Resistenze. Pratiche e Margini del conflitto nel quotidiano
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ombre corte / cartografie

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Resistenze

Quali sono oggi le forme individuali e collettive con le quali si esprimono le resistenze, passive o attive, nelle relazioni di potere che attraversano lo spazio pubblico e privato delle nostre esistenze quotidiane? Utilizzando un vasto panorama di dati e studi etnografici, urbanistici e sociologici, in questo suo lavoro Saitta introduce il lettore al controverso problema delle “resistenze”, nel quale confluiscono temi come l’estetizzazione della subalternità, le emozioni legate alla rivolta o al silenzio, l’ideologia di chi osserva, il rapporto delle scienze sociali con il potere e il problema della scrittura e della creazione di mondi fatti a immagine e desiderio degli studiosi e della loro platea. Vengono così indagate le pratiche e le rivendicazioni organizzate o meno, individuali o collettive, occulte o visibili, semi-legali o criminali, di natura economica o postmaterialiste che si affacciano nello spazio delle relazioni economiche e in quello della città, producendo conflitto, evitandolo o negoziando margini silenziosi di autonomia.

Pietro Saitta

Resistenze

Pietro Saitta

Resistenze Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano

Cartografie / 71

PIETRO SAITTA è ricercatore in Sociologia Generale presso l’Università di Messina. È autore di numerosi studi nei campi dell’immigrazione, della sociologia urbana, della criminologia critica e dell’ambiente. Ha insegnato in varie università straniere e collaborato nella veste di consulente con importanti istituzioni di ricerca internazionali. Tra i suoi volumi più recenti: Spazi e società a rischio. Ecologia, petrolio e mutamento a Gela (Think Thanks, 2009), Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita (Donzelli, 2013) e con Joanna Shapland e Antoinette Verhage ha curato Getting By or Getting Rich (Eleven International Publishing, 2013).

Pietro Saitta

Resistenze Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano

ombre corte

Prima edizione: settembre 2015 © ombre corte Via Alessandro Poerio 9, 37124 Verona Tel./fax: 0458301735; mail: [email protected] www.ombrecorte.it Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte ISBN: 9788869480133

Indice

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CAPITOLO PRIMO – Resistenze: le invisibili politiche del quotidiano 1. Definire le resistenze; 2. Riconoscere le resistenze; 3. L’esperienza della resistenza; 4. Emozioni, azione, verstehen; 5. Riepilogo

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CAPITOLO SECONDO – Economie informali. Politiche dai mondi di mezzo 1. Mondi di mezzo; 2. Politiche dell’informale e della scrittura; 3. Autonomia e soggettività; 4. L’informalità nel neoliberismo; 5. Ordine pubblico; 6. Riepilogo

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CAPITOLO stenza

TERZO

– Spazio pubblico, terreni della resi-

1. Spazio, zeitgeist, lotta; 2. Uno spazio negato; 3. Pianificazione; 4. La difesa dello spazio pubblico; 5. Riepilogo

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CONCLUSIONI Ringraziamenti Bibliografia

A Turi S.

CAPITOLO PRIMO

Resistenze: le invisibili politiche del quotidiano

1. Definire le resistenze Le pagine che seguono saranno volte a esplorare il controverso concetto di “resistenza”, posto al confine tra scienza sociale e ideologia. Al centro della riflessione che intendiamo proporre al lettore si troveranno non tanto le azioni organizzate dei partigiani o dei movimenti di liberazione, quanto invece le forme individuali, quotidiane, estemporanee o sistematiche di opposizione, aggiramento ed evasione dai poteri: il potere visibile e manifesto dello Stato nel quotidiano della cittadinanza e quello disperso e apparentemente minimo della famiglia, dei luoghi di lavoro, del capitalismo e degli altri mondi della vita in cui le asimmetrie e le differenti risorse a disposizione degli individui producono “attrito”. A tal riguardo, come vedremo meglio innanzi, l’espressione “resistere”, comunemente adoperata nella più diffusa letteratura sociologica e antropologica internazionale, è in sé problematica in quanto implica etimologicamente l’idea di “restare fermo, saldo”1 e ha dunque 1

Questo, per lo meno, secondo il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani. La stessa origine si rinviene chiaramente nelle variazione, comune al francese e all’inglese, di resistance. Analogo significato si rinviene nella parola tedesca widerstehen. Ringrazio Silvia Pitzalis per

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una connotazione tendente a rimarcare la staticità dei processi sociali a cui viene applicata. In realtà, i processi resistenziali su cui ci concentreremo sono più spesso volti “ad andare avanti”, anziché a “restare fermi”. Un movimento di liberazione non ha normalmente come fine quello di restare imbrigliato nel regime oppressivo che ne ha determinato lo sviluppo, così come un migrante economico non ha comunemente intenzione di restare avviluppato nelle medesime condizioni di deprivazione che lo hanno indotto a partire. In questo senso, così come abbiamo suggerito poco sopra, in molte circostanze faremmo meglio a parlare, anziché di resistenza, di “evasione” o “fuga” da un ordine. Negli impieghi più disinvolti del termine, dunque, parlare genericamente di resistenza significa ridurre la portata delle dinamiche in atto, restringendo il significato della parola a quello dell’attrito derivante dallo scontro di volontà impari: l’una, spesso più forte, tesa alla conservazione dei rapporti sociali esistenti e l’altra, sovente più debole, interessata a ridurre l’impatto di queste relazioni. Per quanto parziale, questo modo spesso implicito di guardare alla questione riducendone la portata si basa sull’osservazione che di frequente gli scontri rinvenibili nel campo studiato non hanno come posta alcun reale ribaltamento delle asimmetrie (Ortner 1995, 175), ma la semplice conservazione delle posizioni esistenti. Per esempio, la gran parte dei parcheggiatori abusivi o altri simili lavoratori irregolari non si opporrà all’azione dei vigili o delle giunte cittadine interessate al “ripristino della legalità” perché intende rovesciare il sistema di sperequazioni che la costringe a sopravvivere malamente, ma solo per garantirsi il reddito minimo utile alla propria riproduzione. avermi spinto a ragionare sull’etimologia e sulle incongruenze dell’impiego del termine “resistenza” nella letteratura di stampo sociologico.

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Naturalmente, come sempre accade nelle disamine teoriche, questi sono solo tipi ideali e semplificazioni, che non escludono la possibilità che ciascun corso di azione converga nell’altro e che il “fuggiasco” interessato a evadere la struttura sociale che lo colloca nelle posizioni subalterne finisca con il dovere rinunciare alle proprie ambizioni, per sempre o per qualche tempo, trasformandosi così in un “resistente” impegnato a garantirsi un reddito minimo di sussistenza. O anche che i resistenti e i fuggiaschi “individualisti” prendano a organizzarsi (si pensi al movimento dei sans papiers in Francia o a quello dei “disoccupati organizzati” a Napoli),2 dando vita a movimenti sociali che praticano l’invasione silente o aperta dello spazio pubblico, rivendicando i propri diritti e sfidando l’establishment responsabile della loro marginalità. Ma a complicare il quadro interviene anche la variabile “ideologica”, dipendente dalla posizione degli attori contrapposti nel campo (oltre che da quella dell’osservatore, come vedremo a suo tempo). Nelle dinamiche reali, infatti, subalterni e dominanti hanno spesso l’impressione di stare resistendo gli uni agli altri. Per esempio le città “invase” da accattoni, venditori ambulanti irregolari e parcheggiatori abusivi mostrano spesso la tendenza a descriversi come impegnate “a resistere all’illegalità e al degrado” (Rabinowitz 2014, 482). Nel fare questo esse oppongono delle idee formali e sostanziali di ordine e legalità – sancite spesso dai codici e legittimate altresì da quello che potremmo chiamare il “senso comune penale”,3 oltre che dalle più diffuse aspettative relative al 2 3

Su sans papiers e disoccupati organizzati si vedano rispettivamente Simone (2002) e Basso (1981). Secondo Wacquant (2002) tale “senso comune” consiste di un insieme di politiche penali, intrecciate con quelle per il lavoro e il welfare, oltre che in una (in)sensibilità collettiva annidata tra le classi dominanti e medie, che mira a criminalizzare la miseria, producendo un vasto arcipelago carcerario e il più alto numero di detenzioni, messe alla prova e contatti con il sistema penale mai registrato nella storia.

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vivere associato – a pratiche che vengono percepite come illegittime. In questo quadro, il ripristino della legalità si associa tautologicamente alla legittimità dell’azione giuridica, oltre che all’impiego di dispositivi tecnologici, legali e polizieschi tesi a rimarcare sia la “ragione” di chi li detiene, sia il differenziale di potere a disposizione di ciascuna parte. Peraltro non appare molto differente la situazione degli scenari di occupazione, in cui lo Stato straniero che combatte una popolazione locale in nome della propria sicurezza interna, oppure per affermare un modello di civiltà improntato per esempio sui diritti delle minoranze, dispone spesso della legittimità derivante dagli ordinamenti internazionali o anche soltanto di quelli prodotti dai sistemi giuridici nazionali.4 È insomma abbastanza comune che la parte dominante di un conflitto senta di stare legittimamente resistendo a una minaccia, se non addirittura a delle strutture criminali molto ben organizzate, che promette oggettivamente di turbarne la sicurezza e la coesione. In questa cornice stabilire chi stia resistendo e a cosa appare un’impresa ardua, il cui discernimento ha meno di scientifico e molto di ideologico. Come osservato poco sopra, in molti dei casi rinvenibili nella realtà a dirimere i dilemmi può essere soltanto l’ideologia di chi osserva, oltre di chi è direttamente impegnato nel particolare tipo di dialettica che si dipana nel campo (anche se per confliggere non è necessaria un’ideologia in senso stretto; è sufficiente avere una chiara idea circa ciò che è in ballo). Gli scontri, manifesti o invisibili, sorti intorno a istanze consapevoli o a pratiche spontanee, che si svolgono nella città o nella campagna, nei luoghi di lavoro e nello spazio pubblico, sono prima di tutto delle guerre dei discorsi 4

Il tema è assai complesso e investe, com’è ovvio, problematiche relative alla letteratura giuridica internazionale e a quella storica. Ma per limitare il campo al problema delle resistenze nella prospettiva sociologica, si vedano i saggi raccolti in Stanley e McCulloch (2013).

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e delle evidenze, aventi per oggetto sia poste materiali che impalpabili. Accanto al denaro, al diritto alla città e a quello degli oppressi di vario tipo a liberarsi dai vincoli letterali o figurati che li costringono, vi è per esempio quello del datore di lavoro a non essere gabbato, degli abitanti di un centro storico a dormire o di un cittadino a non essere derubato. Come pure esiste il diritto di un lavoratore precario a ridurre i livelli di alienazione a cui è esposto o quello delle persone a impiegare la strada per fini differenti dal semplice transito o dal consumo. Certo, se è vero che esiste spesso la possibilità di una via terzista e “ragionevole”, volta a soppesare le ragioni e ricercare soluzioni condivise, è altrettanto vero che il campo – inteso come lo spazio dentro cui si svolge una lotta per il potere – ha più frequentemente un carattere “assoluto”. Lo scontro, cioè, appare sovente a somma zero e le politiche pubbliche e “private” non sembrano volte al compromesso: esse “patologizzano” le istanze in campo (Petrillo 2009; Theodossopoulos 2014). Ricorrendo ancora una volta a delle semplificazioni, le soluzioni adottate dalle amministrazioni sono infatti più spesso tese a sradicare la movida notturna e il “degrado”, così come quelle dei “padroncini” sono più facilmente volte a licenziare o fare fuori i dipendenti variamente problematici. La radicalizzazione dello scontro e il fatto che esso abbia luogo dentro crinali scoscesi come quelli del diritto – formale o sostanziale, sancito dalle leggi o anche soltanto dalle aspettative sociali più comuni – rende le distinzioni e il riconoscimento dei torti o delle ragioni meno semplice di quanto questi esempi sommari sembrino suggerire. E certamente molto più complessi di quanto le ricostruzioni mediatiche tipiche suggeriscono, allorché si cimentano con i temi del disordine, della città, dell’immigrazione e con i folk devil in generale (Cohen 1972). Per di più queste lotte hanno, come si è detto prima, un carattere assoluto proprio perché sono facilmente narrate nella prospet-

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tiva dominante. Sono cioè narrate senza sfumature e in “punta di diritto”. Sarebbe a dirsi dentro la retorica pubblica per eccellenza: quella della legalità e, conseguentemente, del suo alter e, perciò, dell’inaccettabile. In tali ricostruzioni – propedeutiche o complementari all’impiego della repressione e della violenza istituzionale – la ragione è spesso quella di chi è più forte, titolato in ragione dello status ascritto e, soprattutto, più conforme ai dettami del sentire comune e delle leggi: per l’appunto il padroncino gabbato dal lavoratore infedele; il lavoratore privato del suo diritto a riposare la notte a causa dei rumori causati da giovani sfaticati, e così via. E non apparirà superfluo, forse, indurre il lettore a riflettere sulla tradizionale importanza di consolidate formule giurisprudenziali quali: “comune senso del pudore”, “i più comuni canoni della vita associata”, “le più diffuse aspettative”, etc. Data per assodata la relazione tra la conformità dei reclamanti e la possibilità data loro tanto di presentare quanto di vedere accolte certe istanze presso le sedi istituzionali deputate all’ordine, e limitandoci inoltre al solo caso dei conflitti che hanno luogo nel foro pubblico, il nemico di turno – divenuto nel frattempo “nemico appropriato” (Christie 1986) utile ai fini del governo e del consenso – diventa l’oggetto di un autentico processo di criminalizzazione; mentre, coerentemente, lo spazio della città prende a essere soggetto a nuove limitazioni e a controlli, secondo modalità che non di rado travalicano la liceità degli ordinamenti. Al tal riguardo si pensi alle ordinanze sindacali esplose con il “Pacchetto sicurezza” del 2008 – rivolte contro prostitute, “bivaccatori” notturni, immigrati – e poi dichiarate anticostituzionali (ma un simile destino ha fatto seguito a misure analoghe adottate in altri paesi).5 In 5

Sull’esperienza statunitense con le ordinanze comunali, di cui quella europea e italiana sono per molti aspetti e tendenze debitrici, e sulle reazioni anche giuridiche che esse hanno sollevato nel tempo, si veda Amster (2004). Per il caso italiano, Chiodini (2009) e Simone (2010).

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questo quadro lo sguardo dell’osservatore – sia esso un semplice cittadino, un politico o uno scienziato sociale – non può che farsi tendenzialmente “partigiano”: o si sta con la legge, chi la produce e applica, talvolta ben oltre i confini della liceità, o con chi è bersaglio di essa, è criminalizzato e dislocato ai margini, pur avendo motivazioni valide per il proprio comportamento. In questa situazione, tutt’altro che infrequente nella strutturazione dello spazio pubblico e anche delle relazioni private, l’osservatore, specie se di tipo “professionale”, è chiamato a scegliere se svolgere le funzioni di “tecnico” o di “critico”: se partecipare cioè moralmente o professionalmente al ripristino dell’ordine, suggerendo soluzioni e fornendo conoscenze atte a ridurre l’impatto e la diffusione di quelle che vengono ricostruite come devianze dal discorso dominante in un’epoca, oppure se “decostruire” il discorso d’autorità e offrire rappresentazioni alternative, non allineate col discorso del potere ed emicamente capaci di tradurre le ragioni del “nemico”, riportandole al centro della scena e restituendo loro dignità e cittadinanza all’interno del dibattito pubblico. Del resto, come notato da Strathern (1995, 3) in un celebre testo, il compito delle scienze sociali dovrebbe consistere nel mettere in connessione interpretazioni e visioni del mondo distanti tra loro, attraverso una critica incessante delle categorie e dei confini che, insieme, separano e unificano i contesti entro cui tutti – attori e osservatori – si trovano a operare. Analogamente, fuori dalle formulazioni un po’ astratte della teoria, Palumbo (2009) in un’etnografia di una cittadina siciliana posta, esattamente come suggerito da Strathern, al “confine tra contesti”, ci fornisce diversi esempi concreti di quel che occorra intendere con quelle riflessioni. Nell’analizzare un torneo clandestino di cavalli – quello che la giornalista di un noto quotidiano nazionale, sulla base di uno spunto comparativo fornito

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dagli stessi organizzatori, definisce ironicamente “il palio fantasma” in contrapposizione/analogia a quello di Siena – l’autore si chiede: Cosa tentavano di fare gli spettatori del “palio fantasma” quando proponevano un’analogia con il Palio “reale”? Quale strategia retorica e politica mettevano in atto? Ritenevano veramente che non vi fossero differenze rilevanti tra i due contesti? Non credo, e del resto la percezione del carattere illegale di quelle e altre pratiche clandestine è ben chiara – come vedremo – tra chi le mette in atto. Quella che avanzavano gli spettatori era una richiesta di collusione: ti offriamo una menzogna in fondo credibile. Tu, persona che vieni da fuori, cosa fai? Sei disposta ad accettarla, pensi di poterti (anche solo per un attimo) collocare non al di là del confine che ci separa, ma nella sospensione del limite? [...] Evidentemente la cronista non è interessata ad accettare un simile, provocatorio invito a giocare: quello di attraversare confini e rimanere nella terra in-between tra mondi diversi non è il suo mestiere [...] Ma l’etnografo, cosa deve fare l’etnografo? Deve, come sembra obbligata a fare la cronista, modulare il suo sguardo sulla stessa lunghezza d’onda di un immaginario isomorfo a una modernità progettuale e ideologica o piuttosto, come spinge a fare la pulsione critica insita da qualche tempo nel suo sapere, non dovrebbe ridisegnare il proprio stesso posizionamento “politico” e le proprie categorie analitiche alla luce delle pratiche sociali e delle strategie politiche che gli pare di intravedere alle spalle delle altrui posture narrative? Se questo è il suo progetto, può l’antropologo rinunciare con altrettanta facilità agli inviti alla collusione e alle proposte menzognere? Può veramente rifiutare di collocarsi quantomeno sul margine, se vuole sperare di passare al di qua della sfera dell’“intimità culturale”? (Palumbo 2009, 29).

Procedendo per analogia con quanto notato poco sopra, la nozione di “resistenza” proposta in questo testo è intesa come parte degli armamentari concettuali a disposizione di quegli osservatori che hanno deciso di giocare sino in fondo il ruolo di critici e che mirano a comprendere, oltre che eventualmente legittimare, le pratiche, i comportamenti e gli intenti delle parti più deboli di un

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conflitto: quelle poste ai margini del discorso ufficiale; oltre che stigmatizzate, criminalizzate o ridicolizzate da chi detiene il potere di definire e circoscrivere la realtà, a partire dalla detenzione del monopolio della parola e della produzione di diritto.6 “Resistenza”, in altri termini, è l’espressione ambivalente, vaga e bisognosa di continue specificazioni che, tuttavia, mira a definire quegli scontri che hanno per oggetto poste di differente natura, materiali e immateriali, legate a interessi evidenti a fare o a possedere qualcosa, così come ad affermare una piena e libera soggettività affrancata dagli status ascritti. Le resistenze appaiono così come dei (contro-)discorsi praticati, ancora prima che “parlati”, dagli osservatori e dagli attori in campo. Esse sono cioè un insieme variegato di pratiche e discorsi che occorre trattare con la consapevolezza di operare entro un terreno scivolosissimo, in cui pochi rivestono sempre e soltanto il ruolo di parte più debole e in cui l’oppresso è spesso a sua volta oppressore, dando così vita a un gioco di posizionamento e costanti risignificazioni che rendono le analisi e le rivendicazioni fragili ed esposte a critiche. 2. Riconoscere le resistenze Per lo meno nelle intenzioni, il discorso sulle resistenze – declinate al plurale perché infiniti sono gli esempi, gli attori e le motivazioni delle pratiche di opposizione ai poteri del quotidiano – così come lo si propone qui, 6

Può essere utile notare che questo è un libro che si pone nel “fronte anarchico” delle scienze sociali (sociologia, antropologia e geografia radicali). Sarebbe a dirsi, dentro la cornice di una produzione non-cooperativa dei saperi, ma estremamente politica, che mira a ribaltare tanto le categorie della regolazione e del “senso comune” che le più consuete modalità di presenza delle scienze sociali dentro lo spazio pubblico. Si vedano, per tutti, Graeber et al. (2009) e Amster et al. (2009).

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non risponde alle istanze di quella “volontà di sapere” che caratterizza l’operato delle scienze nell’età moderna e contemporanea. Descrivere le resistenze non ha infatti come fine quello di neutralizzarle – una funzione tipica per esempio della prima antropologia, così come in fondo di parte dell’ultima (tipicamente quella prestata ai potere militari o al marketing, specie negli Stati Uniti). Né ha l’obiettivo di partecipare anche soltanto indirettamente alla governance, riducendo gli attriti e i disagi e parlando in vece dei “senza voce” e dei “marginali”. Infatti se è vero che parlare delle resistenze significa anche restituire dignità alle azioni di coloro che subiscono la condizione di paria, riconoscendo loro una sorta di diritto alla devianza7 nella cornice delle disuguaglianze attuali, esso è innanzitutto un contributo alla revisione di molte delle categorie adoperate dalla dottrina giuridica, dalla politica, dalle scienze sociali più “integrate” e dal senso comune per riordinare il mondo. Se è vero, come recita il celebre dictum di Foucault (2003, 125-126), che “là dove c’è potere c’è resistenza” e che questa “non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”, parlare delle resistenze ha meno a che fare con l’alterità che con il suo contrario. Significa, cioè, rivolgerci a noi stessi, alle nostre “dottrine” e ai nostri modi di definizione dell’esistente. E farlo persino quando questi modi di definizione, intimamente gerarchici e discriminatori, celano in realtà fini emancipatori. Per chiare il senso di quest’ultima asserzione occorre notare che i primi discorsi scientifici sulle resistenze, da tenersi distinti rispetto a quelli di matrice aristocratico-borghese sulla riottosità delle classi popolari, volti 7

Intendo questo concetto, per alcuni potenzialmente problematico, alla maniera di Mezzadra (2006, 11), che, con la sua nozione di “diritto di fuga”, indica nell’ambito delle migrazioni le istanze contenute in “un insieme di comportamenti sociali, che tendono spesso a esprimersi nella forma di una rivendicazione ‘di diritti’ ma che eccedono strutturalmente il linguaggio e la grammatica del diritto”.

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a denotare perciò l’episodica indocilità di queste ultime, appaiono infatti dentro una cornice rivoluzionaria e “socialista”. Il problema che i primi teorici-militanti delle resistenze si trovavano a fronteggiare era quello della scarsa propensione al conflitto organizzato delle classi subalterne, specie in ambiente rurale (ma non solamente in questo, dacché ritroveremo la stessa preoccupazione in ambiente urbano e industriale). Le pagine pionieristiche e, probabilmente, ambivalenti di Hobsbawm (1966; 2000) sul soggetto resistenziale e quelle invece più univoche di Scott (1985; 1990) gettano luce sui meccanismi attraverso cui i subalterni “si lavorano il sistema”8 segretamente. Come osserva Scott (1985, xv): La maggior parte delle classi subordinate sono dopo tutto molto meno interessate a trasformare le più estese strutture dello Stato e del diritto che a fare ciò che Hobsbawm ha appropriatamente chiamato “lavorarsi il sistema […] a proprio minimo svantaggio”. L’attività politica organizzata, anche se clandestina e rivoluzionaria, è tipicamente la riserva delle classi medie e dell’intellighentsia; ricercare le politiche contadine in quell’ambito è cercare invano. Incidentalmente, è anche il primo passo verso la conclusione che il mondo contadino è una nullità politica a meno che non sia organizzata e guidata da soggetti esterni.

“Perché non si ribellano?” è l’interrogativo che in epoche diverse ha afflitto generazioni di studiosi e militanti di diverse latitudini, a “occidente” così come a “oriente”. In questo interrogativo, diversamente formulato a seconda dei contesti e dei problemi, ma comun8

Appare significativo che anche Goffman (1968) impieghi la stessa espressione di Hobsbawm (working the system) per riferirsi alle interazioni strategiche che gli individui, incluse figure subalterne come gli internati psichiatrici, mettono in atto per ridurre le asimmetrie esperite sul “palcoscenico” dell’azione sociale. Per inciso, la cornice drammaturgica dell’interazionismo simbolico appare profondamente intrecciata con i temi della resistenza, anche se gli antropologi e gli storici preferiscono certamente impiegare altre categorie per descrivere azioni e intrecci resistenziali registrati nel campo.

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que fondamentalmente uguale a sé stesso, sono implicite delle assunzioni essenzialmente “classiste” e “coloniali”, oltre che antistoriche, radicate nella cultura collettiva (inclusa quella dei radicali) e fondate sull’idea che esistano individui e classi disposte più di altre ad accettare la propria condizione di subalternità e, perciò, fondamentalmente refrattarie alla libertà. Infatti nel notare che in tanti non si oppongono apertamente e congiuntamente al potere, si asserisce altresì che questi non comprendono la propria condizione e interesse, e che sono offuscati da una “falsa coscienza”: ossia da un annebbiamento dello spirito che è compito degli intellettuali e dei militanti, posti su un piano superiore di consapevolezza, diradare. Nel valutare con sdegno l’estemporaneità delle ribellioni (considerate jacquerie o poco altro), negando che le lotte potessero essere condotte con mezzi non convenzionali diversi da quelli individuati e accettando il discorso sulla predatorietà di certe classi (tipicamente quelle sottoproletarie; ma anche tra i contadini di differenti provenienze furti e truffe erano comuni), questo discorso scientificorivoluzionario maturato nell’Ottocento e sopravvissuto molto a lungo, non solo appariva plasmato dai modelli classificatori dominanti (di matrice positivista e coloniale; si pensi a tal riguardo al successo delle teorie di Lombroso, che fu peraltro socialista), ma negava anche che potessero esistere vie alla trasformazione radicale dell’esistente che includessero classi sociali più ampie di quelle individuate dai teorici della rivoluzione proletaria. Applicando in maniera rigorosa e ortodossa le categorie marxiste e dubitando fortemente dell’opportunità di includere le componenti rurali e sottoproletarie della popolazione all’interno del proprio discorso e delle proprie prassi, per lungo tempo i teorici militanti hanno fallito sia nel proposito di estendere il consenso sia in quello di comprendere che i subalterni posti al centro del loro disprezzo erano tutt’altro che passivi.

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Furti ai danni dei padroni, pratiche non cooperative, sabotaggi, menzogne, discorsi segreti e, in generale, l’impiego di quello che potremmo chiamare il “repertorio del danno”, da praticarsi preferibilmente in modo occulto e, eccezionalmente, in modo manifesto (attraverso la rivolta o la jacquerie), erano allora come in parte oggi, sia nelle campagne che nella città, le forme di opposizione politica più comuni tra i “marginali”.9 Queste pratiche costituivano infatti l’“infrapolitico dei senza potere” (Scott 1990, p. xiii): erano cioè dei modi di opposizione alla potenza degli agrari, considerata enorme, inscalzabile e, in fondo, naturale. Una forza cioè che non poteva essere combattuta, tranne rare eccezioni e momenti, che a viso coperto e, per quanto possibile, invisibilmente. Si tratta, come forse apparirà evidente, di un sentimento che non vacillerà veramente nel corso del tempo e delle trasformazioni politiche, sociali ed economiche. Nell’ottica radicale così come in quella politologica più istituzionale, anche dentro i regimi democratici e in presenza di prospettive di mobilità sociale e di classe superiori rispetto al passato, la relazione tra individui e potere – e non soltanto tra i membri delle classi subalterne – rimarrà infatti di relativa e sostanziale “passività”. Per quanto in tali regimi la possibilità di “farsi potere”, sperimentare forme di ascesa nei campi della politica o dell’economia, oppure di impegnarsi in movimenti e partiti, siano opzioni più o meno teoricamente praticabili per ciascun individuo, anche in essi la percezione delle asimmetrie disincentiva la partecipazione e tiene bassa 9

In realtà il mondo rurale europeo ha conosciuto decine di movimenti, più o meno organizzati e visibili, ispirati a una molteplicità di utopie, a sfondo politico, di tipo messianico-religioso e criminale-redistributivo (il banditismo – ma forse sarebbe meglio dire i banditismi, considerato che molti paesi al di qui e al di là dell’Atlantico sono stati interessati dal fenomeno – ne è l’esempio più evidente). Si veda Hobsbawm (1966) per una controversa disamina di alcuni di questi movimenti.

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la fiducia nella possibilità di potere contribuire a determinare significative trasformazioni nell’ordine sociale. Persino nel corso di stagioni storicamente caratterizzate da significative mobilitazioni di massa il problema del crumiraggio o quello di allargare la sfera del consenso e della partecipazione – percepita forse come eccessiva dai poteri, ma comunque sempre troppo bassa dai movimenti – ha assillato i soggetti rivoluzionari e anche quelli semplicemente riformisti. Se in questa cornice la tentazione dei militanti è quella di ritenere, per l’appunto, che la gran parte delle persone non facciano politica o siano passive, il compito dell’osservatore critico dovrebbe essere quello di indicare che esse la fanno quotidianamente, difendendo le proprie posizioni, opponendosi individualmente a quelli che percepiscono come soprusi amministrativi, cercando alleati influenti, costituendo reti, aggirando il fisco, tentando di neutralizzare le pressioni sperimentate negli ambienti di lavoro, in quelli familiari e nelle relazioni di genere; oppure impiegando gli interstizi del diritto e delle politiche pubbliche per trarre piccoli benefici e adoperando un’infinità di “tattiche” atte a contrastare le “strategie” dei poteri e mitigare la varietà dei disagi esperiti. E vale proprio qui la pena di precisare che, nella prospettiva influente di De Certeau (2001, 71), il termine “strategia” denota il calcolo dei rapporti di forza resi possibili nel momento in cui un soggetto dotato di una propria volontà e di un proprio potere si isola in un “ambiente” che, pure condizionato dall’altro, è almeno temporaneamente irraggiungibile da questi. La strategia, insomma, presuppone un luogo che possa essere circoscritto come proprio e fungere, dunque, da base a una gestione dei rapporti con un’esteriorità distinta. Mentre col concetto di “tattica” – per noi forse più interessante – si intende quel calcolo privo di un luogo proprio, di una visione globalizzante, “cieca e perspicace come lo si

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è nei corpo a corpo senza distanza [...] La tattica è determinata dall’assenza di potere così come la strategia è organizzata dal postulato di un potere” (ivi, 74). Inoltre la tattica: deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea [...] è movimento “all’interno del campo visivo del nemico” [...] Si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle “occasioni” dalle quali dipende, senza alcuna base da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevedere sortite. Non riesce a tesaurizzare i suoi guadagni [...] È insomma astuzia, un’arte del più debole (De Certeau 2001, 73).

3. L’esperienza della resistenza Nella cornice delineata sopra, parzialmente valida per la società rurale così come per quella urbana, per quella aristocratica come per quella democratica, per quella pre-capitalista come per quella “capitalista reale” (oltre che, naturalmente, per quelle socialiste o fasciste), la resistenza è più facilmente orientata a tenere il conflitto sotto traccia o, addirittura, a non farlo esplodere – come nei casi del mezzadro infedele oppure del lavoratore impegnato nei “giochi di produzione” e, comunque, crumiro. Proprio i “giochi di produzione”, osservati tra gli altri da Roy (1953) e Burowoy (1979; 1985), appaiono assai interessanti nell’economia del nostro discorso in quanto mettono in luce molte delle ambivalenze presenti nei processi resistenziali. Tali “giochi”, tipici della stagione fordista della produzione, erano infatti modi di autoregolazione del lavoro operaio in regime di cottimo ed erano posti al confine tra consenso e dissenso, cooperazione e non-cooperazione. Se i “giochi”, finalizzati all’aumento o alla riduzione della produzione, potevano essere intesi come modi per attenuare la tensione e come forme di com-

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petizione “quasi ludica” rivolte tanto a sé che ai pari, essi apparivano anche come “una spontanea iniziativa operaia dentro gli spazi di libertà che risultano dall’adattamento delle regole formali dell’azienda alla realtà dell’officina” (Bonazzi 1995, 153). Se nella pratica i “giochi” erano dunque da considerarsi come strumenti escogitati dagli operai per ridurre l’alienazione del lavoro e negoziare il salario e la produttività al di fuori dei tavoli ufficiali, opporsi alle richieste della direzione e imporre una sorta di autorganizzazione segreta della produzione, dall’altro lato essi celavano “il rischio di trasformarsi in una spirale di intensificazione del lavoro” (ibidem) allorché la direzione avesse intuito che certe lavorazioni potessero essere svolte in tempi più brevi e con un aumento della produzione stessa. Questo tipo di ambivalenze e la natura insieme interattiva, strategica, competitiva e silente della dialettica che, a seconda delle fasi, contrappone o unisce gli attori appartenenti ai differenti gruppi impegnati nel “gioco resistenziale”, costituiscono forse la cifra più autentica di quello che possiamo chiamare il problema della resistenza. Tuttavia, ed è questo un caso assai frequente, lì ove non sia possibile tenere il conflitto sotto traccia e questo venga reso manifesto in ragione, diciamo, di qualità intrinseche ai soggetti che generano una reazione – come nell’esempio del “popolo della notte” colpevole di rendere insonni le notti dei centri storici oppure in quello dei centri sociali occupati, rei di eleggere l’illegalità a stile politico10 – la resistenza può assumere i caratteri di una lotta 10 Una precisazione potrà tornare utile. È vero che i centri sociali autogestiti nelle loro diverse articolazioni – teatri occupati, centri di documentazione etc. – esprimono istanze in qualche modo rivoluzionarie, oltre che controculturali (relative all’impiego del tempo libero, della cultura, degli spazi). Ma spesso i conflitti urbani che li riguardano e le operazioni di polizia che ne conseguono non sono direttamente connesse agli obiettivi e alle pratiche politiche. Ciò che gli si contesta, in termini più o meno espliciti, è il diritto di esistere. È cioè la loro illegalità costitutiva, il loro porsi ai confini

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“per la negoziazione”. Lo scontro, cioè, può ancora una volta essere teso a conseguire non tanto obiettivi massimalisti o rivoluzionari, ma a tracciare confini e limiti all’azione della pubblica amministrazione impegnata a ripristinare l’ordine, a prescindere dalla natura delle rivendicazioni (magari “edonistiche” come nel caso dei nuovi flâneur, oppure “antagoniste” come in quello degli occupanti di spazi autogestiti). In altri casi, evidentemente, i processi resistenziali possono avere una posta maggiormente pubblica, collettiva e radicale, volta, per esempio, al ritiro di truppe di occupazione (il caso della Resistenza italiana sotto l’occupazione nazista o quello altrettanto classico dell’Algeria negli anni della lotta anti-coloniale) oppure tesa a impedire la costruzione di infrastrutture indesiderate (è questa per esempio l’esperienza dei movimenti NoPonte, No-Muos, No-Tav).11 Va da sé che il mondo del lavoro, dalle campagne alla fabbrica o alla logistica, fornisce una moltitudine di altri esempi relativi a scontri manifesti, in epoca sia fordista che post-fordista. Scontri mediati classicamente da organizzazioni formali come i sindacati, oppure prevalentemente autogestiti, come quelli visti recentemente a Rosarno o a Nardò (Aa.Vv. 2012; Mangano 2010), aventi per protagonisti gli immigrati impegnati nelle campagne, oppure a Piacenza, dove per lungo tempo in azione si sono visti i lavoratori stranieri occupati dall’Ikea (Pallavicini 2014). Senza contare, ovviamente, le esperienze mitiche e fondative dell’immaginario operaista come la Rivoluzione d’Ottobre o quelle meno note, ma altrettanto costitutive di un universo intimo ed emozionale, magari di livello soprattutto nazionale o semplicemente locale, come per esempio le lotte minerarie di Harlan County (Gaventa 1982; Portelli 2011) e di Blair Mountain (Shogan 2006). della rappresentanza e della politica a non potere essere ammessa. 11 Sui movimenti No-Ponte e No-Tav: Della Porta e Piazza (2008).

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3.1. Il ruolo delle emozioni nelle resistenze Riferirsi alle emozioni in questo contesto è utile perché, in modo non dissimile da quanto accade in molte attività umane, intimità ed emozioni sono costitutive dell’esperienza resistenziale. La determinazione a resistere o a evadere l’ordine dei rapporti sociali scaturisce infatti da sentimenti, oltre che da interessi. Ne sono esempi e manifestazioni evidenti, oltre che forse persino elementari, la percezione quotidiana dell’ingiustizia e della povertà che contrappone il mezzadro al latifondista (Scott 1985) e che induce il primo all’inganno o alla rivolta contro il secondo; oppure la sensazione di una violenza inflitta (e insieme autoinflitta) avvertita dall’hostess di linea costretta dalle politiche della compagnia a un continuo sorriso e a un incessante lavoro emotivo (Hochschild 1983). Hanno un’origine emotiva anche il fastidio e la conseguente spinta all’impegno causati dai motivi tipici di un’ideologia, di una pratica e di un modo di stare al mondo come quelli dei militanti nazisti prima della presa del potere; le stesse emozioni che condurranno alcuni degli oppositori socialdemocratici e socialisti a pagare un caro prezzo il giorno del trionfo del nemico (Sheridan 2005). Così come le emozioni non sembrano estranee al mandato migratorio di un giovane maghrebino, incaricato di provvedere alla rapida accumulazione di capitali per la famiglia oppure determinato a conseguire un miglioramento personale impossibile da mancare, qualunque possa risultare il costo personale o legale, a cui appaiono indissolubilmente legate la reputazione e l’autostima (Massey 2002; Capello 2008). Asad (2003, 68) notava che una funzione essenziale del dolore è quella di rendere possibile l’idea secolare che la “produzione di storia” (intesa anche soltanto come politica e agency quotidiane) e la ricerca dell’“affermazione del Sé” possono sostituire il dolore stesso con il piacere

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o, comunque, con la ricerca di ciò che ci è più gradito.12 Alla luce di questa avvertenza forse ovvia, introdurre il tema delle emozioni significa anche collocare il problema delle resistenze al di fuori della dimensione pubblica e porre al centro dell’analisi lo spazio del privato. Gli studi di genere offrono una pluralità di esempi storici relativi a lotte per il piacere consumate nella cornice della domesticità, che però hanno per posta anche l’accesso a uno spazio pubblico, oltre che una riforma del regime familiare. Prevedendo la facile obiezione che connettere il tema del genere a quello delle emozioni è un’implicita concessione a stereotipi alquanto radicati che legano il femminile ai sentimenti, occorre premettere che il peso della dinamica emotiva nel determinare resistenze all’ordine è assolutamente comune ai generi. Tuttavia sono soprattutto gli studi sulle donne quelli che hanno compiutamente indagato questo aspetto ed è da lì che è più facile attingere esempi storici ed etnografici, oltre che vedere in azione una serie di problematiche connesse. Per esempio un ricco testo di Guglielmo (2010) – dedicato alla conquista dello spazio pubblico nordamericano da parte di donne italiane meridionali immigrate e forte dell’apparato teorico di Gramsci e De Martino – inizia ricordando sia il potenziale rivoluzionario della cultura popolare, sia il modo in cui le donne del Sud Italia di fine Ottocento e dei decenni di poco successivi, rispondessero a coercizioni quali l’esclusione dal foro pubblico o la regolazione comunitaria della loro sessualità manipolando e risignificando codici e artefatti posti alla base dei propri interessi e dei propri veicoli di espressione culturale. In questa cornice, religione e magia si fondevano in un complesso insieme di rituali, invocazioni e 12 Un simile impiego della questione posta da Asad, riferita al contesto meridionale italiano, si rinviene in Palumbo (2009, pp. 235 sgg.).

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fatture attraverso cui invocare, placare e nascondersi al soprannaturale. Tale insieme di credenze, passioni, pratiche e reinterpretazioni forniva alle donne la possibilità di creare spazi femminili isolati dal maschile, producendo altresì visioni del mondo e ideologie che sfidavano di fatto i poteri istituzionali della Chiesa o dello Stato-Nazione, oltre che quelli quotidiani degli uomini della famiglia, pure nella rappresentazione di un’adesione formale ai dettami. Per esempio, nota Guglielmo (2010, 30), “le sante più popolari tendevano a incarnare la resistenza e il martirio delle donne sotto il patriarcato” e l’andare in chiesa, in modo non diverso dal “fare cortile”, significava produrre sia uno spazio di socialità per soggetti tra loro distanti sia uno spazio confessionale di tipo alternativo rispetto a quello religioso. Non di rado insoddisfazioni, frustrazioni e aspirazioni per sé e per i propri figli determinavano modi di riordinamento del mondo imprevisti e di segno decisamente contrario a quanto ricercato dai dispositivi di potere e disciplinamento di genere diffusi in una società che, come quella meridionale, è stata spesso descritta come profondamente gerarchica dal punto di vista delle relazioni sessuali. La violenza fisica contro i mariti e l’adesione a una ideologia anti-statale, se non addirittura anarchica, che costituirà il sostrato ideologico di molte di quelle donne migranti che ricaveranno successivamente spazi di visibilità pubblica nei territori d’arrivo al di là dell’Atlantico, impegnandosi a vario titolo nel sociale, nelle lotte per i diritti degli italo-americani e in altre cause, è un esempio al contempo della semi-invisibilità di certe resistenze13 e 13 Non è un caso che Chatterjee (1993, p. 133) asserisse di non avere trovato nessuna prova evidente relativa alle lotte per l’autonomia delle donne e che ricercarle negli archivi fosse inutile. La ricerca, sosteneva, deve iniziare invece dalle case, ossia dal principale spazio dentro cui doveva avere avuto luogo la lotta per la normalizzazione della struttura egemonica nel nuovo patriarcato nazionalista.

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del ruolo che le emozioni giocano nel generare forme di presenza nel mondo. Totalmente sovrapponibile è la narrazione che Ong (1987, xiv-xv) fa delle operaie malesi negli anni di una rapida e schizofrenica transizione economica che investe il loro paese e che appaiono “catturate tra la moralità non capitalista e la disciplina capitalista”. Entro tale cornice, alcune operaie “alternano stati di autocontrollo e possessione da parte degli spiriti”. L’hantu, lo spirito maligno di un arcaico mondo malese, non appare dunque estraneo all’ambiente igienizzato delle industrie tecnologiche. “Se si considera il complesso immaginario hantu come parte di una critica non-capitalista di pratiche capitaliste, quali sono i contraddittori significati di queste visite da incubo nelle fattorie moderne?”. A tal riguardo l’autrice mostra chiaramente come all’interno delle imprese multinazionali le tradizionali relazioni di dominio e subordinazione vengono reimpiegate in modo scientifico e come queste funzionino non solo tramite un esplicito controllo dei corpi delle lavoratrici, ma anche attraverso i modi di autorappresentazione. Il mutamento delle posizioni occupate dalle donne in seno alla famiglia, al villaggio, ai processi produttivi e, in generale, alla società le spinge ad adottare delle contro-tattiche volte a resistere l’immagine imposta loro e costruirne una propria. L’hantu, la possessione, è quell’elemento che permette loro di riconnettersi a un Sé tradizionale così come di opporsi, sabotandola, alla nuova disciplina di fabbrica. Non molto diversa appare l’esperienza delle cortigiane di Lucknow in un’età di transizione studiate dapprima da Oldenburg (1990) in un celebre saggio e, successivamente, anche da Ghosh (2008, 200). Entrambe queste autrici, così come Guglielmo e Ong, possono riflettere sul modo in cui attraverso l’adozione di forme invisibili o, quantomeno, non immediatamente riconoscibili di attivismo le cortigiane ponessero in atto una molteplicità di

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strategie occulte, volte a far vacillare l’oppressione della famiglia patriarcale emersa dal colonialismo inglese, resistendo e negoziando i nuovi e insieme ibridi imperativi culturali dominanti, affermando in tal modo prospettive morali sovversive. Nelle parole di Oldenberg (1990, 262, corsivo in originale): Allontanandomi dalle prospettive convenzionali su questa professione [quella di cortigiana], sosterrei che queste donne, anche oggi, appaiono indipendenti e consapevolmente coinvolte in pratiche di sovversione occulta all’interno di un mondo dominato dagli uomini. Esse celebrano la femminilità nella riservatezza dei loro appartamenti, resistendo e invertendo le regole di genere della più ampia società di cui sono parte. Il loro stile di vita non è aderente all’autorità maschile; al contrario, nelle proprie autopercezioni, definizioni e descrizioni esse appaiono impegnate incessantemente in una resistenza indiretta contro le nuove regole e la perdita di prestigio di cui avevano sofferto a partire dall’inizio del regime coloniale. Non sarebbe esagerato affermare che il loro “stile di vita” è, piuttosto che una perpetuazione dei valori patriarcali, una resistenza contro di essi.

Spostandosi in India occidentale e osservando categorie meno stigmatizzate di donne è possibile produrre una sommaria lista dei comportamenti resistenziali o evasivi più semplici e diffusi: fingersi malate per non andare a lavorare; minacciare di tornare a casa dei genitori in caso di grossolane ingiustizie; rifiutarsi di avere rapporti sessuali con mariti infedeli o recalcitranti alla disciplina domestica; imparare in segreto a leggere e scrivere, oppure fare voto di silenzio e, per così dire, di “non-comunicazione”. Comportamenti, insomma, da intendersi alla stregua di strategie di ritiro dalla vita familiare, finalizzate ad attrarre attenzione su di esse. Le pratiche di resistenza e evasione si manifestano dunque in questo contesto con modalità variegate: nella sua ricostruzione di alcuni minuscoli esempi di ribellione femminile alle pressioni familiari nell’India del primo

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Novecento, Forbes (2008, 66) racconta del modo in cui Krishnabai – una ragazzina decisa a proseguire gli studi e sposare un uomo di propria scelta anziché qualcuno impostole dalla famiglia – posasse per le foto destinate alle potenziali suocere interessate a trovare una moglie per i propri figli adottando pose che la facessero sembrare la più accigliata, arcigna e indesiderabile possibile (per inciso, l’autrice spiega anche che il piano forse funzionò e che la ragazza potette laurearsi in zoologia all’Università di Madras e sposare un uomo di sua scelta). Su un piano completamente diverso, e legato alla classe sociale dei soggetti resistenti, Anagol (2008, 23 sgg.) individua tre tipi di tattiche di resistenza o evasione, adottate dalle donne nel contesto di Maharashtra all’inizio del secolo scorso e legate almeno in parte a qualcosa di inconsueto come la scrittura: la scrittura creativa fondata sulla inversione simbolica (la nascita, dunque, di una scrittura femminile di tipo femminista e paradossale, che inventa mondi capovolti e interroga il maschile e il femminile sulla natura delle disuguaglianze); petizioni e memoriali rivolte ad autorità pubbliche coloniali, volte a segnalare situazioni insostenibili sul piano dei diritti di proprietà e più in generale dell’autodeterminazione femminile e, infine, i crimini passionali derivanti da condizioni di profonda infelicità e dolore che non riuscivano a essere superati altrimenti e che, perciò, dovevano necessariamente mirare all’eliminazione dell’oppressione e del maschile. 3.2. Ambivalenze Com’è forse ovvio, ciascuno di questi esempi suggerisce che, a parità di sollecitazioni, le forme di resistenza ed evasione variano con il tipo di posizionamento sociale delle attrici. E che le strategie sono dunque difficilmente generalizzabili, rendendo di fatto arduo parlare per esempio di modelli di “resistenza femminili” senza spe-

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cificazioni ulteriori (e il discorso è verosimilmente uguale per ciascun altro “gruppo” oppresso, dacché in realtà non esistono gruppi indistinti e privi di differenziazioni interne di rilievo). Inoltre l’esperienza coloniale indiana da cui sono tratti molti degli spunti per questa discussione ci pone dinanzi a degli interessanti paradossi relativi al ruolo dello Stato. Ruoli e responsabilità peculiari, propri di un’esperienza ricca di tratti unici, ma che presenta tuttavia significative assonanze con molte altre realtà subalterne sparse per il globo e che permette di fare delle notazioni valide in generale (non è un caso, del resto, che Gramsci e le sue riflessioni sulla questione meridionale italiana siano stati forse la fonte primaria di ispirazione degli studi postcoloniali prodotti in India). Ma tornando al caso indiano, mentre è il regime coloniale a determinare la possibilità per le donne di scrivere memoriali e petizioni da rivolgere alle corti o ad altre autorità, è questo stesso regime a determinare trasformazioni significative della società occupata, esacerbando come mai prima le differenze tra caste, la segregazione di certi gruppi e l’emersione di variegate forme di violenza materiale e simbolica (Bayly 1999). All’interno di tale cornice di occupazione e stravolgimento delle relazioni sociali, un “paradosso” sia pure parziale – ma, comunque, valido per molte altre esperienze – è rappresentato dal fatto che quello stesso Stato, causa di una varietà di ingiustizie e violenze, possa essere visto a tratti come una risorsa a cui appellarsi e da cui attendersi libertà e equità. Il punto, allora, fondamentale per potere inquadrare storicamente l’emersione di molti fenomeni di opposizione e resistenza all’autorità statale, sta a mio avviso nel fatto che lo Stato è una passione. Gli Stati coloniali, così come quelli che emergono da rivoluzioni o da guerre di liberazione, muniti di un tipico e ricorrente arsenale retorico di civilizzazione e giustizia, appaiono infatti come

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“progetti” in grado di determinare aspettative straordinarie (Rabinow 1989). Lo Stato, cioè, è un’entità che attraverso i suoi rituali simbolici e il dispiegamento spaziale della propria forza appare in grado di generare emozioni, sentimenti, attese, forme di devozione, autoimmolazione e, successivamente, prostrazioni e delusioni passibili di determinare risposte che hanno addirittura la vita come posta. Niente di strano, dunque, nel fatto che l’interruzione delle aspettative causi frequentemente dei corto circuiti che investono il privato così come la sfera pubblica, traducendosi in crimini passionali, nell’adesione a ideologie antistatali e in pratiche di sabotaggio e opposizione, manifeste o coperte. Ma prima di arrivare a tanto – se mai ci si arrivi – è importante sottolineare come le resistenze si compiano sempre dentro lo Stato e, spesso, all’interno di un complesso gioco che ha l’autorità come complice, sponda e, finalmente, avversaria; investendo, peraltro, una gamma di sentimenti, aspettative e “memorie” definibili come ambivalenti: le memorie di una promessa di giustizia, quelle di un’oppressione quotidiana protratta nel tempo e altre, di ordine “favoloso”, riguardanti un’età precedente la comparsa dell’autorità stessa (una nostalgia strutturale, come la chiama Herzfeld, 2005, 22). A tal riguardo, può essere utile ricordare che i contadini vessati e impoveriti di Hobsbawm (1966; 2000), gli stessi che ingannavano il padrone o l’esattore, nel commentare amaramente la loro condizione solevano dire: “ah, se il re sapesse...”. Il punto, allora, è comprendere cosa accade quando si scopre che il re non soltanto sa, ma che lo sa anche molto bene. 3.3. Emozioni, potere e riscritture dell’identità Rappresentazioni dello Stato come quelle prodotte poco sopra presentano il grave rischio di reificare questo

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stesso oggetto. Seguendo per esempio Herzfeld (2005, cap. 1), potremmo notare che anche i burocrati, che dello Stato sono comunque “sacerdoti” e proiezioni tangibili e quotidiane, partecipano insieme ai cittadini alla formazione di un universo simbolico che fornisce spiegazioni convenienti circa il fallimento della democrazia in un mondo pressoché ideale (una “teodicea secolare”, la chiama Herzfeld). La separazione concettuale tra Stato e “soggetti” – la stessa che ho riprodotto nella mia rappresentazione poche righe più su e che è pure molto frequente nelle discussioni erudite così in quelle di tipo comune – è un costrutto simbolico che meriterebbe maggiore approfondimento. “Perché le persone reificano continuamente lo Stato?”, si chiede Herzfeld (2005, 5). La risposta è che, proprio come i contadini di Hobsbawm che pensavano che il re non sapesse delle loro condizioni, le persone rimproverano questa entità, così mal definita eppure importante nella vita di ciascuno, per i loro fallimenti individuali, esattamente come farebbero con una persona responsabile di avere afflitto loro dolore; ma allo stesso tempo, nel fare questo, esse si appellano anche alla natura impersonale dell’oggetto-Stato come ultima ed estrema garanzia di un potere disinteressato. Ma di convesso, notano Herzfeld (ibidem) e, prima di lui, Anderson (1983), l’ideologia dello Stato nei momenti cruciali, ma anche in quelli ordinari, impiega una retorica e una serie di metafore fondate sull’intimità e la familiarità: la stessa implicita in parole come patria, vaterland o homeland, che fanno riferimento alla figura paterna o a immagini domestiche e familiari – senza parlare di altre figure come per esempio fratelli d’Italia. In questa pratica possiamo vedere che il “sentimento popolare” – quello che induce a reificare l’autorità – è, per così dire, reciprocato dalla pretesa dello Stato-Nazione di aspirare a costituire una sorta di pretesa universale

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di verità, eterna e consolidata sia per gli aspetti relativi alla materialità del potere (l’essere, per l’appunto, istituzione) sia per quelli connessi agli immaginari dei soggetti (far sì, come direbbe Sayad, che i cittadini “siano pensati dallo Stato”, anche quando credono di essere loro a pensarlo. Sayad 2002, 367) . Ma questa cornice relazionale è discontinua e fratturata. Le pretese di verità e il processo di omologazione del corpo nazionale innescato dallo Stato producono anche differenze, doppie velocità, disallineamenti e, contemporaneamente, modi di evasione. È all’interno di uno di questi disallineamenti, così strutturalmente legati alla storia dello Stato (di ogni Stato), che fa apparizione la disemia (Herfzeld 2005, p. 14): ossia una tensione tra le autorappresentazioni ufficiali e i sentimenti ufficiosi e, insieme, “popolari”. Una tensione, posta alla base di ciò che lo stesso autore chiama intimità culturale, che consiste nel [r]iconoscimento degli aspetti di un’identità culturale che sono considerati una fonte di imbarazzo nei rapporti con l’esterno, ma che ciò nondimeno forniscono ai membri interni a un gruppo la garanzia di una socialità comune e quella familiarità con le basi del potere che può, in un dato momento, assicurare agli individui disaffiliati un qualche grado di irriverenza creativa e, in un altro, rafforzare l’efficacia di un’intimidazione. L’intimità culturale può fare irruzione nella vita pubblica. Essa può assumere le forme dell’esposizione ostentata di quei supposti tratti nazionali – la “popolanità” americana, il senso pratico britannico, la furbizia commerciale e la predatorietà sessuale dei greci, i modi diretti degli israeliani, per nominarne solo alcuni – che muniscono i cittadini di un senso insolente di orgoglio in presenza di una moralità formale o ufficiale e, talvolta, anche in occasione di una manifestazione ufficiale di riprovazione (Herzfeld 2005, 3).

L’intimità culturale è allora qualcosa che racchiude allo stesso tempo una malattia e i suoi anticorpi. La reificazione dello Stato è speculare alla reificazione dei gruppi e

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delle comunità di riferimento: alla reificazione dell’”alto” corrisponde la reificazione del “basso” e, insieme, la generazione di strategie e tattiche simboliche e materiali, correlate e reciproche, di controllo ed evasione. Com’è banale a dirsi, queste modalità di produzione di identità e pratiche collettive e individuali sono d’interesse per l’osservatore perché, oltre a costituire l’esito di una serie di processi sociali e psicologici, sono essi stessi dei processi che determinano effetti materiali, producono e consolidano la realtà delle istituzioni (Berger e Luckman 1969). Queste costruzioni del reale producono dunque esiti tangibili, incapsulano i corsi d’azione e situano gli individui – i “conformisti” così come i “ribelli” – dentro una cornice e degli orizzonti cognitivi e pratici. Come nota ancora Herzfeld (2005, 15), continuando peraltro un ragionamento che inizia quantomeno con Levi-Strauss (1966), le semplificazioni alla base dei meccanismi cognitivi pubblici – per esempio quella che consiste nel “binarismo” o, se si preferisce, nella creazione di dualismi e di coppie oppositive semplici – non derivano necessariamente dai “progetti” posti alla base dei processi di formazione degli stati, ma una riflessione su di essi può rivelarsi ugualmente utile per descrivere le conseguenze di questi stessi progetti nel corso della loro evoluzione, anche in presenza di spinte “centrifughe”. Il binarismo è, per esempio, un principio chiave per la creazione di un ordine sociale fondato sulla disuguaglianza, ma anche per l’emersione di sentimenti di opposizione a quello stesso ordine. Il manicheismo, l’opposizione anch’essa binaria tra bene e male, è evidentemente un principio altrettanto importante per la mobilitazione in tempi di guerra, ma anche un elemento di conservazione che spesso inibisce la creazione di alleanze e produce potenziali errori tattici. Il binarismo, inoltre, può essere inteso come un circuito cognitivo chiuso, ma anche come un labirinto, che fa girare in circolo i soggetti, inclusi

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quelli interessati a evadere. Persino molte delle utopie, per essere più chiari, si muovono dentro i confini dello Stato, del governo e dell’antitesi ordine-disordine. E non potrebbe essere diversamente per forme di opposizione che sono giocate per lo più sul crinale individuale oppure sul piano del principio di realtà (rispettivamente quello della giovane che rifiuta il matrimonio o quello del movimento che rifiuta un’infrastruttura militare, non illudendosi però di potere disciogliere gli eserciti). In questo quadro le resistenze racchiudono le medesime ambivalenze culturali e materiali del conformismo, e la coerenza non è ciò che ci si può attendere da loro. Posti come sono dentro i confini dello Stato, e quelli di una moltitudine di sistemi di relazioni pubbliche e private anch’esse dipendenti in un’ultima istanza da questa stessa entità, i resistenti a vario titolo devono necessariamente fare convivere una molteplicità di atteggiamenti: l’antagonismo verso i poteri, una occasionale fiducia nell’equità di questi stessi soggetti “paterni” (l’occasionale ricorso ai tribunali ne è un esempio), l’illegalità, il ricorso al welfare o ai benefici di tipo pubblico, la percezione dello Stato come un soggetto oppressore e al contempo come una risorsa, e così via lungo una serie di processi che riproducono questo modello cognitivo-comportamentale sia nel foro pubblico sia in quello privato (in primis nel foro familiare, che dello Stato è emanazione, da esso è regolato e che, teoricamente, ne funge da ripetitore dei valori e degli interessi). Le emozioni, intese come spazio per eccellenza delle contraddizioni individuali e collettive, giocano pertanto un ruolo fondamentale in molti conflitti del quotidiano; ma esse non possono per definizione muoversi al di fuori di un orizzonte cognitivo e dei confini simbolici e giuridici esistenti. Confini, è importante sottolinearlo, che persistono al di là del momento storico, della contingenza e della forma di governo in un momento dato e che sono

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perciò posti a parziale garanzia della continuità delle forme di governo e delle risposte generate in basso. Qualcuno potrà vedere in questo approccio gli echi di un certo determinismo althusseriano relativo al rapporto tra ideologia e apparati di Stato (Althusser 1970). Mentre ciò sarebbe una notazione corretta, è interessante notare il recupero a fini critici che sia Herzfeld (2005, 30) sia, più recentemente, Fassin (2013) fanno di quell’autore. Entrambi notano cose simili riguardo al problema dell’ideologia e dell’accondiscendenza, ma ai nostri fini è forse più utile la trattazione del secondo ed è quella che seguiremo. Fassin (2013, 33) ricorda infatti come Althusser nel suo famoso testo proponga il concetto di interpellazione, intesa in francese come “richiamo” o, forse, anche “intimazione”. Per introdurre il ragionamento Althusser propone la scena immaginaria di un poliziotto che richiami un passante, dicendogli: “Ehi, tu!”. A udire ciò, l’individuo interpellato si volta. In questo suo girarsi, è la tesi di Althusser, l’individuo diventa un soggetto: un cittadino, cioè, assoggettato ai poteri pubblici. Il suo gesto mostra che nell’essersi riconosciuto nella persona a cui è stata rivolta un’intimazione pubblica, il passante ha accettato i termini del rapporto di dominio posto alla base della relazione tra persona e Stato. La scena, insomma, funziona come un modello allegorico di quella che potremmo chiamare la struttura elementare dell’ideologia, che consiste paradossalmente nell’imporre agli individui di sottomettersi liberamente alla legge e di farsi perciò soggetti. In termini più espliciti, la libertà non esclude l’assoggettamento, ma lo legittima. Questo curioso fenomeno, che con mezzi solo in parte diversi accomuna gli scenari democratici e quelli coloniali (Memmi 1979), è il risultato di un processo che ha inizio con la socializzazione primaria (quella fornita dalla famiglia o dalla scuola) e che continua incessantemente attraverso un’infinita serie di eventi che hanno la funzione di rendere docile il corpo

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e procedere a una riscrittura dell’individuo (producendo, comunque, esiti contraddittori e prevedendo anche la possibilità di una rimaneggiamento in senso deviante dell’identità. Matza 1976). Nello scenario resistenziale, l’“interpellazione” del poliziotto si traduce in differenti tattiche e corsi d’azione possibili, legati in vario modo alle emozioni. Vi è la possibilità di un’interazione “strategica” (Goffman 1988) volta al controllo dei sentimenti e dei gesti, pur nella consapevolezza di trovarsi in una posizione irregolare. Vi è, cioè, la possibilità di recitare uno script, o copione, conforme ai valori sottesi all’“assoggettamento”: mostrarsi riguardosi, rispettosi, collaborativi e amichevoli nei confronti degli agenti, controllando altresì la tensione, le espressioni del viso, il tremolio della voce, lo sguardo prevedibilmente alterato e la postura, pur nella consapevolezza di avere un faro dell’auto non funzionante, di avere bevuto oltre i limiti consentiti, oppure di detenere qualche grammo di una sostanza stupefacente nascosto nelle tasche o nella biancheria intima. Si può sperare che l’agente ammorbidito dalla disponibilità e dall’umiltà mostrate dal “soggetto” decida di non procedere con una perquisizione, con un test alcolemico o di non tenere conto di tutte le infrazioni accumulate, abbonando quelle più gravi e limitandosi a un’ammonizione. Oppure c’è la possibilità di scappare, come per i protagonisti dell’etnografia di Fassin citata poco prima, dedicata ai poliziotti nelle banlieu francesi, o di quella, che ne è perfetto contraltare, di Alice Goffman (2014) sui “bersagli” della polizia nei sobborghi di Philadelphia. In entrambi questi testi, che, oltre alla polizia, hanno al proprio centro degli individui marginali ma non ancora pienamente “assoggetti” (o, meglio, differentemente assoggettati), portatori di stigma evidenti e inoccultabili (Goffman 2003) legati alla razza (beur, arabi, nel caso di Fassin; afroamericani nel caso di Goffman), la fuga appa-

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re la cifra di vite impegnate a fuggire tanto da una polizia sadica e capricciosa quanto dalla violenza spietata di competitori e nemici, divenuti tali per motivi spesso futili e casuali. In un automatismo pavloviano, nelle banlieu francesi come in quelle americane, coloro che costituiscono l’obiettivo “naturale” della polizia fuggono dunque alla sola vista di un auto o di una divisa, senza avere commesso nulla o averne ragione. Attraverso minuziose descrizioni e la riproduzione di fitti dialoghi, entrambi gli autori ritraggono un’autentica spirale del coinvolgimento, volta inesorabilmente a trascinare dal nulla quasi tutti gli attori della narrazione – poliziotti e fuggiaschi – dentro esistenze quantomeno liminali, se non pienamente devote alla “caccia all’uomo”, alla prigione, al culto della forza, alla sfida, alla morte e alla latitanza. Se teniamo presente che le tattiche tese al controllo delle emozioni e quelle volte alla fuga sono, nei contesti urbani “multiculturali”, quelle in prevalenza a disposizione rispettivamente degli individui nazionali e degli “altri”, comprendiamo anche che esse ci narrano della complessità degli scenari di resistenza, delle stratificazioni interne alle classi subalterne, delle differenti dotazioni di capitale simbolico a disposizione di ciascun sottogruppo e dell’“intersezione” di differenti stigma e forme di subalternità (essere poveri ma bianchi; poveri e neri; poveri, neri e donne; maschi bianchi, ma non comunitari e poveri etc.) (Crenshaw 1989). Vediamo inoltre come la “resistenza” e l’evasione diventino in certe circostanze e ambiti particolari un habitus cucito addosso all’individuo dalla “pratica”, ossia dalla ripetizione e dal rituale. Non il rituale di tipo familiare, come certi modelli interpretativi un po’ affrettati suggerirebbero, ma quello appreso nel corso della relazione con i poteri pubblici. La scoperta, insomma, che si può diventare resistenti innanzitutto per volontà altrui.

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4. Emozioni, azione, verstehen Alla luce di quanto detto sinora, la nozione di resistenza si fa sempre più nebulosa e ambigua. La tesi sostenuta è che essa è associata a eventi spiacevoli di natura collettiva o personale, iscritti nella struttura sociale ed economica e legata, infine, a emozioni. Essa può manifestarsi con modalità creative, visibili o meno, individuali o collettive, legali o criminali. Questa serie di dualismi semplificatori ci conduce al problema di cosa determini le singole manifestazioni e scelte. Di come, cioè, si scelga di unirsi o restare dei “lupi solitari”, di restare nei limiti della legalità o di farsi criminali, a tempo pieno o soltanto parziale, oscillando tra una condizione e l’altra (è questo infatti il caso di chi resiste invisibilmente, mantenendo una facciata di subordinazione e onestà). La teoria sociologica della devianza e altre discipline affini si sono esercitate a lungo su questi problemi, mostrando di volta in volta come a determinare differenti esiti e traiettorie possano esserci fattori ambientali e di classe; le strutture di opportunità individuali e familiari; la geografia politica ed economica e il sistema di relazioni entro cui sono inseriti i luoghi; l’impatto delle legislazioni in aree sensibili del sociale quale il lavoro, la cittadinanza, l’immigrazione o il welfare; il caso; la cultura dei gruppi di pari; l’adesione a immaginari e ideologie ribellistiche o criminali; la selettività delle agenzie di controllo. Com’è probabilmente superfluo a dirsi, le spiegazioni monocausali – quelle per esempio incentrate prevalentemente sul cambio di valori, la disoccupazione o il gruppo dei pari – rischiano di essere parziali e di concentrarsi troppo o sulla dimensione individuale o su quella strutturale. Di solito nel primo caso l’individuo viene sovraccaricato di responsabilità, come dimostrano i principi che guidano le politiche sociali paternaliste e neoliberiste,

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le quali, lasciandosi alle spalle la loro funzione storica di strumenti atti a impedire la mercificazione del lavoro e delle persone e facendosi invece parte di quel nuovo complesso di agenzie di mediazione volte a mobilitare il lavoro sottopagato e “sporco”, tentano dapprima di trasformare il soggetto in un cittadino economicamente attivo e, successivamente, in seguito ai suoi eventuali ripetuti fallimenti “personali” (quelli, cioè, che andrebbero più correttamente letti nel quadro della ristrutturazione capitalista), pongono le condizioni per il suo ingresso nel sistema penale (Soss, Fording e Schram 2011). Al contrario le posizioni troppo vigorosamente strutturaliste eccedono solitamente nel determinismo, sminuendo l’importanza delle scelte individuali e trascurando i processi individuali di significazione assegnati dagli attori alle proprie azioni – quelle che hanno un valore anche pubblico o, per lo meno, non unicamente personale. Nel fare questo, come vedremo più avanti, gli approcci strutturalisti possono perpetuare rappresentazioni e immagini “passivizzanti” relative agli individui e alle classi subordinate, replicando sotto altre forme il discorso del colonialismo o in termini pedissequi quello dei riformatori sociali classici della progressive era (Acker 2002). Come abbiamo già notato in precedenza, una sociologia e un’antropologia delle resistenze dovrebbero allora ricercare i modi in cui le azioni si collocano dentro la struttura e i significati che gli attori conferiscono loro. Questo discorso, debitore naturalmente del classico contributo di Weber, si sostanzia in quello che possiamo chiamare un verstehen criminologico volto “ad abbracciare i significati situati generati dagli attori e dai ricercatori; a dare valore alle intuizioni e alle interpretazioni comuni derivate dalla condivisione delle emozioni; a esplorare le politiche del piacere e del dolore, della paura e dell’eccitazione; a ‘pensare con il corpo’ così come con la mente” (Ferrell e Hamm 1998, 14).

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Le emozioni – intese sia come fuga dal turbamento e fattori di inibizione dell’azione, sia come elementi che la condeterminano (Garfinkel 1967) – sono quegli elementi sfuggenti che, insieme agli interessi materiali, interpretano un ruolo chiave nello spiegare le sfide dei subalterni al potere. A tal riguardo Goodwin, Jasper e Polletta (2001) presentano una ricca collezione di casi in cui differenti emozioni, individuali e collettive, ma sempre “socialmente costruite”, fondate sulla rabbia, l’indignazione, la vergogna e l’umiliazione hanno giocato un ruolo fondamentale nel determinare tentativi di trasformazione degli ordini esistenti. Analogamente un celebre libro di Katz (1988) sul “piacere di fare male” – peraltro corroborato indirettamente dalle descrizioni di Scott (1985) e di altri sui significati anch’essi emozionali dell’infedeltà nella relazione con padroni – mostra attraverso una molteplicità di esempi che uccidere, prevaricare e commettere crimini violenti di ogni sorta sono, insieme ad altre cose, modi di risposta diretta o indiretta alle umiliazioni subite per mano di individui o istituzioni, così come alle frustrazioni derivanti da una vasta gamma di relazioni. Se vi sono ragioni psicologiche dietro certe condotte, le spiegazioni non dovrebbero esaurirsi con l’individuo e dovrebbero tenere in conto che, come in quasi tutto, il sociale costituisce lo sfondo dell’azione. E anche che quelle “controllate perdite del controllo” costituite dalla violenza interpersonale e dalle sfide alla legge e alle altre manifestazioni quotidiane del potere andrebbero lette come manifestazioni di un complesso e differito gioco di cause, che hanno la relazione tra individui (vittime e carnefici) e strutture sociali al proprio centro. L’obiettivo individuato da Katz è però quello di comprendere l’“esperienza vissuta della criminalità” e, aggiungiamo noi, delle ribellioni poste al confine tra il legale e l’illegale. Nei termini dell’autore: “nelle discipline psicologiche e sociologiche, il misticismo e la magia vissute in superfi-

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cie all’esperienza criminale diventano invisibili, mentre le astrazioni ipostatizzate dalle ‘teorie empiriche’ come cause di sfondo determinanti – specie quelle convenientemente quantificate dalle agenzie pubbliche – diventano la sostanza del ‘pensiero scientifico’ e del metodo ‘rigoroso’” (Katz 1988, 311-312). A ogni modo le emozioni non costituiscono soltanto una valvola di sfogo delle frustrazioni individuali o collettive (si pensi per esempio ai “tumulti”, così come la storiografia meno “comprendente” e una certa psicologia sociale conservatrice li hanno frequentemente interpretati). Esse possono essere anche il canale attraverso cui si plasmano modi attivi di cittadinanza. Non a caso, in un celebre libro, Cloward e Piven (1977, 3-4) scrivono che: L’emergere di un movimento di protesta comprende una trasformazione sia della coscienza che dei comportamenti. Il mutamento nella coscienza presenta almeno tre distinti aspetti. In primo luogo il “sistema” – o quegli aspetti del sistema che le persone esperiscono e percepiscono – perde di legittimità. Un gran numero di uomini e donne che accettano normalmente l’autorità dei loro governanti e la legittimità degli ordinamenti prendono a credere in qualche misura che questi governanti e questi ordinamenti siano ingiusti e sbagliati. In secondo luogo individui che sono normalmente fatalistici e che credono che gli ordinamenti esistenti siano inevitabili, iniziano a esigere “diritti” che implicano una pretesa al mutamento. Infine si rinviene un nuovo senso di efficacia o coesione; persone che comunemente si considerano indifese prendono a convincersi che esse hanno la capacità di trasformare il loro spazio di esistenza.

Sulla scorta di quei classici autori, Gravante e Poma (2015) raccontano per esempio la gamma di emozioni e la spirale del coinvolgimento che coinvolge differenti popolazioni impegnate in lotte a difesa dei territori: lo sdegno per l’espropriazione e la violenza rivolta contro i luoghi natii, la paura della contrapposizione, il controllo del panico che attanaglia i manifestanti una volta posti davanti all’organizzazione e alla potenza militare del “ne-

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mico” (lo Stato, la polizia) e, successivamente, la “libido” derivante da una vittoria, il piacere di una nuova socialità condivisa sia pure in presenza della sconfitta, l’orgoglio per non avere subito passivamente la violenza simbolica operata dallo Stato o dalle multinazionali dell’energia, oppure la delusione per gli esiti della mobilitazione. Una varietà di emozioni e un apprendistato emotivo che accomuna movimenti collettivi illegali e banditi, che si tratti di occupare una casa a fini abitativi o di rapinare un negozio. 5. Riepilogo A partire da queste osservazioni, e seguendo l’influente ricostruzione del dibattito sulle resistenze condotto da Hollander e Einwohner (2004), notiamo che gli studi incentrati su tale soggetto si confrontano comunemente con nodi quali la visibilità del conflitto, la sua natura organizzata o individuale (per quanto socialmente diffusa e, in qualche modo, generalizzabile. Si pensi, ancora una volta, alla similarità dei modi segreti attraverso cui le società contadine di ogni origine combattono gli oppressori), l’intenzionalità dello scontro e, infine, il problema epistemologico della relazione attori-osservatori. Secondo questa ricostruzione, in modo coerente con quanto abbiamo già visto in precedenza, i conflitti possono essere espliciti o meno, in ragione dei rapporti di forza, delle convenienze e della legalità dei metodi e delle istanze (resistenza aperta o coperta). Possono essere condotti in modo sotterraneo e, teoricamente, non emergere (resistenza non scoperta). Il conflitto può avere altresì una caratterizzazione individuale, come nel caso del criminale isolato o in quello della donna segregata in famiglia; oppure collettiva, nel duplice senso di pratiche atomizzate, territorialmente sparse, condotte con modalità disorganiz-

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zate eppure diffuse e simultanee, come nel caso dei contadini isolati o delle cellule terroriste indipendenti; ma lo scontro può essere evidentemente anche pienamente organizzato e sincronico, come accade ai movimenti sociali in senso classico o a certi movimenti virtuali attivi in rete. Conflitti e resistenze, inoltre, possono essere intenzionali come nel caso dei movimenti ambientalisti radicali, oppure essere subiti pur in assenza di una volontà conflittuale e di rivendicazioni preesistenti, come nel caso del popolo della notte o delle minoranze etniche non politicizzate (resistenze non intenzionali). Infine gli scontri possono essere “nominati” e definiti da chi resiste, da chi è oggetto dell’opposizione oppure da chi osserva (resistenze definite dall’esterno). Lo schema di Hollander e Einwohner (2004, 544) in tabella 1 sintetizza tale questioni, con l’eccezione di quella relativa alla caratterizzazione individuale e collettiva e alle varie articolazioni di questa sottospecie. Tuttavia l’aspetto più importante è forse quello epistemologico, relativo tanto al problema della volontà dell’azione resistenziale quanto a quello concernente numero e qualità degli attori coinvolti nella relazione e, di conseguenza, alla loro funzione nella dinamica conflittuale. In ordine, Fegan (1986), Rubin (1996) e Leblanc (1999) sostengono che la corretta applicazione del concetto di resistenza richieda tre distinti momenti: a) un resoconTabella 1. Tipi di resistenza TIPO DI RESISTENZA L’AZIONE È INTESA COME L’AZIONE È RICONOSCIUTA COME RESISTENZA RESISTENZA DALL’ATTORE? DALL’OBIETTIVO? DALL’OSSERVATORE? Aperta Coperta Non intenzionale Definita dall’esterno Mancata Non scoperta

Si Si No No Si Si

Si No Si No Si No

Fonte: adattamento da Hollander e Einwohner (2004).

Si Si Si Si No No

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to soggettivo di un’oppressione reale o immaginata; b) il desiderio di opporsi all’oppressione e c) un’azione (parola, pensiero o gesto) volto a contrastare l’oppressione. A questo elenco, da loro ampliato e parzialmente destrutturato, Hollander e Einwohner (2004, 541) aggiungono la necessità della consapevolezza da parte di attori e osservatori dell’esistenza di un processo resistenziale in atto. Chiamando “attori” le parti impegnate in un conflitto manifesto o latente e “osservatore” colui che registra ed eventualmente co-interpreta la lotta in corso, quante e quali persone devono essere avvedute dell’esistenza di un conflitto affinché questo “esista”? La questione non è trivialmente costruttivista ed è incentrata solo marginalmente intorno al classico problema fenomenologico del rapporto osservatore-realtà. Il punto è infatti che conflitti e resistenze possono esistere indipendentemente dalla consapevolezza del loro dispiegarsi, non solo da parte dell’osservatore, ma anche di almeno uno dei partecipanti (quello più forte). In quest’ultimo caso possiamo anzi dire che la resistenza che ha luogo in condizioni di massima asimmetria e che non ha una reale prospettiva di trasformazione delle relazioni vigenti avrà raggiunto la sua forma perfetta, consistente nell’arrecare i massimi danni e benefici possibili nei limiti delle condizioni date, senza comportare costi ulteriori rispetto a quelli ordinari. Ma il vantaggio della condizione esattamente opposta, quella di massima visibilità e cognizione del conflitto, consiste nella possibilità data alla parte più debole di proiettare l’insoddisfazione nel foro pubblico, trasformandola ufficialmente in un tema (issue) da affrontare attraverso la guerra o la mediazione. E anche nella possibilità che, diventando visibile agli osservatori, questo stessa tema possa essere narrato, reso noto, storicizzato e, persino, romanticizzato (Abu-Lughod 1990). La qual cosa ci porta forse al punto finale ed essenziale: quello per cui la resistenza è, oltre che una dinamica

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sfuggente e ambigua, anche uno spazio del desiderio. Il luogo, cioè, in cui le proiezioni dell’osservatore, le sue passioni, la sua “demiurgia” e, soprattutto, la sua voglia di resistere trovano spazio di realizzarsi secondo le modalità di una scrittura etnograficamente “sottile”,14 tesa a “dissolvere i soggetti” e, soprattutto, a “farli vivere nei testi” (Ortner 1995), generando nuove “gabbie” e, talvolta, ulteriori moti di reazione rivolti questa volta contro i “neocoloniali” della penna o della tastiera: producendo, insomma, quella che potremmo chiamare una resistenza all’etnografia e ai discorsi esperti.15

14 Nel parlare criticamente di uno stile etnografico “sottile”, Ortner fa riferimento alla raccomandazione di Geertz (1998) che la descrizione delle culture e delle pratiche sia “spessa” o “densa” (thick). 15 Si vedano Urla e Helepololei (2014, 440 sgg.) per alcuni di questi casi.

CAPITOLO SECONDO

Economie informali. Politiche dai mondi di mezzo

1. Mondi di mezzo Sul finire del 2014, nell’ambito di un’inchiesta sulla criminalità organizzata nella città di Roma, emerge un’intercettazione. La figura eletta dai media a capo di questa consorteria posta a cavallo tra politica, affari e criminalità, spiega a un sodale i presupposti “tolkieniani” posti alla base di una sua teoria: “È la teoria del mondo di mezzo compà... ci stanno... come si dice... i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo... e allora... e allora vuol dire che ci sta un mondo... un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano... come è possibile... che ne so... che un domani io posso stare a cena con Berlusconi” (Trinchella 2014). Si tratta di un passaggio interessante, che ha quasi naturalmente richiamato l’attenzione pettegola dei media e che, nella sua autonoma espressione di una weltanschauung criminale, esprime una pressoché totale convergenza con quanto evidenziato in alcuni testi ormai classici di criminologia critica (Ruggiero 1999; Salierno 2001; Dal Lago e Quadrelli 2003): le rappresentazioni dualiste, fondate sulla contrapposizione tra universi criminali e legali, o anche soltanto formali e informali, non colgono la complessità degli intrecci e la frequente sovrapponibilità delle due dimensioni.

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Sarebbe inoltre errato rappresentare questo “mondo di mezzo” come un blocco differenziato o come uno spazio perfettamente orizzontale e non gerarchico. Sarebbe erroneo anche rappresentarlo come un mondo. Più correttamente, dovremmo parlare di un “galassia” di mondi differenti per sfumature, coinvolgimenti, specializzazioni, livelli di strutturazione e responsabilità. In questo capitolo esploreremo quell’oggetto problematico e anch’esso “di mezzo” che prende il nome di economia informale e che, come vedremo, costituisce uno spazio privilegiato per il dispiegarsi delle pratiche, delle ambivalenze e delle ambiguità così saldamente legate al concetto di resistenza. Per quanto vada ulteriormente chiarito che le opportunità e i posizionamenti interni a queste economie sono molte diversi e che quelli che per alcuni corrispondono a dei meri modi di sopravvivenza, sono per altri un’occasione di decente accumulazione, se non di vero arricchimento. Inoltre nella nostra discussione tenderemo a concentrarci prevalentemente sui livelli più bassi di questo variegato spazio perché è soprattutto lì che si concentrano le resistenze subalterne. Anche se occorre chiarire che le ripartizioni in campo, specie nel caso dei rapporti subordinati, non vedono sempre contrapposti “poveri” e “ricchi”: per esempio, se è vero che nel mondo dei subappalti i “padroncini” sono spesso degli sfruttatori pronti a sacrificare salari e sicurezza, la loro condizione è spesso tutt’altro che privilegiata e sono essi stessi caratterizzati da una elevata dipendenza ed esposizione a banche, appaltatori, fornitori, fisco etc. (Saitta 2013). La qual cosa ci pone davanti a questioni ulteriori relative al concetto di resistenza: chi è “il più forte” in un’interazione? E come interpretare il rapporto tra reti di diversa dipendenza e subalternità che caratterizzano i conflitti nel quotidiano? Tornando adesso al nostro oggetto dovremmo notare come secondo alcuni critici, sebbene appaia ben consoli-

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dato nel gergo delle scienze sociali, il concetto di economia informale abbia finito con l’includere significati ed esperienze eccessivamente diverse tra loro e la sua utilità come categoria analitica sia da considerarsi dubbia (Feige 1979). La nozione di informale, infatti, è stata impiegata sia come concetto teorico – un contenitore dentro il quale si rinvengono tutte le forme economiche e relazionali che fuggono dalla regolazione statale e dal quale partire per condurre differenti tipi di macro-analisi sulle dinamiche economiche – sia come campo empirico di indagine, per mezzo del quale esplorare, a livello questa volta micro, i modi in cui differenti sistemi operano e si riproducono al di fuori dei canali ufficiali e perciò visibili. In questa prospettiva l’espressione economia informale appare sia come un termine omnicomprensivo – il cui significato racchiude ogni forma di devianza e infrazione delle regole – sia come un modo per indicare collezioni di casi molto diversi l’uno dall’altro, comprendenti anche attività legali o semi-legali, ma comunque irregolari, fra cui la vendita di merci contraffatte, la prostituzione, i doppi lavori, etc. (Losby et al. 2002). Inoltre, come notato in apertura, il formale e l’informale, il legale e l’illegale si sovrappongono e appaiono indistinguibili. Non a caso, nei termini di Hansen e Vaa (2004, 8), l’economia informale è un’“interfaccia”, ossia “una superficie che forma un confine comune tra due parti o aree; oppure un punto di comunicazione tra due differenti sistemi”. I segmenti più abbienti della popolazione urbana, in questa prospettiva, sono anch’essi impegnati in attività illegali o irregolari che offrono veloci opportunità di profitto; e d’altro canto, i loro dipendenti lavorano spesso in condizioni di elevato sfruttamento, privi di garanzie giuridiche e senza alcuna forma di sicurezza (Portes e Castells 1989; Marcelli, Pastor e Joassart 1999). Per tutti questi motivi alcuni suggeriscono di dismettere l’espressione “economia informale” e di sostituirla

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con quella di “paesaggio finanziario” (financial landscape): La nozione di paesaggio rammenta le infrastrutture fisiche di una regione e i differenti modi di viaggiare tra campi e mercati, case e uffici, villaggi e aree commerciali, le strade malmesse che connettono centri piccoli e remoti con le capitali di ciascun paese. Tutto questo ci induce a esplorare altri interessanti aspetti relativi ai paesaggi finanziari: quelli che fanno capo alle connessioni e alle rotture tra differenti tipi di risparmiatori, di richiedenti un prestito e di prestatori di denaro. Questa metafora dirige la nostra attenzione verso le “reti” informali di finanziatori, custodi del prestito, banche e circuiti del risparmio; ma anche al rifiuto deliberato di impiegare servizi finanziari e ai corto circuiti che caratterizzano le relazioni tra intermediari finanziari (Bouman e Hospes 1994, 157).

Il rigido dualismo delle formulazioni originarie – per esempio quella embrionale di Lewis (1954) e le altre, più autenticamente fondative del concetto di informale, dell’ILO (1972) e di Hart (1973) – andrebbero accantonate perché riflettono una contrapposizione tra legale e illegale, che, per quanto radicato negli immaginari e persino nelle politiche, non ha molti riscontri nella realtà. Per esempio nel caso italiano la lotta alla contraffazione e ai venditori ambulanti – un paragrafo di quella che è la lotta più generale all’immigrazione e l’affermazione di uno stato penale neoliberista nel nostro paese – si basa sull’assunto di una rigida divisione tra produzione legale di beni di lusso e contraffazione. Tale rappresentazione ignora a bella posta la diffusione degli appalti informali concessi dalle ditte del lusso (soprattutto quelle dell’abbigliamento e pelletteria) alle piccole aziende manifatturiere; trascura cioè l’esistenza di un continuum, fatto di sommerso e di ufficiale, legato già ai cicli produttivi, che rende di fatto impossibile parlare di contraffazione (Palidda 2013). Tuttavia, malgrado le critiche, sarebbe bene non accantonare il concetto prima di avere notato – rispettiva-

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mente sulle tracce di Hart (1973) e Scott (1998) – che al regime dell’informalità appartengono tanto le attività escluse dalle definizioni di realtà escogitate da tecnici e politici, quanto quelle volte a evadere il “progetto di leggibilità territoriale” perseguito dagli stati moderni e conseguito attraverso le mappe, le anagrafi, la fiscalità e lo sviluppo di tecnologie biometriche. Dentro questa cornice, pertanto, è possibile includere tanto le intraprese criminali quanto quelle che sono solamente irregolari, i lavori autonomi e quelli subordinati, i benestanti che fuggono dalla legalità per garantirsi la propria posizione e i poveri che non hanno scelta. Sarebbe a dirsi altresì che sotto la denominazione di informale è possibile rinvenire tanto quelle attività che relegano ai margini gli individui che le intraprendono, fornendoli a malapena di quanto basta per garantirne la sussistenza (Ferman, Henry e Hoyman 1987; Berger e Buvinic 1989) quanto quelle che, al contrario, generano consistenti introiti (Rajiman 2001). 2. Politiche dell’informale e della scrittura Per quanto abbiamo ripetutamente notato che è arduo discernere con chiarezza il formale dall’informale e che ogni resistenza si muove dentro i confini tracciati dai poteri, è tuttavia negli interstizi e negli sprazzi di autosufficienza rinvenibili nell’informale che si annidano alcune forme di resistenza subalterna. Per esempio quella di chi sfida le legislazioni migratorie, gli ostacoli di matrice burocratica e poliziesca e che si oppone allo sfruttamento e ai bassi salari del lavoro dipendente irregolare vendendo oggetti in strada, mantenendo così un qualche livello di autonomia, continuando magari una tradizione familiare di lavoro nel commercio, sfruttando le occasioni per una regolarizzazione e prendendo a giocare ruoli riconosciuti dentro la comunità d’affari come quella di mediatore o

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altro (Schmoll 2004) – cose in generale utili, oltre che all’economia degli individui, a una positiva autodefinizione di sé stessi e, in generale, a una positiva rinegoziazione del Sé (la qual cosa ci riconduce nuovamente al ruolo delle emozioni nei processi resistenziali). Alla nozione di economia informale, come suggerito in precedenza, è inoltre possibile associare l’idea di una fuga dallo Stato e dalla sua “volontà di sapere” e di controllare l’ambiente sociale. A prescindere dalle ragioni – siano esse la fiscalità (Sassen 1997) o l’impossibilità a essere integrati nella forza lavoro regolare in ragione del proprio status (Portes e Sassen-Koob 1987; Gallaway e Bernasek 2002) – l’informalità esprime, almeno entro certi livelli, una relazione antagonista con il potere e le sue agenzie di controllo. Certo, come bene avverte Kohn (2004, 137 sgg.), in questo genere di raffigurazioni il rischio della romanticizzazione e dell’estetizzazione è elevato. Infatti, proprio come nel romanzo, in un certo genere di etnografia il protagonista va incontro a una serie di avventure, spesso caratterizzate da dolore e angoscia (come il migrante irregolare o i “popolani” dell’esempio immediatamente precedente). Nello svolgimento della rappresentazione etnografica, attraverso i meccanismi catartici innescati dalla narrazione, volti a descrivere il marginale come eroe e resistente, il lettore è condotto a esperire sentimenti di identificazione ed empatia basati su motivi in ultima analisi ideologici e di sicura presa, per lo meno presso un pubblico sensibile a certi problemi, che costituisce una speciale nicchia dentro il mercato culturale e anche uno speciale tipo di “comunità di pratica”, come nel caso di molti antropologi e sociologi qualitativi. Solitamente queste ricerche si focalizzano infatti su elementi come per esempio il rigetto dei valori capitalistici (è questo il caso di taluni studi sulle lotte dei “nomadi urbani”, incentrati sul tema della homelessness come scelta tra i

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punkabestia),1 la sfida ai poteri dello Stato (il caso dei banditi, al centro di splendide rievocazioni storico-sociologiche sull’Italia della lunga transizione dal dopoguerra agli anni Settanta. Cfr. Quadrelli 2004) o, in generale la lotta per l’affermazione della propria soggettività (molte etnografie dell’immigrazione ne sono un buon esempio).2 Certe raffigurazioni accademiche romantiche, insomma, si muoverebbero in realtà dentro i confini di un radicato stilema popolare incentrato sulla figura dell’eroe ribelle, che ha antecedenti importanti nella letteratura, nel cinema e nella cronaca: basti pensare a Robin Hood, Jesse James o Renato Vallanzasca. Soprattutto ciò che disturba molti osservatori è il fatto che essi ritengono che le persone non resistano, ma si barcamenino tra numerose difficoltà. Insomma ciò che per alcuni è resistenza, sarebbe per altri una mera “strategia di sopravvivenza”. E il fatto di guardare a questi individui come a eroi denota una sostanziale sublimazione degli aspetti più tragici del loro quotidiano e anche della loro ideologia reale (per esempio, condizioni abitative spesso al di sotto della decenza, mancanza di accesso a servizi basilari, senza contare aspetti come la solitudine, l’alcolismo, la violenza, lo sciovinismo, etc.). Il punto, insomma, è che chi si muove dentro certi mondi non è soltanto “un uomo solo contro lo Stato” o contro le altre strutture di oppressione, ma una persona o una collettività gravata da una serie di problemi. A queste obiezioni plausibilissime è però possibile opporre che il romanticismo, come la bellezza, sta in fondo negli occhi di chi guarda. E che, proprio perché costellato di problemi, il quotidiano dei subalterni finisce frequentemente con il determinare un esplicito antagonismo. La reificazione a cui si è accennato in precedenti 1 2

Per esempio, Amster (2004) sugli homeless di una cittadina dell’Arizona. Un esempio tra i tanti è il recente libro di Staid (2014).

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parti del libro ha l’effetto di produrre importanti contrapposizioni: in primis, quella tra un “noi” (gli oppressi) e un “loro” (le istituzioni, i padroni, etc.), che si traduce di fatto in un rapporto conflittuale con i poteri. In questa cornice interpretativa, l’informalità è una interazione strategica con lo Stato, come mostra il caso delle “masse” meridionali che, nei confini della cornice clientelare e dell’inclusione condizionata prodotta dall’autorità, sfruttano ogni interstizio per massimizzare i benefici e conquistare pochi centimetri di libertà (Farinella 2013a). Come avverte quest’autrice, nelle finte separazioni finalizzate a ottenere benefici fiscali, nell’occupazione di baracche fatte per risalire velocemente le graduatorie per gli immobili popolari, nelle raccomandazioni ricercate per ottenere lavori etc., si nascondono un’infinità di drammi, ma anche forme di “attivazione” che non sono quelle subordinanti delle politiche del lavoro, ma di tipo spontaneo, finalizzate alla ridistribuzione e all’“emancipazione”. Analogamente il “lavoratore povero” (working poor) abitante in baracca, che, forte del fatto di non avere letteralmente nulla da perdere, tenta una truffa ai danni di una finanziaria al fine di racimolare una somma da distribuire tra i parenti, vive sì una condizione drammatica, ma è anche un individuo che tenta rocambolescamente di liberarsi dalla dipendenza e dalle violenze strutturali che ha subito per tutta la vita in ragione di uno status ascritto che lo colloca in fondo alle gerarchie sociali (Saitta 2013, p. 142). Ugualmente, attingendo questa volta a un archivio personale di storie non immediatamente connesse al tema dell’informalità, la donna marocchina che investe tutte le proprie risorse per andare a partorire negli Stati Uniti e dare così al proprio figlio il privilegio di uno status “primomondiale” in ragione dello jus soli lì vigente, cercando nel mentre anche un marito ricco, forte della sua avvenenza, del suo capitale culturale e di una intraprendenza non comuni, oppure quello della coppia sta-

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tunitense che nell’intimità domestica parla solo francese per non esprimersi nella lingua dell’imperialismo (e che, certo, avrebbe fatto forse meglio a scegliere il creolo per restare in territori linguistici francofoni, ma opporsi meglio all’imperialismo) esprimono forme di resistenza che potranno suonare romantiche, ridicole o, forse, persino come delle “non-resistenze”. Ma che appaiono tuttavia tali in quanto si fondano sulla produzione di “contesti” posti in condizione di alterità e antagonismo rispetto a quelli dominanti entro cui maturano e di cui restano una componente. Se tutto questo è plausibile, un rischio speculare a quello intravisto dai critici del concetto di resistenza consiste nel definire romantiche quelle narrazioni che invece di descrivere certi percorsi biografici attraverso il lessico, le aspettative e l’ideologia delle istituzioni, si sforzano di impiegare e legittimare il linguaggio degli individui problematici e che ne adottino le categorie interpretative per raccontare e tradurre i modi in cui i subalterni si attivano, si ingegnano e riscrivono il mondo all’insegna della riappropriazione e della “rapina”. Insomma, radicalizzando un po’ la questione, il sospetto è che nella prospettiva di alcuni critici siano romantiche tutte quelle narrazioni che non adottano un altro tipo di stilema: quella del soggetto problematico che si riconosce tale e che persegue l’integrazione impiegando i mezzi e i fini messi a disposizione dal sistema sociale. E anche che l’ideologia della rappresentazione debba conformarsi al codici della riforma o della criminalizzazione e non a quelli del rifiuto, del parassitismo e della rivolta. 3. Autonomia e soggettività Ma tornando al nostro oggetto, il potere non è solo quello statale. L’economia informale, pertanto, può es-

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sere una pratica di resistenza e di emancipazione da una pluralità di forze e coercizioni, poste al confine tra autorità pubblica e privata. Tra i moltissimi esempi possibili, questo è il caso in verità estremo dei bambini di strada congolesi, dediti a ogni tipo di traffico e attività irregolare che, nell’autodefinirsi niama, animali, esprimono tutto il proprio orgoglio per l’autonomia e la libertà da orfanotrofi o famiglie abusanti che hanno saputo conquistarsi (Hendriks, Ponsaers e Shomba 2013). Nell’economia del nostro discorso, possiamo in generale tradurre l’espressione “autonomia” come l’anelito di individui e collettività (famiglie, comunità ristrette o estese) ad autodeterminarsi e perseguire liberamente obiettivi considerati come desiderabili, attenenti la sfera immediatamente personale oppure dei gruppi di riferimento. Obiettivi posti entro i limiti e gli orizzonti fissati dal sistema sociale di appartenenza o da uno estraneo, ma comunque influente (si pensi al ruolo delle relazioni internazionali e all’imposizione delle restrizioni europee alle migrazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo); o altresì obiettivi eccedenti quegli stessi limiti, per quanto fortemente condizionati da questi ultimi, come nel caso di chi voglia fuggire da ambienti sociali asfittici e troppo tradizionalisti. La soggettività appare allora come la negoziazione riuscita o fallita, moderatamente conseguita o disattesa, di istanze che hanno il Sé come posta: un Sé, ci sarà perdonato il gioco di parole, ritratto nella relazione dell’individuo con sé stesso e, contemporaneamente, con il gruppo di riferimento (Mead 1972, 273 sgg.). La qual cosa, evidentemente, include integrazione e appartenenza, così come disaffiliazione ed estraneità: la possibilità di non fare, così come quella di fare; quella di violare certe regole perché considerate aliene ai propri valori e desideri, oppure perché, pur ritenendole valide, le si considera secondarie rispetto a un altro tipo di posta moralmente più cogente.

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Coerentemente, il lavoro sessuale femminile può essere considerato in certe circostanze una manifestazione di opposizione al dominio maschile o familiare, e di aggiramento dei vincoli strutturali (Pateman 1999). Se la tendenza dominante nelle politiche e nel discorso comune consiste per esempio nel trattare la questione dalla prostituzione delle immigrate nella cornice del traffico di esseri umani, molta letteratura mostra invece come le organizzazioni dedite al favoreggiamento dello sfruttamento, non solo della prostituzione, ma del lavoro in genere, maschile e femminile, siano una risposta al trinceramento perseguito dagli stati europei e al bisogno di mobilità per fini economici, politici o anche soltanto espressivi. Qualcosa, peraltro, che preannuncia il problema della natura criminogena della legislazione su cui torneremo più avanti. In questa cornice di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e sia pure in un regime di fortissimo indebitamento personale e persino di coercizione, l’adesione volontaria alla tratta (e non solo al “contrabbando” di persone, che è sostanzialmente un artificio retorico utile a introdurre il difficile e contraddittorio principio per cui si possa essere contemporaneamente sfruttati e consenzienti) ha variegate e ambivalenti valenze resistenziali, seppure estremamente problematiche. Essa esprime in primo luogo una resistenza alle politiche internazionali e migratorie: è cioè una sfida alla chiusura degli stati. In secondo luogo, risponde al mandato comune ai generi sessuali ad accumulare rapidamente capitale da reinvestire in patria. Infine può rispondere, come del resto fanno in genere tutte le migrazioni, sia pure con grande relatività e dipendenza dalle peculiarità biografiche individuali, a un’esigenza di evasione da un ordine patriarcale o comunque familiare e, persino, a istanze personali di conoscenza del mondo (qualcosa di assimilabile all’idea occidentale di turismo) (Agustìn

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2007).3 Nella sua etnografia della prostituzione in Inghilterra anche Day (2007, 76) – la quale ha peraltro dimostrato in precedenti lavori di essere molto prudente circa l’impiego del termine resistenza – contrappone tuttavia mercato (prostituzione) e Stato (repressione e servizi sociali) e configura la prostituzione in una terra di mezzo tra sfera pubblica e privata. L’autrice suggerisce così che la scelta di prostituirsi è un’attività economica informale che produce attriti con una molteplicità di ambiti della vita, ma che ha importanti connessioni con i temi dell’autonomia femminile. E qualcosa di affine si rinviene anche nello studio di Bourgois e Schonberg (2009, 51) su una comunità di senza casa tossicodipendenti, in cui lo scambio sessuale è per Tina, una delle protagoniste, un modo di guadagnarsi l’indipendenza e sottrarsi agli abusi dell’ambiente familiare di provenienza. 4. L’informalità nel neoliberismo Tuttavia, oltre ad essere una forma di resistenza e di evasione dai poteri, l’informalità è anche il segno dell’incapacità – o, forse, dell’assenza di volontà – da parte dello Stato di far rientrare nella propria sfera di influenza e protezione alcune classi di cittadini (Shapland 2009). Il contesto in cui matura questa considerazione è quello “neoliberista”, emerso sul finire degli anni Settanta per avanzare un’agenda incentrata sul mercato nelle relazioni globali e domestiche. Per mero inciso sarà bene premettere che nei termini ex post delle analisi prodotte, 3

Agustìn, che è autrice di un contestatissimo libro, produce un elenco vastissimo di autorevoli saggi concordi nell’assegnare al problema della tratta un valore completamente diverso da quello dominante. Problema, peraltro, che andrebbe visto anche dentro la cornice antropologica del mito della tratta delle bianche. A riguardo, tra le tante discussioni, si veda Morin (1991).

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malgrado l’indubbia utilità di molti studi che a esse ricorrono, le categorie neoliberiste sono spesso impiegate con vaghezza e non appaiono nemmeno così innovative con riferimento a taluni tratti che intendono illustrare e definire.4 Ma dal punto di vista filosofico, nei suoi propri termini e dal punto di vista genealogico, oltre che in molti suoi effetti di realtà, il concetto appare estremamente interessante e fecondo. Riepilogando rapidamente quanto sarà ampiamente noto al lettore, questo movimento insieme intellettuale e di pratica economica e politica, così tipico del presente, considera la libertà di mercato alla stregua di un modello e persino come un sostituto delle libertà politiche. Il neoliberismo è il tentativo di estendere la portata della logica di mercato, applicandola come un principio organizzativo per tutte le altre relazioni sociali e politiche. Esso costituisce un tentativo di mobilizzare lo Stato a vantaggio del mercato e riconfigurare il primo come un “quasimercato”. Al contrario del liberalismo classico, infatti, il neoliberismo non ritiene che il mercato emerga naturalmente dalla relazioni umane: esso, invece, dev’essere attivamente costruito; così come i comportamenti compatibili con esso devono essere appresi e, successivamente, estesi a nuove arene (Soss, Fording e Schram 2011, 20 sgg.). Questo passaggio, peraltro, sarebbe propedeutico a mutamenti di ordine politico e sociale, che variano dalla democratizzazione delle nazioni all’emergenza di una nuova etica basata sulla responsabilizzazione individuale e la sostanziale privatizzazione della questione sociale (attraverso la liberalizzazione dei servizi pubblici, la 4

Ho discusso questo punto più approfonditamente in Saitta (2013), dove ho analizzato il terremoto di Messina del 1908 come un disastro “neoliberista”, malgrado i settant’anni circa che lo separavano dalla nascita ufficiale di questa forma economica. Una rassegna di analoghe critiche poste, oltre che al neoliberismo, al termine siamese “globalizzazione”, si rinviene in Aneesh (2006, 18 sgg.).

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concessione al “privato sociale” della loro erogazione e a una valutazione in termini economici delle prestazioni fornite). Strumento fondamentale di questo processo di estensione del mercato, dei comportamenti e delle logiche compatibili sono dunque le liberalizzazioni: ossia, come abbiamo visto, il coinvolgimento dei privati nell’erogazione di servizi alla persona e, soprattutto, la riduzione dei controlli su importazioni, capitale e scambi con l’estero, col fine di favorire una più veloce circolazione di merci, servizi e lavoro. I critici hanno notato che le liberalizzazioni nella pratica reale – l’actually existing neoliberalism, nei termini di Brenner e Theodore (2002) – hanno prodotto in realtà esiti molto diversi da quelli attesi. Per iniziare, l’introduzione delle politiche neoliberiste non ha certamente prodotto un aumento dell’uguaglianza; in moltissimi paesi il libero commercio non ha stimolato la crescita e sembra addirittura averla ridotta; l’occupazione è diventata molto più sensibile alla contrazione dei mercato, riducendosi per lunghi periodi e aumentando in altri, peggiorando comunque sempre dal punto di vista delle condizioni e delle garanzie sociali connesse (Gilbert 2004, 39 sgg.). Inoltre, come osservato da Farinella (2013b), a partire dagli anni Settanta il capitalismo internazionale è andato incontro a una serie di crisi ricorrenti che sono state superate iniettando dosi crescenti di informalità nel sistema. È tuttavia indubbio che a partire dai primi anni ottanta i livelli centrali e decentrati del sistema economico – il centro e la periferia – sono andati incontro a importanti trasformazioni e a crescenti intrecci e dipendenze. Uno degli aspetti più significativi, nota Farinella (2013b, 97), consiste nell’aumentata importanza di elementi come: a) la reciprocità, finalizzata a immettere risorse immateriali nel ciclo economico; b) la relazionalità, che fa sì che le competenze individuali diventino un

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“bene collettivo” che aiuta ad accrescere la competizione dei territori (come nel caso dei distretti industriali italiani); c) la flessibilità, ossia la capacità di adattarsi alle esigenze della produzione. In questa cornice, secondo l’autrice, le persone diventano “soggettività al lavoro”, sottoposte alla corrosione del carattere e all’elevata sostituibilità. L’enfasi sulla natura “cognitiva” e “immateriale” di questo capitalismo nasconde inoltre il fatto che lo spostamento verso il terziario e i servizi comporta crescente polarizzazione e diffusione di “cattivi lavori”. E, come hanno sottolineato molte altre ricerche, la flessibilità si traduce facilmente in informalità e sfruttamento. È a questo punto che Farinella (2013b, 96), attraverso un interessante uso di Foucault, nota che il carattere ambiguo del concetto di informale, così come di quello di sviluppo e sottosviluppo, deriva sostanzialmente dall’essere una pratica discorsivo-strumentale che qualifica una serie di arrangiamenti biopolitici in cui non sono i contenuti a importare, ma la forma che essi assumono e gli effetti reali che producono in termini di regolazione. Così come la produzione di criminalità era utile al calcolo delle classi dominanti, allo stesso modo la produzione di informalità è stata utile a diminuire la pressione sui servizi sociali e i costi del welfare, ad aumentare l’importanza e l’utilità delle clientele politiche e a legittimare la sicurizzazione dello spazio pubblico, pur in presenza di un’oggettiva riduzione dei crimini violenti, a fini di consenso o di reale sedazione dei moti di rivolta nello spazio pubblico (si veda, per esempio, il caso del G8 di Genova; ma di casi concernenti un uso eccessivo e gratuito della repressione nella storia recente italiana ve ne sono molti altri, anche se meno noti e di scala evidentemente inferiore). Questo quadro, piuttosto convincente, nasconde tuttavia una insidia che occorre dissipare. Infatti pur trovandoci a questo punto sideralmente lontani dalle prospettive dualiste dei primi anni Settanta, potremmo

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essere nonostante tutto tentati di immaginare una parte della popolazione come “marginale” (Alsayyad 2004, 9). In particolare la parte meno qualificata della forza lavoro nazionale e immigrata – i marginali “per nascita” così come per esempio i rom, oppure i delinquenti abituali – costituirebbe, nella prospettiva presentata prima, una eccedenza non includibile se non nei termini della “prigionizzazione” (Clemmer 1941): dell’interiorizzazione, cioè, di un’identità e un’intimità carceraria che non lascerebbero loro altro che “andare ai resti”, sino al momento dell’incapacitazione definitiva (Quadrelli 2004). A seconda delle circostanze, di volta in volta l’informalità apparirebbe così una scelta deliberata, una necessità, una forma estrema di particolarismo, un preludio alla cronicizzazione della condizione di detenuto o, persino, un habitus (Broeders e Engbersen 2007; Rodgers, Williams e Round 2008). Tuttavia dire questo non significa tanto asserire che i soggetti posti ai gradini più bassi dell’informalità sono marginali, quanto che essi sono integrati in modo subalterno. Essi sono, in altri termini, assolutamente funzionali alla produzione e persino al consumo, ma devono potere essere assorbiti e dismessi a piacimento. E a proposito di questo particolare tipo di integrazione, Hobbs (1988, 117) notava, con riferimento alla vasta area periferica e ultra-proletaria della East London degli anni Settanta e Ottanta, che la popolazione residente aveva esperito una forte prossimità fisica e simbolica all’epicentro capitalista della city e che aveva finito con l’appropriarsi dell’etica e del linguaggio delle imprese, piegandole alla propria vita quotidiana e usandole per orientarsi all’interno dei cambiamenti indotti dalla nuova ristrutturazione capitalista. “La cultura che ne deriva è essenzialmente imprenditoriale dacché la peculiare struttura economica dell’East London ha richiesto a generazioni di individui di acquisire e interiorizzare le caratteristiche essenziali dell’imprenditoria, pur continuando a

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operare in coda al capitalismo” (ibidem). Come aveva del resto già notato Merton (1968, 212) con la sua teoria della tensione, tali popolazioni poste in coda al capitalismo sono trasformate e integrate da quest’ultimo al punto che le differenze nei valori e nei fini sono residuali e le “resistenze”, se presenti, sono più spesso rivolte ai mezzi: sarebbe a dirsi, agli ostacoli simbolici e materiali che inibiscono il conseguimento di obiettivi quale il consumo, il tempo libero e la disponibilità di risorse economiche. Malgrado la protratta fortuna del concetto di marginalità, continuata più o meno sino al presente, il tema dell’inclusione subordinata si affermò in letteratura già a partire dai tardi anni Settanta, allorché una serie di studi dedicati ai paesi in via di sviluppo – tra cui quello esplicito di Perlman (1976) che lo gridava già dal titolo – iniziarono a suggerire che la “marginalità è un mito” e che, come abbiamo già detto, i poveri urbani e i disaffiliati in genere sono al contrario pienamente integrati nella società, ma in termini che li porta a essere economicamente sfruttati, politicamente repressi, socialmente stigmatizzati e culturalmente esclusi (Bayat 2000, 539; Alsayyad 2004, 9). Una dinamica che accomunerà in modo crescente nord e sud del mondo e che, proprio a partire dagli anni Settanta, porterà a una riduzione della spesa sociale a tutto vantaggio di politiche penali e penitenziarie di classe, che condurranno nel corso del tempo a quella che è possibile chiamare l’“iperincarcerazione” (Wacquant 2013): cioè a quel fenomeno di massa, seppure estremamente selettivo, che affronterà i temi dell’inclusione subordinata e dell’eccedenza di forza lavoro in termini soprattutto detentivi. Una combinazione di elementi, a ben pensarci, che ci colloca davanti a uno strano cortocircuito cognitivo, costituito dall’abbattimento del tempo e dello spazio. In termini meno astratti, se le argomentazioni impiegate per

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decostruire il mito della marginalità sono dei costrutti atti a spiegare la situazione di un paese del “terzo mondo” come il Brasile degli anni sessanta e settanta e se l’idea di una relazione tra carcere e lavoro maturava nel quadro del capitalismo primo novecentesco (Rusche e Kirchheimer 1978), il presente sembra da un lato annullare la differenza tra aree e, dall’altro, riportare le lancette indietro nel tempo. Qualcosa, del resto, che già Stoler e Cooper (1997) e Mezzadra (2005) avevano notato parlando delle colonie come di “laboratori della modernità” che permettono di osservare la retroazione dalla periferia al centro. 5. Ordine pubblico Al di là della sua natura criminale o delle circostanze dentro cui matura, l’informalità è un processo politico e retorico che genera reazioni, arresti e varie forme di mobilitazione politica e civile (Bellinvia 2013). La “tolleranza zero” di Rudolph Giuliani nella New York degli anni Novanta, per esempio, è stata l’emblema della lotta dei governi contro le cosiddette forme di “inciviltà”, la vendita abusiva e ogni altra attività irregolare condotta in strada (Wacquant 2000; Duneier 2001). Gli arresti compiuti in quella città nel corso degli anni sono stati, come sappiamo, smisurati (Jacobson 2005). Come vedremo meglio più tardi, le politiche implementate dal sindaco Giuliani erano finalizzate a produrre un ambiente urbano igienizzato, funzionale agli interessi delle grandi catene commerciali, agli imprenditori del tempo libero e alla proprietà immobiliare. Tale modello di gestione dell’ordine pubblico e degli interessi economici s’impose presto come un esempio per un gran numero di stati e città in Europa e altrove. In Italia, un paese da questo punto di vista emblema-

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tico (Joppke 2004; Calavita 2005), la lotta contro venditori ambulanti, prostitute, immigrati e altre incarnazioni del disordine è diventata parte essenziale dell’offerta politica di formazioni demagogiche come la Lega Nord o il Popolo delle Libertà. Questi partiti hanno infatti predisposto un “discorso” e segnato una direzione culturale, fattasi nel tempo autentica egemonia trasversale ai partiti e alle classi, che combina preoccupazioni economiche, motivi razzial-culturalisti e istanze di sicurezza. Com’è ampiamente noto, nel corso degli anni Duemila questi motivi – specie per gli aspetti correlati alla sicurezza – sono diventati parte integrante dell’offerta politica, a destra così come a sinistra. Un discorso, peraltro, che ha dato vita a forme di mobilitazione “civile”: comitati, movimenti e ronde caratterizzati dalla partecipazione di cittadini comunemente refrattari alle mobilitazioni, ma sensibili, nei termini di Foucault (2009), al richiamo della “guerra delle razze” e della contrapposizione delle orde. Per quanto occorra anche notare che simili casi sono stati tuttavia riscontrati in molte altre nazioni (Delanty e Kumar 2006). Questo processo induce a notare pertanto che le pratiche economiche informali possono giocare un ruolo diverso da quello strettamente economico. Se accostate, per esempio, all’immigrazione, esse possono diventare parte sostanziale di un discorso più generale intorno alle idee di ordine, società, cittadinanza e pena. Riprendendo ed estendendo un motivo classico della sociologia del diritto quale quello del “pluralismo giuridico”, teso a indagare i rapporti di reciprocità tra produzione normativa e società, potremmo anche dire che l’informale è parte di una guerra, vecchia tanto quanto gli ordinamenti materiali, che contrappone “diritto organizzato” e “diritto non organizzato” e che il primo “non riesce, nel suo schematismo riflesso, ad esprimere appieno il diritto non organizzato più dinamico e più ricco di

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contenuto” (Gurvitch 1957, 193). A condizione perciò di escludere qualunque formalismo, e aprendosi alla prospettiva di un “policentrismo giuridico” (Petersen e Zahle 1995) per il quale il diritto è in fondo sparso nella società, l’informale può costituire per i poteri pubblici uno spazio di apprendimento e di riforma della regolazione (Rios 2014; Mukhija e Loukaitou-Sideris 2014, 7). Per questi ultimi autori non è raro infatti che le soluzioni informali, in termini di organizzazione, modalità di erogazione dei servizi e impiego dello spazio siano frequentemente più razionali ed efficienti di quanto non lo sia la regolazione ufficiale, oppure di quanto potrebbero esserlo se la seguissero pedissequamente. E non essendo spesso neanche insicure, per esempio da un punto di vista sanitario (malgrado, naturalmente, molti casi anche di segno contrario), lo studio di queste attività, che rispondono ai bisogni sociali delle popolazioni a cui si rivolgono, oltre che a quelle degli imprenditori che le pongono in essere, potrebbe aiutare il legislatore a rivedere la regolazione svuotandola delle molte irrazionalità comunemente presenti. L’economia informale, insomma, appartiene tanto al reame della politica e della politica sociale, quanto a quello dell’economia e della punizione. La lotta contro le moderne classi pericolose è pertanto sia un conflitto relativo agli interessi, sia una lotta volta a imporre una condotta e fissare le gerarchie interne alla società (Foucault 2005). In tale prospettiva, l’economia informale può essere vista anche come un “campo sperimentale”: uno spazio sociale al quale applicare nuove e differenti forme di gestione del disordine, idonee a soddisfare i mutati bisogni delle élite. Uno sguardo a ritroso, mostrerebbe per esempio che la comparsa della prigione moderna a cavallo tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, l’improvvisa criminalizzazione di pratiche consolidate (per esempio l’ambulantato, la contraffazione, ecc.), i

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mutamenti dei sistemi di tassazione o l’applicazione dei principi liberisti alle economie “in via di sviluppo” sono solo alcuni esempi di tattiche introdotte in momenti diversi nell’evoluzione dei sistemi politici centralizzati e implementate per affrontare diversi tipi di informalità o per fronteggiare le nuove funzioni di vecchie e consolidate pratiche irregolari nel quadro delle trasformazioni economiche correnti. Tuttavia, questo modo di descrivere il fenomeno presenta dei limiti, in quanto continua a ritrarre l’informalità in termini essenzialmente duali: da un lato, infatti, si rinvengono lo Stato e le élite e, dall’altro, i “resistenti” (i poveri, i marginali, ecc.). Sebbene quest’immagine risulti abbastanza fedele alla realtà a seconda del momento e dello spazio prescelto per l’analisi – a condizione, cioè, di isolare le componenti in campo – i suoi elementi sono identici a quelli che compongono la “narrazione di Stato”. Ma abbiamo già visto in altre parti di questo stesso volume che, nei suoi termini più semplici, la nozione di legittimità è esattamente fondata su un codice binario e la contrapposizione di due forze di segno contrario: lo Stato (e coloro che stanno con esso e con le sue leggi) e gli “altri” (i cittadini infedeli, i nemici e tutti quelli che devono essere incapacitati). Una reale sovversione dei termini, allora, deve includere l’autorità nel novero dei soggetti che producono devianza e informalità. Il processo legislativo è uno dei canali attraverso cui tale devianza è prodotta, com’è stato peraltro suggerito da molti economisti impegnati nello studio dei sistemi fiscali (ma gli esempi e i contributi relativi ai modi in cui i processi legislativi producono devianza sono sterminati) (Frey 1989; Johnson, Kaufmann e Zoido-Lobaton 1998; Wintrobe 2001). Riferendosi all’ordine economico contemporaneo, Shapland (2009) ha notato che i paesi che hanno una maggiore probabilità di esperire la crescita di un’economia irregolare sono quelli in cui un’elevata tassazione

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su servizi e prodotti si accompagna alla diffusione di subappalti e alla esternalizzazione dei lavori, insieme a una regolazione inefficace e a un basso livello di controlli. Vande Walle (2008), in modo analogo, ha discusso le dinamiche generate dall’ingresso di aziende regolari in un mercato sostanzialmente informale come quello prodotte dalle Zone di libero scambio (Free Trade Zone), ossia da quelle aree franche esenti da barriere commerciali e a burocrazia ridotta, create da Stati e entità sovranazionali per alimentare i traffici all’interno di aree depresse. Ideate al fine di rendere dinamici territori ritenuti statici, queste aree diventano rapidamente franche anche con riferimento ai livelli di sfruttamento e ai diritti garantiti ai lavoratori, con la connivenza degli enti istitutori. E come tacere il fatto che quello dell’informalità è anche lo spazio dell’arbitrio e dell’abuso? Lo spazio, cioè, dentro cui non le élite, ma i “burocrati di strada” (Lipsky 1980), ossia i semplici operatori della giustizia, possono muoversi con altrettanta ufficiosità, seguendo i propri convincimenti, convenienze e ideologie (Bacon 2013). Dinanzi ai traffici, infatti, essi possono decidere di lasciar correre, per semplice umanità, in cambio di qualche soldo o di informazioni utili; oppure possono decidere di compiere il proprio dovere e anche più, vessando, picchiando e abusando in nome della legge che essi stessi rappresentano (Smith e Grey 1983; Waddington 1999; Fassin 2013; Goffman 2014). A ogni modo, il ruolo dello Stato nel generare devianza non si limita alla legislazione e ai modi di applicazione delle regole. Qualsiasi trasformazione dei termini del discorso deve infatti chiarire che lo Stato e le élite rappresentate dentro i luoghi della regolazione sono spesso esse stesse informali e devianti. Una seria analisi dell’informalità dovrebbe dunque far luce sui legami che connettono le istituzioni a ristretti circoli economici. Bandi per la costruzione di infrastrutture o forniture di servizi,

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appalti e subappalti, commissioni per l’acquisto di armamenti, l’organizzazione dei cosiddetti «grandi eventi» (gare sportive, cerimonie religiose, ecc.) o la gestione dei disastri sono alcuni dei settori dove, storicamente, gli interessi pubblici e privati si incontrano, collidono e vengono armonizzati in modi che non sempre coincidono con il bene comune (Klein 2007). In conclusione, per decenni o forse secoli le scienze sociali hanno osservato voyeuristicamente i poveri e supportato visioni fondamentalmente paternalistiche dell’organizzazione sociale (Wacquant 2002). Una piena inclusione dei poteri pubblici tra i soggetti da sottoporre a un severo scrutinio è pertanto un passo necessario al fine di destrutturare sia il discorso d’ordine proposto dalle élite che le nozioni di legittimità e legalità. Studiare l’informalità e le resistenze di chi è collocato nei piani bassi della gerarchia sociale, dunque, non dovrebbe essere un modo di scavare nella “cultura della povertà” o in qualsiasi altro aspetto che rappresenti una riattualizzazione di quella trascorsa stagione delle scienze sociali passata alla storia grazie a libri problematici ma ugualmente monumentali come La Vida (Lewis 1966), ma un modo per mettere a nudo gli intrecci e i rapporti reciprocamente parassitari che intercorrono tra la “città e le sue ombre”, tra l’ufficiale e il sommerso (Dal Lago e Quadrelli 2003). 6. Riepilogo In un illuminante libro sulla città informale che ci guiderà attraverso queste conclusioni, Laguerre (1994, 24) nota che “l’informalità urbana fornisce un corridoio per la protezione del Sé contro le strutture regolative”. Tuttavia questo è un punto di vista ottimistico che non tiene conto del fatto che l’informalità può anche essere una

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trappola. Può essere cioè lo spazio in cui si rinvengono modi di sfruttamento che riproducono quelli del settore formale, senza traccia di resistenza e libertà. Tuttavia, nonostante i suoi rischi, l’informalità contiene certamente la possibilità di una liberazione “non tanto da una certa classe o da un gruppo, ma dalle forme del potere che negano l’individualità” (Laguerre 1994, 2). Soprattutto, però, “i significati [dell’informalità] possono essere costruiti nei termini sia della sua genealogia che delle sue relazioni con le condizioni contestuali del sistema formale” (ibidem). Ciò significa, tra le altre cose, che alcune attività sono informali perché non esistono regole che possano regolarizzare certe attività. Mentre altre sono informali proprio perché vi sono norme che pongono le condizioni affinché ciò avvenga, oppure che ne impediscono esplicitamente l’emersione. Laguerre (1994, 7) definisce altresì l’informalità come una struttura d’azione, che richiede: a) l’esistenza di un luogo dove condurre un lavoro (casa, strada, negozio e, oggi, anche soltanto un sito web); b) degli attori, la cui azione sia interamente o parzialmente informale; c) un sistema formale che si distingua dall’altro, rendendo quest’ultimo informale per definizione; d) l’intenzionalità di evadere e aggirare i sistemi fiscali e di regolazione per necessità, per il rifiuto di sottomettersi alle imposizioni o per motivi ideologici. Tuttavia occorre stare attenti a non inquadrare l’informalità in una prospettiva unicamente conflittualista poiché la presenza di limitati gradi di informalità appare cruciale anche per le organizzazioni formali, siano esse di tipo politico-sociale che economico. I rapporti economici così come quelli meramente “relazionali” tra individui e aree interne alle organizzazioni ufficiali presentano quasi sempre gradi anche minimi di irregolarità, necessari a fare funzionare più speditamente il sistema, rilasciare la

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tensione, oppure attivi come spie che segnano l’impossibilità di potere davvero controllare ogni singola funzione. In ogni caso l’informalità è prima di ogni altra cosa una costruzione sociale, esposta ai mutamenti della legislazione e alla prevalenza dei costumi e delle “funzioni” in dati momenti storici. Ciò che è illegale in un certo momento, può cessare di esserlo in altri, determinando così l’emersione e la regolarizzazione di interi settori. Wallerstein (1976, 58), del resto, ha mostrato con soddisfacente chiarezza che il modo capitalista di produzione ha determinato l’informalizzazione delle attività economiche domestiche di tipo tradizionale. Ugualmente, nelle colonie le attività economiche indigene hanno subito lo stesso destino. Tale processo ha determinato, in patria come nelle colonie, l’informalizzazione di fatto delle minoranze e la loro criminalizzazione. In questa prospettiva la “genealogia del sistema informale non può essere compresa al di fuori della cornice della genealogia del sistema formale” (Laguerre 1994, 17). Come abbiamo notato ripetutamente, l’informale appare dunque in stretta relazione con il formale. Su un piano collettivo, le comunità (aree, quartieri e minoranze) definite informali dai gruppi dominanti sono, in un certo senso, prodotte da questi ultimi al fine di gestire le relazioni dei gruppi devianti con le istituzioni formali. La tolleranza dei poteri verso questi spazi irregolari è il segno di una loro funzionalità manifesta o latente. Proprio “perché è così tanto legato alla dimensione formale, lo spazio informale non è solo una costruzione sociale, ma anche un fenomeno politico” (ivi, 42). Un fenomeno, cioè, che pur nascendo per effetto di una volontà assoggettatrice, produce reazioni, emozioni e saperi che si contrappongono alla volontà creatrice o che si pongono con essa in un rapporto non cooperativo. Nei termini di Scott (1990, 108 sgg), lo spazio dell’informale tende così a divenire l’espressione di una “cultu-

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ra dissidente”: una cultura non troppo diversa da quella dominante, ma differente abbastanza da non assomigliarle e generare altresì in chi vi appartenga una gamma di sentimenti negativi determinati sostanzialmente dalla percezione di un’umiliazione. Ed è a questo punto che lo spazio informale può diventare il luogo di una “politica” subalterna che si esprime attraverso linguaggi, idee, passioni e, soprattutto, pratiche radicalmente o anche soltanto parzialmente differenti da quelle dominanti. Passioni e pratiche fondate in ultima istanza sull’opposizione e, con vari gradi, l’illegalità. Quelle, per l’appunto, che chiamiamo resistenze.

CAPITOLO TERZO

Spazio pubblico, terreni della resistenza

1. Spazio, zeitgeist, lotta Spazio pubblico è il nome polisemico di un “luogo”, insieme fisico e virtuale, al cui interno si compiono differenti lotte che hanno come posta l’ordine sociale. È cioè il terreno per lo più fisico, ma non soltanto tale, che i poteri pubblici, privati oppure tra loro “combinati” cercano di controllare e regolare, sottraendolo forzatamente o negoziandone l’uso nel corso di dispute che hanno come controparte quella cittadinanza che impiega lo stesso terreno sulla base di consuetudini e aspettative strutturatesi nel tempo e in analogia con pratiche passate. La dettagliatissima ricostruzione storica ed etnografica di Dines (2012) sulla lotta dell’amministrazione Bassolino negli anni Novanta del secolo scorso per la “riconquista” di Piazza Plebiscito e Piazza Garibaldi in una Napoli assediata da venditori ambulanti, immigrati, scugnizzi e automobilisti indisciplinati è un esempio tra i tanti di questa lotta. Quella Giunta fautrice del “rinascimento napoletano” – così come una entusiastica retorica giornalistica, in cui confluivano motivi forse “post-orientalisti” su un Sud votato al riscatto, definì i cambiamenti contemporaneamente in atto nella città del Vesuvio, oltre che a Reggio Calabria, Catania e Palermo – fu una esem-

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plare giunta neoliberista, munita di un assessorato “alla normalità”, che segnò più di tante altre la conversione della sinistra italiana al nuovo modello di città sicuritaria basata sull’occultamento del disagio sociale e la patrimonializzazione dei centri storici. Lo scontro in atto in quegli anni verteva sull’uso dello spazio pubblico e la necessità di rendere “conformi” aree significative per l’immagine della città come le due piazze summenzionate. Sarebbe a dirsi che le tensioni erano il risultato di una battaglia amministrativa volta a rendere quelle piazze soggette a un nuovo e vitale processo di simbolizzazione, libere dalla presenza indesiderata, perché non compatibile con una certa idea di modernità e civiltà, di elementi “eccedenti”. Questa lotta – come molti conflitti analoghi – vide contrapporsi la Giunta, i piccoli esercenti contrari alla pedonalizzazione della Piazza e delle vie adiacenti e, naturalmente, gli eccedenti stessi: gli automobilisti, i venditori ambulanti e gli immigrati, tutti impegnati in un sottile gioco tattico durato molto tempo e consistente nel perdere e riguadagnare quel terreno che il potere locale ciclicamente sottraeva e concedeva, per distrazione, temporanea stanchezza o altro. Una lotta condotta, a seconda dei posizionamenti e dello status individuale e di gruppo, sul filo delle interpellanze consiliari e quindi della rappresentanza politica, su quello giornalistico e mediatico e, infine, su quello delle pratiche; ossia sulla ripetizione di comportamenti legati a un’idea sociale di uso dello spazio per fini legati al tempo libero o alla sussistenza. In questa prospettiva lo spazio pubblico è, tra molte altre cose, il milieu in cui si scontrano idee relative alla modernità proprie di chi detiene il potere in un momento dato – insomma, lo zeitgeist secondo le élite e i gruppi d’interesse “locali” (per meglio dire, di quei gruppi di potere impegnati ad adattare istanze, mode e tendenze configuratesi altrove) – e le pratiche e i bisogni di chi vive i luoghi.

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E nonostante risulti quantomeno parziale leggere questa relazione unicamente in termini di scontro, senza sottolineare l’importanza delle convergenze, degli usi tattici e delle funzioni latenti che i provvedimenti celano, è utile ricordare quel che avevamo notato in apertura a questo testo: e cioè che lo spazio politico contemporaneo – o forse semplicemente moderno, come potremmo dire sulla scorta di Foucault (2005) – si caratterizza per la sua “assolutezza” e la sua tendenza a “patologizzare” le istanze eccedenti. La storia dello spazio pubblico si presta insomma a essere letto come un campo di battaglia e di resistenze giocate, come sempre, sul filo delle asimmetrie. E della negazione. La negazione del pubblico, per l’appunto. 2. Uno spazio negato Come nota Pask (2010, 229 sgg.) nella letteratura internazionale il termine “spazio pubblico” ha fatto la sua apparizione in tempi relativamente recenti, con impieghi diversi da quelli attuali. Nei suoi usi precedenti più comuni esso indicava uno specifico oggetto – per esempio una piazza, un parco, una strada, un percorso naturalistico – meritevole di salvaguardia e attenzione nell’interesse generale. Senza smarrire questa valenza originaria, ma estendendola, il termine ha preso a indicare l’accessibilità a un luogo, in relazione alla sua proprietà, agli ostacoli ai suoi impieghi e alla libera fruizione per tutti. Altresì ha finito con il divenire un sinonimo di “foro” o “arena pubblica”, denotando così un particolare tipo di presenza e modo di esercizio della cittadinanza nello spazio della comunità politica. In continuità con quanto notato poco sopra e riprendendo il tema della disneyzzazione della città, Amster (2004, 57) osserva che la città “tematica”, una delle molte

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declinazioni possibili della città neoliberista, si caratterizza per: la dissipazione di tutte le relazioni stabili con la geografia fisica e culturale locale e l’imposizione di un urbanismo generico, che si sviluppa secondo linee globali e innesti; la creazione di aree urbane specializzate, ricalcate per lo più su modelli televisivi e patinati; l’ossessione con la sicurezza, la sorveglianza e la creazione di spazi sempre meno promiscui e socialmente differenziati e, infine, una restrizione della pratica politica (“non vi sono manifestazioni a Disneyland”). Mentre questo quadro appare sicuramente compatibile più con i centri urbani statunitensi e le grandi città globali che le realtà sud-europee, è indubbio riconoscere in esso molti temi comuni alla città italiana. Le ossessive campagne leghiste e berlusconiane degli anni Novanta e Duemila contro i venditori ambulanti o i graffitari, la diffusione delle telecamere, la creazione di aree pedonali incentrate su tipologie commerciali di livello medio-alto, una socialità incentrata sul consumo e gli aperitivi, le periodiche proposte di vietare le manifestazioni nel centro storico di Roma e, talvolta, di altre città minori fanno parte di un processo isomorfico che vede la periferia inseguire il centro sul piano delle aspirazioni, sia pure con importanti differenze dettate dalle caratteristiche locali. Attingendo da una mole di studi sul tema della privatizzazione dello spazio, Amster (2004, 58) continua notando che le città presentano in modo crescente aree quasi del tutto prive di uno spazio realmente pubblico, oppure organizzate in modo tale da scoraggiare la formazione o l’esercizio di una dimensione autenticamente tale. Nella letteratura specializzata internazionale, così come nelle cronache, si rinvengono molteplici casi di soggetti allontanati da aree commerciali e “pubbliche” per avere indossato magliette con slogan politici, per non avere un aspetto e un abbigliamento giudicati consoni oppure per avere indugiato nello spazio secondo le modalità di un

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“bivacco” (stando per esempio seduti sul marciapiede o sulle scale di una chiesa o un palazzo). Se i grandi centri commerciali statunitensi, i mall, costituiscono un modello estremo di questo concetto, qualcosa del genere avviene anche nelle aree turistiche di città come Pisa, esposte a consolidati processi di patrimonializzazione, così come mostra un’interessante ricostruzione di Bellinvia (2013) incentrata sulla lotta dei commercianti del centro storico contro gli ambulanti africani e analoghe incarnazioni fisiche del “degrado”. Ma l’esempio più eclatante è costituito probabilmente dalle stazioni ferroviarie italiane – prime tra tutte quelle di Roma e Milano – con il loro esercito misto di poliziotti regolari e sorveglianti privati. Non è infatti un caso che solitamente i sottopassaggi e le aree propriamente commerciali dentro quelle stazioni appaiano oggi pressoché prive di presenze “irregolari” stabili, come tossicodipendenti e barboni impegnati a elemosinare, immigrati occupati a vendere, oppure attivisti politici indaffarati a distribuire volantini; e anche che l’attenzione delle forze dell’ordine pubbliche e private si concentri in modo privilegiato su queste categorie allorché si affacciano negli anfratti che ospitano negozi e boutique. Il punto, come nota Kohn (2004, 8) in un sofisticato libro che unisce motivi sociologico-giuridici, filosoficopolitici e urbanistici, è che il termine “pubblico” è di uso assai problematico. Per esempio, in alcuni contesti le espressioni “pubblico” e “privato” denotano la differenza tra Stato e famiglia, mentre in altri sono sinonimi rispettivamente di Stato e mercato. I teorici politici influenzati da Hannah Arendt usano la parola “pubblico” per descrivere la comunità politica, distinta da quella economica, dalla famiglia e persino dagli apparati amministrativi dello Stato. Altri, infine, la impiegano per descrivere la platea dinanzi a cui, alla maniera di Goffman, si dispiegano rappresentazioni sociali del Sé.

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Questa polisemia rende difficile tanto una definizione del termine “pubblico” quanto l’individuazione di oggetti a cui applicare eventualmente questa stessa definizione. Per esempio se riferiamo l’espressione “pubblico” a un edificio, col fine di suggerire che esso è aperto e accessibile, potremmo scoprire che molti edifici pubblici non lo sono affatto. I palazzi che ospitano ministeri, direzioni delle amministrazioni dello Stato e le infrastrutture militari sono di proprietà dei governi, o comunque condotti da essi, ma non sono accessibili alla maggioranza dei cittadini. Al contrario i locali pubblici come i bar non sono di proprietà dei governi, ma sono, per lo meno teoricamente, accessibili a tutti. Il punto, allora, è che i reami e le pratiche del pubblico e del privato appaiono intrecciati. Non è dunque un caso che Kohn (2004, 9) suggerisca che per definire pubblico uno spazio occorra distinguere la proprietà, l’accessibilità e l’intersoggettività. Infatti negli impieghi comuni, a cui abbiamo peraltro già fatto riferimento poco sopra, uno spazio è pubblico quando è di proprietà di un governo, è accessibile a tutti e consente la comunicazione e l’interazione. Ma tornando all’esempio delle stazioni e dei mall, il problema che rinveniamo è che questi sono sempre più caratterizzati da una “privatizzazione ombra” (Amster, 2004, 60), caratterizzata da partnership pubbliche e private e da contradditori accordi che fanno sì che la gestione degli spazi pubblici siano trasferiti a soggetti privati o semi-privati, attraverso una finzione giuridica che fa sì che questi stessi spazi siano da considerarsi “quasi pubblici” o, per meglio dire, sospesi in una sorta di limbo in cui vige più che mai la discrezione e in cui il controllo è, non a caso, sia pubblico che privato. In questa prospettiva lo spazio “pubblico” può essere in realtà un luogo di esclusione. Il fenomeno, come osserva Dines (2012, 89 sgg.), non è affatto nuovo.

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Sin dai tempi della civiltà ellenica classica, l’agorà, così centrale per la narrazione democratica, appariva come il luogo fisico del dibattito pubblico in cui la cittadinanza era costruita in opposizione agli stranieri e alle nonpersone (donne e schiavi). In questo senso, lo spazio per eccellenza della democrazia era in realtà la “comunità dei non esclusi”. E per secoli differenti categorie di individui hanno visto rifiutarsi l’accesso in ragione di motivi razziali, disabilità, genere o classe. Tuttavia, per soffermarci solo su un paio di temi tra i tanti possibili, così come si evince dalla lettura di Rendell (1998) e Gleeson (1998), nel tempo donne e disabili hanno saputo conquistarsi l’accesso a differenti spazi pubblici, come quello della strada e del lavoro, da cui erano proverbialmente esclusi. Con questo intendo dire che quello spazio pubblico così soggetto a tensioni e conflitti è stato a momenti uno spazio aperto o quantomeno “apribile”, in cui peraltro un’infinità di attività oggi considerate illegali erano possibili. E se queste trasformazioni ci parlano di mutate sensibilità, di mestieri scomparsi, di nuove garanzie e diritti, di una nuova attenzione per la sicurezza del lavoro e dell’ambiente, oppure degli sviluppi della tecnologia applicata alla produzione di beni e servizi, esse suggeriscono altresì che quella che abbiamo visto declinare negli anni è “‘l’abbandono delle utopie rivoluzionarie’ [...] il rigetto della politica e uno ‘scetticismo disincantato’” (Chauí 2011, 25 sgg.) da parte di coloro che, collocati in una certa posizione nella geografia del foro politico, avrebbero dovuto secondo le attese preservare il comune e che, invece, si sono sforzati di congiungere i valori socialisti (e del pubblico) con il capitalismo. In questa prospettiva, nota ancora Chauí (2011, 26) il restringersi di uno spazio universalmente aperto denota, prima di tutto, l’impossibilità di formulare un discorso pubblico. Dopo di che, vi è certamente l’aspetto “fisico”: per l’appunto quello che si manifesta nel declino dello spazio piena-

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mente pubblico e nella crescita di quello privato oppure “ibrido”, alimentato dagli imperativi di quella forma di accumulazione, al contempo vecchia e nuova, conosciuta come neoliberismo. Una forma di accumulazione e, insieme, un’ideologia e una forma di presenza nello spazio collettivo che ha l’importante caratteristica di trasformare i cittadini in consumatori. Secondo un progetto originario, e ormai tramontato, la democrazia avrebbe dovuto consolidare una cittadinanza quanto più inclusiva possibile, mentre la partecipazione di questi stessi cittadini alla lotta politica avrebbe dovuto costituire uno strumento per la creazione di un contropotere sociale e diffuso, volto a creare e a garantire diritti. Nel momento in cui i diritti vengono privatizzati e trasformati in servizi acquistabili e vendibili come delle merci qualsiasi (sanità e istruzione sono solo gli esempi più marchiani), la democrazia è mortalmente ferita e la depoliticizzazione del sociale appare come un necessario esito di tale processo. Da queste osservazioni si evince che la proprietà e l’accessibilità allo spazio non possono costituire da sole le qualità distintive dello spazio pubblico (Kohn 2004, 10). Una più piena comprensione richiede un’analisi del tipo di relazioni rese possibili dallo spazio. In questa prospettiva, inseguendo motivi habermasiani e debordiani, ciò che la stessa Kohn chiama “intersoggettività” non potrebbe svilupparsi in quegli spazi di consumo che generano forme di isolamento collettivo, siano essi cinema, stadi o centri commerciali, ma solo in quelli in cui è possibile divenire co-creatori di un mondo, attraverso l’esercizio della parola e di forme di intervento diretto sullo spazio. Luoghi come sono tipicamente i centri sociali occupati, oppure come dovevano esserlo quelle osterie e café del Sette-Ottocento europeo in cui si pianificavano le ribellioni e che i governi europei non a caso posero sotto attacco col pretesto della lotta all’alcol (Holt 2006).

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Questo tratto emerge con grande chiarezza nell’interessante comparazione che Simon (2009, 102 sgg.) fa tra quest’ultimo tipo di spazio pubblico e caffetterie come per esempio Starbucks. Nel ritrovo pubblico ricalcato sul modello della coffeehouse britannica ottocentesca gli avventori sedevano vicino, con pochi filtri legati al ceto o alla classe. Considerato il basso costo del caffè – appena un penny – questi spazi favorivano la lunga permanenza di clienti appartenenti a differenti strati sociali e fungevano da luoghi di riunione, discussione di temi pubblici e centri di trasmissione culturale, al punto di divenire noti nel linguaggio comune come penny university. Essi erano, come si è detto, spazi dell’agitazione, della consapevolezza e di pianificazione della rivolta. Riferendosi invece a Starbucks, e prendendo a prestito un espressione di Baudrillard, Simon (2009, 118) afferma che quei locali, e una miriade di altri posti non necessariamente appartenenti a catene commerciali, ma ciò nondimeno ricalcate sul modello di spazio “pubblico” proposto da questo tipo di compagnie, sono simulacri: riproduzioni di modelli che non svolgono alcuna delle funzioni dell’oggetto originale. Essi riproducono l’immagine della coffehouse, ma vendono in realtà isolamento. Il design dello spazio, la forma dei tavoli e una molteplicità di ulteriori elementi sono finalizzati a produrre forme di consumo solitario o comunque privato. I clienti vanno da Starbucks per stare soli, forse “soli in compagnia”, oppure per avere discussioni riservate; ma non per incontrare sconosciuti o parlare di cose pubbliche. In una curiosa analogia col Fascismo o altri regimi ugualmente autoritari, volantini, riviste e materiali di argomento politico, religioso oppure relativi a temi altrettanto sensibili sul piano pubblico sono apertamente banditi da questo tipo di locali. Starbucks e tutti gli altri spazi ideati per produrre analoghi tipi di esperienza legata al consumo e all’uso del tempo servono a suggerire qualcosa riguardo sé stessi – per esempio l’a-

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desione a un’estetica metropolitana – ma non a favorire l’ascolto, la circolazione di idee e la connessione tra individui e classi. In tale prospettiva, avvertitamente o meno, la pianificazione di spazi che neghino il “pubblico” trasformandosi primariamente in luoghi di transito e consumo, oppure di stazionarietà individualista diventa, ancora prima che un obiettivo commerciale razionale, una pratica politica fondamentale di produzione di ambienti e, in qualche misura, tipi umani “non-pubblici”.1 3. Pianificazione In un libro assai istruttivo a cui abbiamo già fatto riferimento, Scott (1998) osserva che il “progetto” dello Stato moderno è essenzialmente volto alla conoscenza del territorio e delle popolazioni: si tratta di ciò che egli chiama un progetto di “leggibilità”, volto insieme a produrre e cartografare (“mappare”) lo spazio. E non è del resto un caso che Abbott (2008, 276) possa raccontare che quando l’architetto e pianificatore Daniel Burnham preparava il suo piano per San Francisco nei primi anni del ventesimo secolo, lavorasse da uno studio collocato in cima a Twin Peaks, dominando il panorama dell’intera città. Ma dal punto di vista della visione e della proiezione, oltre che da quello utopico di una estensione delle tipologie di persone potenzialmente coinvolgibili nella 1

Per quanto le persone possono evidentemente fare usi imprevedibili dello spazio ed è dunque possibile che luoghi come per esempio i McDonald possano diventare spazi pubblici per gruppi particolari come per esempio le donne immigrate, le quali possono prendere a utilizzarli per svagarsi nel tempo libero, ma anche per fare circolare informazioni, notizie, etc. Questo non sarebbe esattamente un uso pubblico, ma qualcosa che limita comunque l’assolutezza degli enunciati precedenti. Ringrazio Pierpaolo Zampieri per questa notazione, tratta peraltro da un lavoro non pubblicato di Angela Bagnato sul McDonald di Reggio Calabria.

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progettazione, appaiono ben più impressionanti l’apporto e la capacità delle moderne tecnologie di disegno e pianificazione così come descritte da Levy (1998). Se come dice Sudjic (2012, 9) l’architettura è un’arma, la pianificazione non è da meno. Il controllo dei processi di formazione, riscrittura e sviluppo della città ha perciò impegnato molto élite e pianificatori a partire almeno dall’Ottocento: gli esempi classici e ormai banali di Brasilia, della Parigi del Barone Haussmann o della Chicago successiva al “grande incendio” testimoniano gli estremi dell’invenzione e della reinvenzione della città per fini di controllo, speculativi, monumentali oppure celebrativi di una rinascita successiva a una catastrofe (Pinkney 1972; Holston 1989; Rabinow 1989; Sawislack 1995). La pianificazione e le successive regolazioni volte a colmare le lacune o ad adattare gli spazi ai nuovi interessi e sensibilità emersi nel tempo interpretano un ruolo decisivo per la produzione dello spazio e della vita ivi contenuta. Come nota Thorns (2002, 178 sgg.) la vicenda della pianificazione come ideale e pratica professionale e politica è tutt’altro che lineare. In generale, e solamente limitandoci al Novecento, essa ha attraversato tre fasi. Essa è stata vista inizialmente come parte dell’agenda dei riformatori sociali interessati a fronteggiare i problemi della rapida e crescente urbanizzazione che ha investito la città europea e americana nei primi decenni del secolo scorso. Lo sviluppo dei piani regolatori, delle normative e degli apparati burocratici di controllo e programmazione su scala nazionale e locale, attraverso processi che sono stati anche di tipo emulativo, è parte di questo progetto. La seconda fase è quella emersa a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che possiamo definire di critica della pianificazione, tesa a sottolineare gli aspetti conservatori della programmazione con riferimento alle differenze di classe e potere. La terza fase, emersa a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è per lo meno bicefala,

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divisa com’è tra la ricerca di una sostenibilità ambientale universalista e istanze neoliberiste. Queste ultime – in generale prevalenti nella pratica – hanno posto rinnovata enfasi sul mercato come luogo dell’allocazione di beni e servizi, inclusi terra, edifici e infrastrutture urbane. Secondo Thorns (2002, 188) osserviamo la riduzione degli spazi a disposizione di un’idea di pianificazione intesa come intervento e controllo sulle attività imprenditoriali, a tutto vantaggio di orientamenti volti a inseguire modelli di trasformazione e rigenerazione guidati dal settore privato. In questa cornice la pianificazione diventa un servizio alle imprese e ai ceti connessi – gli stessi, peraltro, responsabili dei mali che la pianificazione dovrebbe correggere. In modo più estremo, potremmo dire anche che la pianificazione diventa un servizio fornito dagli investitori privati a beneficio in primo luogo di sé stessi. E se è vero, come osserva Dines (2012, 92), che certe ricostruzioni apocalittiche non trovano riscontro nelle realtà decentrate perché ispirate dagli spazi iconici della città americana posta ai limiti estremi della ristrutturazione capitalista (qualcosa, peraltro, che si potrebbe affermare di questo stesso libro), è anche vero che il caso milanese dell’Expo 2015, con la sua moltitudine di grattacieli destinati verosimilmente a restare deserti, sembrerebbe confermare, se mai ve ne fosse bisogno, uno spostamento di quel modello verso la “periferia” decentrata del nuovo capitalismo. E giusto per prevenire possibili obiezioni, è utile rimarcare che non bisogna enfatizzare oltre modo l’efficacia della pianificazione, dacché le lotte prendono spesso le proprie mosse a partire dai processi di riordinamento e pianificazione dello spazio. Storicamente gli sventramenti di Roma o il rifacimento di Milano sono altrettanti esempi di queste lotte generatrici di borgate e di popolazioni improvvisamente in eccesso che vanificheranno gli sforzi di scrittura e pianificazione (Ferrarotti 1970; Bortolotti

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1978). Tuttavia, come osservano Pile, Brook e Mooney (1999, 2) aree differentemente segregate e deliberatamente isolate come le gated community e i “ghetti” di Los Angeles, Johannesburg o San Paolo (o, per quel che ci riguarda, la Roma di Pierpaolo Pasolini o Walter Siti) sono in realtà estremamente porose e poste in comunicazione tra loro per ragioni economiche (la manodopera di basso profilo dei servizi risiede solitamente nelle aree periferiche e svalutate) o per via di quegli scambi illeciti che, come abbiamo osservato altrove, connettono la “città e le ombre”. Senza tenere in conto, inoltre, i processi di “de-cartograficazione” (unmapping) che caratterizzano la città neoliberista, rendendola esposta a complessi e concatenati fenomeni di deterioramento e speculazione rigenerativa (Roy 2004, 155). Una tendenza che Roy identifica nella nuova Calcutta, ma che in realtà contraddistingue un ampio numero di città sparse nel mondo, così come, per esempio, Messina, la città post-sismica in cui questo libro prende forma e in cui il patrimonio immobiliare pubblico è per una parte significativa sconosciuto alla sua amministrazione. Senza contare l’enorme presenza di uno spazio “residuale”, frutto di una cattiva pianificazione, che si traduce in spazio inutilizzato, sottoutilizzato e dimenticato (Franck e Stevens 2007). Tuttavia, prendendo a prestito le parole di Holston (1989, 5) e forzandole in parte, è arduo esimersi dall’osservazione che vi sono molto più che delle affinità “tra il modernismo come un’estetica della cancellazione e della riscrittura e la modernizzazione come un’ideologia dello sviluppo in cui i governi, senza curarsi di persuadere i cittadini, cercano di riscrivere le storie nazionali”. Storie come quella della Napoli bassoliniana rammentata in apertura di capitolo si collocano così tra questi estremi e all’interno della dinamica individuata da Holston: pur non cancellando i palazzi, i “poteri” provano a selezionare le forme di vita racchiusa negli spazi, inseguendo le di-

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verse ideologie del presente che si succedono nel tempo e tentando di reprimere il passato. 4. La difesa dello spazio pubblico Non è un caso che Hou, sulla base di una nutrita letteratura, avverta che lo spazio pubblico verte sempre in una sorta di stato di emergenza e che “la lotta è il solo modo affinché il diritto allo spazio pubblico sia mantenuto” (Mitchell 2003, citato in Hou 2010, 7). Tali “lotte” rappresentano ciò che nel corso di questo libro chiamiamo resistenze e che, in riferimento allo spazio pubblico, secondo Hou (2010, 13 sgg.) assumono le forme: – dell’appropriazione, che indica i modi attraverso cui i significati, la proprietà e la struttura dello spazio pubblico “ufficiale”, quello sancito cioè dalla legge, possono essere temporaneamente o permanentemente sospesi; – della rigenerazione, allorché gli spazi fisici abbandonati o sottoutilizzati possono essere reimpiegati per nuovi usi e funzioni; – della pluralizzazione, riferita al modo in cui le differenti componenti dell’immigrazione trasformano il significato e le funzioni dello spazio pubblico, producendo una sfera pubblica maggiormente eterogenea; – della trasgressione, volta a infrangere per mezzo dell’occupazione temporanea i confini ufficiali tra pubblico e privato, così come a intervenire sulla produzione di nuovi significati e relazioni; – dello svelamento, volto alla produzione e alla riscoperta dello spazio pubblico attraverso la reinterpretazione dei significati nascosti o latenti e delle memorie presenti nel paesaggio urbano; – della contestazione, intesa nel senso più classicamente ed esplicitamente politico della lotta per gli usi, i significati, i diritti e le identità nel reame del pubblico. Gli individui e i gruppi impegnati in queste forme di resistenza costituiscono almeno in parte un “contro-

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pubblico subalterno” (Fraser 1990, 67), ossia “un’arena discorsiva parallela in cui gli appartenenti a gruppi sociali subordinati producono e diffondono controdiscorsi che permettono loro di formulare interpretazioni oppositive delle loro identità, interessi e bisogni” (Id. 1990, 81). Tuttavia, in modo non diverso da quanto avviene nel caso di quelle economie informali poste al centro del precedente capitolo, in questa circostanza lo scenario è più articolato e le resistenze nello spazio pubblico coinvolgono anche gruppi sociali che non sono esattamente subalterni e che dispongono di strumenti discorsivi, relazioni e capacità di influenza diversi e più visibili. Se, come vedremo meglio innanzi, il “controdiscorso” dei subalterni si traduce soprattutto in pratiche di invasione dello spazio pubblico, quello delle classi privilegiate si accompagna in misura maggiore ad azioni di comunicazione e a relazioni con i media. Se di solito l’azione dei subalterni tende – se non all’invisibilità – a una visibilità ridotta, quella delle classi anche soltanto relativamente privilegiate mira più spesso alla massima riconoscibilità possibile. Gli occupanti di case e i venditori ambulanti nell’Iran post-rivoluzionario magistralmente descritto da Bayat sono un esempio del primo tipo e appaiono dediti, non a caso, alla “tranquilla invasione dell’ordinario” (the quiet encroachment of the ordinary, nella definizione originaria dell’autore), ossia “un silenzioso, paziente, protratto e pervasivo avanzamento della gente comune sui possidenti e i potenti, col fine di sopravvivere alle avversità e migliorare le proprie esistenze” (Bayat 1997, 7). Le casupole edificate dal nulla, le baracche munite di allacci irregolari alla linea elettrica pubblica, le bancarelle, i negozi del tutto irregolari e improvvisati che sorgono lungo le strade secondarie sono altrettanti esempi di una mobilitazione pacifica, atomizzata e continua che assume solo raramente la forma di un’azione collettiva contro le

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minacce incombenti e che procede senza una chiara leadership, ideologia od organizzazione, eccetto quelle che scaturiscono spontaneamente e secondo le modalità “intime” che abbiamo discusso nel corso del primo capitolo. Un modello per nulla dissimile da quanto rinvenuto nel Meridione d’Italia, dove, anche quando il mondo subalterno incrocia la politica, ciò avviene, per impiegare la formula già vista di Hobsbawm, più spesso con l’intento di “lavorarsi il sistema” che per un’autentica adesione ideologica a un progetto (Farinella e Saitta 2013). Esemplare in questo senso il memoriale di Vincenzo Rabito (2007), il contadino siciliano semianalfabeta autore di uno splendido diario che attraversa gran parte della storia del Novecento italiano, il quale, seppure di sentimenti socialisti, nel corso di differenti stagioni non esiterà a farsi fascista e democristiano per navigare nelle turbolenze dell’Italia in perenne transizione. Molto diverso è il caso dei centri sociali, dei teatri occupati, dei comitati civici e di analoghe forme di “insorgenza” urbana. Per quanto la composizione sociale di queste ultime realtà non sia prevalentemente di tipo egemone, essa è sovente variegata, include in molti casi elementi appartenenti a classi medie e superiori e si esprime secondo modalità solitamente precluse ai subalterni. Se è certamente possibile dire che le differenze tra le due tipologie di mobilitazioni e illegalismi sono incentrate sulla natura delle rivendicazioni e delle tecniche per mezzo delle quali queste sono avanzate e, inoltre, che è la presenza di una ideologia compiuta a costituire un importante marcatore della distinzione, ciò non permetterebbe di cogliere le ulteriori differenze che si rinvengono nei modi attraverso cui le varie pratiche sono definite e interpretate dal “sistema”, a partire dal capitale sociale e culturale a disposizione di chi pratica le diverse illegalità. Per quanto, sotto il profilo della repressione, gli anni

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Duemila abbiano visto il venire meno di classiche forme di negoziazione nella gestione del disordine (Della Porta e Reiter 2003; Fernandez 2008), i movimenti sociali si alimentano in genere della relazione con il pubblico da mobilitare, dell’etica implicita nelle rivendicazioni (per quanto spesso illegali) e, nel caso di alcuni di essi, delle relazioni privilegiate intrattenute con il mondo della cultura o dello spettacolo, oltre che del capitale sociale, a volte di tipo familiare, da impiegare per accedere ai canali istituzionali. E se è vero che non tutti i movimenti dispongono delle risorse simboliche a disposizione di esperienze come per esempio il Teatro Valle di Roma,2 è altrettanto vero che in forme vistosamente ridotte questa disponibilità è parte della dotazione media dei movimenti urbani e si sostanzia frequentemente nella capacità di coinvolgimento di intellettuali, media, artisti e forze politiche di livello locale anziché nazionale. È possibile immaginare che questa veloce ricostruzione possa indurre alcuni a storcere il naso e a obiettare che è difficile comparare l’esperienza dei teatri occupati o del movimento per i beni comuni a cui l’analisi precedente dovrebbe almeno in parte calzare, e quella dei centri sociali o dei collettivi controculturali radicali come, per esempio, il Virus di Milano, El Paso di Torino, il Forte 2

Come spiega il sito ufficiale del movimento (http://www.teatrovalleoccupato.it/chi-siamo), il Teatro Valle è stato occupato il 14 giugno 2011 da un gruppo di lavoratori dello spettacolo, attivisti e liberi cittadini affinché lo stabile fosse mantenuto pubblico attraverso la partecipazione popolare e una gestione caratterizzata da criteri di trasparenza. Nei tre anni di autogestione, terminata nell’agosto del 2014, gli occupanti hanno elaborato nuove proposte di conduzione dei teatri pubblici, ma più in generale ripensato “dal basso” nuovi modelli di politiche culturali. Nelle intenzioni degli occupanti vi era l’intento di fare sì che questo “gesto si trasformi in un processo costituente: per attivare un altro modo di fare politica senza delegare, costruire un altro modo di lavorare creare produrre, affermare un’altra idea di diritto oltre la legalità, sviluppare nuove economie fuori dal profitto di pochi”. È interessante notare che il Teatro Valle ha ricevuto 5 premi internazionali per le proprie attività. Sui teatri occupati in Italia, Jop (2012).

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Prenestino di Roma, Il Macchia Nera di Pisa o l’infinità di altri meno noti sorti e discioltisi in Italia tra gli anni Settanta e Duemila, sospesi tra “separatismo culturale” punk, produzione di “dispositivi controegemonici” finalizzati all’agitazione culturale ma ciò nonostante pervasi da atteggiamenti di apertura nei confronti dell’industria culturale mainstream (si pensi alla collaborazione di artisti grafici alternativi con la collana Interzone di Feltrinelli) e, infine, alle prese con pratiche di “intreccio e meticciato” da giocarsi però rigorosamente dentro la galassia culturale antagonista (De Sario 2009, 204). Senza contare che è difficile parlare, poniamo, delle esperienze originarie skin o mod come forme annidate dentro la borghesia (Cohen 1972; Hebdige 2000, 116; Clarke et al.1993, 17 sgg.). Tuttavia il punto, peraltro banale, che tento di sostenere è quello per cui le pratiche oppositive e minoritarie che si manifestano nello spazio pubblico, di cui quello culturale è pienamente parte, sono “ibride” dal punto di vista della composizione e improntate al “bricolage” per quanto riguarda gli aspetti tecnico-contenutistici. Esse non impiegano i classici strumenti subalterni perché le loro riconfigurazioni locali, quelle cioè che si rinvengono fuori dall’Inghilterra degli anni Settanta, non sono composte unicamente da subalterni e perché il rapporto con la comunicazione, intesa come insieme di pratiche volte a diffondere valori e fini politici oppure a provocare, appare come un elemento caratterizzante atto a differenziare articolazioni della “resistenza” votate rispettivamente al silenzio e al rumore. Alla luce di quanto detto sinora, cosa sono dunque le “resistenze” nello spazio pubblico? Mi sembra che esse consistano tanto di variegati modi di opposizione alle restrizioni all’uso dello spazio quanto di diversi modi di riscrittura dello stesso. Le resistenze sono modi irregolari di uso e presenza nella strada, solo apparentemente il più pubblico degli spazi, ma anche modi di produzione di

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spazio collettivo e intersoggettivo in luoghi normalmente chiusi. Le due cose peraltro non dovrebbero essere considerate in opposizione o antitetiche in quanto il lavoro di strada è, per definizione, un lavoro intersoggettivo, che include scambi di informazione e forme di reciprocità; e che si configura inoltre come un’attività economica e, insieme, politica (una politica “della strada”, per l’appunto) che include negoziazioni, alleanze, scontri e pace. Sintetizzando brutalmente, sono modi di resistenza e di evasione quelli degli ambulanti irregolari, degli spacciatori e dei perseguitati a vario titolo – a torto o a ragione, completa o parziale – che si ostinano a sfidare l’autorità pubblica e i suoi “bracchi” specializzati nel rendere loro la vita difficile, multandoli, arrestandoli, sequestrando loro le merci o umiliandoli. È l’atto della ripetizione e l’ostinazione, oltre che la necessità di non mollare, che fa della loro presenza una resistenza, che essi la intendono così o meno. Ma non deve essere tuttavia un caso che in siciliano, nel gergo popolare, tra i tanti modi con cui si può genericamente riassumere la quotidianità, accanto a “bene”, “male” e “discretamente”, ci stia “resistiamo!”. In quest’ottica, è la lingua quotidiana che sembra certificare che la dura vita di chi è occupato nei mestieri di strada e, insieme, a fronteggiare o evadere il peso del fisco, delle bollette, dei creditori, dei cattivi pagatori e l’infinito numero di altri “oppressori” possa essere senz’altro rappresentata come una resistenza. Ugualmente è resistenza quella di chi non accetta che le città si facciano dormitori e che si oppone una notte dopo l’altra, un fine settimana di seguito all’altro, attraverso pratiche forse inconsapevoli, alle ordinanze volte a rendere la notte un tempo del silenzio e della rigenerazione per il lavoratore salariato. In tal modo, bevitori di alcolici, “bivaccatori” notturni seduti ai piedi dei monumenti, suonatori di bonghi e ubriachi molesti appaiono

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anch’essi dei resistenti. Per l’esattezza, sono soggetti trasformati in resistenti da quelle (bio)politiche inconsapevolmente reazionarie e anacronistiche che pretendono di ordinare il tempo dell’individuo giovane e precario come se la città in cui questi vive e il ruolo che gli spettasse nella vita fosse ancora quello del paese fordista, in cui il tempo-valore da preservare è quello utile al lavoro e non alla socialità. Sono resistenti (ed evasori) gli immigrati e le immigrate irregolari, come abbiamo già detto. Gli uomini e le donne impegnati a sfidare ronde, city angel, poliziotti, cittadini delatori, comitati anti-prostituzione, leghisti e razzisti d’ogni sorta, sapendo bene che il terreno in cui ci si muove è ostile e nemico. Ma che si ostinano ciò nonostante a restare migranti, per necessità o per scelta, confidando in un futuro migliore per sé e accettando il carcere, la strada e l’elemosina come parte di un diritto al sogno che nessuna autorità pubblica potrà mai fare venire meno. Sono resistenti gli ultrà, non tanto perché si ostinano a inseguire un oggetto evanescente come una squadra di calcio malgrado le tessere del tifoso, le cariche dei reparti mobili, i blocchi in autostrada e i benpensanti che li descrivono come bestie o “uomini d’affari” impegnati a stringere strani accordi con le direzioni sportive, ma perché si ostinano a “creare comunità” e a ricercare un modo collettivo per dare senso al proprio tempo libero. Ugualmente resistono centri sociali autogestiti, movimenti ambientalisti radicali e, in modo forse diverso, occupanti di teatri e di case, impegnati come sono in una sfida frontale, e quasi mai necessaria o conveniente su un piano individuale, all’autorità. Una sfida che può includere il carcere come esito e che essi accettano in nome del diritto a un’idea, a un’estetica e a un’etica, dai risultati per lo più fallimentari dal punto di vista dell’impatto sociale. Ma non è questo quel che davvero importa. È

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molto più rilevante ostacolare il percorso del nemico, rallentandone l’azione, costringendolo a ritirate tattiche e a diluire i tempi di progetti che hanno la città, lo spazio e la speculazione come posta. Essere presenze attive nello spazio, ecco quel che conta davvero. 5. Riepilogo L’elenco fornito sopra, per nulla “provocatorio”, come alcuni amano dire quando si introduce il tema delle illegalità legittimandolo, non esaurisce affatto il campionario di lotte presenti nello spazio pubblico contemporaneo. Le forme assunte da queste sono infatti infinite, coinvolgono un enorme numero di soggetti e vengono condotte con enorme creatività. Peraltro, come si è visto nei capitoli precedenti, esse sono spesso invisibili e sfuggono al monitoraggio. Per quanto parziale e appena accennato, questo elenco suggerisce tuttavia che lo spazio pubblico suscita forme diffuse di insoddisfazione e che gruppi variegatissimi hanno differenti ragioni per esprimere disagio e impegnarsi in forme di opposizione alla sua organizzazione, per fini sia materialisti che postmaterialisti. Che sia privatizzato, semi-privato o pubblico lo spazio della città appare sottoposto a un eccesso di regolazioni, controlli e limiti all’impiego. Se tutto questo rassicura una cospicua parte della popolazione – quella che percepisce insicurezza, malgrado l’obiettivo calo dei reati gravi e violenti, ed è sensibile al “degrado” e alla diversità – esso determina un’estesa insoddisfazione presso altre sezioni della popolazione. Non solo tra coloro che, con le loro attività, sono tra le cause di quelle percezioni di insicurezza e perdita del controllo; ma anche tra coloro che, pur non appartenendo in origine a nessuna classe pericolosa, scelgono – attraverso risposte di caso in caso

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espressive, istintive o compiutamente ideologiche, estetiche e etiche – di opporsi alle prigioni invisibili dello spazio urbano e di diventare militanti del caos. Se il neoliberismo esaspera le divisioni di reddito, quelle tra possidenti e “aventi nulla”, tra soggetti indebitati e minoranze detentrici di cospicue ricchezze, tra cittadini e non cittadini, esso genera anche reazioni, in ossequio a quel principio per il quale “dove c’è potere c’è resistenza”. E mentre sono scettico circa la possibilità di una trasformazione sostanziale di questi rapporti – qualcosa relegato nell’ambito dei tempi e delle aspettative di ordine messianico – credo che nell’attuale organizzazione sociale sia possibile in generale intravedere un’interessante ristrutturazione del tempo e dei rapporti. Se il neoliberismo è infatti l’organizzazione che incarna il tempo presente e gli adattamenti più avanzati del capitalismo, esso assomiglia tremendamente al passato dal punto di vista delle funzioni e delle divisioni di classe e di reddito. La precarietà del lavoro, la proiezione della vita su giornate di lavoro o su brevi stagioni, la mediazione di agenzie postmoderne “di caporalato” o mediazionelavoro, la diffusione di cattivi lavori, la tassazione insostenibile e, dall’altra parte, la ristrettezza del gruppo dei privilegiati, l’arbitrio del potere e la selezione penale assomigliano tremendamente all’ordine postfeudale e al passato così come una ricca storiografia sui mondi rurali li ha presentati. In questa cornice di sovrapposizioni, è ancora possibile definire criminali le illegalità dei poveri. Ma non si capirebbe la ragione per cui dovremmo chiamare così queste pratiche, mentre possiamo accettare che quelle dei contadini fossero resistenze. Allo stesso modo, potremmo chiamare criminali, illegali e addirittura terroriste le resistenze esplicite dei privilegiati per nascita che decidono però di consegnarsi alla causa della ribellione politica e della trasformazione radicale dei rapporti esi-

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stenti. Ma non si capirebbe perché celebriamo come eroi gli omologhi che si consegnarono al sogno dell’Unità d’Italia o di qualsiasi altro progetto illegale che appariva foriero di speranza e che, soprattutto, ha vinto. Bene, se tutto questo appare plausibile questo libro è un tributo agli “eroi” del presente: i resistenti visibili e invisibili che, per così dire, rendono più complicata la vita a questo ordine e alle disuguaglianze di cui è amplificatore.

Conclusioni

Per quanto i riferimenti siano rimasti, salvo qualche raro momento, per lo più impliciti, si sarà compreso che in fondo questo è un testo collocabile dentro una cornice critica di matrice libertaria e foucaultiana, semmai sia possibile accostare così disinvoltamente Foucault all’anarchismo. Purtuttavia è un libro che si insinua dentro una certa ricezione del pensiero di quell’autore, che interpreta la società contemporanea come una gabbia e che, di riflesso, celebra le evasioni. Eppure in un recente volume dedicato proprio a Foucault, si sostiene che il problema della ricerca di questo pensatore così influente – e, di riflesso, degli studi che traggono ispirazione da essa – è che egli si preoccupa moltissimo dell’oppressione e assai meno dello sfruttamento (Zamora 2014). L’accusa, insomma, è che questa celebrazione degli “uomini e delle donne infami” sia molto più compatibile con l’ordine neoliberale di quanto non ci se ne avveda normalmente. Anzi, uno dei punti del libro curato da Zamora è che l’ultimo Foucault ebbe addirittura una fascinazione verso il neoliberismo, considerato molto meno biopolitico, burocratico e “controllamentale” di quanto non fosse la socialdemocrazia o qualsiasi altra organizzazione capitalista precedente. Penso che questa critica sia importante e persino cor-

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retta e che, qualora la si applichi alle resistenze così come ho fatto io, possa essere declinata nei termini di una sostanziale integrabilità e inclusione delle pratiche sin qui descritte nell’ordine capitalista. Infatti, in un certo senso, l’idea presentata qui è che siano tutti “resistenti”: il padroncino così come il lavoratore immigrato irregolare; lo spacciatore così come l’occupante dei centri sociali e, forse, persino l’evasore fiscale. E ognuna di queste figure, a proprio modo, soddisfa bisogni personali mirando a trasformare solo la propria esistenza, garantendosi anche soltanto di che sopravvivere malamente, oppure soddisfacendo i bisogni di un leisure e un’estetica alternativi, senza però apportare veri cambiamenti all’ordine sociale. Continuando, cioè, a lasciare intatte le disuguaglianze. Rincarando la dose, con Jameson (1991) potremmo anche dire che c’è molto postmodernismo nell’approccio mio e di altri a questi temi; e che il postmodernismo costituisce, non a caso, la logica e l’ideologia del tardo capitalismo. Sono critiche potenziali e serissime, che tuttavia si collocano dentro una prospettiva, una filosofia e un tempo del cambiamento di tipo “messianico”. Esse, cioè, si preoccupano di trovare soluzioni e praticare ribaltamenti dell’ordine sociale che hanno scarsissima possibilità di realizzarsi in tempi umani. Lì ove persino i tempi umani sono comunque lunghissimi, se il problema è sopravvivere un giorno dopo l’altro. Inoltre sono un sociologo e quindi, come sostiene un militante politico mio feroce critico, un “fotografo della realtà”. Però se da “postmodernista” so bene che la realtà non esiste, so altrettanto bene che gli “infami” al centro del mio interesse – quelli che amo “fotografare” – vivono e agiscono in un tempo che è insieme quello proprio e quello di chi li ha preceduti. È un tempo “lungo”, come mi sono sforzato di dimostrare altrove (Saitta 2013), che vive nella memoria incorporata delle delusioni politiche esperite nel corso

CONCLUSIONI

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delle generazioni e che si sostanzia conseguentemente nelle pratiche del quotidiano. È un tempo il cui scorrere produce effetti materiali differenti e che viene coerentemente esperito in modi assai diversi da coloro che occupano posizioni differenti per nascita e privilegio. Così, l’impegno politico e trasformativo – o, se si preferisce, la pratica quotidiana orientata a un cambiamento radicale e universale – è qualcosa a disposizione innanzitutto di chi può permetterselo. Agli altri non resta che arrangiarsi. Non sto tuttavia celebrando l’impolitico, come pure mi è stato fatto notare, ma solo asserendo che la tentazione di applicare rigidamente categorie politiche ortodosse, di ispirazione non solo marxista, è normalmente un freno all’emica, che impedisce di leggere i bisogni e significati che gli “altri” – i subalterni a titolo pieno o parziale – conferiscono alle proprie azioni. Ed è inoltre una tentazione fondamentalmente conservatrice, che vorrebbe vedere la politica risiedere lì ove il potere dice che essa debba stare: fondamentalmente dentro quelle formazioni – partiti o movimenti che siano – in cui collettivamente si producono mutamenti (comunque un passo avanti rispetto alla politologia degli anni sessanta, che negava che esistesse la politica al di fuori delle sedi istituzionali!). Ma per dirla con Bayat (1997) anche i resistenti, per quanto apparentemente atomizzati e disorganizzati, sono spesso un “movimento”. Per l’esattezza, un movimento di pratica – lì ove la politica può essere considerata soprattutto un fatto di gesti quotidiani radicati nella coscienza, oltre che nella struttura. E, inoltre, se la “disobbedienza” è parte del repertorio delle tecniche politiche della dissidenza (si veda per esempio lo sterminato lavoro sulla non-violenza di Sharp. Per citare solo un testo tra i più recenti e reperibili da lui scritti: Sharp 2011), come fare a non riconoscere un valore politico ad azioni noncooperative, volte ad aggirare le coercizioni di regolazioni giudicate come soffocanti e ingiuste?

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Certo, la resistenza così come l’ho descritta si compie anche in cornici economiche caratterizzate da irregolarità, sfruttamento e insicurezza. E, soprattutto, lo sfruttamento si riproduce e trasmette. Ma queste cornici esistono solo in parte per effetto dalla volontà e cooperazione di chi vi si inserisce. Esse sono innanzitutto il portato naturale di organizzazioni e intrecci che non sono determinati dall’individuo. E, a seconda dei posizionamenti e delle fasi biografiche, esse costituiscono sia trappole sia opportunità. E il giudizio su di esse deve necessariamente riflettere l’ambivalenza e l’ambiguità, senza mai perdere di vista la molteplicità delle funzioni svolte da certe attività, le cui responsabilità e origini non stanno quasi mai in basso. In conclusione credo che le resistenze possano essere, oltre che il segno di una proiezione sul presente, anche le necessarie tappe intermedie verso una grande e positiva trasformazione di cui ignoriamo però le date d’inizio e di fine. Sottrarle alla criminalizzazione dei benpensanti così come alla condanna morale di chi vede oltre – troppo oltre – non è un’operazione romantica, ma un semplice tributo alla libertà.

Ringraziamenti

Pur essendo stato meditato per molto tempo, questo è un libro che mi sono deciso a scrivere per non pensare. Immagino quindi di dovere ringraziare innanzitutto Giulia Colavecchio. È comunque un libro che è debitore a molte persone e istituzioni. In ordine sparso, sono dunque riconoscente per i loro stimoli intellettuali, la loro amicizia o per costituire la mia “famiglia” di fatto, sia pure un po’ dispersa nel mondo, a: Laura Luparello, Giuliana Sanò, Ilaria Lazzerini, Francesco Zanotelli, Fabio Fichera, Alessia Cervini, Berardino Palumbo, Ketty Smedile, Daniele David, Claudio Risitano, Pier Paolo Zampieri, Magali Sarfatti Larson, Charlie Barnao, Mara Benadusi, Min K. Lee, Lori Zsudarek, Dario Tomasello, Valeria Piro, Silvia Pitzalis, Mimmo Perrotta, Salvatore Palidda, Cirus Rinaldi, Marco De Biase, Anna Rosa Favretto, Anna Simone, Caterina Peroni, Alvise Sbraccia, Salvatore Saitta e Laurens Grant. Un sentito ringraziamento alla Libreria Colapesce di Messina che ha finito col diventare il mio vero ufficio ed è lo spazio pubblico dentro cui questo libro ha preso forma. Grazie dunque a Filippo, Nicola, Ciccio, Consuelo, Chiara, Piero e Anna per la loro amicizia e simpatia. Un pensiero va anche all’amica e coautrice di molti saggi e ricerche – che le contingenze di un lavoro che

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può essere molto difficile sul piano emotivo hanno purtroppo condotto molto lontano da me – a cui non ho espresso in passato sufficiente riconoscenza: Domenica Farinella. Grazie per esserci stata. Vorrei ringraziare altresì una serie di amici e istituzioni che mi hanno permesso di discutere dei contenuti di questo libro nel corso degli ultimi due anni. Ringrazio pertanto Fabio Quassoli e il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano Bicocca, dove ho presentato un numero speciale della rivista “Etnografia e ricerca qualitativa” dedicato alle economie informali e dove le sollecitazioni di molti partecipanti e di Fabio, deluso dal poco spazio dedicato allo Stato (“E lo Stato?! Non dici nulla sullo Stato?!”) mi hanno costretto a un inquadramento migliore, seppure ancora ampiamente insufficiente. Un sentito ringraziamento anche a Angelina Overvold e alla School of World Studies della Virginia Commonwealth University dove ho tenuto un lungo seminario di quattro settimane dedicato per buona parte ai temi discussi in questo libro. Grazie anche a Beppe Mosconi e al Master in criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova per i ripetuti inviti a presentare e discutere i materiali di questa riflessione. Ugualmente grazie infinite anche a Paul Ponsaers (Università di Gand) e Joanna Shapland (Università di Sheffield) per avermi spinto per primi a occuparmi di questi temi e per avermi coinvolto in una lunga serie di convegni, seminari e pubblicazioni in giro per l’Europa. Grazie anche a Ninni Pennisi, direttore del Dipartimento Csecs dell’Università di Messina per la libertà concessami in questi anni e per la sua stima. Un ringraziamento infine a tutti coloro che, consapevolmente o meno, resistono ai poteri del quotidiano e rendono questo mondo meno pacificato e omologato.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2015 per conto di ombre corte presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)