Pragmatica Della Comunicazione - Giorgio Nardone PDF [PDF]

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Zitiervorschau

Giorgio Nardone, allievo di Paul Watzlawick, ha alle spalle trent’anni di attività terapeutica e decine di migliaia di casi trattati con successo. Ha fondato e dirige il Centro di Terapia strategica di Arezzo che ha affiliati in tutto il mondo. Tra i suoi libri ricordiamo: Correggimi se sbaglio, Il dialogo strategico, Cavalcare la propria tigre, Gli errori delle donne, Psicotrappole, La paura delle decisioni, La nobile arte della persuasione, Oltre sé stessi, Emozioni. Istruzioni per l’uso, tutti pubblicati da Ponte alle Grazie. Stefano Bartoli è psicologo, coach, direttore operativo del Centro di Terapia Strategica e personal manager di Giorgio Nardone. Si occupa, in qualità di consulente, di leadership, organizzazione aziendale, alta performance nel mondo dello sport e nel business. Insegna il modello strategico in tutto il mondo. Ha pubblicato, insieme a Giorgio Nardone, Oltre sé stessi (Ponte alle Grazie, 2019). Simona Milanese, oncologa e psicoterapeuta, è ricercatrice associata e formatrice del Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Esercita attività di psicoterapia, coaching e formazione secondo il modello strategico. Con Roberta Milanese ha pubblicato Il tocco, il rimedio, la parola. La comunicazione medico-paziente come strumento terapeutico (Ponte alle Grazie, 2015), e Alimentazione: falsi miti e inganni del marketing (2019).

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In copertina: © 2020 Dan Bejar c/o theispot Progetto grafico: theWorldofDOT Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2020 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano ISBN 978-88-3331-627-7 Prima edizione digitale: dicembre 2020 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Introduzione

La tecnologia non tiene l’uomo lontano dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente. Antoine de Saint-Exupéry

Dopo il Coronavirus nulla sarà come prima, fin troppi profeticamente lo hanno detto. Di certo la pandemia ha spazzato via come un uragano le nostre abitudini, modificando profondamente l’essenza stessa della nostra vita di relazione. Stanno già cambiando, all’insegna del distanziamento sociale, tutti i settori vitali della società: sanità, commercio, trasporti, istruzione, economia, cultura, politica, ambiente. Stiamo creando una nuova normalità, con nuove modalità di connetterci, di relazionarci, di acquistare prodotti e servizi, di apprendere, di divertirci. Questa trasformazione così profonda sarà resa possibile dalla tecnologia digitale che, già molto presente nelle nostre vite, diventerà presto insostituibile. Se consideriamo che prima dell’emergenza Coronavirus il 90% degli italiani usava Internet quotidianamente, con un tempo medio di connessione di 6 ore al giorno, di cui 2 sui social,1 abbiamo un’idea delle dimensioni che il fenomeno acquisirà in futuro. La digitalizzazione sta già dilagando in tutti i settori. In sanità viene promossa a gran voce la «salute digitale» (e-health per gli anglosassoni), cioè i servizi di telemedicina2 (cura a distanza),

teleconsulto (consulto a distanza tra sanitari) e telemonitoraggio (monitoraggio di parametri come pressione, glicemia, battito cardiaco, ecc.);3 anche i professionisti della salute mentale, psicologi, psicoterapeuti e psichiatri stanno implementando le terapie on line. La scuola ha organizzato, seppure con qualche difficoltà, la didattica a distanza; le aziende incentivano lo smartworking, e piattaforme come Zoom forniscono un valido supporto alle attività di formazione a distanza (e-learning). Tuttavia, cambiare non è sufficiente, occorre essere certi di cambiare in meglio: dobbiamo governare i venti del cambiamento, per evitare di essere trascinati alla deriva. Per questo dobbiamo considerare un altro cambiamento non facile da realizzare. Infatti, per gestire efficacemente la nostra nuova normalità non dobbiamo adeguare solo la tecnologia, ma anche e soprattutto il nostro modo di utilizzarla. Che si tratti di una seduta psicoterapeutica, di una lezione o di una riunione tra manager, la comunicazione deve essere adeguata all’occasione, al contesto e al mezzo utilizzato: è bene ricordare infatti che proprio l’avvento della tecnologia ha prodotto in alcuni settori, come la medicina, un deterioramento dell’approccio comunicativo e relazionale. Ignorare l’aspetto comunicativo in questa rivoluzione sarebbe un grave errore, perché la buona comunicazione è componente essenziale di ogni attività e interazione umana. Comunicazione e relazione nella cura sono alla base di qualunque processo di guarigione, sia fisica che mentale; l’apprendimento non può prescindere dalla comunicazione tra allievo e insegnante; nella scienza della performance, la comunicazione tra tecnico e atleta o artista è aspetto sostanziale; la comunicazione persuasoria è indispensabile per il leader, il politico, il diplomatico, il venditore, il formatore. Cosa cambia nella comunicazione telematica? Sostanzialmente, viene a ridursi in tutto o in parte il potere della comunicazione non verbale. Non è cosa da poco, perché proprio la comunicazione non verbale (sguardo, espressioni, gestualità) e quella paraverbale (ritmo

e volume della voce, inflessione, pause, silenzi) trasmettono l’80% dell’emotività. Il loro contributo è così importante che, in caso di incongruenze tra canale verbale e canale non verbale, è al secondo che prestiamo fiducia. Immaginate di incontrare una persona che, non vedendovi da tempo, vi si avvicini dicendo: «È un piacere vederti!» guardandovi negli occhi, con un sorriso aperto, e ponendo enfasi sulla parola «piacere». Ora immaginate la stessa frase pronunciata a bassa voce, con un sorrisetto sprezzante e sguardo sfuggente: l’effetto è diametralmente opposto, e la contraddizione tra il contenuto verbale e gli aspetti non verbali viene risolta automaticamente prestando fede ai secondi. Infatti, mentre il contenuto verbale è facilmente falsificabile, gli aspetti non verbali lo sono molto meno, ed è per questo che li usiamo istintivamente come bussola per orientarci nelle complessità della comunicazione. Come brillantemente esposto da Paul Watzlawick nella sua Pragmatica della comunicazione umana, ogni messaggio ha una parte di contenuto (verbale) e una di relazione (non-verbale e paraverbale), ed è la seconda che codifica la prima, dando significato e colore a tutto il messaggio (II assioma della Pragmatica della comunicazione) (Watzlawick et al., 1967). In un contesto telematico vengono persi alcuni aspetti significativi del messaggio ed è più facile incorrere in fraintendimenti che, con la tipica circolarità della comunicazione, possono generare altri fraintendimenti, propagandosi e amplificandosi come nel famoso gioco del telefono senza fili. Inoltre, laddove l’empatia e la partecipazione emotiva sono particolarmente importanti per il buon esito dell’intervento, come ad esempio in una visita medica o in una seduta di psicoterapia, il terapeuta deve sapere gestire l’emotività trasferendola negli altri canali, in modo da mantenere l’efficacia dell’intervento. Qualunque sia la nostra professione o lo scopo della nostra comunicazione, è fondamentale che questa sia adattata al contesto telematico. Sguarniti di buona parte della comunicazione non verbale, dobbiamo quindi potenziare tutti gli altri aspetti: scelta delle parole, costruzione delle frasi, modulazione della voce. Questo libro

esplora il tema della comunicazione telematica in generale e delle sue applicazioni nei vari settori (medico, psicoterapico, manageriale, formativo), fornendo indicazioni su come adattare la comunicazione al contesto e al mezzo utilizzato, sulla base di un’ampia esperienza sul campo e di sperimentazioni specifiche che hanno condotto a elaborare una vera e propria moderna Pragmatica della comunicazione telematica. «La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie» (Albert Einstein).

Capitolo 1 La realtà nello schermo

La realtà esiste nella mente umana e non altrove. George Orwell

Un bambino sta camminando accanto a sua madre. I due arrivano davanti a un semaforo rosso; la madre si ferma mentre il bambino continua a camminare. Un’auto suona il clacson e la madre con un balzo riesce fortunatamente a salvare il figlio. «Ma non hai visto che era rosso?!» esclama la donna, impaurita. «Sì, ho visto che era rosso, perché?» risponde il bambino, stupito. Questo semplice esempio illustra un fenomeno che è alla base della nostra percezione della realtà: un fatto normale, vissuto nello stesso momento, può avere significati diversi per coloro che lo stanno vivendo. Pur avendo visto chiaramente il semaforo rosso, il bambino, a differenza della madre, non attribuiva a tale colore il comando implicito «fermati». Lo stesso oggetto, il semaforo rosso, viene vissuto e interpretato in maniera diversa dai due soggetti, e di conseguenza le loro azioni non possono che essere differenti. Molto spesso in ambito sia psicologico sia scientifico confondiamo due aspetti molto differenti di quella che chiamiamo realtà: il primo

concerne le proprietà puramente fisiche, oggettivamente discernibili, delle cose; il secondo consiste nell’attribuzione di significato e di valore a queste cose (Watzlawick, 1976, p.129). La realtà può essere quindi divisa in due ordini: la realtà di primo ordine, ovvero l’oggetto o il fatto in sé, e la realtà di secondo ordine, ovvero come viene percepito il fatto o l’oggetto e le reazioni conseguenti alla percezione. Se il primo aspetto è collegato alla percezione sensoriale di ciò che ci accade, il secondo, ovvero come noi reagiamo, si basa sulla comunicazione. Il pittore Pablo Picasso ha affermato: «Tutto ciò che puoi immaginare è reale»; noi preferiamo dire che tutto ciò che viene percepito è reale, come già aveva ben descritto il filosofo Berkeley: «Esse est percipi», «essere è essere percepito». Il fatto che io mi getti in acqua per salvare una persona che sta annegando è un evento oggettivamente reale; ma se il mio gesto sia stato fatto per carità, oppure per apparire eroico, o perché sapevo che l’uomo che stava annegando era milionario e contavo in una ricompensa, è una questione per la quale non esiste una prova oggettiva, ma soltanto attribuzioni soggettive di significato. Lo scrittore francese Raymond Queneau, nel suo Esercizi di stile, riesce a dare di un semplice evento come il litigio banale tra due persone ben novantanove diverse rappresentazioni di significato. Secondo la moderna epistemologia costruttivista non esiste una realtà ontologicamente vera, ma tante realtà soggettive a seconda del punto di vista che si adotta. Se osserviamo un bicchiere con dentro un liquido trasparente automaticamente pensiamo che sia acqua quando potrebbe essere anche altro; se poi il bicchiere fosse stato riempito a metà allora avremmo chi lo percepirebbe mezzo pieno e chi mezzo vuoto. A essere ancora più precisi, già definire il contenitore come «bicchiere» è un’attribuzione di significato all’oggetto, ovvero è la nostra esperienza empirica che ci porta a dire che un contenitore con una certa forma ha il nome di «bicchiere». Con le parole di Paul Watzlawick: «L’illusione più pericolosa dell’essere umano è che esista soltanto una sola e unica realtà».

La realtà che ogni soggetto vive ed esperisce è comunque il frutto dell’interazione tra il punto di osservazione assunto e la comunicazione, tanto che la modalità che ogni soggetto ha di comunicare con sé stesso, gli altri e il mondo ne influenzerà la percezione e di conseguenza le reazioni. A tale proposito riportiamo un esempio di come una comunicazione distorta verso gli altri e il mondo possa creare delle «realtà inventate» i cui effetti concreti durano anche per molti anni. Nel 1925, in Alaska, la cittadina di Nome fu colpita da una gravissima epidemia di difterite. L’unica possibilità di salvezza era un siero sviluppato in una città distante centinaia di chilometri. A causa delle rigide condizioni climatiche e di una tempesta di neve inaspettata le vie di comunicazione più rapide divennero inaccessibili. L’unico modo per raggiungere la lontana cittadina era ricorrere alle slitte trainate da cani, così venne organizzata una staffetta per percorrere i quasi 1100 chilometri tra andata e ritorno; tra coloro che parteciparono a questa impresa vi fu Leonhard Seppala con il suo cane leader Togo, un siberian husky poco addestrabile e sopravvissuto a una malattia gravissima. Leonhard e Togo percorsero i tratti più pericolosi rischiando più volte la vita e percorrendo a -40° un totale di 480 chilometri contro i circa 50 degli altri partecipanti alla disumana sfida. La loro impresa fu qualcosa di incredibile e, grazie al loro coraggio e ai loro sforzi, il siero venne recuperato. L’ultimo tratto della staffetta, quello che avrebbe riportato la medicina nella cittadina di Nome, fu percorso da Gunnar Kaasen insieme a un cane chiamato Balto. La stampa che aspettava il momento della conclusione della staffetta intervistò l’ultimo conduttore di slitta chiedendo come si chiamasse il cane leader della sua tratta. Il risultato fu che la comunicazione di massa promosse Balto a eroe dell’impresa, tanto che a Central Park, a New York, è tutt’oggi presente una statua in suo onore come simbolo di coraggio e lealtà. Di Togo, il vero eroe della vicenda, nessuno seppe mai niente. Nel 2011 il settimanale «Time» ha riportato alla luce la vera storia e ha dichiarato Togo l’animale più eroico di tutti i tempi.

L’ultima nota curiosa della vicenda è questa: Togo condusse la staffetta all’età di dodici anni, quando i cani da slitta sono ormai considerati anziani e già «in pensione». Balto invece morì molti anni dopo, all’età di undici anni. Questo è solo uno dei tanti esempi di mistificazione della realtà attraverso la comunicazione. Altro esempio è quando comunichiamo con noi stessi in maniera inefficace, tanto da diventare sia vittima che carnefice di noi stessi. Particolarmente interessante a tale proposito è la «storia del martello». Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui e farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto e ce l’ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un piacere così semplice? Gente così rovina l’esistenza degli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questi abbia il tempo di dire buongiorno, gli grida: «Si tenga pure il suo martello, villano!» (Watzlawick, Nardone, 1997).

Nelle sue opere il filosofo Epitteto evidenzia la possibilità che ogni soggetto ha di vivere in maniera diversa lo stesso fatto, e chiama questo processo, attraverso il quale l’uomo riesce a definire e dare un certo significato alle esperienze sensibili, proairesi. Nel suo Enchiridion (Epitteto, 2006) l’autore dimostra come non sono le cose in sé a smuovere certe sensazioni, bensì il giudizio che abbiamo di esse. Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose. Per esempio, la morte non ha nulla di temibile, altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate. Ma è il giudizio che noi formuliamo sulla morte. Pertanto, quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi: è proprio di chi non è ancora stato educato, attribuire agli altri la responsabilità dei suoi mali; è proprio di chi è all’inizio della propria educazione attribuirne la responsabilità a sé stesso;

è proprio di chi ha completato la propria educazione non attribuire la responsabilità né ad altri né a sé stesso.

La dimostrazione di come ogni soggetto esperisce ciò che percepisce anche quando le alle sue percezioni non corrisponde una realtà oggettiva trova straordinaria evidenza nella «sindrome dell’arto fantasma». In seguito all’amputazione di un arto, il soggetto continua a percepirne i movimenti, le sensazioni e molto spesso il dolore, come se l’arto fosse ancora presente. Una dimostrazione ancor più sconvolgente, a riguardo, la fornisce la terapia della Mirror Box introdotta dal neuroscienziato indiano Vilayanur S. Ramachandran (Ramachandran, 2000). La Mirror Box è una scatola all’interno della quale sono posizionati due specchi, a formare una parete divisoria. Attraverso due fori, il paziente introduce l’arto sano da un lato della parete di specchi, e l’arto amputato dall’altro lato. Osserva poi lo specchio dalla parte dove è stato inserito l’arto sano e inizia a eseguire dei movimenti che, riflessi nello specchio, risulteranno speculari e simmetrici. In quel momento si crea una vera e propria illusione che farà sembrare al paziente che il movimento sia quello dell’arto mancante. Dato che il nostro sistema neurologico crea delle sensazioni reali di dolore percepite in una zona del corpo non più presente – l’arto amputato –, il feedback visivo artificiale della Mirror Box, oltre a integrare un’immagine visiva dell’arto fantasma, comporta una riduzione notevole delle sensazioni dolorose. La soluzione consiste nell’ingannare le nostre percezioni con l’utilizzo di uno specchio e del suo riflesso, rendendo reale ciò che non è. In entrambi gli esempi siamo davanti a sensazioni vissute come reali indipendentemente dalla condizione oggettiva del soggetto. Anche le moderne neuroscienze hanno ormai dimostrato che ogni soggetto è ideatore e creatore della propria realtà. Prendiamo ad esempio il processo che uno stimolo esterno compie fino a diventare una reazione: uno stimolo, come può essere la luce, è catturato dagli organi di senso, i quali attraverso un processo chiamato «trasduzione» trasformano lo stimolo iniziale in una sensazione.

Quest’ultima a sua volta dà vita a una percezione che porterà a una reazione. Se questo processo è uguale per tutti, come è possibile che le reazioni siano diverse tra loro? Se un musicista professionista ascolta un brano dove vi sono delle stonature o degli errori ritmici se ne accorgerà immediatamente e tenderà a migliorarlo o correggerlo, a differenza del non esperto che non se ne accorgerà. Un altro esempio potrebbe essere quello di un maestro di arti marziali che, grazie all’apprendimento e allo studio di tecniche specifiche, è riuscito a sviluppare una maggiore sensibilità e prontezza alle situazioni di pericolo rispetto a una persona che non ha mai praticato nessuna disciplina marziale. L’esperto psicoterapeuta riuscirà, grazie all’esperienza sul campo, a individuare il tipo di intervento più efficace rispetto al giovane neospecializzato. Questi esempi, e potremmo farne innumerevoli, indicano che il bagaglio di esperienze funzionali che ogni soggetto ha sperimentato nel corso della propria vita modificherà l’interpretazione e di conseguenza la reazione a ciò che percepisce. Il problema nasce nel momento in cui i nostri copioni di reazione si irrigidiscono fino a diventare disfunzionali, poiché non più in grado di adattarsi ai continui mutamenti delle cose. Non a caso il vecchio adagio ci insegna che siamo «vittime dei nostri successi»: se abbiamo avuto successo in qualcosa tenderemo a ripetere il comportamento che ha portato a tale esito, anche quando non sarà più funzionale (Nardone, 2013). La ripetizione di certi schemi comportamentali o di ragionamento irrigiditi può far nascere delle vere e proprie «teorie forti», lenti deformanti della nostra percezione. Già Schopenhauer sottolineava l’influenza esercitata dalla teoria e dai modelli nel rapporto degli individui con le realtà che hanno di fronte. Ciò è stato riconfermato di recente, dal principio di indeterminazione di Heisenberg e dalla moderna epistemologia costruttivista: è sempre più chiaro quanto la scelta di una teoria possa rivelarsi determinante nell’interpretazione dei fenomeni a cui viene applicata (Nardone, Portelli, 2015). Con le parole dello

scrittore Chuck Palahniuk: «Si può trascorrere una vita intera a costruire un muro di certezze tra noi e la realtà». Se i meccanismi che abbiamo descritto fin qui valgono nella creazione della realtà di ciascuno, diventano decisivi nella gestione della relazione con l’altro quando questa avviene per via telematica, attraverso uno schermo. Al giorno d’oggi fare una videochiamata è normale, ma bisognerebbe fare con la mente un salto indietro di poco più di dieci anni per ricordarsi che questa tecnologia non era ancora ben sviluppata e che la maggior parte delle interazioni telematiche erano le normali chiamate audio. Se pensiamo al mondo dei messaggi, la situazione è ancora più sconvolgente: le moderne app permettono un’interazione continua a costi praticamente nulli, mentre pochi anni fa sms e mms venivano calibrati sulle necessità e i costi. Tutto questo ci rende sempre più connessi e in maniera sempre più rapida, tanto da essere in grado di portare avanti numerose chat contemporaneamente o di intrattenere conversazioni a colpi di messaggi a qualunque ora del giorno e della notte: la percezione di invasione e intrusione da parte nostra e dei nostri interlocutori si è azzerata quasi del tutto. Trascorriamo gran parte del tempo curvi su uno schermo, che sia di un computer, di un telefono o di un tablet, e se aggiungiamo a questa iperconnettività le varie piattaforme social e una globalizzazione lavorativa on line il risultato è che una persona normale passa gran parte del proprio tempo e della propria vita connesso alla rete. Lo schermo diventa una nuova realtà da dover gestire per non esserne gestiti. Come accennato nell’Introduzione, quando comunichiamo lo schermo può omettere elementi importanti da far giungere al destinatario della comunicazione e farci credere cose ben diverse dalla realtà: il virtuale diviene più «vero» del reale. Il continuo progresso tecnologico e la sempre più incalzante necessità di risposte immediate hanno alzato il livello dell’interazione telematica ma hanno alterato la qualità comunicativa; per questo se non si è in grado di gestire questo cambiamento qualitativo del comunicare si finisce per esserne manipolati, ovvero artefici di ciò che poi rende vittime.

Testimonianza di ciò sono l’aumento dei fraintendimenti e delle conseguenti decisioni sbagliate: manager che non riescono a delegare efficacemente e collaboratori che interpretano male le indicazioni, rapporti di coppia messi in crisi da messaggi mal compresi o da litigate in video call, innamoramenti e tradimenti virtuali, sessioni di allenamento eseguite guardando video di personal trainer e senza possibilità di correzione degli esercizi, programmi di dimagrimento tramite app validi per tutti, comunicazioni scientifiche mandate in chat, propaganda politica tramite «dirette social», per non parlare dell’aumento dei disturbi psicologici causati dall’eccessivo e distorto uso del Web. Benché se ne parli utilizzando l’aggettivo «virtuali», tutte queste sono in realtà vere e proprie esperienze concrete e come tali in grado di modificare la percezione della realtà da parte dell’individuo e di provocare un vero e proprio cambiamento a livello emotivo, cognitivo e comportamentale; la realtà virtuale è sia creata, sia creatrice delle realtà soggettive dell’individuo. Con le parole di Von Neumann: «Gli esseri sono in continuo divenire e non esiste alcuna realtà aprioristica». Nemmeno quella virtuale.

Capitolo 2 La pragmatica della comunicazione telematica

Metà della popolazione mondiale è composta da persone che hanno qualcosa da dire ma non possono. L’altra metà da persone che non hanno niente da dire e continuano a parlare. Robert Frost

La forma crea il contenuto. Gli assiomi della comunicazione umana e la loro applicazione digitale Il mondo della comunicazione negli ultimi anni ha visto un’impennata di testi e corsi di formazione che spesso sfocia in vere e proprie aberrazioni. Nel mondo aziendale gran parte degli imprenditori e dei manager si è convinto che la comunicazione coincida con la pubblicità e che le relazioni interpersonali all’interno del mondo del lavoro siano il risultato di procedure o articolati processi di leadership. Per non parlare poi dei corsi di comunicazione efficace, assertiva e public speaking nei quali fantomatici formatori, al ritmo di musiche da discoteca, propinano ricette comunicative valide per tutti e in tutte le situazioni come se fossero comandamenti scolpiti nella pietra. Per fare chiarezza su questo punto è doveroso ritornare alle origini dello studio di cosa sia e di come utilizzare la comunicazione dividendo la materia in semantica, sintassi e pragmatica. La semantica studia il significato di ciò che viene comunicato mentre la sintassi è lo studio di come i codici linguistici vengono assemblati per dare vita a una proposizione. Per quanto riguarda la pragmatica, si tratta dell’effetto che la comunicazione crea nelle sensazioni e nel comportamento di chi riceve il messaggio; questo ultimo diventa l’aspetto fondamentale da prendere in considerazione per la gestione di sé stessi e degli altri. L’autore che più di ogni altro ha studiato tale fenomeno è Paul Watzlawick. La sua Pragmatica della comunicazione umana, scritta in collaborazione con altri esperti della Scuola di Palo Alto e pubblicata nel 1967, è considerata la «Bibbia» da tutti coloro che vogliono studiare gli effetti della comunicazione sull’agire umano. Gli autori infatti formulano gli assiomi della pragmatica dimostrandone l’applicazione in numerosi contesti e inaugurando una nuova stagione nello studio del linguaggio e dei suoi effetti nella realtà che

gli individui continuamente costruiscono, subiscono e/o gestiscono (Nardone, 2015). Ne riportiamo un passaggio: La ricerca condotta è stata orientata ad occuparsi degli effetti pragmatici (comportamentali) della comunicazione umana, con particolare attenzione ai disordini del comportamento. Finora non si è neanche provveduto a formalizzare i codici verbali e sintattici ed è sempre più diffuso lo scetticismo sulle possibilità di porre le basi di una strutturazione esauriente della semantica della comunicazione umana… va da sé che la comunicazione è una conditio sine qua non della vita umana e dell’ordinamento sociale. Ed è pure evidente che un essere umano è coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di acquisizione delle regole della comunicazione, ma di tale corpo di regole, di tale calcolo della comunicazione è consapevole solo in minima parte. (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1976)

Raccogliendo l’eredità di quest’opera fondamentale, riprendiamo la formulazione dei «cinque assiomi della pragmatica della comunicazione umana» assumendo un nuovo punto di vista: quello della comunicazione digitale. Il primo assioma recita: Non si può non comunicare. Qualsiasi comportamento, compresa la mancanza di comunicazione, è un atto comunicativo. L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo ovviamente è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.

La comunicazione ha luogo anche quando non è intenzionale o non è conscia, tanto che l’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri, i quali, a loro volta, non possono non rispondere a questi messaggi e in tal modo comunicano anche loro. Quindi tutto è comunicazione e di conseguenza tutto è influenzamento. Riprendendo le parole di Watzlawick, questa volta in ambito clinico:

Se il comportamento schizofrenico è osservato lasciando ogni considerazione eziologica, sembra che lo schizofrenico cerchi di non comunicare. Ma poiché anche le assurdità, il silenzio, il ritrarsi, l’immobilità (il silenzio posturale), o ogni altra forma di diniego sono essi stessi comunicazione, lo schizofrenico si trova di fronte al compito impossibile di negare che egli sta comunicando e al tempo stesso di negare che il suo diniego è comunicazione. Il prendere atto di questo dilemma fondamentale della schizofrenia offre una chiave per molti aspetti della comunicazione schizofrenica che altrimenti resterebbero oscuri.

Se contestualizziamo questo assioma nel mondo della comunicazione web la regola non cambia. Qualsiasi cosa facciamo, ogni contenuto che pubblichiamo come qualsiasi interazione di natura tecnologica diventano un atto comunicativo che influenza l’altro. Se poi aggiungiamo che la maggior parte dei contenuti possono essere rivisti più e più volte va da sé che l’attenzione alla nostra comunicazione dovrà essere sempre maggiore. Il secondo assioma recita: Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi meta-comunicazione. Ovvero: il come viene passato un messaggio risulta determinante nella relazione tra due o più soggetti allo stesso titolo del contenuto del messaggio stesso. Lo stesso contenuto detto in modi o in contesti diversi definisce diverse relazioni tra chi comunica. Questo spiega perché le relazioni problematiche sono caratterizzate da una continua ridefinizione della relazione e dei suoi confini mettendo in secondo piano i contenuti; spesso si finisce per litigare più sul come stiamo discutendo che sul cosa. Nella comunicazione telematica questo aspetto risulta ancor più determinante: ascoltare una persona parlare attraverso uno schermo è decisamente più faticoso che farlo dal vivo. A fronte di questa riduzione della qualità dell’interazione rispetto alla comunicazione in presenza, sapere come comunicare è indispensabile sia per tenere alta l’attenzione dell’uditorio, sia per gestire noi stessi che stiamo comunicando. Nei capitoli successivi verranno spiegati in dettaglio tutti gli aspetti paralinguistici e non verbali da utilizzare in una comunicazione telematica efficace, ma possiamo già anticipare che

variazioni del ritmo e del tono della voce uniti a un linguaggio analogico e a un uso sapiente dei silenzi sono ingredienti fondamentali. Il terzo assioma recita: La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti. In altre parole, il flusso comunicativo è influenzato dal punto di vista delle persone che comunicano, le quali tendono a interpretare il proprio comportamento non come causa, ma come conseguenza del comportamento dell’altro. Immaginiamo una coppia che litiga; uno dei due si chiude in sé stesso perché l’altro alza la voce; l’altro potrebbe dire che alza la voce poiché non riceve risposte alle sue domande. Da una parte abbiamo «rimango in silenzio perché tu urli» e dall’altra «urlo perché tu rimani in silenzio». «Punteggiare» male una relazione può portare a fraintendere la comunicazione dell’altro creando una dinamica paradossale, in cui la mia reazione alla comunicazione dell’altro manterrà ciò che vorrei cambiare. Nei capitoli successivi vedremo come evitare e gestire i fraintendimenti; in ambito telematico, dove non è possibile usare risposte non verbali (il gioco degli sguardi, la prossemica e il contatto fisico) che nella loro immediatezza permettono di ristabilire certi equilibri, saper punteggiare le relazioni, utilizzando bene la voce e strutturando gli enunciati per evitare che diventino equivoci, è essenziale fin dalle prime battute. Il quarto assioma sostiene che: Gli esseri umani comunicano sia in maniera digitale che analogica. Ovvero, possiamo riferirci agli oggetti in due modalità: dando loro un nome (modalità digitale) oppure creando un’immagine che li rappresenti o attraverso la gesticolazione (modalità analogica). Quest’ultima, più arcaica, è sicuramente meno precisa di quella digitale, ma più radicata nel nostro DNA. L’uomo riconosce molto più le forme rispetto ai contenuti e la maggior parte dei processi mnemonici e di pensiero sono elaborati tramite immagini visive. Se è vero che il «non verbale» risulta notevolmente ridotto nella video comunicazione, sapersi muovere in modo adeguato davanti a una telecamera e saper creare immagini attraverso un linguaggio evocativo potenzia il nostro impatto sullo schermo.

L’ultimo assioma sostiene che: Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza. La simmetria si basa sull’uguaglianza o sulla riduzione ai minimi termini della differenza, mentre il processo inverso rappresenta la relazione complementare. Le due posizioni relazionali dove possiamo muoverci sono definite one-up e one-down; se entrambi siamo in una delle due posizioni siamo in fase simmetrica; al contrario quando tra one-up e one-down vi è una sinergia siamo nella sfera della complementarietà. In uno scambio simmetrico i due interlocutori sono sullo stesso piano, mentre in uno scambio complementare uno è in una posizione cosiddetta «one-up», cioè di superiorità, e l’altro in una posizione cosiddetta «one-down», cioè di inferiorità. C’è da dire che sia la comunicazione simmetrica sia quella complementare possono essere funzionali, a seconda del momento, del contesto, dell’interlocutore e dell’obiettivo che vogliamo raggiungere: ad esempio, davanti a un soggetto particolarmente resistente dovrò selezionare il tipo di relazione più funzionale da scegliere per aggirare tale resistenza. La possibilità di cambiare rapidamente da simmetrico a complementare e viceversa richiede però grande flessibilità emotiva, cognitiva e comportamentale. Nella comunicazione telematica è consigliato mantenere una relazione il più possibile complementare, oscillando tra one-up e one-down, poiché una simmetria troppo accentuata limiterebbe la possibilità della ricerca di una soluzione o di un accordo a causa dei limiti dello strumento che utilizziamo; cosa che non accadrebbe se fossimo dal vivo. Dovremmo sempre ricordare che lo strumento utilizzato, sia questo uno smartphone, un tablet o un computer, è sempre e comunque un filtro attraverso il quale la nostra comunicazione subisce un processo di codificazione, elaborazione e trasmissione, e quindi viene in qualche modo modificata. Gli assiomi della comunicazione umana sono una competenza ineludibile, da mettere in gioco anche nel mondo telematico. Conoscerli e saperli utilizzare porta il professionista a gestire la propria comunicazione anziché subirne gli effetti come troppo

spesso vediamo accadere. Perché, come sostiene Bauman, «Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione».

La superficie è l’anticamera della profondità. La creazione della prima impressione Un migliaio di parole non lasciano un’impressione tanto profonda quanto una sola azione. Henrik Ibsen

La possibilità di influenzare un interlocutore o un gruppo di persone passa attraverso un insieme di elementi comunicativi di tipo non verbale che precedono l’interazione verbale. L’insieme di questi fattori comunicativi costituiscono quella che viene definita «prima impressione». Ancora prima di iniziare l’interazione vera e propria, infatti, molteplici elementi concorrono alla formazione di un primo e immediato giudizio implicito riguardante il modo di essere e le possibili caratteristiche della persona che abbiamo di fronte (Arcuri, 1994; Salvini, 1995). Questi elementi sono sensazioni e percezioni per la maggior parte automatiche, che non rientrano cioè nella sfera della consapevolezza e del ragionamento, e che andranno a condizionare la relazione nelle sue fasi iniziali. Se camminando per strada vedo venirmi incontro un individuo incappucciato con grandi occhiali da sole e dal passo risoluto, il mio istinto sarà quello di tenerlo d’occhio per evitare un potenziale pericolo, se non addirittura di cambiare marciapiede. Ciò che vedo ha fatto scattare nel mio paleoencefalo una sensazione di pericolo alla quale non posso non reagire.

Se al contrario mi trovassi davanti un individuo vestito elegantemente e che cammina rilassato, le mie sensazioni sarebbero totalmente diverse, così come le mie reazioni. In entrambi i casi è la percezione di ciò che vedo a determinare una sorta di valutazione e giudizio dell’altro, pur ignorandone le reali caratteristiche. L’uomo incappucciato potrebbe infatti essere un adolescente assorbito nei suoi pensieri e che sta ascoltando musica, mentre il tizio elegante potrebbe essere un sicario. «Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze» ammonisce Oscar Wilde con la sua arguzia: l’essere umano è costruito per riconoscere la forma e la superficie delle cose e non il suo contenuto; quest’ultimo viene colto solo successivamente, una volta stabilita la relazione. Se pensiamo al mondo animale, la necessità di giudicare dalla prima impressione è ancora più palese. Quando due maschi alfa di una certa specie vogliono stabilire una gerarchia, prima di combattere fanno sfoggio di una serie di rituali di comunicazione finalizzati alla resa del contendente. Pensiamo a un cane: dapprima alzerà la coda, poi il pelo, per apparire più grande, e infine mostrerà i denti. Se tutto questo cambiamento di «forma» non sarà sufficiente a intimidire l’altro, si passerà allo scontro fisico. All’opposto, certi ragni strategicamente fanno finta di essere prede, mostrandosi inoffensivi, per poi uccidere il predatore che li aveva sottovalutati. Negli esseri umani il processo di valutazione iniziale dell’altro funziona nel solito modo ed è un meccanismo atavico che ha permesso all’uomo di sopravvivere nel corso dei millenni. Se non fossimo stati capaci di giudicare il pericolo dalla sua forma – pensiamo a un predatore o a un serpente velenoso – con molta probabilità ci saremmo estinti. Se questo meccanismo della prima impressione è così radicato nell’uomo da essere una vera e propria dinamica, per non subirlo non rimane che imparare a gestirlo, sapendo che le sensazioni suscitate dalla vista dell’altro si tradurranno in una vera e propria

credenza che, una volta formata, sarà difficile da modificare. Ne consegue che i primi trenta secondi di interazione sono fondamentali, poiché sono quelli in cui coloro che ci osservano struttureranno le loro idee su di noi; una volta formata la prima impressione, andranno alla ricerca di tutti gli elementi che la confermino o la smentiscano, creando così una vera e propria profezia che si autodetermina – una supposizione che, per il solo fatto di essere stata formulata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità e producendo una realtà che senza di essa non si sarebbe verificata (Watzlawick, 1981). Immaginiamo per esempio di entrare in ufficio e di scoprire che due colleghi stavano bisbigliando e che appena ci hanno visto hanno smesso di farlo. La prima impressione potrebbe essere che stessero parlando male di noi; se le diamo retta, con molta probabilità il nostro atteggiamento nei confronti dei colleghi risulterà freddo e distaccato, inducendo in loro la stessa freddezza e lo stesso distacco. In questo modo avremo la conferma che i due stavano tramando qualcosa. Saper gestire quindi la prima impressione rappresenta una fondamentale competenza per qualunque interazione strategica, che questa sia un dialogo o una conferenza. Se trascurato, questo aspetto prioritario del comunicare può dare esiti disastrosi, poiché per quanto le mie ragioni possano apparire buone e utili, le impressioni che avrò suscitato nell’altro ne condizioneranno pesantemente il giudizio. Se, come visto in precedenza, l’uomo riconosce le forme molto meglio dei contenuti, quali sono gli elementi che dovranno essere strategicamente gestiti per creare una buona prima impressione? La risposta è semplice e al tempo stesso complessa: Tutti quegli elementi prevalentemente non verbali e visivi che precedono la comunicazione verbale vera e propria. In ogni caso, dovremo fare un saltus di paradigma logico, abituandoci a pensare che una video call ha esattamente lo stesso valore di un incontro dal vivo, per certi aspetti potenziato, per altri limitato. Se quindi per un incontro formale dal vivo – meeting professionale, consulenza aziendale, lezione universitaria, sessione

di psicologia o di coaching o conferenza – ci prepariamo scegliendo i vestiti da indossare o cercando di curare il nostro aspetto, lo stesso dovremmo fare per una sessione on line; in entrambi i casi, stiamo parlando della cosiddetta comunicazione non verbale statica. Il fatto di essere seduti comodamente sulla sedia della propria scrivania di casa non deve farci sottovalutare l’impatto del nostro aspetto sull’altro. Se pensiamo poi che on line possiamo arrivare a migliaia di persone connesse, prendersi cura della nostra estetica diventa un must. Questo non vuol dire che dobbiamo vestirci sempre allo stesso modo, anzi: selezioneremo abbigliamento e accessori in relazione al tipo di lavoro che andremo a fare e alla tipologia di persone che andremo a incontrare. Entrare in scena telematicamente è molto differente dal farlo dal vivo. Prima di tutto, nella maggioranza dei casi, quella che viene esposta è la parte superiore del corpo, dalla cintola alla testa, ed è quindi quella alla quale va prestata particolare attenzione. La postura delle spalle e quella della testa sono particolarmente influenti; per renderle erette ma non rigide è importante guardare nello schermo come se guardassimo all’orizzonte, realizzando ciò che gli antropologi fisici definiscono «visione vestibolare» (Nardone, 2020), ovvero allineare lo sguardo con i vestiboli auricolari; questo, infatti, permette di apparire morbidamente eretti, interessati e accoglienti. Considerando poi che le attuali videocamere dei pc o dei vari dispositivi hanno una risoluzione altissima, diventa fondamentale curare tutti gli aspetti del nostro look: a cominciare dal nostro outfit – stile e abbinamenti di colore – passando all’acconciatura, al trucco, ai gioielli, alla barba, agli occhiali, agli orologi e a tutti gli accessori che possiamo indossare. Tenendo presente che in ambito telematico, dove l’impatto visivo è amplificato, un’estetica troppo curata e caricata nei dettagli produce effetti non positivi, è quindi da preferire un look più sobrio, attento più che altro alla combinazione dei colori. In altri termini non si dovrebbe apparire in «stile presidenziale» ma in modalità confidenziale, più «sciolta» e meno formale, altrimenti la distanza viene rimarcata, divenendo distanza relazionale. Evitare di essere eccessivamente precisi e standardizzati nel look protegge da quell’eccesso di perfezione che

crea un senso di irrigidimento nell’interlocutore, che potrebbe percepirci come «perfettini». Questo, va chiarito, non accade solo quando si è eleganti, ma anche quando si è «conformisti nell’anticonformismo». Al contrario se inseriamo dei piccoli contrasti, come ad esempio per l’uomo un po’ di barba o un capello più lungo del normale su un abito elegante, o dei pendenti particolari per una donna, queste piccole dissonanze susciteranno curiosità o fascinazione. Sono infatti i contrasti a stimolare la curiosità e non le assonanze formali; la nostra percezione si ottunde, infatti, di fronte a fenomeni visivi non stimolanti, mentre attiva le emozioni quando incontra contrasti all’interno di un contesto armonico. La comunicazione non verbale statica è ritenuta spesso, a torto, l’aspetto più controllabile e consapevole, quando in realtà la percezione che abbiamo della nostra estetica raramente coincide con ciò che arriva agli altri. E se dal vivo possiamo prestare attenzione al feedback che riceviamo, on line questa interazione si riduce al minimo; la maggior parte delle piattaforme permette di vederci mentre stiamo parlando ma non di vedere il pubblico, o al massimo di vederne una piccola parte. Quindi, se possiamo osservare la nostra immagine mentre stiamo lavorando – cosa che spesso crea più imbarazzo che possibilità di valutazione critica – non possiamo interagire né misurare il nostro impatto. Questo limite rende ancor più necessaria un’adeguata preparazione della nostra immagine. Dopo aver valutato e pianificato la forma del nostro apparire entreranno in gioco nella creazione della prima impressione tutti quegli elementi di comunicazione non verbale dinamica come i gesti, lo sguardo, la nostra postura dinamica, la mimica facciale e tutti gli aspetti paralinguistici: il suono della voce, le pause, i toni, i timbri e i ritmi del nostro eloquio, elementi che verranno analizzati nel dettaglio nei paragrafi successivi. Per concludere è bene ricordare che la prima impressione, per quanto possa essere studiata e pianificata, dovrà sembrare del tutto normale, spontanea, come se non nascondesse alcuna costruzione, e che dovrà armonizzarsi con ciò che andremo a dire, ovvero con la

nostra comunicazione verbale. Ciò richiede molto esercizio, sotto supervisione di un esperto prima e da soli poi, fino a ottenere un modo di comunicare insieme nuovo e naturale. Teniamo sempre presente che le sensazioni e le impressioni sono spesso verità preannunciate che noi stessi creiamo. Con le parole di Fernando Pessoa: «Tutto ciò che sappiamo è una nostra impressione, e tutto quello che siamo è una impressione altrui».

Costruire il proprio palcoscenico. Il setting telematico Il test di ogni casa è se fa sentire il visitatore a proprio agio. Philippa Tristam

Se la cura di noi stessi nell’apparire nello schermo rappresenta un aspetto cruciale del comunicare telematico, non da meno è il setting da dove ci colleghiamo. Lo sfondo del collegamento, ovvero ciò che si vede alle nostre spalle, gioca un ruolo tanto importante quanto troppo spesso sottovalutato. Nella maggioranza dei casi, infatti, la cura dell’ambiente che viene ripreso dalla videocamera viene trascurato e, per quanto possa apparire un aspetto superficiale, ciò che il soggetto osserva alle nostre spalle parla per noi nella stessa misura degli altri fattori comunicativi: la cornice fa cambiare la percezione del quadro. Vista l’impossibilità per alcuni di organizzare uno spazio idoneo nelle proprie abitazioni, molte piattaforme danno la possibilità di inserire sfondi fittizi. A nostro parere è comunque preferibile un contatto «vero» anche con l’ambiente, e questa soluzione dovrebbe essere adottata solo in caso di estrema necessità. Anziché descrivere come organizzare al meglio lo sfondo, preferiamo stilare qui una lista di elementi da evitare nella creazione del setting di lavoro. Per una comunicazione telematica ottimale è meglio eliminare: Finestre, specchi o pareti di vetro. Dovremmo evitare di lavorare con alle spalle qualsiasi cosa possa riflettere in

maniera anche minima le immagini. È possibile, soprattutto quando le videochiamate avvengono in ambito domestico, che qualcuno della famiglia possa passare nella stanza. Se alle nostre spalle c’è un vetro o uno specchio, l’immagine potrebbe essere catturata dalla camera e vista dall’altro infrangendo la sua privacy e facendoci percepire poco professionali. Porte o ambienti aperti al passaggio. Per lo stesso motivo, bisogna assolutamente evitare di posizionarci con alle spalle una porta o un ambiente sufficientemente grande per far circolare le persone. Per quanto possiamo essere sicuri che nessuno ci interromperà, sono ormai innumerevoli i video, alcuni divertenti ma altri decisamente imbarazzanti, che circolano su YouTube e sui vari social in cui si vedono passare mogli, figli, mariti, domestici e via dicendo. La cosa migliore è posizionarci il più possibile vicino a una parete, in modo da essere certi di non essere sorpresi «alle spalle». Luci inadeguate. La luce con la quale la videocamera riprodurrà la nostra immagine diventa fondamentale. Proprio come in uno studio televisivo, dovremmo creare un gioco di luci che restituisca un’immagine nitida di noi. Dovremmo evitare quindi di lavorare in ambienti troppo bui o con luci che mettano in ombra parte del nostro volto. La miglior cosa è prediligere situazioni nelle quali la nostra immagine possa essere vista senza eccessi di luminosità o di oscurità. Per ottenere questo risultato è bene fare delle prove e se necessario acquistare luci diffuse adeguate alle riprese video. Nel caso si voglia approfondire questo argomento, in rete si trovano numerosi tutorial; le luci possono essere acquistate a poche decine di euro. Sfondi inappropriati. Anche se disponiamo di una stanza o di uno studio che dal vivo sono molto belli, dobbiamo focalizzarci esclusivamente sul segmento ripreso dalla videocamera. Se quindi dietro di noi abbiamo un mobile che si intona benissimo all’ambiente stanza ma che visto on line sembra un pensile da cucina, dovremo cambiare sfondo. Potrebbe funzionare meglio una tenda da pochi euro, che dal vivo ci sembra orribile ma che

on line si intonerà all’ambiente. In generale, eviteremo addobbi troppo vistosi o fuori contesto. Posizionarci in modo asimmetrico. Molto spesso si osservano video call in cui il soggetto è inquadrato male, ovvero troppo a destra o a sinistra dell’inquadratura. Quello che dovremmo prediligere è una ripresa centrale in cui il volto non rischi di essere tagliato fuori dall’inquadratura danneggiando fortemente l’impatto della nostra comunicazione. Essere troppo vicini o troppo lontani dalla videocamera. Nonostante non vi siano regole rigide a proposito della distanza dalla quale dobbiamo essere ripresi, dovremmo evitare tutte le posizioni che risultano poco armoniose o troppo artificiali. Anche in questo caso la miglior cosa è fare delle prove e trovare la giusta misura che valorizzi la nostra immagine. Non essere al 100% in quello che stiamo facendo. Può accadere che, in virtù del fatto che la persona (o le persone) con cui stiamo interagendo possono vederci solo parzialmente, ci riteniamo autorizzati a svolgere attività diverse – scrivere un messaggio sul cellulare, controllare la notifica di un social network o addirittura scrivere una e-mail. Anche se ci sembra che queste attività possano passare inosservate, consigliamo di non farlo: non solo infatti rischiamo di perdere l’attenzione a ciò che l’altro sta dicendo, ma nel caso fossimo scoperti perderemmo credibilità. Di nuovo, dobbiamo pensare che l’incontro virtuale ha la stessa valenza di un incontro dal vivo, e dal vivo non ci metteremmo (almeno si spera) a guardare il cellulare mentre l’altro ci sta parlando. Eccedere nei controlli tecnici. Saper dominare la piattaforma con la quale lavoriamo è un elemento essenziale. Se decidete di utilizzarne una nuova e non siete ancora esperti dovete fare pratica per risolvere eventuali problematiche tecniche. Una volta che inizia un’interazione dovremmo evitare di eccedere con frasi del tipo «Mi senti bene?» o «Mi vedi?» che dovrebbero essere utilizzate solo quando è veramente necessario. Le piattaforme attuali, se supportate da una buona connessione Internet, non

danno particolari problemi. Anche in questo caso l’obiettivo è rendere il più naturale possibile l’interazione telematica. Non essere puntuali. In ambito telematico l’appuntamento dovrebbe essere rispettato il più possibile nei suoi orari. Se dal vivo, secondo alcune teorie di management un po’ sui generis degli anni Ottanta e Novanta, il far aspettare l’interlocutore era una puntualizzazione su chi deteneva il potere relazionale, in ambito on line l’attesa è vista in modo pessimo. L’essere puntuali all’appuntamento telematico è sinonimo di professionalità e affidabilità proprio per il fatto che l’altro si è predisposto alla video call. Farlo aspettare davanti a un computer o a un cellulare non è come farlo aspettare nella sala di attesa del proprio studio. Nel caso in cui per qualche motivo fossimo davvero in ritardo, la miglior cosa è avvertire tempestivamente anche tramite un semplice messaggio. In un mondo sempre più veloce e sempre più connesso il rispetto del tempo altrui diventa la colonna portante della professionalità. Per riassumere, create un setting che vi rappresenti tenendo bene a mente che l’ambiente parla per e di voi; selezionate quindi cosa volete che comunichi. Del resto, con le parole del poeta Wilde: «Non avremo mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione».

Il canto delle sirene. L’utilizzo strategico della voce Un uccello non canta perché ha una risposta. Canta perché ha una canzone. Proverbio cinese

Come vedremo nel paragrafo successivo, il nostro impatto non verbale, tipicamente l’elemento predominante in un contatto dal vivo, in ambito telematico perde gran parte della sua forza. È quindi il paraverbale l’atto comunicativo che predomina da un punto di vista di influenzamento e persuasione. Se iniziamo ad ascoltare una voce calda e profonda che dolcemente ci suggerisce di chiudere gli occhi e ci guida a visualizzare immagini, alternando un ritmo lento a dolci accelerazioni e parole sussurrate ad altre ben scandite, nell’arco di pochi minuti ci troveremo in uno stato di profondo rilassamento e di trance. Ascoltare la voce del nostro cantante preferito può indurre in noi una sensazione di piacere che dà i brividi, mentre discutere con una persona dalla voce stridula potrebbe risultarci insopportabile. L’utilizzo della voce influenza fortemente i nostri sensi e orienta le nostre reazioni, e quindi riveste un’importanza fondamentale in ambito comunicativo. Saper utilizzare bene la voce non è un dono riservato a pochi eletti ma il frutto di un apprendimento che può essere allenato con un esercizio costante. Roman Jacobson definisce tutti gli elementi che danno vita alla musicalità del nostro eloquio «aspetti soprasegmentali del linguaggio», che consistono in pause, ritmo, tono della voce, immedesimazione e interpretazione di quello che stiamo dicendo.

Analizzando più nel dettaglio tali aspetti dobbiamo tener presente che il timbro, il tono e il volume della voce dovranno essere modulati per essere complementari ai movimenti del corpo, ai gesti e ovviamente al contenuto del discorso, quindi alla parte verbale. Facciamo alcuni esempi. Se il dialogo che sto tenendo è rilassato e la mia postura lo è altrettanto, anche il mio paraverbale dovrà avere un ritmo né troppo veloce né troppo lento, un tono adeguato e un volume senza sbalzi. Se dovrò dire qualcosa di importante che rimanga impresso nella mente dell’altro dovrò fare una piccola pausa, poi aumentare un po’ il volume e abbassare il tono, scandire bene le parole e fare un’altra pausa alla fine dell’enunciato. Per far sentire a suo agio colui che ascolta l’eloquio dovrà essere rallentato, il volume abbassato e il suono della voce moderato. Se l’obbiettivo invece è stimolare, motivare e «svegliare» l’altro dovrò aumentare sia il ritmo delle parole sia il volume della voce, ma in modo armonico, musicale; a tale proposito basta osservare famosi trainer e coach americani che hanno fatto propria l’arte di utilizzare il paraverbale tanto da far commuovere intere platee più per come dicono le cose che per cosa dicono. Del resto, nell’arte teatrale questa è una delle competenze fondamentali che l’attore deve acquisire per smuovere l’emozione del pubblico. Anche se stiamo leggendo delle slide dovremmo ricorrere a un’interpretazione idonea, evitando una lettura meccanica e priva di enfasi. Allenare la nostra voce non vuol dire tuttavia seguire corsi di dizione, anzi: imparando a recitare rischiamo di far sentire la nostra comunicazione artificiosa, creando diffidenza negli interlocutori. L’eloquio deve apparire naturale, anche nelle sue più funamboliche espressioni. Piuttosto, saper gestire la propria voce significa saper dominare il respiro, poiché è il controllo della respirazione che ci permette, prima di ogni altra tecnica, di modulare il suono e le variazioni ritmiche e di volume. In questo senso, l’addestramento non è lontano da quello di un attore o di un cantante ma, lo ribadiamo, tutto dovrà apparire naturale senza alcuna finzione (Nardone, 2015).

Se il nostro lavoro è su scala nazionale o internazionale dovremo cercare di ridurre ai minimi termini le inflessioni dialettali ed evitare di «mangiarci le parole» imparando a scandirle per tutta la loro lunghezza senza tagliarne il suono in fase finale. Un esercizio molto utile per imparare a gestire la propria voce è la lettura a voce alta. In questo caso leggendo non ci limiteremo a riprodurre quanto è scritto ma metteremo in atto una vera e propria interpretazione, immedesimandoci in ciò che stiamo leggendo ed esprimendo tutte le emozioni che proviamo, dando enfasi ad alcuni punti e passando rapidi su altri. Non è un caso che in quasi tutte le religioni una delle tecniche di meditazione sia la lettura dei testi sacri a voce alta; così facendo la possibilità di immedesimarsi in quanto è scritto e il potere suggestivo della scrittura stessa aprono a nuove comprensioni e nuove sensazioni. Pensiamo alla ripetizione di mantra o del rosario, di particolari testi del Talmud o di specifici versi del Corano, in grado di suscitare uno stato ipnotico sia in chi li recita sia in coloro che ascoltano, a conferma che l’uso sapiente del paraverbale potenzia l’effetto suggestivo del nostro parlare e aumenta la nostra capacità di persuasione. Un ultimo aspetto da non sottovalutare è che la modulazione della voce influenza anche lo stato emotivo del parlante. Se aumento il ritmo del parlato e alzo il volume della voce, si innalzeranno tutti i miei parametri fisiologici, come in una reazione di forte ansia. Le stesse sensazioni, per effetto dei cosiddetti «neuroni specchio» (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006, 2019; Rizzolatti, Vozza, 2007) si trasmetteranno a chi ci ascolta, ovvero si agiterà in quanto ci sente agitati e ci rifiuterà perché ansiogeni, o semplicemente ci giudicherà in modo squalificante. Se al contrario rallento l’eloquio e abbasso il volume, scandendo bene le parole, mi calmerò e aumenterò la sensazione di autocontrollo. Quando regoliamo la voce controlliamo indirettamente anche la respirazione (Nardone, 2015). Per questo motivo se prima di un’esposizione in pubblico, sia questa dal vivo oppure on line, sentiamo di essere agitati e di provare ansia, dovremo iniziare il nostro discorso cercando di parlare lentamente e senza alzare il volume della voce.

Tutto ciò risulta ancora più determinante quando si lavora on line: dobbiamo imparare a gestire la nostra voce poiché sarà proprio la sua musicalità a fare la differenza: l’effetto musicale del nostro eloquio è considerato in ambito telematico l’elemento fondamentale del processo di persuasione. L’armonia sonora che le parole creano, unita alla dissonanza musicale delle frasi pronunciate, toccherà le sensazioni di chi ascolta molto di più di qualsiasi sofisticata argomentazione; quando stiamo davanti a uno schermo dovremo tenere sempre a mente che se il contenuto può influenzare la comprensione è il suono delle parole che fa «sentire» ed emoziona. Saper quindi selezionare le giuste parole e saperle interpretare correttamente diventa il cuore della persuasione on line. Del resto, con le parole di Victor Hugo: «Ciò che non si può dire e ciò che non si può tacere, la musica lo esprime».

A me gli occhi, a te il sorriso. Lo sguardo e la mimica facciale Si limitò a guardarmi. Quello sguardo mi disse tutto quello che c’era da dire. Charles Bukowski

In un’interazione non filtrata da strumentazione tecnica lo sguardo è indubbiamente l’elemento di comunicazione non verbale più potente di cui disponiamo. Facciamo un salto indietro nel tempo e immaginiamo i consiglieri degli imperatori cinesi che solo con lo sguardo facevano intendere che una determinata scelta era corretta oppure doveva essere scartata. Pensiamo alla suggestione che oggi, attraverso il contatto oculare, esperti psicoterapeuti strategici riescono a indurre nell’altro, tanto da creare velocemente uno stato ipnotico (Nardone, 2020). Infine, ricordiamo la pregnanza degli sguardi di due innamorati o tra madre e figlio: senza dirsi niente comunicano un sentimento profondo. Questi esempi ci mostrano come il contatto oculare sia lo strumento più potente che possiede un essere umano per influenzare le altre persone o gli altri esseri. Del resto, la vista è il senso che maggiormente ha permesso la sopravvivenza del nostro genere. Se ben calibrato uno sguardo può provocare, sedurre, infastidire come anche creare dubbi, rattristare, incutere paura o angoscia; una

sapiente gestione dello sguardo è fondamentale quindi per stabilire una buona relazione. In altre opere (Nardone 2020; Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006) vengono ampiamente descritte le tecniche grazie alle quali, dal vivo, ci è permesso utilizzare lo sguardo affinché esprima tutta la sua formidabile potenza nei processi di influenzamento: ma le cose cambiano quando siamo on line. La strumentazione tecnologica riduce l’impatto dello sguardo e azzera il potere suggestivo e ipnotico del gazing, ovvero del contatto oculare persistente, e la mancanza di profondità dovuta all’appiattimento delle proporzioni nella visione bidimensionale, unita al fatto che l’immagine è una riproduzione, per quanto ben fatta, della nostra immagine, ci impedisce di utilizzare in maniera efficace quello che è stato per millenni il caposaldo della comunicazione umana e di tutti gli animali. È per questo che abbiamo dato grande risalto, nel paragrafo precedente, all’utilizzo della voce: poiché è quest’ultima che on line assume il ruolo di elemento dominante nella persuasione e nell’influenzamento dell’altro. In ambito telematico è praticamente impossibile essere certi che chi abbiamo virtualmente di fronte ci stia guardando negli occhi; e se anche così fosse, l’effetto sarebbe del tutto differente rispetto a una comunicazione one to one «live». Dal vivo, infatti, guardare fisso e prepotentemente negli occhi una persona provoca in lei una sensazione di irrigidimento che fa emergere una sensazione atavica di fuga o aggressione; a prova di ciò, basterebbe una citazione etologica: se tu punti il tuo sguardo dritto negli occhi di un cane sicuro di sé e tendenzialmente reattivo, questi ti aggredirà per difesa, poiché tale comunicazione rappresenta una vera e propria sfida aggressiva (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Ma lo sguardo è anche in grado di sedurre più di ogni altro tipo di comunicazione – si pensi al colpo di fulmine, quella sorta di rapimento dei sensi che ha luogo in un attimo di incrocio di sguardi. Uno sguardo intenso, dolce e appassionato è in grado di sciogliere qualunque gelo relazionale, di commuovere, farci sentire uniti all’altro e compresi anche nelle nostre fragilità. In ambito

digitale questo non accade; on line ci possiamo vedere ma non possiamo stabilire un contatto oculare interattivo. Quello che viene al contrario evidenziato in una comunicazione telematica sono le microespressioni facciali (Ekman, 1975). Questo per due motivi: il primo è che la comunicazione digitale è rallentata rispetto a quella dal vivo, e ciò permette di osservare meglio l’altro. In secondo luogo, poiché siamo meno impegnati da un punto di vista sensoriale, la nostra attenzione è maggiore e quindi è maggiore la nostra capacità di osservazione. Per questo lo strumento, assieme alla voce, sul quale dobbiamo puntare per ottenere una comunicazione efficace on line è l’insieme dei movimenti e delle espressioni del nostro volto, a cominciare dal sorriso. Appare lapalissiano affermare che un sorriso attenua le eventuali tensioni e predispone al contatto interpersonale, così come i cenni di conferma da parte del nostro ascoltatore ci fanno sentire sicuri e gratificati (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Dobbiamo però stare attenti a non esagerare con il sorriso: se eccessivo o ostentato potrebbe essere percepito come falso, ottenendo così un effetto di rifiuto e resistenza (pensiamo a certe figure del mondo politico). Vediamo nello specifico tre tipologie di sorriso: Sorriso a bocca aperta. In questo caso il sorriso è il preludio a una vera e propria risata e andrebbe utilizzato solo nei casi in cui ci sia veramente da ridere. Sorriso a bocca chiusa. È la tipologia di sorriso che consigliamo di usare di più. La sua poliedricità permette un utilizzo in più contesti e situazioni: ad esempio, può essere utilizzato per ricercare un accordo, per smorzare una situazione di tensione, in fase di accoglienza o di saluto come per creare sintonia ed empatia. Sorriso con la bocca chiusa e le labbra rivolte verso l’interno della bocca. Questa tipologia di sorriso va utilizzata solamente in quelle situazioni in cui l’altro ci sta raccontando qualcosa di triste o doloroso. Accennare il sorriso rivolgendo le

labbra verso l’interno, accompagnando il gesto con gli occhi chiusi, trasmette nell’altro le sensazioni di condivisione e comprensione del proprio dolore. In ogni caso è bene ricordare che l’impatto del sorriso cambia in relazione al tipo di sguardo che utilizzerò: infatti basterà aprire o chiudere di più gli occhi per cambiare il significato del nostro sorriso. Di particolare importanza è «l’effetto pupilla dilatata» (Nardone, 2020; Sirigatti et al., 2008), ovvero l’associare al sorriso uno sguardo che dilata le pupille e le rende più luminose, sperimentato come uno dei più potenti effetti suggestivi e seduttivi. Non è facile imparare a riprodurre volontariamente questa espressione non verbale che ci viene naturale nei momenti di intenso piacere o sorpresa, ma con un buon addestramento ci si può riuscire; i risultati renderanno merito allo sforzo. Un altro elemento importante da utilizzare in ambito telematico è l’ammiccamento. Gladwell (2000) ha evidenziato che se durante una negoziazione riusciamo a stabilire una dinamica di ammiccamento non verbale con l’altro le possibilità di riuscita e di trovare un accordo aumentano del 70%. Per quanto riguarda la mimica facciale, non necessariamente dobbiamo rispettare i criteri di coerenza con il verbale, anzi: talvolta sono proprio il contrasto o la contraddittorietà di questi due piani a produrre un grande impatto comunicativo. In particolare, ci sono situazioni in cui comunicare in maniera ambivalente può servire a sbloccare le rigidità dell’interlocutore: ad esempio, dire qualcosa di tagliente con un sorriso sereno, una mimica facciale rilassata e uno sguardo dolce (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Un uso sapiente di mimica facciale unita e paraverbale ci permette di aumentare la capacità di suggestione nell’altro anche on line. Anche in questo caso andiamo a indicare gli errori da evitare quando siamo davanti a una videocamera.

Guardare fuori dallo schermo. Può capitare che durante il lavoro on line il nostro sguardo sia catturato da qualcosa nella stanza. Dovremmo evitare il più possibile di girare lo sguardo distogliendolo dallo schermo poiché l’interlocutore non può capire cosa stia accadendo. Questo porta a una perdita dell’attenzione e può provocare nell’altro l’idea che qualcuno di estraneo stia ascoltando. Se invece abbassiamo lo sguardo e lo riportiamo alla camera, daremo l’impressione che stiamo riflettendo e che siamo interessati, ma non dobbiamo esagerare, cercando di rivolgere il più possibile lo sguardo alla videocamera. Guardare lontano dalla videocamera. Anche se manteniamo il nostro sguardo all’interno dello schermo ma l’immagine che stiamo osservando è lontana dalla videocamera, l’interlocutore noterà chiaramente che non siamo allineati e si troverà costretto a interloquire con qualcuno che guarda altrove. Si dovrebbe guardare il più possibile la videocamera; per semplificarci questo compito, dovremmo posizionare l’immagine dell’altro o la nostra in prossimità della videocamera stessa. Giocare con le espressioni facciali. Osservando la nostra immagine sullo schermo potremmo essere incuriositi dal vedere come appariamo e divertirci a modificare le nostre microespressioni facciali. Meglio evitare questo «gioco», che può facilmente rapirci e distoglierci dal contatto con gli interlocutori. Se è vero che on line le espressioni facciali risultano più evidenti e potenti, dovremmo evitare di ripeterle troppo spesso: ciò infatti ne sminuisce l’effetto, rendendole prevedibili invece che stimolanti e sorprendenti. Per concludere: saper utilizzare il nostro sguardo, adeguatamente combinato con il sorriso e la mimica facciale, è importante per comunicare efficacemente on line, anche se la potenza di questi strumenti risulta ridotta rispetto a quella che esprimono in un incontro dal vivo. Riprendendo le parole del famoso poeta persiano Abu Mohammad Mosleh ebn Abdolla¯h, più conosciuto come Shira¯zi: »Un bel viso è

la chiave di molte porte chiuse».

Il corpo come strumento. La prossemica, la postura e i gesti Ogni gesto di un essere umano è sacro e pregno di conseguenze. Paulo Coelho

Della comunicazione non verbale fa parte anche l’insieme di posizioni e movimenti di tutto il corpo. Se è vero che essi segnalano lo stato emotivo del soggetto, bisogna mettere in conto che la postura, i gesti delle mani come i movimenti della testa o dei piedi cambiano significato a seconda del contesto culturale. Per questo non se ne può avere un sistema di decodifica unica e replicabile, come invece riportano molti testi sull’argomento che, non a caso, il più delle volte non sono redatti da studiosi qualificati ma da coach, motivatori e altre figure nel campo della crescita personale e del coaching. Pensare che certe posture possono avere un significato univoco – come quando si associano invariabilmente le braccia conserte a un atteggiamento di chiusura – significa basarsi su credenze infondate, come dimostrato da Ekman e Friesen (1975). Basti pensare che se nel mondo occidentale per annuire è ormai codificato il movimento dell’abbassare e alzare la testa un paio di volte, in India per annuire si sposta la testa di lato, movimento che nella nostra cultura fa pensare molto più a un gesto di diniego. La convenzionalità di certi gesti insegna a non temere che cose come toccarsi il naso, sistemarsi i capelli o accarezzarsi la barba indichino per forza che una persona stia mentendo o che sia agitata, come sostengono alcune credenze popolari. Al contrario, se sono

armonizzati con gli altri aspetti comunicativi, questi gesti ci faranno apparire interessati e coinvolti nell’esposizione dell’altro. Analizzare un solo fattore e i suoi possibili effetti senza considerare il contesto e la sua interazione con il fluire costante del comunicare è un’operazione riduzionista e poco utile alla effettiva conoscenza operativa di questa parte dellla comunicazione non verbale (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). In ambito telematico, dato che la maggior parte delle volte la ripresa è a mezzo busto, dovremo gestire bene i movimenti della testa e delle mani, sapendo mantenere una postura adeguata. Se vogliamo entrare in sintonia con l’altro i movimenti della testa dovranno essere morbidi, in un’alternanza di immobilità e di cenni di assenso; se desideriamo far trasparire interesse possiamo inclinare leggermente la testa verso destra o verso sinistra per qualche secondo, per poi ritornare al centro. Al movimento della testa possiamo aggiungere il toccarsi il volto; in questo caso i movimenti dovranno essere lenti e circolari, come quelli di un massaggio, evitando gli scatti e la rapidità tipici del grattarsi. Quando gesticoliamo dobbiamo prestare attenzione che il gesto sia catturato dalla videocamera. Può capitare infatti, trascinati dal flusso della comunicazione, di rafforzare la parte verbale con movimenti delle mani, che però non vengono colti dall’interlocutore perché non vengono ripresi dalla telecamera. Attenzione anche che il movimento delle mani non copra il nostro volto: il risultato, in una rappresentazione priva di tridimensionalità, sarebbe quello di mettere un’immagine sopra un’altra, nascondendo il viso. La postura dovrebbe essere plastica, mai forzata o rigida; dovremmo mantenerci centrati, evitando rilasciamenti e «sbracamenti» disarmonici. Ricordiamo che l’interlocutore non ci vede nella nostra interezza, e che potremmo trasmettere un’immagine di svogliatezza, eccesso di relax e, per questo, di scarsa professionalità. Nella stessa misura, un eccesso di rigidità nella postura trasmette tensione e quindi una sensazione di scarsa sicurezza da parte di chi

comunica. Per quanto riguarda la prossemica, dovremo avvicinare il corpo allo schermo quando vogliamo trasmettere interesse o quando stiamo per dire qualcosa di importante, sempre mantenendo flessibilità e armonia nei movimenti. Di particolare rilievo nella comunicazione corporea telematica sono i movimenti della testa, sia in alto e in basso che di lato e in avanti e indietro, non solo perché lo schermo mette in risalto questa parte del corpo, ma anche perché, come è ben noto agli esperti ipnotisti, certi movimenti sono decisamente suggestivi nel mantenere l’attenzione dell’interlocutore e nell’influenzarlo. Mai dimenticarsi, a questo riguardo, degli incantatori di serpenti, i quali ipnotizzano l’animale, sordo, non con il suono del flauto bensì con i loro movimenti della testa associati allo sguardo, in costante contatto oculare con quello del rettile. È bene sottolineare ancora che tutti gli elementi fin qui analizzati devono armonizzarsi con i cambiamenti nel tono della voce e con le pause, le accelerazioni e i rallentamenti dell’eloquio; in altre parole gli aspetti non verbali, paraverbali e verbali dovranno essere sintonizzati e armonizzati tra loro per ottenere un’interazione suggestiva e persuasoria. Del resto è noto che «l’insieme è molto più della somma delle parti».

Capitolo 3 La persuasione digitale

Quando si vuole rimproverare con utilità, e mostrare a un altro che egli si inganna, bisogna osservare da qual verso egli considera la cosa, perché generalmente da quel verso lì essa è giusta, e riconoscergli questa verità, ma svelargli quell’altro verso da cui essa è falsa. Blaise Pascal

Fraintendimenti, ripetizioni e ridondanze Un uomo cammina per strada avendo dimenticato il telefono e l’orologio a casa. Temendo di fare tardi al lavoro e non sapendo che ore siano, ferma una passante e le chiede: «Mi scusi, sa che ore sono?» La donna si gira, lo guarda negli occhi e risponde: «Certo che so che ore sono». L’uomo aspetta qualche secondo, speranzoso, dopodiché chiede: «Può dirmi che ore sono?» «Sì, posso dirglielo». L’uomo interdetto replica: «Ha un orologio?» «Sì, certo! Ho un orologio». L’uomo stupefatto ribadisce: «Ha capito cosa le ho chiesto?» «Certo che ho capito». A questo punto, attonito l’uomo esclama: «Che ore sono?!» «Le otto e cinquanta» risponde la donna tranquillamente.

Questo esempio evidenzia come la nostra intenzione di comunicare qualcosa non necessariamente coincida con l’effetto che creiamo. Questo simpatico dialogo risulta un po’ sui generis, ma non è raro imbattersi in dinamiche di fraintendimenti comunicativi di questo tipo nel nostro quotidiano. Tutti abbiamo discusso almeno una volta nella vita con il nostro partner su qualcosa che era stato frainteso; oltre il 90% dei litigi che avvengono dentro le mura domestiche sono basati più sul «come» è stata detta una certa cosa rispetto al «cosa» è stato detto. Frasi del tipo «hai ragione, ma il tono con il quale mi hai detto quella cosa mi ha fatto arrabbiare» oppure «il mio capo ha detto di sì al progetto ma non mi sembrava convinto. Proverò a chiederlo di nuovo» esprimono interpretazioni, spesso erronee, che abbiamo dato a una certa comunicazione. Risposte del tipo «Perdonami, non era mia intenzione farti stare male. Volevo solo dirti che…» oppure «Mai avrei voluto farti pensare questo di me per quello che ho detto…» sono le classiche reazioni di chi, volendo trasmettere un certo messaggio, ne fa arrivare un altro. Nella comunicazione conta

molto di più ciò che arriva, ovvero la sensazione che si attiva nel destinatario del messaggio, dell’intenzione di chi comunica. Certamente le intenzioni personali sono determinanti e non vanno trascurate, ma in un processo di comunicazione, nei suoi effetti pragmatici, ciò che innesca il senso della relazione e determina l’efficacia del comunicare è ciò che l’altro effettivamente percepisce, non ciò che io avrei voluto che capisse o sentisse. Quando comunichiamo dobbiamo cercare di essere il più strategici possibile rispetto all’effetto che vogliamo ottenere. A tale proposito Platone ammoniva: «Un discorso chiaro e perfetto è determinato da quattro cose: da ciò che bisogna dire, da quanto bisogna dire, dalle persone a cui bisogna rivolgersi e dal tempo in cui bisogna dirlo. Quello che bisogna dire deve apparire utile a chi ascolta; quanto bisogna dire deve essere né più né meno di quello che è sufficiente per farsi capire; quanto alle persone a cui ci si rivolge, bisogna tenerne bene conto; quanto al tempo, bisogna parlare nel momento opportuno, né prima né dopo. Diversamente non si parlerà bene e si andrà incontro a un insuccesso» (cit. in Roncoroni, 1993). Il frainteso è alla base di qualsiasi insuccesso relazionale e comunicativo; al contrario, saper comunicare efficacemente significa raggiungere gli obiettivi prefissati nel minor tempo possibile e con la massima efficacia. A tale proposito vale l’esempio della coppia di giovani che esce a cena per la prima volta. Lei molto curata, amante dello sport e del tenersi in forma; lui più intellettuale e meno incline allo sforzo fisico, tanto da essersi sempre vergognato di un corpo magro e tutt’altro che atletico. La serata è perfetta e culmina con un ultimo drink a casa di lui, preambolo di quella che sarà una notte di passione. La mattina successiva, mentre stanno facendo colazione, tra un gesto di affetto e una battuta lei pronuncia questa frase: «Per me l’aspetto fisico è la cosa più importante». Per lui è come ricevere un colpo da k.o. da un peso massimo. Una doccia fredda. Pensa al suo corpo, non proprio tonico, agli addominali inesistenti e ai pettorali invisibili. Si blocca e non riesce a rispondere.

Dopo una cena meravigliosa e una notte stupenda sente di non meritare un tale affronto. La colazione finisce e i due si salutano. Lui decide di non richiamarla, ritenendo di non essere all’altezza degli standard di lei; probabilmente, pensa, era abituata a uomini palestrati, e la notte trascorsa insieme è stata solo divertimento. Al contrario, lei sta volando al settimo cielo, idealizzando nel pensiero il suo fascinoso intellettuale. Non vede l’ora di ripetere l’esperienza. Nei giorni seguenti aspetta una chiamata di lui, che puntualmente non arriva. Prova quindi a chiamarlo ma niente da fare: non riceve risposta. Triste e delusa, decide di lasciar perdere: lui è come gli altri, pensa. Se solo lui avesse capito che con la frase «Per me l’aspetto fisico è la cosa più importante intendeva che aveva decisamente apprezzato gli abbracci e le carezze della notte appena trascorsa, ovvero il contatto, non l’estetica bensì la relazione fisica, si sarebbe comportato in modo totalmente differente. Allo stesso modo, se lei avesse scelto con più cura le parole e i modi per comunicare ciò che voleva trasmettere, il fraintendimento non avrebbe avuto luogo e la relazione sarebbe continuata.

Se la possibilità di essere fraintesi è già alta in una interazione dal vivo, le cose si complicano quando stiamo comunicando davanti a uno schermo; se la precisione strategica di una comunicazione è sempre necessaria lo diventa ancora di più quando comunichiamo in via telematica. Purtroppo la correttezza del linguaggio, come si potrebbe pensare, non può essere il solo rimedio alla possibilità di fraintendimenti, e per questo dobbiamo utilizzare di più quella che, nello studio della comunicazione strategica, viene definita ridondanza, da non confondere con la ripetizione. Se quest’ultima è la possibilità di intensificare un concetto utilizzando le stesse strutture linguistiche, la ridondanza si concentra sull’evidenziare lo stesso messaggio utilizzando schemi comunicativi simili o del tutto differenti. Se la ripetizione si focalizza sugli aspetti sintattici, la ridondanza si concentra sull’aspetto semantico, ovvero sul significato che vogliamo trasmettere, riproposto in forme diverse e suggestive. Aggiungiamo anzi che le ripetizioni, da un punto di vista strategico, sono da evitare poiché provocano nell’interlocutore un effetto esattamente opposto a quello che vogliamo ottenere, ovvero il rifiuto o la censura per avversione dell’enunciato ribadito. Ad esempio, se

vogliamo vendere qualcosa il modo migliore non riuscirci è di ripetere le stesse frasi usando le stesse modalità comunicative: in quanto verremo percepiti come insistenti e fastidiosi. Se invece ci focalizziamo sui benefici che l’acquisto porterebbe e li descriviamo più volte ma usando modi e termini differenti faremo entrare più in profondità il messaggio senza risultare pressanti, creando così una suggestione persuasoria. In questo caso stiamo usando la ridondanza. A scopo didattico è utile distinguere l’uso della ridondanza durante la fase di ascolto e comprensione dall’uso nell’ingiunzione di un’indicazione. Paul Watzlawick descrive il concetto di ridondanza come l’insieme di schemi comunicativi osservabili durante un’interazione. Osservare ciò che viene ripetuto a livello linguistico e comportamentale permette di delineare le caratteristiche generali di un sistema o di un singolo soggetto nei confronti della propria realtà. In altre parole, essere capaci di osservare le ridondanze comunicative dell’altro aiuta a intuire quello che è il suo sistema percettivo reattivo,4 ovvero il suo modello di percezione e reazione nei confronti della realtà. Quest’intuizione dovrà essere poi comprovata dall’analisi delle ridondanti strategie di tentata soluzione5 da lui adottate per affrontare le sue problematiche o difficoltà. Per descrivere l’effetto che produce l’osservazione della ridondanza, Watzlawick usa il gioco degli scacchi. Assumiamo il gioco degli scacchi come un modello concettuale e supponiamo che vi sia un soggetto esterno che osserva la partita in corso senza conoscere le regole. L’osservatore noterà presto che il comportamento dei giocatori mostra diversi gradi di ripetizione e di ridondanza, da cui si possono trarre conclusioni abbastanza indicative. Ad esempio, si potrà facilmente notare che vi è un susseguirsi di mosse, ovvero che dopo una mossa di un giocatore è l’altro che deve muovere un pezzo sulla scacchiera.

Più difficoltoso, ma comunque possibile, sarà dedurre le regole che i giocatori seguono per muovere i pezzi: osservando, per esempio, che gli alfieri si muovono solo in diagonale mentre le torri lo fanno solo in orizzontale, e così via. Minore è la ridondanza osservata, maggiore sarà la difficoltà di comprensione: in questo caso dipenderà sia dall’irregolarità della frequenza con cui si spostano i singoli pezzi, sia dalla quantità di mosse che si possono fare. Estremamente complesso sarà quindi identificare e dedurre le regole di mosse poco frequenti come per esempio l’arrocco (Watzlawick, 1971). La cosa che più meraviglia nel saper osservare le ridondanze è la possibilità di dedurre regole o schemi senza chiedere alcuna informazione; l’osservatore potrà dedurre in maniera corretta le regole generali del gioco degli scacchi senza aver chiesto niente. Sviluppare la capacità di osservare le ridondanze diventa quindi un elemento essenziale per comunicare efficacemente, poiché ci permette di sintonizzarci con i modelli mentali, emotivi e comportamentali dell’altro e quindi di attivare con lui un processo comunicativo persuasorio. Del resto, già Aristotele così ammoniva i suoi allievi: «Coloro che scrivono discorsi ottengono successo più per l’elocuzione che per il pensiero».

L’argomentazione, la retorica e la sintonia Le affinità cominciano a essere interessanti quando producono separazioni. Johann Wolfgang von Goethe

Dammi grazia, o Signore, di riconoscere appieno, se prima ti si debba lodare o invocare, se la conoscenza di Te debba precedere l’invocazione. Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per un’altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma come si invocherà colui in cui non si crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?

Sant’Agostino apre così le sue Confessioni (sant’Agostino, 1974), con una serie di domande e risposte che magistralmente portano il lettore a riflettere sulla propria conoscenza di Dio, in un monologo che appare molto più di una semplice riflessione poiché mette in dubbio la certezza della conoscenza di Dio fino a introdurre la necessità di una guida: «E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?» Il lettore è dolcemente indotto a lasciarsi condurre nel cammino di conoscenza di ciò che non sa. Se il santo vescovo di Ippona avesse iniziato la sua opera affermando che il lettore non conosceva Dio, e che ciò che credeva di sapere erano semplicemente fantasie prodotte dalla sua ignoranza, probabilmente il suo testo avrebbe avuto molto meno successo; al contrario è considerato una pietra miliare della cristianità. Questo splendido esempio ci introduce all’argomento della nobile arte della persuasione e in particolare dell’abilità di condurre a sé l’altro attraverso sofisticate manovre di argomentazione.

Ricordando l’affermazione del barone Thomas Macaulay: «Lo scopo dell’arte oratoria presa di per sé non è la verità ma la persuasione», in accordo con Elster (1979) riteniamo che siano due le grandi scuole di questa disciplina: quella che fa capo a Cartesio, di matrice aristotelica razionalista, e quella che fa capo a Pascal, di natura sofista e suggestiva (Watzlawick, Nardone, 1997). La prima fonda il processo persuasivo sulla ragionevole dimostrazione intellettuale: in altri termini, l’argomentazione e la dimostrazione razionale, fondate sulla logica aristotelica dei principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, divengono il cardine del convincimento dell’altro. Si ritiene così che, una volta condotta la persona a conoscere il «vero», a evitare le contraddizioni e a essere coerente con tali presupposti, il processo persuasorio sia realizzato. La persuasione passa cioè attraverso la condivisione dei contenuti semantici proposti, raggiunta dialetticamente mediante una disputa o negoziazione razionale e dimostrativa (Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000). La prospettiva strategica, al contrario, si fonda sulla retorica sofista e sull’uso di suggestioni e quindi non si baserà sui contenuti, quanto piuttosto sulla forma della comunicazione in grado di produrre determinati effetti pragmatici (Nardone, 2020). Un esempio illuminante di questa attenzione alla forma la fornisce Cicerone nel suo De oratore, elencando le modalità per rendere un’argomentazione persuasoria: assumere inizialmente una posizione dimessa per poi esporre le tesi forti, convalidandole con citazioni o esempi di grandi personaggi; sorvolare velocemente sugli argomenti deboli; indugiare e tornare su quelli forti cambiando le parole usate, ma mantenendone fermo il senso; chiudere con un suggestivo «effetto eco» tramite un’immagine o una formula evocativa che si fissi nella mente di chi ascolta (Nardone, 2015). Saper argomentare in maniera efficace è dunque la modalità con la quale si presenta una determinata tesi per renderla accettabile. Il primo obiettivo da raggiungere in un processo di argomentazione strategica è quello di rendere la propria posizione prima affascinante e poi ragionevole, successivamente avvincente e infine quella più corretta tra tutte le possibili; si tratta quindi di cambiare il significato

delle cose attraverso la forma con cui vengono organizzate e presentate (Nardone, 2015). Possedere una buona capacità retorica di questo tipo significa anche sviluppare quella flessibilità nella comunicazione tale per cui possiamo adattare il nostro eloquio in relazione a chi abbiamo davanti. Gli oratori esperti sanno valutare molto bene il contesto e il pubblico al quale si stanno rivolgendo e per questo sanno modulare il proprio parlare: in modo semplice con persone semplici e in modo articolato con un pubblico più specialistico. Altra caratteristica fondamentale della capacità retorica è il saper esprimere compiutamente il proprio pensiero e le proprie posizioni senza mai farle apparire le uniche valide, ma semmai le più efficaci. Questo vuol dire evitare sentenze dirette e, al contrario, argomentare in forma raffinata attraverso un sapiente uso del linguaggio, che deve essere chiaro e accessibile ma fare anche uso di parafrasi, analogie, antinomie logiche sorprendenti e proporre diversi punti di vista, il tutto in modo da convogliare «naturalmente» verso ciò che si vuole far sentire e comprendere all’interlocutore. Un’argomentazione strategica deve riuscire a produrre un effetto di naturalezza, come di acqua che scende dall’alto al basso. A tale scopo, come abbiamo trattato in altri testi dedicati a questo tema (Nardone, 2015; Nardone, 2020; Nardone, Watzlawick, 1990), il comunicatore strategico deve possedere oltre che notevoli abilità da performer del linguaggio non verbale e paraverbale, elevate competenze retoriche. Tutto ciò rappresenta la base necessaria perché il comunicare, che come abbiamo visto è un atto complesso, sia svolto fluidamente e con naturalezza e che, in virtù di ciò, tra gli interlocutori si crei un’atmosfera di sintonia. Una particolare connessione relazionale che non è empatia, bensì interazione che fa convergere il sentire degli interlocutori; un flusso comunicativo grazie al quale tra i soggetti coinvolti si crea una sorta di armonica e compiaciuta danza che potrà evolvere in relazione empatica oppure rimanere una semplice emozione di piacevole contatto con l’altro. Con il quale possiamo continuare ad avere anche opinioni differenti e discutere, godendo dello scambio di vedute. Il dialogo così fluisce senza ostacoli e vi è un armonico scambio relazionale e intellettuale

dove sia noi che l’altro siamo concentrati ma senza sforzo, attenti ma non controllanti, focalizzati ma percettivi, pertanto aperti allo scambio emozionale e cognitivo e per questo al cambiamento. Favorire la sintonia è una parte importante dell’arte retorica, e a tal scopo si deve strategicamente assumere la posizione relazionale complementare a quella dell’altro e non necessariamente ricalcarne le modalità: divenire l’altra parte del dialogo, dello scambio di vedute e di intelligenze, come indica l’etimo di questa parola. Creare questo armonico scambio dà la possibilità di aprire a nuove prospettive entrambe le menti in interazione. Per farlo, piuttosto che andare alla ricerca di un accordo negoziale sui contenuti o fare da specchio all’altro senza aggiungere nulla allo scambio comunicativo, come viene indicato dai fautori dell’empatia, sarà decisiva la forma della propria comunicazione. Parafrasando Goethe, ci si associa più per affinità che per somiglianza. E, come insegna l’antica saggezza cinese, «La parola qui non serve a parlare, ma a indurre l’altro a farlo; essa non mira a esprimere il proprio sentire, ma a fare in modo che l’altro mostri il suo: così da poter adattarsi a lui e, di conseguenza, essere bene accolti e, conseguenza ulteriore, creduti» (Jullien, 1996).

All’inizio era il Verbo. La parola, il linguaggio e la struttura dell’eloquio I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole. Ludwig Wittgenstein

La potenza della parola e delle sue conseguenze è nota sin dall’antichità, basti pensare alle parole con cui si apre il Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». «Noi viviamo in un universo semantico» osservavano Maturana e Varela (1984), ovvero la costruzione della nostra realtà è un continuo scambio tra percezione, reazione e la sua espressione linguistica che a sua volta ridetermina una nuova percezione – ovvero il percepito – dove ciò che vogliamo comunicare viene trasformato in linguaggio attraverso la parola. Va da sé che scegliere determinate parole piuttosto di altre per descrivere un certo fenomeno creerà effetti differenti sia sull’interlocutore che su noi stessi. Una comunicazione efficace richiede un’adeguata selezione delle parole nella composizione dell’enunciato. Dire a una persona «Il tuo problema è…» invece di «La tua criticità è…» traccerà una differenza e provocherà un cambiamento nella percezione della realtà che sta vivendo. «Le parole in origine erano magiche» è la citazione biblica che Freud utilizzava per evidenziare il potere della parola e del dialogo tra l’analista e il paziente. La magia della parola consiste quindi nella

creazione di sensazioni, percezioni e immagini che andranno a costituire la realtà soggettiva di ogni individuo. In ottica strategica i problemi e le soluzioni sono il prodotto dell’interazione tra il soggetto, la realtà percepita e la comunicazione che si instaura con sé stessi, gli altri e il mondo. Austin asseriva che la nostra interpretazione della realtà dipende dalle categorie che noi imponiamo al mondo, e quelle sono per la maggior parte linguistiche: ovvero, la nostra realtà è prodotta dal nostro linguaggio. Un avvenimento cambia di significato in relazione a come noi lo descriviamo, ed è qui che nasce la realtà di molte realtà: non esiste un mondo, ma tanti mondi diversi, un numero immensamente grande di mondi e realtà da comunicare e da comunicarsi (Skorjanec, 2000). L’insieme delle parole e dei loro effetti forma il linguaggio. Il linguista Roman Jacobson si è occupato delle funzioni del linguaggio suddividendole per categorie; di particolare rilievo per la comunicazione telematica sono quelle che Jacobson definisce la funzione fatica, la funzione conativa, quella referenziale e infine quella evocativa. Per funzione fatica si intende la cattura dell’attenzione attraverso l’utilizzo di suggestioni o enunciati che sorprendano l’interlocutore. Dovremmo sempre iniziare il nostro eloquio con un enunciato evocativo: un aforisma sorprendente, un breve racconto, una massima illuminante o una citazione potente. L’obiettivo è svegliare l’interesse di colui o coloro che si sono collegati per ascoltarci e catturarne immediatamente l’attenzione. Un’altra modalità consiste nel porre un dubbio e stimolare una riflessione su un determinato argomento, come abbiamo visto fare magistralmente da sant’Agostino nell’incipit delle Confessioni. Si tratta di una tecnica in cui erano maestri gli oratori della Scolastica medievale. Dopo aver catturato l’attenzione dell’uditorio dovremmo passare alla fase successiva, quella in cui opera la funzione conativa: qui esporremo l’oggetto della nostra comunicazione nel modo più semplice ed esplicito possibile, utilizzando esempi concreti o calzanti analogie per rafforzare le argomentazioni logiche e descrittive. Far

ricorso all’utilizzo di citazioni ed esempi illustri dà maggior vigore e credibilità ai significati espressi. Per potenziare questa fase è molto utile la funzione referenziale: per esempio citare precise fonti storiche e dati di ricerca, fornendo i «numeri» e gli esiti degli studi sistematici relativi al tema, per poi procedere con esempi di esperienze dirette o reali casi trattati. In tutto questo, fondamentale è l’utilizzo di un linguaggio sia logico sia analogico. Questa sofisticata tecnica retorica necessita di un’esposizione particolareggiata e verrà spiegata nel dettaglio nel prossimo paragrafo. Infine dovremo concludere il nostro intervento con un enunciato che rimanga nella mente di chi ci ascolta, creando il cosiddetto effetto eco (Nardone, 2015). Possiamo cosi riassumere la struttura di un eloquio strategico in ambito telematico: Aprire l’intervento in modo tale da catturare l’attenzione e sorprendere l’uditorio. Esporre in maniera semplice e concisa l’obiettivo e i concetti principali. Argomentare le nostre tesi attraverso l’utilizzo di referenze storiche, scientifiche, aneddoti personali e storie reali. Utilizzare un linguaggio sia logico che analogico. Chiudere con un enunciato a effetto eco. Sebbene questa struttura possa essere valida ed efficace anche in ambito non telematico, lo diventa ancor di più in tutte quelle comunicazioni dove la potenza della comunicazione non verbale viene ridotta. Diventa quindi elemento fondamentale del nostro successo oratorio la modalità con la quale organizzeremo il nostro eloquio e il linguaggio che selezioneremo. Non solo: come ci ricorda Wittgenstein: «Il linguaggio che utilizzi, alla fine ti utilizza». Saper ben parlare, scegliere le giuste parole e la loro composizione per il nostro intervento non sarà una semplice questione di stile, ma di successo nel raggiungimento degli obiettivi

che ci siamo prefissati; oltre a ciò, a nostra volta ci lasceremo utilizzare, lasciandoci andare al flusso del nostro stesso eloquio e dando vita ad atti linguistici spontanei che volontariamente non saremmo in grado di produrre: ciò che abbiamo definito altrove (Nardone, Bartoli, 2019) «educata incoscienza» e «trance performativa», fenomeni autosuggestivi che ci permettono di andare oltre i nostri limiti nel performare anche come oratori.

Evocare sensazioni «Prima di convincere l’intelletto occorre toccare e predisporre il cuore». Con queste parole Pascal ci apre al mondo dell’evocare emozioni e sensazioni attraverso la comunicazione, un aspetto che abbiamo visto elencato da Jacobson quando parla di funzione evocativa. Condurre un dialogo efficace significa, come ormai comprovato dalle moderne neuroscienze oltre che dalla psicoterapia, creare nell’altro dei cambiamenti non attraverso la comprensione bensì attraverso un modo diverso di sentire la situazione. Evocare significa suscitare sensazioni attraverso la forma che diamo alle nostre argomentazioni, grazie alla scelta del linguaggio che utilizziamo e a come le accompagniamo, «interpretandole» a livello non verbale e paraverbale. Il linguaggio evocativo ha la capacità di proiettarci all’interno di un’atmosfera che tocca le emozioni. Tuttavia, non basta certo usare affascinanti storie o intriganti metafore per rendere davvero efficace il nostro dialogo, poiché a questo scopo dobbiamo avere un obiettivo chiaro da raggiungere e individuare le difficoltà da superare per ottenerlo. Non sarà quindi sufficiente creare una generica evocazione: questa dovrà essere orientata all’effetto che vogliamo produrre nell’interlocutore. Se tutte le figure retoriche e le forme poetiche possono essere un valido alleato per toccare le emozioni altrui, quando stiamo comunicando attraverso lo schermo, come già evidenziato, è di particolare importanza alternare un linguaggio descrittivo, tipico della spiegazione, con uno più analogico che evoca sensazioni. Per i concetti di minor importanza sarà sufficiente avvalersi di una descrizione logica; per quelli più importanti si utilizzeranno entrambe le modalità.

La creazione di immagini analogiche durante il dialogo rafforzerà il concetto che vogliamo trasmettere oltre a mantenere alta l’attenzione dell’interlocutore. Per facilitare l’utilizzo dell’analogia nel dialogo, quest’ultima dovrebbe essere introdotta dalla parola «come». Ad esempio, a una persona indecisa potremmo dire: «Quando indugi in questo modo sei come il naufrago che non sa dove sia la terra e che, per paura di sbagliare direzione, affoga senza provare a nuotare»; al manager troppo controllante e che si sostituisce ai suoi collaboratori diremo: «Quando non deleghi e non permetti loro di sbagliare fai come il padre di famiglia che vuole controllare i propri figli, ma quelli riescono lo stesso a fare i comodi loro». Tecnicamente l’analogia dovrà calzare esattamente alla precedente enunciazione logica, in modo da ridurre ai minimi termini il processo interpretativo e lasciando pieno spazio all’impatto evocativo. Dovremo orientare i suoi effetti in direzione avversiva rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti che devono essere interrotti o cambiati, e rafforzativa nei confronti dei comportamenti da incentivare o incrementare (Nardone, Salvini 2004). Sia che scegliamo di utilizzare un’analogia, un aforisma, un aneddoto o una metafora, l’importante è che provochi l’effetto evocativo pianificato; in altre parole non sarà importante la figura retorica o l’immagine scelta, quanto il suo effetto pragmatico. In quest’ottica dovrà essere, è bene sottolineare, in sintonia con lo stile comunicativo e le caratteristiche personali del soggetto. Ad esempio, non sarà efficace narrare a una persona iper-razionale una storiella zen, in quanto si sentirà trattato da ignorante, mentre sarà folgorato da un dotto aforisma mitteleuropeo (Nardone, Salvini 2004). In ogni caso, l’utilizzo di aforismi dovrà essere centellinato e orientato all’obiettivo. Un loro abuso ci farà sembrare inutilmente eruditi, come chi parla per frasi fatte o sentenze calate dall’alto. L’utilizzo strategico dell’aforisma è da considerarsi come il colpo singolo di un cecchino: ben ponderato, sparato nel momento giusto e irripetibile. La stessa accortezza dovrà essere usata nei riguardi degli aneddoti, che si tratti di esperienza altrui o nostra. L’aneddoto ha

una potente funzione referenziale nella creazione della fiducia e della sintonia con l’interlocutore, ma il suo abuso, specialmente se si eccede nel parlare di sé, crea esattamente l’opposto: la sensazione di parlare con un egocentrico primo della classe. Particolare attenzione dovrà essere posta anche all’utilizzo della metafora. A differenza dell’analogia, dovrà calzare alla logica razionale dell’argomentazione trattata ma non vi aderirà completamente, poiché il suo scopo è proprio quello di produrre una decontestualizzazione. Il soggetto andrà alla ricerca del significato insito alla metafora stessa. Se con l’analogia sappiamo cosa andremo a colpire, con la metafora lasciamo che sia il soggetto a «prendere» ciò di cui ha bisogno. Questo processo interpretativo porta automaticamente a una perdita di controllo dell’effetto evocativo da parte dell’oratore, e per questo l’utilizzo massiccio di metafore in ambito aziendale e nei processi di team building è sconsigliato. Infine, la forma comunicativa prescelta, oltre ad adattarsi all’interlocutore, dovrà essere allineata con lo stile personale di chi ne fa uso: un soggetto gracile e privo di muscolatura sarà poco credibile se narrerà di battaglie sanguinolente e guerrieri eroici; lo stesso accadrà a chi cita dotti studiosi o eleganti personaggi storici con fare rozzo e poco educato. Concludendo: saper utilizzare il linguaggio evocativo in maniera efficace non è solo un esercizio tecnico ma anche un allenamento continuo di sensibilità, cultura e attenzione ai particolari. Ripetere a pappagallo formule prefissate non produrrà lo stesso effetto che sentirle in prima persona e poi trasmetterle. Improvvisarsi retori e poeti è il miglior modo per fallire nella nostra efficacia comunicativa. Saper influenzare l’altro, toccare le corde giuste e farlo emozionare richiede padronanza tecnica, un esercizio continuo e infine una propensione alla creatività. Con le parole di Protagora: «Non esiste arte senza sapere ed esercizio del sapere».

Il dialogo strategico telematico Nel vero dialogo, entrambe le parti sono disposte a cambiare. Thich Nhat Hanh

Se quanto abbiamo visto può essere valido nel momento in cui esponiamo le nostre tesi durante una conferenza o una lezione on line, le cose cambiano quando stiamo dialogando con una persona o un piccolo gruppo. Una delle prime testimonianze dell’utilizzo di un dialogo finalizzato alla persuasione e al cambiamento risale a Protagora, che nelle sue Antilogie dimostrò come su uno stesso argomento si potesse dimostrare una cosa e il suo esatto contrario. Il suo genio lo portò a creare una tecnica grazie alla quale, rispondendo a una serie di domande, l’interlocutore finiva per cadere in contraddizione con le proprie affermazioni e cambiava opinione in merito alla sua personale scoperta (Nardone, Salvini, 2004). Tale arte fu definita eristica. La capacità di fare le domande eristiche è l’abilità principale di colui che vuole influenzare strategicamente l’altro. Per molto tempo, sia in ambito scientifico sia psicologico si è pensato che sono le ipotesi che noi formuliamo a fare scaturire le domande, come se queste ultime fossero la parte finale di un ragionamento, al contrario sono proprio le domande ben costruite che aprono a riflessioni nuove e introducono nuovi ragionamenti. Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pratica, secoli dopo, dimostra come la maggior parte dei problemi non deriva dalle risposte che ci diamo ma dalle domande che ci poniamo.

Aprire un dialogo telematico con delle domande invece che affermando la propria tesi diviene il primo passo per condurre lo scambio in maniera efficace. Dovremo quindi partire con quesiti ampi e generali, indagando il punto di vista dell’altro e cercando di capire le sue convinzioni e le sue rappresentazioni mentali e, solo dopo esserci sintonizzati con esse, iniziare, sempre con domande strategiche, a orientare il nostro interlocutore verso il cambiamento di prospettiva. Le domande più efficaci saranno quelle all’interno delle quali si offrono due possibilità di risposta. Ciò riduce lo sforzo cognitivo di chi interagisce con noi e agevola il processo di persuasione. Se ci limitiamo a chiedere «Cosa pensa sia accaduto?», lasciamo che l’interlocutore sia libero di divagare, rischiando di perdersi. Se invece proponiamo un’alternativa di risposta: «Pensa che sia accaduto questo» – indicando una possibilità – «oppure quest’altro?» – proponendo un’alternativa valida – lo aiutiamo a scegliere, offrendo alla sua mente un «frame cognitivo» rassicurante ma al tempo stesso orientante. Il processo di costruzione di due alternative di risposta dovrà essere estremamente preciso e calibrato: proporre una seconda opzione troppo lontana dagli schemi di rappresentazione della realtà dell’altro risulterà fallimentare. Per questo motivo le domande così costruite dovranno essere inizialmente finalizzate all’analisi e comprensione della situazione e del suo funzionamento; successivamente si passerà a formulare quesiti che permettano di discriminare bene gli argomenti, ciò che è da ciò che non è, in modo tale da restringere il campo di azione focalizzandosi verso l’obiettivo da raggiungere. Una volta inquadrate bene la situazione e le credenze dell’altro si andrà avanti con domande che orientino punti di vista alternativi e che infine influenzino le scelte, poiché conducono ad assumere quelle prospettive che fanno scoprire all’altro ciò che per lui è più vantaggioso e funzionale (Nardone, 2015). La potenza delle domande così costruite e messe in sequenza strategica è tale che possiamo indurre nell’altro svariati effetti pragmatici: far nascere dubbi, far provare esaltazione, avversione,

creare una paura più grande, far divertire o commuovere, alleggerire o intristire, motivare o smontare, fino a potenziare o ridurre certe sensazioni. Vediamo le diverse tipologie di quesiti che possiamo introdurre nel nostro dialogare in forma strategica, così come le ha definite con precisione Camillo Loriedo (Loriedo, Sale, 2004). Domande retoriche. Appartengono a questa categoria tutte quelle domande la cui risposta non ha particolare importanza, poiché è implicita nella domanda stessa: «Mi permette di farle una domanda o preferisce continuare a raccontarmi ciò che è accaduto?» «Posso provare ad avanzare un’idea o preferisce non valutare un’opzione diversa dalla sua?» «Posso dirle quello che ritengo giusto o è meglio che non mi esprima?» Questa tipologia di quesito tende ad abbassare la resistenza dell’interlocutore, e risulta quindi utile per gestire la relazione quando quello si sta irrigidendo sulle proprie posizioni o contro di noi. Un utilizzo eccessivo potrebbe però farlo sentire preso in giro. Domande generanti quesiti o domande che creano nuove domande. «Da quanto ci siamo detti fin qui, le è venuta in mente qualche domanda da farmi o preferisce che sia io a continuare a chiedere?» «Se si trovasse in quella situazione e potesse chiedere, vi è una domanda che vorrebbe fare o preferirebbe rimanere in silenzio?» Ci sono dei dubbi che devono essere sciolti o posso continuare nella mia esposizione?» Questo stratagemma retorico del fare una domanda per generare una nuova domanda è molto utile quando vogliamo capire meglio una persona. Domandare qualcosa espone la persona che chiede a mostrarci quale è il suo interesse e dove è la sua focalizzazione; possiamo capire una persona molto meglio dalle domande che pone rispetto alle risposte che fornisce. Questo tipo di domande può essere utilizzato anche per sorprendere l’interlocutore che si aspetta di essere interrogato da noi, capovolgendo totalmente l’interazione.

Domande referenzializzanti o con carattere di referenza esterna. Appartengono a questa tipologia tutte quelle domande che conducono a una riflessione mai presa prima in considerazione. «Pensa che il suo maestro di yoga/arti marziali sarebbe d’accordo con quanto lei ha fatto o la rimprovererebbe?» «Se potesse parlare con il signor X, che lei stima, pensa che lui le suggerirebbe di continuare a fare ciò che sta facendo o le suggerirebbe di cambiare?» Per essere efficaci, queste domande dovranno essere costruite utilizzando soggetti esterni alla situazione ma non lontani dalla persona. Va da sé che potremo utilizzarle solamente dopo aver instaurato con l’altro un rapporto di sintonia e conoscenza tale da poter scegliere e mettere in gioco il «personaggio» giusto. Questa tipologia di domande può aprire scenari nuovi tanto da creare delle vere e proprie esperienze emotive. Dato il loro forte carattere di ristrutturazione non dovremmo mai abusarne, bensì utilizzarle in maniera parsimoniosa e al momento giusto. Domande autoriflessive. Sono quesiti nei quali chiediamo all’altro di pensare cosa dovremmo chiedergli noi, ovvero chiediamo di suggerci quali domande porre. «Dopo tutto quello che mi hai raccontato, cosa dovrei chiederti: questo o quest’altro?» «Pensi che la risposta che mi hai appena dato sia appropriata o è meglio che tu ci rifletta ancora un po’?» Questo tipo di quesiti aiutano l’altro a ragionare su quanto gli sta accadendo mettendolo nei nostri panni; vengono utilizzati con persone che non hanno difficoltà a ragionare in forma critica sui propri comportamenti e che dimostrano sufficienti risorse per mettersi in gioco. Molte volte, proprio per la loro caratteristica di autoriflessione, il soggetto può non trovare una risposta adeguata. Per questo motivo dovrebbero essere utilizzate solo in quei casi in cui vogliamo far sentire all’altro che il suo punto di vista è totalmente disfunzionale; in tal modo assumono una valenza retorica e di provocazione. Domande con messaggio nascosto. Questa tipologia prevede che nella costruzione del quesito si introduca un messaggio, solitamente inserito in forma di premessa o altrimenti implicito,

che risulti essere utile al cambiamento della situazione o al raggiungimento dell’obiettivo. Per esempio, potremmo chiedere a un soggetto che ha paura di esporsi in pubblico: «Potrebbe cercare di cambiare solamente piccole cose del suo quotidiano senza che queste la espongano direttamente al pubblico o anche questo è troppo per lei?» Benché, posta in questo modo, la domanda sembri non chiedere all’altro di esporsi, contiene in modo implicito il messaggio di cambiamento: anche se questo sembra non agire sul problema, in realtà lo farà, in modo indiretto. Cosi facendo aggireremo la resistenza del soggetto ad affrontare in maniera diretta la sua problematica e introdurremo dei cambiamenti apparentemente non collegati a ciò che teme. In ottica strategica abbiamo solcato il mare all’insaputa del cielo, inducendo a fare proprio quello che la persona teme di fare senza che questi se ne renda conto. In tutti i casi, sia la sequenza sia le domande non dovranno seguire un processo rigido e prestabilito ma dovranno essere calzate alla situazione e alla logica dell’interlocutore e, quindi, calibrate in relazione all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Come abbiamo già evidenziato in precedenza, le domande strategiche dovranno condurre l’interlocutore a scoprire in quale maniera egli sia artefice del proprio destino (Nardone, Salvini, 2004) e come possa gestirlo nel modo più funzionale possibile. Già Epicuro osservava che: «Non bisogna far violenza alla natura ma persuaderla». Ogni due o tre domande sarà necessario procedere con parafrasi che aiutino e verifichino la comprensione; la miglior cosa è iniziare il parafrasare ripetendo esattamente le risposte che l’interlocutore ci ha fornito, in modo da creare una serie di accordi relazionali e favorire la sintonia. A mano a mano che ci addentriamo nel dialogo dovremmo inserire nella parafrasi elementi nuovi, allo scopo di orientare le percezioni verso il cambiamento, passando da un semplice riassumere quanto ascoltato a un processo di ristrutturazione. Oltre a riprendere le risposte e riordinarle in una sequenza coerente e congruente, aggiungeremo una serie di

immagini analogiche che calzino con i significati logici (Nardone, 2015). L’altra manovra possibile nella creazione di una parafrasi ristrutturante consiste nel cambiare l’ordine delle risposte che l’interlocutore ci ha dato, creando così una trama differente della sua storia. Come sosteneva Blaise Pascal, «Le stesse parole in sequenza diversa daranno risultati differenti». L’effetto congiunto di un processo di domande strategicamente orientate e di parafrasi sempre più ristrutturanti, unito all’utilizzo del linguaggio evocativo, conduce elegantemente il nostro interlocutore a scoprire nuovi punti di vista attraverso le sue stesse risposte (Nardone, 2015). Riuscire a far sperimentare al soggetto tali esperienze emozionali correttive durante il dialogo rappresenta l’essenza del processo eristico. In ambito telematico, data la maggiore difficoltà nel mantenere un alto grado di concentrazione e attenzione, diventa decisiva la tecnica del «riassumere per ridefinire» nel momento in cui stiamo per chiudere il dialogo. Si tratta di riassumere tutti i punti essenziali emersi durante il colloquio, «incorniciandoli» in modo tale da chiarire quanto fatto e da far sentire, quando necessario, l’ineluttabilità di un cambiamento come effetto naturalmente logico. Questa manovra è una sorta di iper-parafrasi che ri-denota l’intero processo consolidandone gli effetti (Nardone, Salvini, 2004). Concludiamo questa parte dedicata alla persuasione con l’invito a leggere uno dei più bei dialoghi mai scritti, quello tra la volpe e il piccolo principe (de Saint-Exupéry, 1943), dove il susseguirsi di domande e risposte apre a nuovi scenari e profonde riflessioni. In quel momento apparve la volpe. «Buon giorno», disse la volpe. «Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. «Sono qui», disse la voce, «sotto il melo…» «Chi sei?», domandò il piccolo principe. «Sei molto carino…» «Sono una volpe», disse la volpe. «Vieni a giocare con me», le propose il piccolo principe, «sono così triste…» «Non posso giocare con te», disse la volpe, «non sono addomesticata».

«Ah! Scusa», fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?» […] «È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…» «Creare dei legami?» «Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo». […] La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: «Per favore… addomesticami», disse. «Volentieri», rispose il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose». «Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!» «Che bisogna fare?», domandò il piccolo principe. «Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…» Il piccolo principe ritornò l’indomani. «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità. Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… ci vogliono i riti». […] Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

Capitolo 4 Ippocrate telematico: le cure mediche a distanza

Le parole sono lo strumento più potente che un medico possiede, ma le parole, come una spada a doppio taglio, possono mutilare così come guarire. Bernard Lown

La cura è un atto di relazione Fin dall’antichità, i guaritori hanno sempre posto grande attenzione alla comunicazione con il paziente, ben consapevoli della sua importanza nel mantenimento o nel recupero della salute. Ippocrate, padre della medicina, considerava «il tocco, il rimedio, la parola» i tre pilastri dell’agire medico, mentre per Platone «Il più grande errore nel trattamento delle malattie è che ci sono medici per il corpo e medici per l’anima, mentre le due cose non dovrebbero essere separate». In tempi più recenti, Sigmund Freud (Freud, 2012) sosteneva che ogni trattamento medico è in fondo un trattamento psichico: Psiche significa «anima», perciò si potrebbe pensare che trattamento psichico sia il trattamento dei fenomeni patologici dell’anima. Ma il significato è diverso. Trattamento psichico vuol dire trattamento a partire dall’anima, trattamento dei disturbi psichici e somatici, con mezzi che agiscono in primo luogo e direttamente sulla psiche umana. Questo mezzo è costituito anzitutto dalla parola, e le parole sono anche strumento fondamentale del trattamento psichico. Certo, difficilmente il profano potrà comprendere come le «sole» parole del medico possano rimuovere disturbi patologici somatici e psichici. Penserà che gli si chieda di credere nella magia. E non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi di tutti i giorni sono solo magia attenuata.

Purtroppo, questa antica sapienza è andata progressivamente perduta, e il potere «magico» della parola è stato deliberatamente abbandonato con il riduzionismo scientifico e con la separazione artificiosa tra corpo e mente, poi esasperata fino all’iperspecializzazione della medicina d’organo. Questo modello, se efficace in certe circostanze, come traumi o malattie acute, si rivela fallimentare, ad esempio, nell’approccio alle malattie cronico-degenerative come tumori, malattie cardiovascolari o diabete, che sono le principali cause di malattia e morte nel mondo occidentale.

Se di fronte a una persona con una frattura a un polso non sono necessarie particolari abilità comunicative ma una buona ingessatura, di fronte alla persona diabetica o cardiopatica le cose sono ben diverse. Queste malattie richiedono, sia per essere prevenute che per essere trattate, complessi interventi basati su cambiamenti dello stile di vita, strategie che, per essere seguite alla lettera, richiedono al medico di possedere notevoli capacità persuasorie. Purtroppo, come tutti sappiamo, limitarsi a dire a una persona di smettere di fumare o di cambiare radicalmente la propria alimentazione non raggiunge quasi mai l’effetto desiderato; nei rari casi in cui questo accade, la motivazione è quasi sempre la paura di una malattia già conclamata e avanzata, laddove i danni più gravi sono fatti e le possibilità di recupero ridotte. Senza voler quindi negare i meravigliosi progressi della scienza e della tecnica, soprattutto in ambito diagnostico o chirurgico, è ormai chiaro ai più che la medicina concentrata su parametri biologici e sulla malattia d’organo ha un’efficacia limitata. Se Ippocrate osservasse il nostro modello medico noterebbe che abbiamo abbandonato sia l’approccio comunicativo, cioè la parola, sia la dimensione del tocco, cioè l’esame obiettivo: la moderna medicina si regge prevalentemente, se non esclusivamente, sul rimedio, che sia farmacologico, chirurgico o riabilitativo. Le falle di questo modello sono state tragicamente evidenziate dalla pandemia da Coronavirus, che ha spazzato via, tra le altre cose, la fiducia illimitata nel potere della scienza e della tecnica che ha caratterizzato gli ultimi due secoli. Fiducia incondizionata nel potere della razionalità e del progresso da portare alcuni a ipotizzare addirittura di poter sconfiggere il grande nemico, cioè la morte, sconfinando in una sorta di delirio di onnipotenza nel quale si negano le leggi basilari della natura. La pandemia da Coronavirus, purtroppo, ci ha messo bruscamente di fronte alla nostra piccolezza nel grande ordine naturale, con le nostre società messe in ginocchio dal più piccolo degli esseri viventi, un virus. Fieri del nostro progresso scientifico, ci siamo di colpo

ritrovati a ricorrere a presidi di stampo medievale, come il lavaggio delle mani e il distanziamento sociale. Del resto, i segni dell’inadeguatezza del modello basato solo sul rimedio erano presenti ben prima della pandemia. «La natura è causa e cura delle malattie» diceva Paracelso, e i rimedi infatti spesso facilitano, ma da soli non bastano a garantire la guarigione. Se di fronte a una persona con appendicite acuta tutto quello che serve è un intervento di urgenza, in corso di infezione anche l’antibiotico più moderno e potente non è sufficiente se il sistema immunitario è depresso, come l’epidemia di AIDS ha tragicamente dimostrato. L’ingessatura per un arto rotto crea le condizioni ideali perché l’osso si saldi, non causa di per sé la guarigione; l’insulina in corso di diabete abbassa il livello di glucosio nel sangue, non cura la disfunzione sottostante; e gli esempi potrebbero continuare. È per questo che, per riacquistare il loro potere di intervento, è fondamentale che i medici recuperino gli altri due pilastri del loro agire, il tocco e la parola. Fortunatamente, negli ultimi tempi si è assistito a un risveglio di interesse nella comunicazione medica e alla nascita e allo sviluppo di nuovi approcci che mettono al centro la persona, e non la malattia, come la medicina narrativa e la medicina centrata sul paziente. Per quanto importante sia la dimensione umana, tuttavia, non bisogna dimenticare che saper comunicare con il paziente non significa solo prendersi cura della persona sofferente, ma anche avere un impatto concreto sulla sua salute. La comunicazione è essa stessa strumento di cura, e trascurando questa competenza, i medici di fatto riducono notevolmente il loro potere di intervento. Come i più recenti studi hanno ormai inequivocabilmente dimostrato (Milanese, Milanese, 2015) la comunicazione ha un effetto potente sulla salute del paziente, tramite diversi meccanismi, sia diretti che indiretti. Indirettamente, perché la comunicazione del medico influenza fortemente l’osservanza del paziente alle indicazioni; direttamente, perché la comunicazione medica è in grado di attivare aspettative di miglioramento e di guarigione che possono favorire il miglioramento

stesso (effetto placebo). Ecco perché la comunicazione non può essere considerata una componente accessoria della professionalità del medico ma deve tornare a essere parte integrante del suo agire.

La compliance Per «compliance» si intende «la misura in cui il comportamento del paziente, in termini di assunzione di farmaci, mantenimento di una dieta o di altra variazione dello stile di vita, coincide con le prescrizioni del medico»6 (Sackett, 1979). La compliance non si riferisce solo all’osservanza della prescrizione medica (ad esempio prendere un farmaco), ma anche al fatto che il paziente aderisca completamente e precisamente all’indicazione (nel caso del farmaco, assumerlo per tutto il periodo indicato, nel momento giusto, con la modalità corretta, e così via). La compliance, infine, non riguarda solo il momento terapeutico, ma anche tutto l’iter diagnostico e riabilitativo che spesso si accompagna al trattamento (Milanese, Milanese, 2015). Gli studi mostrano che la compliance del paziente al trattamento è molto più bassa di quello che i medici immaginano: solo il 50-70% dei pazienti prende i farmaci come prescritto dal medico, e gli interventi di modificazione dello stile di vita, così importanti in ambito preventivo, sono seguiti solo dal 10% delle persone (Milanese, Milanese, 2015). È facile immaginare le enormi ripercussioni di ciò sui costi sanitari e sulla salute della popolazione, tanto che l’OMS ha dichiarato che «Qualunque intervento volto ad aumentare la compliance avrebbe un impatto sulla salute delle popolazioni maggiore di qualunque altro intervento» (Sabatè, 2003). Poco dunque conta che il medico abbia fatto una diagnosi corretta e prescritto la terapia appropriata se poi non è in grado di far sì che il suo paziente segua le indicazioni. La maggior parte dei medici sovrastima la compliance dei pazienti, anche perché questi a volte mentono sulla loro effettiva aderenza per imbarazzo, per risparmiarsi una paternale o per non inimicarsi il medico.

Inoltre, quasi universalmente, i medici ritengono che la compliance dipenda principalmente dal paziente: in realtà gli studi mostrano che le caratteristiche del paziente – età, genere, estrazione socioculturale – hanno un’importanza piuttosto bassa; la compliance è influenzata dal tipo di malattia (le malattie gravi o acute o con sintomi importanti hanno compliance più alta), dal tipo di terapia (le terapie brevi, con pochi effetti collaterali, facili da seguire hanno compliance più alta), ma anche e soprattutto dalla relazione con il medico, che ha un’importanza pari ai fattori legati alla terapia. Il paziente che non osserva le indicazioni può farlo perché non le ha comprese o non le ricorda (mancata compliance involontaria), o per scelta deliberata (mancata compliance volontaria). Nel primo caso, basta che il medico parli più lentamente, eviti il linguaggio tecnico specialistico e verifichi l’avvenuta comprensione del paziente: è esperienza comune, infatti, che l’ansia offusca le capacità cognitive e che in caso di malattie gravi da metà a due terzi dei pazienti non ricorda tutto quanto detto dal medico. Più complesso è gestire la non compliance volontaria, che è legata a vari fattori. Il medico può aver dato un’indicazione percepita dal paziente come troppo «costosa» in termini di fatica o di riduzione del piacere (basti pensare alle indicazioni dietetiche, o di smettere di fumare); oppure la prescrizione si scontra con una credenza forte del paziente (paziente «ideologico»), come ad esempio prescrivere antibiotici a chi si vuole curare solo con metodi naturali, o i vaccini a un esponente del movimento no-vax; in molti casi, tuttavia, il motivo della non aderenza è una cattiva relazione con il medico, nella quale il paziente non si sente ascoltato e compreso, o si sente addirittura squalificato (Milanese, Milanese, 2015).

L’effetto placebo «Le parole sono azioni» diceva Ludwig Wittgenstein, e in quanto tali hanno effetti concreti e misurabili. In medicina, questo concetto è ampiamente dimostrato dall’effetto diretto della comunicazione sulla salute del paziente, che si rifà al noto effetto placebo. Nella ricerca clinica si definisce «effetto placebo» qualunque miglioramento di un sintomo in assenza di un trattamento specifico; in psicologia e nelle neuroscienze, invece, l’effetto placebo è il miglioramento di uno o più sintomi legati al puro evento mentale dell’aspettativa di miglioramento, escludendo quindi la remissione spontanea del sintomo o il desiderio di compiacere il medico. L’effetto non riguarda solo poche persone facilmente suggestionabili: noi tutti possiamo essere suscettibili, a seconda delle circostanze e delle fasi della vita, all’effetto placebo, che è stato descritto anche negli animali. Si tratta in realtà di una famiglia di effetti, alla cui base ci sono meccanismi diversi che si possono attivare, insieme o separatamente, in circostanze diverse (Benedetti, 2015). Uno di questi è l’effetto aspettativa: l’aspettativa di un miglioramento attiva i circuiti cerebrali dopaminergici della ricompensa fino a generare il miglioramento stesso.7 Questi circuiti, analogamente ai circuiti di riduzione dell’ansia, sono gli stessi attivati dai farmaci: poiché l’effetto placebo è antico quanto l’uomo, molto più antico dei correnti farmaci, potremmo meglio dire che i farmaci utilizzano le stesse vie dell’effetto placebo. Capita spesso, infatti, che un sintomo presente da tempo cominci a migliorare o addirittura scompaia del tutto appena il paziente prende l’appuntamento dal medico, prima ancora di consultarlo: l’aspettativa di trovare sollievo al suo disturbo, concretizzata dal prendere l’appuntamento, attiva il sopracitato meccanismo, alleviando il sintomo. Naturalmente questo è tanto più probabile

quanto più la persona ha fiducia nel medico e nella terapia che verrà prescritta. Essendo il sollievo dal sintomo legato all’aspettativa di miglioramento, qualunque cosa in grado di attivare questa aspettativa, inclusa la comunicazione del medico, è in grado di produrre l’effetto. Possiamo spingerci fino a dire che se il farmaco non è sempre necessario, la buona comunicazione lo è sempre: in caso venga somministrata una terapia, la comunicazione ne potenzia l’effetto; in caso la terapia non sia necessaria, la buona comunicazione può dare comunque sollievo. Un esempio eclatante della potenza dell’aspettativa di miglioramento, indotta peraltro involontariamente, viene da un curioso episodio raccontato da Gordon Allport, psicologo statunitense (Allport, 1964). In un ospedale austriaco un uomo gravemente malato è in punto di morte. I medici curanti l’hanno informato, conformemente al vero, che non sono in grado di diagnosticare la sua malattia, ma che probabilmente potrebbero aiutarlo se conoscessero la diagnosi. Inoltre, gli hanno comunicato che uno specialista famoso avrebbe fatto visita all’ospedale nei giorni successivi e che forse sarebbe stato in grado di riconoscere la malattia. Pochi giorni dopo arriva effettivamente lo specialista e fa il suo giro di visite nel reparto. Arrivato al letto del malato getta su di lui un rapido sguardo mormorando «moribundus» e prosegue. Alcuni anni dopo l’uomo fa visita allo specialista e gli dice: «È da molto che volevo ringraziarla per la sua diagnosi. I medici mi avevano detto che avrei potuto farcela se lei fosse stato in grado di diagnosticare la mia malattia: nel momento in cui lei ha detto «moribundus» ho saputo che ce l’avrei fatta.

Indurre aspettative di miglioramento va differenziato dal «pensare positivo» (Nardone, 2018), cioè dall’ingiunzione diretta. Ingiungere al paziente di pensare in positivo usando argomentazioni logicorazionali rischia infatti di innescare un effetto paradosso. Immaginate di dire a una persona angosciata per un problema di salute che deve cercare di non abbattersi, che la sua salute è nelle sue mani, o magari di «pensare a chi sta peggio di lei». Incapace di «tirarsi su» a comando, la persona si sentirà responsabile di un eventuale peggioramento, penserà di non avere le risorse adeguate o magari si sentirà in colpa perché fa star male i propri cari.

L’aspettativa deve invece essere indotta in maniera suggestiva e indiretta tramite il rituale dell’atto terapeutico, del quale la comunicazione del medico è un aspetto fondamentale. Il rituale è composto da tutto quello che circonda la somministrazione di una terapia: la figura del medico, l’ambiente in cui il medico riceve, le sue modalità comunicative, tutto contribuisce a indurre l’aspettativa stessa. A questo proposito Fabrizio Benedetti (2016), grande studioso dell’effetto placebo, ne descrive una funzione evolutiva. Secondo Benedetti l’evoluzione avrebbe selezionato come più adatte alla sopravvivenza le persone che sono in grado di affidarsi a un terapeuta e, conseguentemente, di essere curate con successo. Il processo si svolge in quattro fasi: nella prima fase la persona percepisce un disagio; nella seconda si attiva per ottenere sollievo, vale a dire cerca un terapeuta; nella terza fase, la più delicata, la persona incontra il terapeuta, che può qui gettare le basi per generare l’effetto placebo, inducendo nel paziente aspettative di miglioramento; se questo accade, nella quarta fase, cioè la prescrizione della terapia, si potrà dispiegare il massimo potenziale dell’effetto placebo.

Curare a distanza La cura a distanza era stata già predetta circa un secolo fa da Hugo Gernsback, inventore ed editore di Science and Invention, la prima rivista americana di fantascienza, quando, nel lontano febbraio 1925 predisse che «Man mano che la civiltà progredisce, sarà sempre più necessario agire a distanza… avremo sempre meno tempo per spostarci… Il dottore impegnato non sarà in grado di visitare i suoi pazienti come fa adesso». E puntualmente diversi decenni fa, con l’avvento della tecnologia informatica e di telecomunicazione, la sua applicazione all’ambito della salute – «salute digitale» – è cominciata, procedendo con ritmi diversi nei diversi Paesi. In Italia gli investimenti nella salute digitale cominciano nel 2014, ma è stata la pandemia da Coronavirus a dare un formidabile impulso a questa tendenza: ai benefici già noti, come l’assistenza a chi non può spostarsi, il taglio dei costi, la riduzione delle liste d’attesa, il monitoraggio delle malattie croniche, l’ottimizzazione dei tempi degli operatori, si aggiunge adesso la necessità di minimizzare i rischi di infezione sia per i pazienti che per i medici. La cura a distanza diventerà quindi parte della nuova normalità, complice anche l’attesa impennata nella domanda dei servizi sanitari, legata all’ondata di ritorno di tutte le patologie accantonate per far fronte all’emergenza COVID-19 e ad eventuali prossime recrudescenze. È imperativo dunque che i medici padroneggino la comunicazione telematica in modo da far fronte a questa importante tendenza, cambiando il loro modo di raccogliere l’anamnesi, di condurre il colloquio col paziente e di dargli le indicazioni. Come un non vedente che, per compensare la sua cecità, deve acuire tutti gli altri sensi, nel contesto telematico il medico dovrà porre molta più attenzione al canale verbale (scelta delle parole e

delle argomentazioni, domande, parafrasi), e paraverbale (ritmo, volume e velocità della voce, pause, esitazioni e silenzi), per sopperire alla mancanza del canale non verbale che, anche in videochiamata, ha una potenza fortemente diminuita. Questi argomenti sono stati descritti in dettaglio nei capitoli precedenti; qui analizziamo solo la loro applicazione al contesto medico.

L’anamnesi Ogni medico sa che una buona anamnesi (dal greco anamnesis, ricordo), cioè una raccolta esaustiva e completa di informazioni sulla malattia, è essenziale per un intervento efficace; non tutti però tengono in considerazione il fatto che, accanto all’obiettivo informativo, l’anamnesi ha un’altra fondamentale funzione, quella relazionale. Dopo le prime battute del colloquio, infatti, questo è il momento nel quale medico e paziente gettano le basi per la loro futura relazione, dalla quale dipenderà gran parte dell’efficacia dell’intervento. Durante il primo incontro il paziente ha bisogno di sentirsi ascoltato e compreso per potersi affidare al medico; in caso contrario, il rischio che non segua le indicazioni o che addirittura cambi professionista è alto. Perché l’intervento sia efficace, il medico dovrà quindi porsi un duplice obiettivo: da una parte raccogliere i dati sulla malattia, dall’altra porre le basi per l’indispensabile rapporto di fiducia col suo paziente. Gli anglosassoni, con il loro abituale pragmatismo, distinguono infatti due tipi di malattia: la patologia vista dal medico, fatta di sintomi, segni, esami diagnostici (disease) e la condizione percepita dal paziente, l’impatto che ha sulla sua vita, le sue emozioni, idee e convinzioni (illness). Abitualmente il medico concentra la sua indagine sul disease, cioè sulla malattia biologica: quali sono i sintomi, quando sono comparsi, con che frequenza, intensità e durata si presentano. L’indagine segue una mappa ben precisa che aiuta il medico a orientarsi nell’immensa varietà della patologia umana e spesso si compone di domande chiuse, che cioè richiedono risposte definite e precise. Da parte sua il malato porta nello studio del medico la sua storia personale, cioè la illness, e riferisce i sintomi in base all’impatto che hanno sulla sua vita, agganciandoli a episodi personali e spesso

aggiungendo dettagli che a lui sembrano importanti ma che possono apparire al medico come inutili divagazioni. In alcuni casi la raccolta dell’anamnesi diventa così una specie di duello nel quale il medico cerca di riportare la conversazione sul terreno dei dati oggettivi («Da quanto tempo ha mal di stomaco?») e il paziente continua a riferirsi alla sua storia personale («Dal matrimonio di mia figlia»), e mentre il medico non capisce perché il paziente divaghi inutilmente, il paziente non si sente ascoltato e accolto. Ecco che, per centrare sia l’obiettivo conoscitivo che quello relazionale dell’anamnesi, il medico dovrà essere in grado di esplorare entrambe le dimensioni, prima permettendo al paziente di raccontare la sua storia (illness), poi approfondendo le parti importanti con domande specifiche (disease). Durante la narrazione si dovrebbe evitare di interrompere il paziente, ma quando il tempo stringe o il paziente è molto prolisso, si possono usare accorgimenti comunicativi come «Perdoni se la interrompo, ma quello che dice è molto importante e avrei bisogno di farle qualche domanda specifica per approfondire». Una volta che il paziente si è sentito ascoltato e compreso, sarà ben felice di rispondere alle domande del medico che verranno adesso viste come segno di interesse. Comprendere la percezione del paziente e al tempo stesso analizzare i parametri biologici della malattia sono i due pilastri sui quali poggia tutto il lavoro successivo: l’approfondimento diagnostico, la creazione dell’accordo e la prescrizione della terapia. Nella raccolta anamnestica a distanza, la prima competenza da padroneggiare è la capacità di ascolto. Abilità che non si apprende né alla facoltà di Medicina, né durante la specializzazione, e che ha un’importanza fondamentale, amplificata dal contesto telematico. I medici generalmente sottovalutano moltissimo i benefici dell’ascolto: infatti, complici anche i vincoli di tempo, di solito interrompono il paziente dopo una ventina di secondi (Milanese, Milanese, 2015), cominciando a fare domande, dando il via a quella che è stata definita da alcuni la «trappola anamnestica», cioè una serie serrata di domande chiuse che non lasciano al paziente modo di spiegare e descrivere il suo problema.

Interrompere il paziente ha due importanti conseguenze: fa perdere al medico informazioni potenzialmente utili alla diagnosi, e ha un forte impatto negativo sul piano relazionale, perché se il paziente non si sente ascoltato fino in fondo, non si sente compreso e farà quindi più fatica ad affidarsi. La percezione di non potersi affidare non deriva tanto dal fatto che il paziente si senta poco considerato, anche se questo è certamente possibile: le persone si affidano anche a un medico ritenuto scortese, se hanno l’impressione che abbia capito fino in fondo il loro problema e che li possa aiutare. La percezione di non potersi affidare è legata al fatto che il paziente che non ha potuto dire tutto quello che riteneva necessario dubita che il medico possa aver compreso tutte le sfumature della sua situazione. Il «non mi fido di questo medico» non è qui inteso come un giudizio sulla competenza del medico in generale, ma è «non credo che questo medico abbia capito fino in fondo i miei sintomi e la mia malattia»: da questa percezione non sono esenti nemmeno i medici stessi, quando consultano un collega per un problema di salute. D’altra parte, anche il totale silenzio, soprattutto al telefono, può venir interpretato come segno di disinteresse. In mancanza del contatto visivo, il paziente si può domandare se il medico lo stia veramente ascoltando con attenzione, e può avere difficoltà a continuare a parlare, magari inserendo nel discorso pause ed esitazioni. È quindi importante punteggiare l’ascolto con interiezioni di incoraggiamento, come parole («sì, capisco»), ma anche suoni («ah», «mmm»), che comunicano interesse e partecipazione. Una volta che il paziente ha completato la sua apertura iniziale, che di solito dura 1-2 minuti, il medico inizia a fare domande per esplorare le caratteristiche della malattia. È importante, soprattutto a distanza, che le domande siano perfettamente udite e comprese. Il volume della voce dovrà essere adattato al paziente e al contesto, le parole scandite, la velocità rallentata. Spesso è utile inserire due alternative di risposta, che aiutano il paziente a orientarsi e facilitano la successiva comunicazione, ad esempio: «Il dolore che prova le permette di riposare la notte o la tiene sveglio?»

«Riesce a sopportarlo o deve prendere dei farmaci?» «Ha sempre la stessa intensità̀ o comincia piano e poi aumenta?» Ogni 2-3 domande è utile parafrasare, cioè riassumere quanto è stato detto, riordinandolo in una trama coerente: «Se ho ben compreso, lei mi sta dicendo che…». La parafrasi ha un triplice obiettivo: permette al medico di verificare se è sulla strada giusta, fungendo così da base per le domande successive; fa sentire al paziente che è ascoltato e valorizzato, incrementando la sua collaborazione; innesca nel paziente un processo di sottile auto-persuasione, tramite la creazione di tanti piccoli accordi progressivi. Condurre l’anamnesi con una sapiente sequenza di domande e parafrasi conduce naturalmente all’accordo finale, che aprirà la strada alla prescrizione (Nardone, Salvini, 2004).

L’esame obiettivo L’esame obiettivo, cioè la «visita» vera e propria, è il «grande assente» della comunicazione telematica, limitandosi al massimo alla visione di foto o filmati inviati dal paziente. Peraltro, anche dal vivo ha progressivamente perso di importanza negli ultimi decenni, parallelamente al progredire della tecnologia: TAC, risonanze magnetiche, esami endoscopici, ecografie, elettrocardiogrammi forniscono al medico informazioni molto più complete e precise rispetto all’esame obiettivo. Se si escludono alcune specialità come la dermatologia, nella quale la visione diretta del problema è indispensabile, la visita del paziente è stata progressivamente sostituita dalla diagnostica di laboratorio e per immagini. Se questo è sufficiente per il medico, non sempre lo è per il paziente, che spesso non si sente curato a sufficienza se non è stato anche visitato. Manca, dal suo punto di vista, sia l’interesse percepito verso la sua malattia sia il tocco del terapeuta che ha in sé potere taumaturgico. Se il tocco del terapeuta non può essere sostituito in alcun modo, l’interesse del medico verso la malattia può essere espresso ad esempio chiedendo al paziente di inviare foto o filmati, o anche registrazioni audio. Prendere visione di una foto relativa al suo problema (ad esempio edemi agli arti, o un problema cutaneo), o ascoltare una registrazione, ad esempio della sua respirazione, anche se non strettamente necessario per il medico, fa sentire il paziente rassicurato e ha un impatto positivo sulla relazione.

Il colloquio Un altro scoglio comunicativo molto comune, amplificato dal contesto telematico, è l’uso del linguaggio tecnico-specialistico. Gli studi mostrano che spesso i pazienti non capiscono fino in fondo quanto detto dal medico, ma sono reticenti a chiedere spiegazioni per imbarazzo o paura di apparire ignoranti; i medici, d’altra parte, sovrastimano il livello di conoscenze linguistiche dei pazienti, contribuendo ad alimentare un circolo vizioso di incomprensione reciproca (Milanese, Milanese, 2015). La mancata comprensione delle indicazioni e delle informazioni fornite dal medico ha un impatto negativo sull’aderenza alla terapia, oltre a mantenere le distanze relazionali. Nel contesto telematico, mancando la comunicazione non verbale, è più difficile accorgersi se il paziente ha qualche dubbio o non ha compreso qualcosa. È quindi fondamentale che il medico adoperi il più possibile parole di uso comune, evitando termini tecnici come «dispepsia», «extrasistoli», «sincope», ma anche termini stranieri («follow-up», «core biopsy») o sigle (MRGE, BPCO),8 spesso abbondantissime sui referti. Inoltre, ogni volta che il medico dà una spiegazione o esprime un concetto importante, è utile verificare con domande che il paziente abbia compreso, facendo però attenzione a non apparire paternalistico: se alla domanda «Ha capito quanto ho appena detto?» la maggior parte delle persone risponderà comunque di sì, e qualcuno potrebbe irritarsi sentendosi squalificato, chiedere «C’è qualcosa che vorrebbe aggiungere o approfondire?» di solito mette il paziente a proprio agio permettendogli di esprimere liberamente i suoi dubbi. Offrirsi di rispondere alle domande ha anche un impatto relazionale molto positivo, indicando disponibilità da parte del medico, ed è un ottimo modo per concludere ogni fase del colloquio.

Tra i possibili equivoci, amplificati dal contesto telematico, spicca quello legato all’uso del termine «positivo», molto presente nei referti («l’ecografia è positiva», «la biopsia è positiva»). Se per il medico il termine indica che il sospetto diagnostico è stato confermato (di solito brutte notizie per il paziente), la parola viene generalmente interpretata dai non addetti ai lavori come indicazione che tutto vada per il meglio (positivo, appunto). Per evitare di cadere in questa trappola, occorre verificare che il paziente abbia compreso il significato del termine nel particolare contesto, soprattutto quando si inviano referti per e-mail.

La comunicazione paraverbale «Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla: l’unica difficoltà consiste nel trovare il tono», diceva George Bernard Shaw, e, come abbiamo visto in precedenza, il «come» dico qualcosa connota emotivamente e dà significato al «cosa» dico, denotando il tipo di relazione (II assioma della Pragmatica della comunicazione telematica). La frase «dovrebbe proprio smettere di fumare» pronunciata con tono arrogante o paternalistico rischia di irritare il paziente scatenando il desiderio di trasgredire all’imposizione; la stessa frase pronunciata con tono partecipe e preoccupato avrà un effetto diametralmente opposto. Tuttavia, anche i medici più attenti alla comunicazione si concentrano prevalentemente su cosa dire, e non su come dirlo. La ricerca sulla comunicazione medico-paziente ha mostrato come la capacità del medico di modulare tono, ritmo, volume della voce, correli fortemente con la soddisfazione del paziente e lo sviluppo della fiducia nel medico, rivelandosi a volte anche più importante della comunicazione verbale e delle informazioni fornite (Larsen, Smith, 1981; Di Matteo et al., 1986; Griffith et al., 2003). La soddisfazione è massima quando la voce del medico denota interesse e partecipazione emotiva. La comunicazione paraverbale in medicina è così importante da correlare addirittura con la probabilità di essere citati in giudizio, come dimostra un brillante studio eseguito dalla psicologa sociale Nalini Ambady (Ambady, 2002). Il campione studiato comprendeva 66 chirurghi, metà dei quali non erano mai stati citati in giudizio; l’altra metà aveva ricevuto almeno due denunce. Estratti di conversazioni tra i medici e i loro pazienti, filtrati in modo da essere privati del contenuto verbale, furono fatti ascoltare a persone senza una particolare formazione in comunicazione. Gli ascoltatori, quindi, percepivano la prosodia, il tono e il volume del

discorso, senza riconoscere le parole. Tutti gli ascoltatori furono comunque in grado di distinguere i medici denunciati dai non denunciati, basandosi solo sulle caratteristiche della comunicazione paraverbale. In particolare, i medici denunciati trasmettevano elementi di «dominanza», «mancanza di interesse» e «indifferenza», al contrario dei non denunciati che venivano percepiti come «caldi» e «interessati».9 Nel contesto telematico, mancando i segnali non verbali che comunicano interesse, come sguardi e ammiccamenti, la comunicazione paraverbale acquisisce un’importanza ancora maggiore. Il medico dovrà quindi, durante tutto l’incontro, curare tono, ritmo, volume, prosodia della voce, pause, silenzi, in modo da esprimere interesse, partecipazione e competenza.

La creazione dell’accordo Prima di arrivare alla prescrizione, culmine e atto conclusivo della visita, occorre aver creato con il paziente l’accordo sul trattamento. Spesso i medici saltano questa fase, passando direttamente dalla comunicazione della diagnosi alla prescrizione, che può essere un farmaco, un intervento di qualunque tipo, o ulteriori esami di approfondimento o di controllo; tuttavia, in assenza di un accordo con il paziente, la prescrizione rischia di non essere seguita, o di non essere seguita alla lettera. Per la creazione dell’accordo si rimanda a quanto detto nei capitoli precedenti riguardo la comunicazione persuasoria, aggiungendo qui alcuni accorgimenti comunicativi specifici. Il primo accorgimento è il parlare il linguaggio del paziente, sia evitando il linguaggio tecnico-specialistico sia adattandosi al suo stile comunicativo. Ad esempio, con le persone che si esprimono in maniera precisa e linguaggio logico si potrà formulare un discorso più diretto, mentre con chi si esprime in maniera più fantasiosa si può utilizzare uno stile più creativo. Un’altra regola fondamentale è evitare le formule negative, cioè evitare di negare, contraddire o squalificare il punto di vista del paziente. Dire a una persona che ha sbagliato o che sta sbagliando, oppure che una sua idea o credenza sulla malattia non ha senso, rischia di alienarla completamente. Infatti non bisogna dimenticare che, se il medico è l’esperto della malattia, il paziente è l’esperto di sé stesso, ruolo a cui non è di solito disposto a rinunciare. Prendiamo ad esempio il caso di Rita che si reca dall’otorino per un fastidioso disturbo alle orecchie. Dopo aver ascoltato il resoconto preciso del disturbo di Rita, il medico perplesso si lascia sfuggire un «mi pare strano». Rita si alza in piedi indignata e, prima di uscire dallo studio del medico, dichiara: «Dottore, io posso accettare che lei

mi dica che non conosce il mio disturbo, ma non posso accettare di sentirmi dire che non so quello che provo». Un altro accorgimento importante è evitare le evocazioni negative, spesso sotto forma di messaggi troppo ansiogeni o allarmistici, che corrono il rischio di venir rifiutati totalmente, come nel seguente esempio: Il signor Armando è dall’oculista per un controllo di routine. Nel corso della visita il medico riscontra un leggero aumento della pressione oculare e prescrive immediatamente delle gocce da mettere negli occhi vita natural durante, indicazione che lascia Armando perplesso, dal momento che non ama prendere farmaci, e certamente non per tutta la vita. Il dialogo si svolge su questi toni: Medico: «La sua pressione degli occhi è alta e va trattata immediatamente, non c’è tempo da perdere!» Paziente: «Ma, dottore, i valori non sono così alti, sono al limite, magari scendono, non potremmo aspettare e monitorare?» Medico: «Io non ho bisogno di aspettare, la pressione non scende, casomai salirà ancora». Paziente (spaventato ed esitante): «Ma non potremmo fare altri esami, per approfondire, che so, l’esame del campo visivo…» Medico (irritato): «Senta, come le ho detto, io la diagnosi l’ho fatta e non ho bisogno di altri elementi. Lei farebbe bene a preoccuparsi di più della sua vista, è giovane e se non fa come dico io, tra qualche anno si troverà cieco!» (evocazione negativa forte) Il signor Armando ringrazia il dottore, lo saluta, e appena fuori dallo studio straccia in mille pezzi il referto della visita, pensando: «Io da questo dottore non tornerò mai più». Il giorno dopo prende appuntamento da un altro oculista.

Qui l’evocazione negativa forte, deliberatamente usata dal medico per convincere il paziente a seguire la terapia, ha sortito l’effetto diametralmente opposto: i toni eccessivamente allarmistici del messaggio («diventerà cieco») e l’atteggiamento paternalistico («se non fa come dico io»), uniti a una comunicazione paraverbale che indicava irritazione, hanno generato nel paziente il totale rifiuto sia della terapia sia del medico stesso. A volte l’evocazione negativa è più sottile e del tutto involontaria, come nel caso della signora Donatella che, casualmente in una visita di controllo e in pieno benessere, scopre di essere affetta da fibrillazione atriale.10

Questo il dialogo col cardiologo, persona molto attenta alla comunicazione, ma senza un training specifico: Paziente: «Dottore, come è possibile che non mi sia mai accorta di avere la fibrillazione?» Medico: «Può capitare, signora… Sa, molti pazienti col suo problema hanno il cuore che batte veloce e possono avere mancanza di respiro (evocazione negativa), ma in molti casi la frequenza è normale e lei è una di questi. Paziente (allarmata): «Allora potrebbe venirmi una fibrillazione rapida!» Medico: «Non credo, ma tutto è possibile. Se capitasse, si faccia sentire che le darò dei farmaci per rallentarla».

L’evocazione negativa del cuore che batte troppo rapidamente togliendo il respiro, non necessaria ai fini della spiegazione del disturbo, getta benzina sul fuoco dell’ansia della signora Donatella, costringendola a controlli compulsivi del polso per timore di aver sviluppato la fibrillazione «rapida».

La prescrizione L’atto della prescrizione va curato nei dettagli, perché è fondamentale per garantire la memorizzazione e l’aderenza del paziente alle indicazioni. Se l’incontro è stato effettuato in videochiamata, occorre adattare la comunicazione non verbale: adottare una postura leggermente protesa in avanti per catturare l’attenzione del paziente e aumentare il potere ingiuntivo della prescrizione; lo sguardo deve essere diretto e regolato su quello del paziente. In ogni caso, ma soprattutto al telefono, la prescrizione deve essere ingiunta in maniera lenta, scandita e ridondante: ripetere la prescrizione, cambiando la formulazione ma ribadendo le parti cruciali, sopperisce alla mancanza della comunicazione non verbale e favorisce la memorizzazione (Nardone, 1994, Nardone et al., 2006). Tono e ritmo di voce devono essere modulati, con enfasi sulle parti importanti del messaggio. I concetti più importanti devono essere «incorniciati» da una pausa prima, che crea aspettativa, e una dopo, che ha effetto eco. Ad esempio, in caso di farmaco da prendere rigorosamente a stomaco pieno, il medico può sottolineare l’importanza del concetto «dopo i pasti» facendo una piccola pausa prima, ponendo l’enfasi sulla parola «dopo», rallentando leggermente, e lasciando un’altra piccola pausa prima di continuare il discorso («la pastiglia va presa… dopo i pasti…»). In un contesto telematico è anche importante dare al paziente il tempo per prendere eventuali appunti e verificare con domande l’avvenuta comprensione. È molto utile anche offrire al paziente la possibilità di un successivo contatto, via e-mail o telefono, anche al di fuori degli appuntamenti programmati.

Nel proporre un ulteriore contatto, bisogna però fare attenzione a evitare di indurre aspettative negative, che possono risultare in una profezia che si autoavvera.11 Dire «Se il mal di stomaco peggiora, si faccia sentire», può far sì che il paziente si metta «in ascolto» del suo stomaco, aumentando il livello di attenzione e di ansia fino a suggestionarsi nella percezione del sintomo. Molto più utile rendersi disponibile con «Se c’è qualche novità nel suo stato di salute, mi chiami pure». La differenza sembra minima, ma bisogna sempre ricordare che, soprattutto in caso di disturbi di una certa entità, o quando il paziente è molto ansioso, il ruolo di «esperto di malattia» conferisce al medico un potere non dissimile da quello occupato in alcune civiltà primitive dagli sciamani, capaci di provocare malattie anche gravi con riti e profezie voodoo. I medici generalmente sottostimano molto questo loro potere, finendo a volte per indurre inconsapevolmente profezie negative che possono suggestionare i pazienti, soprattutto se ansiosi o ipocondriaci, a percepire determinati sintomi. Con le parole di Thomas Szasz: «Un tempo, quando la religione era forte e la scienza debole, l’uomo scambiava per medico lo stregone; oggi che la scienza è forte e la religione debole, l’uomo scambia per stregone il medico» Prendiamo il caso di Sara, 55 anni, ipocondriaca, che si reca dall’oculista per una visita di controllo, più volte posticipata per la paura appunto di avere qualche grave problema agli occhi. L’oculista riscontra solo minime alterazioni compatibili con l’età, e le consiglia una nuova visita di controllo dopo un anno. Mentre saluta una Sara visibilmente sollevata, l’oculista aggiunge, quasi come un ripensamento: «A proposito, se mai dovesse vedere dei lampi di luce, si faccia rivedere immediatamente!» Tanto basta perché Sara venga rigettata nella paura: «Se dice questo, è perché prevede che io debba vedere dei lampi di luce. E se prevede questo, probabilmente ha visto qualcosa di potenzialmente pericoloso che non vuole dirmi per non spaventarmi». A nulla valgono le rassicurazioni del medico di non aver visto assolutamente nulla di grave: il seme del dubbio è stato gettato e germoglia nella mente ipocondriaca di Sara che, puntualmente, dopo qualche tempo, comincia a vedere occasionali puntini luminosi.

Sara adesso è certa che le stia capitando qualcosa di grave, come predetto dal medico, e vorrebbe tanto farsi controllare di nuovo, ma la paura della condanna è troppo grande e quindi posticipa per ben tre anni, al termine dei quali finalmente trova il coraggio di tornare dal medico e scoprire che la tanto temuta malattia grave non c’è. Ancora turbata, chiede spiegazioni sul misterioso avvertimento; il medico risponde di aver l’abitudine di avvisare in questo modo tutti i pazienti, dopo una certa età, per essere sicura che non sottovalutino certi sintomi. Nel frattempo, Sara ha vissuto tre anni di terrore.

Occorre quindi che il medico sia ben consapevole del potere della sua comunicazione: al di là del contenuto del discorso, che parla alla parte razionale della mente, le immagini negative suscitate dalle sue parole, come il battito rapido o i lampi di luce, vanno direttamente al paleoencefalo, la mente antica, colpendola come una lama, suggestionando il paziente e gettandolo, a seconda dei casi, nell’apprensione o nell’angoscia. «La figura del medico è uno psicofarmaco, cui conseguono effetti principali e secondari, ed è da scegliere e da dosare individualmente. È il medicamento più nobile e più stabile, ma non è facile da somministrare. La parola del medico può guarire ma può anche fare ammalare» (Luban-Plozza, Pöldinger, 1971).

Le comunicazioni scritte Il dilagare della comunicazione telematica ha fatto crescere in maniera esponenziale le comunicazioni medico-paziente via e-mail o tramite i vari servizi di messaggistica. Mentre questi ultimi sono adoperati prevalentemente per concordare o rinviare appuntamenti, le e-mail sono di solito utilizzate dal paziente per aggiornare il medico sul suo stato di salute e dal medico per dare indicazioni e prescrizioni. In questo contesto, mancando totalmente sia la comunicazione non verbale sia la paraverbale, tutto il significato della comunicazione è caricato sulla parte verbale, che deve essere quindi curata al massimo. Prendiamo ad esempio il caso di Stefano, un ragazzo seguito dallo psichiatra per un disturbo d’ansia legato alla paura di essere depresso. Il medico prescrive un antidepressivo SSRI a dose ridotta del 50%, e chiede a Stefano di mandare una e-mail dopo qualche settimana per riferire il suo stato di salute ed eventuali effetti collaterali del farmaco. Alla comunicazione di Stefano di sentirsi meglio e di non aver avuto effetti collaterali dal farmaco, lo psichiatra risponde dando indicazione di aumentare la dose, gettando così Stefano nello sconforto per la paura di essere peggiorato. Dopo diverse notti insonni, Stefano contatta il medico telefonicamente e scopre che la dose ridotta inziale era stata prescritta per saggiare la tolleranza al farmaco, e che una volta appurato che questo era ben tollerato, è stato portato alla dose piena. Spesso questo tipo di equivoco, oltre a generare inutilmente ansia nel paziente, porta a ridotta aderenza alle indicazioni. «Il dottore è un esperto di relazioni umane», sosteneva Michael Balint, e anche nel contesto telematico la comunicazione è uno

strumento terapeutico a tutti gli effetti. Non utilizzarne appieno il potenziale equivale ad affrontare una battaglia con le armi spuntate. Nonostante la sua indubbia e comprovata importanza, i medici non vengono formati all’uso strategico della comunicazione, e devono quindi acquisire questa competenza «strada facendo». Alcuni professionisti non si pongono il problema o ritengono che le abilità comunicative nel contesto medico siano «accessorie» e non indispensabili, continuando a comunicare «spontaneamente» secondo il loro stile personale. Anche quando sono naturalmente empatici, la comunicazione di questi professionisti non è gestita in maniera consapevole per ottenere l’effetto desiderato. Può quindi capitare che anche frasi apparentemente innocue preoccupino o spaventino il paziente, spesso fungendo da seme per lo sviluppo di un disturbo d’ansia, come nell’esempio della signora Donatella. Per fortuna l’interesse per la comunicazione in medicina è molto aumentato negli ultimi anni, complici anche gli sviluppi delle neuroscienze e della medicina integrata che ogni giorno di più dimostrano l’importanza degli atteggiamenti mentali nel mantenimento della salute e chiariscono molti meccanismi alla base delle interazioni mente-corpo. Molti professionisti quindi stanno investendo tempo ed energie nello sviluppo di competenze comunicative e relazionali, traendone, insieme ai loro assistiti, enormi benefici nella pratica clinica. La profonda modificazione cui stiamo assistendo, legata all’implemento della cura a distanza nel contesto telematico, aggiunge a questa sfida un nuovo livello di complessità: saper comunicare telematicamente richiede al medico una particolare attenzione per adattarsi al contesto. «Ogni paziente dovrebbe sentirsi un po’ meglio dopo la visita del medico, a prescindere dalla natura della sua malattia», diceva Warfield Theobald Longcope. Possiamo aggiungere che di una comunicazione efficace, anche nel contesto telematico, beneficerà oltre al paziente anche il medico, perché nel rapporto terapeutapaziente si vince o si perde entrambi.

Capitolo 5 La psicoterapia telematica: le sfide del setting a distanza

Le statistiche sulla salute mentale dicono che una persona ogni quattro soffre di qualche forma di malattia mentale. Pensa ai tuoi tre migliori amici. Se sono a posto, allora sei tu quello matto! Rita Mae Brown

«Non esiste salute senza salute mentale» Con queste parole Tedros A. Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS, ammonisce i governi e le istituzioni a occuparsi e preoccuparsi immediatamente delle conseguenze psicologiche dell’epidemia di Coronavirus. Ora che la prima ondata di emergenza è passata, che le terapie intensive si sono svuotate e che la preoccupazione per i contagi si sta progressivamente attenuando, possiamo e dobbiamo occuparci di tutte le altre conseguenze dell’epidemia. Lo tsunami della pandemia ha travolto l’umanità con ondate successive di paura, angoscia, dolore, rabbia, dilagate parallelamente al dilagare del virus. E come ogni tsunami che si rispetti, anche questo, ritirandosi, lascia dietro di sé un’immensa scia di distruzione e desolazione. Solitudine, lutti, incertezza, crisi economica, paura dell’infezione, paura dell’ignoto alimentano ansia, angoscia, stress, disturbi del sonno, che possono dare origine a ipocondria, disturbi di ansia, disturbi ossessivo compulsivi, disturbi post-traumatici, depressione. Anche la «nuova normalità», all’insegna dell’isolamento e del distanziamento sociale, richiederà una capacità di adattamento che non tutti hanno; potranno quindi nascere e svilupparsi nuovi disagi e disturbi. Sono a rischio i soggetti più fragili, gli anziani, quelli con precedenti disturbi mentali o quelli che hanno lavorato in prima linea, ma nessuno di noi può considerarsi completamente immune. Per questo motivo, il direttore dell’OMS esorta tutti i Paesi a rafforzare i loro sistemi di salute mentale, preparandoli all’impatto, ricordando anche che «La cattiva salute mentale è associata a una ridotta adesione verso gli interventi riguardanti la salute fisica in generale» (e quindi il contenimento del contagio).12

In Italia, il Ministero della Salute ha istituito un numero verde al quale tutti i giorni professionisti della salute mentale rispondono alle richieste di aiuto; analoghe iniziative sono state prese da vari gruppi di professionisti su base volontaria. La necessità di fornire assistenza a fasce molto ampie di popolazione ha portato anche allo sviluppo di specifici programmi, detti chatbot (assistenti virtuali), scaricabili su tablet o smartphone, che, simulando una conversazione tra persone, fanno una prima analisi dei sintomi, valutandone la gravità, suggerendo poi alla persona come comportarsi.13 I professionisti della salute mentale sono quindi in pieno stato di allerta, pronti a diventare la nuova «prima linea» di intervento; anche per loro, tuttavia, si pone la necessità di limitare le occasioni di contagio, di curare persone che non possono spostarsi agevolmente e di ottimizzare le risorse. Verrà quindi privilegiata la cura psicoterapica a distanza e il contesto telematico. Effettuare una psicoterapia «a distanza» e per via telematica rappresenta una sfida ancora maggiore rispetto a quella di eseguire una visita medica. Non tutte le visite mediche hanno infatti un’alta intensità emotiva e non sempre al medico sono richieste raffinate abilità persuasorie. Pensiamo, ad esempio, al medico consultato per una gastrite, un controllo di routine della pressione o del colesterolo, un certificato di idoneità sportiva o un controllo oculistico, tanto per citare alcuni esempi. Quando il disturbo è lieve, la diagnosi è semplice, e la prescrizione di un farmaco risolve il problema; saper gestire le emozioni del paziente e possedere raffinate capacità comunicative può essere utile, ma non è strettamente indispensabile. In psicoterapia, al contrario, la comunicazione è il metodo principe sia dell’indagine del problema, sia della sua soluzione: l’intensità emotiva è spesso alta, la relazione terapeutica è sempre fondamentale. Una disciplina che basa gran parte della sua efficacia sulla comunicazione e sulla relazione non può che risentire maggiormente del contesto telematico, ed è per questo che occorre fare ogni sforzo

possibile per adattare a questo particolare contesto la modalità con cui si conduce la terapia, affinché mantenga intatta la sua efficacia.

L’arte di curare con le parole «La potenza della parola nei riguardi delle cose dell’anima sta nello stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi delle cose del corpo» diceva Gorgia da Lentini, il primo grande «psicoterapeuta» dell’antichità. La parola è per lo psicoterapeuta l’equivalente del farmaco per il medico, e il cambiamento terapeutico l’equivalente della guarigione. Per cambiamento terapeutico non si intende un generico miglioramento che avvenga nella vita del paziente in corso di psicoterapia, ma un «Cambiamento non casuale, ma focalizzato in una direzione ben precisa, che dovrebbe essere definita a priori come obiettivo terapeutico» (Nardone, 2013). I tre pilastri su cui poggia ogni psicoterapia, indipendentemente dalla teoria di riferimento, sono tecnica, comunicazione e relazione. La tecnica è uno «strumento psicologico dell’interazione terapeutica, formalizzato, ripetibile e trasmissibile, la cui applicazione si è dimostrata efficace nel produrre un cambiamento e/o nel risolvere o gestire una forma di sofferenza psicologica. La tecnica comprende l’applicazione sia di procedure di problem solving,14 sia di modalità̀ comunicative e relazionali» (Nardone, 2013). Ogni modello si struttura intorno a un insieme di tecniche, che lo caratterizzano e che vengono insegnate a chi si forma in quel particolare modello. Ne sono esempi la tecnica delle associazioni libere di Freud (Freud, 1900), l’immaginazione attiva per la comprensione dei sogni di Jung (Jung, 1977), le tecniche corporee di Lowen (Lowen, 1975), l’ipnoterapia di Milton Erickson (Erickson, 1948), le tecniche di problem solving strategico (Nardone, 2009), solo per citarne alcune.

La comunicazione è il veicolo principale della psicoterapia. Ogni modello ha formalizzato tecniche di comunicazione differenti per guidare il paziente a superare il proprio disturbo. Al di là delle singole tecniche, tuttavia, è importante distinguere due grandi modelli comunicativi: il convincimento e la persuasione. – Il convincimento (dal latino cum-vincere, cioè prevalere con le proprie tesi sulle posizioni altrui) si basa sulla dialettica, cioè la contrapposizione di due tesi. Come in un duello, ogni contendente porterà a favore della propria posizione il massimo numero di argomentazioni possibile, fino a che uno dei due interlocutori prevarrà sull’altro, che si arrenderà schiacciato dal peso delle prove. Chi viene convinto sposerà la tesi altrui, ma non potrà scacciare del tutto la sottile impressione di essere stato in qualche modo «sconfitto». Il convincimento si basa soprattutto sui contenuti razionali delle argomentazioni, prestando poca o nessuna attenzione alla forma; il linguaggio è informativo e descrittivo, concreto e diretto. Il convincimento si adatta bene alle discussioni di tipo scientifico, laddove vince chi riesce a produrre il maggior numero di prove a sostegno della propria posizione. – La persuasione, al contrario, si rifà all’arte della dialogica, e si distingue dal convincimento perché riesce a condurre l’interlocutore a cambiare la propria posizione dolcemente e senza forzature. Etimologicamente, infatti, persuadere è «condurre soavemente a sé» (Nardone, 2015). Tuttavia, proprio nella dolcezza sta la potenza della persuasione. Con le parole di Gorgia, uno dei grandi persuasori dell’antichità: «In tal modo si constata il dominio della persuasione, la quale pur non avendo l’aspetto della necessità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti, un discorso che abbia persuaso un’anima la costringe a credere nei detti e a consentire nei fatti» (Encomio a Elena). Uno degli esempi più eleganti di processo persuasorio viene da un altro grande persuasore, Blaise Pascal, con la sua famosa «scommessa». Pascal pone la questione se sia più conveniente, in assenza di prove definitive, credere o non

credere nell’esistenza di Dio: argomenta poi che è di gran lunga più conveniente credere, perché se Dio non esiste avremo solo perso la scommessa, ma se esiste e non abbiamo creduto, avremo perso la beatitudine eterna. Dopo l’argomentazione iniziale propone una prescrizione per rendere la scelta naturale e spontanea: «Andate in chiesa, onorate i sacramenti anche se avete dubbi, comportatevi come se già credeste, e la fede non tarderà ad arrivare». Il cambiamento di prospettiva seguito dall’esercizio reiterato costruisce gradualmente una nuova credenza, cioè persuade. Sempre con le parole di Pascal, «Bisogna mettersi nei panni di coloro che devono ascoltarci e saggiare sul proprio cuore l’effetto che farà il giro che si darà al discorso, per vedere se l’uno è fatto per l’altro e se si può star certi che l’uditore sarà forzato ad arrendersi» (Nardone, 2015). Nel modello strategico la comunicazione terapeutica coincide con la comunicazione persuasoria: si tratta di una comunicazione che elicita la collaborazione del paziente, aggira le sue resistenze, e attiva le sue risorse verso la risoluzione del problema. Il linguaggio persuasorio comprende due componenti, entrambe essenziali per raggiungere l’obiettivo desiderato: il linguaggio indicativo e descrittivo, che spiega, descrive e trasmette informazioni, e il linguaggio performativo15 che fa sentire, persuade, prescrive e guida l’altro a cambiare. Il linguaggio persuasorio utilizza entrambe le forme, a seconda della persona, del tipo di problema e della fase della terapia. Spiegazioni, immagini evocative e ingiunzione di comportamenti sono sapientemente miscelate e alternate per ottenere l’effetto desiderato. Immaginiamo di avere un paziente ipocondriaco che, temendo di ricevere una diagnosi infausta, eviti in maniera sistematica ogni visita o analisi medica, anche quando sarebbero indicate. A questo paziente si può dare una spiegazione: «Sa, se lei continua a fare così rischia veramente di non accorgersi in tempo di quello che accade nel suo corpo, e prima o poi se ne pentirà amaramente!», argomentazione del tutto logica e razionale con la quale il paziente non potrà che

essere d’accordo, salvo poi rimanere inesorabilmente bloccato dalla propria paura. Oppure si può usare un’immagine analogica dicendo: «Sa, lei mi ricorda tanto lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia per non vedere il leone… poi il leone arriva e se lo mangia». La potenza di questa immagine avversiva, più di ogni argomentazione logica, aggira la resistenza del paziente, persuadendolo a sottoporsi agli accertamenti necessari. Dare alla persona la descrizione logica e poi l’immagine analogica della sua situazione aumenta il potere persuasorio e performativo del linguaggio e favorisce il cambiamento. La relazione terapeutica, infine, è la «somma delle regole che governano l’interazione tra terapeuta e paziente e che stabiliscono qual è il significato che va attribuito al messaggio contenuto nella comunicazione» (Nardone, 2013).Riprendendo quanto già esposto nei capitoli precedenti sugli assiomi della comunicazione, le relazioni possono essere simmetriche, cioè basate sull’uguaglianza, o complementari, cioè basate sulla differenza. In questo ultimo caso uno dei partecipanti assume la posizione one-up e l’altro la posizione one-down. Nella relazione, il terapeuta può assumere l’una o l’altra posizione comunicativa a seconda del contesto e dell’effetto desiderato. Nel modello strategico, ad esempio, all’inizio di una seduta, il terapeuta si pone prima in posizione di ascolto, poi comincia a fare domande, mettendosi in una posizione apparentemente one-down, lasciando la scena al paziente che si trova quindi in posizione one-up. Questo porsi inizialmente one-down permette però al terapeuta di condurre il dialogo e di arrivare prima alla definizione del problema, secondo l’antico stratagemma di «Partire dopo per arrivare prima» (Nardone, 2010). Altro esempio di relazione apparentemente one-down è quando il terapeuta, attraverso una raffinata sequenza di domande e parafrasi, permette alla persona di scoprire la via di uscita dal suo problema invece di indicarla direttamente (Nardone, Salvini, 2004). Citiamo qui ancora Pascal: «Ci si persuade meglio con le ragioni che abbiamo trovato da noi, che con quelle che si son presentate all’intelletto di altri».

I fattori terapeutici Cosa rende efficace una psicoterapia e quanto peso hanno rispettivamente la tecnica, la comunicazione e la relazione nel determinare il cambiamento? La teoria dei fattori comuni si propone di rispondere a questa domanda. Questa teoria si rifà al «verdetto di Dodo» secondo il quale tutte le terapie hanno efficacia simile, dato che un’ampia percentuale degli esiti terapeutici dipende dal paziente16 (Luborsky et al., 2002; Luborsky, Singer, 1975). Partendo da diverse meta-analisi17 condotte su numerosi studi sul cambiamento terapeutico, provenienti da ambiti anche molto differenti, questo modello ha cercato di analizzare quali siano i «fattori terapeutici comuni» a tutte le psicoterapie e che peso abbiano nel creare il cambiamento. Lambert e Barley (2001) hanno così identificato quattro fattori responsabili del cambiamento: 1. Fattori extra terapeutici, cioè le caratteristiche intrinseche dei pazienti: livello di sofferenza, risorse, motivazione, resistenza al cambiamento: impatto del 40%. 2. Aspettativa del paziente ed effetto placebo: impatto del 15%. 3. Tecniche terapeutiche: impatto del 15%. 4. Fattori comuni alle varie terapie: la relazione, l’alleanza terapeutica, l’empatia del terapeuta, le sue caratteristiche personali, la sua capacità di catturare il paziente, le sue abilità comunicative e persuasorie: impatto del 30%. Gli autori sottolineano come comunicazione e relazione terapeutica siano i principali determinanti dell’esito di una terapia. La stessa cosa sosteneva anche Carl Gustav Jung: «Conosci tutte le teorie.

Domina tutte le tecniche. Tuttavia, per toccare un’altra anima umana, devi semplicemente essere un’altra anima umana». Questa posizione è stata poi disconfermata dalle ricerche empiriche più recenti; esse dimostrano che sebbene l’aspettativa e la relazione siano fattori importanti, le tecniche specifiche elaborate per le particolari psicopatologie incrementano significativamente l’efficacia del trattamento (Castelnuovo, Molinari, Nardone, Salvini, 2013). Si deve inoltre considerare che anche il modo di comunicare e di relazionarsi con il paziente, se adattato sia alla persona sia al tipo di disturbo, garantisce migliori risultati terapeutici (Nardone, 2020). Ed è proprio l’aspetto comunicativo e relazionale quello che risente maggiormente del contesto telematico. La perdita del canale non verbale e la mancanza di un rigido setting terapeutico come quello dei modelli psicodinamici cambiano profondamente il modo in cui terapeuta e paziente si relazionano. La sfida dunque è adattare ogni modello in modo che mantenga il più possibile intatta la propria efficacia. L’adattamento dei vari modelli al contesto telematico non è però uguale per tutti. Alcuni, come il modello strategico e il modello cognitivo-comportamentale, si strutturano attorno a un corpo di tecniche di problem solving e possono compensare meglio le differenze nelle modalità di comunicazione e relazione. Buone strategie di problem solving, infatti, potenziano la relazione, incrementando l’aspettativa del paziente e favorendo il crearsi dell’alleanza terapeutica (Nardone et al., 2000). Una buona tecnica può anche aggirare le resistenze del paziente e attivarne le risorse, che non sono quindi da considerarsi sue caratteristiche «intrinseche», ma possono variare all’interno di una relazione terapeutica. Il modello strategico in particolare ha formalizzato, oltre alle tecniche di problem solving, anche tecniche comunicative raffinate, di stampo persuasorio, che sono veri e propri strumenti terapeutici. I principi alla base di queste tecniche sono: 1. Assunzione del linguaggio e del punto di vista del paziente.

2. Adattamento del linguaggio al tipo di disturbo: caldo e avvolgente con, per esempio, un’anoressica, tecnico e distaccato con un ossessivo compulsivo. 3. Utilizzo in seduta di molteplici tecniche (suggestioni dirette o indirette, metafore, uso del linguaggio non verbale e paraverbale) allo scopo di raggiungere l’obiettivo persuasorio. 4. Ingiunzioni di comportamento da mettere in atto al di fuori delle sedute (prescrizioni). Il compito dello psicoterapeuta […] non è affatto quello di «trovare» cosa è che non va nel paziente per poi poterglielo «dire» […] Il lavoro dello psicoterapeuta non consiste nemmeno nell’imparare cose riguardo al paziente per poi insegnargliele, bensì insegnare al paziente come imparare ciò che concerne sé stesso […] e questo avviene sulla base di esperienze concrete e non verbali».

Queste parole di Fritz Perls (Perls, 1969) bene illustrano la processualità strategica. Non una diagnosi da rivelare al paziente per poi dirgli cosa deve fare, ma una scoperta congiunta, tra paziente e terapeuta, sia di cosa non funzioni per quella particolare persona in quel particolare momento, sia di come fare per risolvere il problema. I cambiamenti terapeutici avvengono in virtù di esperienze reali vissute nel presente, o durante l’incontro col terapeuta o nella vita quotidiana, tramite le prescrizioni di comportamento. È questo il concetto di «esperienza emozionale correttiva»,18 cardine della psicoterapia strategica: un’esperienza concreta ottenuta mediante eventi casuali «pianificati», ovvero situazioni che appaiono casuali al paziente ma sono in realtà attentamente predisposte dal terapeuta per produrre l’effetto correttivo desiderato (Nardone, 2013). Secondo l’ottica strategica, infatti, il problema o disturbo nasce quando la persona in una determinata situazione è intrappolata in un punto di vista rigido che gli impedisce di vedere la via d’uscita. Scopo della terapia è, partendo dal punto di vista del paziente, fargli assumere dolcemente e senza forzature punti di vista alternativi che gli permettano di gestire la sua realtà in maniera più funzionale, vale a dire costruire, mediante la comunicazione, realtà inventate che producono effetti concreti (Watzlawick, Nardone, 1997).

Adattarsi al contesto telematico Ma in che modo tecniche specifiche, comunicazione e relazione agiscono e interagiscono tra loro, e come vengono modificate nel contesto telematico? Anche in questo caso, come nella visita medica, il limite principale che il terapeuta deve superare è la perdita del canale non verbale. Perdendo buona parte del potere suggestivo di sguardo, sorriso, espressioni e gestualità, il terapeuta dovrà trasferire tutta la potenza persuasoria della comunicazione sul canale verbale (selezione delle parole, ristrutturazioni, argomentazioni) e sul paraverbale (musicalità della voce, silenzi, pause). Il modello strategico, che ha formalizzato sia tecniche di problem solving sia tecniche comunicative basate sul potere performativo della parola, si adatta facilmente al contesto telematico, a patto che il terapeuta adotti alcuni accorgimenti e si mantenga flessibile durante tutta l’interazione. Molto è stato detto nei capitoli precedenti su come adattare la comunicazione in generale al contesto telematico. In questa sede sottolineiamo l’importanza di porre ancora più attenzione all’uso del linguaggio performativo, sia nella sua parte evocativa che nella sua parte ingiuntiva. Il linguaggio evocativo (aforismi, ristrutturazioni, analogie e metafore, storie e narrazioni) serve a creare nell’interlocutore sensazioni, indurre l’esperienza emozionale correttiva e aggirare eventuali resistenze razionali. Come evidenziato, usare un linguaggio evocativo non significa fare sfoggio di dotte citazioni, ma utilizzare strategicamente una modalità linguistica che deve sia aderire alle modalità percettive dell’altro, per fargli sentire che abbiamo compreso la sua posizione, sia raggiungere lo scopo desiderato, come aggirare le resistenze e indurre all’azione. Non una freccia scagliata a caso, dunque, ma una

freccia costruita ad hoc per quel particolare paziente e diretta verso un preciso bersaglio. Perché le evocazioni colpiscano nel segno, è fondamentale anche il timing, cioè che siano utilizzate al momento giusto. Un detto ebraico recita così: «Una parola detta al momento giusto è come un diamante incastonato nell’oro». E il medico e drammaturgo austriaco Arthur Schnitzler ha scritto: «Essere pronti è molto, saper attendere è meglio, ma sfruttare il momento è tutto». Le prescrizioni, o ingiunzioni di comportamento, andranno pronunciate con voce lenta e ben scandita, ripetendo gli enunciati più importanti. Frasi brevi e ridondanti, scandite, vengono recepite e memorizzate più facilmente di periodi lunghi e convoluti. La comunicazione paraverbale, come già illustrato nei capitoli precedenti, acquista ancora più importanza, e va regolata in maniera suggestiva: i cambi di tono, di velocità, di ritmo e le pause catturano e mantengono l’attenzione; un tono basso, caldo ed empatico comunica interesse e partecipazione, mentre un tono acuto comunica ansia o preoccupazione. Un volume troppo alto comunica ansia, irritazione o dominanza, troppo basso disinteresse o noia; l’eloquio lento ha effetto calmante, mentre parlare troppo rapidamente comunica ansia, fretta o preoccupazione. Per sintonizzarsi con il paziente e le sue emozioni, in mancanza del canale non verbale, acquista particolare importanza l’ascolto: occorre quindi fare molta attenzione alle parole che il paziente usa, all’organizzazione dei significati, al ritmo e volume della sua voce, alle pause, e ai silenzi. «Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia» ha scritto Arthur C. Clarke. I mezzi tecnologici a nostra disposizione certamente a volte danno questa impressione, permettendoci di condurre a distanza anche un’attività comunicativa complessa come la psicoterapia. Tuttavia, per quanto avanzati o perfezionati, i mezzi tecnologici mai potranno uguagliare, tanto meno superare, l’interazione umana diretta. Per tale motivo, per essere efficace una psicoterapia a distanza deve basarsi su un modello con tecniche comunicative e di problem

solving strutturate che possano essere adattate al mezzo e alla circostanza, mantenendo intatta la relazione terapeuta-paziente che abbiamo visto essere uno dei principali fattori determinanti del buon esito di una terapia. Tale modello utilizzerà in pieno il potere performativo e, perché no, anche «magico» della parola. Riportiamo per intero il pensiero di Freud sull’argomento, a cui più volte abbiamo fatto riferimento: Originariamente le parole erano magiche e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro. Non sottovaluteremo quindi l’uso delle parole nella psicoterapia (Freud, 1933).

Capitolo 6 La formazione a distanza

Dimmi e io dimentico; mostrami e io ricordo; coinvolgimi e io imparo Benjamin Franklin

La moderna formazione a distanza (FAD) non è una cosa così moderna come si potrebbe pensare: ha origine nella prima metà dell’Ottocento quando, parallelamente alla nascita dei servizi postali moderni, appaiono nei paesi anglosassoni i primi «corsi per corrispondenza». Successivamente, a metà del secolo scorso, compaiono i programmi radiotelevisivi, come quello mandato in onda dalla RAI negli anni Sessanta, per insegnare agli analfabeti a leggere e scrivere.19 Negli anni Ottanta, con l’avvento e la diffusione dei personal computer, la FAD entra nella sua seconda fase, caratterizzata da un uso integrato di fascicoli, programmi televisivi, audiocassette e, successivamente, videoregistrazioni e software didattico (floppy, CD-Rom). La terza e più moderna generazione di FAD, quella attuale, utilizza il world wide web, cioè la Rete, e prende il nome di «formazione in rete» o e-learning, che ha soppiantato pressoché interamente le altre modalità. Tramite la Rete si possono così gestire a distanza interi corsi di laurea universitari, master, programmi di formazione continua di diverse categorie professionali, programmi di formazione aziendale e di formazione personale.

La progressiva e naturale espansione della FAD, che è andata in parallelo con lo sviluppo della tecnologia, ha subito un’impennata durante la pandemia da Coronavirus, quando si sono trasferite «a distanza» gran parte delle attività formative precedentemente fatte «in presenza». Anche le persone più diffidenti o meno tecnologiche si sono così trovate costrette a utilizzare la formazione in Rete, e ben presto hanno cominciato ad apprezzarne i numerosi vantaggi: risparmio di tempo e risorse, sia per gli utenti che si collegano da casa o dal luogo di lavoro, sia per gli organizzatori che non devono ospitare in presenza gli iscritti al corso; ampio margine di autonomia nell’organizzazione di tempi e modi di studio; personalizzazione del percorso formativo; interazione con altri studenti e con i docenti tramite strumenti come le FAQ,20 la chat,21 la VoIP22 o il Web forum;23 facile ricorso a esperti anche geograficamente lontani; possibilità di arricchire, espandere, revisionare o aggiornare rapidamente i materiali didattici. Non ultima, l’estrema versatilità che caratterizza la FAD nasce dalla selezione e dalla combinazione di varie tipologie formative: intervista, videocorso, videoconferenza, presentazione su slide sono utili per il trasferimento di conoscenze e l’acquisizione di nozioni; corsi più interattivi favoriscono l’acquisizione di nuove abilità; strumenti utilizzabili in gruppo, come lavagne condivise, forum on line, ambienti di simulazione, sono indispensabili per generare collaborazione all’interno di un gruppo di lavoro. Nell’intervista formativa un intervistatore lancia il tema della conversazione, lasciando poi la parola all’esperto. Nel mondo social le interviste in diretta permettono al pubblico di fare domande direttamente all’intervistato, accorciando notevolmente le distanze tra pubblico ed esperti. Il videocorso è una modalità di grande successo: visionabile nei contesti più disparati, come ad esempio durante gli spostamenti quotidiani, ottimizza i tempi della formazione. Aprendo una semplice app sul proprio smartphone si può accedere a ore e ore di contenuti riguardanti un’immensa varietà di temi. La video-pillola è un breve

video gratuito che stimola la curiosità dell’ascoltatore, invogliandolo ad acquistare un videocorso o una consulenza. Molto versatile è anche la presentazione tramite slide, che possono essere di appoggio a un relatore, o visionabili da sole, accompagnate o meno da una voce narrante. In alcuni casi i contenuti delle slide vengono creati in diretta (live), inquadrando un foglio bianco, versione tecnologica della lavagna, sul quale il relatore scrive in diretta i concetti chiave. Nella videoconferenza uno o più relatori, dopo aver discusso un tema, possono interagire con il pubblico, mentre nella tavola rotonda digitale più speaker intavolano un dibattito formativo per chi ascolta. Molto usati sono anche i tutorial, piccoli video gratuiti caricati sul Web, per spiegare come fare qualsiasi cosa, dal cambiare una ruota all’auto, a mettersi una cravatta, a cucinare un determinato cibo. La principale finalità dei tutorial è catturare l’utente e costruire un pubblico. La formazione ibrida integra momenti telematici e momenti di formazione dal vivo, inserendo l’utente in un percorso di formazione variegato e di lungo periodo. Il docufilm, una combinazione di filmati e interviste, supportate da narrazione, è una modalità estremamente potente poiché associa le esperienze emotive, evocate con l’utilizzo sapiente di musica, immagini e di una trama avvincente, all’acquisizione di nozioni tecniche, fornite dalle spiegazioni e dalle interviste a professionisti. Un esempio di questa modalità formativa a cui abbiamo preso parte è il docufilm Covid-19 – il virus della Paura, prodotto da Consulcesi, una delle più importanti società di formazione a distanza (che, non a caso, durante il periodo di lockdown ha registrato un incremento dell’attività di FAD del 40%24), avvalendoci sia della forza comunicativa del cinema, i cui professionisti – registi, sceneggiatori e montatori – sanno meglio di chiunque altro usare le immagini e la trama per creare forti emozioni nel pubblico, sia del supporto scientifico di esperti che intervenivano alternandosi a personaggi rappresentativi dei profili psicologici espressione delle differenti reazioni emotive e comportamentali alla pandemia. Il docufilm si propone così come una nuova modalità formativa, che fa leva non solo sui contenuti da passare ma anche sulle emozioni da

evocare strategicamente per influenzare il comportamento di chi lo guarda. Nel caso di Covid-19 – il virus della Paura l’alternanza di linguaggio tecnico delle interviste e dell’impatto emotivo scaturito da un uso sapiente di trama, musica e scene suggestive mette in atto una vera e propria esperienza di cambiamento emozionale, che fa sì che lo spettatore non possa non esserne influenzato. Sempre per Consulcesi il Centro di Terapia Strategica ha realizzato corsi on line sulla comunicazione medico-paziente, sulla comunicazione per gli informatori medici scientifici e sulla pragmatica della comunicazione a distanza. In questo caso la modalità più efficace è risultata la creazione di slide costruite ad hoc per ogni modulo con spiegazioni tecniche supportate da esempi pratici unite a immagini evocative che aiutano il processo di apprendimento e l’esperienza formativa. Ogni modulo è introdotto da un breve video esplicativo sulle tematiche trattate. Questa unione di slide e video introduttivi-esplicativi si è dimostrata estremamente efficace: se ben strutturati e organizzati, i due supporti, video e slide, rappresentano uno strumento di apprendimento rapido, versatile e di grande impatto.

La tecnologia incontra l’arte della persuasione: la formazione strategica a distanza La mente non è una nave da caricare ma un fuoco da accendere. Plutarco

Apprendere, sia a distanza che in presenza, significa molto di più che acquisire nozioni. Secondo il paradigma costruttivista,25 al quale questo lavoro fa riferimento, gli allievi non devono essere considerati «contenitori» passivi da riempire con informazioni, ma costruttori attivi di conoscenza: ogni apprendimento parte da un’esperienza, a cui la persona attribuisce un significato, per poi analizzarla e integrarla nei propri schemi mentali, contribuendo così a costruire nuovi modelli mentali o rinforzare quelli già esistenti. Questi modelli, a loro volta, vengono utilizzati per interpretare le successive nuove esperienze, in un continuo processo circolare di costruzione della realtà.26 È noto infatti che, senza esperienze emozionali concrete, non si realizzano effettivi cambiamenti e, pertanto, nemmeno effettive acquisizioni. Impariamo prima ciò che percepiamo come importante o significativo, memorizziamo meglio ciò che ci emoziona27 o che si adatta bene ai nostri schemi mentali. L’apprendimento quindi, per essere efficace ed efficiente, deve seguire il normale funzionamento del cervello, applicando il concetto di esperienza emozionale già illustrato nei capitoli precedenti: un’esperienza percepita come significativa e che generi un’emozione viene appresa e memorizzata; con la ripetizione, l’apprendimento viene consolidato in acquisizione.

Esperienze e apprendimento arrivano infatti a plasmare letteralmente il cervello (neuroplasticità), come hanno dimostrato le moderne neuroscienze, creando anche nell’adulto collegamenti neurali che diventano sempre più efficaci con la ripetizione dell’esperienza (Gazzaniga, 1999, 2009, 2011). La processualità di una formazione efficace, dunque, parte sempre dal «sentire». «Nulla è nell’intelletto che non si trovi prima nei sensi», diceva Tommaso d’Aquino, e i discenti devono sentire che stanno per apprendere qualcosa di interessante, importante e significativo. Correttezza e completezza dei contenuti, per quanto indispensabili, non sono sufficienti se negli allievi non si evoca il desiderio di imparare o di approfondire l’argomento. A tal scopo, nel contesto telematico un’esperienza sensoriale ricca e significativa si costruisce facendo ampio uso della multimedialità, cioè utilizzando più canali (visivo, uditivo) e più formati (parola scritta e parlata, immagini, video, musica), il tutto adattato naturalmente all’uditorio e al contesto. Immagini, musica, fotografie, filmati possono mescolarsi e alternarsi ai contenuti scritti o parlati, in una varietà pressoché infinita di combinazioni, modulabili in modo da ottenere l’effetto desiderato. La sfida per il formatore è trovare il giusto equilibrio, cioè selezionare, nella profusione di possibilità, il materiale utile a evocare sensazioni, catturare e mantenere l’attenzione, evitando al tempo stesso di farsi prendere la mano e appesantire inutilmente la presentazione. Il «sentire» non si applica solo ai contenuti della formazione, ma anche alla figura del formatore che deve catturare l’interesse fin dall’inizio, entrando direttamente nel tema con una massima, un aforisma, una riflessione, un gesto, e presentarsi, come già esposto nei capitoli precedenti, armonizzando gesti, postura, movimenti e linguaggio. L’armonia del tutto deve affascinare, cioè creare un effetto suggestivo e ipnotico: con le parole di Martin Luther King, «I grandi oratori incantano anche con le banalità». Dal «sentire», cioè dall’aspetto evocativo ed emotivo, si passa poi al «comprendere». Nella programmazione del corso occorre attenersi a un principio strategico molto importante: conosci il tuo

pubblico e parla la sua lingua. Ogni aspetto della formazione, dalla scelta del formato da utilizzare (docufilm, slide, videocorso…), alla struttura logica, alla selezione delle immagini, all’utilizzo del linguaggio, deve essere pensato con l’uditorio e il contesto in mente, in modo che la lezione sia interessante, accessibile e utile per quel particolare pubblico. Una presentazione sulla fisica quantistica per fisici sarà strutturata in maniera molto differente da un corso di formazione sulla leadership o da un corso di aggiornamento per medici. Inoltre, sia in fase di programmazione che di erogazione del corso occorre attenersi al principio della semplicità: niente di superfluo, solo l’essenziale. Troppi contenuti confondono e affaticano l’uditorio, troppi dettagli (abuso di grafica o effetti speciali, testi prolissi e verbosi, grafici e tabelle complicate) appesantiscono la presentazione e ostacolano l’apprendimento. Scopo della formazione, infatti, non è che tutti ricordino tutto, ma che in ogni persona rimanga il messaggio essenziale, che deve risuonare a corso finito, lasciando agli allievi spunti di riflessione e desiderio di approfondire l’argomento. L’interesse catturato con gli aspetti evocativi ed emotivi va mantenuto alto sia con la qualità dei contenuti, sia con l’interazione: il formatore deve punteggiare il corso con domande o affermazioni che aprano dei varchi, prima facendo sentire agli allievi che c’è qualcosa che non sanno, poi guidandoli a trovare le risposte, conducendoli in un vero e proprio viaggio di scoperta. Sentire e comprendere sfociano naturalmente nell’agire. Un apprendimento veramente efficace opera un cambiamento su due livelli: a livello di contenuti, i discenti sentono che quanto appreso cambierà in meglio le loro attività e le loro vite; a livello più profondo, l’apprendimento si identifica col cambiamento, spingendo la persona a mettere in pratica quanto imparato e a condividerlo con altri.

Supervisioni cliniche Vale la pena di soffermarsi su una particolare applicazione dell’intervento strategico a distanza, data la sua complessità e rilevanza: la supervisione, sia in ambito psicoterapeutico che di problem solving. La supervisione va distinta dalla consulenza, nella quale un terapeuta o un coach in difficoltà nel gestire un particolare caso chiede un parere a un collega che, perché più esperto o perché riesce a cogliere punti di vista differenti, può aiutarlo a sciogliere i nodi. Si tratta di uno scambio tra due professionisti alla pari, che si svolge in presenza, oppure via e-mail, telefono o collegamento video, e non richiede particolari abilità comunicative, se non quelle di una corretta presentazione del caso. Nella supervisione, invece, un docente o professore esperto supervisiona i casi più difficili portati dai suoi allievi e collaboratori, costruendo con loro nuove strategie di soluzione e guidandoli in un processo di apprendimento. La supervisione si distingue dalle altre forme di FAD perché ha un duplice obiettivo: da una parte fornire all’allievo in difficoltà una strategia efficace per risolvere il caso; dall’altra, guidarlo in un processo di apprendimento e di cambiamento, individuando eventuali sue difficoltà ridondanti e aiutandolo a superarle, in un continuo processo di crescita e miglioramento sia personale che professionale. Considerando quanto abbiamo detto sui processi di apprendimento, il supervisore deve far vivere al suo allievo una vera e propria esperienza emozionale, adattandosi ai suoi schemi mentali, punti di vista e idiosincrasie culturali e, anziché fornirgli la soluzione preconfezionata, condurlo in un viaggio di scoperta. Se il processo è gestito bene, il terapeuta supervisionato, in virtù dell’esperienza emozionale vissuta, sarà in grado di generare a sua

volta un’esperienza emozionale nel proprio paziente, favorendo così il cambiamento desiderato. Per questo motivo il supervisore va considerato un vero e proprio maestro, nel suo significato originale di «colui che è superiore» (il latino magister deriva da magis, «di più, maggiormente»), dovendo possedere sia un’approfondita conoscenza della materia, sia la capacità di trasmetterla evocando sensazioni e suscitando emozioni mediante l’uso sapiente del linguaggio. L’interazione tra supervisore e supervisionato è simile all’interazione tra terapeuta e paziente, e ne segue la processualità: il supervisore deve indagare il problema del suo collaboratore, cioè le caratteristiche del caso non risolto, ponendosi dal suo punto di vista; deve poi analizzare le «tentate soluzioni fallimentari» dell’allievo, cioè i tentativi di soluzione che non hanno funzionato, o hanno funzionato solo parzialmente; deve poi costruire, con il collaboratore supervisionato, una strategia di soluzione alternativa, adattandola alle peculiarità sia del caso presentato che del terapeuta stesso, dando infine al collaboratore indicazioni di comportamento. L’esperienza del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, dove da anni si svolgono sessioni di supervisione avvalendosi anche del supporto telematico, dimostra che non solo è possibile realizzare interventi altrettanto efficaci ed efficienti che dal vivo, ma anche sperimentare ulteriori modalità sia di comunicazione che di relazione con le persone.

Consulenza, coaching e marketing Benché dal punto di vista della comunicazione segua gli stessi principi, la consulenza telematica è differente dalla formazione. Se quando stiamo insegnando possiamo permetterci di fare delle sessioni di spiegazione teorica abbastanza lunghe, nel caso della consulenza le spiegazioni dovranno essere ridotte a pochi minuti, ricercando una massima interazione con gli interlocutori. Sarà proprio dall’interazione, generata dall’uso sapiente di domande strategiche, parafrasi e tecniche di problem solving, che il consulente potrà arricchire il suo intervento con le spiegazioni necessarie al raggiungimento dell’obiettivo consulenziale. Dovremo quindi iniziare con una breve premessa che possa portare gli utenti a riflettere per poi cercare velocemente i feedback e da lì costruire l’intervento. Questa modalità è indubbiamente più difficile e faticosa rispetto a una classica consulenza in aula, dove possiamo ammaliare il pubblico con storie e spiegazioni. Per questo la consulenza telematica è molto più complessa e richiede da parte del consulente abilità tecniche e comunicative superiori. L’intervento dovrà poi chiudersi con l’assegnazione di consegne da realizzare e obiettivi da raggiungere prima dell’intervento successivo. Buona prassi è supervisionare il cliente in questa fase dando la nostra disponibilità o pianificando dei rapidi follow up. Se stiamo facendo un coaching le cose non differiscono da quanto detto finora, tenendo conto che nella forma telematica il coaching accentua le caratteristiche e le qualità dell’individuo. Se un professionista era solito far fare ai clienti esperienze emozionanti ma fini a sé stesse, come camminare sui carboni ardenti o far seguire corsi di sopravvivenza per promuovere il team building o la resilienza, si troverà in serie difficoltà nel condurre delle consulenze di qualità on line. Chi al contrario ha basato la propria

professionalità sullo studio, la scienza e la capacità di raggiungere pragmaticamente gli obiettivi ne sarà facilitato. Con le parole di Louis A. Berman: «Un buon insegnante è un maestro di semplificazione e un nemico del semplicismo». Un’ultima considerazione la rivolgiamo al marketing on line. Negli ultimi anni si è osservato un incremento vertiginoso di video, dirette social e webinar da parte di improbabili consulenti, marketer dell’ultimo minuto e autoproclamati guru. L’on line è un acceleratore di possibilità e opportunità, e per questo dobbiamo porre molta attenzione alla costruzione della nostra immagine e reputazione, al nostro posizionamento e alla qualità del servizio che vogliamo proporre. Nel mondo americano della formazione vi è uno slogan che recita: «There are no shortcuts», ovvero «Non ci sono scorciatoie». Chi vuole avere successo, raggiungere obiettivi ambiziosi e superare sé stesso deve sacrificarsi, studiare, migliorarsi costantemente e imparare a rialzarsi dopo una caduta. Per concludere: ricercate la qualità, e se ancora non ne avete abbastanza impegnatevi a realizzarla; quando l’avrete realizzata cercate di migliorarla e, se ritenete di averla ottenuta al meglio, occupatevi di qualcosa d’altro da migliorare. Mai dimenticare le parole di F. Nietzsche: «Tutto ciò che non eleva inesorabilmente abbassa».

Conclusioni

La pandemia ha forzato tutti a un adattamento alle circostanze come pochi altri eventi negli ultimi decenni, nel nostro caso a rivedere alcuni metodi per mantenerne l’efficacia e l’efficienza. Come sempre è accaduto nella storia della umanità i devastanti accadimenti hanno condotto a successivi slanci verso il miglioramento degli esseri umani e dei loro comportamenti. Dal canto nostro cerchiamo di dare il nostro umile contributo in questa direzione in virtù delle nostre limitate capacità. Dobbiamo imparare da ciò che ci insegna la natura: le aquile nel mezzo della tempesta, non si nascondono negli anfratti per proteggersi, bensì volano più in alto dei venti e delle piogge.

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Note

1 https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019. 2 «Erogazione di cura e assistenza, quando la distanza è un fattore critico, attraverso tecnologie informatiche e della comunicazione» è la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. 3 Frontiere ancora in esplorazione sono i chatbot, o assistenti virtuali, software che analizzano tramite parole chiave i sintomi del paziente, e gli danno indicazioni di comportamento (richiesta di aiuto, monitoraggio del sintomo, ecc.). 4 Il sistema percettivo-reattivo in psicoterapia breve strategica è la modalità ridondante di percezione e reazione di un individuo nei confronti della realtà, che si esprime nel funzionamento delle tre fondamentali tipologie di relazione interdipendenti: la relazione tra il Sé e il Sé, la relazione tra il Sé e gli altri, la relazione tra il Sé e il mondo. 5 La tentata soluzione definisce i tentativi fatti, sia dalla persona che presenta un problema sia da quelle con cui è in relazione (inclusi i partner, gli amici, i precedenti terapeuti, lo staff medico), per cercare di risolvere, ma infruttuosamente, il problema stesso. 6 In alcuni casi si distingue il termine «aderenza», che indica un ruolo più attivo svolto dal paziente nel prendersi cura della propria salute, da quello di «compliance», che indica una condizione più passiva. In questa sede, per semplicità, i due termini verranno utilizzati come sinonimi. 7 Altri meccanismi sono la riduzione dell’ansia, l’apprendimento e l’apprendimento sociale. 8 MRGE: Malattia da Reflusso Gastro-Esofageo; BPCO: Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva. 9 https://web.stanford.edu/group/ipc/pubs/2002AmbadySurgery.pdf 10 La fibrillazione atriale è un’aritmia cardiaca a decorso benigno che, spesso ma non sempre, causa una frequenza cardiaca accelerata. 11 Il verificarsi di effetti negativi legati all’aspettativa mentale di un peggioramento prende il nome di «effetto nocebo», ed è speculare all’effetto placebo, utilizzando gli stessi meccanismi e le stesse vie neurali. 12 http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato9565072.pdf

13 Ne è un esempio woebot (da woe = dolore, dispiacere), programma progettato dall’Università di Stanford che utilizza i principi della terapia cognitivocomportamentale, dando le prime indicazioni alle persone su come comportarsi per gestire i disagi mentali. 14 Si definisce problem solving l’insieme di procedimenti orientati alla soluzione dei problemi. Esistono vari modelli di problem solving, ma i più noti sono il problem solving strategico e quello cognitivo. 15 Il linguaggio performativo si può suddividere in linguaggio evocativo, che evoca sensazioni, e linguaggio ingiuntivo, che induce all’azione. Entrambe le forme favoriscono il cambiamento. 16 Il «verdetto di Dodo» si riferisce all’episodio narrato da Lewis Carroll in Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, in cui l’uccello Dodo indice una gara tra i vari personaggi, senza specificare con quali parametri avrebbe attribuito la vittoria. Alla fine della gara, per accontentare tutti, Dodo dichiara: «Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati». 17 La meta-analisi è una tecnica statistica di analisi che permette di combinare i dati di più studi condotti su di uno stesso argomento, generando un unico dato conclusivo e permettendo così di dare significato a dati provenienti da un gran numero di ricerche differenti. 18 Concetto introdotto da Franz Alexander nel 1946 per indicare le esperienze emotive concrete che permettono al paziente di «correggere» l’influenza di esperienze negative precedenti. 19 https://it.wikipedia.org/wiki/Non_è_mai_troppo_tardi_(programma_televisivo) 20 Frequently Asked Questions, ovvero domande frequenti. 21 Chat: servizio offerto da Internet, che permette a più interlocutori di conversare in tempo reale tramite messaggi scritti. 22 Voice over IP (VoIP): tecnologia che rende possibile effettuare una conversazione telefonica sfruttando una connessione Internet, anziché passare attraverso la rete telefonica tradizionale. 23 Forum: servizio Internet che permette di inviare e leggere messaggi su un argomento specifico, che restano a disposizione per i commenti altrui, 24 https://www.sanitainformazione.it/formazione/emergenza-coronavirus-piccodella-formazione-a-distanza-40-burnout-il-corso-piu-seguito/ 25 Il costruttivismo è un approccio che considera la conoscenza una costruzione dell’esperienza personale anziché la rappresentazione di una realtà indipendente dall’osservatore. 26 Questo processo prende spunto dal modo in cui il bambino costruisce i concetti base e le forme del pensiero attraverso l’interazione con l’ambiente, come brillantemente evidenziato da Jean Piaget, uno dei padri del costruttivismo. 27 Le strutture cerebrali coinvolte nel processo di memorizzazione sono l’ippocampo e l’amigdala, parti del sistema limbico. L’ippocampo gioca un ruolo primario nella formazione della memoria a breve termine, mentre l’amigdala attribuisce il significato emotivo all’informazione ricevuta.

Indice

Introduzione Capitolo 1. La realtà nello schermo Capitolo 2. La pragmatica della comunicazione telematica La forma crea il contenuto. Gli assiomi della comunicazione umana e la loro applicazione digitale La superficie è l’anticamera della profondità. La creazione della prima impressione Costruire il proprio palcoscenico. Il setting telematico Il canto delle sirene. L’utilizzo strategico della voce A me gli occhi, a te il sorriso. Lo sguardo e la mimica facciale Il corpo come strumento. La prossemica, la postura e i gesti Capitolo 3. La persuasione digitale Fraintendimenti, ripetizioni e ridondanze L’argomentazione, la retorica e la sintonia All’inizio era il Verbo. La parola, il linguaggio e la struttura dell’eloquio Evocare sensazioni Il dialogo strategico telematico Capitolo 4. Ippocrate telematico: le cure mediche a distanza La cura è un atto di relazione La compliance L’effetto placebo

Curare a distanza L’anamnesi L’esame obiettivo Il colloquio La comunicazione paraverbale La creazione dell’accordo La prescrizione Le comunicazioni scritte Capitolo 5. La psicoterapia telematica: le sfide del setting a distanza «Non esiste salute senza salute mentale» L’arte di curare con le parole I fattori terapeutici Adattarsi al contesto telematico Capitolo 6. La formazione a distanza La tecnologia incontra l’arte della persuasione: la formazione strategica a distanza Supervisioni cliniche Consulenza, coaching e marketing Conclusioni Bibliografia Note Seguici su ilLibraio

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