Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana
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Zitiervorschau

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007 Seconda edizione 2009

Francesco Ferretti

Perché 1Wn siam,o speciali Mente, linguaggio e natura umana

O Editori La.ter.m

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2009 Digitai Print Service srl Via Torricelli, 9 - 20090 Segrate (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8265-1

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Introduzione

Se io fossi un angelo non starei mai nelle processioni nelle scatole dei presepi, starei seduto fumando una Marlboro al dolce fresco delle siepi.

Lucio Dalla Questo è un libro sulla natura umana. Un libro che affronta un tema del genere ha come scopo prioritario quello di spiegare che cosa renda gli umani quello che sono - ciò che li caratterizza in modo specifico. Stabilire se esistà una qualche proprietà (o un gruppo di proprietà) capace di caratterizzare l'essere umano nella sua peculiarità è questione aperta e fortemente controversa. In epoche e da autori diversi sono state proposte interpretazioni alternative della peculiarità degli umani giustificate in riferimento a caratteri molto diversi tra loro: la stazione eretta, l'abilità di costruire strumenti, l'autocoscienza, solo per fare alcuni esempi. La tesi di base di questo libro è che la peculiarità degli umani dipenda in larga parte dal fatto che essi posseggono un linguaggio. L'obiettivo di fondo è la chiarificazione di che cosa si debba intendere per «linguaggio» quando si dice che il linguaggio ha una relazione cori il tema della natura umana - accezioni diverse di linguaggio, come vedremo, implicano concezioni molto diverse di tale natura. La nostra analisi si situa nell'ambito della riflessione propria della scienza cognitiva. Analizzare il tema del rapporto tra linguaggio e natura um_(lna all'interno di tale riflessione significa confrontarsi con un passaggio obbligato: la prospettiva chomskiana. Riprendendo temi cari alla tradizione cartesiana, Noam Chomsky sostiene che il linV

guaggio è responsabile di una vera e propria «differenza qualitativa» tra animali umani e non umani. Insistendo sugli aspetti di unicità che è possibile attribuire agli esseri umani per il fatto che essi posseggono un linguaggio, egli arriva a sostenere che gli umani hanno caratteristiche di «specialità» all'interno del mondo naturale. Una concezione di questo tipo pone una distinzione verticale tra esseri umani e altri animali: assegnare all'essere umano una posizione privilegiata nella natura è un modo per distinguerlo dal resto del mondo animale (considerato come un tutto omogeneo) preso nella sua interezza. La nostra idea è che considerare gli umani in questo modo (con caratteristiche di eccezionalità) equivalga a porli al di fuori del mondo naturale - la specialità è affare degli angeli disincarnati, non delle donne e degli uomini in carne e ossa. Contro la tesi della specialità, in questo libro sosterremo che la natura umana debba essere analizzata in termini di «specificità». Analizzare in questi termini la natura umana significa porre la riflessione su un piano orizzontale in cui tutte le specie si trovano allo stesso livello e ogni specie presenta (e rivendica) caratteri di specificità che la distinguono da ogni altra. Sostenere che le caratteristiche peculiari degli umani debbano essere analizzate in riferimento alla loro specificità caratterizza la nostra indagine in un duplice senso. Il primo è che indagare la natura umana senza ipotizzare statuti speciali o speciali metodologie d'indagine significa connotare il nostro punto di vista all'interno di una prospettiva genuinamente naturalistica. Il secondo entra in modo più diretto nel contenuto teorico della nostra proposta: escludendo ·la tesi che gli umani siano caratterizzati da un supposto stato di eccezione, l'analisi di ciò che rende specifico l'essere umano deve procedere di pari passo con l'indagine relativa a ciò che gli umani hanno in comune con gli animali ad essi più vicini nella scala filetica: la specificità dell'essere umano, in altre parole, può e deve essere guadagnata all'interno di un quadro continuista. In questo volume porteremo argomenti a sostegno dell'idea che il linguaggio possa determinare alcuni tratti peculiari della natura umana senza per questo rompere il vincolo di continuità imposto dall'indagine naturalistica. Come realizzare tale intento? Il tentativo di giustificare questa idea passa per l'individuazione di una proprietà del linguaggio in grado di funzionare da ponte (da punto di convergenza) tra aspetti specifici e tratti condivisi della natura umana. Per far questo tale proprietà deve presentare un duplice carattere: pur non essendo specifica del linguaggio, deve poter esVI

sere considerata una delle sue caratteristiche di base. La nostra idea è che la proprietà in questione sia l'intelligenza: una capacità che possiamo riscontrare (seppure in gradi diversi) in tutto il mondo animale. Poiché, come vedremo, l'intelligenza è alla base dell'origine, dell'acquisizione e del funzionamento del linguaggio, dire che il linguaggio sia il tratto peculiare degli umani non equivale a segnare una linea netta di demarcazione tra gli esseri umani e alcuni altri animali. Mostrare che l'intelligenza è uno dei tratti costitutivi della capacità linguistica, in altre parole, è un modo per giustificare l'idea secondo cui il linguaggio rende l'essere umano specifico senza renderlo speciale. Fatta questa premessa, uno dei punti cardine del nostro lavoro ruota attorno alla definizione di che cosa sia l'intelligenza. Prima di entrare nello specifico di tale definizione, tuttavia, è necessario chiedersi se sia davvero possibile parlare di intelligenza a proposito del linguaggio. Ci sono almeno due difficoltà nel rispondere positivamente a questa domanda. La prima è data dal fatto che la tesi chomskiana ha avuto come uno dei suoi bersagli polemici fondamentali la critica al ruolo dell'intelligenza nel linguaggio. Rispetto a questo punto, una precisazione è da fare. In questo libro non intendiamo riportare il dibattito indietro nel tempo: la nostra proposta deve essere collocata all'interno di un quadro teorico post-chomskyano (di chi assume le tesi di Chomsky come il punto di analisi da cui partire e cerca di far fronte ad alcune difficoltà), non certo all'interno di un quadro di analisi pre-chomskiano (di chi si comporta come se Chomsky non fosse mai esistito e non avesse mai fatto la rivoluzione che ha fatto). Detto questo, il primo problema che abbiamo di fronte è. comprendere come sia possibile parlare del ruolo dell'intelligenza nel linguaggio dopo le critiche di Chomsky. La seconda difficoltà è data dal fatto che una teoria dell'intelligenza- della creatività e della flessi~ilità cognitiva che caratterizzano gli esseri umani - sembra essere in contrasto con la teoria modulare della mente. Poiché tale teoria rappresenta la migliore ipotesi oggi a nostra disposizione sulla natura dell'architettura cognitiva, il secondo problema che abbiamo di fronte è capire come sia possibile conciliare la concezione modularista con l'idea che il linguaggio abbia a che fare con l'intelligenza. Per riassumere e schematizzare: in questo libro intendiamo provare _che il linguaggio è una capacità che rende gli umani specifici ma non speciali. Per riuscire nell'intento dobbiamo puntare su una proVII

spettiva capace di coniugare specificità e continuismo. Il riferimento alla nozione di intelligenza sembra una via interessante da percorrere; perché lo sia di fatto, tuttavia, è necessario che tale nozione sia in linea con ciò che oggi sappiamo del funzionamento del mentale: ciò che si deve mostrare, in altre parole, è che l'intelligenza sia compatibile con una concezione modulare della mente e che essa abbia un ruolo importante nella genesi, nell'acquisizione e nella comprensione del linguaggio. Per far questo ovviamente l'intelligenza non può essere considerata quel tipo di entità che Chomsky aveva in mente quando sosteneva che l'intelligenza non avesse nulla a che fare con il linguaggio. I capitoli che seguono danno corpo alle ipotesi qui brevemente schematizzate. Nel capitolo I si tracciano i tratti costitutivi di un approccio particolarmente caro all'antropologia filosofica e alle concezioni culturaliste dell'essere umano secondo cui i caratteri di flessibilità e creatività che caratterizzano gli umani dipendono dal fatto che essi partecipano di una natura plastica e indeterminata alla nascita. Una impostazione del genere è stata criticata aspramente dalla scien;za cognitiva contemporanea che rivendica invece sistemi mentali ricchi e articolati sin dalle prime fasi di sviluppo del bambino. Il risultato teorico di questo capitolo è duplice: il primo, più debole, è che la tesi della creatività e della flessibilità umane non sia in contrasto con un'idea di costituenti interni ricchi e articolati; il secondo, più forte, è che soltanto ipotizzando sistemi mentali ricchi di articolazioni interne sia realmente possibile dar conto delle caratteristiche che rendono intelligenti gli esseri umani. Nel capitolo II si affrontano gli aspetti positivi ma anche le difficoltà cui va incontro il modello chomskiano nel determinare una precisa idea di natura umana. Utilizzando l' «argomento della povertà dello stimolo», Chomsky ha sferrato un colpo mortale a quelle concezioni del mentale che, facendo più o meno esplicito riferimento alla tabula rasa, hanno esaltato la natura plastica e indeterminata degli individui. L'«argomento della povertà dello stimolo» rappresenta un punto di non ritorno nella riflessione sulla mente umana: parlare di linguaggio significa parlare di una facoltà caratterizzata dall'innatismo dei suoi elementi costituitivi. Tutto questo non è in discussione in questo libro. A non convincerci è un altro aspetto della tesi di Chomsky: l'idea che il linguaggio sia a fondamento di una «differenza qualitativa» tra umani e altri animali. In particolare, a non convincerci è la concezione di linguaggio - un sistema autonoVIII

mo e autosufficiente dagli altri sistemi cognitivi e, in particolar modo, dall'intelligenza - posta a giustificazione di tale differenza. Contro questa concezione il nostro discorso si sviluppa a partire da una difficoltà messa in luce da Steven Pinker secondo cui (in alcune situazioni particolari) la comprensione del linguaggio implica uno «sforzo cognitivo» governato dall'intelligenza generale in tutta la sua potenza. La nostra idea è che quello che Pinker crede sia in àtto soltanto in situazioni molto particolari è di fatto in atto in ogni situazione di comprensione del linguaggio. La nostra idea, inoltre, è che per sostenere il ruolo dell'intelligenzà nel linguaggio occorra avere una nozione di intelligenza funzionale allo scopo e che Pinker non abbia una nozione spendibile di intelligenza da offrire a sostegno · della sua ipotesi. Nel capitolo III si definisce l'intelligenza come una forma diequilibrio adattivo: in particolare, la tesi di base è che ogni forma di adattamento sia una forma di intelligenza. Una tesi di questo tipo apre la strada (in positivo) a una concezione continuista della natura umana; essa, tuttavia, mostra il fianco anche ad alcune difficoltà. Come abbiamo già sottolineato, la teoria modulare della mente è la migliore teoria dell'architettura cognitiva oggi a nostra disposizione. Ora, per le proprietà di automaticità e di obbligatorietà che ne caratterizzano il funzionamento, i moduli sono spesso considerati meccanismi «stupidi» di elaborazione: come poter parlare di intelligenza all'interno del quadro della mente modulare? La risposta più interessant~ a questa domanda riguarda l'idea di considerare l'intelligenza come la capacità in grado di stabilire un equilibrio adattivo tra sistemi di elaborazione in cooperazione-competizione tra loro. Per quanto attiene allo specifico della hostra indagine, l'intelligenza è chiamata in causa per dar conto dell'equilibrio adattivo tra due distinti macrosistemi di elaborazione: l'intelligenza ecologica e l'intelligenza sociale. Da questo peculiare punto di vista, l'intelligenza è la capacità che regola l'ancoraggio dell'organismo al mondo sociale e a quello fisico: l'equilibrio adattivo degli organismi sociali all'ambiente fisico e al gruppo dei conspecifici ha la forma di una relazione triadica (io-tu-mondo) tra elementi in forte competizione. L'equilibrio tra tali elementi (il primato, a seconda dei casi, di uno dei fattori in gioco) è una forma di adattamento che richiede uno sforzo cognitivo guidato dall'intelligenza. · Il capitolo IV è dedicato al rapporto tra linguaggio e intelligenza. Più nello specifico, in questo capitolo si mostra come l'intelligenza IX

sociale e quella ecologiCa, poste a garanzia dell'ancoraggio degli organismi al mondo, siano a fondamento dei processi di acquisizione e di comprensione del linguaggio - garantendo la relazione del linguaggio al contesto sociale e fisico. L'assunto cardine di questo capitolo è la dipendenza del linguaggio dai sistemi concettuali alla base delle due forme di intelligenza (l'analisi di alcuni aspetti del linguaggio spaziale mostra la dipendenza del linguaggio dal sistema di concettualizzazione dello spazio; lo studio di alcuni aspetti della pragmatica del linguaggio mostra la dipendenza del linguaggio dal sistema di lettura della mente alla base dell'intelligenza sociale). Il punto chiave è l'analisi del rapporto di competizione tra i due sistemi concettuali: tale analisi evidenzia non solo che i diversi sistemi concettuali alla base delle due forme di intelligenza giocano un ruolo nell'acquisizione e nell'uso del linguaggio, ma che l'aspetto determinante dei processi di acquisizione e di uso del linguaggio dipende dall'equilibrio adattivo messo in atto dall'intelligenza nel tentativo di riequilibrare gli effetti della competizione tra i due sistemi concettuali. Nel capitolo V si affronta il tema della coevoluzione di linguaggio e pensiero. L'attenzione riservata nei capitoli precedenti al tema della continuità e della dipendenza del linguaggio dal sistema concettuale è sicuramente una prova in favore della tesi che considera gli umani come esseri specifici ma non speciali. Un argomento fortemente incentrato sul tema della continuità, tuttavia, presenta anche una difficoltà intrinseca: concentrare l'attenzione soltanto sugli aspetti che accomunano gli umani ad altri animali porta di fatto a indebolire le specificità che li connotano in modo peculiare. In questo capitolo mostreremo che alcune delle specificità cognitive che caratterizzano gli umani dipendono dal ruolo del linguaggio nel pensiero. Esaminando un caso in concreto, il tema della metarappresentazione, mostreremo che il linguaggio gioca un ruolo decisivo nel caratterizzare il modo specifico di metarappresentare tipico degli umani in processi di pensiero quali l'autoriflessione o l'attribuzione di credenze false ad altri. A questo punto la domanda centrale del nostro discorso diventa la seguente: come salvaguardare la tesi della specificità del linguaggio nella cognizione tenendo fede, allò stesso tempo, alle istanze continuiste (evidenziate dalla relazione di dipendenza del linguaggio dai sistemi concettuali) emerse nei capitoli precedenti? La nostra risposta è che il ruolo del linguaggio nel pensiero deve essere considerato nei termini di un «effetto di ritorno» X

- mai nei termini di una relazione costitutiva di base. Caratterizzare il ruolo del linguaggio in questo senso implica riconoscere due cose: la prima è che il linguaggio ha una genesi evolutiva che si fonda su un sistema cognitivo in buona parte condiviso con altri animali e, dunque, che le proprietà che contraddistinguono il linguaggio non possono essere caratteristiche speciali apparse per una sorta di miracolo nel mondo della natura; la seconda è che il linguaggio, nel suo «effetto di ritorno» sul pensiero, non inventa ex novo la rappresentazione del mondo degli umani ma modifica ciò che è in larga parte già organizzato dai sistemi concettuali di cui essi dispongono. Dire che il linguaggio ammetta elementi di comunanza e di specificità significa sostenere che il pensiero verbale che connota gli umani presenti allo stesso tempo caratteri che lo pongono in continuità con altre forme di pensiero e caratteri che rivendicano una specificità rispetto a tali forme di pensiero. La coevoluzione di aspetti specifici e linee di continuità è la strada da percorrere per mostrare che gli umani non sono così speciali come spesso (per l'antropocentrismo che governa la visione che gli umani hanno di se stessi) amano dipingersi.

F.F.

Ho discusso molte delle tesi presentate in questo libro con amici e colleghi. Ringrazio di cuore Felice Cimatti, Erica Cosentino, Valentina Cuccio; Mario De Caro, Mauro Dorato, Rosaria E'.gidi, Lia Formigari, Daniele Gambarara, Stefano Gensini, Giovanni Iorio Giannoli, Elisabetta Gola, Simone Gozzano, Franco Lo Piparo, Diego Marconi, Massimo Marraffa, Marco Mazzeo, Marco Mazzone, Cristina Meini, Alfredo Paternoster, Antonino Pennisi, Pietro Perconti, Francesca Piazza, Maria Primo, Roberto Pujia, Paolo Quintili, Tommaso Russo, Silvano Taglia/gambe, Paolo Virno, Tiziana Zalla. Un ringraziamento particolare va a Maria Grazia Rossi e Giuseppe Tavella per lelaborazione al computer , della figura 11 nel cap. IV. Tullia continua a sorridermi ogni volta che la guardo negli occhi, regalandomi l'illusione che ci sia qualcosa di veramente speciale negli esseri umani. Nei giorni di solitudine che inevitabilmente accompagnano la stesura di un libro, il ricordo di Cecilia e Alberto ha spesso attraversato la mia mente tenendomi compagnia. Dedico a loro questo libro. XI

Perché non siamo speciali Mente, linguaggio e natura umana

Capitolo I

Il primato dei fattori esterni all'individuo

«Non sei più un selvaggio anche se non sei ancora un uomo». Con queste parole termina il film di T ruffaut dedicato a Vietar del' Aveyron, uno dei casi più noti e meglio documentati di en/ant sauvage, vale a dire di un essere umano abbàndonato piccolissimo e sopravvissuto allo stato di natura in totale isolamento dagli altri membri del gruppo sociale. A proferire tali parole èJean Itard medico all'Istituto per sordomuti di Parigi dopo lo strenuo tentativo di civilizzazione di Vietar seguito al suo ritrovamento nell'estate 1798 nelle campagne dell'Aveyron. Quello di Vietar non è un caso isolato né riferibile soltanto al passato. Negli anni Settanta fece scalpore il caso di Genie una ragazza di 13 anni trovata nei sobborghi di Los Angeles. Più recentemente, le cronache hanno riferito la storia di Andrei Tolstikh abbandonato in Siberia a circa 3 anni di età e cresciuto da allora in compagnia soltanto del suo cane 1• A dispetto del valore che si è disposti a riconoscere ai resoconti relativi al loro ritrovamento (molto spesso stilati utilizzando metodologie di dubbio valore scientifico), il caso dei ragazzi selvaggi rimane estremamente fecondo sul piano speculativo. Tale caso, in effetti, esemplifica l'esperimento ideale attraverso cui riflettere su uno dei temi della natura umana: l'annoso problema del rapporto tra natura e cultura. La concezione della natura umana propria di ltard offre un modello chiaro a questo proposito. Due assunti la caratterizzano: il primo riguarda l'idea per cui gli esseri umani sono ciò che sono in forza dell'apprendistato sociale (senza tale apprendistato essi sarebbero indistinguibili dagli altri animali); il secondo è legato al primo: ciò che rende gli umani il prodotto della storia più che della biologia è la loro natura estremamente plastica e adattabile. Tali as1

Sui ragazzi selvaggi cfr. Ludovico (1979, 2006).

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sunti sono alla base dell'antropologia materialistica del XVIII secolo caratterizzata, come è noto, dall'idea secondo cui «l'uomo è tale in quanto è -cultura, storia, in quanto la socializzazione lo toglie da uno stato di natura in cui ancora non è uomo» (Formigari, 1981, pp. 112-13). Nell'Illuminismo, la concezione dell'essere umimo come animale culturale procede di pari passo con la rivendicazione della fisicità che mette gli umani in continuità col mondo animale e li rende uguali tra loro. Ora, per poter essere considerati il portato congiunto di fattori culturali e biologici gli umani devono avere caratteristiche peculiari: devono possedere una natura plastica e adattabile. Riconoscere tali caratteristiche agli umani significa prendere posizione rispetto a una precisa idea della loro natura. Utilizzando i dati raccolti mediante l'esperienza e l'osservazione, in effetti: . gli intellettuali del secolo diciottesimo elaborano insieme una nuova idea della natura e una nuova idea dell'uomo. La natura è vista non più come una realtà immobile ma come sistema in continua trasformazione. E anche l'uomo è un essere evolutivo che cambia, ed è caratterizzato in ultima analisi da una sola dote specifica: l'estrema flessibilità, l'estrema plasmabilità, l'estrema adattabilità che ne fa, fra tutti quanti gli animali, quello meno legato a un destino biologico e più capace di costruirsi una storia (Formigari, 1981, p. 10).

Il nostro intento in questo libro è di dar corpo a una visione unitaria dell'essere umano: una visione che punti a dar conto dell'apporto congiunto dei fattori biologici e di quelli ambientali. Per quanto tale visione possa sembrare una tesi di semplice buon senso, essa nasconde notevoli difficoltà sul piano esplicativo. Una delle tesi di base del libro è che il nesso tra biologia e cultura (tra innato e appreso) debba essere tematizzato come un problema che aspetta soluzioni plausibili, non come un assunto (ingiustificato) da cui partire nell'analisi teorica. Il tema della natura umana è strettamente legato alla soluzione del problema: le diverse proposte interpretative · poggiano su visioni fortemente contrasta~ti di tale natura. In questo capitolo analizzeremo una delle possibili risposte al problema: una prospettiva sulla natura umana che dipende dal primato attribuito essenzialmente al ruolo dei fattori esterni all'indivi·duo. I fautori del primato dell'educazione e dei fattori socio-culturali nella determinazione della specificità degli umani si affidano a 4

una precisa ipotesi teorica circa la loro natura: se lessere umano è primariamente il portato dell'educazione e dell'esperienza, allora la sua natura alla nascita deve essere plastica e indeterminata. Il tema della natura umana, da questo punto di vista, si lega fortemente al problema della natura della mente e dei processi mentali. In questo capitolo, più nello specifico, analizzeremo un punto decisivo per il seguito del nostro discorso: il nesso costitutivo che lega tra loro la tesi del primato dei fattori esterni all'individuo e la concezione plastica e indeterminata della mente al suo stato iniziale. Una concezione di questo tipo continua a essere prevalente negli studi sulla natura umana: non a caso, un largo settore dell'antropologia filosofica contemporanea fa esplicito riferimento aJohann Gottfried Herder, uno dei fautori più convinti di questa ipotesi teorica. 1. Plasticità e indeterminatezza Mentre gli animali nascono c;on un corredo.di istinti che li vincola in modo determinato a un ambiente specifico, l'essere umano, per Herder (1772), è caratterizzato alla nascita da una carenza istintuale. Quella che in partenza appare come una situazione di oggettiva inferiorità rispetto agli altri animali si rivela essere il punto di forza che caratterizza il posto peculiare che gli esseri umani ricoprono nella natura: non essendo vincolati a risposte meccaniche specifiche, infatti, gli umani sono aperti a un adattamento indefinito. La posizione di Herder è interessante ai nostri fini perché è ripresa da un ampio settore dell'antropologia contemporanea di stampo filosofico ed è dunque alla base di una visione della natura umana largamente prevalente. L'idea che l'essere umano sia biologicamente un «essere manchevole» è stata sostenuta da Gehlen (1940, trad. it. p. 60), uno degli esponenti più significativi dell'antropologia filosofica del Novecento: Da un punto di vista morfologico-a differenza di tutti i mammiferi superiori - l'uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo. Manca in lui il rivestimento pilifero, e pertanto la protezione naturale dalle intemperie; egli è privo di organismi difensivi naturali, ma anche di una struttura somatica

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atta alla fuga; quanto a acutezza di sensi è superato dalla maggior parte degli animali e, in misura che è addirittura un pericolo per la sua vita, difetta di istinti autentici e durante la primissima infanzia e l'intera infanzia ha necessità di protezione per un tempo incomparabilmente protratto. In altre parole in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo ad animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l' uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra. Seppure con risultati e a partire da posizioni teoriche molto diversi da quelli di Gehlen, anche Virna (2003) fa esplicito riferimento alla proposta di Herder; lo fa esaltando lo stretto legame tra le capacità autopoietiche degli umani e l'indeterminatezza o mancanza di specializzazione che li distingue dagli altri animali. Un esempio eminente riguarda il ·caso della competenza linguistica: la critica di Virna (2003, p. 164) a Chomsky-reo di aver attribuito ricche determinazioni interne alla facoltà di linguaggio - è sintetizzabile nel motto «potenzialità, quindi non specializzazione». Secondo Virna, le capacità che caratterizzano il destino aperto e autopoietico degli umani (quelle cui egli allude con il termine «potenzialità») possono darsi solo ipotizzando una carenza di determinazione del sostrato biocognitivo dell'essere umano. Torneremo su questo punto nella parte finale di questo capitolo. Per ora un breve commento alla tesi degli umani come esseri manchevoli o incompleti. · La prima cosa da diie riguarda il riconoscimento di un punto non controverso: l'idea che la natura umana si caratterizzi per un forte grado di adattabilità e di flessibilità cognitiva. Owiamente, non può essere questa idea, unanimemente riconosciuta come vera, ad alimentare la discussione teorica. La controversia si apre sul modo di giustificare la flessibilità e l'adattabilità degli esseri umani: è riguardo ali' analisi delle condizioni di possibilità di tali caratteristiche che si gioca la partita della natura umana, ed è qui che le opzioni teoriche divergono fortemente tra loro. Gli autori appena citati sostengono che per dar conto della flessibilità cognitiva degli umani è necessario riferirsi alla loro carenza istintuale. Ora, quanto regge alla prova dei fatti una tesi di questo tipo? Prove sperimentali e argomenti teorici mostrano, come vedremo, che una tesi del genere è inadeguata a dar conto delle capacità che si propone di spiegare. Lo è per un motivo interessante ai nostri fini: perché fallisce rispetto al tentativo di costruire una prospettiva unitaria dell'essere umano. Esaltando il primato dei fattori esterni all'individuo, in effetti, la te6

si della carenza istintuale dà corpo all'idea di un percorso univoco di costituzione: quello che procede «dall'esterno verso l'interno», per riassumerlo in uno slogan. La nostra idea è che tutte le concezioni della natura umana fondate su un percorso univoco di costituzione siano alimentate da presupposti dualistici che rendono impossibile una reale prospettiva sintetica della natura umana medesima. Ora, poiché il dualismo è l'ostacolo di maggior rilievo alla realizzazione di una prospettiva di questo tipo, prima di procedere oltre è necessario analizzare le ragioni di chi- teorizzando l'autonomia della società e della cultura (e del linguaggio che né rappresenta l'incarnazione) dai fattori biocognitivi - ha portato alle estreme conseguenze la tesi del primato dei fattori esterni all'individuo. 1.1. L'autonomia dei fattori esterni. La nascita dell'antropologia culturale è legata alla critica dell'antropologia vittoriana fondata sul mito di un progresso rettilineo e cumulativo del processo di ominazione. Da questo punto di vista l'antropologia culturale ha avuto l' effetto dirompente e positivo di mettere all'indice l'idea che alcune società rappresentassero lo «stato selvaggio» del grado di civiltà raggiunto da altre. Boas è stato uno degli artefici principali di tale progetto; a suo avviso, non ci sono popoli primitivi perché non c'è nessun ordine lineare di sviluppo all'interno della specie umana: non esistono selvaggi perché la visione del mondo, il linguaggio e tutte le conoscenze tipiche di un gruppo sociale sono altrettanto complessi e coerenti di quelli di qualsiasi altro gruppo. La concezione unilineare dello sviluppo culturale traeva fondamento dalla tesi dell'identità comune della mente degli esseri umani. Fare riferimento a tale concezione significa per Boas mettere in discussione l'aspetto centrale della natura umana: le variazioni culturali. Appena prestiamo attenzione a tali variazioni «notiamo cheTuguaglianza dei fenomeni etnici è più superficiale che essenziale, più apparente che reale» (Boas, 1938, trad. it. p. 153). È solo con riferimento alle variazioni culturali che i primitivi, invece che il «grado zero» della cultura, possono essere considerati semplicemente come una forma diversa di cultura. La lezione di Boas caratterizza l'antropologia moderna esaltando l'importanza della variabilità contro la tesi uniformista (illuministica) del concetto di «natura umana». Secondo Geertz (1973, trad. it. p. 67) la concezione illuminista che guarda all'umanità in termini di costanza, generalità e universalità (ovvero in termini di tutto ciò che è indipendente da tempo, luo7

go e circostanze) e considera accidentali fenomeni come la varietà di valori, credenze e usanze rappresenta un approccio scorretto dianalizzare la natura umana: Se vogliamo scoprire in che cosa consiste l'uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che gli uomini sono: ed essi sono soprattutto differenti. È comprendendo questa varietà - la sua ampiezza, la sua natura, i suoi fondamenti e le sue implicazioni - che riusciremo a costruire una concezione della natura umana che abbia sostanza e verità. L'attenzione rivolta alla variabilità degli umani segna un passo importante nella critica al primato della razza portato avanti dagli antropologi vittoriani. La critica di Boas ali' antropologia evoluzionistica appare fondata e la sua opposizione all'idea che esistano popolazioni primitive e selvagge rimane una delle conquiste irrinunciabili dell'antropologia moderna. L'interesse per la variazione d'altra parte costituisce senza dubbio uno degli aspetti distintivi della natura umana. Il punto non è riconoscere questo fatto ma è capire se davvero lo studio delle differenze individuali debba essere portato avanti in contrasto con l'idea che esistano caratteri universali (indipendenti da tempo, luogo e circostanze) c;lella natura umana. Per quanto Boas non credesse a una forma così radicale di relativismo, i suo! allievi hanno portato il discorso sulla variabilità degli umani alle estreme conseguenze. La radicalizzazione del relativismo di Boas è estremamente importante ai fini del nostro discorso; essa apre la strada alla riflessione su uno dei nodi teorici centrali di questo libro: il ruolo d.el linguaggio nel pensiero. 1.2. Relativismo e determinismo linguistico. Sapir è stato allievo di Boas e Whorf ha avuto in Sapir il suo maestro. La radicalizzazione del pensiero di Boas ha in Sapir una figura intermedia. Quale che sia la relazione tra Sapir (1921) e Whorf è chiaro che Whorf porta alle estreme conseguenze il discorso sul relativismo .. Lo fa puntando sulla relazione tra linguaggio e pensiero. I due assunti alla base dell'ipotesi di Whorf sono.il determinismo linguistico (i pensieri delle persone sono determinati dalle categorie della loro lingua) e il relativismo linguistico (diverse lingue determinano pensieri diversi). Questi due assunti, su cui converge gran parte dei suoi scritti, portano Whorf a estremizzare una concezione per altro verso intuitiva e condivisibile. Dietro questa concezione c'è una certa idea dei rapporti 8

tra mente, linguaggio e natura umana. Nello specifico c'è la tesi della dipendenza del pensiero (e della natura umana) dal linguaggio (dalle lingue storico-naturali, nello specifico). Ne è prova la critica alla logica naturale, all'idea, vale a dire, che esista un pensiero puro indipendente dalle forme della sua espressione. Contro questa tesi della funzione meramente «espressiva» (o comunicativa) del linguaggio, Whorf (1956, trad. it. pp. 169-70) propone quella che oggi va sotto il nome di «funzione cognitiva» del linguaggio (cfr. cap. V), l'idea secondo cui il linguaggio è uno strumento costitutivo dei pensieri: Il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, in differenti grammatiche. Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Asserire che il «flusso caleidoscopico di impressioni» in cui si presenta il mondo debba essere organizzato dal sistema linguistico significa sostenere che sia la struttura (la forma) della lingua a determinare la rappresentazione della realtà (il sistema concettuale) di chi parla quella lingua. Poiché le lingue sono 'diverse, inoltre, affermare che la rappresentazione della realtà dipenda dai principi formali di una lingua significa sostenere che parlanti lingue diverse rappresentino diversamente la loro esperienza. Su questa idea si gioca un nodo teorico importante: la tesi che le capacità rappresentazionali e interpretative che guidano il rapporto tra individuo e ambiente (sia fisico sia sociale) siano regolate da un sistema di principi formali imposto dall'esterno alle menti individuali. L'idea che le determìnazio11i individuali siano il prodotto di un percorso &costituzione unidirezionale «dall'esterno verso l'interno» è largamente condivisa nelle scienze storico-sociali. Tale idea, inoltre, trova fondamento in una tesi più forte: la concezione «autonomista» secondo cui i fatti 9

storico-sociali hanno una loro peculiare natura che li rende indipendenti dalle menti individuali. Il carattere di autonomia dei fatti storico-sociali poggia sulla distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura. Solo le scienze dello spirito, agendo in totale autonomia dalle scienze della natura, sono capaci di cogliere la vera essenza dell'essere umano. Secondo Durkheim (1895), il fatto sociale deve essere analizzato nella sua purezza. I fatti sociali hanno uno statuto autonomo e indipendente e il lavoro del sociologo deve essere improntato a distinguere due ordini di fenomeni: quello dei fatti individuali che incarnano il fatto sociale e quello del fatto sociale inteso come «una realtà sui generis del tutto distinta dai fatti individuali che la manifestano» (Durkheim, 1895, trad. it. p. 29). I fatti sociali sono autonomi e antecedenti agli stati psichici individuali: Essi consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all'individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso. Di conseguenza essi non possono venire confusi né con i fenomeni organici, in quanto consistono di rappresentazioni e azioni, né con i fenomeni psichici, i quali esistono soltanto nella e mediante la coscienza individuale. Essi costituiscono una nuova specie, ed ad essi soltanto deve essere data e riservata la qualifica di sociali. Essa conviene loro; è infatti chiaro che il loro substrato, non essendo l'individuo, può essere soltanto la società (Durkheim, 1895, trad. it. pp. 26-27). L'imposizione attraverso l'educazione evidenzia l'unidirezionalità del percorso di costituzione: il fatto sociale pervade gli individui rendendoli agenti sociali. La chiusura del cerchio è affidata a una precisa idea della mente e, più in generale, della natura umana: se l'educazione è un evento che plasma l'individuo, un individuo che guadagni la socialità attraverso l'educazione è un individuo plastico e indeterminato. Le nature individuali, in questa prospettiva, rappresentano soltanto