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Italian Pages 258 Year 2008
Scritti e Interventi Voi. I l i
HERBERT MARCUSE
a cura di RAFFAELE LAUDANI postfazione di Stefano Petrucciani
manifestolibri
marcusiana
La critica della società tecnologica avanzata è il filo conduttore che attraversa tutto lo sviluppo del pensiero
marcusiano
e
che
collega
L'uomo a una dimensione,
il testo
che nel ' 6 8 divenne il manifesto dei
movimenti
di
contestazione,
con le riflessioni e gli scritti raccolti in questo volume. Attraverso gli inediti pubblicati in questo libro "Scritti
e
(il terzo della
interventi
di
serie
Herbert
M a r c u s e " ) si può ripercorrere tutta l'elaborazione marcusiana intorno a temi oggi attualissimi come
le
implicazioni sociali della moderna tecnologia, il rapporto tra tecnica e libertà, il ruolo dell'individuo nella società industriale avanzata, il rapporto tra gli sviluppi della tecno-scienza e le trasformazioni della politica. Spaziando riflessione
tra
critica
filosofica,
sociale
e
Marcuse
si
confronta con i grandi del
Novecento
Heidegger inquietanti
a
(da
Sartre)
pensatori Husserl e
interrogativi
con etici
sociali posti dallo sviluppo tecnica.
a gli e
della
Herbert Marcuse (1898-1979) è stato tra i principali esponenti della scuola di Francoforte. Nato
a
Berlino,
è
emigrato
nel
1937 negli Stati Uniti dove ha insegnato in diverse università. Tra le sue opere principali:
e rivoluzione,
Ragione
L'uomo a una dimen-
sione, Eros e civiltà.
Scritti e interventi di Herbert Marcuse a cura di Raffaele Laudani Voi. I Oltre l'uomo a una dimensione Voi. Il Marxismo e nuova sinistra Voi. Ili La società tecnologica avanzata Voi. IV Teoria critica del desiderio Voi. V Filosofia e filosofia politica Grafica: Massimo De Orazi Impaginazione; Dino Orsini
€ 28,00
MARCUSIANA
Hemept Marcuse
LA SOCIETÀ TtCNOLOIIICa AVANZflTft Scritti e interventi di Heriiert IViapcuse, Ili a cura di RAFFAELE LAOnAlili
manifestolibri
MARCUSIANA Collana diretta da Raffaele Laudani
© Literary Estate of Herbert Marcuse, Peter Marcuse, Executor © 2008 manifestolibri srl via Bargoni, 8 - Roma ISBN 978-88-7285-548-5 www.manifestolibri.it [email protected] Traduzione di Luca Scafoglio newsletter www.manifestolibri.it/registra
Indice
Introduzione di Raffaele Laudani
7
Nota del traduttore
23
Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia (1941)
25
Lezioni parigine del 1958
55
Il problema del mutamento sociale nella società tecnologica (1961)
141
Il contenimento del mutamento sociale nella società industriale (1965)
167
L'individuo nella Grande Società (1966)
181
Riflessioni sul rapporto tra tecnica e libertà (1969)
205
Tesi su "Progresso senza futuro ?" (1979)
231
APPENDICE
Lettera di Frederick Pollock a Marcuse del 8 dicembre 1960
237
Postfazione Tecnica, democrazia e vita buona di Stefano Petrucciani
241
Introduzione di Raffaele
Laudani
1. Concepiti in un arco di tempo che va dal 1941 al 1979, i testi pubblicati in questo terzo volume degli Scritti e interventi di Herbert Marcuse discutono il ruolo della tecnica nella società industriale avanzata. Da questo punto di vista, essi sono essenziali per la comprensione delle potenzialità, dei presupposti impliciti, ma anche delle contraddizioni irrisolte della critica della società contemporanea portata avanti da Marcuse nel secondo dopoguerra e, in modo particolare, nel ben noto L'uomo a una dimensione^. Non è questa la sede per discutere nel dettaglio questi aspetti della prestazione intellettuale di Marcuse^. Basti qui sottolineare come lo stesso concetto di «unidimensionalità» risulterebbe inconcepibile senza l'assunzione della «questione della tecnica» all'interno della «teoria critica»^. La genesi del termine risale infatti alle sperimentazioni filosofiche giovanili di Marcuse e, piià specificamente, al capitolo à,^Ontologia di Hegel dedicato al «movimento nella sua bidimensionalità», dove Marcuse illustrava attraverso Hegel la negatività costitutiva dell'essere, scisso tra la dimensione della realtà e quella delle sue potenzialità inespresse, e la sua capacità, proprio in virtìì di questa intrinseca negatività, di spezzare la riproduzione meramente quantitativa dell'essere, aprendo la via alla trascendenza della determinatezza di volta in volta esistente''. La Logica hegeliana serviva in quel caso a Marcuse per stabilire una distinzione epistemologica tra pratiche che si adattano alle norme e ai comportamenti esistenti e pratiche che si relazionano ai valori e ai comportamenti come «possibilità» che trascendono l'esistente. L'antagonismo implicito nella bidimensionalità dell'essere era in altri termini ciò che consentiva al Soggetto di «essere se stesso nell'essere altro» e gli dava la capacità di comprendere la realtà, di coglierne potenzialità che ancora non esistono e di mettere in campo la prassi trasformatrice adeguata a realizzarle. Esattamente ciò che, nello scenario «a una dimensione» della società industriale avanzata sembrava agli occhi di Marcuse essere venuto meno.
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Nelle Lezioni parigine del 1958, in cui Marcuse espone per la prima volta in forma compiuta le tesi che costituiranno poi Uuomo a una dimensione, e qui per la prima volta pubblicate, questo processo viene descritto filosoficamente come transizione dall'ontologia la capacità appunto di pensare il reale nella sua costitutiva bidimensionalità - alla tecnologia-, attraverso la forza e l'efficacia della tecnologia, il capitalismo contemporaneo favorisce forme di comportamento e di pensiero che rigettano tutti i valori e le idee che non si conformano alla razionalità dominante. Un'intera «dimensione» della realtà umana tende così a essere soppressa, quella che permette agli individui e alle classi sociali di sviluppare una teoria e una pratica del superamento e di individuare la "negazione determinata" della loro società. In altri termini, la società industriale avanzata sembra essere riuscita a eliminare il carattere dualistico e antagonistico delk realtà, la capacità di individuare un altro modo di esistenza nella realtà, «di superare la fatticità verso le sue possibilità reali». Venuta meno la bidimensionalità dell'esistenza umana, il superamento della fatticità perde il suo carattere di mutamento qualitativo e si riduce a mera trasformazione quantitativa, a quel «cerchio magico della riproduzione» che per Max Horkheimer e Theodor Adorno era l'immagine dell'aporia in cui è rimasta impigliata la ragione moderna^ e che, secondo Marcuse, trova nella metà degli anni Sessanta la sua forma attuale nel programma della «Grande Società» del presidente Johnson^. Per Marcuse, quindi, nella società industriale avanzata la trascendenza storica si è atrofizzata e la realtà tende ad appiattirsi sulla sua forma tecnica, che diventa il suo contenuto, la sua stessa essenza. Il «contenimento del mutamento sociale» che contraddistingue la società industriale avanzata avviene infatti non per mezzo della tecnologia, ma in quanto tecnologia, così da generare una versione più sofisticata e "perturbante" di quella «servitù volontaria» che già agli esordi del Moderno Etienne de La Boétie aveva descritto come «abitudine» all'acquiescienza con il potere e rinuncia all'esercizio della libertà^. 2. Nel saggio del 1941 su Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, con il quale Marcuse, nel pieno della lotta contro il nazismo, si confrontava per la prima volta con il problema della tecnica, questo stesso processo era stato invece descritto come esaurimento della «razionalità individualistica» nella «razionalità tecnologica»: «Il libero soggetto dell'economia - spiegava in quella
circostanza - si è sviluppato nell'oggetto di una organizzazione e coordinazione su larga scala, e la realizzazione individuale si è trasformata in efficienza standardizzata», nel senso che «la prestazione dell'individuo è motivata, guidata e misurata secondo criteri che gli sono esterni, e che si riferiscono a compiti e funzioni predeterminati»®. Si tratta anche in questo caso di una posizione con diversi punti di contatto con le tesi sulla razionalizzazione moderna portate avanti in quegli stessi anni da Max Horkheimer in Eclissi della ragione. Qui, infatti, Horkheimer distingueva tra due forme di razionalità occidentale, quella «oggettiva», tipica delle società premoderne (ma che però, in forma secolarizzata, sopravvive anche nelle filosofie illuministe), nella quale la ragione opera in un quadro olistico della natura, della società e degli esseri umani che trova il proprio fondamento nella razionalità universale del mondo oggettivo, e quella «soggettiva», dal carattere puramente «strumentale» e volutamente alternativa alle istanze «critiche» contenute e implicate (seppur sotto forma di confronto della realtà con l'oggettività trascendente dell'ordine dell'essere) nella ragione oggettiva. Essa si limita infatti a calcolare i mezzi adeguati all'interno di un sistema predefinito in cui fini e valori sociali sono accettati senza essere messi in discussione^. Anche Marcuse riconosce la scomparsa dei tratti «umanistici» e «critici» della razionalità moderna, nata come atteggiamento di opposizione e sfociata poi in sottomissione standardizzata: il perseguimento dell'interesse personale - che guidava la società capitalistica fondata sulla «razionalità individualistica» della competizione economica - era condizionato infatti dall'assunto che la ricerca di questo interesse fosse «razionale», il prodotto dell'autonomia del pensiero. In questo senso, la razionalità non coincideva direttamente con l'interesse personale perché quest'ultimo era motivato da criteri ed esigenze imposte dall'ordine sociale prevalente e quindi non era stabilito dalla sua coscienza «autonoma». Sottoposto al principio dell'efficienza competitiva, il carattere individualistico della razionalità è stato però assorbito «dall'efficientismo produttivo» e ha perso le sue originarie istanze. «Razionale» è ora svolgere il compito a cui si è assegnati, l'adeguamento al «sistema amministrato». Nonostante queste assonanze con Horkheimer, diverso è però l'oggetto della critica marcusiana. Eclissi della ragione aveva infatti come obiettivo polemico la razionalità formale e strategica weberiana, di cui cercava retrospettivamente di rintracciare i germi agli albo-
ri dell'odissea occidentale^®. Così facendo, Horkheimer assumeva però la prospettiva nichilistica implicita nel discorso weberiano, relegando il mondo nella «gabbia d'acciaio» del dominio, assunto come destino". Marcuse cerca invece sempre di ancorare la sua critica ai modelli sociali esistenti, distinguendo le diverse forme storiche nel continuum del dominio. La sua è, quindi, piti specificamente, una critica della razionalità post-weberiana-, «Nello stesso compiersi della razionalità capitalistica - egli spiega ad esempio nel saggio del 1965 su Industrializzazione e capitalismo nell'opera di Max Weber - le forme attribuitele da Max Weber sono state demolite e superate, e la loro demolizione fa apparire la ratio dell'industrializzazione capitalistica in una luce completamente diversa, nella luce della sua irrazionalità»^^. La razionalità weberiana era tipica della fase capitalistica concorrenziale in cui i principi individualistici si legavano alle istanze dell'efficienza competitiva e l'individualità si manifestava nelle conquiste e nel rendimento all'interno della competizione economica. Lo sviluppo del processo produttivo ha però sgretolato «la base economica» su cui era costruita la razionalità individualistica. Con il commiato dalla libera iniziativa economica e l'avvento dei monopoli economici e politici il principio dell'efficienza competitiva ha assunto una nuova funzione. Essa adesso richiede «unificazione e semplificazione integrale», l'eliminazione degli sprechi e la coordinazione radicale. Lo sfruttamento efficace del sistema e il suo potere tecnologico determinano la forma, la quantità e il tipo di merci da produrre e, attraverso questa forma di produzione, influiscono «sul totale di razionalità delle persone a cui è asservito». Questa nuova razionalità non si limita «ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala, ma caratterizza la forza penetrativa del pensiero e delle molteplici forme di protesta e di ribellione», favorendo atteggiamenti che predispongono il singolo ad accettare e interiorizzare le esigenze del sistema nel suo complesso. L'efficienza ha finito così per sommergere la libertà del soggetto economico. Il sistema appare ora l'incarnazione stessa della razionalità e della convenienza. La razionalità tecnologica determina così quella che Jaspers definiva «riduzione dell'individuo a funzione», che distacca l'esistenza da ogni contenuto vitale^^. Diversamente da Jaspers, però, la standardizzazione dell'esistenza non è per Marcuse l'effetto di una «crisi spirituale». L'epoca della tecnica è invece un correlato della standardizzazione e concentrazione monopolistica; è lo sviluppo
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capitalistico che richiede un crescente aggiustamento all'apparato economico e sociale e la sottomissione all'amministrazione totale. L'efficienza della società industriale avanzata investe l'individuo che perde progressivamente i tratti «critici» della sua razionalità individualistica. In questo senso, è «totalitaria»: la produzione di massa si compie infatti attraverso un onnipresente apparato tecnico che «integra», in accordo con gli interessi che controllano l'apparato, tutte le sfere dell'esistenza pubblica e privata. Se quindi, in senso stretto, tutta la moderna società capitalistica è una società tecnologica, la particolarità della società tecnologica avanzata consiste nel fatto che l'integrazione dell'individuo nella società «non appare come atto politico». L'adattamento individuale alla società esistente deriva infatti dagli indubbi benefici materiali che il sistema concede agli individui. Adeguandosi a questa «razionalità della convenienza e dell'efficienza» gli individui supportano la crescita quantitativa e il peso oppressivo dell'apparato. La forma tecnologica dell'organizzazione, che non opera esclusivamente nella meccanizzazione e razionalizzazione impiegata nella produzione materiale, ma che si attesta anche negli uffici, nei negozi, nelle strade e anche nella vita privata, «fa sparire i dominanti dietro la struttura tecnica oggettiva» e, dando loro la forma dell'amministrazione, priva la protesta del suo target specifico^''. Scienza e tecnica diventano così «l'ideologia della società industriale avanzata»^': nella società tecnologica avanzata gli individui vengono infatti spogliati della loro individualità, non sulla base di costrizioni esterne ma dalla stessa razionalità della loro vita, da una «meccanica del conformismo» che dalla fabbrica si è estesa alla globalità dei rapporti sociali. Il comportamento razionale si riduce così a una «ragionevole remissività»: «I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico. Ma i congegni meccanici che facilitano le relazioni tra gli individui, ne intercettano anche e ne assorbono la libido, deviandola da tutte le aree troppo pericolose nelle quali l'individuo è libero dalla società»^*". 3. Alla luce di questi scritti, il percorso ventennale che porterà Marcuse alla pubblicazione nella metà degli anni Sessanta di 11 uomo a una dimensione può essere perciò letto anche come un tentativo di rileggere in chiave tecnologica la critica marxista del capitalismo, con l'intento di spostare questa critica dal piano meramente economico tipico delle critiche «volgari» a quello politico delle lotte e del conflit11
/o'^: se ad esempio Marx aveva rintracciato la possibilità della rivoluzione comunista nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, Marcuse riafferma questo principio come contraddizione fondamentale tra tecnica in senso stretto - «l'apparato tecnico dell'industria, dei trasporti e delle comunicazioni» - e tecnologia, intesa come «totalità» e «modo di produzione» tipico della «età della macchina» orientato alla «perpetuazione dei rapporti sociali» prevalenti e quindi come «strumento di controllo e dominio»^®. La contraddizione strutturale della società industriale avanzata diventa così per Marcuse la sua incapacità di sfruttare fino in fondo il suo potenziale tecnico-scientifico, che tende ormai verso r«automazione»: «Il sistema da una parte tende verso l'automazione, dall'altra non può permettersi una piena realizzazione dell'automazione, perché questa porterebbe alla distruzione delle istituzioni esistenti. Questa è la contraddizione decisiva, contraddizione che indica anche la possibilità di una rivoluzione nella società capitalistica»^^. Marcuse applica in questo caso le considerazioni sulle macchine contenute nei Grundrisse, dove Marx chiariva la doppia natura del progresso tecnico e scientifico nel processo produttivo capitalisti«Dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l'automazione rivoluzionerebbe la società intera. La reificazione della forza lavoro umana, portata alla perfezione, spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l'individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L'automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l'esistenza privata e sociale dell'uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà»^^ Si noti come in quegli anni la tendenza in ambito marxista era al contrario quella di sottolineare gli effetti negativi dell'automazione per la condizione sociale dei lavoratori e per il futuro della lotta di classe. Ad esempio, per Friedrick Pollock, di ctii qui si pubblica un'interessante lettera a Marcuse intorno alla questione della tecnica, il «sogno utopico» dell'eliminazione della povertà, che un uso democratico dell'automazione renderebbe possibile, non è praticabile in un'economia di mercato. Lasciata la sua direzione nelle mani delle imprese private, l'automazione diventa esclusivamente uno strumento per la riduzione dei costi e per l'aumento dei profitti. Così facendo, accresce il potere del controllo capitalistico mentre 12
diminuisce la democrazia e la libertà sostanziale della stragrande maggioranza della popolazione. In assenza di una regolazione e di una pianificazione statale - che leghi lo sviluppo tecnologico ai bisogni di una società libera e democratica - le possibilità insite nell'automazione e nelle nuove tecnologie della «seconda rivoluzione industriale» intensificano le differenze di classe e lo sfruttamento^^. Particolarmente avverso all'automazione era il gruppo marxista di Chicago coordinato da Raya Dunayevskaya che, in alcuni numeri speciali di «News and Letters», dimostrava come l'introduzione nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro dei processi di automatizzazione avessero in ultima analisi accresciuto l'oppressione della classe operaia^^. Per l'autrice di Marxism and freedom l'avvento dell'automazione non muta il rapporto conflittuale tra il lavoratore e la macchina quando questa è posta sotto il controllo capitalistico. Confrontata con i suoi effetti reali sulla vita dei lavoratori, l'automatizzazione del lavoro si rivela tutt'altro che benefica; essa è anzi un potente strumento di ricatto nelle mani della classe dominante che giustifica la decisa opposizione della classe operaia alla sua introduzione e i suoi tentativi di sottrarsi alla disciplina del lavoro che essa favorisce. A suo avviso, di conseguenza, «dall'esperienza dei lavoratori con l'automazione deriva un nuovo umanesimo», la produzione di nuove forme di lotta operaia per la libertà. La molla che spinge le lotte operaie non è infatti determinata dalla riduzione dell'orario di lavoro, né dall'aumento del salario, ma dall'aspirazione ad un diverso tipo di lavoro. Condivisibili dal punto di vista politico, queste critiche sono però viziate, secondo Marcuse, da un errore concettuale. I processi di automatizzazione capitalistica del lavoro descritti in questi studi favoriscono effettivamente le tendenze alla razionalizzazione e rafforzano l'apparato capitalistico di dominio. Lo stesso Marx sottolineava come, nel contesto della produzione capitalistica, la sostituzione degli operai con le macchine determini una svalutazione della forza lavoro che giustifica la lotta degli operai contro le macchine. «Ciò che era attività dell'operaio vivo diventa attività delle macchine. Così l'appropriazione del lavoro da parte del capitale, il capitale che assorbe in sé il lavoro vivo si contrappone tangibilmente all'operaio»^''. Oggetto di queste critiche non è però r«automazione», ma la coesistenza all'interno di uno stesso luogo di lavoro di sezioni automatizzate, semiautomatizzate e non automatizzate. Sono queste lì
forme di automazione «arrestata, parziale» che, secondo Marcuse, alimentano lo sfruttamento e l'isolamento dei lavoratori gli uni dagli altri. In questo contesto le organizzazioni operaie hanno perfettamente ragione a opporsi all'automazione, nella misura in cui essa non è compensata da altre forme di occupazione. L'automazione «come acquisizione esplosiva della società industriale avanzata» costituisce invece un mutamento qualitativo nella base materiale e prefigura un mondo oltre il «regno della necessità», oltre il regno del lavoro socialmente necessario nella produzione materiale^^. L'automazione integrale è quindi per Marcuse il prerequisito per la liberazione dal lavoro. Come messo in luce già da Marx, l'applicazione della scienza e delle innovazioni tecnologiche alla produzione mina le basi del modo di produzione fondato sul valore di scambio. Con il procedere del progresso tecnologico il fondamento della produzione e della ricchezza «non è né il lavoro immediato, eseguito dall'uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l'appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in una parola, è lo sviluppo dell'individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza»^^. La creazione di ricchezza reale non dipende più dal tempo di lavoro o dalla quantità di lavoro erogata ma dalla potenza degli strumenti messi in moto durante il tempo di lavoro. Questa «^/e-umanizzazione totale» del processo materiale di produzione (che in realtà è però un processo di vera «umanizzazione» del lavoro) ha quindi un contenuto che lo rende incompatibile con «una società fondata sullo sfruttamento privato della forza lavoro umana». Le forze produttive e le relazionii^ociali sono infatti per il capitale solo mezzi per la valorizzazione del capitale. Il sistema capitalistico è quindi obbligato a «contenere» - Marx direbbe a «imprigionare» - la potenza eversiva del general intellect. «l'automazione arrestata, ristretta, salva il sistema capitalistico, mentre l'automazione consumata lo farebbe inevitabilmente esplodere». L'incapacità di avere un rapporto libero con il progresso scientifico e tecnologico rivela quindi per Marcuse il carattere in ultima istanza irrazionale della società industriale avanzata^^. Questa società è infatti incapace di sviluppare pienamente le proprie forze produttive. E quindi «un ceppo» alla forza propulsiva dell'intelligenza sociale: il suo funzionamento è obsolescenza pianificata, conserva14
zione del sistema, «l'antiragione metodica» resasi «necessità sociale»^®. Contro la «minaccia suprema» del progresso tecnico-scientifico la società industriale avanzata si «mobilita» mettendo in campo nuove e più sofisticate forme di controllo e dominio. Per quanto radicale, ogni ipotesi redistributiva, implicita nel modello regolato e pianificato à la Pollock, risulta quindi per Marcuse fallace. È infatti proprio su queste ipotesi concessone che, in virtù di una straordinaria capacità di adattamento, lo Stato del Benessere si costituisce come una potente macchina di contenimento delle spinte eversive e centrifughe. La vera consumazione della razionalità tecnologica e del progresso tecnico implicherebbe l'uso pianificato delle capacità materiali e intellettuali disponibili per la soddisfazione dei bisogni umani «su scala globale». La «consumazione autentica» del progresso tecnico significherebbe quindi la pacificazione della lotta per l'esistenza^^. 4. Quanto detto fino ad ora dimostra l'inconsistenza di ogni tentativo di collocare Marcuse tra i critici «tecnocratici» (seppur di sinistra) della modernità. Se infatti è vero che Marcuse descrive il nazismo e il comunismo sovietico (e in fondo anche i sistemi di welfare liberal-democratici) come forme di «tecnocrazia», non vi è traccia nella sua analisi delle riflessioni conservatrici {à la Schelsky, ad esempio) sulla ipostatizzazione della tecnica e l'avvento di una nuova forma di dominio senza decisione politica. Quella di Marcuse è piuttosto una dialettica della tecnologia e la dimostrazione della centralità della decisione politica per spezzare il velo tecnologico del dominio totalitario della società industriale avanzata. Al fondo della polemica suUa presunta preferenza «tecnocratica» di Marcuse vi è la questione circa la «neutralità» della tecnica. Marcuse sembra infatti accogliere molte delle riserve avanzate dai «critici della civiltà», stabilendo un dialogo solo in parte esplicito con Heidegger, che per molti versi aveva fornito nei saggi su La questione della tecnica e L'epoca dell'immagine del mondo una sanzione filosofica alle ipotesi tecnocratiche^®. Il filosofo di Essere e tempo riconosceva una differenza qualitativa tra la «tecnica» e la sua essenza: la tecnica consiste nel mettere a disposizione e nell'utilizzare gli strumenti. All'interno di questa concezione strumentale il problema consiste così nella ricerca delle corrette modalità di utilizzazione, del giusto modo di controllare e manipolare la tecnica. Se però si guarda all'essenza della tecnica, la soggettività umana che trae forza dalD
la concezione strumentale perde il proprio fondamento ontologico. Nella sua essenza la tecnica non è un mezzo funzionale - non è qualcosa di tecnico - ma un modo di «disvelamento» dell'essere con cui il mondo si dà forma. Legata alla questione dell'essere la tecnica non è opera umana e non può essere padroneggiata dall'uomo. L'uomo è anzi agito dalla potenza dell'essere che si manifesta nella tecnica'^ Vista alla luce dell'essenza della tecnica la politica è priva di senso perché i suoi attori di fatto servono l'apparato. La pianificazione senza contenuto, la fungibilità universale sono la verità della tecnica. L'uomo non deve né opporsi né concedersi alla necessità tecnica ma, prendendo congedo dalla logica della soggettività moderna, soltanto riconoscerla come destino^^. Anche Marcuse rigetta il carattere puramente strumentale della tecnica, senza tuttavia accettare l'esito impolitico del discorso heideggeriano: «E necessario respingere la concezione della neutralità della tecnica, secondo la quale la tecnica è al di là del bene e del male, è l'oggettività stessa, suscettibile di ogni forma di impiego sociale. Una macchina, uno strumento tecnico può certo essere considerato neutrale, pura materia. Essi - la macchina, lo strumento non esistono però che all'interno di un insieme, di una totalità tecnologica, non esistono che come elementi di una "tecnicità". E la tecnicità è una "epoca del mondo", un modo di esistenza dell'uomo e della natura»^'. La questione della neutralità è per Marcuse un falso problema: la tecnica è sempre inserita in un «progetto» del mondo che precede la strumentalità. L'uomo deve quindi prima concepire la realtà come oggetto di strumentalizzazione e manipolazione per potervi agire tecnicamente. Il dominio tecnologico non è quindi concepibile fuori dal «progetto» della società moderna. Ma proprio per queste ragioni la critica della tecnica non può essere di tipo «ontologico» ma deve restare ancorata a una dimensione storicosociale. Al tempo stesso questa critica non può però essere sganciata da una prospettiva «finalistica» che giudichi la scienza e la tecnica a partire dalla «verità» della loro funzione. Marcuse ricorre in questo caso agli studi sulla tecnica di Gilbert Simondon, per il quale la «tecnicità» - il rapporto tra individuo e manipolazione tecnica del mondo - presuppone una cultura in cui viga un equilibrio diseguale tra i fini dell'oggetto tecnico - che hanno il sopravvento - e i rapporti di causalità del suo funzionamento. In epoca moderna questo dise16
quilibrio tende però a mutare: quanto più l'oggetto tecnico si individualizza - cioè funziona esteriormente per ottenere un risultato tanto pili questa finalità esterna alla macchina si riduce alla coerenza interna del funzionamento. Questo mutamento si compie nelle filosofie tecnocratiche, dove il rapporto si capovolge: causalità e finalità coincidono e la macchina diventa esclusivamente un mezzo^'*. Seguendo Simondon, Marcuse stabilisce così una dialettica tra «causa finale tecnologica» della tecnicità e sua negazione nella società tecnologica avanzata. Il progetto tecnico nasce infatti su una precisa base materiale: l'incapacità della società di soddisfare da sé i bisogni umani, di abolire l'angoscia e promuovere la felicità. La tecnicità esige così il dominio-, controllo della natura in quanto forza ostile e distruttrice, controllo dell'uomo in quanto parte di questa natura, sfruttamento delle risorse naturali per soddisfare i bisogni. La strumentalità è però solo un mezzo per liberare l'uomo dal lavoro e per rendere pacifica la sua esistenza. La tecnicità ha quindi un carattere «esistenziale» ed è parte della potenza dell'eros contro le forze repressive. Nella società tecnologica avanzata la tecnica si sviluppa in una direzione opposta, come strumentalità pura, astratta dalla sua causa finale - Sein privato del suo Sollen. Così facendo essa diventa «un mezzo universale di dominio»: l'interdipendenza tra spinte creatrici e spinte distruttrici che caratterizza la tecnicità in quanto dominio non distingue piti tra impiego «normale» e impiego «anormale» della tecnologia. Depurata delle sue finalità, la tecnica diventa puro mezzo al servizio del più forte. La sua «verità» si appiattisce sul comportamento tecnologico. La realtà tecnica è una forma vuota, logos senza sostanza: «deve fare marciare le cose», senza dare un obiettivo a questo movimento. Scienza e tecnica sono svuotate di ogni valore, neutralizzati. Questa «neutralità» nasconde tuttavia un contenuto direttamente positivo: la realtà si fa valore, valutata esclusivamente come pura forma che si presta ad ogni fine. Per effetto di questa neutralizzazione la realtà tecnicizzata si costituisce come una seconda natura, che tuttavia resta schlechte Unmittelbarkeit. «L'essere assume il carattere ontologico della strumentalità-. è suscettibile, per la sua stessa struttura, di ogni modificazione e di ogni uso»^^. La risostanzializzazione del progetto tecnologico - o meglio, il suo ancoraggio al perseguimento di «valori» e «fini» di liberazione allontana Marcuse da ogni ipotesi impolitica. La critica della neutra17
lità della tecnica gli serve anzi proprio per svelare il contenuto politico di quella ipotesi tecnocratica - la destoricizzazione dei processi in corso, il mondo come post-histoire - che i critici in fondo gli attribuiscono. In realtà è proprio su un'ipotesi tecnocratica che la società tecnologica avanzata cerca di fondare la propria legittimazione: «La neutralità della tecnica - spiega Marcuse - è un concetto politico». La rivendicazione della strumentalità come puro mezzo serve infatti a nascondere il contenuto tutto politico delle forme in cui viene perpetuato il dominio. Dietro il velo della forza terribile con cui il mondo tecnico resiste alla volontà e alle aspirazioni degli individui si nasconde ancora il dominio della società di classe. Non è quindi la tecnica che deve essere messa sotto accusa, ma la Lebenswelt che la sorregge: la tecnica è wert-frei-, in sé e per sé essa non tiene conto delle finalità che le vengono assegnate, e «può promuovere tanto l'autoritarismo quanto la libertà, la penuria quanto l'abbondanza, l'aumento del lavoro faticoso quanto la sua abolizione»^^. Ogni tecnica è però sempre espressione di un modo sociale di produzione che non può trascendere senza rimetterne in discussione i presupposti materiali. Il progresso tecnologico è quindi sempre condizionato dal «progetto» che lo innerva, dal modo in cui una società e gli interessi che la dominano organizzano gli uomini e le cose: in particolare, all'interno della società capitalistica, il progresso tecnologico è condizionato dalla necessità di una produttività repressiva. Quanto più le possibilità tecniche e scientifiche rendono questa repressione tecnicamente obsoleta, tanto piìi efficace e intensivo deve essere il «disciplinamento» tecnico della società. Solo in un orizzonte storico qualitativamente differente sarebbe possibile una diversa funzione sociale del progresso tecnologico e scientifico. Non si tratta però di una semplice riappropriazione politica della tecnologia: la tecnica ha sempre le stimmate della società che la genera. E invece necessaria una vera e propria trasformazione epocale del progetto tecnicoscientifico. 5. Come ha messo in luce Hans Jùrgen Krahl, se da un lato la centralità della tecnologia fa di Marcuse il «teorico critico dell'emancipazione», colui che, svelando l'inesorabile processo di autodistruzione dell'individuo borghese sotto il principio di prestazione, è stato capace di fornire al socialismo una «maggiore determinatezza» rispetto alle forme feticistiche con cui in quegli anni esso veniva 18
proposto tanto dal marxismo sovietico quanto dal riformismo socialdemocratico, dall'altro, questa stessa centralità rende la critica marcusiana della società industriale avanzata del tutto interna alla «miseria della teoria critica» che Krahl additava agli altri protagonisti della Scuola di Francoforte, l'incapacità cioè di superare il trauma della sconfitta operaia dell'inizio del XX secolo che, di fronte alla crisi irreversibile delle organizzazioni tradizionali del proletariato, non può fare altro che teorizzare r«integrazione» della classe operaia nel sistema tecnologico del Welfare Stat^''. Lo stesso Marcuse ha riconosciuto i limiti di una prestazione troppo schiacciata sulle contraddizioni tecnologiche e indisponibile a prendere sul serio le nuove soggettività in movimento che, proprio negli stessi anni in cui egli conduceva la sua inesorabile critica del modello sovietico e della società americana, stavano emergendo prepotentemente sulla scena politica mondiale. Così a partire dal Sessantotto, in larga parte grazie al confronto con la parte intellettualmente più avanzata del movimento studentesco e femminista, la critica marcusiana della società industriale avanzata si sposta sempre di pili òs^Xoggettività del processo tecnologico alla soggettività della lotta politica^®. La dialettica della società tecnologica avanzata diventa ora conflitto per la costituzione di una soggettività ribelle, in una lotta sempre aperta e dagli esiti per nuUa scontati tra bisogni emancipatori che veicolano le istanze di libertà di tutti gli oppressi e i bisogni compensatori che sono stimolati e forgiati dalla tecnica al servizio del capitale^^.
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NOTE ' H . M A R C U S E , L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata (1964), Einaudi, Torino 1991. ^ Per questo rimando a R . LAUDANI, Politica come movimento. Il pensiero di Herbert Marcuse, Il Mulino, Bologna 2005, spec. cap. IV. ' Per 0 dibattito sulla tecnica cfr. fra gli altri, C. G A L L I , Tecnica e politica: modelli di categorizzazione, in Modernità. Categorie e profili critici, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 79-105 e M. N A C C I , Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Roma-Bari 2001. '' H . M A R C U S E , llontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 80-101. ' M . HORKHEIMER, T . W . A D O R N O , Dialettica dell'illuminismo ( 1 9 4 4 ) , Einaudi, Torino 1997. Infra, pp. 181-204. E. DE L A BOÉTIE, Discorso sulla servitù volontaria (1548), La Rosa, Torino 1995. ^ Infra, p. 29. ' M . HORKHEIMER, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale (1947), Einaudi, Torino 1969, spec. pp. 11-54. HORKHEIMER e A D O R N O , Dialettica dell'illuminismo, cit., spec. pp. 1 1 - 5 0 . Per una lettura «nichilistica» della prospettiva weberiana, cfr. A. DAL L A G O , Lordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Unicopli, Milano 1984. ^^ H . M A R C U S E , Industrializzazione e capitalismo nell'opera di Max Weber (1964), in ID., Cultura e società, Torino, Einaudi 1968, p. 248. Ma cfr. anche ID., Soviet Marxism (1958), Guanda, Parma 1968, dove scrive: «lo spirito affaristico della politica e dell'efficienza competitiva nel ventesimo secolo non è piii quello descritto da Max Weber, La società industriale sviluppata richiede un'organizzazione e un comportamento differente» (p. 186). " K . J A S P E R S , Die Geistige Situation der Zeit, De Gruyter, Berlin-Leipzig 1 9 3 1 . Infra p. 155. " J . H A B E R M A S , Tecnica e scienza come ideologia ( 1 9 6 8 ) , in Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari 1 9 7 8 , pp. 1 5 5 - 1 9 4 , cit. a p. 1 7 8 . Infra, p. 31. ^^ H . - J . K R A H L , Cinque tesi su Herbert Marcuse come teorico critico dell'emancipazione (1969), in ID., Attualità della rivoluzione. Manifestolibri, Roma 1998, pp. 123-130. Infra, p. 25. M A R C U S E , Prospettive del socialismo, cit., p. 12. K . M A R X , Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-1858), voi. II, La Nuova Italia, Firenze 1978, spec. pp. 399-411. M A R C U S E , lluomo a una dimensione, cit., p. 5 6 . ^^ F. POLLOCK, Automazione. Conseguenze economiche e sociali (1956), Einaudi, Torino 1970, pp. 183-253. ^^ Cfr. ad esempio C. D E N B Y , Workers Battle Automation, numero speciale di
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«News and Letters», Detroit, 1960. M A R X , Lineamenti fondamentali, cit., p. 400. Cfr. H. M A R C U S E , Carteggio con Raya Dunayevskaya (1954-1965), in I D . Marxismo e nuova sinistra. Scritti e interventi di Herbert Marcuse voi. Il, a c. di R. Laudani, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 285-351. ^^ M A R X , Lineamenti fondamentali, cit., p. 401. Infra, p. 63. M A R C U S E , Industrializzazione e capitalismo, cit., pp. 247-249. Infra, pp. 167-179. Sul concetto di tecnica in Heidegger e Marcuse, A. FEENBERG, Heidegger and Marcuse: The Catastrophe and Redemption of Technology, in Herbert Marcuse. A Criticai Reader, a cura di J. Abromeit e W.M. Cobb, Roudedge, London-New York 2004, pp. 67-80 che sintetizza le tesi esposte in Heidegger e Marcuse, Routledge, London-New York 2005. ^^ M. HEIDEGGER, La questione della tecnica ( 1 9 3 5 ) , in Sag^i e discorsi ( 1 9 5 4 ) , Mursia, Milano 1976. G A L L I , Tecnica e politica, cit, pp. 99-102. Sulla concezione heideggeriana della tecnica, cfr. anche E. MAZZARELLA, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Napoli, Guida, 1981, e M . RUGGENINI, L'essenza della tecnica e il nichilismo, in Heidegger, a cura di E Volpi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 225-264. " Infra, p. 73. G. SLMONDON, Du mode d'existence des objets techniques, Aubier, Paris 1958. Infra, p. 72. Infra, p. 25, " H . - J . K R A H L , op. cit., pp. 123-130. Infra, pp. 205-229. ' ' H . M A R C U S E , Protosocialismo e tardocapitalismo. Verso una sintesi storica a partire dall'analisi di Barbo (1979), in ID., Marxismo e nuova sinistra, cit., pp. 249-273.
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Nota del traduttore
La presente nota intende porre l'attenzione sulle soluzioni linguistiche volte a rendere alcune formulazioni caratteristiche del lessico marcusiano. In primo luogo, "trascendenza" traduce non solo i termini Transzendenz e transcendance, ma anche il piii frequente dépassement, quest'ultimo è anche reso più raramente con "oltrepassamento"; con "trascendere", talvolta anche con "andare oltre", "andare al di là di" sono tradotte le forme verbali dépasser e Hisausgehen. Raramente si fa uso, in luogo di "trascendenza" e "trascendente", dei termini "eccedenza" e "eccedente" (si noti però come dépassement assuma talora il senso piìi generico di "superamento" e possa riferirsi, come tale, al movimento di segno opposto - quello col quale, ad esempio, il capitalismo si sottrae ai propri limiti interni, per riprodursi come sistema di domino). Mediante "comparsa" o l'infinito nominale "emergere" si rendono émergence e emergence\ negli scritti marcusiani tali termini conservano un riferimento privilegiato alla costituzione - portatrice di un momento di irriducibile discontinuità e al tempo stesso attuazione di potenzialità insite nel processo sociale - della soggettività quale agente del mutamento e della ricostruzione della società. Significativamente, in un passo delle Lezioni parigine, lì dove si tratta invece dell'avanzare del processo di integrazione, Marcuse elimina émergence, per sostituirlo col più generico avènement. Ciò non toglie che di rado anche émergence si riferisca al profilarsi di nuove forme di dominio. "Tecnicità" traduce technicité, termine cui Marcuse ricorre per designare il principio tecnico in quanto "progetto storico" portatore di un proprio "carattere esistenziale" e "senso interno", distinto tanto dalla technologie, il modo del pensiero e dell'esperienza opposto a quello ontologico, quanto dalla technique, l'insieme degli strumenti e dei processi meccanici. Si ricorre a "pulsioni" e "pulsionale" per rendere rispettivamente instincts e instinctual (già tradotti con "istinti" e "istintuale" nell'edizione italiana di Eros e civiltà): come è noto, tali termini 2i
ricorrono usualmente negli scritti marcusiani in lingua angloamericana, conformemente alla Standard Edition delle opere di Freud. Lo stesso vale per instincts e instinctive, che nell'ampia sezione di argomento psicoanalitico presente nelle Lezioni parigine ricalcano evidentemente le formulazioni inglesi. La scelta pare adeguata a rendere tanto la profondità della dimensione della soggettività chiamata in causa, quanto la sua plasticità storica. "Pulsione", inoltre, rende conto dell'uso del termine Trieb, cui Marcuse ritorna negli scritti di lingua tedesca, tra i quali Seine Bedùrfnisse befriedigen, ohne sich zu verletzen, tradotto nel presente volume. Peraltro, come già nella Nota del traduttore del precedente volume degli scritti marcusiani {Marxismo e nuova sinistra, Manifestolibri, Roma 2007, p. 28), per l'opportunità di una simile traduzione del freudiano Trieh, si rimanda alle osservazioni contenute né^Avvertenza generale alla presente edizione, in S. Freud, Opere I, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1967, p. XII, nonché alla voce "pulsione" della Enciclopedia della psicoanalisi di J. Laplanche e J.-B. Pontalis, nuova edizione italiana a cura di L. Mecacci e C. Puca, Roma-Bari 1993. Nella traduzione di Social Implications of Modem Technology si mantiene invece "istinti", dato che qui Vinstincts di cui Marcuse fa uso non ha evidentemente una specifica connotazione freudiana e conserva piuttosto una valenza generica. Infine, per le citazioni comprese negli scritti marcusiani si fa riferimento all'edizione italiana (indicata tra parentesi quadra), se esistente, altrimenti se ne effettua la traduzione. Napoli, marzo 2008 Luca Scafoglio
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Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna "
Nel presente articolo la tecnologia è intesa come un processo sociale nel quale la tecnica propriamente detta (cioè l'apparato tecnico dell'industria, dei trasporti e delle comunicazioni) costituisce solo un fattore parziale. Non ci si interroga sull'incidenza o gli effetti della tecnologia sugli esseri umani. Essi stessi sono infatti parte integrante e fattore della tecnologia, non solo in quanto inventano le macchine e ne eseguono la manutenzione, ma anche in quanto gruppo sociale che ne dirige l'applicazione e l'utilizzazione. La tecnologia, intesa come modo di produzione, come la totalità degli strumenti, dei dispositivi e dei congegni che contraddistinguono l'era della macchina, è perciò al tempo stesso un modo di organizzazione e perpetuazione (o di mutamento) dei rapporti sociali, una manifestazione del pensiero e dei modelli di comportamento prevalenti, uno strumento di controllo e dominio ^ In sé, la tecnica può promuovere tanto l'autoritarismo quanto la libertà, la penuria quanto l'abbondanza, l'aumento del lavoro faticoso quanto la sua abolizione. Il nazionalsocialismo è l'esempio evidente delle modalità con le quali un'economia altamente razionalizzata e meccanizzata, dotata della massima efficienza produttiva, può operare nell'interesse dell'oppressione totalitaria e conservare la penuria. Il Terzo Reich è realmente una forma di "tecnocrazia": le considerazioni tecniche dell'efficienza e della razionalità imperialistiche superano i criteri tradizionali della profittabilità e del benessere generale. Nella Germania nazista il regno del terrore si regge non solo sulla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche sull'ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia stessa: l'in" Pubblicato per la prima volta in «Studies in Philosophy and Social Science», IX, 3, 1941, pp. 414-439. Esiste una traduzione italiana nel volume Tecnologia e potere nelle società post-liberali, a c. di G. Marramao, Liguori, Napoli 1981, pp. 137169. Si presenta qui una nuova traduzione.
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tensificazione del lavoro, la propaganda, l'addestramento dei giovani e degli operai, l'organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito - tutti strumenti del terrore quotidiano - si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica. Tale tecnocrazia terroristica non si può ricondurre alle esigenze eccezionali deir"economia di guerra": questa rappresenta piuttosto lo stato normale di quell'ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia è uno degli stimoli principali. Nel corso del processo tecnologico si sono affermati nella società una nuova razionalità e nuovi criteri di individualità, differenti e opposti a quelli che avviarono la marcia della tecnologia. Queste trasformazioni non sono l'effetto (diretto o derivato) della macchina su coloro che la usano, o della produzione di massa sui consumatori; sono piuttosto esse stesse fattori determinanti nello sviluppo della macchina e della produzione di massa. Per comprenderne appieno l'importanza è necessario esaminare brevemente la razionalità tradizionale e i criteri di individualità che si stanno dissolvendo nell'attuale stadio dell'età della tecnica. L'individuo umano, di cui la rivoluzione borghese ha fatto l'unità fondamentale e il fine della società, sosteneva valori che contraddicono apertamente quelli dominanti nella società odierna. Se cerchiamo di riunire in un unico concetto guida le varie tendenze religiose, politiche e economiche che davano forma all'idea di individuo nel XVI e nel XVII secolo, possiamo definire l'individuo il soggetto di determinati criteri e valori fondamentali che - si riteneva - nessuna autorità esterna poteva usurpare. Tali criteri e valori erano propri delle forme di vita, sociale come personale, più adeguate allo sviluppo delle facoltà e delle capacità dell'uomo. Per la stessa ragione, essi rappresentavano la "verità" della sua esistenza individuale e sociale. Si riteneva che l'individuo, in quanto essere razionale, fosse capace di scoprire queste forme col proprio pensiero, e, una volta acquisita la libertà di pensiero, di perseguire una linea di condotta volta a realizzarle. La società aveva il compito di garantirgli una tale libertà e di rimuovere ogni restrizione alla razionalità della sua linea di condotta. Il principio dell'individualismo, il perseguimento dell'interesse personale, era condizionato dall'assunto che tale interesse personale fosse razionale, che fosse cioè il prodotto del pensiero autonomo e ne fosse guidato e controllato. L'interesse personale razionale non 26
coincideva con l'immediato interesse personale dell'individuo, poiché quest'ultimo dipendeva da criteri ed esigenze dell'ordine sociale prevalente, istituito non dall'autonomia del pensiero e della coscienza, ma da autorità esterne. Nel contesto del puritanesimo radicale, il principio dell'individualismo poneva perciò l'individuo contro la sua società. Gli uomini dovevano aprirsi un varco attraverso l'intero sistema di idee e valori loro imposti, e scoprire e fare propri le idee e i valori conformi al loro interesse razionale. Dovevano vivere in uno stato di costante attenzione, apprensione e critica, per respingere tutto ciò che non fosse vero e giustificato dalla ragione libera. Ciò costituiva, in una società non ancora razionale, il principio di una permanente tensione e opposizione, dal momento che la vita degli uomini era governata ancora da falsi criteri: libero individuo era colui che li sottoponeva a critica, ricercando quelli veri e promuovendone la realizzazione. Tale motivo ha trovato la sua espressione più incisiva nell'immagine di Milton, di una «malvagia razza di impostori, che presero la vergine Verità [...], tagliarono la sua angelica forma in mille pezzi, e sparsero questi ai quattro venti. Da allora in poi i mesti amici della vergine Verità - quelli che hanno osato mostrarsi tali apertamente - rinnovando l'ansiosa ricerca che Iside fece dello sbranato corpo di Osiride, sono andati qua e là per il mondo, raccogliendone le sparse membra ad una ad una ovunque riuscissero a trovarle. Noi non le abbiamo trovate ancora tutte [...] né mai le troveremo, finché il divino Maestro non scenderà una seconda volta quaggiù [...] Impiegare incessantemente tutto quel che già conosciamo al fine di scoprire quello che ancora ci è ignoto; integrare vero con vero a mano a mano che lo rinveniamo (perché omogeneo, infatti, è quel corpo, e proporzionate fra di loro sono le sue membra)»^: era questo il principio della razionalità individualistica. L'adempimento della razionalità presupponeva un adeguato assetto economico e sociale, tale da fare appello a individui la cui prestazione sociale coincidesse, almeno il larga parte, con il proprio lavoro. La società liberale era considerata l'assetto adeguato alla razionalità individualistica. Nella sfera della libera concorrenza, le conquiste tangibili dell'individuo, che rendevano i suoi prodotti e le sue prestazioni parte del bisogno sociale, erano i segni della sua individualità. Nel corso del tempo, tuttavia, il processo dell^ produzione di merci minò la base economica sulla quale la società individua-
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Ustica si era costruita. La meccanizzazione e la razionalizzazione sottomisero il concorrente piii debole al dominio dei colossi aziendali deirindustria meccanica, che, mentre instauravano il dominio della società suUa natura, abolirono il libero soggetto economico. Il principio dell'efficienza competitiva favorisce le imprese col più alto livello di meccanizzazione e razionalizzazione delle attrezzature industriali: il potere tecnologico tende a concentrare il potere economico in "grandi unità di produzione, gigantesche corporations che producono beni in grande qualità e spesso in una straordinaria varietà, imperi industriali che detengono la proprietà e il controllo dei materiali, delle attrezzature e dei procedimenti, dall'estrazione alla distribuzione dei prodotti finiti, un numero esiguo di aziende gigantesche che estende la sua influenza sull'intera industria". E la tecnologia "accresce costantemente il proprio potere, al servizio di questi giganti, con la creazione di nuovi strumenti, procedimenti e prodotti"^. Qui l'efficienza esigeva un'integrale unificazione e semplificazione, l'eliminazione di ogni spreco e di ogni passaggio inutile: esigeva una coordinazione radicale. Sussisteva, tuttavia, una contraddizione, tra l'incentivo del profitto, che manteneva l'apparato in movimento, e l'innalzamento del livello di vita, reso possibile dallo stesso apparato. "Poiché il controllo della produzione è nelle mani di imprenditori che operano per il profitto, essi disporranno di tutto ciò che rimane come surplus, una volta che essi abbiano saldato canoni, interessi, il costo del lavoro, e altri costi. Naturalmente tali costi verranno tenuti al livello più basso'"*. In queste circostanze, l'impiego profittevole dell'apparato detta in larga misura la quantità, la forma e il genere delle merci da produrre, e attraverso tale modo di produzione e distribuzione il potere tecnologico dell'apparato incide sull'intera razionalità di coloro dei quali è al servizio. Sotto l'impatto di questo apparato^, la razionalità individualistica si è trasformata in una razionalità tecnologica, la quale non è circoscritta ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala, ma caratterizza il modo pervasivo del pensiero e persino le molteplici forme di protesta e ribellione. Questa razionalità stabilisce i criteri di giudizio e promuove atteggiamenti che rendono gli uomini pronti ad accogliere e persino a introiettare i dettami dell'apparato. Lewis Munford ha caratterizzato l'uomo nell'età della macchina come una "personalità oggettiva", come colui che ha imparato a trasferire tutta la .sua spontaneità soggettiva sulla macchina, della 31
quale è al servizio, a subordinare la sua vita al "realismo" nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto''. Le distinzioni individuali di attitudini, intuito e conoscenza si trasformano in differenti determinazioni quantitative di specializzazione e addestramento, da coordinare in ogni momento all'interno del quadro comune delle prestazioni standardizzate. L'individualità, tuttavia, non è scomparsa. Il libero soggetto dell'economia si è piuttosto sviluppato nell'oggetto di una organizzazione e coordinazione su larga scala, e la realizzazione individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. Questa è caratterizzata dal fatto che la prestazione dell'individuo è motivata, guidata e misurata secondo criteri che gli sono esterni, e che si riferiscono a compiti e funzioni predeterminati. L'individuo efficiente è quello la cui prestazione costituisce un'azione solo in quanto è la reazione adeguata alle esigenze oggettive dell'apparato, e la cui libertà si limita alla scelta dei mezzi più adeguati per il raggiungimento di un obiettivo non stabilito da lui. Mentre la realizzazione individuale è indipendente dal riconoscimento e si compie nel lavoro stesso, l'efficienza costituisce una prestazione remunerata e portata a compimento solo per il valore che ha per l'apparato. Insieme con la maggior parte della popolazione, la precedente libertà del soggetto economico affogò gradualmente nell'efficienza con la quale questi assolveva le mansioni assegnategli. Il mondo risultò razionalizzato a tal punto, e la sua razionalità era divenuta un potere sociale tale, che l'individuo non poteva fare di meglio che addattarsivi senza riserve. Veblen fu tra i primi a derivare il nuovo realismo dal procedimento meccanico, a partire dal quale esso si era esteso all'intera società: "La parte dell'operaio-operatore nell'industria meccanica è (propriamente) quella di un attendente, di un assistente, che ha il dovere di mantenere il ritmo del procedimento meccanico e di intervenire con un'abile manovra nei punti in cui il procedimento meccanico avviato è incompleto. Il suo lavoro integra il processo meccanico, piuttosto che farne uso. È, all'opposto, il processo meccanico che fa uso dell'operaio. In tale sistema tecnologico, il congegno meccanico ideale è la macchina automatica"^. Il procedimento meccanico richiede una conoscenza orientata "alla pronta comprensione di fatti poco chiari, in termini quantitativi sufficientemente esatti. Questo tipo di conoscenza presuppone da parte dell'operaio un determinato atteggiamento intellettuale o psichico, qua-
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le la volontà di apprendere prontamente e apprezzare i dati di fatto, di guardarsi dall'arricchire tale conoscenza con supposte sottigliezze animistiche o antropomorfiche, con interpretazioni semipersonali dei fenomeni osservati e dei loro rapporti reciproci"®. In quanto atteggiamento, il senso di realtà non è legato al procedimento meccanico. Sotto tutte le forme della produzione sociale, gli uomini hanno tratto e giustificato le loro motivazioni e le loro mete dai fatti che ne costituivano la realtà, e sono approdati in tal modo alle filosofie più divergenti. Il realismo animò l'antico materialismo ed edonismo, fu responsabile della lotta della fisica moderna contro l'oppressione spirituale, e del razionalismo rivoluzionario dell'illuminismo. Da questi, il nuovo atteggiamento si differenzia per l'acquiescenza altamente razionale che lo contraddistingue. I fatti che dirigono il pensiero e l'azione dell'uomo non sono quelli della natura che si devono accogliere perché li si possa dominare, né quelli della società, che sono da mutare perché non corrispondono ai bisogni e alle potenzialità dell'uomo. Sono piuttosto quelli del procedimento meccanico, che si presenta come l'incarnazione della razionalità e della funzionalità. Facciamo un semplice esempio. Un uomo che viaggia in automobile verso un luogo lontano sceglie il percorso sulla mappa stradale. Città, laghi e montagne appaiono come ostacoH da aggirare. La campagna è modellata dall'autostrada: ciò che si trova per strada è un sottoprodotto o un annesso dell'autostrada. Numerosi cartelli e insegne indicano al viaggiatore cosa fare e pensare, e attirano la sua attenzione sulle bellezze della natura o sui segni della storia. Altri hanno pensato per lui, e forse meglio. Dove si apre il panorama più ampio e sorprendente sono state costruite comode aree di parcheggio. Insegne enormi gli dicono quando fermarsi per concedersi una pausa ristoratrice. E tutto ciò è davvero a suo vantaggio, per la sua sicurezza e per la sua comodità; egli riceve ciò che vuole. Affari, tecnica, bisogni dell'uomo e natura sono fusi insieme in un unico meccanismo razionale e funzionale. Si troverà meglio colui che ne segue le indicazioni, subordinando la propria spontaneità all'intelligenza anonima che ha disposto ogni cosa per lui. Il punto decisivo è che tale atteggiamento - che dissolve ogni azione in una sequenza di reazioni semi-spontanee a norme meccaniche prescritte - non è solo perfettamente razionale, ma anche perfettamente ragionevole. Ogni protesta è insensata, e l'individuo che 30
insistesse sulla propria libertà di azione risulterebbe pazzo. Non vi è una possibilità individuale di fuga dall'apparato che ha meccanizzato e standardizzato il mondo. E un apparato razionale, che unisce la massima funzionalità alla massima convenienza, risparmiando tempo e energia, eliminando gli sprechi, adattando tutti i mezzi al fine, anticipando le conseguenze, promuovendo condizioni di calcolabilità e sicurezza. Manovrando la macchina, l'uomo impara che l'obbedienza alle direttive è il solo modo di ottenere i risultati desiderati. Tirare avanti equivale ad adeguarsi all'apparato. Non vi è spazio per l'autonomia. La razionalità individualistica si è sviluppata in efficiente acquiescenza col continuum preesistente di mezzi e fini. Quest'ultimo assorbe gli sforzi liberatori del pensiero e le varie funzioni della ragione convergono nell'incondizionata conservazione dell'apparato. Si è sottolineato di frequente come le scoperte e le invenzioni scientifiche siano accantonate non appena siano parse interferire col mercato orientato al profitto^. La necessità, che è la madre di tutte le invenzioni, è in larga misura la necessità di mantenere e espandere l'apparato. Le invenzioni risultano "utili principalmente al servizio degli affari, non dell'industria, e la loro ulteriore grande utilità consiste nel favorire o meglio accelerare la creazione di agi sociali obbligatori". Esse sono per lo più di natura competitiva, e "ogni vantaggio tecnologico guadagnato da un concorrente diventa subito una necessità per gli altri, pena la sconfitta", così che si potrebbe dire a buon diritto che nel sistema monopolistico "l'invenzione è la madre della necessità"^®. Tutto coopera a incanalare istinti, desideri e pensieri umani in modo da alimentare l'apparato. Le organizzazioni economiche e sociali dominanti "non conservano il loro potere con la forza [...] Lo fanno identificandosi con gli oggetti della fede e lealtà del popolo"", e il popolo è stato addestrato a identificare gli oggetti della sua fede e lealtà con quelle organizzazioni. I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico. Ma i congegni meccanici che facilitano le relazioni tra gli individui ne intercettano anche e ne assorbono la libido, deviandola da tutte le aree troppo pericolose nelle quali l'individuo è libero dalla società. Difficilmente l'uomo medio si prende cura di un essere vivente con la stessa intensità e costanza che mostra per la sua automobile. La macchina che egli adora non è piii materia morta, ma diventa qualcosa di simile a un 31
essere umano. Ed essa restituisce all'uomo ciò che possiede: la vita dell'apparato sociale di cui è parte. Il comportamento umano è dotato della razionalità del processo meccanico, e questa razionalità ha un contenuto sociale determinato. Il processo meccanico opera secondo le leggi della fisica, ma opera ugualmente secondo le leggi della produzione di massa. La funzionalità nei termini della ragione tecnologica è, al tempo stesso, funzionalità nei termini dell'efficienza orientata al profitto, e la razionalizzazione è contemporaneamente standardizzazione e concentrazione monopolistica. Quanto piti l'individuo si comporta razionalmente e attende amorevolmente al suo lavoro, tanto più soccombe di fronte agli aspetti frustranti di tale razionalità. Egli sta perdendo la capacità di astrarre dalla forma particolare nella quale la razionalizzazione si realizza, e la fede nelle sue potenzialità non realizzate. Il realismo, la sfiducia nei confronti di tutti i valori che trascendano i dati dell'osservazione, il risentimento verso tutte le interpretazioni semipersonali e metafisiche, il sospetto per ogni criterio che rapporti l'ordine osservabile delle cose, la razionalità dell'apparato alla razionalità della libertà: questo atteggiamento complessivo giova fin troppo a coloro che sono interessati alla perpetuazione della forma prevalente delle realtà di fatto. Il processo meccanico richiede un "costante addestramento all'apprendimento meccanico delle cose", e questo a sua volta promuove "la conformità a una vita programmata", un "certo grado di intuizione allenata, e una facile strategia in ogni sorta di adeguamenti e adattamenti quantitativi"^^. La "meccanica del conformismo" si estende dall'ordine tecnologico a quello sociale; governa le prestazioni non solo nelle fabbriche e nei negozi, ma anche negli uffici, nelle scuole, nelle assemblee e, da ultimo, anche nel regno dello svago e dell'intrattenimento. Gli individui sono spogliati della loro individualità, non per una costrizione esterna, ma dalla razionalità della loro vita. La psicologia industriale assume correttamente che "le disposizioni degli uomini sono abitudini emozionali fisse e come tali modelli di reazione del tutto affidabili In verità quella che trasforma la prestazione umana in una serie di reazioni affidabili è una forza esterna: il processo meccanico impone all'uomo schemi di comportamento meccanico, e quanto più si riduce l'indipendenza dell'individuo in competizione, tanto più i principi dell'efficienza competitiva sono imposti dall'esterno. L'uomo però non fa esperienza della perdita
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della libertà come dell'opera di una forza estranea e ostile; affida invece la sua libertà al comando della ragione stessa. Il punto è che oggi l'apparato al quale l'individuo deve adeguarsi e adattarsi risulta così razionale, che la protesta e la liberazione dell'individuo non appaiono solo disperate, ma profondamente irrazionali. Il sistema di vita creato dall'industria moderna è della massima funzionalità, convenienza e efficienza. Definita in questi termini, la ragione equivale a un'attività che perpetua questo mondo. La condotta razionale si identifica con un realismo che insegna una ragionevole remissività, e garantisce così che si proceda d'accordo con l'ordine prevalente. A prima vista, l'atteggiamento tecnologico sembra implicare non la rassegnazione, ma il suo opposto. Dogmi teleologici e teologici non interferiscono pivi con la lotta dell'uomo contro la materia; egli sviluppa le sue energie sperimentali senza inibizioni. Non c'è configurazione della materia che egli non cerchi di demolire, manipolare e mutare secondo la sua volontà e il suo interesse. Un tale sperimentalismo serve però spesso lo sforzo volto a sviluppare una superiore efficienza nel controllo gerarchico sugli uomini. La razionalità tecnologica può facilmente essere posta al servizio di tale controllo: nella forme del management scientifico essa è divenuta uno dei mezzi più profittevoli per un'autocrazia efficiente. La definizione di ''management scientifico" formulata da F. W. Taylor ne esibisce l'unificazione di scienza esatta, realismo e grande industria: "una conduzione aziendale scientifica si sforza di sostituire nel rapporto tra datori di lavoro e lavoratori il primato della forza e dell'opinione con quello dei fatti e delle loro leggi. Sostituisce la congettura con la conoscenza esatta e cerca di stabilire un codice di leggi naturali egualmente vincolanti per i datori di lavoro e i lavoratori. Il managment scientifico cerca perciò di sostituire un codice di disciplina basato sul capriccio e il potere arbitrario degli uomini, con una disciplina di fabbrica fondata sulla legge naturale. Mai prima d'ora è esistita nell'industria una simile democrazia. La direzione aziendale deve occuparsi di ogni protesta di ogni singolo operaio, e la natura della lagnanza, giusta o ingiustificata, deve essere stabilita non in base all'opinione della dirigenza o dell'operaio, ma all'ampio codice di leggi elaborato e che deve soddisfare ambo le parti"^''. Lo sforzo scientifico mira a eliminare gli sprechi, intensificare la produzione e standardizzare il prodotto. E quest'intero programma di incremento dell'efficienza orientata al profitto si propone come la realizzazio-
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ne finale dell'individualismo, nella misura in cui termina con la pretesa di "sviluppare l'individualità degli operai"^^. L'idea di tale efficienza acquiescente illustra alla perfezione la struttura della razionalità tecnologica. La razionalità viene trasformandosi da forza critica in principio di adeguamento e acquiescenza. L'autonomia della ragione perde il suo significato nella stessa misura in cui i pensieri, i sentimenti e le azioni degli uomini sono modellati dalle esigenze tecniche dell'apparato che essi hanno creato. La ragione si è trovata una quieta collocazione all'interno del sistema di controllo, produzione e consumo standardizzati, nel quale governa mediante le leggi e i meccanismi che assicurano efficienza, funzionalità e coerenza. Estendendosi all'intera società, le leggi e i meccanismi della razionalità tecnologica sviluppano una serie di propri valori di verità, che vanno bene per il funzionamento dell'apparato - e solo per questo. Le proposizioni relative a un comportamento competitivo o complice, a metodi degli affari, ai principi di un'efficace organizzazione e controllo, alla correttezza e all'uso della scienza e della tecnica, sono vere o false nei termini di questo sistema di valori, cioè nei termini propri di strumenti che dettano i loro stessi fini. Questi valori di verità sono messi alla prova e perpetuati dall'esperienza e devono guidare i pensieri e le azioni di quanti vogliono sopravvivere. La razionalità esige qui acquiescenza e coordinazione senza condizioni, sicché i valori di verità connessi ad essa implicano la subordinazione del pensiero a criteri esterni preesistenti. A questa serie di valori di verità possiamo dare il nome di verità tecnologica - tecnologica nel duplice senso che essa è uno strumento funzionale, più che un fine in sé, e segue il modello del comportamento tecnologico. In forza della sua subordinazione a criteri esterni, la verità tecnologica entra in una contraddizione stridente con la forma in cui la società individualistica aveva fissato i suoi valori supremi. Il perseguimento dell'interesse personale appare ora condizionato dall'eteronomia, e l'autonomia sembra un ostacolo più che un impulso all'azione razionale. La verità originariamente identica e "omogenea" sembra scindersi in due differenti serie di valori e in altrettanti modelli differenti di comportamento, l'uno assimilato all'apparato, l'altro ad esso antagonistico: l'uno dischiude la razionalità tecnologica prevalente, e governa la condotta che essa esige, l'altro è proprio di una razionalità critica i cui valori possono realizzarsi solo a condi34
zione che sia essa a modellare tutti i rapporti personali e sociali. La razionalità critica deriva dai principi di autonomia che la stessa società individualistica aveva proclamato come le proprie verità autoevidenti. Ponendo questi principi a confronto con la forma in cui la società individualistica li ha attuati, la razionalità critica denunzia l'ingiustizia sociale in nome proprio dell'ideologia di quella società^^. Il rapporto tra verità tecnologica e verità critica costituisce un problema complesso, che non può essere affrontato qui - due punti devono però essere richiamati: (1) le due serie di valori non sono né del tutto contraddittorie, né complementari; molte verità della razionalità tecnologica sono conservate o trasformate nella razionalità critica; (2) la distinzione tra le due serie non è rigida; nel processo sociale il contenuto di ogni serie muta, sicché ciò che prima costituiva un valore di verità critico diviene un valore tecnologico. Per esempio, l'affermazione che ogni individuo è portatore di determinati diritti inalienabili costituisce un enunciato critico, che però è stato spesso interpretato a vantaggio dell'efficienza e della concentrazione di potere". La standardizzazione del pensiero sotto il dominio della razionalità tecnologica coinvolge anche i valori di verità critici. Questi ultimi sono strappati al contesto al quale appartenevano originariamente e godono, nella loro nuova forma, di un'ampia pubblicità, persino a livello ufficiale. Ad esempio, affermazioni che in Europa erano patrimonio esclusivo del movimento operaio sono oggi fatte proprie dalle forze che esse contestavano. Nei paesi fascisti servono come strumento ideologico per l'attacco al "capitalismo ebraico" e alla "plutocrazia occidentale", il che occulta il fronte reale della lotta. L'analisi materialistica dell'economia del nostro tempo è utilizzata per giustificare la necessità del fascismo di fronte agli industriali tedeschi, nel cui interesse esso opera, quale risorsa estrema nell'espansione imperialistica^®. In altri paesi, la critica dell'economia politica svolge un ruolo nella lotta tra gruppi di affari in conflitto e come arma del governo per smascherare pratiche monopolistiche; è diffusa dalle colonne delle grandi catene di giornali e trova un suo spazio persino nelle riviste popolari e nelle istanze alle associazioni degli industriali. Tuttavia, nel momento in cui divengono parte integrante della cultura costituita, le sue affermazioni sembrano perdere la loro incisività e fondersi con ciò che è vecchio e noto. Tale familiarità con la verità chiarisce la misura in cui la società è diventata
indifferente e immune all'impatto del pensiero critico. Le categorie del pensiero critico conservano infatti la loro verità solo se orientano la piena realizzazione delle potenzialità sociali da esse prospettate, e perdono la loro forza nel momento in cui determinano un atteggiamento di acquiescenza fatalistica o di assimilazione competitiva. Diversi fattori hanno contribuito a determinare l'impotenza sociale del pensiero critico. Il più importante è rappresentato dalla crescita dell'apparato industriale e del suo controllo totale su tutte le sfere della vita. La razionalità tecnologica inculcata in coloro che si occupano dell'apparato ha trasformato molte forme di costrizione e autorità esterna in forme di autodisciplina e autocontrollo. Ordine e sicurezza sono garantiti in larga misura dal fatto che l'uomo ha imparato ad adeguare il suo comportamento a quello dei suoi simili sin nel minimo dettaglio. Tutti gli uomini agiscono in modo egualmente razionale, cioè secondo criteri che assicurano il funzionamento dell'apparato e quindi la conservazione delle loro stesse vite. Tale "interiorizzazione" della costrizione ha però rafforzato i meccanismi del controllo sociale, invece di attenuarli. Nel seguire la loro ragione, gli uomini seguono coloro che fanno della ragione un uso profittevole. In Europa questi meccanismi hanno contribuito a impedire che gli uomini agissero secondo l'evidenza della verità - i meccanismi di controllo fisico dell'apparato hanno completato l'opera. A questo punto, interessi altrimenti divergenti e le loro istituzioni risultano coordinati e composti in modo tale da contrastare efficacemente ogni seria minaccia al loro dominio. La forza sempre crescente dell'apparato non è però l'unico fattore responsabile. L'impotenza sociale del pensiero critico è stata ulteriormente favorita dal fatto che strati importanti della popolazione sono stati da tempo incorporati nell'apparato, senza perdere il loro appellativo di forze di opposizione. La storia di questo processo è nota, ed è illustrata dallo sviluppo del movimento operaio. Poco tempo dopo la prima guerra mondiale Veblen affermò che "L'A.F.L. è essa stessa uno degli interessi costituiti, pronto come ogni altro a dar battaglia per il suo margine di privilegi e di profitti [...] L'A.F.L. è un'organizzazione affaristica con un suo proprio interesse costituito, tendente a tenere alti i prezzi e bassa l'offerta, proprio secondo il consueto sistema direzionale degli altri interessi c o s t i t u i t i " L o stesso vale per la burocrazia operaia nei principali paesi d'Europa. Qui la questione riguarda quindi non tanto la convenienza politica o 36
le conseguenze di un tale sviluppo, ma il mutamento di funzione dei valori di verità rappresentati e portati avanti dai lavoratori. Tali verità appartenevano in larga misura alla razionalità critica, che interpretava il processo sociale nella prospettiva della restrizione delle sue potenzialità. Una simile razionalità ha modo di svilupparsi pienamente solo all'interno di gruppi sociali la cui organizzazione non si modella sull'apparato nelle sue forme prevalenti o nei suoi organismi e nelle sue istituzioni. Questi sono infatti pervasi dalla razionalità tecnologica che plasma l'atteggiamento e gli interessi di coloro che ne dipendono, così che tutte le finalità e i valori trascendenti siano tagliati fuori. Si afferma, tra lo "spirito" e la sua incarnazione materiale, un'armonia tale che lo spirito non può essere sostituito senza incrinare il funzionamento del tutto. I valori di verità critici sorti da un movimento sociale di opposizione mutano di significato nel momento in cui tale movimento si incorpora nell'apparato. Idee quali la libertà, l'industria produttiva, l'economia pianificata, la soddisfazione dei bisogni, sono quindi fuse con gli interessi del controllo e della concorrenza. I successi tangibili delle organizzazioni acquistano perciò un peso maggiore delle esigenze della razionalità critica. La tendenza ad assimilarsi ai modelli organizzativi e psicologici propri dell'apparato ha determinato un mutamento nella struttura dell'opposizione sociale in Europa. La razionalità critica delle sue finalità è stata subordinata alla razionalità tecnologica della sua organizzazione e perciò "depurata" degli elementi che trascendevano i modelli costituiti di pensiero e di azione. Tale processo è stato il risultato apparentemente inevitabile della crescita della grande industria e del suo esercito di dipendenti. Questi potevano effettivamente pensare di affermare i propri interessi solo coordinandosi realmente in organizzazioni su larga scala. I gruppi di opposizione sono venuti trasformandosi in partiti di massa, e i loro dirigenti in burocrazie di massa. Questa trasformazione, tuttavia, lungi dal dissolvere la struttura della società individualistica in un nuovo sistema, ne ha alimentato e rafforzato le tendenze fondamentali. Quelli di massa e individuo sembrano essere con tutta evidenza concetti, e fatti, incompatibili. La folla "è, certo, composta da individui - ma individui che cessano di essere isolati, che cessano di pensare. L'individuo isolato dentro alla folla non può fare a meno di pensare, di criticare le emozioni. Gli altri, d'altro canto, smettono di
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pensare: sono emozionati, trascinati, esaltati; si sentono uniti ai loro compagni nella folla, sciolti da ogni inibizione; sono cambiati e non sentono alcuna relazione con il loro precedente stato mentale Sebbene descriva correttamente determinati tratti delle masse, questa analisi presenta l'assunto errato che nella folla gli individui "cessino di essere isolati", si trasformino, e "non sentano alcuna relazione col precedente stato mentale". La funzione delle masse nell'autoritarismo consiste piuttosto nel portare a compimento l'isolamento dell'individuo, realizzandone il "precedente stato mentale". La folla è un insieme di individui spogliati di ogni distinzione "naturale" e personale, e ridotti all'espressione standardizzata della loro individualità astratta, cioè al perseguimento dell'interesse personale. In quanto membro della folla, l'uomo è divenuto il soggetto standardizzato di una autoconservazione bruta. All'interno della folla, le restrizioni imposte dalla società al perseguimento competitivo dell'interesse personale tendono a perdere di incisività, sicché gli impulsi aggressivi si liberano facilmente. Questi si sono sviluppati sotto l'urgenza della penuria e della frustrazione, e la loro scarica accentua piuttosto lo " stato mentale precedente". È vero, la folla "unisce", ma unisce i soggetti atomici dell'autoconservazione, che vengono separati da tutto ciò che trascenda i loro interessi e impulsi egoistici. La folla è perciò l'antitesi della comunità, e la realizzazione pervertita dell'individualità. Il peso e l'importanza delle masse aumentano con la crescita della razionalizzazione; esse, però, si trasformano contemporaneamente in una forza conservatrice che perpetua l'esistenza dell'apparato. Nella misura in cui diminuisce il numero di quanti godono della libertà della prestazione individuale, così aumentano coloro la cui individualità si riduce all'autoconservazione mediante la standardizzazione. Questi possono perseguire il proprio interesse personale solo sviluppando "modelli di rapporto affidabili", e assolvendo funzioni prefissate. Persino la domanda di professionalità altamente differenziate dell'industria moderna promuove la standardizzazione. L'addestramento professionale consiste principalmente nell'addestramento in specializzazioni di vario tipo, nell'adattamento psichico e fisico al "lavoro" da farsi. Questo, un "tipo di lavoro" predeterminato, "richiede una specifica combinazione di abilità"^\ e coloro che determinano il lavoro plasmano anche il materiale umano atto a compierlo. Le abilità sviluppate da un simile addestramento fanno 38
della "personalità" un mezzo per raggiungere scopi che perpetuano l'esistenza dell'uomo in quanto strumento, sostituibile in breve tempo da altri strumenti della stessa qualità. Gli aspetti psicologici e "personali" dell'addestramento professionale risultano tanto più accentuati, quanto più sono soggetti a irregimentazione e perdono la libertà di uno sviluppo libero e completo. Il "lato umano" del lavoratore, la preoccupazione per le sue attitudini e abitudini personali svolge un ruolo importante nella mobilitazione della sfera privata della produzione e della cultura di massa. La psicologia e l'individualizzazione servono a consolidare un'affidabilità stereotipata, in quanto danno all'oggetto umano la sensazione di dispiegare se stesso nell'adempimento di funzioni che dissolvono il suo sé nella serie di azioni e reazioni richieste. All'interno di questa concatenazione, l'individualità è non solo preservata, ma anche rafforzata e ricompensata; una simile individualità è però solo la specifica forma nella quale un uomo introietta e assolve, entro uno schema generale, determinati compiti assegnatigli. La specializzazione fissa lo schema di standardizzazione prevalente. Quasi tutti sono diventati membri potenziali della folla, e le masse rientrano tra gli strumenti quotidiani del processo sociale. Come tali, possono essere manipolate con facilità, dal momento che i pensieri, i sentimenti e gli interessi dei loro membri si sono assimilati ai modelli dell'apparato. Certo, le loro esplosioni sono terrificanti e violente, sono prontamente orientate contro i concorrenti più deboli e i "diversi" bene in vista (ebrei, stranieri, minoranze nazionali). Le masse coordinate non bramano un nuovo ordine, ma una maggiore porzione di quello prevalente. Con le loro azioni, esse cercano di correggere, in modo anarchico, l'ingiustizia della concorrenza. La loro uniformità è nell'interesse personale competitivo che esse manifestano, nel livellamento delle espressioni della loro autoconservazione. I membri delle masse sono individui. L'individuo nella folla non è certo quello che il principio individualistico esortava a sviluppare U proprio sé, né il suo interesse personale coincide con l'interesse razionale sollecitato da tale principio. Lì dove la prestazione sociale quotidiana dell'individuo è divenuta antagonistica al suo "vero interesse", il principio individualistico ha mutato di significato. I protagonisti dell'individualismo erano consapevoli del fatto che "gli individui possono svilupparsi solo se si affida loro da compiere qualcosa di più di quanto sanno fare e
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attualmente fanno bene"^^; oggi si assegna all'individuo esattamente ciò che egli al momento sa fare meglio. Per la filosofia dell'individualismo la "libertà essenziale" del sé consiste nel fatto che esso "si volge verso un momento fatidico al di fuori di tutto ciò che gli appartiene, e determina unicamente da sé se i suoi vincoli primari saranno con interessi realmente terreni, o con quelli di un ideale e potenziale 'regno di Dio'"^^. Questo regno ideale e potenziale lo si è definito in molti modi, ma esso è sempre stato caratterizzato da contenuti opposti e trascendenti rispetto al regno prevalente. Oggi il tipo prevalente di individuo non è più capace di appropriarsi del momento fatale che dischiude la sua libertà. Egli ha mutato di funzione: da unità di autonomia e di resistenza, è passato in un'unità di duttilità e adeguamento. E questa la funzione che associa gli individui nelle masse. La nascita delle masse moderne, lungi dal mettere in pericolo l'efficienza e la coesione dell'apparato, ha favorito la progressiva coordinazione della società e la crescita di una burocrazia autoritaria - e ciò confuta la teoria individualistica in un punto decisivo. Il progresso tecnico sembrava tendere alla conquista della penuria, e dunque a una lenta trasformazione della concorrenza in cooperazione. La filosofia dell'individualismo identificava questo processo con la graduale differenziazione e liberazione delle potenzialità dell'uomo, e con l'abolizione della "folla". Persino nella concezione marxiana non sono le masse i corpi d'assalto della libertà. Il proletariato di Marx non è una folla ma una classe, definita dalla sua specifica posizione all'interno del processo di produzione, dalla maturità della sua coscienza e dalla razionalità dell'interesse comune. La razionalità critica nella forma più marcata è la premessa della sua funzione liberatrice. Questa concezione concorda con la filosofia dell'individualismo almeno in un aspetto: essa prospetta la forma razionale di una associazione umana come creata e sorretta dall'autonomia di decisione e di azione di uomini liberi. E questo il solo punto nel quale la razionalità critica e quella tecnologica sembrano convergere, poiché il processo tecnologico implica una democratizzazione delle funzioni. Il sistema di produzione e distribuzione è stato razionalizzato a tal punto che la distinzione gerarchica tra prestazioni direttive e subordinate si fonda solo in minima parte su differenze essenziali di attitudini e intuito, e in misura sempre maggiore su un potere ereditato e un addestramento 40
professionale al quale ognuno potrebbe essere sottoposto. Neanche gli esperti e i "supertecnici" fanno eccezione. Certo, lo iato tra la popolazione sottostante e coloro che tracciano i programmi di razionalizzazione, organizzano la produzione, realizzano invenzioni e scoperte che accelerano il progresso tecnologico diviene sempre più notevole, in particolare in un periodo di economia di guerra. Al tempo stesso, lo iato è alimentato più dalla divisione del potere che dalla divisione del lavoro. La distinzione di esperti e supertecnici risulta dal fatto che la loro abilità e la loro conoscenza sono impiegate nell'interesse di un potere autocratico. Il "leader tecnologico" è anche il "leader sociale"; il suo "primato sociale offusca e condiziona la sua funzione in quanto scienziato, poiché gli conferisce un potere istituzionale all'interno del gruppo", e il "capitano d'industria opera in perfetto accordo con la tradizionale dipendenza della funzione di esperto"^"*. Se non fosse per questo fatto, il compito dell'esperto e dell'ingegnere non costituirebbe un ostacolo alla generale democratizzazione delle funzioni. La razionalizzazione tecnologica ha creato per le varie professioni e occupazioni un quadro comune di esperienza. Questa esperienza esclude o limita gli elementi che trascendono il controllo tecnico sulle realtà di fatto, ed estende perciò la portata della razionalizzazione dal mondo oggettivo a quello soggettivo. Al di sotto della complicata rete di controlli stratificati è una serie di tecniche più o meno standardizzate, tendenti a un modello generale, che assicura la riproduzione materiale della società. Le "persone impegnate in un'occupazione pratica" sembrano essere convinte che "ogni situazione che si dia nell'esecuzione del loro ruolo possa essere adattata ad un modello generale che risulta ai migliori, se non a tutti, familiare"^^. Inoltre, la concezione strumentale della razionalità tecnologica si sta estendendo all'intero dominio del pensiero, conferendo alle diverse attività intellettuali un denominatore comune. Anch'esse divengono una sorta di tecnica^*", una questione di addestramento più che di individualità, che richiede un esperto più che una personalità umana completa. La standardizzazione della produzione e del consumo, la meccanizzazione del lavoro, il miglioramento dei mezzi di trasporto e di comunicazione, l'estensione dell'addestramento, la disseminazione della conoscenza - sono questi i fattori che sembrano favorire l'interscambiabilità delle funzioni. È come se la base sulla quale è stata costruita l'ampia distinzione tra "conoscenza specialistica (tecnica)" 41
e "conoscenza comune"^^ si stesse contraendo, e il controllo autoritario delie funzioni si rivelasse sempre più estraneo al processo tecnologico. Tuttavia, la forma specifica nella quale il processo tecnologico è organizzato contrasta tale tendenza. Il medesimo sviluppo che ha creato le masse moderne di servitori e dipendenti dell'industria su larga scala ha creato anche l'organizzazione gerarchica delle burocrazie private. La connessione tra democrazia di massa e burocrazia è stata sottolienata già da Max Weber: "in antitesi all'autoamministrazione democratica di piccole unità omogenee", la burocrazia è "un inevitabile fenomeno collaterale della moderna democrazia di "28
massa . La burocrazia diviene il fenomeno collaterale delle masse moderne in quanto la standardizzazione procede lungo la direttrice della specializzazione. In sé quest'ultima è del tutto compatibile con una democratizzazione delle funzioni, ammesso che non si arresti nel punto in cui interferisce col domino del controllo costituito. La specializzazione fissa tende tuttavia ad atomizzare le masse e a isolare le funzioni subordinate da quelle direttive. Abbiamo già detto che l'addestramento professionale specializzato implica l'adattamento del singolo uomo ad un particolare lavoro, o a una determinata "catena" di lavori, così da orientare "personalità", spontaneità ed esperienza alle situazioni specifiche nelle quali può trovarsi nell'adempimento di quel lavoro. In questo modo, le diverse professioni e occupazioni, nonostante la loro convergenza su un modello generale, tendono a divenire unità atomizzate che richiedono coordinazione e direzione dall'alto. La democratizzazione tecnica delle funzioni è contrastata dalla loro atomizzazione, e la burocrazia appare come l'istituzione che ne garantisce il corso e l'ordine razionale. La burocrazia emerge perciò su un terreno apparentemente oggettivo e impersonale, fornito dalla specializzazione razionale delle funzioni, e questa razionalità serve a sua volta ad accrescere la razionalità della sottomissione. Quanto piià infatti le funzioni degli individui sono divise, fissate e coordinate secondo modelli oggettivi e impersonali, tanto meno ragionevole risulta per l'individuo tirarsi indietro o opporre resistenza. "Cresce sempre di piìi il vincolo del destino materiale delle masse al continuo corretto funzionamento delle organizzazioni capitalistiche private, ordinate sempre più in modo burocratico"^^. Il carattere oggettivo e impersonale della razionalità tecnologica conferisce ai gruppi burocratici la dignità 42
universale della ragione. La razionalità incarnata nelle imprese gigantesche produce l'apparenza che gli uomini, obbedendo loro, obbediscano al dettato di una razionalità oggettiva. La burocrazia privata alimenta un'illusoria armonia tra interesse particolare e interesse comune. I rapporti di potere a carattere privato appaiono non solo come rapporti tra cose oggettive, ma anche come il governo della razionalità stessa. Nei paesi fascisti il meccanismo favorisce la fusione tra burocrazie private, semiprivate (di partito) e pubbliche (governative). L'efficiente realizzazione degli interessi dell'industria su larga scala è stato uno dei motivi più incisivi della trasformazione del controllo economico in controllo politico totalitario, e l'efficienza costituisce una delle ragioni principali della presa del regime fascista sulla popolazione irreggimentata. Essa, tuttavia, è anche la forza che può incrinarne l'autorità. Il fascismo può conservare il suo potere solo aggravando le restrizioni che è costretto a imporre alla società; manifesterà in modo sempre più palese la propria incapacità a sviluppare le forze produttive, e cadrà di fronte a quel potere che darà prova di essere più efficiente. Nei paesi democratici il rafforzamento della burocrazia pubblica può bilanciare la crescita della burocrazia privata. La razionalità insita nella specializzazione delle funzioni tende a estendere la portata e il peso della burocratizzazione. Tuttavia, nella burocrazia privata, una simile espansione intensificherà gli elementi irrazionali del processo sociale, invece di alleviarli, poiché allargherà il divario tra il carattere tecnico della divisione delle funzioni e il carattere autocratico del controllo su di esse. Di contro, la burocrazia pubblica, se costituita e controllata in modo democratico, potrà superare questo divario, nella misura in cui intraprenderà la "conservazione di quelle risorse umane e materiali che la tecnologia e le grandi società per azioni hanno teso a mal impiegare e a deteriorare"^®. Nell'era della società di massa il potere della burocrazia pubblica può costituire lo scudo che protegge il popolo dalla sovrapposizione di interessi particolari al benessere generale. Finché la volontà popolare ha realmente modo di affermarsi, la burocrazia pubblica può essere una leva di democratizzazione. L'industria su larga scala tende a organizzarsi a livello nazionale, e il fascismo ha trasformato l'espansione economica nella conquista militare di interi continenti. Li tale situazione, quelle della reintegrazione della società nel suo pieno diritto 43
e del mantenimento della libertà individuale sono divenute questioni direttamente politiche, la cui soluzione dipende dall'esito della lotta internazionale. Il carattere sociale della burocratizzazione è ampiamente determinato dalla misura in cui essa consente una democratizzazione delle funzioni che tenda a colmare il divario tra la burocrazia al governo e la popolazione governata. Se tutti saranno divenuti potenzialmente membri della burocrazia pubblica (così come sono divenuti membri potenziali della società di massa), la società sarà passata dallo stadio della burocratizzazione gerarchica allo stadio dell'autoamministrazione tecnica. Proprio perché la tecnocrazia produce un allargamento del divario tra conoscenza specializzata e conoscenza comune, tra gli esperti che controllano e coordinano e la popolazione oggetto di tale controllo e coordinazione, l'abolizione tecnocratica del "sistema dei prezzi" dovrebbe stabilizzare piuttosto che frantumare le forze che si trovano sulla via del progresso. Lo stesso vale per la cosiddetta rivoluzione manageriale. Secondo la teoria della rivoluzione manageriale^\ la crescita dell'apparato comporta l'ascesa di una nuova classe sociale, quella dei "manager", sino al punto in cui essi assumono il dominio della società e instaurano un nuovo ordine economico e sociale. Nessuno contesterà la rilevanza crescente della direzione manageriale e il simultaneo dislocamento della funzione di controllo. Questi dati di fatto non fanno però dei manager una nuova classe sociale o le avanguardie di una rivoluzione. Essi hanno la stessa "fonte di reddito" delle classi esistenti: percepiscono stipendi, oppure, se posseggono una quota di capitale, sono dei capitalisti. Inoltre, la funzione specifica assolta nella divisione prevalente del lavoro non autorizza alcuna aspettativa circa una loro destinazione a inaugurare una nuova divisione del lavoro, maggiormente razionale. Tale funzione risulta determinata dalle esigenze di un uso profittevole del capitale, e in questo caso si tratta semplicemente di capitalisti o capitalisti-delegati (compresi i "direttori finanziari" e i manager delle grandi società per azioni)^^; oppure è determinata dal processo materiale di produzione (ingegneri, tecnici, direttori di produzione, sovrintendenti agli impianti). In quest'ultimo caso, i manager sarebbero parte del numeroso esercito dei "produttori immediati", e ne condividerebbero r"interesse di classe", se non fosse che anche in questa funzione essi lavorano come capitalistidelegati e formano perciò un gruppo separato e privilegiato, tra 44
capitale e lavoro. Il loro potere, e il timore reverenziale che ispira, non derivano da un'effettiva prestazione "tecnologica", ma dalla loro posizione sociale, che devono all'organizzazione prevalente della produzione. "All'interno dei santuari degli affari le figure manageriali e direttoriali ai vertici [...] provengono dagli stati superiori della ricchezza e del reddito, o ne sono stati assorbiti, e la loro funzione consiste nel difenderne le entrate"^^. Riassumendo, in quanto gruppo sociale distinto, i manager sono profondamente legati agli interessi costituiti, e in quanto prestatori d'opera in funzioni produttive necessarie non costituiscono affatto una "classe" separata. La gerarchia in espansione dell'impresa su larga scala e il precipitare dell'individuo nelle masse determinano le tendenze dell'odierna razionalità tecnologica. Ne risulta la forma matura di quella razionalità individualistica che caratterizzava il libero soggetto economico della rivoluzione industriale. La razionalità individualistica sorse come un atteggiamento critico e di opposizione, che ricavava la propria libertà d'azione dall'illimitata libertà del pensiero e della coscienza, e misurava tutti i criteri e i rapporti sociali sull'interesse personale razionale dell'individuo. Si sviluppò poi nella razionalità della concorrenza, nella quale l'interesse del mercato si sostituì all'interesse razionale, e la realizzazione dell'individuo venne assorbita dall'efficienza. Sfociò infine nella sottomissione standardizzata all'apparato totale che essa stessa aveva creato. L'apparato costituisce l'incarnazione e il ricovero della razionalità tecnologica, la quale però esige ora che l'individualità venga meno. Razionale è colui che accetta ed esegue quanto gli viene assegnato, che affida il proprio destino all'impresa su larga scala e alle organizzazioni che amministrano l'apparato. È stato, questo, il risultato logico di un processo che misurava la prestazione individuale in termini di efficienza competitiva. I filosofi dell'individualismo ebbero sempre un sentore di un simile esito, e espressero la loro ansia in molte forme diverse: nel conformismo scettico di Hume, nell'interiorizzazione individualistica della libertà dell'individuo, nei frequenti attacchi dei trascendentalisti contro il dominio del denaro e del potere. Le forze sociali erano però più potenti delle proteste della filosofia, e la giustificazione filosofica dell'individualismo assunse una maggiore sfumatura di rassegnazione. Verso la fine del XIX secolo, l'idea di individuo divenne sempre più ambigua, combinando l'accentuazione della libera prestazione sociale e dell'efficienza competitiva con la 45
celebrazione dell'umiltà, del privato e dell'autolimitazione. I diritti e le libertà dell'individuo nella società furono interpretati come i diritti e le libertà dell'esistenza privata e ritirata dalla società. Fedele al principio individualistico, William James affermava che nella "rivalità tra beni effettivamente organizzabili", la "prova del mondo è preferibile a una soluzione a tavolino", a patto che il vincitore consenta "al vinto di essere in qualche modo rappresentato"^''. Il suo dubbio, tuttavia, se la prova sia davvero leale, sembra motivarne l'odio nei confronti della "grandezza e imponenza in tutte le sue forme"^^, e l'affermazione che "il più umile e intimo è piìi vero - l'uomo più della casa, la casa più dello Stato o della Chiesa La contrapposizione di individuo e società, che originariamente doveva fornire la base per una riforma militante della società nell'interesse dell'individuo, giunge a disporre e giustificare il ritiro dell'individuo dalla società. L'"anima" libera e fiduciosa di sé, che alimentava originariamente la critica dell'individuo all'autorità esterna, diviene ora un rifugio dall'autorità esterna. Già Tocqueville aveva definito l'individualismo in termini di acquiescenza e pacifica rassegnazione: "L'individualismo è un sentimento ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi creato una piccola società per contro proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa"^^. L'autonomia dell'individuo venne ad essere considerata una questione privata piuttosto che pubblica, un elemento di ripiegamento piuttosto che di aggressione. Tutti questi fattori di rassegnazione si raccolgono nell'affermazione di Benjamin Constant, che "la nostra libertà dovrebbe consistere nel godimento pacifico dell'indipendenza privata"^®. Gli elementi di restrizione e rassegnazione, che divennero sempre più forti nella filosofia individualistica del XIX secolo, chiariscono la connessione tra individualismo e penuria. L'individualismo è la forma che la libertà assume in una società nella quale l'acquisizione e l'uso della ricchezza dipendono dalla fatica della competizione. L'individualità è U possesso distintivo dei "pionieri"; presuppone spazi aperti e sgombri, la libertà e il bisogno di "ritagliarsi uno spazio proprio". Quello dell'individuo è il "mondo del lavoro e della frontiera", come dice Walt Whitman, nel quale le risorse intellettuali e materiali disponibili devono essere conquistate e fatte proprie mediante una lotta incessante con l'uomo e la natura, e le forze del46
l'uomo si liberano nella distribuzione e nell'organizzazione della penuria. Nella fase dell'industria su larga scala, tuttavia, le condizioni di esistenza che promuovono l'individualità lasciano spazio a condizioni che la rendono superflua. Preparando il terreno per la conquista della penuria, il progresso tecnologico non solo livella l'individualità, ma tende anche a trascenderla, lì dove è in competizione con la penuria. La produzione di massa meccanizzata sta colmando gli spazi liberi nei quali l'individualità poteva affermarsi. La standardizzazione culturale esibisce, in modo alquanto paradossale, la potenziale abbondanza così come la miseria attuale. Essa tradisce forse quanto la creatività e l'originalità individuali siano state rese non necessarie. Col tramonto dell'era del liberalismo, queste qualità sono venute scomparendo dal campo della produzione materiale, divenendo sempre piii proprietà esclusiva delle attività intellettuali piìi elevate. Ora sembrano estinguersi anche in questa sfera: la cultura di massa sta dissolvendo le forme tradizionali di arte, letteratura e filosofia, insieme con la "personalità" che si dispiegava nel produrle e nel consumarle. L'evidente impoverimento che caratterizza la dissoluzione di queste forme può dischiudere una nuova forma di arricchimento. Esse traevano il loro contenuto di verità dal fatto di rappresentatepotenzialità dell'uomo e della natura escluse o distorte nella realtà. Queste potenzialità erano così distanti dall'attuarsi nella coscienza sociale, da dover ricercare un'unicità di espressione. Oggi, però, Vhumanitas, la saggezza, la bellezza, la libertà e la felicità non possono pili essere rappresentate come il regno della "personalità armoniosa", né come il cielo remoto dell'arte o come un sistema metafisico. L'"ideale" è divenuto così concreto e universale da afferrare la vita di ogni essere umano, e l'intero genere umano è risucchiato nella lotta per la sua realizzazione. Dinnanzi al terrore che ora minaccia il mondo, l'ideale si raccoglie in un'unica, comune direzione. Posto di fronte alla barbarie del fascismo, ognuno sa cosa significhi la libertà, ed è consapevole dell'irrazionalità della razionalità prevalente. La moderna società di massa quantifica le caratteristiche del lavoro individuale e standardizza gli elementi individualistici delle pratiche della cultura materiale. Questo processo può portare alla ribalta le tendenze che fanno dell'individualità una forma storica dell'esistenza umana destinata ad essere superata dall'ulteriore processo sociale. Il che non significa che la società debba entrare in una
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fase di "collettivismo". È possibile che i tratti collettivistici che caratterizzano lo sviluppo odierno appartengano ancora alla fase dell'individualismo. Le masse e la cultura di massa sono manifestazioni di penuria e frustrazione, e l'affermazione autoritaria dell'interesse comune non è altro che un'ulteriore forma di dominio di interessi particolari sul tutto. La falsità del collettivismo consiste nell'attribuire all'intero (la società) le proprietà tradizionali dell'individuo. Il collettivismo abolisce il libero perseguimento degli interessi competitivi dell'individuo, ma conserva l'idea dell'interesse comune come entità separata. Sul piano storico, tuttavia, il secondo è solo la controparte del primo. Finché gli interessi degli individui rimangono reciprocamente antagonistici e in competizione per una quota di ricchezza sociale, gli uomini esperiscono la loro società come l'incarnazione oggettiva della collettività. A individui simili la società appare come un'entità oggettiva, fatta di innumerevoli cose, istituzioni e organismi: stabilimenti e magazzini, attività economiche, polizia e legge, governo, scuole e chiese, prigioni e ospedali, teatri e organizzazioni varie, ecc. Società è quasi tutto ciò che l'individuo non è, ciò che ne determina le abitudini, i pensieri, i modelli di comportamento, che incide su di lui dall'"esterno". Di conseguenza, la società viene vista soprattutto come un potere di restrizione e controllo, che fornisce l'infrastruttura che integra le mete, le facoltà e le aspirazioni degli uomini. È questo potere che il collettivismo riproduce nel suo modello di società, perpetuando così il dominio delle cose e dell'uomo sull'uomo. In sé, il processo tecnologico non giustifica affatto un tale collettivismo. La tecnica ostacola lo sviluppo dell'individuo solo in quanto è legata a un apparato sociale che perpetua la penuria, e questo stesso apparato ha liberato le forze in grado di distruggere la specifica forma storica nella quale è impiegata la tecnica. Per questa ragione, ogni programma a carattere anti-tecnologico, tutta la propaganda per una rivoluzione anti-industriale^'' servono solo a coloro che considerano i bisogni umani come un sottoprodotto dell'utilizzo della tecnica. I nemici della tecnica uniscono prontamente le loro forze a una tecnocrazia terroristica''°. La filosofia della vita semplice, la lotta contro le grandi città e la loro cultura serve spesso a insegnare agli uomini la sfiducia negli strumenti potenziali in grado di liberarli. Abbiamo sottolineato come la tecnica possa promuovere una democratizzazione delle funzioni, tale da favorire uno sviluppo uma48
no completo, in tutti i settori del lavoro e dell'amministrazione. Inoltre, la meccanizzazione e la standardizzazione potranno contribuire un giorno a spostare il baricentro dalle necessità della produzione materiale al campo della libera realizzazione umana. Quanto meno si richiede all'individualità di affermarsi in prestazioni sociali standardizzate, tanto più essa potrebbe raccogliersi su una libera base "naturale". Lungi dal produrre un collettivismo, tali tendenze possono condurre a forme nuove di individualizzazione. La macchina individualizza gli uomini seguendo le linee di un'individualità fisiologica: assegna il lavoro alle dita, alla mano, al braccio, al piede, e classifica e impegna gli uomini in base all'abilità di questi organi''^ I meccanismi esterni che governano la standardizzazione si incontrano qui con una individualità "naturale"; mettono a nudo così la base sulla quale potrebbe svilupparsi una individualizzazione sinora repressa. Su questa base, l'uomo è individuo in virtù dell'unicità del suo corpo e della sua posizione nel continuum spazio-temporale. E individuo nella misura in cui l'unicità naturale ne plasma i pensieri, gli istinti, le emozioni, le passioni e i desideri. Tale è il principium individuationis "naturale". Nel sistema della penuria, gli uomini svilupparono i loro sensi e organi principalmente quali strumenti di lavoro e di organizzazione competitiva: abilità, gusto, competenza, tatto, raffinatezza e resistenza erano qualità modellate e perpetuate dalla dura lotta per la vita, il successo economico e il potere. Di conseguenza, i pensieri dell'uomo, gli appetiti e le modalità del loro appagamento non erano "suoi", esibivano i tratti oppressivi e repressivi che questa lotta gli imponeva. I suoi sensi, organi e appetiti divennero acquisitivi, escludenti e antagonistici. Il processo tecnologico ha ridotto la varietà delle qualità individuali sino a questa base naturale di individualizzazione, ma questa stessa base potrebbe divenire il fondamento di una nuova forma dello sviluppo umano. La filosofia dell'individualismo stabilì una connessione intrinseca tra individualità e proprietà''^. Secondo questa filosofia, l'uomo non poteva sviluppare il sé senza conquistare e coltivare uno spazio proprio, da modellare esclusivamente con la sua libera volontà e con la sua ragione. Lo spazio così conquistato e coltivato era divenuto parte integrante della sua "natura". In questo ambito, l'uomo trasformava gli oggetti dalla condizione in cui se li trovava d'avanti, per farne la manifestazione tangibile del proprio lavoro e l'interesse individuali. Essi erano una sua proprietà in quanto fusi con l'essenza del49
la sua personalità. Tale costruzione non corrispondeva ai fatti, e in un'era di produzione meccanizzata di merci ha perso di significato, ma recava in sé la verità che lo sviluppo dell'individuo, lungi dal costituire solo un valore interiore, esige una sfera esterna di manifestazione, e un riferimento autonomo a uomini e cose. Il processo di produzione ha sciolto da tempo il nesso tra lavoro individuale e proprietà, e tende ora a sciogliere quello tra la forma tradizionale di proprietà e il controllo sociale; l'inasprimento di tale controllo contrasta però una tendenza in grado di fornire alla teoria individualistica un nuovo contenuto. Il progresso tecnologico renderebbe possibile ridurre il tempo e l'energia spesi nella produzione delle necessità della vita, e una graduale riduzione della penuria e l'abolizione delle occupazioni competitive consentirebbe di sviluppare il sé a partire dalle sue radici naturali. Quanto meno tempo ed energia l'uomo deve investire per conservare la vita propria e della società, tanto maggiore è la possibilità che egli possa "individualizzare" la sfera della propria realizzazione in quanto uomo. Al di là del regno della necessità potrebbero dispiegarsi le differenze essenziali tra gli uomini: ognuno potrebbe pensare e agire da sé, parlare il proprio linguaggio, avvertire le proprie emozioni e seguire le proprie passioni. Non più incatenato all'efficienza competitiva, il sé potrebbe crescere in un regno di soddisfazione. L'uomo potrebbe riconoscersi nelle proprie passioni. Gli oggetti dei suoi desideri risulterebbero tanto meno sostituibili, una volta che fossero conquistati e modellati dal suo libero sé. Essi gli "apparterrebbero" come mai gli sono appartenuti prima, e una simile "proprietà" non sarebbe offensiva, poiché non richiederebbe di essere difesa contro una società ostile. Un'utopia siffatta non costituirebbe uno stato di perenne felicità. L'individualità "naturale" dell'uomo è anche la fonte del suo dolore naturale. Divenuti compiutamente umani, liberi da ogni criterio estraneo, i rapporti tra gli uomini saranno permeati dalla malinconia del loro contenuto singolare. Essi sono transeunti e insostituibili, e il loro carattere transeunte risulterà accentuato, nel momento in cui la preoccupazione per l'essere umano non sarà più mescolata con la paura per la sua esistenza materiale e offuscata dalla minaccia della miseria, della fame e dell'ostracismo sociale. È possibile, tuttavia, che i conflitti sorti dall'individualità naturale degli uomini non rechino i tratti violenti e aggressivi così spesso attribuiti allo "stato di natura". Tratti simili sono il marchio della
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coercizione e della privazione. "L'appetito non è mai eccessivo, furioso, a meno che non sia stato lasciato del tutto inappagato. La fame furibonda che vediamo così spesso esibirsi in tutte le varie forme criminali è segno solo dell'orribile deprivazione cui la cui la società la sottopone. Non è la condizione normale dell'appetito, ma morbosa, che nasce solo dalla innaturale compressione, imposta dalle esigenze di una società immatura. Tutti gli appetiti e le passioni umane sono buoni e belli, destinati ad essere pienamente soddisfatti [...] Si rimuova, allora, ogni persistente asservimento dell'umanità, si rimuovano quelle restrizioni artificiose che fanno sì che l'appetito e la passione siano costantemente in cerca di una via di fuga, come il vapore da una caldaia sovraccarica, e la loro forza da distruttiva diverrà conservativa""'^.
NOTE
' Cfr. L. M U M F O E D , Technics and Civiliiation, New York 1936, p. 364 [Tecnica e cultura. Il Saggiatore, Milano 1961, p. 375]: Il motivo alla base deir"ordinamento meccanico e molte delle sue invenzioni fondamentali [...] non era l'efficienza tecnica ma la vita economica o il potere sugli uomini. Poi, via via, le macchine hanno allargato questi obiettivi a hanno fornito gli strumenti materiali per la loro realizzazione". ^J. MILTON, Areopagitia, in Io., Works, 4, New York 1931, pp. 338-339 [Areopagitica. Discorso per la libertà della stampa, Laterza, Bari 1933, pp. 98-101, mod.]. ' Temporary National Committee, Monograph n. 22, Technology in Our Economy, Washington 1941, p. 195. Temporary National Economie Committee, Einai Report of the Executive Secretary, Washington 1914, p. 140. ' Il termine "apparato" denota le istituzioni, dispositivi e organizzazioni dell'industria nell'assetto sociale prevalente. ^ L . MUMFORD, o p . c i t . , p . 3 6 1 ss. [ 3 6 9 s s . ]
^ T. V E B L E N , The Instinct ofWorkmanship, New York 1922, p. 306 s. ® Ivi, p. 310. L'addestramento alla "realtà di fatto" si applica non solo all'operaio industriale, ma anche a coloro che sono occupati della direzione piìi che nell'assistenza della macchina.
n
Cfr. F. ZNANIECKI, The Social Role of the Man ofKnoivledge, New York 1940, p. 54s.; B. J. STERN, Society and Medicai Progress, Princeton 1941, cap. IX ; cfr. anche il contributo del medesimo autore in Technological Trends and National Polic y , U.S. National Resourcs Committee, Washington 1937. T . VEBLEN, o p . c i t . , p . 3 1 5 s .
" A.
THUEMAN,
The Folklore of Capitalism, New York 1941, p. 193 s.
T . VEBLEN, o p . cit.,
p. 314.
' ' A. WALTON, Fundaments of Industriai Psychology, New York 1941, p. 24. R. F . H O X I E , Scientific Management andLahor, New York 1 9 1 6 , p. 1 4 0 s. Ivi, p. 149. Cfr. M . HORKHEIMER, H . MARCUSE, Traditionelk imdkritische Theorie, in Zeitschriftftir Sozialforschung, VI (1937), pp. 245 ss [M. HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, in ID., Teoria critica, Einaudi, Torino 1974, Voi. II, pp. 135 ss.]. Vedi la discussione sulla legge Le Chapelier nell'Assemblea nazionale della rivoluzione francese [Il riferimento è aUa legge del 14 giugno 1791 promossa dal deputato Isaac Réné Guy Le Chapelier che aboliva le corporazioni e l'apprendistato, ma anche il cosiddetto «delitto di coalizione», che di fatto rendeva illegale le associazioni dei lavoratori e il diritto di sciopero]. Cfr. il discorso di Hitler al Club degli Industriali di Diisseldorf, del 27 gennaio 1932, in My New Order, New York 1941, pp. 93 ss. ' ' T . VEBLEN, The Engineers and The Price System, New York 1940, pp. 88 ss. {Gli ingegneri e il sistema dei prezzi, in ID., Opere, a cura di F. De Domenico, U T E T , Torino 1969, pp. 962-963]. E. LEDERER, State of the Masses, New York 1 9 4 0 , p. 3 2 s. [Lo Stato delle masse. La minaccia della società senza classi, a cura di M, Salvati, Bruno Mondadori, Milano 2 0 0 4 , p. 1 4 ] . ^^ A . W A L T O N , o p . cit.,
p. 27.
^^ W. E. HOCKING, The Lating Elements of Individualism, Ivi, p, 23. F. ZNANIECKI, o p . cit.,
New Haven, 1937, p. 5.
pp. 40, 55.
Ivi, p. 31. La descrizione di Znaniecki si riferisce a una condizione storica nella quale "non può sorgere alcuna domanda di scienziati", ma sembra cogliere una tendenza fondamentale dello stato di cose prevalente. Cfr. M . HORKHEIMER, The End ofReason, in Studies in Philosophy and Social Science, IX, p. 380. ZNANIECKI, o p . cit.,
p. 25.
M. W E B E R , Wirtschaft und Gesellschaft, Tiibingen 1 9 2 2 , p. 6 6 6 {Economia e società, voi. 4, Sociologia politica. Ed. di Comunità, Milano 1981, p. 83]. ^^ Ivi, p. 669 [p. 88]. H. A . W A L L A C E , Technology, Corporations, and the General Welfare, Chapel HiU 1937, p. 56. Cfr. J . BURNHAM, The Managerial Revolution, New York 1 9 4 1 , pp. 7 8 ss. [La rivoluzione manageriale, Boringhieri, Torino 1992, pp. 71 ss.] Ivi, p. 83s. [p. 76 s.] ' ' R. A. BRADY, Policies of National Manufacturing Spitzenverbànde, in Politicai Science Quarterly, LVI, p. 537.
The Thought and Character of William James, ed. R. B. Perry, Boston 1935, II, p. 265. " Ivi, p.315. ^^ Ivi, p. 383. A. DE TOCQUEVILLE, Democracy in America, transl. H. Reeve, II, New York 1904, p. 584 [La democrazia in America, in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, UTET, Torino 1968, voi. 2, p. 589]. Cit. in E . M I M S , The Majority of the People, New York 1 9 4 1 , p. 1 5 2 . ' ' Cfr. ad esempio O . SPENGLER, Man and Technics, New York 1 9 3 2 , p. 9 6 s. [tit. or. Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, Miinchen, 1931; trad. it. L'uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, Guanda, Parma 1 9 9 2 ] . Nella Germania nazista l'ideologia del sangue e del suolo, e la celebrazione del contadino sono parte integrante della mobilitazione imperialistica dell'industria e dei lavoratori. Per un esemplificazione di quanto si sia ricorso a tale individualizzazione fisiologica, cfr. Changes in Machinery and Jobs Kequirements in Minnesota Manufacturing 1931-1936, Works Projects Administration, National Research Project, Report n. 1-6, Philadelphia, p. 19. C f r . M . HORKHEIMER, o p . c i t . , p . 3 7 7 . "" H . JAMES,
1852, p. 47 s.
Democracy
andits Issues, in Lectures andMiscellanies,
New York
Lezioni parigine del 1958 "
I Devo iniziare con delle scuse. Intendo discutere di alcune tendenze della società industriale avanzata, che illustrerò facendo riferimento alle condizioni e agli atteggiamenti diffusi nella civiltà contemporanea propria degli Stati Uniti. L'argomento vi risulterà di conseguenza in larga misura estraneo, al punto - temo - da apparire, rispetto alle vostre condizioni di vita, poco rilevante. L'Europa non ha ancora raggiunto il livello di industrializzazione e di "automazione" (materiale e intellettuale!) già conseguito dagli Stati Uniti, Insisto sul "non ancora", poiché credo che lo raggiungerà rapidamente. La grande industria meccanizzata è una forza realmente universale e "contagiosa", e sembra implicare un modo di pensiero e di comportamento altrettanto universale e "contagioso". Se le cose stanno così, la condizione attuale degli Stati Uniti anticiperebbe Vavvenire dell'Europa - e può riuscire utile riflettere sull'avvenire. Prendo le mosse da un noto aspetto della società industriale avanzata: il declino della libertà individuale e sociale. Con ciò intendo non l'assoggettamento terroristico ad opera delle diverse dittature contemporanee, ma piuttosto il declino democratico, non terroristico della libertà - la confortevole, comoda e ragionevole mancanza di libertà che sembra radicata nello stesso progresso tecnico. È la standardizzazione e coordinazione razionale che sembra costituire l'esigenza fondamentale della società tecnica. Il processo ha luogo principalmente in due forme: 1) con l'indebolimento dell'individuo * Ciclo di sei conferenze tenute da Marcuse a Parigi nell'a.a. 1958-1959 presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes. La seconda parte della seconda lezione è stata pubblicata con poche modifiche da Marcuse con il titolo De l'ontologie à la technologie. Les tendances de la sociétéindustrielle, in «Arguments», 4,18,1960, pp. 54-59. Originale in lingua francese, si pubblica per la prima volta nella sua versione integrale. Il dattiloscritto presenta diverse annotazioni manoscritte e alcuni passaggi poi cancellati dall'autore. Si riportano in nota quelli più significativi.
e dell'individualità, in relazione tanto alla sua funzione sociale (in quanto soggetto economico e soggetto politico) quanto a quella antisociale (dissoluzione dell'esistenza privata a causa della produzione e della comunicazione "di massa", in serie); 2) con l'integrazione, in larga misura "volontaria", dell'opposizione politica, delle forze "negative", all'interno del sistema costituito: la scomparsa della base materiale e pratica sulla quale potrebbe crescere l'opposizione radicale. .. Ne consegue il carattere astratto, vuoto, meramente "teorico" della critica e del rifiuto totale; l'assenza della "negazione determinata". Sembra che la società industriale nel suo stadio avanzato, e in forza della propria efficacia e razionalità, sopprima o annienti il movimento òéì'andare oltre, la trascendenza; le facoltà della trascendenza, della negazione si atrofizzano. Sottolineo che la tendenza all'integrazione totale appare come il risultato e la necessaria implicazione del progresso tecnico, come l'incarnazione della razionalità tecnologica. Niente è piìi razionale della meccanizzazione e della standardizzazione di lavori necessari alla società, ma penosi per l'individuo, della concentrazione delle imprese individuali in gruppi piìi incisivi, della regolazione della concorrenza tra soggetti economici di consistenza diseguale, dell'abolizione delle prerogative della sovranità che ostacolano l'organizzazione internazionale delle risorse. Il fatto che tale ordine tecnologico implichi una corrispondente coordinazione politica e intellettuale, costituisce uno sviluppo forse deprecabile, ma ugualmente promettente. Di certo, i diritti e le libertà che furono fattori tanto vitali all'esordio e nelle prime fasi della civiltà industriale perdono molto della loro ragion d'essere e del loro contenuto tradizionale. La libertà di pensiero, di parola, di coscienza erano - proprio come la libera impresa, di cui rappresentavano i corollari - idee essenzialmente critiche-, concepite per rovesciare una civiltà materiale e intellettuale obsoleta, e introdurre una società maggiormente produttiva e razionale. La realizzazione di queste libertà ha annullato il contenuto critico da cui essa derivava. Al momento della sua comparsa, l'idea della libertà individuale aveva una connotazione fortemente metafisica: poneva l'accento sull'uomo interiore, sulla sua libertà interiore o spirituale, dinnanzi a Dio e alla sua coscienza. Fissata la libertà dell'uomo come valore universale, la rivendicazione della validità universale esigeva una certa svalutazione della sfera materiale, un pregiudi56
zio antimaterialistico, spirituale. Libero doveva essere l'uomo intero, l'uomo in quanto uomo - in realtà però l'uomo non era affatto libero, e non poteva divenirlo senza distruggere la società libera che si era intenti a costruire. Di conseguenza, la libertà essenziale dell'uomo assumeva le sembianze della libertà spirituale: la sola accessibile a ogni uomo e in tutte le condizioni materiali. La libertà interiore, essenziale, dell'uomo si contrapponeva alla sua situazione esteriore, meno essenziale - e assumeva, a confronto con le soddisfazioni materiali, una maggiore importanza. Le condizioni reali della vita potevano così apparire facilmente come un ambito "indifferente", dal quale la libertà dell'uomo non poteva essere né ostacolata, né confutata. La libertà di pensiero poteva facilmente divenire libertà del solo pensiero, la libertà di coscienza, libertà della sola coscienza, la libertà di parola, libertà della sola espressione - una libertà accessibile persino in una situazione di asservimento reale. Alla luce di tutte le analisi sullo "spirito del capitalismo", il fatto che una tale interiorizzazione, una tale indifferenza alla soddisfazione materiale abbiano potuto fornire efficaci strumenti del progresso tecnico e intellettuale non costituisce più un paradosso. La "libertà interiore" rappresentava in verità una premessa dello sviluppo del soggetto economico e della democrazia moderna - nella misura in cui essa realizzava l'autonomia individuale, adattandola completamente alle esigenze delle istituzioni sociali costituite. Tuttavia, una volta raggiunto lo stadio in cui l'emancipazione dal bisogno - sostanza concreta della libertà - diviene una possibilità reale, le forme di libertà relative a un livello inferiore della produttività perdono il loro precedente contenuto. L'indipendenza del pensiero, l'autonomia individuale e il diritto dell'opposizione politica sono spogliate tanto del loro ruolo affermativo, quanto di quello critico, in una società che, in forza della propria organizzazione, sembra sempre più capace di soddisfare i bisogni degli individui. Poco importa che tale soddisfazione sia conseguita per mezzo di un sistema autoritario - il non conformismo appare socialmente inutile, tanto più se esso comporta inconvenienti economici e politici tangibili, e minaccia il buon funzionamento del sistema. Almeno per quanto concerne i bisogni necessari della vita, non sembra sussistere alcuna ragione per la quale la produzione meccanizzata e la standardizzazione dei prodotti e dei servizi debba essere disturbata e rallentata dalle "individualità". Se l'individuo non fosse più obbligato 57
ad agire e ad affermarsi come libero soggetto economico nella lotta per l'esistenza, libero di "guadagnarsi da vivere", la scomparsa di tale forma di libertà costituirebbe una delle grandi realizzazioni della civiltà. La stessa possibilità di una simile realizzazione (che costituisce, singolarmente, la promessa della società industriale) modifica la base sociale della libertà. I processi tecnologici che fanno progredire la meccanizzazione e la standardizzazione della produzione e dei servizi tendono a eliminare l'autonomia individuale dall'ampio campo nel quale in precedenza si dispiegava una gran parte delle sue forze. E qui che sono da ricercare le radici oggettive (non sono le sole!) della de-individualizzazione insita nella società industriale. Le si potrebbe considerare a ragione le radici del suo intrinseco totalitarismo. Il totalitarismo politico che caratterizza il periodo contemporaneo si fonda infatti sul procedimento meccanico, e il potere politico opera mediante il potere tecnico della macchina. Si tratta della "macchina" in senso letterale e non figurato: il potere politico non può conservarsi se non riesce a mobilitare, organizzare e sfruttare al massimo la produttività tecnica, scientifica e meccanica di cui dispone la civiltà industriale - e tale produttività tende ad abbracciare la società nel suo insieme, al di sopra e la di là di ogni interesse particolare, individuale o di gruppo. In ogni società che si fondi sull'organizzazione del processo meccanico, il fatto bruto che il potere fisico (solo fisico?) della macchina superi quello dell'individuo fa di quest'ultima il più efficace strumento politico. Ciò dischiude però la possibilità che la direzione politica si rovesci, dal momento che la potenza della macchina non è che la potenza, accumulata, dell'individuo sociale. Nella misura in cui è concepito in termini meccanici, e conformemente a tale concezione meccanizzato, il mondo del lavoro diviene l'arena potenziale di una nuova libertà. Vengo a delineare preliminarmente il concetto di una simile libertà. La civiltà industriale contemporanea mostra (e al tempo stesso occulta) di aver raggiunto la fase in cui la "società buona" non può pili definirsi adeguatamente nelle forme tradizionali della libertà economica, politica e intellettuale. Non che queste abbiano perso di significato: è invece che ne rivestono troppo per poter essere racchiuse nelle forme tradizionali, relative a una fase superata della società. Esigono nuovi modi di realizzazione, corrispondenti alle possibilità della civiltà industriale sviluppata, e questi non possono 58
essere indicati che in termini negativi, giacché la loro affermazione costituisce la negazione delle forme dominanti della libertà. Così, libertà economica sarebbe il non dipendere più, per i mezzi di sostentamento, dalle forze e dai rapporti economici, dalla lotta quotidiana per l'esistenza - non essere pili un libero soggetto economico. La libertà politica si identificherebbe con la liberazione degli individui da una politica sulla quale essi non esercitano alcun controllo reale - la scomparsa della politica in quanto settore e funzione separata all'interno della divisione del lavoro sociale. Al tempo stesso, la libertà intellettuale sarebbe la restaurazione del pensiero individuale, di seguito al suo assorbimento nella comunicazione e nell'indottrinamento di massa - l'abolizione deir"opinione pubblica" insieme con i suoi artefici^ Il fatto che tali affermazioni paiano poco realistiche, è il segno non del loro carattere utopico, ma del predominio delle forze che ne impediscono la realizzazione. Queste predeterminano i bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete della lotta per l'esistenza, e il cui appagamento dipende dall'amministrazione e dalla standardizzazione totalitarie. L'amministrazione e la standardizzazione dei bisogni non in sé in contrasto con la libertà. Al contrario, finché i bisogni non siano quelli propri di una libera esistenza umana, finché i bisogni di una gran parte della popolazione non siano soddisfatti, l'eliminazione della varietà può ben costituire una condizione indispensabile della liberazione. La concentrazione di tutti gli sforzi della società nella produzione e distribuzione delle necessità della vita implica il sacrificio delle scelte non necessarie, l'abolizione dello spreco e dei bisogni repressivi. I bisogni dell'uomo non costituiscono un dato assoluto: si sviluppano e mutano in base ai bisogni della società costituita. Persino quelli più materiali sono bisogni storici-, al di là del livello animale, il loro appagamento, e il fatto stesso che siano avvertiti come tali, sono un prodotto delle istituzioni e dei rapporti dominanti. Essi sono un dato politico. Di conseguenza, li si può, li si deve sottoporre a criteri di giudizio politici: si deve porre la questione se la soddisfazione dei bisogni sia al servizio dello sviluppo dell'individuo umano, o piuttosto dello sviluppo della società, in quanto potenza che sussiste al di sopra dei liberi individui. L'individuo ha dunque dei "falsi" bisogni, che servono a perpetuare e a rafforzare il dominio dell'uomo sull'uomo; la liberazione dell'uomo sembra presupporre una ridefinizione dei bisogni - ad opera degli stessi individui. 59
La società industriale costituita genera un immenso bisogno sociale di spreco; genera forme illusorie di libertà e di appagamento dell'individualità, che si manifestano in una libertà di scelta assurda e ingannevole - assurda e ingannevole poiché serve a perpetuare e a celare una profonda schiavitù: la sottomissione dell'uomo agli strumenti del suo lavoro. Si può fare della libertà un potente mezzo di dominio. Non è l'ampiezza delle scelte offerte all'individuo che misura la sua libertà reale, ma ciò che egli può scegliere, e che sceglie. Il criterio della libera scelta non è mai assoluto - ma non può neanche essere del tutto relativo. La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un'ampia varietà di beni e servizi non significa che si sia liberi, nel momento in cui tali beni e servizi alimentano il controllo sociale su un'esistenza di lavoro e di angoscia: se essi alimentano Valienazione. Nel nostro tempo, i controlli sociali sono essenzialmente tecnologici. Certo, la sottomissione degli individui alla divisione sociale del lavoro è sempre assicurata dalle forme più palesi di costrizione: l'amministrazione della giustizia, la polizia, le forze armate. Tuttavia, nel periodo contemporaneo, l'insieme dei controlli può apparire come l'incarnazione della Ragione stessa, e lo spreco e la distruzione concorrono a definire la razionalità, poiché è grazie ad essi che la società si conserva e si espande. Più efficace di un linguaggio realistico dell'educazione, della filosofia, o della sociologia, di tutto il positivismo e l'empirismo delle scienze, parla il linguaggio dei fatti. Questo insegna alla gente a dimenticare il possibile (un'esistenza realmente umana), e ad adattarsi allo stato di cose costituito. Il linguaggio dei fatti comprende l'insieme di una vita assai confortevole, o in ogni caso più confortevole di quanto non lo sia mai stata prima; è il progresso tecnico, l'aumento della produttività. L'anno prossimo porterà forse una nuova automobile, la lavatrice, un nuovo apparecchio televisivo. Perché, allora, sognare possibilità essenzialmente differenti (come l'abolizione del lavoro, una pace vera, ecc.)? Perché riflettere, al prezzo della vita nello stato di cose costituito - tanto più che pare siano comunque altri a pagarlo, il prezzo? Perché prendere sul serio le idee astratte e romantiche di un socialismo integrale? Perché impegnarsi seriamente a trascendere lo stato di cose esistente? E come dimostrare che tali idee, che la trascendenza designa per la prima volta possibilità reali? Gli stessi fatti si rivoltano contro una 60
simile dimostrazione; essi vi sbarrano d'un colpo l'accesso, impediscono la percezione delle loro proprie possibilità. Non è quasi il caso dunque di sottolineare come nelle aree più avanzate di una simile civiltà le forme di controllo sociale siano state accettate e "interiorizzate" a tal punto che l'opposizione risulta colpita alle radici, e il rifiuto di "stare al gioco", di "marciare" come gli altri appare irrazionale, nevrotico, impotente, È questo il terribile fenomeno di cui intendo discutere con voi: l'indebolimento - o addirittura la scomparsa - delle forze storiche (sociali e individuali, materiali e intellettuali) che sembravano capaci di trascendere lo status quo^. Si è parlato, nell'impero totale della razionalità tecnologica, della ''fine dell'ideologia "3 Questa non è affatto, però, la fine dell'ideologia: l'ideologia, all'opposto, continua ad affermarsi, in una forma nuova. È qualcosa di piiì: la fine della tradizione principale della civiltà occidentale, e l'evento di un nuovo modo di pensiero e di comportamento - il pensiero e il comportamento a una dimensione. Intendo con ciò un modo di pensare e di agire secondo il quale le idee, le aspirazioni e i valori che, per il loro contenuto, trascendono lo stato di cose costituito, sono respinti, oppure ridotti in termini di operazioni interne al quadro dello stato di cose costituito. Le idee trascendenti sono assorbite nell'unica dimensione razionale dei fatti. Tale tendenza ha trovato la sua espressione metodologica nella teoria operazionismo. Cito da La logica della fisica moderna, di P. W. Bridgman: "Adottare il punto di vista operativo implica molto più che una semplice restrizione del senso in cui noi intendiamo il termine 'concetto': implica un cambiamento decisivo in tutto il nostro modo di pensare, in quanto non ci permetteremo più di usare, come strumenti, concetti dei quali non possiamo renderci adeguatamente conto in termini di operazioni'"*. Bridgman va a illustrare il punto di vista operativo nell'analisi del concetto di lunghezza: "Evidentemente sappiamo che cosa intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la lunghezza di qualunque oggetto, e al fisico non occorre niente di più. Per trovare la lunghezza di un oggetto, dobbiamo compiere certe operazioni fisiche. Il concetto di lunghezza risulta pertanto fissato quando sono fissate le operazioni mediante cui la lunghezza si misura-, vale a dire, il concetto di lunghezza implica né più né meno che il gruppo di operazioni con cui la lunghezza si determina. In generale, per concetto non intendiamo altro che un gruppo di operazioni; il concetto è sinonimo del corrispondente gruppo di operazioni'^. 61
Ciò veniva pubblicato nel 1928. Da allora, la dottrina dell'operazionismo è stata sovente affinata e modificata, ma è sopravvissuta a tutte le critiche, e si è estesa dalle scienze fisiche alla filosofìa, alla psicologia, alla sociologia. Di più: come Bridgman aveva previsto, è divenuta un modo generale di pensare, e ha promosso una riforma di "tutti i nostri rapporti sociali", a tutti i livelli della vita umana. In quanto metodo di costruzione dei concetti, l'operazionismo implica che risultino privi di senso tutti i problemi che non sia possibile fissare nelle operazioni corrispondenti. Molti dei problemi filosofici e delle noie sociali sono stati così "eliminati", e la messa a nudo delle questioni prive di senso costituisce una delle preoccupazioni principali della filosofia contemporanea. Il radicale attacco dell'operazionismo minaccia di distruggere i più importanti pilastri dell'ideologia, il suo contenuto trascendentale e "utopico", che, sebbene in una forma ideologica, trascende e smentisce lo stato di cose costituito. Al di fuori del campo della teoria, le manifestazioni dell'operazionismo, in quanto modo del pensiero e del comportamento nella vita quotidiana, sono più estese e più serie. Qui l'atteggiamento predominante è un conformismo razionale; si accetta l'insieme dei dati come incarnazione obiettiva della Ragione. Quello che nell'ambito della teoria scientifica e nella logica appare come un metodo eminentemente critico, si rivela nella pratica, nella vita degli uomini, sia privata che pubblica, un atteggiamento totalmente conformistico. Qui la trascendenza e la negazione dello status quo pare irragionevole, così come insensata. La lotta, sul piano scientifico, contro la metafisica, la filosofia speculativa, contro ogni teoria trascendentale, si unisce così, nella pratica, alla difesa dello status quo. Ecco la differenza essenziale tra la costellazione dell'empirismo e del positivismo nella filosofia dei Lumi, e quella dell'empirismo e del positivismo contemporanei!''. Il positivismo del XVIII secolo lottava contro una metafisica che era parte essenziale del sistema sociale costituito, e la combatteva con le armi di un empirismo storico e politico: la critica si articolava nei termini di operazioni teoriche e pratiche non ancora stabilite, ma appartenenti alla nuova società che si era intenti a realizzare. Al contrario, il positivismo contemporaneo combatte con le armi dei dati, e combatte non solo le idee regressive, ma anche quelle progressive, che si rimandano alla possibilità storica di una migliore esistenza umana. Se non si è ancora in grado di determinare le operazioni specifiche mediante le quali possano 62
realizzarsi, queste idee non risultano però assolutamente confutate, giacché l'impossibilità di una tale determinazione potrebbe certo costituire un dato politico che assume le sembianze di un dato filosofico. Esempi: la pace eterna, una società senza miseria... è il successo come carattere ontologico della verità. La filosofìa scientifica dell'operazionismo si carica dell'operazionismo come pratica sociale e lo porta ad espressione. L'operazionismo pratico e quello teorico trovano la loro base comune nella realtà tecnica e nella razionalità tecnologica della società industriale sviluppata, la razionalità della crescita della produttività e della soddisfazione. È grazie a tale razionalità che l'ideologia si indebolisce: la giustificazione di ciò che è sembra non aver alcun bisogno di impiegare idee "non operative". La critica ideologica dei dati sembra dunque non disporre di alcuna base che possa conferirle validità. Credo però che sarebbe un pericoloso errore parlare di "fine dell'ideologia": l'ideologia non ci ha abbandonato, le sue manifestazioni sono però cambiate. Uno dei miei amici ha formulato la questione così: l'ideologia è oggi insita nella stessa produzione. La commistione intenzionale dei termini impiegati in questa formulazione ci aiuterà forse a comprendere. L'affermazione riassume in forma provocatoria il carattere politico della razionalità tecnologica dominante. I beni e i servizi prodotti "vendono" e impongono il sistema sociale come un tutto. I mezzi di comunicazione e di trasporto, l'alimentazione e gli alloggi di massa, i vestiti, la quantità irresistibile di intrattenimento e di informazione, determinano, nei consumatori, specifici atteggiamenti e abitudini, reazioni intellettuali e emotive, che legano gradevolmente gli stessi consumatori ai produttori, e per questo tramite all'insieme della società. I prodotti indottrinano, manipolano. E nel momento in cui tali prodotti salutari divengono accessibili a un numero crescente di individui di ogni classe sociale, l'indottrinamento che li accompagna perde il suo carattere propagandistico, per divenire una forma di vita, migliore di quelle precedenti^. Si tratta di una buona forma di vita, che come tale si oppone al mutamento qualitativo, e si oppone ugualmente a che il progresso tecnico si spinga sino al punto in cui l'automazione rovesci il rapporto tradizionale tra il tempo libero e il tempo del lavoro, dischiudendo così una forma di esistenza differente da tutte quelle che l'hanno preceduta®. Non è necessario insistere su come nelle aree piii avanzate del-
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la società industriale tale tendenza realmente razionale sia ostacolata. Quella mostra pertanto due tratti: una tendenza al compimento della razionalità tecnologica, e sforzi sempre pili intensi volti a contenere e trattenerla nella rete delle istituzioni costituite. Qui è la contraddizione interna di questa civiltà: l'elemento irrazionale nella sua razionalità. Ma anche il segno dei suoi successi e della sua logica interna. La società che aveva creato la tecnologia e la scienza era organizzata in vista del più efficace dominio dell'uomo e della natura, dell'uso più profittevole delle sue risorse. Essa diviene irrazionale nel momento in cui il successo dei suoi sforzi dischiude una nuova dimensione della realtà umana. L'organizzazione in vista della pace è differente dall'organizzazione in vista della guerra; le istituzioni che hanno servito adeguatamente la lotta per l'esistenza non possono ugualmente servire alla sua pacificazione. La vita come fine è qualitativamente differente dalla vita come mezzo. La forma nuova di esistenza non può mai concepirsi come un semplice sottoprodotto di mutamenti economici e politici, come l'effetto più o meno spontaneo di nuove istituzioni. Se il concetto di "negazione determinata" ha una senso, il mutamento deve essere "precondizionato" dai suoi antecedenti - la trasformazione deve emergere, come un catalizzatore, àò^)^interno del vecchio ordine. Le forze che tendono al "salto" storico sono le stesse che lo faranno. Occorre che esse siano qui, dinnanzi al salto. Al loro emergere si oppone tuttavia la stessa razionalità di quest'ordine, l'idea e la realtà della Ragione che vi si incarnano. Questa idea di Ragione è incentrata su una specifica concezione del metodo e della verità scientifica, che pregiudica sia la pratica sia la teoria, in quanto determina a priori ciò che si può denominare "razionale" e "oggettivo". Non intendo riesaminarla; vorrei invece illustrarne alcune implicazioni più o meno trascurate. Sarebbe una grossolana semplificazione cogliere negli elementi repressivi e regressivi unicamente la conseguenza di uno specifico uso del metodo scientifico, di una specifica applicazione dell'idea di Ragione. In un certo senso ciò è esatto - si è costituita, però, tra l'idea e la sua realizzazione, un'armonia prestabilita, un'affinità. Le conferenze che seguono avranno il compito di esplicitare tale relazione. Nessuno si aspetterà, spero, che io lanci una requisitoria romantica contro il metodo e la tecnologia scientifica. All'opposto, individuo nella sospensione e nella restrizione di tale razionalità una delle principali 64
fonti dei nostri problemi. Su un punto desidero però porre l'accento: l'idea moderna della ragione è una idea tra le altre, un evento storico che possiede i suoi limiti storici, e questi sono divenuti manifesti. La loro comparsa attesta non il fallimento, ma la realizzazione e la verità di questa idea. L'unione della filosofia operativa, del metodo scientifico, e della società amministrata scaturisce da una specifica esperienza del mondo, da un modo specifico di incontrare, affrontare e afferrare la realtà - da uno specifico sistema di valori. Questo trova il suo momento iniziale nell'astrazione dalle "qualità secondarie" in quanto esistenti "solo nel corpo senziente" (cito Galilei)^. Oggettivamente reali rimanevano le "qualità primarie", quantificabili, calcolabili, misurabili. Ecco però il problema: misurabili, calcolabili per chi e per cosai La questione non può rimanere insoluta. Pressoché espulsi dal metodo, la soggettività e lo scopo del calcolo sono ricomparsi nelle realizzazioni del metodo stesso - nel mondo del lavoro e del dominio industriali. La loro comparsa era esterna al metodo scientifico, o era questo ad esigerla? La separazione scientifica dei fatti dai valori era reale, o i fatti scientifici erano essi stessi valori? Per rispondere alla domanda opererò un breve confronto tra la razionalità moderna e la concezione preindustriale. Quest'ultima sarà ricavata dai concetti greci classici, che hanno modellato l'idea della Ragione sino all'esordio della scienza moderna. Nella concezione classica, la Ragione è innanzitutto la facoltà di distinguere il vero dal falso, e "il vero" è primieramente una proprietà dell'Essere, della realtà - e non di enunciati e giudizi. È solo e proprio in quanto costituisce una proprietà dell'essere, che la verità può appartenere agli enunciati, all'ambito della parola e della logica. La verità è ciò che è, ciò che è realmente reale - in opposizione a ciò che sembra essere reale (a tutto ciò che ha la parvenza della realtà, al mondo dell'esperienza immediata e ordinaria). Nella misura in cui è veramente reale, la verità è "impegnativa": essa impegna l'esistenza dell'uomo, è lo scopo e il fine della vita, è "valore". Ciò che è veramente reale è "buono" - è l'unità dell'Idea platonica e del Bene; del nous aristotelico e di Dio. La verità è ciò che le cose sono realmente, e il modo in cui lo sono; e nel momento in cui le vede così come sono realmente, l'uomo è "nel vero", e capace di formularne enunciati veri. Questa concezione riflette un'esperienza del mondo come una realtà in sé antagonistica - una realtà nella quale si hanno necessa-
riamente modi di esistenza veri e altri non veri, e di conseguenza modi di conoscenza veri e non veri. Sono le due possibilità all'interno della medesima struttura della realtà dell'uomo e del suo mondo. Nella misura in cui guida lo sviluppo delle categorie filosofiche, l'esperienza di una realtà antagonistica constata una lacerazione ontologica. Nel suo mondo, l'essere è afflitto da una negazione, da una mancanza. È "essere in movimento": movimento in atto, o in potenza; generazione che è ugualmente corruzione. Come tale, l'essere ha in sé la propria negazione, il non essere^®. Esso, di conseguenza, non può essere in modo vero, non può essere la verità. La ricerca filosofica della realtà vera, a partire dal mondo empirico del movimento, tende pertanto alla costruzione di un modo di essere che non è soggetto al mutamento, che non subisce la dolorosa differenza del potenziale e del reale, e che è compiuto e integro in se stesso. Secondo Aristotele, la materia "aspira" a questa forma "vera", che è, come tale, la causa finale, la forma della libertà e il fine dell'essere. Un simile fine rimane irraggiungibile per ogni essere, salvo che per quello divino. In questa concezione, la divisione della realtà, "l'esplosione" della verità in modi di essere veri e non veri appare come una condizione ontologica invariabile. Si hanno modi di essere che non sono, non possono mai essere "veri" perché non possono "acquietarsi" nella realizzazione, nel godimento delle loro possibilità. Ogni esistenza soggetta alla generazione è quindi un'esistenza imperfetta, e in questo senso "falsa". E, in particolare, nella realtà dell'uomo, ogni esistenza consumata "guadagnandosi da vivere" è quindi una "falsa" esistenza. È evidente come una simile concezione rifletta la condizione tutt'altro che ontologica di una società fondata sull'assunto che la vera esistenza dell'uomo sia incompatibile con la fatica di procurarsi la sussistenza, i beni indispensabili alla vita, e che la verità e la sua conoscenza implichino un uomo liberato dall'intera dimensione di una tale attività. E questa, in verità, la condizione per eccellenza pre-industriale e anti-industriale. La vera linea di demarcazione tra questa e la razionalità tecnologica non passa però semplicemente per la differenza tra il lavoro degli schiavi e il lavoro libero^ \ L'enunciazione classica rimane sempre valida: l'esistenza dell'uomo continua a essere organizzata in modo tale che la vita quotidiana sia una vita di lavoro, e di conseguenza non libera. La divisione passa piuttosto per differenti esperienze del mondo (esse stesse 66
prodotto di mondi differenti!), che generano il nuovo comportamento, i nuovi atteggiamenti e valori della civiltà industriale. Chi è, nella concezione classica, il soggetto che fa esperienza della condizione ontologica del vero e del non vero? E, in ultima analisi, il soggetto della pura contemplazione (della teoria) - si potrebbe dire, forse, della "percezione", ma di una percezione completamente diversa da quella propria del moderno metodo scientifico. E, nella concezione classica, il filosofo. Il vero che egli conosce ed espone è però "virtualmente" accessibile al mondo intero: sotto la guida del filosofo, lo schiavo (nel Menane di Platone) è capace di afferrare la verità di un assioma geometrico, cioè la verità dell'essere al di là del movimento e della materia. Poiché però la verità costituisce una condizione tanto oggettiva quanto soggettiva, l'accesso ad essa rimane una mera potenzialità, finché non si accompagni ad una vita vissuta nella verità e con essa. E tale modo di esistenza è precluso allo schiavo, così come a ogni altro uomo che debba passare la propria vita procurandosi le cose necessarie, guadagnandosi da vivere. Conseguentemente, se gli uomini non dovessero più trascorrere la loro vita nella dimensione della necessità, l'esistenza vera dell'uomo - l'esistenza al lume della verità, cioè il godimento - sarebbe "universale" in senso stretto. Questo però non può accadere: l'acquisizione e l'uso delle cose indispensabili alla vita sono infatti necessari perché la verità (che è proprio la liberazione dal necessario) possa risplendere. Qui il limite storico della società greca arresta e devia la ricerca della verità: la divisione sociale del lavoro acquista la dignità di una condizione ontologica. Se la verità è uno stato dell'essere così come della conoscenza, allora, in quanto stato vero dell'essere, essa deve costituire ugualmente lo stato reale dell'esistenza. La realtà sociale non lo rende però accessibile, se non per approssimazione, e a un gruppo privilegiato. Ciò contraddice il carattere universale della verità, secondo il quale essa definisce, "prescrive" e ordina la migliore vita della natura e dell'uomo in quanto uomo, in relazione all'essenza dell'uomo. Questa contraddizione filosofica è insolubile, oppure non appare affatto come contraddizione, in quanto è propria della struttura della società dello schiavo e del servo, che la filosofia non ha trasceso. La concezione filosofica lascia dietro di sé la storia, smarrita e non dominata, e mette al sicuro la verità, elevandola al di sopra della realtà empirica. Qui la verità è preservata intatta: non come un dono o
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un accadimento del cielo, ma in quanto opera del pensiero - intatta in quanto il suo stesso concetto esprime l'intuizione che coloro che vivono per procurarsi i mezzi di sostentamento sono esclusi dalla verità, incapaci di un'esistenza veramente umana. Poi, nell'età moderna, si arrivò a scoprire che 1"'essere reale" è una struttura fisico-matematica, libera da ogni valore oggettivo e intrinseco, e, conseguentemente, che la verità è priva di ogni relazione a un valore, a una specifica forma di esistenza, definita dal Bene e dal Bello {kalokagathon). I valori, dunque, divengono manifestamente soggettivi. (L'oggettività dei valori potrebbe essere rivendicata mediante una sanzione trascendentale, la quale risulta però inaccessibile al metodo scientifico e di conseguenza non è "realmente" oggettiva!). Come tali, i valori possono possedere un'elevata dignità (morale, spirituale), ma non sono "reali", di modo che contano meno del reale bisogno di vivere, dell'economia - e contano tanto meno in quanto sono al di sopra della realtà dell'economia. La medesima derealizzazione colpisce tutte le idee che, per la loro stessa natura, non sono suscettibili di verifica mediante il metodo scientifico. Quale che sia il riguardo religioso o morale che si ha nei confronti di queste idee, esse patiscono la loro mancanza di realtà. La loro mancanza di realtà ne fa però precisamente fattori di stabilità e di coesione: esse non turbano indebitamente il modo di vita costituito; attenuano il conflitto e la contraddizione. Se il Bene e il Bello, se la pace, la libertà e il godimento non posseggono un carattere ontologico, non è logicamente possibile attribuire loro il carattere rigoroso della realtà - questi rimangono, nei termini della ragione scientifica (che determina ciò che è realtà oggettiva), materia di predilezione. Il carattere soggettivo di queste idee protegge così la realtà costituita, che sfrutta la ragione scientifica. La realtà costituita può essere cattiva, brutta, fatta di servitii e guerra, ma è sempre la realtà e ha, come tale, la prerogativa dell'oggettivo rispetto al soggettivo. La ridefinizione della verità in quanto carattere delle proposizioni (la cui relazione a una realtà oggettiva diviene sempre più problematica, se non un problema privo di senso) costituisce solo un aspetto della moderna ridefinizione della realtà. Nel corso di questo processo, "l'essere reale" è ripulito della dualità di vero e non vero, di giusto e di falso, di bene e di male - da quelle categorie che non si possono applicare alle strutture fisico-matematiche. Parlare di una 68
gerarchia oggettiva dei modi dell'essere deve risultare privo di senso. Tuttavia la contraddizione tra verità e esistenza persiste. Ritirata dalla "realtà reale", essa appare ormai come una contraddizione interna alla coscienza-, una coscienza divisa, vincolata ai valori e ai fatti - è una doppia verità e una doppia moralità, non solo sul piano filosofico, ma nella vita quotidiana. Quella che ha creato gli strumenti e le prestazioni della civiltà industriale è un'esistenza schizofrenica. Il metodo scientifico moderno è così poco responsabile della società industriale, come la filosofia classica lo è della società greca. Quando il metodo scientifico fu elaborato, le macchine, le loro possibilità di un uso profittevole, e gli uomini che se ne sarebbero occupati c'erano già. La ragione scientifica ha diretto però non solo il perfezionamento della macchina e l'apertura di sempre nuove dimensioni della meccanizzazione; ha governato ugualmente (in modo sempre pili evidente), l'esperienza esistenziale, la moralità e le aspirazioni degli uomini. Tale governo era indiretto, "mediato": il metodo scientifico non sembrava recare in sé niente che potesse fornire un orientamento di comportamento, nessuna idea circa il fine e la "meta" degli uomini. Sembrava essere, da ogni punto di vista, neutrale^^. II Distruggendo l'idea di un universo ordinato in relazione a un fine, secondo una struttura finalistica, il nuovo metodo scientifico confutò anche il sistema sociale gerarchico nel quale l'attività e le aspirazioni dell'individuo erano oggettivamente predeterminate dalle cause finali. La neutralità della nuova scienza faceva astrazione da una organizzazione della vita che negava la libertà alla stragrande maggioranza degli uomini. Essa, però, nella sua ricerca della struttura fisico-matematica dell'universo, faceva ugualmente astrazione dalla condizione dell'individuo concreto, del "corpo sensibile". La validità dell'astrazione fu pienamente confermata dal risultato: un sistema logico di proposizioni che guidava l'utilizzo e la trasformazione metodica della natura, per farne un universo controllato dalla potenza dell'uomo. Una volta che la realtà risulta ridotta (o riducibile) a strutture fisico-matematiche, la "verità" non si riferisce che al misurabile e al calcolabile, e alle proposizioni che esprimono tali condizioni. Una 69
simile realtà si muove secondo leggi proprie (anche se queste sono solo leggi "statistiche"). L'uomo può comprenderle, interferirvi e utilizzarle - ma esse non sono le leggi della sua esistenza individuale o sociale; non lo governano se non in quanto egli è puro materiale, materia fisico-biologica. L'uomo, altrimenti, è espulso dalla natura - meglio: quella accertata e riconosciuta dal metodo scientifico è una realtà libera dalla fatticità individuale e sociale^^. Potrebbe essere legittimo parlare di "fondamenti metafisici della scienza moderna": di recente, ad esempio, Koyré ha insistito con forza sugli aspetti ontologici e non empirici della scienza galileiana". La tradizione pitagorica o platonica, o persino quella aristotelica rimangono, almeno sino a Newton, abbastanza forti da conferire al metodo scientifico una "filosofia". Si può dire che la stessa nozione di legge fisica universale e unificante rechi in sé, al suo esordio, l'idea, peraltro ostracizzata, di finalità. Allora, però, la finalità si svuota sempre di più, diviene una finalità dell'ordine puro e semplice, della calcolabilità e della prevedibilità, che non ha in sé alcun telos, né alcuna struttura tendente verso un telos. L'ordine, la calcolabilità, la prevedibilità sono tali in rapporto al proprio movimento e nei suoi termini - e in rapporto all'uomo, nella misura in cui questi calcola e prevede il movimento del meccanismo che costituisce r"ordine" (il quale potrebbe essere un ordine solo statistico). La densità e l'opacità degli "oggetti" e deir"oggettività" sembra evaporare. Non vi è più la natura, o la realtà dell'uomo, in quanto cosmo sostanziale. Nel metodo scientifico pienamente sviluppato, il pensiero è pressoché purificato dagli oggetti che gli si oppongono. Questi rimangono unicamente "intermediari convenienti", "modelli", "invarianti", "postulati culturali obsoleti"^^. O, per citare ancora una volta una formulazione operativa: la materia della fisica non è più la misura delle "qualità oggettive del mondo esterno e materiale - queste sono soltanto il risultato delle operazioni compiute" La totalità degli oggetti del pensiero e della pratica è ora concepita, "progettata" come organizzazione-, al di là di ogni certezza sensibile, la sua verità è una questione di convenzione, di efficacia, di "coerenza interna", e l'esperienza fondamentale non è più l'esperienza concreta, non è più la pratica sociale nel suo insieme, ma la pratica dell'amministrazione, organizzata dalla tecnologia. Questo sviluppo riflette la trasformazione del mondo naturale in mondo tecnico. Quando si afferma che la tecnologia lo
ha rimpiazza-
to l'ontologia non si fa un mero gioco di parole. Il nuovo modo del pensiero cancella la tradizione ontologica. Hegel ha riassunto l'idea centrale di questa tradizione: in quanto sintesi dei contrari, il Logos, la Ragione, costituisce il denominatore comune del soggetto e dell'oggetto, e trova la sua realizzazione nella lotta teorica e pratica nella trasformazione del mondo oggettivo in un mondo libero e razionale: nell'opera della storia. Con questa idea, l'ontologia idealistica recava in sé la tensione tra il soggetto e l'oggetto, l'opposizione dell'uno all'altro. La realtà della Ragione ne costituiva lo sviluppo nei differenti modi dell'essere. Anche il più estremo sistema monistico conservava l'idea di una sostanza che si dispiega nel soggetto e nell'oggetto, cioè l'idea di un realtà doppia, duale, antagonistica. La trasformazione della realtà naturale in realtà tecnica mina tale dualismo alla base. Certo, la filosofia scientifica moderna muove dalla nozione cartesiana delle due sostanze, la res cogitans e la res extensa. Tuttavia, nella misura in cui la "materia" della quale è fatta è sempre pili compresa in formule matematiche (la cui applicazione a sua volta "rifà" la materia), la res extensa perde il suo carattere di sostanza. Diviene una struttura matematica in sé, mentre l'Ego, la res cogitans, si risolve sempre più nel soggetto dell'osservazione e del calcolo quantificante. Sorge, dunque, un nuovo monismo - questa volta un monismo senza sostanza. La tensione tra il soggetto e l'oggetto, il carattere dualistico e antagonistico della realtà tendono a sparire - e con essi la "bidimensionalità" dell'esistenza umana, la sua capacità di prefigurare un altro modo della realtà, m\ altra forma di esistenza. Non vi è che una sola realtà, che è, letteralmente, una realtà senza sostanza - o, piuttosto, la cui sostanza si è risolta nella forma tecnica che ne costituisce il contenuto, l'essenza. Ogni significato, ogni proposizione risulta valida all'interno del contesto del comportamento a una dimensione dell'uomo e delle cose - un contesto di operazioni effettive, teoriche e pratiche. All'esperienza ordinaria lo "snaturamento" della realtà è occultato dalla terribile forza con la quale il mondo tecnico oppone resistenza alla volontà e al pensiero dell'individuo. Nel suo dislocamento ad opera dell'uomo, e operante sull'uomo, il puro e semplice peso della materia non sembra essere mai stato così opprimente. Esso è, però, il peso dell'uomo stesso. E per opera dell'uomo che il mondo tecnico si è fissato in una "seconda natura", schlechte Unmittelbar71
keit, cattiva immediatezza - forse piti ostile e distruttiva della prima, la natura pre-tecnica. La natura tecnica non ha altra sostanza che il soggetto. Ma il soggetto che farà della realtà tecnica il mondo della propria libertà e della propria ragione non esiste che come potenzialità, solamente "in sé", non "per sé". Di conseguenza, la realtà tecnica è priva del suo Logos, o piuttosto è il suo Logos che appare privo di realtà, una forma logica senza sostanza. Il positivismo contemporaneo, la semantica, la logica simbolica, l'analisi linguistica definiscono ed epurano l'universo del discorso per i tecnici, gli specialisti e gli esperti che operano i calcoli, gli aggiustamenti e le combinazioni, privi della responsabilità di sapere per chi e per che cosa sono all'opera; essi si occupano di far andare avanti le cose, senza però conferire uno scopo al loro movimento. In sé, né la scienza né la tecnica implicano dei valori: sono "neutrali" rispetto a tutti i valori e gli scopi che vi si possa attribuire. Tale neutralità costituisce però un carattere positivo: la realtà è valore, ed assume valore precisamente in quanto è compresa come pura forma (o come pura materia: in questo contesto i due termini, altrimenti opposti, convergono), forma che si presta ad ogni fine. L'essere assume il carattere ontologico della strumentalità\ è suscettibile, per la sua stessa struttura, di ogni modificazione e di ogni uso. Tali nozioni sono realmente insite nella scienza? Non vi è un'eccessiva corrispondenza con l'esperienza e le condizioni della società nella quale il metodo scientifico si è sviluppato? La dimostrazione del legame tra la scienza matematica e operativa, da un lato, e l'ascesa del capitalismo, dall'altro, non esaurisce affatto la questione. Essa merita di essere riesaminata. Il legame sociale è noto. Nel mentre la scienza liberava se stessa e la natura dal riferimento a ogni fine "esterno", e costituiva l'oggettività come mezzo in sé, puro mezzo universale, una liberazione analoga si produceva nei rapporti sociali: l'uomo veniva liberato dalla dipendenza personale ed "esterna", ed entrava nel processo sociale in quanto atomo di una forza lavoro, astratta e universale, quantificabile. Nel corso di questo processo, il carattere concreto delle facoltà e dei bisogni individuali (le qualità secondarie!) è ridotto a un comune denominatore quantificabile - base oggettiva dello scambio, e del denaro come mezzo e medium universale. Il parallelismo tra i due sviluppi, quello sociale e quello scientifico, tradisce il principio comune: l'efficacia. Il metodo scientifico vi coglie il grado
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più elevato di verificazione. Non vi è, però, non potrebbe esservi un'efficacia fine a se stessaì Nel processo sociale, il fine (dell'efficacia) è la produzione profittevole di beni di consumo, e il valore di scambio è il mezzo universale quantificabile che integra nel processo il soggetto e l'oggetto. La scienza non aveva, apparentemente, tale fine. Qui sta la grande illusione: per la sua stessa costruzione concettuale, la scienza moderna tendeva verso un fine. Essa ha avuto inizio col fare astrazione dai fini che apparivano incompatibili, rispetto non alla "realtà", ma alla realtà industriale che veniva sviluppandosi, ed è giunta ai mezzi in sé, alla tecnicità', ha costruito un universo di strumenti intellettuali e fisici - un sistema veramente "ipotetico". Un simile sistema dipende, però, come tale, da un altro sistema: da un universo di fini. Quanto appare esterno, estraneo alla scienza, si rivela radicato nella struttura stessa del suo metodo e dei suoi concetti - della sua oggettività! E necessario respingere la concezione della neutralità della tecnica, secondo la quale la tecnica è al di là del bene e del male, è l'oggettività stessa, suscettibile di ogni forma di impiego sociale. Una macchina, uno strumento tecnico può certo essere considerato neutrale, pura materia. Essi - la macchina, lo strumento - non esistono però che all'interno di un insieme, di una totalità tecnologica, non esistono che come elementi di una "tecnicità". E la tecnicità è una "epoca del mondo", un modo di esistenza dell'uomo e della natura. Heidegger ha sottolineato che il "progetto" del mondo come "strumentalità" precede (e deve precedere) la tecnica in quanto insieme di strumenti^^. E necessario che l'uomo concepisca la realtà in termini di tecnicità, prima di poter agire su di essa in quanto tecnico. Tale conoscenza "trascendentale" ha però una base materiale, nei bisogni, e nell'incapacità, propria della società, di soddisfarli e svilupparli. Voglio insistere sul fatto che l'abolizione dell'angoscia, la pacificazione della vita, e il godimento sono parte essenziale degli stessi bisogni vitali. Dalla sua origine, il progetto tecnico reca in sé le esigenze proprie di tali bisogni: nella concezione dell'armonia del mondo, del Dio matematico (rappresentazioni estreme dell'eguaglianza universale attraverso ogni ineguaglianza!), delle leggi fisiche; esse sono insite nell'idea della stessa scienza moderna, che richiede il libero gioco delle facoltà intellettuali, in opposizione ai poteri repressivi. Alla luce di tale carattere esistenziale della tecnicità, si può parlare di una causa finale tecnologica - e di un suo rovescia-
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mento nel corso dello sviluppo sociale della tecnica. Ho posto la questione se la neutralità nei confronti di tutti i valori risponda veramente a una nozione scientifica, cioè a un'esigenza della stessa struttura della scienza moderna. Ora, io sostengo che la neutralità della tecnica (la quale non è che una manifestazione della neutralità della scienza) risponde a una concezione politica, e che la società industriale ha ampiamente sviluppato la tecnica secondo un senso contrario a quello originario. La tecnicità, infatti, in quanto progetto storico, possiede un senso interno, un senso proprio: essa progetta la strumentalità come mezzo per liberare l'uomo dal lavoro e dall'angoscia, per pacificare la lotta per l'esistenza ecco la causa finale della trasformazione metodica del mondo, propria della tecnicità. L'attuale sviluppo della tecnica in quanto strumento "puro" ne ha fatto astrazione ed essa - la causa finale - ha cessato di costituire lo scopo dello sviluppo tecnologico. Come conseguenza, la strumentalità pura, priva di finalità, è divenuta mezzo universale di dominio. La tecnicità esige certo il dominio: l'assoggettamento della natura in quanto forza ostile, violenta, distruttiva, e dell'uomo in quanto parte di tale natura; esige lo sfruttamento delle risorse naturali per la soddisfazione dei bisogni. E la società industriale ha certamente realizzato il dominio tecnologico. Nella misura in cui la società, però, ha fatto astrazione dalla causa finale tecnologica, la stessa tecnica ha perpetuato la miseria, la violenza e la distruzione. L'interdipendenza della produttività e della distruttività, che caratterizza la tecnicità in quanto dominio, tende a cancellare la differenza tra il "normale" impiego della tecnologia e quello "anomalo". La differenza tra la "tecnica" e la "scientificità" delle esperienze dei nazisti e l'impiego di tali esperienze a fini difensivi, è precaria. Un missile rimane un missile - sia che distrugga Londra o Mosca, e M. von Braun rimane M. von Braun, che lavori per la Casa Bruna o per la Casa Bianca^®. La neutralità della ragione tecnica si manifesta così nella forma della neutralità politica - e qui la neutralità risulta un po' sospetta, e forse falsa... Se la trasformazione della realtà in mondo tecnico non ha rovesciato il dominio dell'uomo sull'uomo, è perché la tecnicità, nella forma nella quale si è sviluppata, ha perpetuato una trasformazione ben pili profonda e ben pili antica - la trasformazione della vita in mezzo per vivere. Sino ai giorni nostri, il progresso della tecnica 74
rimane un progresso nel lavoro alienato, nella produttività repressiva. La tecnicità è divenuta il metodo più efficace e produttivo per sottomettere l'uomo agli strumenti del suo lavoro. Attraverso la tecnicità, la società assicura nuovamente la repressione primaria dell'uomo; il sacrificio del godimento al "principio di realtà". E necessario assicurare la repressione nel modo più efficace e produttivo, giacché essa è minacciata più che mai - dallo stesso progresso tecnico. Le realizzazioni della civiltà industriale sembrano infatti ridurre in misura crescente la necessità della repressione, la quale, di fronte alla possibilità reale dell'abolizione del lavoro, appare sempre più irrazionale. Voglio, a questo punto, porre l'accento sull'immensa rilevanza politica dell'opera di Freud, che offre una spiegazione della dialettica fatale del progresso. L'assoggettamento dell'uomo al lavoro si identifica con lo stesso procedere della civiltà. In esso, l'organismo umano si trasforma da strumento di soddisfazione in strumento di lavoro - strumento del differimento della soddisfazione, di rinuncia, e sacrificio del godimento. Le pulsioni primarie dell'uomo non desiderano altro che la gratificazione immediata, e l'acquietamento, la tranquillità della gratificazione. Si oppongono perciò alla necessità del lavoro, della fatica, condizione indispensabile di ogni soddisfazione, in un mondo in cui regna la scarsità, la penuria. Bisogna che la società costringa gli impulsi primari ad abbandonare la loro meta e a sottomettersi al "principio di realtà" - il principio della repressione. Su tale nuova base pulsionale, l'uomo diviene "produttivo", strumento di lavoro. E però una produttività che reca in sé sempre la sofferenza, la violenza e la distruzione - segni della violenza recata alla costituzione biologica dell'uomo. Il progresso della civiltà riposa su tale modificazione essenziale della "natura" umana. Ormai gli individui fanno della repressione il proprio progetto e la propria opera (Super-io, sentimento di colpa, ecc.). Le loro stesse pulsioni sono divenute repressive: sostengono e perpetuano nella base biologica e psichica dell'esistenza umana la repressione sociale e politica. Nella misura in cui però contrae le pulsioni affermative, erotiche, la riorganizzazione sociale delle pulsioni accresce la potenza del loro partner, delie pulsioni di distruzione e di morte. Trasformate in aggressività più o meno controllata e utile, le pulsioni distruttive divengono una forza immanente al progresso della civiltà. 75
D procedere della civiltà costituisce così un duplice processo dialettico, che opera nella sfera dell'economia politica così come in quella psichica e biologica, in modo tale che l'una sostenga e rafforzi l'altra. Ogni progresso, ogni aumento della produttività costituisce al tempo stesso una repressione progressiva e una distruzione produttiva. La divisione sociale del lavoro genera la dialettica fatale per la quale pressoché ogni avanzamento della Ragione reca in sé la propria irrazionalità, a ogni conquista della libertà si accompagna una nuova forma di schiavitù, a ogni produzione efficace una distruzione di eguale efficacia. Nella civiltà industriale avanzata, tale dialettica culmina in una realtà esplosiva. Nella misura in cui la società si fa padrona della natura e accresce le risorse materiali e intellettuali a disposizione dell'uomo, la duplice repressione risulta, in quanto condizione di progresso, meno necessaria. Le realizzazioni della tecnologia e la produttività del lavoro potrebbero ridurre in modo essenziale il differimento della gratificazione e la restrizione imposta alla soddisfazione dei bisogni; potrebbero creare un mondo veramente pacificato, nel quale la vita non sarebbe piti un mezzo per vivere, ma una vita in sé e per sé. Tuttavia, la repressione continua, e deve continuare, poiché senza di essa non si avrebbe il lavoro alienato e senza il lavoro alienato non vi sarebbe quella crescita della produttività repressiva che è divenuta la forza motrice della società. Spero che l'esposizione seguente possa contribuire a illustrare questa dialettica e gli sforzi volti a contenerla. Non mi resta che suggerire alcune conclusioni assai speculative. Ho sostenuto che le tendenze repressive della società industriale avanzata risultano dallo sviluppo della tecnicità come progetto politico - come progetto di dominio. Come tale, la tecnicità implica un duplice dominio: il dominio sulla natura, lo sfruttamento razionale delle risorse naturali; e il dominio sull'uomo, lo sfruttamento razionale della produttività del lavoro. Per la sua logica interna, il progetto tecnico troverebbe il suo compimento annullandosi, eliminando la necessità del dominio. La conquista della penuria e della miseria potrebbe condurre all'abolizione del lavoro, sottomettere la produttività alla ricettività, e porre fine alla lotta per l'esistenza quale contenuto dell'esistenza stessa. A un tale compimento della tecnicità si oppongono forze potenti: attraverso ogni progresso e miglioramento si perpetuano il dominio e la distruzione. Di più: sono il dominio e la distruzione che operano come veicoli del progresso e del miglioramento. Ho sottolineato 16
come in questo processo l'organizzazione sociale delle pulsioni giochi un ruolo fondamentale: l'uomo perpetua il proprio dominio. L'intera repressione sociale riposa su una repressione "biologica". Di conseguenza, la liberazione presuppone una rivoluzione delle pulsioni, un rovesciamento dei bisogni - un nuovo "principio di realtà". Una trasvalutazione totale, tale da coinvolgere l'esistenza della natura così come quella dell'uomo. L'uomo e la natura costituiscono sempre i termini di un rapporto dialettico - gli elementi di una totalità dialettica. Il dominio sociale li modella entrambi. Non vi è liberazione, pacificazione dell'esistenza umana senza la liberazione e la pacificazione della natura. Il potere può reprimere o liberare. Vi è un assoggettamento che libera la natura dalla sua miseria, che ne sopprime la violenza e la distruzione. La civiltà ha realizzato l'idea di un tale dominio della natura nei suoi giardini, parchi e "oasi protette" - al di fuori di tali aree circoscritte, ha trattato la natura nello stesso modo in cui ha trattato l'uomo, come strumento della produttività repressiva: "L'aggressione volta alla conquista ha il carattere di una violenza perpetrata sulla natura"^^. Si è soliti scambiare tale formulazione per una battuta, per una vecchia immagine romantica e utopica; in realtà essa esprime il rapporto essenziale tra la distruzione dell'uomo e la distruzione della natura. Oggi l'uomo rimane padrone e schiavo, soggetto e oggetto del dominio, sebbene Vesercizio del dominio sia trasferito alle macchine e diretto contro la natura: "la macchina è solo un mezzo; il fine rimane la conquista della natura, l'addomesticamento delle forze naturali per mezzo di un primo assoggettamento: la macchina è uno schiavo che serve a fare altri schiavi. Un'ispirazione analoga si può riscontrare nella ricerca della libertà dell'uomo. È però difficile che si divenga liberi trasferendo la schiavitù su altri esseri: uomini, animali, o macchine; regnare su un popolo di macchine che stanno riducendo in schiaviti! il mondo intero è ancora regnare, e questo presuppone l'accettazione di un modello di assoggettamento Voglio però terminare. Occorre mettere da parte tali speculazioni "utopiche" - la troppa miseria, tanto attuale e prossima, rende le immagini della trascendenza prive di senso. Si impone tuttavia una questione scomoda: può essere che la repressione di tali immagini trascendenti abbia perpetuato la miseria e limitato la lotta contro di essa; che le possibilità utopiche siano le più realistiche, e che la diffamazione dell'utopia costituisca un potente strumento di dominio.
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Ilpl Abbiamo fatto uso del concetto di "realtà tecnica" per designare non solo una parte o un aspetto dell'universo ideologico della civiltà industriale avanzata, ma la sua stessa struttura, e l'esperienza fondamentale degli uomini in questa civiltà. Le tendenze caratteristiche di tale realtà operano ugualmente nella politica. Non è per una semplice analogia che parliamo di un comportamento politico a una dimensione e della scomparsa degli elementi trascendenti nella politica. Vi è, nei paesi industriali avanzati, una nuova unità nazionale, sempre più marcata, una integrazione di opposti gruppi e interessi, un "sistema a due partiti" o una "politica hypartisan" di collaborazione, una collusione e una competizione del tutto differenti dalle politiche adottate durante la fase di ascesa della civiltà industriale (che si è protratta in alcuni paesi sino alla prima metà del 20° secolo). Visibilmente i vecchi conflitti esistenti in seno alla società risultano alterati e contenuti dall'incidenza del comunismo internazionale. Dinnanzi a una minaccia universale, proveniente dall'esterno della civiltà occidentale, la "lotta di classe" e le "contraddizioni interne al capitalismo" sembrano essere "sospese". Nel mobilitare le sue forze contro tale minaccia, la società occidentale dà prova di un'unità e una coesione ignote alle sue fasi precedenti. La mobilitazione sfocia in un'organizzazione nazionale e internazionale dell'economia (centralizzazione, regime statalista, il "piano") capace di controllare le crisi e di mantenere un livello assai elevato di occupazione e di stabilità. Si pone però la questione se l'integrazione politica sia solo la conseguenza della minaccia esterna, o se essa non riposi su una base profonda, 2SÌinterno della società industriale in quanto realtà tecnica (tecnicità). Per chiarirla, intendo riesaminare la teoria marxista del rapporto tra capitalismo e socialismo. Qui l'idea di socialismo prospetta un modo di esistenza che non è racchiuso nella realtà tecnica, ma si realizza al di là di essa. Quest'ultima, in quanto mondo del lavoro necessario, è oggetto di un uso, collettivo e metodico, volto a contrarla, a ridurre cioè l'energia e il tempo del lavoro necessario ma alienato. Si tratta di un mutamento qualitativo dell'esistenza, che, come tale, dipende dalle aspirazioni e dall'azione delle forze sociali "negative", radicalmente opposte al sistema costituito, all'OTterwo di esso. Ora, ho già sottolineato che lo sviluppo industriale sembra arrestare la comparsa di tali forze, nella misura in cui le integra nell'apparato di
una crescente produttività e soddisfazione dei bisogni. Sembra, di conseguenza, che all'interno di una tale società U mutamento qualitativo non possa prendere forma, e la possibilità del "salto storico", della negazione determinata, pare scaturire àdì^esterno. Nell'ambito del marxismo sovietico si parla della trasformazione della lotta di classe in lotta internazionale tra il mondo capitalistico e il mondo socialista. La formula pare legittima, se si definisce la lotta di classe come la lotta dei popoli diseredati contro i popoli privilegiati. Questa, tuttavia, non è più la concezione marxista, nella quale il proletariato costituisce essenzialmente la negazione del capitalismo iH^interno del capitalismo. Di contro, la concezione sovietica colloca un'ampia parte della classe operaia sul versante del capitalismo. Si tratta di un dislocamento fondamentale, che non allude semplicemente alla "corruzione dell'aristocrazia del lavoro", ma piuttosto alla trasformazione del capitalismo stesso e della sua classe operaia. Ora, la ridefinizione sovietica pone una questione-di grande rilevanza: quali sono i limiti reali che potrebbero definire un sistema sociale nello stadio industriale avanzato? La grande industria meccanizzata sembra assimilare nella preservazione del dominio e della società di classe gli strati sociali una volta opposti l'uno all'altro. Dovunque la grande industria costituisca la base dello sfruttamento, sembra svilupparsi un uguale sistema di dominio. In questo caso, la lotta internazionale tra capitalismo e socialismo apparirebbe come l'esplosione di un conflitto all'interno di un solo sistema (per quanto globale) di dominio. Tutto dipende dagli sviluppi della tendenza alla stabilizzazione: questa rimane una "stabilizzazione temporanea", o si tratta piuttosto di una trasformazione fondamentale - la comparsa, con la collaborazione della classe operaia, del Welfare State? Di certo, nei sindacati e nei partiti socialisti la tendenza alla collaborazione di classe è sempre stata forte. È sempre esistito un conflitto tra l'interesse "reale" della classe operaia e il suo interesse "immediato". Nella società industriale piià avanzata, tuttavia, tale distinzione sembra essere confutata dallo sviluppo di un comune interesse, che tende a unificare su una base materiale i vecchi conflitti: l'interesse a sostenere il sistema di produzione che appare capace, nella sua forma costituita, di accrescere i bisogni e la loro soddisfazione, migliorando la vita delle stesse classi non abbienti.
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L'integrazione delle forze opposte alla società costituita si realizza in un processo strutturale, che non si può più spiegare in termini di "tradimento" - tradimento da parte dei dirigenti della classe operaia, degli intellettuali, degli stalinisti, ecc. Se tradimento vi è stato, si è trattato di un tradimento "oggettivo": la storia ha proceduto diversamente da come aveva previsto la teoria della storia. È una "deviazione" oggettiva, nel senso che la teoria è stata scossa da fattori inediti: il superamento dei "limiti interni" del capitale mediante lo scatenamento della produttività del lavoro, la coordinazione degli individui e dei gruppi sociali ad opera della tecnicità; e infine il successo della rivoluzione nei paesi arretrati e la crescita del capitalismo. Ognuno di essi sostiene e rafforza gli altri: le capacità del capitalismo organizzato hanno ridotto sempre di piii il potenziale rivoluzionario ^interno del capitalismo, dando impulso, così, al potenziale anti-capitalistico al di fuori di esso. E la crescita del mondo comunista ha a sua volta rafforzato le capacità del capitalismo. Almeno a partire dalla sconfitta della rivoluzione tedesca, all'indomani della prima guerra mondiale, il riformismo non costituisce piii un "tradimento", ma l'adattamento razionale e ragionevole della classe operaia alle nuove condizioni del capitalismo organizzato. Da allora tutto si svolge come lo sviluppo più logico e oggettivo. La "negazione determinata" della società costituita è travolta da un'affermazione realmente positiva: dalla crescente soddisfazione dei bisogni. Poco importa che essa abbia un prezzo terribile: il rinvio sine die della liberazione. La soddisfazione e la sicurezza fanno della liberazione un'idea astratta, il cui carattere irreale è ulteriormente accentuato dalla realtà del comunismo totalitario. E il vero trionfo della Ragione pratica, di fronte al quale la Ragione teoretica appare irrazionale, quale assoluto rifiuto di riconoscere il dato. Un tale rifiuto, tuttavia, sembra essere l'unico modo di preservare l'idea delle possibilità storiche dell'uomo di fronte alla schiacciante produttività di un sistema sociale che ne impedisce la realizzazione. La negazione politica si trasforma nuovamente in una negazione teorica, e solo teorica - una trasformazione che rafforza il carattere irrazionale dell'opposizione. Il fatto storico irresistibile è che oggi il Male esiste nella forma del Bene, e l'irrazionalità in quella della Ragione. La contraddizione dialettica sembra privata di senso, folle. La verità si ritrova ancora una volta nello scandalo: essa appare come un peccato contro la 80
Ragione. Di questa situazione, il bel testo di M. Blanchot costituisce la definizione più adeguata che io conosca: "Ciò che rifiutiamo non è né senza valore, né senza importanza. E proprio per questo che il rifiuto è necessario. C'è una ragione che non accetteremo più, un'apparenza di saggezza che ci fa orrore, un'offerta di accordo e di conciliazione che non ascolteremo. E avvenuta una rottura. Siamo stati riportati a una franchezza che non tollera più la complicità Credo che questo nuovo stadio non possa più essere descritto in termini di imperialismo, o di una stabilizzazione temporanea del "capitalismo monopolistico"^^: la sua base è molto più universale. L'unificazione sotto la bandiera dell'interesse generale delle forze in precedenza opposte fa parte del processo sociale fondamentale della fase contemporanea. Voglio richiamarne i tratti familiari: La mobilitazione totale contro il comunismo ha reso il capitalismo capace di conseguire un'integrazione economica e politica di portata intercontinentale. Questa ha potuto compensare la contrazione del mercato mondiale causata dalla crescita del campo comunista. La nuova economia politica ha in larga misura domato gli antichi conflitti sociali, armonizzati principalmente grazie ai benefici effetti di una economia di permanente preparazione alla guerra. Al tempo stesso, i conflitti imperialistici classici sono stati neutralizzati dalla minaccia portata al sistema nel suo insieme - la prima sfida totale dalla nascita della società capitalistica. La base materiale dell'integrazione e la sua entità rendono i concetti marxisti della "corruzione dell'aristocrazia operaia" e dell'imperialismo classico del tutto obsoleti. L'unificazione intercontinentale, la mobilitazione delle risorse umane e naturali, il perfezionamento dell'apparato tecnico, l'abolizione dei privilegi e delle libertà di ostacolo a tale miglioramento in una parola, la trasformazione del capitalismo libero in capitalismo organizzato - hanno dischiuso le tendenze verso un Welfare State quale organizzazione politica della realtà tecnica. 1. Il capitalismo organizzato sembra in grado di elevare il livello di vita di una fascia enorme della popolazione, compresa la maggior parte della classe operaia. Pare trattarsi di una tendenza di lunga durata, che si realizza attraverso la distruzione, e a dispetto di tutte le restrizioni politiche della produttività e del consumo. 2. L'evoluzione progressiva del capitalismo trova la sua base 81
economica nella rapida crescita della produttività del lavoro; neU'integrazione intercontinentale dei paesi capitalistici di fronte all'espansione del mondo comunista; nell'aumento della popolazione; nella costituzione dello Stato come impresa economica dominante; nell'accelerazione dell'ammortamento del capitale; ecc. 3. Nei paesi arretrati del mondo capitalistico, la transizione dal capitalismo "classico" al capitalismo organizzato si realizzerà sotto regimi più o meno autoritari e totalitari, e contro una resistenza considerevole da parte della classe operaia. Nondimeno è verosimile che - sotto la pressione del progresso tecnico e della politica internazionale - non vi sia bisogno di una rivoluzione sconfìtta perché l'integrazione di questa classe abbia luogo. I medesimi fattori sarebbero d'ostacolo alla rinascita di una fascismo dichiarato (quale forma obsoleta di amministrazione totale). 4. Né la nazionalizzazione parziale della produzione né l'effettiva partecipazione delle rappresentanze operaie a una tale nazionalizzazione trascenderebbero il quadro del capitalismo organizzato. La tendenza alla nazionalizzazione è favorita, da un lato, dalla trasformazione strutturale della classe operaia in classe "media", e, dall'altro, dalla separazione tra controllo e proprietà (vedi sotto). 5. Un tale sviluppo tenderebbe verso una società sul modello della civiltà americana, ma a uno stadio ben piìi avanzato; tali sarebbero le sue caratteristiche principali: a) la soddisfazione assai confortevole dei bisogni materiali e intellettuali della grande maggioranza della popolazione - forse dell'intera popolazione, con l'esclusione dei gruppi di non conformisti (il ricorso alla soddisfazione mancata dei bisogni come supplizio!); b) l'amministrazione totale, imposta dalla tecnocrazia economica e politica su tutte le sfere dell'esistenza umana; c) il perpetuarsi del lavoro alienato quale contenuto e struttura dell'esistenza; la produzione di spreco socialmente necessario; la regolazione dei bisogni e delle modalità del loro appagamento in base alle esigenze dell'apparato tecnico e politico costituito; d) l'arresto della riduzione della giornata lavorativa prima del livello ottimale, al quale il tempo libero potrebbe definire l'esistenza umana; l'assoggettamento dello svago a un controllo amministrativo. 6. Insomma: nella misura in cui sono espressione dell'aumento irresistibile della produttività del lavoro, le tendenze alla stabilizzazione del capitalismo organizzato costituiscono una tendenza strutturale e non una "stabilizzazione temporanea" delle contraddizioni 82
interne del capitalismo. Gli effetti benefici della produttività generano l'interesse generale alla preservazione del sistema e la volontà generale di assicurare e consolidare l'esistenza dell'apparato costituito - l'integrazione materiale di interessi in precedenza opposti. 7. Lo sforzo, sempre piìi intenso, volto a sviluppare la produttività del lavoro costituisce un'esigenza fondamentale tanto del sistema comunista quanto del sistema capitalistico. I due opposti sistemi si sviluppano su una comune base tecnica che sembra assimilarli l'uno all'altro. Se si vuole conservare la nozione marxiana del socialismo quale negazione determinata del capitalismo, occorre ridefinire i caratteri essenziali di entrambi in rapporto allo sviluppo contemporaneo. 8. Nello stadio piìi avanzato del capitalismo organizzato, il controllo sulla produzione è sempre un controllo privato, nel senso che non si realizza attraverso le decisioni collettive degli individui "associati" (parlo di "individui" piuttosto che di "produttori immediati" poiché questi ultimi, rappresentati dai sindacati, partecipano già al controllo della produzione). Il lavoro rimane "lavoro libero", sebbene il mercato del lavoro sia largamente regolato dai sindacati. Fin tanto che il controllo sulla produzione rimane un controllo privato, l'uomo resta assoggettato agli strumenti del suo lavoro. Tuttavia, con la parziale pianificazione, la meccanizzazione e la razionalizzazione, sono introdotti degli elementi tecnocratici, tali da attenuare la sottomissione (in forme "sublimate" di asservimento) e da renderla più razionale e confortevole (forme "sublimate" di sfruttamento, tendenti all'autosfruttamento). Allo stesso tempo, la comparsa di un interesse generale tecnocratico attenua il carattere privato del controllo sulla produzione; l'efficacia per il profitto diviene efficacia per la produzione, che supera le restrizioni particolari. 9. Di fronte alle capacità e alle realizzazioni del capitalismo organizzato, non è più possibile definire la società socialista in termini di pianificazione, razionalizzazione, e di "controllo operaio". Una tale definizione è stata sempre falsa, ma almeno stabiliva le condizioni preliminari della transizione al socialismo. Ora, lo sviluppo contemporaneo pone il problema della transizione, e in particolare del suo "agente storico", in termini nuovi. 10. L'evoluzione del capitalismo e del comunismo sembra indicare un'accelerazione della storia: sembra "saltare", condensare intere fasi dello sviluppo; grazie al progresso tecnico, la base mate-
riale sulla quale la società socialista potrebbe costruirsi si forma rapidamente^"*. Ciò avviene però sotto la spinta di un apparato tecnico che perpetua l'assoggettamento dell'uomo al lavoro. Di conseguenza, la "prima fase" del socialismo appare come una reale prosecuzione del capitalismo organizzato e razionalizzato. Occorre porre l'accento sul fatto che Marx ha sempre considerato la differenza qualitativa caratteristica della prima fase del socialismo (altrimenti la rivoluzione si collocherebbe alla fine di questa, piuttosto che alla fine del capitalismo!). In realtà, il mutamento qualitativo pare "dislocarsi", collocandosi tra la prima e la seconda fase. 11. Ciò implica un "dislocamento" del baricentro del socialismo. Questo verrebbe a definirsi come una società nella quale, sulla base della soddisfazione dei bisogni vitali dell'intera popolazione, la libertà individuale al di là del dominio del lavoro socialmente necessario governa l'organizzazione della produzione e della distribuzione; e il rapporto tradizionale tra lavoro e "svago" è invertito - per cui il termine "svago" non è più utilizzabile. 12. Non è possibile prospettare l'emergere di una tale società dall'evoluzione (più o meno "non antagonistica") della società costituita - capitalistica o comunista. Una rottura totale sembra separare la nuova società dalla "prima fase", così come dal capitalismo organizzato - e la rottura sarebbe totale, poiché coinvolgerebbe la base della produzione, anche di quella nazionalizzata. 13. La rottura totale è resa necessaria dal fatto che l'abolizione del lavoro e della miseria - sola definizione integrale del socialismo - esige: - un mutamento qualitativo, non solo dei rapporti di produzione, ma della produzione stessa, vale a dire dell'apparato tecnico e della tecnicità; - una vera rivoluzione dei bisogni e delle aspirazioni, e un rovesciamento della moralità repressiva che sostiene società altrettanto repressive. 14. Un simile mutamento sembra essere del tutto incompatibile con l'interesse esistenziale di tutte le classi sociali - classe operaia compresa - dei due sistemi costituiti. La transizione al socialismo, in altri termini, assume più che mai l'aspetto di una rottura catastrofica. Si può ipotizzare che la classe operaia sia l'agente storico di una tale catastrofe? La concezione classica del marxismo considera la transizione 84
dal capitalismo al socialismo un rovesciamento politico: il proletariato distrugge l'apparato politico del capitalismo, ma ne conserva, socializzandolo, l'apparato tecnico. Attraverso la rottura e la negazione si conserva una continuità: liberata da tutti gli ostacoli irrazionali propri del capitalismo, la razionalità tecnologica si conserva e sfocia nella nuova società. E la razionalità che trova espressione nell'apparato della produzione materiale: non solo nelle fabbriche meccanizzate, negli utensili, nelle risorse naturali e tecniche utilizzate nel processo produttivo, ma anche nell'organizzazione del lavoro, nel management scientifico e psicologico, nella razionalizzazione. Né la nazionalizzazione né la socializzazione, per se stesse, sarebbero in grado di alterare tale incarnazione materiale della razionalità tecnologica. All'opposto: essa rimane la condizione indispensabile dello sviluppo di tutte le forze produttive sotto la forma socialista. Marx, certo, ha sostenuto che il controllo operaio introduce nella continuità razionale un mutamento qualitativo: una riorganizzazione totale della produzione e della produttività sociale in vista della soddisfazione di bisogni individuali e "liberi", una vera trasvalutazione dei valori che condurrebbe a una nuova esistenza umana. Tuttavia, di fronte all'attuale sviluppo del capitalismo e del comunismo, si impone la questione se tale concezione sia sempre valida. Anticipando l'esposizione che seguirà, si può sostenere che la transizione del capitalismo e del comunismo al socialismo implichi non solo un mutamento fondamentale dell'apparato politico, ma anche dell'apparato tecnico - un mutamento che non può realizzarsi mediante il controllo operaio, e che è più radicale di ogni mutamento del controllo. La transizione al socialismo esige, accanto al rovesciamento della "macchina dello Stato", il rovesciamento delle istituzioni della base tecnico-economica? È una questione del tutto estranea al marxismo classico, imposta però dallo sviluppo della società industriale. Ora, qualora vi si dia una risposta affermativa, sembra si sia costretti a porne una ancora piìi scomoda: è da chiedersi se si possa continuare a considerare la "classe operaia" l'agente storico della transizione al socialismo. La classe operaia è infatti parte integrante dell'apparato di produzione costituito, il cui sviluppo l'ha modellata e modificata, nella struttura così come nella coscienza, nell'interesse immediato come nell'interesse storico o reale. La medesima evoluzione ha modellato e modificato la dialettica del proletariato in quanto soggetto e oggetto della storia, arrestandone la presa di 85
coscienza, che costituisce secondo Marx la condizione della sua realizzazione storica. Nella società industriale sviluppata, l'apparato tecnico della produzione e della distribuzione non è semplicemente tecnico-, la razionalità tecnologica che in esso si incarna è una razionalità totale, che comprende il lavoro e lo svago, la pratica e il pensiero, la politica e la cultura. Si viene precisamente a scoprire che la tecnica è molto di più di un sistema di operazioni particolari, specifiche: è una nuova "epoca del mondo", una nuova realtà dell'uomo e della natura, del pensiero e delle cose. La tecno-logia ha veramente rimpiazzato l'onto-logia: l'essere-in-sé e l'essere-per-sè risultano costituiti dalla tecnica, quale struttura strumentale che possiede il proprio "fine", la sua vera "ragion d'essere" al fuori di sé, nella razionalità collettiva e anonima di una produttività efficace ma cieca. In quanto totalità, l'apparato tecnico comprende le prestazioni che esige e le cose che produce; impone le proprie esigenze sugli atteggiamenti, le aspirazioni e i valori dell'uomo; costituisce il quadro ultimo dell'esperienza del mondo; definisce le speranze e i fallimenti, tutto ciò che è "legittimo" temete e desiderare. La sua promessa suprema - che progressivamente si realizza nelle regioni industriali più avanzate - è quella di una vita sempre più confortevole e di una sicurezza crescente per una parte sempre più ampia della popolazione. Integrata nell'apparato, di cui costituisce la base umana (per quanto in procinto di essere come tale superata!) la classe operaia ha subito alcune modificazioni: 1. La meccanizzazione ha progressivamente ridotto la quantità e l'intensità della forza Imom fisica. E uno sviluppo evidente, ma di grande importanza per il concetto di operaio proprio del marxismo. Secondo Marx, il "proletario" era soprattutto l'operaio manuale che spendeva una considerevole energia fisica. L'appropriazione privata della sua forza fisica, in vista dell'acquisizione privata di plusvalore, costituiva un aspetto decisivo dello sfruttamento. Certo, la creazione di plusvalore ad opera del lavoro meccanizzato non mette fine allo sfruttamento, ma ne modifica in modo essenziale l'incidenza sul corpo e sulla coscienza del lavoratore. Malgrado tutte le proteste dei marxisti "ortodossi", il concetto di proletariato proprio del marxismo ha in sé il dolore e la miseria fisica dello sfruttamento - ciò è parte integrante del materialismo. La sofferenza materiale era il fonS6
damento dell"'umanesimo marxista", e l'assorbimento dell'umanesimo nella scienza dell'economia politica ne rappresentava la realizzazione, a dimostrazione della possibilità dell'abolizione reale della miseria. Se il socialismo continua ad essere il mezzo per sopprimere la miseria, non è possibile invocare l'umanesimo del giovane Marx contro VAufhebung dell'umanesimo nell'economia politica. E se l'attuale sviluppo della società sembra offrire mezzi differenti per eliminare la miseria, non si può rigettarli in nome dell'idea originaria di socialismo. La meccanizzazione del lavoro tende a trasformare la classe operaia in una classe di tecnici. Ciò non vuol dire che essa divenga una classe di ingegneri e di specialisti altamente qualificati. Sembrerebbe, in una certa misura, il contrario: si osserva una dequalificazione degli operai professionali e "artigianali", o almeno la standardizzazione di alcune qualifiche, che risultano assai facili da acquisire. Con "tecnico" alludo piuttosto alla trasformazione del lavoro pesante in lavoro di routine, in un insieme organizzato di movimenti meccanici, deindividualizzati, ma leggeri dal punto di vista fisico. Si tratta di un mutamento qualitativo', la macchina non è piti un mero strumento o un utensile di lavoro e del lavoratore; costituisce l'incarnazione e l'esecuzione del lavoro; l'operaio si occupa della macchina e della sua manutenzione. È la conseguenza rivoluzionaria (o controrivoluzionaria!) del rovesciamento della composizione organica del capitale: il capitale variabile tende a "divenire un costo costante e a integrarsi" nel capitale costante - peraltro, "la produttività è determinata dalle macchine e non dal rendimento individuale"^^. Si può allora continuare ad affermare che la classe operaia, in quanto classe operaia proletaria, sia la sola a creare valore, una volta che la macchina sostituisca l'operaio e la forza lavoro fisica dell'uomo? Secondo Marx, la macchina non può creare valore - può solo trasferire il proprio nel prodotto. Essa, però, non è che l'oggettivazione della forza lavoro dell'uomo: attraverso la macchina il lavoro passato (lavoro morto) si perpetua e determina il lavoro vivo - nonché l'esistenza attuale della società. Tale processo costituisce però lo sviluppo di un rapporto storico e dialettico: l'fvoluzione quantitativa può farsi mutamento qualitativo. La società industriale si approssimerebbe a un tale mutamento nella misura in cui la capacità e la durata della macchina (non in quanto strumento individuale, ma come sistema tecnico della produzione) assorbissero il lavoro del87
l'uomo - sempre nel senso della sua "forza lavoro", forza fisica, pesante - sino al punto di sostituirsi ad esso. Ritengo non sia possibile separare la teoria marxiana della produzione meccanizzata dalla concezione del lavoro come lavoro pesante, come dispendio di "forza fisica". Le macchine, certo, bisogna costruirle; bisogna garantirne l'alimentazione, la sorveglianza e la manutenzione - ma la classe operaia condivide con le altre classi sociali tali funzioni - le quali vengono sempre piii a costituire un lavoro tecnico. Il progresso della meccanizzazione in direzione dell'automazione tende a trasformare la macchina da lavoro "morto" in lavoro vivo, e in quanto lavoro vivo, attuale, essa continua a funzionare all'interno dell'apparato di dominio e di sfruttamento. Se neanche il completo trasferimento del lavoro dall'uomo alla macchina risulta in grado di abolire lo sfruttamento e il dominio, è perché al mutamento del modo di lavoro non si accompagna un corrispondente mutamento del tempo di lavoro. Bisogna tornare a porre l'accento sul ruolo centrale del concetto di tempo all'interno della teoria marxiana. La dimensione nella quale si compie la creazione di plusvalore è "tempo rubato" - tempo nel quale l'operaio è costretto a lavorare piti di quanto lo esiga la riproduzione della sua forza lavoro. E la dimensione nella quale si realizza la fine dello sfruttamento è il "tempo ritrovato", il tempo libero al di là del regno della necessità. La società costituita conserva il tempo alienato come contenuto dell'esistenza umana, e l'assoggettamento dell'uomo è funzione del tempo alienato. Vi è, certo, una riduzione considerevole della giornata lavorativa, che però non altera la sottomissione dell'uomo all'apparato di lavoro, fintanto che il tempo recuperato non sia tempo libero, e la riduzione non faccia del tempo libero la dimensione propria della vita stessa. Proprio perché non ha realizzato (e non può realizzare) tale rovesciamento del tempo, la società riproduce lo sfruttamento e il dominio - per quanto radicale possa essere il mutamento del controllo della produzione e della struttura del lavoro. 2. La trasformazione della classe operaia (in classe tecnica) non è che una tendenza recente. Essa sembra però essere insita nello sviluppo della tecnica, segno del progresso tecnico. Si può ipotizzare, di conseguenza, che, nella misura in cui il capitalismo (come pure il comunismo) dipende dal progresso tecnico, la tendenza si estenda e si intensifichi. Non è necessario porre ulteriormente l'accento su come la trasformazione generi nella classe operaia esperienze e
atteggiamenti radicalmente diversi da quelli che caratterizzavano il "proletariato". Pur nella sua forma piìi alienata, il progresso tecnico allevia il peso del lavoro. Esso, certo, conserva la miseria; ma la miseria dello schiavo del XX secolo è pili "sublimata" dell'opprimente miseria fisica di un tempo. Le promesse del progresso tecnico sembrano dunque realizzarsi attraverso tutte le istituzioni repressive e contro di esse - siano democratiche o autoritarie, capitalistiche o comuniste. In ragione di ciò, la tecnicità si oppone alla politica della trascendenza, alla negazione determinata in quanto azione e aspirazione politica. Secondo Marx, la base tecnica, comune al capitalismo e al socialismo, non sarebbe d'alcuno ostacolo alla rottura e alla negazione politica. Nella realtà, essa sembra stabilire ugualmente una continuità poto'ca - generare un'azione e una coscienza affermative, volte contro la rottura e contro ogni azione negativa. La neutralità della base tecnica costituisce infatti un'illusione, oppure è immaginabile solo in una società nella quale gli stessi oggetti tecnici (gli utensili, l'intero apparato di produzione e distribuzione) siano progettati e realizzati in vista del libero sviluppo e della libera soddisfazione dei bisogni - e anche questa è una determinazione politica! Finché gli individui, in uno stadio di libertà, non eserciteranno sulla tecnica un governo collettivo, essa rimarrà una forma particolare di dominio, e, come tale, domìnio politico. La produzione e la distribuzione meccanizzate determinano in ampia misura i bisogni e la loro soddisfazione. Di piìi: determinano quali sono le aspirazioni efficaci, quelle, cioè, che hanno una legittima possibilità di essere realizzate. Tutti i bisogni e le aspirazioni la cui soddisfazione urti contro le esigenze dell'apparato costituito (bisogni e aspirazioni detti "libertari", l'abolizione del lavoro alienato, ecc.) sono esclusi. Quelle dell'apparato tecnico sono quindi esigenze politiche, imposte dall'interesse alla conservazione e all'espansione dell'apparato nella forma e nell'organizzazione costituite. A causa dei benefici reali prodotti dal dominio tecnico, l'interesse politico appare tuttavia come un interesse "neutrale", razionale, generale. Partecipando di tali benefici, la classe operaia abbraccia anche la razionalità del sistema sociale che li produce, e nel quale il suo interesse immediato e l'interesse storico sembrano coincidere. Certo, attualmente la remunerativa integrazione della classe operaia nel sistema del dominio tecnologico è in verità limitata a settori privilegiati dei lavoratori delle regioni privilegiate della società 89
industriale. Tuttavia, nella misura in cui la prosecuzione del dominio tecnologico dipende dalla crescita sostenuta della produttività, la tendenza limitata deve estendersi, superando ogni restrizione. La concezione, propria del marxismo, secondo la quale lo sviluppo delle forze produttive entro rapporti di dominio esige una restrizione sempre più severa e metodica, conserva la sua verità. Si rileva però che la produttività del lavoro (materiale e intellettuale) supera ogni restrizione, che la stessa distruzione risulta produttiva, e lo spreco razionale (ai fini dell'appagamento dei bisogni). Non è possibile interpretare tale dinamica in termini di "stabilizzazione temporanea", finché non si sia dimostrato che essa possiede dei limiti interni che non è in grado di superare. Credo che una simile dimostrazione manchi ancora. L'integrazione della classe operaia appare come uno sviluppo strutturale, comune al capitalismo e al comunismo contemporanei, e progressivo, che non può fare a meno di estendersi alle regioni meno privilegiate del mondo industriale. Alla luce di tali circostanze, non è più possibile esimersi dal concludere che la classe operaia di Marx non esiste più e, di conseguenza, non agisce più in quanto agente storico della transizione al socialismo. E a quale titolo la teoria marxista potrebbe perseverare nel sostenere che l'operato della classe operaia sia quello dell'agente storico della soppressione del sistema di dominio tecnologico? La politica "riformista" e "economicistica" sembra trovare una giustificazione tardiva, e la sua colpa pare essere non quella di aver collaborato col sistema di dominio, ma di aver preteso di condurre al socialismo. Prima del "salto storico", l'effettiva partecipazione della classe operaia alla "gestione" porta al miglioramento e alla razionalizzazione del sistema del domino tecnologico, mai però al socialismo. È qui che avverto una divergenza fondamentale con le tesi di Serge Mallet. Nessuno più di lui ha sottolineato come i mutamenti nella struttura tecnica della produzione abbiano delle conseguenze "sociologiche", che coinvolgono la struttura della classe, come pure la lotta di classe. Al tempo stesso, egli pone tuttavia l'accento su un'essenziale distinzione tra la "condizione operaia, in quanto concetto sociologico, e il fatto dell'esistenza autonoma di questa classe all'interno del rapporto di produzione, quale concetto economico e politico"^'^. Mi pare che, se si accolgono i dati di fatto presentati da Mallet e l'analisi che egli ne opera, tale distinzione risulti non solo estranea al marxismo, ma anche insostenibile. Egli dimostra, con 90
degli esempi sorprendenti, in che misura la trasformazione della classe operaia abbia luogo all'interno dello stesso rapporto di produzione, della fabbrica: evidenzia il fenomeno dell'"integrazione volontaria" degli operai nell'impresa, l'ascesa degli operai "buoni" ai livelli privilegiati, tecnici e amministrativi; il grado di complicità della "buona volontà"; il fascino quasi sensuale che i miracoli della tecnica esercitano sul lavoratore; la scomparsa dell'antico padrone e della sua gestione; la formazione di una "casa del personale", ecc. Egli riconosce che tali sviluppi - tutti interni al rapporto di produzione - "limitano al massimo i conflitti sociali"^^. Pressoché unico tra i marxisti, osa suggerire che questo costituisca uno sviluppo strutturale-, "Sarebbe totalmente errato vedere nella partecipazione degli operai a tale sistema unicamente un effetto dell'individualismo, del desiderio di accedere a un impiego meglio retribuito. In realtà il miglior movente è costituito dall'interesse per la macchina, dall'inclinazione innata dei figli di operai per la tecnica"^®. Perché sostenere, allora, che "all'interno dell'apparato di produzione" la classe operaia ha la "coscienza della sua esistenza come classe" e si impegna nella lotta di classe "per vie nuove"^^? Penso che Mallet debba tener fermo a tali enunciazioni per giustificare la sua tesi che la lotta per il controllo operaio, per la partecipazione operaia alla gestione della produzione costituisce la forma contemporanea della lotta politica, l'unica forma adeguata di lotta per il socialismo. Ma se le tendenze all'integrazione che Mallet descrive continueranno a dispiegarsi (e niente fa pensare a una loro inversione), allora l'ascesa della classe operaia a una posizione di controllo segnerebbe il compimento dell'integrazione volontaria, piuttosto che la sua negazione. Come tale, il controllo operaio rafforzerebbe il sistema del dominio tecnologico, invece di porvi fine. 3. La classe operaia è definita, secondo Marx, principalmente da due fattori sociali: il proletariato è separato dagli strumenti di produzione, ed è costretto'a vendere la propria forza lavoro in quanto unica merce di cui dispone. Abbiamo evidenziato come la meccanizzazione progressiva tenda a trasformare la forza lavoro fisica in un'abilità tecnica, che implica un minor dispendio di forza fisica (e un crescente investimento di energia mentale, sebbene in una forma assai primitiva e standardizzata). Di conseguenza, la differenza elementare, nel modo di lavoro, tra la classe operaia e le altre classi sociali tende ad attenuarsi. Ora, il medesimo processo di assimilazione si compie a 91
partire dal vertice della gerarchia sociale, in rapporto agli strumenti della produzione. Vi è la famosa separazione del controllo dalla proprietà, l'affermarsi dei "manager" in quanto classe dirigente. Sebbene non siano proprietari-capitalisti, essi esercitano, all'interno delle imprese singole e nei grandi gruppi economici, il controllo suUa produzione. Questo è rigidamente limitato, non solo dalle esigenze del profitto, ma anche dalle esigenze "politiche". Il controllo in vista del profitto dipende, a sua volta, in misura crescente, dalle funzioni sempre maggiori assunte dallo Stato e dalla costellazione politica internazionale. L'imprenditore indipendente è trasformato in salariato, in particolare nei settori realmente decisivi dell'economia. I piccoli commercianti, lo small business, rimangono "indipendenti", in termini statistici, ma qui la dipendenza si realizza direttamente attraverso la fornitura di merci e servizi, del credito, ecc. La diffusione del salariato non è che l'espressione monetaria di una tendenza essenziale della società industriale avanzata: la crescente dipendenza della popolazione dall'amministrazione e dall'organizzazione tecniche. Gli amministratori e gli organizzatori stessi dipendono dal complesso dell'apparato che essi amministrano e organizzano. Nel circolo vizioso trova mirabilmente espressione la situazione reale: la società in quanto totalità chiusa ma in espansione - un sistema che si espande da sé, mediante le azioni e le aspirazioni dei suoi membri (modellate dal sistema stesso), senza andare mai al di là della propria base. E U trionfo della tecnica fattasi politica, un dominio razionale e un conformismo altrettanto razionale; uno sfruttamento remunerativo e riposante; un progresso quantitativo che rimuove il mutamento qualitativo. Il circolo vizioso può essere incrinato, ma solo ad opera di uomini mossi da bisogni e aspirazioni radicalmente differenti. In che modo è possibile prospettarne la comparsa, all'interno della totalità sociale contemporanea? Proveremo in seguito a proporre qualche ipotesi di risposta alla questione. Occorre prima tirare le conclusioni della nostra analisi riguardo al ruolo della classe operaia nella storia. Il sistema di dominio si conserva e consolida attraverso la trasformazione della struttura tradizionale delle classi sociali. Occorre insistere su questo fatto fondamentale, contro la nefasta propaganda che celebra la nascita della società senza classi nel quadro delle istituzioni costituite (di un capitalismo "popolare" o del socialismo di Stato). L'assimilazione dei modi di lavoro, dei bisogni e delle soddisfazioni non cancella affatto il confine sociale che separa i dominan92
ti dai sudditi. Gli uni impongono agli altri il modo di vivere, di lavorare, di pensare e di desiderare. Le due ultime categorie di imposizioni sono relativamente nuove: attestano la crescita del dominio. Credo nondimeno che i gruppi dominanti non possano essere identificati con le classi tradizionali. Evidentemente la "borghesia" (e il "capitale") divide il potere con i capi delle forze armate, con i politici di professione, con i tecnici. Parallelamente, nell'Unione Sovietica, "la burocrazia" non è una classe definita, composta com'è da settori diversi del controllo politico e economico; di piti: essa è ampiamente "aperta" e si rinnova ampiamente. Ecco le "elite al potere" - concetto giustamente sospetto, poiché non indica la base sociale del potere stesso. È possibile, certo, identificare il personale degli strati dirigenti secondo la sua provenienza dalle classi tradizionali; non è tuttavia la provenienza sociale individuale, ma l'interesse oggettivo che determina la politica. L'interesse oggettivo è sempre l'interesse a conservare e estendere il modo di produzione sociale costituito. Nondimeno, l'analisi deve rendere conto di tale trasformazione fondamentale: il "modo di produzione" si estende a tutte le sfere dell'esistenza e si spinge sino alla negazione del modo costituito. Fintanto che il sistema è in grado di creare un plusvalore sufficiente ad assicurare la riproduzione allargata, aumentando (o almeno sostenendo) al tempo stesso i salari reali, il contenuto materiale del potere sembra essere rimosso. Resta la forma pura del dominio: determinare l'esistenza degli altri. E parallelamente appare nella sua forma pura la schiavitù: esistere secondo regole imposte da altri. Tutte le rivendicazioni, di conseguenza, si risolverebbero nella rivendicazione totale: creare condizioni nelle quali siano gli stessi individui a decidere della propria esistenza. Se tali tendenze prevalessero, l'amministrazione totale genererebbe in tutte le classi sociali sottomesse una rivendicazione altrettanto totale - la sola esigenza rivoluzionaria che corrisponda realmente alle realizzazioni della civiltà industriale. Tuttavia, l'amministrazione totale produce bisogni, forme di soddisfazione e repressione che ostacolano lo sviluppo di una tale esigenza. Che il dominio si riproduca attraverso la produzione di bisogni, di soddisfazioni e di repressione costituisce una fatalità storica, che, come tale, reca in sé la possibilità della propria incrinazione. Vi sono tendenze reali in grado di lasciar intendere le forme storiche di una 93
simile possibilità? Voglio proporre delle ipotesi assai speculative: (a) Attualmente l'amministrazione totale del mondo si sviluppa in due opposti sistemi sociali. La sua base comune (la base tecnica del capitalismo come pure del comunismo) regge istituzioni molto diverse. Di conseguenza, le istituzioni fondamentali generano modalità di amministrazione e finalità politiche differenti. Certo, la concorrenza tra i due sistemi costituisce proprio la forza principale che li sostiene entrambi entro il quadro delle istituzioni costituite - essi si salvano reciprocamente. Tuttavia, nella misura in cui la loro stabilità dipende da un aumento del potenziale militare e dalla mobilitazione totale della popolazione, la guerra mondiale rimane un fattore - economico e politico - incisivo. Come tale, lo scoppio della guerra rappresenterebbe l'esplosione delle contraddizioni interne al sistema globale del dominio - il limite immanente che arresta lo sviluppo "armonico" della produttività e della distruzione, nonché la dilatazione del settore dello spreco sociale e del consumo individuale. (b) La crisi economica costituirebbe una forma ulteriore di mutamento catastrofico del sistema: questa resta sempre una possibilità immanente al capitalismo organizzato e al comunismo, sebbene appaia molto più probabile che il sistema comunista riesca a dominarla. Una disuguaglianza che lascia allibiti, lo stadio arretrato dello sviluppo industriale di regioni di grande rilevanza strategica, le gravi difficoltà dell'integrazione del mondo capitalistico, alla base della persistenza del colonialismo: tutti questi fattori potrebbero risultare esplosivi, tali da riattivare le classiche "contraddizioni imperialistiche". Che queste esplodano in una guerra "inter-imperialistica" sembra improbabile, sebbene sia possibile che scuotano lo sviluppo del mercato comune capitalistico al punto da far esplodere una crisi economica. Di più: lo sviluppo del capitalismo organizzato sembra dipendere da una partecipazione sempre più incisiva della classe operaia, una stretta (quantunque antagonistica) collaborazione tra il grande capitale e i grandi sindacati. Questa dipende a sua volta dall'ascesa economica e sociale della classe operaia (aumento dei salari, miglioramento della vita, assimilazione alle altre classi sociali). Nelle regioni industriali arretrate, il movimento operaio potrebbe incontrare una resistenza pronta a piegare il potere dei sindacati, al rischio di una crisi economica (e anche politica). Si può ritenere a buon diritto che con la crisi risorgerebbero la coscienza di 94
classe e il proletariato di un tempo - anche se la soluzione fascista offrirebbe un'effettiva possibilità di riawiare lo sviluppo, e di dirigerlo in base agli interessi del capitalismo organizzato. (c) Il processo verso l'indipendenza dei paesi coloniali e l'industrializzazione dei paesi sottosviluppati si fa piij rapido e esteso. Ci si è chiesto se con ciò prenda forma una Terza Forza, orientata cioè a un sistema sociale che non si identificherebbe né col capitalismo né col comunismo, ma con un socialismo democratico o libertario. La questione non può essere discussa su un piano astratto o eccessivamente speculativo. Propongo una tesi del tutto personale e provvisoria. I paesi sottosviluppati non hanno conosciuto la fase storica della società borghese, ma solo la borghesia nazionale in quanto settore tardivo ed estraneo della loro economia, tale che non è mai stato assorbito dalla società nella sua interezza. La loro rimane una civiltà essenzialmente pre-industriale e pre-tecnica, chiamata a industrializzarsi in concorrenza con una civiltà industriale avanzata o in rapido avanzamento. Ora, l'epoca della libertà economica e della democrazia è stata precisamente quella tra la civiltà feudale e la civiltà borghese, tra la realtà dell'agricoltura e quella della tecnica. E a una realtà pre-tecnica appartenevano la libera iniziativa e il libero commercio, la proprietà realmente individuale e le corrispondenti istituzioni politiche e culturali. L'integrazione della popolazione agricola nel nascente capitalismo significava l'integrazione nella manifattura e nella manodopera - in modi di lavoro che necessitavano dell'individuo in quanto soggetto di forza lavoro fisica - essenzialmente non diverso dal soggetto del lavoro agricolo. Evidentemente l'industrializzazione contemporanea non può più realizzarsi in tali forme pre-tecniche. Proprio nei paesi sottosviluppati, nei quali gli stessi bisogni vitali della popolazione sono scarsamente soddisfatti, e richiedono un appagamento veramente "di massa", l'industrializzazione esige la produzione e la distribuzione su larga scala e in serie, dunque la meccanizzazione e la standardizzazione del lavoro come pure della vita. Il peso opprimente della civiltà pre-tecnica sembra opporre a un tale sviluppo una resistenza considerevole. In quanto complesso di lavorazioni e prestazioni meccanizzate, la macchina esige un insieme di atteggiamenti e di azioni rigorosamente coordinate e standardizzate; esige l'obbedienza a un sistema di poteri anonimi (non al dio, né alla natura, né all'uomo); esige una forma di de-individualizzazione e persino di de-umanizzazione, quale 95
condizione preliminare di un'autonomia e di un'individualità completamente nuove. Prima dell'avvento della società libera, alla cui base è il controllo sulla tecnica, la macchina non è affatto neutrale: è lo strumento di un'amministrazione totale. Si può veramente ritenere che i paesi maggiormente sottosviluppati possano saltare dalla realtà pretecnica alla realtà post-tecnica, nella quale la tecnica sia divenuta la base di una vera democrazia? Sembra piuttosto che essi debbano passare - in modo più intenso ma forse pili rapido - per la medesima fase dell'amministrazione totale attraversata dalle società di più antica industrializzazione. (d) Ci rimane da discutere la possibilità di una soluzione non catastrofica. Questa presuppone che i due sistemi si sviluppino "normalmente", in assenza, cioè, di una guerra totale - le guerre locali e controllate potrebbero divenire parte dello sviluppo "normale" - , di una crisi economica che sfidi la regolazione dell'economia, o di un rovesciamento politico che scuota le istituzioni fondamentali. Nel corso di un simile sviluppo, l'aumento della produttività del lavoro continuerebbe a superare le sue restrizioni metodiche, e la distruzione ad essere produttiva. Di più; è possibile che la crescita del movimento nazionalista in Africa e in Asia rafforzi, a sua volta, la corsa delle potenze metropolitane ad aumentare e razionalizzare la produttività, mediante lo sfruttamento delle risorse interne (materie e materiali sintetici) e l'abbandono di ogni resistenza al progresso tecnico (quale il rallentamento della produzione). Si andrebbe in questo caso al superamento della penuria alimentata "artificialmente" dal sistema di dominio, e risulterebbe inevitabile una certa liberalizzazione: questa si imporrebbe al sistema attraverso rigide forme di controllo, la cui permanenza e intensificazione sarebbe necessaria per la salvezza del sistema stesso. Il controllo si estenderebbe sempre di più al consumo e allo svago (e al di là dello stesso controllo della produzione). Nondimeno, in questa sua espansione, £1 totalitarismo tenderebbe ad assottigliarsi. (e) La suddetta tendenza non elimina affatto l'assoggettamento dell'uomo all'apparato del suo lavoro, e i controlli esercitati sull'educazione e lo svago sono il contrario della libertà. Di conseguenza, la modificazione, che ne risulta, delle pulsioni e dei bisogni, non rappresenta ancora la liberazione. Lo svago non è il tempo libero: è solo rilassatezza e rigenerazione delle energie tra un intervallo di lavoro e l'altro; resta così assimilato al lavoro e determinato dal lavoro. Que-
sto, però, il modo di lavoro, muta. Lo sviluppo della tecnicità tende ad assimilare il lavoro fisico (dispendio di energia fisica) e il lavoro non fisico (dispendio di energia mentale), mentre il processo della razionalizzazione produttiva riduce il dominio del lavoro necessario alla sussistenza (dell'uomo come pure dell'apparato). Si estende, di conseguenza, lo spazio delle attività al di là della sussistenza: sono attività sin da principio parassitarie, che aumentano lo spreco e il falso lusso, ma anche attività che impegnano l'inclinazione all'esplorazione e alla sperimentazione del mondo dominato. In virtù della loro stessa natura tecnica, priva di un fine immanente, aperta a innumerevoli possibilità, tali attività tendono al gioco-, tendono a giocare col mondo e con le facoltà umane. Finché rimane determinato dalle esigenze dell'apparato costituito, un simile alleggerimento del lavoro continua a rappresentare il regno dell'alienazione, ma di un'alienazione che sembra divenire trasparente e cosciente di sé. Si potrebbe supporre che in una tale società si assottigli gradualmente la base pulsionale che ha sempre rafforzato e perpetuato il dominio? Che l'uomo non accetti piti così facilmente e "spontaneamente" la rinuncia e il differimento della soddisfazione? Che egli non si senta più incatenato a una produttività repressiva, dalla sua stessa natura, dalle leggi della morale e della religione, dalle esigenze vitali della "condizione umana"? Si potrebbe ipotizzare, in altri termini, che l'uomo acquisti lentamente la buona coscienza della vita in quanto fine piuttosto che mezzo? Che si realizzi una trasvalutazione dei valori tale da rifiutare un dominio benefico proprio perché è dominio? In ogni caso, la base economica che ha sempre sorretto i valori dominanti e repressivi, il fondamento sociale del "principio di realtà" che governa la repressione, non esisterebbe più. Continuerebbe però a esistere l'apparato tecnico della produzione repressiva. Abbiamo suggerito che la transizione a una società qualitativamente differente implica una ricostruzione radicale di tale apparato - la costruzione di una nuova tecnicità. Il mutamento non può porsi che come un rovesciamento politico, risultato di un'azione politica collettiva. Si tratterebbe ancora di una transizione rivoluzionaria, non più riconducibile però a un'unica classe sociale opposta alla società: l'azione decisiva potrebbe coinvolgere tutti gli strati sociali. L'amministrazione totale tende a livellare la gerarchia sociale, ed è possibile che il livellamento alimenti la disintegrazione. All'amministrazione totale risponderebbe il rifiuto totale. 97
Vorrei aggiungere alcune considerazioni in merito al dibattito sul Welfare State. Questo è capace di elevare il livello di vita - ma di una vita manipolata e irreggimentata! È una capacità insita in ogni società industriale nella quale vi sia un perfetto apparato tecnico che funziona come un potere separato dagli individui, si impone sulle loro teste e, invece di esserne amministrato, li amministra. In tali condizioni, il tramonto della libertà non risulta da un deterioramento morale o intellettuale, ma costituisce un processo sociale oggettivo: la produzione e la distribuzione di una quantità crescente di beni e servizi esige una quantità crescente di conformismo e di lavoro alienato, e, nello stadio avanzato della civiltà industriale, l'intero lavoro alienato risulta repressivo rispetto alla libertà possibile. Il Welfare State limita a) l'entità del vero tempo libero, del tempo liberamente a disposizione degli individui; b) la capacità degli individui di determinare e dispiegare i propri bisogni e le proprie facoltà; c) lo sviluppo di una intelligenza (consapevole o inconscia) in grado di pervenire a una libera determinazione. È una situazione del tutto paradossale: la società industriale sviluppata sembra aver prolungato invece che ridotto la durata del tempo speso nel lavoro e nelle prestazioni alienate - almeno se si considera la società nel suo insieme e la gamma crescente di attività non produttive ma socialmente necessarie. La produzione di beni che non rientrano nel consumo individuale né servono a produrre beni simili è da tempo parte integrante della produzione sociale. Nell'organizzazione costituita della società industriale, i costi della pubblicità, delle public relations, dell'indottrinamento, costituiscono una componente dei costi strutturali della produzione. Tuttavia, per essere efficace, la produzione di uno spreco socialmente necessario, nonché di beni e servizi politicamente necessari, esige una razionalizzazione continua, un impiego costante di tutte le tecniche e le scienze moderne. Di conseguenza, una volta che ci si sia lasciati alle spalle un certo livello di arretratezza, il progresso del tenore di vita costituisce il sottoprodotto pressoché inevitabile di una società industriale politicamente bene organizzata e controllata. L'aumento della produttività del lavoro crea il surplus di beni che, siano essi distribuiti dallo Stato o da gruppi particolari, permettono un'espansione del consumo - per quanto si producano sempre piià beni che non rientrano nel consumo individuale. Finché il processo continua, il valore d'uso della libertà individuale risulta 98
ridotto: se la vita organizzata e manipolata è sicura, e forse persino "buona", non vi è piii ragione di porre l'accento sull'autonomia individuale. È sulla base materiale e razionale dell'unificazione sociale degli opposti, del comportamento politico a una dimensione, che le forze politiche che potevano superare la società costituita sono bloccate, e il mutamento qualitativo, il "salto storico", appare possibile solo in quanto scaturisce àdìù^esterno. In questo senso, non è forse un mero accidente della storia che la rivoluzione socialista abbia avuto luogo in un paese non ancora integrato nella realtà tecnica. L'integrazione si è prodotta con la costruzione staliniana della società sovietica, che ne è seguita: "superare i paesi industriali avanzati" era lo slogan appropriato per una simile costruzione. Essa progredisce tuttora - per quanto tale fase di sviluppo sembri prossima a esaurirsi. La tecnica costituisce in effetti la prima necessità del socialismo, e può segnarne il destino. Senza la realizzazione della razionalità tecnologica, non si potrà avere né un'esistenza libera né un tempo libero; ma prima di tale realizzazione, la realtà tecnica non dominata ostacola e "rinvia" il socialismo. Finché essa non sia stata domata, le nuove istituzioni sociali - la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, la pianificazione, ecc. ~ non comportano una differenza qualitativa. La realtà tecnica afferma il proprio carattere ontologico in tutte le istituzioni e i rapporti sociali: è una totalità strumentale che trova il suo fine solo al di fuori e al di sopra di sé. Lo ripeto: la vera realizzazione della razionalità tecnologica costituisce una decisione politica e un'azione politica! Nella società sovietica, l'unificazione degli opposti si è prodotta sotto un regime totalitario che ha a sua disposizione l'intero apparato tecnico e culturale. Di conseguenza, lo sviluppo a una dimensione è sempre rapido e scoperto (non oso dire che i vecchi paesi industrializzati rimangano indietro in questa corsa!). Nei vecchi paesi industriali che hanno compiuto un considerevole progresso tecnico, l'unificazione degli opposti ha luogo nell'ambito di una società pluralistica. Vi è una competizione economica e politica; una concorrenza tra il capitale e il lavoro, tra l'amministrazione centrale e le amministrazioni locali; vi sono la scelta dei consumatori, le critiche dei giornali; una stampa, una formazione, e piaceri che non sono rigorosamente censurati, o che si censurano da sé. Per gli individui che sono oggetto di amministrazione e organizzazione, l'amministrazione pluralistica è forse preferibile a quella tota99
litaria: possono trovare, presso Yurta, protezione nei confronti delXaltra istituzione; un'organizzazione può moderare l'azione dell'altra. Quali che siano le restrizioni che vi si introducono, il giogo della legge è ancora infinitamente preferibile al giogo al di fuori e al di sopra della legge. Ci si può chiedere, però, se la concorrenza delle forze {"countervailingforces") non alimentiId, manipolazione, invece di ridurla. La competizione economica rallenta o accelera la corsa a un più vasto e frenetico ricambio dei prodotti, alla riduzione dei tempi di ammortamento del capitale, il deterioramento della qualità e l'aumento dello spreco? Il pluralismo dei partiti politici tende alla pace o a una politica intransigente? O ancora: la moltiplicazione delle macchine e dei meccanismi riduce veramente il lavoro, o non fa che respingere in un altro dominio il dispendio alienato di energia? Anche se ammettiamo che tale tendenza sia insita nel Welfare State, il rìschio sembra essere basso. È una questione seria: è ancora razionale insistere suUe possibilità della libertà in uno Stato in cui la vita, così come è organizzata dall'amministrazione totale, è migliore e piìi confortevole? Se gli individui sono soddisfatti dei beni e dei servizi offerti loro dall'amministrazione (forse tanto da esserne felici), perché voler vivere la propria vita, una vita indipendente? E se i modi del pensiero, dei sentimenti, delle aspirazioni fanno parte di questa serie di beni e servizi loro offerti, perché dovrebbero cercare di pensare, sentire, aspirare a qualcosa per conto proprio? Gli agi materiali e psicologici offerti saranno probabilmente cattivi e in ampia misura ingannevoli, ma lo Spirito e la Cultura hanno poco da argomentare contro la soddisfazione dei bisogni. Di fatto, il Welfare State vive "sulle spalle" degli individui, ma il rifiuto dello sfruttamento implica proprio l'accentuazione della forma di libertà che vacilla ed è posta in questione. Pili consistente è l'argomento che mette in discussione le possibilità economiche del Welfare State. Il progresso della società industriale avanzata dipende da restrizioni utili: una parte della produttività è distolta in modo sistematico e metodico dalla produzione di beni necessari per i reali bisogni individuali, il cui appagamento potrebbe distruggere la base economica del domìnio e dell'organizzazione. Al centro dì tale opera di restrizione e sottrazione sono le industrie della difesa nazionale, materiale e intellettuale. Ulteriori campi di restrizione sono l'agricoltura, la resistenza contro l'automazione (la minaccia della disoccupazione!), l'accelerazione artificiale del ricambio dei pro100
dotti (la minaccia della sovrapproduzione!), ecc. Nella società comunista, il cui settore industriale è maggiormente arretrato, le restrizioni paiono più "naturali", in quanto sono imposte da una vera penuria, o da un più debole sviluppo degli impianti. Nell'Unione Sovietica, questa fase sembra essere superata, e le restrizioni risultano sempre meno necessarie. Una mobilitazione totale esige, tuttavia, un nemico, che esiste: per il comunismo è il capitalismo e viceversa. Il nemico fornisce ai due sistemi un fondamento razionale. La dipendenza reciproca dei due sistemi sovrani (attualmente i soli sistemi sovrani!) rivela l'unità della realtà tecnica al di sopra delle divergenze politiche e attraverso di esse. Quando si trova di fronte alla sfida comunista, il capitalismo si confronta con le proprie possibilità: la realizzazione di uno sviluppo centralizzato e spettacolare di tutte le forze produttive, mediante l'eliminazione degli interessi particolari che ostacolano tale sviluppo. Anche il comunismo si confronta con le proprie possibilità, quando affronta la sfida capitalista: le nuove forme di libertà, un agio meraviglioso, un alleviamento di tutto il peso della vita, un eccesso di ricchezza. Queste le possibilità che i due sistemi recano in sé, ma occultate e contraffatte. In entrambi i casi, il motivo è, in ultima analisi, lo stesso: si combatte contro le possibilità di un'esistenza umana tale da trascendere e forse distruggere il quadro delle istituzioni costituite. Argomenti simili implicano che l'amministrazione totale non sia in grado di realizzare un vero "Stato del benessere", cioè uno Stato di ampia sicurezza, agio, e benessere per gli individui. A ciò si è spesso obiettato che la produttività potrebbe aumentare a tal punto che la restrizione e la distruzione su larga scala non impedirebbero una più efficace ricostruzione dell'apparato tecnico. Questa aprirebbe a una riproduzione della produttività ancora più efficace e estesa, attraverso la distruzione, l'ammortizzazione e la sostituzione accelerata dei beni distrutti. La dinamica accrescerebbe lo sviluppo del Welfare State, invece di rallentarlo. Non voglio però qui dar seguito, a questo genere di speculazione!
IV Mi propongo ora di illustrare alcuni aspetti culturali della civiltà industriale avanzata, allo scopo di esaminare se, e in che misura, essi 101
riflettano la dinamica della realtà tecnica della quale mi sto occupando. Lasciate che cominci col presentarvi brevemente una tipica critica della "cultura di massa". Eccone una sintesi: i valori, le credenze e le idee che hanno accompagnato e sostenuto la nascita della società industriale, man mano che questa si sviluppa, perdono di vigore, sino al punto da esserne negati. La forma costituita dell'esistenza umana risulta ossificata, tanto nell'ambito materiale che in quello ideologico. A confronto col livello raggiunto nel XVIII e nel XIX secolo, la cultura contemporanea appare del tutto vuota, grossolanamente menzognera, mercificata e standardizzata. L'impoverimento dell'uomo prodotto dall'assoggettamento dell'individuo all'apparato politico e tecnico trova una compiuta espressione nell'impoverimento intellettuale. .. Per il resto, e per un'analisi dettagliata, si può consultare un qualunque libro sull'argomento! Per quanto riguarda i fatti, la critica è giusta. Voglio tuttavia mettervi in guardia dall'interpretare tali tendenze in termini di "cultura di massa". Seducente com'è, la critica della cultura di massa si confronta oggi con la sua difesa, altrettanto seducente, ed entrambe sono inadeguate, in quanto rimangono ideologiche. Fintanto che la "cultura di massa" non sia stata studiata in relazione al contesto tecnico e politico che l'ha generata, nessuna analisi sarà in grado di definire le tendenze storiche che vi sono all'opera. La situazione tecnica e economica nella quale si trova la società industriale avanzata è in contraddizione con le idee più preziose della cultura tradizionale. Queste soccombono dinnanzi a ciò che esige la mobilitazione di tutte le forze della società, per la sua difesa - una mobilitazione totale che ha luogo all'Ovest come all'Est. L'autonomia della persona, l'armonia tra il bene dell'individuo e il bene comune, il governo della Ragione, l'impegno di professare la verità, la bellezza e la gioia di vivere: tali valori non possono più essere sostenuti in modo sincero e coerente. Sebbene riconosciud nell'ambito àéì'ideologia, essi sono quotidianamente contraddetti da quella stessa civiltà che, per la prima volta nella storia, potrebbe veramente realizzarli - e tale situazione storica, la possibilità tecnica della realizzazione dei valori, conferisce alla contraddizione tra l'ideologia e la realtà una forma del tutto nuova. Non è più possibile preservare i valori tradizionali nella forma parziale nella quale sono stati trasmessi alla società industriale durante la sua fase di ascesa: in quanto valori spirituali, sollevati al di sopra delle condizioni materiali di esistenza, ma al tempo stesso (e proprio in virtù della loro supe102
riorità) contenuti e rinchiusi all'interno dell'individuo. Il velo ideologico è divenuto troppo sottile: la razionalità tecnologica ha fatto il suo lavoro. La povertà, la miseria, la fragilità, che altre volte hanno giustificato ogni restrizione della felicità e della libertà umana, non appaiono più oggi, con troppa evidenza, come l'inesorabile destino della società umana. In altri termini: la povertà e la miseria non appaiono piìi imposte da un livello tecnologico precario, dalle esigenze di una natura non ancora sottomessa, ma come una mera necessità politica e sociale. La società nega i propri valori, nella misura in cui nega, allontana la possibilità della loro realizzazione. D'altra parte, coloro che annettono ufficialmente la cultura alla politica, alla religione, all'educazione, non possono abbandonare i valori tradizionali, considerati fattori indispensabili di coesione sociale. Ne risulta un conflitto acuto tra la vecchia ideologia e la realtà - un conflitto talmente acuto da sfidare ogni tentativo di riconciliazione filosofica o morale, e che corrompe la stessa idea di ideologia (vi abbiamo fatto riferimento in precedenza). Lungi però dall'ostacolare o addirittura dall'impedite l'organizzazione degli individui in difesa della loro società, il conflitto vi offre un movente psicologico. Fintanto che sanno e sentono che la pubblicità non ha bisogno di essere vera o corretta, e nondimeno se ne lasciano guidare, gli individui accettano la contraddizione e la integrano tra le proprie strutture psichiche. Mescolando in modo armonioso, e spesso quasi impercettibile, l'arte con la politica, la religione, la filosofia, i mass media riducono tali ambiti della cultura al loro comune denominatore, proprio della società contemporanea: al valore di scambio. L'universale mercificazione rivela sino a che punto la cultura superiore sia divenuta parte dell'insieme dei beni confortevoli in commercio, delle merci di cui la società ha bisogno. Mostra però anche in che misura essa sia una cultura del passato pronta a scomparire^". Più i suoi nobili motivi sono ripresi da tutti i leader, i predicatori, i filosofi, più fuoriescono dagli schermi, dalle radio, dai palcoscenici, più divengono rumori privi di senso - salvo che in un contesto generale di propaganda, di affari o di "rilassamento". Il loro contenuto e il loro significato di un tempo sono spariti, e sono spariti in un duplice senso: in prima istanza, il progresso della civiltà industriale ha superato le condizioni tecniche e politiche prevalenti al tempo in cui tali motivi si sono sviluppati - così che i limiti rigorosi e ideali che li definivano non sono più validi. D'altra parte, la 103
modalità con la quale gli elementi della cultura superiore condannavano le forme repressive della società, trascendendole, oggi non può pili esprimere né la condanna né la trascendenza. Nella cultura pre-industriale, il termine "spirito" aveva un senso del tutto specifico. Esso era inteso come un fermento della società, come espressione della memoria del "tempo perduto", e della speranza nel tempo ritrovato, e soprattutto come il Gran Rifiuto, la rivolta contro tutto ciò che vi è di inumano. Lo spirito, la protesta intellettuale e artistica, religiosa, del passato e del presente in nome del futuro, sembra ormai inaccessibile. Lo sforzo volto a ritrovarlo esige una dissociazione, un'alienazione dallo stato di cose costituito, che è sempre piti difficile da realizzarsi. Le opere dello spirito non conformistico sono in misura crescente incorporate in questo stato di cose, e servono ad ornarlo e a psicoanalizzarlo. Esse si accordano con quelle "commerciali"^^. I difensori neoconservatori della "cultura di massa" hanno ridicolizzato le proteste levatesi contro l'utilizzo di Bach come "sottofondo musicale" della cucina, o contro la vendita di Platone e di Marx nei supermercati. Auspicherebbero che, invece di criticare, si riconoscesse il fatto che in tal modo la gente è semplicemente più colta. Il punto è però che la popolarizzazione delle opere dell'alta cultura altera la loro verità, poiché cancella l'alienazione, che costituiva la dimensione di quella verità - cancella la loro opposizione allo stato di cose costituito. In quanto funzione dell'opera, il contenuto ha subito un mutamento radicale - quasi un rovesciamento! La contraddizione è eliminata. Una tendenza affine si ritrova nell'ambito delle comunicazioni di massa a carattere politico. Quando la stampa liberale schiaccia i suoi editoriali sotto enormi titoloni, vendendo dal sesso al poliziesco, e si ricopre di pubblicità, allora i suoi articoli critici si riconciliano perfettamente col loro opposto, con l'oggetto della critica. Di pili: nella misura in cui gli eccitanti titoli a caratteri cubitali e la pubblicità rappresentano la condizione di esistenza della stampa di opinione, la critica rafforza il medesimo sistema che essa fustiga: l'una corre in aiuto all'altro! Nondimeno, il mutamento della funzione della cultura è esso stesso un mutamento storico: le forze che alimentano il deterioramento della cultura di massa si fondano sulla struttura dinamica della civiltà industriale avanzata, e sembrano prospettare la transizione a una fase nuova (e superiore?) della civiltà. 104
Col progresso della realtà tecnica in direzione di un piii compiuto dominio dell'alienazione, le forme e le immagini dell'alienazione cosciente vengono meno. Esse offrono, una volta che il progresso si sia arrestato, un'esistenza artificiale, sintetica. La realtà tecnica ridefinisce le possibilità dell'umanità, il suo passato e il suo futuro, e queste non trovano più espressione nell'alta cultura tradizionale, la quale è divenuta obsoleta, non perché fosse falsa, ma perché la sua verità esige ora altre modalità di espressione e realizzazione. Nella cultura a buon mercato dei nostri giorni, la realtà tecnica afferma i suoi diritti sulla cultura pre-tecnica. La finalità della cultura è ridefinita da capo, secondo i nuovi mezzi che ne consentono la realizzazione. Nel corso del progresso in direzione della meccanizzazione totale e dell'abolizione del lavoro repressivo, le immagini idealizzate della felicità e della libertà sono divenute false. Un atteggiamento di confortevole indifferenza sembra costituire la risposta legittima a tali immagini. Oggi la gente è necessariamente impegnata nell'uso efficace della realtà tecnica, e proprio questa costituisce la condizione preliminare della libertà e della felicità. L'alta cultura era, in forza del suo stesso contenuto, pre-tecnica e ostile alla tecnica: da qui scaturivano la sua verità e i suoi limiti. Ciò si manifesta nello "stile" di questa cultura: le sue parole-chiave e le sue forme esprimono un mondo essenzialmente pre-tecnico (come la prosa o il verso classici e romantici, l'estetica pura, i valori non funzionali, la dimensione metafisica della filosofia e della stessa scienza). È lo stile nel quale il mondo di tutti i giorni è fatto ancora di valli e di foreste, di nobili e di villani, di saloni e di corti. Risuona, nel suo verso e nella sua prosa, il ritmo della vita di uomini che potevano passeggiare, viaggiare in carrozza, e avevano il tempo e il bisogno di contemplare e raccontare. Certo, la grande maggioranza del popolo non aveva modo di penetrare in questo mondo, ma esso esisteva, ed era là. La cultura era quella di un'esigua minoranza di privilegiati, e là risiedeva la verità. Sono innumerevoli i problemi propri di questa cultura che, con la trasformazione della società preindustriale nella società industriale, sono venuti meno, sottomessi alla razionalità tecnologica e politica, divenuti risolvibili nel quadro tecnico e politico. Lo sviluppo li ha privati di ciò che ne costituiva la verità, il valore e la ragion d'essere - del contenuto ideale che trascendeva la realtà costituita. Nella società industriale avanzata, all'opposto, è stata la realtà a sopravanzare tale contenuto. L'ha 105
superato però solo sul piano della possibilità reale ma bloccata. È questa situazione che genera le tendenze, gli atteggiamenti di pensiero e di comportamento di cui stiamo discutendo. Prima di tentarne una valutazione, mi propongo di seguirne brevemente le tracce nell'ambito della politica contemporanea. Le rivendicazioni e le aspirazioni trascendenti sono soppresse. Il pensiero operativo e a una dimensione non riconosce altro da ciò che è dato dall'esperienza, e che può essere costruito nel contesto di esperienza dato. Questo è ciò che è, U suo opposto è niente - non ha senso. Tuttavia, ciò che nella filosofia scientifica si presenta come una proposizione corretta, inoffensiva, ragionevole e razionale, come la stessa logica del pensiero, si carica, nella realtà che fornisce la materia del pensiero filosofico, di un contenuto politico. "Ciò che è", sono le istituzioni, i poteri dati: sono questi che hanno definito il senso della libertà, e la filosofia non fa che riprodurne la definizione. Operando in tal senso, la filosofia è davvero empirica e scientifica, in quanto elimina, esclude dal dominio del pensiero ciò che non esiste - il contrario di ciò che è. Il contrario non è però il niente, è potenzialità. La svalutazione della potenzialità è caratteristica della coscienza a una dimensione, e, ben al di là della sua formulazione filosofica, coinvolge la coscienza ordinaria. Le potenzialità non esistono! si sa, naturalmente. Si tratta, come ho detto, di una coscienza non storica, anti-storica, per quanto si preoccupi della storia. La sua allergia nei confronti del concetto delle determinanti storiche, dell'idea di leggi storiche, è parte della grande lotta contro un avvenire qualitativamente diverso, contro le potenzialità che costituiscono la negazione determinata dello stato di cose costituito. Bisogna notare infatti che quello di "leggi storiche" è stato, in larga parte, un concetto proprio della critica-. le determinanti della storia erano identificate con le forze che spingono i gruppi e le istituzioni sociali al di là e al di fuori dello status quo - verso uno stadio superiore della civiltà. È, questo, un determinismo del progresso, della liberazione, della negazione dello status quo (Gli Spengler e i Toynbee non fanno eccezione: la loro concezione delle leggi storiche respinge ugualmente il concetto di negazione determinata; la loro filosofia della storia è radicalmente anti-dialettica). Certo, la coscienza a una dimensione riconosce le potenzialità qualitative, ma solo in quanto astratte, utopiche, irrazionali, irragionevoli. La realtà tecnica tende a rigettare 106
ogni potenzialità che non sia essa stessa tecnica, cioè che non possa tradursi in una pratica all'interno di questa realtà (una realtà, lo ripetiamo, politica, in quanto tecnica). Essa non tollera le potenzialità trascendenti che all'interno della ricerca accademica, non vincolante - o in quanto sogno, nevrosi, proposito di svago, di edificazione, ricreazione. La svalutazione delle potenzialità si sbarazza così di uno dei tratti principali della civiltà pre-tecnica: dell'idealismo in quanto forza reale della cultura e della politica. Il termine è funzionale a designare la molteplicità dei processi e delle espressioni (intellettuali, emozionali, morali, estetici) che delineavano la condizione umana come condizione tragica, e che facevano della realizzazione dell'uomo un ideale tragico. La situazione nella quale la lotta per l'esistenza aveva luogo appare come l'arena nella quale si affermavano le forze altre, estranee, trascendentali. Quella dell'esistenza era una lotta col dio, col destino, col demonio, con l'assoluto - concepiti come forze esistenziali, appartenenti alla stessa realtà umana. In virtii di tale dimensione, essenzialmente inaccessibile a ogni sorta di tecnica, di operazionismo, la realtà umana (dell'uomo e della natura) era in se stessa trascendente. E, nella misura in cui la dimensione altra era parte àéì^esperienza, e penetrava nel mondo reale, questo stesso mondo era trasfigurato: recava in sé un resto, un nucleo irriducibile - l'elemento vitale dell'arte, della filosofia, della religione. Per la civiltà pre-tecnica, r"altra" realtà è "nella" realtà empirica, ma ne è essenzialmente diversa. L'altra realtà è nell'uomo e nella natura, ma non è fatta di materia fisica, e non è neppure interamente una materia sociale e politica. I "simboli" maggiormente rappresentativi di questo "nucleo irriducibile" della realtà sono forse parole e immagini quali l'Anima, lo Spirito {Geist), il cuore; la donna-fanciulla; i laghi, le foreste, le valli; la patria in quanto Heimat (e non Vaterlandl)-, la notte e la morte; la ricerca dell'assoluto; la "purezza" dell'amore e del pensiero; la Pace eterna; la Grecia e le cattedrali, ma anche I Fiori del Male-, U demone dell'alcool, della macchina, del denaro. La semplice sequenza di questi simboli (che erano simboli propri dell'esperienza) tradisce sino a che punto sono divenuti "impossibili", consumati, privi di senso, e persino ridicoli. Per l'alta cultura della civiltà pre-industriale, quella circoscritta da tali simboli costituiva una dimensione di verità - molto diversa dalla verità della realtà empirica, nondimeno una verità. (Faccio uso qui dei termini 107
"pre-industriale" e "pre-tecnico" non solo in senso cronologico. I tratti culturali che ho appena delineato persistono nella civiltà industriale del XIX e anche del XX secolo. Il "pre" si riferisce piuttosto a modi di esperienza, a immagini e valori che hanno perso il contenuto e la funzione storica che possedevano in precedenza - il che non vuol dire che nella civiltà industriale siano "svaniti"). Nella società industriale avanzata, la dimensione della trascendenza è progressivamente "erosa" dalla razionalità tecnologica. Con tutta evidenza, la trasformazione tecnica della realtà implica la trasformazione spirituale, dei suoi simboli, delle sue immagini, delle sue idee. Con tutta evidenza, quando grandi città, autostrade e parchi nazionali sostituiscono i villaggi, le vallate e le foreste; quando i motoscafi sfrecciano nei laghi e gli aerei nel cielo, tali regioni perdono il loro antico contenuto simbolico, la loro differenza qualitativa e il loro carattere di contraddizione. Illustrerò in seguito i mezzi con i quali lo sviluppo tecnologico respinge o assorbe, quasi nella sua interezza, la dimensione tragica e romantica. Al momento voglio solamente notare che già Hegel ha parlato di "morte dell'arte", sostenendo che essa diviene obsoleta^^. In ogni caso, si descrive il mutamento in modo inesatto quando si dice che uno stile culturale è rimpiazzato da un altro, che l'arte, la letteratura, ecc., acquistano un nuovo contenuto. È piuttosto da chiedersi se il prolungamento della loro esistenza non costituisca un'illusione o persino una menzogna. Molte delle loro produzioni attuali devono la loro esistenza a un'eredità che non è piìi valida: sembrano essere prive di una loro necessità, ripetizioni, "rifacimenti" , variazioni artificiali, mentre altre sono semplicemente prodotti di manifattura conformi al mercato manipolato. Vi sono, tuttavia, opere del tutto differenti, opere dell'arte contemporanea, credo, veramente di avanguardia. Esse non parlano più la lingua della "continuità culturale"; sembrano contraddirla, ma la preservano, in una forma nuova, proprio perché la contraddicono. Il loro linguaggio distrugge il linguaggio assorbito dallo stato di cose costituito, e in forza di tale distruzione esplode, o può esplodere, una potenzialità qualitativamente diversa. E ciò accade, ad esempio, nella musica di ArnoldSchònberg, secondo le parole di Stefan George: "Sento l'aria di altri pianeti". Il pensiero a una dimensione non può però esprimere la promessa (e il terrore) dell'"altra realtà": esso è affrancato dai problemi della trascendenza. È questa incapacità e libertà che rimanda ai lineamenti rivoluzionari della realtà tecnica. 108
Nel momento in cui annulla la "seconda dimensione" della realtà, la realtà tecnica riduce la dimensione della trascendenza a parte di un mondo la cui sostanza non è altra dalla propria. Il progresso della razionalità tecnologica "realizza" non solo la metafisica, ma anche gli elementi metafisici, tragici e ideali insiti nello stile dell'alta cultura tradizionale - e "realizza", in tal modo, questa stessa cultura. La grandezza e il fascino di questo stile, il rispetto sistematicamente conservato nei suoi confronti, hanno ancora la forza di contestare l'opinione secondo la quale esso avrebbe perso ogni validità. Nondimeno, alcuni esempi mostreranno forse sino a che punto gli antichi ideali, i conflitti tragici, i sogni e le paure sono inficiati dalla realtà tecnica. Una volta integrati in tale realtà, gli ideali e i conflitti mutano di contenuto: grazie alle nuove pratiche, essi divengono suscettibili di essere risolti e dissolti nella stessa realtà tecnica. Ciò che in altri tempi dischiudeva la celebre tragedia dell'amore e della fedeltà (o dell'infedeltà) appare oggi come l'espressione di una "personalità nevrotica", e lo psichiatra o il pastore, o "la società", possono provvedere alla soluzione del problema. Degli effetti devastanti della sifilide, dell'alcool, della miseria (un tempo manifestazioni di forze naturali, sovrannaturali o sociali, manifestazioni fatali di forze irrazionali e invincibili) si occupano oggi l'assistente sociale (il sodai worker), la comunità, la polizia, il governo. Allo sfruttamento si oppongono le potenti confederazioni sindacali. I magnati della finanza, gli avventurieri del grande capitale, i tiranni e gli eroi hanno perso i loro tratti demoniaci: insieme con le loro vittime appaiono puntualmente d'avanti ai tribunali; contribuiscono al benessere nazionale, e, così come le loro vittime, possono solo raramente esibire le loro amanti, mettere in vendita le loro donne, o maltrattare i loro bambini. Una burocrazia razionalmente organizzata, per di più ampiamente sotto il controllo pubblico, amministra razionalmente l'ingiustizia e la disuguaglianza. UAnima non ha piii molti segreti, né desideri che non possano essere discussi e analizzati in modo razionale, misurati statisticamente e esaminati quantitativamente dai ricercatori dell' "opinione pubblica". La solitudine, la condizione dalla quale sorsero e attinsero la loro forza le idee e le emozioni trascendenti, è divenuta pressocché impossibile. L'analisi logica e linguistica dimostra che i vecchi problemi metafisici sono problemi illusori. La ricerca di un "senso" delle cose può riformularsi nella ricerca del 109
senso delle parole, e l'universo costituito del discorso e del comportamento fornisce i criteri per la risposta. Malgrado gli aspetti ripugnanti, l'intero sviluppo lascia intravedere le tendenze rivoluzionarie e veramente progressive della realtà tecnica. Il suo carattere progressivo consisterebbe nel sottomettere le forze repressive in precedenza incontrollate - senza impoverire l'esistenza umana né assoggettarla a nuove forme di repressione nell'avere la meglio, in altri termini, sul "cattivo idealismo", l'idealismo proprio di una fase storica arretrata e immatura. Le tendenze alla liberazione sono però oggi corrotte e pervertite dalle istituzioni e dalle condizioni dello status quo. La conquista della trascendenza risulta così non solo incompiuta, ma illusoria e persino regressiva. Proverò ad illustrare una simile ambiguità con un altro esempio.
V Nell'universo a una dimensione che racchiude l'agire e il pensiero dell'uomo si affermano i tratti comuni alla civiltà industriale avanzata. In occidente, come all'Est, lo sviluppo deUa produttività nel quadro delle istituzioni costituite segna il denominatore comune di ogni procedura portatrice di validità^^. Certo, in entrambi i casi si esige, si persegue il progresso e il miglioramento, ma questo significa realizzare, in più e in meglio, ciò che già è. Si nutre la speranza che la differenza qualitativa giunga con lo sviluppo non antagonistico della quantità, con l'aumento della produttività. Lo scarto tra il "valore" in quanto termine filosofico e il valore come termine economico risulta colmato: l'operazionismo li definisce entrambi nei termini di una efficace produttività - e della sua ricompensa. In realtà, la differenza tra il lavoro produttivo e il lavoro non produttivo si offusca sempre di più. Le definizioni tradizionali crollano. Se si intende per lavoro produttivo quello che produce plusvalore, allora la quasi totalità del lavoro è divenuta produttiva: persino i dirigenticapitalisti sono impiegati salariati, e il loro salario esorbitante non preclude il profitto delle grandi corporations. Nell'ambito della letteratura marxista, si è avanzata la tesi che, nella fase contemporanea del capitalismo, il costo della pubblicità sia da considerare un investimento indispensabile alla creazione di plusvalore, parte delle spese produttive. Se per lavoro socialmente produttivo si intende il lavoro nel110
l'ambito della produzione materiale, allora nella società industriale avanzata, il settore produttivo, rispetto a quello non produttivo, si contrae. Negli Stati Uniti, nel 1957, "per la prima volta nella storia del paese il numero degli occupati nella produzione di beni è stato inferiore a quello degli occupati negli altri settori: nell'amministrazione, nel commercio, nella manutenzione, nella finanza, nei servizi pubblici e nei trasporti"^"*. Se fosse accompagnata dall'espansione del tempo libero, da un lato, e, dall'altro, dalla crescita dei servizi pubblici, la contrazione del settore della produttività materiale sarebbe il segno di un progresso qualitativo. In realtà, il tempo guadagnato rimane oggi assoggettato alle esigenze dell'apparato produttivo, mentre le attività nel settore non produttivo, nel moltiplicarsi, appaiono sempre più parassitarie. Al tempo stesso, le si pratica con un esprit de serieux che mal si adatta al loro carattere ampiamente meccanico e ripetitivo. Attraverso le macchine e i servizi che legano la vita privata al lavoro sociale, questa forma di attività si estende alle occupazioni dello svago e della casa, allo sport, alle conferenze e ai congressi. L'esistenza umana sembra riempirsi di cerimoniali e di pratiche rituali. Poco importa che queste siano socialmente necessarie (e abbiamo sottolineato in che misure rientrino tra le spese indispensabili di produzione), la loro forma sembra tradire il carattere irrazionale della loro necessità. Di sicuro l'irrazionalità ha qui un senso che trascende ogni definizione in termini di efficacia e appare, di conseguenza, come un non senso. Il non senso tuttavia è visibile, nei "gesti" della gente impegnata nella routine necessaria. Per tutta la durata della pratica routinaria, le facoltà umane sembrano essere escluse o quanto meno sospese. Non vi è bisogno di uno sforzo autentico - né fisico né mentale. Tali pratiche sono costituite in larga misura dai movimenti standardizzati di una macchina - macchina in senso fisico, o in senso figurato (politico, economico, domestico). L'elemento di non senso, di irrazionalità, è precisamente l'elemento umano ritualizzato ancora prevalente: risiede nel fatto che pratiche oggettivamente meccaniche e inumane costituiscono l'esistenza degli esseri umani. La crescita dell'apparato meccanico ha prolungato il tempo alienato: le vecchie forme di lavoro alienato sono sostituite da nuove occupazioni alienate, che si estendono al tempo dello svago. Se sosteniamo che tali occupazioni sono irrazionali è perché contraddicono il proprio scopo: nel sottomettere l'esistenza umana al meccanismo, arrestano il progresso tecnico. L'irra111
zionalità conferisce alle pratiche non produttive un carattere magico-. la loro sembra una "celebrazione", più che un'esecuzione. Persino il cinismo che vi si trova mescolato (la coscienza felice delle contraddizioni all'interno di tale realtà) rafforza il carattere magico e rituale dell'esistenza: a dispetto della loro irrazionalità, le pratiche quotidiane raggiungono il loro fine; dare di che vivere. Gli elementi magici penetrano attraverso la sfera della comunicazione. Quello che la gente parla, intende e legge è un linguaggio rituale, che trasmette agli individui le esigenze dell'apparato e suggerisce di accettarle senza riflessione né ragionamento. Nella misura in cui gli individui si identificano con l'apparato, il linguaggio assume una qualità magica. La comunicazione realizzata dai mass media ha un'efficacia pressoché automatica: si pensa, si desidera, si agisce "collettivamente", mediante le parole e le immagini della propaganda. E un linguaggio autoritario, in quanto non consente lo sviluppo dell'espressione non conformistica: la sua funzione oggettiva consiste piuttosto nel fissare l'universo di discorso, stabilizzare e "congelare", al suo interno, il significato di ogni termine e frase. È l'aspetto pratico della filosofia analitica dell'operazionismo: confinate nell'universo operativo, l'unico che può attestarne la vahdità, le proposizioni tendono alla tautologia, e il contenuto dei concetti universali si riduce a quello di un insieme particolare di fatti e di rapporti dati. Prima di illustrare tale tendenza, occorre porre in contrasto col suo modo di comunicazione quello che essa sta distruggendo. La funzione apofantica del linguaggio - che consiste nello scoprire ed esibire non solo ciò che è, ma anche ciò che può essere declina. E uno sviluppo fondamentale nella storia della civiltà occidentale: il linguaggio non è più l'espressione del Logos, non vive piti nel Logos che ha rappresentato il progetto originale del pensiero occidentale. Il linguaggio, cioè, oggi non vive piti nella tensione tra essenza e fatto, tra il virtuale e l'attuale, tra il vero e il falso. Mi propongo di esaminare in seguito il Logos apofantico, che per me costituisce la logica centrale della tradizione del pensiero filosofico. Basterà, qui, fornire alcune indicazioni preliminari. Il Logos apofantico genera un linguaggio a due dimensioni', le parole sono in movimento; il loro significato oscilla tra l'essenza e il fatto, in quanto comprende contemporaneamente il virtuale e l'attuale. La logica apofantica (che culmina nella logica dialettica) è la scienza dei rapporti che vigono tra le due dimensioni della realtà e 112
del discorso: è, al di là di ogni formalizzazione, una logica sostanziale, contenutistica. E tale contenuto è una realtà nella quale ogni dato e ogni rapporto particolare si trascende. Nella forma pura di comunicazione apofantica, il significato dei termini rimane in larga parte indefinito, ambiguo, aperto. Essi dispongono di un orizzonte libero: sono parte di un universo di significato che non si riempie che gradualmente, nel corso del processo della comunicazione. La proposizione sviluppa il suo contenuto, lo progetta. Il soggetto e il predicato rimangono a distanza; la predicazione non stabilisce mai un'identità semplice: è dinamica, in sé incompleta. Si assume che l'ascoltatore o il lettore cui la comunicazione si rivolge avverta l'apertura di orizzonte e viva in questo universo aperto. In questo senso egli è "libero": deve andare al di là di ciò che gli è dato, come colui che parla o scrive va al di là del quadro iniziale dei suoi termini. Questi hanno significati molteplici: i loro rapporti devono stabilirsi nel processo della comunicazione, che è il processo dell'oggetto da definire, del contenuto, der Sache selbst (della cosa stessa). Ora, nel periodo contemporaneo, il Logos a due dimensioni e il suo universo aperto tendono a soccombere, dinnanzi al sistema della comunicazione a una dimensione. Abbiamo indicato le conseguenze della chiusura dell'universo di discorso: essa blocca la trascendenza; stabilizza il significato; la struttura e il vocabolario subiscono una rigida contrazione. Ciò si manifesta nella tendenza a "congelare" il movimento della proposizione: la frase impressa sui cartelloni pubblicitari arresta lo sviluppo del soggetto attraverso i suoi predicati, o fissa l'identità del soggetto e del predicato. La copula appare come un'equazione; la proposizione si trasforma in tautologia. "Libero", ad esempio, è il predicato da attribuirsi alle istituzioni e ai rapporti costituiti; la libertà è quella incarnata dall'attuale organizzazione dell'esistenza umana - ogni definizione che trascenda tale contesto risulta sovversiva, utopica o priva di senso. Il concetto universale - funzione della trascendenza, nell'ambito del Logos apofantico - si dissolve nel concetto delle verità di fatto. Sul piano lessicale, la contrazione si realizza mediante l'uso delle parole raccomandate dai mass media, che recidono la dimensione della trascendenza. Le parole-chiave, che nell'universo del Logos apofantico dischiudevano tale dimensione, nella misura in cui si riferivano a condizioni di esistenza non conformistiche, le parole "traili
scendenti", divengono quelle dei cartelloni pubblicitari che raccomandano l'esistenza conformistica. Questa rimane l'unica dimensione. Felicità e dolore, sogno, amore, romanzo, tragico e comico possono servire come esempi di "parole della trascendenza" che la comunicazione e la circolazione di massa ridefinisce, e le ridefinisce in senso contrario. Le condizioni designate dalle parole della trascendenza non sono più sperimentate come catastrofici "punti-chiave" o "istantichiave" che sfondano lo stato di cose costituito - sono, all'opposto, armonizzate con questo. Il conformismo rende felici; la mancanza di conformismo infelici; ciò di cui si ha il sogno può essere raggiunto, a patto che si pensi e si agisca razionalmente. Le possibilità della trascendenza si trasformano in possibilità dell'adattamento: nella ricompensa della rinuncia al sogno, o nel supplizio che attende la perseveranza nel sogno. Occorre notare che tale ridefinizione in un senso opposto a quello originario costituisce un'impresa metodica, che è parte essenziale della politica e dell'amministrazione. Lo prova la rigidità dell'autocensura, del codice "morale" fissato da Hollywood, del codice linguistico della stampa, nonché l'impiego della "psicologia scientifica" nell'industria e nel commercio. Il significato è fisso: l'universo del discorso è bloccato a tal punto che non possono piti rinvenirsi parole veramente in grado di aprirsi un varco attraverso l'universo chiuso della comunicazione. Questa è per l'arte, per la letteratura, una situazione fatale; il linguaggio positivo assorbe la negazione, e il surrealismo fa da ornamento alla pubblicità. Ne consegue la perdita del significato, mentre il linguaggio della significazione sussiste: si continua a impiegare le parole, ma il senso che esse esprimevano in precedenza non esiste pitf^. Si dirà, ad esempio, "pluralistica" una società nella quale sono in competizione innumerevoli gruppi e interessi diversi, esistono differenti giornali, reti televisive, chiese, e vi è concorrenza tra differenti elite economiche e politiche - la definizione omette però (il fatto decisivo!) che solo gli elementi preventivamente determinati e unificati possono effettivamente prendere parte alla competizione. Si dirà "democratico" un governo che risulti dal voto popolare a suffragio universale - il discorso non tiene conto del fatto che anche i candidati reali sono già determinati e unificati. Conta solo che la parola o la scrittura siano valide sul piano pragmatico, efficaci nel114
l'amministrazione e nell'organizzazione degli uomini. Nel quadro a una dimensione dell'operazionismo, le proposizioni pragmatiche sono le uniche vere. Esse designano ciò che accade, o che si fa in modo che accada, e nient'altro; sono definizioni "comportamentistiche". Rimane il tanfo di disonestà e imbroglio, ma esso non può niente contro i fatti costituiti. I popoli sono resi immuni. In questa fase, la "bomba pulita"^^ è veramente un termine tecnico: le persone capaci di parlare e di accettare il linguaggio della "bomba pulita" sono immuni da tutto - e disposte a tutto. Hanno abbattuto i piiì potenti bastioni della fragilità dell'uomo: la coscienza e la riflessione. Sono la razza più sana, più forte - il "superuomo" di Nietzsche non è che una pallida immagine di ciò di cui esse sono capaci. Chiarisco i tratti caratteristici di questa espressione. "Bomba pulita" potrebbe alludere a una bomba lucente, ben lucidata, ripulita. Anche così, però, l'idea è problematica, a causa della connotazione morale che rimane legata al "pulito" - nel senso di "puro", integro. Soprattutto, sarà "pulita" una bomba che risponde alle aspettative: efficacemente distruttiva durante le operazioni, e solo allora^^. Come tale, essa serve a distruggere non coloro che la producono o la collaudano, né quanti si trovano a vivere nelle vicinanze del luogo di origine, ma solamente gli altri: il nemico. Il contesto operazionale tiene insieme igiene, morale e liquidazione della vita (l'aspetto nuovo in questa unità è quello tecnologico, che tende a rimuovere la differenza essenziale tra la guerra e la pace, tra militare e civile, tra stato di eccezione e situazione ordinaria). La formula "bomba pulita" attesta in che modo la tecnica risolva la contraddizione (in questo caso, la contraddizione tra moralità e distruzione di massa, tra l'igiene e la morte). E la "perdita del significato" che rende possibile l'efficace espressione linguistica^®. Solo la totale perdita di significato può giustificare l'assunto che non è stato il "mondo libero" a rimandare la realizzazione della sua promessa. La propaganda, tuttavia, risulta efficace solo in quanto l'individuo che la subisce crede di essere "se stesso", di poter essere se stesso alla catena di montaggio, in ufficio, sotto le armi, ecc, oppure crede di essere e poter essere se stesso almeno alla fine della giornata lavorativa, quando giustamente riceve quanto la stampa, le reti e i canali (il miracolo del linguaggio rivela la verità!) hanno deciso di propinargli. E il contenuto operativo della "libertà" e del "sé" - ogni altro modo è privo di significato, poiché trascenderebbe lU
l'universo operazionale del discorso. E in questo universo depurato si sviluppa la coscienza felice. Infelice è, secondo Hegel, la "coscienza divisa", nella consapevolezza^^ che essa ha della divisione. Essa è cosciente della contraddizione tra realtà e potenzialità, tra il suo agire e il suo sapere; è, nello stesso tempo, se stessa e "al di là di sé"; è il dolore dell'esistenza e la fuga da tale dolore. La coscienza infelice è la coscienza sulla soglia della Ragione; essa supera la sua sofferenza nel momento in cui l'uomo riconosce che il mondo oggettivo è il suo mondo, l'opera del suo lavoro, ed esiste in quanto se stesso nel mondo. Prima di aver raggiunto tale stato, l'uomo "soffre" i propri oggetti; il suo mondo gli rimane un mondo estraneo. È questa la coscienza pre-tecnica. Nella realtà tecnica, il soggetto non si rapporta più a altro oggetto che a se stesso; è faccia a faccia con la propria razionalità; non ha altre potenzialità che quelle che è in grado di realizzare. Il suo "al di là di sé" non ne costituisce più l'essenza trascendentale, ma l'essenza storica; e la sua coscienza, liberata da una divisione irreparabile, sembrerebbe non essere più la Coscienza Infelice. In realtà, però, è l'infelicità che ha la meglio; abbiamo parlato sopra di un'esistenza "schizofrenica". L'infelicità non riguarda principalmente l'inconscio, ma è in larga misura cosciente. La società la trasforma però in una infelicità particolare e privata; l'idea che essa sia un elemento costitutivo del tutto, una condizione oggettiva del mondo, è stata rigettata, e sta perdendo di significato. In Hegel, l'infelicità designa una condizione tanto ontologica quanto storica; come tale, non viene semplicemente soppressa dal progresso storico. Persino nel momento della riconciliazione, la Ragione conserva la sofferenza delle fasi precedenti, in quanto auf gehoben-. la memoria, per Hegel, è un fattore reale della storia. La Coscienza Infelice, dunque, non è un'infelicità personale e privata; in quanto coscienza della vita divisa dell'insieme, essa è il movimento stesso dell'insieme. E, come tale, l'infelicità consapevole è tanto teoria che pratica, e congiunge la vita privata con la vita pubblica, il pensiero con la politica. La Coscienza Infelice è una coscienza universale. Ora, l'idea di una coscienza universale rientra tra i concetti ostracizzati dal pensiero scientifico operativo, in quanto non è verificabile. Essa implica che l'esistenza degli individui sia costituita da un "universale", che appare loro come una potenza indipendente; la Società, lo Stato, la 116
Civiltà {Ohjektiver Geist). L'Universale (o piuttosto il modo in cui esso determina gli individui) opera in ogni coscienza individuale, ma è più della somma e del totale delle coscienze individuali: è il corpo c lo spirito delle istituzioni che danno forma all'esistenza degli individui e li pongono in rapporto gli uni con gli altri. Ho utilizzato l'espressione "coscienza felice" per designare quello che mi sembra un tratto distintivo della civiltà industriale contemporanea - ovvero la tendenza a fare della felicità uno dei meccanismi operativi che assicurano la coesione della società costituita. Tutto accade come se i conflitti "oggettivi", l'infelicità universale che nasce dall'esistenza schizofrenica, fossero disturbi personali, oggetto di trattamento psichiatrico, mentre nella "normalità" la coscienza non divisa guida la condotta dell'individuo nella sua società. L'educazione anti-sentimentale, che trasforma l'infelicità oggettiva in disturbo personale genera la coscienza felice, pronta a rigettare le idee che trascendono il dato. Essa è pronta dunque ad accogliere le definizioni operative come le sole "reali". In quanto "falsa coscienza", la Coscienza Felice deve fondarsi su una solida base, non solo nella struttura sociale, ma anche nella struttura psichica individuale, che risulta dalla modificazione della dinamica delle pulsioni. E la tendenza che mi propongo di illustrare mediante l'esame di alcuni elementi significativi che caratterizzano la sublimazione all'interno della realtà tecnica. Non tutto il tempo trascorso con gli strumenti meccanici è tempo del lavoro alienato-, né tutto il tempo "salvato" dalla macchina è tempo di lavoro, di fatica. La meccanizzazione ha ugualmente risparmiato libido, l'energia delle pulsioni vitali; le ha precluso,^ in altri termini, modalità di realizzazione in precedenza accessibili. E il nucleo di verità nel contrasto romantico tra il viaggiatore e il poeta o l'artigiano vagabondo, tra la catena di montaggio e l'abilità manuale, tra la cittadina e la metropoli, tra il pane prodotto in grandi quantità e il pane casereccio, tra la barca a vela e il motoscafo. Senza dubbio il mondo pre-tecnico era pieno di miseria, di fatica, di sudiciume, che, da parte loro, penetravano in ogni piacere e gioia. Nondimeno, vi era un "paesaggio", un'atmosfera favorevole all'esperienza libidica, che non esiste piìi. Con la loro scomparsa (che ha costituito una condizione necessaria del progresso), un'intera dimensione di attività e passività dell'uomo è risultata de-erotizzata. L'ambiente dal quale l'individuo poteva ricavare piacere, che 117
egli poteva "investire" come un medium corporeo, quasi una zona, un prolungamento del suo corpo, risulta drasticamente contratto. In modo analogo si riduce, di conseguenza, la catessi del desiderio. Ne risulta una localizzazione e una contrazione della libido - l'esperienza e la soddisfazione erotica è ridotta a un'esperienza e una soddisfazione sessuale. Confrontate, ad esempio, l'esperienza amorosa (di Madame Bovary) nella foresta, e la corrispondente esperienza all'interno di un'automobile; o una passeggiata di innamorati fuori città e nella Quinta Strada. Nel primo caso l'ambiente partecipa della catessi libidica, che tende a "erotizzare" l'ambiente come un prolungamento del corpo. Di contro, un ambiente meccanizzato sembra bloccare una tale trascendenza, un simile prolungamento della libido. Quest'ultima, impedita nel suo sforzo di espandere lo spazio della soddisfazione, è sempre meno capace di trascendere l'ambito particolare della sessualità. Nel momento in cui contrae l'energia erotica, e intensifica l'energia sessuale, la realtà tecnica riduce la capacità di sublimare, l'universo della sublimazione. Sono forse qui le radici pulsionali del suo autoritarismo: la desublimazione abbassa la tensione nell'apparato psichico; reca, di conseguenza, soddisfazione, e facilita l'accettazione "spontanea" delle condizioni che la rendono possibile. Tuttavia, in quanto blocca lo sforzo di estendere la soddisfazione dei bisogni e delle facoltà erotiche, la desublimazione lavora a favore dello status quo della repressione, piuttosto che contro di esso. E stato spesso rilevato che la civiltà industriale avanzata opera con un grado elevato di libertà sessuale - vi "opera" nel senso che tale libertà diviene un valore di mercato, propagandato sui cartelloni pubblicitari, e pertanto un fattore di coesione sociale. Senza cessare di essere uno strumento di lavoro, il corpo ottiene il permesso di fare mostra dei suoi tratti sessuali nel mondo del lavoro quotidiano, e nei rapporti di lavoro. E questa una delle caratteristiche della società industriale contemporanea, resa possibile dalla vittoria sul lavoro fisico, sporco e penoso, dalla disponibilità di abiti seducenti e a buon mercato, di prodotti per le cure di bellezza, l'igiene del corpo, dalle esigenze dell'industria pubblicitaria, ecc. La segretaria e la commessa seducente, il giovane direttore e il caporeparto elegantemente virile sono prodotti richiesti sul mercato. La morale sessuale è veramente più liberale che nella fase precedente della civiltà. Il "funzionalismo", fattosi arte, favorisce tale tendenza. Negozi e uffi118
ci si aprono in grandi vetrate e mostrano il loro personale; all'interno, i banconi alti e le pareti opache stanno scomparendo. Gli appartamenti e le abitazioni suburbane eliminano le barriere che un tempo proteggevano la vita privata e il suo contrasto con la vita pubblica. E una "socializzazione" non opposta, ma complementare all'espulsione dell'energia erotica dall'ambiente; l'assimilazione della sessualità a una società alienata indebolisce i bisogni pulsionali, invece di rafforzarli, e li rende così suscettibili di una soddisfazione controllata. Il progresso tecnico e la vita maggiormente confortevole consentono un'inclusione sistematica di componenti pulsionali nel dominio della produzione e dello scambio; per quanto, però, il controllo sulla mobilitazione dell'energia pulsionale sia profondo (spingendosi talora sino al trattamento scientifico della libido), per quanto possa sostenere lo status quo, agli individui la mobilitazione risulta piacevole. Ciò rende conto forse di molta della sottomissione volontaria, dell'assenza di terrore, dell'armonia prestabilita tra l'individuo e i desideri, gli scopi, le esigenze manifestate dalla società. La conquista sociale e politica delle forze trascendenti, caratteristica della società industriale avanzata, si afferma qui nella sfera pulsionale. La desublimazione è repressiva nella misura in cui indebolisce (o distrugge, persino) i bisogni trascendenti delle pulsioni vitali (erotiche), la cui soddisfazione si conserva nelle forme sublimate della libido. La sublimazione, certo, esprime sempre il conflitto tra lo sviluppo pulsionale e quello culturale - la barriera sociale opposta alla soddisfazione delle pulsioni. Essa costituisce però ugualmente un mezzo per trascendere la barriera, per ricongiungere i bisogni pulsionali e intellettuali, e soddisfarli. La sublimazione non è repressiva in sé - è in grado, come tale, di trascendere le forme costituite della libertà e dell'oppressione. Lì dove si risolve nel libero gioco delle facoltà dell'uomo (ad esempio nelle forme più libere del sogno artistico), essa gioca ugualmente con le possibilità della libertà. L'intelligenza espande l'universo delle facoltà pulsionali. Una tale sublimazione non abolisce l'alienazione, ma ne fa una forza liberatrice: utilizza gli ostacoli frapposti alla soddisfazione non sublimata come mezzo per recuperarla ad un livello superiore - per pervenire alla "seconda immediatezza", nella quale la pulsione e l'intelligenza (l'intelletto) sono ricongiunti. L'intelletto può sicuramente divenire nocivo per una società 119
che, sul piano del progresso tecnico, si è spinta sino a un livello di produttività al quale il lavoro e la rinuncia non costituiscono piìi una necessità tecnologica^ ma rimangono ancora una necessità politica. La situazione deve alimentare tendenze anti-intellettualistiche, e qui la desublimazione può fornire le armi per la lotta contro l'intelligenza. In questa lotta, l'arma più efficace non è il controllo dell'intelligenza da parte del governo, del partito, del mercato manipolato, ecc., ma l'acquiescenza e la sottomissione volontaria al pensiero a una dimensione. La desublimazione penetra nel processo stesso dell'intelligenza, e distrugge la "mediazione" e l'alienazione, che costituiscono gli elementi vitali del pensiero e del comportamento critico. L'immediatezza conformistica della sessualità non sublimata, pubblicizzata, si estende dall'industria dello spettacolo alla letteratura. Si confronti la sessualità del Romanzo Nero di Baudelaire, di Zola, ecc., con quella dei best-sellers contemporanei, e della pseudoavanguardia. La prima trascende, accusa, scuote dal torpore; la seconda adorna, satura e assolve lo stato di cose vigente. Alla luce della funzione trascendente che l'intelligenza assolve nel processo della sublimazione, la desublimazione, che sembra oggi avere la meglio, rivela i suoi tratti realmente negativi e conformistici. La maggiore libertà della morale sessuale (e dell'aggressività!) ha come conseguenza che le spinte pulsionali si liberano dei processi intellettuali portatori di turbamento - tali in quanto mettono in chiaro la negatività dell'universo costituito della felicità e generano così la tristezza e la malinconia. La liberazione della sfera pulsionale rispetto a quella intellettuale rappresenta al tempo stesso un impoverimento delle pulsioni - un impoverimento della felicità e della soddisfazione, dal momento che la realizzazione dei bisogni e delle facoltà pulsionali dipende da processi intellettuali in grado di guidarli al di là delle forme false di una felicità socialmente manipolata e riconosciuta. Abbiamo detto in precedenza che la società industriale avanzata consente una liberazione sia della morale sessuale sia della morale aggressiva - dell'aggressività. Ciò concorderebbe con l'idea freudiana riguardo il quantum determinato di energia pulsionale destinato ad essere ripartito tra le "pulsioni fondamentali", le pulsioni di vita e quella di morte. Secondo Freud, il rafforzamento della sessualità (libido) implicherebbe necessariamente l'indebolimento dell'aggressività, e viceversa. Ciò che vale per l'individuo dovrebbe applicarsi, mutatis mutandis, anche alla società che è composta da indivi120
dui: se la struttura psichica qui indicata è veramente caratteristica di una specifica fase della civiltà, occorre allora che essa si presenti in un gran numero di individui. La società dovrebbe allora presentare la medesima struttura, ovvero una misura elevata di libertà sessuale istituzionalizzata e di aggressività istituzionalizzata. Ciò è possibile, in termini freudiani, solo se la libertà sessuale costituisce in realtà non un rafforzamento di Eros, ma una condensazione dell'energia sessuale - un processo di soppressione e repressione. Su questo poggia la nostra ipotesi. Vi è, inoltre, una rilevante differenza tra la sessualità liberalizzata e l'aggressività liberata: quest'ultima risulta istituzionalizzata, organizzata, utilizzata ad un livello più elevato e di maggiore razionalizzazione - come parte della politica nazionale, della difesa. Qui, dunque, la realtà tecnica segna un mutamento qualitativo: gli strumenti di aggressione si sono lasciati alle spalle il loro uso e il loro controllo individuali. Sono stati "socializzati" e sono divenuti, in questa forma, una delle istituzioni fondamentali della civiltà industriale avanzata. Va da sé che l'aggressività può essere realmente costruttiva: lo attesta l'aggressività tecnologica incanalata nella lotta contro la malattia e la morte, ecc.
VI Voglio ora provare a ricostruire il modo di pensiero che costituisce il vero antagonista del pensiero a una dimensione. L'ho denominato (seguendo la terminologia di Aristotele e di Husserl), Logos apofantico, e alcune delle sue proprietà sono comparse più di una volta nelle conferenze precedenti. Mi ripropongo qui di riassumerne i caratteri, per far risaltare come esso sia una forza storica, incisiva ma spesso sotterranea - culminante nella logica dialettica. Ho sostenuto che l'universo di discorso nel quale il Logos apofantico originariamente si sviluppa riflette una realtà essenzialmente /^re-tecnica, una fase, cioè, in cui l'uomo non ha ancora progettato la realtà come un insieme di strumenti e di operazioni "neutrali". La realtà pre-tecnica è anche caratterizzata da una reificazione del tutto trasparente. Attraverso gli oggetti e i rapporti oggettivi che compongono il suo ambiente, il soggetto incontra ancora altri soggetti, in quanto artefici di questo ambiente o in quanto loro vittime. Gli 121
individui non sono ancora divenuti funzioni di un apparato governato da una razionalità "anonima". Parallelamente, la Natura rimane un cosmo dal carattere sostanziale, fissato nelle sue cause finali. E un mondo arretrato, ma a pivi dimensioni, essenzialmente diverse, le cui potenzialità non sono ancora state esplorate né definite dal progresso tecnico, dalla tecnologia. E, in questo senso, un mondo "aperto": la conquista della natura e quella dell'uomo sono ancora da compiersi; i missili telecomandati, la psicologia industriale, il management scientifico, le camere a gas, sono ancora da venire. Sono però ugualmente da venire il divieto del lavoro infantile, la settimana di quaranta ore, la sicurezza sociale, il miglioramento della vita e del lavoro. Tali realizzazioni esistono solo in quanto momenti e elementi dell'ideale romantico o utopico, dell'ideologia. La bidimensionalità di cui abbiamo parlato a piìi riprese è lo "stile" del Logos apofantico: nel suo lessico di base, esso trascende la realtà verso la possibilità. Rimane così legato alla situazione originaria del pensiero filosofico: il soggetto del pensiero - vale a dire il filosofo aveva di fronte una realtà empirica che negava le possibilità concepite dal pensiero. Questa realtà appariva di conseguenza falsa, o quantomeno incompiuta; e la verità ne costituiva l'antagonista. Alla pretesa di questa realtà, di essere la realtà, il pensiero doveva opporre il proprio rifiuto. Era necessario che il pensiero si dissociasse dai fatti, per divenire paradossale, irrealistico - astratto. L'astrazione è la vita stessa del pensiero, il segno della sua autenticità. Nessuno pensa realmente, se non astrae da ciò che è dato, se non opera la distinzione tra i fatti e le loro possibilità, e se non può vedere la differenza tra le possibilità "logiche" e quelle "reali". Il pensiero è astratto in quanto trascendente, in quanto va al di là dei fatti. L'astrazione è però un processo storico-, e la direzione nella quale essa procede non è libera. La percezione delle possibilità che guida l'astrazione è sempre parte di un progetto specifico, concepito da un individuo nel quadro della sua società e contro di essa. Il progetto teorico si basa su un'esperienza fondamentale, che è l'esperienza di un mondo storico, organizzato secondo gli interessi dominanti - interessi di classe, dello stato, della nazione. Nel trascendere i limiti propri di questi interessi, l'astrazione filosofica giunge ^universale, o concetto - nella costruzione dei concetti trascendenti i limiti storici però sopravvivono. Si può dire, certo, che ciò che è vero, lo è sempre stato e lo sarà sempre. Se la materia è veramente quella descritta dal122
la fisica atomica, allora quest'ultima sarebbe stata la vera scienza fisica anche nell'antichità classica, come ai nostri giorni. iVé'//'antichità classica, ma non per essa: quella civiltà non era infatti una realtà tecnica, e le astrazioni condotte in questa direzione sono rimaste isolate e volte all'insuccesso. D pensiero astratto opera sempre in un universo storico di discorso e di azione, ed è impegnato in questo universo, anche quando Io trascende o lo rifiuta. L'impegno può essere consapevole e metodico - come nel pensiero classico, nel quale la ricerca (e la realizzazione) della verità dipende dall'esistenza degli schiavi e dei demiurghi. La dissociazione filosofica corrispondeva a una dissociazione istituzionale, alla liberazione del filosofo rispetto all'intero mondo del lavoro e alla lotta per l'esistenza: era questa la condizione infelice che permetteva alla filosofia di elaborare e di "salvare" le idee della verità, della libertà, della giustizia, di collocarle al di sopra e al di là di una realtà falsa, asservita e ingiusta. All'interno di tale "purezza", che ha caratterizzato l'idea di Ragione a partire da Platone, si è sviluppato il pensiero. L'idealismo, critico o assoluto, ha segnato il destino della filosofia occidentale, nella sua tradizione principale. Le stesse scienze fisiche rendevano omaggio a tale idealismo, nella misura in cui astraevano da tutto ciò che non poteva divenire oggetto di pura osservazione, misurazione e convenzione - pressappoco dall'intera esistenza dell'uomo. La verità filosofica e scientifica era al riparo dalle calamità dell'esistenza: il pensiero le abbandonava al potere dei fatti e al linguaggio dei fatti. La protesta contro le inumane astrazioni della Ragione pura ha alimentato la critica esistenzialistica, a partire dagli attacchi di Jacobi e di Herder contro Kant, e di Kierkegaard contro Hegel. Sembra però che essa abbia rimpiazzato un falso astratto con un falso concreto. L'idea di fondare la filosofia sull'individuo concreto nella pienezza della sua esistenza costituiva ugualmente un'astrazione, un'ideologia. In realtà, l'individuo era "universalizzato" ad opera della sua società. Il concreto era questo universale. Se le sue astrazioni subiscono il rimprovero di inumanità, il pensiero è nella sua stessa natura astratto - è la negazione del cattivo concreto. L'empirismo che abbandona i concetti astratti per delle definizioni operative, cioè verificabili nei termini dello stato di cose costituito, priva il pensiero della sua funzione terapeutica, quella di favorire la liberazione di ciò che è da ciò che esso è. Il fatto di pensare sembra legato in modo essenziale alla sofferenza: nell'anda123
re al di là della realtà, in direzione della verità trascendente, il pensiero esprime il "disagio della civiltà", e porta testimonianza della miseria, della carenza, dell'angoscia. E qui forse che occorre cercare le radici più profonde dell'anti-intellettualismo. Colui che pensa veramente, in modo che pensare sia la sua vera professione, possiede il privilegio di partecipare di un mondo differente (forse migliore!); in virtù di tale privilegio, egli conosce la disperazione e le aspirazioni represse. Il pensiero trascendente che si tiene realmente nella sofferenza dell'esistenza oppone costantemente la realtà alla possibilità, la non verità alla verità. Se solo segue il suo intento critico, un tale pensiero mostra i dati come in sé incompleti, come manifestazioni di una potenzialità qualitativamente diversa. Tutto il pensiero filosofico reca in sé un elemento "idealistico": le stesse possibilità pili reali appaiono sin da principio nel pensiero e in esso solamente; la forza negativa che va al di là dei fatti è sin da principio la forza del pensiero trascendente. II materialismo presuppone l'idealismo, in quanto ne è la verità. Il materialismo continua a rappresentare la verità dell'idealismo - se la trascendenza teorica dei dati non accenna alla trascendenza pratica, il pensiero e la coscienza perdono il loro contenuto. L'idealismo ha in sé la propria negazione. Idee quali la Ragione, la Libertà, il Buono, il Bello sono idee negative, nel senso dialettico del termine: la loro definizione implica la denunzia dei rispettivi opposti, che regnano nella realtà empirica. L'idealismo trasforma, certo, la miseria storica in condizione ontologica, e, con tale "inversione ontologica", arresta la dialettica. In questa forma, però, la forza negativa del pensiero è rimasta parte integrante del Logos apofantico e del suo universo di discorso. Oggi tale universo sembra dissolversi completamente, e la forza negativa del pensiero soccombere all'affermazione totale. In queste condizioni occorre porre nuovamente l'accento sulle tendenze del Logos apofantico, delle quali partecipa la stessa inversione ontologica. Nella filosofia idealistica, la conversione dei fatti empirici in essenze ontologiche si è prodotta in diverse forme. La correlazione platonica tra le classi sociali della città e i tipi della natura umana; la presentazione di specifiche istituzioni sociali come proprie di una "legge di natura"; la definizione della libertà umana quale libertà interiore sono esempi di una tale costruzione concettuale. Essa consente di elevare ciò che è (di fatto) al rango e alla dignità di ciò che 124
deve essere, in quanto costituisce l'essei^za dell'uomo. La trasfigurazione può però compiersi solo se gli enunciati ontologici rivestono una validità universale, e pongono una verità universale. Nell'esistenza particolare di ogni essere umano individuale il pensiero considera perciò il genere stesso, "l'uomo in quanto uomo". Il concetto universale, quale quello di "genere" {genus), stabilisce un ideale, col quale le ineguaglianze e le imperfezioni empiriche si elevano e si annullano nella verità dell'essenza. Se l'enunciato ontologico è vero, se, ad esempio, l'uomo in quanto uomo è libero, se lo Stato è la realtà della Ragione, se la proprietà costituisce l'affermazione dell'individuo, allora la copula "è" cela un desideratum, un "dovrebbe". Di conseguenza, la proposizione ontologica implica una critica dello stato di cose nel quale tali condizioni (la libertà, la Ragione, la Proprietà) non sono universali. Consideriamo l'enunciato: "tutti gli uomini sono nati uguali; essi hanno ricevuto dal loro creatore alcuni diritti inalienabili, tra i quali il diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità'"*". Notate la forma assoluta, categorica dell'enunciato S-p: essa è caratteristica degli enunciati fondamentali del Logos apofantico. E però illusoria, in quanto dissimula il fatto che la negazione è parte del senso stesso della proposizione: nella realtà gli uomini non sono tutti uguali, né possono godere tutti dei loro diritti inalienabili; lo stato non è la Ragione, ecc. Sebbene formulato nella forma categorica S-p (o proprio per questo), l'enunciato pone una contraddizione. Talvolta, ma assai raramente, la contraddizione è formulata esplicitamente, come afferma Rousseau: "l'uomo è nato libero, e dappertutto è in c a t e n e I l contrasto metodico della forma S-p con la propria contraddizione rivela la forza critica del Logos apofantico: è lo stile rivoluzionario che troviamo, ad esempio, in Marx. Peraltro, il discorso apofantico rimane idealistico: l'enunciato non pone semplicemente un fatto, ma piuttosto un ideale, la necessità di produrre un fatto. L'enunciato potrebbe dunque leggersi così: tutti gli uomini dovrebbero essere uguali, dovrebbero essere liberi, ecc. Non lo sono, per quanto dovrebbero esserlo, e agli occhi di Dio lo siano. Da Platone a Hegel, si trova qui, nella tensione tra r"è" e il "dovrebbe essere", il centro vitale del Logos apofantico. Nessuno dei suoi enunciati fondamentali significa semplicemente e puramente ciò che esso esprime, ciò che dice. Significa sempre qualcosa d'altro, e il suo significato integrale non si costituisce se non nell'insie125
me del contesto. Quest'ultimo fa sì che l'enunciato categorico implichi la negazione di ciò che afferma. Le definizioni urtano contro altre definizioni prodotte dal contesto. Nello sviluppo del pensiero filosofico dalle sue origini classiche, questo movimento al fondo del Logos apofantico è stato oscurato e sospeso; solo la logica di Hegel 10 ha riafferrato, recuperando i motivi originari della filosofia. Già nella fase classica del suo sviluppo, la logica dovette soccombere davanti alla tendenza volta ad arrestare il movimento dialettico del pensiero. Nella sua formalizzazione trionfa la spinta antidialettica, come attesta VOrganon aristotelico. Qui il concetto sostanziale presente nella Metafisica è sostituito dal concetto sillogistico - un concetto formale che una qualunque lettera dell'alfabeto può designare"*^. Nel termine sillogistico "uomo" tutti gli uomini sono posti come uguali - uguali, però, formalmente, "simbolicamente". L'uguaglianza e l'universalità proprie del termine logico sono fattori indifferenti, che nessuna ineguaglianza empirica o sostanziale è in grado di intaccare. La formalizzazione prevale sulla contraddizione: il pensiero "puro" può dominarla o rimuoverla. In questa prospettiva, la logica simbolica e matematica dei nostri tempi appare come il punto culminante della logica tradizionale, più che come 11 suo rovesciamento. Il pensiero si muove all'interno della propria forma, nella quale esso basta a se stesso, mentre l'intero contenuto diviene a-logico. E l'indifferenza che il pensiero conserva nei confronti dei suoi oggetti - sia che appartengano alla natura o alla società, essi risultano soggetti alle medesime leggi di organizzazione, calcolo, trasformazione"'^. Un concetto e una proposizione, tuttavia, sono validi per chiunque o per qualunque cosa-, la loro validità universale partecipa del mondo soggettivo-oggettivo nel quale sono formulati. Le proposizioni pure della logica non fànno eccezione: poiché sono le proposizioni più astratte, esse si rapportano alla situazione umana più generale e "comune" - ossia alla "forma pura" del mondo soggettivo-oggettivo. Questa si definisce però ancora in forza del contenuto di cui ha operato la formalizzazione. La stessa idea di logica formale è un fatto storico: essa costituisce uno dei primi passi della teoria sulla lunga strada che conduce al controllo e alla calcolabilità universale. Nel corso di questa impresa, il pensiero dovette creare l'armonia teorica a partire dalla discordia reale, depurarsi dalle contraddizioni, stabilire le unità identificabili nel complesso processo della realtà. Nelle 126
logiche aristotelica, trascendentale e simbolica i metodi del procedimento logico sono profondamente diversi. Nondimeno, alle spalle di tutte le differenze vi è la comune astrazione rispetto alla storia; vi è la soluzione formale delle contraddizioni reali. Prima che il pensiero (e la pratica!) potessero adattarsi alle esigenze della realtà tecnica, e l'uomo e la natura sorgere come oggetti di un controllo e di una caicolabilità universali, occorreva che il pensiero fosse assorbito nella logica"''' e reso suscettibile di generalizzazione formale. Le qualità che si lasciavano organizzare in un sistema generale di controllo furono separate da quelle che si opponevano ad una tale organizzazione. L'unione che la metafisica aveva stabilito tra il concetto universale e l'essenza, tra l'idea e l'ideale, tra la logica, l'etica e l'estetica, era incrinata. La tensione tra l'universale e il particolare (tra i rispettivi concetti) veniva meno nella distinzione formale tra le "categorie" e le nozioni meno generali. Le unità "reali" del pensiero - i concetti, le proposizioni - dovevano essere ridotte alla loro forma "pura" per divenire "termini" ugualmente calcolabili e maneggevoli. L'ultima tappa è raggiunta nel momento in cui la logica diviene matematica, e il pensiero si orienta secondo il metodo delle scienze fasiche - e delle forme tecnologiche del controllo sociale, del management scientifico. A questo punto, la teoria è arrivata a dominare l'opposizione di mondo soggettivo e mondo oggettivo - così come la società tecnica l'ha dominata nella realtà. Il denominatore comune è la tecnicità. Nella teoria gli atomi del pensiero sono suscettibili di un'organizzazione totale - come lo sono, nella società, gli atomi umani. Occorre insistere sul carattere "progressivo" di tale sviluppo. La formalizzazione del pensiero, la generalizzazione e il livellamento logico costituivano la condizione preliminare del progetto tecnico, e, di conseguenza, della conquista della natura e della penuria. Si deve però ugualmente porre l'accento sul costo di tale sviluppo. Per le leggi del pensiero, la logica ha preteso la validità universale. E certo, se essa non mirasse all'universalità, il pensiero si ridurrebbe a qualcosa di "privato", privo di forza vincolante; non sarebbe in grado di comprendere la minima parte della realtà. Il pensiero è sempre più e altro che il pensiero dell'individuo: il contenuto ideale trascende il contenuto psicologico. E però ugualmente vero che il significato sovra-individuale, l'universalità di un concetto, non è mai una universalità puramente formale: essa si costituisce piuttosto nella relazione reciproca tra i soggetti (pensanti e agenti) e il loro mon127
do. La trascendenza logica è anche una trascendenza sociologica, ma la eccede, verso una universalità più elevata e generale - verso la possibilità dell'uomo in quanto uomo. Non è necessario fornire una dimostrazione della trascendenza sociologica. Essa apparirà in modo chiaro se considereremo le "parole-chiave" del Logos apofantico, cioè i concetti più generali, i concetti ultimi dell'universo del discorso filosofico in un periodo specifico. Ad esempio l'Idea, e in particolare l'Idea del bene in Platone; la gerarchia dei modi di essere in Aristotele; l'accordo di legge divina, legge umana e legge naturale in S. Tommaso; le due sostanze in Cartesio; il concetto di Ragione e di Libertà nell'idealismo tedesco. Si definisce, in queste idee, un progetto storico dell'esistenza umana e della natura - il contenuto di un'esigenza e di un impegno sodale''^. Insieme con i suoi nuovi concetti, e per mezzo di questi, la teoria progetta una nuova pratica e nuove istituzioni. Spesso il progetto storico è legato in modo esplicito ed essenziale ai concetti più astratti della teoria: la repubblica filosofico-autoritaria di Platone; la trasformazione tecnica del mondo con Cartesio; la "negazione determinata" della rivoluzione francese in Kant e in Hegel. Spesso il progetto storico appare solo come "sottoprodotto" della teoria, o come una dimensione marginale assai remota rispetto ai concetti filosofici fondamentali. In questo caso, solo il contesto e lo "stile" del pensiero rivelano, all'interno del Logos apofantico, l'immagine della prati- ca. Ho sottolineato il carattere ambiguo dei suoi enunciati fondamentali: l'idea che si definisce e si sviluppa nell'enunciato è anche Videale, che non è ancora un fatto. La forma categorica contiene così la negazione; l'enunciato è "giudizio" nel senso giuridico della parola: esso chiama in causa, in un procedimento di accusa, i fatti. Questi sono posti in questione, condotti dinnanzi al tribunale della Ragione (al tempo stesso pratica e teorica). Di conseguenza, per il Logos apofantico i giudizi di fatto non sono significativi se non nella misura in cui si riferiscono a fatti veramente controversi e problematici - a rapporti che non si lasciano definire per mezzo dell'evidenza immediata, in termini di accordo generale, convenzione, ecc. Nella Scienza della logica Hegel ha ridicolizzato coloro che illustrano le forme del pensiero mediante proposizioni come "la rosa è rossa" o "il tavolo è tondo". Ha affermato che simili enunciati non possono affatto illuminare il movimento del pensiero, poiché si mantengono al di fuori e al di sotto della dimensione che ne è propria. 128
Proposizioni siffatte occultano dunque il vero contenuto della forma S-p. Nei due enunciati, "la rosa è rossa" e "l'uomo è libero", la forma è assolutamente la stessa. Nondimeno, solo H secondo esprime il processo del giudizio, nel quale il "fatto" (la libertà dell'uomo) si rivela come il movimento della "cosa stessa" (l'uomo). Il vero contenuto logico della forma S-p costituisce la negazione del principio di identità. L'uomo in quanto fatto esistente non è l'uomo in quanto fatto essenziale: è l'oltrepassamento di un fatto verso l'altro - un processo catastrofico, nella misura in cui il fatto esistente (l'asservimento dell'uomo) si oppone alla propria possibilità di trascendenza. In questo senso, la realtà, in quanto insieme di fatti dati e fissi, è "falsa", e il pensiero deve entrare in contraddizione con i fatti. Il principio di identità è il principio della contraddizione. E solo attraverso la negazione del suo stato costituito che la realtà diviene ciò che è (in potenza e in essenza). Ed è solo definendo le contraddizioni reali che il pensiero può comprendere e mutare la realtà. Ho richiamato la nota concezione della dialettica hegeliana unicamente per dimostrare in che misura essa sia parte della tradizione critica del Logos apofantico. Occorre notare che la Logica di Hegel costituisce quasi interamente una parafrasi della metafisica aristotelica. La lacerazione ontologica; l'esperienza della realtà empirica in quanto realtà "falsa" che aspira alla propria verità, il movimento del pensiero nella tensione tra realtà e potenzialità: è questa l'esperienza fondamentale da cui scaturisce la filosofia classica così come quella hegeliana. L'astrazione e la trascendenza del pensiero vanno al di là dei fatti: non però nel vuoto, e l'oltrepassamento non è meramente arbitrario, speculativo, formale. Ho affermato che le astrazioni del pensiero filosofico sono sempre astrazioni "sociologiche", nel senso che la verità e i concetti universali risultanti dall'astrazione costituiscono sempre un'universalità specifica e "materiale", che comprende la situazione storica. Nel comprenderla, però, il pensiero la trascende. Non è necessario insistere ulteriormente sul contenuto sociologico del pensiero astratto. E più opportuno sottolineare come il pensiero trascenda anche tale contenuto. In verità, l'interpretazione sociologica del pensiero è falsa, se si arresta davanti alla propria negazione, se non coglie l'universalità sovra-sociologica che sorge nella società. Per delineare la base sulla quale quest'ultima universalità è in grado di svilupparsi, si può muovere da alcuni concetti fondamenta129
li di Marx. In quanto negazione determinata del capitalismo, l'esistenza del proletariato è la negazione "assoluta"; in quanto interesse di classe, l'interesse reale del proletariato è l'interesse generale dell'umanità; e la società senza classi deve realizzare il "genere" {genus) uomo. Non credo quindi che Marx parli con leggerezza quando afferma che il comunismo non segna la fine della storia, poiché costituisce ancora la realizzazione di una classe particolare nella lotta contro la società di classe. Vi è qualcosa come il genus uomo, il genere umano, l'uomo in quanto uomo, come atomon eidos. Vi è qualcosa come "la natura umana", l'uguaglianza e l'universalità umane - su queste idee la filosofia insiste da molto tempo prima del cristianesimo. Qui "natura umana" vuol dire che l'uomo (in quanto uomo) è dotato di facoltà specifiche che lo rendono capace di alienarsi dalle condizioni immediate della sua esistenza, di trascendere la sua realtà immediata, di comprenderla, di mutarla. Mutarla verso quale meta? Qui ci si imbatte nuovamente nel grande tabù. Certo, verso l'abolizione della miseria, della penuria, dell'oppressione. Questo costituisce, evidentemente, un giudizio di valore, privo di validità universale. La felicità non è una nozione scientifica. E qualcuno ha sostenuto che una certa dose di miseria e di oppressione rappresenti la condizione della stessa felicità - e dell'intera libertà dell'uomo. Il valore dell'esistenza può certo essere posto in questione. Ma se l'esistenza non appare come un valore in sé, se risulta separata dalla sua essenza, è perché essa non era immediatamente un'esistenza umana, perché era colma di miseria, distruzione, stupidità. L'esistenza umana si costituisce nella negazione dell'esistenza in quanto mero fatto - nella trascendenza deir"esser-ci" in direzione dell'essere in sé e per sé. La negazione primaria consiste nel prendere coscienza, e nell'inaugurate l'azione cosciente; è l'alienazione rispetto all'"esser-ci" e alla "natura immediata''. Ora, la prima alienazione si sviluppa nel quadro di una seconda alienazione: in relazione alla natura sociale, nella sottomissione dell'uomo agli strumenti del suo lavoro. In virtìi di questa duplice alienazione, l'uomo diviene il padrone della natura, della natura propria e della natura esterna. La duplice alienazione definisce il "genere" umano, l'essenza dell'uomo in quanto opera e risultato della sua storia. Nel corso della storia, egli ha creato le con dizioni, preliminari per la realizzazione del "genere" umano al di là di tutte le particolari determinazioni repressive. Se la storia ha creato le condizioni per 130
la realizzazione del "genere" umano, la società industriale avanzata segna lo stadio nel quale questa è divenuta una possibilità reale. La realizzazione della vera universalità esige non solo la pratica della negazione radicale, ma anche la sua teoria-, il pensiero quale forza negativa radicale. Ed ecco uno dei fatti più inquietanti dell'età contemporanea: constatiamo l'avvento di un modo di pensare che sembra sopprimere la trascendenza in direzione di tale possibilità. Il suo predominio sembra trasformare l'intera forza negativa del pensiero in una forza affermativa e conformistica. La trasformazione ha luogo nel quadro della società tecnica, e questa appare come la manifestazione della razionalità tecnologica, come l'incarnazione della Ragione stessa. Nelle aree maggiormente sviluppate del mondo occidentale, il Neopositivismo tende a divenire un vero e proprio Way oflife. Tutto è sottomesso all'evidenza dei fatti, definito nei termini delle operazioni eseguibili nel quadro delle condizioni e dei rapporti costituiti. Le realizzazioni del progresso tecnico, la Good life divengono strumenti di dominio. La stessa tecnicità serve a perpetuare e a consolidare l'asservimento dell'uomo ai mezzi del suo lavoro. Sono le tendenze repressive che trovano espressione nei tratti regressivi del pensiero neopositivistico. Fin tanto che è impiegata come strumento di dominio, la tecnicità determina - e esige - atteggiamenti, modi di agire e di pensare che perpetuano il dominio dell'uomo sull'uomo, la sua sottomissione ai mezzi del lavoro. Nel quadro delle istituzioni costituite, il miglioramento della vita presuppone la produzione e la distribuzione in serie, e, conseguentemente, la meccanizzazione e la standardizzazione delle funzioni, la coordinazione dei bisogni e delle aspirazioni - in una parola, l'amministrazione totale. E nella misura in cui accresce i bisogni e la loro soddisfazione, questa amministrazione lega a sé gli individui - crea una dipendenza reciproca, un'integrazione volontaria, un interesse comune che si oppone al mutamento qualitativo. In questo stadio della civiltà industriale troviamo un modo di comportamento e di pensiero, un universo di discorso e di azione del tutto differenti da quelli che caratterizzavano le fasi precedenti della civiltà. La realtà tecnica ha sviluppato un Logos tecnico, che appare come la negazione determinata del Logos apofantico. La tecnicità non è semplicemente un insieme di strumenti e di metodi all'opera in un settore particolare del mondo dell'uomo; comprende 131
piuttosto, nella fase contemporanea della storia, la realtà intera; è una nuova esperienza del mondo, un nuovo "progetto" dell'esistenza. Ho definito il nuovo Logos come un comportamento e un pensiero a una dimensione. Intendo con ciò un modo di pensare e di agire per il quale le idee, i valori e le aspirazioni che, per il loro contenuto, trascendono lo stato di cose costituito, sono ridotte nei termini di operazioni interne a questo quadro di cose. Menziono solo alcune tendenze indicative dell'unità e della portata del Logos a una dimensione: l'indebolimento dell'opposizione politica e del potenziale rivoluzionario nei paesi industriali sviluppati; la scomparsa, nel capitalismo organizzato, della libera concorrenza e della libera iniziativa individuale; la riduzione delle differenze tra i modi di lavoro (in particolare tra "colletti blu" e "colletti bianchi"); la "cultura di massa"; il neopositivismo e l'operazionismo filosofico; la logica simbolica. Credo che tutte queste tendenze materiali e intellettuali abbiano un denominatore comune: l'integrazione delle forze negative all'interno dello stato di cose costituito. L'affermazione pare aver domato la negazione, sì che la realtà non esiga né consenta la trascendenza in direzione di condizioni qualitativamente diverse. La lotta filosofica contro la trascendenza intellettuale, contro il contenuto sostanziale dei concetti universali, contro la metafisica e il razionalismo, trova la sua base materiale nelle capacità della realtà tecnica. Questa sembra davvero in grado di realizzare tutte le possibilità che in precedenza apparivano come "trascendenti" e "metafisiche" - di trasformare i "valori" in bisogni soddisfatti. La rete delle operazioni tecniche e scientifiche che costituisce la società industriale sviluppata appare come l'unica dimensione nella quale le idee trascendenti della grande tradizione filosofica, "l'essenza" e la libertà dell'uomo in quanto essere-in-sè e per-sé, possono trovare la loro realizzazione. La negazione determinata, la trascendenza in direzione di una realtà qualitativamente diversa sembrano prive di senso. Il conflitto tra l'esistenza e l'essenza, il concetto stesso di essenza sembrano essere superati dalla realtà. La lacerazione ontologica perde il suo significato: l'ontologia è rimpiazzata dalla tecnologia. Il Logos apofantico, quale universo di discorso e di azione proprio di un civiltà pre-tecnica, soccombe dinnanzi a un comportamento e un pensiero profondamente conformistici, affermativi. E vero però che il comportamento e il pensiero a una dimensione costituiscono la negazione determinata del Logos apofantico? 232
Che il compimento della realtà tecnica abolisce il contenuto trascendente del pensiero e la necessità della trascendenza? Il Logos apofantico si muove all'interno della lacerazione ontologica, e questa esprime, con i suoi concetti negativi, la lacerazione reale che separa l'essenza dell'uomo dalla sua esistenza. Dispiegandosi in una filosofa idealistica e razionalistica, il Logos apofantico si dissociava dalla miseria reale e le sue forze negative si ritiravano nel pensiero puro. Esso, tuttavia, rimaneva un Logos a due dimensioni, che conservava l'opposizione della possibilità alla realtà, e che, di conseguenza, fissava nella contraddizione la "forma" stessa della ragione. Credo che sia superfluo sottolineare come la società non abbia ancora risolto la contraddizione. La negazione positivistica del Logos apofantico è, allora, storicamente regressiva, in quanto sostituisce alla trascendenza idealistica e razionalistica la sottomissione del pensiero a una realtà opprimente. La concretezza di questo pensiero è "falsa". Certo, la dialettica reale della storia sta trasformando dimensioni in precedenza trascendentali in dimensioni della pratica sociale. Vera negazione determinata della filosofia è però esclusivamente la pratica che trascende il dominio nelle sue forme più avanzate ed efficaci - la pratica che trascende la realizzazione repressiva della tecnicità. Essa esige un modo di pensiero che preservi la contraddizione come forza principale della ricerca della verità. Nelle lezioni precedenti'"' ho descritto il modello del pensiero e del comportamento a una dimensione che caratterizza il modo in cui l'uomo apprende la realtà tecnica e vi risponde. Sottolineo il termine "modello": non voglio dire che questa sia la sola risposta, o la pili adeguata alla realtà tecnica. La civiltà industriale sviluppata offre un'infinita varietà di atteggiamenti e di tipi, di stili e di forme di comportamento. Direi tuttavia che nella cultura materiale e intellettuale si afferma una tendenza all'unidimensionalità - non solo come una tendenza tra le altre, ma come il baricentro di quasi tutte le sfere di questa civiltà, sicché gli sforzi radicali di esprimere la negazione determinata dello stato di cose prevalente devono lottare disperatamente contro di essa. Tratto distintivo del modello è l'eliminazione, o la contrazione, dei "fattori trascendenti", cioè delle idee, dei valori, delle aspirazioni che contraddicono l'universo di discorso e di azione costituito. "Contraddire" è da intendersi qui non solo in senso logico, ma in riferimento a un'opposizione intellettuale e politica. (Occorre insi133
stere sul senso, rigorosamente storico e politico, del termine "trascendente": esso significa andare al di là dello stato di cose dato, della realtà, in direzione non di un ideale, di fini metafisici, o trascendentali, ma delle possibilità storiche proprie delle condizioni date; trascendere il reale in direzione della sua stessa realtà.) Nell'ambito della cultura materiale, la conquista della trascendenza si manifesta nella trasformazione industriale della realtà naturale in realtà tecnica, e questa va di pari passo con l'eliminazione dell'oggettività sostanziale della natura nella scienza fisica. Il metodo scientifico ha fornito, a sua volta, il modello della lotta filosofica contro la trascendenza, nella quale si sono ritrovate unite le scuole contemporanee del comportamentismo, dell'empirismo, e della logica simbolica. Una conquista che attiene meno al formalismo teorico e si spinge molto al di là di esso, sfociando nell'economia e nella politica della società industriale sviluppata, è data dal progresso economico realizzato attraverso l'integrazione e la manipolazione totali, quali trovano espressione politica nella sconfitta o nella conciliazione di gruppi e interessi sociali in precedenza opposti gli uni agli altri. Al momento vorrei delineare la conquista della trascendenza nella sfera della comunicazione. La disintegrazione della comunicazione ad opera del linguaggio dei cartelloni pubblicitari, della propaganda, dell'astuzia e dell'amministrazione costituisce uno dei fenomeni maggiormente caratteristici della civiltà industriale contemporanea. Conviene dunque, a mo' di introduzione, mettere da parte lo stile accademico. Agli esordi dell'età moderna è accaduto che un gruppo di uomini sia stato condannato a guadagnarsi da vivere realizzando utili, e abbia condannato gli altri a guadagnarsi la loro vita lavorando per coloro che realizzano gli utili. Per quanto riguarda il primo gruppo, il modo di produzione tende a sopprimere ogni differenza sostanziale tra condurre affari e barare, e in seguito, allorché "pompare le vendite" diviene indispensabile, tra verità e menzogna, senso e nonsenso. Nel momento in cui le spese, sempre crescenti, volte ad alimentare e sostenere vendite profittevoli, penetrano nella stessa struttura dell'economia e costituiscono una delle forze che la mantengono in movimento, la frode, il nonsenso e l'istupidimento divengono utili e razionali: servono a produrre e a vendere merci, necessarie e di lusso, materiali e culturali - e perpetuano così la vita dell'insieme della società. Ve ne può essere una più razionale? E m
quanto più la crescente produttività della civiltà industriale sembra in grado di fare a meno di questo genere di razionalità, tanto più diviene essenziale preservarlo. L'irrazionale appare razionale. La frase di Hegel - la quale risultava almeno in parte ironica, quando egli la enunciò - va incontro nel presente alla sua riformulazione adeguata: "Ciò che è irrazionale è reale; e ciò che è reale è irrazionale". Per tale società, la benedizione che la religione assicurava agli affari rappresentava il più potente sostegno ideologico. Nel momento in cui si è giunti a considerare l'attività e l'impegno redditizi accanto alle imposizioni della dura necessità - come un servizio e un omaggio a Dio, si sono sanzionate condizioni nelle quali la razionalità degli affari (dell'individuo e della nazione) offriva i criteri del bene e del male, del vero e del falso. Il punto di arrivo è l'irresistibile sindrome di industria, commercio, scienza, forze armate e chiesa - irresistibile in quanto regge la vita dell'insieme. Per quale ragione la si potrà criticare? Le idee umanistiche, i valori superiori, la felicità della vita sono precisamente i tesori difesi dall'alleanza degli uomini d'affari, dei generali, degli esperti e dei preti. Il fine giustifica i mezzi atomici. In tutte le sue sfere, la società industriale avanzata appare una società a una dimensione. Allo stesso modo, nella filosofia analitica contemporanea il senso delle parole è determinato dalla funzione assolta all'interno dell'universo di discorso dato, senza alcun riferimento a norme prime, mediante le quali tale universo potrebbe essere giudicato. Questo è, certo, empirismo scientifico, ma storicamente "prematuro", poiché il suo quadro concettuale risulta da una realtà empirica che è irrazionale - nei termini della sua stessa razionalità, della razionalità tecnologica - e non può quindi offrire alcun principio di razionalità. Tale realtà limita, rovescia, distrugge o spreca le sue risorse e la sua produttività intellettuale e materiale. Per il pensiero a una dimensione non vi sono però altre norme per determinare la verità e il significato, che quelle fornite dalla realtà tecnica: questa delimita l'universo vaUdo del discorso e del comportamento. La realtà tecnica è, però, nel suo insieme, una realtà politica, modellata, determinata dalle sue istituzioni specifiche. Nella misura in cui si sottomette alle norme di questa realtà come ai principi ultimi della definizione, la filosofia si piega a una realtà politica. Il contenuto politico è ampiamente occultato, e forse non si rivela affatto nelle 135
nozioni astratte della scienza matematica e fisica, ma è ben presente nella filosofa generale. Definire, ad esempio, il concetto di libertà nei termini delle sue operazioni effettive all'interno della realtà data significa sicuramente definirne il senso vero, il contenuto attuale.
NOTE ' Aggiunta: "Tutte queste forme particolari della libertà non possono realizzarsi che nella dimensione del tempo libero - l'unico segno distintivo di una società veramente libera. Ciò vuol dire che la libertà presuppone il rovesciamento del rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero: l'uomo è libero se il tempo libero è divenuto il principio e il contenuto stesso dell'esistenza (il concetto di tempo nell'opera di iWarx!)" [N.d.T.] . Il dattiloscritto marcusiano presenta qui una breve sezione poi cancellata e sostituita dal testo sopra presentato. La si riporta in particolare per il suo richiamo esplicito a un "totalitarismo tecnologico": "L'impero politico della razionalità tecnologica (si potrebbe parlare di un totalitarismo tecnologico) è responsabile di un ulteriore fenomeno, che è stato denominato "fine dell'ideologia". E uno dei principali problemi che affronterà la mia discussione. H o intenzione di esaminarlo nei termini di una unidimensionalità del pensiero e del comportamento" [N.d.C]. ' Il riferimento è al dibattito avviato negli anni Cinquanta da Daniel Bell, poi sfociato nella pubblicazione nel 1960 dell'omonimo volume (trad. it. ha fine dell'ideologia: il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta ad oggi, Milano, Sugarco, 1991) [N.d.C.]. " P. W. BRIDGMAN, The Logic of Modem Physics, Macmillan, New York 1928, p. 31 [trad. it., La logica della fisica moderna, Einaudi, Torino 1952; poi Boringhieri, Torino 1965, p. 45]. ' Ivi, p. 5 [it. pp. 24-25]. ^^ Il dattiloscritto contiene qui due passaggi, il primo dei quali è stato successivamente eliminato da Marcuse: "Ne risulta uno sforzo teso a neutralizzare tutte le tendenze orientate a liberare la parola, il pensiero e l'azione dalle catene di un contesto operativo repressivo. E la fusione dell'operazionismo pratico e di quello teorico in un unico modo di comportamento, che costituisce l'esistenza contemporanea in quanto esistenza a un solo livello, a una sola dimensione. Inutile dire che di ciò non è responsabile la dottrina operazionistica, o il metodo dell'analisi empirica. La pratica e la teoria del positivismo operazionistico trovano piuttosto la loro base comune nella realtà tecnica e nella razionalità tecnologica della società industriale avanzala, che sono al tempo stesso una realtà e una razionaUtàpolitica''. Il secondo
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passaggio è un'aggiunta manoscritta; "Esempi: Condillac/Helvetius Circolo di Vienna sensazione-, concreta, integrale percezione astratta " = sentimento il solo sguardo la felicità l'occhio come misura (delle tavole dei colori, dello spazio)" [N.d.C.]. ^ Aggiunta manoscritta: "Falsa coscienza: passività nel lavoro e nel tempo libero; protezione di massa; sicurezza; fede, fedeltà nell'amministrazione - il solo mondo possibile!" [N.d.T.]. ® Di seguito una breve sezione barrata da Marcuse: "Ciò significa però che il compimento della razionalità tecnologica presuppone un salto storico - una totale trasformazione e trasvalutazione. Un'esistenza umana liberata dalla necessità di consumarsi nell'acquisizione dei beni indispensabili per vivere, in un lavoro alienato, costituisce certo la "negazione determinata" della forma dominante di esistenza. Per questa nuova esistenza, la libertà coinciderebbe col libero gioco delle facoltà e dei bisogni umani, al di là del regno della necessità: il tempo libero costituirebbe la dimensione esistenziale dell'uomo. Nel regno del lavoro necessario, il pensiero individuale, l'autonomia e l'iniziativa sarebbero quelli propri dell'ingegnere, del tecnico, dell'esperto. In altri termini, il 'soggetto economico' tenderebbe a divenire l"io razionale' del metodo scientifico, la cui apparizione venne salutata agli esordi dell'età moderna come il trionfo della Ragione. Il mondo del lavoro alienato sarebbe realmente compreso, posseduto e dominato dal soggetto della ragione pura - pura in quanto libera da ogni comando esteriore, limitata esclusivamente dai confini della tecnologia e dai propri fini" [N.d.T.]. ^ Il riferimento è aU'opera del 1623 intitolata II Saggiatore, nel quale con la bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute della Libra, ora in Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale a c. di A. Favaro, Giunti-Barberi, Firenze 1968^ [N.d.C.]. Aggiunte manoscritte: "Lacerazione ontologica: ogni generazione ha in sé la privazione, attesta una privazione. E poiché la privazione è l'opposto, il contrario dell'essere, la generazione si compie in un processo dei contrari. Aristotele, Metafisica, 1033 a. Fisica, 191 a. La materia aspira alla forma (la dialettica si insedia nella dissociazione dell'unità magica)". E ancora; "Da discutere: verità e società; la nozione classica di verità: le cose divengono in realtà ciò che sono in potenza. Essenza (ousia) = causa finale - del fiore, dell'uomo, della società. Ma-, il divenire dell'essenza = nozione anti-storica - l'essenza come essere fisso, eterno (Platone?). Movimento-circolo\" [N.d.T.]. ' ' Appunto manoscritto: "E giusta tale concezione? Oppure l'idea classica della verità è piti avanzata di quella moderna? Connessione tra la verità e la società-. finché la società è fondata sul lavoro, la verità rimane o un privilegio o una mera "forma". 'ianzaì privilegio. Uguaglianza astratta ? verità astratta, universale. quale forma degli enunciati. Se tutti gli uomini sono soggetti al lavoro (alienato), non rimane, della verità, che un modo di parlare, organizzare, convenire - un modo di constatare, stabilire ciò che è, i fatti. 'Corrispondenza tra enunciato e realtà': il termine oggettivo è sempre ciò che è, mai la sua trascendenza" [N.d.T.]. ^^ Appunto manoscritto: "Ai nostri giorni, la civiltà è sul punto di guarire la
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schizofrenia! La guarisce però rimpiazzandola con una condizione ugualmente malata, per quanto più confortevole: con l'amnesia e lo stupore. La conquista della trascendenza guarirebbe la schizofrenia riducendo l'esistenza dell'uomo a un'unica dimensione" [N.d.T.]. " Passaggio eliminato: "Lo ripeto, la 'verità reale' appare come ciò che è allo stato puro, universale e permanente. Tuttavia, quella tra la realtà scientifica e 'l'altra realtà' non è più una differenza tra modi oggettivi dell'essere, tra corpi celesti e terreni, tra l'essere in movimento e l'essere immobile. Realmente oggettivo è solo l'ambito della verità scientifica - tutto il resto è soggettivo, e la verità non vi si può attribuire che in modo figurato, per analogiam, in termini di 'valori'" [N.d.T.]. " Cfr. ad es. A. KOYRÉ, Studi galileiani, Einaudi, Torino 1979 [N.d.C]. " V. QUINE, ¥rom a LogicaiPoint ofView, Cambridge 1953, p. 44. H. DINGLER, in «Nature», 168/1951, p. 630. M. HEIDEGGER, La questione della tecnica ( 1 9 5 3 ) , in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976 [N.d.C.]. Werner Magnus Maximilian Freiherr von Braun (1912-1977), scienziato e ingegnere tedesco, tra i piìi importanti esperti di missilistica. Durante il regime nazista ha lavorato alla produzione dei razzi a lunga gittata V2; nel secondo dopoguerra è a capo del programma spaziale statunitense [N.d.C.]. , G. SIMONDON, D« Mode d'esisterne des ohjetcs techniques, Aubier, Paris 1958, p. 127. Ibid. ^^ Aggiunta manoscritta: "Politica" [N.d.T,]. ^^ M , BLANCHOT, Le refus [Il rifiuto, in Id,, Nostra compagna clandestina, Scritti politici (1958-1993), Cronopio, Napoli 2004], Il presente passaggio recitava, nella versione originaria, poi cancellata: "Credo che questo nuovo stadio non possa più essere descritto alla maniera di Engels, Rosa Luxemburg e Lenin, in termini di capitalismo monopolitistico" [N.d.T]. Passaggio cancellato: "Il rallentamento di una tale costruzione, il prolungamento deUa 'prima fase' appare sempre più come un'esigenza politica, che contraddice le capacità economiche,.. " [N.d.T]. S. MALLET, in «Arguments», 12-13, p. 18, Ivi, p. 20. «Les Temps Modernes», Fevrier-Mars 1959, p, 1385, Ivi, p. 1387. «Arguments», dt., p. 20. Aggiunta manoscritta: "Per l'organizzazione della mobilitazione totale, la verità e la libertà non costituiscono valori essenziali. Possono anzi risultare fastidiose e ingombranti! Ciò che conta è l'efficacia, la produttività tecnica, l'obbedienza all'apparato politico e economico" [N.d.T.]. ' ' Aggiunta manoscritta: "Ascoltato in pantofole, durante la cena, all'interno di un programma che ha appena offerto una soap opera e sta per presentare una vendita di automobili, Bach non è più la voce di un altro mondo - una voce dissonante. È come il resto. Non impegna, né reca disturbo". [N.d.T] Non è chiaro se Hegel abbia mai fatto tale affermazione. Egli riteneva
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comunque che con l'arte romantica lo Spirito diviene consapevole che l'arte è una forma inadeguata di conoscenza dell'Assoluto, che deve essere superata da altre forme di conoscenza quale ad esempio la religione [N.d.C.]. " La versione originale del presente passaggio, poi cancellata, recita: "In Occidente la sola libertà è quella incorporata nelle istituzioni costituite, e la libertà che le trascendesse sarebbe sovversiva o utopica. All'Est, l'idea di socialismo subisce un destino analogo" [N.d.T.]. New York Times, 31 marzo 1957. " Passaggio cancellato: "Ne consegue la confutazione di ogni teoria, di ogni concetto che non sia verificabile all'interno del sistema a una dimensione. Essi, tuttavia, non possono essere rigettati, poiché si riferiscono proprio a quei valori umanistici che devono essere difesi, poiché in loro nome i popoli sono sottomessi alla mobilitazione totale. Quindi li si 'ridefinisce', o, meglio, si continua a far uso del concetto tradizionale, sebbene il contenuto che esso precedentemente esprimeva, non esiste più." [N.d.T.]. Passaggio eliminato: "L'espressione può essere utile a illustrare alcuni tratti della struttura e della funzione della comunicazione. Per offrirne un elenco provvisorio, essi sono; - la perdita del significato; - la coscienza felice (comprendente l'unificazione felice dei contrari, il linguaggio dell'adattamento profittevole; - la ritualizzazione del linguaggio; - la comunicazione in quanto comando e 'magia'." [N.d.T.]. ^^ Passaggio eliminato: "Al di fuori di tale contesto di operazioni, essa non è neanche una bomba , non è 'se stessa', ma solo un prodotto e una merce, parte della produzione nazionale e globale." [N.d.T.]. Sezione eliminata: "La moralità alla quale ancora allude il termine 'pulita' aveva molteplici significati - come la 'libertà' che la 'bomba pulita' dovrebbe salvaguardare, e le 'condizioni umane' per le quali i nemici della libertà hanno così poca considerazione. Comune a tutti i significati era però il contenuto che trascendeva lo stato di cose col quale si trovava compromesso. Tale alienazione penetrava la coscienza sociale, guidava l'azione e la teoria delle classi sociali che si opponevano allo stato di cose in nome di una condizione più razionale. Ed esse conferivano al linguaggio della libertà e della Ragione il suo senso concreto, critico, trascendente. Oggi il linguaggio a una dimensione dell'operazionismo muta le idee, il cui senso esprimeva e al tempo stesso trascendeva l'alienazione, in propaganda per la difesa di una alienazione inconsapevole e assi confortevole. Il linguaggio parla della 'promessa, fatta a ogni uomo, di poter essere se stesso', e accusa il nemico di rinviarne continuamente la realizzazione." [N.d.T.]. "Apperception" [N.d.T,]. Riferimento alla Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America del 1776 [N.d.C.]. J . - J . ROUSSEAU, Il contratto sociale ( 1 7 6 2 ) , Rizzoli, Milano 2 0 0 5 , I , 1 [N.d.C.]. Cfr. E. KAPP, Greek foudations of Traditional Logic, p. 29. "" Aggiunta manoscritta: "Situazione paradossale; la logica tecnica, il pensiero
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più formalista della nostra epoca, richiama il pensiero più metafisico di vm tempo. L'intelligenza che si muove all'interno di sé, del tutto sufficiente a se stessa, indipendente da ogni contenuto esterno - è il nous theos di Aristotele, l'Idea assoluta di Hegel. Il nous e l'Idea Assoluta, tuttavia, non sono umani, né sono di questo mondo. Essi, dunque, non si dispiegano affatto in "proposizioni". Non è però del tutto paradossale che tanto la metafisica, quanto la sua negazione astratta sembrino convergere in una concezione tanto affine! Vi è, tra i due avversari filosofici, un denominatore comune: il pensiero risulta incapace di dominare le contraddizioni reali, e si ritira nella costruzione di una verità pura, che non è affetta da contraddizioni. La tecnicità pretende di essere indifferente a ogni contenuto esteriore; affine al pensiero puro, l'intelligenza tecnica è per sé in tutte le sue manifestazioni" [N.d.T.]. "rendue logique": alla lettera, "reso logico", "logicizzato" [N.d.T.]. "" Aggiunta manoscritta: "Il pensiero filosofico si muove in una duplice trascendenza: esso trascende il contenuto particolare dei dati sociali, in direzione di una universalità sociale - la trascendenza sociologica-, trascende i valori dell'universalità sociale verso una universalità più elevata, verso la realizzazione dell'uomo in quanto uomo - trascendenza ontologico-umanistica". E ancora: "I concetti fondamentali implicano la critica della realtà sociale: implicano la negazione. Essi, dunque, trascendono le condizioni particolari della realtà sociale verso condizioni universali che sono, al tempo stesso, condizioni ideali. Le idee superiori e universali rimangono però le idee di una società particolare. La negazione filosofica reca in sé così l'immagine pratica." [N.d.T.]. Si omette qui il numerale "VI", corrispondente ad una delle differenti modalità in cui Marcuse ha disposto i presenti materiali [N.d.T.].
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Il problema del mutamento sociale nella società tecnologica
Una delle realizzazioni della civiltà industriale avanzata^ consiste nel tramonto non terroristico, democratico, della libertà - l'efficiente, levigata, ragionevole non-libertà che sembra avere le sue radici nello stesso progresso tecnico. Che cosa potrebbe essere maggiormente razionale della soppressione dell'autonomia individuale nella meccanizzazione e standardizzazione di prestazioni socialmente necessarie ma penose, della concentrazione delle imprese private in corporations piii efficaci e produttive, della regolazione della libera competizione tra soggetti economici non ugualmente dotati, della limitazione di prerogative e sovranità nazionali che impediscono l'organizzazione internazionale delle risorse! Il fatto che tale ordine tecnologico implichi una coordinazione politica e intellettuale è forse uno sviluppo increscioso, ma anche promettente. I diritti e le libertà che costituivano fattori così vitali agli inizi e nelle prime fasi della società industriale cedono il passo a uno stadio superiore: essi vanno perdendo il loro fondamento razionale e il contenuto tradizionali. Le capacità della società industriale avanzata suggeriscono piuttosto che una simile società sarebbe del tutto in grado di prevenire e contenere un mutamento sociale che coinvolgesse le sue istituzioni fondamentali - diverso, come tale, da mutamenti entro il quadro istituzionale dato. Il mutamento sociale costituisce un mutamento qualitativo se instaura forme dell'esistenza umana essenzialmente differenti, con una nuova divisione sociale del lavoro, nuovi modi di controllo sul processo produttivo, una nuova morale, ecc. Ora, l'esito forse più singolare della società industriale avanzata consiste nel suo successo nell'integrate e riconciliare gruppi e interessi
* Testo della conferenza preparata per il simposio dell'UNESCO suUo sviluppo sociale tenutosi a Parigi dal 12 al 14 maggio 1961, a cui però Marcuse non partecipò. Il testo è poi stato pubblicato negli atti del simposio 0 « Social Development/Le développement social, ed. by R. Aron and B.E Hoselitz, Mouton, Paris 1965.
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antagonistici: la politica bypartisan, la condivisione della causa della nazione, la collaborazione tra azienda e lavoratori attestano tale esito. Certo, i conflitti permangono ed erompono con sufficiente violenza, ma la tendenza contrasta nettamente col periodo precedente. Sotto l'impatto delle conquiste tecniche e scientifiche, della portata e dell'efficacia dell'apparato produttivo, e del crescente livello di vita, l'opposizione politica contro le istituzioni fondamentali della società costituita soccombe, e si muta in un'opposizione interna alle condizioni accettate. Il presente saggio intende chiarire la funzione storica di tali tendenze, vuole essere cioè un contributo a una critica della società industriale avanzata alla luce delle sue alternative storiche. Sin da principio, una simile impresa si trova di fronte alla questione della base dalla quale la critica possa ragionevolmente muovere. Quali sono i suoi criteri e parametri? Evidentemente devono essere essi stessi storici, derivati da riscontrabili tendenze e potenzialità della società costituita, tali da rendere possibile l'emergere di modi dell'esistenza individuale e sociale maggiormente razionali. Questi ultimi rimangono tuttavia meri "valori", ideali, o possibilità teoriche astratte, a meno che la critica non possa identificare anticipatamente gruppi sociali e interessi capaci di trasformare la teoria in azione, i valori in fatti. E qui la critica sembra subire il successo della società industriale avanzata nel contenere l'opposizione interna - uno sviluppo che sin da principio rende la critica della società costituita alla luce delle sue possibilità e alternative storiche astratta e utopica. La nuova situazione può essere illustrata da una breve considerazione sulla collocazione delle alternative storiche nella teoria sociale delle fasi precedenti. Prima di essere realizzate, le alternative storiche sorgono e vengono meno in quanto "valori" professati in modo privilegiato da alcuni gruppi e individui. Nella teoria sociale, così come in ogni altro ambito, i valori non solo fatti, ma, in quanto valori, sono opposti ai fatti; i fatti, in quanto fatti, non solo valori e sono opposti ai valori. La loro opposizione può essere risolta solo mediante una "mediazione" storica, che riconcili gli estremi sovvertendone la forma - dunque creando condizioni di fatto (istituzioni e rapporti) nelle quali i valori risultino tradotti in realtà. Nella fase ascendente della società industriale tale mediazione storica ebbe luogo nella coscienza e nell'azione politica della Borghesia, che tradusse il liberalismo in realtà; .142
un'altra mediazione storica apparve nello stadio maturo di questa società: nella coscienza e nell'azione politica del Proletariato. Gli sviluppi successivi hanno tuttavia alterato la struttura e la fun2Ìone di queste classi in modo tale che esse non operano più come agenti della trasformazione storica. Un opprimente interesse alla preservazione dello status quo istituzionale accomuna i vecchi antagonisti. Dove la borghesia costituisce ancora la classe dominante, essa rivela sempre più apertamente la sua dipendenza dal contenimento del mutamento sociale. E sulla base della crescente produttività dell'apparato tecnico-economico, cioè dei maggiori agi sotto l'amministrazione totale, nelle zone più avanzate della civiltà industriale ampi settori delle classi lavoratrici sono sospinti dalla "negazione assoluta" alla rassegnazione, e persino al sostegno del sistema. In assenza di agenti e forze del mutamento sociale, nell'impossibilità di individuarli, la critica è respinta indietro ad un maggior livello di astrazione; non vi è alcun terreno sul quale la teoria e la prassi, il pensiero e l'azione si incontrino. Le teorie della società e del mutamento sociale, che chiamano in causa tendenze storiche oggettive e una valutazione oggettiva delle alternative storiche, appaiono ora come speculazione irrealistica, e il dichiararsi in loro favore una questione di inclinazione personale. Prendete ad esempio l'idea marxiana di socialismo: se considerate la realtà del capitalismo avanzato e del comunismo che sta avanzando, dovete ammettere il carattere irreale, desiderativo dell'idea. E tuttavia, è confutata la teoria culminante in questa idea dai fatti del capitalismo e del comunismo odierni? Questi fatti sono sostanzialmente incompleti, ambivalenti: sono elementi nel più ampio contesto dello spazio e del tempo storici. Se individuati sullo sfondo di tale contesto, i fatti e la loro funzione nella società risultano confutati: essi sono fissati di contro alla loro negazione, contro, cioè, alle forze che ne dischiudono la trascendenza verso modi di esistenza resi possibili e al tempo stesso preclusi dalla società data. Se la loro focalizzazione è corretta, i fatti appaiono come altro da ciò che sono nell'esperienza immediata (a sua volta isolata). Ora essi sono "portati al concetto", compresi alla luce di una realtà storica che tiene insieme, in un'unica struttura globale, capitalismo e comunismo, aree sovrasviluppate e sottosviluppate, culture pretecnologiche e tecnologiche, la società dell'opulenza e quella della miseria. Quella, la struttura globale, costituisce la base empirica per la formazione dei concetti e dei criteri della critici
ca della società contemporanea. Concetti quali ad esempio "socialmente necessario" e "socialmente dannoso", "produttivo" e "improduttivo", "lavoro" e "riposo", "libertà" e "schiavitù" acquisiscono, su tale base, un differente contenuto: sono ridefiniti secondo le risorse materiali e intellettuali disponibili nel periodo attuale, e, in una simile ridefinizione, contrapposti alla distribuzione e all'uso di fatto delle risorse. Si dà perciò la base storica per una valutazione oggettiva delle società esistenti, in relazione allo "sviluppo ottimale" dell'uomo, allo sviluppo reso possibile dallo stadio della civiltà raggiunto. Lo "sviluppo ottimale" è definibile in termini empirici; nel periodo attuale, ci si approssima optimum nella misura in cui le risorse disponibili sono impiegate "razionalmente"^ per l'appagamento dei bisogni col minimo di fatica, cioè per creare le premesse del libero uso del tempo libero. Certo, l'accettazione di tali criteri richiede ancora una decisione: un "giudizio di valore" e una scelta di fronte al contrasto tra la società esistente e la vita ottimale. È del tutto possibile respingere tale criterio e preferire l'oppressione e la distruzione della vita. In quel caso, tuttavia, ci si pone al di là del discorso e della logica, poiché la logica e il discorso sono emersi come strumenti dello sforzo volto a "salvare" e a realizzare pienamente la vita. Compresa in termini di universale concreto, la situazione storica delimita perciò la razionalità in modo da consentire un'analisi critica della società costituita; essa delimita anche le alternative del mutamento accessibili alla società corrispondente. Queste alternative si distinguono l'una dall'altra per il grado di probabilità col quale si approssimano allo sviluppo "ottimale". Il fattore di tremenda incertezza sembra decrescere quanto più la società tecnologica perfeziona la calcolabilità nel dominio scientifico dell'uomo e della natura, ma al tempo stesso proprio il concetto di razionalità, in quanto guida (criterio) del mutamento sociale, diviene problematico. Un confronto della società industriale avanzata con le sue fasi precedenti può chiarire la nuova situazione. Durante la rivoluzione industriale, e quasi per i successivi cinquanta anni, l'area irrazionale della società era ampia ed evidente: il lavoro infantile, le condizioni lavorative inumane, l'alto tasso di mortalità, la povertà diffusa, la palese ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza sociale attestavano l'irrazionalità del progresso. Questo non perde di irrazionalità se posto in rapporto col livello relativamente basso della produt.144
.6 tività materiale e tecnica: anche a tale livello inferiore della produttività, una riduzione della fatica e della sofferenza, cioè un'organizzazione maggiormente razionale del progresso, costituiva una possibilità reale. Nello stadio della civiltà industriale avanzata, tuttavia, sembra mancare ogni definizione di "razionale" che non sia quella della convenienza nazionale o sociale. La società è capace di "distribuire beni" su una scala che si fa sempre più ampia: il rischio permanente di una guerra di annientamento e il permanente spreco e abuso delle risorse non offre alcun argomento per la sostituzione del sistema costituito con un altro, che potrebbe - forse - ridurre l'oppressione e l'ingiustizia. Le ragioni a favore del mutamento sono anche maggiormente costrette al silenzio dallo sviluppo delle società comuniste, che una volta potevano pretendere di rappresentare la negazione storica del capitalismo. La pretesa vi è ancora, ma finché rimarrà basata sul calcolo storico secondo il quale la liberazione futura esige i sacrifici oppressivi del presente, la sua superiore razionalità poggerà su un terreno instabile. Il carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata e l'integrazione degli opposti, che di tali realizzazioni costituisce tanto l'esito quanto la premessa, promuovono una stabilizzazione materiale e intellettuale. La teoria critica si trova priva di una base empirica sulla quale trascendere lo s^a^us quo. Il vuoto pervade la stessa struttura teorica: le categorie della teoria critica della società si sono sviluppate in un periodo nel quale forze sociali reali incorporavano una risposta effettiva; erano categorie eminentemente "negative" e negatrici, che esprimevano la contraddizione essenziale allo stato di cose dato. La stessa categoria di "società" esprimeva il conflitto acuto tra la sfera sociale e quella politica - la società in antagonismo allo Stato. Analogamente, "individuo", "classe", "privato", "famiglia" denotavano sfere e forze non ancora integrate nelle condizioni stabilite - sfere di tensione e contraddizione. Con la crescente integrazione della società industriale tali categorie vanno perdendo la loro connotazione critica: tendono a diventare termini descrittivi, fallaci, o operazionali. Le condizioni della società impongono perciò alla critica una duplice carenza: 1) senza il terreno sul quale il pensiero possa incontrare l'azione, l'analisi critica, malgrado i suoi criteri storici oggettivi, o forse a causa di essi, si presenta come una mera teoria, separata da ogni prassi che possa convalidarla; 2) in quanto teoria della
società, l'analisi critica deve fare i conti con categorie sociologiche che non sembrano più adatte a comprendere la società costituita. Il tentativo di recuperare l'intento critico di queste categorie, e di comprendere come esso sia stato "cancellato" dalla realtà sociale, il tentativo, cioè, di una critica immanente della razionalità che si dispiega nella civiltà industriale, appare sin dall'inizio ideologico: come una regressione da una teoria congiunta alla prassi a un pensiero astratto, speculativo, dall'economia politica alla filosofìa. Quella tra ideologia e realtà è una relazione interamente storica, determinata, come tale, dai mutamenti della società. Nella concezione marxiana, "ideologia" indica una coscienza che è più avanzata della realtà con la quale si confronta - avanzata nel senso che essa progetta idee (di libertà, uguaglianza, felicità, per esempio) la cui realizzazione è resa possibile, ma al tempo stesso arrestata dallo sviluppo della società. Incapace di modificare da sé tale situazione, nella misura in cui soccombe alla realtà sociale, la coscienza ideologica è falsa coscienza, ma come tale essa anticipa, in forma idealistica, possibilità storiche racchiuse nella realtà costituita. Sembra però impossibile applicare tale concezione alla società industriale avanzata. Questa ha sopravanzato la propria ideologia col tradurla nella realtà delle proprie istituzioni politiche, delle abitazioni suburbane, degli impianti nucleari, dei supermarket, degli empori e degli studi psichiatrici. In simili apparati le idee di ragione, eguaglianza, felicità, personalità ecc. hanno acquisito il loro valore in rapporti sociali praticabili. Il processo di traduzione ha soppresso o reso falsi quei contenuti ideologici che minacciavano di far esplodere tali rapporti rivendicando un "termine" della produttività autoalimentantesi, cioè un'esistenza umana nella quale la vita non sia più un mezzo e l'uomo non sia più determinato dagli strumenti del suo lavoro. In contrasto con tali promesse di libertà, la società industriale avanzata continua a promuovere la necessità di guadagnarsi da vivere a tempo pieno, e a perpetuare la vita come mezzo. La sua produttività in questo senso vanifica così come alimenta se stessa: crea un potenziale distruttivo che si mostra non solo nell'arsenale dell'annientamento fisico, ma anche in quello della repressione interna - repressione mediante la trasformazione organizzata di esigenze politiche e commerciali in bisogni dell'individuo. E una simile unione di crescita e repressione sembra caratterizzare tutte le forme contemporanee della società industriale avanzata, prescindendo dalle più essenziali dif.146
fetenze nelle istituzioni politiche e economiche. Qual è il denominatore comune alle forze che rendono liberi e a quelle che rendono schiavi, alle forze produttive e a quelle distruttive? Il denominatore che naturalmente viene in mente è l'industria meccanizzata su larga scala quale base materiale, tecnica della società. Questa risposta deve però a sua volta fare i conti con l'obiezione che la tecnica è "neutrale", egualmente suscettibile di ogni tipo di uso sociale e politico, e che, perciò, la tecnica non può rendere conto di specifiche istituzioni sociali e politiche. Questa obiezione è diventata problematica alla luce del fatto che nella società industriale avanzata l'apparato tecnico di produzione e distribuzione funziona non come la somma complessiva di strumenti che possono essere isolati dal contesto sociale e politico senza perdere la loro identità, ma piuttosto come un apparato che determina a priori il prodotto così come le operazioni individuali e sociali volte alla sua fornitura e al suo ampliamento, determina cioè le esigenze, le occupazioni, le abilità, le attitudini socialmente richieste - e perciò le forme del controllo sociale e della coesione sociale. L'apparato tecnico incorpora la distinzione decisiva tra coloro che controllano l'apparato e coloro che lo servono, ma una volta che è diventato l'onnipresente base della produzione, cioè della preservazione e della crescita della società, esso impone le proprie esigenze su scala nazionale e internazionale. Lo spazio di libertà al vertice della società si riduce. Le alternative reali sono infatti catastrofiche: implicano non solo mutamenti all'interno delle istituzioni sociali costituite, dei loro obiettivi e delle loro politiche, ma la loro scomparsa, e questa nuova direzione del progresso minaccia realmente l'intero. La società industriale tende verso il punto di non ritorno, che è, storicamente, il punto del mutamento qualitativo, e mobilita tutte le sue risorse contro tale eventualità. Vi sono certamente alternative interne al sistema, per la società capitalistica contemporanea così come per quella comunista. Perciò uno Stato del benessere con un controllo semiprivato, governativo o misto, sulla produzione, con istituzioni democratiche, disarmo, ecc. è possibile sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Un simile stato conserverebbe però e acuirebbe il principale carattere del suo predecessore, l'assoggettamento dell'uomo all'apparato, il suo asservimento alla propria produttività. L'alternativa reale "al di là dello Stato del benessere" reca un carattere di segno contrario, e impUca, per una società tecnologicamente matura, la progressiva .147
automazione della produzione materiale e monotona, sino al punto in cui il rapporto tradizionale tra il tempo di lavoro (necessario) e il tempo libero non si capovolge - e il tempo libero diviene "occupazione a tempo pieno", a disposizione dell'individuo. Tale sviluppo rovescerebbe la morale repressiva del lavoro, del "guadagnarsi da vivere", e si scontrerebbe con le istituzioni fondamentali della società industriale costituita, cioè con un'organizzazione dell'esistenza umana basata sulla necessità di una divisione sociale (non tecnica!) del lavoro sovraimposta. Il punto che vorrei sottolineare è che la società industriale avanzata tende verso tale catastrofe nella misura in cui essa è costretta a portare a compimento il progresso tecnico: costretta dal bisogno di una produttività in continuo aumento bisogno indotto a sua volta dalla necessità della crescita e della sicurezza, all'interno, e dal conflitto tra capitalismo e comunismo, all'esterno. Quella verso la catastrofe della liberazione è una tendenza storica, la quale non opera, quindi, come una legge fisica inesorabile; può essere arrestata, manipolata, deviata - ciò che caratterizza il periodo attuale. Ma anche così la tendenza determina la società costituita come il negativo della sua razionalità, come il potere dissolvente della ragione. Armandosi contro lo spettro delle proprie possibilità, che ne segnerebbero la fine (nel duplice senso del limite e del compimento), mobilitando le proprie risorse per il contenimento del proprio potere, la società industriale avanzata crea un universo in espansione ma chiuso, nel quale il dominio sempre più efficace sull'uomo e sulla natura, e l'aumento di beni e servizi spingono l'uomo a perpetuare l'organizzazione della lotta per l'esistenza - il progresso quantitativo opera contro il mutamento qualitativo. Nel seguire il corso di tale progresso, la società industriale avanzata sta erigendo un sistema di amministrazione totale: le forze centrifughe (le capacità esistenti, materiali e intellettuali) sono integrate all'interno del sistema nel medium della tecnologia, che appare come razionalità tout court. Le alternative storiche per la realizzazione delle potenzialità esistenti sono respinte o livellate dalle realizzazioni totalitarie della società. La tecnica e la tecnologia operano perciò come controlli sociali e politici che organizzano dimensioni dell'esistenza privata e pubblica in precedenza incontaminate. Al centro della produzione sociale, oggi la macchina individuale funziona come parte non solo di un complesso tecnico di fabbriche, impianti, branche di industrie, ecc., ma anche di un complesso politico e .148
culturale (catene, networks, mezzi di comunicazione, il regno della Corporation, il Trust, il Collettivo), che impone i suoi modelli di prestazione e assoggettamento alla popolazione sottostante. La produttività e la razionalità del complesso tecnico-politico stabilizzano il sistema sociale di dominio e contengono U progresso nel quadro del dominio. Questo tipo di società è ancora legato alle sue origini: è il risultato di una specifica esperienza, trasformazione e organizzazione della natura - l'ultimo stadio nella realizzazione del progetto storico della civiltà industriale. Qui la natura è progettata come materiale neutro di dominio, come una materia che non pone alla ragione teoretica e pratica dell'uomo altri limiti che quelli determinati dalla sua struttura fisico-matematica. Col progredire della fisica moderna la sostanza propria della natura sembrò evaporare quanto piìi risultava difficile definire un'oggettività indipendente dal soggetto. Il soggetto scientifico era quello dell'osservazione, dell'esperimento, del ragionamento - era anch'esso neutrale e universale, privato delle sue qualità secondarie e dei suoi scopi particolari. Per quanto però il metodo scientifico possa astrarre da scopi particolari e procedere come conoscenza fine a se stessa, la sua purezza teorica rimane essa stessa derivata, preliminarmente condizionata da una specifica idea a) di ciò che è scientifico, e b) di ciò che è un oggetto scientifico. Lo sviluppo tanto del metodo, quanto della sua applicazione, segue il progetto guida, che ne costituisce Va priori storico, e tale progetto emerge come parte degli interessi prevalenti nella società corrispondente, e in linea con essi. Perciò l'approccio teoretico alla realtà in termini matematici diviene l'approccio scientifico autentico e efficace solo se e quando la realtà non è più esperita (o meglio non è imposta all'esperienza) come cosmo, vale a dire come gerarchia naturale di funzioni, tempo e spazio, valori e fini. E tale mutamento nell'esperienza della realtà ha luogo nell'approccio pratico alla realtà, imposto dall'organizzazione della società industriale. In questo quadro, la scienza intraprese la progressiva formalizzazione della natura, imbarcandovisi come in un'impresa della conoscenza: un puro dominio cognitivo, privo di ogni finalità. Nel momento in cui forniva gli esatti concetti matematici di materia e di movimento, essa definiva l'oggetto puramente teoretico di una conoscenza neutrale, senza fornire i contenuti e le finalità del dominio: questi erano eliminati dalla concezione scientifica insieme con tutte le altre cause finali. .149
Non vi è però dominio fine a se stesso. L'assenza di fini ultimi fece della natura un sistema di strumenti universali e ipotetici, funzionali al dominio teoretico e pratico - trama e medium degli scopi che dominavano la nuova società che sviluppava la nuova scienza. Quest'ultima procedeva con una peculiare neutralizzazione: l'economia capitalistica riduceva la concretezza delle prestazioni e delle funzioni individuali al loro comune denominatore, che ne misurava il valore di scambio universale. Disporre di uomini e cose mercificabili divenne il contenuto reale del dominio. Lo snaturamento della natura, mediante il quale la scienza pervenne alla "realtà vera" delle strutture e relazioni matematiche, trovò il suo parallelo nella quantificazione del valore nella società. Scienza e società, ragione teoretica e pratica si incontrano nel medium della tecnologia. Non è questa la sede per discutere il concetto di tecnologia. Intendo entrarvi solo nella misura in cui sia necessario a) per spiegare in che senso il concetto di neutralità della tecnica è insostenibile, e b) per chiarire in che senso, col compimento del progresso tecnico, la società tecnologica tende a cancellare le condizioni sulle quali si è fondata e sviluppata. La distinzione classica tra le cose physei e techne evidenzia la misura in cui la tecnica crea entità artefatte mutando condizioni "naturali". Una simile creazione è, inoltre, "metodica", cioè basata sulla conoscenza dei limiti e delle modalità nelle quali il materiale naturale dato si presta a mutare di forma e persino di sostanza. Entro questi limiti, la tecnica costituisce la negazione metodica della natura ad opera del pensiero e dell'azione dell'uomo. In forza di tale negazione, condizioni e relazioni naturali diventano strumenti per la conservazione, l'ampliamento e il raffinamento della società umana. E, nella misura in cui accresce il proprio ruolo nella riproduzione della società, la tecnica costituisce un universo intermedio tra il Soggetto (metodico, che trasforma la teoria e la prassi), e l'Oggetto (la natura come materia grezza, materiale da trasformazione). E in senso letterale un universo tecnologico, nel quale tutte le cose e tutti i rapporti tra le cose sono divenuti razionali, o, meglio, sono razionalizzati: la loro oggettività "naturale" è stata ri-creata in accordo con gli interessi e i bisogni della società umana. Le cose sono diventate nella loro natura operazionali, la tecnica ne determina l'essenza: progetta il loro valore e l'uso delle loro possibilità. La tecnica costituisce il Logos, la razionalità di questo universo, caratterizzato .UO
da un nuovo modo di mediazione tra Soggetto e Oggetto. L'intera oggettività è definibile in relazione ad un Soggetto, per un Soggetto; è un rapporto che riguarda anche la razionalità pre-tecnologica: anche l'e^Jos platonico è, in quanto Idea, solo per l'intelletto che vi perviene. Ma questo intelletto pre-tecnologico raggiunge una realtà oggettiva che include norme di esistenza, mentre la mediazione tecnologica libera l'oggettività da tali norme. L'oggettività rimanente non è meno soggettiva, ma lo è di piii; le equazioni matematiche sono il risultato ideazionale di operazioni mentali, e qualunque cosa "corrisponda" a tali equazioni, o trovi espressione in esse, costituisce un mero materiale per la trasformazione teoretica e pratica. Non si descrive adeguatamene il rapporto tra scienza e tecnica col denominare quest'ultima scienza applicata. Prima di ogni applicazione, la scienza deve essere applicabile, in virtù della propria struttura, più che del proprio intento: questo può essere perfettamente "puro". La struttura della scienza moderna è tecnologica nella misura in cui i suoi concetti fondamentali sono matematici, snaturano e desostanzializzano la materia, dilatando ampiamente, in tal modo, il raggio entro il quale la materia può funzionare come materiale per le operazioni di trasformazione. Quanto più la concezione scientifica della realtà oggettiva è funzionale, generale, simbolica, formale, tanto minore è la resistenza che tale realtà oppone alla sua trasformazione metodica da parte della pratica dell'uomo, e tanto maggiore lo stimolo che la realtà fornisce per una simile pratica. L'affinità tra la scienza moderna e la società industriale ha le sue radici nella struttura della prima. E in questa società la tecnica non costituisce un fattore o una dimensione particolare tra le altre, ma è ì'apriori dell'intera realtà e di ogni realizzazione. L'universo dell'azione e del discorso è un universo tecnologico: gli oggetti del pensiero così come della pratica sono "dati" in quanto costituiti da una trasformazione metodica e a questa soggetti - è la negazione della natura. La negazione tecnologica della natura include quella dell'uomo in quanto essere naturale. Quest'ultima trasformazione incomincia naturalmente con l'inizio della storia. La civiltà non costituisce un progresso solo nel domino sulla natura interna ed esterna all'uomo, ma anche nella soppressione di essa. La teoria freudiana dell'organizzazione repressiva delle pulsioni [drives, N.d.T] primarie chiama in causa una dinamica storica: l'assoggettamento del principio di VI
piacere al principio di realtà diviene efficace universalmente solo in quello stadio della civiltà nel quale il lavoro è stato reso universale, a tempo pieno, e quantificabile come misura sociale del valore. Il progetto del mondo-oggetto tecnologico esige, come corollario, il soggetto tecnologico: l'uomo come strumento universale (portatore di forza lavoro). Oppure, per formulare un'analogia generica che può ancora possedere un nocciolo di verità: alla traduzione scientifica delle qualità secondarie in quelle primarie corrisponde, storicamente e strutturalmente, la traduzione sociale del lavoro concreto in lavoro astratto - quantificazione su entrambi i lati. Il precedente schizzo di una concezione filosofica della società tecnologica può aiutare a chiarire la dialettica interna che tale società sviluppa nel corso della sua crescita. Essa progetta un universo di strumenti (gli utensili) e di risorse (il materiale da lavorare con gli utensili), mediante i quali la natura è assoggettata ai bisogni e agli interessi sociali dominanti. Questi sono condizionati dall'acquisizione di beni e servizi scambiabili, che rendono possibile al loro possessore mantenere e rafforzare la sua posizione nella lotta competitiva per l'esistenza. Per la grande maggioranza della popolazione, ciò significa una vita di lavoro nel processo della produzione materiale, e su questa necessità riposa non solo la riproduzione materiale della società, ma anche la sua struttura morale e politica: le istituzioni del dominio e il loro corrispondente psichico, l'etica repressiva del lavoro, della penuria del guadagnarsi da vivere. Ed è precisamente questa necessità che il progresso tecnico minaccia di rendere superflua, irrazionale, in forza del suo duplice potere, di meccanizzazione del lavoro umano e di conquista della penuria. Ne risulterebbe la tendenziale abolizione degli affari del mercato e del lavoro industriale, e la pacificazione dell'esistenza. Questo fine non è affatto immanente al progresso tecnico. La tecnologia può essere utilizzata, ed è largamente utilizzata, per sostenere e anche per accrescere la quantità di lavoro socialmente richiesto, e per negare la gratificazione e la pacificazione. Non la forza razionale della tecnica, ma l'organizzazione esistente della società industriale, il suo bisogno vitale di una crescita costante della produttività del lavoro, spinge la società ad estendere l'automazione e ad aumentare la ricchezza sociale, quindi a minacciare l'economia politica della penuria e del dominio. Questa dinamica non è però né fatale, né priva di ambivalenza. Ho iniziato col sottolineare in che misura la società industriale avanU2
zata sia capace di contenere il mutamento sociale (qualitativo), e ho suggerito che tale contenimento costituisca il carattere principale del periodo attuale. Ora, è ancora il progresso tecnico, organizzato dagli interessi sociali dominanti, che non solo assicura l'efficienza del contenimento, ma crea anche nuove forme di contenimento mediante la crescita, di oppressione mediante la razionalizzazione, di non-libertà mediante la soddisfazione. I nuovi modi di dominio operano in vista della confutazione delle concezioni della transizione storica a uno stadio superiore della società umana, quali animavano la teoria critica della società industriale. Il progresso tecnico sviluppa il proprio apparato, e lo sviluppa in accordo col lavoro da farsi, che non è determinato tecnologicamente: è dato piuttosto dal di fuori, dai bisogni sociali da soddisfare. Questi ultimi, a loro volta, non si sviluppano liberamente come bisogni individuali; al di dà del livello della sussistenza, essi sono plasmati dalla prevalente divisione sociale del lavoro e del piacere. Devono essere conformi alle sue esigenze, bisogni socialmente profittevoli. Nella società industriale avanzata, che dispone della capacità di appagare i bisogni di sussistenza di tutti i suoi membri, l'ulteriore sviluppo dei bisogni è una questione politica e, in contrasto con le fasi storiche precedenti, può ora essere perseguito in modo metodico, con un alto grado di calcolabilità (e con un basso grado di libertà per coloro che fanno la politica?); coloro che controllano l'economia controllano anche la creazione di bisogni, e le modalità e i mezzi della loro soddisfazione. Tutto ciò è esterno alla tecnologia. E tuttavia il rapporto tra la tecnologia e la politica della società industriale avanzata non è quello di una forza esterna portata a gravare su un insieme puramente tecnico. Per le sue proporzioni, la sua organizzazione interna, e la sua funzione nel processo della riproduzione sociale, il complesso tecnico diviene esso stesso un complesso politico - non solo il medium nel quale i controlli sociali sono esercitati all'interno degli individui e su di essi, ma anche un apparato di controllo sociale nel suo pieno diritto. razionalità tecnologica opera come una razionalità politica. Le condizioni che dischiudono il carattere politico della razionalità tecnologica richiederebbero un'analisi dettagliata. Qui posso solo indicarne alcune. 1) La società industriale avanzata si riproduce mediante la produzione di massa. Questa è richiesta a) dall'aumento della popola.133
zione; b) dalla crescente produttività del lavoro meccanizzato; c) dalla concentrazione dell'impresa economica. La dialettica del progresso tecnico sembra materializzarsi a ciascuno di questi tre livelli: a) La crescita della popolazione costituisce uno dei risultati delle maggiori possibilità di una vita migliore, ma, incontrollata e prematura, minimizza tale chance per l'individuo, riduce lo spazio fisico e psichico per l'autonomia e la privacy, e perpetua la penuria e la lotta per l'esistenza. b) La crescente produttività del lavoro all'interno di un sistema di dominio genera il bisogno di contrastare la soddisfazione (nei termini del sistema) "prematura" e la disoccupazione. L'obsolescenza pianificata, lo spreco e la creazione di bisogni socialmente profittevoli alimentano la fatica e l'asservimento all'apparato produttivo. c) La concentrazione dell'impresa economica accresce le possibilità tecniche di pianificare l'economia in vista della pacificazione della lotta per l'esistenza, mentre la concentrazione del controllo privato mina tali possibilità e estende la dipendenza. La produzione di massa per la soddisfazione di bisogni socialmente profittevoli esige una distribuzione e un consumo di massa. Il tutto deve vendersi di continuo, ai produttori e ai consumatori - su larga scala, e un'immensa porzione di tale produzione è repressiva rispetto al libero sviluppo dei bisogni dell'individuo, un completo spreco di fronte alla miseria ancora prevalente. In queste circostanze, la produzione di massa si afferma mediante un onnipresente, immenso apparato tecnico, che integra tutte le sfere dell'esistenza privata e pubblica, e le integra in accordo con gli interessi che controllano l'apparato. Il fatto decisivo è, però, che tale integrazione non appare come un atto politico - essa si afferma come, e in verità è, un'integrazione tecnologica, che diffonde la razionalità dell'utilità e dell'efficienza, le terrificanti comodità e il terrificante potere della società opulenta. Producendo e consumando i suoi benefici, gli individui ai quali tali benefici sono somministrati si comportano in modo perfettamente razionale, e nessun tribunale della storia potrebbe a buon diritto condannarli - essi se la passano meglio di prima. E nell'agire in modo razionale, nel conformarsi alla conquista tecnica della natura che hanno realizzato, essi sostengono la cre.134
.16 scita quantitativa e il peso oppressivo dell'apparato. 2) L'apparato non è costituito solo dai macchinari impiegati nella produzione materiale, ma anche da ciò che riempie uffici, negozi e strade, e, non da ultimo, le case e gli appartamenti privati. È rimarchevole in che misura tali unità tecniche ampiamente distribuite siano coordinate, e coloro che ne fanno uso siano dipendenti dagli interessi, coordinati, del potere dei monopoli e delle grandi società per azioni. La divisione tecnologica del lavoro, l'amministrazione e la razionalizzazione scientifiche intensificano, invece di alleviare, l'assoggettamento del lavoro libero e del libero riposo a coloro che determinano l'uso del lavoro e del riposo: intensificano l'assoggettamento precisamente perché la forma tecnologica dell'organizzazione e la sua abilità nel "distribuire i beni" fa sparire i dominanti dietro la struttura tecnica oggettiva. I "capitalisti padroni", i "crudeli sfruttatori" e negrieri di una volta hanno lasciato il campo all' "amministrazione", in cui la responsabilità ultima è tutt'altro che semplice da definire - l'ostilità, la protesta e l'accusa sono private del loro obiettivo concreto. E in un certo senso giustamente, poiché gli stessi dominanti sono diventati dipendenti dall'apparato che devono conservare ed espandere - dipendenti in un modo del tutto differente da come il libero imprenditore dipendeva dai mezzi della sua impresa individuale e dal meccanismo del libero mercato. Ora il governo, il margine di profitto, l'interesse nazionale, il conflitto EstOvest operano come potenze ampiamente indipendenti, al di sopra dei signori dell'economia delle corporations - sebbene questi costituiscano la connessione decisiva nell'integrazione dei poteri. 3) Nel funzionamento dell'apparato produttivo e distributivo, le operazioni tecniche e politiche sono inesorabilmente intrecciate. Negli impianti semi-automatizzati, gli operai-operatori divengono essi stessi strumenti, adattati meccanicamente alla velocità e alla struttura di una macchina che non costituisce piia il loro strumento e utensile, ma (come già Hegel lo aveva definito), uno "strumento indipendente". L'atomizzazione generata da tale divisione del lavoro è abbondantemente descritta nelle ricerche sul campo sugli stabilimenti semi-automatizzati. Inoltre, nella misura in cui l'energia fisica è sostituita dall'energia mentale, questa tende a regredire dai processi consci a quelli semiconsci o subconsci (sogni a occhi aperti,
associazione strettamente reattiva di idee e immagini generate dal ritmo della macchina). La de-concretizzazione caratteristica dell'universo tecnico, nel quale la gerarchia dei rapporti socio-politici appare come l'espressione di una razionalità tecnologica oggettiva, coinvolge anche la struttura psichica degli individui condizionati da tale razionalità: incapaci di penetrare dietro la cortina tecnica e di sviluppare una coscienza politica, essi assumono con facilità un atteggiamento apolitico, tecnico. L'opposizione radicale al medesimo sistema che distribuisce i beni sembra irrazionale e insensata. La razionalità e l'efficienza tecnologiche promuovono l'affermazione, il pensiero positivo, diffondendolo tra l'insieme della gente. La società industriale avanzata vende letteralmente se stessa insieme con i beni e i servizi che essa produce, vende cioè le comodità e gli agi che la aiutano a tenere buono il popolo, a reprimere le alternative reali. Il declino, nella società tecnologica, dell'autonomia individuale e di gruppo non è del tutto negativo, e non costituisce del tutto un segno di regressione. Nella misura in cui la libertà dal bisogno, la sostanza concreta di ogni libertà, diviene una possibilità reale, le libertà proprie di un livello inferiore di produttività perdono il loro precedente contenuto. L'indipendenza del pensiero, l'autonomia e il diritto all'opposizione politica sono private della loro funzione critica fondamentale, in una società che sembra sempre più capace di soddisfare i bisogni degli individui così come è organizzata. Una simile società può giustamente esigere l'accettazione dei propri principi e delle proprie istituzioni, e ridurre l'opposizione alla discussione e alla promozione di alternative politiche entro lo status quo. In condizioni nelle quali il livello di vita viene elevandosi, la mancata conformità al sistema appare socialmente inutile, e ciò quanto più essa comporta svantaggi economici e politici tangibili, e minaccia il pieno funzionamento del tutto. In verità, almeno finché si tratta delle necessità della vita, sembra non esservi ragione perché la produzione e la distribuzione di beni e servizi dovrebbe aver luogo mediante il gioco delle libertà individuali. Se l'individuo non fosse più costretto a dar prova di sé come libero soggetto economico sul mercato - nella "lotta per l'esistenza", nel "guadagnarsi da vivere" -, il venir meno di questo tipo di libertà costituirebbe uno dei maggiori successi della civiltà. La possibilità di una simile realizzazione (che costituisce la promessa peculiare della civiltà industriale), muta la base sociale della .136
libertà. I processi tecnologici che alimentano la meccanizzazione e la standardizzazione della produzione tendono a espellere l'autonomia individuale dal vasto campo nel quale molta della sua forza era precedentemente investita. E tale forza potrebbe essere esercitata in un regno della libertà ancora inesplorato, al di là di quello della necessità. Allora l'uomo esisterebbe come individuo nella misura in cui fosse espulso da un mondo del lavoro meccanizzato; la sua libertà consisterebbe nell'autonomia al di sopra dell'apparato di produzione e distribuzione. Questa meta rientra tra le potenzialità della civiltà industriale avanzata, costituisce "il fine" della razionalità tecnologica. Di fatto però, è all'opera la tendenza opposta: l'apparato impone le proprie esigenze, economiche e politiche, di difesa e espansione nel tempo di lavoro e nel tempo libero dell'uomo, nella cultura materiale e in quella intellettuale. In forza del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Totalitaria infatti non è solo una terroristica coordinazione politica della società, ma anche una coordinazione non terroristica, tecnico-economica, operante mediante la manipolazione dei bisogni da parte degli interessi costituiti, tale da precludere perciò l'emergere di una opposizione reale contro l'insieme organizzato da questi interessi. Il totalitarismo non consiste solo in una forma specifica di governo o nel dominio di un partito, ma anche in uno specifico sistema di produzione e distribuzione, che può benissimo essere compatibile con un "pluralismo" di partiti, giornali, di poteri "controbilanciantisi", ecc. Nel periodo attuale, il potere politico si afferma mediante il potere dei processi meccanici, che muove il complesso tecnico dell'apparato produttivo. Il governo delle società avanzate e in avanzamento può conservare e assicurare se stesso solo se ha successo nel mobilitare, organizzare e sfruttare la produttività tecnica, scientifica, e meccanica disponibile nella civiltà industriale - e tale produttività tende a coinvolgere la società come un tutto, al di là di interessi particolari, individuali o di gruppo. II fatto bruto che la potenza fisica (solo fisica?) della macchina sia superiore a quella dell'individuo e di ogni particolare gruppo di individui, fa della macchina stessa lo strumento politico più efficace, in ogni società la cui organizzazione di base sia quella del processo meccanico. Ma, per la stessa ragione, la tendenza politica può essere rovesciata, dal momento che la potenza della macchina non è altro che la potenza dell'uomo, accumulata e proiettata al di fuori di .157
lui. Nella misura in cui il mondo dei lavoro è concepito come una macchina, e meccaniz2ato in accordo con tale concezione, esso diviene la base potenziale di una nuova libertà. La civiltà industriale contemporanea ha raggiunto lo stadio nel quale "la società libera" non può più essere definita adeguatamente nei termini tradizionali della libertà economica, politica e intellettuale. Non perché essa sia divenuta insignificante, ma perché è troppo rilevante per essere confinata nelle forme tradizionali; essa esige nuovi modi di realizzazione - corrispondenti alle potenzialità della società industriale avanzata. I nuovi modi possono però essere indicati solo in termini negativi, poiché la loro affermazione costituisce la negazione delle modalità prevalenti della libertà. Libertà economica significherebbe perciò libertà dall'economia, libertà dell'uomo dalla propria determinazione ad opera di forze e rapporti economici: libertà dalla lotta quotidiana per l'esistenza, dal guadagnarsi da vivere. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui dalla politica, sulla quale essi non possiedono un controllo reale, la scomparsa della politica come un settore e una funzione separata all'interno della divisione sociale del lavoro. Similmente, la libertà intellettuale significherebbe la restaurazione del pensiero individuale, dopo il suo assorbimento ad opera della comunicazione di massa e dell'indottrinamento l'abolizione dell'opinione pubblica insieme con i suoi creatori. Il suono irrealistico di tali affermazioni è indicativo non del loro carattere utopico, ma del predominio di forze che ne prevengono la realizzazione, con l'induzione di bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete della lotta per l'esistenza. La stessa induzione standardizzata di bisogni non è necessariamente repressiva. Al contrario, l'eliminazione del bisogno di una varietà sciocca e superflua, di libertà profittevoli e aggressive può costituire una premessa per la liberazione. La concentrazione di tutti gli sforzi nella produzione e nella distribuzione dei beni necessari per la vita di tutti implica il sacrificio delle scelte non necessarie, l'eliminazione dello spreco. Oggi però vi è un immenso bisogno sociale di produzione e distribuzione di spreco, incluse forme illusorie di libertà in aree in cui essa è diventata insensata e falsa. (Esempi: la libera competizione a prezzi amministrati; la libera discussione dopo l'esclusione di ogni opinione realmente divergente; una stampa indipendente che censura se stessa meglio di un censore di stato; la libera scelta tra marche e gadgets.) Si può fare della libertà un .158
potente strumento di dominio. Non l'entità della scelta aperta agli individui decide del grado di libertà dell'uomo, ma il cosa può essere scelto, e cosa è scelto dagli individui. Il criterio per la libera scelta non può mai essere assoluto - ma non è neanche del tutto relativo. La libera elezione dei padroni non abolisce i padroni né i servi; una libera selezione tra un'ampia varietà di beni e servizi non significa libertà, come cercheremo ora dimostrare, se questi beni e servizi alimentano il controllo sociale su una vita di fatica e di angoscia, se essi alimentano l'alienazione. I bisogni umani esistenti non possono, in sé, determinare l'entità della soddisfazione necessaria - necessaria nei termini delle premesse per l'emergenza di modi migliori di vita. I soli bisogni che, in forza della loro esistenza, avanzano una pretesa incondizionata di soddisfazione sono i bisogni vitali: nutrimento, vestiario, alloggio, al livello raggiunto della civiltà, per tutti gli esseri umani in ogni parte del mondo - poiché il loro appagamento costituisce la premessa per la realizzazione di tutti i valori, tanto spirituali quanto materiali. Al di là di questo livello, i bisogni umani sono storici nel senso che il loro sviluppo così come la loro pretesa di soddisfazione costituiscono il prodotto della corrispondente società e sono, di conseguenza, soggetti alla critica politica e ai suoi criteri: soggetti alla domanda se il loro appagamento soddisfi un bisogno individuale, umano, o "solo" sociale - un bisogno imposto all'individuo nell'interesse di una società che dipende dalla repressione del libero sviluppo dei bisogni. Il fatto che l'appagamento di tali bisogni sociali sovraimposti soddisfi anche l'individuo e lo renda "piìi felice" è inaccettabile. Vi sono bisogni "falsi" e bisogni "reali": i primi servono a perpetuare la fatica, l'aggressività e i poteri costituiti (come il bisogno di comprare un'automobile nuova ogni anno o ogni tre anni, il bisogno di rilassarsi d'avanti alla televisione, di lavorare in una fabbrica di armamenti, di mangiare brioche al posto del pane, di "mantenersi allo stesso livello dei vicini"). In ultima analisi, alla domanda su quali siano i bisogni "reali" devono rispondere gli stessi individui - ma solo in ultima analisi. Finché gli individui sono indottrinati e manipolati da una società sovrimposta (manipolati sin nelle loro pulsioni), la risposta che essi danno alla domanda non può essere accolta come la loro propria. Analogamente, però, nessun "tribunale" può legittimamente arrogarsi il diritto di decidere quali bisogni dovrebbero essere sviluppati e soddisfatti. .139
Anche qui la razionalità totalitaria della società industriale avanzata rende il problema puramente teorico. La trasposizione dei bisogni sociali in bisogni individuali è così efficace, che ogni distinzione sembra impossibile o arbitraria. Si può, ad esempio, distinguere realmente i mezzi di comunicazione di massa in quanto strumenti tecnici e in quanto strumenti di manipolazione, di informazione e di intrattenimento? Tra la dannosità e la funzionalità dell'automobile? Tra gli orrori e le comodità dell'architettura funzionalistica? Tra industrie che lavorano per la difesa nazionale e per il guadagno delle grandi società per azioni? Tra il piacere privato e l'utile commerciale e politico implicato nell'aumento del tasso di natalità. Ci troviamo nuovamente di fronte a uno degli aspetti più irritanti della civiltà industriale avanzata: il carattere irrazionale della sua razionalità. La sua produttività e efficienza, la sua capacità di accrescere e diffondere gli agi, di rovesciare lo spreco in bisogno e la distruzione in costruzione, la misura in cui essa assoggetta la natura (anche la natura umana) al potere dell'uomo: tutto ciò rende problematico il concetto di alienazione. La miseria generale appare come un disturbo personale, da curare mediante lo psicologo. Non è che in questa fase la non-libertà e M dominio si siano ridotti (interpretazioni siffatte distorcerebbero enormemente i fatti), ma la trasformazione dei controlli politici in tecnologici ha mutato i meccanismi che legano gli individui alla loro società. Come la divisione stabilita dell'apparato produttivo e il suo controllo, in virtù della propria efficienza e capacità, paiono materializzare la ragione, così il rifiuto politico, intellettuale, emotivo, di "stare al gioco" sembra nevrotico e impotente. Nelle aree più avanzate di questa civiltà i controlli sociali sono stati introiettati negli individui sino ad una profondità che oscura la distinzione tra il comportamento imposto e quello spontaneo. Il termine "introiezione" non rende più il modo in cui l'individuo riproduce e perpetua da sé i controlli esterni esercitati dalla società. "Introiezione" suggerisce una varietà di processi relativamente spontanei mediante i quaH il Sé (l'Io) traspone 1' "esterno" in "interno"; perciò "introiezione" implica l'esistenza di una dimensione interna distinta dalle esigenze esterne e a queste antagonistica una coscienza e un inconscio individuali, separati dall'opinione e dalla condotta pubbliche. L'idea della "libertà interna" ha qui la sua realtà: essa designa lo spazio privato nel quale l'uomo può rimanere se stesso di fronte agli altri, con se stesso nel suo essere con e per gli .160
altri. Ora, proprio tale spazio privato, nella realtà tecnologica, è stato invaso e ridotto in frantumi. La produzione e la distribuzione di massa rivendicano \intero individuo, e la psicologia industriale ha cessato da tempo di essere confinata negli stabilimenti. I processi multiformi dell'introiezione sembrano essersi ossificati in reazioni quasi meccaniche. Il risultato non è un "adattamento", ma la mime.sr. un'identificazione immediata dell'individuo con la sua società, e, attraverso questa parte della società, con la società intera. Tale identificazione immediata, "spontanea" (che secondo un'autorevole dottrina sociologica distingue la "comunità" dalla "società") fa nuovamente la sua comparsa nella fase della civiltà altamente industrializzata; tuttavia, in contrasto con l'antica identificazione con la comunità, la nuova "immediatezza" costituisce il prodotto di un processo, sofisticato e scientifico, di organizzazione e manipolazione. In tale processo, la dimensione "interna" della psiche è ridotta in frantumi: la dimensione nella quale possono radicarsi la protesta e l'opposizione allo status quo, nella quale ha la propria sede il potere del pensiero negativo - la Ragione come il potere critico della negazione. La perdita di tale dimensione diviene manifesta nell'indebolimento degli elementi non apologetici, non conformistici dell'ideologia, di quei valori, immagini, idee, dai contorni indefiniti, una volta incorporati nel vocabolario essenziale, non solo della letteratura e della filosofia, ma anche del linguaggio ordinario, intimamente personale. Alcuni esempi a caso: l'Anima e lo Spirito, /a rahon du coeur, la ricerca dell'assoluto; Les Fleurs du Mal; la femme-enfant\ Feme e Heimat; la fatale fedeltà all'uno o all'altro; l'amore tragico e l'eroe tragico. Tale vocabolario, essenzialmente pre-tecnologico, allude a dimensioni esistenziali divenute, nella realtà tecnologica, obsolete; le si sta liquidando con la trasformazione dell'universo naturale in un universo tecnologico scientificamente dominato, amministrato e manipolato. Erano, però, le dimensioni obsolete, proprio quelle antagonistiche all'organizzazione repressiva della vita - antagonistiche nel senso che le idee e le immagini appartenenti a questa sfera erano vincolate a modi di esistenza che, con la loro felicità e sofferenza "eccessive", minacciavano di far esplodere la realtà costituita. Esse trascendevano l'universo dato del discorso e del comportamento, non in direzione di un Al di là, o di un altro mondo, ma di possibilità esperite personalmente, sebbene normalmente ostracizzate (e tuttavia momentaneamente realizzate). Nella misura in cui queste .161
erano presenti alla coscienza individuale, reali nel pensiero e nel linguaggio, l'esistenza (e la natura) umana era lungi dall'essere interamente racchiusa in un unico universo operazionale, strumentale (del lavoro e del tempo libero) - piuttosto l'universo dato apriva ad un'altra dimensione, qualitativamente differente. La società tecnologica tende, all'opposto, ad assorbire quest'altra dimensione. La civiltà industriale avanzata presenta modelli di pensiero e di comportamento secondo i quali idee, aspirazioni, e obiettivi che trascendono qualitativamente, per il loro contenuto, lo stato di cose costituito, sono o respinti, o assimilati a questo stato di cose. La razionalità tecnologica rende la dimensione trascendente irreale o irrealistica, o ne traduce i contenuti in un contesto operazionale. Essi sono incorporati nella razionalità di ciò che è e può essere entro la realtà data. La società tecnologica è, in questo senso, un universo a una dimensione, dal quale la differenza qualitativa, la negazione è esclusa. In esso, non si può piìi designare la Ragione come "il potere del negativo" che distrugge la falsa coscienza e sostiene le possibilità del progresso negate e sconfitte; del tutto ragionevolmente, la Ragione è diventata coestensiva e conformista rispetto all'organizzazione, esistente e in espansione, dell'uomo e delle cose, e la stessa critica, ampiamente diffusa e libera nelle aree democratiche, viene a patti con tale organizzazione. Negli ambienti accademici questa tendenza si dà a vedere in una serie di operazioni di liquidazione intellettuale, che rovesciano il pensiero teoretico in pensiero comportamentista, quale ad esempio la liquidazione della filosofia ad opera della filosofia analitica, della psicologia ad opera della psicologia industriale, della sociologia ad opera della ricerca di mercato; la tendenza si riassume nell'unione di istruzione, corporation e difesa, e nell'ideologia che proclama la fine dell'ideologia. Il pensiero e il comportamento a una dimensione sono promossi in modo sistematico dagli artefici della politica e dai loro fornitori di informazione: il loro universo di discorso è popolato da ipotesi autoconvalidantisi, le quali, ripetute in modo incessante e "monopolistico", diventano definizioni o prescrizioni ipnotiche. "Libere" sono, ad esempio, le istituzioni che operano (e sono messe all'opera) nei paesi del Mondo Libero; altri modi di libertà, trascendenti, sono anarchismo, comunismo, o propaganda. "Socialiste" sono tutte le intromissioni nelle imprese private, che non siano compiute da certe imprese private (o da accordi col governo): un'assicurazione sani.162
taria universale e onnicomprensiva, o la protezione della natura mediante l'istituzione di parchi nazionali, o lo sviluppo dei servizi pubblici, che potrebbe ledere il profitto privato. Tale dittatura totalitaria dei fatti stabiliti ha il suo corrispondente all'Est. Lì libertà è il modo di vita istituito da un regime comunista, e tutti gli altri modi trascendenti di libertà sono o capitalistici, o revisionistici, o settarismo estremistico. In entrambi i campi le idee non operazionali sono non-comportamentali, non scientifiche, sovversive. La Ragione è rovesciata nella sottomissione ai fatti della vita e alla capacità dinamica di produrre fatti del medesimo tipo di vita, in maggior numero e di maggior entità. L'apparato tecnico-politico, la sua razionalità e produttività totalitarie, si oppongono al mutamento, offuscano la consapevolezza che i fatti sono prodotti, mediati dalla Soggettività (una consapevolezza a lungo contenuta nel metodo delle scienze). L'abito di pensiero prevalente non si consente di pervenire al riconoscimento che i fatti contengono la loro negazione: che essi sono ciò che sono (e come sono) poiché escludono le possibilità la cui realizzazione li distruggerebbe in quanto fatti. In relazione all'esistenza umana, tali possibilità possono essere migliori o peggiori - in ogni caso, la capacità di valutare le alternative esige la libertà di andare al di là dei fatti e al di là delle operazioni definite dai fatti. Una simile libertà non riguarda esclusivamente 1' "uomo interiore", la coscienza e la consapevolezza - dipende dalle condizioni sociali che provocano e consentono la dissociazione dai fatti dati - nello spazio, tanto politico quanto privato, nel quale il pensiero genuinamente libero può svilupparsi, "testando" i fatti così come le possibilità bloccate dai fatti dati. Questo modo di pensiero sembra ora però metafisico, irrazionale, illusorio. È ragionevole che appaia così, giacché la società tecnologica sta chiudendo lo spazio, in precedenza inviolato, che costituiva il rifugio di immagini della realizzazione dell'uomo socialmente ostracizzate. E la chiusura di tale spazio cancella la forza terapeutica del pensiero operazionale, analitico: la lotta contro la metafisica, lo smantellamento delle illusioni e delle ideologie - l'insistenza sui concetti di comportamento liquida la trascendenza metafisica e quella storica, le possibilità illusorie e quelle reali; promuove la sottomissione a ciò che è. Inutile precisare che responsabile di tali tendenze non è un modo del pensiero, della filosofia e della teoria. Teoria e pratica trovano piuttosto il loro fondamento comune nella struttura costituita .163
della società industriale avanzata, la cui razionalità tecnologica è al tempo stesso una razionalità politica, che intensifica il dominio dell'uomo sull'uomo mediante il dominio sulla natura. Su questo terreno comune, l'operazionalismo teorico e quello pratico sono fusi insieme in un modello di comportamento a una dimensione. Le realizzazioni del progresso si sottraggono alla giustificazione così come all'accusa dell'ideologia; d'avanti alla loro realtà, la "falsa coscienza" evapora insieme con la coscienza vera delle alternative storiche. Le alternative storiche sono implicate nell'idea del consumarsi del progresso tecnico. Ho indicato il livello o lo stadio nel quale il progresso risulterebbe incompatibile con la realtà costituita, quello in cui l'automazione ridurrebbe il tempo del lavoro necessario ad un intervallo marginale. A questo punto, il progresso tecnico trascenderebbe il regno della penuria organizzata e cesserebbe di funzionare all'interno dell'apparato di dominio e sfruttamento che determina la razionalità tecnologica. Il "fine" della tecnologia sarebbe invece "dislocato" in direzione di un libero gioco delle facoltà - nel senso letterale di un gioco con le vere capacità dell'uomo e della natura: sarebbe la pacificazione dell'esistenza. Un tale modo di esistenza qualitativamente nuovo non può mai prospettarsi come mera ricaduta secondaria di mutamenti economici e politici, come l'effetto più o meno spontaneo di nuove istituzioni, sebbene queste ne costituiscano la premessa necessaria. La meta costituisce, in senso letterale, un a priori tecnico. Ciò significa che il mutamento qualitativo dipenderebbe da un mutamento nella base tecnica sulla quale si fonda tale società, e che sostiene le istituzioni economiche e sociali mediante le quali si stabilizza la "seconda natura" dell'uomo. La tecnica dell'industrializzazione pregiudica le mete da raggiungere al di là della soddisfazione dei bisogni vitali, pregiudica le possibilità della Ragione e della Libertà. Certo, il lavoro deve precedere la riduzione del lavoro, e l'industrializzazione deve precedere lo sviluppo dei bisogni umani e del loro appagamento. Ma se ogni libertà Apende dalla conquista della necessità, la realizzazione della libertà dipende dalla tecnica della sua conquista. La massima produttività del lavoro può essere utilizzata per la perpetuazione del lavoro, e l'industrializzazione piii efficiente può servire alla restrizione e alla manipolazione dei bisogni. La tecnologia che le società industriali hanno ereditato e sviluppato, e che governa le nostre vite, è sin nelle sue radici una tecnologia del dominio. Il compimento del progresso tecnico .164
implica perciò la negazione determinata di questa tecnologia. Ho sostenuto che sarebbe un'enorme, grossolana semplificazione attribuire gli elementi repressivi della società industriale solo ad uno specifico uso della tecnologia, a una specifica applicazione della ragione scientifica. In un certo senso, l'applicazione è stata prefigurata dal metodo: vi è stata un'armonia e affinità prestabilita tra l'idea e la sua realizzazione. L'esplicitazione del nesso interno tra tecnologia e dominio deve essere lasciata a un'ulteriore ricerca. Vorrei però evitare l'equivoco cui il suggerimento di tale nesso sembra indurre. La critica della tecnologia non mira né a una regressione romantica, né a una restaurazione spirituale dei "valori". I tratti oppressivi della società tecnologica non sono dovuti all'eccesso di materialismo e di tecnica. Al contrario, sembra che le cause del problema siano n&VCarresto del materialismo e della razionalità tecnologica, cioè nelle restrizioni imposte alla materializzazione dei valori. Queste restrizioni sono proprie di un particolare periodo della civiltà, di una particolare organizzazione della lotta per resistenza. La loro abolizione, cioè la liberazione della tecnologia, coinvolgerebbe l'intera cultura materiale e intellettuale della società industriale avanzata. Il persistente "funzionamento" di tale cultura (nonché la sua crescita) dipende dalla conservazione dei limiti che essa impone alla tecnologia. Questi, in più, determinano la direzione nella quale il progresso tecnico si sviluppa all'interno di tale cultura. L'idea di forme qualitativamente differenti della razionalità tecnologica appartiene al nuovo progetto storico.
NOTE
^ Questa è definita, nell'ambito del presente intervento, come una società basata sulla grande industria meccanizzata con un crescente settore automatizzato. ^ Si affronterà a breve la difficoltà di definire il termine "razionale".
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Il contenimento del mutamento sociale nella società industriale'
Stasera vorrei discutere con voi di alcune tendenze della società industriale avanzata. Tengo a sottolineare che si tratta solo di tendenze, ma di tendenze che potrebbero condizionare negativamente il futuro. Inizio dicendo che abbiamo di fronte un nuovo tipo, una nuova forma di società, alla quale le categorie tradizionali — politiche, sociologiche, persino psicologiche - non sembrano più applicabili. Alcuni esempi: se considerate la situazione odierna e la forma della società, il capitalismo non sembra pivi essere lo stesso di un tempo; il socialismo di certo non sembra essere ciò che pensavamo e ci aspettavamo sarebbe stato. In questa situazione nascono tali concetti spuri, come capitalismo di Stato o socialismo di Stato, che non hanno molto senso. Oppure pensate a ciò che è diventata la democrazia, se l'Ovest e l'Est pretendono di essere democratici. Pensate a concetti consolidati quale quello di imperialismo; ai giorni nostri l'imperialismo, dove esiste, certamente non è piià l'imperialismo economico, che possiamo denominare imperialismo classico. Ciò si applica anche alle categorie psicologiche, che paiono non essere piìi valide. Sembra, e spero di potervi fornire stasera alcuni esempi di ciò che intendo, che nozioni quali inconscio e sublimazione abbiano mutato di significato - se non lo hanno perso del tutto. Ora, mi sembra che l'elemento nuovo in questa forma di società sia un nuovo rapporto tra dominanti e dominati, tra amministratori, da un lato, e popolazione amministrata, dall'altro. Ciò che abbiamo di fronte non è descritto adeguatamente in termini di società di massa. Lo stesso concetto di "società di massa" è, credo, un concetto ideologico. Esso suggerisce che le masse determinino realmente la cultura
* Conferenza presentata all'Università di Stanford il 4 maggio 1965. Pubblicata per la prima volta in H . M A R C U S E , Towards a Criticai Theory of Society. Collected Papers ojHerbert Marcuse, voi. II, ed. by D. Kellner, London-New York, Routledge, 2001, pp, 83-93.
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intellettuale e materiale, almeno in misura considerevole. In realtà abbiamo di fronte una società altamente centralizzata, controllata sistematicamente dall'alto, in tutte le sfere della cultura. Le masse, che certamente esistono, sono il prodotto e l'oggetto di tale controllo e amministrazione; in quanto prodotto e oggetto di amministrazione, esse divengono a loro volta attive e rumoreggianti, e determinano le politiche che i loro controllori e amministratori vogliono che esse determinino. Tale controllo sta gradualmente raggiungendo l'entità di un'amministrazione totale, che (e questo è un ulteriore nuovo elemento storico) che opera mediante la direzione dell'enorme apparato tecnico e tecnologico di produzione, distribuzione e comunicazione; un apparato tanto enorme e razionale che gli individui, e anche i gruppi di individui, sono impotenti contro di esso. Né possiamo realmente chiamare questa società una società tecnologica. Tecnologica sarebbe una società che operasse secondo l'uso pili efficiente e razionale delle risorse disponibili. Io sostengo che quella di "società tecnologica" costituisce, di nuovo, una denominazione ideologica, che non ritrae adeguatamente la nostra società. Sostengo che la società industriale avanzata è definita non dalla razionalità tecnologica, ma dal suo opposto: dal blocco, dall'arresto e dal pervertimento della razionalità tecnologica - o, in sintesi, dall'uso della tecnologia come strumento di repressione, come strumento di dominio. Vorrei brevemente definire, in partenza, cosa intendo per repressione, dal momento che non utilizzo il termine nel senso tecnico psicoanalitico. Il livello della repressione deve misurarsi non solo sul presente e sul passato, ma sulle possibilità accessibili all'individuo e alla società. Ai nostri giorni, la repressione è caratterizzata principalmente dalla sussistenza del lavoro e di prestazioni alienate in una situazione nella quale il lavoro alienato potrebbe essere ampiamente abolito. La repressione è ulteriormente caratterizzata dall'ovvio e diffuso declino della libertà individuale, dal declino dell'indipendenza di pensiero e espressione. In altri termini, invece di una crescente tendenza all'autodeterminazione, orientata sulla capacità dell'individuo di determinare la propria esistenza, la propria vita, abbiamo l'opposto: l'individuo appare sempre piti impotente, posto a confronto con l'apparato tecnologico e politico eretto dalla società. Da ultimo, e forse in misura maggiormente considerevole, la repressione è caratterizzata dal fatto che la lotta per l'esistenza continua, e si fa .168
persino più intensa - a un livello, lo ripeto, di progresso culturale e di risorse che ne renderebbero possibile la pacificazione. Ora, ritengo che questo uso della tecnologia, questo uso repressivo della tecnologia, violi e neghi il fine e lo scopo immanenti alla tecnologia. Chiarisco ciò che intendo. II vero compimento della razionalità tecnologica e del progresso tecnico, il fine immanente alla tecnologia, implicherebbe l'uso pianificato delle capacità disponibili, tanto intellettuali quanto materiali, per la soddisfazione di bisogni umani vitali, su scala globale. L'autentica razionalità tecnologica sarebbe caratterizzata dall'illimitata riduzione del lavoro socialmente necessario, della fatica e della repressione. In altri termini, il compimento autentico del progresso tecnico significherebbe la pacificazione della lotta per l'esistenza, sul piano tanto individuale, quanto nazionale e internazionale. Abbiamo invece un apparato utilizzato sistematicamente per intensificare il bisogno di guadagnarsi da vivere con un'occupazione a tempo pieno. E tale sussistenza, tale perpetuarsi del bisogno di guadagnarsi da vivere come occupazione a tempo pieno è alimentato dalla produzione su larga scala di spreco, dall'obsolescenza pianificata, dalla distruzione delle risorse, e dalla canalizzazione dell'ampia produttività della civiltà industriale avanzata in una distruzione profittevole. La questione riguarda il perché ciò stia accadendo. Io sostengo che ciò accade perché un uso veramente privo di restrizioni e razionale delle risorse tecniche, del progresso tecnico, tenderebbe a ciò che si chiama abolizione del lavoro e della penuria, e a una società nella quale Ìl tempo di lavoro è ridotto a una porzione marginale e il tempo libero diviene tempo pieno. E una tale condizione significherebbe il collasso delle istituzioni sociali e politiche che si fondano sulla permanente necessità del lavoro e della lotta per l'esistenza. Di più: una tale condizione, che è del tutto realistica, significherebbe il collasso della civiltà costituita, fondata su una morale che si fonda a sua volta sul bisogno di una vita di lavoro, di rassegnazione, di ciò che Max Weber ha denominato "ascetismo intramondano". Ora, contro la minaccia suprema da parte di una società che potrebbe davvero consentirsi di abolire il lavoro umano, il lavoro fisico, nel processo di produzione e di distribuzione - contro questa suprema minaccia nei confronti delle istituzioni costituite, e della morale costituita, sono mobilitate le attuali società industriali avanzate. Tuttavia, per affrontare questa minaccia le forme tradizionali di .169
dominio non sono piii sufficienti. Sono all'opera nuove forme di dominio, forme tecnologiche di dominio e di repressione; l'amministrazione, cioè, di bisogni e soddisfazioni che riproducono la lotta per l'esistenza, e riproducendo la lotta per l'esistenza riproducono una forma di società che necessita del perpetuarsi della lotta per l'esistenza. Ciò costituisce un elemento nuovo, una nuova forma di dominio, che la società è riuscita a perfezionare per la prima volta nella storia. I bisogni dell'individuo (anche i bisogni e le gratificazioni pulsionali) sono manipolati in modo tale che essi al tempo stesso rafforzano la coesione della società repressiva in cui sono appagati. Nel conseguimento di tali risultati, la società ha integrato gli individui al punto tale che nessuna fuga sembra possibile. Di più: ha realizzato una condizione nella quale gli individui riproducono la propria servitìi; sono gli stessi esseri umani che respingono la propria liberazione. È una servitù volontaria, una servitù - come sembra - perfettamente razionale, poiché, nella misura in cui accettano bisogni e gratificazioni socialmente preformati e predeterminati, gli individui vivono realmente meglio che mai prima d'ora. La produttività crescente della società fornisce beni e servizi per una vita migliore - una vita migliore anche per strati della popolazione rimasti a lungo svantaggiati. Non c'è da stupirsi, e sembra del tutto razionale, che il popolo si sottometta a una società che gli garantisce una soddisfazione crescente, anche se la prosperità di questa cosiddetta "società opulenta" si afferma in un universo di guerra, miseria e distruzione. All'interno della società opulenta - e potete comprendere come io faccia uso di tale denominazione in senso ironico, giacché non può dirsi seriamente opulenta una società che perpetua la propria opulenza nel bel mezzo della povertà, della miseria e della guerra si impone la contraddizione permanente tra la produttività straripante, da un lato, e dall'altro, la restrizione e il pervertimento del suo uso-, tra la possibilità storica della pace e l'attualità della guerra. La contraddizione è però celata da un velo tecnologico. In questa società, ciò che è irrazionale appare razionale, poiché la gente gode davvero di maggiori agi e svaghi. Il dominio ha l'apparenza della libertà, poiché la gente può scegliere davvero beni prefabbricati, e candidati prefabbricati. Dietro il velo tecnologico prosegue, come prima, il dominio dell'uomo sull'uomo, operante nel quadro di una concezione e in un .170
contesto di individui liberi. Vorrei ora chiarire tale svolta decisiva nei rapporti storici di dominio, in forza della quale, per la prima volta nella storia, su una scala così ampia i dominati collaborano liberamente e razionalmente con coloro che li dominano. La illustrerò mediante il riferimento a un famoso passaggio della Fenomenologia dello spirito di Hegel, la dialettica di signore e servo. Secondo Hegel, all'origine del dominio è la lotta mortale per il riconoscimento degli uomini come liberi individui. E l'esperienza primaria, l'esperienza originaria, è quella della differenza di signore e schiavo. L'uno è libero perché è riuscito a imporre all'altro di lavorare per lui: lo schiavo è un essere-per-altro, per il signore; il signore afferma e riconosce la propria libertà mediante il suo potere di ottenere dallo schiavo gli oggetti dei propri bisogni e desideri. Gli oggetti di cui necessita per soddisfare i propri bisogni gli sono forniti esclusivamente dal lavoro dello schiavo, il quale è incatenato alle cose di cui il signore ha bisogno per essere libero. Il potere del signore suUe cose coincide perciò col potere del signore sugli uomini. Egli, però, è libero e può soddisfare i propri bisogni solo in quanto lo schiavo lavora per lui e gli fornisce gli oggetti per la soddisfazione dei suoi bisogni. In altri termini, il signore scopre di dipendere dallo schiavo. Il dominio è perciò in realtà la dipendenza reciproca del padrone e dello schiavo. E nel medesimo processo lo schiavo diviene cosciente del proprio potere sul padrone, giacché gli oggetti del desiderio del padrone esistono solamente in quanto lo schiavo li ha portati, col proprio lavoro, alla forma in cui il padrone può farne uso. In altri termini, per Hegel il lavoro dello schiavo costituisce la sostanza reale dell'oggetto lavorato. L'intero dominio dell'uomo sull'uomo si regge solo sul dominio sulle cose alle quali l'altro uomo è incatenato dal proprio lavoro. Vuol dire che se l'esistenza umana non fosse piìi oggettivata, e non si esaurisse in cose estranee e estranianti, si dischiuderebbe la strada al riconoscimento reciproco degli uomini come liberi individui. L'attuale sviluppo storico del dominio sembra a prima vista confermare tale analisi. Nella misura in cui il lavoro ha cessato di essere l'opera dello schiavo e si è generalizzato alla società, si è davvero democratizzato e generalizzato anche il dominio - non ne è risultata, però, la libertà. Non vi è stata libertà perché non solo lo schiavo o il lavoratore, ma l'uomo è rimasto incatenato a un mondo di cose che, invece di esserne controllate, hanno continuato a con.171
trollare la sua esistenza. L'uomo è rimasto subordinato, di fatto sempre piii subordinato, all'onnipresente apparato produttivo e politico che egli stesso ha creato. La scienza e la tecnologia avevano dominato n mondo oggettivo sino al punto in cui esso avrebbe potuto perdere - come è avvenuto - il suo potere estraneo e ostHe, per essere trasformato nel medium della realizzazione dell'uomo. Il rapporto padrone-schiavo sarebbe stato abolito e grazie alla conquista della penuria non vi sarebbe stato alcun bisogno dell'ascetismo intramondano. Invece, il domino si è conservato e riprodotto come la base sempre più contraddittoria della civiltà costituita, fino a che la contraddizione si è dispiegata nella società opulenta. Nella mia analisi, il "paradosso" della società opulenta costituisce realmente la legge della sua esistenza; quanto piìi si estende la conquista della natura, tanto più si riduce il potere dell'uomo sulla propria esistenza sociale e privata, quanto più si accresce la conquista e la conoscenza della natura propria dell'uomo, nella psicologia e nella sociologia, tanto più facilmente l'essere umano diviene l'oggetto di un'amministrazione e un controllo totali. Quanto più aumenta la produttività del lavoro, tanto più reca con sé distruttività e spreco. Per la prima volta nella storia, la società dispone delle risorse materiali e intellettuali per creare una vita senza paura, una vita di pace, e ancora la minaccia della guerra e della paura sono maggiori che mai. Le ragioni di tale sviluppo sono note, sicché devo solo riassumerle brevemente. La scienza e la tecnologia si sono strutturate e sviluppate all'interno di un contesto sociale che si opponeva all'uso pianificato del progresso per la soddisfazione dei bisogni dell'uomo. La soddisfazione, per quanto si accrescesse, era solo il prodotto secondario della produttività profittevole. Ora però la dinamica della società ha raggiunto lo stadio in cui la sua produttività ne minaccia la base. L'automazione mina la base della penuria, della fatica e della repressione, e minaccia di farla finita col bisogno di guadagnarsi da vivere mediante un'occupazione a tempo pieno. E la sfida finale al dominio, e ne va dell'esistenza stessa della civiltà costituita. Questa dipende infatti interamente dal perpetuarsi del bisogno del lavoro alienato, da un organismo che è strumento di lavoro piuttosto che di piacere, e la possibilità reale della liberazione dalla repressione minaccia le istituzioni della repressione. Come può la società contemporanea risolvere la contraddizio.172
ne? Creando e riproducendo in modo sistematico e metodico il bisogno del lavoro alienato, non col terrore, ma mediante il condizionamento scientifico dei bisogni individuali e la riduzione dei bisogni spontanei ai bisogni richiesti socialmente. Essa risolve la contraddizione chiudendo ogni via di fuga, protesta, rifiuto e dissociazione, assorbendo o sconfiggendo ogni opposizione reale, chiudendosi contro il mutamento sociale qualitativo, contro l'emergere di nuove forme dell'esistenza umana, e soffocando il bisogno del mutamento sociale. Il risultato è la conquista sociale della totalità dell'esistenza dell'uomo, inclusa la sfera pulsionale, incluso l'inconscio. E questa è una delle ragioni per cui all'inizio ho affermato che tali categorie psicologiche, appartenenti ancora alla fase liberale della modernità, non possono più essere adeguate. Possiamo realmente parlare di un inconscio (nel senso in cui Freud faceva uso del termine), se l'inconscio è divenuto con tale facilità soggetto al controllo sociale mediante le tecniche della pubblicità, della psicologia industriale, o della scienza delle human relationsì Vorrei offrire delle delucidazioni circa l'inedita conquista, da parte della società totale, di sfere dell'esistenza umana sinora libere dal controllo e dall'amministrazione sociale. Lo farò applicando la teoria freudiana delle pulsioni allo sviluppo della struttura psichica degli individui nella società opulenta. Prima vorrei rammentarvi che, come in Eros e civiltà, alla base della mia esposizione è la versione finale della teoria freudiana delle pulsioni, secondo la quale vi sono due pulsioni primarie; Eros, le pulsioni di vita, denominate precedentemente pulsioni sessuali, e le pulsioni di morte e distruzione le prime governate dal principio di piacere, le seconde dal principio del Nirvana, il che significa che queste ultime mirano alla distruzione della vita e al ritorno ad uno stato libero da tensione, precedente la nascita. Devo solo aggiungere che secondo tale concezione, l'energia pulsionale nell'organismo è costante, ma la sua distribuzione tra le due pulsioni primarie è variabile. In altre parole, se l'energia delle pulsioni erotiche, la libido, si riduce, significa che nello stesso tempo l'energia delle pulsioni distruttive e di morte aumenta, e viceversa. Ciò è importante per la breve esposizione che seguirà. Ciò cui l'Eros, la pulsione di vita - e spero che voi comprenderete il carattere del tutto ipotetico di quanto ho da dirvi - sta andando incontro in questa nuova società, che è riuscita a rendersi accessibile la sfera pulsionale dell'uomo, e ad amministrarne persino i .173
bisogni e le soddisfazioni pulsionali, è una liberazione repressiva. Lo spostamento terminologico dalla sessualità all'Eros costituisce qualcosa di più di un mero mutamento nominale. In contrasto con la sessualità, l'Eros, in quanto pulsione di vita, costituisce una forza pulsionale [instinctual drive, N.d.T.] che coinvolge e investe l'organismo nella sua interezza, mentre, a confronto con l'Eros, la sessualità rimane una pulsione parziale e localizzata. Vedrete in seguito l'importanza di tale distinzione. Che cosa si intende per liberazione repressiva? Ovviamente, a confronto con la fase precedente - l'epoca vittoriana e post-vittoriana - vi è un'ampia liberalizzazione della sessualità. In che modo una simile liberalizzazione è resa socialmente tollerabile, e quali ne sono le implicazioni? La situazione edipica rimane - secondo me - la condizione di fondo nella quale le pulsioni erotiche si sviluppano; il tabìi dell'incesto, la lotta contro il padre e il principio di realtà - tutto ciò permane. Nella lotta, però, il padre cede la sua funzione di rappresentante del principio di realtà, di colui che impone al bambino le rinunce e le restrizioni necessarie. La cede a favore di più giovani figure paterne al di fuori della famiglia, a tutta una serie di leader, campioni, personaggi famosi, capisquadra, e così via, che rappresentato tutti il principio di realtà molto meglio e con maggior efficacia di quanto non facesse il padre. Di fatto, il padre progressivo dei nostri tempi non può assolvere la funzione che aveva da assolvere il padre autoritario di Freud. Di certo non costituisce piià il rappresentante minaccioso del principio di realtà. Il moderno "papà" è piuttosto una figura ridicola, e nessuno si aspetterà che egli possa realmente assolvere il compito che gli viene attribuito. In qualche modo l'intero rapporto di forza sembra mutato. E la nuova generazione che impone il principio di realtà al papà, e non il contrario. In quali sedi si impone allora, realmente, sul bambino il principio di realtà? Naturalmente, in primo luogo mediante i mass media. Il declino del ruolo del padre costituisce anche un mutamento economico, poiché oggi il padre non ha più la funzione di trasmettere all'erede le attività di famiglia e le sue competenze; tutto ciò appartiene al passato. Col declino del padre la funzione di rappresentare il principio di realtà è trasferita - diciamo così, per brevità - ai mass media, e ai loro rappresentanti. Il Super-io, quale è rappresentato dal padre autoritario, tramonta, e gli imperativi morali, una volta imposti al bambino dal Super-io, sono sostituiti dagli imperativi dei .174
mass media. Essi dicono al bambino e all'adolescente precisamente chi è e chi è tenuto ad essere, e senza gli innumerevoli conflitti una volta legati alla ricerca dell'identità. Gli prescrivono anche quale tipo di sapone o di deodorante usare, quale tipo di taglio portare. Così una funzione precedentemente assolta dalla famiglia, che si riteneva dovesse essere il risultato della lotta del bambino e dell'adolescente per il proprio riconoscimento, è ora svolta in larga parte dai cosiddetti "media". Col mutamento del rapporto di forza nel conflitto della pubertà e con l'indebolimento del Super-io, abbiamo naturalmente quasi un allentamento dei tabù sessuali; il tabù della verginità, il tabù dei rapporti prematrimoniali e extramatrimoniali, la liberalizzazione nel vestire, l'esibizione del corpo in un modo anch'esso in precedenza respinto come tabù. In altre parole, una genuina liberalizzazione della morale sessuale. Questa liberalizzazione (e viene ora il grande "ma") ha luogo tuttavia in una società repressiva, che è riuscita a fare del sesso una merce in vendita, eliminando, così, e sottomettendo molte di quelle forze e di quei tratti che secondo Freud rendevano la sessualità e l'Eros una potenza realmente liberatrice e socialmente pericolosa. Nella società opulenta il sesso è utilizzato come merce, come espediente pubblicitario, e persino come status symbol, la liberalizzazione del sesso è praticata da individui che rimangono alienati e resta definita dall'alienazione. Inoltre, e anche più significativamente, la soddisfazione socialmente garantita diviene un veicolo di adattamento, come è indicato chiaramente dal fatto che lo psichiatra diviene un'istituzione utile all'autorealizzazione, un'autorealizzazione, però, che non elimina l'alienazione - non ne sarebbe in grado - ma la rende almeno gradevole all'individuo. AUa luce di tali caratteristiche, ho denominato la liberalizzazione della morale sessuale desublimazione repressiva; un concetto paradossale, dal momento che la desublimazione è, in sé, una riduzione della repressione, ma lo è solo in quanto risulta dalla libertà e dalla soddisfazione dell'individuo. La desublimazione autentica, non repressiva, costituirebbe una liberazione dell'energia erotica, non solo sessuale, e - cosa più importante - si manifesterebbe nel tramonto di bisogni e soddisfazioni aggressivi, distruttivi e eteronomi. Inversamente, nell'aumento dell'energia veramente liberata registreremmo una sorta di de-socializzazione, una dissociazione dalla società repressiva. Un'autentica desublimazione significherebbe l'afi^ermarsi del bisogno pul.175
sionale [instinctual, N.d.T.] di privacy, quiete, tenerezza, solidarietà, pace, sulle pulsioni aggressive e competitive e al di là di esse. Quelle erotiche sono infatti pulsioni realmente di vita, tali da prevalere sulla distruttività e l'aggressione, sulla crudeltà e la violenza, e da tendere alla creazione di un ambiente veramente pacificato e umano. Ritengo non sia necessaria una lunga dimostrazione per constatare come oggi prevalga la tendenza opposta: la desublimazione, la liberalizzazione della moralità sessuale è accompagnata dalla scarica di energia distruttiva e aggressiva, su una scala sinora sconosciuta. Ciò significa che la desublimazione è confinata nella sessualità in quanto pulsione parziale, soddisfatta in una zona localizzata dell'organismo, mentre la trascendenza erotica, la calessi dell'intero organismo, e l'impulso a dar forma ad un ambiente proprio, pacifico e piacevole - tutto ciò è tagliato fuori. La soddisfazione desublimata rimane uno sfogo temporaneo, che lascia immutata la repressione sociale. E nella misura in cui la società invade aree dell'esistenza precedentemente private e protette, nella misura in cui essa plasma e determina anche i bisogni e le gratificazioni pulsionali dell'uomo, il principio di realtà si estende ai danni del principio del piacere e delle pulsioni erotiche. In una parola, la vistosa liberalizzazione della morale sessuale, la desublimazione repressiva, è caratterizzata dalla contrazione, più che dall'estensione dell'energia erotica, dalla sua contrazione nella sessualità - vale a dire dalla contrazione e dalla riduzione delle pulsioni di vita, piuttosto che dal loro rafforzamento. Se le cose stanno così, c'è da aspettarsi che la riduzione dell'energia delle pulsioni vitali sia compensata, dall'altro lato, dall'incremento dell'energia della pulsione di morte e di distruzione, così che la pulsione distruttiva risulti davvero rafforzata e estesa. Diamo un breve sguardo a cosa sta accadendo, in questa società, al partner mortale di Eros, alla pulsione di morte e distruzione. Credo che la crescita dell'aggressività sia sotto gli occhi di tutti. Al vertice della società, il calcolo razionale dell'annientarhento totale, con le future vittime pronte a stare al gioco. Nel complesso della società, al di là delle forme ordinarie di aggressione, l'uso aggressivo delle macchine per la soddisfazione di una forza altrimenti repressa: gare automobilistiche di ogni genere come sport, la violazione della natura e della scienza. Inoltre, la crescita di una criminalità dal carattere nuovo: azioni criminose significative e gratuite, che non hanno alla base alcun motivo individuale e personale, ma costituiscono .176
semplicemente l'affermazione dell'unica libertà rimasta all'individuo represso - la libertà di uccidere o di fare del male, senza essere in grado di mutare la propria posizione sociale. E qui di nuovo, con la scarica della pulsione di morte e di distruzione, sorge una situazione pericolosa, paradossale: la liberalizzazione della pulsione di distruzione non ne comporta un appagamento in grado di alleviarla. All'opposto. E il caso opposto perché nella società tecnologica l'allentarsi dei controlli sulla pulsione di morte riduce la soddisfazione pulsionale, invece di accrescerla, e reca con sé perciò la frustrazione, la quale a sua volta rende necessaria la riproduzione della pulsione distruttiva su larga scala. Perché ciò accade? Perché nella società tecnologica la vistosa liberazione delle pulsioni distruttive non reca la soddisfazione pulsionale che, secondo la psicologia, sarebbe, normalmente, da attendersi? Perché nell'aggressione e nella distruzione tecnologiche l'atto dell'appagamento è dislocato dall'agente umano all'agente meccanico, elettronico o nucleare. Il potere oggettivo della cosa separa la persona dal suo obiettivo, e realizza, come cosa, la soddisfazione del bisogno. Ne consegue l'indebolimento della responsabilità individuale l'ha fatto l'apparato, la macchina. Lo strumento, non la persona. In secondo luogo, ne consegue la contrazione della soddisfazione pulsionale individuale: nella misura in cui interviene l'apparato tecnico, l'energia pulsionale rimane inibita, intatta, e inappagata. Al tempo stesso diminuisce ugualmente la paura della morte, l'espressione della resistenza delle pulsioni di vita contro le pulsioni di morte. Nella società tecnologica la paura della morte tramonta. Nel caso estremo, è più facile morire se gli altri muoiono allo stesso modo. E pili facile uccidere se non vedi l'obiettivo, se l'obiettivo è a miglia o centinaia di miglia di distanza, e se l'assassinio è compiuto da uno strumento. Perciò, nella misura in cui la pulsione di morte è sublimata, come in guerra, nella difesa nazionale, nelle gare automobilistiche, essa conserva la propria distruttività, senza recare soddisfazione. Ci si potrebbe attendere, se è realmente vero che l'energia della pulsione di morte è inibita, che essa lasci il campo all'energia delle pulsioni di vita, alla libido. Sfortunatamente però, a differenza di Eros, l'energia distruttiva non è ridotta. Né tantomeno ne risulta ostacolato lo straripamento. La sua espansione non è impedita, ma resa più semplice.
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Prima cdi concludere, voglio sottolineare che a mio parere tale mutamento della struttura psichica, la desublimazione delle pulsioni di vita e la scarica frustrante delle pulsioni di morte, mini non solo le istituzioni repressive - come ho suggerito -, ma le basi della sublimazione e quindi della civiltà in quanto tale. Il mutato rapporto di forza, nella dinamica pulsionale, a favore dell'energia distruttiva potrebbe costituire una nuova svolta nella storia. L'universo di violenza nel quale oggi viviamo non è più lo stesso di quello della storia del genere umano. L'universo di Auschwitz e di Buchenwald, di Hiroshima e del Vietnam, della tortura e del potenziale atomico quale tecnica convenzionale nelle relazioni internazionali, non è piii l'universo storico della violenza. Qui davvero la quantità si muta in qualità e non solo la realtà, ma anche l'idea di umanità sembra oggi confutata. Concludendo, possiamo responsabilmente offrire una prospettiva maggiormente ottimistica di quella che vede l'universo della violenza destinato a permanere e a espandersi? In termini negativi dobbiamo ammettere che non vi è nessun movimento di massa, nessun movimento organizzato col quale ci si possa identificare, del quale si possa dire che produrrà con tutta probabilità un mutamento in direzione della pace. Oggi la realtà è in conflitto aperto e totale con la propria ideologia e con le proprie promesse. E non è un caso che il linguaggio orwelliano, secondo il quale la guerra è pace e la pace è guerra, sembra essere diventato il linguaggio ufficiale della politica odierna. Sotto il dominio di questo linguaggio ha luogo il governo della falsa coscienza, una falsa coscienza per la quale è sempre piìi difficile decidere cosa costituisce un fatto e cosa no, una falsa coscienza che reprime sempre di più fatti che sono alquanto evidenti. La falsità di questa coscienza è però più che evidente, e il manto di falsità è abbastanza esile; può cadere, può essere lacerato. Imparare a vedere e a pensare in modo indipendente, e a incrinare il potere dell'informazione e dell'indottrinamento standardizzati e imposti. Aiutare la gente a portare a compimento quest'opera, che costituisce uno degli assunti sui quali si è fondata la civiltà occidentale - il pensiero libero, indipendente, l'autodeterminazione dell'esistenza - , fare in modo che la gente comprenda di poter imparare, o almeno sforzarvisi: questo è davvero un compito intellettuale. E, di nuovo, penso che non sia un caso che la prima opposizione efficace contro le tendenze che ho tentato di delineare qui si lasci registrare nei campus del paese. .178
È un compito intellettuale, ma così prossimo alla prassi da poter facilmente congiungersi con essa, da poter congiungervisi praticamente in ogni momento, e trascendersi nella prassi. Vi richiamo solo il movimento per i diritti civili: non è stata necessaria qui nessuna organizzazione per stabilire una congiunzione tra la teoria e la prassi, tra l'idea - o piuttosto la protesta contro il tradimento dell'idea - e il tentativo di fare qualcosa per essa. Riconosco che si tratta di esili punti di congiunzione, ma proprio nell'afferrarli, e nello sforzo di non fermarsi, di procedere secondo una reale indipendenza del pensiero - precisamente qui riposa oggi la sola speranza per una vita migliore e pacifica.
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L'individuo nella Grande Società
Prima di esaminare la presunta funzione deir"indivicluo" nella Grande Società è necessaria una breve definizione (o piuttosto una ridefinizione) di questi termini. Mi propongo perciò di procedere col collocare le idee e i discorsi ufficiali e semiufficiali sulla Grande Società nella prospettiva della loro prevista realizzazione, e delle condizioni prevalenti (politiche, economiche, intellettuali) che determinano la possibilità (o l'impossibilità) di tale realizzazione. A meno che non trovi il suo sostegno in tali fattori, l'idea rimane un mero slogan, pubblicità o propaganda - nel migliore dei casi un'enunciazione di intenti. E responsabilità dello studioso prendere ciò sul serio, andando al di là delle parole, o rimanendone piuttosto al di qua, nell'universo dato delle forze, delle capacità, e delle tendenze che ne definiscono il contenuto. Inizio col concetto di Grande Società così come è stato presentato dal Presidente Johnson. Credo che il suo contenuto essenziale possa essere riassunto come segue: è 1) una società dalla "crescita illimitata", fondata su "abbondanza e libertà per tutti", che esige la "fine della miseria e dell'ingiustizia razziale"; 2) una società nella quale il progresso è "al servizio dei nostri bisogni"; 3) nella quale il tempo libero costituisce una "gradita occasione per dar forma alle cose e riflettere", e che serve "non solo i bisogni del corpo e le esigenze del commercio, ma anche il desiderio di bellezza e la fame di comunità".
* Nella metà degli anni Sessanta il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson lancia un programma politico di riforma denominato "Great Society", di cui Marcuse produce una critica radicale in un intervento pubblico alla Syracuse University il 17 novembre 1965, poi pubblicato in due parti nella rivista underground di San Diego «Alternatives», I, nn. 1 e 2, 1966, pp. 21-29 e 29-35, e in seguito in A Great Society, ed. by B.M. Cross, Basic Books, New York 1966, pp. 58-80. Il testo è apparso in lingua italiana in H. MARCUSE, Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 67-96. Si presenta qui una nuova traduzione.
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Questa immagine è preceduta dall'affermazione che la nostra società può essere un luogo in cui "tireremo su le nostre famiglie, liberi dall'ombra oscura della guerra e del sospetto tra le nazioni". Ed è seguita dall'elenco dei campi in cui la costruzione della Grande Società può avere inizio: 1) la ricostruzione delle nostre città e dei mezzi di trasporto tra di esse, in accordo con i bisogni della popolazione in continuo aumento; 2) la ricostruzione delle campagne inquinate e devastate, per recuperare il "contatto con la natura" e proteggere "la bella America"; 3) lo sviluppo e l'allargamento dell'istruzione e dei servizi formativi. E quando tutto ciò sarà compiuto, non avremo terminato la lotta, poiché "prima di tutto, la Grande Società non è un porto tranquillo, un luogo di riposo, un obiettivo finale, un lavoro finito. È la sfida costantemente rinnovata, che ci richiama a un destino nel quale il significato delle nostre vite corrisponde ai prodotti meravigliosi del nostro lavoro".
GRANDE SOCIETÀ VS. IMPRESA CAPITALISTICA
Vorrei interrompermi qui per segnalare il mio primo dissenso. Ho iniziato intenzionalmente con l'aspetto più speculativo, "utopico", perché in esso è meglio visibile la direzione fondamentale del programma (insieme con i suoi limiti più profondi). Prima di tutto, una piccola questione stilistica: il significato delle nostre vite dovrebbe "corrispondere" ai "prodotti del nostro lavoro"? Non dovrebbe essere l'inverso? In una società libera il significato della vita è determinato dagli individui liberi, che determinano corrispondentemente i prodotti del loro lavoro. In sé, la frase non esclude tale interpretazione, ma nel contesto dell'intera sezione essa assume un significato peculiare. Perché la Grande e Libera Società non dovrebbe essere un luogo di riposo, un porto tranquillo? Perché dovrebbe costituire una sfida costantemente rinnovata? La dinamica della produttività spinta in avanti infinitamente non è quella di una società umana pacifica, nella quale gli individui hanno ottenuto ciò che spetta loro e sviluppano la propria umanità; la sfida che essi affrontano potrebbe essere precisamente quella di proteggere e preservare un "porto tranquillo", un "luogo di riposo", in cui la vita non sia più spesa nella lotta per l'esistenza. E una simile società potrebbe a buon diritto rigettare la teoria (e la pratica) della "crescita interminabile", limita182
re (vi tornerò) le proprie capacità tecniche dove esse minacciano di accrescere la dipendenza dell'uomo dai suoi strumenti e dai suoi prodotti. Anche oggi, molto prima che abbia inizio il cammino verso una società libera, la lotta alla povertà potrebbe essere condotta in modo molto pili efficace, mediante una riconversione, più che un aumento della produzione, mediante l'eliminazione della produttività dai campi dello spreco socialmente necessario, dell'obsolescenza pianificata, degU armamenti, della pubblicità, della manipolazione. Una società che accoppia abbondanza e libertà nella dinamica di una crescita illimitata e di una sfida infinita costituisce l'ideale di un sistema basato sul perpetuarsi della penuria - una penuria prodotta in modo sempre pili artificiale, il bisogno di un'abbondanza di beni, sempre più numerosi e nuovi. In un simile sistema, infatti, gli individui devono spendere le loro vite nella lotta competitiva per l'esistenza, per soddisfare il bisogno di sempre maggiori prodotti del lavoro, e i prodotti del lavoro devono aumentare, perché bisogna venderli con proiitto, e il saggio del profitto dipende dalla crescente produttività del lavoro. In un linguaggio meno ideologico, lo si è definito legge dell'accumulazione allargata del capitale. Sotto questo aspetto, la Grande Società appare come la prosecuzione, sveltita e perfezionata, della società esistente invero non così grande - , dopo che questa si è ripulita con successo dei suoi nei e delle sue macchie sgradevoli. La sua capacità di riuscirvi è data per certa. Lo studioso non può però confermare tale assunto senza esaminarlo: lasciamo la speculazione suUa Grande Società e torniamo al programma della sua costruzione, o piuttosto della sua preparazione all'interno della società esistente. Per prima viene la guerra alla povertà. La letteratura critica sull'argomento è già così ampia, che posso essere breve nei riferimenti. E la guerra che la "società opulenta" dovrebbe condurre contro la povertà nella "società opulenta"; perciò essa potrebbe finire con l'essere una guerra della società contro se stessa, segno^ della sua contraddizione interna. La sconfitta reale della povertà significherebbe o il pieno impiego, quale condizione normale e generale del sistema, o una inoccupazione accompagnata da un sussidio abbastanza elevato da poter vivere bene - anch'essa come condizione normale e generale del sistema. Entrambe le realizzazioni rientrano nelle capacità (tecniche) della società industriale avanzata (paradossalmente, la seconda potrebbe costituire la conseguenza storica della prima!). Il concetto 183
di "società industriale avanzata" deve però essere spezzato nelle sue due forme attuali, capitalista e socialista. Qui ci stiamo occupando solo della prima. In essa la sconfitta reale della povertà è contrastata e "contenuta" dalle istituzioni sociali prevalenti. Il pieno impiego come condizione permanente implica un livello dei salari reali costantemente elevato, che aumenti costantemente insieme con la crescita della produttività, e non sia cancellato dall'aumento dei prezzi. Ciò equivarrebbe a una caduta del saggio del profitto al di sotto del limite tollerabile per l'impresa privata. Si può forse concepire che qualcosa di simile al pieno impiego possa conseguirsi mediante un'espansione dell'economia di guerra (o di difesa), e, in aggiunta, una crescente produzione di spreco, status symbol, obsolescenza pianificata e servizi parassitari. Ma anche a prescindere dal pericolo chiaramente presente di un'esplosione internazionale, un sistema siffatto produrrebbe e riprodurrebbe esseri umani dai quali nessuno sforzo dell'immaginazione potrebbe attendersi la costruzione di una società libera, umana. La costruzione di una Grande Società dipende infatti da un "fattore umano" che non compare nel programma, dall'esistenza di individui che, nei loro atteggiamenti, scopi e bisogni, siano qualitativamente diversi da coloro che sono educati, addestrati e remunerati oggi: l'aggressione mobilitata (e repressa) nella conservazione di una società tesa alla difesa permanente si oppone al progresso verso forme pili elevate di libertà e razionalità. Certo, il pieno impiego non distruttivo rimane una possibilità reale: esso richiede niente di più e niente di meno dell'effettiva ricostruzione delineata nel programma del Presidente - la ricostruzione delle città e delle campagne, e dell'educazione. Tale programma esige però l'eliminazione degli interessi particolari che sono d'ostacolo alla sua realizzazione, i quali oggi comprendono il capitale e il lavoro, politiche di città e di campagna, repubblicani e democratici, e costituiscono i potenti interessi su cui si regge l'Amministrazione. Dobbiamo ripetere una verità lampante: non solo l'ampiezza, ma la premessa economica del programma è incompatibile con questi interessi. La trasformazione delle città in un universo umano implica molto pili che la ripulitura degli slum: implica letteralmente la dissoluzione delle città e la loro ricostruzione secondo piani architettonici fatti rispettare rigorosamente. Se intrapresa nell'interesse dell'intera popolazione, piuttosto che di coloro che possono pagare, la ricostruzione evidentemente non porterebbe profitti, e il suo 184
finanziamento pubblico implicherebbe la cancellazione di alcune delle più potenti lobby del paese. Implicherebbe, ad esempio, l'istituzione di una rete ampia ed efficiente di trasporti pubblici, la sostituzione dell'automobile privata quale principale veicolo per gli affari e il tempo libero - la fine dell'industria automobilistica così come organizzata sinora. L'"abbelIimento" della campagna implicherebbe l'eliminazione, rigorosamente imposta, di tutti i tabelloni pubblicitari, delle insegne al neon, la riduzione delle innumerevoli stazioni di servizio, dei locali ai margini delle strade e delle fonti di rumore che hanno reso impossibile il tanto desiderato "contatto con la natura". In generale, e cosa forse più importante, la ricostruzione esigerebbe l'eliminazione di tutta l'obsolescenza pianificata, che è divenuta un puntello essenziale per il sistema, in quanto assicura il ricambio necessario e la competizione accanita. In tutti questi aspetti, il programma sembra inconciliabile con lo spirito dell'impresa capitalistica, e questa contraddizione si manifesta forse nel modo più stridente nel modo in cui esso insiste sulla bellezza. Qui le parole assumono un suono falso, il linguaggio diviene quello della poesia commerciale, e si ha quasi un senso di sollievo quando il signor Johnson mette da parte il linguaggio dell'ideologia e arriva a proclamare la bellezza un patrimonio economico: secondo il Los Angeles Times (8 settembre 1965), "la preservazione dell'attrattività della città costituisce un patrimonio economico essenziale. La città bella porta un ritorno elevato in dollari".
L'INCIDENZA DELL'INDUSTRIALISMO AVANZATO SULLA POPOLAZIONE
Vengo ora al "fattore umano", per occuparmi, nel prosieguo della mia esposizione, dell'educazione, il terzo campo della ricostruzione. Chi sono gli esseri umani che dovrebbero edificare la Grande Società? Essi vivono in una società nella quale sono soggetti (per il bene o per il male) a un apparato che, concentrando produzione materiale e intellettuale, distribuzione e consumo, lavoro e svago, politica e divertimento, determina la loro esistenza quotidiana, i loro bisogni e aspirazioni. E questa vita, privata, sociale e razionale, è racchiusa in universo storico del tutto peculiare. Gli individui che costituiscono la massa della popolazione nella "società opulenta" vivono in un 185
universo di difesa e aggressione permanenti. Ciò si manifesta nella guerra contro i Vietcong e nella lotta contro i neri, nell'immensa rete di industrie e servizi che lavorano per le istitu2Ìoni militari e i loro complici, ma si manifesta anche nella violenza liberata e resa produttiva dalla scienza e dalla tecnologia, nel tenore della pubblicità e del divertimento inflitti a telespettatori prigionieri. Contro il logoro argomento che violenza e aggressione hanno sempre costituito un fattore normale in tutte le società, devo insistere sulla differenza qualitativa. Non è solo l'entità del potenziale distruttivo e la portata della sua realizzazione che distingue una gara di carri da una di automobili, il cannone da un missile, l'energia idraulica da quella nucleare. Analogamente, non sono solo la velocità e il raggio di diffusione che distinguono i mezzi di comunicazione di massa dai loro predecessori. La nuova qualità è introdotta dal progressivo trasferimento del potere dall'individuo umano all'apparato tecnico o burocratico, dal lavoro vivo al lavoro morto, dal controllo personale al telecontrollo, dalla macchina (o da un gruppo di macchine) all'intero sistema meccanizzato. Vorrei ripetere che non sto (ancora) dando una valutazione di tale sviluppo: potrebbe risultare regressivo o progressivo, umanizzante o disumanizzante. Ma ciò che ha luogo effettivamente in tale trasposizione è anche un trasferimento della responsabilità che alimenta il senso di colpa - questo affranca l'individuo dall'identità di persona autonoma: al lavoro e nello svago, con i suoi bisogni e soddisfazioni, nel suo pensiero e nelle sue emozioni. Al tempo stesso, questo affrancamento non costituisce la liberazione dal lavoro alienato: gli individui devono continuare a spendere le loro energie fisiche e mentali nella lotta per l'esistenza, per il prestigio, per il vantaggio sugli altri; devono subire, servire e godersi l'apparato che impone loro tale necessità. La nuova eteronomia nel mondo del lavoro non è compensata da una nuova autonomia al di là di esso. L'alienazione si intensifica quanto più lascia trasparire la propria irrazionalità, diviene improduttiva quanto piti sostiene una produttività repressiva. E dove la società costituita distribuisce i beni che innalzano il livello di vita, l'alienazione raggiunge il punto in cui anche la coscienza dell'alienazione è ampiamente repressa: gli individui si identificano col loro essere-per-altri. In tali circostanze, la società esige un Nemico contro il quale le condizioni prevalenti debbano essere difese, e possa essere scaricata l'energia aggressiva che non si riesce a incanalare nell'ordinaria lot186
ta quotidiana per l'esistenza. Gli individui chiamati a sviluppare la Grande Società vivono in una società che porta la guerra, o si prepara a portarla, nel mondo intero. Ogni discussione che non collochi il programma della Grande Società nel quadro internazionale deve rimanere ideologica, mera propaganda. Il Nemico non costituisce un fattore tra gli altri, un elemento contingente che una valutazione delle opportunità della Grande Società possa ignorare, o sfiorare - la sua esistenza è un fattore determinante nel paese e al di fuori di esso, negli affari e nell'educazione, nella scienza e nello svago. Ci stiamo occupando qui del Nemico solo in rapporto al programma della Grande Società, piii specificamente del modo in cui il Nemico (o piuttosto la sua rappresentazione e la lotta contro di esso) tocca gli individui, il popolo che si suppone debba cambiare la "società opulenta" nella Grande Società. Perciò la domanda non è in che misura l'industria degli armamenti e i suoi "moltiplicatori" siano diventati parte indispensabile della "società opulenta", né se l'attuale predominio e la politica delle istituzioni militari siano nell' "interesse nazionale" (una volta che l'interesse nazionale sia definito diversamente da quello di tali artefici della politica). La questione che vorrei, piuttosto, sollevare è questa: l'esistenza del Nemico pregiudica - in senso negativo - la possibilità e la capacità di costruire la Grande Società? Prima di venire brevemente a discutere della questione, devo definire, e ridefinire, ciò che è il "nemico". E lo farò formulando un'ipotesi provvisoria. Il nemico è ancora costituito dal comunismo come tale? Non credo. In primo luogo, esistono oggi molte forme di comunismo, alcune delle quali sono in conflitto e in contraddizione con le altre. Questo paese non ne combatte tutte le forme, e non solo per ragioni tattiche. In secondo luogo, il commercio del capitalismo con i paesi comunisti è in costante aumento, e proprio con quei paesi nei quali il comunismo sembra più stabile. Inoltre, il comunismo si è costituito nel modo pili saldo e solido nell'Unione Sovietica, ma per diverso tempo Usa e Urss non si sono trattati come Nemici (con la "n" maiuscola!) - si sente persino parlare, infatti, di cooperazione e di collusione, mentre il Nemico contro il quale il sistema è mobilitato è presentato come tale da escludere ogni cooperazione e collusione. In terzo luogo, è difficile guardare al comunismo come a una minaccia per questo paese - persino nei campus e tra i Neri. In considerazione di quesd fatd, geografici o di altro genere, direi che ci si 187
mobilita e si porta veramente la guerra contro (e tra) i popoli semicoloniali, o ex coloniali, popoli arretrati e poveri, che siano o meno comunisti. Non si tratta del vecchio colonialismo e imperialismo (sebbene sotto alcuni aspetti la distanza sia stata esagerata: c'è poca differenza tra un governo diretto del potere della metropoli e un governo locale che opera solo in forza di quel potere). L'elemento (oggettivamente) razionale della lotta globale non risiede nel bisogno di esportazione immediata di capitale, risorse, supersfruttamento; è piuttosto il pericolo di un sovvertimento della gerarchia costituita di signore e servo, di superiore e inferiore - una gerarchia che ha creato e sostenuto le nazioni ricche, capitalistiche e comuniste. Vi è una minaccia di sovversione primitiva, del tutto elementare - una rivolta degli schiavi piuttosto che una rivoluzione, e proprio per questo tanto pili pericolosa per le società in grado di contenere o sconfiggere le rivoluzioni. Gli schiavi sono infatti innumerevoli e dappertutto, e non hanno realmente niente da perdere se non le loro catene. Certo, le società costituite hanno già affrontato il sovvertimento della loro gerarchia: dall'interno, da parte di una delle loro classi. Questa volta la sfida viene dall'esterno, e proprio per questa ragione minaccia l'intero sistema. La minaccia appare totale, e coloro che la rappresentano non hanno alcun interesse costituito, neanche potenziale, nelle società stabilite. Non possiedono alcuna ricetta per una ricostruzione positiva, o potrebbero averne una che non funzionerebbe; semplicemente, non vogliono più essere schiavi, e sono mossi da un bisogno vitale a mutare condizioni intollerabili, e a farlo in modo differente dalle vecchie forze. Questa ribellione primitiva, questa rivolta, implica certo un programma sociale, la consapevolezza che la loro società non può essere edificata secondo il modello delle nazioni ricche, che perpetuano la servitii e il dominio. La loro lotta di liberazione è oggettivamente anticapitalistica, anche se essi rigettano il socialismo e aspirano ai benefici del capitalismo, ed è oggettivamente anticomunista anche se sono comunisti, poiché essa guarda al di là (o al di qua) dei sistemi comunisti costituiti. Ho fatto uso dell'espressione "oggettivamente razionale" per sottolineare che non assumo che i fattori o le tendenze appena delineati siano perseguiti intenzionalmente dai responsabili della politica. Sostengo piuttosto che essi siano all'opera "alle loro spalle", e si affermino forse anche contro la loro volontà - come tendenze storiche che è possibile ricavare dalle condizioni sociali e politiche prevalenti. A 1S8
un livello superficiale, la mobilitazione e la difesa permanenti trovano un'altra giustificazione razionale, molto più ovvia, formulata nella "teoria del domirio" e nel concetto della forza propulsiva del comunismo in direzione della rivoluzione mondiale. L'idea, così come è presentata dai responsabili della politica e dell'informazione, non corrisponde ai fatti; nella teoria del domino vi è però un nocciolo di verità. Ogni vittoria spettacolare deUa rivolta dei diseredati in un singolo luogo ne innescherebbe ugualmente la coscienza e la ribellione in altri luoghi - forse anche nel nostro paese. Inoltre, una simile vittoria significherebbe per il capitalismo una pericolosa contrazione del mercato mondiale, una minaccia alquanto remota, che si materializzerebbe solo se e quando i paesi arretrati avessero raggiunto un'indipendenza reale, abbastanza seria, però, se si guarda, ad esempio, all'America Latina. Per l'Unione Sovietica, il pericolo economico non è decisivo, ma la minaccia al regime costituito sembra farsi abbastanza reale. Si può sostenere con sicurezza che l'atteggiamento dei leader sovietici nei confronti della rivoluzione e della ribellione è al più ambivalente se non ostile, come risulta chiaro dal conflitto con la Cina. E la società industriale più avanzata a sentirsi direttamente minacciata dalla ribellione, poiché è qui che la necessità sociale della repressione e dell'alienazione, della servitù dell'eteronomia, risulta con la massima evidenza non necessaria, e improduttiva nella prospettiva del progresso umano. Tale è la razionalità celata dietro la crudeltà e la violenza mobilitate nella lotta contro questa minaccia, dietro la regolarità monotona con la quale la gente viene fatta familiarizzare con atteggiamenti e comportamenti inumani, e a questi abituata - sino all'assassinio di massa come atto patriottico. Sotto questo aspetto, l'opera della stampa libera sarà forse ricordata in seguito come una delle più vergognose azioni della civiltà. Non passa quasi giorno senza che i titoli celebrino una vittoria annunciando "136 Vietcong uccisi", "I marines uccidono almeno 156 Vietcong", "Più di 240 rossi ammazzati". Ho vissuto due guerre mondiali, ma non riesco a ricordare massacri annunciati in modo così spudorato. Né riesco ricordarmi - neanche nella stampa nazista - di un titolo come quello che annuncia: "Gli Stati Uniti esprimono soddisfazione per la mancanza di proteste contro i gas lacrimogeni" (Los Angeles Times, 8 settembre 1965). Questo genere di giornalismo, consumato ogni giorno da milioni, fa appello ad assassini e al bisogno di uccidere. E un giudice di New York ha riassunto la situazione quando, 189
nel rimettere in libertà suUa parola due giovani "accusati di avere ucciso un vagabondo dell'Est Side e poi arrestati per l'assassinio di un loro compagno", ha affermato, secondo il New York Times, "Dovrebbero andare in Vietnam, dove abbiamo bisogno di soldati che ammazzino i Vietcong". Ho sostenuto che la situazione internazionale della società opulenta è espressione, in un senso del tutto specifico, della sua dinamica intema: del conflitto tra il bisogno (sociale e politico) di conservare la struttura del potere costituito all'interno della nazione e al di fuori di essa, da un lato, e, dall'altro, il carattere storicamente obsoleto di tale bisogno, così come emerge drammaticamente nella ribellione dei popoli arretrati. In tale conflitto, la società mobilita l'energia aggressiva degli individui al punto tale che essi non sembrano capaci di divenire i costruttori di una società pacifica e libera. Una simile impresa, volta ad una società qualitativamente differente, significherebbe un'incrinatura, una rottura con quella costituita, ed esige perciò la nascita di individui "nuovi", con bisogni e aspirazioni qualitativamente differenti. Intendo compiere ora un passo avanti, e sollevare la questione se la società industriale avanzata non abbia negato il concetto tradizionale di individuo (e la sua possibilità), nel mentre lo perpetuava e celebrava ideologicamente. In altri termini, possiede ancora l'individuo una funzione sociale progressiva e produttiva, o l'individualità viene superata da nuove forme avanzate di produttività e della sua organizzazione? Sono divenute l'individualità, l'autonomia personale, l'intraprendenza individuale obsolete, freni piuttosto che impulsi al progresso (tecnico)? Ancora, sottolineo che mi propongo di discutere la questione senza alcun pregiudizio in favore dei "valori" tramandati: può ben accadere che il superamento dell'individuo possa considerarsi "positivo" nella prospettiva del progresso tanto dell'uomo quanto della tecnica. Inizio con un breve riesame del concetto di individuo così come è diventato rappresentativo della modernità. Tenterò unicamente uno schizzo sommario.
L'EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI INDIVIDUALISMO
Nella sua nuova funzione storica, il concetto di individuo nasce con la Riforma protestante. Le manifestazioni religiose e mondane, interiori ed esteriori, si sviluppano simultaneamente. In questa sua 190
duplice funzione, l'individuo diviene l'unità della nuova società: nello spirito, quale soggetto responsabile di fede, pensiero, coscienza; e nello spirito del capitalismo, in quanto soggetto responsabile della libera iniziativa economica. Le due manifestazioni rimangono correlate, ma possono distinguersi altrettante tendenze che, man mano che la nuova società progredisce, confliggono l'una con l'altra in misura crescente: da un lato vi è lo sviluppo del libero soggetto morale e intellettuale, dall'altro lo sviluppo del soggetto della libera iniziativa nella libera concorrenza. Possiamo anche dire che l'individuo in lotta per se stesso, per l'autonomia morale e intellettuale, e l'individuo che lotta per l'esistenza risultano separati. Nel cogito cartesiano sono ancora in armonia: l'individuo è il soggetto della scienza che comprende e conquista la natura al servizio della nuova società, ed è il soggetto del dubbio metodico, della ragione critica contro ogni pregiudizio stabilito. L'armonia è però illusoria: l'unità delle due sfere si è dissolta. Nella filosofia di Hobbes, Locke, Adam Smith, Bentham, prende forma l'individuo in quanto soggetto della lotta capitalistica per l'esistenza, della competizione economica, e della politica, mentre nell'Illuminismo, in Leibniz e in Kant si incarna il soggetto dell'autonomia individuale, morale e intellettuale. Il conflitto tra tradizioni filosofiche riflette il conflitto crescente nella realtà sociale. Si riteneva che la libertà dovesse essere la qualità essenziale dell'individuo nella teoria e nella pratica, nel pensiero e nell'azione; qualità dell'uomo interiore e di quello esteriore. In questo senso, l'individuo costituiva il corollario dell'iniziativa privata: la responsabilità morale e la personalità autonoma dovevano avere la loro base reale nella libertà economica e politica. L'individuo è proprietario-, nel senso non solo che possiede le risorse materiali, i beni e i servizi necessari alla realizzazione (alla dimostrazione e conferma) della sua libertà all'interno della società, ma ha acquisito queste cose grazie al proprio lavoro, o al controllo sul lavoro altrui (già in Locke!), e le ha fatte proprie - espressione materiale della propria personalità produttiva, creativa. Il concetto dell'individuo come proprietario, che domina la teoria filosofica dell'individuo da Hobbes a Hegel, non era applicabile, in senso generale, alla società acquisitiva, nella quale la maggior parte della popolazione rimaneva priva di tale autonomia. Vi era però una classe, per lungo tempo la classe dominante, quella degli imprenditori agrari e industriali: questi potevano essere definiti i padroni della propria impresa, indivi191
dualmente responsabili delle loro decisioni, delle scelte, dei rischi ricompensati, se la loro decisione fosse stata buona, puniti se fosse stata cattiva, secondo il verdetto della competizione sul libero mercato. Grazie alla libertà dell'iniziativa privata, questa classe (approssimativamente "la borghesia") sviluppò le forze produttive su una base individualistica - nelle condizioni del libero capitalismo, prevalenti nei paesi industriali sino alla fine del XIX secolo. I medesimi padroni dell'economia erano individui autonomi in casa propria; determinavano l'educazione dei figli, il piano delle questioni familiari, i modelli di comportamento - imponevano in modo alquanto autoritario il principio di realtà. "Padroni in casa propria", nei loro affari e nell'intimità domestica, potevano fare a meno del governo, delle public relations, di mass media standardizzati; li poteva perciò considerare i rappresentanti viventi di una cultura individualistica. Ai nostri giorni non è necessario discutere a lungo per mostrare come le condizioni nelle quali poteva fiorire tale forma di iniziativa individuale siano venute meno. La società americana contemporanea ha oltrepassato il livello di produttività, al quale unità individuali di produzione si affrontano in una libera competizione; con la trasformazione del capitalismo liberale nel capitalismo organizzato, 1'"individualità" è divenuta, nella sfera economica (e non solo qui), obsoleta - schiacciata dall'aumento, rapido e travolgente, della produttività del lavoro, e dalla crescita dei mezzi e degli strumenti volti all'utilizzo di tale produttività. Alla luce di questo decorso storico, sorge la questione di quali siano gli ambiti e i modi nei quali sia possibile prospettare, nel nostro tipo di società industriale avanzata, lo sviluppo e l'espressione dell'individualità creativa. Prima di affrontare questa discussione, intendo delineare le vicissitudini dell'individualità nella dimensione nella quale l'individuo è "creativo" nel senso pili autentico: nella dimensione della letteratura e dell'^zr/é". La dimensione artistica sembra essere stata la sola patria reale dell'individuo, il solo luogo in cui l'uomo poteva essere un individuo nella sua esistenza tanto materiale quanto intellettuale - uomo non solo interiore, ma anche esteriore. In contrasto con l'individuo economico, l'artista realizza la propria individualità in una forma di lavoro creativo che la cultura moderna ha celebrato quale manifestazione di una libertà e di un valore superiori. E diversamente dall'autonomia interiore, morale e spirituale, attribuita dalla filosofia idealistica all'individuo (alla "persona"), la libertà dell'artista è di una qualità più 192
sostanziale, che si esprime nella sua oeuvre e nella sua vita. Le grandi personalità del Rinascimento potevano unire insieme individualismo artistico, politico ed economico: la formula di Jakob Burckhardt "lo Stato come opera d'arte" esprimeva questa unità. E possibile che la definizione offra un'immagine ampiamente idealizzata, ma indica la distanza che separa le origini dell'individualismo dalle sue fasi piii tarde. Nella società borghese pienamente sviluppata il valore di mercato rimpiazza il valore della creatività individuale; quando quest'ultimo serve a incrementare il primo, allora è il mercato, più che l'individuo, ad affermarsi. L'individuo in senso pieno, "classico", quale sé autentico, appare ora possibile solo in quanto opposto alla sua società, in sostanziale conflitto essenziale con le norme e i valori costituiti: è un estraneo, un declassato, o il membro di una "emigrazione interna". In questa società l'individuo non può realizzarsi, non può ottenere ciò che gli spetta: tale è il messaggio di tutta la letteratura rappresentativa, almeno dallo Sturm uni Drang a Ibsen. Nell'inevitabile lotta con la società, l'individuo (almeno nel senso forte del termine) perisce, oppure si rassegna - rinunzia a quella libertà e felicità incondizionate che costituivano la prima promessa e meta dello "sviluppo". L'individuo creativo inizia come anticonformista; nella società costituita egli non può essere "realista" senza tradire se stesso. La sua autonomia è quella della sua immaginazione, che possiede la propria razionalità e verità (forse piìi valide, razionali di quelle dell'Apparato). Nel momento in cui però si dispone a vivere e a lavorare in accordo con se stesso e con le proprie facoltà, egli riconosce di dover cedere, e trovare la sua autonomia nella ragione più che nell'immaginazione. In altri termini, l'individuo ritrova se stesso nella misura in cui apprende a limitarsi e a riconciliare la propria felicità con l'infelicità: autonomia significa rassegnazione. Questa è la grande vicenda illustrata dai romanzi: il Wilhelm Meister, ^educazione sentimentale, il Grùne Heinrich, la Récherche du Temps Perdu.
EDUCAZIONE AL DISSENSO
Vi è, tuttavia, un'altra forma nella quale l'individuo appare nella società borghese e che forse concretizza l'individualità nel modo più pieno, il poète maudit. Egli vive davvero la propria vita: ai margini della società e contro di essa. L'individuo diviene autentico in 193
quanto vagabondo, tossicomane, malato, o genio. Qualcosa della sua autenticità si conserva nel "bohemien", persino nel heatnik\ entrambi rappresentano manifestazioni della libertà e della felicità individuali in qualche modo consentite e protette, sgradite al cittadino che definisce la libertà e la felicità nei termini del governo e della società, più che nei propri. Mi è sembrato che fosse necessaria una lunga digressione dal tema della Grande Società, al fine di scindere l'ideologia dell'individuo dalla sua realizzazione, e per'evidenziare come l'individuo creativo sia stato per lo piìj dislocato nella "dimensiona artistica", cioè nella sfera sinora tenuta assai distante dalle occupazioni quotidiane della vita - una sorta di realtà immateriale, piti spirituale. Qualcosa di ciò si riflette ancora nell'accento posto dal Presidente Johnson sulla bellezza, sull'immaginazione (la quale tuttavia, accoppiata con r "innovazione", assume un suono tecnico-commerciale), e sulla creatività. Anche alcuni osservatori della realtà contemporanea sollevano esplicitamente il problema della collocazione e della funzione dell'individuo "creativo" all'interno della società industriale avanzata. Con la crescita di questa società, infatti, e con l'espansione dell'automazione, della produzione di massa, e della standardizzazione delle occupazioni della vita quotidiana, r"individualità" è riservata in misura crescente alle aree residue dell'attività o della ricettività "creative" - qualunque cosa significhi "creativo". Nel contesto delle autorevoli enunciazioni sulla Grande Società, il termine " creativo" sembra riferirsi alla produzione di oggetti, servizi, opere e spazi che non sono solo utili, ma anche belli, tali da soddisfare bisogni non solo materiali, ma anche spirituali, e da accrescere la libertà, la gioia e la ricchezza dell'esistenza umana. Dobbiamo rilevare sin da principio che la ricerca dell'individuo creativo all'interno della società industriale avanzata coinvolge direttamente l'organizzazione sociale del lavoro. Se infatti la creatività deve costituire qualcosa di più che un privilegio individuale circoscritto ad un'elite, deve trattarsi allora di un modo dell'esistenza accessibile a tutti i membri della Grande Società, senza altra discriminazione che quella suggerita dalle differenti capacità individuali. Inoltre, o le espressioni della creatività devono risultare dal processo di produzione materiale (come abitazioni, parchi, mobili, objects d'art), o il processo di produzione materiale deve fornire la base materiale e l'ambiente per la creazione e la ricezione di beni siffatti. In che modo e in 194
16 quali ambiti può svilupparsi la creatività individuale, su scala sociale, in una società nella quale la produzione materiale è sempre più meccanizzata, automatizzata, standardizzata? Si presentano le seguenti alternative: 1) o muta radicalmente il carattere della stessa produzione materiale, e questa si trasforma da lavoro "alienato" in lavoro non alienato; oppure 2) la produzione materiale viene completamente scissa dall'individualità creativa (fatta eccezione per l'intelligenza e l'immaginazione tecnologiche, orientate a sostenere l'apparato produttivo), e gli individui sono creativi al di fuori del processo della produzione materiale. In riferimento alla prima alternativa, ogni ulteriore progresso della società industriale equivale al progresso nella meccanizzazione e nella produzione di massa. Anche la riduzione dell'energia individuale nella produzione dei beni necessari costituisce un progresso, sullo stesso piano umano: l'eliminazione della forza lavoro individuale da tale produzione segnerebbe il trionfo più grande dell'industria e della scienza. Ogni tentativo di invertire su scala sociale questa tendenza, mediante la reintroduzione di modalità di lavoro prossime all'operazione manuale e artigianale, o mediante la contrazione dell'apparato meccanizzato, che lasciasse intatto il controllo sociale costituito del processo di produzione e distribuzione, risulterebbe regressivo in termini sia di efficienza, che dello sviluppo umano^. Non è possibile perciò prospettare la comparsa dell'individuo autonomo e creativo come una trasformazione graduale del lavoro esistente, alienato, in lavoro non alienato. In altri termini, l'individuo non verrà alla luce in quanto operaio, tecnico, ingegnere o scienziato, che esprime la propria creatività nella creazione o nella sorveglianza dell'apparato produttivo costituito. Quest'ultimo è e rimane un apparato tecnico che si oppone, sin nella propria struttura, all'autonomia nel processo di lavoro. L'autonomia presuppone piuttosto un mutamento fondamentale del rapporto dei produttori e dei consumatori con l'apparato stesso. Nella sua forma prevalente, quest'ultimo controlla gli individui di cui è al servizio: alimenta e appaga i bisogni aggressivi e al tempo stesso conformistici che riproducono il controllo. Né un semplice trasferimento del controllo significherebbe un mutamento qualitativo, a meno che e sino a che i nuovi amministratori (e l'insieme della popolazione) non sperimentino il bisogno vitale di mutare la direzione del progresso tecnico verso la pacificazione della lotta per l'esistenza. Allora il "regno della libertà"
potrà forse fare la sua comparsa nello stesso processo lavorativo, nella prestazione del lavoro socialmente necessario. L'apparato tecnico potrebbe servire a creare un nuovo ambiente sociale e naturale, gli esseri umani potrebbero avere allora le proprie città, le proprie case, il proprio spazio di tranquillità e gioia: potrebbero divenire liberi e imparare a vivere in libertà insieme con gli altri. Solo con la creazione di un tale ambiente, qualitativamente differente, che rientra tra le possibilità della tecnologia, ma trascende quelle degli interessi costituiti, che controllano la tecnologia, le parole "bellezza", "creatività" e "comunità" designerebbero delle finalità significative: la creazione di un tale ambiente sarebbe veramente lavoro non alienato. L'altra alternativa circa l'emergere dell'"individuo" nella società industriale avanzata trova espressione nella concezione per la quale l'individuo, in quanto persona autonoma e creativa, si sviluppa al di fuori e al di là del processo del lavoro materiale, al di fuori e al di là del tempo e dello spazio richiesti per "guadagnarsi da vivere" o per produrre alimenti e servizi socialmente necessari. In questa idea generale sono sussunti due concetti del tutto differenti, persino contraddittori: la distinzione marxiana tra il regno della libertà e il regno della necessità, e l'idea moderna dello svago creativo. Il "regno della libertà" di Marx presuppone un'organizzazione sociale del lavoro orientata, secondo i principi della più alta razionalità, alla soddisfazione dei bisogni individuali, per la società nella sua interezza. Presuppone perciò il controllo collettivo del processo di produzione da parte dei produttori medesimi. Per Marx, però, il processo di produzione rimane un "regno della necessità", il regno, cioè, di un'eteronomia imposta all'uomo dalla persistenza della lotta contro la natura, della penuria, della fragilità. Il tempo speso in questa lotta risulterebbe ampiamente ridotto, ma assorbirebbe ancora molto dell'esistenza individuale. Quello rimanente sarebbe tempo libero in senso letterale, nel senso che sarebbe l'individuo autonomo a disporne; egli risulterebbe libero di soddisfare i propri bisogni, di sviluppare le proprie facoltà, i propri piaceri. Ora, a me sembra che la società industriale contemporanea abbia del tutto precluso il regno della libertà, non solo penetrando in tutte le sfere dell'esistenza dell'individuo (condizionando così in partenza il tempo libero), ma anche attraverso il progresso tecnico e la democrazia di massa. Ciò che è lasciato all'individuo, al di fuori del processo tecnico del lavoro, appartiene al genere degli hobby, del fai da te, dei giochi. Vi m
è, naturalmente, un'espressione autenticamente creativa, nell'arte, nella letteratura, nella musica, nella filosofìa, nella scienza - ma è diffìcile immaginare che tale autentica creatività possa divenire, anche nella migliore delle società, una facoltà generale. Il resto è sport, divertimento, capriccio. Le condizioni della società industriale avanzata sembrano allora confutare la teoria marxiana del tempo libero. La libertà è anche una questione di quantità, di numero, di spazio: esige solitudine, distanza, dissociazione - uno spazio tranquillo, sgombro, una natura non devastata dal commercio e dalla brutalità. Dove tali condizioni non si impongono, il regno della libertà diviene un privilegio assai costoso. Non solo la riduzione della giornata lavorativa e la restaurazione della natura, ma anche l'abbassamento del tasso di natalità ne costituirebbe una premessa. In antitesi al concetto marxiano, la nozione di "svago creativo" è realistica e conforme alla situazione contemporanea. Il "tempo libero" di Marx non è "tempo di svago", poiché non è una questione di svago la realizzazione dell'individuo onnUaterale. Il tempo libero appartiene a una società libera, il tempo dello svago a una società repressiva. Se quest'ultimo tipo di società dovrà ridurre notevolmente la giornata lavorativa, il tempo dello svago sarà da organizzare, da amministrare, persino. Infatti l'operaio, l'impiegato, o il dirigente fa il suo ingresso nel tempo dello svago dotato di qualità, atteggiamenti, valori, comportamenti appartenenti alla sua collocazione nella società; come ciò che gli è proprio, egli possiede il suo essere-per-altri; il suo svago, attivo o passivo, costituirà semplicemente un prolungamento o una pausa della sua prestazione sociale; egli non sarà un "individuo". Nella concezione marxiana, l'uomo è libero anche nel regno della necessità, nella misura in cui lo ha organizzato in accordo con i suoi bisogni umani, secondo una razionalità trasparente; la libertà congiunge perciò i due regni: il soggetto della giornata lavorativa è anche il soggetto del tempo Ubero. Nella società industriale contemporanea, l'uomo non è il soggetto della sua giornata lavorativa; deve essere reso tale, di conseguenza, se deve divenire il soggetto del suo tempo libero. E finché l'organizzazione repressiva della giornata lavorativa non sarà stata abolita, esattamente le medesime forze che governano la giornata lavorativa ne faranno un soggetto di svago. La creatività, la cultura possono essere apprese, ma finché l'apprendimento e l'insegnamento non trascenderanno le condizioni stabilite, il risultato sarà l'arricchimento, l'abbellimento, l'ornamento di una società non libe197
ra. Invece di invocare l'immagine della libertà dell'uomo, la cultura creativa contribuirà all'assorbimento di tale immagine nello status quo, che lo renderà più gradevole. Non è però che l'evoluzione della civiltà tecnologica promuove ed esige, nel suo corso, lo sviluppo di nuove energie psichiche, di nuove facoltà intellettuali, che a loro volta tendano a trascendere le condizioni prevalenti e a creare bisogni e aspirazioni liberatrici? Vi è nel processo della produzione materiale un crescente bisogno di intelligenza scientifica e tecnologica che dovrà essere soddisfatto, e non vi è dubbio che tale intelligenza sia creativa. Tuttavia il carattere matematico della scienza moderna determina il raggio d'azione e la direzione della sua creatività, e lascia le qualità non quantificabili à^humanitas al di fuori del campo della scienza esatta. Si ritiene che le proposizioni matematiche sulla natura costituiscano la verità sulla natura, e che la concezione matematica e il progetto della scienza siano i soli "scientifici". Tale prospettiva equivale a rivendicare una validità universale per una teoria e una pratica della scienza specificamente storiche, mentre altri modi della conoscenza appaiono meno scientifici e perciò veri in modo meno esatto. O, per dirla più brutalmente: dopo aver espulso dal metodo scientifico le qualità non quantificabili dell'uomo e della natura, la scienza sente il bisogno di redimersi venendo a patti con le "discipline umanistiche". La dicotomia tra la scienza e i saperi umanistici (una denominazione ingannevole: come se la scienza non facesse parte dell'umanità!) non può essere superata mediante un reciproco riconoscimento e rispetto; la sua risoluzione implicherebbe il coinvolgimento delle finalità umanistiche nella formazione dei concetti scientifici, e, viceversa, lo sviluppo delle finalità umanistiche sotto la guida di tali concetti scientifici. Prima di una simile intrinseca unificazione, difficilmente la scienza e i saperi umanistici avranno gli strumenti per svolgere un ruolo maggiore nella costruzione di una società libera. I saperi umanistici saranno condannati a rimanere essenzialmente astratti, accademici, "culturali" - del tutto separati dal processo lavorativo quotidiano. La scienza, d'altro canto, continuerà a modellare il processo lavorativo e, con questo, l'universo quotidiano del lavoro e dello svago, senza produrre, però, in forza del proprio processo, la nuova libertà dell'uomo. Certo, lo scienziato potrà essere mosso da fini sovra-scientifici, umani, ma questi rimarranno esterni alla sua scienza, e dall'esterno potranno limitare e forse definire la m
sua creatività. Perciò lo scienziato o il tecnico, occupato nella progettazione e nella costruzione di un ponte e di una rete stradale, di strutture per il lavoro e lo svago, nella pianificazione urbanistica, può (come in effetti fa spesso) ricavare dai numeri, e costruire, qualcosa di bello, pacifico e umano. La sua creazione tuttavia sarà funzionale nel senso del funzionamento di questa società, e da questa società saranno definiti le sue finalità e i suoi valori trascendenti. La sua creatività rimarrà, in questo senso, eteronoma. Gli individui destinati a vivere nella Grande Società devono essere coloro che la edificano - devono essere liberi per essa prima di poter essere liberi in essa. Non c'è potere che possa imporre loro, anche con la forza, la loro società - non perché un "dispotismo della libertà" contraddica, in sé, la liberazione, ma perché non esiste potere, governo, partito che sia libero per una tale dittatura. È perciò ancora all'interno del processo della produzione materiale, del lavoro socialmente necessario e della sua divisione, che la nuova società deve prendere forma. E poiché l'autonomia individuale viene sempre più espulsa da questo processo, è nel mutamento del co/itrollo sul processo produttivo che potrebbero emergere la libertà e una nuova direzione di impegno. Non solo: l'edificazione della Grande Società come società libera esigerebbe qualcosa di più che un mutamento dei poteri di controllo; richiederebbe che emergano, negli stessi individui, nuovi bisogni e aspirazioni, essenzialmente diversi da quelli alimentati, soddisfatti e riprodotti dal processo sociale costituito. Non appartiene però all'essenza di una società democratica consentire il sorgere di bisogni e aspirazioni, anche se il loro sviluppo minaccia di richiedere nuove istituzioni sociali? Qui è il compito fondamentale della formazione, il terzo campo della ricostruzione richiamato nel programma della Grande Società. Esso rivendica l'allargamento e la crescita della formazione, "nella qualità così come nella quantità". Consideriamo prima la questione della crescita quantitativa. Sino a non molto tempo fa molte voci si elevavano contro la formazione generalizzata. Che il popolo, che le classi più basse imparassero a leggere e a scrivere era considerato un pericolo per la legge e l'ordine, per la cultura. Naturalmente erano la legge e l'ordine costituiti, la cultura costituita a dover essere protetti da un allargamento dell'istruzione. Oggi la situazione è molto diversa, e la formazione è considerata una risposta alle esigenze della legge e dell'or199
dine, e della cultura costituiti. Nessuna espressione culturale e intellettuale - per quanto sovversiva - deve essere esclusa dal piano di studi. Si insegna Marx accanto a Hitler; le droghe fanno parte degli strumenti della psicologia esistenziale; e persino la filosofia del marchese De Sade è trattata talvolta nelle aule con rispetto. Fortunatamente, non sono costretto ad affrontare in questa sede la questione se tale risultato tradisca un progresso della libertà e del pensiero critico, o piuttosto a un progresso nell'immunizzazione e nella coesione della società esistente e dei suoi valori. Questa abbondanza culturale è in ogni caso preferibile alla precedente restrizione e repressione della conoscenza, ma npn può essere ritenuta, in sé, come un progresso in direzione di una società migliore. In verità, la coordinazione del negativo e del positivo, del sovversivo e del conservatore riduce la differenza qualitativa tra di essi; porta a compimento il livellamento degli opposti, della contraddizione. Un mutamento del modello prevalente - la liberazione del pensiero libero, critico, radicale, di nuovi bisogni intellettuali e pulsionali - esigerebbe una rottura con la neutralità benevolente che mette insieme Marx e Hitler, Freud e Heidegger, Samuel Beckett e Mary McCarthy; renderebbe necessaria una parzialità - un'educazione alla parzialità - contro una tolleranza e un'obiettività che operano in ogni caso solo nel regno dell'ideologia e in ambiti che non minacciano l'insieme. Proprio questa tolleranza e obiettività costituisce tuttavia il feticcio del processo democratico nelle sue istituzioni prevalenti. Un'educazione progressiva che creasse il clima intellettuale per l'emergere di nuovi bisogni individuali entrerebbe in conflitto con molti dei poteri, privati e pubblici, che finanziano oggi la formazione. Il mutamento qualitativo nella formazione costituisce un mutamento qualitativo sociale, e vi sono poche possibilità che questo possa essere organizzato e amministrato; la formazione rimane la sua premessa. La contraddizione è reale: la società esistente deve offrire la possibilità di un'educazione in vista di una società migliore, e tale educazione può diventare una minaccia per la società esistente. Non possiamo perciò attenderci che una simile formazione sia richiesta dalla gente, o approvata e sostenuta dall'alto. Kant riteneva, quale meta della formazione, che i giovani dovessero essere educati in accordo non con la condizione presente, ma con la migliore condizione futura del genere umano, cioè secondo l'idea di humanitas. Quest'obiettivo implica ancora il sowerti200
mento della condizione umana presente. Mi chiedo se i portavoce di un'educazione volta alla Grande Società siano consapevoli di questa implicazione. Nella misura in cui sono disponibili le risorse tecniche, materiali e scientifiche per lo sviluppo di una società libera, la possibilità della sua realizzazione dipende da forze umane, sociali che abbiano bisogno di una tale società - e ne abbiano bisogno non solo oggettivamente {an sich), ma anche soggettivamente, per se stesse, in modo cosciente. Oggi questo bisogno è vivo solo tra una minoranza della popolazione delle società "del benessere", e tra i popoli in lotta delle aree "diseredate" del mondo. Nei paesi tecnicamente avanzati l'educazione può davvero contribuire a alimentare un bisogno che è "oggettivamente" universale, ma sarebbe un'educazione singolare, del tutto impopolare e non profittevole. Essa comprenderebbe ad esempio l'immunizzazione dei giovani e degli adulti contro i mass media; un libero accesso all'informazione, soppressa o distorta da questi mezzi; una sistematica diffidenza nei confronti di politici e leader, la diserzione delle loro uscite pubbliche; e l'organizzazione di una protesta e un rifiuto reali, tali da non concludersi necessariamente col sacrificio di coloro che protestano e rifiutano. Un'educazione siffatta mirerebbe anche a una trasvalutazione fondamentale dei valori; esigerebbe la denunzia di ogni eroismo al servizio di fini inumani, dello sport e del divertimento al servizio della brutalità e della stupidità, della fede nella necessità della lotta per l'esistenza e nella necessità degli affari. Certo, simili finalità formative sono negative, ma la negazione costituisce il lavoro e la manifestazione del positivo, che deve prima creare lo spazio fisico e mentale in cui possa venire alla luce - e ciò implica la rimozione dell'apparato devastante e soffocante che occupa ora questo spazio. Questa distruzione sarebbe la prima manifestazione della nuova autonomia e creatività: l'apparizione dell'individuo libero nella nuova società.
LA CONTRADDIZIONE INTERNA AL PROGRAMMA DELLA GRANDE SOCIETÀ
Nel corso della mia analisi ho tentato di limitarmi a temi sui quali mi sento qualificato a discutere. Ciò significa escludere problemi specificamente amministrativi, come il rapporto tra autorità federale e locale, enti pubblici e privati, e così via. Tali questioni presuppongono che le istituzioni esistenti adempiano il programma della 201
Grande Società, mentre io sostengo che tale programma condurrebbe al di là del loro quadro e del loro potere. Altro ambito problematico è quello dell'"organizzazione", la questione, cioè, se l'organizzazione onnipresente caratteristica del funzionamento della società industriale avanzata, e ad esso indispensabile, non si opponga alla creatività e all'iniziativa "individuali". La contrapposizione di organizzazione e libertà è ideologica: se è vero che la libertà non può essere organizzata, le sue premesse materiali, tecniche (e forse anche intellettuali) esigono un'organizzazione. Né è da deplorare la crescita dell'organizzazione, ma quella di una cattiva organizzazione, volta allo sfruttamento. Contro di essa si rende necessaria una contro-organizzazione. Ad esempio, il movimento per i diritti civili risulterebbe molto piti efficace, se disponesse di un'organizzazione più forte e militante rispetto alla potenza dei suoi avversari. Una risposta siffatta potrebbe porre fine al dibattito, tuttora infinito, sul giusto equilibrio tra governo, giurisdizione e iniziativa federale e locale. Nel caso la composizione del governo federale determinasse delle politiche progressive, si dovrebbe farne rigorosamente prevalere il potere e l'autorità, e viceversa; altrimenti è solo questione di politiche di potere, locale o nazionale. Si potrebbe anche porre in rilievo il contenuto globale, internazionale della Grande Società. Rilevo un diffuso consenso attorno alla dimensione nazionale del programma: la Grande Società sarà una società americana. Se però una cosa è chiara, è che essa, se mai dovesse sorgere, non sarà una società americana, sebbene si possa immaginare che questo paese rappresenterà inizialmente la potenza guida. Non solo alcuni dei valori che sono stati associati allo stile di vita americano sono incompatibili con una società libera (come la commercializzazione dell'anima, lo stare insieme fine a se stesso, la santità degli affari, la scienza delle human relations)-. confligge con l'idea stessa di Grande Società la coesistenza armata della società opulenta con la parte diseredata del mondo, ogni forma di neocoloniaHsmo. Analogamente, alcuni dei valori associati alla civiltà orientale (specialmente la sua tradizionale avversione verso l'attività economica, l'accento sulla contemplazione) potrebbero rivivere nella nuova società, mentre altri valori dell'Oriente sarebbero incompatibili con essa. Riassumendo: il programma della Grande Società reca una sostanziale ambiguità, che riflette prospettive alternative dello sviluppo della società opulenta, di cui pretende di essere il programma. 202
1) Può essere letto come un programma di espansione e perfezionamento dello status quo-, un più elevato livello di vita per la parte svantaggiata della popolazione, l'abolizione della discriminazione e della disoccupazione, l'abbellimento delle città e delle campagne, lo sviluppo dei trasporti, una migliore istruzione per tutti, coltivazione degli svaghi. A meno che non si proponga una politica di segno contrario, si deve ritenere che tale sviluppo debba aver luogo all'interno del quadro istituzionale, culturale e psicologico della lotta competitiva per l'esistenza economica. Un programma siffatto, tradotto in realtà, significherebbe un ampio progresso delle condizioni prevalenti. Tuttavia, anche all'interno del quadro dato, la realizzazione deUa Grande Società esigerebbe una riduzione, costante e considerevole, dell'apparato militare e delle sue manifestazioni fisiche e psichiche, in tutta la società - esigerebbe, cioè, ampi cambiamenti politici e economici, soprattutto in poUtica estera. In assenza di tali mutamenti, la Grande Società sarebbe come una sorta di Stato del benessere pronto a trasformarsi in uno Stato di guerra. 2) Si può interpretare il programma come la prospettiva di una trasfprmazione essenziale della società esistente, quale è suggerita dalle sue possibilità tecnologiche, la trasformazione in una società nella quale la base della crescita è costituita non dal pieno impiego, ma da un'occupazione marginale (o nulla) nel lavoro necessariamente alienato. Significherebbe il sovvertimento dell'organizzazione prevalente del processo economico e del prevalente processo formativo: in breve, una trasvalutazione fondamentale dei valori e l'emergere di nuovi bisogni individuali e sociali. Significherebbe anche un mutamento radicale nel rapporto tra società benestanti e diseredate - il sorgere di una società internazionale, al di là del capitalismo e del comunismo. Sotto entrambi gli aspetti, il concetto tradizionale di individuo, nella sua forma classico-liberale, come pure in quella marxiana, sembra insostenibile, superato {aufgehoben) dallo sviluppo storico della produttività. L'individualità, la "persona" come agente autonomo, troverebbe nel processo del lavoro uno spazio sempre minore. Nella prima alternativa (estensione e miglioramento dello status quo), l'individualità potrebbe (e forse dovrebbe) essere conservata e sostenuta "artificialmente": una sorta di individualità organizzata, amministrata, espressa in accessori esteriori, gadgets, capricci, hobby, e, al di fuori del processo di lavoro, nella coltivazione di svaghi, ornamenti e stili decorativi. L'individualità autentica rimarrebbe il segno distintivo deU'arti203
sta creativo, dello scrittore o del musicista. L'idea di generalizzare questo potenziale creativo all'insieme della popolazione va contro la funzione e la verità della creazione artistica quale forma di espressione non perché questa debba necessariamente rimanere il privilegio di pochi creativi, ma perché implica la dissociazione dal senso comune e dai valori comuni, e la loro negazione: l'ingresso, nella realtà costituita, di una realtà qualitativamente differente. Nella seconda alternativa (trasformazione fondamentale della società), l'individualità si riferirebbe ad una dimensione dell'esistenza completamente nuova: all'ambito del gioco, dell'esperimento e dell'immaginazione, che è al di là della portata di ogni politica e programma dei nostri giorni. Desidero concludere con una nota meno utopica. Il mio dubbio forse più serio sulla Grande Società scaturisce dal fatto che la politica estera americana ne smentisce completamente il programma. Gli esiti della coesistenza, dei rapporti con i paesi poveri, del neocolonialismo, e l'apparato militare non sono fattori contingenti esterni, ma determinano piuttosto le prospettive della crescita, dello sviluppo, e anche U perdurare di una società, grande o poi non così grande. Dichiarazioni come quelle circa il bisogno di estendere il programma americano ad altre nazioni sono contraddette dalla brutale, sporca guerra del Vietnam, dall'intervento, diretto o indiretto, contro il mutamento sociale dovunque esso minacci gli interessi costituiti, dal fiorire di basi militari in tutto il globo. Queste condizioni attestano infatti il predominio di poteri incompatibili col grande disegno di pace, libertà e giustizia. È la presenza di questi poteri, più che l'assenza delle potenzialità e delle intenzioni, che conferisce al programma il suo carattere ideologico. La Grande Società sarà una società in grado di esistere e crescere in pace, libera dal bisogno innato di difendersi e di aggredire - o non sarà.
NOTE ^ Si ritiene opportuno leggere qui "token" invece di "taken" [N.d.T], ^ La situazione è del tutto differente nei paesi arretrati, dove è immaginabile che la crescita e l'umanizzazione dei modi di lavoro esistenti, preindustriali, potrebbe contrastare la tendenza al controllo e allo sfruttamento dell'industrializzazione da parte del capitale estero o locale - a condizione che si sia conseguita un reale indipendenza nazionale.
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Riflessioni sul rapporto fra tecnica e libertà "
I La crescente opposizione contro il dominio mondiale del capitalismo delle corporations fronteggia un potere saldo; la potenza economica e militare nei quattro continenti, l'impero neocoloniale, e, cosa più importante, la ferma volontà di sottomettere la maggioranza della popolazione al principio di una produttività schiacciante. Questa potenza globale mantiene il campo socialista su una difensiva i cui costi straordinari si misurano sono solo sulle spese militari, ma anche sulla perpetuazione di una burocrazia repressiva. Di conseguenza, lo sviluppo del socialismo viene ulteriormente deviato dalla sua meta originaria. La coesistenza competitiva con l'Ovest produce valori e desideri modellati sul livello di vita americano. Di recente questa spaventosa omogeneità si è allentata; nel continuum repressivo irrompe l'alternativa. Non è tanto un'altra via al socialismo, quanto la formulazione di un'altra meta, un'altra speranza, ad opera di quegli uomini e quelle donne che sfidano e resistono al massiccio potere di sfruttamento del capitalismo delle grandi società per azioni, persino lì dove esso si realizza nel modo più confortevole e liberale. Il Gran Rifiuto assume forme diverse. In Vietnam, a Cuba e in Cina vi è la difesa e la prosecuzione di una rivoluzione che cerca di sottrarsi all'amministrazione burocratica del socialismo. Le guerriglie in America Latina sono animate dal medesimo impulso sovversivo, quello della liberazione. Al tempo stesso la stabilità apparentemente invincibile del capitalismo corpo-
* Dattiloscritto inedito di 43 pagine in lingua tedesca conservato nel Marcuse Archiv (HMA 369.01), intitolato Seine bedùrfnisse befriedigen, ohne sich selbst zu verletzen. Gedanken ùber das Verhàltnis von lechnik und Freiheit. Si tratta di una conferenza radiofonica tenuta a Francoforte il 30 giugno 1969 e mandata in onda all'interno del programma Kulturelles Wort il 1 luglio e il 4 luglio 1969.
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rativo mostra i segni di un affanno crescente: persino gli Stati Uniti non possono produrre merci - cannoni e burro, napalm e televisori a colori - all'infinito. Gli abitanti dei ghetti potrebbero costituire la prima base di massa della rivolta (se non della rivoluzione). L'opposizione degli studenti si estende tanto nei paesi socialisti tradizionali, che in quelli capitalistici. In Francia per la prima volta ha sfidato il regime e rievocato per un breve istante la forza liberatrice delle bandiere rosse e di quelle nere, lasciando intravedere, inoltre, la prospettiva di un ampliamento della propria base. La momentanea repressione della ribellione non riuscirà a invertire questa tendenza. Nessuna di queste forze rappresenta l'alternativa. Tuttavia esse travolgono, in dimensioni molto diverse, i confini delle società costituite, il loro potere di contenimento. Non appena si arriva a toccarli, è possibile che l'establishment introduca un nuovo ordine di repressione totalitaria. Tuttavia, anche al di là di questi confini, si tratta di costruire il regno di una libertà che sia altra da quella attuale: di una liberazione dalle libertà proprie dell'ordine dello sfruttamento - che preceda l'edificazione di una società libera, e imponga una rottura storica col passato e col presente. Ora ne va degli stessi bisogni. A questo livello, la questione non riguarda più il modo in cui l'individuo possa soddisfare i suoi bisogni, senza ferire gli altri; ma piuttosto: come può l'individuo soddisfare i propri bisogni senza ferire se stesso, senza riprodurre, con i suoi desideri e le sue soddisfazioni, la propria dipendenza da un apparato orientato allo sfruttamento, che, mentre appaga i bisogni, perpetua la servitù? La comparsa di una società libera sarebbe caratterizzata dal fatto che l'aumento del benessere si trasforma in una qualità della vita essenzialmente nuova. Il mutamento qualitativo deve aver luogo nei bisogni, nella struttura degli individui (anch'essa una dimensione della struttura sociale): la nuova direzione di sviluppo, le nuove istituzioni e i nuovi rapporti di produzione devono esprimere bisogni e soddisfazioni molto diversi, e antagonistici, rispetto a quelli che predominano nelle società dello sfruttamento. Un tale mutamento costituirebbe la base "pulsionale" della libertà bloccata nel corso della lunga storia della società di classe. Questa sorgerebbe come l'habitat di un organismo che non è più in grado di adattarsi alle prestazioni legate alla concorrenza, così come esigono coloro che sotto il dominio si trovano a loro agio; che non riesce più a tollerare l'aggressività, la brutalità e la bruttezza della forma di 206
vita stabilita. La ribellione avrebbe allora trovato le sue radici nella vera natura dell'individuo, e su questo terreno inedito i ribelli ridefinirebbero le loro mete e la strategia della lotta politica, solo all'interno della quale si lasciano determinare gli obiettivi concreti della liberazione. E concepibile una tale trasformazione della "natura" dell'uomo? Penso di sì. Il progresso tecnico ha raggiunto, infatti, un livello, nel quale la realtà non ha più bisogno di essere definita mediante la snervante competizione per la sopravvivenza e l'avanzamento sociali. Quanto piiì le capacità tecniche si elevano al di là del quadro dello sfruttamento, all'interno del quale rimangono racchiuse e utilizzate in modo improprio, tanto piìi esse accrescono le pulsioni e i desideri degli uomini: sino al punto in cui le necessità dell'esistenza non hanno più bisogno delle manifestazioni aggressive con le quali ci si guadagna da vivere, e il "non necessario" diviene un bisogno vitale. Questa tesi centrale della teoria di Marx è nota, e i manager e i pubblicitari del capitalismo delle corporations ne hanno bene inteso il significato; sono preparati a "contenerne" le pericolose conseguenze. Anche l'opposizione radicale conosce tali prospettive, mentre la teoria critica, cui spetterebbe di guidare la prassi politica, arranca dietro di essa. Marx ed Engels esitarono a delineare delle concezioni concrete delle forme possibili di libertà in una società socialista. Una tale esitazione oggi non sembra più giustificata. La crescita delle forze produttive rimanda a possibilità della libertà umana profondamente differenti ed eccedenti rispetto a quelle che ci si era immaginati nelle fasi precedenti. Tali possibilità reali indicano inoltre che il divario che separa una società libera dalla società esistente si è tanto più allargato e approfondito, in quanto il potere repressivo e produttivo modella l'uomo e il suo ambiente a propria immagine e somiglianza, e secondo i propri interessi. Perciò le società costituite non possono edificare il mondo della libertà dell'uomo, per quanto siano in grado di "levigare" e razionalizzare il proprio dominio. La loro struttura di classe e i controlli perfetti, necessari alla sua conservazione, creano bisogni, soddisfazioni e valori che riproducono la servitù dell'esistenza umana. La servitù "volontaria" (in quanto introiettata dagli individui), che legittima i padroni benevolenti, può essere incrinata solo da una prassi politica che arrivi a toccare le radici del contenimento e dell'appagamento all'interno della struttura^ mediante una dissociazio207
ne metodica dall'establishment e un rifiuto altrettanto metodico, diretto a una trasvalutazione radicale dei valori. Una tale prassi comprende la rottura con ciò che è familiare, con le modalità abituali del vedere, dell'ascoltare, del sentire e del comprendere le cose, così che l'organismo possa divenire sensibile alle forme potenziali di un mondo non più legato all'aggressività e allo sfruttamento. Per quanto la ribellione sia lontana da tali considerazioni e possa apparire distruttiva e autodistruttiva, per quanto sia considerevole la distanza tra la rivolta borghese nelle metropoli e la lotta per la vita e la morte dei diseredati di questa terra, le accomuna la radicalità del rifiuto. Ciò fa sì che entrambe respingano le regole del gioco allestite contro di esse, la secolare strategia della pazienza e della persuasione, della fiducia nella buona volontà dell'establishment, nei suoi agi illusori e immorali, nella sua crudele opulenza. La cosiddetta economia dei consumi e la politica del capitalismo delle grandi società per azioni hanno prodotto una seconda natura degli uomini, che ne lega la libido e l'aggressività alla forma merce. Il bisogno di possedere e consumare, utilizzare e rinnovare costantemente beni tecnici, apparecchi, strumenti e macchine merci offerte e imposte alle persone perché esse continuino a farne uso anche a rischio della propria distruzione - è divenuto un bisogno "biologico". La seconda natura dell'uomo si contrappone a ogni mutamento che ne incrini o elimini la dipendenza da un mercato sempre più gonfio, ricolmo di merci, che metta fine alla sua esistenza come consumatore che, comprando e vendendo, consuma se stesso. Quelli creati dal sistema sono perciò bisogni orientati alla stabilizzazione, alla conservazione: la controrivoluzione è radicata nella struttura pulsionale. Da sempre il mercato è volto allo sfruttamento e perciò al dominio; è esso che ha assicurato le strutture di classe della società. Il processo di produzione del capitalismo avanzato ha mutato tuttavia la forma del dominio: il velo tecnologico ricopre la presenza e l'incidenza dell'interesse di classe nella merce. Occorre ancora continuare a sottolineare che le leve della repressione non sono la tecnologia, né la tecnica o la macchina, ma la presenza, in queste incorporata, dei dominanti, che ne determinano la quantità, la durata, la potenza, il posto nella vita e il bisogno? E ancora necessario ripetere che la scienza e la tecnologia costituiscono i grandi veicoli della liberazione, e solo l'uso e la restrizione di cui sono oggetto all'inter208
no della società repressiva ne fa veicoli di dominio? L'auto, il televisore o gli elettrodomestici non sono in sé repressivi; lo sono l'auto, la televisione e le cianfrusaglie tecniche in quanto parte essenziale dell'esistenza degli uomini, della loro "realizzazione" secondo le esigenze dello scambio profittevole. Essi devono così acquistare sul mercato un momento essenziale della loro esistenza, che costituisce la realizzazione del capitale. Il nudo interesse di classe fa costruire automobili insicure e di breve durata, per mezzo delle quali alimenta l'energia distruttiva; è l'interesse di classe che utilizza i mass media per propagandare la potenza e la stupidità, per sedurre gli ascoltatori. In ciò i dominanti obbediscono solo alla richiesta del pubblico, delle masse; la famosa legge della domanda e dell'offerta stabilisce l'armonia tra dominanti e dominati. In realtà, nella massa, l'armonia è preformata, così come i dominanti hanno creato il pubblico che desidera le loro merci, e le desidera con tanta maggiore urgenza, in quanto in esse e per mezzo di esse può scaricare la sua frustrazione, e la conseguente aggressività. L'autodeterminazione, l'autonomia dell'individuo, si afferma nel diritto di portare in giro la propria automobile, di utilizzare i propri attrezzi che evocano potenza, acquistare un'arma, e comunicare la propria opinione, per quanto sciocca e aggressiva, nei sondaggi di massa. Il capitalismo organizzato ha sublimato e utilizzato in modo socialmente produttivo la frustrazione e l'aggressività originaria, in una misura inedita - lungi dal produrre una soddisfazione e un appagamento durevoli, inedita è la sua capacità di riprodurre la "serviti! volontaria". Certamente la sconfitta, l'infelicità e la malattia rimangono la base di una tale sublimazione, base che peraltro la produttività e la violenza pura del sistema possono ancora tenere agevolmente sotto controllo. Il sistema di dominio è legittimato dai suoi successi. L'idea, infatti, che la felicità sia una condizione oggettiva, che essa esiga più che sentimenti soggettivi, è stata efficacemente oscurata; la sua validità dipende dalla solidarietà reale del genere "uomo", che una società divisa in classi e nazioni contrapposte non può conseguire. Finché la storia dell'uomo consiste in questo, predominerà lo "stato di natura", comunque lo si voglia definire: un civilizzato bellum omnium cantra omnes, nel quale la felicità dell'uno deve coesistere con la sofferenza dell'altro. La Prima Internazionale fu l'ultimo tentativo di realizzare la solidarietà del genere, nella misura in cui si confidava in quelle classi sociali nelle quali gli inte209
ressi soggettivi e oggettivi, il particolare e l'universale coincidevano (l'Internazionale costituisce la tarda concretizzazione del concetto filosofico astratto dell"'uomo in quanto uomo", dell'essenza umana, deir"essere generico", quale ha svolto un ruolo decisivo negli scritti giovanili di Marx e Engels). In seguito fu la guerra civile spagnola a risvegliare tale solidarietà, la forza pulsionale della liberazione, nel corso di una lotta, indimenticabile e disperata, di una strenua minoranza contro le armate congiunte del capitalismo fascista e liberale. Qui le Brigate Internazionali, che con armi insufficienti resistettero contro una schiacciante superiorità tecnica, incarnarono quell'alleanza di giovani intellettuali e operai che è divenuta l'obiettivo disperato dell'odierna opposizione radicale. Non è solo l'elevato livello di vita, l'illusorio superamento del divario dei consumi tra dominanti e dominati, che ha oscurato la distinzione tra gli interessi reali dei dominati e quelli immediati. La teoria marxiana riconobbe ben presto che l'impoverimento non offre necessariamente il terreno per la rivoluzione; che il potenziamento della coscienza e della fantasia è in grado di generare un interesse vitale alla trasformazione radicale delle condizioni materiali più avanzate. La forza del capitalismo delle corporations ha soffocato la comparsa di una tale coscienza e immaginazione; i suoi mass media hanno conformato le facoltà razionali e emozionali al suo mercato e alla sua politica, orientandole alla difesa del suo campo di dominio. La contrazione del divario dei consumi ha reso possibile il livellamento spirituale e pulsionale della classe operaia. La maggior parte dei lavoratori organizzati condivide i bisogni, orientati alla stabilizzazione, propri delle classi medie, come risulta evidente dal loro atteggiamento di consumatori di merci materiali e culturali, e dalla loro avversione emozionale nei confronti dell'intelligenza non conformistica. Dove invece il divario nei consumi è ancora ampio, dove la cultura capitalistica non ha raggiunto ancora ogni casa e ogni stabilimento, il sistema dei bisogni volti alla stabilizzazione mostra i suoi limiti; il contrasto acuto tra la classe privilegiata e gli sfruttati porta a una radicalizzazione dei non abbienti. È il caso, negli Stati Uniti, della popolazione dei ghetti e dei disoccupati; e lo stesso vale per la classe operaia nei paesi capitalistici arretrati. In forza della sua posizione nel processo produttivo, grazie al suo peso numerico e all'entità dello sfruttamento, la classe operaia rimane tuttora l'agente storico della rivoluzione: con la sua condivi210
sione dei bisogni che promuovono la stabilizzazione del sistema, è divenuta una forza conservatrice, controrivoluzionaria. Oggettivamente, "in sé", gli operai sono ancora la classe potenzialmente rivoluzionaria; soggettivamente, "per sé", non lo sono più. Tale concezione teorica ha un significato concreto nella situazione data, nella quale la classe operaia può contribuire a limitare lo spazio e gli obiettivi deUa prassi politica. Nei paesi del capitalismo avanzato, la radicalizzazione di questa classe è contrastata da una paralisi della coscienza socialmente indotta, così come dallo sviluppo e dalla soddisfazione di bisogni che perpetuano la servitii degli sfruttati. Nella loro struttura pulsionale si alimenta in tal modo un saldo interesse alla sussistenza del sistema, e l'incrinazione del continuum della repressione - condizione necessaria della liberazione - non ha luogo. Ne risulta che il mutamento radicale che intenda trasformare la società esistente in una società libera deve penetrare in una dimensione dell'esistenza umana che nella teoria marxiana è stata poco oggetto di considerazione, e nella quale i bisogni e le soddisfazioni vitali dell'uomo fanno valere i propri diritti. Nella misura in cui i bisogni e le soddisfazioni riproducono una vita di servitù, la liberazione presuppone un mutamento di questa stessa dimensione, cioè altri bisogni pulsionali, altre reazioni del corpo e dello spirito. Il trionfo e la fine dell'interiorizzazione è stato segnato, infatti, da uno stadio nel quale gli uomini non possono rifiutare il sistema di dominio senza rifiutare se stessi, i propri bisogni e valori pulsionali repressivi. Dovremmo trarne la conclusione che la liberazione significhi un rovesciamento contro la volontà e gli interessi prevalenti della grande maggioranza della popolazione. Nella falsa identificazione di bisogni sociali e individuali, nel profondo adattamento "organico" degli uomini a una società spaventosa, ma funzionante in modo remunerativo, risiedono i limiti della forza di persuasione e dello sviluppo della democrazia, La sua costruzione dipende dal superamento di questi limiti. Libertà e democrazia, inoltre, dipendono in larga misura dal progresso tecnico, dall'ulteriore sviluppo della scienza. Questo stato di cose oscura tuttavia facilmente una condizione essenziale: perché possano divenire veicoli di pace, la scienza e la tecnologia dovrebbero mutare il loro orientamento e le loro mete attuali; sarebbero da ricostruire, in consonanza con la nuova sensibilità. Si potrebbe allora parlare di una tecnologia della liberazione, prodotto di un'imma211
ginazione scientifica libera di delincare e progettare le forme di un universo umano privo di sfruttamento e di fatica. Una tale gaia scienza è concepibile però dopo la rottura storica col continuum del dominio - quale espressione dei bisogni di un nuovo tipo di uomo. Questo deve avere un'altra sensibilità così come un'altra coscienza: uomini che parlano un'altra lingua, che dispongono di altre forme espressive, che seguono altri impulsi; uomini che hanno eretto una barriera contro la crudeltà, la brutalità, la bruttezza. Una tale trasformazione pulsionale può concepirsi come fattore del mutamento della società solo se penetra nella divisione sociale del lavoro, negli stessi rapporti di produzione. Questi sarebbero modellati da uomini e donne che vivrebbero in buona coscienza la loro umanità, tenerezza e sensibilità, senza vergognarsi di sé. Infatti: "Che cos'è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare p..ù vergogna davanti a se stessi"^. La fantasia di simili uomini e donne ne modellerebbe la ragione e tenderebbe a trasformare il processo di produzione in un processo di creazione.
II Se non fossimo in grado di indicare determinate tendenze insite nella struttura^ della società industriale avanzata, in grado di conferire un contenuto realistico al nuovo tipo di uomo, questo, in quanto principio di una società libera, significherebbe effettivamente il rovesciamento dello sviluppo del socialismo dalla scienza all'utopia. Abbiamo richiamato più volte tali tendenze: innanzitutto il crescente carattere tecnologico del processo di produzione, col quale vanno di pari passo la riduzione dell'energia fisica necessaria e la sua sostituzione con quella psichica - il lavoro si fa immateriale"*. Contemporaneamente, un sistema di macchine sempre piti automatizzato - non pili utilizzato come un sistema di sfruttamento - consentirebbe queir"allontanamento" dell'operaio dagli strumenti di produzione, che Marx ha prospettato alla fine del capitalismo: gli operai cesserebbero di essere gli " agenti principali" della produzione materiale, per diventarne i "sorveglianti e regolatori" - nel regno della necessità sorgerebbe un nuovo soggetto. Già oggi le conquiste della scienza e della tecnica rendono possibile il gioco dell'immaginazione produttiva, lo sperimentare con possibilità della forma e 212
della materia sinora racchiuse nel ventre della natura non dominata. La trasformazione tecnica della natura sfocia nella possibilità di rendere le cose piìi luminose, chiare e belle - nella dissoluzione della reificazione. Il materiale risulta sempre più ricettivo per forme estetiche, e a queste sempre più sottomesso — forme che elevano il valore di scambio (quelle artistiche e modernistiche di banche, uffici, cucine, negozi ecc.). E nel quadro del capitalismo l'enorme crescita della produttività del lavoro impone la produzione sempre più ampia di "beni di lusso"; una produzione legata allo spreco, nell'industria degli armamenti così come nel volume di cianfrusaglie inutili, di apparecchi, aggeggi per pulire e simboli di status. La medesima tendenza alla produzione e al consumo che alimenta l'opulenza e la forza di attrazione del capitalismo avanzato, fa sì che si perpetui la lotta per l'esistenza, la crescente necessità di produrre e consumare il non necessario. Negli Stati Uniti l'aumento del cosiddetto "reddito assoluto" indica la misura in cui le retribuzioni sono spese per bisogni non "fondamentali". Quelli che una volta costituivano dei beni di lusso divengono ora oggetto di bisogni elementari - uno sviluppo normale, che nel capitalismo delle corpomtions estende il mercato competitivo dei beni di prima necessità a bisogni e soddisfazioni creati di recente. La fantastica diffusione di cose e servizi di tutti i generi supera ogni immaginazione, ma essi risultano confinati e snaturati nella forma merce, e in tal modo la produzione capitalistica espande il proprio potere sull'esistenza umana. E tuttavia proprio l'espansione della forma merce indebolisce la morale sociale repressiva che regge il sistema. La palese contraddizione tra le possibilità liberatrici dischiuse dalla trasformazione tecnica del mondo, tra una vita facile e libera, da un lato, e, dall'altro, l'intensificarsi della lotta per l'esistenza, produce nella popolazione sottomessa quella crescente aggressività che (se non viene incanalata nell'odio del nemico e nella lotta contro di esso) colpisce ogni obiettivo che si presti: bianco o nero, del posto o estraneo, ebreo o cristiano, ricco o povero. Tale è l'aggressività di coloro la cui esperienza è mutilata, la cui coscienza e i cui bisogni sono falsi, l'aggressività delle vittime della repressione, che dipendono per il loro sostentamento dalla società repressiva e rimuovono perciò l'alternativa. La loro violenza è quella dell'establishment e si sceglie come bersagli figure che, a ragione o a torto, sembrano essere diverse e rappresentare un'alternativa. 213
Rimossa (e odiata) dai manager della repressione e dai suoi consumatori, la rappresentazione del potenziale di liberazione della società industriale avanzata motiva l'opposizione radicale, conferendole il suo singolare carattere di eterodossia. Diversamente dalla rivoluzione in periodi storici precedenti, l'opposizione si volge contro la totalità di una società ben funzionante, vantaggiosa - è una protesta contro la sua forma, la forma merce degli uomini e delle cose, contro il fardello di falsi valori e di una falsa morale. La nuova coscienza e la ribellione pulsionale isolano tale opposizione dalle masse e dalla gran parte del movimento operaio organizzato, dalla maggioranza integrata, e fanno in modo che le pratiche politiche radicali si concentrino in minoranze attive, prevalentemente tra i giovani intellettuali della borghesia e tra le popolazioni dei ghetti. Prima di ogni strategia e organizzazione politica, la liberazione diviene qui un bisogno "vitale". Sarebbe naturalmente insensato sostenere che l'opposizione borghese sostituisca il proletariato in quanto classe rivoluzionaria, e che il sottoproletariato divenga una forza politica radicale. Accade invece che si formino gruppi ancora relativamente piccoli e scarsamente organizzati (spesso non organizzati affatto), i quali, in forza della loro coscienza e dei loro bisogni, operano come potenziali catalizzatori della ribellione all'interno delle maggioranze alle quali appartengono in base alla loro provenienza di classe. In questo senso gli intellettuali militanti si sono realmente staccati dalla borghesia, così come la popolazione dei ghetti dalla classe operaia organizzata. Ciò tuttavia non vuol dire che essi pensino e agiscano in un vuoto; la loro coscienza e le loro mete ne fanno i rappresentanti del vero interesse complessivo degli oppressi. La rivolta contro le vecchie società, così come contro il dominio degli interessi classistici e nazionali, che reprimono l'interesse complessivo, è realmente internazionale: sorge una nuova, spontanea, solidarietà. Questa lotta è distante dall'ideale dell'umanesimo e dèi'humanitas-, è una lotta per la vita - per una vita non da padroni e servi, ma da uomini e donne. Nella prospettiva della teoria marxiana, la collocazione (o, meglio, la concentrazione) dell'opposizione in alcuni strati della borghesia e della popolazione dei ghetti deve apparire come una deviazione inaccettabile, e lo stesso vale per l'insistenza sui bisogni biologici e estetici; ciò rappresenterebbe la ricaduta in ideologie borghesi o, ancora peggio, aristocratiche. Nei paesi del capitalismo mono214
polistico avanzato il dislocamento dell'opposizione (dalla classe operaia industriale organizzata a minoranze militanti) è però determinato dallo sviluppo intrinseco della società; e la "deviazione" teorica non fa altro che riflettere tale sviluppo. Quello che appare come un fenomeno di superficie indica delle tendenze decisive, che suggeriscono non solo altre prospettive di trasformazione, ma anche una profondità e un'ampiezza del rovesciamento che vanno bel al di là delle attese della teoria socialista tradizionale. Visto così, lo spostamento delle forze negative dalla loro base tradizionale nella popolazione sottomessa può essere l'indice, più che della debolezza dell'opposizione di fronte alla forza di integrazione del capitalismo avanzato, della lenta formazione di una nuova base, che spinge in primo piano il nuovo soggetto storico del mutamento: alle nuove condizioni oggettive questo reagisce con bisogni e speranze qualitativamente altri. E la base sulla quale prendono forma obiettivi e strategie (verosimilmente) discontinui e provvisori, che inducono al riesame dei concetti della trasformazione, tanto democratico-parlamentare quanto rivoluzionaria. La modificazione della struttura del capitalismo muta la base sulla quale forze potenzialmente rivoluzionarie possono svilupparsi e organizzarsi. Dove le classi operaie tradizionali non sono più i "becchini" del capitalismo, tale funzione è dislocata, e gli sforzi di ordine politico di rovesciare l'esistente rimangono "sperimentali", preparatori in senso non solo temporale, ma anche strutturale. Ciò significa che tanto i "destinatari", quanto gli obiettivi immediati e le occasioni dell'azione saranno determinati più da una situazione mutevole che da una strategia elaborata e fondata dalla teoria. Diretta conseguenza della forza del sistema e della dilatazione dell'opposizione, la prospettiva di una tale determinazione implica uno spostamento del baricentro sui "fattori soggettivi" - urge lo sviluppo della coscienza e dei bisogni. La determinazione sociale della coscienza ad opera dell'amministrazione totale del capitalismo e della sua introiezione risulta pressoché completa e immediata: è una inoculazione diretta. In queste circostanze, il mutamento radicale della coscienza costituisce l'inizio, il primo passo per la trasformazione delle condizioni sociali: sorge un nuovo soggetto. In una prospettiva storica, la trasformazione materiale è nuovamente preceduta dal periodo dell'illuminismo un periodo di educazione, ma di un'educazione che si converte in prassi: in dimostrazioni, confronto e ribellione. 215
La trasformazione radicale di un sistema sociale dipende sempre dalla classe che forma la base del processo di produzione. Questa è, nei paesi a capitalismo avanzato, la classe operaia industriale. Le modificazioni della sua composizione, la portata della sua integrazione nel sistema ne mutano il ruolo politico attuale, non quello potenziale. Poiché essa costituisce "in sé", ma non "per sé", (oggettivamente, ma non soggettivamente) la classe rivoluzionaria, la sua radicalizzazione rimane legata a catalizzatori esterni alle sue file. Lo sviluppo di una coscienza politica radicale nelle masse è concepibile solo se e quando la stabilità economica e la coesione sociale del sistema iniziano a affievolirsi. Il ruolo del partito marxista-leninista tradizionale consisteva nel preparare il terreno per tale sviluppo. La forza di stabilizzazione e integrazione del capitalismo avanzato e le esigenze della "coesistenza pacifica" hanno costretto questo partito a "parlamentarizzarsi", a divenire parte del processo democraticoborghese, e a concentrarsi su rivendicazioni economiche; in ciò esso, invece di favorire la formazione di una coscienza politica radicale, l'ha ostacolata. Dove questa è penetrata nell'apparato del partito e del sindacato, è accaduto sotto l'influsso di forze "esterne", in primo luogo degli intellettuali; quando il movimento ha guadagnato in forza propulsiva, l'apparato vi si è solo aggregato, per riconquistarne il controllo. Per quanto razionale possa essere la strategia, e significativo lo sforzo disperato di resistere, di fronte alla persistente potenza del capitalismo corporativo, la strategia attesta la "passività" delle classi lavoratrici industriali e la misura della loro integrazione; attesta i fatti che la teoria ufficiale contesta così violentemente. Nella situazione propria dell'integrazione, la nuova coscienza politica del bisogno vitale della trasformazione radicale si presenta in gruppi sociali che per motivi oggettivi sono (relativamente) liberi dagli interessi e dalle aspirazioni orientati all'integrazione e alla conservazione, sono liberi per la radicale "trasvalutazione dei valori". Senza perdere il suo ruolo storico in quanto forza fondamentale della trasformazione, la classe operaia assume, nel periodo della stabilizzazione, una funzione coesiva e conservatrice, mentre i catalizzatori della trasformazione intervengono "dall'esterno". Tale tendenza è rafforzata dalla mutata composizione della classe operaia. La quota decrescente di operai dal "colletto blu", e l'aumento, di numero e significato, degli impiegati "dal colletto 216
bianco", dei tecnici, degli ingegneri e degli specialisti, spacca la classe in due. Ciò significa che proprio quei settori della classe operaia che erano e sono ancora esposti alla maledizione di uno sfruttamento disumano eserciteranno nel processo di produzione una funzione sempre minore. In questo processo l'intelligenza - comunque tale, anche se orientata in termini strumentali - acquisisce un ruolo decisivo. Grazie alla sua posizione, la "nuova classe operaia" potrebbe abbattere il modo di produzione e i rapporti di produzione, riorganizzarli e dirigerli. Non ne ha però né l'interesse né il bisogno vitale: è bene integrata, e ben pagata. Di certo la competizione monopolistica, la corsa all'intensificazione della produttività del lavoro accelererà i rivolgimenti tecnologici, che potrebbero entrare in conflitto con le pratiche politiche e le forme dell'impresa privata capitalistica ancora predominati; tali mutamenti possono allora provocare una ristrutturazione di ampi settori della società (anche della sua cultura e ideologia). Non si comprende però perché dovrebbero portare all'abolizione del sistema capitalistico, dell'assoggettamento degli uomini all'apparato di una produzione profittevole al servizio di interessi particolari. Un tale mutamento qualitativo presupporrebbe che l'apparato di produzione fosse controllato e diretto da gruppi con bisogni e obiettivi assai diversi da quelli dei tecnocrati. La tecnocrazia, per quanto voglia essere "pura", conserva il continuum del dominio, modellandolo senza attriti. Questa concatenazione fatale può essere spezzata solo da una rivoluzione che ponga la tecnologia e la tecnica al servizio dei bisogni e delle mete di uomini liberi; in questo senso, e solo in questo, essa sarebbe una rivoluzione contro la tecnocrazia. Una simile rivoluzione non è all'ordine dfel giorno. Nel campo dominato dal capitalismo delle grandi società per azioni, i due fattori storici della trasformazione, quello soggettivo e quello oggettivo, non coincidono; essi sussistono in gruppi diversi e persino antagonistici. Il fattore oggettivo - la base umana del processo di produzione, che riproduce la società costituita - è dato dalla classe operaia industriale, la fonte e la riserva umana dello sfruttamento; il fattore soggettivo - la coscienza politica - esiste tra i giovani intellettuali non conformisti; e il bisogno vitale della trasformazione determina la vita della popolazione dei ghetti e della parte "svantaggiata" delle classi lavoratrici nei paesi capitalistici arretrati. I due fattori storici coincidono in ampie aree del Terzo Mondo, dove i fronti di libera217
zione nazionale e le guerriglie lottano con l'appoggio della classe che costituisce la base del processo di produzione, il proletariato prevalentemente agricolo e il nascente proletariato industriale. La costellazione dominante nelle metropoli del capitalismo - la necessità oggettiva del rovesciamento radicale e la paralisi delle masse - sembra caratteristica di una situazione non rivoluzionaria, ma pre-rivoluzionaria. Il passaggio da questa a quella presuppone che l'economia mondiale capitalistica rallenti seriamente, e si intensifichi ed estenda il lavoro politico, quello del disvelamento radicale. Il suo significato storico, che scaturisce proprio dal carattere preparatorio che tale lavoro riveste, consiste nel far emergere tra gli sfruttati una coscienza (e un inconscio) in grado di allentare la presa sulla loro esistenza da parte dei bisogni che li mantengono in schiavitù e ne perpetuano la dipendenza dal sistema dello sfruttamento. In assenza di questa rottura, che può essere solo l'esito di una formazione politica condotta mediante l'azione, persino la forza più elementare e immediata della ribellione può essere sconfitta o ridotta a base di massa della controrivoluzione. La popolazione dei ghetti negli Stati Uniti costituisce una simile forza. Costretta a vivere a e morire stipata in uno spazio ristretto, essa può essere facilmente organizzata e'diretta. Inoltre i ghetti, poiché sono localizzati nelle più importanti città del paese, costituiscono i luoghi naturali dai quali si può portare la lotta contro obiettivi di vitale rilevanza economica e politica. In questa prospettiva li si può paragonare ai sobborghi parigini del XVIII secolo, e la loro posizione favorisce l'espansione e il "contagio" delle sollevazioni. La necessità crudele e indiscriminata incontra ultimamente una resistenza crescente, la quale ha però un carattere ancora largamente non politico, che ne facilita la repressione e la deviazione. Il conflitto razziale separa ancora i ghetti dai loro alleati esterni. L'uomo bianco è colpevole, certo, ma ci sono anche ribelli e radicali dalla pelle bianca. In ogni caso, è un fatto che l'imperialismo monopolistico si confermi razzista: esso sottomette sempre più gruppi etnici di colore alla potenza brutale delle sue bombe, dei suoi veleni è delle sue monete, e rende così anche la popolazione sfruttata bianca della metropoli complice e beneficiaria di un crimine mondiale. I conflitti di classe vengono rimossi o sopiti dai conflitti razziali; le barriere razziali divengono una realtà economica e politica - uno sviluppo che trova il suo fondamento nella dinamica del tardo capitalismo e 218
nella sua lotta per nuove forme di colonizzazione interna e esterna. La forza notevole della ribellione dei neri è minata dalla profonda separazione che ne attraversa la classe (la crescita di una borghesia nera) e dalla funzione sociale (dal punto di vista del sistema capitalistico) marginale che questa assolve. La maggioranza della popolazione nera ha una posizione non decisiva nel processo di produzione, e le organizzazioni degli operai bianchi non si sono propriamente sforzate di mutare la situazione. Nei cinici termini del sistema, una gran parte di questa popolazione è "usa e getta", cioè non contribuisce in modo essenziale alla produttività del sistema. Di conseguenza, quando il movimento diviene pericoloso, i poteri costituiti possono attuare senza esitazioni misure repressive estreme. Attualmente negli Stati Uniti la popolazione nera si presenta come la "più naturale" forza della ribellione. La sua distanza dalla giovane opposizione borghese è da questo punto di vista spaventosa. La base comune - il rifiuto totale della società esistente, del suo intero sistema di valori - è offuscata dalla palese differenza di classe, così come all'interno della popolazione bianca la comunanza dell'"interesse reale" tra studenti e operai è rimossa dal conflitto di classe. Nondimeno, durante la ribellione del Maggio francese ha preso forma un'ampia solidarietà - contro il divieto tacito da parte del partito comunista e della CGT {Confédération Générale du TravaiP)\ e sono stati gli studenti, non gli operai a dare inizio all'azione comune. E un fatto che può illustrare la profondità e l'unità dell'opposizione al di sotto e al di là dei conflitti di classe. Nella prospettiva del movimento degli studenti, lo sviluppo graduale di una tale comunanza di interessi è favorito da una tendenza fondamentale della struttura della società industriale avanzata. Il processo di vasta portata, che si appresta a sostituire, in ampi settori della produzione materiale, il lavoro fisico pesante con energia tecnica, mentale, eleva la domanda sociale di lavoratori dotati di una formazione scientifica, intellettuali; una parte considerevole degli studenti appartiene alla futura classe operaia - alla "nuova classe operaia", che non solo non è "usa e getta", ma è vitale per la crescita della società esistente. La ribellione degli studenti colpisce la società in un punto vulnerabile, e la reazione è corrispondentemente avvelenata e violenta. Già la denominazione di "movimento degli studenti" è ideologica e fallace, in quanto nasconde il fatto che al movimento parteci219
pano settori importanti degli intellettuali più maturi e della popolazione non studentesca. Questo dichiara obiettivi e aspirazioni molto diversi: le rivendicazioni generali di riforme del sistema formativo sono solo l'espressione immediata di finalità piii estese e fondamentali. La differenza decisiva sussiste tra l'opposizione nei paesi socialisti e quella nei paesi capitalistici. La prima accetta la struttura sociale socialista, ma protesta contro il regime autoritario-repressivo della burocrazia di Stato e di partito, mentre nei paesi capitalistici il settore più combattivo (ed evidentemente in crescita) del movimento è anticapitalistico, socialista o anarchico. Ancora, la ribellione contro le dittature fasciste e militari nel campo capitalistico (in Spagna e nell'America Latina) presenta una strategia e degli obiettivi che si differenziano da quelli della ribellione nei paesi democratici. E non si dovrebbe mai dimenticare quella rivolta studentesca che ha contribuito al compimento della più orribile strage del nostro tempo: il massacro dei centinaia di migliaia di "comunisti" in Indonesia. Il crimine è ancora impunito; è l'unica, spaventosa eccezione rispetto alla funzione libertaria, liberatrice dell'attivismo studentesco. Nei paesi fascisti o semifascisti gli studenti militanti (dappertutto una parte minoritaria degli studenti) trovano sostegno nel proletariato industriale e agrario; in Francia e in Italia sono riusciti ad ottenere l'aiuto (incerto e momentaneo!) dei potenti partiti di sinistra e dei sindacati; nella Germania Occidentale e negli Stati Uniti incontrano la forte e talora violenta ostilità del "popolo" e dei lavoratori organizzati. Per quanto rivoluzionario nella teoria, nei bisogni pulsionali e negli obiettivi ultimi, il movimento studentesco non costituisce una forza rivoluzionaria, forse neanche un'avanguardia, finché non vi siano masse in grado e desiderose di unirvisi; nondimeno, esso rappresenta il fermento della speranza nelle potenti e soffocanti metropoli del capitalismo: attesta la verità dell'alternativa - il bisogno reale e la possibilità reale di una società libera. Certo, vi sono i selvaggi e i non impegnati, coloro che si perdono in ogni genere di misticismo, i folli buoni e quelli cattivi, e coloro ai quali è indifferente ciò che accade; vi sono autentici eventi e azioni non conformistiche, e eventi e azioni organizzati. Il mercato è riuscito a penetrare in questa ribellione, e ne ha fatto un affare; nondimeno, essa è un affare serio. Non si tratta qui né della psicologia più o meno interessante di coloro che vi prendono parte, né delle forme di protesta spesso bizzarre (che il più delle 220
volte fanno trasparire l'assurda razionalità dell'establishment e le immagini antieroiche, sensibili, dell'alternativa, meglio di quanto potrebbero gli argomenti piìi seri); si tratta invece di ciò contro cui la protesta si rivolge. Le richieste di una riforma strutturale del sistema formativo (in sé già abbastanza urgente - vi torneremo in seguito) cercano di contrastare la neutralità ingannevole di un insegnamento che è spesso apologia allo stato puro, e di dotare gli studenti degli strumenti concettuali per una critica solida, radicale, della cultura materiale e intellettuale. Contemporaneamente, esse mirano ad abolire il carattere di classe della formazione. Tali trasformazioni porterebbero all'espansione e al dispiegamento della coscienza, sicché essa potrebbe squarciare il velo ideologico e tecnologico che ricopre i lineamenti terribili della società opulenta. La funzione dichiarata delle università rimane ancora quella di sviluppare di una vera coscienza. Non c'è da stupirsi, pertanto, che l'opposizione studentesca vada incontro all'odio quasi patologico della cosiddetta "comunità" - compresi ampi settori dei lavoratori organizzati. Nella misura in cui le università risultano dipendenti dai favori finanziari e politici delle amministrazioni locali e del governo, la lotta per una formazione libera e critica diviene un momento vitale della lotta più ampia per il mutamento dello stato di cose. Quella che appare come una "politicizzazione" dell'università dall'esterno, ad opera di quegli "agenti di disgregazione" dei radicali, risponde oggi (come spesso nel passato) alla dinamica "logica", intrinseca dell'educazione: la dinamica della traduzione del sapere in realtà, dei valori umanistici in condizioni di esistenza. Inibita dal carattere falsamente neutrale dell'"accademia", essa potrebbe essere alimentata, ad esempio, mediante la ricezione nei programmi di insegnamento di corsi che affrontino in modo adeguato i grandi movimenti non conformistici della civiltà e l'analisi critica delle società contemporanee. La base per il superamento della frattura tra "dovere" e "essere", tra teoria e prassi, è nella stessa teoria. La conoscenza si rapporta al mondo oggettivo in modo trascendente; si riferisce alla realtà non solo in senso gnoseologico, ma in quanto forme di vita repressive - è una conoscenza politica. La negazione del diritto all'attività politica nell'università perpetua la separazione tra ragione teoretica e ragione pratica, e riduce l'incidenza e l'orizzonte degli intellettuali. Le rivendicazioni nel campo della formazione portano così il movimento fuori delle uni221
versità, nelle strade, negli slums, e nelle comunità locali. La forza propulsiva è il rifiuto di comportarsi in modo efficiente e "normale" in una società e per una società che costringe la stragrande maggioranza della popolazione a guadagnarsi da vivere con attività stupide, disumane e non necessarie - una società la cui direzione di sviluppo passa per i ghetti, gli s/ums e il colonialismo interno e esterno; pervasa dalla violenza e dalla repressione, dalle cui vittime essa pretende però obbedienza e condiscendenza - una società che, per mantenere la produttività profittevole da cui dipende la sua gerarchia, riversa le proprie risorse smisurate in beni usurabili, in attività distruttive, e nella produzione sempre più sistematica di bisogni e soddisfazioni conformistici. Nella misura in cui si indirizza contro una società funzionante, benestante e "democratica", questa è una ribellione "morale", contro valori e finalità ipocriti e aggressivi, contro la religione blasfema di questa società, contro tutto ciò che essa prende seriamente, che professa, nel momento stesso in cui lo viola. Il carattere "eterodosso" di questa opposizione, che non dispone di una base di classe tradizionale, e che costituisce contemporaneamente una ribellione politica, pulsionale e morale, ne configura la strategia e la portata. Essa si estende all'intera organizzazione della democrazia liberal-parlamentare esistente. Con la Nuova Sinistra si è affermato un rifiuto esplicito nei confronti delle pratiche politiche tradizionali: della rete di partiti, comitati, e gruppi di interessi di tutti i livelli, nei confronti di ogni lavoro all'interno di questa rete e con i suoi metodi. Questa intera sfera - e atmosfera - è divenuta decrepita, con tutto il suo potere; ciò che qualsivoglia di questi politici, parlamentari o candidati dichiari, di qualunque rilevanza possa essere, per i ribelli non vale niente; essi non riescono a prenderlo sul serio, sebbene possa significare per loro - come sanno bene - il pestaggio, l'arresto o la perdita del posto di lavoro. Non sono martiri di professione, non amano essere pestati, arrestati o licenziati. Per loro non è però una questione di scelta; la protesta e il rifiuto sono tra i motivi più profondi della trasformazione, e si estendono alla struttura di potere nella sua interezza. Il processo democratico organizzato da tale struttura è discreditato a tal punto che non se ne lascia estrapolare nessuna parte che non sia sudicia. Inoltre, servirsi di questo processo significherebbe disperdere le energie in movimenti che procedono a passo di lumaca. Ad esempio, mutare in 222
modo incisivo con una competizione elettorale la composizione del congresso degli Stati Uniti - conformemente al ritmo attuale del progresso e posto che la tensione alla radicalizzazione politica si sviluppi senza ostacoli - potrebbe richiedere un secolo. E la condotta dei tribunali, da quelli minori alle corti più elevate, non attenua affatto la diffidenza nei confronti dello spazio democratico-costituzionale dato. Si può mostrare con facilità che, con questi rapporti, operare per il miglioramento della democrazia esistente differisce a tempo indefinito la meta della realizzazione di una società libera. La protesta radicale tende così, in alcuni settori dell'opposizione, a farsi contraddittoria, anarchica, non politica. Un altro motivo per cui la ribellione assume spesso le forme singolari e folli che danno ai nervi all'establishment. Di fronte alla totalità spaventosamente seria delle pratiche politiche istituzionalizzate, la satira, l'ironia e la provocazione irridente divengono la dimensione indispensabile di un nuovo atteggiamento politico. Il disprezzo del mortale esprit de serieux, di cui sono pervase le chiacchiere e le azioni dei politici di professione o parzialmente tali, si presenta come il disprezzo nei confronti dei valori che questi professano, mentre si apprestano a distruggerli. I ribelli richiamano in vita il riso disperato e il ghigno del folle - quale mezzo per Io smascheramento dei delitti di quegli uomini seri che governano l'intero. Uestraniazione dell'opposizione radicale dal processo democratico esistente e dalle sue istituzioni rimanda a un radicale riesame della democrazia (della democrazia "borghese", del governo rappresentativo) e del suo ruolo nel passaggio dal capitalismo al socialismo o, più in generale, da una società non libera ad una libera. Nel complesso, la teoria marxiana valuta positivamente il ruolo della democrazia borghese in questo passaggio, sino alla fase della stessa rivoluzione. Grazie al suo impegno (nella pratica certo limitato) per i diritti civili e le libertà dei cittadini, la democrazia borghese offre il terreno migliore per lo sviluppo e l'organizzazione di posizioni divergenti. Ciò rimane valido; guadagnano potere, però, le forze che all'interno dello spazio democratico ne pregiudicano i caratteri "garantisti". La democrazia di massa sviluppata dal capitalismo monopolistico ha modellato diritti e libertà che esso preserva a propria immagine e secondo il proprio interesse: la maggioranza della popolazione è la maggioranza dei dominanti; le anomalie sono oggetto di "contenimento", e, concentrato com'è, il potere può permettersi di tollerare 223
(forse persino di difendere) l'opinione altra, radicale, finché questa obbedisce alle regole e alle consuetudini stabilite (e un tanto persino oltre questa soglia). L'opposizione è così risucchiata proprio all'interno di quel mondo cui si oppone - e proprio dai meccanismi che le consentono di svilupparsi e organizzarsi; g\i sforzi volti al conseguimento di una base di massa, da parte di un'opposizione che ne è priva, rimangono delusi; in queste circostanze, operare secondo le regole e i metodi della legalità democratica rappresenta una capitolazione di fronte alla struttura di potere dominante. E tuttavia sarebbe disastroso rinunciare aUa difesa dei diritti e delle libertà borghesi nel quadro costituito. Poiché però il capitalismo monopolistico è costretto a estendere e consolidare il suo ambito di dominio in patria e all'esterno, la lotta democratica entrerà sempre piii in conflitto con le istituzioni democratiche date: con le barriere incorporate in esse, e con la loro dinamica conservatrice. Il processo semidemocratico si oppone necessariamente al mutamento radicale, poiché la maggioranza dei cittadini che esso crea e conserva è modellata, nelle sue opinioni, dagli interessi legati allo status quo. Finché permangono queste condizioni, è del tutto sensato affermare che la volontà generale è sempre falsa, nella misura in cui si oppone oggettivamente alla possibile trasformazione della società in forme di vita più umane. Certamente si può sempre ricorrere al metodo della persuasione della minoranza, sebbene esso risulti decisamente indebolito dal fatto che la minoranza di sinistra non dispone delle grandi risorse economiche indispensabili per un accesso paritario a mass media che parlano giorno e notte a favore degli interessi dominanti - con l'utile intermezzo a favore dell'opposizione, a alimentare la convinzione illusoria che governi l'uguaglianza e il fair play. E tuttavia se non vi fosse lo sforzo costante della persuasione, volto a assottigliare gradualmente la maggioranza ostile, le prospettive dell'opposizione sarebbero ancora più sconfortanti di quanto già non siano. Attualmente le questioni sullo "scopo dei governi" sono venute nieno. Il fatto che la società continui a funzionare sembra giustificarne a sufficienza la legalità e la pretesa di obbedienza; il "funzionare" è definito in termini negativi: come assenza di una guerra civile, di tumulti di massa o di un crollo dell'economia. Altrimenti è tutto in ordine: la dittatura militare, la plutocrazia, e governare con manette e manganelli. Genocidi, crimini di guerra e contro l'umanità non sono 224
argomenti efficaci contro un governo che protegge la proprietà, l'industria e gli affari all'interno, mentre all'esterno persegue la sua politica di distruzione. E in effetti non si può far valere una legge che neghi legittimità e legalità a un tale governo costituzionale. Ciò significa però che non si può far valere altra legge che quella che serve allo status quo, e coloro che rifiutano di servirlo si trovano eo ipso al di fuori della legge - prima ancora di entrare in conflitto con essa. In ciò consiste l'assurdità della situazione. La democrazia costituita offre l'unico spazio di diritto per il mutamento, e bisogna difenderla perciò contro tutti i tentativi, di destra e di centro, volti a restringere tale spazio; al tempo stesso, la protezione della democrazia costituita preserva lo status quo e con ciò il contenimento del cambiamento. Ecco un altro aspetto della medesima situazione a doppio taglio: il mutamento radicale richiede una base di massa, ma ogni passo nella lotta per il mutamento radicale isola l'opposizione dalle masse e provoca una piìi forte repressione - la mobilitazione della violenza istituzionalizzata contro l'opposizione, con un'ulteriore riduzione delle prospettive di riuscita del mutamento radicale. All'indomani della vittoria elettorale della reazione sulla sinistra, seguita alla ribellione degli studenti in Francia, VHumanité ha scritto (secondo una notizia riportata dal Los Angeles Times del 23 giugno 1968): "Ogni barricata, ogni auto incendiata ha portato ai gollisti diecimila voti". Questo è perfettamente vero, così come la conseguenza che senza barricate e auto incendiate i poteri dominanti si sentirebbero più sicuri e forti, e un'opposizione assorbita e confinata nel gioco parlamentare indebolirebbe e pacificherebbe ancora di più le masse, dalle quali dipende il mutamento. Quale conclusione trarne? L'opposizione si trova inevitabilmente di fronte aUa sconfitta della sua azione diretta, extraparlamentare, della sua radicale disobbedienza; al tempo stesso vi sono situazioni nelle quali essa deve correre il rischio di una tale sconfitta - se può in tal modo consolidare la propria forza e mettere a nudo il carattere distruttivo dell'obbedienza civile a un regime reazionario. Infatti, la funzione oggettiva, storica, del sistema democratico del capitalismo delle corporations consiste precisamente nell'utilizzare la legge e l'ordine del liberalismo borghese come forza controrivoluzionaria, così da imporre all'opposizione radicale la necessità delle azioni dirette e della disobbedienza radicale, e affrontarla con la sua potenza enormemente superiore. In queste circostanze, l'azio225
ne diretta e la disobbedienza radicale in direzione della ribellione divengono parte essenziale del passaggio dalla democrazia indiretta propria del capitalismo delle grandi società per azioni, alla democrazia diretta, nella quale elezioni e rappresentanza, quali istituzioni del dominio, non servono piìi. Contro queste, l'azione diretta diviene un mezzo di democratizzazione, di trasformazione, anche all'interno del sistema costituito. Tutto il suo potere non è stato in grado di mettere a tacere l'opposizione degli studenti (il più debole e diffuso di tutti i movimenti storici di opposizione). Vi sono buone ragioni per ritenere che il governo sia stato costretto a mutare posizione rispetto alla guerra del Vietnam non dall'opinione del parlamento o da quella indagata con le inchieste "Gallup""^, ma dagli studenti e dalla resistenza. Ed è stata la disobbedienza radicale degli studenti di Parigi a incrinare d'un colpo la rimozione della memoria del movimento operaio organizzato e a risvegliare per un brevissimo istante il ricordo della forza storica dello sciopero generale, dell'occupazione delle fabbriche e dell'Internazionale. L'alternativa non è tra l'evoluzione democratica e l'azione radicale, ma tra la razionalizzazione dello status quo e la sua trasformazione. Finché un sistema sociale riproduce con l'indottrinamento e l'integrazione una maggioranza conservatrice che perpetua se stessa, questa riproduce a sua volta il sistema, aperto a modificazioni interne al suo quadro istituzionale, non però al di là di questo. Di conseguenza, la lotta per mutamenti trascendenti il sistema diviene, in forza della propria dinamica, non democratica - nei termini dello stesso sistema - , e sin da principio è insito in tale dinamica un contropotere. Perciò il radicale risulta colpevole: o perché passa dalla parte dello status quo e del suo potere, o perché ne ferisce la legge e l'ordine. E la vecchia storia: il diritto si oppone al diritto - il diritto positivo, codificato, effettivo, della società esistente contro il diritto negativo, non scritto, non effettivo della trascendenza; questa è parte essenziale dell'esistenza dell'uomo nella storia: è il diritto a vivere di un'umanità meno compromessa, meno colpevole e meno sfruttata. Fintanto che il funzionamento della società costituita si regge sullo sfruttamento e sulla colpa, i due diritti devono entrare in un acuto conflitto. L'opposizione non può mutare questo stato di cose con i mezzi che lo proteggono e lo conservano. Al di là di questi, vi è solo l'ideale e il reato; e coloro che per il loro agire penalmente perseguibile rivendicano un diritto, devono risponderne davanti al tribunale 226
della società esistente. Né infatti la coscienza, né l'impegno per un ideale possono rendere legale l'abbattimento dell'ordine costituito; questo stabilisce ciò che è ordine, e quando sia legale violare la pace - la pace dell'ordine costituito. Solo ad esso spetta il diritto, garantito per legge, di abolire la pace e di organizzare uccisioni e pestaggi. Nel vocabolario stabilito, "violenza" è un concetto che non può essere applicato alle pratiche della polizia e dei suoi dei capi, della guardia nazionale, dei marines e dei piloti dei bombardieri. Le parole "cattive" sono riservate a priori al nemico; il loro senso è definito e confermato dalle azioni del nemico, a prescindere dalle sue motivazioni e obiettivi. Per quanto "buono" possa essere, lo scopo non autorizza mai mezzi illegali. La frase "il fine giustifica i mezzi" è inaccettabile in quanto giudizio generale; questo vale naturalmente anche per l'assunzione, come principio generale, della sua negazione. Nel caso della prassi politica radicale, lo scopo appartiene a un mondo che è diverso dall'universo costituito del discorso e del comportamento, e ne costituisce l'opposto. I mezzi sono però di questo universo, e ne vengono giudicati secondo i suoi concetti - gli stessi che lo scopo si lascia alle spalle. Ipotizziamo, ad esempio, che un'azione paia in grado di impedire dei crimini contro l'umanità, perpetrati dichiaratamente nell'interesse nazionale, e che i mezzi per raggiungere tale obiettivo siano atti di disobbedienza radicale organizzata. Conformemente alla legge costituita e all'ordine dominante, risultano condannati e puniti come dei delitti non i crimini, ma il tentativo di impedirli; l'azione è giudicata così in base ai criteri che essa mette sotto accusa. La società esistente definisce l'agire trascendente secondo i propri concetti - una procedura di auto-convalida che per questa società è del tutto legittima e necessaria. Una delle prerogative più efficaci del sovrano consiste nello stabilire le definizioni valide delle parole. La linguistica politica costituisce l'artiglieria dell'establishment. Quando sviluppa il proprio linguaggio, l'opposizione radicale protesta spontaneamente e inconsciamente contro una delle piìi efficaci "armi segrete" di dominio e denigrazione. Il linguaggio dominante della legge e dell'ordine, quella dichiarata valida dai tribunali e dalla polizia, non è solo la voce della repressione, ne è anche l'azione. Tale linguaggio non si limita a definire e condannare il nemico; lo crea anche. E questa creazione non rappresenta il nemico come è in realtà, ma come esso deve essere, affinché possa assolvere la sua funzione per l'establishment. Ora il fine giustifica i mezzi: le azioni ces227
sano di costituire dei crimini, se servono a conservare ed estendere il "mondo libero". Viceversa, l'azione del nemico è malvagia; le sue affermazioni sono propaganda. Questa diffamazione linguistica a priori colpisce dapprima il nemico esterno: la difesa della sua terra, della sua capanna, della sua nuda vita costituisce un crimine, meritevole della massima punizione. Ben prima che corpi speciali e non vengano fisicamente addestrati a uccidere, incendiare e interrogare, l'intelletto e i corpi sono già sufficientemente insensibili, per percepire nell'immagine, nella voce, nell'odore dell'altro non un essere umano, ma un capo di bestiame - un capo di bestiame, tuttavia, sottomesso alla pena più totale. Il cliché linguistico si ripete costantemente: in Vietnam sono perpetrate "violenze tipicamente comuniste" contro "operazioni strategiche" americane; i Rossi sono liberi di "compiere agguati" (probabilmente dovrebbero prima annunciarsi e presentarsi allo scoperto); essi sono "scampati a una trappola mortale" (probabilmente vi sarebbero dovuti rimanere). Il Vietcong attacca le caserme americane "di notte, col buio pesto", e "uccide dei giovani americani" (forse gli americani attaccano solo con la più chiara luce del giorno, senza disturbare il sonno del nemico, né uccidere giovani vietnamiti). Il massacro di centinaia di migliaia lo si chiama "impressionante" - un analogo "tasso di omicidi"^ dall'altro lato difficilmente avrebbe l'onore di una simile aggettivazione. Solo l'azione può trascendere questo universo linguistico, che incorpora il nemico (in quanto "essere subumano") nella routine del linguaggio quotidiano. La violenza è infatti insita nella struttura essenziale di questa società: è l'aggressività accumulata che anima la vita ordinaria in tutti i settori del capitalismo delle corporations-, l'aggressione legale sulle autostrade, ed è l'aggressione nazionale all'esterno, che pare divenire tanto più brutale, quanto più si sceglie come vittime i dannati di questa terra - coloro che non sono stati ancora "civilizzati" dal capitale del "mondo libero". Per mobilitare questa aggressività vengono attivate forze psichiche arcinote, al servizio dei bisogni economico-politici del sistema: i nemici sono coloro che sono sporchi e tormentati dalle epidemie; più prossimi agli animali che agli uomini; sono contagiosi (la teoria dell'effetto domino!) e minacciano il "sano mondo libero", pulito, anestetizzato. Li si deve liquidare, stanare e estinguere come un veleno; allo stesso modo devono essere incendiate le sue giungle infette, e ripulite per la libertà e la democrazia. Il nemico ha già la sua "quinta colonna" nel mon228
do pulito: i comunisti, gli hippies, e affini, dai capelli lunghi, le barbe e i pantaloni sporchi - quelli tra i quali domina la promiscuità e che si prendono libertà proibite alle persone pulite e perbene - e queste ultime rimangono tali anche quando uccidono, sganciano bombe o appiccano incendi. Forse è dal medioevo che la repressione accumulata non si scaricava in un'aggressione organizzata su una simile scala mondiale contro quanti sono al di fuori del sistema repressivo, contro i "diversi", all'interno e all'esterno di questo. Alla luce dell'ampiezza e dell'intensità dell'aggressione sanzionata, la distinzione tradizionale tra violenza legittima e illegittima diviene problematica. Quando la violenza legale comprende, neUa pratica quotidiana della "pacificazione" e della "liberazione", incendi, avvelenamenti e bombardamenti illimitati, allora non si possono chiamare con lo stesso nome, quello di "violenza", le azioni dell'opposizione radicale, per quanto possano essere contro la legge. È sensato paragonare, rispetto alla portata e alla criminosità, le azioni illegali compiute dai ribelli nei ghetti, nel campus, nelle strade delle città, da un parte, e, dall'altra, i delitti commessi dalle "forze di combattimento dell'ordine" in Vietnam, in Bolivia, in Indonesia e in Guatemala? Ha senso parlare di reato quando i dimostranti disturbano le attività dell'università, dell'arruolamento, del supermercato, o il flusso del traffico, per protestare contro il ben più incisivo turbamento della vita ordinaria di innumerevoli uomini ad opera dei corpi militari della legge e dell'ordine? Anche qui la brutalità della realtà esige una ridefinizione dei concetti: il vocabolario costituito discrimina sin da principio l'opposizione - e protegge l'establishment.
NOTE 1 "Unterbau" [N.d.T.]. ^ F. W. Nietzsche, La gaia scienza (1882), in Opere, Adelphi, Milano 1977, p. 152 [N.d.C.]. ' "Unterbau" [N.d.T.]. "Entmaterialisierung der Arbeit" [N.d.T.]. ' In francese nel testo; Confederazione Generale del Lavoro [N.d.T.]. ^ Riferimento alle indagini demoscopiche inventate dallo statistico americano George H. Gallup (1901-1984) [N.d.C.]. ' "KiUing rate" [N.d.T].
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Tesi su "Progresso senza futuro?"'
1. Criteri (per la civiltà occidentale!): a) il livello del dominio sulla natura; b) lo stato della libertà umana. Le due tendenze si rapportano l'una all'altra in termini sia positivi sia negativi: il dominio sulla natura è al tempo stesso dominio sull'uomo esercitato mediante l'apparato tecnico-scientifico di controllo, direzione, annientamento, ovvero l'apparato della non libertà; il medesimo dominio sulla natura significa però anche la produzione e la disponibilità di mezzi per la pacificazione della lotta per l'esistenza: per la libertà. 2. La società industriale ha sin da principio tenuto fermo il primato del dominio sulla natura a spese della libertà. Ciò è accaduto nel quadro di un'emancipazione politica (la democrazia borghese) che ha compensato l'assoggettamento degli uomini ai mezzi del loro lavoro lasciando (per lo più apparentemente) che i dominati scelgano i dominanti, e innalzando il livello di vita. Questo sistema di domino si perpetua in quanto garantisce alla maggioranza della popolazione la soddisfazione di bisogni materiali e culturali, che esso, al tempo stesso, orienta. 3. La parvenza dell'autodeterminazione nella democrazia formale porta a una interiorizzazione dei bisogni che riproducono il sistema: ciò che è imposto diviene il proprio dell'individuo. 4. Il progresso nello sviluppo delle forze produttive è imposto al capitalismo dalla sua stessa dinamica: è l'aumento necessario della produttività del lavoro, di fronte alla crescente pressione del saggio del profitto e dell'accumulazione allargata di capitale. Ne consegue lo sviluppo delle forze produttive sotto il principio della distru-
* Manoscritto in lingua tedesca contenente alcune tesi sul tema "Progresso senza futuro ?", con ogni probabilità appunti preparatori per una conferenza tenuta a Francoforte nel maggio 1979. Una versione ridotta è stata pubblicata in «Tageszeitung» del 31 luglio 1979.
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zione produttiva (energia atomica, inquinamento ambientale, deumanizzazione del lavoro... ) - tale anche nella cultura "popolare": aggressione nello sport, traffico automobilistico, musica, pornografia, ecc. 3. Nell'ambito della società esistente, il processo della distruzione produttiva è irreversibile-, il suo superamento è strutturalmente in contraddizione col principio di organizzazione del capitalismo: quello del profitto e del lavoro salariato. 6. La possibile negazione del progresso distruttivo non si annuncia {ancorai) nella sfera dell'economia poHtica (con la "crisi finale", la radicalizzazione della masse, l'esaurimento delle fonti energetiche..,), quanto nella sfera ''culturale'" ("rivoluzione culturale"?): nella radicale trasvalutazione dei valori, suUa legittimazione e sul riconoscimento dei quali, in quanto "norme" della condotta degli uomini (nel lavoro e nel tempo libero), riposa il funzionamento del capitalismo. 7. Esempi di tali valori e costrizioni, non piii dati per ovvi, legittimi, necessari, sono l'etica puritana del lavoro, l'esistenza come mezzo di produzione, la morale sessuale borghese, l'efficienza e la concorrenza... 8. La trasvalutazione appare come una forza reale non solo tra i "catalizzatori" estemi alle organizzazioni di classe (movimento degli studenti e delle donne, iniziative civiche), ma anche all'interno della classe operaia (sabotaggio, assenteismo, riduzione del tempo di lavoro). 9. La negazione del progresso capitalistico è una ''negazione determinata", che riceve la sua forza effettiva dalla possibilità dell'emancipazione umana, assai reale e sempre piti profondamente radicata nella coscienza - "data" in modo dimostrabile nel superamento della penuria (che solo gli interessi economico-politici perpetuano ormai), nel livello del sapere e del potere.... 10. Alla luce del carattere concreto dell'utopia, la trasvalutazione dei valori , la "rivoluzione culturale", non può essere liquidata come ideologia, mera sovrastruttura. È il portato, piuttosto, di una coscienza vera, che è al tempo stesso una coscienza anticipatrice. Essa, inoltre, trova espressione in comportamenti (sociali e individuali). 11. Il progresso tecnico costituisce una necessità oggettiva non solo per il capitalismo, ma anche per l'emancipazione. Quest'ultima dipende da un ulteriore sviluppo dell'automazione, sino al punto in cui r"economia del tempo" (Bahro) capitalistica può essere rovesciata: il lavoro libero, creativo come contenuto della vita. 232
12. Sarebbe forse però avventato sostenere che solo \abuso della scienza e della tecnica sia responsabile della persistenza della repressione: la trasvalutazione radicale delle norme e dei valori, l'emancipazione della soggettività, della coscienza, potrebbero incidere già sulla concezione della tecnica, sulla stessa costruzione dell'apparato, sulle priorità sociali e sulla portata della ricerca. 13. Forse la tecnica rappresenta la ferita che può essere guarita solo dall'arma che l'ha prodotta: non la distruzione della tecnica, ma la sua riconversione, al servizio della vita - della natura così come della società. 14. Assurdo sarebbe anche pensare di portare a compimento la dissoluzione della "società dei consumi" repressiva imponendo una limitazione dei consumi. Significherebbe inaugurare la liberazione con un'intensificazione della repressione. 15. Sottovalutazione del ''fattore soggettivo"-, l'emancipazione dalla società dei consumi deve divenire il bisogno vitale degli individui. E ciò presuppone, di nuovo, una radicale trasformazione della coscienza e dell'inconscio, della struttura pulsionale degli individui. Come potrà avere luogo? 16. Il presupposto è l'intrinseco indebolimento della società dei consumi in forza dell'acutizzarsi delle contraddizioni del capitalismo (e del socialismo di Stato!) - la crisi. 17. La sua incidenza suUa vita e il lavoro degli individui non muta ancora il sistema dei bisogni dato: gli individui continuerebbero a desiderare ima seconda automobile, piii gadgets, piìi lusso, quand'anche non potessero permetterseli: il bisogno insoddisfatto rimane bisogno! 18. Ciò che deve mutare è la struttura al di sotto della base economico-politica: il rapporto tra Eros e Thanatos, tra pulsione di vita e pulsione di morte, all'interno della struttura psicosomatica degli individui, che alimenta l'approvazione della distruzione, l'abitudine a una vita estraniata, il consenso (non sempre tacito) alla repressione. 19.1 "figli di Prometeo" non sono "sgomenti": coloro che decidono del progresso, i signori dell'economia e della politica, vanno avanti. La prospettiva di lungo termine non li interessa eccessivamente; gli altri, coloro che non vogliono piii sopportare questo progresso, danno vita, in modo quasi spontaneo, a forme nuove di opposizione, per lo più al di fuori dei partiti politici e delle organizzazioni di classe. 20. È un'opposizione che proviene da tutte le classi della società e da tutti i settori sociali, motivata da una profonda incapacità, fisica e 233
spirituale, di stare al gioco, dalla volontà^ di salvare ciò che resta dell'umanità, della gioia, dell'autodeterminazione. È la rivolta delle pulsioni di vita contro l'organizzazione sociale della pulsione di morte. 21. L'opposizione radicale contro il progresso distruttivo-costruttivo è rimandata al fattore soggettivo^: agli individui che costituiscono gli agenti del sovvertimento, accanto alle organizzazioni di massa, e anche contro di esse. Il radicamento nella dimensione profonda dell'esistenza individuale rende la rivolta allergica all'organizzazione complessiva. Ciò ne riduce la forza, la isola dalle masse, e le conferisce una parvenza elitaria, e la caratterizzazione àeWimpolitico, della fuga dalla prassi politica e dalla sua teoria. 22. E un giudizio errato! Il valore politico della soggettivazione: rinascita dei valori dell'autodeterminazione individuale (rimossi dalle organizzazioni di massa e dalla loro ideologia); concretizzazione della differenza qualitativa, a lungo relegata nell'astratto. Non ne va della classe o della massa, ma di ogni singolo. 23. Se la società non può più riprodursi senza il pericolo quotidiano dell'avvelenamento atomico, se anche le tradizionali organizzazioni politiche e sindacali di massa devono contribuire alla riproduzione di questo progresso della devastazione, e se i contrasti sociali si sono raccolti in un'unità repressiva, in un falso intero, ^interno del quale il progresso esercita la sua forza propulsiva, senza andare al di là di esso, allora è possibile che i valori del progresso