelli del 1969, quando la scomparsa del tredicenne Ermanno Lavorini a Viareggio ha portato alla scoperta di un gruppo di appassionati dei giochi proibiti. Il corpo di Ermanno viene trovato sepolto nella pineta di Marina di Vecchiano. Non sarà mai chiarito se il ragazzo sia rimasto vittima di una rissa con compagni più robusti di lui, oppure se - come ritengono gli inquirenti - l'organizzatore di tali passatempi sia il quarantenne Adolfo Meciani il quale, identificato e incarcerato, si impicca in prigione nella primavera 1969. Con un andamento ciclico, secondo la frequenza e l'intensità dei fatti di cronaca che occupano le pagine dei giornali e le immagini dei telegiornali, salgono e scendono le ondate di risentimento e le campagne contro l'eros imposto all'infanzia che, di solito, procedono all'insegna dell'emotività, fanno di ogni erba un fascio, e accomunano i pornofotografi agli assassini, i guardoni ai violentatori. «Il movente principale dell'odio verso i pedofili (che giunge a chiedere per costoro la pena di morte)» si legge nel volume curato da Bornemann «è dato dalla gelosia e dalla nostalgia per le proprie esperienze sessuali infantili rimosse.» Secondo questa tesi, gli oltranzisti della morale vanno tenuti particolarmente d'occhio: sono persone fragili e ferite, capaci di dare un contributo alle emozioni collettive ma non alla soluzione del problema. L'altra Venere Il 30 settembre 1949 Pier Paolo Pasolini, giovane insegnante, partecipa a una festa paesana in Friuli. Mentre tutti si divertono, il professore si apparta, e con lui tre ragazzini i quali - a cose fatte - racconteranno quanto è accaduto tra i cespugli. Un mese più tardi lo scrittore è raggiunto da una denuncia per corruzione di minore e atti osceni in luogo pubblico. Poiché si tratta di un comunista (egli ha aderito al PCI nel 1946), i democristiani locali non perdono l'occasione di gettare discredito su un «rosso». Da parte sua, il PCI si affretta a espellerlo, e anche la scuola lo caccia. Al processo tuttavia viene assolto per insufficienza di prove. A vent'anni di distanza dall'episodio egli commenterà così la propria condizione di
«dannato», di pietra dello scandalo: «Non è tanto l'omosessuale che hanno condannato, quanto lo scrittore su cui non ha fatto presa l'omosessualità come mezzo di pressione, di ricatto perché rientri nei ranghi». Continuerà a dare cattivi esempi, Pier Paolo Pasolini, fino alla morte violenta nell'autunno 1975. E l'inclinazione per i maschi resterà in Italia una condizione vergognosa e riprovevole, ben oltre la morte dello scrittore, ben più in là della fine del secolo. Nel 1952 un professore napoletano, Ettore Mariotti, pubblica un saggio dal titolo La neofilia, dove sostiene che l'amore omosessuale nell'adolescenza è tollerabile e tutt'altro che nocivo. Denunciato per oltraggio al pudore e quindi processato, Mariotti viene assolto. Tuttavia la sua tesi non persuade nessuno, e viene mantenuto il bando senza appello, con irrilevanti differenze rispetto a quanto avveniva nell'Ottocento: l'amore con persone dello stesso sesso non serve a procreare, viene cercato solo per il piacere individuale. I giovani non dovrebbero neppure sapere che esiste tale condizione, perché la sola menzione è già una forma di allettante propaganda. Gli omosessuali sono perseguitati da destra e da sinistra, in pubblico e in privato. Se la Chiesa non modifica il proprio giudizio in proposito, i comunisti seguono l'opinione del segretario Palmiro Togliatti: si tratta di una «degenerazione borghese»; è inutile, anzi pericoloso, leggere le opere di autori immorali: tale è, per esempio, Andre Gide. La pederastia viene definita così e in altri modi: l'altra Venere, l'amicizia particolare, l'inversione, il vizio gomorreo -, è una condizione da nascondere dietro una facciata di normalità. Qualche volta la mascherata riserva dolore e sofferenza. Una moglie, racconta Lucio Grassi ne L'adulterio femminile in Italia, si accorge che il marito spesso invita a casa certi giovanotti, che presenta come esperti di contabilità. Con uno o con l'altro si chiude nello studio, dove restano a lungo. Poi, un giorno, invita in casa un ragazzo e pretende che la moglie faccia l'amore con lui. La donna ha ormai capito che si tratta di uno degli amanti del marito, e tuttavia soddisfa il desiderio del coniuge. La vicenda prosegue fino a quando la signora resta incinta. Ora ne ha abbastanza, vorrebbe la separazione, ma il marito rifiuta. Per lui non è solo una questione di affetti privati: «Ti ho sposato per la rispettabilità, per la facciata». E non intende rinunciare né ai piaceri privati né alla reputazione. Taciuta, o menzionata per sussurri ed eufemismi, l'omosessualità esiste, nella esperienza vissuta e in quella letteraria: in Libera nos a Malo del 1963, Luigi Meneghello racconta che «Dino l'aveva incontrata e per così dire toccata con mano da militare a Milano, in un cinema affollato, stando appoggiato in piedi al muro laterale, tutto immerso nel film, con le mani dietro la schiena». Alla fine degli anni Cinquanta, il bando all'omosessualità e l'orrore che essa suscita nella sensibilità della gente comune cominciano ad attenuarsi. Nel 1957 viene presentato al Parlamento britannico il Rapporto Wolfenden, che deve decidere se modificare le leggi vigenti; in questo caso gli esperti giungono alla conclusione che è impossibile sconfiggerla con sanzioni o costrizioni; è realistico invece fare in modo che gli adepti non diano scandalo e non esercitino violenza. La diffusione della psicanalisi, dopotutto, serve a convincere un pubblico sempre più largo che la passione per il proprio sesso è una perversione, che ha cause identificabili e può essere curata. Guarito, l'omosessuale potrà tornare normale, cioè si accoppierà con una persona dell'altro sesso. Non tutti aderiscono a questa visione del problema. In Attività sessuale e anomalie, del 1960, Vincenzo Coresi propone una spiegazione diversa: certamente siamo di fronte a una perversione che va eliminata, ma è meglio conoscerne le cause. L'opera, che ha per sottotitolo Ciò che deve sapere una futura madre, attribuisce infatti a questa, al suo pensiero inconsapevole, l'origine dell'omosessualità del nascituro. Nei primi tre mesi di gravidanza, sostiene l'autore, il sesso del nascituro desiderato dalla futura mamma si sovrappone e contrasta con quello prescelto dalla natura. Se un maschio si va formando nel grembo materno e la madre desidera una femmina, nascerà un maschio invertito, cioè un omosessuale. Il desiderio materno provoca insomma una «deformità» che a sua volta genera il «vizio». Quando il bimbo vede la luce, ormai non c'è più
nulla da fare. Non serve la violenza, la correzione o la castrazione. Il difetto prenatale si porta come un fardello per tutta la vita. Davvero non c'è rimedio? Forse sì, afferma negli anni Sessanta un giurista, il medico legale Vincenzo Mario Palmieri, perché sono stati ottenuti buoni risultati «sostituendo i testicoli dell'invertito con altri di uomo sano». Per attenuare l'orrore della gente nei confronti degli omosessuali, Palmieri si dichiara sicuro che pochi omosessuali pratichino il coito sodomitico, che «provoca dolore», mentre è «più frequente il coitus intra femora, la masturbazione o la fella-zione reciproca». E aggiunge che sono persone strane e pericolose perché fanno proseliti e pretendono la concessione della «libertà di culto ai devoti di Onan», ed è meglio diffidarne, giacché il loro sistema neurovegetativo e ormonale ha «la stessa instabilità caratteristica nella donna e nel fanciullo». Quanto alla versione femminile, essa sarebbe facilitata dalla «tenerezza amorosa che caratterizza l'amicizia fra ragazze e fra donne nubili, dalla diffusione che nel corpo femminile hanno le zone erotogene... dall'attitudine alla libido femminile, ch'è passiva». Mentre Palmieri divulga il proprio sapere sulle «relazioni particolari», e in Gran Bretagna progettano di cancellare il reato, a Roma i parlamentari discutono su leggi e punizioni più severe: nel 1960 viene presentata una proposta che fissa pene da sei mesi a due anni per rapporti tra adulti consenzienti, ma queste possono essere aumentate se «dal fatto deriva pubblico scandalo» o se è coinvolto un minore. Ma non è sufficiente, e nella primavera del 1961 c'è chi avanza un'altra proposta, mirata a colpire il puro e semplice tentativo di rapporti omosessuali, con pene crescenti secondo l'età di chi commette il reato e pene aggiuntive nel caso di pubblico scandalo. Avrà la sua sanzione perfino chi fa «apologià dell'omosessualità», attraverso la stampa, la televisione, il teatro, il cinema, oppure convegni e manifestazioni pubbliche. Nessuna di queste proposte viene approvata. In mancanza di un reato specifico, tuttavia, l'omosessualità può essere avversata seguendo vie più tortuose ma - secondo alcuni custodi della morale - comunque efficaci. Aldo Braibanti viene condannato a nove anni nel luglio 1968, dopo sei mesi di carcere preventivo, formalmente perché ha violato l'articolo 603 del Codice penale, che punisce il reato di plagio, ma in sostanza per la sua diversità. Personaggio singolare, Braibanti è un ex partigiano, studioso della vita delle formiche, che ha convissuto in una pensione di Roma con Giovanni Sanfratello, un giovane di Verona. Giovanni è maggiorenne (e quindi non si può sostenere l'accusa di corruzione di minore). Allora, per motivare l'iniziativa della famiglia Sanfratello, che preleva il congiunto da Roma per chiuderlo in una clinica psichiatrica, viene rispolverato il plagio. Non passa invano la ventata antiautoritaria e libertaria di quell'anno. Il caso Braibanti suscita parecchia indignazione, mentre comincia a farsi strada il sospetto che l'omosessualità non rappresenti esattamente la «miseria fisica e morale» che il pubblico ministero attribuisce all'imputato. Nel frattempo fioriscono ovunque gruppi politici e categorie che rivendicano diritti e rispetto umano; a Torino il libraio Angelo Pezzana fonda il FUORI (Fronte degli omosessuali), cui aderiscono quanti, fra i «diversi», non intendono vergognarsi. Siamo nel 1972 e, se il rispetto per costoro è ancora lontano, tuttavia la questione assume nuova dignità e viene affrontata con maggior interesse e libertà di giudizio: escono riviste, si fondano associazioni (come l'Arcigay, che nasce a Bologna), si organizzano dibattiti, raduni e festival. All'inizio degli anni Ottanta osserva Natalia Aspesi: «Sembra che alla smania moralistica di liberare il mondo dall'omosessualità si sia ormai sostituita la tollerante buona volontà di liberare tutta l'omosessualità del mondo». È con questo sentimento che nel 1981 Palermo ospita, per la prima volta in Italia, la giornata dell'orgoglio omosessuale. Tuttavia la condanna resta quasi unanime. Secondo la ricerca condotta nel 1978 da Rowena Davis e Giampaolo Fabris, il 37% degli interpellati ritiene che i gay siano malati nel fisico, il 28% che siano malati di mente, il 19% che si tratti di viziosi e soltanto il 15% definisce l'omosessualità una «manifestazione della sessualità». Fino al 1993 l'Organizzazione mondiale della Sanità non si discosta molto da queste posizioni, poiché la classifica come una patologia
sessuale, ma dall'anno successivo essa è depennata dall'elenco. Salda nelle sue posizioni resta la Chiesa. Nel 1999 la rivista «Medicina e morale» dell'Università Cattolica di Roma, diretta da monsignor Elio Sgreccia, pubblica un dossier sulla diffusione dell'omosessualità, dal titolo Ma esiste il terzo sesso?, in cui si sostiene che un terzo della popolazione è tendenzialmente omosessuale e che il fenomeno, dovuto alla «cultura permissivista» e non a fattori genetici, mina le basi della famiglia cristiana. Su «la Repubblica», invece, Umberto Galimberti osserva che è stata la parità a mettere in evidenza il fatto «che i sessi sono meno diversi di quanto si pensi, anzi tendono a confondersi se non a scambiarsi, perché nessuno di noi è per natura legato a un sesso. L'ambivalenza sessuale, per non dire la bisessualità e la transessualità, sono iscritte nel corpo di ogni soggetto, e non come differenza legata a un determinato organo sessuale». Nel luglio 2000 è fissata a Roma la giornata del World Gay Pride, l'orgoglio omosessuale internazionale. Siamo nel pieno del Giubileo e la Chiesa considera questa manifestazione un'offesa alla Città santa, ai fedeli convenuti per motivi religiosi, al Papa stesso. Qualcuno sostiene la battaglia con un vigore quasi fanatico. Si chiama Guido Vignelli, e si ispira per l'occasione alle iniziative già sperimentate negli anni Cinquanta contro il materialismo (e contro i manifesti cinematografici che, con quei baci, abbracci e dive semivestite, offendevano la santità di Roma). A una miriade di persone invia una lettera nella quale lamenta che le strade della capitale «rischiano di vedere il trionfo dell'empietà e di udire le grida anticristiane dei manifestanti», poi avverte i fedeli che forse le chiese saranno «occupate da questa gente e imbrattate da slogan filo omosessuali». Alla lettera è allegata una cartolina, da inoltrare alle autorità civili - il sindaco Francesco Rutelli e il presidente del Consiglio Giuliano Amato - per chiedere di proibire tale vergogna. Aldo Antonelli, parroco di Antorsano, è uno di quelli che ricevono l'esortazione, ne è infastidito, imbarazzato, «doppiamente offeso, come se noi parroci fossimo dei cretini» e si dichiara, in una lettera al quotidiano «la Repubblica», «preoccupato per una chiesa piena di questa gente malata e fobica, intollerante e razzista, animata più da "odio contro" che da "amore per"». La fobia, in realtà, trova da una quindicina d'anni nuovo alimento nell'esplosione dell'AiDS, una malattia che inizialmente si è trasmessa soprattutto attraverso gli omosessuali e i tossicodipendenti. I trent'anni circa che corrono tra l'avvento degli antibiotici e il manifestarsi del virus H I V coincidono con l'esplosione della rivoluzione sessuale e con il diffondersi di comportamenti più liberi. Tra il timore della sifilide e quello dell'AiDS si colloca il periodo più felice della sessualità occidentale (anche se con la consuetudine ai rapporti multipli, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, si registra un aumento dei casi di sifilide, poi regredito a partire dal 1982). È proprio nella libertà di comportamento, nella mancanza di freni, che il virus s'insinua e fa strage: fino all'esplosione dell'AiDS gli omosessuali maschi non avevano quasi mai partner fissi e quando, intorno al 1980, un'indagine americana esplora il mondo dei gay, scopre che su 600 di loro, il 40% ha avuto centinaia di partner (dopo, invece, tra le coppie omosessuali prevarrà la monogamia). I primi casi di AIDS - ma non è certo, poiché il male all'epoca non era ancora stato identificato - si sono manifestati nel 1978. È però nel 1981 che «The New York Times» avverte: una malattia sta facendo strage di omosessuali. Il 5 giugno dello stesso anno il Center for Diseases Control di Atlanta annuncia di aver individuato un morbo che colpisce soprattutto i giovani gay; si tratta di un'immunodeficienza acquisita, stabiliscono i ricercatori americani. Nel 1983 l'AIDS sbarca in maniera massiccia in Europa e Giappone. Nel 1984 il francese Lue Montaigner isola per la prima volta il virus H I V, e da quell'anno si sperimenta una cura, basata sull'AZT, che però è un farmaco fortemente tossico. Da allora sono state tentate terapie nuove, sempre più sofisticate, ma la malattia non è affatto vinta. Al contrario, sebbene forse con maggior lentezza che in passato, continua a diffondersi: nel 1987 erano 37 mila i casi registrati nel mondo, ma l'anno dopo erano già 75 mila e negli anni Novanta sono saliti a milioni.
L'AIDS non è una malattia venerea, come la sifilide o la gonorrea, ma si trasmette anche per via sessuale; per di più, è stata diffusa in gran parte dai gay. Queste caratteristiche ne hanno fatto una sorta di flagello divino, che si è abbattuto su un mondo lussurioso e promiscuo, distrattamente dedito alla procreazione e accanito nel consumo di beni materiali. Agli omosessuali (e ai tossicodipendenti, che in Italia sono stati i più colpiti) si è inesorabilmente applicata l'etichetta di untori della peste moderna. Il legame, profondo e oscuro, tra il sesso e la paura, sembra rinsaldato: un'indagine del 1998 rileva che quasi la metà dei ragazzi sotto i vent'anni teme di contrarre l'AIDS, anche se ha solo rapporti eterosessuali e non fa uso di sostanze stupefacenti. È vero, questa malattia colpisce anche le persone che hanno una vita intima moralmente approvata, ma il sesso di fine Novecento non ha più quei connotati di spensieratezza che lo avevano contraddistinto nell'intervallo tra i due flagelli, la sifilide e l'AIDS. Nonostante la liberazione, dunque, gli aspetti morali e igienici del sesso tornano a mostrare quelle ombre scure che per qualche tempo parevano scomparse: morigerati, fedeli e continenti, così l'AIDS vuole gli uomini e le donne del 2000. Poiché è l'unico mezzo che previene il contagio per via sessuale, il preservativo riprende l'antico ruolo di profilattico che salva la vita, proprio come al tempo della sifilide, e la castità recupera il terreno perduto: nel giugno 1999 monsi-gnor Elio Sgreccia critica la campagna di informazione e prevenzione lanciata dal ministero della Sanità - che esorta i giovani all'uso del «cappuccio» - osservando che, prima di insegnare ai ragazzi come si fa sesso, sarebbe bene indurli ad apprendere la castità.
XVII IN DUE, IN TRE, PER SEMPRE, PER POCO «To bea or not to beat» Secondo Camilla Cederna, è questo il dilemma delle ragazze «di un certo ambiente borghese» all'inizio degli anni Sessanta. È lei la prima ad accorgersi che il miracolo economico, la modernizzazione e il consumismo hanno spogliato la questione sessuale di molti paludamenti moralistici. Argomenti quali la verginità, la biancheria intima, i metodi anticoncezionali, le posizioni del kamasutra diventano, nelle righe della Cederna come nelle conversazioni tra signorine della buona società, argomenti di chiacchiera, quasi scelte d'acquisto più che decisioni esistenziali o etiche. Promossa l'uguaglianza femminile, introdotto l'eros nel matrimonio, chiuse le case di tolleranza, il Novecento ha convinto le donne che l'orgasmo è un diritto. All'indomani del miracolo economico se ne vedono le conseguenze: le ragazze, ne prendono atto, si guardano intorno, smarriscono il culto della verginità, la sottomissione al maschio, perdono ogni ritrosia per i «traffici» carnali. I maschi, loro malgrado, subiscono il rivolgimento. A cominciare dall'aspetto esteriore, tutto suggerisce che le donne sono pronte a tenere in pugno la propria sessualità e a manovrare a loro piacere quella dei maschi. Tra bikini, spogliarelli, riviste «per soli uomini» e cinema audaci, non c'è più traccia del mistero del corpo femminile. Dal 1968 e dintorni ogni cosa diventa nota e visibile, almeno nella bella stagione. Fin dal 1964 è aperto il dibattito su dove starà l'orlo della gonna, poi via via sul resto dell'abbigliamento, dal reggicalze al topless, al reggiseno. Toglierlo, ingiungono le femministe. Mostrare spavaldamente il davanzale, impongono le avanguardiste della liberazione. Annota la Cederna nella sua rubrica Il lato debole pubblicata ogni settimana su «L'Espresso»: «Se le quarantenni non si mettono più il reggipetto, le diciassettenni se lo mettono tutte, e non quello trasparente e leggero, bensì di un bel cotone sostenuto o di rigido ricamo inglese». Sulla rivista «Lui e lei», che da conto di amori celebri con dettagli ravvicinati, su questo tema Ornella Vanoni dichiara all'intervistatore: «Se ha una certa esperienza in materia, cerchi di ricordare qual è l'intralcio maggiore nello spogliarsi.... Sono quei maledetti ganci che bisticciano tra le dita di un uomo, ansiose e frementi.... I miei seni sono una repubblica indipendente, si reggono da soli». Negli anni Settanta le femministe bruciano il reggiseno in pubblici roghi, perché è il corredo di una donna oggetto del piacere maschile, ma poi questo nesso viene dimenticato. Vent'anni dopo una miriade di modelli invade il mercato: morbido, rigido, con spalline o senza, rinforzato o lieve, push up o semplice, in una tavolozza di colori, il reggipetto riprende un posto d'onore nel guardaroba mentre è determinante la quantità di seno di cui una donna è dotata e, se il volume non è sufficiente, provvede il silicone. Nel 1993, quando si vendono Wonderbra a valanga, sembra già un successo strepitoso, eppure l'anno dopo le vendite mondiali raddoppiano. Nel frattempo la biancheria, che un tempo meritava l'aggettivo «intima», è diventata pubblica, è fatta per essere mostrata. Quanto e come si reggono i seni, a quali età, quali sono le forme più belle, è argomento di discussione tra gli uomini dopo il 1970, anno in cui compare a Saint-Tropez il primo topless da spiaggia (qualche pioniera lo aveva già adottato, sebbene senza seguito), che spopola fino a diventare una moda, da Rimini a Positano, da Ischia alla Versilia, prima su scogli appartati e poi sotto gli ombrelloni. Finita la guerra con i ganci, d'estate si fa l'amore in tenda, in pineta, sulla sabbia, prontamente e senza indugi perché non c'è bisogno di spogliarsi, con il marito dell'amica e con la sorella della moglie, con l'animatore del club di vacanze e perfino con la legittima consorte. Alla fine del decennio certi maschi si sono già stufati: quando rappresenta una novità, la liberazione femminile ha i suoi lati gradevoli; quando diventa pretesa e aggressione, crea solo fastidi. Dal 1968 in poi le donne cambiano d'abito, soprattutto le più giovani, in maniera radicale.
In linea con la tendenza che si manifesta da decenni, l'abbigliamento si alleggerisce: grazie al collant scompare il reggicalze e, poiché è tramontato il vitino di vespa, se ne va anche il busto, mentre la sottoveste si accorcia e diventa facoltativa, come le mutande, a volte incorporate nel collant stesso. D'estate le teenager indossano un abitino, corto alle cosce o lungo alle caviglie, un paio di sandali o di zoccoloni, e l'eleganza finisce qui. Londra detta la moda della libertà e della fantasia, buona sia per femmine che per maschi: le une indossano pantaloni, gli altri camicette a fiori, e tutti quanti comperano maglie e camicie unisex. Una delle innovatrici del gusto è Mary Quant, che comincia nel 1955 con una boutique a King's Road, e dieci anni dopo è la regina mondiale della minigonna. «Non mi piaceva l'artificio che andava di moda a quei tempi» ricorda a proposito dei suoi esordi negli anni del formalismo e della restaurazione. Come il taglio alla maschietta negli anni Venti, la minigonna è simbolo di indipendenza, una sfida alle convenzioni, una bandiera di rivolta. Gli adulti, specie se tradizionalisti e pii, la interpretano come il distintivo delle ragazze che hanno detto addio alla verginità. È appunto questa la ragione che la rende cara alle teenager ma anche ai maschi che scrutano polpacci, ginocchia e cosce, cercando di spingere l'occhio sempre più su. All'inizio la minigonna - al pari di ogni abbigliamento disinvolto - viene osteggiata perché immorale. La madre avverte la figlia: «Non hai le ginocchia adatte per portarla» ma in cuor suo la vede come una troppo fragile barriera della virtù. Poi minigonna, topless, nude look vengono digeriti dal pubblico: si è affermata, con loro, un'immagine femminile che offre se stessa, tutto il contrario della ritrosia tipica di mamme, nonne e bisnonne. Come era accaduto quarantanni prima, l'aspetto esteriore delle donne perde rotondità e mollezza, somigliando sempre più a quello maschile. L'uso dei pantaloni - lunghi o corti, ormai consentiti anche in città e perfino come abito da sera - stringe la parentela fisica tra i due sessi. Nell'ultimo trentennio del Novecento le donne giudicate più belle sono levigate, asciutte, secche, come le modelle che, grazie al fisico scheletrico, permettono a sarti e stilisti di disegnare, tagliare e confezionare abiti con grande facilità. Ma davvero agli uomini piace questa miseria di curve? Ciò che piace ai maschi sembra irrilevante, sono ormai le donne che decidono quale faccia (e altro) presentare a se stesse e al mondo. Il corpo femminile, secondo Gerard Vin-cent, è un oggetto che può essere plasmato quasi su misura: se non soddisfa, può essere modificato con la dieta e l'attività fisica, con la chirurgia, con l'abbigliamento e con la cosmetica, ma è sempre la proprietaria a decidere che cosa farne. Se le femministe degli anni Settanta gridavano lo slo-gan «L'utero è mio e lo gestisco io», vent'anni dopo le loro figlie adottano un più edonistico «La bellezza è mia e la gestisco io». Padrone del corpo, le donne sono ormai padrone anche del sesso. I piatti della bilancia hanno cambiato posizione: l'iniziativa, la cultura e l'esperienza del maschio hanno perduto il predominio; ora pesano di più il desiderio e la determinazione femminile. Però, a differenza dell'uomo tradizionale che sapeva ciò che voleva - conquistare, godersela o più rozzamente sfogarsi -, la femmina contemporanea non ha le idee chiare. Nel passaggio dall'identità sessuale del passato a quella del futuro, è incerta su cosa vuole e non sa se preferisce espugnare il maschio, dominarlo, oppure essere conquistata; non è sicura se deve trovare marito, se è meglio ingaggiare una lotta di potere o più semplicemente vivere un'intimità fondata sulle difficili regole della parità. Rinnegare la mamma Sul finire degli anni Sessanta, la frattura generazionale è evidente. Alle mamme è stato insegnato il disgusto per il sesso, che dalle figlie è invece interpretato come un diritto, un dovere, un piacere. Le prime lo hanno affrontato come un male necessario, le seconde pretendono di non poterne fare a meno. In Quaderno proibito, Valeria è sconvolta al pensiero che la figlia ventenne Mirella sia innamorata di San-dro, un uomo sposato. Quel che è peggio agli occhi della madre è che Mirella non si vergogna, e attraversa questa vicenda «senza chiedere perdono e senza invocare a sua discolpa l'accecamento della passione». Le madri erano prese, le figlie prendono, e così cambiano gli amori. La guerra, la Costituzione e il
miracolo economico ne sono responsabili, ma l'eco di Freud, Kinsey, Reich e Simone de Beauvoir fa il resto. «Quando eravamo fidanzati» ricorda Valeria «io peccavo con Michele, ma fingevo di farlo malvolentieri, trascinata da lui, senza acconsentire.... Questa è la differenza tra Mirella e me». Nel 1972 Lieta Harrison registra tale frattura. Ne La donna sposata si vede bene che, a differenza delle madri, le figlie hanno «un modo nuovo di concepire il rapporto sessuale» e danno una diversa importanza al sesso nel matrimonio. La distanza generazionale è dovuta a quattro cambiamenti: l'abolizione delle case chiuse, il controllo della procreazione, la parità nell'adulterio e l'avvento del divorzio. Alle 1056 intervistate viene chiesto: è importante il sesso nella vita di una donna? Sì, rispondono solo 168 madri e ben 478 figlie. Una cameriera trentasettenne romana afferma: «Ho letto che è importante anche per la salute: una donna ha bisogno del suo sfogo tale e quale all'uomo». E un'impiegata di ventisette anni: «Può essere la cosa più esaltante o più avvilente della vita. Io penso che il destino di una donna si decida a letto». L'anno successivo l'inchiesta Shell conferma il cambiamento: metà delle interpellate ritengono essenziale avere una vita sessuale felice, mentre soltanto il 5% è di parere opposto. Dalle madri il sesso è soprattutto sopportato. Una casalinga romana cinquantaquattrenne dichiara: «Alla donna non da nulla». E un'altra decreta: «È una cosa per uomini, per il loro piacere e basta». Molte liquidano la questione in poche parole: «È una cosa bestiale», «Io ne avrei fatto a meno», «E una cosa sporca». Il sesso fuori dal matrimonio è ancora largamente disapprovato: «I sentimenti veri non perdono nulla aspettando», «Una può trovarsi nei pasticci», «È un buttarsi via». Invece, ben 9 figlie su 10 non lo trovano così disdicevole. Ma quella delle madri è un'opinione ipocrita, perché oltre metà di loro (e 8 figlie su 10) lo ha sperimentato prima delle nozze, anche senza perdere la verginità: «Ho fatto le solite cose gradevoli, che non hanno conseguenze» confessa una casalinga milanese, e una signora romana rivela: «Ero andata lì lì per fare la frittata; lo sapesse mio marito...», mentre una signora palermitana ricorda: «Avevamo fatto l'amore, ma per fortuna non mi ha consumato». L'assaggio prematrimoniale è tutt'altro che raro e, se le madri se ne vergognano come Valeria di Quaderno proibito, le figlie lo ammettono, è una cosa che capita. Quando anche la generazione nata tra la fine della guerra e il miracolo economico diventa adulta e produce a sua volta madri, la frattura si attenua. L'atteggiamento delle mamme nei confronti delle figlie adolescenti e poi giovani donne non è più improntato sull'obbligo alla verginità bensì sulla imminente o futura prestazione sessuale. Le ragazze non hanno paura tanto delle mestruazioni, quanto del primo rapporto sessuale, che si aspettano conforme alle rappresentazioni che ne danno il cinema, la televisione, i rotocalchi. Le mamme, afferma un'indagine degli anni Ottanta, dimostrano una certa disinvoltura verso le figlie, almeno fino all'adolescenza, quando si intensificano i controlli e si mol-tiplicano gli ammonimenti. Ogni ansia si concentra sulla prima volta, e la fonte del timore non è più il «fatale egoismo» del maschio, bensì l'intraprendenza della ragazza. Che è sottoposta a una sorveglianza più stretta del fratello: un sondaggio del giugno 1999 rivela che il 48% dei maschi può portare nella casa familiare un'amica per avere momenti di intimità, ma il 55% delle femmine non è autorizzata a farlo. Le donne ormai pretendono molto, così tanto da restare frustrate davanti alla constatazione che la realtà è quasi sempre peggiore del desiderio. In una coppia, afferma la maggioranza delle interpellate dal settimanale «Gioia» nel 1999, il sesso è importante come i sentimenti, e quindi lui dev'essere passionale, sì, ma anche «attento ai miei desideri»; non c'è amore senza attrazione fisica, tutti e due sono necessari. Le misure dell'«oggetto maschile» sono importanti, però soltanto per il 44% delle 895 intervistate. L'amante peggiore è quello che se la sbriga in fretta e punta alla propria prestazione, al proprio piacere. Purtroppo, concludono, l'uomo ideale è quasi introvabile e il loro compagno attuale non gli somiglia affatto. Esempi da non imitare. O forse sì Nel 1962 Luisa Levi osserva che una ragazza madre rappresenta ancora una vergogna per l'intera famiglia: «Strana morale quella di molti che si
credono benpensanti: per cui lo stesso fatto - un amplesso - è vanto per l'uomo, e vergogna per la donna». Nel 1963 le ragazze italiane, lettrici di rotocalchi, appassionate di musica leggera, telespettatrici, possono ammirare il cattivo esempio di una di loro, la ventitreenne Anna Mina Mazzini, in arte Mina, che da alla luce un maschietto, Massimiliano. Mina non è sposata, ma lo è l'attore Corrado Pani, padre del bimbo. Per la legge italiana, i due non possono convivere e Massimiliano non può portare il cognome paterno. Per la morale corrente, Mina dovrebbe nascondersi ed essere rinnegata dalla famiglia. Invece la cantante, amorevolmente assistita dai genitori, dichiara: «Non mi vergogno affatto, sono umiliata che mio figlio si chiami Mazzini, che non possa vivere con suo padre». Per un anno, la peccatri-ce non comparirà alla televisione, perché quello di una ragazza madre, per giunta trionfante nel successo professionale e nella maternità, non è uno spettacolo da proporre alle famiglie. La quarantena ha termine nel 1964, quando si fa strada nella testa di milioni di donne che, se l'ha fatto Mina, non sarà poi tanto irreparabile. La comunicazione di massa, a partire dal dopoguerra, si impone attraverso la radio, i fotoromanzi, i rotocalchi e la televisione, il cinema e la letteratura. Milioni di adolescenti e ragazze, dunque, hanno sotto gli occhi quegli esempi che la morale comune invita a non imitare. Cioè donne di ogni tipo che, in un modo o nell'altro, hanno trasgredito. E scoprono che si tratta dì persone simpatiche, che forse hanno ragione, o che comunque la passano liscia. Mina è una grande cantante, amata e ammirata. Ma anche Franca Viola ha certamente ragione, perché rifiuta con ostinazione un destino che non le piace e che tuttavia si cerca di imporle. Figlia di un contadino di Alcamo, Bernardo, ha diciassette anni, un faccino grazioso e un corteggiatore poco gradito: Filippo Melodia, di ventitré anni, rampollo di una famiglia potente, imparentata con il clan mafioso dei Rimi. Corteggia Franca con l'arroganza di chi sa che può sempre ottenere ciò che vuole. Lei, però, non lo gradisce e lo congeda. È appoggiata in questo dal padre, il quale dichiara: «A me piace la gente che lavora», e invece il ragazzo trascorre il suo tempo tra le corse in Giulietta, il bar Calypso e la prostituta Anna Oddo. Respinto e umiliato, il corteggiatore prende le sue contromisure e provvede a far pascolare una mandria di mucche sul terreno appena seminato da Bernardo. Ora la famiglia è rovinata, ma una soluzione c'è: le nozze di Franca con Filippo. Poiché lei rifiuta tale soluzione, lui la rapisce il 26 dicembre 1965, aiutato da altri quattordici giovinastri, e la sequestra per otto giorni, durante i quali Franca viene violentata. Ora sì che dovrà sposarlo, perché ha perso l'onore, tanto più che questo è l'unico modo per sanare il reato commesso da Melodia: l'articolo 544 del Codice penale stabilisce infatti che la seduzione di minorenne venga cancellata dalle nozze. Franca respinge il matrimonio riparatore, denuncia i rapitori e stupratori, affronta un processo delicato e doloroso, nonché la riprovazione della maggior parte dei concittadini. L'arciprete di Alcamo, monsignor Regina, dichiara che il clamore suscitato dai giornali su questa storia farà rimanere zitella la ragazza. Franca tiene duro, contro ogni regola vigente e contro la tradizione locale. Melodia è condannato a undici anni e i suoi complici a pene minori. L'esempio di Franca non passa inosservato. A differenza di quanto pensa monsignor Regina, tanto clamore risulterà educativo e altre giovani seguiranno l'esempio rifiutando il matrimonio riparatore, che comincia a essere considerato una croce peggiore dello stupro. In altri tempi Tamara Baroni sarebbe stata ritenuta a tutti gli effetti una ragazza perduta Cesare Lombroso le avrebbe attribuito i tratti della donna delinquente -, ma nel 1969 la vicenda parmigiana di sesso e tentato omicidio finisce nelle pagine di cronaca, nei fotoromanzi e nei film. Il suo non è un esempio virtuoso, ma una ghiotta storia di sesso che si può conoscere al prezzo di un rotocalco. Tamara è una «mora strepitosa» che, diciottenne e incinta, lascia il marito dopo una breve convivenza. Non era «vero amore», dira lei più tardi. Tenta il concorso di Miss Italia e arriva in finale, ma è eliminata perché già madre. Quando conosce Pier Luigi Bormioli, industriale del vetro, detto Bubi, a sua volta sposato e padre di quattro figli, forse è amore vero. Di certo li unisce la passione, almeno per un po'. Nel dicembre 1969 la signora Bormioli denuncia alla polizia di aver ricevuto minacce di morte, nonché la soffiata di due
balordi, i quali affermano che Tamara li ha pagati per ucciderla. La «mora» intanto accusa Bubi di averla stuprata e vuota il sacco con i giornali, riferendo ogni particolare della loro relazione nonché parecchi dettagli della vita di una delle famiglie più ricche di Parma. Non è un buon esempio per le giovani una bella ragazza che da la scalata al successo con mezzi illeciti e disordinati. A Tamara, tanto dilettantismo frutta quarantacinque giorni di prigione, un processo dal quale uscirà scagionata e una breve carriera cinematografica, con il film Lefiglie della colonnella, un porno rosa nel quale la giovane si spoglia, proprio come faceva con il suo Bubi, ma questa volta è un nudo democratico, offerto a una miriade di spettatori al prezzo di un biglietto. Sultani contestati Tra i padri e i figli degli anni Sessanta la differenza è an-cor più grande, ma più sfumata di quella che corre tra madri e figlie. Non sono i maschi i veri protagonisti della rivoluzione, covata tanto a lungo nel corso del secolo. Quando Gabriella Parca pubblica I sultani, nel 1965, si può constatare che tra i maschi le antiche abitudini sono dure a morire. Tra i nati negli anni Trenta, per esempio, prevalgono coloro che hanno sperimentato l'iniziazione sessuale con una prostituta. Tra i più giovani, invece, sono quasi la metà quelli che hanno avuto il loro primo rapporto con la ragazza che amano. Ma sia gli uni che gli altri difendono i valori e le idee tradizionali con maggior ostinazione: 81 su 100 rimpiangono i bordelli, 71 frequentano abitualmente le prostitute e 60 ambiscono a sposare una ragazza vergine. E gli educatori non li aiutano ad aggiornarsi: nel 1963 Hervé Picard afferma che il sesso prima del matrimonio si identifica con la prostituzione e con la sifilide, perciò lo sconsiglia ai giovani lettori. Eppure le nuove generazioni hanno parecchio da scoprire. Sulla scia dei coetanei inglesi, fantasiosi e pacifisti, a metà del decennio Sessanta, trovano utile contestare l'immagine borghese e ottocentesca della virilità e dicono addio all'abito sobrio, grigio, austero dei lavoratori e padri di famiglia, abbandonano i capelli corti e la barba ben rasata, si fanno irsuti, ricciuti e inanellati. Nell'epoca dei Beatles, portano un'acconciatura a caschetto, e non temono di rinunciare alle prerogative del loro genere se indossano camicie a fiori e infilano stivaletti con il tacco. Dopo il 1968 i giovani maschi vengono messi a dura prova nell'esperienza del movimento studentesco e dei gruppi politici di estrema sinistra, dove si predica la lotta di classe, la giustizia e l'uguaglianza, si pratica il sesso libero, la coppia aperta, la vita comunitaria, il collettivo. Sono le ragazze, più spesso, a spingere verso la rivoluzione dei rapporti personali, che giudicano prioritaria o almeno parallela a quella dei rapporti sociali. Nell'entusiasmo amoroso che infiamma quegli anni, il maschio sultano è contestato davanti al lavello di cucina come tra le lenzuola, dove - in omaggio allo slogan «personale è politico» - si discute di marxismo tra un accoppiamento e un altro. Se ciò accade tra le avanguardie studentesche, evolute e politicizzate, la liberazione sessuale si fa strada anche nella retroguardia, negli strati più provinciali e meno consapevoli della popolazione maschile. Per tutti i giovanotti cresciuti al riparo delle sottane, all'estero c'è qualcosa di interessante da scoprire: nel 1969 una truppa di 4 mila maschi palermitani punta sulla fiera dei prodotti erotici di Copenhagen, racconta Costanzo Costantini, come in un pellegrinaggio. La curiosità del gruppone è soddisfatta, ma la delusione è grande, perché questo sesso disponibile, asettico e commerciale non ha sapore: meglio le nostre ragazze pudiche, coperte e accompagnate a messa dalla mamma e dalla zia. Di fronte a pornoshop e liveshop, che in Italia non esistono, un buon numero di loro, giunti fin lì dopo un viaggio lungo e costoso, ha la faccia scontenta e sgomenta. Tutto sommato è preferibile il sesso rubato, si gode di più a guardare dal buco della serratura, a scoprire e conquistare la femmina del cuore. Tanti falli e cosce, inguini e seni, così in mostra, procurano loro soltanto angoscia. Quando assistono allo spettacolo del coito, che viene recitato con perizia professionale, restano delusi: dunque il sesso non è una questione di innato talento e di grandezza del fallo? Gli italici turisti sono colpiti dal dubbio atroce che, forse, per farlo bene occorre imparare con pazienza ed esercitare con amore. Non è questo il sesso che speravano di trovare nel paradiso della libertà.
Ai maschi, come rivela l'inchiesta Shell, non spetta l'iniziativa: solo un terzo delle donne interpellate ritiene che sia giusto così, mentre la metà afferma che il primo passo in amore è un diritto di entrambi. Per queste ragioni, o forse per la nostalgia del buon tempo andato che era così marcatamente a favore dei maschi, nel 1973 ha tanto successo il film Malizia di Salvatore Samperi, in cui si rispolverano tutti i vecchi arnesi cari ai tradizionalisti: la cameriera, il matrimonio d'interesse, la prima notte, le calze nere e il reggicalze, l'adolescente preda del desiderio. Angela (Laura Antonelli), la cameriera, stringe un patto con Momo, quattordicenne figlio del padrone di casa: lui l'aiuterà a farsi sposare dal padre, lei gli si concederà la notte precedente quella nuziale. Se i maschi, anche dopo la cosiddetta liberazione, si accontentano dei vecchi strumenti del piacere, le femmine continuano a sognare il Principe azzurro, perfino per scopi solo sessuali. Un sondaggio presentato dal «Venerdì di Repubblica» svela quali siano le esigenze femminili. Lui dev'essere fedele per il 34% delle interpellate, intelligente per il 27,3%, morale per il 25,1%. Soltanto il 5,8% pretende una buona capacità di amare carnalmente; e i luoghi ideali per far l'amore sono - proprio come nei dépliant turistici - una spiaggia esotica (42,8%) o una baita in montagna (36,5%). La maggioranza delle donne preferisce l'uomo bruno, più glabro che peloso: è essenziale che sia pulito, ma non importa che sia bello. L'impotenza maschile, argomento assai scottante, viene svelata e curata con più efficienza del passato, ma la vergogna rimane: nel 1998, quando anche in Italia è disponibile il Viagra, un farmaco che consente l'erezione anche a chi normalmente non ce l'ha, non si assiste alla temuta corsa alla farmacia. Quale maschio vuole aggiungere all'umiliazione dell'impotenza anche un tremore simile a quello sperimentato dai giovanotti che trenta o qua-rant'anni prima comperavano un preservativo sotto gli occhi severi del farmacista e della clientela? La causa più frequente dell'impotenza maschile, almeno a quanto dicono gli specialisti, è oggi lo stress. Di certo, l'intraprendenza femminile non facilita le cose. C'è però chi continua a credere nello stereotipo del maschio latino, buono, fragile per molti aspetti, ma sempre pronto all'azione amorosa. Nel 1999 Manila Nazzaro, neo Miss Italia, in un'intervista televisiva, oltre a dichiarare di essere vergine, espone la propria opinione: «L'italiano è il seduttore per eccellenza, l'uomo per eccellenza». Alla fine del ventesimo secolo e quarant'anni dopo la cosiddetta caduta del tabù, rispunta il sempreverde modello della fanciulla pura come un angelo e del maschio ben dotato. Tanto per cominciare A partire dagli anni Settanta, la prima volta è sempre meno un'occasione furtiva o una cerimonia da viaggio di nozze e sempre più un appuntamento affettuoso e fuori dai legami. Nel 1978 Rowena Davis e Giampaolo Fabris registrano il fatto che, se 1 uomo su 5 ha cominciato la propria vita sessuale con una prostituta, con il calare dell'età degli intervistati questa percentuale diminuisce: il sesso pagato è un tipo di iniziazione in piena decadenza. Con l'avvento dei contraccettivi facili e di massa, le ragazze non sono oppresse dalla paura della gravidanza indesiderata, e i ragazzi non devono temere nozze precoci e ri-paratrici. La curiosità è la ragione ufficiosa che spinge a provarci, l'amore quella ufficiale: in genere si consuma con un coetaneo, un compagno di scuola. Lui sceglie magari una signora esperta, un'amica incontrata in vacanza. E - perché no? - il promesso sposo o la fidanzata. Nel 1987 La prima volta: un'indagine sulla scoperta della sessualità nell'adolescenza rivela che i ragazzi sperimentano il sesso «nel contesto di una relazione affettiva», ma il loro «battesimo» si rivela quasi sempre deludente. Il fatto è che, come loro stessi ammettono, lo fanno spesso per una sorta di dovere culturale e sociale. Il divieto ad accostarsi all'amore carnale prima delle nozze si è trasformato, in pochi decenni, in un invito a non sottrarsi all'esperienza sessuale, percepita come un biglietto d'ingresso nel mondo degli adulti. Molti maschi e femmine anticipano perciò il momento del primo rapporto, misurandolo sulle esigenze sociali e non su quelle emotive: l'età media è 16-17 anni per il 41% degli interpellati. In generale, però, confessano di aver affrettato i tempi, e lo hanno fatto, appunto, per sentirsi adulti, ma anche perché baci, carezze, abbracci, esplorazioni
reciproche - normali in una relazione affettiva giovanile - portano inevitabilmente al coito. In un ventennio la situazione si è rovesciata: dal dovere della purezza si passa a quello di sverginarsi, dall'obbligo della castità a quello della pratica sessuale. Le ragazze, risulta da questa inchiesta, dicono addio alla verginità senza drammi; lo fanno per amore o per compiacere lui. I ragazzi, invece, sono spinti dall'attrazione fisica e vogliono imparare, perché il «saperci fare» rimane l'eterno timore maschile. Perciò spesso scelgono una donna che ne sa di più. La delusione, quasi inevitabile per entrambi, scaturisce dal confronto fra l'evento reale e quello immaginato, a somiglianzà delle rappresentazioni «ufficiali» del cinema, della televisione oppure di quanto evocato nel romanzo rosa o descritto vividamente dalla letteratura erotica. Bellezza fisica, erezione, orgasmo vengono raccontati attraverso modelli e situazioni perfetti. Invece, sulla prima volta reale finiscono per gravare imperfezioni fisiche, imbarazzi, impacci, odori. La rivoluzione del sesso ha prodotto nuove schiavitù. I rapporti sessuali? «Me li aspettavo migliori, come si legge sui giornali» osserva una ragazza. E un giovane ammette: «Me li aspettavo più romantici: forse non è stato così perché non abbiamo avuto il tempo di conoscerci». E c'è bisogno di sfogarsi, di riversare l'ansia su qualcun altro: un quinto dei giovani intervistati racconta ai genitori - di preferenza alla madre -la sua prima volta, con gioie e dolori. Quanta angoscia prova tuttora un maschio adolescente ai primi approcci: «Queste cose qua mi sarebbe sempre piaciuto saperle, entrare nel cervello di una donna per vedere che cosa le piace, però non me lo immagino, non posso saperlo, dovrei entrare in loro, ma non posso» confessa un ragazzo. Secondo la sessuologa Alessandra Graziottin, convinta che sia fin troppo diffusa tra i giovani l'ignoranza sul proprio e altrui corpo, è difficile che in una femmina la prima penetrazione provochi una stimolazione clitoridea; per tale ragione, l'esordio può essere meno soddisfacente di una masturbazione. È deludente perfino il fatto che la perdita della verginità non sia quel dramma a tinte forti, quel bagno di sangue descritto dalle fonti ufficiali. In Ti prendo e ti porto via di Niccolo Ammaniti, Flora è vergine a trentadue anni quando fa l'amore con Graziano, e «il dolore, il terribile, mitico e straziante dolore tanto temuto non arrivò. No. Non faceva male». Che la leggenda dell'estasi amorosa e la realtà del congiungimento di due corpi siano molto lontani una dall'altra è confermato da un'indagine mondiale sulla «prima volta» svolta nel 1999. La Durex Global Sex Survey, che osserva un campione di 4200 ragazzi tra i 16 e i 21 anni in quattordici paesi del mondo, registra che 4 adolescenti su 10 tra i 15 e i 16 anni definiscono la loro prima volta «deludente» e altri addirittura «sgradevole». Un terzo degli interpellati si dichiara vergine e non prevede di affrontare rapporti sessuali completi se non verso i 20 anni, forse anche perché l'adolescenza si sta allungando sempre più. Come conseguenza, si apre a ventaglio l'età possibile della prima volta: per qualcuno è prestissimo, 12-13 anni, per altri si attesta sui 20 anni. In questa esperienza i problemi sono radicalmente diversi da quelli di mezzo secolo prima: ora non è più l'ignoranza, ma la consapevolezza ad accompagnare i giovani. Il rischio di contrarre malattie - essenzialmente l'AIDS, che ha preso il posto della sifilide nelle paure collettive - fa da terzo incomodo nelle relazioni giovanili. L'esigenza di un'informazione seria, non improvvisata né propagandistica, è espressa da molti ragazzi (un terzo di loro, a quanto risulta, scambia nozioni con gli amici), soprattutto in materia di contraccezione, che a fine secolo è largamente praticata: i giovani italiani dichiarano di aver utilizzato un contraccettivo in occasione della prima volta nel 61% dei casi (contro una media mondiale del 72%). Tra questi, il 52% ha adottato il preservativo (la media mondiale è del 43%). L'apprendistato sessuale si sta allungando: nella ricerca di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio De Lillo Giovani verso il Duemila si nota che 1 maschio su 4 alla soglia dei 30 anni non ha un rapporto stabile. Perché questo sia buono, solido e sicuro, gli interpellati mettono al primo posto il rispetto, poi la comprensione, quindi la fedeltà e la capacità di comunicare. Solo al quinto posto viene l'intesa sessuale (metà di loro la ritiene tuttavia un fattore di riuscita della
coppia). Maschi e femmine si sposano più tardi della generazione precedente; la maggioranza non è affatto contraria alla convivenza, ma sono pochi a sceglierla (meno dell'1%). Che noia la coppia «Dovrai continuare a carezzarla»: è questa la formula che Hervé Picard usa per esortare il marito a prendersi la responsabilità dell'orgasmo della moglie. Quando lui è soddisfatto, deve imporsi di gratificare anche a lei, la sposa cattolica. L'affermazione del diritto femminile all'orgasmo è venuta da Pio XII e, sulla sua scia, da tutta la Chiesa. Sul «come» compiere tale dovere, preti, sessuologi e consulenti sono vaghi e reticenti. Da quando il matrimonio non è più «un contratto tra due patrimoni o due miserie» ma un patto tra due libido, il rapporto d'amore e la pratica del sesso sono i punti focali dell'attenzione dei coniugi. L'intesa deve funzionare e, in caso contrario, dopo il 1968, a medicare disfunzioni, ferite e traumi del sesso coniugale non è più il confessore, ma sempre più spesso lo psicanalista, il consulente, il sessuologo e la conduttrice televisiva. L'impegno profuso nel perseguimento dell'orgasmo vale per femmine e maschi e, se è un diritto per le prime, diventa un dovere per i secondi. Cadono sempre più nel vuoto le raccomandazioni alla castità e alla continenza come quelle di Picard, che consiglia agli sposi novelli di fare l'amore - e fin qui tutto bene - la prima volta, e poi però fare una pausa. Al marito suggerisce: «Sii molto delicato, molto prudente» perché la vagina si irrita dopo la rottura dell'imene. Qualsiasi matrimonio solido è improntato alla parsimonia: «Meglio non abusare dell'unione carnale» che «sfinisce gli sposi, li indebolisce, li predispone alle malattie». Ma la caduta del tabù sessuale e l'affermarsi del diritto femminile all'orgasmo non producono l'immediata felicità della coppia. «Il marito non è mai un amante» dichiara un'operaia ventottenne a Lieta Harrison nel 1972. Come dimostra la Harrison, dal sesso matrimoniale le madri aspettano poco o nulla: per loro, nella migliore delle ipotesi esso è indifferente, nella peggiore è sgradevole; il marito è di volta in volta definito maldestro, frettoloso, incompetente, taciturno. Madri e figlie sono d'accordo su un punto: lui non accetta suggerimenti né critiche. La vita coniugale delle figlie non sembra particolarmente toccata dalla ventata rivoluzionaria: con il marito lo fanno una volta la settimana (25%) o meno di una volta al mese (8%) per una durata massima di 10-15 minuti e minima di 1 minuto. Un'impiegata palermitana confessa: «Non ho il tempo di dire "Dio, che fu?" che lui ha già finito». Una donna ammette che «lui con due minuti è contento» e una casalinga cinquantaseienne dichiara che «se Dio vuole in cinque minuti è tutto finito». Per una moglie, in fin dei conti, fingere l'orgasmo è più semplice che perseguirlo. Certe volte la pace coniugale esige il sacrificio del piacere femminile, e così è tanto per la generazione delle madri che per quella delle figlie. I mariti si accontentano della finzione, si sgomentano invece di fronte alla fatica di imparare a fare l'amore con più competenza. Il 1968 porta pesanti conseguenze sulle regole del gioco di coppia, nonché sui ruoli maschili e femminili. Ricorda Lara Foletti quei giorni all'Università di Trento, uno dei punti focali della rivolta studentesca: «C'erano le ragazze che erano pronte ad andare a letto coi ragazzi perché era considerato rivoluzionario, serviva alla causa. C'erano i leader che si dividevano le ragazze con cui andare, come se fossero una preda, un bottino su cui loro avevano ogni diritto... Si faceva sesso in abbondanza, ma sbrigativamente, alla maniera loro». Alla moda cinese, nascono le comuni, dove gli amori sbocciano e sfioriscono. Si concludono matrimoni - con il rito civile, quello religioso oppure quello marxista-leninista - che possono essere chiusi come vuole la tradizione, o aperti a una terza persona, a una quarta, a uno scambio. Dopo un po' di tempo i seguaci della coppia aperta si accorgono che, in queste condizioni, non è più una sistemazione a due ma un assembramento. Tra la coppia aperta e quella disfatta il passo è breve; per fortuna dal 1970 è in vigore il divorzio, che permette di sanare le ferite del passato, rimediare agli errori giovanili e a quelli tardivi. L'istituzione del divorzio ha scarsi effetti sulla solidità della famiglia italiana, vi si fa ricorso con misura e non si avvera affatto il pronostico formulato da Amintore Fanfani il 26 aprile 1974 in un discorso a Cal-tanissetta, poco prima del referendum abrogativo: «Se il
divorzio passerà, in Italia sarà persino possibile il matrimonio tra omosessuali» e «le mogli lasceranno i mariti per scappare con il migliore amico del coniuge o con un ragazzino, e i mariti lasceranno le mogli per scappare con la donna di servizio o con qualche fanciulla desiderosa di apprendere». Quanto alla causa della rivoluzione, come già aveva insegnato Lenin, essa esige una buona dose di puritanesimo. Nel 1974 due giovani, militanti nello stesso gruppo e di recente innamorati, preferiscono le serate a due al collettivo internazionalista del giovedì. Vengono convocati a discolparsi, il capo d'accusa è lo scarso attaccamento alla missione politica e il cedimento alla lascivia. Tra gli accusatori ci sono l'ex marito di lei e un compagno che lei ha respinto. La coppia chiusa è una sciagura, ma gli assembramenti non sono da meno e la molteplicità dei rapporti mal si concilia con la solidità della famiglia. Il dilemma, non ancora risolto, era già stato illustrato da Wilhelm Reich, che torna di moda nella ventata antiautoritaria: «La difficoltà fondamentale di ogni relazione sessuale permanente è il conflitto fra l'attenuarsi (temporaneo o definitivo) del desiderio sessuale da un lato e il sempre crescente attaccamento affettivo verso il partner dall'altro». In Giovani verso il Duemila questo messaggio sembra essere stato accolto. Per il proprio futuro la maggioranza dei ragazzi dai 15 ai 29 anni ritiene che l'intesa fisica sia meno importante del rispetto reciproco e della fedeltà (anche se per i maschi conta più che per le femmine). Nel 1971 l'americana Camille Paglia pubblica Sexual Personal, dove, fra l'altro, conferma l'esistenza del dilemma: «Il matrimonio non serve più e spegne il desiderio sessuale», ma osserva anche che le donne «non devono dimenticare il loro destino biologico», quello della riproduzione della specie. Alla fine del secolo il matrimonio con eros sembra aver lasciato alle spalle il suo momento di gloria. Secondo Jean-Claude Kaufmann, l'intimità tra due persone, quella che una volta aveva inizio la prima notte di nozze, è ormai sostituita dai «panni sporchi». Il suggello della vita a due, sostiene Kaufmann, non proviene più da una notte d'amore, ma dal gesto di mettere in comune la biancheria da lavare; calzini, mutande e canottiere cementano la convivenza, che viene poi sancita dall'acquisto della lavatrice. Separato il sesso dalla procreazione, anche il matrimonio viene scorporato dal sesso e, come abbiamo visto, perfino la procreazione è svincolata dal sesso, grazie alla fecondazione artificiale e assistita. Ancora una volta, le carte si rimescolano benché il matrimonio rimanga il perno dell'ordine sociale e la principale modalità di convivenza e riproduzione. La durezza della monogamia è aggravata dall'allungamento della vita media, ma è mitigata dal divorzio e alleggerita dalla silenziosa tolleranza verso l'adulterio, che qualche volta viene perfino incoraggiato come espediente per «salvare la coppia». Dopo l'entusiasmo rivoluzionario, si può con calma constatare che il sesso è, sì, cambiato, liberato di gran parte dei pudori, ipocrisie, vincoli del passato. Ma, invece di produrre un'immediata felicità, ha creato nuovi e diversi problemi. Forse i nostri antenati avevano ragione. I due principi della rivoluzione sessuale - il diritto all'amore e il diritto alla felicità rafforzano l'individualismo e mettono in secondo piano le esigenze sociali. E infatti sono sotto i nostri occhi la precarietà della famiglia tradizionale e la ricerca del piacere personale. Che noia accoppiarsi Benché siano caduti i divieti, il mistero e il tabù, il sesso fa ancora tremare, se ne parla con imbarazzo o con incompetenza. Nel 1978, notano Rowena Davis e Giampaolo Fabris, i giovani e le donne sono pionieri dei comportamenti nuovi, ma per gli altri regna sovrana la miseria sessuale: 1 persona adulta su 10 non ha mai avuto rapporti, le donne sopra i cinquantanni non lo fanno quasi più (molte di loro si sentono finalmente libere dal debito coniugale) mentre i loro maschi si accoppiano con ragazze o con prostitute. Negli anni Settanta la frequenza media dei rapporti sessuali in Italia è di 1,7 volte la settimana. Di solito si fa la sera; soltanto 4 coppie su 10 curano i preliminari, metà degli intervistati si spoglia, mentre 4 su 10 non tolgono gli abiti (il nudo, insieme alla luce accesa, prevale tra i giovani). La posizione più comune adottata è quella del missionario, seguita dal suo opposto, la donna sopra
e il maschio sotto. L'orgasmo è tutto da conquistare: metà dei maschi lo ottiene sempre (ma le donne molto meno degli uomini), un terzo quasi sempre, un decimo qualche volta e il 3% mai. All'indomani della rivoluzione, sessuologi, psicologi e consulenti della piccola posta registrano che il guaio più frequente dei maschi è l'eiaculazione precoce o l'assenza di erezione; hanno voglia di fare l'amore, si eccitano, ma al cospetto della fidanzata, della moglie, dell'amante, della prostituta, non ce la fanno più: «Non riesco a sfogare», «Non pratico l'atto», «Mi sento freddo». Per le donne è anche peggio: nel 1973 La donna oggi in Italia rivela che l'insoddisfazione femminile ha molte cause: per cominciare l'assenza d'intesa, di amore e di affetto con il partner (13,2% dei casi), poi la mancanza di educazione sessuale (6,5%), l'egoismo maschile (7,8%) e infine l'inibizione e la vergogna (7,4%). Oltre un quarto di secolo più tardi le cose sono cambiate di poco; nell'estate 1999, a Roma, il Congresso dei ginecologi e ostetrici esamina e discute una ricerca dalla quale emerge che soltanto un quinto delle donne conosce l'orgasmo e un terzo di loro lamenta un calo del desiderio. Vanno aiutate, ma in che modo? Un'enciclopedia medica suggerisce di cominciare dal linguaggio ? sconsiglia di usare il termine «frigidità», perché comporta una colpevolizzazione della donna «per qualcosa che esiste solo nella mente del suo partner». Ora è possibile misurare gli effetti della rivoluzione sessuale, grazie ai sondaggi, uno strumento largamente utilizzato anche se poco affidabile, che fornisce dati variabili e contraddittori. Tutti indicano però una tendenza al sesso raro, frettoloso e deludente. Nel 1999, per esempio, risulta che in Italia i giovani di 16-21 anni hanno in media 78 rapporti sessuali all'anno (contro i 98 della media mondiale). Quanto all'orgasmo, secondo un'inchiesta dello stesso anno condotta dal settimanale «Panorama», 2 maschi su 3 raggiungono l'orgasmo, cosa che è vera soltanto per 3 femmine su 10 (però, secondo l'Enciclopedia medica di «Selezione», un decimo di loro non lo ha sperimentato mai). Per «Panorama» almeno un quinto dei maschi soffre di eiaculazione precoce, 1 donna su 4 ama il sesso anale e quasi tutti si abbandonano a fantasie erotiche: alle donne piace immaginare di essere prese con la forza o essere guardate, i maschi sognano di farlo con più partner, magari in una folla orgiastica. Il sesso orale, che risparmia l'uso di anticoncezionali e di profilattici, si fa senza problemi; purtroppo dagli anni Ottanta ha come conseguenza la diffusione dell'herpes genitalis, un virus che non è curabile, e viene trasmesso dalla bocca alle mucose genitali. Secondo L'universo del corpo, un'opera in cinque volumi curata dall'Enciclopedia Treccani, il 70% delle coppie adotta la posizione del missionario e soltanto il 10% il suo contrario, un terzo delle donne non ha orgasmo, neppure masturbandosi (ma per la Durex nel 1999 sono un quarto), mentre il 98% degli uomini ce l'ha. Tra i 20 e i 30 anni le persone hanno in media quattro rapporti la settimana, tra i 30 e i 40 due o tre la settimana e oltre i 50 uno solo. Nel 1999, secondo un'indagine dell'istituto IMS, nel 56% dei casi il coito avviene per dieci minuti tra le undici e mezzanotte (nel 18%, invece, di mattina e nel 13% il pomeriggio). In oltre metà delle coppie interpellate è lei a fare il primo passo. Ma, sempre nel 1999, le cifre della Durex indicano che gli italiani fanno sesso 105 volte l'anno in media, per 13 minuti e 8 secondi, e questo li colloca al 113° posto nel mondo. Prende piede il sesso che non fa perdere tempo, secondo «Riza psicosomatica», il «mordi e fuggi» senza conseguenze e senza cuore. Non c'è da meravigliarsi se tra la fretta e la noia, come si è rilevato nel luglio 1999 al convegno di Tolosa dal titolo Il sesso negli anni Duemila, almeno 400 mila italiani - e sono in aumento - cerchino uno scambio di partner. Triangoli perversi e virtuosi Il 30 agosto 1970 Camillo Casati Stampa di Sonrìno, un aristocratico lombardo di quarantatré anni, spara nella sua casa romana alla moglie Anna Fallarino, una bruna quarantunenne, e al giovane Massimo Minorenti, che ha venticinque anni ed è l'amante di Anna. Due colpi della Browning calibro 12 colpiscono la marchesa, due il ragazzo, un altro ancora la signora, e l'ultimo Camillo lo riserva a se stesso. Tre morti in un
delitto di gelosia, certo, ma condito di giochi perversi, di défaillances sessuali, di blasoni, di denaro e di mondanità. Camillo non si accoppia con la moglie, paga però - la tariffa è 30 mila lire - per guardare qualcun altro che lo fa. Quando Anna vuole lasciarlo per Massimo, il marchese - che l'aveva pur avvertita: «Se mi tradisci con il cuore, ti ammazzo» - mantiene la parola. Il fattaccio, una sfrenatezza da miliardari annoiati e viziati, viene interpretato così dall'«Osservatore romano»: «La ricchezza può diventare condizione agevole al perseguimento di torbide licenze». Lo psicanalista Emilio Ser-vadio legge invece nella psiche dei protagonisti: Camillo vive come se lui fosse Anna, perché desidera inconsciamente un rapporto omosessuale con Massimo, mentre Anna, come la maggior parte delle donne, è masochista e si lascia usare. Un caso straordinario quello dei Casati, che indulgono a passatempi sconosciuti al popolo. Ma è vero che l'adulterio, dopo la rivoluzione, perde molto della sua drammaticità. Grazie alla pillola, è possibile evitare prole indesiderata. Grazie alla parità tra i sessi, le mogli si abituano a considerare meno grave l'infedeltà propria e altrui. Ha dell'incredibile, ma potrebbe essere un segno dei tempi disinvolti, l'allegria di Lucilla, cinquantasei anni, che scrive a Isabella Bossi Fedrigotti sul settimanale «Sette» nel luglio 2000: la vita di Lucilla si divide tra un marito, due figli, il lavoro e due amanti di recente conquista. Lei è felicissima e compiange le donne più giovani che lamentano la mancanza di tanto ben di Dio. «Finalmente la maturità, mi dicevo, e la pace dei sensi... E invece rieccomi a saltellare qua e là tra un uomo e l'altro, allegra, felice e, purtroppo, molto bugiarda». Nessun marito duella più per l'onore perduto, ma una moglie senza orgasmo nel letto coniugale si sente in diritto di ottenerlo altrove. Anzi, simularlo con lo sposo e manifestarlo con l'altro diventa una necessità sempre più dichiarata: un quarto delle mogli giovani interpellate da Lieta Harrison nel 1972 ha avuto una storia extraconiugale (il doppio delle loro madri). Tra le infedeli, le casalinghe sono le più numerose, tendono a sdrammatizzare e, nel caso che sia lui l'adultero, metà delle mogli giovani è disposta a ricambiarlo, e lo fa. Nel 1978, invece, secondo l'indagine di Rowena Davis e Giampaolo Fabris, oltre 9 donne su 10 e il 76% dei maschi hanno avuto più di un partner negli ultimi sei mesi (ma più di due terzi delle intervistate ha avuto nella vita un solo uomo, mentre il 38% dei maschi ha avuto più di dieci compagne). Fino al 1968 il timore di commettere un reato tiene alquanto a freno le mogli, insieme alla consapevolezza di compiere, tradendo, un passo grave, severamente giudicato dalla società. Tra i più giovani, invece, la statistica dell'infedeltà mostra una situazione più paritaria. A partire dagli anni Ottanta il mondo dello spettacolo, la televisione, i rotocalchi e l'osservazione della realtà tolgono ogni connotazione tra-sgressiva all'adulterio: se una coppia convive senza il sacro vincolo, è tradimento oppure no? Attori, presentatori, ballerine e principesse vengono fotografati con il «fidanzato» o la «fidanzata», anche se sono rispettivamente coniugati con altri. Anche il linguaggio toglie ormai ogni connotazione forte all'adulterio: il marito fedifrago o la moglie svergognata vengono presentati semplicemente come persone innamorate. E poco importa se l'amore va contro la morale. Non potrebbe essere altrimenti in un contesto nel quale le nozze hanno perso ogni significato di fronte alle convivenze libere, alle famiglie di fatto, agli amori caduchi che popolano la fine del Novecento, non soltanto nel mondo dorato dell'aristocrazia dei blasoni, dei miliardi, dei lustrini e del video, ma anche tra la gente comune. In fondo questa è democrazia. C'è una speranza oltre i cinquanta Il caso della milanese Lucilla che si divide tra tre uomini a cinquantasei anni non è così anomalo. Un settimanale cattolico, «Club 3», nel luglio 2000, riporta un sondaggio condotto su 345 persone sopra i cinquantanni, dal quale risulta che metà di loro hanno una vita sessuale «molto soddisfacente» o «abbastanza soddisfacente». Certo, ammettono gli interpellati, i rapporti sono meno frequenti, ma più teneri. Il sesso occupa uno spazio sempre più lungo nell'esistenza, e cambia con il passare delle stagioni ma, a differenza del passato, gli ultracinquantenni non si vergognano di dichiararsi attivi e contenti. Sono più
attivi e più contenti, dicono i sessuologi, uomini e donne che non hanno mai smesso di praticare il sesso che, evidentemente, è un vero amico: se non viene trascurato, saprà ricambiare. Una ricerca dell'associazione torinese Il tempo di Alice rivela nel 1999 che le donne sopra i sessantanni lo praticano ancora volentieri: su 200 interpellate, il 70% cerca l'amore, il 20% non vuole vincoli e il 10% ha una relazione che tiene nascosta ai parenti. Il sesso dopo i cinquantanni è sempre stato mal visto: non serve a procreare, non è connotato da bellezza fisica, è possibile che il desiderio venga a mancare. Era, insomma, considerato una delle tante vergogne da nascondere. Con l'allungamento della vita media e la popolazione che sta invecchiando, invece, esso esce allo scoperto, viene propagandato, esaltato, incoraggiato. Una volta i medici lo sconsigliavano, ora lo caldeggiano. Ne La nuova longevità, Carlo Vergani riferisce che un'indagine su 500 maschi smentisce il calo del desiderio sopra i 60 anni. Quando la chiamò «menopausa», nel 1846, il medico francese Jean-Baptiste Poquillon prescriveva che in quella evenienza «le donne debbono evitare tutto quel che possa eccitarle vivamente, astenersi rigorosamente dai piaceri dell'amore, mettersi al riparo da ogni passione, mantenersi in una dolce tranquillità fuggendo quanto possa colpire la sensibilità e svegliare l'immaginazione». Ora però i consigli degli esperti vanno nella direzione opposta. Nel complesso della popolazione italiana cresce la percentuale di donne al di là della menopausa, che vivranno ancora a lungo (la durata media della vita femminile è di ottant'anni) e che non hanno affatto smarrito il desiderio. Poiché rappresentano un mercato prospero, sicuro e duraturo per farma-ci, cosmetici, viaggi e tempo libero, vengono coccolate a tal punto da riconoscere loro un diritto speciale ai piaceri della carne. Era convinzione diffusa che, superato il climaterio e conclusa l'età feconda, le donne fossero uscite dall'universo della sessualità. Ma un'indagine del 1981 rivela una media di 1,4 rapporti sessuali la settimana nell'età compresa tra i 60 e i 91 anni, e sette anni più tardi si scopre che un terzo delle donne tra gli 80 e i 102 anni ha ancora un'attività sessuale (questa frequenza corrisponde a quella osservata da Alfred Kinsey nel 1953 nelle donne tra i 45 e i 50 anni). Il diritto femminile all'orgasmo, inscindibile fino a tempi recenti dalla procreazione, ha conquistato spazi nuovi e impensati. I maschi, che godono di una maggiore longevità sessuale, potrebbero esserne contenti: una donna giovane è più gradevole alla vista, una donna esperta può riservare altre soddisfazioni. Per entrambi i sessi però il problema è un altro: la ricetta della felicità all'inizio del terzo millennio suggerisce con vigore ingredienti come il denaro e la riuscita sociale, incoraggia alla prestazione più che all'abbandono amoroso, punta all'effetto molto più che all'affetto. Nel ventunesimo secolo l'esperienza del sesso si presenta densa di problemi e ansie, non meno che alla fine dell'Ottocento. Se quello era un mondo che irrigidiva l'intimità entro regole ben poco elastiche, oggi i diritti individuali prevalgono su quasi ogni altra cosa. C'è poco da meravigliarsi se alle tenere e smorzate conversazioni tra gli amanti dannunziani si è sostituito il «clic» ripetuto del piacere sessuale via internet.