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Italian Pages 190 [191] Year 2010
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GIUSEPPE CAMBIANO
PERCHÉ LEGGERE I CLASSICI Interpretazione e scrittura
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IL MULINO
ISBN
978-88-15-14650-2
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INDICE
Introduzione I.
Il classico in Germania alla vigilia del nazismo
p. 7 19
II. La cosmetica dei classici
43
III. Ermeneutica e filologia
65
IV. Oralità e scrittura nell'ermeneutica di Gadamer
93
V.
La storia della filosofia tra narrazioni e testi
109
VI. Sugli usi della storia
133
Conclusione. Perché leggere i classici?
155
Riferimenti bibliografici
169
Indice dei nòmi
187
INTRODUZIONE
Il solo difetto che hanno gli scritti eccellenti è che di solito sono la causa di molti altri scritti cattivi o mediocri. Georg Christoph Lichtenberg
La· scrittura coinvolge l'addestramento alla lettura. Ma fu probabilmente una conseguenza imprevista dell'invenzione della scdttura il fatto che alcuni non si sarebbero limitati a leggere quanto scritto da altri, ma si sarebbero accinti a loro volta a scrivere su scritti altrui. Ciò è avvenuto in alcune culture, tra le quali la cultura di quello che viene chiamato Occidente. Le ragioni che hanno indotto a questa «metascrittura» sono state molteplici e sono variate secondo i tempi e i luoghi: esse vanno dal contrapporre a uno scritto un altro scritto per confutarlo e demolirlo oppure allo scopo di rafforzarlo, conferirgli autorevolezza. o proseguirne le indicazioni e svilupparle. Tra queste ragioni si è affermata anche l'esigenza della cosiddetta interpretazione dei testi scritti, basata sul presupposto che il' testo non sia autosufficiente, ma richieda integrazioni in qualche modo esplicative per poter essere compreso: in questo senso l'interpretazione si pone da intermediaria tra il testo o i testi ed eventuali lettori, richiedendo anch'essa di essere letta. In quanto appartenente a questo strano gruppo di personaggi che scrivono su scritti altrui,. ho cercato di riflettere sui modi in cui oggi è praticato questo peculiare tipo di scrittura su testi «classici», in particolare sui testi dei filosofi antiChi. La nozione di classico è ampia e variegata, è stata applicata ad ambiti diversi,. dalle produzioni letterarie alle arti figurative, alla musica, n~nché ad epoche diverse. della vicenda umana [cfr. Settis 2004]. In linea molto generale si possono distinguere due usi di essa: 1) un uso descrittivo e cronologico, volto a caratterizzare testi o opere prodotti nell'antichità greca e romana, qualificata appunto come 7
«antichità classica»; 2) un uso valutativo e, a volte, normativo, volto a: caratterizzare la qualità di determinati t~sti e opere, a prescindere dal momento e dal luogo in cui sono stati prodotti. Il fatto che determinate opere del passato hanno continuato e continuano a essere oggetto di lettura, di visione o di ascolto da parte di fruitori singoli o legati a istituzioni è stato talvolta spiegato facendo appunto riferimento a valori di cui queste opere sarebbero portatrici. Sarebbe la permanenza di questi valori a consentire a queste opere di attraversare indenni ì secoli e . conservare inalterata la loro «attualità». Proprio per questo, più volte esse sono state presentate come vertici o modelli, imitabili oppure inimitabili e irraggiungibili. Non di rado nella vicenda culturale europea i due usi si sono- intrecciati, mostrando come il concetto di classico difficilmente si sia presentato come un concetto neutrale, puramente descrittivo. Il primo capitolo di questo libro cerca di mostrarlo in .relazione alla discussione sulla nozione di classico che ebbe luogo in Germania alla vigilia dell'avvento del nazismo e che rappresenta, a mio avviso, un punto di non ritorno. . Un aspetto emergente in questa discussione è il privilegiamento di quella che ho battezzato. «cosmetica» dei classici. Ho tentato di analizzarla istituendo anche un confronto con la nozione di restauro, quale si configura nell'ambito delle arti figurative. Ma le mie considerazioni hanno per oggetto i testi classici della filosofia antica e, più in generale, della filosofia e non è detto che valgano automaticamente anche per altri ambiti: · la diversità di opere, testi e generi non è fattore irrilevante; L' operazione cosmetica consiste nel mettere in rilievo, trascurando o addirittura occultando aspetti dd testi classici che potrebbero sconfermare o indebolire la propria interpretazione scritta .di tali· testi, ed evitando di considerarne aspetti che potrebbero anche sembrarci sgradevoli; contraddittori, logicamente erronei o incompatibili con i nostri valori. Propria del restauro cosmetico diventa allora la costruzione di storie teleologiche della filosofia, orientate positivamente o anche negativamente verso lo sbocco della filosofia fatta propria dall'interprete. Abitualmente ciò conferisce alla propria interpretazione una patina eroica e una dimensione totalizzante che mira a escludere già in linea di principio ogni possibilità di interpretazioni divergenti. Di fronte a queste prospettive, un restauro non cosmetico verrà a 8
configurarsi freudianamente come opposizione di un principiO di realtà a un principio del piacere. Sull'interprete o storico della filosofia non cosmetico graverà allora il compito scarsamente popolare, perché non consolatorio né edificante, di lasciar sussistere nei testi del passato anche ciò che può risultare sgradevole al presente e di sollevare perplessità sulle grandi narrazioni teleologiche a denominatore unico, sia dei moderni sia dei postmoderni, capaci di scandire epoche con tagli netti e di vedervi solo luci o solo ombre. · Un caso tipico di prospettiva cosmetica mi è parso esemplificato nella teoria ermeneutica di Gadamer. Naturalmente l'obiettivo di Gadamer, sulla scia di Heidegger, è stato di far emergere nell'esperienza della comprensione e dell'interpretazione il tratto costitutivo della condizione umana caratterizzata dal linguaggio. Ma è chiaro che all'interno di questo progetto rientra anche l'interpretazione di testi scritti della tradizione eminente della filosofia, alla quale non a caso Gadamer ha dedicato molta parte della sua attività, ip particolare su testi di Platone, Aristotele o Hegel. Nei capitoli terzo e quarto di questo libro ho cercato di mettere in luce due limiti che, a mio avviso, impoveriscono l'immagine che Gadamer fornisce della pratica interpretativa. Il primo è costituito dall'espulsione delle connessioni tra ermeneutica e critica, tra le quali invece teorici dell'ermeneutica ottocentesca come .Schleiermather e Boeckh avevano ravvisato un circolo, ben più proficuo e produttivo del semplice cir~olo tra tutto e parte di un testo scritto da interpretare. Dalla prospettiva di Gadamer è scaturita invece una concezione reverenziale della tradizione, con un conseguente rifiuto di ogni forma di illuminismo. Il secondo limite è costituito dal primato accordato all'oralità a scapito della scrittura, con la riduzione della rilevanza del controllo intersoggettivo delle interpretazioni. Alla base dell'ermeneutica gadameriana, come di molte altre teorie, si presuppone che l'interpretazione consista in un rapporto diadico testo-lettore, smarrendo la distinzione tra semplice lettore e lettore che perviene a mettere per iscritto. l'interpretazione innescata dalla sua lettura del testo. Ma in tal modo l'interpretazione viene rinchiusa in una dimensione privata, com'è quella della semplice lettura, allo scopo di concepire il rapporto del singolo con il testo come ascolto, che si traduce nel . riconoscimento dell'appartenenza a una tradizione sfociante al 9
limite nell'obbedienza; come mostra la parentela stretta esistente in tedesco tra horen (ascoltare), gehoren (appartenere) e zuhOren (obbedire). Si capisce come a ciò non possa corrispondere che un rifiuto della dimensione critica. . Il punto cruciale è invece il riconoscimento che un'interpretazione scritta non equivale alla semplice lettura del testo, non è mai la semplice trascrizione passiva e totale di questa lettura, che rimane di per sé un evento privato inaccessibile ad altri. Questa è la mia assunzione, che naturalmente potrà essere confutata. Certo, un'interpretazione messa per iscritto presuppone (o, almeno, dovrebbe presupporre) la lettura e sovente anche riletture di uno stesso testo, guidate da orizzonti di attesa o da ipotesi suscitate da una prima lettura o in seguito alla lettura di altre interpretazioni o a problemi emersi indipendentemente al di fuori di un riferimento immediato al testo letto. Non solo; ma la rilettura può essere motivata da un orizzonte di attesa diverso da quello che guidava la prima lettura e l'interpretazione scritta implicitamente o esplicitamente fornisce anche motivazioni e giustificazioni di se stessa e della legittimità degli esiti prodotti dalla lettura guidata da questi rinnovati orizzonti di attesa. Non va sottovalutata l'operazione di scr~ttura in cui vengono a condensarsi e a ridisporsi in determinati ordini i vari processi di lettura e rilettura, e non sapremo mai fino a che punto questa scrittura sarà la riproduzione fedele e integrale della lettura in tutti i suoi momenti e aspetti. Ma probabilmente non è questo che interessa, cioè penetrare nei meandri inaccessibili della mente dell'autore per vie diverse da quanto è consegnato nello scritto. Pare che all'Università di Yale si stia organizzando un esperimento per controllare le reazioni cerebrali alla lettura di un romanzo, prospettando la possibilità· di una critica letteraria neurologica. Certo ciò renderebbe la lettura un evento meno privato, accessibile anche dall'esterno nei suoi effetti fisici, ma ci si può chiedere. se esso consenta di accertare tutti gli effetti prodotti da una lettura o soltanto alcuni effetti emotivi. . Il presupposto sembra essere che ci siano reazioni uniformi a uno stesso romanzo, ma qual è il livello di generalità e di ampiezza di tali reazioni? Riguarda solo gradi di intensità o è possibile anche penetrare nelle peculiarità di eventuali reazioni . individuali? Ancor più difficile è dire quanto questa procedura sia trasferibile alla lettura di un testo filosofico, dove l'impatto 10
emotivo può essere meno forte: si registrerà una generale maggiore eccitazione di fronte all'analitica o di fronte alla dialettica trascendentale della critica della ragion pura kahtiana? Resta il fatto, a mio avviso, che l'interpretazione si configura come altro dalla semplice lettura. Anche quando è esposta oralmente, un'interpretazione si' consuma in tale performance e si sottrae a un controllo puntuale da parte di altri, a meno che non venga trascritta parola per parola o registrata con mezzi meccanici, un tempo non disponibili, ma ciò equivale di fatto a una scrittura di essa. E il medio della scrittura inserisce l'interpretazione in un contesto comunicativo. Ciò comporta alcune conseguenze. In primo luogo, come si è detto, la scrittura non è la semplice trascrizione delle reazioni psicologiche prodotte dalla lettura in ogni momento della sua sequenza, ma è la produzione di un ordine discorsivo che, rendendosi pubblico, mira anche a essere condiviso. A tale scopo sono mobilitate risorse argomentative e persuasive, ricorsi a prove, formulazioni di critiche esplicite o implicite di interpretazioni alternative o ricerca di sostegno in altre, magari sviluppandole. Soprattutto, con la scrittura l'interpretazione viene inserita in uno spazio pubblico, accessibile anche ad altri, generando nei suoi destinatari orizzonti di attesa, che dovranno, a loro volta, guidare questi destinatari nella lettura o rilettura aei testi oggetto dell'interpretazione, qualora essi decidano di leggere per la prima volta o di rileggere il testo oggetto dell'interpretazfone. Ma da che cosa si sente autorizzato un interprete a consegnare allo scritto la propria interpretazione, a prescindere da operazioni narcisistiche o di autopromozione? In prima istanza si può indicare la novità o differenza rispetto ad altre interpretazioni a lui note, dove ovviamente la novità è accertabile anche in base al grado e ampiezza della sua conoscenza di tali interpretazioni. È chiaro comunque che in tal caso si ritiene che la novità costituisca un titolo perché altri la legga, ne provi interesse ed eventualmente la condivida. Ovviamente l'interprete spera meno che altri critichi o demolisca la sua interpretazione, nonostante eventuali dichiarazioni retoriche in ·merito. Credo però che anche lesibizione scritta di quella che è considerata una novità sia accompagnata dal ·presupposto, esplicito o per lo meno implicito, che la propria interpretazione possa avanzare una pretesa di verità che la renda condivisibile anche da parte 11
di altri. La· pretesa di verità non deve essere confusa con una pretesa di verità ·assoluta. Questa è avanzata solo da quanti si considerano in grado di accedervi, per qualche privilegio o virtù propria o statuto speciale di qualche istituzione alla quale si appartiene. Ma in tal caso, più che di pretesa di verità, si può parlare di enunciazione di verità che deve essere necessariamente accolta, pena qualcosa. Anche Heidegger, soprattutto nelle lezioni tenute dopo il 193 3, non si sottrasse a questo modulo stilistico, proprio degli esercizi spirituali dei predicatori cattolici. Leibniz distingueva la pretesa o presunzione dalla semplice congettura, nel senso che la presunzione di verità è qualcosa che deve passare per verità provvisoria fino a prova contraria. In questo senso e con questa precisazione credo che sia pienamente legittimo reintrodurre la nozione di verità nel dominio delle interpretazioni e delle ricostruzioni e narrazioni storiche, contro i molteplici. tentativi più o meno recenti di espungerla, in base al presupposto che la nozione · di verità trascinerebbe con sé atteggiamenti di dogmatismo, intolleranza e violenza. Non credo che la nozione di verità possa essere sostituita fo.tegralmente da quella di utilità, come ha voluto sostenere soprattutto Rorty, sulla linea della tradizione pragmatistica. Utilità è concetto ambivalente, che può far scivolare l'interpretazione anche verso distorsioni di tipo ideologico. Ma soprattutto è problematica l'area di destinazione dell'utilità: si tratta di qualcosa che può essere usato allo scopo di produrre o ottenere benefici per tutti gli uomini, o almeno per tutti gli appartenenti a una certa comunità, o solo per alcuni? Nell'uso fatto da Rorty della nozione di utilità si ha l'impressione che. egli tendesse troppo ottimisticamente a considerare i destinatari dell'interpretazione come un'area sostanzialmente omogenea, partecipe di una «civil conversazione», a prescindere dall'entità di quest'area e senza prendere in considerazione come rilevanti eventuali zone di· conflittualità interna· o esterna. Se si tratta di un ideale, . può essere ritenuto apprezzabile, ma che ne è rispetto alle situazioni che di fatto caratterizzano il presente? Sono sufficienti per giustificare o legittimare un'interpretazione e accettarla o rifiutarla i criteri di coerenza di quanto viene enunciato in essa con tutto ciò. che è già accettato, oppure del successo di essa decretato dal tempo? Purtroppo anche le 12
credenze di un nazista possono risultare coerenti con tutto ciò che è già accettato in una comunità e si può dire che a cinque anni dall'avvento del nazismo 11 tempo sembrava .decretare il suo successo e quindi la sua utilità. Saremmo disposti ad accettare questa conseguenza. e ad ammettere che, almeno nel periodo in cui è stata accettata e ha avuto successo; la dottrina nazista era utile in quanto percepita tale dalla comunità che l'aveva accolta? Forse anche la pretesa di utilità, come quella di verità, va sottoposta a un test di verità o falsità; altrimenti una società che rinunci ad esso diventerà inevitabilmente oggetto di manipolazioni. Occorre tuttavia dire che il rifiuto di considerare sufficiente il criterio dell'utilità per l'accettazione di un'interpretazione o di una narrazione storica non implica che non sussista il problema degli usi possibili di esse. È a questo tema che è dedicato il sesto capitolo di questo libro. Il concetto di conversazione come pratica sociale mira a escludere la concezione della verità come rispecchiamento della realtà, anche perché tale rispecchiamento dovrebbe fungere da «tribunale di tutte le possibili forme. di pratiche sociali» [Rorty 1986a, 129] e finirebbe per introdurre forme. di intolleranza. Non è da escludere che ciò sia talvolta avv~nuto. Ma c'è anche il rischio che, dietro le pagine di Rorty, faccia capolino l'ottimismo di una certa concezione della democrazia americana, con una sottesa teologia secondo la quale, dopo tutto, il bene finirà per trionfare in virtù della sola conversazione, capace di dimostrare l'utilità dei suoi contenuti. È interessante che il padre, James Rorty, un giornalista marxista indipendente, nel 1936 scrivesse che gli americani avrebbero fatto bene a liberarsi dal dogma democratico espresso nella frase «We, the people», osservando che «non abbiamo mai avuto in questo paese una identità di interessi, qual è implicata nella prima persona plurale» [cit. in Novick 1988, 572]. Non è difficile vedere che nell'ambito delle cosiddette scienze umane, in particolare delle· pratiche interpretative e storiografiche, sono costitutivi e non accidentali la pluralità di posizioni e il dissenso, senza che questa pluralità elimini il riferimento a oggetti comuni a tutte queste pratiche. Ciò vale in particolare per i testi scritti, al di là delle divergenze su che cosa sia rilevante o· interessante in essi e su come ciò debba essere interpretato. In un contesto del genere la conversazione non consisterà allora anche nel cercare 13
di rafforzare le proprie tesi, confutare quelle altrui e così via, pur attraverso il riferimento a qualcosa che anche altri, anche i propri competitori o avversari, possono riconoscere e ritrovare nel testo? Ho l'impressione che l'equazione tra verità e rispecchiamento sia considerata equivalente, in queste prospettive, all'eguazione tra verità e riferimento. È abbastanza ovvio che un'interpretazione non può mai essere il rispecchiamento del testo o dei testi interpretati, perché in tal caso un'interpretazione perfetta non potrebbe essere che il duplicato dei testi interpretati, totalmente identico ad essi. Come per il celebre personaggio di Borges, l'interpretazione del Don Chisciotte non potrebbe essere che la riscrittura integrale, parola per parola, del Don Chlsciotte. Ogni interpretazione seleziona invece inevitabilmente parole, frasi, sezioni di testi e istituisce connessioni con altre frasi o sezioni di testi dello stesso autore di altri autori o anche con eventi o elementi extratestuali, accertabili per vie diverse. Le connessioni richiedono di essere costruite o ricostruite, ma i loro punti nodali consistono pur sempre jn elementi del testo da interpretare, accessibili a chiunque. Sono questi elementi che consentono a chiunque disponga di un normale apparato percettivo e sia in grado di leggere il testo da interpretare, di accertare almeno la congruenza, se non vogliamo dire la verità e la corrispondenza, dell'interpretazione rispetto al testo e di valutarne, quindi, l'accettabilità e la condivisibilità. Questa è la conseguenza decisiva della messa per iscritto dell'interpretazione, e non è un caso che essa non venga presa in considerazione, e anzi a volte sia esclusa, proprio dalle concezioni· che di fatto appiattiscono le vie dell'interpretazione sulla semplice lettura del testo. Credo che la discussione sulla verità, anche a proposito delle interpretazioni testuali e delle narrazioni storiche, sia stata viziata da una concezione «olistica» della verità, proiettata s4 questi ambiti a partire dal modello delle teorie scientifiche e delle nozioni kuhniane di paradigma, scienza normale così via. Ma in sede storiografica e interpretativa è ben difficile parlare di teorie e di una comunità scientifica almeno altrettanto coesa, quanto per esempio nelle scienze fisiche. ·In questi ambiti i requisiti. di una «conversazione» comune sono minimi, ma da questi non può essere espunta la referenzialità ai testi oggetto dell'interpretazione e della ricostruzione storiça. È intorno a
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essi che si coagulano, confrontano e misurano le divergenze ed è attraverso il riferimento a essi che si rivendica legittimamente il diritto di critica. Il fatto che nessuna interpretazione possa . essere equiparata a una teoria scientifica, e tanto meno essere considerata definitiva, non implica che essa non disponga di criteri interpersonali di oggettività per poter accertare se almeno in qualche punto un'interpretazione è erronea. La filologia non è nata, né si è sviluppata, come applicazione delle procedure della scienza fisica moderna all'interpretazione di testi e documenti: per la sua nascita non ha dovuto aspettare la nascita della scienza moderna. Questi temi si trovano ulteriormente sviluppati - anche in relazione alla dicotomia, diventata di moda, tra fatti e interpretazioni - nel capitolo quinto, dedicato alle modalità di scrittura delle storie della filosofia. Queste non si riducono alla sola interpretazione di testi, ma poggiano pur sempre anche su tali interpretazioni. Naturalmente se si presuppone un unico concetto forte di filosofia, la storia di essa non potrà che essere fortemente unitaria e in certi casi teleologica e progressiva. Se non si dà per scontata l'esistenza di un tale concetto unico, la storia della filosofia avrà per oggetto tradizioni molteplici che si costruiscono, si oppongono o si intrecciano, senza che si possa delineare un inevitabile sbocco, positivo o negativo. Tuttavia, sottesa a queste molteplici forme di discorso storiografico, c'è la condizione minima di un· «materialismo testuale» che consente.la confrontabilità di esse. Ciò non ha nulla che fare con . la tesi dell'incommensurabilità delle interpretazioni e quindi della loro equivalenza: se tali fossero, dovrebbero rimanere chiuse nell'ambito della lettura privata; perché ciascuna parla d'altro, non di qualcosa di comune, e non si capisce perché dovrebbero essere consegnate allo scritto. Alcuni anni fa ha goduto di vasto successo la tesi secondo cui non sussisterebbero differenze radicali tra la narrazione storica e la forma del romanzo. Ovviamente paralleli formali, retorici e costruttivi possono essere rintracciati, ma mentre la narrazione storica può essere confutata e dimostrata erronea, almeno in certi punti, ha senso confutare un romanzo? Si potrebbe avanzar> come valore supremo e centrale nella sfera di ogni esistenza terrena. Qui ovviamente cultura non era più uri concetto descrittivo, utile per qualificare un qualsiasi insieme di credenze, costumi, pratiche, norme, ma era un'idea di valore e coincideva con la nozione di Bildung, intesa come un tendere alla formazione dell'uomo nella sua pienezza. Questa coscienza era proprietà specifica dei popoli dell'Occidente propri9 grazie alla tradizione continua che li collegava agli antichi, in particolare ai greci, rispetto a cui Roma aveva svolto una semplice funzione mediatrice: la Kultur di J aeger era ellenocentrica4• 4 · Cfr. le asserzioni espresse in Der Humanismus als Tradition und Erlebnis (1918), Antike und Humanismus (1925) e Platos Stellung im Aufbau dergriechischen Bildung (1928), riprodotte inJaeger [1937, 27, 111, 119, 125-128]. Sul valore determinante del senso della continuità in J aeger cfr. Schadewaldt, Gedenkrede au/Werner Jaeger (1962), in Schadewaldt [19702 , 707-722, in part. 714-718], dove si riferisce anche che Jaeger gli aveva confessato: «ich bin ja in Grunde Traditionsforscher (io sono fondamentalmente un indagatore della tradizione)», e che i suoi tre concetti fondamentali erano Tradition, Kultur,
Erziehung-Bildung.
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Questi presupposti erano condivisi da buona parte dei relatori di Naumburg e sorreggevano le loro analisi della nozione di classico. Uno dei saggi più impegnativi era quello del grecista Wolfgang Schadewaldt; allievo di Wilamowitz e diJaeger, il quale prendeva posizione contro Spengler, ma soprattutto contro il concetto di classico elaborato dallo storico dell'arte Heinrich Wolfflin, che nel 1899 aveva pubblicato il libro Die klassiche Kunst, avente come sottotitolo Uf!'iniroduzione al Rinascimento italiano. Il peccato mortale di Wolfflin era stato la destoricizzazione del concetto di classico, trasformato in una pura categoria formale applicabile indifferentemente a epoche storiche diverse. Era un concetto che si specificava attraverso coppie polari quali classico-romantico, classico-gotico e così via, ma in tal modo esso era privato di ogni sostanza storica. E la· stessa cosa avveniva con altre distinzioni correnti nella storia dell'arte, come quella fra tattile e ottico da parte di Alois Riegl. Indubbianieiite, secondo Schadewaldt, la storia dell'arte, la Kunstwissenscha/t poteva pretendere di avere un diritto preliminare in tali questioni, in quanto le arti figurative potevano rivelare lessenza (Wesen) del classico in maniera più immediata e chiara di quanto potesse fare la poesia. Ma non a caso egli scorgeva in Spengler colui che aveva tratto le più decise conseguenze da questo tipo di considerazioni emerse nella storia dell'arte, mediante la costruzione di mondi culturali dlversi e separati. Per Schadewaldt era paradossale arrivare a postulare tanti classici per quante erano le culture, come akmé di ciascuna di esse, ma in termini puramente biologici, senza più conservare alcun connotato di valore. Egli qualificava questa po-. sizione come Kulturfatalismus, «fatalismo culturale». Il problema per Schadewaldt era di raggiungere un concetto di classico che ·non si dissolvesse nell'universalità priva di storia delle teorie estetiche generali, come avveniva nelle prospettive degli storici dell'arte, che si illudevano in tal modo di sfuggire al relativismo. Si trattava invece di sfuggire al relativismo, ma continuando a tenere il classico saldamente radicato nel terreno storico da cui era sorto, cioè nell'Ellade5. Prese di po.sizione contro le considerazioni puramente formali del classico avevano già assunto anche archeologi ' Sc;hadewaldt, Begri// und Wesen der antiken Klassik, in Jaeger [1931, 15-32, in part. 17-18].
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come Ludwig Curtius nel 19286 • Nel. convegno di Naumburg a intervenire in questa direzione era soprattutto l' archeolcigo Bernhard Schweitzer. Egli sottolineava che ciò che noi cogliamo sotto il nome di classico - in termini sia di estensione sia di contenuto - era legato ai mutamenti e agli sviluppi della nostra - credo, in primo luogo tedesca - Bildungsgeschichte a partire da Winckelmann. Ossia il concetto di classico era l'esito di un processo storico, che aveva assunto la Grecia, in particolare l'arte greca, non solo come punto di partenza, ma anche come apice, e quindi dotato di normatività ed esemplarità. Da questo punto di vista la storia europea si presentava sotto l'insegna della continuità. Ma il pensiero storico del XIX secolo sembrava aver portato alla relativizzazione di tutti i valori, cui neppure il concetto di classico si era potuto sottrarre. Classico era diventato il contrassegno di un'epoca storica, di ugual valore come ogni altra. Schweitzer citava queste parole di Wolfflin: «la parola classico ha per noi qualcosa di raffreddante (erkiiltendes), ci si sente portati via dal mondo vivente, variopinto in spazi vuoti dove abitano solo schemi, non uomini con caldo sangue rosso. Arte classica pare essere I'eternamente antico, I'eternamente morto (Ewig-Alte, Ewig-Tote)»7 • Il classico, nelle mani di Wolfflin, era diventato uri semplice concetto, uno dei poli di coppie di opposizioni, che denotavano soltanto «possibilità limite» (Grenzmoglichkeiten), entro le quali si doveva muovere ogni rappresentazione artistica, secondo una legge dei mutamenti formali. Ma, secondo Schweitzer, Wolfflin avevalasciato senza risposta la domanda su quale· fosse il fondamento di tale legge. In questo orizzonte rarefatto, puramente formale, si muovevano anche altre coppie elaborate dagli storici dell'arte, come imitazione e stilizzazione o realismo e idealismo o, in termini più psicologizzati, Ein/uhlung e astrazione (era il titolo di un'opera di Wilhelm Worringer del 1908). Tutte avevano in comune l'abbandono del terreno storico. Ma - chiedeva Schweitzer - scelta dei materiali, forze della configurazione formale, modi del vedere non erano condizionati storicamente? Solo una Weltanschauung e una Welgestaltung unitaria, cioè una 6 Cfr. Landfester [1995, 17-18] e soprattutto Borbein [1995], anche per l'evolversi delle posizioni di Schweitzer. 7 Schweitzer, Ueber das Klassische in der Kunst der Antike, inJaeger [1931, 77-78].
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base autenticamente storica, potevano rendere conto d~ll'unità di un'opera come espressione di esse. La conclusione era che il problema dell'arte classica era un problema integralmente storico e che l'arte classica era soltanto un aspetto della Kultur classica e sulla base di questa bisognava c~rcare di spiegare anche i contrassegni formali delle opere d'arte Uaeger 1931, 82-83]. Nelle considerazioni di Schweitzer tornava a essere presente l'ombra di Winckelmann: simbolo .dell'arte classica era infatti, anche per Schweitzer, la figura maschile nuda. Ciò voleva dire che l'arte classica era «umanistica» e in questo senso pregnante solo un'epoca e un'arte meritava di essere chiamata veramente classica, quella della Grecia del V e del IV secolo a.C. In tal modo l'esperienza storica consentiva a Schweitzer di distinguere un Kulturtypus classico, reperibile anche nelle svolte fondamentali dello sviluppo culturale europeo, ma non nel senso di ripetizione di analogie strutturali, bensì come spirito ellenico che continua a realizzarsi nella sua forza formativa [ibidem, 85-87]. Il classico risultava in tal modo caratterizzato da.un'efficacia dinamica che si protrae nel tempo, in quanto fondata sull'idea di Bildung umana; Schweitzer parlava di Werdeprozess, processo in divenire. Non credo sia difficile scorgere qui il segno dell'impostazione di Jaeger, ma anche una delle lontane matrici del concetto gadameriano di Wirkungsgeschichte, su cui tornerò in seguito. Anche Helmuth Kuhn, l'unico filosofo relatore.al convegno, ma già collaboratore alla rivista di Jaeger «Die Antike», distingl!eva tra classico come concetto universalmente descrittivo e classico come concetto individualmente descrittivo, ossia perti.neri te esclusivamente all'Ellade. Egli faceva notare però che in entrambi i casi il concetto conservava una valenza di esemplarità, non importa se imitabile ·o non più raggiungibile, il che conferiva alla nozione di classico una diménsione di valore. Ma questa dimensione di valore non coinvolgeva soltanto la sfera estetica, essa aveva le sue radici più profonde nel pensiero elaborato dalla filosofia greca che conduceva a vedere la vita umana come risultato di un'opera di formazione, di modellamento, nel senso di paideia. Ciò comportava appunto la costruzione del concetto di norma, modello, idea, ossia proprio di quelle ·coordinate che rendevano possibile la comprensione e legittimazione del concetto di classico. In tal modo diventava comprensibile, da una parte, 24
l'unità di senso della nozione di classico e, dall'altra, la sua ambiguità nella storia spirituale europea, con le moderne rinascite classiche ele trasformazioni del classico in classicismo. Le pagine di Kuhn riproponevano la questione della pretesa di validità del classico: per chi è classico il classico? Anch'egli ribadiva, come del resto faceva Schweitzer, ·che il campo in cui il classico dispiega la sua efficacia (Wirkung) non è puramente fuori di noi, ma in noi, in quanto noi stessi apparteniamo a questo campo, che non è semplicemente uno fra altri, ma il ce0tro. È inutile ripetere quanto tutto ciò sia vicino alla posteriore ermeneutica ' di Gadamer, che infatti ebbe tra i suoi amici Kuhn8• Per Kuhn non ci si poteva sottrarre a un giudizio di valore, era in ballo una decisione - Entscheidung, parola chiave di quegli anni, come sa chi abbia letto, tra l'altro, Essere e tempo di Heidegger, comparso nel 1927, o scritti· di Carl Schmitt - e non c'era storico che non si sottraesse di fatto a una erronea metodologia ·avalutativa. Lo mostrava il caso dello stesso Max Weber, il teorico dell' avalutatività anche nelle discipline storico-sociali. Si poteva: considerare la classicità come qualcosa di passato, soltanto se il classico era concepito unilateralmente qua).e il raggiungimento di una maturità, come avveniva nella Kulturmorphologie moderna, non se era visto quale sfera con cui «il sapere memorante» (erinnernde Wissen) di un individuo o di un popolo istituiva un rapporto vivente e determinante [ibidem, 126-127]. I relatori del convegno· erano preoccupati di distinguere tra classico e classicismo. Su questo punto a più riprese aveva già insistito Jaeger: il classicismo era fondato sul concetto di imitazione e assumeva la nozione di forma solo in senso estetico" stilistico, in una normatività astorica, ma dò era da respihgere9• Ma come rispondere alla crisi dei valori e del valore normativo dell'antichità senza ricadere nél classicismo? Com'era possibile tenere insieme la normatività del classico e insieme la sua storicità, . senza cadere nel relativismo dello storicismo ottocentesco? Era questo il problema centrale di Jaeger e di buona parte dei relatori di Naumburg. La via d'uscita senibrav~ qfferta dal configurare 8 Kuhn, .«Klassisch» als historischer Begriff, in Jaeger [1931, 109-128, in part. 118-124]. 9 Jaeger [1937, 25, 135, 174, pagine risalenti a saggi già pubblicati nel 1919, nel 1928 e nel 1929].
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il classico come carattere saliente e peculiare del mondo greco, ma sottolineando al tempo stesso la sua continuità e operatività rispetto alla cultura europea moderna, soprattutto tede~ca. Il concetto di Bildung o paideia consentiva a Jaeger di concepire il classico in una prospettiva dinamica e quindi storica, come un principio motore, non come una forma statica semplicemente da imitare nella sua fissità. Si trattava piuttosto di forma nel senso teleologico di un divenire organico, > - la rivista fondata e diretta da Jaeger -, mi gira in testa una ruota di mulino, ma la ruota non macina grano, per me no. - Io ho un'idea su che cosa sia fisica classica e c'.è anche musica classica. Ma che altro? - La letteratura inglese è abbastanza ricca, c'è in essa una Klassik? Shakespeare è classico? [... ] Con la parola «classico», che per me è un orrore, io non ho mai potuto cominciare qualcosa e perciò non mi aspetto neppure che altri lo faccia27 •
Al convegno avrebbe potuto e forse dovuto verosimilmente essere presente e, credo, anche tenere una relazioneJulius Stenzel, che già dal 1925 - anno della sua fondazione - collaborava alla rivista di J aeger «Die Antike» e poco prima, nel 1928, aveva pubblicato un volume su Platon der Erzieher (Platone educatore), in piena sintonia con il programma di J aeger, come mostra il titolo stesso. Ma probabilmente egli doveva preparare la sua relazione per il VII Congresso internazionale di 'filosofia, pronunciata a Oxford il 2 settembre 1930 e avente il titolo dal sapore crociano Was ist lebendig und was ist tot in der Philosophie des
klassichen Altertums? Versuch einer Geschichtsphilosophie der Philosophiegeschichte («Che cos'è vivo e che cos'è morto nella filosofia dell'antichità classica? Saggio di una filosofia della storia della storia della filosofia» )28 • J aegerianamente Stenzel metteva in rilievo la centralità della funzione educativa nel pensiero platonico. Ma nel chiedersi che cosa propriamente la filosofia tedesca cercasse in quella antica, egli indicava la questione· di quale fosse in questa il senso originario, l'an/i.ingliches Sinn, di parole quali eidos, idea, essere, divenire, unità, ordine. Era 27 Cfr. Wilamowitz-Moellendorff [1983] (lettera già pubblicata da W.M. Calder III in «Greek Roman and Byzantine Studies»; 16, 1975, pp. 451457). Per le perplessità di fronte alle tesi espresse nel convegno, formulate nel 1941 da un altro allievo di Wilamowitz, Karl Reinhardt, cfr. Reinhardt [1960, 334-360]. . 28 Il testo è ripubblicato in Stenzel [1966, 300-306]. Su Stenzel cfr. K. Gaiser, Das Platon-Bild Stenzels und seine wissenschaftliche Bedeutung (1961), in Gaiser [2004, 73-89] e Franco-Repellini [1972].
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una questione (Frage) oggi non più inge1;ma, perché «sappiamo - egli diceva - che il nostro pensiero (Denken) è determinato dall'Antike perciò la comprensione dischiude co~e nuovo lantico e porta il nuovo a maggior chiarezza su se stesso»: è un verstehen, un comprendere ermeneutico. Portatori di questa vitalità erano per Stenzel quei filosofi che erano pervenuti alla coscienza della storicità del Dasein, del loro esserci, che si erano cioè percepiti come eredi di uno sviluppo spirituale e, .al tempo stesso, ispiratori delle idee pure portatrici di questo sviluppo: Platone e Aristotele [Stenzel 1966, 302-303]. Non è assente qui un certo tono e lessico heideggeriano. Una serie di lettere di Heidegger a Stenzel, da non molto pubblicate, ci informa che sin dal 1928 Stenzel era entrato in contatto con Heidegger, cui avrebbe dato da leggere questa: sua relazione per Oxford29 • Nel 1928 Stenzel gli aveva inviato il suo articolo - comparso in «Die Antij_{e», 4, 1928, pp. 42-67"- intitolato Die Ge/ahren des modernen Denkens und der Humanismus («I pericoli del pensiero moderno e l'umanesimo»), in cui, sulla base di Essere e tempo, collocava Heidegger tra gli esponenti del soggettivismo moderno. Heidegger gli rispondeva con una lettera del 14 aprile 1928, nella quale respingeva il suo arruolamento in questa schiera, perché egli non si muoveva in una sfera di riflessione antropologica o etica, bensì ontologica, alla ricerca di «un concetto "oggettivo" autenticamente inteso della soggettività», cioè del Dasein come In-der-Welt-sein, essere-nelmondo, e mit-sein, essere-con. Egli si collocava su un piano che antecedeva soggettivismo e oggettivismo, ogni interiorità e ogni teoria della conoscenza idealistica o realistica. Giusti erano i pericoli individuati da Stenzel e questi pericoli potevano essere affrontati e le questioni risolte soltanto attraverso un rinnovato, produttivo rapporto con lantichità. Ma ciò poteva a~enire soltanto andando alla radice, ossia installandosi sul piano ontologico originario, «a· differenza di tentativi casuali, scolastici di mediazione (Vermittlung)». Non ritengo erroneo pensare che qui Heidegger intendesse riferirsi anche o soprattutto a
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29 Le lettere sono edite a cura di Giinther [20QO]; cfr. la lettera di Heidegger del 4 novembre 1930 [ibidem, 22]. Queste lettere attestano anche di · una collaborazione di Heidegger con Schadewaldt.
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Jaeger [Giinther 2000, 11-13] 30• Egli non parlava di classico, ma è chiaro che il suo rapporto con la grecità non poteva essere quello del neoumanesimo jaegeriano, nel quale non ritrovava quella stoffa filosofica che egli riconosceva invece a Stenzel, con cui sarebbe rimasto in amichevoli rapporti sino alla morte di quest'ultimo. E non a caso tra le opere di Stenzel successive · al suo incontro con Heidegger si colloca un lavoro destinato a un manuale, ma dal titolo Die Metaphysik des Altertum (1931), letto e apprezzato da Heidegge:r e recensito da Gadamer. Anche Gadamer partecipò al convegno di Naumburg, accompagnando il suo maestro Paul Friedlander che era uno deì relatori. In un intervallo J aeger gli presentò Kuhn, che lo coinvolse - racconta Gadamer - «in un lungo colloquio su Heidegger». Ma vi incontrò, tra altri, anche Karl Reinhardt e 1' allievo di J aeger, Richard Harder, di fronte al quale racconta di aver violentemente attaccato la relazione di Schadewaldt. Ma nel suo resoconto Gadamer non ci dice quali furono i punti da lui criticati e quindi nulla possiamo sapere sulla concezione del classico da lui nutrita allora [cfr. Gadamer 1979, 39-40]. Nel 1995 egli avrebbe giudicato negativamente l'esperienza di Naumburg, dichiarando la propria estraneità all'immagine ingessata della Grecia che aveva dominato nel convegno, rispetto i;i. quella che emergeva nelle lezioni heideggeriane nelle quali si trovava coinvolto [Gadamer 1995]. Tuttavia nella sua opera maggiore, Verità e metodo, comparsa nel 1960, egli avrebbe inserito una discussione sulla nozione di classico all'interno della trattazione dei pregiudizi come condizioni della comprensione (in connessione alla riabilitazione ·di autorità e tradizione), cui fa seguito l'analisi del problema della Wz'rkungsgeschichte, della «storia degli effetti», come a volte si traduce, prodotti da un'opera nella tradizione interpretativa. È significativo che in quest'opera egli continuasse ad assumere come termine di riferimento proprio il volume che raccoglieva gli atti del convegno di N aumburg. A differenza del proprio maestro Heidegger, Gadamer ·non era poi così lontano dalla nozione jaegeriana di classico, se non altro per l'esplicita ripresa della sua valenza esemplare. Basta leggere le frasi che seguono per 30. Per un giudizio non lusinghiero su Jaeger cfr. anche la lettera dcl 31 dicembre 1929 [ibide~,.17].
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risentirvi il tono delle discussioni di Naumburg: «la nozione di classico è una vera categoria storica in quanto è più di una nozione indicante un'epoca o uno stile senza tuttavia voler essere l'idea di un valore soprastorico», è «un modo eminente dell'essere storico stesso, l'atto storico della conservazione che mantiene in essere un certo vero attraverso una sempre rinnovata verifica». E ancora: Ciò che è classico è sottratto alla mutevolezza dello scorrere del tempo e al variare del gusto, ma è sempre immediatamente accessibile [. .. ] . Quando chiamiamo qualcosa «classico» lo facciamo invece in base a una coscienza di permanenza, di indistruttibilità, in base al riconoscimento di un significato indipendente da ogni situazione temporale; classico è così una specie di presente fuori del tempo, .che è contemporaneo ad ogni presente [Gadamer 198J2, 334-340, in part. 336-337].
Gadamer non citava· casi di classico, ma è chiaro che in esso rientravano certamente i filosofi greci, per lo meno alcuni filosofi greci. Distanza totale dal neoumanesimo Cli Jaeger era invece presa da Ernst Robert Curtius, che nel suo Deutscher Geist in Ge/ahr (Lo spirito tedesco in pericolo, 1932) affermava: «Das Griechische è... morto. Graeca non leguntur vale oggi come mille anni fa. Le velleità di un nuovo umanesimo non hanno quindi alcuna chance oggi»31 .• Per Curtius, come si sa·, era la letteratura latina attraverso la sua mediazione medievale a essere la matrice dell'Occidente. Conclud~ con la reazione di un ultimo personaggio chiave di quegli anni, Walter Benjamin. Il 10 maggio 1931 sul «Literaturblatt der Frankfurter Zeitung» egli recensisce il volume degli atti del convegno di Naumburg. Dopo un apprezzamento generale· sulla serietà dell'intrapresa·nel porre questioni autentiche, egli sottolinea che qui risuona più una eco che una risposta alla questione del classico. Un limite era dato dalla restrizione dell'analisi dei vari autori ai loro ambiti disciplinari, mentre forse sarebbe stato utile guardare anche fuori di essi: oggi per esempio - egli osservava - nessuno più che Valéry, l'autore di Eupalinos, aveva da dire qualcosa sul classico. A proposito 31 La citazione è tratta da Landfester [1995, 31]. Landfester fornisce altra documentazione sulle ripercussioni prodotte dal dibattito [ibidem, 29-40].
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della relazione di Stroux sulla normatività dei generi e sulla simmetria organica dell'opera come elementi basilari della nozione di classico, Benjamin commentava: «soviet Bestimungen, soviet Riitset (altrettante determinazioni, altrettanti enigmi)». Egli trovava però nel solo Schadewaldt un umanista di antico stampo, cioè un rappresentante radicale di un umanesimo idealistico aderente all'esemplarità della pura umanità. In modo diverso invece, sia Helmuth Kuhn sia Bernhard Schweitzer avvertivano la difficoltà di restringere il classico al solo dominio dell'arte e la necessità di radicarlo nella storia. Ma ai suoi occhi il problema che rimaneva aperto era come il dominio dell'arte si rapportasse con quello delle due «potenze» che lo circondano, quello. della comunità religiosa, che conosce pienezza solo nell'adempimento di un canone rivelato, e quello di una società socialistica che non apprezza altra pienezza se non quella dei rapporti umani. E qui poteva allora pronunciare il suo verdetto, che suonava come una liquidazione dell'astrattezza di queste discussioni tra antichisti: «una considerazione del classico che non sa dire nulla sulla schiavitù non può certo alla fine valere come conclusiva»32 •
32 Cfr. Benjamin [1972, 290-294]. Può essere interessante registrare anche fa recensione di Benjamin (prevista per la «Literarische Welt» che non .la pubblicò) sul libro del cattolico Theodor Hat;cker, Vergil. Vater des Abendlands (1931), il quale opponendosi alla collocazione di Virgilio all'ombra di Omero e alle interpretazioni ateologiche o meglio acattoliche del poeta, lo collocava tra la Bibbia e il De civitate Dei di Agostino, concludendo che «Un umanesimo svuotato della teologia non reggerà». Al che Benjamin osservava che lo scherzo· andava troppo oltre, quando ·per salvare Virgilio, Haecker raccomandava il tomismo. Il fatto è che Haecker non trovava mai una parola «per le condizioni barbariche a cui è legato ogni umanesimo attuale» [ibidem, 321; in generale 314-322].
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CAPITOLO SECONDO
LA COSMETICA DEI CLASSICI
1. Il restauro immateriale Già nell'antichità, acçanto al problema del restauro filologico di testi canonici, letterari o filosofici o medici, che celebrò i suoi trionfi soprattutto durante l'età ellenistica, si pose ben presto la questione del restauro di ciò che era stato detto nei testi filosofici antichi. Partendo dagli usi consueti, soprattutto nel linguaggio delle arti figurative· e della politica, possiamo descrivere un restauro come il rifacimento e il ripristino di ciò che è andato perso o è stato guastato in un oggetto, in modo da rimetterlo a nuovo, riconducendolo alla sua condizione originaria, e ridargli forza e vigore. Anche la storia degli oggetti filosofici classici è stata attraversata da restauri di questo tipo. Ma la necessità di ridare vigore a ciò che è scritto in un testo non è un fenomeno naturale. Buona parte della storia della filosofia occidentale, almeno da Platone sino al Settecento (e, in parte, anche in seguito), è stata anche una ripresa, rielaborazione o distruzione di testi filosofici antecedenti, non guidata da intenti di restauro. Si tratta piuttosto di un uso di materiali vaganti, incorporati in nuove costruzioni,· come i resti antichi negli edifici medievali, non per rimetterli in vita nel loro autonomo originario splendore, bensì per renderli funzionali e strumentali al nuovo edificio 1•
I Questa metafora architettonica era già utilizzata da Giulio Preti per qualificare quello ·che egli chiamava «giudizio estrattivo», connesso a deformazioni a scopi teoretici ed equivalente a «demolire una casa ed estrarre dalle macerie tutti quei materiali che fanno comodo, per utilizzarli poi secondo le proprie esigenze costruttive» [1951, 69]. Ma la distinzione tra conservazione del passato e uso del passato è reperibile anche nelle parole che Anatole France attribuisce al protagonista del suo romanzo Le crime de Sylvestre Bonnard: «mi rattristai al pensiero. che lo sforzo che facciamo noi, noi eruditi, per
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È emblematica, in questo senso, la posizione di Aristotele. Egli riteneva che per risolvere problemi o spiegare fenomeni fosse anche necessario partire dalle opinioni correnti, soprattutto da quelle formulate dai più competenti, o ritenuti tali. Gli scritti della tradizione gli apparivano colmi di contenuti, che potevano ser\rire come punti di partenza da confermare o confutare, ma in ogni caso per tracciare itinerari che andavano oltre questi scritti stessi. Ogni testo poteva allora costituirsi partendo da altri testi, sicché il sapere poteva essere concepito come un patrimonio accrescibile e perfezionabile, frutto di un lavoro collettivo nel quale si trovavano coinvolti, in una relazione inscindibile, presente e passato. Ma questa relazione non era simmetrica, perché il passato veniva inglobato e riformulato nella terminologia filosofica. e nelle griglie concettuali del presente. Ciò introduceva inevitabilmente selezioni e trasformazioni di quanto era scritto nei testi del passato, i quali non.costituivano oggetto d'interesse di per se stessi. Del tutto estranea a questo orizzonte era l'idea di un restauro del passato nel suq volto originario autentico, perché il passato era fondarrientalmente un deposito di materiali da costruzione. E allo stesso modo erano estranee le nozioni di :fedeltà e, quindi, di restauro fedele, un concetto che sarebbe emerso con chiarezza solo con i filologi alessandrini. L'obiettivo di restaurare quanto è detto nei testi filosofici del passato ha, dunque, guidato soltanto alcuni momenti della vicenda storica della filosofia occidentale, nell'antichità stessa e poi durante la sua rinascita, ma soprattutto a partire dall'Ottocento. In questi momenti l'operazione di restauro sembra poggiare sul presupposto che quanto è scritto nei testi filosofici del passato, pur essendo meritevole di essere salvaguardato, non ha in sé il potere di garantire la propria integrità e la propria persistenza. Nella celebre sezio11e del Fedro dedicata alla questione della scrittura, Platone aveva sostenuto che un testo scritto, sottoposto a domande, itera sempre la medesima risposta, come i rintocchi di un bronzo percosso, e non è in grado di difendersi
trattenere e conservare le cose morte, è uno sforzo doloroso e vano. Tutto ciò che ha vissuto è l'alimento necessario' delle nuove esisténze. L'arabo che
si costruisce una capanna coi marmi dei templi di Palmira. è più filosofo di tutti i con,servatori dei musei di Londra, Parigi e Monaco» [1984, 205]. ·
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e pot;tarsi aiuto da sé contro eventuali deformazioni, obiezioni o confutazioni. .Ciò che è consegnato in un testo scritto è una pianta fragile e corruttibile, che, secondo Platone, soltanto una dialettica dell'oralità, praticata da intedocutori in carne ossa all'interno di una comunità, può proteggere e far fruttificare e fiorire. Per Platone il vero restauro della parola scritta avveniva nella parola parlata2 • Ma questa posizione, condivisa da un numero non irrilevante di filosofi antichi e'medievali, è andata tuttavia perdendo progressivamente rilievo. Il restauro di quanto è detto in un testo scritto si è configurato sempre più, se non esclusivamente, come scrittura di altri testi. Il restauro si è così trovato spostato foori dal testo di partenza e dalla sua semplice riproduzione attraverso la lettura (ad alta voce o in silenzio), dando luogo a una proliferazione di testi, ma senza che ciò abbia comportato sempre necessariamente l'eliminazione o l'oblio del testo di partenza. La cosa sembra di per sé banale, ma anche qui il caso di Aristotele e della sua scuola può fomire·qualche insegnamento. In Aristotele quanto era scritto nei testi del passato veniva riformulato in un nuovo linguaggio e integrato in contesti problematici diversi e lontani, se non talora estranei, rispetto ai terreni originari, nei quali quelle opinioni o tesi erano state formulate. Del resto, come si sa, per l'Aristotele della Poetica, la storia, che narra eventi individuali; è priva di quella dimensione di universalità che appartiene in prima istanza al vero sapere e poi anche alla poesia. Il carattere universale di una doxa, di una dottrina filosofica, si stacca dall'individualità del testo e del linguaggio in cui essa ha trovato formulazione: l'originale, in quanto pertinente a un oggetto individuale, non ha rilevanza.· Da questa impostazione aristotelica si sarebbe sviluppata quella letteratura dossògrafica dalla quale dipendono molte delle nostre informazioni sulle filosofie antiche, soprattutto su quelle i cui testi sono scomparsi. Nella letteratura dossografica si costruivano repertori di tesi formulate in risposta a determinati problemi, ma scorporate dai loro contesti originari, tematici e argomentativi, e affiancate
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2 Ho tentato altrove di mostrare come Platone descriva per iscritto nel Teeteto una situazione orale nella quale si procede a confutare e a difendere uno scritto, nel caso in cui il suo autore (in questo. caso Protagora) sia assente [cfr. Cambiano 2007].
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a materiali di diversa provenienza, ma inseribili sotto lo stesso indice. Di fatto nell'antichità, quando i testi non sempre erano riprodotti in un numero abbondante di copie, la conservazione di doxai in repertori scritti di questo tipo costava non di rado la perdita dei testi originari. Ma esistevano anche altri casi: un caso tipico di restauro come riscrittura globale, capace di fagocitare verità rilevanti del passato in una nuova forma logièa, con il costo della scomparsa totale di tracce di quel passato nella nuova riscrittura, sono gli Elementi ·di geometria di Euclide. Il restauro di una doxa e di una verità del passato era perfettamente compatibile con la scomparsa di quegli oggetti individuali, che erano i testi in cui dapprima essa aveva trovato formulazione. Naturalmente la situazione si sdrammatizza soprattutto a partire dal momento in cui la stampa cons€nte una maggiore riproducibilità dei testi. In un ambiente in cui non si è vincolati dall'esemplare unico, il restauro può avvenire con minori perdite del testo originario. Ma in parallelo avviene anche un fenomeno di differenziazione rispetto alla letteratura dossografica, che circola sempre più in maniera anonima, senza indicazione d'autore. ·Il restauro extra-testo genera allora una pluralità di altri testi, che tendono invece a presentarsi non anpnimi né sostitutivi del testo originario, ma integrativi rispetto a esso. Questa diversa forma di restaµro restituisce forza, significato e valore al testo filosofico originario, ma ciò può avvenire soltanto in connessione imprescindibile con il nuovo testo e non con.la semplice esibizione del testo originario. Si costituisce così un circolo tra il testo oggetto di restauro e il testo che lo restaura, nessuno dei quali, in questa operazione, può essere considerato totalmente sussistente in sé: né il testo originario, perché ha bisogno del supporto dell'altro, che gli restituisca vigore; né quest'ul~imo, perché anch'esso trae la propria forza solo in dipendenza dal testo originario. È forse per questo motivo che il restauro extra" testo si è progressivamente liberato dalla forma del commento anonimo per diventare interpretazione, analisi d ricostruzione storiografica a carico di un autore, che si affianca all'autore del testo originario. La questione dovrebbe essere ulteriormente chiarita, ma un punto ovvio è che in questi restauri extra-testo, che danno .luogo a una tipologia specifica di forme letterarie, non si assiste a una riproduzione o riscrittura totale del testo 46
originario, come in un famoso racconto di Borges. In questi casi il restauro non è, come nella letteratura dossografica, riscrittura di un testo (per lo meno di qualche parte di esso), ma scrittura su un testo. In questo senso esso si libera da ogni analogia, se non vado errato, ·con il restaurò vero e proprio, che ha luogo nel campo delle arti figurative, dove può comportare anche la perdita o il guasto dell'oggetto originario3 • Anche nel restauro extra-testo possono avvenire guasti, ma questi non riguardano il testo originario nella sua materialità, non lo deturpano irrimediabilmente, anzi: il testo originario continua a ripresentarsi· tale e quale - «significa sempre un'unica identica cosa», aveva detto Platone - e può diventare oggetto anche di altri restauri alternativi. D'altra parte, però, proprio il fatto che la materialità dei testi non viene intaccata può ampliarela possibilità di arbitri restaurativi e, insieme, di una pluralità di restauri simultanei o in accumulazione. Di fronte a questa molteplicità di restauri «immateriali» continuano a ergersi e sussistere - finché i testi stampati o preservati attraverso altre forme di conservazione, per esempio elettronica, non si dissolveranno - i testi nella loro materialità. Di fatto, il restauro fuori testo si riconduce a un programma o a un preventivo di come dovrebbero essere esposte per iscritto una lettura e un'interpretazione di un testo, non di come questo testo dovrebbe essere scritto o riscritto nella sua globalità. 2. Restauro e temporalità Per Platone ciò che era scritto in un testo filosofico, proprio .in quanto scritto, era costitutivamente privo di forza, in balia di chiunque in qualsiasi tempo. In opposizione a questa posizione si è potuto sostenere che ciò che è detto in alcuni scritti ha valore e forza in qualsiasi tempo: in questa affermazione si compendiano, in maniera generale, le varie forme di classicismo. Ma si è anche potuto sostenere che il valore e il significato di ciò che è scritto in un testo sono riconosciuti già nel tempo originario di questo testo, mentre successivamente possono
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Su questo aspetto cfr. Conti [1973; 1981].
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andare smarriti oppure, viceversa, che Un testo non trova mai pieno riconoscimento e collocazione nel suo tempo originario, ma solo in seguito può dischiudere le sue potenzialità. In questi ultimi casi il restauro consisterà nel riproporre o restituire il valore e i significati originari o, viceversa, nel far emergere il valore e il significato originariamente latenti, ma rimasti privi di riconoscimento ed efficacia. Mentre in un primo caso il testo è classico, nel senso di privo di fragilità e capace d'imporsi sempre da sé, in. un altro la fragilità di ciò che è detto in un testo viene riconosciuta, ma al tempo stesso considerata come una proprietà transitoria. Su questa transitorietà e sulfa negazione dell'irrecuperabilità totale si può costruire là possibilità di un restauro, una nozione che nasce dall'intreccio delle nozioni di tempo e di forza. In questo senso il restauro viene configurato come anamnesi, più che mneme, in quanto si suppone che tra il restauro e l'oggetto da restaurare si frapponga un momento di oblio e di latenza. Se ciò che è espresso in un· testo filosofico ha la forza di persistere intatto nel tempo, il restauro diventa inutile o, meglio, si può presentare soltanto come ripetizione. Come è stato affermato per il Medioevo figurativo, allora «il passato antico era una tradizione vivente, di cui esso faceva parte, né si poteva pensare a riesumare quanto era tuttora vivo» [cfr. Greenhalgh 1984]. Qui il tempo sembra sostituito da una presenza spaziale, da un sussistere indenne in un presente continuo: transitorietà e irreversibilità non possono intaccare il classico, che appare quindi come fuori del tempo. Ma, ad eccezione di alcuni filologi, come gli esponenti del Terzo Umanesimo, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non è facile trovare .oggi sostegno a questa posizione da parte di filosofi, anche se, come vedremo,. con opportuni accorgimenti qualcosa di simile è tornato a diventare possibile. In una posizione come quella heideggeriana si assiste, invece, a una concezione per così dire triadica del tempo, dove da un momento originario sovrabbondante - offerto dai frammenti di alcuni pensatori presocratici - si passa a uno stato di oblio e infine a una ripresa e ricominciamento dell'origine, resi possibili proprio dal carattere sovrabbondante dell'origine e dal permanere in essa di qualcosa di non ancora pensato, ma di ancora sempre da pensare. Il restauro in questo caso non è frutto di iniziativa umana individuale, ma è un 48
evento che al massimo si annuncia e prepara e può solo essere atteso in abbandono. La mia opinione è che riemerga, in questa prospettiva heideggeriana, uno schema neoplatonico, coniugato con l'idea di tempo, uno schema fatto proprio anche da correnti dell'ermeneutica religiosa4 • Sullo sfondo di tali posizioni si collocano probabilmente modalità del rapporto fra testo del maesfro e restauro e riproposizione di esso da parte dei discepoli, quali si erano affermate in alqme scuole filosofiche · antiche. Nella scuola di Epicuro gli scritti del maestro erano considerati i depositari di un messaggio veritiero di salvezza, che doveva essere preservato e ripresentato contro minacce e attacchi. Verso la fine del II secolo d.C. si assiste all'evento straordinario dell'epicureo Diogene di Enoanda, il quale fa incidere su un portico della sua città le linee fondamentali. dell'insegnamento del maestro, fissandole indelebilmente sulla pietra. In casi come questo l'obiettivo è la conservazione, la difesa e la messa in uno spazio di visibilità di una tradizione, di fronte alle dissoluzioni possibili da parte del tempo o di avversari. Ma il restauro conservativo, cotile garanzia di continuità, può avvenire appunto anche extra-testo, affiancando ai testi del maestro compendi o· esposizioni sempHficate. Ciò avveniva già con le epistole di :Epicuro stesso e l'operazione sarebbe stata continuata dai suoi .allievi: il più illustre restauro extra-testo a noi noto è, come si sa, il poema di Lucrezio. La sensazione è che la filosofia non viva in acque tranquille e che quanto è detto nei testi canonici sia minacciato, se non altro da altre scuole filosofiche. È all'interno di questi orizzonti che vengono costituendosi le nozioni di ortodossia e di autorità e, in parallelo, quella di «vero significato» dell'insegnamento del maestro contenuto nei suoi scritti. Durante l'antichità questa impostazione diventerà determinante soprattutto nel neoplatonismo in età imperiale. L'esegesi dei testi del maestro diventa allora la forma più adeguata di filosofia. Filosofia significa restauro del «vero senso». Diversamente da quanto era avvenuto con Platone, il libro diventa il vero oggetto sol qu.ale esercitare l'attività filosofica. Filosofare significa anche 4 Su questo aspetto, e in generale sull'uso delle filosofie antiche da parte di alcuni fra i più significativi filosofi del Novecento, rinvio a Cambiano [1988a].
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scrivere libri su altri libri, elaborare testi come esplicazione di altri testi, dalla parafrasi al. commentario continuo ai manuall introduttivi, alle interpretazioni allegoriche e così via. Per altro verso, questa attività di restauro extra-tèsto si riveste di una forte dimensione pedagogica, perché consiste anche ~ella disposizione di quanto era detto dal maestro in un ordine più comprensibile e più ad~guato, per consentire ai discepoli di ripercorrere il testo del maestro in un itinerario progressivo di ascesa. Il restauro dei testi del maestro tendeva a conferire loro una .struttura sistematica. Così Andronico di Rodi aveva probabilmente ordinato gli scritti di Aristotele - nel modo in cui noi ancora oggi li p~ssediamo - seguendo la tripartizione della filosofia, impostasi in età ellenistica, in logica, fisica, etica. Così Porfirio disponeva le Enneadi del maestro Plotino non nell'ordine cronologico di composizione, ma seguendo una struttura sistematica, che andava da testi concernenti il mondo sensibile sino a quelli concernenti l'Uno. Nel neoplatonismo l'originalità non rivestiva alcuri titolo di· merito e la filosofia diventava un evento impersonale, la rivelazione di un divino, condensato nei testi platonici, che eccedeva l'uomo. Di fronte a ciò il filosofo poteva presentarsi come sacerdote, custode e anello di una catena rivelativa, che non trae origine da lui5. Molti tratti del filosofare. contemporaneo si illuminano, se posti a confronto con queste impostazioni neoplatoniche, in particolare nella loro ossessione di risalire all'origine per riattingerla. Il presupposto, come già nell'antico neoplatonismo, è che l'originario, quanto è consegnato nei testi dell'origine, non è trasparente, tanto più se dei testi originari sopravvivono solo frammenti, come è il caso dei cosiddetti presocratici. Il restauro consisterà allora anche nel rendere almeno parzialmente trasparenti le virtualità che il testo originario conteneva. In tal modo il testo originario può riprendere la forza che gli è propria, ma che un'epoca di smarrimento ha occultato e perso. Di fronte a un materiale frammentario il restauro ·assume necessariamente, come in Heidegger, una veste integrativa, dove di fatto l'originario nella sua materialità è dissolto, ma può rappresentare, come nel Quattrocento, «un banco di prova» per dimostrare che 5 La centralità dei rapporti con il passato come carattere saliente di questa fase dell'indagine filosofica antica è ben illustrata in Boys-Stones [2001].
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l'equivalenza con gli antichi è stata raggiunta6 e che il tedesco si è potuto felicemente ricongiungere con il greco dell'origine. Il restauro dei testi filosofici classici distinto dalla semplice ripetizione nasce dalla consapevolezza di una frattura nella continuità del tempo, con l'intrusione del negativo. Anche Platone aveva subìto momenti di abbandono, tradimento e oblio. Così, dopo la Rivoluzione francese il ripristino della monarchia e del cattolicesimo poteva essere salutato dai suoi fautori come una restaurazione, un rimettere in piedi ciò che per un momento era stato abbattuto. In questo senso il restauro è un modo di riallacciare una continuità ininterrotta e un rimettersi sulla via maestra, dopo le costrizioni di una deviazione fuorviante. Esso consente così di rinsaldare la propria identità, tornando ad ancorarla alla tradizione di testi portatori di valore. Gran parte del lavoro di auscultazione dei detti filosofici antichi da parte di alcuni filosofi ·contemporanei è comprensibile alla luce di un obiettivo di restauro dell'antico, che coincide con il restauro della propria identità, anche se è venuta meno la dimensione di scuola e di vita comunitaria filosofica, propria di un piccolo gruppo, che caratterizzava il lavoro filosofico antico. Alla dimensione prosaica della scuola è stata sostituita quella di destino. Ma il problema rimane sempre quello di mettersi in ascolto dell'origine, in modo che da essa, dopo il nascondimento, si annunci un nuovo inizio. Il passato non è allora un. tempo perduto irrecuperabile: nella ripresa di contatto con la sua sovrabbondanza, si può aprire una nuova epoca. Ma quale volto vengono allora ad assumere i frammenti dei presocratici, i dialoghi di Platone o gli scritti aristotelici così restaurati?
3. Il restauro cosmetico e gli antichi messi a nuovo In queste operazioni filosofiche contemporanee il restauro diventa inevitabilmente una forma di cosmesi, che comporta lo smembramento dell'oggetto restaurato, quando non la sua copertura con una patina. Lo smembramento è volt.o a recuperare la parte nobile e pregevole dell'oggetto originario;
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Cfr. Rossi Pinelli [1986, in part. 206].
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come nel Medioevo, quando erano soprattutto materiali prestigiosi, quale il marmo, a essere integrati nei nuovi edifici. L'esibizione del passato, a volte così ingombrante in varie filosofie contemporanee, corrisponde anche a una forma di «cospicuo dispendio», per usare un'espressione di Veblen, a una manifestazione di prosperità e nobiltà, che affonda in radici lontane. D'altra parte, ciò è segno che i nuovi edifici filosofici appaiono senza volerlo,· o anche vogliono denunciarsi, come incapaci di sussistere da sé, sgomenti del proprio tempo. Già · la letteratura cristiana dei primi secoli, grazie al possesso di un testo autorevole come la Bibbia, aveva determinato un vasto' movimento di discriminazione, nei testi filosofici antichi, fra quanto è vero e quanto è falso. Su questa falsariga si sarebbero mosse posteriori distinzioni, anche senza il sostegno di testi autorevoli, fra ciò che è vivo e ciò che è morto. Ma nel mezzo, tra questa impostazione originatasi nel primo cristiane.simo e le operazioni di moderno restauro cosmetico, si è frapposta la filologia dell'Ottocento, con le sue pretese di cogliere, con i suoi particolari strumenti, il