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Italian Pages 526 [530] Year 2008
© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008
Carlo Cellucci
Perché ancora la filosofia
Editori Laterza
© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008
Carlo Cellucci
Perché ancora la filosofia
Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8725-0
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Due strade divergevano in un bosco, e io – Io presi la meno battuta, E di lì tutta la differenza è venuta. Robert Frost The road not taken
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8725-0
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Due strade divergevano in un bosco, e io – Io presi la meno battuta, E di lì tutta la differenza è venuta. Robert Frost The road not taken
Prefazione
Questo è un libro sulla filosofia e sulla conoscenza. Esso si chiede perché si debba ancora fare filosofia e quale filosofia si debba fare, e la individua in una filosofia che miri innanzitutto alla conoscenza. Così la domanda sul perché si debba ancora fare filosofia si trasforma in una domanda sulla natura della conoscenza. Per rispondere a tale domanda il libro, da un lato, mostra l’illusorietà di alcune chimere che la filosofia ha per lungo tempo inseguito, cioè la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore e la mente. E, dall’altro lato, in positivo, analizza lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza e la trama fine della conoscenza, partendo dal ruolo che la conoscenza svolge nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi. Il libro si chiude con un’analisi delle relazioni tra la conoscenza e il significato della vita umana. Alcune parti del libro sono una rielaborazione di Cellucci 2001, 2005a-b, 2006a-b, 2007b, 2008a-c. Approfondimenti delle questioni di logica e di filosofia della matematica menzionate nel libro possono trovarsi in Cellucci 2002, 2007a. Ringrazio tutti coloro che hanno fatto osservazioni sulle idee presentate nel libro in occasione di seminari, convegni o in corrispondenza, e in particolare Jeremy Avigad, Andrea Cantini, Mirella Capozzi, Riccardo Chiaradonna, Charles Chihara, Cesare Cozzo, Marisa Dalla Chiara, Mario De Caro, Sy Friedman, Donald Gillies, Emily Grosholz, Reuben Hersh, Gabriele Lolli, Per Martin-Löf, Reviel Netz, Arnold Oberschelp, Paolo Parrini, Volker Peckhaus, Eva Picardi, Dag Prawitz, Andrea Reichenberger, Wilfrid Sieg, William Tait, Robert Thomas, Nicla Vassallo.
VII
Prefazione
Questo è un libro sulla filosofia e sulla conoscenza. Esso si chiede perché si debba ancora fare filosofia e quale filosofia si debba fare, e la individua in una filosofia che miri innanzitutto alla conoscenza. Così la domanda sul perché si debba ancora fare filosofia si trasforma in una domanda sulla natura della conoscenza. Per rispondere a tale domanda il libro, da un lato, mostra l’illusorietà di alcune chimere che la filosofia ha per lungo tempo inseguito, cioè la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore e la mente. E, dall’altro lato, in positivo, analizza lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza e la trama fine della conoscenza, partendo dal ruolo che la conoscenza svolge nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi. Il libro si chiude con un’analisi delle relazioni tra la conoscenza e il significato della vita umana. Alcune parti del libro sono una rielaborazione di Cellucci 2001, 2005a-b, 2006a-b, 2007b, 2008a-c. Approfondimenti delle questioni di logica e di filosofia della matematica menzionate nel libro possono trovarsi in Cellucci 2002, 2007a. Ringrazio tutti coloro che hanno fatto osservazioni sulle idee presentate nel libro in occasione di seminari, convegni o in corrispondenza, e in particolare Jeremy Avigad, Andrea Cantini, Mirella Capozzi, Riccardo Chiaradonna, Charles Chihara, Cesare Cozzo, Marisa Dalla Chiara, Mario De Caro, Sy Friedman, Donald Gillies, Emily Grosholz, Reuben Hersh, Gabriele Lolli, Per Martin-Löf, Reviel Netz, Arnold Oberschelp, Paolo Parrini, Volker Peckhaus, Eva Picardi, Dag Prawitz, Andrea Reichenberger, Wilfrid Sieg, William Tait, Robert Thomas, Nicla Vassallo.
VII
Perché ancora la filosofia
Perché ancora la filosofia
Introduzione
1. Il trauma della nascita della scienza moderna «Se si deve filosofare si deve filosofare, e se non si deve filosofare si deve filosofare. In ogni caso, dunque, si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare poiché essa esiste. Se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esista. Ma cercando filosofiamo, perché cercare è la causa della filosofia»1. Sono ancora attuali queste affermazioni, attribuite al Protreptico di Aristotele? La domanda è giustificata, perché nel Seicento la filosofia ha subito un trauma che non è ancora riuscita a superare, la nascita della scienza moderna. Quest’ultima ha invaso molti campi tradizionalmente occupati dalla filosofia, facendone apparire problematico il ruolo e rendendola perciò bisognosa di una rilegittimazione. La necessità di una rilegittimazione è stata sottolineata da molti. Per esempio, Gadamer afferma che, «dal diciassettesimo secolo, ciò che oggi chiamiamo filosofia si trova in una situazione mutata. La filosofia è diventata bisognosa di una legittimazione nei confronti delle scienze come non era mai accaduto prima»2. Di fatto gran parte della filosofia a partire dal Seicento è stata una risposta al trauma causato dalla nascita della scienza moderna. La risposta, però, non è stata univoca. Vi sono state risposte radicali e risposte moderate.
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Elias 1900, p. 3, 19-23. Gadamer 1976, p. 13.
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Introduzione
1. Il trauma della nascita della scienza moderna «Se si deve filosofare si deve filosofare, e se non si deve filosofare si deve filosofare. In ogni caso, dunque, si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare poiché essa esiste. Se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esista. Ma cercando filosofiamo, perché cercare è la causa della filosofia»1. Sono ancora attuali queste affermazioni, attribuite al Protreptico di Aristotele? La domanda è giustificata, perché nel Seicento la filosofia ha subito un trauma che non è ancora riuscita a superare, la nascita della scienza moderna. Quest’ultima ha invaso molti campi tradizionalmente occupati dalla filosofia, facendone apparire problematico il ruolo e rendendola perciò bisognosa di una rilegittimazione. La necessità di una rilegittimazione è stata sottolineata da molti. Per esempio, Gadamer afferma che, «dal diciassettesimo secolo, ciò che oggi chiamiamo filosofia si trova in una situazione mutata. La filosofia è diventata bisognosa di una legittimazione nei confronti delle scienze come non era mai accaduto prima»2. Di fatto gran parte della filosofia a partire dal Seicento è stata una risposta al trauma causato dalla nascita della scienza moderna. La risposta, però, non è stata univoca. Vi sono state risposte radicali e risposte moderate.
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Elias 1900, p. 3, 19-23. Gadamer 1976, p. 13.
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2. Risposte radicali Una risposta radicale è quella secondo cui, con la nascita della scienza moderna, alla filosofia non rimane più nulla di cui parlare, perché tutti gli argomenti di cui si può sensatamente dire qualcosa sono ormai appannaggio delle scienze. Per esempio, Wittgenstein afferma che «la totalità delle proposizioni vere è l’intera scienza naturale (o la totalità delle scienze naturali)»3. Ma «la filosofia non è una delle scienze naturali»4. Perciò a essa non rimane ormai più nulla di cui parlare. Né essa può avere per oggetto ciò di cui non si può parlare, perché «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»5. Dunque «il metodo corretto in filosofia sarebbe propriamente questo: non dire nulla tranne ciò che può essere detto, cioè le proposizioni della scienza naturale, cioè qualcosa che non ha nulla a che fare con la filosofia»6. Ma questa risposta è inadeguata perché assume che l’architettura della conoscenza si esaurisca nelle scienze esistenti. Tale assunzione è ingiustificata perché, mano a mano che procede la ricerca, sorgono nuove domande che portano alla creazione di nuove scienze, alcune delle quali nascono, e sono nate anche recentemente, proprio dalla filosofia. Un’altra risposta radicale, ma di segno opposto alla precedente, è quella secondo cui l’insistenza della scienza sul dimostrabile le impedisce di arrivare a ciò che è. Solo la filosofia ci permette di entrare in una regione in cui ci diventa visibile ciò che non si può dimostrare, si può solo additare. Per esempio, Heidegger afferma che la «scienza non pensa»7. Essa «è la negazione di ogni sapere», perciò «nessun sapiente proverà invidia per gli ‘scienziati’ – gli schiavi più miseri dei tempi più recenti»8. La scienza mira solo «all’esattezza e alla sicurezza»9. Ma la sua «insistenza sul dimostrabile» le sbarra «il cammino verso ciò che è»10.
Solo la filosofia ci permette di entrare in «una regione del tutto diversa», nella quale «ci diventa visibile» ciò che «non si può dimostrare»11. A esso «noi corrispondiamo a nostra volta solo se additiamo nella sua direzione»12. Questo «additare, cioè il richiamare l’attenzione su qualcosa liberandolo così per il suo avvento», è «la via verso ciò che da sempre e per sempre dà da pensare all’uomo»13. In questo modo la filosofia si sottrae all’«irrefrenabile dilagare della razionalizzazione»14. Ma anche questa risposta è inadeguata perché postula che la filosofia ci permetta di entrare in una regione in cui ci diventa visibile ciò che non si può dimostrare, mentre la filosofia non dispone di alcun mezzo speciale per farlo. Tanto più che Heidegger afferma che il pensiero che ci permette di entrare in tale regione non è pensiero dell’uomo bensì «pensiero dell’essere», dove «il genitivo vuol dire» che tale pensiero «appartiene all’essere»15. Non all’uomo. All’uomo appartiene solo «custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere»16. Perciò la filosofia non c’è in quanto «ci sono i filosofi», ma solo in quanto, e «quando, la verità dell’essere accade, e nel modo in cui essa accade»17. Ma «l’essere, che cos’è l’essere?»18. A questa domanda Heidegger dà solo la risposta irrisoria: «Esso è lui stesso»19. 3. Risposte moderate Una risposta moderata è quella secondo cui si deve ammettere che la filosofia, che dall’antichità è stata considerata la forma più alta di sapere, non è ancora una scienza. Mentre nessuno metterebbe in dubbio la verità oggettiva o la probabilità oggettivamente fondata della matematica e delle scienze naturali, lo stesso non può dirsi della filosofia. Occorre perciò una svolta che faccia assumere alla filosofia l’autentico carattere di scienza. Heidegger 1975-, VII, p. 133. Ivi, VII, p. 134. 13 Ibid. 14 Heidegger 2000, p. 79. 15 Heidegger 1975-, IX, p. 316. 16 Ivi, IX, p. 331. 17 Ivi, XLV, p. 120. 18 Ivi, IX, p. 331. 19 Ibid. 11
Wittgenstein 1961, 4.11. 4 Ivi, 4.111. 5 Ivi, 7. 6 Ivi, 6.53. 7 Heidegger 1975-, VII, p. 133. 8 Ivi, XLV, p. 4. 9 Heidegger 2000, p. 78. 10 Ivi, p. 79. 3
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2. Risposte radicali Una risposta radicale è quella secondo cui, con la nascita della scienza moderna, alla filosofia non rimane più nulla di cui parlare, perché tutti gli argomenti di cui si può sensatamente dire qualcosa sono ormai appannaggio delle scienze. Per esempio, Wittgenstein afferma che «la totalità delle proposizioni vere è l’intera scienza naturale (o la totalità delle scienze naturali)»3. Ma «la filosofia non è una delle scienze naturali»4. Perciò a essa non rimane ormai più nulla di cui parlare. Né essa può avere per oggetto ciò di cui non si può parlare, perché «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»5. Dunque «il metodo corretto in filosofia sarebbe propriamente questo: non dire nulla tranne ciò che può essere detto, cioè le proposizioni della scienza naturale, cioè qualcosa che non ha nulla a che fare con la filosofia»6. Ma questa risposta è inadeguata perché assume che l’architettura della conoscenza si esaurisca nelle scienze esistenti. Tale assunzione è ingiustificata perché, mano a mano che procede la ricerca, sorgono nuove domande che portano alla creazione di nuove scienze, alcune delle quali nascono, e sono nate anche recentemente, proprio dalla filosofia. Un’altra risposta radicale, ma di segno opposto alla precedente, è quella secondo cui l’insistenza della scienza sul dimostrabile le impedisce di arrivare a ciò che è. Solo la filosofia ci permette di entrare in una regione in cui ci diventa visibile ciò che non si può dimostrare, si può solo additare. Per esempio, Heidegger afferma che la «scienza non pensa»7. Essa «è la negazione di ogni sapere», perciò «nessun sapiente proverà invidia per gli ‘scienziati’ – gli schiavi più miseri dei tempi più recenti»8. La scienza mira solo «all’esattezza e alla sicurezza»9. Ma la sua «insistenza sul dimostrabile» le sbarra «il cammino verso ciò che è»10.
Solo la filosofia ci permette di entrare in «una regione del tutto diversa», nella quale «ci diventa visibile» ciò che «non si può dimostrare»11. A esso «noi corrispondiamo a nostra volta solo se additiamo nella sua direzione»12. Questo «additare, cioè il richiamare l’attenzione su qualcosa liberandolo così per il suo avvento», è «la via verso ciò che da sempre e per sempre dà da pensare all’uomo»13. In questo modo la filosofia si sottrae all’«irrefrenabile dilagare della razionalizzazione»14. Ma anche questa risposta è inadeguata perché postula che la filosofia ci permetta di entrare in una regione in cui ci diventa visibile ciò che non si può dimostrare, mentre la filosofia non dispone di alcun mezzo speciale per farlo. Tanto più che Heidegger afferma che il pensiero che ci permette di entrare in tale regione non è pensiero dell’uomo bensì «pensiero dell’essere», dove «il genitivo vuol dire» che tale pensiero «appartiene all’essere»15. Non all’uomo. All’uomo appartiene solo «custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere»16. Perciò la filosofia non c’è in quanto «ci sono i filosofi», ma solo in quanto, e «quando, la verità dell’essere accade, e nel modo in cui essa accade»17. Ma «l’essere, che cos’è l’essere?»18. A questa domanda Heidegger dà solo la risposta irrisoria: «Esso è lui stesso»19. 3. Risposte moderate Una risposta moderata è quella secondo cui si deve ammettere che la filosofia, che dall’antichità è stata considerata la forma più alta di sapere, non è ancora una scienza. Mentre nessuno metterebbe in dubbio la verità oggettiva o la probabilità oggettivamente fondata della matematica e delle scienze naturali, lo stesso non può dirsi della filosofia. Occorre perciò una svolta che faccia assumere alla filosofia l’autentico carattere di scienza. Heidegger 1975-, VII, p. 133. Ivi, VII, p. 134. 13 Ibid. 14 Heidegger 2000, p. 79. 15 Heidegger 1975-, IX, p. 316. 16 Ivi, IX, p. 331. 17 Ivi, XLV, p. 120. 18 Ivi, IX, p. 331. 19 Ibid. 11
Wittgenstein 1961, 4.11. 4 Ivi, 4.111. 5 Ivi, 7. 6 Ivi, 6.53. 7 Heidegger 1975-, VII, p. 133. 8 Ivi, XLV, p. 4. 9 Heidegger 2000, p. 78. 10 Ivi, p. 79. 3
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Per esempio, Husserl afferma che «la filosofia, nella sua intenzione storica la più elevata e rigorosa di tutte le scienze, essa, che rappresenta l’aspirazione imperitura dell’umanità alla conoscenza pura e assoluta», è ancora «incapace di darsi la forma di vera scienza»20. La filosofia «non è ancora una scienza, come scienza non ha ancora avuto inizio»21. Non solo essa «non dispone di un sistema dottrinale incompleto e imperfetto nei particolari, ma ne è del tutto priva. Ogni cosa qui è messa in discussione, ogni presa di posizione è materia di convinzioni individuali, di interpretazioni di scuola, di ‘punti di vista’»22. Ma «gli interessi più elevati della cultura umana richiedono la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica»23. Perciò, «se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che essa sia comunque animata dall’intenzione di una rifondazione della filosofia nel senso di una scienza rigorosa»24. Ma questa risposta è inadeguata perché la filosofia non ha un campo suo specifico da indagare. Perciò tutti i tentativi di sviluppare una filosofia dotata di un autentico carattere di scienza si sono risolti in un insuccesso. Specificamente, Husserl cerca di sviluppare una filosofia che sia «una scienza universale del mondo, un sapere universale, definitivo, un universo della verità in sé intorno al mondo, al mondo in sé»25. A tale scopo egli parte dall’attività costitutiva dell’io, proponendosi di arrivare alla «scoperta del modo d’essere concretamente necessario della soggettività assoluta (e in definitiva trascendentale) nella vita trascendentale della costante ‘costituzione del mondo’», e di lì alla «nuova scoperta del ‘mondo essente’, il cui senso d’essere, costituito trascendentalmente, dia un nuovo senso a ciò che, nei gradi inferiori, si chiamava mondo e verità del mondo, conoscenza del mondo»26. Ma, come c’era da aspettarsi, partendo dall’attività costitutiva dell’io egli non arriva alla scoperta del ‘mondo essente’, bensì solo a quella del mondo come correlato della soggettività. Un’altra risposta moderata, ma di segno opposto alla precedente, è quella secondo cui si deve abbandonare l’idea che la scienza sia l’attiHusserl 1950-, XXV, p. 4. Ibid. 22 Ivi, XXV, p. 5. 23 Ivi, XXV, p. 7. 24 Ibid. 25 Ivi, VI, p. 269. 26 Ivi, VI, p. 275. 20
vità umana paradigmatica, e che perciò alla filosofia non rimanga altro che cercare di diventare una scienza. Oltre alla scienza vi sono altre aree della cultura, come la filosofia, la religione, l’arte, rispetto alle quali la scienza non ha una posizione privilegiata. La validità della scienza e delle altre aree della cultura non può essere valutata in termini della loro corrispondenza con la realtà, ma deve essere valutata in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse. Per esempio, Rorty afferma che si deve abbandonare la posizione di coloro che sostenevano che «la scienza era l’attività umana paradigmatica», e che «quel poco che c’era da dire sulle altre aree della cultura era una pia speranza che alcune di esse (per esempio, la filosofia) potessero diventare più ‘scientifiche’»27. La scienza e le altre aree della cultura fanno «parte della stessa tela», che non può essere suddivisa «nella parte che descrive la vera struttura della realtà e nella parte che invece non la descrive»28. La loro validità non può essere valutata in termini di «una relazione tra credenze e oggetti, detta ‘corrispondenza’»29. Deve essere valutata, invece, in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse, perché «noi continuiamo a nutrire quelle credenze che mostrano di essere guide affidabili per ottenere ciò che vogliamo»30. Anche questa risposta è inadeguata perché la validità della scienza e delle altre aree della cultura non può essere valutata solo in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse, ma deve essere valutata soprattutto in termini della presa che hanno sulla realtà, e non si può dire che tutte le aree della cultura abbiano la stessa presa. Tanto più che Rorty afferma che, di fronte alla domanda quale scopo ci proponiamo con la filosofia, possiamo solo «balbettare che noi professori di filosofia siamo persone che hanno una certa familiarità con una certa tradizione intellettuale», e perciò «possiamo dare qualche consiglio su cosa accadrà quando si cerca di combinare o di separare certe idee, in base alla nostra conoscenza dei risultati di esperimenti passati. Così facendo possiamo essere in grado di aiutarvi ad apprendere il vostro tempo col pensiero»31. Ma questo non caratterizza la filosofia, perché lo stesso potrebbe dirsi di al-
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Rorty 1991-2007, I, p. 46. Ivi, I, p. 51. 29 Ivi, I, p. 22. 30 Rorty 1999, p. 33. 31 Ivi, pp. 19-20. 27 28
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Per esempio, Husserl afferma che «la filosofia, nella sua intenzione storica la più elevata e rigorosa di tutte le scienze, essa, che rappresenta l’aspirazione imperitura dell’umanità alla conoscenza pura e assoluta», è ancora «incapace di darsi la forma di vera scienza»20. La filosofia «non è ancora una scienza, come scienza non ha ancora avuto inizio»21. Non solo essa «non dispone di un sistema dottrinale incompleto e imperfetto nei particolari, ma ne è del tutto priva. Ogni cosa qui è messa in discussione, ogni presa di posizione è materia di convinzioni individuali, di interpretazioni di scuola, di ‘punti di vista’»22. Ma «gli interessi più elevati della cultura umana richiedono la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica»23. Perciò, «se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che essa sia comunque animata dall’intenzione di una rifondazione della filosofia nel senso di una scienza rigorosa»24. Ma questa risposta è inadeguata perché la filosofia non ha un campo suo specifico da indagare. Perciò tutti i tentativi di sviluppare una filosofia dotata di un autentico carattere di scienza si sono risolti in un insuccesso. Specificamente, Husserl cerca di sviluppare una filosofia che sia «una scienza universale del mondo, un sapere universale, definitivo, un universo della verità in sé intorno al mondo, al mondo in sé»25. A tale scopo egli parte dall’attività costitutiva dell’io, proponendosi di arrivare alla «scoperta del modo d’essere concretamente necessario della soggettività assoluta (e in definitiva trascendentale) nella vita trascendentale della costante ‘costituzione del mondo’», e di lì alla «nuova scoperta del ‘mondo essente’, il cui senso d’essere, costituito trascendentalmente, dia un nuovo senso a ciò che, nei gradi inferiori, si chiamava mondo e verità del mondo, conoscenza del mondo»26. Ma, come c’era da aspettarsi, partendo dall’attività costitutiva dell’io egli non arriva alla scoperta del ‘mondo essente’, bensì solo a quella del mondo come correlato della soggettività. Un’altra risposta moderata, ma di segno opposto alla precedente, è quella secondo cui si deve abbandonare l’idea che la scienza sia l’attiHusserl 1950-, XXV, p. 4. Ibid. 22 Ivi, XXV, p. 5. 23 Ivi, XXV, p. 7. 24 Ibid. 25 Ivi, VI, p. 269. 26 Ivi, VI, p. 275. 20
vità umana paradigmatica, e che perciò alla filosofia non rimanga altro che cercare di diventare una scienza. Oltre alla scienza vi sono altre aree della cultura, come la filosofia, la religione, l’arte, rispetto alle quali la scienza non ha una posizione privilegiata. La validità della scienza e delle altre aree della cultura non può essere valutata in termini della loro corrispondenza con la realtà, ma deve essere valutata in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse. Per esempio, Rorty afferma che si deve abbandonare la posizione di coloro che sostenevano che «la scienza era l’attività umana paradigmatica», e che «quel poco che c’era da dire sulle altre aree della cultura era una pia speranza che alcune di esse (per esempio, la filosofia) potessero diventare più ‘scientifiche’»27. La scienza e le altre aree della cultura fanno «parte della stessa tela», che non può essere suddivisa «nella parte che descrive la vera struttura della realtà e nella parte che invece non la descrive»28. La loro validità non può essere valutata in termini di «una relazione tra credenze e oggetti, detta ‘corrispondenza’»29. Deve essere valutata, invece, in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse, perché «noi continuiamo a nutrire quelle credenze che mostrano di essere guide affidabili per ottenere ciò che vogliamo»30. Anche questa risposta è inadeguata perché la validità della scienza e delle altre aree della cultura non può essere valutata solo in termini della loro capacità di raggiungere gli scopi che ci proponiamo con esse, ma deve essere valutata soprattutto in termini della presa che hanno sulla realtà, e non si può dire che tutte le aree della cultura abbiano la stessa presa. Tanto più che Rorty afferma che, di fronte alla domanda quale scopo ci proponiamo con la filosofia, possiamo solo «balbettare che noi professori di filosofia siamo persone che hanno una certa familiarità con una certa tradizione intellettuale», e perciò «possiamo dare qualche consiglio su cosa accadrà quando si cerca di combinare o di separare certe idee, in base alla nostra conoscenza dei risultati di esperimenti passati. Così facendo possiamo essere in grado di aiutarvi ad apprendere il vostro tempo col pensiero»31. Ma questo non caratterizza la filosofia, perché lo stesso potrebbe dirsi di al-
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Rorty 1991-2007, I, p. 46. Ivi, I, p. 51. 29 Ivi, I, p. 22. 30 Rorty 1999, p. 33. 31 Ivi, pp. 19-20. 27 28
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tre aree della cultura. Inoltre, Rorty assegna alla filosofia uno scopo marginale perché afferma che noi filosofi «non siamo qui per fornire principi o fondamenti o profonde diagnosi teoriche, o una visione sinottica»32. Perciò «non siamo le persone da cui venire se volete una conferma del fatto che le cose che amate con tutto il cuore siano centrali per la struttura dell’universo»33. Cioè, non siamo le persone da cui venire per avere una risposta alle questioni che più vi interessano. 4. Morte della filosofia? L’inadeguatezza di queste come di tutte le altre risposte al trauma causato dalla nascita della scienza moderna, fanno nascere il dubbio che cercare di legittimare la filosofia dopo la nascita della scienza moderna sia un’impresa disperata. Tale dubbio è avvalorato dal fatto che molti filosofi del Novecento hanno sostenuto che la filosofia è morta perché è andata a finire nelle scienze. Per esempio, come abbiamo visto, Wittgenstein sostiene che alla filosofia ormai non rimane più nulla di cui parlare, perché la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale. Similmente Heidegger, piuttosto incongruamente con le sue affermazioni già citate, sostiene che «ciò che la filosofia nel corso della sua storia aveva talvolta tentato di rappresentare, e anche allora solo inadeguatamente, cioè le ontologie delle varie regioni dell’essente (natura, storia, diritto, arte), ora sono le scienze ad assumerlo come proprio compito»34. Perciò «la filosofia finisce nell’epoca presente», avendo «trovato il proprio luogo nella scientificità»35. La «fine della filosofia significa il compimento» della filosofia, dove «però compimento non significa perfezione», cioè non significa che «la filosofia con la sua fine dovrebbe aver raggiunto la massima compiutezza»36. Compimento della filosofia significa invece «il suo andare a finire nelle scienze»37. Ivi, p. 19. Ivi, p. 20. 34 Heidegger 2000, pp. 64-65. 35 Ivi, p. 64. 36 Ivi, p. 62. 37 Ivi, p. 65. 32 33
Ma se la filosofia è morta, se è andata a finire nelle scienze, cercare di rilegittimarla è un’impresa impossibile. 5. Critiche degli scienziati Che la filosofia sia morta, che sia andata a finire nelle scienze, è opinione anche di molti scienziati. Per esempio, Hawking afferma che «coloro il cui mestiere è chiedersi il perché, cioè i filosofi, non sono stati capaci di tenere il passo col progresso delle teorie scientifiche» e, mentre nel Settecento «consideravano tutta la conoscenza umana, ivi compresa la scienza, come il loro campo», nel Novecento «hanno ristretto l’ambito delle loro indagini fino al punto che Wittgenstein, il più famoso dei filosofi di tale secolo, ha detto ‘L’unico compito che rimane alla filosofia è l’analisi del linguaggio’. Quale caduta rispetto alla grande tradizione della filosofia da Aristotele a Kant!»38. Dal canto suo, Mullis afferma che «i chimici pensano sempre di essere più in gamba dei biochimici. Ovviamente i fisici pensano di essere più in gamba dei chimici, i matematici pensano di essere più in gamba dei fisici, e, per un certo tempo, i filosofi hanno pensato di essere più in gamba dei matematici, finché in questo secolo hanno scoperto di non avere, in realtà, granché di cui parlare»39. 6. Perché ancora la filosofia? Ci si deve chiedere allora: perché ancora la filosofia? La filosofia si è dissolta nelle scienze ed è ormai diventata una disciplina puramente ornamentale, o può ancora essere feconda, e quale filosofia può esserlo? Chiederselo non costituisce una novità, perché la riflessione filosofica è sempre stata in certa misura un discorso sulla filosofia, avendo messo in discussione fin dall’origine tutta la conoscenza umana, ivi compresa se stessa. Ma, con la nascita della scienza moderna, tale domanda è diventata più urgente, oltre che più difficile e imbarazzante. Chiedersi se la filosofia possa ancora essere feconda, e quale filosofia possa esserlo, costituisce il punto di partenza di questo libro. 38 39
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Hawking 1988, p. 185. Mullis 1998, p. 38.
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tre aree della cultura. Inoltre, Rorty assegna alla filosofia uno scopo marginale perché afferma che noi filosofi «non siamo qui per fornire principi o fondamenti o profonde diagnosi teoriche, o una visione sinottica»32. Perciò «non siamo le persone da cui venire se volete una conferma del fatto che le cose che amate con tutto il cuore siano centrali per la struttura dell’universo»33. Cioè, non siamo le persone da cui venire per avere una risposta alle questioni che più vi interessano. 4. Morte della filosofia? L’inadeguatezza di queste come di tutte le altre risposte al trauma causato dalla nascita della scienza moderna, fanno nascere il dubbio che cercare di legittimare la filosofia dopo la nascita della scienza moderna sia un’impresa disperata. Tale dubbio è avvalorato dal fatto che molti filosofi del Novecento hanno sostenuto che la filosofia è morta perché è andata a finire nelle scienze. Per esempio, come abbiamo visto, Wittgenstein sostiene che alla filosofia ormai non rimane più nulla di cui parlare, perché la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale. Similmente Heidegger, piuttosto incongruamente con le sue affermazioni già citate, sostiene che «ciò che la filosofia nel corso della sua storia aveva talvolta tentato di rappresentare, e anche allora solo inadeguatamente, cioè le ontologie delle varie regioni dell’essente (natura, storia, diritto, arte), ora sono le scienze ad assumerlo come proprio compito»34. Perciò «la filosofia finisce nell’epoca presente», avendo «trovato il proprio luogo nella scientificità»35. La «fine della filosofia significa il compimento» della filosofia, dove «però compimento non significa perfezione», cioè non significa che «la filosofia con la sua fine dovrebbe aver raggiunto la massima compiutezza»36. Compimento della filosofia significa invece «il suo andare a finire nelle scienze»37. Ivi, p. 19. Ivi, p. 20. 34 Heidegger 2000, pp. 64-65. 35 Ivi, p. 64. 36 Ivi, p. 62. 37 Ivi, p. 65. 32 33
Ma se la filosofia è morta, se è andata a finire nelle scienze, cercare di rilegittimarla è un’impresa impossibile. 5. Critiche degli scienziati Che la filosofia sia morta, che sia andata a finire nelle scienze, è opinione anche di molti scienziati. Per esempio, Hawking afferma che «coloro il cui mestiere è chiedersi il perché, cioè i filosofi, non sono stati capaci di tenere il passo col progresso delle teorie scientifiche» e, mentre nel Settecento «consideravano tutta la conoscenza umana, ivi compresa la scienza, come il loro campo», nel Novecento «hanno ristretto l’ambito delle loro indagini fino al punto che Wittgenstein, il più famoso dei filosofi di tale secolo, ha detto ‘L’unico compito che rimane alla filosofia è l’analisi del linguaggio’. Quale caduta rispetto alla grande tradizione della filosofia da Aristotele a Kant!»38. Dal canto suo, Mullis afferma che «i chimici pensano sempre di essere più in gamba dei biochimici. Ovviamente i fisici pensano di essere più in gamba dei chimici, i matematici pensano di essere più in gamba dei fisici, e, per un certo tempo, i filosofi hanno pensato di essere più in gamba dei matematici, finché in questo secolo hanno scoperto di non avere, in realtà, granché di cui parlare»39. 6. Perché ancora la filosofia? Ci si deve chiedere allora: perché ancora la filosofia? La filosofia si è dissolta nelle scienze ed è ormai diventata una disciplina puramente ornamentale, o può ancora essere feconda, e quale filosofia può esserlo? Chiederselo non costituisce una novità, perché la riflessione filosofica è sempre stata in certa misura un discorso sulla filosofia, avendo messo in discussione fin dall’origine tutta la conoscenza umana, ivi compresa se stessa. Ma, con la nascita della scienza moderna, tale domanda è diventata più urgente, oltre che più difficile e imbarazzante. Chiedersi se la filosofia possa ancora essere feconda, e quale filosofia possa esserlo, costituisce il punto di partenza di questo libro. 38 39
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Hawking 1988, p. 185. Mullis 1998, p. 38.
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In esso io sostengo che la filosofia può ancora essere feconda solo se è un’indagine sul mondo. Questa affermazione, apparentemente banale, ha invece un’importante conseguenza. Essa implica che la filosofia è un’attività che mira innanzitutto alla conoscenza, una conoscenza che non differisce in alcun modo essenziale dalla conoscenza scientifica e non è limitata ad alcun campo del sapere. Come dice Descartes, la filosofia mira alla «conoscenza di tutte le cose che l’uomo può sapere»40. Perciò gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze. L’unica differenza tra la filosofia e le scienze è che la filosofia si occupa di questioni che vanno al di là dei confini delle scienze esistenti, che queste non sanno trattare, e se ne occupa battendo vie ancora inesplorate. Così facendo, quando ha successo, essa può anche dar origine a nuove scienze. 7. Altre concezioni della filosofia Il mio punto di vista si distingue da vari modi in cui la filosofia è stata concepita nell’età moderna e contemporanea. Per esempio, si distingue da quello di Kant, secondo cui la filosofia deve assumere le scienze come un dato di fatto e chiedersi come esse sono possibili, come passo preliminare rispetto alla questione: «Come è possibile la metafisica in generale? come è possibile la metafisica come scienza?»41. Come è possibile, cioè, una filosofia come disciplina separata dalle scienze, sui cui risultati si possa raggiungere, come nelle scienze, un universale e duraturo consenso? Si distingue da quello di Husserl, secondo cui la filosofia deve partire «dall’io, che produce tutte le sue validità», e costruire «una scienza autonoma dello spirito, nella forma di una conseguente auto-comprensione e di una comprensione del mondo in quanto operazione dello spirito», perché «la vera natura» è «un prodotto dello spirito indagatore della natura, dunque presuppone la scienza dello spirito»42. Descartes 1996, IX-2, p. 2. Kant 1900-, IV, p. 280. 42 Husserl 1950-, VI, pp. 345-346. 40 41
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Si distingue da quello di Wittgenstein, secondo cui la filosofia non ha alcun effetto sulla crescita della conoscenza, «lascia tutto così com’è»43. Essa «si limita a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla»44. Con essa «noi non vogliamo apprendere nulla di nuovo», ma solo «comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi»45. Mediante essa «non si tratta di costruire un nuovo edificio o di gettare un nuovo ponte, ma solo di giudicare la geografia così com’è ora»46. Si distingue da quello di Quine, secondo cui la filosofia «è contenuta nella scienza naturale come un capitolo della psicologia»47. Essa studia «come noi, abitanti fisici del mondo fisico, possiamo aver progettato la nostra teoria scientifica di quell’intero mondo a partire dai nostri magri contatti con esso: dai semplici urti di raggi e particelle sulle nostre superfici» che stanno alla base dei nostri dati sensoriali, «e da alcune cose secondarie, come lo sforzo del camminare in salita»48. Apparentemente, invece, il mio punto di vista non si distingue da quello di Russell, secondo cui «la filosofia mira principalmente alla conoscenza»49. A una conoscenza che «non differisce essenzialmente dalla conoscenza scientifica», perché «non vi è alcuna speciale fonte di sapienza che sia aperta alla filosofia ma non alla scienza, e i risultati ottenuti dalla filosofia non sono radicalmente diversi da quelli ottenuti dalla scienza»50. Ma la non distinzione è solo apparente. Per Russell, infatti, «la filosofia è uno studio separato dalle altre scienze: i suoi risultati non possono essere stabiliti dalle altre scienze, e viceversa non devono essere tali che qualche altra scienza possa contraddirli»51. La conoscenza a cui essa mira è «quel tipo di conoscenza che risulta da un esame critico dei fondamenti delle nostre convinzioni, pregiudizi e credenze»52. Essa «cerca le incongruenze che possono esserci» nei «principi impiegati nella scienza e nella vita quotidiana», che «acWittgenstein 1958, I, § 124. Ivi, I, § 126. 45 Ivi, I, § 89. 46 Wittgenstein 1978, V, § 52. 47 Quine 1969, p. 83. 48 Quine 1995, p. 16. 49 Russell 1997a, p. 154. 50 Ivi, p. 149. 51 Russell 1993, p. 240. 52 Russell 1997a, p. 154. 43 44
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In esso io sostengo che la filosofia può ancora essere feconda solo se è un’indagine sul mondo. Questa affermazione, apparentemente banale, ha invece un’importante conseguenza. Essa implica che la filosofia è un’attività che mira innanzitutto alla conoscenza, una conoscenza che non differisce in alcun modo essenziale dalla conoscenza scientifica e non è limitata ad alcun campo del sapere. Come dice Descartes, la filosofia mira alla «conoscenza di tutte le cose che l’uomo può sapere»40. Perciò gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze. L’unica differenza tra la filosofia e le scienze è che la filosofia si occupa di questioni che vanno al di là dei confini delle scienze esistenti, che queste non sanno trattare, e se ne occupa battendo vie ancora inesplorate. Così facendo, quando ha successo, essa può anche dar origine a nuove scienze. 7. Altre concezioni della filosofia Il mio punto di vista si distingue da vari modi in cui la filosofia è stata concepita nell’età moderna e contemporanea. Per esempio, si distingue da quello di Kant, secondo cui la filosofia deve assumere le scienze come un dato di fatto e chiedersi come esse sono possibili, come passo preliminare rispetto alla questione: «Come è possibile la metafisica in generale? come è possibile la metafisica come scienza?»41. Come è possibile, cioè, una filosofia come disciplina separata dalle scienze, sui cui risultati si possa raggiungere, come nelle scienze, un universale e duraturo consenso? Si distingue da quello di Husserl, secondo cui la filosofia deve partire «dall’io, che produce tutte le sue validità», e costruire «una scienza autonoma dello spirito, nella forma di una conseguente auto-comprensione e di una comprensione del mondo in quanto operazione dello spirito», perché «la vera natura» è «un prodotto dello spirito indagatore della natura, dunque presuppone la scienza dello spirito»42. Descartes 1996, IX-2, p. 2. Kant 1900-, IV, p. 280. 42 Husserl 1950-, VI, pp. 345-346. 40 41
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Si distingue da quello di Wittgenstein, secondo cui la filosofia non ha alcun effetto sulla crescita della conoscenza, «lascia tutto così com’è»43. Essa «si limita a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla»44. Con essa «noi non vogliamo apprendere nulla di nuovo», ma solo «comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi»45. Mediante essa «non si tratta di costruire un nuovo edificio o di gettare un nuovo ponte, ma solo di giudicare la geografia così com’è ora»46. Si distingue da quello di Quine, secondo cui la filosofia «è contenuta nella scienza naturale come un capitolo della psicologia»47. Essa studia «come noi, abitanti fisici del mondo fisico, possiamo aver progettato la nostra teoria scientifica di quell’intero mondo a partire dai nostri magri contatti con esso: dai semplici urti di raggi e particelle sulle nostre superfici» che stanno alla base dei nostri dati sensoriali, «e da alcune cose secondarie, come lo sforzo del camminare in salita»48. Apparentemente, invece, il mio punto di vista non si distingue da quello di Russell, secondo cui «la filosofia mira principalmente alla conoscenza»49. A una conoscenza che «non differisce essenzialmente dalla conoscenza scientifica», perché «non vi è alcuna speciale fonte di sapienza che sia aperta alla filosofia ma non alla scienza, e i risultati ottenuti dalla filosofia non sono radicalmente diversi da quelli ottenuti dalla scienza»50. Ma la non distinzione è solo apparente. Per Russell, infatti, «la filosofia è uno studio separato dalle altre scienze: i suoi risultati non possono essere stabiliti dalle altre scienze, e viceversa non devono essere tali che qualche altra scienza possa contraddirli»51. La conoscenza a cui essa mira è «quel tipo di conoscenza che risulta da un esame critico dei fondamenti delle nostre convinzioni, pregiudizi e credenze»52. Essa «cerca le incongruenze che possono esserci» nei «principi impiegati nella scienza e nella vita quotidiana», che «acWittgenstein 1958, I, § 124. Ivi, I, § 126. 45 Ivi, I, § 89. 46 Wittgenstein 1978, V, § 52. 47 Quine 1969, p. 83. 48 Quine 1995, p. 16. 49 Russell 1997a, p. 154. 50 Ivi, p. 149. 51 Russell 1993, p. 240. 52 Russell 1997a, p. 154. 43 44
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cetta solo quando, come risultato di un’indagine critica, non è apparsa alcuna ragione per rifiutarli»53. Da questo appare chiaro che il mio punto di vista si distingue anche da quello di Russell. 8. Priorità delle questioni riguardanti la conoscenza Una volta data una risposta affermativa alla domanda se la filosofia può ancora essere feconda e specificato quale filosofia può esserlo, nasce il compito di svilupparla. Tale compito può essere intrapreso, però, solo dopo aver trattato alcune questioni preliminari. Si tratta di questioni riguardanti la conoscenza. Che questioni riguardanti la conoscenza possano essere preliminari allo sviluppo di una filosofia feconda, dipende dal fatto che la filosofia è un’indagine sul mondo, e il mondo è il dato primario. Perciò le questioni riguardanti la conoscenza hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Gran parte di questo libro è dedicato a esse. Perciò il libro costituisce una sorta di discorso preliminare a una filosofia feconda. Le questioni riguardanti la conoscenza considerate in questo libro sono le chimere della conoscenza, lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza, la trama fine della conoscenza. 9. Le chimere della conoscenza La prima questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è le chimere della conoscenza. In esso io sostengo che la filosofia nella sua lunga storia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito alcune chimere – cioè fantasticherie o illusioni – riguardanti la conoscenza, da cui è stata deviata in direzioni che le hanno impedito di comprenderne adeguatamente il carattere, e di cui ci si deve liberare se si vuole sviluppare una filosofia feconda. Le chimere della conoscenza considerate in questo libro sono la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente. 53
Ivi, pp. 149-150.
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Il mio punto di vista si oppone a una tradizione della filosofia moderna, da Kant a Husserl e alla filosofia analitica, secondo la quale, invece, tali chimere sono il principale oggetto della filosofia. Questa tradizione vede nella verità, nell’oggettività e nella certezza il fine della filosofia, individua nell’intuizione e nella deduzione i mezzi per raggiungerlo, considera il rigore un requisito per ottenerlo, e indica nella mente il teatro in cui perseguirlo. La principale ragione per cui la filosofia ha ostinatamente inseguito tali chimere è la precarietà della vita umana, che genera angoscia. I filosofi tentano di sottrarsi a essa cercando un appiglio assolutamente sicuro, e credono di trovarlo in quelle chimere. Ma un appiglio assolutamente sicuro non esiste, ci si deve rassegnare al fatto che la vita umana è soggetta alla precarietà, tutte le costruzioni umane possono essere cancellate di colpo, come i castelli di sabbia dell’infanzia. La verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente sono solo chimere, e la fiducia in esse non è più solida di quei castelli di sabbia. 10. Lo statuto della conoscenza La seconda questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è lo statuto della conoscenza. In esso io sostengo che la principale questione rispetto alla conoscenza è: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? Cioè, qual è il ruolo della conoscenza nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi? Ciò che si richiede è una precisa analisi di tale ruolo. Questa analisi non può avere uno statuto normativo, cioè non può stabilire una volta per sempre quale debba essere il ruolo della conoscenza nella natura, può solo chiarire quale di fatto è stato finora. Il mio punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la principale questione rispetto alla conoscenza è: che cos’è la conoscenza? Per essa ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza. Tale analisi deve avere uno statuto normativo, cioè deve stabilire una volta per sempre quali caratteri debba avere la conoscenza. I filosofi sono ansiosi di attribuire un valore normativo alle loro soluzioni. Essi non ammettono che siano contingenti, pretendono che siano necessarie. Questa è un’espressione della loro angoscia di fronte alla brevità della vita umana, che impedisce loro di ricono13
cetta solo quando, come risultato di un’indagine critica, non è apparsa alcuna ragione per rifiutarli»53. Da questo appare chiaro che il mio punto di vista si distingue anche da quello di Russell. 8. Priorità delle questioni riguardanti la conoscenza Una volta data una risposta affermativa alla domanda se la filosofia può ancora essere feconda e specificato quale filosofia può esserlo, nasce il compito di svilupparla. Tale compito può essere intrapreso, però, solo dopo aver trattato alcune questioni preliminari. Si tratta di questioni riguardanti la conoscenza. Che questioni riguardanti la conoscenza possano essere preliminari allo sviluppo di una filosofia feconda, dipende dal fatto che la filosofia è un’indagine sul mondo, e il mondo è il dato primario. Perciò le questioni riguardanti la conoscenza hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Gran parte di questo libro è dedicato a esse. Perciò il libro costituisce una sorta di discorso preliminare a una filosofia feconda. Le questioni riguardanti la conoscenza considerate in questo libro sono le chimere della conoscenza, lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza, la trama fine della conoscenza. 9. Le chimere della conoscenza La prima questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è le chimere della conoscenza. In esso io sostengo che la filosofia nella sua lunga storia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito alcune chimere – cioè fantasticherie o illusioni – riguardanti la conoscenza, da cui è stata deviata in direzioni che le hanno impedito di comprenderne adeguatamente il carattere, e di cui ci si deve liberare se si vuole sviluppare una filosofia feconda. Le chimere della conoscenza considerate in questo libro sono la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente. 53
Ivi, pp. 149-150.
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Il mio punto di vista si oppone a una tradizione della filosofia moderna, da Kant a Husserl e alla filosofia analitica, secondo la quale, invece, tali chimere sono il principale oggetto della filosofia. Questa tradizione vede nella verità, nell’oggettività e nella certezza il fine della filosofia, individua nell’intuizione e nella deduzione i mezzi per raggiungerlo, considera il rigore un requisito per ottenerlo, e indica nella mente il teatro in cui perseguirlo. La principale ragione per cui la filosofia ha ostinatamente inseguito tali chimere è la precarietà della vita umana, che genera angoscia. I filosofi tentano di sottrarsi a essa cercando un appiglio assolutamente sicuro, e credono di trovarlo in quelle chimere. Ma un appiglio assolutamente sicuro non esiste, ci si deve rassegnare al fatto che la vita umana è soggetta alla precarietà, tutte le costruzioni umane possono essere cancellate di colpo, come i castelli di sabbia dell’infanzia. La verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente sono solo chimere, e la fiducia in esse non è più solida di quei castelli di sabbia. 10. Lo statuto della conoscenza La seconda questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è lo statuto della conoscenza. In esso io sostengo che la principale questione rispetto alla conoscenza è: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? Cioè, qual è il ruolo della conoscenza nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi? Ciò che si richiede è una precisa analisi di tale ruolo. Questa analisi non può avere uno statuto normativo, cioè non può stabilire una volta per sempre quale debba essere il ruolo della conoscenza nella natura, può solo chiarire quale di fatto è stato finora. Il mio punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la principale questione rispetto alla conoscenza è: che cos’è la conoscenza? Per essa ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza. Tale analisi deve avere uno statuto normativo, cioè deve stabilire una volta per sempre quali caratteri debba avere la conoscenza. I filosofi sono ansiosi di attribuire un valore normativo alle loro soluzioni. Essi non ammettono che siano contingenti, pretendono che siano necessarie. Questa è un’espressione della loro angoscia di fronte alla brevità della vita umana, che impedisce loro di ricono13
scere che le loro soluzioni sono solo ipotesi e, come tutte le ipotesi, sono destinate a essere rimpiazzate prima o poi da altre. Che la principale questione rispetto alla conoscenza sia ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, non significa che la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’ non possa essere posta, ma solo che essa è subordinata alla questione ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, fermo restando che una risposta a essa non può avere uno statuto normativo. 11. I mezzi della conoscenza La terza questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è i mezzi della conoscenza. In esso io sostengo che vi è una via razionale all’acquisizione della conoscenza, che è data dal metodo analitico. Il metodo analitico è il metodo in base al quale, per risolvere un problema, partendo da esso si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’ipotesi che è una condizione sufficiente per la sua soluzione, e si controlla se l’ipotesi è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. L’ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo. Cioè, partendo dall’ipotesi si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’altra ipotesi che è una condizione sufficiente per la soluzione del problema costituito dall’ipotesi precedente, e si controlla se essa è plausibile. E così via. Dunque la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Il mio punto di vista si oppone a una tradizione ‘romantica’ della filosofia moderna, da Kant a Frege e alla filosofia analitica, secondo la quale, invece, non esiste alcuna via razionale all’acquisizione della conoscenza, questa è il prodotto di una facoltà irrazionale che viene riassunta nella parola ‘genio’. In particolare, nell’ambito di tale tradizione, il mio punto di vista si oppone a quello di Popper, secondo cui l’ipotesi per la soluzione di un problema non può essere ottenuta dal problema mediante un’inferenza non deduttiva perché, mentre le inferenze deduttive possono essere giustificate, le inferenze non deduttive non possono essere giustificate. Come vedremo, contrariamente a quanto afferma Popper, le inferenze deduttive possono essere giustificate solo nello stesso senso in cui possono esserlo le inferenze non deduttive. 14
12. La trama fine della conoscenza La quarta questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è la trama fine della conoscenza. Nel quadro della conoscenza che viene presentato in esso sorgono vari problemi concernenti aspetti particolari della conoscenza. Tali problemi sono troppo numerosi per poter essere trattati tutti in questo libro. Ne verranno trattati solo due che, per la loro importanza, sembrano meritevoli di particolare attenzione: la spiegazione e la generalizzazione universale. Riguardo alla spiegazione, in questo libro io sostengo che il ragionamento esplicativo è dato dal metodo analitico perché questo, essendo il metodo mediante il quale si trova la soluzione di un problema, mostra la ragione della soluzione. Il mio punto di vista si oppone alle concezioni della spiegazione sviluppate nel Novecento, che non tengono conto della relazione tra la spiegazione e il processo della soluzione di problemi. In particolare si oppone a quella di Popper, secondo cui il ragionamento esplicativo è dato dal metodo assiomatico. Riguardo alla generalizzazione universale – cioè al problema di che cosa autorizzi a concludere, dal fatto che una proprietà è stata dimostrata per un oggetto individuale, che essa vale per ogni oggetto della stessa specie – in questo libro io sostengo che ciò che autorizza a farlo è principalmente il fatto che le dimostrazioni sono schemi di argomentazione, e perciò sono ripetibili. Il mio punto di vista si oppone alle soluzioni del problema della generalizzazione universale che sono state proposte nell’età moderna e contemporanea da varie parti, da Locke e Berkeley a Kant e Gentzen. 13. Coda Il libro si chiude con un’analisi di un’ulteriore questione riguardante la conoscenza, ma di tipo essenzialmente differente dalle precedenti, le relazioni tra la conoscenza e il significato della vita umana. In esso io sostengo che la vita umana non ha alcuno scopo e significato da un punto di vista esterno e superiore, ma solo da un punto di vista interno. Tale scopo e significato è, come afferma Aristotele, la felicità, la quale tuttavia, a differenza di quanto afferma Aristotele, non consiste nella conoscenza. Ma questo non significa che la conoscenza sia irrilevante per la felicità. Al contrario, in un certo senso ne è una precondizione. 15
scere che le loro soluzioni sono solo ipotesi e, come tutte le ipotesi, sono destinate a essere rimpiazzate prima o poi da altre. Che la principale questione rispetto alla conoscenza sia ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, non significa che la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’ non possa essere posta, ma solo che essa è subordinata alla questione ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, fermo restando che una risposta a essa non può avere uno statuto normativo. 11. I mezzi della conoscenza La terza questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è i mezzi della conoscenza. In esso io sostengo che vi è una via razionale all’acquisizione della conoscenza, che è data dal metodo analitico. Il metodo analitico è il metodo in base al quale, per risolvere un problema, partendo da esso si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’ipotesi che è una condizione sufficiente per la sua soluzione, e si controlla se l’ipotesi è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. L’ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo. Cioè, partendo dall’ipotesi si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’altra ipotesi che è una condizione sufficiente per la soluzione del problema costituito dall’ipotesi precedente, e si controlla se essa è plausibile. E così via. Dunque la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Il mio punto di vista si oppone a una tradizione ‘romantica’ della filosofia moderna, da Kant a Frege e alla filosofia analitica, secondo la quale, invece, non esiste alcuna via razionale all’acquisizione della conoscenza, questa è il prodotto di una facoltà irrazionale che viene riassunta nella parola ‘genio’. In particolare, nell’ambito di tale tradizione, il mio punto di vista si oppone a quello di Popper, secondo cui l’ipotesi per la soluzione di un problema non può essere ottenuta dal problema mediante un’inferenza non deduttiva perché, mentre le inferenze deduttive possono essere giustificate, le inferenze non deduttive non possono essere giustificate. Come vedremo, contrariamente a quanto afferma Popper, le inferenze deduttive possono essere giustificate solo nello stesso senso in cui possono esserlo le inferenze non deduttive. 14
12. La trama fine della conoscenza La quarta questione riguardante la conoscenza considerata in questo libro è la trama fine della conoscenza. Nel quadro della conoscenza che viene presentato in esso sorgono vari problemi concernenti aspetti particolari della conoscenza. Tali problemi sono troppo numerosi per poter essere trattati tutti in questo libro. Ne verranno trattati solo due che, per la loro importanza, sembrano meritevoli di particolare attenzione: la spiegazione e la generalizzazione universale. Riguardo alla spiegazione, in questo libro io sostengo che il ragionamento esplicativo è dato dal metodo analitico perché questo, essendo il metodo mediante il quale si trova la soluzione di un problema, mostra la ragione della soluzione. Il mio punto di vista si oppone alle concezioni della spiegazione sviluppate nel Novecento, che non tengono conto della relazione tra la spiegazione e il processo della soluzione di problemi. In particolare si oppone a quella di Popper, secondo cui il ragionamento esplicativo è dato dal metodo assiomatico. Riguardo alla generalizzazione universale – cioè al problema di che cosa autorizzi a concludere, dal fatto che una proprietà è stata dimostrata per un oggetto individuale, che essa vale per ogni oggetto della stessa specie – in questo libro io sostengo che ciò che autorizza a farlo è principalmente il fatto che le dimostrazioni sono schemi di argomentazione, e perciò sono ripetibili. Il mio punto di vista si oppone alle soluzioni del problema della generalizzazione universale che sono state proposte nell’età moderna e contemporanea da varie parti, da Locke e Berkeley a Kant e Gentzen. 13. Coda Il libro si chiude con un’analisi di un’ulteriore questione riguardante la conoscenza, ma di tipo essenzialmente differente dalle precedenti, le relazioni tra la conoscenza e il significato della vita umana. In esso io sostengo che la vita umana non ha alcuno scopo e significato da un punto di vista esterno e superiore, ma solo da un punto di vista interno. Tale scopo e significato è, come afferma Aristotele, la felicità, la quale tuttavia, a differenza di quanto afferma Aristotele, non consiste nella conoscenza. Ma questo non significa che la conoscenza sia irrilevante per la felicità. Al contrario, in un certo senso ne è una precondizione. 15
14. Di questo libro Che in questo libro si considerino questioni riguardanti la conoscenza non significa che in esso si presenti una teoria della conoscenza. Semplicemente, vi si propone un punto di vista sulla conoscenza. Questo dipende dalla natura stessa della filosofia, nella quale, quando qualcuno dichiara di voler presentare una teoria – della conoscenza, della verità, della mente, ecc. – ciò deve mettere in allarme, perché significa che sta per proporre qualcosa di molto pretenzioso ma irrimediabilmente povero di contenuto. Poiché la filosofia batte vie ancora inesplorate, essa si muove su un terreno magmatico, perciò non ha teorie da presentare ma solo punti di vista da proporre. Il luogo appropriato per le teorie è quello delle nuove scienze a cui essa dà eventualmente origine. Le questioni riguardanti la conoscenza considerate in questo libro non esauriscono tutte le questioni sulla conoscenza. Nessun libro può essere completo perché ogni indagine è un compito potenzialmente infinito, e questo libro non fa eccezione. Tuttavia le questioni considerate in esso sono essenziali per lo sviluppo di una filosofia feconda. Nel trattarle mi sono sforzato di essere il più chiaro possibile. Essere oscuri non è un pregio. Si è oscuri quando si è confusi, o quando non si ha nulla da dire, o quando ciò che si ha da dire è così poco sostenibile che si cerca di nasconderlo mediante l’oscurità. Scrivere un libro non è un piacere, il piacere sta piuttosto nello studio preparatorio. Come Descartes confidava a Mersenne, «provo assai più piacere a istruire me stesso che non a mettere per iscritto il poco che so», e «passo così dolcemente il tempo istruendo me stesso che non mi metto mai a scrivere il mio trattato se non per costrizione»54. Scrivere un libro si giustifica solo se è di qualche utilità al lettore. Mi auguro che questo libro gli suggerisca freschi pensieri sulla natura della filosofia e della conoscenza, o almeno gli offra un’occasione per riconsiderare le sue idee in merito. 54
Descartes 1996, I, p. 137.
Parte prima
La natura della filosofia
14. Di questo libro Che in questo libro si considerino questioni riguardanti la conoscenza non significa che in esso si presenti una teoria della conoscenza. Semplicemente, vi si propone un punto di vista sulla conoscenza. Questo dipende dalla natura stessa della filosofia, nella quale, quando qualcuno dichiara di voler presentare una teoria – della conoscenza, della verità, della mente, ecc. – ciò deve mettere in allarme, perché significa che sta per proporre qualcosa di molto pretenzioso ma irrimediabilmente povero di contenuto. Poiché la filosofia batte vie ancora inesplorate, essa si muove su un terreno magmatico, perciò non ha teorie da presentare ma solo punti di vista da proporre. Il luogo appropriato per le teorie è quello delle nuove scienze a cui essa dà eventualmente origine. Le questioni riguardanti la conoscenza considerate in questo libro non esauriscono tutte le questioni sulla conoscenza. Nessun libro può essere completo perché ogni indagine è un compito potenzialmente infinito, e questo libro non fa eccezione. Tuttavia le questioni considerate in esso sono essenziali per lo sviluppo di una filosofia feconda. Nel trattarle mi sono sforzato di essere il più chiaro possibile. Essere oscuri non è un pregio. Si è oscuri quando si è confusi, o quando non si ha nulla da dire, o quando ciò che si ha da dire è così poco sostenibile che si cerca di nasconderlo mediante l’oscurità. Scrivere un libro non è un piacere, il piacere sta piuttosto nello studio preparatorio. Come Descartes confidava a Mersenne, «provo assai più piacere a istruire me stesso che non a mettere per iscritto il poco che so», e «passo così dolcemente il tempo istruendo me stesso che non mi metto mai a scrivere il mio trattato se non per costrizione»54. Scrivere un libro si giustifica solo se è di qualche utilità al lettore. Mi auguro che questo libro gli suggerisca freschi pensieri sulla natura della filosofia e della conoscenza, o almeno gli offra un’occasione per riconsiderare le sue idee in merito. 54
Descartes 1996, I, p. 137.
Parte prima
La natura della filosofia
1.
La concezione euristica
1. Che cos’è la filosofia? Ogni libro di filosofia dovrebbe cominciare con il dichiarare a quale concezione della filosofia si ispira, perché questo consentirebbe al lettore di capire subito con che cosa ha a che fare. È quanto fa questo primo capitolo, elencando i caratteri che dovrebbe avere la filosofia e confrontandoli con quelli della filosofia analitica, perché questa è tuttora il tipo di filosofia più diffuso nel mondo. 2. Filosofia e mondo La filosofia è un’indagine sul mondo. Essa vuole affrontare grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, e si giustifica solo nella misura in cui lo fa. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, problemi del genere non esistono. Per esempio, Wittgenstein afferma che, «secondo la vecchia concezione, grosso modo quella dei (grandi) filosofi occidentali, vi sono due tipi di problemi in senso scientifico: i problemi essenziali, grandi, universali, e i problemi inessenziali, quasi accidentali. Secondo la nostra concezione, invece, non esistono grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza»1. La «filosofia è uno strumento utile solo contro i filosofi»2. Ma, se nella filosofia non esistono grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, se la filosofia si occupa solo di piccoli problemi 1 2
Wittgenstein 2000, p. 275. Wittgenstein 1932-33, p. 11.
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La concezione euristica
1. Che cos’è la filosofia? Ogni libro di filosofia dovrebbe cominciare con il dichiarare a quale concezione della filosofia si ispira, perché questo consentirebbe al lettore di capire subito con che cosa ha a che fare. È quanto fa questo primo capitolo, elencando i caratteri che dovrebbe avere la filosofia e confrontandoli con quelli della filosofia analitica, perché questa è tuttora il tipo di filosofia più diffuso nel mondo. 2. Filosofia e mondo La filosofia è un’indagine sul mondo. Essa vuole affrontare grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, e si giustifica solo nella misura in cui lo fa. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, problemi del genere non esistono. Per esempio, Wittgenstein afferma che, «secondo la vecchia concezione, grosso modo quella dei (grandi) filosofi occidentali, vi sono due tipi di problemi in senso scientifico: i problemi essenziali, grandi, universali, e i problemi inessenziali, quasi accidentali. Secondo la nostra concezione, invece, non esistono grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza»1. La «filosofia è uno strumento utile solo contro i filosofi»2. Ma, se nella filosofia non esistono grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, se la filosofia si occupa solo di piccoli problemi 1 2
Wittgenstein 2000, p. 275. Wittgenstein 1932-33, p. 11.
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inessenziali, se essa è uno strumento utile solo contro i filosofi, perché continuare a praticarla? Lo stesso Russell, che pure è stato uno dei padri della filosofia analitica, lamenta che, mentre «i filosofi da Talete in poi hanno cercato di capire il mondo» e, «anche quando hanno fallito, hanno fornito materiale ai loro successori e un incentivo a nuovi sforzi», la filosofia analitica «non continua questa tradizione»3. Essa sembra «aver abbandonato, senza necessità, quel serio e importante compito che la filosofia in tutte le epoche ha finora perseguito», non occupandosi «del mondo e della nostra relazione con esso, ma solo dei diversi modi in cui persone sciocche possono dire cose sciocche»4. Ma, «se questo è tutto quanto la filosofia ha da offrire, non posso pensare che sia un argomento degno di studio»5. Alcuni filosofi analitici riconoscono che la filosofia dovrebbe dare risposte a questioni profonde, di grande rilevanza per la comprensione del mondo, e che non vale nulla se non cerca di farlo. Ma poi dichiarano che non in è in grado di farlo. Per esempio, Dummett afferma che il profano «si aspetta che i filosofi diano risposte a questioni profonde di grande rilevanza per la comprensione del mondo», e «ha proprio ragione: se la filosofia non cerca di dare una risposta a tali questioni, non vale nulla»6. Il profano, però, «trova la maggior parte degli scritti dei filosofi della scuola analitica sconcertantemente lontani da questi problemi»7. Questa rimostranza è «ingiustificata», perché la filosofia «non può far altro che permetterci di conseguire una visione chiara dei concetti mediante i quali pensiamo sul mondo»8. Ma se la filosofia non è in grado di dare risposte a questioni profonde, di grande rilevanza per la comprensione del mondo, come non concluderne che essa non vale nulla, che è solo un crocevia di molte vie che non portano da nessuna parte, e che perciò «i filosofi sono già mezzi morti»?9
3. Filosofia e globalità La filosofia dà una visione globale. Essa non si limita a questioni settoriali, perciò non vi può essere una filosofia solo della matematica, o della fisica, o della biologia, ecc. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, il filosofo deve limitarsi a questioni settoriali. Per esempio, Carnap afferma che il singolo individuo non può più «erigere, in baldanzosa impresa, un’intera costruzione della filosofia», ma deve limitarsi a questioni settoriali perché, «se nel lavoro filosofico affideremo al singolo individuo solo un compito particolare, come avviene nella specializzazione scientifica», allora «si guadagna conoscenza su conoscenza in una lenta e prudente costruzione, e ognuno apporta solo ciò che può giustificare»10. Ma, limitandosi a questioni settoriali, il filosofo analitico non ha un piano complessivo, e questo lo porta a concentrarsi su questioni sempre più piccole, accreditando così il detto: alcuni sanno sempre di più su sempre di meno, fino a che sanno tutto su nulla, e questi sono i filosofi. La filosofia analitica adotta il metodo socratico delle domande e delle risposte, ma ne conserva solo la forma esteriore, non la sostanza, cioè la seria ricerca di definizioni generali. Non vi è alcuna prova che un lavoro pedante su questioni settoriali possa portare a ciò che è essenziale. Con un tale lavoro si rischia di essere, come dice Platone, «soltanto un facitore di parole, incapace di intraprendere opera alcuna»11. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, il filosofo non può limitarsi a questioni settoriali ma deve dare una visione globale. Come dice ancora Platone, «chi è capace di dare una visione globale è un filosofo, e chi non ne è capace non lo è»12. 4. Centralità delle questioni riguardanti la conoscenza Essendo un’indagine sul mondo, la filosofia mira innanzitutto alla conoscenza, perciò le questioni riguardanti la conoscenza sono cen-
Russell 1997c, p. 170. 4 Ibid. 5 Ibid. 6 Dummett 1991, p. 1. 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Williams 2001, p. 12, nota 6. 3
Carnap 1979, p. XIX. Platone, Epistulae, VII 328 c 5-6. 12 Platone, Respublica, VII 537 c 7. 10 11
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inessenziali, se essa è uno strumento utile solo contro i filosofi, perché continuare a praticarla? Lo stesso Russell, che pure è stato uno dei padri della filosofia analitica, lamenta che, mentre «i filosofi da Talete in poi hanno cercato di capire il mondo» e, «anche quando hanno fallito, hanno fornito materiale ai loro successori e un incentivo a nuovi sforzi», la filosofia analitica «non continua questa tradizione»3. Essa sembra «aver abbandonato, senza necessità, quel serio e importante compito che la filosofia in tutte le epoche ha finora perseguito», non occupandosi «del mondo e della nostra relazione con esso, ma solo dei diversi modi in cui persone sciocche possono dire cose sciocche»4. Ma, «se questo è tutto quanto la filosofia ha da offrire, non posso pensare che sia un argomento degno di studio»5. Alcuni filosofi analitici riconoscono che la filosofia dovrebbe dare risposte a questioni profonde, di grande rilevanza per la comprensione del mondo, e che non vale nulla se non cerca di farlo. Ma poi dichiarano che non in è in grado di farlo. Per esempio, Dummett afferma che il profano «si aspetta che i filosofi diano risposte a questioni profonde di grande rilevanza per la comprensione del mondo», e «ha proprio ragione: se la filosofia non cerca di dare una risposta a tali questioni, non vale nulla»6. Il profano, però, «trova la maggior parte degli scritti dei filosofi della scuola analitica sconcertantemente lontani da questi problemi»7. Questa rimostranza è «ingiustificata», perché la filosofia «non può far altro che permetterci di conseguire una visione chiara dei concetti mediante i quali pensiamo sul mondo»8. Ma se la filosofia non è in grado di dare risposte a questioni profonde, di grande rilevanza per la comprensione del mondo, come non concluderne che essa non vale nulla, che è solo un crocevia di molte vie che non portano da nessuna parte, e che perciò «i filosofi sono già mezzi morti»?9
3. Filosofia e globalità La filosofia dà una visione globale. Essa non si limita a questioni settoriali, perciò non vi può essere una filosofia solo della matematica, o della fisica, o della biologia, ecc. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, il filosofo deve limitarsi a questioni settoriali. Per esempio, Carnap afferma che il singolo individuo non può più «erigere, in baldanzosa impresa, un’intera costruzione della filosofia», ma deve limitarsi a questioni settoriali perché, «se nel lavoro filosofico affideremo al singolo individuo solo un compito particolare, come avviene nella specializzazione scientifica», allora «si guadagna conoscenza su conoscenza in una lenta e prudente costruzione, e ognuno apporta solo ciò che può giustificare»10. Ma, limitandosi a questioni settoriali, il filosofo analitico non ha un piano complessivo, e questo lo porta a concentrarsi su questioni sempre più piccole, accreditando così il detto: alcuni sanno sempre di più su sempre di meno, fino a che sanno tutto su nulla, e questi sono i filosofi. La filosofia analitica adotta il metodo socratico delle domande e delle risposte, ma ne conserva solo la forma esteriore, non la sostanza, cioè la seria ricerca di definizioni generali. Non vi è alcuna prova che un lavoro pedante su questioni settoriali possa portare a ciò che è essenziale. Con un tale lavoro si rischia di essere, come dice Platone, «soltanto un facitore di parole, incapace di intraprendere opera alcuna»11. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, il filosofo non può limitarsi a questioni settoriali ma deve dare una visione globale. Come dice ancora Platone, «chi è capace di dare una visione globale è un filosofo, e chi non ne è capace non lo è»12. 4. Centralità delle questioni riguardanti la conoscenza Essendo un’indagine sul mondo, la filosofia mira innanzitutto alla conoscenza, perciò le questioni riguardanti la conoscenza sono cen-
Russell 1997c, p. 170. 4 Ibid. 5 Ibid. 6 Dummett 1991, p. 1. 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Williams 2001, p. 12, nota 6. 3
Carnap 1979, p. XIX. Platone, Epistulae, VII 328 c 5-6. 12 Platone, Respublica, VII 537 c 7. 10 11
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trali nella filosofia e hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, le questioni riguardanti la conoscenza non sono centrali nella filosofia. Per esempio, Searle afferma che è «ragionevole che nel diciassettesimo secolo» i filosofi «prendessero l’epistemologia come l’elemento centrale di tutta l’impresa filosofica perché, mentre essi si trovavano nel mezzo di una rivoluzione scientifica, nello stesso tempo la possibilità di una conoscenza certa, oggettiva, universale sembrava problematica»13. Per tale ragione «abbiamo avuto tre secoli e mezzo in cui l’epistemologia è stata al centro della filosofia»14. Ma oggi, grazie alla «assoluta crescita della conoscenza certa, oggettiva e universale, la possibilità della conoscenza non è più una questione centrale per la filosofia», perciò i problemi epistemologici «non sono più il cuore della disciplina»15. Ma queste affermazioni sono ingiustificate, perché riducono le questioni riguardanti la conoscenza a quella della possibilità di una conoscenza certa, oggettiva, universale. Questo è proprio di una particolare concezione della conoscenza, la concezione fondazionalista che, come vedremo, è insostenibile. La sua insostenibilità significa che è infondato affermare che le questioni riguardanti la conoscenza non sono più centrali nella filosofia. Semplicemente, esse non consistono in quella della possibilità di una conoscenza certa, oggettiva e universale. 5. Continuità con le scienze La filosofia è un continuo con le scienze. La conoscenza a cui essa mira non differisce in alcun modo essenziale dalla conoscenza scientifica, e non è ristretta ad alcun campo del sapere. Perciò gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze.
Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, i metodi, gli obiettivi e i risultati della filosofia sono del tutto diversi da quelli delle scienze. A differenza delle scienze, la filosofia non ha bisogno di input dall’esperienza, richiede solo il pensiero. Per esempio, Dummett afferma che «i metodi della filosofia divergono radicalmente da quelli delle scienze, e gli obiettivi perseguiti divergono anch’essi in uguale misura»16. Anche «i risultati della filosofia hanno un carattere completamente diverso da quelli delle scienze»17. Al pari della matematica, la filosofia è «una disciplina che non fa osservazioni, non progetta esperimenti e non ha bisogno di input dall’esperienza», quindi «una disciplina cui si può attendere standosene seduti in poltrona e che richiede solo il pensiero»18. Ma se i metodi, gli obiettivi e i risultati della filosofia hanno un carattere completamente diverso da quelli delle scienze, se la filosofia non ha bisogno di input dall’esperienza e richiede solo il pensiero, come può dare un contributo alla conoscenza della realtà? E, se non lo dà, perché continuare a praticarla? Gli stessi filosofi analitici sembrano talora rendersi conto dei rischi della loro posizione, ma non ne traggono le necessarie conseguenze. Per esempio, Dennett – per il quale, come per Dummett, «la filosofia è una disciplina a priori, come la matematica», il che «dispensa i filosofi dal passare noiose ore in laboratorio o sul campo» – riconosce che «molti progetti della filosofia contemporanea sono artificiosi rompicapo di nessuna importanza durevole»19. Ma l’unica indicazione che egli dà per rendersi conto se il proprio lavoro filosofico non sia di quel genere è «vedere se si riesce a far interessare a esso persone estranee alla filosofia, o studenti brillanti»20. Ed egli stesso ammette che controlli del genere sono «non definitivi»21. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, la filosofia non è una disciplina che non ha bisogno di input dall’esperienza
Dummett 2001, p. 12. Ibid. 18 Ivi, p. 10. 19 Dennett 2006, p. 39. 20 Ivi, p. 41. 21 Ibid. 16 17
Searle 2003, p. 4. Ibid. 15 Ibid. 13 14
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trali nella filosofia e hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, le questioni riguardanti la conoscenza non sono centrali nella filosofia. Per esempio, Searle afferma che è «ragionevole che nel diciassettesimo secolo» i filosofi «prendessero l’epistemologia come l’elemento centrale di tutta l’impresa filosofica perché, mentre essi si trovavano nel mezzo di una rivoluzione scientifica, nello stesso tempo la possibilità di una conoscenza certa, oggettiva, universale sembrava problematica»13. Per tale ragione «abbiamo avuto tre secoli e mezzo in cui l’epistemologia è stata al centro della filosofia»14. Ma oggi, grazie alla «assoluta crescita della conoscenza certa, oggettiva e universale, la possibilità della conoscenza non è più una questione centrale per la filosofia», perciò i problemi epistemologici «non sono più il cuore della disciplina»15. Ma queste affermazioni sono ingiustificate, perché riducono le questioni riguardanti la conoscenza a quella della possibilità di una conoscenza certa, oggettiva, universale. Questo è proprio di una particolare concezione della conoscenza, la concezione fondazionalista che, come vedremo, è insostenibile. La sua insostenibilità significa che è infondato affermare che le questioni riguardanti la conoscenza non sono più centrali nella filosofia. Semplicemente, esse non consistono in quella della possibilità di una conoscenza certa, oggettiva e universale. 5. Continuità con le scienze La filosofia è un continuo con le scienze. La conoscenza a cui essa mira non differisce in alcun modo essenziale dalla conoscenza scientifica, e non è ristretta ad alcun campo del sapere. Perciò gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze.
Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, i metodi, gli obiettivi e i risultati della filosofia sono del tutto diversi da quelli delle scienze. A differenza delle scienze, la filosofia non ha bisogno di input dall’esperienza, richiede solo il pensiero. Per esempio, Dummett afferma che «i metodi della filosofia divergono radicalmente da quelli delle scienze, e gli obiettivi perseguiti divergono anch’essi in uguale misura»16. Anche «i risultati della filosofia hanno un carattere completamente diverso da quelli delle scienze»17. Al pari della matematica, la filosofia è «una disciplina che non fa osservazioni, non progetta esperimenti e non ha bisogno di input dall’esperienza», quindi «una disciplina cui si può attendere standosene seduti in poltrona e che richiede solo il pensiero»18. Ma se i metodi, gli obiettivi e i risultati della filosofia hanno un carattere completamente diverso da quelli delle scienze, se la filosofia non ha bisogno di input dall’esperienza e richiede solo il pensiero, come può dare un contributo alla conoscenza della realtà? E, se non lo dà, perché continuare a praticarla? Gli stessi filosofi analitici sembrano talora rendersi conto dei rischi della loro posizione, ma non ne traggono le necessarie conseguenze. Per esempio, Dennett – per il quale, come per Dummett, «la filosofia è una disciplina a priori, come la matematica», il che «dispensa i filosofi dal passare noiose ore in laboratorio o sul campo» – riconosce che «molti progetti della filosofia contemporanea sono artificiosi rompicapo di nessuna importanza durevole»19. Ma l’unica indicazione che egli dà per rendersi conto se il proprio lavoro filosofico non sia di quel genere è «vedere se si riesce a far interessare a esso persone estranee alla filosofia, o studenti brillanti»20. Ed egli stesso ammette che controlli del genere sono «non definitivi»21. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, la filosofia non è una disciplina che non ha bisogno di input dall’esperienza
Dummett 2001, p. 12. Ibid. 18 Ivi, p. 10. 19 Dennett 2006, p. 39. 20 Ivi, p. 41. 21 Ibid. 16 17
Searle 2003, p. 4. Ibid. 15 Ibid. 13 14
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e richiede solo il pensiero, e neppure la matematica lo è. Il lavoro filosofico è importante solo se affronta grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, e questi hanno bisogno di input dall’esperienza. Dummett critica l’affermazione che la filosofia sia un continuo con le scienze con l’argomento che tale affermazione è una forma di scientismo, dove «lo scientismo è la tendenza a considerare le scienze naturali come l’unica vera fonte di conoscenza»22. Questo comporta «l’abbandono dell’idea che la filosofia abbia una metodologia sua propria: se può dare un qualche contributo alla conoscenza, deve esservi continuità fra filosofia e scienze naturali»23. Così «il compito della filosofia si riduce all’aggiunta di elementi ornamentali alle teorie prodotte dagli scienziati»24. Ma dire che la filosofia è un continuo con le scienze non significa considerare le scienze naturali attualmente esistenti come l’unica vera fonte di conoscenza, né ridurre il compito della filosofia all’aggiunta di elementi ornamentali alle teorie prodotte dagli scienziati. Vi sono campi dell’esperienza che le scienze esistenti non sanno affrontare, affrontarli richiede nuovi pensieri non pensati da alcuna scienza esistente, ed è compito della filosofia pensarli. In questo senso gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze. Perciò essa ha bisogno di input dall’esperienza e non richiede solo il pensiero. Basandosi unicamente su quest’ultimo, tutt’al più si può riformulare in altri termini ciò che si sa già. Ma la filosofia deve occuparsi di ciò che ancora non si sa, altrimenti è pedanteria. 6. Uso dei risultati delle scienze La filosofia fa uso dei risultati delle scienze. Questo non è accessorio per essa, al contrario è essenziale per il suo progresso, perché essa mira principalmente alla conoscenza, e per conseguirla deve partire dalla conoscenza esistente. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, nessuna conoscenza scientifica è rilevante Dummett 2001, p. 37. Ibid. 24 Ibid.
per la filosofia. Il progresso di quest’ultima è indipendente da ogni scoperta scientifica. Per esempio, Wittgenstein afferma che «si potrebbe anche dare il nome ‘filosofia’ a ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione»25. Perciò la filosofia è indipendente da ogni scoperta scientifica, in particolare «nessuna scoperta matematica può farla progredire»26. Ma se, nell’affrontare i problemi filosofici, non si fa uso dei risultati delle scienze, si finisce per ripetere vecchi idiomi, trascurando che essi spesso si basano su una visione obsoleta del mondo. Questo non solo è riconosciuto ma addirittura è teorizzato da Wittgenstein, il quale afferma che «nella filosofia non c’è neppure bisogno di impiegare parole nuove, ma sono sufficienti le vecchie parole quotidiane del linguaggio»27. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, nell’affrontare nuovi problemi filosofici si deve far uso di tutto quello che si sa, a cominciare dai risultati delle scienze, introducendo nuovi idiomi appropriati per le questioni trattate. I vecchi idiomi si basano sul senso comune, che è una stratificazione di credenze fondate su teorie scientifiche obsolete se non semplicemente su pregiudizi. 7. Metodo della filosofia e metodo delle scienze Il metodo della filosofia è lo stesso di quello delle scienze. Questo segue dal fatto che, poiché la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze, anche il suo metodo non può essere differente. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, il metodo della filosofia è differente da quello delle scienze. Esso consiste nell’analisi delle proposizioni, che è analisi grammaticale. Perciò il metodo della filosofia è l’analisi grammaticale. Per esempio, Wittgenstein afferma che, poiché lo scopo della filosofia «è differente da quello degli scienziati», il suo «modo di proWittgenstein 1958, I, § 126. Ivi, I, § 124. 27 Wittgenstein 2000, p. 283.
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e richiede solo il pensiero, e neppure la matematica lo è. Il lavoro filosofico è importante solo se affronta grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza, e questi hanno bisogno di input dall’esperienza. Dummett critica l’affermazione che la filosofia sia un continuo con le scienze con l’argomento che tale affermazione è una forma di scientismo, dove «lo scientismo è la tendenza a considerare le scienze naturali come l’unica vera fonte di conoscenza»22. Questo comporta «l’abbandono dell’idea che la filosofia abbia una metodologia sua propria: se può dare un qualche contributo alla conoscenza, deve esservi continuità fra filosofia e scienze naturali»23. Così «il compito della filosofia si riduce all’aggiunta di elementi ornamentali alle teorie prodotte dagli scienziati»24. Ma dire che la filosofia è un continuo con le scienze non significa considerare le scienze naturali attualmente esistenti come l’unica vera fonte di conoscenza, né ridurre il compito della filosofia all’aggiunta di elementi ornamentali alle teorie prodotte dagli scienziati. Vi sono campi dell’esperienza che le scienze esistenti non sanno affrontare, affrontarli richiede nuovi pensieri non pensati da alcuna scienza esistente, ed è compito della filosofia pensarli. In questo senso gli obiettivi della filosofia non sono essenzialmente differenti da quelli delle scienze, e la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze. Perciò essa ha bisogno di input dall’esperienza e non richiede solo il pensiero. Basandosi unicamente su quest’ultimo, tutt’al più si può riformulare in altri termini ciò che si sa già. Ma la filosofia deve occuparsi di ciò che ancora non si sa, altrimenti è pedanteria. 6. Uso dei risultati delle scienze La filosofia fa uso dei risultati delle scienze. Questo non è accessorio per essa, al contrario è essenziale per il suo progresso, perché essa mira principalmente alla conoscenza, e per conseguirla deve partire dalla conoscenza esistente. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, nessuna conoscenza scientifica è rilevante Dummett 2001, p. 37. Ibid. 24 Ibid.
per la filosofia. Il progresso di quest’ultima è indipendente da ogni scoperta scientifica. Per esempio, Wittgenstein afferma che «si potrebbe anche dare il nome ‘filosofia’ a ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione»25. Perciò la filosofia è indipendente da ogni scoperta scientifica, in particolare «nessuna scoperta matematica può farla progredire»26. Ma se, nell’affrontare i problemi filosofici, non si fa uso dei risultati delle scienze, si finisce per ripetere vecchi idiomi, trascurando che essi spesso si basano su una visione obsoleta del mondo. Questo non solo è riconosciuto ma addirittura è teorizzato da Wittgenstein, il quale afferma che «nella filosofia non c’è neppure bisogno di impiegare parole nuove, ma sono sufficienti le vecchie parole quotidiane del linguaggio»27. Contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, nell’affrontare nuovi problemi filosofici si deve far uso di tutto quello che si sa, a cominciare dai risultati delle scienze, introducendo nuovi idiomi appropriati per le questioni trattate. I vecchi idiomi si basano sul senso comune, che è una stratificazione di credenze fondate su teorie scientifiche obsolete se non semplicemente su pregiudizi. 7. Metodo della filosofia e metodo delle scienze Il metodo della filosofia è lo stesso di quello delle scienze. Questo segue dal fatto che, poiché la filosofia è un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze, anche il suo metodo non può essere differente. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, il metodo della filosofia è differente da quello delle scienze. Esso consiste nell’analisi delle proposizioni, che è analisi grammaticale. Perciò il metodo della filosofia è l’analisi grammaticale. Per esempio, Wittgenstein afferma che, poiché lo scopo della filosofia «è differente da quello degli scienziati», il suo «modo di proWittgenstein 1958, I, § 126. Ivi, I, § 124. 27 Wittgenstein 2000, p. 283.
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cedere è diverso dal loro»28. Scopo della filosofia è la chiarificazione delle proposizioni mediante l’analisi, quindi il suo metodo è la «analisi delle proposizioni»29. Ora, l’analisi delle proposizioni è analisi grammaticale, perché «è analizzata logicamente in modo completo la proposizione la cui grammatica è chiarita completamente»30. Anzi, «l’essenza è espressa dalla grammatica»31. Perciò il metodo della filosofia è l’analisi grammaticale, cioè «la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali»32. Addirittura Austin afferma che il metodo della filosofia consiste nell’«usare un dizionario, va bene uno piccolo, ma va usato con cura»33. In effetti, il metodo dell’usare un dizionario è stato ampiamente adoperato non solo dalla filosofia analitica ma anche dalla filosofia ermeneutica, nella quale Heidegger e i suoi epigoni hanno cercato il senso dell’essere in un dizionario greco. Ma il metodo della filosofia non può essere l’analisi grammaticale perché la filosofia è un’indagine sul mondo, e l’analisi grammaticale è inadeguata per una tale indagine perché si basa sul senso comune, di cui si sono già sottolineati i limiti. Le domande che la filosofia pone non sono relative a usi linguistici ma sono domande sul mondo. Come osserva Kant, in quei campi, «e soprattutto in filosofia, in cui è infuriata per lungo tempo una disputa, alla sua base non vi è mai stato un problema di pure e semplici parole, ma sempre un autentico problema di cose»34. 8. Filosofia e ricerca di nuove conoscenze La filosofia cerca nuove conoscenze. Essendo un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze, cercare nuove conoscenze fa parte della sua natura più profonda.
Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non cerca nuove conoscenze, vuole solo farci comprendere meglio ciò che si sa già. Per esempio, Wittgenstein afferma che mediante la filosofia «noi non vogliamo apprendere nulla di nuovo»35. La filosofia non ha alcun effetto sulla crescita della conoscenza, «lascia tutto così com’è»36. Essa «si limita a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla»37. Ma una filosofia così intesa non ha ragione di esistere, e difatti la filosofia analitica non riesce a trovarne una. Per esempio, Dummett osserva che «la storia delle università risale a novecento anni fa» e «la filosofia è sempre stata una materia che vi è stata impartita e studiata»38. Ma oggi, per i filosofi, è una «grande fortuna che l’università, e lo stato in ultima istanza, sono disposti a finanziare la filosofia: è tutt’altro che ovvio, infatti, che l’università e lo stato sarebbero disposti a farlo se non fosse» per questo «precedente storico»39. Difatti, «quando in Occidente sorsero le prime università», la filosofia «non era nettamente distinta da quella che noi chiamiamo ‘scienza naturale’», anzi «la ricerca della verità era una singola attività»40. Allora era facile trovare una giustificazione per la filosofia. Ma nel ventesimo secolo vi è stato «l’universale accoglimento della distinzione fra scienze naturali e filosofia»41. Perciò trovare una giustificazione per la filosofia è diventato difficile. In effetti, «se le università fossero un’invenzione del ventesimo secolo, sarebbe venuto in mente a qualcuno di includere la filosofia tra le materie da insegnare e da studiare? Sembra assai dubbio»42. Riguardo alla filosofia, «qualcuno potrebbe sostenere che siamo di fronte a un anacronismo»43. Questa è la conclusione a cui porta l’assunzione che la filosofia non cerca nuove conoscenze. Wittgenstein 1958, I, § 89. Ivi, I, § 124. 37 Ivi, I, § 126. 38 Dummett 2001, p. 8. 39 Ivi, pp. 7-8. 40 Ivi, p. 8. 41 Ivi, p. 9. 42 Ivi, p. 8. 43 Ibid. 35 36
Wittgenstein 1980, p. 7. Ivi, p. 181. 30 Wittgenstein 2000, p. 282. 31 Wittgenstein 1958, I, § 371. 32 Wittgenstein 2000, p. 414. 33 Austin 1970, p. 186. 34 Kant 1900-, VIII, p. 152. 28 29
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cedere è diverso dal loro»28. Scopo della filosofia è la chiarificazione delle proposizioni mediante l’analisi, quindi il suo metodo è la «analisi delle proposizioni»29. Ora, l’analisi delle proposizioni è analisi grammaticale, perché «è analizzata logicamente in modo completo la proposizione la cui grammatica è chiarita completamente»30. Anzi, «l’essenza è espressa dalla grammatica»31. Perciò il metodo della filosofia è l’analisi grammaticale, cioè «la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali»32. Addirittura Austin afferma che il metodo della filosofia consiste nell’«usare un dizionario, va bene uno piccolo, ma va usato con cura»33. In effetti, il metodo dell’usare un dizionario è stato ampiamente adoperato non solo dalla filosofia analitica ma anche dalla filosofia ermeneutica, nella quale Heidegger e i suoi epigoni hanno cercato il senso dell’essere in un dizionario greco. Ma il metodo della filosofia non può essere l’analisi grammaticale perché la filosofia è un’indagine sul mondo, e l’analisi grammaticale è inadeguata per una tale indagine perché si basa sul senso comune, di cui si sono già sottolineati i limiti. Le domande che la filosofia pone non sono relative a usi linguistici ma sono domande sul mondo. Come osserva Kant, in quei campi, «e soprattutto in filosofia, in cui è infuriata per lungo tempo una disputa, alla sua base non vi è mai stato un problema di pure e semplici parole, ma sempre un autentico problema di cose»34. 8. Filosofia e ricerca di nuove conoscenze La filosofia cerca nuove conoscenze. Essendo un’attività che non è essenzialmente differente dalle scienze, cercare nuove conoscenze fa parte della sua natura più profonda.
Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non cerca nuove conoscenze, vuole solo farci comprendere meglio ciò che si sa già. Per esempio, Wittgenstein afferma che mediante la filosofia «noi non vogliamo apprendere nulla di nuovo»35. La filosofia non ha alcun effetto sulla crescita della conoscenza, «lascia tutto così com’è»36. Essa «si limita a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla»37. Ma una filosofia così intesa non ha ragione di esistere, e difatti la filosofia analitica non riesce a trovarne una. Per esempio, Dummett osserva che «la storia delle università risale a novecento anni fa» e «la filosofia è sempre stata una materia che vi è stata impartita e studiata»38. Ma oggi, per i filosofi, è una «grande fortuna che l’università, e lo stato in ultima istanza, sono disposti a finanziare la filosofia: è tutt’altro che ovvio, infatti, che l’università e lo stato sarebbero disposti a farlo se non fosse» per questo «precedente storico»39. Difatti, «quando in Occidente sorsero le prime università», la filosofia «non era nettamente distinta da quella che noi chiamiamo ‘scienza naturale’», anzi «la ricerca della verità era una singola attività»40. Allora era facile trovare una giustificazione per la filosofia. Ma nel ventesimo secolo vi è stato «l’universale accoglimento della distinzione fra scienze naturali e filosofia»41. Perciò trovare una giustificazione per la filosofia è diventato difficile. In effetti, «se le università fossero un’invenzione del ventesimo secolo, sarebbe venuto in mente a qualcuno di includere la filosofia tra le materie da insegnare e da studiare? Sembra assai dubbio»42. Riguardo alla filosofia, «qualcuno potrebbe sostenere che siamo di fronte a un anacronismo»43. Questa è la conclusione a cui porta l’assunzione che la filosofia non cerca nuove conoscenze. Wittgenstein 1958, I, § 89. Ivi, I, § 124. 37 Ivi, I, § 126. 38 Dummett 2001, p. 8. 39 Ivi, pp. 7-8. 40 Ivi, p. 8. 41 Ivi, p. 9. 42 Ivi, p. 8. 43 Ibid. 35 36
Wittgenstein 1980, p. 7. Ivi, p. 181. 30 Wittgenstein 2000, p. 282. 31 Wittgenstein 1958, I, § 371. 32 Wittgenstein 2000, p. 414. 33 Austin 1970, p. 186. 34 Kant 1900-, VIII, p. 152. 28 29
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Al contrario di quanto ritiene Dummett, all’università, e allo stato in ultima istanza, conviene finanziare la filosofia perché questa cerca nuove conoscenze, le cerca in campi dell’esperienza che le scienze esistenti non sanno affrontare e, quando le trova, questo produce un avanzamento delle conoscenze che può anche avere importanti ricadute pratiche. 9. Filosofia e ricerca di nuovi metodi di scoperta La filosofia cerca nuovi metodi di scoperta. Poiché cerca nuove conoscenze e, come nelle scienze, nulla assicura che le nuove conoscenze possano ottenersi con i metodi esistenti, è naturale che essa cerchi anche nuovi metodi per conseguirle. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non può cercare nuovi metodi di scoperta perché tali metodi non esistono. L’unica via per trovare nuove ipotesi è l’intuizione. Per esempio, Hempel afferma che le nuove ipotesi non possono ottenersi mediante alcun «processo di inferenza sistematica»44. A esse si può arrivare solo attraverso «congetture basate sull’immaginazione, sull’intuizione»45. A conferma di questa affermazione Hempel cita l’esempio di Kekulé che una sera, mentre sonnecchiava davanti al camino, sognò atomi danzanti in lunghe file come serpenti, finché uno dei serpenti si morse la coda formando un anello, il che gli suggerì che la struttura molecolare del benzene potesse essere rappresentata come un anello esagonale.
Secondo Hempel, l’esempio di Kekulé mostra che, per trovare una soluzione di un problema, lo scienziato si basa sull’intuizione,
solo grazie alla quale può arrivare alla «scoperta di importanti, feconde teorie nelle scienze empiriche»46. Ma l’esempio di Kekulé non mostra questo. All’epoca di Kekulé si sapeva che il comportamento di una molecola dipendeva dalla sua struttura, e le strutture già considerate per il benzene erano inadeguate. Perciò Kekulé era ben consapevole della necessità di trovare una nuova struttura, e aveva già considerato varie possibilità al riguardo. Vedere che un serpente che si mordeva la coda formava una struttura stabile gli suggerì, mediante un’inferenza analogica, l’idea che una struttura per il benzene potesse essere dello stesso tipo. Che Kekulé abbia visto un serpente che si mordeva la coda in sogno è inessenziale, avrebbe potuto benissimo vederlo in un’illustrazione, perché l’immagine dell’ouroboros – serpente che si morde la coda – risale all’antico Egitto ed è sempre stata molto diffusa. Inoltre Kekulé propose l’ipotesi che la struttura molecolare del benzene potesse essere rappresentata mediante un anello esagonale solo dopo averne valutato la plausibilità confrontandola con i dati esistenti. Perciò egli arrivò a formulare la sua ipotesi in base a un processo razionale. 10. Filosofia e nascita di nuove scienze La filosofia batte vie ancora inesplorate e in questo modo può anche dar origine a nuove scienze. Il suo maggior valore sta proprio in questo. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non batte vie ancora inesplorate, non dà origine a nuove scienze, né tanto meno il suo maggior valore sta in questo. Per esempio, Dummett afferma che «nessun filosofo direbbe che il valore della sua disciplina consiste nell’essere una matrice da cui nuove discipline possono svilupparsi»47. La filosofia è ciò che «resta quando le discipline che la filosofia ha partorito», come le scienze naturali e la psicologia, «lasciano la casa materna»48. Perciò si deve «attendere fino al diciannovesimo secolo perché abbia senso andare Ibid. Dummett 2001, p. 10. 48 Ibid. 46
Hempel 1966, p. 15. 45 Ivi, p. 17. 44
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Al contrario di quanto ritiene Dummett, all’università, e allo stato in ultima istanza, conviene finanziare la filosofia perché questa cerca nuove conoscenze, le cerca in campi dell’esperienza che le scienze esistenti non sanno affrontare e, quando le trova, questo produce un avanzamento delle conoscenze che può anche avere importanti ricadute pratiche. 9. Filosofia e ricerca di nuovi metodi di scoperta La filosofia cerca nuovi metodi di scoperta. Poiché cerca nuove conoscenze e, come nelle scienze, nulla assicura che le nuove conoscenze possano ottenersi con i metodi esistenti, è naturale che essa cerchi anche nuovi metodi per conseguirle. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non può cercare nuovi metodi di scoperta perché tali metodi non esistono. L’unica via per trovare nuove ipotesi è l’intuizione. Per esempio, Hempel afferma che le nuove ipotesi non possono ottenersi mediante alcun «processo di inferenza sistematica»44. A esse si può arrivare solo attraverso «congetture basate sull’immaginazione, sull’intuizione»45. A conferma di questa affermazione Hempel cita l’esempio di Kekulé che una sera, mentre sonnecchiava davanti al camino, sognò atomi danzanti in lunghe file come serpenti, finché uno dei serpenti si morse la coda formando un anello, il che gli suggerì che la struttura molecolare del benzene potesse essere rappresentata come un anello esagonale.
Secondo Hempel, l’esempio di Kekulé mostra che, per trovare una soluzione di un problema, lo scienziato si basa sull’intuizione,
solo grazie alla quale può arrivare alla «scoperta di importanti, feconde teorie nelle scienze empiriche»46. Ma l’esempio di Kekulé non mostra questo. All’epoca di Kekulé si sapeva che il comportamento di una molecola dipendeva dalla sua struttura, e le strutture già considerate per il benzene erano inadeguate. Perciò Kekulé era ben consapevole della necessità di trovare una nuova struttura, e aveva già considerato varie possibilità al riguardo. Vedere che un serpente che si mordeva la coda formava una struttura stabile gli suggerì, mediante un’inferenza analogica, l’idea che una struttura per il benzene potesse essere dello stesso tipo. Che Kekulé abbia visto un serpente che si mordeva la coda in sogno è inessenziale, avrebbe potuto benissimo vederlo in un’illustrazione, perché l’immagine dell’ouroboros – serpente che si morde la coda – risale all’antico Egitto ed è sempre stata molto diffusa. Inoltre Kekulé propose l’ipotesi che la struttura molecolare del benzene potesse essere rappresentata mediante un anello esagonale solo dopo averne valutato la plausibilità confrontandola con i dati esistenti. Perciò egli arrivò a formulare la sua ipotesi in base a un processo razionale. 10. Filosofia e nascita di nuove scienze La filosofia batte vie ancora inesplorate e in questo modo può anche dar origine a nuove scienze. Il suo maggior valore sta proprio in questo. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non batte vie ancora inesplorate, non dà origine a nuove scienze, né tanto meno il suo maggior valore sta in questo. Per esempio, Dummett afferma che «nessun filosofo direbbe che il valore della sua disciplina consiste nell’essere una matrice da cui nuove discipline possono svilupparsi»47. La filosofia è ciò che «resta quando le discipline che la filosofia ha partorito», come le scienze naturali e la psicologia, «lasciano la casa materna»48. Perciò si deve «attendere fino al diciannovesimo secolo perché abbia senso andare Ibid. Dummett 2001, p. 10. 48 Ibid. 46
Hempel 1966, p. 15. 45 Ivi, p. 17. 44
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alla ricerca di un problema genuinamente filosofico, in quanto distinto da problemi d’altro genere»49. Ma, contrariamente a quanto ritiene la filosofia analitica, battere vie ancora inesplorate dando eventualmente origine a nuove scienze fa parte della natura più profonda della filosofia. Questo vale non solo per il passato ma anche per l’ultimo secolo, nel quale, per esempio, le basi teoriche dell’informatica sono nate dal tentativo filosofico di Turing di analizzare il comportamento computistico degli esseri umani, la scienza cognitiva è nata dall’incontro tra la speculazione filosofica tradizionale sulla mente e l’analisi di Turing, la statistica bayesiana è nata dagli sforzi filosofici di stabilire che cos’è una credenza razionale. Ed è ragionevole attendersi che continui a valere anche per il futuro. Negandolo si priva la filosofia della sua maggior attrattiva: la capacità di muoversi su terreni ancora vaghi e indeterminati, che però, proprio per questo, possono essere suscettibili di sviluppi fecondi dando anche origine a nuove scienze.
dizione filosofica ma anche rispetto alla loro stessa storia. Ogni nuova generazione di filosofi analitici considera solo i problemi e le soluzioni che essa propone, ignorando quelli della generazione precedente. Li ignora non solo nel senso che li trascura, ma addirittura nel senso che non li conosce. Così facendo i filosofi analitici credono di comportarsi come quegli scienziati che, pur conoscendo solo la letteratura più recente, riescono a dare un contributo alla loro disciplina. Ma non è così. Quegli scienziati affrontano questioni poste dal mondo, sebbene molto circoscritte, ed, essendo molto circoscritte, in certi casi per trattarle la conoscenza della letteratura più recente può anche bastare. Invece i filosofi analitici, che conoscono solo la letteratura più recente, non affrontano questioni poste dal mondo ma solo rompicapi posti dai loro simili, la cui soluzione non ha alcuna utilità per l’indagine sul mondo.
11. Filosofia e storia della filosofia
Una soluzione definitiva dei problemi filosofici è impossibile. Le loro soluzioni sono sempre provvisorie e sono destinate prima o poi a essere superate. Il progresso esiste dappertutto, anche in filosofia. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, i problemi filosofici devono poter essere risolti una volta per sempre, ma la loro soluzione non costituisce un vero progresso. Non vi è un vero progresso in filosofia perché essa si occupa del linguaggio, che è rimasto essenzialmente lo stesso dal tempo dei Greci e perciò ci porta a fare sempre di nuovo le stesse domande. Per esempio, Wittgenstein afferma che «i problemi filosofici devono poter essere risolti davvero completamente, a differenza di tutti gli altri»52. Ma la loro soluzione non costituisce un vero progresso, perché tutto quello che la filosofia può fare è distruggere «edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»53. Perciò non vi è un vero progresso in filosofia. Chi se ne lamenta, osservando che «noi ci occupiamo ancora degli stessi problemi filosofici di cui già si occupavano i Greci»,
La filosofia fa uso dell’esperienza dei filosofi del passato. Si tratta di un’esperienza importante, di cui conviene tener conto perché può far comprendere dove portano certe idee, scongiurando il rischio di ripercorrere vie che si sono già rivelate impraticabili. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non può far uso dell’esperienza dei filosofi del passato. Per esempio, Wittgenstein afferma: «Che cosa ha a che fare con me la storia? Il mio mondo è il primo e l’unico! Io voglio riferire come io trovai il mondo. Ciò che altri nel mondo mi abbia detto sul mondo è una parte minima e senza importanza della mia esperienza del mondo»50. Ogni filosofo deve comportarsi come quel re che è «stato tirato su nella credenza che il mondo sia cominciato con lui»51. In effetti, nel formulare i problemi e nell’affrontarli, i filosofi analitici si comportano proprio come quel re, non solo rispetto alla traIvi, p. 13. Wittgenstein 1979, p. 82. 51 Wittgenstein 1969, p. 92.
12. Definitività delle soluzioni dei problemi filosofici
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Wittgenstein 2000, p. 284. Wittgenstein 1958, I, § 118.
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alla ricerca di un problema genuinamente filosofico, in quanto distinto da problemi d’altro genere»49. Ma, contrariamente a quanto ritiene la filosofia analitica, battere vie ancora inesplorate dando eventualmente origine a nuove scienze fa parte della natura più profonda della filosofia. Questo vale non solo per il passato ma anche per l’ultimo secolo, nel quale, per esempio, le basi teoriche dell’informatica sono nate dal tentativo filosofico di Turing di analizzare il comportamento computistico degli esseri umani, la scienza cognitiva è nata dall’incontro tra la speculazione filosofica tradizionale sulla mente e l’analisi di Turing, la statistica bayesiana è nata dagli sforzi filosofici di stabilire che cos’è una credenza razionale. Ed è ragionevole attendersi che continui a valere anche per il futuro. Negandolo si priva la filosofia della sua maggior attrattiva: la capacità di muoversi su terreni ancora vaghi e indeterminati, che però, proprio per questo, possono essere suscettibili di sviluppi fecondi dando anche origine a nuove scienze.
dizione filosofica ma anche rispetto alla loro stessa storia. Ogni nuova generazione di filosofi analitici considera solo i problemi e le soluzioni che essa propone, ignorando quelli della generazione precedente. Li ignora non solo nel senso che li trascura, ma addirittura nel senso che non li conosce. Così facendo i filosofi analitici credono di comportarsi come quegli scienziati che, pur conoscendo solo la letteratura più recente, riescono a dare un contributo alla loro disciplina. Ma non è così. Quegli scienziati affrontano questioni poste dal mondo, sebbene molto circoscritte, ed, essendo molto circoscritte, in certi casi per trattarle la conoscenza della letteratura più recente può anche bastare. Invece i filosofi analitici, che conoscono solo la letteratura più recente, non affrontano questioni poste dal mondo ma solo rompicapi posti dai loro simili, la cui soluzione non ha alcuna utilità per l’indagine sul mondo.
11. Filosofia e storia della filosofia
Una soluzione definitiva dei problemi filosofici è impossibile. Le loro soluzioni sono sempre provvisorie e sono destinate prima o poi a essere superate. Il progresso esiste dappertutto, anche in filosofia. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, i problemi filosofici devono poter essere risolti una volta per sempre, ma la loro soluzione non costituisce un vero progresso. Non vi è un vero progresso in filosofia perché essa si occupa del linguaggio, che è rimasto essenzialmente lo stesso dal tempo dei Greci e perciò ci porta a fare sempre di nuovo le stesse domande. Per esempio, Wittgenstein afferma che «i problemi filosofici devono poter essere risolti davvero completamente, a differenza di tutti gli altri»52. Ma la loro soluzione non costituisce un vero progresso, perché tutto quello che la filosofia può fare è distruggere «edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»53. Perciò non vi è un vero progresso in filosofia. Chi se ne lamenta, osservando che «noi ci occupiamo ancora degli stessi problemi filosofici di cui già si occupavano i Greci»,
La filosofia fa uso dell’esperienza dei filosofi del passato. Si tratta di un’esperienza importante, di cui conviene tener conto perché può far comprendere dove portano certe idee, scongiurando il rischio di ripercorrere vie che si sono già rivelate impraticabili. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia non può far uso dell’esperienza dei filosofi del passato. Per esempio, Wittgenstein afferma: «Che cosa ha a che fare con me la storia? Il mio mondo è il primo e l’unico! Io voglio riferire come io trovai il mondo. Ciò che altri nel mondo mi abbia detto sul mondo è una parte minima e senza importanza della mia esperienza del mondo»50. Ogni filosofo deve comportarsi come quel re che è «stato tirato su nella credenza che il mondo sia cominciato con lui»51. In effetti, nel formulare i problemi e nell’affrontarli, i filosofi analitici si comportano proprio come quel re, non solo rispetto alla traIvi, p. 13. Wittgenstein 1979, p. 82. 51 Wittgenstein 1969, p. 92.
12. Definitività delle soluzioni dei problemi filosofici
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Wittgenstein 2000, p. 284. Wittgenstein 1958, I, § 118.
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non capisce che è necessario che sia così, perché «il nostro linguaggio è rimasto lo stesso e ci induce sempre di nuovo alle stesse domande» e, finché rimarrà lo stesso, «gli uomini inciamperanno sempre di nuovo nelle stesse difficoltà»54. In realtà, contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, una soluzione definitiva dei problemi filosofici è impossibile perché i problemi filosofici, essendo problemi sul mondo, sono simili ai problemi scientifici, e questi non possono mai essere risolti in modo definitivo. Ogni loro soluzione si basa su ipotesi, e perciò è sempre provvisoria e destinata a essere rimpiazzata da un’altra, mano a mano che emergono nuovi dati. Anche ammettendo che il linguaggio sia rimasto essenzialmente lo stesso dal tempo dei Greci e perciò ci induca sempre di nuovo alle stesse domande, il mondo cambia continuamente, non vi sono due istanti in cui sia esattamente lo stesso. Come dice Eraclito, il sole «ogni giorno è nuovo»55. Perciò il mondo ci porta a fare sempre nuove domande. In particolare è ingiustificato credere, come fa la filosofia analitica, che si possa dare una soluzione definitiva dei problemi filosofici mediante l’analisi grammaticale. Affrontare i problemi filosofici con un mezzo così povero è come cimentarvisi a mani nude. 13. Filosofia e professionismo La filosofia non è un’attività professionale. Questo dipende dal fatto che essa non ha un campo suo specifico da indagare, né tecniche sue specifiche da applicare. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia è un’attività professionale. Per esempio, Rescher osserva che la filosofia analitica è caratterizzata da «un professionismo crescente»56. Dappertutto «la pervade un alto grado di competenza erudita e di professionismo»57. Essa «ha assunto un carattere sempre più tecnico», le sue indagini «fanno un uso sempre più esteso dell’apparato formale della semantica, Wittgenstein 2000, p. 286. Diels 1934, 22 B 6 (Eraclito). 56 Rescher 1993, p. 721. 57 Ivi, p. 723.
della logica modale», e «così via. Artiglieria sempre più pesante viene messa in campo per problemi bersaglio sempre più piccoli»58. Il professionismo crescente della filosofia analitica deriva dalla sua assunzione che la filosofia debba limitarsi a questioni settoriali. Questo ha indotto a credere che in essa sia possibile una divisione tayloristica del lavoro, e ciò ha portato a una sua crescente tecnicizzazione. Tuttavia, come riconosce Rescher, «la crescente tecnicizzazione della filosofia è stata ottenuta a scapito della più ampia accessibilità della filosofia, e anzi persino della sua accessibilità da parte dei membri della professione»59. Essa ha prodotto un nuovo tipo di scolasticismo, caratterizzato da uno stile argomentativo pedante, fatto di tediose distinzioni su questioni minute insignificanti, e incapace di dare alcun contributo all’indagine sul mondo. E ha portato a identificare l’iniziazione al lavoro filosofico con l’indottrinamento in tale stile argomentativo. Come osserva Feyerabend, secondo la filosofia analitica, coloro che vogliono diventare filosofi «devono essere istruiti a ripetere i trucchi» dei loro istruttori «in modo che in futuro possano forse essere in grado un giorno di diventare istruttori a loro volta, modificando un pochettino qua e là quei trucchi (questa viene detta ‘ricerca originale’), ed essendo altrettanto rigidi nel propagare la propria conoscenza (questa viene detta ‘coscienza professionale’)»60. Ma così non si diventa filosofi bensì solo sterili pedanti. Rifugiarsi nel professionismo è solo un modo per illudersi che si possa fare filosofia senza dover avere idee originali. In realtà una filosofia professionale è impossibile. Il filosofo non è un professionista nel senso in cui lo sono il matematico, il fisico o il biologo, perché non ha un campo suo specifico da indagare. Né è un professionista nel senso in cui lo sono il medico, l’avvocato o l’ingegnere, perché non ha tecniche sue specifiche da applicare. La sua indagine si muove su un terreno inesplorato, su cui non esiste ancora un sapere consolidato. Nel far ciò egli non ha alcuna professionalità ereditata su cui contare. Perciò egli è, e sempre rimarrà, un grande dilettante.
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Ivi, p. 731. Ibid. 60 Feyerabend 1999, p. 386.
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non capisce che è necessario che sia così, perché «il nostro linguaggio è rimasto lo stesso e ci induce sempre di nuovo alle stesse domande» e, finché rimarrà lo stesso, «gli uomini inciamperanno sempre di nuovo nelle stesse difficoltà»54. In realtà, contrariamente a quanto sostiene la filosofia analitica, una soluzione definitiva dei problemi filosofici è impossibile perché i problemi filosofici, essendo problemi sul mondo, sono simili ai problemi scientifici, e questi non possono mai essere risolti in modo definitivo. Ogni loro soluzione si basa su ipotesi, e perciò è sempre provvisoria e destinata a essere rimpiazzata da un’altra, mano a mano che emergono nuovi dati. Anche ammettendo che il linguaggio sia rimasto essenzialmente lo stesso dal tempo dei Greci e perciò ci induca sempre di nuovo alle stesse domande, il mondo cambia continuamente, non vi sono due istanti in cui sia esattamente lo stesso. Come dice Eraclito, il sole «ogni giorno è nuovo»55. Perciò il mondo ci porta a fare sempre nuove domande. In particolare è ingiustificato credere, come fa la filosofia analitica, che si possa dare una soluzione definitiva dei problemi filosofici mediante l’analisi grammaticale. Affrontare i problemi filosofici con un mezzo così povero è come cimentarvisi a mani nude. 13. Filosofia e professionismo La filosofia non è un’attività professionale. Questo dipende dal fatto che essa non ha un campo suo specifico da indagare, né tecniche sue specifiche da applicare. Questo punto di vista si oppone a quello della filosofia analitica, secondo la quale, invece, la filosofia è un’attività professionale. Per esempio, Rescher osserva che la filosofia analitica è caratterizzata da «un professionismo crescente»56. Dappertutto «la pervade un alto grado di competenza erudita e di professionismo»57. Essa «ha assunto un carattere sempre più tecnico», le sue indagini «fanno un uso sempre più esteso dell’apparato formale della semantica, Wittgenstein 2000, p. 286. Diels 1934, 22 B 6 (Eraclito). 56 Rescher 1993, p. 721. 57 Ivi, p. 723.
della logica modale», e «così via. Artiglieria sempre più pesante viene messa in campo per problemi bersaglio sempre più piccoli»58. Il professionismo crescente della filosofia analitica deriva dalla sua assunzione che la filosofia debba limitarsi a questioni settoriali. Questo ha indotto a credere che in essa sia possibile una divisione tayloristica del lavoro, e ciò ha portato a una sua crescente tecnicizzazione. Tuttavia, come riconosce Rescher, «la crescente tecnicizzazione della filosofia è stata ottenuta a scapito della più ampia accessibilità della filosofia, e anzi persino della sua accessibilità da parte dei membri della professione»59. Essa ha prodotto un nuovo tipo di scolasticismo, caratterizzato da uno stile argomentativo pedante, fatto di tediose distinzioni su questioni minute insignificanti, e incapace di dare alcun contributo all’indagine sul mondo. E ha portato a identificare l’iniziazione al lavoro filosofico con l’indottrinamento in tale stile argomentativo. Come osserva Feyerabend, secondo la filosofia analitica, coloro che vogliono diventare filosofi «devono essere istruiti a ripetere i trucchi» dei loro istruttori «in modo che in futuro possano forse essere in grado un giorno di diventare istruttori a loro volta, modificando un pochettino qua e là quei trucchi (questa viene detta ‘ricerca originale’), ed essendo altrettanto rigidi nel propagare la propria conoscenza (questa viene detta ‘coscienza professionale’)»60. Ma così non si diventa filosofi bensì solo sterili pedanti. Rifugiarsi nel professionismo è solo un modo per illudersi che si possa fare filosofia senza dover avere idee originali. In realtà una filosofia professionale è impossibile. Il filosofo non è un professionista nel senso in cui lo sono il matematico, il fisico o il biologo, perché non ha un campo suo specifico da indagare. Né è un professionista nel senso in cui lo sono il medico, l’avvocato o l’ingegnere, perché non ha tecniche sue specifiche da applicare. La sua indagine si muove su un terreno inesplorato, su cui non esiste ancora un sapere consolidato. Nel far ciò egli non ha alcuna professionalità ereditata su cui contare. Perciò egli è, e sempre rimarrà, un grande dilettante.
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Ivi, p. 731. Ibid. 60 Feyerabend 1999, p. 386.
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Ma proprio perché la filosofia si muove su un terreno inesplorato, su cui nessuna delle scienze esistenti sa dire nulla, essa è nello stesso tempo sempre esposta al rischio del fallimento ma anche capace di sorprendenti sviluppi. Come quelli grazie ai quali, battendo vie ancora inesplorate, attraverso mosse azzardate ma talora fortunate, essa ha dato origine a nuove scienze.
La concezione fondazionalista
14. La concezione euristica I caratteri elencati sopra indicano a quale concezione della filosofia si ispira questo libro. Essa può essere denominata ‘concezione euristica’, perché considera scopo della filosofia cercare nuove conoscenze e nuove procedure di scoperta. Una filosofia rispondente a tali caratteri permetterebbe di dare una risposta affermativa alla domanda posta nell’Introduzione, se la filosofia si sia dissolta nelle scienze e sia diventata ormai una disciplina puramente ornamentale o possa ancora essere feconda e quale filosofia possa esserlo. Una filosofia del genere potrebbe essere feconda perché cerca nuove conoscenze, le cerca battendo vie ancora inesplorate, e in questo modo può anche dar origine a nuove scienze. Nel corso della sua storia la filosofia lo ha fatto più volte e, a una filosofia capace di farlo, difficilmente si potrebbe negare di essere feconda.
1. La concezione giustificazionista La concezione euristica si oppone ad altri modi di concepire la filosofia dell’età moderna e contemporanea. Essi, pur essendo diversi tra loro, possono essere ricondotti sotto l’unica denominazione di ‘concezione giustificazionista’ perché considerano scopo della filosofia giustificare conoscenze già acquisite. Secondo la concezione giustificazionista, la scoperta di nuove conoscenze e la giustificazione di conoscenze già acquisite sono processi differenti, non solo logicamente ma anche temporalmente. Prima si scopre un’ipotesi per una via non logica, poi la si giustifica per una via logica. La filosofia non può occuparsi della scoperta di nuove conoscenze perché la scoperta è un processo psicologico, e perciò può essere solo oggetto della psicologia. La filosofia può solo occuparsi della giustificazione di conoscenze già acquisite, e questo è il suo compito. Per esempio, Frege afferma che di solito «accade che prima si colga il contenuto di una proposizione per una via, e poi se ne svolga la dimostrazione rigorosa per un’altra più difficile»1. Perciò «bisogna scindere le due questioni, come giungiamo al contenuto di un giudizio, e donde ricaviamo la giustificazione del nostro asserto»2. La filosofia non può occuparsi della prima questione, perché essa riguarda «come si è pervenuti a un certo convincimento», dunque riguarda «la sua causa psicologica»3. Può occuparsi solo della seconda, stabilendo quali sono le «ragioni che giustificano un convincimento»4. Frege 1961, p. 3. Ibid. 3 Frege 1969, p. 159. 4 Ibid. 1 2
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Ma proprio perché la filosofia si muove su un terreno inesplorato, su cui nessuna delle scienze esistenti sa dire nulla, essa è nello stesso tempo sempre esposta al rischio del fallimento ma anche capace di sorprendenti sviluppi. Come quelli grazie ai quali, battendo vie ancora inesplorate, attraverso mosse azzardate ma talora fortunate, essa ha dato origine a nuove scienze.
La concezione fondazionalista
14. La concezione euristica I caratteri elencati sopra indicano a quale concezione della filosofia si ispira questo libro. Essa può essere denominata ‘concezione euristica’, perché considera scopo della filosofia cercare nuove conoscenze e nuove procedure di scoperta. Una filosofia rispondente a tali caratteri permetterebbe di dare una risposta affermativa alla domanda posta nell’Introduzione, se la filosofia si sia dissolta nelle scienze e sia diventata ormai una disciplina puramente ornamentale o possa ancora essere feconda e quale filosofia possa esserlo. Una filosofia del genere potrebbe essere feconda perché cerca nuove conoscenze, le cerca battendo vie ancora inesplorate, e in questo modo può anche dar origine a nuove scienze. Nel corso della sua storia la filosofia lo ha fatto più volte e, a una filosofia capace di farlo, difficilmente si potrebbe negare di essere feconda.
1. La concezione giustificazionista La concezione euristica si oppone ad altri modi di concepire la filosofia dell’età moderna e contemporanea. Essi, pur essendo diversi tra loro, possono essere ricondotti sotto l’unica denominazione di ‘concezione giustificazionista’ perché considerano scopo della filosofia giustificare conoscenze già acquisite. Secondo la concezione giustificazionista, la scoperta di nuove conoscenze e la giustificazione di conoscenze già acquisite sono processi differenti, non solo logicamente ma anche temporalmente. Prima si scopre un’ipotesi per una via non logica, poi la si giustifica per una via logica. La filosofia non può occuparsi della scoperta di nuove conoscenze perché la scoperta è un processo psicologico, e perciò può essere solo oggetto della psicologia. La filosofia può solo occuparsi della giustificazione di conoscenze già acquisite, e questo è il suo compito. Per esempio, Frege afferma che di solito «accade che prima si colga il contenuto di una proposizione per una via, e poi se ne svolga la dimostrazione rigorosa per un’altra più difficile»1. Perciò «bisogna scindere le due questioni, come giungiamo al contenuto di un giudizio, e donde ricaviamo la giustificazione del nostro asserto»2. La filosofia non può occuparsi della prima questione, perché essa riguarda «come si è pervenuti a un certo convincimento», dunque riguarda «la sua causa psicologica»3. Può occuparsi solo della seconda, stabilendo quali sono le «ragioni che giustificano un convincimento»4. Frege 1961, p. 3. Ibid. 3 Frege 1969, p. 159. 4 Ibid. 1 2
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2. La concezione fondazionalista Ma come si giustificano conoscenze già acquisite? Nell’ambito della concezione giustificazionista a questa domanda sono state date varie risposte. Quella che ha incontrato maggior consenso è che giustificare conoscenze già acquisite consiste nel darne il fondamento. Quest’ultimo è costituito da conoscenze immediatamente giustificate, cioè giustificate senza l’uso di alcuna inferenza, dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, che quindi poggiano su di esse. Le conoscenze già acquisite possono considerarsi conoscenza solo se si può darne il fondamento. Perciò, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Questa risposta caratterizza una particolare forma della concezione giustificazionista, comunemente denominata ‘concezione fondazionalista’ perché considera scopo della filosofia dare il fondamento di conoscenze già acquisite. Essa si ispira alla metafora architettonica secondo la quale la conoscenza è un edificio le cui fondamenta sono costituite dalle conoscenze immediatamente giustificate. Tale metafora risale ad Aristotele, secondo cui «il punto di partenza per la conoscenza di una cosa» è il «principio della cosa; per esempio, le premesse sono principi delle dimostrazioni»5. Infatti, principio significa «la parte di una cosa da cui questa deriva», come per esempio, «le fondamenta in una casa»6. La concezione fondazionalista ha avuto largo seguito, da Diogene di Apollonia e Aristotele a Husserl e Russell. Per esempio, Russell afferma che nella filosofia «noi partiamo da un corpo di conoscenza comune, che costituisce i nostri dati», esaminiamo questi ultimi e troviamo che essi sono «ampiamente interdipendenti logicamente», perciò «li disponiamo in catene deduttive in cui un certo numero di proposizioni iniziali formano una garanzia logica per tutto il resto. Tali proposizioni iniziali sono le premesse del corpo di conoscenza in questione»7. Esse devono poter «essere co-
nosciute come vere senza essere dedotte da alcuna altra proposizione del corpo di proposizioni considerato»8. Una conoscenza è tale solo se può essere fondata in questo modo perché, «se deve esservi conoscenza, deve esservi conoscenza indipendente dall’inferenza», cioè capace «di stare in piedi da sola senza l’aiuto dell’inferenza»9. Da essa si deve poter «dedurre il dato corpo di proposizioni»10. Che, perché vi sia conoscenza, debbano esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, costituisce la prima assunzione della concezione fondazionalista. Da essa appare chiaro che, per la concezione fondazionalista, la conoscenza si basa sul metodo assiomatico, cioè il metodo in base al quale, per dimostrare una proposizione di una certa area, la si deduce da proposizioni primitive date, le conoscenze immediatamente giustificate. Per la concezione fondazionalista, perché vi sia conoscenza non basta però che vi siano conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, occorre anche che le conoscenze immediatamente giustificate siano indubitabili. In termini della metafora architettonica a cui si ispira tale concezione, perché l’edificio della conoscenza sia incrollabile occorre che le sue fondamenta siano assolutamente solide. Per esempio, Russell afferma che, perché vi sia conoscenza, le proposizioni iniziali devono essere proposizioni «sulla cui verità non può esserci alcun dubbio» perché, «se così non fosse, non potrebbe esserci conoscenza»11. Che, perché vi sia conoscenza, le conoscenze immediatamente giustificate debbano essere indubitabili, costituisce la seconda assunzione della concezione fondazionalista. Tale assunzione risale a Diogene di Apollonia, il quale afferma: «All’inizio di ogni discorso dimostrativo mi pare necessario partire da un principio indubitabile»12. Questa assunzione dipende dal fatto che la principale motivazioRussell 2002, p. 50. Ivi, p. 157. 10 Ivi, p. 50. 11 Ivi, p. 178. 12 Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, IX.57. 8 9
Aristotele, Metaphysica, 1, 1013 a 14-16. Ivi, 1, 1013 a 4-5. 7 Russell 1993, p. 214. 5 6
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2. La concezione fondazionalista Ma come si giustificano conoscenze già acquisite? Nell’ambito della concezione giustificazionista a questa domanda sono state date varie risposte. Quella che ha incontrato maggior consenso è che giustificare conoscenze già acquisite consiste nel darne il fondamento. Quest’ultimo è costituito da conoscenze immediatamente giustificate, cioè giustificate senza l’uso di alcuna inferenza, dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, che quindi poggiano su di esse. Le conoscenze già acquisite possono considerarsi conoscenza solo se si può darne il fondamento. Perciò, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Questa risposta caratterizza una particolare forma della concezione giustificazionista, comunemente denominata ‘concezione fondazionalista’ perché considera scopo della filosofia dare il fondamento di conoscenze già acquisite. Essa si ispira alla metafora architettonica secondo la quale la conoscenza è un edificio le cui fondamenta sono costituite dalle conoscenze immediatamente giustificate. Tale metafora risale ad Aristotele, secondo cui «il punto di partenza per la conoscenza di una cosa» è il «principio della cosa; per esempio, le premesse sono principi delle dimostrazioni»5. Infatti, principio significa «la parte di una cosa da cui questa deriva», come per esempio, «le fondamenta in una casa»6. La concezione fondazionalista ha avuto largo seguito, da Diogene di Apollonia e Aristotele a Husserl e Russell. Per esempio, Russell afferma che nella filosofia «noi partiamo da un corpo di conoscenza comune, che costituisce i nostri dati», esaminiamo questi ultimi e troviamo che essi sono «ampiamente interdipendenti logicamente», perciò «li disponiamo in catene deduttive in cui un certo numero di proposizioni iniziali formano una garanzia logica per tutto il resto. Tali proposizioni iniziali sono le premesse del corpo di conoscenza in questione»7. Esse devono poter «essere co-
nosciute come vere senza essere dedotte da alcuna altra proposizione del corpo di proposizioni considerato»8. Una conoscenza è tale solo se può essere fondata in questo modo perché, «se deve esservi conoscenza, deve esservi conoscenza indipendente dall’inferenza», cioè capace «di stare in piedi da sola senza l’aiuto dell’inferenza»9. Da essa si deve poter «dedurre il dato corpo di proposizioni»10. Che, perché vi sia conoscenza, debbano esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, costituisce la prima assunzione della concezione fondazionalista. Da essa appare chiaro che, per la concezione fondazionalista, la conoscenza si basa sul metodo assiomatico, cioè il metodo in base al quale, per dimostrare una proposizione di una certa area, la si deduce da proposizioni primitive date, le conoscenze immediatamente giustificate. Per la concezione fondazionalista, perché vi sia conoscenza non basta però che vi siano conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, occorre anche che le conoscenze immediatamente giustificate siano indubitabili. In termini della metafora architettonica a cui si ispira tale concezione, perché l’edificio della conoscenza sia incrollabile occorre che le sue fondamenta siano assolutamente solide. Per esempio, Russell afferma che, perché vi sia conoscenza, le proposizioni iniziali devono essere proposizioni «sulla cui verità non può esserci alcun dubbio» perché, «se così non fosse, non potrebbe esserci conoscenza»11. Che, perché vi sia conoscenza, le conoscenze immediatamente giustificate debbano essere indubitabili, costituisce la seconda assunzione della concezione fondazionalista. Tale assunzione risale a Diogene di Apollonia, il quale afferma: «All’inizio di ogni discorso dimostrativo mi pare necessario partire da un principio indubitabile»12. Questa assunzione dipende dal fatto che la principale motivazioRussell 2002, p. 50. Ivi, p. 157. 10 Ivi, p. 50. 11 Ivi, p. 178. 12 Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, IX.57. 8 9
Aristotele, Metaphysica, 1, 1013 a 14-16. Ivi, 1, 1013 a 4-5. 7 Russell 1993, p. 214. 5 6
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ne della concezione fondazionalista, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva, è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Ciò richiede che le conoscenze immediatamente giustificate, dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, siano indubitabili. Per esempio, Russell afferma di essere «angustiato dallo scetticismo, e costretto malvolentieri a concludere che la maggior parte di ciò che passa per conoscenza è esposto a un ragionevole dubbio»13. Perciò si chiede se vi sia «nel mondo una conoscenza così certa che nessun uomo ragionevole potrebbe dubitarne»14. Che una tale conoscenza esista è essenziale per arginare lo scetticismo, per il quale «è futile tutto il tentativo di arrivare al di là della credenza, a qualcosa di più solido e degno di essere chiamato conoscenza»15. 3. L’argomento del regresso all’infinito È adeguata la concezione fondazionalista? Per rispondere a questa domanda esaminiamo la prima assunzione di tale concezione, cioè che, perché vi sia conoscenza, debbano esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Tale assunzione si basa sull’argomento del regresso all’infinito: se non vi fossero conoscenze immediatamente giustificate, allora vi sarebbe una serie infinita di premesse; ma non può esservi una serie infinita di premesse, perché le capacità umane sono finite e perciò non consentono di percorrere serie infinite; dunque devono esserci conoscenze immediatamente giustificate. Per esempio, Russell afferma che ogni serie di conoscenze, e specificamente «ogni serie di definizioni e proposizioni, deve avere un inizio», perché «la capacità umana è finita» e perciò «quello che si conosce di una scienza non può contenere più di un numero finito di definizioni e proposizioni»16. Dunque «devono esserci termini indefiniti e proposizioni non dimostrate»17. Russell 1956, p. 53. Russell 1997a, p. 7. 15 Russell 2002, p. 159. 16 Ivi, p. 158. 17 Ibid. 13 14
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Ma l’argomento del regresso all’infinito è inadeguato. Infatti, anche ammesso che, per la finitezza delle capacità umane, si possano percorrere solo serie finite, questo non implica che la serie delle premesse non può essere infinita ma solo che, a ogni stadio, si può percorrere solo un segmento iniziale finito della serie. Tuttavia se ne possono percorrere segmenti iniziali finiti sempre più lunghi. È vero che, ammettere che la serie delle premesse possa essere infinita implica che non vi sono premesse immediatamente giustificate, nessuna conoscenza può mai essere definitiva, ogni conoscenza è sempre provvisoria e bisognosa di ulteriori approfondimenti. Ma questo non significa che non può esservi conoscenza. Non potrebbe esservi conoscenza solo se le premesse, ovvero ipotesi, che compaiono nella serie infinita fossero arbitrarie. Ma esse non sono arbitrarie, al contrario, come si è detto nell’Introduzione, devono essere plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti. Nella misura in cui sono plausibili esse danno conoscenza, sia pure conoscenza provvisoria e sempre bisognosa di ulteriori approfondimenti, perché possono sempre emergere nuovi dati. Che ricorrere all’argomento del regresso all’infinito sia inadeguato implica che la prima assunzione della concezione fondazionalista, che, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, è ingiustificata. Il processo della soluzione di problemi può consistere nella formulazione di ipotesi plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti, dove ciascuna ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo, cioè formulando un’altra ipotesi plausibile, e così via con un processo potenzialmente infinito. 4. L’appello all’intuizione Contro questo si potrebbe obiettare che, se il processo della soluzione di problemi si basa su ipotesi che sono solo plausibili, la conoscenza non si fonderà su premesse indubitabili perché le ipotesi, essendo solo plausibili, non saranno indubitabili. Ma esistono davvero premesse indubitabili? Per rispondere a questa domanda esaminiamo la seconda assunzione della concezione fondazionalista, cioè che, perché vi sia conoscenza, le conoscenze immediatamente giustificate devono essere indubitabili. 39
ne della concezione fondazionalista, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva, è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Ciò richiede che le conoscenze immediatamente giustificate, dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, siano indubitabili. Per esempio, Russell afferma di essere «angustiato dallo scetticismo, e costretto malvolentieri a concludere che la maggior parte di ciò che passa per conoscenza è esposto a un ragionevole dubbio»13. Perciò si chiede se vi sia «nel mondo una conoscenza così certa che nessun uomo ragionevole potrebbe dubitarne»14. Che una tale conoscenza esista è essenziale per arginare lo scetticismo, per il quale «è futile tutto il tentativo di arrivare al di là della credenza, a qualcosa di più solido e degno di essere chiamato conoscenza»15. 3. L’argomento del regresso all’infinito È adeguata la concezione fondazionalista? Per rispondere a questa domanda esaminiamo la prima assunzione di tale concezione, cioè che, perché vi sia conoscenza, debbano esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Tale assunzione si basa sull’argomento del regresso all’infinito: se non vi fossero conoscenze immediatamente giustificate, allora vi sarebbe una serie infinita di premesse; ma non può esservi una serie infinita di premesse, perché le capacità umane sono finite e perciò non consentono di percorrere serie infinite; dunque devono esserci conoscenze immediatamente giustificate. Per esempio, Russell afferma che ogni serie di conoscenze, e specificamente «ogni serie di definizioni e proposizioni, deve avere un inizio», perché «la capacità umana è finita» e perciò «quello che si conosce di una scienza non può contenere più di un numero finito di definizioni e proposizioni»16. Dunque «devono esserci termini indefiniti e proposizioni non dimostrate»17. Russell 1956, p. 53. Russell 1997a, p. 7. 15 Russell 2002, p. 159. 16 Ivi, p. 158. 17 Ibid. 13 14
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Ma l’argomento del regresso all’infinito è inadeguato. Infatti, anche ammesso che, per la finitezza delle capacità umane, si possano percorrere solo serie finite, questo non implica che la serie delle premesse non può essere infinita ma solo che, a ogni stadio, si può percorrere solo un segmento iniziale finito della serie. Tuttavia se ne possono percorrere segmenti iniziali finiti sempre più lunghi. È vero che, ammettere che la serie delle premesse possa essere infinita implica che non vi sono premesse immediatamente giustificate, nessuna conoscenza può mai essere definitiva, ogni conoscenza è sempre provvisoria e bisognosa di ulteriori approfondimenti. Ma questo non significa che non può esservi conoscenza. Non potrebbe esservi conoscenza solo se le premesse, ovvero ipotesi, che compaiono nella serie infinita fossero arbitrarie. Ma esse non sono arbitrarie, al contrario, come si è detto nell’Introduzione, devono essere plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti. Nella misura in cui sono plausibili esse danno conoscenza, sia pure conoscenza provvisoria e sempre bisognosa di ulteriori approfondimenti, perché possono sempre emergere nuovi dati. Che ricorrere all’argomento del regresso all’infinito sia inadeguato implica che la prima assunzione della concezione fondazionalista, che, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, è ingiustificata. Il processo della soluzione di problemi può consistere nella formulazione di ipotesi plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti, dove ciascuna ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo, cioè formulando un’altra ipotesi plausibile, e così via con un processo potenzialmente infinito. 4. L’appello all’intuizione Contro questo si potrebbe obiettare che, se il processo della soluzione di problemi si basa su ipotesi che sono solo plausibili, la conoscenza non si fonderà su premesse indubitabili perché le ipotesi, essendo solo plausibili, non saranno indubitabili. Ma esistono davvero premesse indubitabili? Per rispondere a questa domanda esaminiamo la seconda assunzione della concezione fondazionalista, cioè che, perché vi sia conoscenza, le conoscenze immediatamente giustificate devono essere indubitabili. 39
Per giustificare questa assunzione, la concezione fondazionalista vuole mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché tutte le altre conoscenze dell’area considerata possono essere dedotte dalle conoscenze immediatamente giustificate, ne seguirebbe che tutte le conoscenze di quell’area sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva. Per esempio, Russell afferma che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono «conoscenza intuitiva», cioè «conoscenza immediata di verità», e perciò sono «verità autoevidenti»18. Esse sono «autoevidenti in un senso che ne garantisce l’infallibilità»19. Tutte le altre conoscenze dell’area considerata possono essere dedotte da tali «verità autoevidenti mediante principi di deduzione autoevidenti»20. Perciò «tutta la nostra conoscenza di verità si fonda sulla nostra conoscenza intuitiva»21. Per mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva, la concezione fondazionalista segue varie vie. Una delle più significative dell’ultimo secolo è quella di Russell, secondo cui le conoscenze immediatamente giustificate sono costituite, da un lato, dalle verità generali della logica e, dall’altro, dalle verità di percezione. Entrambi questi tipi di verità sono verità intuitive e perciò sono indubitabili. Infatti, Russell afferma che le conoscenze immediatamente giustificate sono «le verità generali della logica» e «i fatti particolari del senso»22. Questi ultimi sono espressi dalle «verità di percezione», cioè da verità che sono «derivate immediatamente dalla sensazione»23. Sia le verità generali della logica sia le verità di percezione sono verità intuitive e perciò sono indubitabili, perché «quanto più riflettiamo su di esse, quanto più capiamo esattamente che cosa sono, ed esattamente che cosa realmente significhi un dubbio su di esse,
tanto più esse diventano luminosamente certe»24. Un «dubbio reale, in questi due casi, sarebbe patologico»25. Date le illusioni dei sensi, l’affermazione di Russell che un dubbio reale sulle verità di percezione sarebbe patologico può sembrare sorprendente. Ma per Russell «non esistono cose come le ‘illusioni dei sensi’. Gli oggetti dei sensi» sono «gli oggetti più indubbiamente reali a noi noti»26. Ciò «che è illusorio» nelle illusioni dei sensi «sono solo le inferenze a cui» gli oggetti dei sensi «danno luogo; in se stessi essi sono in tutto» e per tutto «reali»27. 5. La conoscenza matematica L’affermazione di Russell che tra le conoscenze immediatamente giustificate sono comprese le verità generali della logica, sta all’origine del suo programma di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate della matematica sono costituite da alcune verità generali della logica, e perciò tutte le verità matematiche «sono deducibili da un numero molto piccolo di principi logici fondamentali»28. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché le verità generali della logica sono verità intuitive e perciò sono indubitabili, ne seguirebbe che tutte le verità matematiche sono indubitabili. Nel formulare tale programma Russell segue Leibniz, secondo cui «il grande fondamento della matematica» è costituito da principi logici, e precisamente dal «principio di contraddizione, o di identità, cioè che un’asserzione non può essere vera e falsa nello stesso tempo, e perciò A è A, non può essere non A», perché «questo principio basta da solo per dimostrare tutta l’aritmetica e tutta la geometria, cioè tutti i principi matematici»29. Anche nell’assumere che alcuni principi logici siano verità intuitive e perciò indubitabili Russell segue Leibniz, secondo cui i principi logici «vengono conosciuti mediante l’intuizione», e la conoscenza intuitiva è «la più certa di cui l’umana fralezza sia capace»30. Russell 1993, p. 78. Ibid. 26 Ivi, pp. 92-93. 27 Ivi, p. 93. 28 Russell 1979, p. XV. 29 Leibniz 1965, VII, p. 355. 30 Ivi, V, pp. 342-343. 24
Russell 1997a, p. 109. 19 Ivi, p. 135. 20 Ivi, p. 109. 21 Ibid. 22 Russell 1993, p. 78. 23 Russell 1997a, p. 113. 18
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Per giustificare questa assunzione, la concezione fondazionalista vuole mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché tutte le altre conoscenze dell’area considerata possono essere dedotte dalle conoscenze immediatamente giustificate, ne seguirebbe che tutte le conoscenze di quell’area sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva. Per esempio, Russell afferma che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono «conoscenza intuitiva», cioè «conoscenza immediata di verità», e perciò sono «verità autoevidenti»18. Esse sono «autoevidenti in un senso che ne garantisce l’infallibilità»19. Tutte le altre conoscenze dell’area considerata possono essere dedotte da tali «verità autoevidenti mediante principi di deduzione autoevidenti»20. Perciò «tutta la nostra conoscenza di verità si fonda sulla nostra conoscenza intuitiva»21. Per mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili in quanto sono conoscenza intuitiva, la concezione fondazionalista segue varie vie. Una delle più significative dell’ultimo secolo è quella di Russell, secondo cui le conoscenze immediatamente giustificate sono costituite, da un lato, dalle verità generali della logica e, dall’altro, dalle verità di percezione. Entrambi questi tipi di verità sono verità intuitive e perciò sono indubitabili. Infatti, Russell afferma che le conoscenze immediatamente giustificate sono «le verità generali della logica» e «i fatti particolari del senso»22. Questi ultimi sono espressi dalle «verità di percezione», cioè da verità che sono «derivate immediatamente dalla sensazione»23. Sia le verità generali della logica sia le verità di percezione sono verità intuitive e perciò sono indubitabili, perché «quanto più riflettiamo su di esse, quanto più capiamo esattamente che cosa sono, ed esattamente che cosa realmente significhi un dubbio su di esse,
tanto più esse diventano luminosamente certe»24. Un «dubbio reale, in questi due casi, sarebbe patologico»25. Date le illusioni dei sensi, l’affermazione di Russell che un dubbio reale sulle verità di percezione sarebbe patologico può sembrare sorprendente. Ma per Russell «non esistono cose come le ‘illusioni dei sensi’. Gli oggetti dei sensi» sono «gli oggetti più indubbiamente reali a noi noti»26. Ciò «che è illusorio» nelle illusioni dei sensi «sono solo le inferenze a cui» gli oggetti dei sensi «danno luogo; in se stessi essi sono in tutto» e per tutto «reali»27. 5. La conoscenza matematica L’affermazione di Russell che tra le conoscenze immediatamente giustificate sono comprese le verità generali della logica, sta all’origine del suo programma di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate della matematica sono costituite da alcune verità generali della logica, e perciò tutte le verità matematiche «sono deducibili da un numero molto piccolo di principi logici fondamentali»28. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché le verità generali della logica sono verità intuitive e perciò sono indubitabili, ne seguirebbe che tutte le verità matematiche sono indubitabili. Nel formulare tale programma Russell segue Leibniz, secondo cui «il grande fondamento della matematica» è costituito da principi logici, e precisamente dal «principio di contraddizione, o di identità, cioè che un’asserzione non può essere vera e falsa nello stesso tempo, e perciò A è A, non può essere non A», perché «questo principio basta da solo per dimostrare tutta l’aritmetica e tutta la geometria, cioè tutti i principi matematici»29. Anche nell’assumere che alcuni principi logici siano verità intuitive e perciò indubitabili Russell segue Leibniz, secondo cui i principi logici «vengono conosciuti mediante l’intuizione», e la conoscenza intuitiva è «la più certa di cui l’umana fralezza sia capace»30. Russell 1993, p. 78. Ibid. 26 Ivi, pp. 92-93. 27 Ivi, p. 93. 28 Russell 1979, p. XV. 29 Leibniz 1965, VII, p. 355. 30 Ivi, V, pp. 342-343. 24
Russell 1997a, p. 109. 19 Ivi, p. 135. 20 Ivi, p. 109. 21 Ibid. 22 Russell 1993, p. 78. 23 Russell 1997a, p. 113. 18
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Il programma di Russell, però, non ha successo perché, per dedurre tutte le verità matematiche, egli è costretto a servirsi di principi – gli assiomi di riducibilità, dell’infinito e di scelta – che non sono principi logici. L’insuccesso non è dovuto a incapacità di Russell ma a una ragione di principio, cioè al fatto che, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, vi sono verità dell’aritmetica che non possono essere dedotte da principi logici. Di conseguenza è impossibile stabilire che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili in quanto sono deducibili da un numero molto piccolo di principi logici fondamentali. Di fronte all’insuccesso del suo programma, Russell tenta un’altra via. Egli cerca di mostrare che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili in quanto sono deducibili da principi che sono indubitabili in quanto tutte le loro conseguenze sono indubitabili. Infatti, Russell afferma che «la ragione per cui si accetta un assioma» non può stare nel fatto che esso è autoevidente, perché «vi sono cose che sono state ritenute autoevidenti e tuttavia sono risultate false»31. Deve stare, invece, nel fatto che «da esso si possono dedurre molte proposizioni che sono pressoché indubitabili, e non si conosce alcun modo altrettanto plausibile in cui queste proposizioni potrebbero essere vere se l’assioma fosse falso, e da esso non si può dedurre nulla che sia probabilmente falso»32. Invece «di credere nelle conseguenze perché sappiamo che le premesse sono vere», noi crediamo «nelle premesse perché possiamo vedere che le loro conseguenze sono vere»33. Perciò «la ragione per accettare un assioma» è «induttiva, cioè sta nel fatto che da esso si possono dedurre molte proposizioni che sono quasi indubitabili» e «non si può dedurre nulla che sia probabilmente falso»34. Ora, inferire «premesse da conseguenze è l’essenza dell’induzione. Dunque il metodo di indagine dei principi della matematica è realmente un metodo induttivo, ed è sostanzialmente identico al metodo della scoperta di leggi generali di ogni altra scienza»35. Vi è perciò una «stretta analogia tra Whitehead-Russell 1925-27, I, p. 59. Ibid. 33 Russell 1973, pp. 273-274. 34 Ivi, p. 251. 35 Ivi, p. 274.
i metodi della matematica pura e i metodi delle scienze dell’osservazione»36. Ma anche questo tentativo di Russell non ha successo, perché da un assioma falso si possono dedurre conseguenze vere. Per asserire che un assioma è vero si dovrebbe poter stabilire che tutte le sue conseguenze sono vere, ma questo in generale non è fattibile perché va al di là delle nostre capacità. Come osserva Kant, «inferire la verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze sarebbe permesso solo se tutte le sue conseguenze possibili risultassero vere»37. Ma «una procedura del genere non è fattibile, perché discernere tutte le conseguenze possibili di una proposizione qualsiasi data oltrepassa ogni nostro potere»38. Una conferma di ciò è data dal fatto che l’insieme (dei numeri di Gödel) delle conseguenze logiche degli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine non è ricorsivamente enumerabile. Dunque tale insieme non è enumerabile mediante alcuna procedura algoritmica, e perciò, a maggior ragione, mediante alcuna procedura fattibile. Pertanto, come afferma Kant, inferire la verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze non è fattibile. Inoltre, tra le conseguenze di un assioma possono essercene anche alcune altrettanto problematiche dell’assioma, per le quali perciò si ripresenterebbe il problema di come controllarne la verità. Lo stesso Russell riconosce che con il suo tentativo «non si può mai raggiungere l’infallibilità, e perciò a ogni assioma e a tutte le sue conseguenze rimarrebbe legato sempre qualche elemento di dubbio»39. Dunque il suo tentativo è inadeguato rispetto allo scopo di mostrare che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili. 6. La conoscenza del mondo esterno L’affermazione di Russell che tra le conoscenze immediatamente giustificate sono comprese le verità di percezione, sta all’origine di un altro programma di Russell, quello di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate della nostra conoscenza sul mondo
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Ivi, p. 272. Kant 1900-, III, p. 514 (B 818). 38 Ibid. 39 Whitehead-Russell 1925-27, I, p. 59. 36 37
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Il programma di Russell, però, non ha successo perché, per dedurre tutte le verità matematiche, egli è costretto a servirsi di principi – gli assiomi di riducibilità, dell’infinito e di scelta – che non sono principi logici. L’insuccesso non è dovuto a incapacità di Russell ma a una ragione di principio, cioè al fatto che, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, vi sono verità dell’aritmetica che non possono essere dedotte da principi logici. Di conseguenza è impossibile stabilire che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili in quanto sono deducibili da un numero molto piccolo di principi logici fondamentali. Di fronte all’insuccesso del suo programma, Russell tenta un’altra via. Egli cerca di mostrare che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili in quanto sono deducibili da principi che sono indubitabili in quanto tutte le loro conseguenze sono indubitabili. Infatti, Russell afferma che «la ragione per cui si accetta un assioma» non può stare nel fatto che esso è autoevidente, perché «vi sono cose che sono state ritenute autoevidenti e tuttavia sono risultate false»31. Deve stare, invece, nel fatto che «da esso si possono dedurre molte proposizioni che sono pressoché indubitabili, e non si conosce alcun modo altrettanto plausibile in cui queste proposizioni potrebbero essere vere se l’assioma fosse falso, e da esso non si può dedurre nulla che sia probabilmente falso»32. Invece «di credere nelle conseguenze perché sappiamo che le premesse sono vere», noi crediamo «nelle premesse perché possiamo vedere che le loro conseguenze sono vere»33. Perciò «la ragione per accettare un assioma» è «induttiva, cioè sta nel fatto che da esso si possono dedurre molte proposizioni che sono quasi indubitabili» e «non si può dedurre nulla che sia probabilmente falso»34. Ora, inferire «premesse da conseguenze è l’essenza dell’induzione. Dunque il metodo di indagine dei principi della matematica è realmente un metodo induttivo, ed è sostanzialmente identico al metodo della scoperta di leggi generali di ogni altra scienza»35. Vi è perciò una «stretta analogia tra Whitehead-Russell 1925-27, I, p. 59. Ibid. 33 Russell 1973, pp. 273-274. 34 Ivi, p. 251. 35 Ivi, p. 274.
i metodi della matematica pura e i metodi delle scienze dell’osservazione»36. Ma anche questo tentativo di Russell non ha successo, perché da un assioma falso si possono dedurre conseguenze vere. Per asserire che un assioma è vero si dovrebbe poter stabilire che tutte le sue conseguenze sono vere, ma questo in generale non è fattibile perché va al di là delle nostre capacità. Come osserva Kant, «inferire la verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze sarebbe permesso solo se tutte le sue conseguenze possibili risultassero vere»37. Ma «una procedura del genere non è fattibile, perché discernere tutte le conseguenze possibili di una proposizione qualsiasi data oltrepassa ogni nostro potere»38. Una conferma di ciò è data dal fatto che l’insieme (dei numeri di Gödel) delle conseguenze logiche degli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine non è ricorsivamente enumerabile. Dunque tale insieme non è enumerabile mediante alcuna procedura algoritmica, e perciò, a maggior ragione, mediante alcuna procedura fattibile. Pertanto, come afferma Kant, inferire la verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze non è fattibile. Inoltre, tra le conseguenze di un assioma possono essercene anche alcune altrettanto problematiche dell’assioma, per le quali perciò si ripresenterebbe il problema di come controllarne la verità. Lo stesso Russell riconosce che con il suo tentativo «non si può mai raggiungere l’infallibilità, e perciò a ogni assioma e a tutte le sue conseguenze rimarrebbe legato sempre qualche elemento di dubbio»39. Dunque il suo tentativo è inadeguato rispetto allo scopo di mostrare che tutte le proposizioni della matematica sono indubitabili. 6. La conoscenza del mondo esterno L’affermazione di Russell che tra le conoscenze immediatamente giustificate sono comprese le verità di percezione, sta all’origine di un altro programma di Russell, quello di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate della nostra conoscenza sul mondo
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Ivi, p. 272. Kant 1900-, III, p. 514 (B 818). 38 Ibid. 39 Whitehead-Russell 1925-27, I, p. 59. 36 37
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esterno sono costituite da verità di percezione, e perciò tutte le verità sul mondo esterno sono deducibili da verità di percezione, sebbene «non necessariamente in un senso strettamente logico»40. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché le verità di percezione sono verità intuitive e perciò indubitabili, ne seguirebbe che tutte le verità sul mondo esterno sono indubitabili. Ma anche questo tentativo di Russell non ha successo. Infatti, Russell afferma che «l’evidenza dei sensi» è «la meno soggetta a essere messa in discussione»41. Perciò, per vedere se le verità di percezione sono davvero verità, noi non abbiamo alcun mezzo più affidabile dell’evidenza dei sensi. Per esempio, se «vediamo una macchia di rosso, e giudichiamo ‘c’è una macchia di rosso’», questo è un «giudizio intuitivo di percezione»42. Dunque è una verità di percezione. Ma noi possiamo essere certi che la proposizione ‘c’è una macchia di rosso’ sia realmente una verità solo vedendo se c’è una macchia di rosso, e non abbiamo alcun mezzo più affidabile per farlo che basarci sui nostri dati sensoriali. L’unica cosa che possiamo dire è che abbiamo certi dati sensoriali, ma questo non ci garantisce che vi sia davvero una macchia di rosso. Quei dati sensoriali potrebbero essere stati prodotti in noi in un modo artificiale e ingannevole. Lo stesso Russell riconosce che «quello che i sensi ci dicono immediatamente non è la verità sull’oggetto qual esso è indipendentemente da noi, ma solo la verità su certi dati sensoriali che, per quanto possiamo vedere, dipendono dalle relazioni tra noi e l’oggetto»43. Perciò «quello che vediamo e sentiamo direttamente è solo ‘apparenza’, che noi crediamo essere il segno di qualche ‘realtà’ dietro di essa. Ma se la realtà non è ciò che appare, abbiamo qualche mezzo per sapere se una realtà esiste? E, se sì, abbiamo qualche mezzo per scoprire com’è?»44. Queste, secondo Russell, «sono domande sconcertanti», a cui la filosofia non sa dare una risposta certa, sebbene essa sappia almeno porle, mostrando «la stranezza e le sorprese che stanno appena al di sotto della superficie anche delle cose più comuni della vita quotidiana»45. Russell 1993, p. 75. Ivi, p. 74. 42 Russell 1997a, p. 114. 43 Ivi, p. 16. 44 Ibid. 45 Ibid. 40 41
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Dunque, per ammissione dello stesso Russell, i dati sensoriali non costituiscono una base adeguata per asserire che le conoscenze immediatamente giustificate della nostra conoscenza sul mondo esterno sono indubitabili. 7. Inadeguatezza della metafora architettonica L’insuccesso dei tentativi di Russell di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili è rappresentativo dell’insuccesso dell’intera concezione fondazionalista, perché anche i tentativi in tal senso fatti da altri non hanno avuto successo. La stessa metafora architettonica a cui si ispira la concezione fondazionalista – la conoscenza è un edificio le cui fondamenta sono costituite dalle conoscenze immediatamente giustificate – è inadeguata. Innanzitutto, diversamente da un edificio, la conoscenza non viene costruita in base a un piano dato dall’inizio, ma il piano viene elaborato mano a mano che le conoscenze vengono acquisite. In secondo luogo, l’acquisizione di conoscenze non consiste nella costruzione di nuovi piani dell’edificio, ma a ogni passo può richiedere ristrutturazioni dei piani già costruiti o anche la loro demolizione, cioè cambiamenti nelle conoscenze già acquisite o anche il loro abbandono. Inoltre, l’acquisizione di conoscenze può richiedere che vengano stabiliti rapporti tra edifici, cioè tra sistemi di conoscenze, che fino a quel momento erano considerati privi di relazioni. Se ne può concludere, perciò, che la concezione fondazionalista è insostenibile. 8. La concezione fondazionalista debole Di fronte all’insostenibilità della concezione fondazionalista, alcuni hanno proposto di sostituirla con una concezione più debole, che può essere denominata perciò ‘concezione fondazionalista debole’, la quale differisce dalla concezione fondazionalista in quanto ammette che le conoscenze immediatamente giustificate non sono indubitabili, hanno un certo grado di credibilità intrinseca ma non sono certe. Negli ultimi tre secoli tale concezione ha avuto vari sostenitori, da Reid allo stesso Russell e a Wittgenstein. 45
esterno sono costituite da verità di percezione, e perciò tutte le verità sul mondo esterno sono deducibili da verità di percezione, sebbene «non necessariamente in un senso strettamente logico»40. Se si riuscisse a mostrarlo, poiché le verità di percezione sono verità intuitive e perciò indubitabili, ne seguirebbe che tutte le verità sul mondo esterno sono indubitabili. Ma anche questo tentativo di Russell non ha successo. Infatti, Russell afferma che «l’evidenza dei sensi» è «la meno soggetta a essere messa in discussione»41. Perciò, per vedere se le verità di percezione sono davvero verità, noi non abbiamo alcun mezzo più affidabile dell’evidenza dei sensi. Per esempio, se «vediamo una macchia di rosso, e giudichiamo ‘c’è una macchia di rosso’», questo è un «giudizio intuitivo di percezione»42. Dunque è una verità di percezione. Ma noi possiamo essere certi che la proposizione ‘c’è una macchia di rosso’ sia realmente una verità solo vedendo se c’è una macchia di rosso, e non abbiamo alcun mezzo più affidabile per farlo che basarci sui nostri dati sensoriali. L’unica cosa che possiamo dire è che abbiamo certi dati sensoriali, ma questo non ci garantisce che vi sia davvero una macchia di rosso. Quei dati sensoriali potrebbero essere stati prodotti in noi in un modo artificiale e ingannevole. Lo stesso Russell riconosce che «quello che i sensi ci dicono immediatamente non è la verità sull’oggetto qual esso è indipendentemente da noi, ma solo la verità su certi dati sensoriali che, per quanto possiamo vedere, dipendono dalle relazioni tra noi e l’oggetto»43. Perciò «quello che vediamo e sentiamo direttamente è solo ‘apparenza’, che noi crediamo essere il segno di qualche ‘realtà’ dietro di essa. Ma se la realtà non è ciò che appare, abbiamo qualche mezzo per sapere se una realtà esiste? E, se sì, abbiamo qualche mezzo per scoprire com’è?»44. Queste, secondo Russell, «sono domande sconcertanti», a cui la filosofia non sa dare una risposta certa, sebbene essa sappia almeno porle, mostrando «la stranezza e le sorprese che stanno appena al di sotto della superficie anche delle cose più comuni della vita quotidiana»45. Russell 1993, p. 75. Ivi, p. 74. 42 Russell 1997a, p. 114. 43 Ivi, p. 16. 44 Ibid. 45 Ibid. 40 41
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Dunque, per ammissione dello stesso Russell, i dati sensoriali non costituiscono una base adeguata per asserire che le conoscenze immediatamente giustificate della nostra conoscenza sul mondo esterno sono indubitabili. 7. Inadeguatezza della metafora architettonica L’insuccesso dei tentativi di Russell di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili è rappresentativo dell’insuccesso dell’intera concezione fondazionalista, perché anche i tentativi in tal senso fatti da altri non hanno avuto successo. La stessa metafora architettonica a cui si ispira la concezione fondazionalista – la conoscenza è un edificio le cui fondamenta sono costituite dalle conoscenze immediatamente giustificate – è inadeguata. Innanzitutto, diversamente da un edificio, la conoscenza non viene costruita in base a un piano dato dall’inizio, ma il piano viene elaborato mano a mano che le conoscenze vengono acquisite. In secondo luogo, l’acquisizione di conoscenze non consiste nella costruzione di nuovi piani dell’edificio, ma a ogni passo può richiedere ristrutturazioni dei piani già costruiti o anche la loro demolizione, cioè cambiamenti nelle conoscenze già acquisite o anche il loro abbandono. Inoltre, l’acquisizione di conoscenze può richiedere che vengano stabiliti rapporti tra edifici, cioè tra sistemi di conoscenze, che fino a quel momento erano considerati privi di relazioni. Se ne può concludere, perciò, che la concezione fondazionalista è insostenibile. 8. La concezione fondazionalista debole Di fronte all’insostenibilità della concezione fondazionalista, alcuni hanno proposto di sostituirla con una concezione più debole, che può essere denominata perciò ‘concezione fondazionalista debole’, la quale differisce dalla concezione fondazionalista in quanto ammette che le conoscenze immediatamente giustificate non sono indubitabili, hanno un certo grado di credibilità intrinseca ma non sono certe. Negli ultimi tre secoli tale concezione ha avuto vari sostenitori, da Reid allo stesso Russell e a Wittgenstein. 45
Per esempio Russell, in seguito all’insuccesso dei suoi tentativi di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili, riconosce che «tutta la conoscenza è in un certo grado dubbia»46. Ciò vale quindi anche per le conoscenze immediatamente ingiustificate. Queste devono esistere, perché la conoscenza «è possibile solo se una parte di tale conoscenza è nota senza inferenza»47. Le conoscenze immediatamente ingiustificate hanno un certo grado di «credibilità intrinseca»48. Dove con questa espressione si intende «il grado di credenza dato da un uomo che è razionale»49. È la loro «credibilità intrinseca che sostiene tutto l’edificio della conoscenza»50. Tuttavia le conoscenze imediatamente giustificate non sono certe, perché «tutta la conoscenza umana è incerta, inesatta, e parziale»51. Le conoscenze immediatamente giustificate ci «sono note» solo «nel senso che noi generalizziamo in conformità a esse quando usiamo l’esperienza per persuaderci di una proposizione universale»52. Ma anche la concezione fondazionalista debole è inadeguata. Infatti, l’affermazione che le conoscenze immediatamente giustificate hanno un certo grado di credibilità intrinseca fa nascere il problema: in virtù di che cosa ce l’hanno? Se si risponde che ce l’hanno in virtù del fatto che hanno una certa proprietà, allora si può chiedere: in virtù di che cosa le conoscenze aventi quella proprietà hanno quel grado di credibilità intrinseca? Se si risponde che ce l’hanno in virtù del fatto che hanno una certa altra proprietà, allora si può chiedere: in virtù di che cosa le conoscenze aventi quella certa altra proprietà hanno quel grado di credibilità intrinseca? E così via. Questo dà luogo a un regresso all’infinito, che anche secondo la concezione fondazionalista debole è inaccettabile altrimenti non si avrebbe conoscenza. Essendo inadeguata, la concezione fondazionalista debole non costituisce una alternativa alla concezione fondazionalista. Russell 1997b, p. 527. Ivi, pp. 523-524. 48 Ivi, p. 413. 49 Ivi, p. 360. 50 Ivi, p. 413. 51 Ivi, p. 527. 52 Ivi, p. 526. 46 47
3.
L’insostenibilità del dubbio scettico
1. Il trilemma delle scuole scettiche antiche Non solo la concezione fondazionalista è insostenibile, ma la sua principale motivazione, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva – sottrarre la conoscenza al dubbio scettico – è vuota, perché i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna sono infondati. In questo capitolo esamineremo tali dubbi. Nell’antichità sono stati avanzati vari dubbi scettici. Consideriamo innanzitutto quelli avanzati da due scuole scettiche contestate da Aristotele, la prima delle quali afferma che non c’è conoscenza, mentre la seconda afferma che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa. Secondo quanto riferisce Aristotele, «ad alcuni, a causa della necessità di conoscere le premesse prime, sembra che non c’è conoscenza, ad altri sembra che c’è conoscenza ma si dà dimostrazione di qualsiasi cosa»1. La prima scuola scettica viene attribuita ad Antistene, la seconda a seguaci di Senocrate. Il carattere scettico della prima scuola è chiaro, quello della seconda deriva dal fatto che, se si può dimostrare qualsiasi cosa, si possono dimostrare anche proposizioni false. Aristotele si oppone a entrambe queste scuole scettiche affermando che «nessuna delle due è vera né cogente»2. Per comprendere le ragioni della sua opposizione esaminiamo gli argomenti delle due scuole scettiche. I sostenitori della prima scuola scettica – quella che afferma che non c’è conoscenza – dichiarano che rispetto alle premesse si danno due casi. 1 2
Aristotele, Analytica Posteriora, A 3, 72 b 5-7. Ivi, A 3, 72 b 7.
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Per esempio Russell, in seguito all’insuccesso dei suoi tentativi di mostrare che le conoscenze immediatamente giustificate sono indubitabili, riconosce che «tutta la conoscenza è in un certo grado dubbia»46. Ciò vale quindi anche per le conoscenze immediatamente ingiustificate. Queste devono esistere, perché la conoscenza «è possibile solo se una parte di tale conoscenza è nota senza inferenza»47. Le conoscenze immediatamente ingiustificate hanno un certo grado di «credibilità intrinseca»48. Dove con questa espressione si intende «il grado di credenza dato da un uomo che è razionale»49. È la loro «credibilità intrinseca che sostiene tutto l’edificio della conoscenza»50. Tuttavia le conoscenze imediatamente giustificate non sono certe, perché «tutta la conoscenza umana è incerta, inesatta, e parziale»51. Le conoscenze immediatamente giustificate ci «sono note» solo «nel senso che noi generalizziamo in conformità a esse quando usiamo l’esperienza per persuaderci di una proposizione universale»52. Ma anche la concezione fondazionalista debole è inadeguata. Infatti, l’affermazione che le conoscenze immediatamente giustificate hanno un certo grado di credibilità intrinseca fa nascere il problema: in virtù di che cosa ce l’hanno? Se si risponde che ce l’hanno in virtù del fatto che hanno una certa proprietà, allora si può chiedere: in virtù di che cosa le conoscenze aventi quella proprietà hanno quel grado di credibilità intrinseca? Se si risponde che ce l’hanno in virtù del fatto che hanno una certa altra proprietà, allora si può chiedere: in virtù di che cosa le conoscenze aventi quella certa altra proprietà hanno quel grado di credibilità intrinseca? E così via. Questo dà luogo a un regresso all’infinito, che anche secondo la concezione fondazionalista debole è inaccettabile altrimenti non si avrebbe conoscenza. Essendo inadeguata, la concezione fondazionalista debole non costituisce una alternativa alla concezione fondazionalista. Russell 1997b, p. 527. Ivi, pp. 523-524. 48 Ivi, p. 413. 49 Ivi, p. 360. 50 Ivi, p. 413. 51 Ivi, p. 527. 52 Ivi, p. 526. 46 47
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L’insostenibilità del dubbio scettico
1. Il trilemma delle scuole scettiche antiche Non solo la concezione fondazionalista è insostenibile, ma la sua principale motivazione, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva – sottrarre la conoscenza al dubbio scettico – è vuota, perché i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna sono infondati. In questo capitolo esamineremo tali dubbi. Nell’antichità sono stati avanzati vari dubbi scettici. Consideriamo innanzitutto quelli avanzati da due scuole scettiche contestate da Aristotele, la prima delle quali afferma che non c’è conoscenza, mentre la seconda afferma che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa. Secondo quanto riferisce Aristotele, «ad alcuni, a causa della necessità di conoscere le premesse prime, sembra che non c’è conoscenza, ad altri sembra che c’è conoscenza ma si dà dimostrazione di qualsiasi cosa»1. La prima scuola scettica viene attribuita ad Antistene, la seconda a seguaci di Senocrate. Il carattere scettico della prima scuola è chiaro, quello della seconda deriva dal fatto che, se si può dimostrare qualsiasi cosa, si possono dimostrare anche proposizioni false. Aristotele si oppone a entrambe queste scuole scettiche affermando che «nessuna delle due è vera né cogente»2. Per comprendere le ragioni della sua opposizione esaminiamo gli argomenti delle due scuole scettiche. I sostenitori della prima scuola scettica – quella che afferma che non c’è conoscenza – dichiarano che rispetto alle premesse si danno due casi. 1 2
Aristotele, Analytica Posteriora, A 3, 72 b 5-7. Ivi, A 3, 72 b 7.
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Il primo caso è quello in cui la serie delle premesse non termina perché nessuna delle premesse deriva da premesse prime. Si è allora «ricondotti all’infinito», cioè si ha un regresso all’infinito, «in quanto non si può conoscere ciò che viene dopo mediante ciò che viene prima se tra ciò che viene prima non vi sono premesse prime»3. Poiché si ha un regresso all’infinito, non si ha conoscenza. Il secondo caso è quello in cui la serie delle premesse «termina e vi sono premesse prime», che però «sono inconoscibili non essendovi di essi dimostrazione, ossia ciò in virtù di cui soltanto secondo loro si ha conoscenza»4. Essendo inconoscibili, le premesse prime sono solo delle ipotesi. Ora, «se non si ha conoscenza delle premesse prime, non si ha neppure conoscenza in senso assoluto e in senso proprio di ciò che segue da esse, ma quest’ultimo è conosciuto in base a un’ipotesi»5. Poiché è conosciuto solo in base a un’ipotesi, non si ha conoscenza. I sostenitori della seconda scuola scettica – quella che afferma che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa – «non vedono alcun impedimento al fatto che si possa dimostrare qualsiasi cosa. A loro parere, infatti, può accadere che la dimostrazione sia circolare e reciproca»6. Poiché la dimostrazione può essere circolare e perciò si può dimostrare qualsiasi cosa, non si ha conoscenza. Mettendo insieme gli argomenti dei sostenitori delle due scuole scettiche si arriva al seguente ‘trilemma’: 1) La serie delle premesse non termina, e perciò si ha un regresso all’infinito; 2) La serie delle premesse termina, ma termina con premesse prime che sono inconoscibili, e perciò sono solo delle ipotesi; 3) La serie delle premesse e la proposizione dimostrata formano un circolo. Poiché in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza, la conoscenza è impossibile.
2. Aristotele e le scuole scettiche antiche Anche per Aristotele in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza. Egli, infatti, afferma che, quando i sostenitori della prima scuola scettica asseriscono che nel caso 1) non si ha conoscenza, «in ciò essi sono nel giusto, perché è impossibile passare attraverso infinite cose»7. Inoltre, se la serie delle premesse «non termina ma c’è sempre qualche cosa di anteriore a ciò che si cerca, allora si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa»8. Parimenti, quando i sostenitori della prima scuola scettica asseriscono che nel caso 2) non si ha conoscenza, essi si esprimono correttamente, perché le ipotesi non sono necessariamente vere, mentre per avere conoscenza le premesse prime «devono essere vere, poiché è impossibile conoscere ciò che non è»9. E ancora, quando i sostenitori della seconda scuola scettica asseriscono che nel caso 3) non si ha conoscenza essi sono nel giusto, perché con una dimostrazione circolare non si dice «null’altro se non che, se una cosa è, allora essa è», e in questo modo «sarebbe possibile dimostrare qualsiasi cosa»10. Secondo Aristotele, però, che in nessuno dei casi 1)-3) si abbia conoscenza non significa che la conoscenza sia impossibile e che quindi il dubbio scettico debba prevalere, perché in realtà i casi 1)3) non sussistono. Infatti, conoscere è «sapere mediante dimostrazione», e la dimostrazione è «il sillogismo scientifico», cioè un sillogismo che procede «da premesse vere e prime e immediate e più note e anteriori e cause della conclusione»11. E indubitabili, perché «occorre che chi conosce qualcosa in modo assoluto possegga una convinzione incrollabile»12. E conoscibili, perché le premesse prime vengono conosciute mediante l’intuizione, in quanto «è l’intuizione che coglie i termini immutabili e primi nell’ordine delle dimostrazioni»13. Poiché le premesse prime hanno questi caratteri, esse non sono ipotesi bensì principi, perché «‘primo’ e ‘principio’ sono la stessa cosa»14. Ivi, A 3, 72 b 10-11. Ivi, A 22, 84 a 1-2. 9 Ivi, A 2, 71 b 25-26. 10 Ivi, A 3, 72 b 34-35. 11 Ivi, A 2, 71 b 17-18, 20-22. 12 Ivi, A 2, 72 b 3-4. 13 Aristotele, Ethica Nicomachea, Z 11, 1143 b 1-2. 14 Aristotele, Analytica Posteriora, A 2, 72 a 6-7. 7 8
Ivi, A 3, 72 b 8-10. Ivi, A 3, 72 b 11-13. 5 Ivi, A 3, 72 b 13-15. 6 Ivi, A 3, 72 b 16-18. 3 4
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Il primo caso è quello in cui la serie delle premesse non termina perché nessuna delle premesse deriva da premesse prime. Si è allora «ricondotti all’infinito», cioè si ha un regresso all’infinito, «in quanto non si può conoscere ciò che viene dopo mediante ciò che viene prima se tra ciò che viene prima non vi sono premesse prime»3. Poiché si ha un regresso all’infinito, non si ha conoscenza. Il secondo caso è quello in cui la serie delle premesse «termina e vi sono premesse prime», che però «sono inconoscibili non essendovi di essi dimostrazione, ossia ciò in virtù di cui soltanto secondo loro si ha conoscenza»4. Essendo inconoscibili, le premesse prime sono solo delle ipotesi. Ora, «se non si ha conoscenza delle premesse prime, non si ha neppure conoscenza in senso assoluto e in senso proprio di ciò che segue da esse, ma quest’ultimo è conosciuto in base a un’ipotesi»5. Poiché è conosciuto solo in base a un’ipotesi, non si ha conoscenza. I sostenitori della seconda scuola scettica – quella che afferma che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa – «non vedono alcun impedimento al fatto che si possa dimostrare qualsiasi cosa. A loro parere, infatti, può accadere che la dimostrazione sia circolare e reciproca»6. Poiché la dimostrazione può essere circolare e perciò si può dimostrare qualsiasi cosa, non si ha conoscenza. Mettendo insieme gli argomenti dei sostenitori delle due scuole scettiche si arriva al seguente ‘trilemma’: 1) La serie delle premesse non termina, e perciò si ha un regresso all’infinito; 2) La serie delle premesse termina, ma termina con premesse prime che sono inconoscibili, e perciò sono solo delle ipotesi; 3) La serie delle premesse e la proposizione dimostrata formano un circolo. Poiché in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza, la conoscenza è impossibile.
2. Aristotele e le scuole scettiche antiche Anche per Aristotele in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza. Egli, infatti, afferma che, quando i sostenitori della prima scuola scettica asseriscono che nel caso 1) non si ha conoscenza, «in ciò essi sono nel giusto, perché è impossibile passare attraverso infinite cose»7. Inoltre, se la serie delle premesse «non termina ma c’è sempre qualche cosa di anteriore a ciò che si cerca, allora si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa»8. Parimenti, quando i sostenitori della prima scuola scettica asseriscono che nel caso 2) non si ha conoscenza, essi si esprimono correttamente, perché le ipotesi non sono necessariamente vere, mentre per avere conoscenza le premesse prime «devono essere vere, poiché è impossibile conoscere ciò che non è»9. E ancora, quando i sostenitori della seconda scuola scettica asseriscono che nel caso 3) non si ha conoscenza essi sono nel giusto, perché con una dimostrazione circolare non si dice «null’altro se non che, se una cosa è, allora essa è», e in questo modo «sarebbe possibile dimostrare qualsiasi cosa»10. Secondo Aristotele, però, che in nessuno dei casi 1)-3) si abbia conoscenza non significa che la conoscenza sia impossibile e che quindi il dubbio scettico debba prevalere, perché in realtà i casi 1)3) non sussistono. Infatti, conoscere è «sapere mediante dimostrazione», e la dimostrazione è «il sillogismo scientifico», cioè un sillogismo che procede «da premesse vere e prime e immediate e più note e anteriori e cause della conclusione»11. E indubitabili, perché «occorre che chi conosce qualcosa in modo assoluto possegga una convinzione incrollabile»12. E conoscibili, perché le premesse prime vengono conosciute mediante l’intuizione, in quanto «è l’intuizione che coglie i termini immutabili e primi nell’ordine delle dimostrazioni»13. Poiché le premesse prime hanno questi caratteri, esse non sono ipotesi bensì principi, perché «‘primo’ e ‘principio’ sono la stessa cosa»14. Ivi, A 3, 72 b 10-11. Ivi, A 22, 84 a 1-2. 9 Ivi, A 2, 71 b 25-26. 10 Ivi, A 3, 72 b 34-35. 11 Ivi, A 2, 71 b 17-18, 20-22. 12 Ivi, A 2, 72 b 3-4. 13 Aristotele, Ethica Nicomachea, Z 11, 1143 b 1-2. 14 Aristotele, Analytica Posteriora, A 2, 72 a 6-7. 7 8
Ivi, A 3, 72 b 8-10. Ivi, A 3, 72 b 11-13. 5 Ivi, A 3, 72 b 13-15. 6 Ivi, A 3, 72 b 16-18. 3 4
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Avendo principi, la dimostrazione è possibile, e perciò tale è anche la conoscenza perché essa è sapere mediante dimostrazione. Che la conoscenza sia possibile e sia sapere mediante dimostrazione implica che i casi 1)-3) non sussistono. Il caso 1) non sussiste perché le premesse prime sono premesse a cui nessun’altra è anteriore, dunque la serie delle premesse termina, perciò non si ha un regresso all’infinito. Il caso 2) non sussiste perché le premesse prime non sono mere ipotesi ma sono conoscibili e sono vere. Il caso 3) non sussiste perché le premesse prime sono premesse a cui nessun’altra è anteriore, perciò la serie delle premesse e la proposizione dimostrata non possono formare un circolo. Poiché i casi 1)-3) non sussistono, Aristotele ne conclude che la conoscenza è possibile e perciò il dubbio scettico non può prevalere. In definitiva, quindi, per Aristotele la soluzione del dubbio scettico deve essere data dalla concezione fondazionalista. Secondo lui, infatti, la conoscenza procede da premesse prime. Ciò significa che vi sono conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Ma questa è la prima assunzione della concezione fondazionalista. Inoltre, la conoscenza procede da premesse indubitabili. E questa è la seconda assunzione della concezione fondazionalista. È fondata l’opinione di Aristotele che la soluzione del dubbio scettico debba essere data dalla concezione fondazionalista? La risposta è negativa, perché dire che in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza è ingiustificato. Infatti, è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 2), perché in tale caso la conoscenza si costituisce in base a un’ipotesi intesa come qualcosa di inconoscibile, di cui perciò non si conosce alcuna giustificazione. Parimenti, è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 3), perché in tale caso la conoscenza si costituisce in base a un’ipotesi arbitraria, che quindi non ha altra giustificazione che se stessa. Ma non è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 1). Per sostenere che non si ha conoscenza nel caso 1) Aristotele usa, come abbiamo visto, due argomenti. Il primo argomento è quello del regresso all’infinito, in base al quale non si può avere una serie infinita di premesse altrimenti non si avrebbe conoscenza, perché non si può percorrere una serie infi-
nita. Ma, come abbiamo visto nel capitolo precedente, tale argomento è inadeguato. Il secondo argomento è che non si può avere una serie infinita di premesse altrimenti si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa. Ma anche questo argomento è inadeguato, perché le ipotesi che si assumono come base della conoscenza non sono arbitrarie ma devono essere plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti, e perciò per mezzo di esse non si può dimostrare qualsiasi cosa. Che i due argomenti mediante i quali Aristotele cerca di dimostrare che nel caso 1) non si ha conoscenza siano inadeguati implica che l’opinione di Aristotele che la soluzione del dubbio scettico debba essere data dalla concezione fondazionalista non ha fondamento. Implica anche che la posizione della prima scuola scettica è ingiustificata. Infatti, tale scuola assume, a ragione secondo Aristotele, che se si ha un regresso all’infinito non si ha conoscenza. Ma, poiché i due argomenti di Aristotele sono inadeguati, questa assunzione è ingiustificata.
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3. Carattere autoconfutatorio delle scuole scettiche antiche Ma, anche a prescindere dal fatto che i due argomenti mediante i quali Aristotele cerca di dimostrare che nel caso 1) non si ha conoscenza sono inadeguati, la posizione della prima scuola scettica è insostenibile perché l’affermazione che non c’è conoscenza è autoconfutatoria. Infatti, affermando che non c’è conoscenza, la prima scuola scettica suppone di avere conoscenza del fatto che non c’è conoscenza, e questo contraddice l’affermazione che non c’è conoscenza. Parimenti, la posizione della seconda scuola scettica è insostenibile perché l’affermazione che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa è anch’essa autoconfutatoria. Infatti, se si può dimostrare qualsiasi cosa, si può anche dimostrare che non c’è conoscenza, e questo contraddice l’affermazione che c’è conoscenza. Né, per evitare il carattere autoconfutatorio dell’affermazione che non c’è conoscenza, si può sostituirla con quella che non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza – il socratico sapere di non sapere. Infatti, se non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza, allora l’affermazione ‘Non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza’, non è conoscenza.
Avendo principi, la dimostrazione è possibile, e perciò tale è anche la conoscenza perché essa è sapere mediante dimostrazione. Che la conoscenza sia possibile e sia sapere mediante dimostrazione implica che i casi 1)-3) non sussistono. Il caso 1) non sussiste perché le premesse prime sono premesse a cui nessun’altra è anteriore, dunque la serie delle premesse termina, perciò non si ha un regresso all’infinito. Il caso 2) non sussiste perché le premesse prime non sono mere ipotesi ma sono conoscibili e sono vere. Il caso 3) non sussiste perché le premesse prime sono premesse a cui nessun’altra è anteriore, perciò la serie delle premesse e la proposizione dimostrata non possono formare un circolo. Poiché i casi 1)-3) non sussistono, Aristotele ne conclude che la conoscenza è possibile e perciò il dubbio scettico non può prevalere. In definitiva, quindi, per Aristotele la soluzione del dubbio scettico deve essere data dalla concezione fondazionalista. Secondo lui, infatti, la conoscenza procede da premesse prime. Ciò significa che vi sono conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possono dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata. Ma questa è la prima assunzione della concezione fondazionalista. Inoltre, la conoscenza procede da premesse indubitabili. E questa è la seconda assunzione della concezione fondazionalista. È fondata l’opinione di Aristotele che la soluzione del dubbio scettico debba essere data dalla concezione fondazionalista? La risposta è negativa, perché dire che in nessuno dei casi 1)-3) si ha conoscenza è ingiustificato. Infatti, è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 2), perché in tale caso la conoscenza si costituisce in base a un’ipotesi intesa come qualcosa di inconoscibile, di cui perciò non si conosce alcuna giustificazione. Parimenti, è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 3), perché in tale caso la conoscenza si costituisce in base a un’ipotesi arbitraria, che quindi non ha altra giustificazione che se stessa. Ma non è ragionevole affermare che non si ha conoscenza nel caso 1). Per sostenere che non si ha conoscenza nel caso 1) Aristotele usa, come abbiamo visto, due argomenti. Il primo argomento è quello del regresso all’infinito, in base al quale non si può avere una serie infinita di premesse altrimenti non si avrebbe conoscenza, perché non si può percorrere una serie infi-
nita. Ma, come abbiamo visto nel capitolo precedente, tale argomento è inadeguato. Il secondo argomento è che non si può avere una serie infinita di premesse altrimenti si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa. Ma anche questo argomento è inadeguato, perché le ipotesi che si assumono come base della conoscenza non sono arbitrarie ma devono essere plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti, e perciò per mezzo di esse non si può dimostrare qualsiasi cosa. Che i due argomenti mediante i quali Aristotele cerca di dimostrare che nel caso 1) non si ha conoscenza siano inadeguati implica che l’opinione di Aristotele che la soluzione del dubbio scettico debba essere data dalla concezione fondazionalista non ha fondamento. Implica anche che la posizione della prima scuola scettica è ingiustificata. Infatti, tale scuola assume, a ragione secondo Aristotele, che se si ha un regresso all’infinito non si ha conoscenza. Ma, poiché i due argomenti di Aristotele sono inadeguati, questa assunzione è ingiustificata.
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3. Carattere autoconfutatorio delle scuole scettiche antiche Ma, anche a prescindere dal fatto che i due argomenti mediante i quali Aristotele cerca di dimostrare che nel caso 1) non si ha conoscenza sono inadeguati, la posizione della prima scuola scettica è insostenibile perché l’affermazione che non c’è conoscenza è autoconfutatoria. Infatti, affermando che non c’è conoscenza, la prima scuola scettica suppone di avere conoscenza del fatto che non c’è conoscenza, e questo contraddice l’affermazione che non c’è conoscenza. Parimenti, la posizione della seconda scuola scettica è insostenibile perché l’affermazione che c’è conoscenza ma si può dimostrare qualsiasi cosa è anch’essa autoconfutatoria. Infatti, se si può dimostrare qualsiasi cosa, si può anche dimostrare che non c’è conoscenza, e questo contraddice l’affermazione che c’è conoscenza. Né, per evitare il carattere autoconfutatorio dell’affermazione che non c’è conoscenza, si può sostituirla con quella che non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza – il socratico sapere di non sapere. Infatti, se non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza, allora l’affermazione ‘Non c’è conoscenza tranne che del fatto che non c’è conoscenza’, non è conoscenza.
4. L’argomento scettico di Sesto Empirico Oltre ai dubbi scettici avanzati dalle due scuole contestate da Aristotele, nell’antichità ne sono stati avanzati anche altri. Un altro dubbio scettico è quello avanzato da Sesto Empirico, secondo cui, per ogni asserzione, ve n’è un’altra opposta ma equipollente, nel senso che vi sono argomenti egualmente convincenti a favore dell’asserzione e della sua opposta. Perciò, riguardo a ogni asserzione, non possiamo far altro che sospendere il giudizio. Infatti, Sesto Empirico afferma che «lo scetticismo è una capacità di stabilire opposizioni» tra fatti e ragioni, in virtù della quale, «in seguito all’equipollenza dei fatti e delle ragioni opposte, arriviamo alla sospensione del giudizio»15. Qui «per ‘equipollenza’ intendiamo l’eguaglianza rispetto all’essere convincente o non convincente, in modo che nessuna delle due ragioni contrastanti venga preferita all’altra come più convincente»; inoltre, «per ‘ragioni opposte’ non intendiamo necessariamente l’affermazione e la negazione ma semplicemente ragioni contrastanti»; infine, per ‘sospensione del giudizio’ intendiamo «un atteggiamento della mente per cui non rifiutiamo né accettiamo nulla»16. La posizione di Sesto Empirico non è manifestamente insostenibile. Infatti, egli afferma che, dicendo che per ogni asserzione ve n’è un’altra opposta ma equipollente, non intende sostenere che questo debba valere per tutti, il che sarebbe autoconfutatorio, semplicemente «esprime ciò che appare a lui, e annuncia il proprio sentire in modo non dogmatico»17. Ma, che la posizione di Sesto Empirico non sia manifestamente insostenibile, non significa che essa sia sostenibile. In realtà non lo è. Questo può essere visto nel modo seguente. Sesto Empirico afferma che, «quando qualcuno ci propone un argomento che non sappiamo confutare», noi scettici gli diciamo: «È possibile che in realtà vi sia in natura un argomento opposto a quello che tu hai appena proposto, sebbene esso non appaia ancora a noi; perciò noi non dobbiamo ancora assentire a quello che sembra ora un argomento valido»18. Inoltre, come ogni altro argomento, l’argoSesto Empirico, Pyrrhoniae Hypotyposes, I, 8. Ivi, I, 10 17 Ivi, I, 15. 18 Ivi, I, 33-34.
mento che tu hai proposto deduce una conclusione da certe premesse, poi deduce tali premesse da altre premesse, e così via, quindi contiene una serie di premesse. Si hanno allora i seguenti tre ‘modi’, ossia casi: 1) «Il modo per cui si cade in un regresso all’infinito», in base al quale «ciò che viene addotto come prova della cosa proposta ha bisogno a sua volta di una prova, e questo di un’altra prova, e così via all’infinito», perciò la serie delle premesse non termina, e quindi «non abbiamo alcun punto da cui cominciare a stabilire alcunché»19. 2) «Il modo per ipotesi», che è proprio di coloro che «cominciano con qualcosa che essi non stabiliscono», in base al quale, dunque, la serie delle premesse termina ma termina con un’ipotesi, ossia con qualcosa che essi «pretendono di assumere così semplicemente, senza dimostrazione, in virtù di una concessione»20. 3) «Il diallele», che si ha «quando ciò che dovrebbe essere conferma della cosa indagata ha bisogno a sua volta di essere provato dalla cosa indagata», perciò si ha un circolo, e quindi non si può «assumere nessuna delle due cose per provare l’altra»21. Secondo Sesto Empirico, nessuno di questi tre modi permette di asserire alcunché in modo conclusivo. Ma questo è ingiustificato perché tali tre modi corrispondono ai casi 1)-3) del trilemma delle due scuole scettiche contestate da Aristotele. Perciò, come abbiamo già visto riguardo ad Aristotele, mentre i modi 2) e 3) non permettono di asserire alcunché in modo conclusivo, lo stesso non vale per il modo 1), perché i due argomenti usati da Aristotele al riguardo sono inadeguati. Se ne può concludere allora che la posizione di Sesto Empirico, sebbene non manifestamente insostenibile, nondimeno è insostenibile. 5. Scuole scettiche antiche e concezione fondazionalista Quanto detto mostra che i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità sono infondati. Questo getta un’ombra sulla concezione fon-
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Ivi, I, 166. Ivi, I, 168. 21 Ivi, I, 169. 19 20
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4. L’argomento scettico di Sesto Empirico Oltre ai dubbi scettici avanzati dalle due scuole contestate da Aristotele, nell’antichità ne sono stati avanzati anche altri. Un altro dubbio scettico è quello avanzato da Sesto Empirico, secondo cui, per ogni asserzione, ve n’è un’altra opposta ma equipollente, nel senso che vi sono argomenti egualmente convincenti a favore dell’asserzione e della sua opposta. Perciò, riguardo a ogni asserzione, non possiamo far altro che sospendere il giudizio. Infatti, Sesto Empirico afferma che «lo scetticismo è una capacità di stabilire opposizioni» tra fatti e ragioni, in virtù della quale, «in seguito all’equipollenza dei fatti e delle ragioni opposte, arriviamo alla sospensione del giudizio»15. Qui «per ‘equipollenza’ intendiamo l’eguaglianza rispetto all’essere convincente o non convincente, in modo che nessuna delle due ragioni contrastanti venga preferita all’altra come più convincente»; inoltre, «per ‘ragioni opposte’ non intendiamo necessariamente l’affermazione e la negazione ma semplicemente ragioni contrastanti»; infine, per ‘sospensione del giudizio’ intendiamo «un atteggiamento della mente per cui non rifiutiamo né accettiamo nulla»16. La posizione di Sesto Empirico non è manifestamente insostenibile. Infatti, egli afferma che, dicendo che per ogni asserzione ve n’è un’altra opposta ma equipollente, non intende sostenere che questo debba valere per tutti, il che sarebbe autoconfutatorio, semplicemente «esprime ciò che appare a lui, e annuncia il proprio sentire in modo non dogmatico»17. Ma, che la posizione di Sesto Empirico non sia manifestamente insostenibile, non significa che essa sia sostenibile. In realtà non lo è. Questo può essere visto nel modo seguente. Sesto Empirico afferma che, «quando qualcuno ci propone un argomento che non sappiamo confutare», noi scettici gli diciamo: «È possibile che in realtà vi sia in natura un argomento opposto a quello che tu hai appena proposto, sebbene esso non appaia ancora a noi; perciò noi non dobbiamo ancora assentire a quello che sembra ora un argomento valido»18. Inoltre, come ogni altro argomento, l’argoSesto Empirico, Pyrrhoniae Hypotyposes, I, 8. Ivi, I, 10 17 Ivi, I, 15. 18 Ivi, I, 33-34.
mento che tu hai proposto deduce una conclusione da certe premesse, poi deduce tali premesse da altre premesse, e così via, quindi contiene una serie di premesse. Si hanno allora i seguenti tre ‘modi’, ossia casi: 1) «Il modo per cui si cade in un regresso all’infinito», in base al quale «ciò che viene addotto come prova della cosa proposta ha bisogno a sua volta di una prova, e questo di un’altra prova, e così via all’infinito», perciò la serie delle premesse non termina, e quindi «non abbiamo alcun punto da cui cominciare a stabilire alcunché»19. 2) «Il modo per ipotesi», che è proprio di coloro che «cominciano con qualcosa che essi non stabiliscono», in base al quale, dunque, la serie delle premesse termina ma termina con un’ipotesi, ossia con qualcosa che essi «pretendono di assumere così semplicemente, senza dimostrazione, in virtù di una concessione»20. 3) «Il diallele», che si ha «quando ciò che dovrebbe essere conferma della cosa indagata ha bisogno a sua volta di essere provato dalla cosa indagata», perciò si ha un circolo, e quindi non si può «assumere nessuna delle due cose per provare l’altra»21. Secondo Sesto Empirico, nessuno di questi tre modi permette di asserire alcunché in modo conclusivo. Ma questo è ingiustificato perché tali tre modi corrispondono ai casi 1)-3) del trilemma delle due scuole scettiche contestate da Aristotele. Perciò, come abbiamo già visto riguardo ad Aristotele, mentre i modi 2) e 3) non permettono di asserire alcunché in modo conclusivo, lo stesso non vale per il modo 1), perché i due argomenti usati da Aristotele al riguardo sono inadeguati. Se ne può concludere allora che la posizione di Sesto Empirico, sebbene non manifestamente insostenibile, nondimeno è insostenibile. 5. Scuole scettiche antiche e concezione fondazionalista Quanto detto mostra che i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità sono infondati. Questo getta un’ombra sulla concezione fon-
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dazionalista, dal momento che la principale motivazione di tale concezione è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Che questa sia la principale motivazione della concezione fondazionalista è confermato dal fatto che Aristotele presenta la concezione fondazionalista come la soluzione del dubbio avanzato dalle due scuole scettiche da lui considerate. 6. L’argomento scettico di Descartes In aggiunta ai dubbi scettici dell’antichità, nell’età moderna ne sono stati avanzati altri. Il principale tra essi è quello avanzato da Descartes: «Io supporrò che esista non un ottimo Dio, fonte di verità, ma un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Io penserò» che «tutte le cose esterne non siano altro che inganni dei sogni, per mezzo dei quali egli ha teso insidie alla mia credulità. Considererò me stesso come non avente mani, non occhi, non carne, non sangue, non alcun senso, ma come credente falsamente di avere tutte queste cose»22. Va subito detto, però, che Descartes formula questo dubbio scettico in modo puramente strumentale, cioè in quanto, a suo parere, «nulla porta di più a ottenere una salda conoscenza delle cose che prima abituarsi a dubitare di tutte le cose»23. Descartes non vuole imitare «gli scettici, che dubitano solo per dubitare, e ostentano di essere sempre irresoluti: al contrario», ogni suo «disegno tende solo alla certezza, e a rimuovere il terriccio mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l’argilla»24. Egli avanza questo dubbio al solo «scopo di eliminare così completamente tutti i dubbi»25. Descartes ritiene di poter eliminare completamente tutti i dubbi mediante il seguente argomento: «Rifiutando tutte quelle cose di cui in qualche modo possiamo dubitare, e anzi fingendo che esse siano false, supponiamo certo facilmente che non esiste alcun Dio, alcun cielo, alcuna terra, alcun corpo; e anche che noi stessi non abbiamo
mani, né piedi, né infine un corpo»26. Ma non per questo possiamo supporre che «noi, che pensiamo tali cose, non esistiamo: ripugna infatti che noi crediamo che ciò che pensa, nello stesso tempo che pensa, non esiste. E perciò questa conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ è la prima e la più certa di tutte quelle che si presentano a chi filosofa con ordine»27. Essa è «così salda e così certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici» non sono «capaci di farla crollare»28. La saldezza e certezza della conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ dipende, secondo Descartes, dal fatto che essa esprime un’inferenza immediata, nella quale la connessione tra la premessa ‘Io penso’ e la conclusione ‘sono’ è data da un’intuizione della mente. Descartes infatti afferma che, «quando uno dice ‘Io penso, dunque sono, o esisto’, egli non deduce la propria esistenza dal pensiero mediante un sillogismo, ma la conosce come una cosa nota di per sé con una semplice intuizione della mente»29. In effetti, «se la deducesse mediante un sillogismo, avrebbe dovuto prima conoscere questa premessa maggiore ‘Tutto ciò che pensa è, o esiste’; al contrario, certamente egli invece la apprende dal fatto che percepisce dentro di sé che non è possibile che egli pensi, se non esiste»30. Dunque la conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ «non è affatto opera del vostro ragionamento», cioè di un sillogismo, ma «la vostra mente la vede, la sente e la maneggia» grazie all’intuizione, e «pertanto essa è una prova della capacità delle nostre anime di ricevere una conoscenza intuitiva»31. Inoltre, secondo Descartes, non solo l’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’ è salda e certa, ma la sua premessa ‘Io penso’ è assolutamente certa, «perché di nessuna mia azione io sono assolutamente certo (si intende, di quella certezza metafisica della quale soltanto si parla qui) tranne che solo del mio pensiero»32. Ne segue che anche la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa. Dunque, anche se esiste un genio maligno «sommamente potente, sommamente astuto, che con la sua industria mi inganna sempre», nondimeno Ivi, VIII-1, p. 7. Ibid. 28 Ivi, VI, p. 32. 29 Ivi, VII, p. 140. 30 Ibid. 31 Ivi, V, p. 138. 32 Ivi, VII, p. 352. 26 27
Descartes 1996, VII, pp. 22-23. Ivi, VII, p. 130. 24 Ivi, VI, p. 29. 25 Ivi, V, p. 147. 22 23
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dazionalista, dal momento che la principale motivazione di tale concezione è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Che questa sia la principale motivazione della concezione fondazionalista è confermato dal fatto che Aristotele presenta la concezione fondazionalista come la soluzione del dubbio avanzato dalle due scuole scettiche da lui considerate. 6. L’argomento scettico di Descartes In aggiunta ai dubbi scettici dell’antichità, nell’età moderna ne sono stati avanzati altri. Il principale tra essi è quello avanzato da Descartes: «Io supporrò che esista non un ottimo Dio, fonte di verità, ma un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Io penserò» che «tutte le cose esterne non siano altro che inganni dei sogni, per mezzo dei quali egli ha teso insidie alla mia credulità. Considererò me stesso come non avente mani, non occhi, non carne, non sangue, non alcun senso, ma come credente falsamente di avere tutte queste cose»22. Va subito detto, però, che Descartes formula questo dubbio scettico in modo puramente strumentale, cioè in quanto, a suo parere, «nulla porta di più a ottenere una salda conoscenza delle cose che prima abituarsi a dubitare di tutte le cose»23. Descartes non vuole imitare «gli scettici, che dubitano solo per dubitare, e ostentano di essere sempre irresoluti: al contrario», ogni suo «disegno tende solo alla certezza, e a rimuovere il terriccio mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l’argilla»24. Egli avanza questo dubbio al solo «scopo di eliminare così completamente tutti i dubbi»25. Descartes ritiene di poter eliminare completamente tutti i dubbi mediante il seguente argomento: «Rifiutando tutte quelle cose di cui in qualche modo possiamo dubitare, e anzi fingendo che esse siano false, supponiamo certo facilmente che non esiste alcun Dio, alcun cielo, alcuna terra, alcun corpo; e anche che noi stessi non abbiamo
mani, né piedi, né infine un corpo»26. Ma non per questo possiamo supporre che «noi, che pensiamo tali cose, non esistiamo: ripugna infatti che noi crediamo che ciò che pensa, nello stesso tempo che pensa, non esiste. E perciò questa conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ è la prima e la più certa di tutte quelle che si presentano a chi filosofa con ordine»27. Essa è «così salda e così certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici» non sono «capaci di farla crollare»28. La saldezza e certezza della conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ dipende, secondo Descartes, dal fatto che essa esprime un’inferenza immediata, nella quale la connessione tra la premessa ‘Io penso’ e la conclusione ‘sono’ è data da un’intuizione della mente. Descartes infatti afferma che, «quando uno dice ‘Io penso, dunque sono, o esisto’, egli non deduce la propria esistenza dal pensiero mediante un sillogismo, ma la conosce come una cosa nota di per sé con una semplice intuizione della mente»29. In effetti, «se la deducesse mediante un sillogismo, avrebbe dovuto prima conoscere questa premessa maggiore ‘Tutto ciò che pensa è, o esiste’; al contrario, certamente egli invece la apprende dal fatto che percepisce dentro di sé che non è possibile che egli pensi, se non esiste»30. Dunque la conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ «non è affatto opera del vostro ragionamento», cioè di un sillogismo, ma «la vostra mente la vede, la sente e la maneggia» grazie all’intuizione, e «pertanto essa è una prova della capacità delle nostre anime di ricevere una conoscenza intuitiva»31. Inoltre, secondo Descartes, non solo l’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’ è salda e certa, ma la sua premessa ‘Io penso’ è assolutamente certa, «perché di nessuna mia azione io sono assolutamente certo (si intende, di quella certezza metafisica della quale soltanto si parla qui) tranne che solo del mio pensiero»32. Ne segue che anche la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa. Dunque, anche se esiste un genio maligno «sommamente potente, sommamente astuto, che con la sua industria mi inganna sempre», nondimeno Ivi, VIII-1, p. 7. Ibid. 28 Ivi, VI, p. 32. 29 Ivi, VII, p. 140. 30 Ibid. 31 Ivi, V, p. 138. 32 Ivi, VII, p. 352. 26 27
Descartes 1996, VII, pp. 22-23. Ivi, VII, p. 130. 24 Ivi, VI, p. 29. 25 Ivi, V, p. 147. 22 23
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«non vi è dubbio anche che io esisto se egli mi inganna; e allora mi inganni quanto può, egli non potrà mai far sì che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa. Di modo che, dopo aver pensato tutto a sufficienza e anche di più, bisogna infine decidere che questa proposizione ‘Io sono, io esisto’ è necessariamente vera tutte le volte che viene pronunciata da me, o che viene concepita dalla mia mente»33. Secondo Descartes, per arrivare a questa conclusione non si può usare, al posto dell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, un’altra inferenza immediata la cui premessa non si riferisca al mio pensare ma a una qualsiasi altra mia azione, perché chi dicesse «che avrei potuto ottenere la conclusione» ‘sono’ «da qualsiasi altra mia azione», si allontanerebbe «molto dal vero»34. Per esempio, non si può usare, al posto dell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, l’inferenza ‘Io vedo, dunque sono’, o ‘Io cammino, dunque sono’. Infatti, la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa in quanto le premesse ‘Io penso, dunque sono’ e ‘Io penso’ sono assolutamente certe. Ma, se si deduce la conclusione ‘sono’ dalle premesse ‘Io vedo, dunque sono’ e ‘Io vedo’, oppure dalle premesse ‘Io cammino, dunque sono’ e ‘Io cammino’, allora «la conclusione non è assolutamente certa; infatti, come spesso accade nei sogni, io posso credere di vedere, o di camminare, benché io non apra gli occhi e non mi muova dal mio posto»35. Questo dipende dal fatto che, come abbiamo visto, per Descartes di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. In quest’ultimo sono compresi anche i suoi modi, come il dubitare, «perché infatti che altro è il dubitare se non un certo modo del pensiero?»36. Perciò la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa anche quando la si deduce dalle premesse ‘Io dubito, dunque sono’ e ‘Io dubito’, perché io posso dire con assoluta certezza che «io sono, e so che sono, e so questo perché dubito, ossia perché penso»37. Dunque, per assicurare l’assoluta certezza della conclusione ‘sono’, possiamo usare «‘Io dubito, dunque sono’, o Ivi, VII, p. 25. Ivi, VII, p. 352. 35 Ivi, VIII-1, p. 7. 36 Ivi, X, p. 521. 37 Ibid. 33
egualmente ‘Io penso, dunque sono’»38. Non possiamo usare, invece, ‘Io vedo, dunque sono’, o ‘Io cammino, dunque sono’, perché il vedere e il camminare non sono modi del pensiero, e di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. La posizione di Descartes non è manifestamente insostenibile. Infatti, la supposizione che esista un genio maligno sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi, viene formulata da Descartes in modo puramente strumentale, cioè solo come un mezzo per raggiungere la certezza eliminando tutti i dubbi. Perciò non occorre che essa sia vera, è sufficiente che sia possibile. Come lo stesso Descartes osserva, possono esserci «ragioni abbastanza valide da costringerci a dubitare», ragioni che però «sono esse stesse dubbie e non devono essere mantenute successivamente»39. Tali ragioni «sono valide finché non ne abbiamo altre che, eliminando il dubbio, portano la certezza»40. La supposizione che esista un genio maligno è, secondo Descartes, una di queste ragioni. Ma, che la posizione di Descartes non sia manifestamente insostenibile, non significa che essa sia sostenibile. Tanto per cominciare, la soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata. Infatti, nell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, la premessa ‘Io penso’ ha la forma A(a) e la conclusione ‘sono’ ha la forma x(x a). Ora, contrariamente all’affermazione di Descartes che quando uno dice ‘Io penso, dunque sono, o esisto’, egli non deduce la propria esistenza dal pensiero ma la conosce come una cosa nota di per sé con una semplice intuizione della mente, la conclusione x(x a) può essere dedotta dalla premessa A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati. In esso, infatti, si può dimostrare a a, da ciò e da A(a) si ottiene a a A(a) e quindi x(x a A(x)), donde x(x a) xA(x), da cui x(x a). Ma questo non ci dice nulla sulla questione se dalla premessa ‘Io penso’ segua la conclusione ‘sono’, perché l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti, e quindi che in A(a) il termine singolare ‘a’, ossia ‘Io’, denoti un individuo esistente, cioè me. Pertanto la premessa A(a) da cui si deduce la conclusione x(x a), cioè che io esisto, presuppone già che io esista.
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Ivi, X, p. 523. Ivi, VII, pp. 473-474. 40 Ivi, VII, p. 474. 38 39
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«non vi è dubbio anche che io esisto se egli mi inganna; e allora mi inganni quanto può, egli non potrà mai far sì che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa. Di modo che, dopo aver pensato tutto a sufficienza e anche di più, bisogna infine decidere che questa proposizione ‘Io sono, io esisto’ è necessariamente vera tutte le volte che viene pronunciata da me, o che viene concepita dalla mia mente»33. Secondo Descartes, per arrivare a questa conclusione non si può usare, al posto dell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, un’altra inferenza immediata la cui premessa non si riferisca al mio pensare ma a una qualsiasi altra mia azione, perché chi dicesse «che avrei potuto ottenere la conclusione» ‘sono’ «da qualsiasi altra mia azione», si allontanerebbe «molto dal vero»34. Per esempio, non si può usare, al posto dell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, l’inferenza ‘Io vedo, dunque sono’, o ‘Io cammino, dunque sono’. Infatti, la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa in quanto le premesse ‘Io penso, dunque sono’ e ‘Io penso’ sono assolutamente certe. Ma, se si deduce la conclusione ‘sono’ dalle premesse ‘Io vedo, dunque sono’ e ‘Io vedo’, oppure dalle premesse ‘Io cammino, dunque sono’ e ‘Io cammino’, allora «la conclusione non è assolutamente certa; infatti, come spesso accade nei sogni, io posso credere di vedere, o di camminare, benché io non apra gli occhi e non mi muova dal mio posto»35. Questo dipende dal fatto che, come abbiamo visto, per Descartes di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. In quest’ultimo sono compresi anche i suoi modi, come il dubitare, «perché infatti che altro è il dubitare se non un certo modo del pensiero?»36. Perciò la conclusione ‘sono’ è assolutamente certa anche quando la si deduce dalle premesse ‘Io dubito, dunque sono’ e ‘Io dubito’, perché io posso dire con assoluta certezza che «io sono, e so che sono, e so questo perché dubito, ossia perché penso»37. Dunque, per assicurare l’assoluta certezza della conclusione ‘sono’, possiamo usare «‘Io dubito, dunque sono’, o Ivi, VII, p. 25. Ivi, VII, p. 352. 35 Ivi, VIII-1, p. 7. 36 Ivi, X, p. 521. 37 Ibid. 33
egualmente ‘Io penso, dunque sono’»38. Non possiamo usare, invece, ‘Io vedo, dunque sono’, o ‘Io cammino, dunque sono’, perché il vedere e il camminare non sono modi del pensiero, e di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. La posizione di Descartes non è manifestamente insostenibile. Infatti, la supposizione che esista un genio maligno sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi, viene formulata da Descartes in modo puramente strumentale, cioè solo come un mezzo per raggiungere la certezza eliminando tutti i dubbi. Perciò non occorre che essa sia vera, è sufficiente che sia possibile. Come lo stesso Descartes osserva, possono esserci «ragioni abbastanza valide da costringerci a dubitare», ragioni che però «sono esse stesse dubbie e non devono essere mantenute successivamente»39. Tali ragioni «sono valide finché non ne abbiamo altre che, eliminando il dubbio, portano la certezza»40. La supposizione che esista un genio maligno è, secondo Descartes, una di queste ragioni. Ma, che la posizione di Descartes non sia manifestamente insostenibile, non significa che essa sia sostenibile. Tanto per cominciare, la soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata. Infatti, nell’inferenza immediata ‘Io penso, dunque sono’, la premessa ‘Io penso’ ha la forma A(a) e la conclusione ‘sono’ ha la forma x(x a). Ora, contrariamente all’affermazione di Descartes che quando uno dice ‘Io penso, dunque sono, o esisto’, egli non deduce la propria esistenza dal pensiero ma la conosce come una cosa nota di per sé con una semplice intuizione della mente, la conclusione x(x a) può essere dedotta dalla premessa A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati. In esso, infatti, si può dimostrare a a, da ciò e da A(a) si ottiene a a A(a) e quindi x(x a A(x)), donde x(x a) xA(x), da cui x(x a). Ma questo non ci dice nulla sulla questione se dalla premessa ‘Io penso’ segua la conclusione ‘sono’, perché l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti, e quindi che in A(a) il termine singolare ‘a’, ossia ‘Io’, denoti un individuo esistente, cioè me. Pertanto la premessa A(a) da cui si deduce la conclusione x(x a), cioè che io esisto, presuppone già che io esista.
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Ivi, X, p. 523. Ivi, VII, pp. 473-474. 40 Ivi, VII, p. 474. 38 39
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Come osserva Leibniz, «dire ‘Io penso, dunque sono’ non è dimostrare propriamente l’esistenza attraverso il pensiero», perché «dire ‘Io sono pensante’ è già dire ‘Io sono’»41. Dunque affermando, come fa Descartes, che ‘Io penso, dunque sono’ è «una verità immediata o non dimostrabile», non si dimostra ‘Io sono’, ma semplicemente ci si limita a «dire che la proposizione ‘Io sono’ è un assioma»42. Contro l’argomento che la conclusione x(x a) può essere dedotta da A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati, Hintikka obietta che in esso si può dedurre x(x a) da A(a) non solo quando A(x) esprime l’attributo ‘penso’, ma anche quando A(x) esprime qualsiasi altra mia azione, perciò la deducibilità di x(x a) da A(a) «non dipende affatto dall’attributo»43. Ma questa obiezione trascura che, perché la conclusione ‘sono’ sia assolutamente certa, anche la premessa ‘Io penso’ deve essere assolutamente certa, e, secondo Descartes, al posto della premessa ‘Io penso’, non si può usare una premessa che faccia riferimento a una mia azione diversa dal pensare, come ‘Io vedo’ o ‘Io cammino’, perché di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. Perciò l’obiezione di Hintikka non è valida. In realtà, non solo la conclusione x(x a) può essere dedotta da A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati, ma in quest’ultimo si può dimostrare x(x a), cioè che io esisto, senza dedurlo da alcuna ipotesi. Infatti, in esso si può dimostrare a a, da cui segue immediatamente x(x a). Pertanto, anche se io non esistessi, nell’ordinario calcolo dei predicati si potrebbe dimostrare che io esisto. Ma, di nuovo, questo dipende dal fatto che l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti. Perciò, che in esso si possa dimostrare x(x a) non ci dice nulla sulla questione se si possa dimostrare che io esisto, perché l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che in x(x a) il termine singolare ‘a’, ossia ‘Io’, denoti un individuo esistente, cioè me. Per evitare questa difficoltà si potrebbe pensare di sostituire l’ordinario calcolo dei predicati con una logica libera – nel senso di ‘libera da presupposizioni’ – perché una tale logica non presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti. Ora, in una Leibniz 1965, p. 391. Ivi, p. 392. 43 Hintikka 1962, p. 7.
logica libera, come quella proposta dallo stesso Hintikka, da A(a) non si può dedurre x(x a) senza assumere x(x a). In essa, infatti, solo «la presenza della formula x(x a) autorizza a generalizzare esistenzialmente rispetto ad a»44. Questo conferma che l’inferenza da ‘Io penso’ a ‘sono’ è valida solo in un calcolo che presupponga già che io sono, io esisto. Se ne può concludere, perciò, che la soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata. Ma che tale soluzione sia inadeguata non è la cosa più importante qui. Quello che è più importante è invece che il dubbio scettico avanzato da Descartes è impossibile. Infatti, supponiamo che esso sia possibile e che io lo formuli, nel modo di Descartes, dicendo: io supporrò che esista un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Ora, per poter dire: ‘io supporrò che esista un tale genio maligno’, io devo esistere, altrimenti non potrei fare tale supposizione, dunque essa presuppone che io esista. Ma, se io esisto, allora c’è qualcosa su cui il genio maligno non mi ha ingannato, cioè sul fatto che io esista, dal momento che io realmente esisto. D’altra parte, però, in base alla mia supposizione, il genio maligno è a un tempo sommamente potente e astuto e ha impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Perciò deve avermi ingannato anche sul fatto che io esista. Infatti, se non l’avesse fatto, egli non avrebbe impiegato tutta la sua industria per ingannarmi, si sarebbe astenuto dall’ingannarmi su questo privandosi così, senza ragione, di un potente inganno. Questo contraddirrebbe l’ipotesi che egli sia sommamente astuto e deciso a ingannarmi a ogni costo. Inoltre, il genio maligno aveva il potere di ingannarmi anche su questo perché, essendo per ipotesi sommamente potente, la sua potenza non ha limiti. Che Descartes, dicendo che il genio maligno è sommamente potente, intenda dire che la sua potenza non ha limiti, appare chiaro per analogia con quanto dice su Dio, che «di nessuna cosa mai si deve dire che non può essere fatta da Dio», per esempio che «Dio non può far sì che il monte esista senza la valle, o che uno e due non siano tre», anche se «tali cose implicano una contraddi-
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Hintikka 1959, p. 133.
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Come osserva Leibniz, «dire ‘Io penso, dunque sono’ non è dimostrare propriamente l’esistenza attraverso il pensiero», perché «dire ‘Io sono pensante’ è già dire ‘Io sono’»41. Dunque affermando, come fa Descartes, che ‘Io penso, dunque sono’ è «una verità immediata o non dimostrabile», non si dimostra ‘Io sono’, ma semplicemente ci si limita a «dire che la proposizione ‘Io sono’ è un assioma»42. Contro l’argomento che la conclusione x(x a) può essere dedotta da A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati, Hintikka obietta che in esso si può dedurre x(x a) da A(a) non solo quando A(x) esprime l’attributo ‘penso’, ma anche quando A(x) esprime qualsiasi altra mia azione, perciò la deducibilità di x(x a) da A(a) «non dipende affatto dall’attributo»43. Ma questa obiezione trascura che, perché la conclusione ‘sono’ sia assolutamente certa, anche la premessa ‘Io penso’ deve essere assolutamente certa, e, secondo Descartes, al posto della premessa ‘Io penso’, non si può usare una premessa che faccia riferimento a una mia azione diversa dal pensare, come ‘Io vedo’ o ‘Io cammino’, perché di nessuna mia azione io sono assolutamente certo tranne che del mio pensiero. Perciò l’obiezione di Hintikka non è valida. In realtà, non solo la conclusione x(x a) può essere dedotta da A(a) nell’ordinario calcolo dei predicati, ma in quest’ultimo si può dimostrare x(x a), cioè che io esisto, senza dedurlo da alcuna ipotesi. Infatti, in esso si può dimostrare a a, da cui segue immediatamente x(x a). Pertanto, anche se io non esistessi, nell’ordinario calcolo dei predicati si potrebbe dimostrare che io esisto. Ma, di nuovo, questo dipende dal fatto che l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti. Perciò, che in esso si possa dimostrare x(x a) non ci dice nulla sulla questione se si possa dimostrare che io esisto, perché l’ordinario calcolo dei predicati presuppone che in x(x a) il termine singolare ‘a’, ossia ‘Io’, denoti un individuo esistente, cioè me. Per evitare questa difficoltà si potrebbe pensare di sostituire l’ordinario calcolo dei predicati con una logica libera – nel senso di ‘libera da presupposizioni’ – perché una tale logica non presuppone che tutti i termini singolari denotino individui esistenti. Ora, in una Leibniz 1965, p. 391. Ivi, p. 392. 43 Hintikka 1962, p. 7.
logica libera, come quella proposta dallo stesso Hintikka, da A(a) non si può dedurre x(x a) senza assumere x(x a). In essa, infatti, solo «la presenza della formula x(x a) autorizza a generalizzare esistenzialmente rispetto ad a»44. Questo conferma che l’inferenza da ‘Io penso’ a ‘sono’ è valida solo in un calcolo che presupponga già che io sono, io esisto. Se ne può concludere, perciò, che la soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata. Ma che tale soluzione sia inadeguata non è la cosa più importante qui. Quello che è più importante è invece che il dubbio scettico avanzato da Descartes è impossibile. Infatti, supponiamo che esso sia possibile e che io lo formuli, nel modo di Descartes, dicendo: io supporrò che esista un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che abbia impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Ora, per poter dire: ‘io supporrò che esista un tale genio maligno’, io devo esistere, altrimenti non potrei fare tale supposizione, dunque essa presuppone che io esista. Ma, se io esisto, allora c’è qualcosa su cui il genio maligno non mi ha ingannato, cioè sul fatto che io esista, dal momento che io realmente esisto. D’altra parte, però, in base alla mia supposizione, il genio maligno è a un tempo sommamente potente e astuto e ha impiegato tutta la sua industria per ingannarmi. Perciò deve avermi ingannato anche sul fatto che io esista. Infatti, se non l’avesse fatto, egli non avrebbe impiegato tutta la sua industria per ingannarmi, si sarebbe astenuto dall’ingannarmi su questo privandosi così, senza ragione, di un potente inganno. Questo contraddirrebbe l’ipotesi che egli sia sommamente astuto e deciso a ingannarmi a ogni costo. Inoltre, il genio maligno aveva il potere di ingannarmi anche su questo perché, essendo per ipotesi sommamente potente, la sua potenza non ha limiti. Che Descartes, dicendo che il genio maligno è sommamente potente, intenda dire che la sua potenza non ha limiti, appare chiaro per analogia con quanto dice su Dio, che «di nessuna cosa mai si deve dire che non può essere fatta da Dio», per esempio che «Dio non può far sì che il monte esista senza la valle, o che uno e due non siano tre», anche se «tali cose implicano una contraddi-
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Hintikka 1959, p. 133.
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zione»45. Perciò il genio maligno deve avermi ingannato anche sul fatto che io esista. Dunque, da un lato, il genio maligno non mi ha ingannato sul fatto che io esista, e dall’altro lato mi ha ingannato su tale fatto. Contraddizione. Questo implica che il dubbio scettico di Descartes è impossibile. Si ha infatti il dilemma: o io non suppongo che esista un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che ha impiegato tutto la sua industria per ingannarmi, oppure io suppongo che esista. Entrambi i corni del dilemma implicano che il dubbio scettico di Descartes è impossibile. Questo è immediato nel caso del primo corno del dilemma, mentre nel caso del secondo segue dal fatto che, come abbiamo visto, la supposizione che esista un genio maligno porta a una contraddizione, dunque è impossibile. Questo mostra l’infondatezza dell’opinione diffusa che si sia «colpiti più favorevolmente dall’argomento scettico di Descartes che non dalla sua soluzione»46. La soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata, ma il dubbio scettico da lui avanzato è impossibile. Se ne può concludere allora che la posizione di Descartes, sebbene non manifestamente insostenibile, nondimeno è insostenibile. 7. L’argomento di Descartes e la concezione fondazionalista Quello di Descartes non è l’unico dubbio scettico avanzato nell’età moderna, ma è di gran lunga il più importante. Perciò la sua impossibilità getta un’altra ombra sulla concezione fondazionalista, dal momento che la principale motivazione di tale concezione è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Che questa sia la sua principale motivazione è confermato dal fatto che Descartes avanza il suo dubbio scettico soltanto strumentalmente, cioè al solo scopo di eliminare completamente tutti i dubbi.
me quella di Russell secondo cui «contro lo scetticismo assoluto non si può avanzare alcun argomento logico»47. E conferma che la principale motivazione della concezione fondazionalista, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva – sottrarre la conoscenza al dubbio scettico – è vuota. Dunque non solo, come abbiamo visto, la concezione fondazionalista va incontro a difficoltà insormontabili, ma addirittura la sua principale motivazione non sussiste. Il dubbio scettico è un gioco vuoto. Forse per questo interessa tanto alla filosofia analitica, che pone la questione «dello scetticismo al centro dell’epistemologia» considerandola «la forza motrice che sta dietro le teorie filosofiche della conoscenza»48. In realtà la principale motivazione del dubbio scettico non è di tipo razionale bensì di tipo mistico-religioso. Come osserva Russell, lo scetticismo è una parte essenziale «dell’iniziazione del mistico: il dubbio riguardo alla conoscenza comune, che prepara la via alla ricezione di quella che sembra una saggezza superiore»49. Tale dubbio ha come esito «la fede nell’intuito, in opposizione alla conoscenza discorsiva analitica: la credenza in una forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva»50. Cioè, «la credenza nella possibilità di una forma di conoscenza, che può essere denominata rivelazione o intuito o intuizione, in opposizione ai sensi, alla ragione e all’analisi, che vengono considerate guide cieche le quali portano nel pantano dell’illusione»51. Una forma di «conoscenza a confronto della quale ogni altra conoscenza è ignoranza»52. Contrariamente a quanto affermano i sostenitori della concezione fondazionalista, i quali si fondano sull’intuizione, è invece proprio la fede nell’intuito, cioè in una presunta forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva, che, per la sua inaffidabilità, porta nel pantano dell’illusione. Russell 1997a, p. 150. Williams 2001, p. 3. 49 Russell 1994, p. 27. 50 Ivi, p. 26. 51 Ivi, p. 27. 52 Ivi, p. 28. 47 48
8. Scetticismo e concezione fondazionalista Il fatto che i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna siano infondati, mostra l’insostenibilità di affermazioni co45 46
Descartes 1996, V, pp. 223-224. Klein 1992, p. 457.
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zione»45. Perciò il genio maligno deve avermi ingannato anche sul fatto che io esista. Dunque, da un lato, il genio maligno non mi ha ingannato sul fatto che io esista, e dall’altro lato mi ha ingannato su tale fatto. Contraddizione. Questo implica che il dubbio scettico di Descartes è impossibile. Si ha infatti il dilemma: o io non suppongo che esista un certo genio maligno, a un tempo sommamente potente e astuto, che ha impiegato tutto la sua industria per ingannarmi, oppure io suppongo che esista. Entrambi i corni del dilemma implicano che il dubbio scettico di Descartes è impossibile. Questo è immediato nel caso del primo corno del dilemma, mentre nel caso del secondo segue dal fatto che, come abbiamo visto, la supposizione che esista un genio maligno porta a una contraddizione, dunque è impossibile. Questo mostra l’infondatezza dell’opinione diffusa che si sia «colpiti più favorevolmente dall’argomento scettico di Descartes che non dalla sua soluzione»46. La soluzione del dubbio scettico proposta da Descartes è inadeguata, ma il dubbio scettico da lui avanzato è impossibile. Se ne può concludere allora che la posizione di Descartes, sebbene non manifestamente insostenibile, nondimeno è insostenibile. 7. L’argomento di Descartes e la concezione fondazionalista Quello di Descartes non è l’unico dubbio scettico avanzato nell’età moderna, ma è di gran lunga il più importante. Perciò la sua impossibilità getta un’altra ombra sulla concezione fondazionalista, dal momento che la principale motivazione di tale concezione è sottrarre la conoscenza al dubbio scettico. Che questa sia la sua principale motivazione è confermato dal fatto che Descartes avanza il suo dubbio scettico soltanto strumentalmente, cioè al solo scopo di eliminare completamente tutti i dubbi.
me quella di Russell secondo cui «contro lo scetticismo assoluto non si può avanzare alcun argomento logico»47. E conferma che la principale motivazione della concezione fondazionalista, da cui deriva anche gran parte della sua attrattiva – sottrarre la conoscenza al dubbio scettico – è vuota. Dunque non solo, come abbiamo visto, la concezione fondazionalista va incontro a difficoltà insormontabili, ma addirittura la sua principale motivazione non sussiste. Il dubbio scettico è un gioco vuoto. Forse per questo interessa tanto alla filosofia analitica, che pone la questione «dello scetticismo al centro dell’epistemologia» considerandola «la forza motrice che sta dietro le teorie filosofiche della conoscenza»48. In realtà la principale motivazione del dubbio scettico non è di tipo razionale bensì di tipo mistico-religioso. Come osserva Russell, lo scetticismo è una parte essenziale «dell’iniziazione del mistico: il dubbio riguardo alla conoscenza comune, che prepara la via alla ricezione di quella che sembra una saggezza superiore»49. Tale dubbio ha come esito «la fede nell’intuito, in opposizione alla conoscenza discorsiva analitica: la credenza in una forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva»50. Cioè, «la credenza nella possibilità di una forma di conoscenza, che può essere denominata rivelazione o intuito o intuizione, in opposizione ai sensi, alla ragione e all’analisi, che vengono considerate guide cieche le quali portano nel pantano dell’illusione»51. Una forma di «conoscenza a confronto della quale ogni altra conoscenza è ignoranza»52. Contrariamente a quanto affermano i sostenitori della concezione fondazionalista, i quali si fondano sull’intuizione, è invece proprio la fede nell’intuito, cioè in una presunta forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva, che, per la sua inaffidabilità, porta nel pantano dell’illusione. Russell 1997a, p. 150. Williams 2001, p. 3. 49 Russell 1994, p. 27. 50 Ivi, p. 26. 51 Ivi, p. 27. 52 Ivi, p. 28. 47 48
8. Scetticismo e concezione fondazionalista Il fatto che i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna siano infondati, mostra l’insostenibilità di affermazioni co45 46
Descartes 1996, V, pp. 223-224. Klein 1992, p. 457.
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Il concetto di conoscenza
1. La conoscenza come credenza vera giustificata Oltre ai limiti che abbiamo già visto, la concezione fondazionalista ne ha anche un altro: non è in grado di caratterizzare adeguatamente il concetto di conoscenza. Secondo la concezione fondazionalista, la conoscenza è credenza vera giustificata. Una credenza, per essere conoscenza, deve essere vera, perché una credenza falsa non potrebbe dirsi conoscenza, e deve essere giustificata, perché una credenza potrebbe essere vera per caso e non perché ha una giustificazione. Oltre a questo la concezione fondazionalista, ma non la concezione fondazionalista debole, richiede che una credenza, per essere conoscenza, debba anche essere indubitabile. Tanto la concezione fondazionalista quanto la concezione fondazionalista debole concordano, però, nel ritenere che la conoscenza sia credenza vera giustificata. Il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata si trova già in Platone, secondo cui «la conoscenza è credenza vera accompagnata da ragione causale»1. Infatti, «la conoscenza è credenza vera»2. Ma che sia credenza vera non basta perché, per esempio, «quando dei giudici restino giustamente persuasi di cose che solo chi le ha viste le può sapere, altrimenti no, allora essi, giudicandole per sentito dire, pur essendosi fatta un’opinione vera, hanno giudicato senza conoscenza, benché persuasi rettamente, almeno se hanno giudicato bene»3. La credenza vera dei giudici è priva di ragione causale, e, «quando uno ha una credenza vera su qualcosa ma non acPlatone, Theaetetus, 202 c 7-8. Ivi, 200 e 4. 3 Ivi, 201 b 7-c 2. 1 2
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compagnata da ragione causale», dunque da giustificazione, «la sua anima è nel vero rispetto a quella cosa, ma non ha conoscenza: infatti, chi non è in grado di dare o di ricevere la ragione causale di una cosa, non ha conoscenza di quella cosa. Se invece vi aggiunge la ragione causale», allora «possiede conoscenza fino in fondo»4. Platone paragona le credenze vere alla statue di Dedalo, che questi scolpiva con le gambe disgiunte e un piede in avanti così da dare l’impressione del movimento, delle quali perciò si diceva che, «se non vengono legate, fuggono e se ne vanno; se sono legate, invece, restano fisse»5. Perciò, «possedere una di tali opere non legata non ha grande valore, non ti lascia nulla in mano, come uno schiavo che scappa; legata, invece, ha grande valore; infatti tali opere sono molto belle»6. Nello stesso modo «le credenze vere, finché restano, sono cose belle e producono ogni bene; ma non acconsentono a restare per lungo tempo e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un grande valore a meno che uno non le leghi», cioè, non le giustifichi, «dandone la ragione causale»7. Infatti, «se legate, esse innanzitutto diventano conoscenza, e inoltre diventano stabili. Ecco perché la conoscenza ha maggior valore della credenza vera, e inoltre la conoscenza differisce dalla credenza vera per quel legame»8. Per Platone, però, il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata costituisce solo un tipo di conoscenza inferiore, perché «la credenza riguarda le apparenze»9. Invece, la conoscenza superiore riguarda le Idee e va tenuta ben distinta dalla credenza. Infatti, «di coloro che scorgono le molteplici cose belle ma non vedono il bello in sé, e le molteplici cose giuste ma non il giusto in sé, e così via per tutto il resto, di costoro diremo che hanno credenze su tutte le cose, ma che non conoscono nessuna delle cose su cui vertono le loro credenze»10. E viceversa, «di coloro che vedono in ogni caso le cose in sé, quelle che permangono sempre invariate in sé, non diremo che essi hanno conoscenza anziIvi, 202 b 8-c 5. Platone, Meno, 97 d 9-10. 6 Ivi, 97 e 2-4. 7 Ivi, 97 e 6-98 a 4. 8 Ivi, 98 a 5-8. 9 Platone, Respublica, V 478 a 8. 10 Ivi, V 479 d 10-e 4. 4 5
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Il concetto di conoscenza
1. La conoscenza come credenza vera giustificata Oltre ai limiti che abbiamo già visto, la concezione fondazionalista ne ha anche un altro: non è in grado di caratterizzare adeguatamente il concetto di conoscenza. Secondo la concezione fondazionalista, la conoscenza è credenza vera giustificata. Una credenza, per essere conoscenza, deve essere vera, perché una credenza falsa non potrebbe dirsi conoscenza, e deve essere giustificata, perché una credenza potrebbe essere vera per caso e non perché ha una giustificazione. Oltre a questo la concezione fondazionalista, ma non la concezione fondazionalista debole, richiede che una credenza, per essere conoscenza, debba anche essere indubitabile. Tanto la concezione fondazionalista quanto la concezione fondazionalista debole concordano, però, nel ritenere che la conoscenza sia credenza vera giustificata. Il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata si trova già in Platone, secondo cui «la conoscenza è credenza vera accompagnata da ragione causale»1. Infatti, «la conoscenza è credenza vera»2. Ma che sia credenza vera non basta perché, per esempio, «quando dei giudici restino giustamente persuasi di cose che solo chi le ha viste le può sapere, altrimenti no, allora essi, giudicandole per sentito dire, pur essendosi fatta un’opinione vera, hanno giudicato senza conoscenza, benché persuasi rettamente, almeno se hanno giudicato bene»3. La credenza vera dei giudici è priva di ragione causale, e, «quando uno ha una credenza vera su qualcosa ma non acPlatone, Theaetetus, 202 c 7-8. Ivi, 200 e 4. 3 Ivi, 201 b 7-c 2. 1 2
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compagnata da ragione causale», dunque da giustificazione, «la sua anima è nel vero rispetto a quella cosa, ma non ha conoscenza: infatti, chi non è in grado di dare o di ricevere la ragione causale di una cosa, non ha conoscenza di quella cosa. Se invece vi aggiunge la ragione causale», allora «possiede conoscenza fino in fondo»4. Platone paragona le credenze vere alla statue di Dedalo, che questi scolpiva con le gambe disgiunte e un piede in avanti così da dare l’impressione del movimento, delle quali perciò si diceva che, «se non vengono legate, fuggono e se ne vanno; se sono legate, invece, restano fisse»5. Perciò, «possedere una di tali opere non legata non ha grande valore, non ti lascia nulla in mano, come uno schiavo che scappa; legata, invece, ha grande valore; infatti tali opere sono molto belle»6. Nello stesso modo «le credenze vere, finché restano, sono cose belle e producono ogni bene; ma non acconsentono a restare per lungo tempo e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un grande valore a meno che uno non le leghi», cioè, non le giustifichi, «dandone la ragione causale»7. Infatti, «se legate, esse innanzitutto diventano conoscenza, e inoltre diventano stabili. Ecco perché la conoscenza ha maggior valore della credenza vera, e inoltre la conoscenza differisce dalla credenza vera per quel legame»8. Per Platone, però, il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata costituisce solo un tipo di conoscenza inferiore, perché «la credenza riguarda le apparenze»9. Invece, la conoscenza superiore riguarda le Idee e va tenuta ben distinta dalla credenza. Infatti, «di coloro che scorgono le molteplici cose belle ma non vedono il bello in sé, e le molteplici cose giuste ma non il giusto in sé, e così via per tutto il resto, di costoro diremo che hanno credenze su tutte le cose, ma che non conoscono nessuna delle cose su cui vertono le loro credenze»10. E viceversa, «di coloro che vedono in ogni caso le cose in sé, quelle che permangono sempre invariate in sé, non diremo che essi hanno conoscenza anziIvi, 202 b 8-c 5. Platone, Meno, 97 d 9-10. 6 Ivi, 97 e 2-4. 7 Ivi, 97 e 6-98 a 4. 8 Ivi, 98 a 5-8. 9 Platone, Respublica, V 478 a 8. 10 Ivi, V 479 d 10-e 4. 4 5
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ché» solo credenza?»11. Infatti, quando l’anima «si volge a ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, allora essa lo pensa e lo conosce e appare averne intuizione; quando invece si volge a ciò che è avvolto dall’oscurità, a ciò che nasce e perisce, allora essa ha solo credenza e si indebolisce» e «appare non averne comprensione»12. La conoscenza delle Idee non è credenza, è pura visione. Se tu riuscissi ad arrivare alle Idee, «vedresti non più un’immagine di ciò di cui parliamo ma la verità stessa»13. Infatti, giungeresti a «cogliere che cosa sia ciascuna delle essenze in sé»14. Attraverso la visione «risplende improvvisamente la conoscenza di ciascuna cosa e l’intuizione dell’intelletto»15. Essa risplende improvvisamente, «come una luce che si accende da una scintilla che si sprigiona»16. 2. Inadeguatezza di tale concezione della conoscenza Il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata ha trovato vasto consenso dall’antichità ai nostri giorni. Nondimeno è inadeguato, perché è facile darne controesempi. Un controesempio dato da Russell è il seguente: «C’è un uomo», diciamo Mario, «il quale guarda un orologio che non sta funzionando, sebbene egli pensi che stia funzionando, e lo guarda nel momento in cui esso è esatto»17. Così Mario «acquista una credenza vera sull’ora del giorno, ma non si può dire che abbia conoscenza»18. La credenza di Mario è vera, perché l’orologio in quel momento segna l’ora esatta. Inoltre è giustificata, perché si basa sull’informazione fornita da un orologio, e di solito l’ora la si conosce guardando un orologio. Perciò, in base al concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, Mario conosce l’ora. Ma questo è insostenibile perché l’ora segnata dall’orologio è esatta solo per caso, cioè perché l’orologio è fermo su quell’ora e Mario lo guarda a quell’ora. A causa del controesempio di Russell e degli altri che sono staIvi, V 479 e 6-7. Ivi, VI 508 d 3-8. 13 Ivi, VII 533 a 2-3. 14 Ivi, VII 533 b 1-2. 15 Platone, Epistulae, VII 344 b 6-7. 16 Ivi, VII 341 d 1. 17 Russell 1997b, p. 170. 18 Ivi, pp. 170-171. 11 12
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ti dati, sono stati fatti vari tentativi di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata. Molti di essi riguardano una formulazione di tale concetto in termini di un soggetto conoscente S e di una proposizione p: si dice che un soggetto S sa che p se e solo se 1) S crede che p; 2) p è vera; 3) la credenza di S in p è giustificata. In seguito esamineremo i tentativi di Ramsey, Goldman, Plantinga, Nozick, Dretske, Zagzebski, Lewis. 3. Ramsey Secondo Ramsey, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3R) la credenza di S che p è «ottenuta con un processo affidabile», cioè è «formata in modo affidabile»19. Infatti, «se riflettessimo», diremmo di sapere «se e solo se ritenessimo affidabile il nostro modo di conoscere»20. Il concetto di conoscenza di Ramsey non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio non è formata in modo affidabile, perché Mario la forma guardando un orologio fermo. Nondimeno il concetto di conoscenza di Ramsey è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io ascolti un notiziario alla radio, che dice che c’è stata una scossa di terremoto. Perciò io credo che vi sia stata una scossa di terremoto. La mia credenza è vera, perché c’è stata davvero una scossa di terremoto. Inoltre, la mia credenza è stata formata in modo affidabile, perché il notiziario da cui l’ho appresa ha la reputazione di essere affidabile. Dunque le condizioni 1), 2), 3R) sono soddisfatte. Perciò, secondo Ramsey, io so che c’è stata una scossa di terremoto. Ma questo non è sostenibile, perché io credo che la scossa di terremoto vi sia stata oggi mentre, a mia insaputa, il notiziario che ho ascoltato era la registrazione di un notiziario di qualche tempo fa, e la scossa di terremoto c’era stata allora, non oggi.
19 20
Ramsey 1990, p. 110. Ibid.
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ché» solo credenza?»11. Infatti, quando l’anima «si volge a ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, allora essa lo pensa e lo conosce e appare averne intuizione; quando invece si volge a ciò che è avvolto dall’oscurità, a ciò che nasce e perisce, allora essa ha solo credenza e si indebolisce» e «appare non averne comprensione»12. La conoscenza delle Idee non è credenza, è pura visione. Se tu riuscissi ad arrivare alle Idee, «vedresti non più un’immagine di ciò di cui parliamo ma la verità stessa»13. Infatti, giungeresti a «cogliere che cosa sia ciascuna delle essenze in sé»14. Attraverso la visione «risplende improvvisamente la conoscenza di ciascuna cosa e l’intuizione dell’intelletto»15. Essa risplende improvvisamente, «come una luce che si accende da una scintilla che si sprigiona»16. 2. Inadeguatezza di tale concezione della conoscenza Il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata ha trovato vasto consenso dall’antichità ai nostri giorni. Nondimeno è inadeguato, perché è facile darne controesempi. Un controesempio dato da Russell è il seguente: «C’è un uomo», diciamo Mario, «il quale guarda un orologio che non sta funzionando, sebbene egli pensi che stia funzionando, e lo guarda nel momento in cui esso è esatto»17. Così Mario «acquista una credenza vera sull’ora del giorno, ma non si può dire che abbia conoscenza»18. La credenza di Mario è vera, perché l’orologio in quel momento segna l’ora esatta. Inoltre è giustificata, perché si basa sull’informazione fornita da un orologio, e di solito l’ora la si conosce guardando un orologio. Perciò, in base al concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, Mario conosce l’ora. Ma questo è insostenibile perché l’ora segnata dall’orologio è esatta solo per caso, cioè perché l’orologio è fermo su quell’ora e Mario lo guarda a quell’ora. A causa del controesempio di Russell e degli altri che sono staIvi, V 479 e 6-7. Ivi, VI 508 d 3-8. 13 Ivi, VII 533 a 2-3. 14 Ivi, VII 533 b 1-2. 15 Platone, Epistulae, VII 344 b 6-7. 16 Ivi, VII 341 d 1. 17 Russell 1997b, p. 170. 18 Ivi, pp. 170-171. 11 12
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ti dati, sono stati fatti vari tentativi di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata. Molti di essi riguardano una formulazione di tale concetto in termini di un soggetto conoscente S e di una proposizione p: si dice che un soggetto S sa che p se e solo se 1) S crede che p; 2) p è vera; 3) la credenza di S in p è giustificata. In seguito esamineremo i tentativi di Ramsey, Goldman, Plantinga, Nozick, Dretske, Zagzebski, Lewis. 3. Ramsey Secondo Ramsey, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3R) la credenza di S che p è «ottenuta con un processo affidabile», cioè è «formata in modo affidabile»19. Infatti, «se riflettessimo», diremmo di sapere «se e solo se ritenessimo affidabile il nostro modo di conoscere»20. Il concetto di conoscenza di Ramsey non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio non è formata in modo affidabile, perché Mario la forma guardando un orologio fermo. Nondimeno il concetto di conoscenza di Ramsey è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io ascolti un notiziario alla radio, che dice che c’è stata una scossa di terremoto. Perciò io credo che vi sia stata una scossa di terremoto. La mia credenza è vera, perché c’è stata davvero una scossa di terremoto. Inoltre, la mia credenza è stata formata in modo affidabile, perché il notiziario da cui l’ho appresa ha la reputazione di essere affidabile. Dunque le condizioni 1), 2), 3R) sono soddisfatte. Perciò, secondo Ramsey, io so che c’è stata una scossa di terremoto. Ma questo non è sostenibile, perché io credo che la scossa di terremoto vi sia stata oggi mentre, a mia insaputa, il notiziario che ho ascoltato era la registrazione di un notiziario di qualche tempo fa, e la scossa di terremoto c’era stata allora, non oggi.
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Ramsey 1990, p. 110. Ibid.
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4. Goldman Secondo Goldman, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3G) «il fatto p è causalmente connesso in modo ‘appropriato’ con la credenza di S che p»21. In modo ‘appropriato’ significa: la credenza di S che p è realmente causata da p. Il concetto di conoscenza di Goldman non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio non è causata dal fatto che l’ora è quella, bensì dal fatto che l’orologio segna quell’ora. Quindi il fatto che l’ora è quella non è causalmente connesso in modo appropriato con la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio. Nondimeno il concetto di conoscenza di Goldman è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io estragga dal mio portafoglio una banconota e veda che è una banconota da cinquanta euro. Perciò io credo che quella è una banconota da cinquanta euro. La mia credenza è vera, perché quella è davvero una banconota da cinquanta euro. Inoltre la mia credenza è realmente causata dal fatto che quella è una banconota da cinquanta euro. Quindi il fatto che sia una banconota da cinquanta euro è causalmente connesso in modo appropriato con la mia credenza che è una banconota da cinquanta euro. Dunque le condizioni 1), 2), 3G) sono soddisfatte. Perciò, secondo Goldman, io so che quella è una banconota da cinquanta euro. Ma questo non è sostenibile perché il mio portafoglio contiene, a mia insaputa, una banconota contraffatta da cinquanta euro che è una riproduzione così perfetta da essere indistinguibile da una banconota autentica. Perciò non si può dire che io sappia realmente che la banconota che ho estratto dal mio portafoglio è una banconota da cinquanta euro, perché crederei che è una banconota da cinquanta euro anche se fosse la banconota contraffatta. 5. Plantinga Secondo Plantinga, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3P) la credenza di S che p è stata prodotta in S «da facoltà cognitive
che lavorano propriamente», cioè che «funzionano come dovrebbero»; inoltre «il piano progettuale che regola la produzione di quella credenza è mirato alla produzione di credenze vere», ed «esiste un’alta probabilità statistica che una credenza prodotta a queste condizioni sia vera»22. Il concetto di conoscenza di Plantinga non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio si basa sul fatto che l’orologio segna quell’ora. Ma gli orologi sono spesso imprecisi, perciò non esiste un’alta probabilità statistica che la credenza che l’ora sia quella segnata da un orologio sia vera. Nondimeno il concetto di conoscenza di Plantinga è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che, a mia insaputa, nel mio cervello vi sia uno speciale circuito neurale che formerà in me la credenza che il mondo finirà un certo giorno, e la formerà realmente alla vigilia di quel giorno. Supponiamo di essere alla vigilia del fatale giorno, e che quello speciale circuito neurale funzioni come previsto. Perciò io credo che il mondo finirà domani. La mia credenza è vera, perché il mondo realmente finirà domani. Inoltre, la mia credenza è stata prodotta in me da facoltà cognitive che lavorano propriamente, il piano progettuale che regola la produzione di quella credenza è mirato alla produzione di una credenza vera, ed esiste un’alta probabilità statistica che una credenza prodotta a queste condizioni sia vera. Dunque le condizioni 1), 2), 3P) sono soddisfatte. Perciò, secondo Plantinga, io so che il mondo finirà domani. Ma questo non è sostenibile, perché io non ho alcuna prova che il mondo finirà domani, né voi, nel cui cervello non vi è quello speciale circuito neurale, mi credereste se io annunciassi che il mondo finirà domani. 6. Nozick Secondo Nozick, le condizioni 1) e 3) vanno sostituite con le seguenti condizioni: 1N) «S crede, in base a un metodo o modo M per arrivare a credere, che p»23; 3N) «se p non fosse vera e S usasse M per 22
21
Goldman 1967, p. 369.
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Plantinga 1993, pp. 46-47. Nozick 1981, p. 179.
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4. Goldman Secondo Goldman, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3G) «il fatto p è causalmente connesso in modo ‘appropriato’ con la credenza di S che p»21. In modo ‘appropriato’ significa: la credenza di S che p è realmente causata da p. Il concetto di conoscenza di Goldman non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio non è causata dal fatto che l’ora è quella, bensì dal fatto che l’orologio segna quell’ora. Quindi il fatto che l’ora è quella non è causalmente connesso in modo appropriato con la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio. Nondimeno il concetto di conoscenza di Goldman è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io estragga dal mio portafoglio una banconota e veda che è una banconota da cinquanta euro. Perciò io credo che quella è una banconota da cinquanta euro. La mia credenza è vera, perché quella è davvero una banconota da cinquanta euro. Inoltre la mia credenza è realmente causata dal fatto che quella è una banconota da cinquanta euro. Quindi il fatto che sia una banconota da cinquanta euro è causalmente connesso in modo appropriato con la mia credenza che è una banconota da cinquanta euro. Dunque le condizioni 1), 2), 3G) sono soddisfatte. Perciò, secondo Goldman, io so che quella è una banconota da cinquanta euro. Ma questo non è sostenibile perché il mio portafoglio contiene, a mia insaputa, una banconota contraffatta da cinquanta euro che è una riproduzione così perfetta da essere indistinguibile da una banconota autentica. Perciò non si può dire che io sappia realmente che la banconota che ho estratto dal mio portafoglio è una banconota da cinquanta euro, perché crederei che è una banconota da cinquanta euro anche se fosse la banconota contraffatta. 5. Plantinga Secondo Plantinga, la condizione 3) va sostituita con la condizione: 3P) la credenza di S che p è stata prodotta in S «da facoltà cognitive
che lavorano propriamente», cioè che «funzionano come dovrebbero»; inoltre «il piano progettuale che regola la produzione di quella credenza è mirato alla produzione di credenze vere», ed «esiste un’alta probabilità statistica che una credenza prodotta a queste condizioni sia vera»22. Il concetto di conoscenza di Plantinga non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, la credenza di Mario che l’ora sia quella segnata dall’orologio si basa sul fatto che l’orologio segna quell’ora. Ma gli orologi sono spesso imprecisi, perciò non esiste un’alta probabilità statistica che la credenza che l’ora sia quella segnata da un orologio sia vera. Nondimeno il concetto di conoscenza di Plantinga è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che, a mia insaputa, nel mio cervello vi sia uno speciale circuito neurale che formerà in me la credenza che il mondo finirà un certo giorno, e la formerà realmente alla vigilia di quel giorno. Supponiamo di essere alla vigilia del fatale giorno, e che quello speciale circuito neurale funzioni come previsto. Perciò io credo che il mondo finirà domani. La mia credenza è vera, perché il mondo realmente finirà domani. Inoltre, la mia credenza è stata prodotta in me da facoltà cognitive che lavorano propriamente, il piano progettuale che regola la produzione di quella credenza è mirato alla produzione di una credenza vera, ed esiste un’alta probabilità statistica che una credenza prodotta a queste condizioni sia vera. Dunque le condizioni 1), 2), 3P) sono soddisfatte. Perciò, secondo Plantinga, io so che il mondo finirà domani. Ma questo non è sostenibile, perché io non ho alcuna prova che il mondo finirà domani, né voi, nel cui cervello non vi è quello speciale circuito neurale, mi credereste se io annunciassi che il mondo finirà domani. 6. Nozick Secondo Nozick, le condizioni 1) e 3) vanno sostituite con le seguenti condizioni: 1N) «S crede, in base a un metodo o modo M per arrivare a credere, che p»23; 3N) «se p non fosse vera e S usasse M per 22
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Goldman 1967, p. 369.
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Plantinga 1993, pp. 46-47. Nozick 1981, p. 179.
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arrivare alla credenza se (o non) p, allora S non crederebbe, in base a M, che p»24; 4N) «se p fosse vera e S usasse M per arrivare alla credenza se (o non) p, allora S crederebbe, in base a M, che p»25. Il concetto di conoscenza di Nozick non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti Mario non crede, in base al metodo di guardare un orologio che funziona per arrivare a credere, che l’ora sia quella segnata dall’orologio, perché l’orologio non funziona. Nondimeno il concetto di conoscenza di Nozick è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che di notte io veda un cane. Perciò io credo, in base al metodo della vista per arrivare a credere, che quello è un cane. La mia credenza è vera, perché quello è realmente un cane. Inoltre, se quello non fosse un cane e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, allora io non crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. Se invece quello fosse un cane e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, allora io crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. Dunque le condizioni 1N), 2), 3N), 4N) sono soddisfatte. Perciò, secondo Nozick, io so che quello è un cane. Ma questo non è sostenibile, perché io potrei non saper distinguere chiaramente un cane da un lupo. Perciò, se quello non fosse un cane ma fosse un lupo, e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, anche in quel caso io crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. 7. Dretske Secondo Dretske, alle condizioni 1)-3) va aggiunta la condizione: 4D) «le prove o fondamenti» che S ha per credere che p «non sarebbero stati disponibili se ciò» che S crede, cioè p, «fosse falso»26. Il concetto di conoscenza di Dretske non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, le prove o fondamenti che Mario ha che l’ora sia Ibid. Ibid. 26 Dretske 1971, p. 19.
davvero quella, cioè il fatto che l’orologio segni quell’ora, sarebbero state disponibili se ciò in cui Mario crede, cioè che l’ora sia quella, fosse falso. Nondimeno il concetto di conoscenza di Dretske è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io veda delle frasi su uno schermo e le comprenda. Perciò io credo di star leggendo. La mia credenza è vera, perché sto davvero leggendo. La mia credenza è anche giustificata, perché ho le prove di star leggendo, cioè il fatto che vedo delle frasi su uno schermo e le comprendo. Inoltre, le prove che ho per credere di star leggendo non sarebbero state disponibili se ciò che io credo, cioè di star leggendo, fosse falso. Dunque le condizioni 1)-3), 4D) sono soddisfatte. Perciò, secondo Dretske, io so di star leggendo. Ma questo non è sostenibile perché il fatto che io veda delle frasi su uno schermo e le comprenda non implica necessariamente che io stia leggendo. Per esempio, potrei sognare di star leggendo, o avere allucinazioni che mi fanno credere di star leggendo, o uno scienziato pazzo potrebbe aver manipolato il mio cervello in modo da farmi credere di star leggendo, e così via. Le prove che ho per credere di star leggendo non escludono tali possibilità. 8. Zagzebski Secondo Zagzebski, «la conoscenza è uno stato di credenza che nasce da atti di virtù intellettuale», dove «un atto di virtù intellettuale A è un atto che nasce dalla componente motivazionale di A, è qualcosa che una persona con la virtù A (probabilmente) farebbe in quelle circostanze, riesce a raggiungere il fine della motivazione di A, ed è tale che l’agente acquista una credenza vera (un contatto cognitivo con la realtà) attraverso i caratteri di quell’atto»27. Il concetto di conoscenza di Zagzebski non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, lo stato di credenza di Mario che l’ora sia quella non nasce da un atto di virtù intellettuale bensì da un atto di credulità, e con un atto di credulità non si acquista una credenza vera attraverso i caratteri di quell’atto.
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Zagzebski 1996, pp. 270-271.
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arrivare alla credenza se (o non) p, allora S non crederebbe, in base a M, che p»24; 4N) «se p fosse vera e S usasse M per arrivare alla credenza se (o non) p, allora S crederebbe, in base a M, che p»25. Il concetto di conoscenza di Nozick non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti Mario non crede, in base al metodo di guardare un orologio che funziona per arrivare a credere, che l’ora sia quella segnata dall’orologio, perché l’orologio non funziona. Nondimeno il concetto di conoscenza di Nozick è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che di notte io veda un cane. Perciò io credo, in base al metodo della vista per arrivare a credere, che quello è un cane. La mia credenza è vera, perché quello è realmente un cane. Inoltre, se quello non fosse un cane e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, allora io non crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. Se invece quello fosse un cane e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, allora io crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. Dunque le condizioni 1N), 2), 3N), 4N) sono soddisfatte. Perciò, secondo Nozick, io so che quello è un cane. Ma questo non è sostenibile, perché io potrei non saper distinguere chiaramente un cane da un lupo. Perciò, se quello non fosse un cane ma fosse un lupo, e io usassi il metodo della vista per arrivare alla credenza se quello è (o non è) un cane, anche in quel caso io crederei, in base al metodo della vista, che quello è un cane. 7. Dretske Secondo Dretske, alle condizioni 1)-3) va aggiunta la condizione: 4D) «le prove o fondamenti» che S ha per credere che p «non sarebbero stati disponibili se ciò» che S crede, cioè p, «fosse falso»26. Il concetto di conoscenza di Dretske non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, le prove o fondamenti che Mario ha che l’ora sia Ibid. Ibid. 26 Dretske 1971, p. 19.
davvero quella, cioè il fatto che l’orologio segni quell’ora, sarebbero state disponibili se ciò in cui Mario crede, cioè che l’ora sia quella, fosse falso. Nondimeno il concetto di conoscenza di Dretske è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che io veda delle frasi su uno schermo e le comprenda. Perciò io credo di star leggendo. La mia credenza è vera, perché sto davvero leggendo. La mia credenza è anche giustificata, perché ho le prove di star leggendo, cioè il fatto che vedo delle frasi su uno schermo e le comprendo. Inoltre, le prove che ho per credere di star leggendo non sarebbero state disponibili se ciò che io credo, cioè di star leggendo, fosse falso. Dunque le condizioni 1)-3), 4D) sono soddisfatte. Perciò, secondo Dretske, io so di star leggendo. Ma questo non è sostenibile perché il fatto che io veda delle frasi su uno schermo e le comprenda non implica necessariamente che io stia leggendo. Per esempio, potrei sognare di star leggendo, o avere allucinazioni che mi fanno credere di star leggendo, o uno scienziato pazzo potrebbe aver manipolato il mio cervello in modo da farmi credere di star leggendo, e così via. Le prove che ho per credere di star leggendo non escludono tali possibilità. 8. Zagzebski Secondo Zagzebski, «la conoscenza è uno stato di credenza che nasce da atti di virtù intellettuale», dove «un atto di virtù intellettuale A è un atto che nasce dalla componente motivazionale di A, è qualcosa che una persona con la virtù A (probabilmente) farebbe in quelle circostanze, riesce a raggiungere il fine della motivazione di A, ed è tale che l’agente acquista una credenza vera (un contatto cognitivo con la realtà) attraverso i caratteri di quell’atto»27. Il concetto di conoscenza di Zagzebski non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, lo stato di credenza di Mario che l’ora sia quella non nasce da un atto di virtù intellettuale bensì da un atto di credulità, e con un atto di credulità non si acquista una credenza vera attraverso i caratteri di quell’atto.
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Nondimeno il concetto di conoscenza di Zagzebski è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che uno scienziato superficiale effettui esperimenti con procedure scelte a caso, ma che, in un particolare esperimento, la procedura da lui scelta a caso sia, per un colpo di fortuna, rigorosa e adeguata, e lo scienziato ottenga un risultato corretto. Ora, l’atto di scegliere quella particolare procedura è un atto di virtù intellettuale perché nasce dalla componente motivazionale di quella virtù, cioè trovare un risultato corretto, è qualcosa che uno scienziato con quella virtù (probabilmente) farebbe in quelle circostanze, riesce a raggiungere il fine della motivazione di quella virtù, ed è tale che quello scienziato acquista una credenza vera (un contatto cognitivo con la realtà) attraverso i caratteri di quell’atto. Dunque le condizioni di Zagzebski sono soddisfatte. Perciò, secondo Zagzebski, quello scienziato ha conoscenza. Ma questo non è sostenibile, perché non si può dire che, per uno scienziato, avere conoscenza significhi ottenere risultati con una procedura scelta a caso, anche se, in un particolare esperimento, per un colpo di fortuna, la procedura scelta a caso è rigorosa e adeguata e lo scienziato ottiene un risultato corretto. 9. Lewis Secondo Lewis, S sa che p se e solo se «p vale in ogni possibilità che non è eliminata dalle prove che possiede S», tranne «quelle possibilità che noi ignoriamo appropriatamente», dove «‘noi’ significa: il parlante e gli ascoltatori di un dato contesto; cioè, quelli di noi che discutono insieme della conoscenza di S. È il nostro ignorare, e non l’ignorare di S, che importa per quello che possiamo dire con verità sulla conoscenza di S»28. Quali possibilità noi possiamo ignorare appropriatamente è determinato da alcune regole, che comprendono le seguenti: a) «Una possibilità che realmente si attua non può mai essere ignorata appropriatamente»29. b) Se «una possibilità somiglia salientemente a un’altra», allora, «se una di esse non può essere ignorata appropriatamente, neppure l’altra potrà essere ignorata appropriatamente»30. Lewis 1996, p. 561. Ivi, p. 554. 30 Ivi, p. 556. 28 29
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Il concetto di conoscenza di Lewis non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, per noi che discutiamo della conoscenza di Mario, la possibilità che l’ora sia diversa da quella segnata dall’orologio non è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché noi non possiamo ignorare appropriatamente tale possibilità. Questo segue dal fatto che, da un lato, in base alla regola a), noi non possiamo ignorare appropriatamente la possibilità che l’ora sia quella segnata dall’orologio, perché tale possibilità realmente si attua, dal momento che l’ora è davvero quella. Dall’altro lato, in base alla regola b), noi non possiamo ignorare appropriatamente neppure la possibilità che l’ora sia diversa da quella segnata dall’orologio, perché tale possibilità somiglia salientemente alla possibilità che l’ora sia quella segnata dall’orologio, dal momento che gli orologi stradali spesso sono imprecisi. Nondimeno il concetto di conoscenza di Lewis è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che Mario guardi un orologio stradale non funzionante ma creda che funzioni. Supponiamo, inoltre, che Mario lo guardi alle undici, che l’orologio segni le undici, e che perciò Mario creda che sono le undici. Allora, per noi che discutiamo della conoscenza di Mario, la possibilità che non siano le undici non è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché noi non possiamo ignorare appropriatamente tale possibilità. Questo, come abbiamo visto sopra, segue dalle regole a) e b). Perciò, secondo Lewis, Mario non sa che sono le undici. Consideriamo ora Giovanni, che si trova abbastanza vicino a Mario ma in una posizione da cui può vedere un altro orologio stradale funzionante ed esatto che segna le undici, ma non si rende conto che Mario non può vederlo. Per Giovanni, che discute della conoscenza di Mario in un contesto diverso dal nostro, la possibilità che Mario non sappia che sono le undici è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché Giovanni può ignorare appropriatamente tale possibilità. Per lui, infatti, quest’ultima non somiglia salientemente alla possibilità che Mario sappia che sono le undici, dal momento che Giovanni dà per scontato che Mario possa vedere l’orologio stradale funzionante ed esatto. Dunque le condizioni di Lewis sono soddisfatte. Perciò, secondo Lewis, Mario sa che sono le undici. Ma dire che vi è un contesto in cui Mario non sa che sono le undici, e un altro contesto in cui Mario sa che sono le undici, è inaccettabile. Infatti Mario non sa che sono le undici indipendentemente dal contesto, perché 71
Nondimeno il concetto di conoscenza di Zagzebski è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che uno scienziato superficiale effettui esperimenti con procedure scelte a caso, ma che, in un particolare esperimento, la procedura da lui scelta a caso sia, per un colpo di fortuna, rigorosa e adeguata, e lo scienziato ottenga un risultato corretto. Ora, l’atto di scegliere quella particolare procedura è un atto di virtù intellettuale perché nasce dalla componente motivazionale di quella virtù, cioè trovare un risultato corretto, è qualcosa che uno scienziato con quella virtù (probabilmente) farebbe in quelle circostanze, riesce a raggiungere il fine della motivazione di quella virtù, ed è tale che quello scienziato acquista una credenza vera (un contatto cognitivo con la realtà) attraverso i caratteri di quell’atto. Dunque le condizioni di Zagzebski sono soddisfatte. Perciò, secondo Zagzebski, quello scienziato ha conoscenza. Ma questo non è sostenibile, perché non si può dire che, per uno scienziato, avere conoscenza significhi ottenere risultati con una procedura scelta a caso, anche se, in un particolare esperimento, per un colpo di fortuna, la procedura scelta a caso è rigorosa e adeguata e lo scienziato ottiene un risultato corretto. 9. Lewis Secondo Lewis, S sa che p se e solo se «p vale in ogni possibilità che non è eliminata dalle prove che possiede S», tranne «quelle possibilità che noi ignoriamo appropriatamente», dove «‘noi’ significa: il parlante e gli ascoltatori di un dato contesto; cioè, quelli di noi che discutono insieme della conoscenza di S. È il nostro ignorare, e non l’ignorare di S, che importa per quello che possiamo dire con verità sulla conoscenza di S»28. Quali possibilità noi possiamo ignorare appropriatamente è determinato da alcune regole, che comprendono le seguenti: a) «Una possibilità che realmente si attua non può mai essere ignorata appropriatamente»29. b) Se «una possibilità somiglia salientemente a un’altra», allora, «se una di esse non può essere ignorata appropriatamente, neppure l’altra potrà essere ignorata appropriatamente»30. Lewis 1996, p. 561. Ivi, p. 554. 30 Ivi, p. 556. 28 29
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Il concetto di conoscenza di Lewis non è confutato dal controesempio di Russell perché, in base a esso, Mario non conosce davvero l’ora. Infatti, per noi che discutiamo della conoscenza di Mario, la possibilità che l’ora sia diversa da quella segnata dall’orologio non è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché noi non possiamo ignorare appropriatamente tale possibilità. Questo segue dal fatto che, da un lato, in base alla regola a), noi non possiamo ignorare appropriatamente la possibilità che l’ora sia quella segnata dall’orologio, perché tale possibilità realmente si attua, dal momento che l’ora è davvero quella. Dall’altro lato, in base alla regola b), noi non possiamo ignorare appropriatamente neppure la possibilità che l’ora sia diversa da quella segnata dall’orologio, perché tale possibilità somiglia salientemente alla possibilità che l’ora sia quella segnata dall’orologio, dal momento che gli orologi stradali spesso sono imprecisi. Nondimeno il concetto di conoscenza di Lewis è inadeguato, come mostra il seguente controesempio. Supponiamo che Mario guardi un orologio stradale non funzionante ma creda che funzioni. Supponiamo, inoltre, che Mario lo guardi alle undici, che l’orologio segni le undici, e che perciò Mario creda che sono le undici. Allora, per noi che discutiamo della conoscenza di Mario, la possibilità che non siano le undici non è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché noi non possiamo ignorare appropriatamente tale possibilità. Questo, come abbiamo visto sopra, segue dalle regole a) e b). Perciò, secondo Lewis, Mario non sa che sono le undici. Consideriamo ora Giovanni, che si trova abbastanza vicino a Mario ma in una posizione da cui può vedere un altro orologio stradale funzionante ed esatto che segna le undici, ma non si rende conto che Mario non può vederlo. Per Giovanni, che discute della conoscenza di Mario in un contesto diverso dal nostro, la possibilità che Mario non sappia che sono le undici è eliminata dalle prove che Mario possiede, perché Giovanni può ignorare appropriatamente tale possibilità. Per lui, infatti, quest’ultima non somiglia salientemente alla possibilità che Mario sappia che sono le undici, dal momento che Giovanni dà per scontato che Mario possa vedere l’orologio stradale funzionante ed esatto. Dunque le condizioni di Lewis sono soddisfatte. Perciò, secondo Lewis, Mario sa che sono le undici. Ma dire che vi è un contesto in cui Mario non sa che sono le undici, e un altro contesto in cui Mario sa che sono le undici, è inaccettabile. Infatti Mario non sa che sono le undici indipendentemente dal contesto, perché 71
il fatto che l’orologio stradale visto da lui segni le undici e che siano realmente le undici è una mera coincidenza. 10. Filosofia analitica e conoscenza L’inadeguatezza di questi come di tutti gli altri tentativi che sono stati fatti di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, deriva dal fatto che essi sono stati condotti nell’ambito della filosofia analitica, secondo la quale, come afferma Williams, la principale questione rispetto alla conoscenza è: «Che cos’è la conoscenza?»31. Per la filosofia analitica ciò che «si richiede, idealmente, è una precisa spiegazione o analisi del concetto di conoscenza»32. Tale spiegazione o analisi non può limitarsi a descrivere «semplicemente uno stato o condizione di fatto» ma deve avere «uno statuto normativo», cioè deve stabilire una volta per sempre quali caratteri deve avere la conoscenza, e «questa dimensione normativa distingue le teorie filosofiche della conoscenza dalle indagini meramente fattuali»33. Più specificamente, per la filosofia analitica la principale questione rispetto alla conoscenza è: Che cos’è la conoscenza proposizionale consapevole? Per essa, infatti, la conoscenza è conoscenza proposizionale, perché «solo laddove c’è un contenuto articolabile proposizionalmente possono esserci relazioni di giustificazione»34. Ed è conoscenza consapevole, perché avere conoscenza richiede «quel tipo di consapevolezza che è implicita nella conoscenza propriamente detta: quel tipo di conoscenza che comporta la capacità di fare affermazioni articolabili proposizionalmente»35. Che, per la filosofia analitica, la conoscenza sia conoscenza proposizionale consapevole ha due importanti conseguenze. La prima conseguenza è che la conoscenza percettiva non è conoscenza, perché «come potrebbe il semplice avere esperienze o sentire dati sensoriali giustificare alcunché?»36. Infatti, «per quanto eleWilliams 2001, p. 1. Ibid. 33 Ivi, p. 11. 34 Ivi, p. 98. 35 Ivi, p. 99. 36 Ivi, p. 97.
mentare si consideri la conoscenza, essa deve essere capace di stare in relazioni logiche con tutti i giudizi che si basano su di essa. Per esempio, deve essere capace di essere coerente o incoerente con essi»37. Perciò «anche la conoscenza più elementare deve avere un contenuto proposizionale, e quindi non può consistere nella semplice relazione con un particolare. Sentire un dato sensoriale non è conoscere qualcosa più di quanto lo sia stare vicino a un lampione»38. La seconda conseguenza è che gli animali non umani non hanno conoscenza, perché le risposte agli stimoli «non esprimono alcun contenuto proposizionale»39. Esse diventano conoscenza solo «in virtù del fatto che le trattiamo come ragioni di ulteriori giudizi. Questo genere di cose viene con l’imparare un linguaggio. Gli animali non vi partecipano»40. Sebbene «si possa insegnare agli animali a reagire in modo differenziato agli stimoli ambientali, questo non ci autorizza a pensare che un piccione che, per ottenere cibo, sceglie un disco rosso, dica che è presente un disco rosso»41. Ma dire che la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza proposizionale consapevole?’, e che una risposta a essa deve avere uno statuto normativo, è ingiustificato. Infatti, in primo luogo, gran parte della nostra conoscenza è conoscenza percettiva, e gran parte della conoscenza percettiva è conoscenza inconsapevole, perché si ottiene attraverso processi inferenziali che si svolgono troppo velocemente, e a un livello troppo basso nella mente, per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Inoltre, anche gli animali non umani hanno conoscenza, altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere. In secondo luogo, la conoscenza si presenta sotto molteplici forme, che possono anche variare col tempo. Questo rende non realistica la pretesa che l’analisi del concetto di conoscenza debba avere uno statuto normativo. Qualunque analisi del concetto di conoscenza venisse data, per quanto adeguata rispetto alle forme di conoscenza presenti, potrebbe risultare inadeguata rispetto alle forme di conoscenza future.
31
Ibid. Ibid. 39 Ivi, p. 174. 40 Ibid. 41 Ibid.
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il fatto che l’orologio stradale visto da lui segni le undici e che siano realmente le undici è una mera coincidenza. 10. Filosofia analitica e conoscenza L’inadeguatezza di questi come di tutti gli altri tentativi che sono stati fatti di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, deriva dal fatto che essi sono stati condotti nell’ambito della filosofia analitica, secondo la quale, come afferma Williams, la principale questione rispetto alla conoscenza è: «Che cos’è la conoscenza?»31. Per la filosofia analitica ciò che «si richiede, idealmente, è una precisa spiegazione o analisi del concetto di conoscenza»32. Tale spiegazione o analisi non può limitarsi a descrivere «semplicemente uno stato o condizione di fatto» ma deve avere «uno statuto normativo», cioè deve stabilire una volta per sempre quali caratteri deve avere la conoscenza, e «questa dimensione normativa distingue le teorie filosofiche della conoscenza dalle indagini meramente fattuali»33. Più specificamente, per la filosofia analitica la principale questione rispetto alla conoscenza è: Che cos’è la conoscenza proposizionale consapevole? Per essa, infatti, la conoscenza è conoscenza proposizionale, perché «solo laddove c’è un contenuto articolabile proposizionalmente possono esserci relazioni di giustificazione»34. Ed è conoscenza consapevole, perché avere conoscenza richiede «quel tipo di consapevolezza che è implicita nella conoscenza propriamente detta: quel tipo di conoscenza che comporta la capacità di fare affermazioni articolabili proposizionalmente»35. Che, per la filosofia analitica, la conoscenza sia conoscenza proposizionale consapevole ha due importanti conseguenze. La prima conseguenza è che la conoscenza percettiva non è conoscenza, perché «come potrebbe il semplice avere esperienze o sentire dati sensoriali giustificare alcunché?»36. Infatti, «per quanto eleWilliams 2001, p. 1. Ibid. 33 Ivi, p. 11. 34 Ivi, p. 98. 35 Ivi, p. 99. 36 Ivi, p. 97.
mentare si consideri la conoscenza, essa deve essere capace di stare in relazioni logiche con tutti i giudizi che si basano su di essa. Per esempio, deve essere capace di essere coerente o incoerente con essi»37. Perciò «anche la conoscenza più elementare deve avere un contenuto proposizionale, e quindi non può consistere nella semplice relazione con un particolare. Sentire un dato sensoriale non è conoscere qualcosa più di quanto lo sia stare vicino a un lampione»38. La seconda conseguenza è che gli animali non umani non hanno conoscenza, perché le risposte agli stimoli «non esprimono alcun contenuto proposizionale»39. Esse diventano conoscenza solo «in virtù del fatto che le trattiamo come ragioni di ulteriori giudizi. Questo genere di cose viene con l’imparare un linguaggio. Gli animali non vi partecipano»40. Sebbene «si possa insegnare agli animali a reagire in modo differenziato agli stimoli ambientali, questo non ci autorizza a pensare che un piccione che, per ottenere cibo, sceglie un disco rosso, dica che è presente un disco rosso»41. Ma dire che la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza proposizionale consapevole?’, e che una risposta a essa deve avere uno statuto normativo, è ingiustificato. Infatti, in primo luogo, gran parte della nostra conoscenza è conoscenza percettiva, e gran parte della conoscenza percettiva è conoscenza inconsapevole, perché si ottiene attraverso processi inferenziali che si svolgono troppo velocemente, e a un livello troppo basso nella mente, per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Inoltre, anche gli animali non umani hanno conoscenza, altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere. In secondo luogo, la conoscenza si presenta sotto molteplici forme, che possono anche variare col tempo. Questo rende non realistica la pretesa che l’analisi del concetto di conoscenza debba avere uno statuto normativo. Qualunque analisi del concetto di conoscenza venisse data, per quanto adeguata rispetto alle forme di conoscenza presenti, potrebbe risultare inadeguata rispetto alle forme di conoscenza future.
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Ibid. Ibid. 39 Ivi, p. 174. 40 Ibid. 41 Ibid.
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11. Concezione giustificazionista e conoscenza Più in generale, l’inadeguatezza dei tentativi che sono stati fatti di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, deriva dal fatto che essi sono stati condotti nell’ambito della concezione giustificazionista, per la quale lo scopo della filosofia è quello di giustificare conoscenze già acquisite. Giustificarle presuppone che si abbia un criterio per stabilire una volta per sempre che cos’è la conoscenza. Per questo motivo, per la concezione giustificazionista, la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza?’, e ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza che abbia uno statuto normativo. Di conseguenza, l’intera concezione giustificazionista va incontro alla difficoltà a cui, come abbiamo visto, va incontro la filosofia analitica. È vero che, tra i sostenitori della concezione giustificazionista, Popper sostiene che la questione non è «‘Che cos’è la conoscenza?’, che, messa in questa forma, indubbiamente non può portare ad altro che a una sterile disputa su definizioni nominali», ma è piuttosto la «questione, più rigorosa: ‘Che cos’è la conoscenza scientifica?’»42. Ma tale questione va incontro a difficoltà simili a quelle a cui va incontro la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’, perché anche la conoscenza scientifica si presenta sotto molteplici forme, che possono variare col tempo. Per uscire da queste difficoltà, la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’ va sostituita, come vedremo in seguito, con la questione ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’. Questo comporta abbandonare la concezione giustificazionista, che riduce il problema della conoscenza a quello della giustificazione di conoscenze già acquisite, sostituendola con la concezione euristica, che pone al centro del problema della conoscenza la questione della ricerca di nuove conoscenze e di nuove procedure di scoperta. 42
Popper 1994a, p. 347.
Parte seconda
Le chimere della conoscenza
11. Concezione giustificazionista e conoscenza Più in generale, l’inadeguatezza dei tentativi che sono stati fatti di modificare il concetto di conoscenza come credenza vera giustificata, deriva dal fatto che essi sono stati condotti nell’ambito della concezione giustificazionista, per la quale lo scopo della filosofia è quello di giustificare conoscenze già acquisite. Giustificarle presuppone che si abbia un criterio per stabilire una volta per sempre che cos’è la conoscenza. Per questo motivo, per la concezione giustificazionista, la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza?’, e ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza che abbia uno statuto normativo. Di conseguenza, l’intera concezione giustificazionista va incontro alla difficoltà a cui, come abbiamo visto, va incontro la filosofia analitica. È vero che, tra i sostenitori della concezione giustificazionista, Popper sostiene che la questione non è «‘Che cos’è la conoscenza?’, che, messa in questa forma, indubbiamente non può portare ad altro che a una sterile disputa su definizioni nominali», ma è piuttosto la «questione, più rigorosa: ‘Che cos’è la conoscenza scientifica?’»42. Ma tale questione va incontro a difficoltà simili a quelle a cui va incontro la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’, perché anche la conoscenza scientifica si presenta sotto molteplici forme, che possono variare col tempo. Per uscire da queste difficoltà, la questione ‘Che cos’è la conoscenza?’ va sostituita, come vedremo in seguito, con la questione ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’. Questo comporta abbandonare la concezione giustificazionista, che riduce il problema della conoscenza a quello della giustificazione di conoscenze già acquisite, sostituendola con la concezione euristica, che pone al centro del problema della conoscenza la questione della ricerca di nuove conoscenze e di nuove procedure di scoperta. 42
Popper 1994a, p. 347.
Parte seconda
Le chimere della conoscenza
5.
La chimera della verità
1. Questioni riguardanti la conoscenza Dopo aver esaminato i limiti della concezione fondazionalista, ritorniamo alla concezione euristica. Una volta stabilito che una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica può essere feconda, nasce il compito di svilupparla. Tale compito può essere intrapreso, però, solo dopo aver affrontato alcune questioni preliminari. Si tratta di questioni riguardanti la conoscenza. Che questioni riguardanti la conoscenza possano essere preliminari allo sviluppo di una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica, dipende dal fatto che, in base a tale concezione, la filosofia è un’indagine sul mondo e il mondo è il dato primario. Perciò le questioni riguardanti la conoscenza hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Il seguito di questo libro è dedicato a esse. Le questioni riguardanti la conoscenza che verranno esaminate sono le chimere della conoscenza, lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza, la trama fine della conoscenza. 2. Le chimere della conoscenza Consideriamo innanzitutto la questione delle chimere della conoscenza. La filosofia nella sua lunga storia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito alcune chimere riguardanti la conoscenza, da cui è stata deviata in direzioni che le hanno impedito di comprenderne adeguatamente il carattere, e di cui ci si deve liberare se si vuo-
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La chimera della verità
1. Questioni riguardanti la conoscenza Dopo aver esaminato i limiti della concezione fondazionalista, ritorniamo alla concezione euristica. Una volta stabilito che una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica può essere feconda, nasce il compito di svilupparla. Tale compito può essere intrapreso, però, solo dopo aver affrontato alcune questioni preliminari. Si tratta di questioni riguardanti la conoscenza. Che questioni riguardanti la conoscenza possano essere preliminari allo sviluppo di una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica, dipende dal fatto che, in base a tale concezione, la filosofia è un’indagine sul mondo e il mondo è il dato primario. Perciò le questioni riguardanti la conoscenza hanno la priorità rispetto a tutte le altre questioni filosofiche. Il seguito di questo libro è dedicato a esse. Le questioni riguardanti la conoscenza che verranno esaminate sono le chimere della conoscenza, lo statuto della conoscenza, i mezzi della conoscenza, la trama fine della conoscenza. 2. Le chimere della conoscenza Consideriamo innanzitutto la questione delle chimere della conoscenza. La filosofia nella sua lunga storia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito alcune chimere riguardanti la conoscenza, da cui è stata deviata in direzioni che le hanno impedito di comprenderne adeguatamente il carattere, e di cui ci si deve liberare se si vuo-
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le sviluppare una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica. Le chimere della conoscenza che verranno esaminate sono la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente. 3. La natura della verità Una chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la verità. Fin dall’antichità molti hanno individuato in essa lo scopo della filosofia. Per esempio, Aristotele afferma che «è giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché lo scopo della scienza teoretica è la verità»1. Questa posizione è stata poi ribadita da molti nell’età moderna e contemporanea. Per esempio, Popper afferma che «la nostra preoccupazione principale nella filosofia e nella scienza deve essere la ricerca della verità»2. L’individuazione dello scopo della filosofia nella verità richiede una risposta alla domanda: che cos’è la verità? Una risposta è data da Aristotele, il quale considera due concetti di verità: la verità come corrispondenza e la verità come intuizione dell’essenza. 4. La verità come corrispondenza Secondo il concetto di verità come corrispondenza, «il vero è dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è», e «il falso è dire di ciò che è che non è, e di ciò che non è che è»3. Ma, per Aristotele, il concetto di verità come corrispondenza è inadeguato. Infatti, se noi non possediamo un accesso all’essere che sia indipendente dalla mente, allora una corrispondenza tra pensiero ed essere non è realmente una corrispondenza tra il pensiero e un essere indipendente dal pensiero, bensì solo una corrispondenza tra il pensiero e un qualcosa che è solo «una affezione della mente», e Aristotele, Metaphysica, 1, 993 b 19-21. Popper 1972, p. 44. 3 Aristotele, Metaphysica, 7, 1011 b 26-27. 1 2
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quindi non è «una realtà sussistente fuori della mente e oggettivamente»4. È solo una corrispondenza con un qualcosa che non esiste «nelle cose» ma «solo nella mente»5. Ma noi non possediamo un accesso all’essere che sia indipendente dalla mente. Perciò il concetto di verità come corrispondenza è inadeguato e «va lasciato da parte»6. Nondimeno, abbastanza stranamente, Aristotele viene spesso visto come un sostenitore del concetto di verità come corrispondenza, o addirittura come il suo iniziatore. Per esempio, Tarski afferma che «la più antica spiegazione» del concetto di verità come corrispondenza «si trova forse nella Metafisica di Aristotele»7. Anche se «nella filosofia moderna sono stati offerti vari sostituti della formulazione aristotelica» di tale concetto, «le nuove formulazioni, una volta analizzate più attentamente, si dimostrano meno chiare e inequivocabili di quella proposta da Aristotele»8. Esse sono tutte riformulazioni della «classica concezione aristotelica della verità»9. Ma queste affermazioni sono ingiustificate. Infatti, in primo luogo, non è corretto dire che la più antica spiegazione del concetto di verità come corrispondenza si trova nella Metafisica di Aristotele. Per esempio, già in Platone si trova l’affermazione che proposizione «vera è quella che dice le cose come sono», proposizione «falsa è quella che dice cose diverse da quelle che sono»10. In secondo luogo, non è corretto dire che il concetto di verità come corrispondenza è proposto da Aristotele. Come abbiamo visto, per Aristotele tale concetto di verità è inadeguato e perciò va lasciato da parte. 5. L’argomento di Popper Nonostante l’obiezione di Aristotele, il concetto di verità come corrispondenza ha trovato molti sostenitori fino all’epoca attuale. Per esempio, Popper afferma che quello di verità come corrispondenza è «il concetto assoluto o oggettivo di verità, che ciascuno Ivi, E 4, 1027 b 34-1028 a 1-2. Ivi, E 4, 1027 b 26-27. 6 Ivi, E 4, 1027 b 34. 7 Tarski 1969, p. 63. 8 Ibid. 9 Tarski 1944, p. 342. 10 Platone, Sophista, 263 b 4-5, 7. 4 5
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le sviluppare una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica. Le chimere della conoscenza che verranno esaminate sono la verità, l’oggettività, la certezza, l’intuizione, la deduzione, il rigore, la mente. 3. La natura della verità Una chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la verità. Fin dall’antichità molti hanno individuato in essa lo scopo della filosofia. Per esempio, Aristotele afferma che «è giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché lo scopo della scienza teoretica è la verità»1. Questa posizione è stata poi ribadita da molti nell’età moderna e contemporanea. Per esempio, Popper afferma che «la nostra preoccupazione principale nella filosofia e nella scienza deve essere la ricerca della verità»2. L’individuazione dello scopo della filosofia nella verità richiede una risposta alla domanda: che cos’è la verità? Una risposta è data da Aristotele, il quale considera due concetti di verità: la verità come corrispondenza e la verità come intuizione dell’essenza. 4. La verità come corrispondenza Secondo il concetto di verità come corrispondenza, «il vero è dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è», e «il falso è dire di ciò che è che non è, e di ciò che non è che è»3. Ma, per Aristotele, il concetto di verità come corrispondenza è inadeguato. Infatti, se noi non possediamo un accesso all’essere che sia indipendente dalla mente, allora una corrispondenza tra pensiero ed essere non è realmente una corrispondenza tra il pensiero e un essere indipendente dal pensiero, bensì solo una corrispondenza tra il pensiero e un qualcosa che è solo «una affezione della mente», e Aristotele, Metaphysica, 1, 993 b 19-21. Popper 1972, p. 44. 3 Aristotele, Metaphysica, 7, 1011 b 26-27. 1 2
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quindi non è «una realtà sussistente fuori della mente e oggettivamente»4. È solo una corrispondenza con un qualcosa che non esiste «nelle cose» ma «solo nella mente»5. Ma noi non possediamo un accesso all’essere che sia indipendente dalla mente. Perciò il concetto di verità come corrispondenza è inadeguato e «va lasciato da parte»6. Nondimeno, abbastanza stranamente, Aristotele viene spesso visto come un sostenitore del concetto di verità come corrispondenza, o addirittura come il suo iniziatore. Per esempio, Tarski afferma che «la più antica spiegazione» del concetto di verità come corrispondenza «si trova forse nella Metafisica di Aristotele»7. Anche se «nella filosofia moderna sono stati offerti vari sostituti della formulazione aristotelica» di tale concetto, «le nuove formulazioni, una volta analizzate più attentamente, si dimostrano meno chiare e inequivocabili di quella proposta da Aristotele»8. Esse sono tutte riformulazioni della «classica concezione aristotelica della verità»9. Ma queste affermazioni sono ingiustificate. Infatti, in primo luogo, non è corretto dire che la più antica spiegazione del concetto di verità come corrispondenza si trova nella Metafisica di Aristotele. Per esempio, già in Platone si trova l’affermazione che proposizione «vera è quella che dice le cose come sono», proposizione «falsa è quella che dice cose diverse da quelle che sono»10. In secondo luogo, non è corretto dire che il concetto di verità come corrispondenza è proposto da Aristotele. Come abbiamo visto, per Aristotele tale concetto di verità è inadeguato e perciò va lasciato da parte. 5. L’argomento di Popper Nonostante l’obiezione di Aristotele, il concetto di verità come corrispondenza ha trovato molti sostenitori fino all’epoca attuale. Per esempio, Popper afferma che quello di verità come corrispondenza è «il concetto assoluto o oggettivo di verità, che ciascuno Ivi, E 4, 1027 b 34-1028 a 1-2. Ivi, E 4, 1027 b 26-27. 6 Ivi, E 4, 1027 b 34. 7 Tarski 1969, p. 63. 8 Ibid. 9 Tarski 1944, p. 342. 10 Platone, Sophista, 263 b 4-5, 7. 4 5
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di noi usa costantemente»11. Sebbene «le ideologie relativiste dominanti del nostro tempo» abbiano messo in forse tale concetto di verità, Tarski lo ha riabilitato con la sua condizione di adeguatezza delle definizioni di verità, e «la riuscita riabilitazione di questo concetto assoluto di verità è uno dei risultati più importanti della logica moderna»12. Ma questa affermazione di Popper è ingiustificata perché, con la sua condizione di adeguatezza delle definizioni di verità, Tarski non ha affatto riabilitato il concetto di verità come corrispondenza. Infatti, Tarski usa «il termine ‘vero’ in modo che si possano asserire tutte le equivalenze della forma» (T) ‘P’ è vera se e solo se P, e chiama «‘adeguata’ una definizione di verità se tutte queste equivalenze seguono da essa»13. Tale «definizione, e tutte le equivalenze» della forma (T) «implicate da essa», vengono «formulate nel metalinguaggio», mentre «il simbolo P di (T) sta per una proposizione qualsiasi del linguaggio-oggetto»14. Ma allora le equivalenze della forma (T) non esprimono una corrispondenza tra il pensiero e un essere indipendente dal pensiero, bensì solo una corrispondenza tra le proposizioni di due linguaggi, il linguaggio oggetto e il metalinguaggio. Perciò, poiché le proposizioni sono espressioni di pensieri, le equivalenze della forma (T) esprimono solo una corrispondenza tra un pensiero e un altro pensiero, quindi tra due affezioni della mente. Pertanto la condizione (T) di Tarski di adeguatezza delle definizioni di verità non sfugge all’obiezione di Aristotele. Inoltre, la condizione (T) di Tarski dà luogo a un circolo. Infatti, sotto quale condizione si possono asserire le equivalenze della forma (T)? Non sotto la condizione che siano vere, altrimenti si presupporrebbe il concetto di verità dando così luogo a un circolo. Perciò le si deve poter asserire sotto la condizione che siano dimostrabili nel metalinguaggio. Difatti Tarski afferma che, «se riusciamo a introdurre nel metalinguaggio il termine ‘vero’ in modo che ogni proposizione della forma» (T) «possa essere dimostrata in base agli assiomi e alle regole di infe-
renza del metalinguaggio, allora diremo che il modo di usare il concetto di verità che è stato così stabilito è materialmente adeguato»15. Ma questa condizione presuppone che gli assiomi del metalinguaggio siano veri, quindi presuppone il concetto di verità, perché, se gli assiomi del metalinguaggio non fossero veri, qualche equivalenza della forma (T) potrebbe essere dimostrabile in base agli assiomi e alle regole di inferenza del metalinguaggio e tuttavia essere falsa. Perciò il requisito che gli assiomi del metalinguaggio siano veri è necessario. Questo conferma che la condizione (T) di Tarski di adeguatezza delle definizioni di verità dà luogo a un circolo. Contro questo argomento Raatikainen obietta che, se qualche equivalenza della forma (T) è falsa, questo significa che, per qualche enunciato P, l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’, è falsa. Perciò o 1) ‘ ‘P’ è vero’ è vero e P è falso, oppure 2) ‘ ‘P’ è vero’ è falso e P è vero. Questi sono gli unici «due casi possibili in cui l’equivalenza può essere falsa»16. Ora, «né l’uno né l’altro caso ha senso, cioè né l’uno né l’altro caso in realtà è possibile», perché se, come nel caso 1), ‘ ‘P’ è vero’ è vero, «allora certamente P è vero, non falso», e, se, come nel caso 2), ‘ ‘P’ è vero’ è falso, allora P è falso, non vero, dunque nessuna equivalenza della forma (T) «può essere falsa»17. Ma questa obiezione è infondata perché se, come nel caso 1), ‘ ‘P’ è vero’ è vero, allora per inferirne, come fa Raatikainen, che certamente P è vero, occorrerebbe che l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’ fosse vera, mentre per ipotesi è falsa. Nello stesso modo se, come nel caso 2), ‘ ‘P’ è vero’ è falso, allora, per inferirne, come fa Raatikainen, che P è falso, occorrerebbe che l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’ fosse vera, mentre per ipotesi è falsa. 6. La verità come intuizione dell’essenza Secondo il concetto di verità come intuizione dell’essenza, la verità è intuire l’essenza di una cosa perché, «quando l’intuizione ha per oggetto ciò che una cosa è secondo l’essenza, è vera»18. Più precisamente, «la verità è l’intuire e l’enunciare» l’essenza di una cosa, perTarski 1983, p. 404. Raatikainen 2003, p. 39. 17 Ibid. 18 Aristotele, De Anima, 6, 430 b 28.
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Popper 1994b, p. 76. Ibid. 13 Tarski 1944, p. 344. 14 Ivi, p. 350.
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di noi usa costantemente»11. Sebbene «le ideologie relativiste dominanti del nostro tempo» abbiano messo in forse tale concetto di verità, Tarski lo ha riabilitato con la sua condizione di adeguatezza delle definizioni di verità, e «la riuscita riabilitazione di questo concetto assoluto di verità è uno dei risultati più importanti della logica moderna»12. Ma questa affermazione di Popper è ingiustificata perché, con la sua condizione di adeguatezza delle definizioni di verità, Tarski non ha affatto riabilitato il concetto di verità come corrispondenza. Infatti, Tarski usa «il termine ‘vero’ in modo che si possano asserire tutte le equivalenze della forma» (T) ‘P’ è vera se e solo se P, e chiama «‘adeguata’ una definizione di verità se tutte queste equivalenze seguono da essa»13. Tale «definizione, e tutte le equivalenze» della forma (T) «implicate da essa», vengono «formulate nel metalinguaggio», mentre «il simbolo P di (T) sta per una proposizione qualsiasi del linguaggio-oggetto»14. Ma allora le equivalenze della forma (T) non esprimono una corrispondenza tra il pensiero e un essere indipendente dal pensiero, bensì solo una corrispondenza tra le proposizioni di due linguaggi, il linguaggio oggetto e il metalinguaggio. Perciò, poiché le proposizioni sono espressioni di pensieri, le equivalenze della forma (T) esprimono solo una corrispondenza tra un pensiero e un altro pensiero, quindi tra due affezioni della mente. Pertanto la condizione (T) di Tarski di adeguatezza delle definizioni di verità non sfugge all’obiezione di Aristotele. Inoltre, la condizione (T) di Tarski dà luogo a un circolo. Infatti, sotto quale condizione si possono asserire le equivalenze della forma (T)? Non sotto la condizione che siano vere, altrimenti si presupporrebbe il concetto di verità dando così luogo a un circolo. Perciò le si deve poter asserire sotto la condizione che siano dimostrabili nel metalinguaggio. Difatti Tarski afferma che, «se riusciamo a introdurre nel metalinguaggio il termine ‘vero’ in modo che ogni proposizione della forma» (T) «possa essere dimostrata in base agli assiomi e alle regole di infe-
renza del metalinguaggio, allora diremo che il modo di usare il concetto di verità che è stato così stabilito è materialmente adeguato»15. Ma questa condizione presuppone che gli assiomi del metalinguaggio siano veri, quindi presuppone il concetto di verità, perché, se gli assiomi del metalinguaggio non fossero veri, qualche equivalenza della forma (T) potrebbe essere dimostrabile in base agli assiomi e alle regole di inferenza del metalinguaggio e tuttavia essere falsa. Perciò il requisito che gli assiomi del metalinguaggio siano veri è necessario. Questo conferma che la condizione (T) di Tarski di adeguatezza delle definizioni di verità dà luogo a un circolo. Contro questo argomento Raatikainen obietta che, se qualche equivalenza della forma (T) è falsa, questo significa che, per qualche enunciato P, l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’, è falsa. Perciò o 1) ‘ ‘P’ è vero’ è vero e P è falso, oppure 2) ‘ ‘P’ è vero’ è falso e P è vero. Questi sono gli unici «due casi possibili in cui l’equivalenza può essere falsa»16. Ora, «né l’uno né l’altro caso ha senso, cioè né l’uno né l’altro caso in realtà è possibile», perché se, come nel caso 1), ‘ ‘P’ è vero’ è vero, «allora certamente P è vero, non falso», e, se, come nel caso 2), ‘ ‘P’ è vero’ è falso, allora P è falso, non vero, dunque nessuna equivalenza della forma (T) «può essere falsa»17. Ma questa obiezione è infondata perché se, come nel caso 1), ‘ ‘P’ è vero’ è vero, allora per inferirne, come fa Raatikainen, che certamente P è vero, occorrerebbe che l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’ fosse vera, mentre per ipotesi è falsa. Nello stesso modo se, come nel caso 2), ‘ ‘P’ è vero’ è falso, allora, per inferirne, come fa Raatikainen, che P è falso, occorrerebbe che l’equivalenza ‘ ‘P’ è vero se e solo se P’ fosse vera, mentre per ipotesi è falsa. 6. La verità come intuizione dell’essenza Secondo il concetto di verità come intuizione dell’essenza, la verità è intuire l’essenza di una cosa perché, «quando l’intuizione ha per oggetto ciò che una cosa è secondo l’essenza, è vera»18. Più precisamente, «la verità è l’intuire e l’enunciare» l’essenza di una cosa, perTarski 1983, p. 404. Raatikainen 2003, p. 39. 17 Ibid. 18 Aristotele, De Anima, 6, 430 b 28.
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ché «enunciare e affermare non sono la stessa cosa»19. Ma enunciare l’essenza di una cosa vuol dire darne la definizione, perché «la definizione è il discorso che rivela l’essenza di una cosa»20. Perciò la verità è l’intuire l’essenza di una cosa e il darne la definizione. Il concetto di verità come intuizione dell’essenza è diverso dal concetto di verità come corrispondenza, perché l’intuizione dell’essenza non è semplicemente una corrispondenza, un parallelismo tra pensiero ed essere ma è un’unità di pensiero ed essere. Infatti, intuendo l’essenza di una cosa, si afferra l’essere fondamentale di quella cosa, ossia «ciò che quella cosa è per se stessa»21. Perciò per Aristotele il concetto di verità come intuizione dell’essenza è adeguato. Difatti «conoscere una cosa significa conoscerne l’essenza», perché «ogni singola cosa e la sua pura essenza coincidono»22. 7. La verità e la scienza moderna Che il concetto di verità come intuizione dell’essenza sia adeguato per Aristotele non significa, però, che esso sia adeguato in assoluto. Infatti, tale concetto di verità si applica alla scienza essenzialista aristotelica, secondo cui «noi abbiamo scienza di una cosa quando ne conosciamo l’essenza»23. Non si applica invece alla scienza moderna, che è nata nel Seicento da una svolta filosofica: la rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune ‘affezioni’, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza. Questa svolta filosofica è espressa nei termini più chiari possibili da Galilei: «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti»24. Se invece noi «vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi Aristotele, Metaphysica, 10, 1051 b 24-25. Aristotele, Topica, VII, 3, 153 a 15-16. 21 Aristotele, Metaphysica, Z 4, 1029 b, 14-15. 22 Ivi, Z 6, 1031 b 19 21. 23 Ivi, Z 6, 1031 b 6-7. 24 Galilei 1968, V, p. 187.
lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più esattamente in quelli che in questi»25. Infatti, che sia vano tentare di penetrare l’essenza delle sustanze naturali non impedisce «che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza» e altre simili, «non possino da noi esser apprese»26. In particolare, è la rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali che ha reso possibile una trattazione matematica della natura. Questa non era possibile nella scienza aristotelica a causa della sua pretesa di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, perché l’essenza non è una quantità. Poiché la scienza aristotelica mira a conoscere l’essenza delle sostanze naturali, che non è una quantità, la matematica, essendo la scienza della quantità, non è adatta alla fisica, e perciò anche «il metodo della matematica non è adatto alla fisica»27. Invece, con la decisione della scienza moderna di limitare il proprio ambito ad alcune affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, che hanno un carattere matematico, una trattazione matematica della natura è diventata possibile. Questo è espresso da Newton dicendo che gli scienziati, «avendo abbandonate le forme sostanziali e le qualità occulte, si sono rivolti a ricondurre i fenomeni della natura a leggi matematiche»28. Anzi, una trattazione matematica della natura è diventata necessaria perché, essendo la matematica la scienza della quantità, una considerazione della natura come quantità richiede necessariamente l’uso della matematica. Perciò Galilei afferma che «il voler trattar le quistioni naturali senza geometria è un tentar di fare quello che è impossibile a esser fatto»29. Che per Galilei una trattazione matematica della natura sia necessaria non significa, come afferma Husserl, che per lui «la natura nella sua ‘vera essenza’ è matematica»30. Certo, Galilei dice che «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)», ed «è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geoIvi, V, p. 188. Ibid. 27 Aristotele, 3, 995 a 16-17. 28 Newton 1972, I, p. 15. 29 Galilei 1968, VII, p. 229. 30 Husserl 1950-, VI, p. 54.
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ché «enunciare e affermare non sono la stessa cosa»19. Ma enunciare l’essenza di una cosa vuol dire darne la definizione, perché «la definizione è il discorso che rivela l’essenza di una cosa»20. Perciò la verità è l’intuire l’essenza di una cosa e il darne la definizione. Il concetto di verità come intuizione dell’essenza è diverso dal concetto di verità come corrispondenza, perché l’intuizione dell’essenza non è semplicemente una corrispondenza, un parallelismo tra pensiero ed essere ma è un’unità di pensiero ed essere. Infatti, intuendo l’essenza di una cosa, si afferra l’essere fondamentale di quella cosa, ossia «ciò che quella cosa è per se stessa»21. Perciò per Aristotele il concetto di verità come intuizione dell’essenza è adeguato. Difatti «conoscere una cosa significa conoscerne l’essenza», perché «ogni singola cosa e la sua pura essenza coincidono»22. 7. La verità e la scienza moderna Che il concetto di verità come intuizione dell’essenza sia adeguato per Aristotele non significa, però, che esso sia adeguato in assoluto. Infatti, tale concetto di verità si applica alla scienza essenzialista aristotelica, secondo cui «noi abbiamo scienza di una cosa quando ne conosciamo l’essenza»23. Non si applica invece alla scienza moderna, che è nata nel Seicento da una svolta filosofica: la rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune ‘affezioni’, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza. Questa svolta filosofica è espressa nei termini più chiari possibili da Galilei: «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti»24. Se invece noi «vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi Aristotele, Metaphysica, 10, 1051 b 24-25. Aristotele, Topica, VII, 3, 153 a 15-16. 21 Aristotele, Metaphysica, Z 4, 1029 b, 14-15. 22 Ivi, Z 6, 1031 b 19 21. 23 Ivi, Z 6, 1031 b 6-7. 24 Galilei 1968, V, p. 187.
lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più esattamente in quelli che in questi»25. Infatti, che sia vano tentare di penetrare l’essenza delle sustanze naturali non impedisce «che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza» e altre simili, «non possino da noi esser apprese»26. In particolare, è la rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali che ha reso possibile una trattazione matematica della natura. Questa non era possibile nella scienza aristotelica a causa della sua pretesa di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, perché l’essenza non è una quantità. Poiché la scienza aristotelica mira a conoscere l’essenza delle sostanze naturali, che non è una quantità, la matematica, essendo la scienza della quantità, non è adatta alla fisica, e perciò anche «il metodo della matematica non è adatto alla fisica»27. Invece, con la decisione della scienza moderna di limitare il proprio ambito ad alcune affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, che hanno un carattere matematico, una trattazione matematica della natura è diventata possibile. Questo è espresso da Newton dicendo che gli scienziati, «avendo abbandonate le forme sostanziali e le qualità occulte, si sono rivolti a ricondurre i fenomeni della natura a leggi matematiche»28. Anzi, una trattazione matematica della natura è diventata necessaria perché, essendo la matematica la scienza della quantità, una considerazione della natura come quantità richiede necessariamente l’uso della matematica. Perciò Galilei afferma che «il voler trattar le quistioni naturali senza geometria è un tentar di fare quello che è impossibile a esser fatto»29. Che per Galilei una trattazione matematica della natura sia necessaria non significa, come afferma Husserl, che per lui «la natura nella sua ‘vera essenza’ è matematica»30. Certo, Galilei dice che «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)», ed «è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geoIvi, V, p. 188. Ibid. 27 Aristotele, 3, 995 a 16-17. 28 Newton 1972, I, p. 15. 29 Galilei 1968, VII, p. 229. 30 Husserl 1950-, VI, p. 54.
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metriche»31. Ma con ciò egli non intende dire che la natura nella sua vera essenza sia matematica. Se lo dicesse contraddirebbe la sua tesi che la scienza deve rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni. Infatti, tali affezioni, per esempio il luogo, il moto, la figura, la grandezza, hanno carattere matematico. Perciò, se per Galilei la natura nella sua vera essenza fosse matematica, ne seguirebbe che, conoscendo tali affezioni, la scienza conoscerebbe l’essenza delle sostanze naturali, il che, secondo Galilei, è impossibile. Quello che Galilei intende dire è invece che le affezioni che sono oggetto della scienza hanno carattere matematico e non sono meramente soggettive, perché noi non possiamo concepire una materia o sostanza corporea senza concepirla come dotata di tali affezioni. Infatti, Galilei afferma: «Io sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni»32. L’essere terminata, figurata, di una certa grandezza, in un certo luogo e tempo, in movimento, in contatto con un altro corpo, l’essere una, poche o molte, sono affezioni della materia e non sono puramente soggettive. Ma, appunto, sono affezioni, e perciò non sono l’essenza delle sostanze naturali. A causa della rinuncia della scienza moderna a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni, il concetto di verità come intuizione dell’essenza non si applica a essa. D’altra parte, alla scienza moderna non si applica neppure il concetto di verità come corrispondenza, perché tale concetto è inadeguato per la ragione sottolineata da Aristotele. Perciò alla scienza moderna non si applica nessuno dei due concetti di verità considerati da Aristotele.
8. Concetto di verità e criterio di verità Contro questa conclusione si potrebbe dire che l’obiezione di Aristotele contro il concetto di verità come corrispondenza non è corretta. Per esempio, Davidson afferma che tale obiezione sarebbe corretta solo se «si pensasse che una teoria utile renderebbe la verità epistemicamente accessibile»33. Solo allora si potrebbe accusare «una teoria della verità come corrispondenza di rendere la verità ‘inutile’ o insensata»34. Ma questa accusa non tocca il sostenitore del concetto di verità come corrispondenza, perché egli ha anche «sempre sostenuto che la verità è indipendente dalle nostre credenze e dalla nostra capacità di apprendere la verità», perciò «la sua posizione non ne risulta toccata»35. Dunque, secondo Davidson, l’obiezione di Aristotele sarebbe corretta solo se fosse rivolta contro la pretesa che il concetto di verità come corrispondenza fornisca un criterio di verità. Non è corretta, invece, se è rivolta contro il concetto di verità come corrispondenza in quanto tale. Effettivamente, obiezioni contro la pretesa che il concetto di verità come corrispondenza fornisca un criterio di verità sono state avanzate da più parti. Per esempio, Kant afferma che il concetto di verità come corrispondenza non fornisce un criterio di verità perché in base a esso «la mia conoscenza per valere come vera deve accordarsi con l’oggetto. Ora, però, io posso confrontare l’oggetto con la mia conoscenza solo conoscendolo», ma, «poiché l’oggetto è fuori di me e la conoscenza è in me, posso giudicare soltanto se la mia conoscenza dell’oggetto si accorda con la mia conoscenza dell’oggetto»36. Con il concetto di verità come corrispondenza «è proprio come se uno facesse una deposizione davanti a un tribunale e nel farlo si appellasse a un testimone che nessuno conosce, ma che volesse rendersi attendibile sostenendo che colui che lo ha chiamato a testimone è un uomo onesto»37. Davidson 2005, p. 39. Ibid. 35 Ibid. 36 Kant 1900-, IX, p. 50. 37 Ibid. 33 34
31 32
Galilei 1968, VI, p. 232. Ivi, VI, p. 347.
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metriche»31. Ma con ciò egli non intende dire che la natura nella sua vera essenza sia matematica. Se lo dicesse contraddirebbe la sua tesi che la scienza deve rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni. Infatti, tali affezioni, per esempio il luogo, il moto, la figura, la grandezza, hanno carattere matematico. Perciò, se per Galilei la natura nella sua vera essenza fosse matematica, ne seguirebbe che, conoscendo tali affezioni, la scienza conoscerebbe l’essenza delle sostanze naturali, il che, secondo Galilei, è impossibile. Quello che Galilei intende dire è invece che le affezioni che sono oggetto della scienza hanno carattere matematico e non sono meramente soggettive, perché noi non possiamo concepire una materia o sostanza corporea senza concepirla come dotata di tali affezioni. Infatti, Galilei afferma: «Io sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni»32. L’essere terminata, figurata, di una certa grandezza, in un certo luogo e tempo, in movimento, in contatto con un altro corpo, l’essere una, poche o molte, sono affezioni della materia e non sono puramente soggettive. Ma, appunto, sono affezioni, e perciò non sono l’essenza delle sostanze naturali. A causa della rinuncia della scienza moderna a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni, il concetto di verità come intuizione dell’essenza non si applica a essa. D’altra parte, alla scienza moderna non si applica neppure il concetto di verità come corrispondenza, perché tale concetto è inadeguato per la ragione sottolineata da Aristotele. Perciò alla scienza moderna non si applica nessuno dei due concetti di verità considerati da Aristotele.
8. Concetto di verità e criterio di verità Contro questa conclusione si potrebbe dire che l’obiezione di Aristotele contro il concetto di verità come corrispondenza non è corretta. Per esempio, Davidson afferma che tale obiezione sarebbe corretta solo se «si pensasse che una teoria utile renderebbe la verità epistemicamente accessibile»33. Solo allora si potrebbe accusare «una teoria della verità come corrispondenza di rendere la verità ‘inutile’ o insensata»34. Ma questa accusa non tocca il sostenitore del concetto di verità come corrispondenza, perché egli ha anche «sempre sostenuto che la verità è indipendente dalle nostre credenze e dalla nostra capacità di apprendere la verità», perciò «la sua posizione non ne risulta toccata»35. Dunque, secondo Davidson, l’obiezione di Aristotele sarebbe corretta solo se fosse rivolta contro la pretesa che il concetto di verità come corrispondenza fornisca un criterio di verità. Non è corretta, invece, se è rivolta contro il concetto di verità come corrispondenza in quanto tale. Effettivamente, obiezioni contro la pretesa che il concetto di verità come corrispondenza fornisca un criterio di verità sono state avanzate da più parti. Per esempio, Kant afferma che il concetto di verità come corrispondenza non fornisce un criterio di verità perché in base a esso «la mia conoscenza per valere come vera deve accordarsi con l’oggetto. Ora, però, io posso confrontare l’oggetto con la mia conoscenza solo conoscendolo», ma, «poiché l’oggetto è fuori di me e la conoscenza è in me, posso giudicare soltanto se la mia conoscenza dell’oggetto si accorda con la mia conoscenza dell’oggetto»36. Con il concetto di verità come corrispondenza «è proprio come se uno facesse una deposizione davanti a un tribunale e nel farlo si appellasse a un testimone che nessuno conosce, ma che volesse rendersi attendibile sostenendo che colui che lo ha chiamato a testimone è un uomo onesto»37. Davidson 2005, p. 39. Ibid. 35 Ibid. 36 Kant 1900-, IX, p. 50. 37 Ibid. 33 34
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Galilei 1968, VI, p. 232. Ivi, VI, p. 347.
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Similmente, Frege afferma che, in base al concetto di verità come corrispondenza, per stabilire se qualcosa è vero, «dovremmo indagare se è vero che una rappresentazione e un qualcosa di reale corrispondono»38. Ma «far combaciare una rappresentazione con una cosa sarebbe possibile solo se la cosa fosse anch’essa una rappresentazione», e «non è questo che si intende quando si definisce la verità come la corrispondenza di una rappresentazione con qualcosa di reale. Infatti è essenziale proprio che ciò che è reale sia distinto dalla rappresentazione»39. Perciò «questo tentativo di spiegare la verità in termini della corrispondenza fallisce»40. Nondimeno l’argomento di Davidson è inadeguato. Esso, infatti, trascura che, se il concetto di verità come corrispondenza si applicasse alla scienza moderna, allora la conoscenza scientifica dovrebbe essere conoscenza di verità nel senso di tale concetto di verità. Ma se, come afferma Davidson, la verità non è epistemicamente accessibile, allora la conoscenza scientifica non può essere conoscenza di verità nel senso del concetto di verità come corrispondenza. Se lo fosse, la conoscenza scientifica sarebbe irraggiungibile, dal momento che, secondo Davidson, la verità non è epistemicamente accessibile. Si deve ribadire, perciò, che il concetto di verità come corrispondenza non si applica alla scienza moderna. Ci si può chiedere, tuttavia, se alla scienza moderna potrebbe applicarsi qualche altro concetto di verità. La risposta è negativa, perché tutti i concetti alternativi di verità che sono stati proposti sono inadeguati. Esamineremo tre di essi: il concetto di verità come coerenza di Hilbert, il concetto di verità come coesione sistematica di Joachim, il concetto di verità come dimostrabilità di Prawitz. 9. La verità come coerenza Secondo il concetto di verità come coerenza di Hilbert, una proposizione è vera se e solo se è coerente – cioè non è in contraddizione – con un insieme specificato di altre proposizioni. Hilbert, infatti, afferma che, «se assiomi dati arbitrariamente non sono in contraddizione tra loro, con tutte le loro conseguenze, allo-
ra essi sono veri»41. In particolare, una proposizione che non è in contraddizione con assiomi dati arbitrariamente è vera. La coerenza è una condizione necessaria e sufficiente della verità, perché «‘non contraddittorio’ è identico a ‘vero’»42. Ma il concetto di verità come coerenza è inadeguato perché due proposizioni contraddittorie tra loro possono essere entrambe coerenti con uno stesso insieme specificato di altre proposizioni. Per esempio, l’ipotesi del continuo e la sua negazione sono entrambe coerenti con gli assiomi della teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel, e perciò, in base al concetto di verità come coerenza, sono entrambe vere. Ma, poiché esse sono contraddittorie tra loro, questo è impossibile. Inoltre, in base a un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel – il teorema dell’esistenza di estensioni false – una proposizione di un dato campo della matematica può essere coerente con gli assiomi di quel campo pur essendo falsa, perciò la coerenza non è una condizione sufficiente per la verità. Questo era già stato osservato prima di Gödel. Per esempio, Pascal afferma che «né la contraddizione è un segno di falsità né la non contraddizione è un marchio di verità»43. E Kant afferma che «un giudizio, pur essendo esente da ogni contraddizione interna, può essere falso o infondato»44. 10. La verità come coesione sistematica Secondo il concetto di verità come coesione sistematica di Joachim, una proposizione è vera se e solo se forma, con un insieme specificato di altre proposizioni, un tutto coeso sistematicamente, cioè un tutto i cui elementi costituenti si implicano reciprocamente. Joachim, infatti, afferma che una proposizione è vera se e solo se costituisce, con un insieme specificato di altre proposizioni, «un tutto tale che tutti i suoi elementi costituenti si implicano reciprocamente» come «caratteri che contribuiscono a un unico significato concreto»45. Questo è il concetto «di verità come ‘coesione sisteHilbert 1976a, p. 66. Hilbert 1931b, p. 122. 43 Pascal 1904-14, XIII, fr. 384. 44 Kant 1900-, III, 141. 45 Joachim 1906, p. 66. 41 42
Frege 1990, p. 344. Ivi, pp. 343-344. 40 Ivi, p. 344. 38 39
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Similmente, Frege afferma che, in base al concetto di verità come corrispondenza, per stabilire se qualcosa è vero, «dovremmo indagare se è vero che una rappresentazione e un qualcosa di reale corrispondono»38. Ma «far combaciare una rappresentazione con una cosa sarebbe possibile solo se la cosa fosse anch’essa una rappresentazione», e «non è questo che si intende quando si definisce la verità come la corrispondenza di una rappresentazione con qualcosa di reale. Infatti è essenziale proprio che ciò che è reale sia distinto dalla rappresentazione»39. Perciò «questo tentativo di spiegare la verità in termini della corrispondenza fallisce»40. Nondimeno l’argomento di Davidson è inadeguato. Esso, infatti, trascura che, se il concetto di verità come corrispondenza si applicasse alla scienza moderna, allora la conoscenza scientifica dovrebbe essere conoscenza di verità nel senso di tale concetto di verità. Ma se, come afferma Davidson, la verità non è epistemicamente accessibile, allora la conoscenza scientifica non può essere conoscenza di verità nel senso del concetto di verità come corrispondenza. Se lo fosse, la conoscenza scientifica sarebbe irraggiungibile, dal momento che, secondo Davidson, la verità non è epistemicamente accessibile. Si deve ribadire, perciò, che il concetto di verità come corrispondenza non si applica alla scienza moderna. Ci si può chiedere, tuttavia, se alla scienza moderna potrebbe applicarsi qualche altro concetto di verità. La risposta è negativa, perché tutti i concetti alternativi di verità che sono stati proposti sono inadeguati. Esamineremo tre di essi: il concetto di verità come coerenza di Hilbert, il concetto di verità come coesione sistematica di Joachim, il concetto di verità come dimostrabilità di Prawitz. 9. La verità come coerenza Secondo il concetto di verità come coerenza di Hilbert, una proposizione è vera se e solo se è coerente – cioè non è in contraddizione – con un insieme specificato di altre proposizioni. Hilbert, infatti, afferma che, «se assiomi dati arbitrariamente non sono in contraddizione tra loro, con tutte le loro conseguenze, allo-
ra essi sono veri»41. In particolare, una proposizione che non è in contraddizione con assiomi dati arbitrariamente è vera. La coerenza è una condizione necessaria e sufficiente della verità, perché «‘non contraddittorio’ è identico a ‘vero’»42. Ma il concetto di verità come coerenza è inadeguato perché due proposizioni contraddittorie tra loro possono essere entrambe coerenti con uno stesso insieme specificato di altre proposizioni. Per esempio, l’ipotesi del continuo e la sua negazione sono entrambe coerenti con gli assiomi della teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel, e perciò, in base al concetto di verità come coerenza, sono entrambe vere. Ma, poiché esse sono contraddittorie tra loro, questo è impossibile. Inoltre, in base a un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel – il teorema dell’esistenza di estensioni false – una proposizione di un dato campo della matematica può essere coerente con gli assiomi di quel campo pur essendo falsa, perciò la coerenza non è una condizione sufficiente per la verità. Questo era già stato osservato prima di Gödel. Per esempio, Pascal afferma che «né la contraddizione è un segno di falsità né la non contraddizione è un marchio di verità»43. E Kant afferma che «un giudizio, pur essendo esente da ogni contraddizione interna, può essere falso o infondato»44. 10. La verità come coesione sistematica Secondo il concetto di verità come coesione sistematica di Joachim, una proposizione è vera se e solo se forma, con un insieme specificato di altre proposizioni, un tutto coeso sistematicamente, cioè un tutto i cui elementi costituenti si implicano reciprocamente. Joachim, infatti, afferma che una proposizione è vera se e solo se costituisce, con un insieme specificato di altre proposizioni, «un tutto tale che tutti i suoi elementi costituenti si implicano reciprocamente» come «caratteri che contribuiscono a un unico significato concreto»45. Questo è il concetto «di verità come ‘coesione sisteHilbert 1976a, p. 66. Hilbert 1931b, p. 122. 43 Pascal 1904-14, XIII, fr. 384. 44 Kant 1900-, III, 141. 45 Joachim 1906, p. 66. 41 42
Frege 1990, p. 344. Ivi, pp. 343-344. 40 Ivi, p. 344. 38 39
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matica’»46. La coesione sistematica «non va confusa con la coerenza della logica formale», perché «un pezzo di pensiero potrebbe essere privo di autocontraddizioni, potrebbe essere ‘coerente’ e ‘valido’ nel senso in cui il logico formale intende questi termini, e tuttavia non esibire quella coesione sistematica che costituisce la verità»47. Ma il concetto di verità come coesione sistematica è inadeguato perché, per esempio, le proposizioni di una favola costituiscono un tutto coeso sistematicamente pur essendo una finzione. A questa obiezione Joachim risponde che la verità è «un ideale che non può mai attuarsi in quanto tale, cioè nella sua completezza, come esperienza», perché la conoscenza umana non costituisce mai un tutto coeso sistematicamente «in questo senso idealmente completo», perciò la verità è «un ideale che non può mai in quanto tale, o nella sua completezza, essere reale come l’esperienza umana»48. Ma questa risposta è inadeguata perché, se la verità è un ideale che non può mai essere reale come l’esperienza umana, allora il concetto di verità come coesione sistematica non si applica all’esperienza umana. Né vale l’argomento che il concetto di verità come coesione sistematica non implica che una proposizione che forma un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni è vera, ma solo che è vera una proposizione che forma un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere. Infatti, in base al concetto di verità come coesione sistematica, le proposizioni appartenenti a quest’ultimo insieme sono vere se e solo se formano un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere, a loro volta le proposizioni appartenenti a quest’ultimo insieme sono vere se e solo se formano un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere, e così via. Si ha così un regresso all’infinito. 11. La verità come dimostrabilità Secondo il concetto di verità come dimostrabilità di Prawitz, una proposizione è vera se e solo se ne esiste una dimostrazione, dove che Ivi, p. 65. Ivi, p. 76. 48 Ivi, pp. 78-79.
cosa può contare come sua dimostrazione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Prawitz, infatti, afferma che «un enunciato è vero se e solo se ne esiste una dimostrazione», dove ‘esiste’ va inteso in «un senso astratto, atemporale», cioè «non si richiede che noi abbiamo realmente costruito la dimostrazione o che abbiamo un metodo per costruirla»49. Che cosa «conta come dimostrazione dei vari enunciati è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio matematico in questione»50. Ma il concetto di verità come dimostrabilità è inadeguato perché, in base a esso, un enunciato del linguaggio dell’aritmetica, per esempio, è vero se e solo se ne esiste una dimostrazione, dove che cosa può contare come sua dimostrazione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio dell’aritmetica. Ora, la teoria del significato per tale linguaggio deve specificare il significato del concetto di numero naturale, e questo è specificato dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine perché essi sono categorici, cioè hanno, a meno di isomorfismi, un unico modello – appunto, i numeri naturali. Ma, sebbene il significato del concetto di numero naturale sia specificato dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine, per il primo teorema di incompletezza di Gödel esiste un enunciato dell’aritmetica che è vero ma non è dimostrabile a partire dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine. Tale enunciato fornisce un esempio di proposizione che è vera ma per la quale non esiste una dimostrazione del tipo specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Dunque la verità non coincide con la dimostrabilità. 12. Plausibilità al posto della verità Che tutti i concetti alternativi di verità che sono stati proposti siano inadeguati implica che alla scienza moderna non si applica alcun concetto di verità noto. Poiché, ciò nonostante, essa si è sviluppata, questo significa che il suo sviluppo non è dipeso dal riferimento ad alcun concetto di verità.
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Prawitz 1998, p. 287. Ibid.
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matica’»46. La coesione sistematica «non va confusa con la coerenza della logica formale», perché «un pezzo di pensiero potrebbe essere privo di autocontraddizioni, potrebbe essere ‘coerente’ e ‘valido’ nel senso in cui il logico formale intende questi termini, e tuttavia non esibire quella coesione sistematica che costituisce la verità»47. Ma il concetto di verità come coesione sistematica è inadeguato perché, per esempio, le proposizioni di una favola costituiscono un tutto coeso sistematicamente pur essendo una finzione. A questa obiezione Joachim risponde che la verità è «un ideale che non può mai attuarsi in quanto tale, cioè nella sua completezza, come esperienza», perché la conoscenza umana non costituisce mai un tutto coeso sistematicamente «in questo senso idealmente completo», perciò la verità è «un ideale che non può mai in quanto tale, o nella sua completezza, essere reale come l’esperienza umana»48. Ma questa risposta è inadeguata perché, se la verità è un ideale che non può mai essere reale come l’esperienza umana, allora il concetto di verità come coesione sistematica non si applica all’esperienza umana. Né vale l’argomento che il concetto di verità come coesione sistematica non implica che una proposizione che forma un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni è vera, ma solo che è vera una proposizione che forma un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere. Infatti, in base al concetto di verità come coesione sistematica, le proposizioni appartenenti a quest’ultimo insieme sono vere se e solo se formano un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere, a loro volta le proposizioni appartenenti a quest’ultimo insieme sono vere se e solo se formano un tutto coeso sistematicamente con un insieme specificato di altre proposizioni vere, e così via. Si ha così un regresso all’infinito. 11. La verità come dimostrabilità Secondo il concetto di verità come dimostrabilità di Prawitz, una proposizione è vera se e solo se ne esiste una dimostrazione, dove che Ivi, p. 65. Ivi, p. 76. 48 Ivi, pp. 78-79.
cosa può contare come sua dimostrazione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Prawitz, infatti, afferma che «un enunciato è vero se e solo se ne esiste una dimostrazione», dove ‘esiste’ va inteso in «un senso astratto, atemporale», cioè «non si richiede che noi abbiamo realmente costruito la dimostrazione o che abbiamo un metodo per costruirla»49. Che cosa «conta come dimostrazione dei vari enunciati è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio matematico in questione»50. Ma il concetto di verità come dimostrabilità è inadeguato perché, in base a esso, un enunciato del linguaggio dell’aritmetica, per esempio, è vero se e solo se ne esiste una dimostrazione, dove che cosa può contare come sua dimostrazione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio dell’aritmetica. Ora, la teoria del significato per tale linguaggio deve specificare il significato del concetto di numero naturale, e questo è specificato dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine perché essi sono categorici, cioè hanno, a meno di isomorfismi, un unico modello – appunto, i numeri naturali. Ma, sebbene il significato del concetto di numero naturale sia specificato dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine, per il primo teorema di incompletezza di Gödel esiste un enunciato dell’aritmetica che è vero ma non è dimostrabile a partire dagli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine. Tale enunciato fornisce un esempio di proposizione che è vera ma per la quale non esiste una dimostrazione del tipo specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Dunque la verità non coincide con la dimostrabilità. 12. Plausibilità al posto della verità Che tutti i concetti alternativi di verità che sono stati proposti siano inadeguati implica che alla scienza moderna non si applica alcun concetto di verità noto. Poiché, ciò nonostante, essa si è sviluppata, questo significa che il suo sviluppo non è dipeso dal riferimento ad alcun concetto di verità.
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Prawitz 1998, p. 287. Ibid.
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In realtà una teoria scientifica non è un insieme di verità bensì un insieme di ipotesi plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti. Perciò per la scienza moderna il concetto di verità è superfluo e va sostituito con quello di plausibilità. Il concetto di plausibilità è tutto quanto occorre alla scienza moderna. Il concetto di verità è un residuo della scienza aristotelica, la quale pretendeva di conoscere l’essenza delle sostanze naturali e per la quale perciò il concetto di verità, e specificamente quello di verità come intuizione dell’essenza, era centrale. Diverso è il caso della scienza moderna, che ha tratto origine proprio dalla rinuncia alla pretesa di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, per la quale perciò il concetto di verità è inessenziale. 13. La filosofia analitica e la verità Di questo non sembra esservi chiara consapevolezza nella filosofia analitica. Per esempio, Dummett afferma che «la conoscenza consiste nell’apprensione della verità delle proposizioni»51. Ma la conoscenza non può consistere nell’apprensione della verità delle proposizioni perché, come abbiamo visto, alla scienza moderna non si applica alcun concetto di verità noto. Credere che la conoscenza consista nell’apprensione della verità delle proposizioni vuol dire confondere la scienza moderna con la scienza essenzialistica aristotelica. Un esempio di ciò è dato di nuovo da Dummett, il quale afferma che la scienza moderna è «un tentativo di dare una risposta» alla domanda «come le cose sono in sé, in contrasto col modo in cui ci appaiono»52. Essa cerca di dare una descrizione delle cose «del tutto indipendente dalla nostra esperienza», in contrapposizione a «una descrizione mediata da come le cose ci appaiono», che dipende «dal modo in cui noi percepiamo la realtà»53. Una «prima testimonianza di questo tentativo è rintracciabile nella distinzione tracciata da Galileo tra le proprietà primarie, come la forma, che percepiamo così come sono nella realtà, e le proprietà secondarie, come il Dummett 2001, p. 21. Ivi, p. 46. 53 Dummett 2006, p. 94. 51 52
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colore»54. Le proprietà primarie sono come le cose sono in sé, come esse «realmente sono»55. Ma così Dummett fraintende la natura della scienza moderna, perché questa non vuol essere conoscenza di come le cose sono in sé bensì solo di affezioni. E fraintende la natura delle proprietà primarie perché, mentre le cose in sé sono ciò che le cose sono indipendentemente da noi, le proprietà primarie dipendono da come noi concepiamo le cose. Infatti, come abbiamo visto, per Galilei le affezioni che sono oggetto della scienza sono caratterizzate dal fatto che noi non possiamo concepire una materia o sostanza corporea senza concepirla come dotata di tali affezioni. Ma il non poterla concepire come tale è qualcosa che riguarda noi, perciò le proprietà primarie sono legate al modo in cui noi concepiamo le cose. Lo stesso Dummett riconosce che, sebbene noi cerchiamo «una descrizione delle cose come realmente sono, in sé», una «cosa del genere non può esistere»56. Nel «tentativo di dire come le cose sono in sé, ci troviamo costretti al progressivo abbandono dei concetti tratti dall’esperienza», e il risultato finale del «processo di eliminare dalla descrizione del mondo esterno tutte le tracce di soggettività facendo a meno di tali concetti, è l’adozione di modelli provvisti solo di una struttura matematica astratta»57. Il loro «carattere astratto, la mancanza di contenuto concreto, ci dissuade dal supporre che con essi giungiamo a conoscere ‘come le cose sono in sé’»58. Perciò la scienza moderna non può «dare una risposta definitiva alla domanda come le cose sono in sé»59. Ma Dummett non ne conclude, come sarebbe naturale, che l’idea che la scienza moderna voglia essere conoscenza di come le cose sono in sé è inadeguata. A suo parere, la difficoltà che una concezione del mondo non incapsulata in alcuna descrizione non può esistere «non può essere risolta semplicemente abbandonando qualsiasi ambizione di scoprire ‘il’ mondo, quale può essere caratterizzato indipendentemente da noi, e contentandoci di descrivere il ‘nostro’ Dummett 2001, p. 46. Dummett 2006, p. 99. 56 Ibid. 57 Dummett 2001, pp. 46-47. 58 Ivi, p. 47. 59 Ivi, p. 46. 54 55
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In realtà una teoria scientifica non è un insieme di verità bensì un insieme di ipotesi plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti. Perciò per la scienza moderna il concetto di verità è superfluo e va sostituito con quello di plausibilità. Il concetto di plausibilità è tutto quanto occorre alla scienza moderna. Il concetto di verità è un residuo della scienza aristotelica, la quale pretendeva di conoscere l’essenza delle sostanze naturali e per la quale perciò il concetto di verità, e specificamente quello di verità come intuizione dell’essenza, era centrale. Diverso è il caso della scienza moderna, che ha tratto origine proprio dalla rinuncia alla pretesa di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, per la quale perciò il concetto di verità è inessenziale. 13. La filosofia analitica e la verità Di questo non sembra esservi chiara consapevolezza nella filosofia analitica. Per esempio, Dummett afferma che «la conoscenza consiste nell’apprensione della verità delle proposizioni»51. Ma la conoscenza non può consistere nell’apprensione della verità delle proposizioni perché, come abbiamo visto, alla scienza moderna non si applica alcun concetto di verità noto. Credere che la conoscenza consista nell’apprensione della verità delle proposizioni vuol dire confondere la scienza moderna con la scienza essenzialistica aristotelica. Un esempio di ciò è dato di nuovo da Dummett, il quale afferma che la scienza moderna è «un tentativo di dare una risposta» alla domanda «come le cose sono in sé, in contrasto col modo in cui ci appaiono»52. Essa cerca di dare una descrizione delle cose «del tutto indipendente dalla nostra esperienza», in contrapposizione a «una descrizione mediata da come le cose ci appaiono», che dipende «dal modo in cui noi percepiamo la realtà»53. Una «prima testimonianza di questo tentativo è rintracciabile nella distinzione tracciata da Galileo tra le proprietà primarie, come la forma, che percepiamo così come sono nella realtà, e le proprietà secondarie, come il Dummett 2001, p. 21. Ivi, p. 46. 53 Dummett 2006, p. 94. 51 52
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colore»54. Le proprietà primarie sono come le cose sono in sé, come esse «realmente sono»55. Ma così Dummett fraintende la natura della scienza moderna, perché questa non vuol essere conoscenza di come le cose sono in sé bensì solo di affezioni. E fraintende la natura delle proprietà primarie perché, mentre le cose in sé sono ciò che le cose sono indipendentemente da noi, le proprietà primarie dipendono da come noi concepiamo le cose. Infatti, come abbiamo visto, per Galilei le affezioni che sono oggetto della scienza sono caratterizzate dal fatto che noi non possiamo concepire una materia o sostanza corporea senza concepirla come dotata di tali affezioni. Ma il non poterla concepire come tale è qualcosa che riguarda noi, perciò le proprietà primarie sono legate al modo in cui noi concepiamo le cose. Lo stesso Dummett riconosce che, sebbene noi cerchiamo «una descrizione delle cose come realmente sono, in sé», una «cosa del genere non può esistere»56. Nel «tentativo di dire come le cose sono in sé, ci troviamo costretti al progressivo abbandono dei concetti tratti dall’esperienza», e il risultato finale del «processo di eliminare dalla descrizione del mondo esterno tutte le tracce di soggettività facendo a meno di tali concetti, è l’adozione di modelli provvisti solo di una struttura matematica astratta»57. Il loro «carattere astratto, la mancanza di contenuto concreto, ci dissuade dal supporre che con essi giungiamo a conoscere ‘come le cose sono in sé’»58. Perciò la scienza moderna non può «dare una risposta definitiva alla domanda come le cose sono in sé»59. Ma Dummett non ne conclude, come sarebbe naturale, che l’idea che la scienza moderna voglia essere conoscenza di come le cose sono in sé è inadeguata. A suo parere, la difficoltà che una concezione del mondo non incapsulata in alcuna descrizione non può esistere «non può essere risolta semplicemente abbandonando qualsiasi ambizione di scoprire ‘il’ mondo, quale può essere caratterizzato indipendentemente da noi, e contentandoci di descrivere il ‘nostro’ Dummett 2001, p. 46. Dummett 2006, p. 99. 56 Ibid. 57 Dummett 2001, pp. 46-47. 58 Ivi, p. 47. 59 Ivi, p. 46. 54 55
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mondo»60. Certo, noi «non abbiamo un’unica concezione del mondo» bensì «un certo numero di concezioni differenti», che «non sappiamo armonizzare in un’unica concezione unificata»61. Ma tutte queste concezioni sono concezioni di uno stesso mondo, e «questo ‘stesso mondo’ deve essere il ‘mondo qual è in sé’»62. Perciò la difficoltà va risolta senza abbandonare l’ambizione di scoprire il mondo in sé. L’unico modo per risolverla, secondo Dummett, consiste nel far riferimento a Dio, perché non si può «concepire il mondo come un’unica realtà, appresa differentemente da creature differenti» se non «esiste una mente che lo comprende completamente qual esso è in sé»63. E tale mente è la mente di Dio, che comprende il mondo in quanto lo costituisce, perché «la conoscenza di Dio di come le cose sono ‘costituisce’ il loro essere come esse sono»64. È «solo in virtù del fatto che Dio costituisce la verità di tutte queste proposizioni per mezzo della sua conoscenza di esse che noi possiamo considerare tutte le creature senzienti come abitanti dello stesso mondo»65. Ma così Dummett rinnega la conquista di Kant – lo svincolamento della conoscenza dal riferimento a Dio. Secondo Kant, «nella determinazione dell’origine e della validità delle nostre conoscenze, il Deus ex machina è la cosa più assurda che si possa scegliere, e, oltre al circolo vizioso nella serie deduttiva delle nostre conoscenze, ha anche l’inconveniente che dà adito a ogni stravaganza o fantasticheria devota o visionaria»66. Perciò Kant sviluppa una concezione della conoscenza che, a differenza di quella dei suoi predecessori, da Descartes a Leibniz e Wolff, non fa riferimento a Dio. Poiché prove soddisfacenti dell’esistenza di Dio non esistono, il fatto che Dummett, per fondare la sua concezione della conoscenza, debba far riferimento a Dio, mostra l’inadeguatezza della concezione che la filosofia analitica ha della natura della scienza, e perciò anche della sua credenza che la conoscenza consista nell’apprensione della verità delle proposizioni, credenza che si basa su tale concezione. Dummett 2006, p. 100. Ivi, p. 101. 62 Ibid. 63 Ivi, p. 102. 64 Ivi, p. 103. 65 Ibid. 66 Kant 1900-, X, p. 131. 60
6.
La chimera dell’oggettività
1. Il problema dell’oggettività Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è l’oggettività. Alcuni tra i più importanti filosofi dell’età moderna e contemporanea, da Kant a Frege a Popper, hanno visto nell’oggettività un carattere distintivo della scienza. Per esempio, Frege afferma che le leggi scientifiche sono oggettive nel senso che sono indipendenti «dal nostro sentire, intuire e rappresentare, dal nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni»1. ‘Oggettivo’ è ciò che è «indipendente da colui che giudica», e non va confuso con ciò che gode meramente di «un riconoscimento generale da parte di coloro che giudicano»2. Le leggi scientifiche «valgono già prima e non solo al momento della loro scoperta», così «come un’isola deserta tra i ghiacciai è là molto tempo prima di essere avvistata dagli uomini»3. Infatti «i pensieri veri non solo sono indipendenti dal nostro riconoscerli tali, ma sono anche del tutto indipendenti dal nostro pensarli»4. La chimera dell’oggettività è strettamente connessa con quella della verità. Infatti, coloro che vedono nell’oggettività un carattere distintivo della scienza, ritengono che lo scopo di quest’ultima sia non solo la verità ma la verità oggettiva. Per esempio, Frege afferma che lo scopo della scienza è la verità oggettiva perché «ciò che è vero è tale indipendentemente dal no-
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Frege 1961, p. 36. Frege 1962, I, pp. XVII-XVIII. 3 Frege 1969, p. 144. 4 Ivi, pp. 144-145. 1 2
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mondo»60. Certo, noi «non abbiamo un’unica concezione del mondo» bensì «un certo numero di concezioni differenti», che «non sappiamo armonizzare in un’unica concezione unificata»61. Ma tutte queste concezioni sono concezioni di uno stesso mondo, e «questo ‘stesso mondo’ deve essere il ‘mondo qual è in sé’»62. Perciò la difficoltà va risolta senza abbandonare l’ambizione di scoprire il mondo in sé. L’unico modo per risolverla, secondo Dummett, consiste nel far riferimento a Dio, perché non si può «concepire il mondo come un’unica realtà, appresa differentemente da creature differenti» se non «esiste una mente che lo comprende completamente qual esso è in sé»63. E tale mente è la mente di Dio, che comprende il mondo in quanto lo costituisce, perché «la conoscenza di Dio di come le cose sono ‘costituisce’ il loro essere come esse sono»64. È «solo in virtù del fatto che Dio costituisce la verità di tutte queste proposizioni per mezzo della sua conoscenza di esse che noi possiamo considerare tutte le creature senzienti come abitanti dello stesso mondo»65. Ma così Dummett rinnega la conquista di Kant – lo svincolamento della conoscenza dal riferimento a Dio. Secondo Kant, «nella determinazione dell’origine e della validità delle nostre conoscenze, il Deus ex machina è la cosa più assurda che si possa scegliere, e, oltre al circolo vizioso nella serie deduttiva delle nostre conoscenze, ha anche l’inconveniente che dà adito a ogni stravaganza o fantasticheria devota o visionaria»66. Perciò Kant sviluppa una concezione della conoscenza che, a differenza di quella dei suoi predecessori, da Descartes a Leibniz e Wolff, non fa riferimento a Dio. Poiché prove soddisfacenti dell’esistenza di Dio non esistono, il fatto che Dummett, per fondare la sua concezione della conoscenza, debba far riferimento a Dio, mostra l’inadeguatezza della concezione che la filosofia analitica ha della natura della scienza, e perciò anche della sua credenza che la conoscenza consista nell’apprensione della verità delle proposizioni, credenza che si basa su tale concezione. Dummett 2006, p. 100. Ivi, p. 101. 62 Ibid. 63 Ivi, p. 102. 64 Ivi, p. 103. 65 Ibid. 66 Kant 1900-, X, p. 131. 60
6.
La chimera dell’oggettività
1. Il problema dell’oggettività Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è l’oggettività. Alcuni tra i più importanti filosofi dell’età moderna e contemporanea, da Kant a Frege a Popper, hanno visto nell’oggettività un carattere distintivo della scienza. Per esempio, Frege afferma che le leggi scientifiche sono oggettive nel senso che sono indipendenti «dal nostro sentire, intuire e rappresentare, dal nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni»1. ‘Oggettivo’ è ciò che è «indipendente da colui che giudica», e non va confuso con ciò che gode meramente di «un riconoscimento generale da parte di coloro che giudicano»2. Le leggi scientifiche «valgono già prima e non solo al momento della loro scoperta», così «come un’isola deserta tra i ghiacciai è là molto tempo prima di essere avvistata dagli uomini»3. Infatti «i pensieri veri non solo sono indipendenti dal nostro riconoscerli tali, ma sono anche del tutto indipendenti dal nostro pensarli»4. La chimera dell’oggettività è strettamente connessa con quella della verità. Infatti, coloro che vedono nell’oggettività un carattere distintivo della scienza, ritengono che lo scopo di quest’ultima sia non solo la verità ma la verità oggettiva. Per esempio, Frege afferma che lo scopo della scienza è la verità oggettiva perché «ciò che è vero è tale indipendentemente dal no-
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Frege 1961, p. 36. Frege 1962, I, pp. XVII-XVIII. 3 Frege 1969, p. 144. 4 Ivi, pp. 144-145. 1 2
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stro riconoscimento»5. Chi asserisse il contrario «contraddirebbe con la sua asserzione ciò che ha asserito», perché «la pretesa che la sua opinione avesse anche presso gli altri maggior autorevolezza dell’opinione opposta sarebbe insostenibile»6. Infatti, implicherebbe che «ogni opinione, nel senso corrente del termine, sarebbe ingiustificata, e quindi anche quella da noi propugnata; non si darebbe scienza, né errore, né correzione dell’errore, non si darebbe insomma niente di vero nel senso comune del termine»7. Ma è ragionevole supporre che un carattere necessario della scienza sia l’oggettività intesa nel senso forte di Frege, cioè come indipendenza dal nostro sentire, intuire e rappresentare, dal nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni, e persino dal nostro pensare? La risposta è negativa, perché tutta la nostra scienza del mondo è scienza umana, e come tale è indissolubilmente legata al nostro sentire, intuire e rappresentare, al nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni, e al nostro pensare. Perciò essa dipende essenzialmente non solo dalla costituzione del mondo ma anche dalla nostra costituzione, e ne dipende in un modo da cui non si può prescindere. Ciò rende problematica l’oggettività della conoscenza scientifica, se questa viene intesa nel senso forte di Frege. Per eliminare tale problematicità dovremmo poter dare un resoconto del mondo, ivi compresi noi stessi, che fosse indipendente dalla nostra costituzione. Ma per farlo non abbiamo nulla su cui basarci. Perciò una scienza oggettiva del mondo è impossibile. 2. Acentricità Alcuni sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che si può avere una conoscenza acentrica del mondo, cioè una conoscenza che prescinda dalla prospettiva particolare di ogni singolo soggetto umano. Per esempio, Nagel afferma che si può avere una conoscenza del mondo «da nessun luogo», cioè tale che «io non ho assolutamente
alcun punto di vista particolare, ma apprendo il mondo» da un punto di vista «acentrico»8. Per avere una tale conoscenza devo «concepire il mondo come un luogo che include dentro di sé la persona che io sono semplicemente come un altro dei suoi contenuti, in altre parole, concependo me stesso dall’esterno. Posso così staccarmi dall’avventata prospettiva della particolare persona che pensavo di essere. Poi viene il passo di concepire dall’esterno tutti i punti di vista e le esperienze di quella persona e delle altre della sua specie»9. Ma, per avere una scienza oggettiva del mondo, non basta una conoscenza acentrica, una conoscenza che prescinda dalla prospettiva particolare di ogni singolo soggetto umano. Occorrerebbe una conoscenza che prescindesse dalla prospettiva particolare di ogni creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani. A questa obiezione i sostenitori della tesi che si può avere una conoscenza acentrica del mondo rispondono che una tale conoscenza può essere raggiunta perché la mente umana non è che un esempio di un concetto generale di mente, e i metodi di ragionamento che noi adoperiamo apparterrebbero a qualsiasi specie che si fosse evoluta fino al livello del pensiero. Così, Nagel afferma che «noi siamo semplicemente degli esempi di mente, e presumibilmente solo una delle innumerevoli specie razionali possibili, se non effettive, su questo e su altri pianeti»10. Vi è «un concetto generale di mente» sotto cui «noi cadiamo come esempi, senza che questo implichi che ne siamo gli esempi centrali»11. I «metodi basilari di ragionamento che adoperiamo non sono solo umani ma appartengono a una categoria più generale di mente. Ora la esemplificano le menti umane, ma quegli stessi metodi e argomentazioni dovrebbero essere compresi tra le capacità di qualsiasi specie che si fosse evoluta fino al livello del pensiero, anche se non esistessero vertebrati, e una civiltà di molluschi o di artropodi governasse la Terra»12. Ma in questo modo si assume che la mente di qualsiasi essere intelligente possibile, anche molto diverso dagli esseri umani, dovrebNagel 1986, p. 61. Ivi, p. 63. 10 Nagel 1997, p. 132. 11 Nagel 1986, p. 18. 12 Nagel 1997, p. 140. 8 9
Ivi, p. 2. Ivi, p. 144. 7 Ibid. 5 6
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stro riconoscimento»5. Chi asserisse il contrario «contraddirebbe con la sua asserzione ciò che ha asserito», perché «la pretesa che la sua opinione avesse anche presso gli altri maggior autorevolezza dell’opinione opposta sarebbe insostenibile»6. Infatti, implicherebbe che «ogni opinione, nel senso corrente del termine, sarebbe ingiustificata, e quindi anche quella da noi propugnata; non si darebbe scienza, né errore, né correzione dell’errore, non si darebbe insomma niente di vero nel senso comune del termine»7. Ma è ragionevole supporre che un carattere necessario della scienza sia l’oggettività intesa nel senso forte di Frege, cioè come indipendenza dal nostro sentire, intuire e rappresentare, dal nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni, e persino dal nostro pensare? La risposta è negativa, perché tutta la nostra scienza del mondo è scienza umana, e come tale è indissolubilmente legata al nostro sentire, intuire e rappresentare, al nostro formarci immagini interne a partire dal ricordo di precedenti sensazioni, e al nostro pensare. Perciò essa dipende essenzialmente non solo dalla costituzione del mondo ma anche dalla nostra costituzione, e ne dipende in un modo da cui non si può prescindere. Ciò rende problematica l’oggettività della conoscenza scientifica, se questa viene intesa nel senso forte di Frege. Per eliminare tale problematicità dovremmo poter dare un resoconto del mondo, ivi compresi noi stessi, che fosse indipendente dalla nostra costituzione. Ma per farlo non abbiamo nulla su cui basarci. Perciò una scienza oggettiva del mondo è impossibile. 2. Acentricità Alcuni sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che si può avere una conoscenza acentrica del mondo, cioè una conoscenza che prescinda dalla prospettiva particolare di ogni singolo soggetto umano. Per esempio, Nagel afferma che si può avere una conoscenza del mondo «da nessun luogo», cioè tale che «io non ho assolutamente
alcun punto di vista particolare, ma apprendo il mondo» da un punto di vista «acentrico»8. Per avere una tale conoscenza devo «concepire il mondo come un luogo che include dentro di sé la persona che io sono semplicemente come un altro dei suoi contenuti, in altre parole, concependo me stesso dall’esterno. Posso così staccarmi dall’avventata prospettiva della particolare persona che pensavo di essere. Poi viene il passo di concepire dall’esterno tutti i punti di vista e le esperienze di quella persona e delle altre della sua specie»9. Ma, per avere una scienza oggettiva del mondo, non basta una conoscenza acentrica, una conoscenza che prescinda dalla prospettiva particolare di ogni singolo soggetto umano. Occorrerebbe una conoscenza che prescindesse dalla prospettiva particolare di ogni creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani. A questa obiezione i sostenitori della tesi che si può avere una conoscenza acentrica del mondo rispondono che una tale conoscenza può essere raggiunta perché la mente umana non è che un esempio di un concetto generale di mente, e i metodi di ragionamento che noi adoperiamo apparterrebbero a qualsiasi specie che si fosse evoluta fino al livello del pensiero. Così, Nagel afferma che «noi siamo semplicemente degli esempi di mente, e presumibilmente solo una delle innumerevoli specie razionali possibili, se non effettive, su questo e su altri pianeti»10. Vi è «un concetto generale di mente» sotto cui «noi cadiamo come esempi, senza che questo implichi che ne siamo gli esempi centrali»11. I «metodi basilari di ragionamento che adoperiamo non sono solo umani ma appartengono a una categoria più generale di mente. Ora la esemplificano le menti umane, ma quegli stessi metodi e argomentazioni dovrebbero essere compresi tra le capacità di qualsiasi specie che si fosse evoluta fino al livello del pensiero, anche se non esistessero vertebrati, e una civiltà di molluschi o di artropodi governasse la Terra»12. Ma in questo modo si assume che la mente di qualsiasi essere intelligente possibile, anche molto diverso dagli esseri umani, dovrebNagel 1986, p. 61. Ivi, p. 63. 10 Nagel 1997, p. 132. 11 Nagel 1986, p. 18. 12 Nagel 1997, p. 140. 8 9
Ivi, p. 2. Ivi, p. 144. 7 Ibid. 5 6
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be avere la stessa costituzione di quella degli esseri umani. Con questa assunzione, invece di porsi da un punto di vista acentrico, ci si pone da un punto di vista smaccatamente antropocentrico. E, naturalmente, non si può dare alcuna prova a suo favore, perché noi non siamo in grado di dire quale potrebbe essere la costituzione della mente di qualsiasi essere intelligente possibile. L’assunzione che tale costituzione sarebbe la stessa di quella degli esseri umani è giustamente respinta da Kant, il quale osserva che «solo dal punto di vista umano possiamo parlare di spazio, di esseri estesi, ecc.»13. Se ci pone fuori del punto di vista umano, «la rappresentazione dello spazio perde ogni significato»14. Perciò «non ci è possibile giudicare, riguardo alle intuizioni di altri esseri pensanti, se esse siano o no vincolate dalle stesse condizioni di quelle che delimitano la nostra intuizione e sono per noi universalmente valide»15. La nostra forma di conoscenza è qualcosa «che ci caratterizza, e non implica alcuna necessità di appartenere a ogni essere, sebbene sia proprio di ogni uomo»16. I sostenitori della tesi che si può avere una conoscenza acentrica del mondo, cercano di accreditarla dicendo che una tale conoscenza potrebbe essere ottenuta attraverso una stimolazione diretta del cervello, che trasmettesse a esso informazioni sul mondo senza passare attraverso i sensi. Per esempio, Nagel afferma che, se «tutti i nervi che forniscono dati sensoriali al mio cervello venissero tagliati», e «si potessero produrre in me esperienze uditive e visive non mediante il suono e la luce ma mediante una stimolazione diretta dei nervi in modo che io potessi ricevere informazione in parole e immagini su ciò che avviene nel mondo, ciò che altri vedono e odono, e così via», allora «avrei una concezione del mondo senza avere alcuna prospettiva su di esso»17. Ma non è così. La concezione del mondo che avrei allora sarebbe pur sempre quella di un essere umano e non di qualsiasi essere intelligente possibile, e perciò sarebbe una concezione del mondo da Kant 1900-, III, p. 55 (B 42). Ibid. 15 Ivi, III, pp. 55-56 (B 43). 16 Ivi, III, p. 65 (B 59). 17 Nagel 1986, pp. 62-63.
una particolare prospettiva. È irrilevante che i dati sensoriali siano immessi attraverso una stimolazione diretta dei nervi invece che attraverso l’occhio o l’orecchio, perché la stimolazione diretta dei nervi sarebbe effettuata mediante stimoli che simulano quelli forniti dai recettori sensoriali umani, e i dati sensoriali risultanti sarebbero elaborati da un cervello umano. La concezione del mondo di una specie dipende in modo essenziale dal tipo di dati che i suoi recettori sensoriali ottengono e dal cervello che li elabora. Per questo motivo la concezione del mondo di un essere umano differisce essenzialmente da quella di un pipistrello. Ritenere che si possa avere una conoscenza oggettiva del mondo significa assumere che il mondo possa essere conosciuto da un punto di vista esterno e superiore. Questa assunzione sta alla base del concetto di oggettività di Frege, che anche Nagel persegue. Ma il mondo non può essere conosciuto da un tale punto di vista perché, per quanto cerchiamo di svincolarci dalla nostra costituzione, noi non siamo in grado di prescindere da essa, né Nagel né nessun altro sarebbero in grado di dirci come farlo. 3. Invarianza Altri sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che un fatto oggettivo è un fatto che è invariante rispetto a tutte le trasformazioni ammissibili, e la scienza è oggettiva perché i fatti che essa scopre hanno questa caratteristica. Quali siano le trasformazioni ammissibili non può essere conosciuto a priori ma viene scoperto dalla scienza mano a mano che si sviluppa. Per esempio, Nozick afferma che «un fatto oggettivo è un fatto che è invariante rispetto a tutte le trasformazioni ammissibili»18. È «questa invarianza che costituisce qualcosa come una verità oggettiva»19. La scienza è oggettiva perché «scopre invarianze fondamentali nel mondo»20. Quali siano le trasformazioni ammissibili «non può essere conosciuto a priori ma solo attraverso il processo della ricerca scientifica che si autosostiene»21.
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Nozick 2001, p. 82. Ivi, p. 76. 20 Ivi, p. 78. 21 Ivi, p. 84.
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be avere la stessa costituzione di quella degli esseri umani. Con questa assunzione, invece di porsi da un punto di vista acentrico, ci si pone da un punto di vista smaccatamente antropocentrico. E, naturalmente, non si può dare alcuna prova a suo favore, perché noi non siamo in grado di dire quale potrebbe essere la costituzione della mente di qualsiasi essere intelligente possibile. L’assunzione che tale costituzione sarebbe la stessa di quella degli esseri umani è giustamente respinta da Kant, il quale osserva che «solo dal punto di vista umano possiamo parlare di spazio, di esseri estesi, ecc.»13. Se ci pone fuori del punto di vista umano, «la rappresentazione dello spazio perde ogni significato»14. Perciò «non ci è possibile giudicare, riguardo alle intuizioni di altri esseri pensanti, se esse siano o no vincolate dalle stesse condizioni di quelle che delimitano la nostra intuizione e sono per noi universalmente valide»15. La nostra forma di conoscenza è qualcosa «che ci caratterizza, e non implica alcuna necessità di appartenere a ogni essere, sebbene sia proprio di ogni uomo»16. I sostenitori della tesi che si può avere una conoscenza acentrica del mondo, cercano di accreditarla dicendo che una tale conoscenza potrebbe essere ottenuta attraverso una stimolazione diretta del cervello, che trasmettesse a esso informazioni sul mondo senza passare attraverso i sensi. Per esempio, Nagel afferma che, se «tutti i nervi che forniscono dati sensoriali al mio cervello venissero tagliati», e «si potessero produrre in me esperienze uditive e visive non mediante il suono e la luce ma mediante una stimolazione diretta dei nervi in modo che io potessi ricevere informazione in parole e immagini su ciò che avviene nel mondo, ciò che altri vedono e odono, e così via», allora «avrei una concezione del mondo senza avere alcuna prospettiva su di esso»17. Ma non è così. La concezione del mondo che avrei allora sarebbe pur sempre quella di un essere umano e non di qualsiasi essere intelligente possibile, e perciò sarebbe una concezione del mondo da Kant 1900-, III, p. 55 (B 42). Ibid. 15 Ivi, III, pp. 55-56 (B 43). 16 Ivi, III, p. 65 (B 59). 17 Nagel 1986, pp. 62-63.
una particolare prospettiva. È irrilevante che i dati sensoriali siano immessi attraverso una stimolazione diretta dei nervi invece che attraverso l’occhio o l’orecchio, perché la stimolazione diretta dei nervi sarebbe effettuata mediante stimoli che simulano quelli forniti dai recettori sensoriali umani, e i dati sensoriali risultanti sarebbero elaborati da un cervello umano. La concezione del mondo di una specie dipende in modo essenziale dal tipo di dati che i suoi recettori sensoriali ottengono e dal cervello che li elabora. Per questo motivo la concezione del mondo di un essere umano differisce essenzialmente da quella di un pipistrello. Ritenere che si possa avere una conoscenza oggettiva del mondo significa assumere che il mondo possa essere conosciuto da un punto di vista esterno e superiore. Questa assunzione sta alla base del concetto di oggettività di Frege, che anche Nagel persegue. Ma il mondo non può essere conosciuto da un tale punto di vista perché, per quanto cerchiamo di svincolarci dalla nostra costituzione, noi non siamo in grado di prescindere da essa, né Nagel né nessun altro sarebbero in grado di dirci come farlo. 3. Invarianza Altri sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che un fatto oggettivo è un fatto che è invariante rispetto a tutte le trasformazioni ammissibili, e la scienza è oggettiva perché i fatti che essa scopre hanno questa caratteristica. Quali siano le trasformazioni ammissibili non può essere conosciuto a priori ma viene scoperto dalla scienza mano a mano che si sviluppa. Per esempio, Nozick afferma che «un fatto oggettivo è un fatto che è invariante rispetto a tutte le trasformazioni ammissibili»18. È «questa invarianza che costituisce qualcosa come una verità oggettiva»19. La scienza è oggettiva perché «scopre invarianze fondamentali nel mondo»20. Quali siano le trasformazioni ammissibili «non può essere conosciuto a priori ma solo attraverso il processo della ricerca scientifica che si autosostiene»21.
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Nozick 2001, p. 82. Ivi, p. 76. 20 Ivi, p. 78. 21 Ivi, p. 84.
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Ma questo dà luogo a un circolo, perché fa dipendere quali conoscenze scientifiche sono oggettive da quali sono le trasformazioni ammissibili, e quali sono le trasformazioni ammissibili da quali conoscenze scientifiche sono oggettive. Per sfuggire a tale circolo Nozick afferma che «le due nozioni di fatto oggettivo e di trasformazione ammissibile sono messe in ‘equilibrio riflessivo’»22. Cioè, lo sviluppo della conoscenza scientifica comporta un continuo andare avanti e indietro tra queste due nozioni, apportando aggiustamenti reciproci fino a raggiungere una accettabile coesione tra esse, dunque una situazione in cui ciascuna di esse fornisce un sostegno all’altra. Ma il concetto di equilibrio riflessivo in base a cui ciascuna delle due nozioni fornisce un sostegno all’altra, va incontro a difficoltà simili a quelle a cui va incontro il concetto di verità come coesione sistematica tra proposizioni di Joachim. 4. Primarietà Altri sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che la conoscenza scientifica riguarda le proprietà primarie. Mentre le affermazioni riguardanti le proprietà secondarie sono soggettive, quelle riguardanti le proprietà primarie sono oggettive, perché la loro verità o falsità può essere stabilita indipendentemente dai modi di sentire, dagli atteggiamenti, dai pregiudizi, dalle preferenze e dagli impegni dei ricercatori. Per esempio, Searle afferma che la conoscenza scientifica riguarda le proprietà primarie, e le affermazioni riguardanti le proprietà primarie sono oggettive perché la loro «verità o falsità può essere stabilita indipendentemente dai modi di sentire, dagli atteggiamenti, dai pregiudizi, dalle preferenze, e dagli impegni dei ricercatori»23. Invece, una proposizione riguardante proprietà secondarie, come «‘l’acqua ha un sapore migliore del vino’», è «soggettiva. È questione di opinione»24. È vero che «tutte le rappresentazioni sono da una certa prospettiva, da un certo punto di vista. Così quando io dico Ivi, p. 80. Searle 2003, p. 7. 24 Ibid.
‘l’acqua consiste di molecole di H2O’, questa è una descrizione al livello della struttura atomica», mentre, «a un altro livello di descrizione, per esempio, al livello della fisica subatomica, potremmo voler dire che l’acqua consiste di quark, muoni e altre varie particelle subatomiche»25. Ciò non toglie che l’affermazione ‘l’acqua consiste di molecole di H2O’ sia oggettiva. Ma, dicendo che la conoscenza scientifica riguarda proprietà primarie e le affermazioni riguardanti le proprietà primarie sono oggettive, ci si riferisce a una nozione relativa di oggettività, cioè alla nozione di oggettività relativa a una data prospettiva, non a una nozione assoluta. Infatti, non solo un’affermazione come ‘l’acqua consiste di molecole di H2O’ è relativa a una descrizione dell’acqua al livello della struttura atomica mentre al livello della struttura subatomica si potrebbe dire che l’acqua consiste di particelle, ma entrambe queste descrizioni sono relative a soggetti umani. Per avere una scienza oggettiva del mondo occorrerebbe una conoscenza che prescindesse dalla prospettiva particolare di ogni creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani. 5. Condivisibilità In realtà l’unica conoscenza del mondo possibile per noi non è una conoscenza oggettiva ma è solo una conoscenza il più possibile indipendente dal punto di vista del singolo soggetto umano. Più precisamente, è solo una conoscenza condivisibile, cioè basata su ipotesi riguardo alle quali più soggetti umani, e possibilmente tutti i soggetti umani, convengono che le ragioni a favore superano nettamente le ragioni contro. Questo non riduce l’importanza della nostra conoscenza del mondo. Infatti, che l’unica conoscenza possibile del mondo sia solo una conoscenza condivisibile non significa che tale conoscenza sia arbitraria. Essa deve essere plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti, e può essere sconfessata in qualsiasi momento in seguito alla scoperta di nuovi dati. Perciò in essa non vi è nulla di arbitrario.
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Ma questo dà luogo a un circolo, perché fa dipendere quali conoscenze scientifiche sono oggettive da quali sono le trasformazioni ammissibili, e quali sono le trasformazioni ammissibili da quali conoscenze scientifiche sono oggettive. Per sfuggire a tale circolo Nozick afferma che «le due nozioni di fatto oggettivo e di trasformazione ammissibile sono messe in ‘equilibrio riflessivo’»22. Cioè, lo sviluppo della conoscenza scientifica comporta un continuo andare avanti e indietro tra queste due nozioni, apportando aggiustamenti reciproci fino a raggiungere una accettabile coesione tra esse, dunque una situazione in cui ciascuna di esse fornisce un sostegno all’altra. Ma il concetto di equilibrio riflessivo in base a cui ciascuna delle due nozioni fornisce un sostegno all’altra, va incontro a difficoltà simili a quelle a cui va incontro il concetto di verità come coesione sistematica tra proposizioni di Joachim. 4. Primarietà Altri sostenitori dell’oggettività della conoscenza scientifica si basano sull’argomento che la conoscenza scientifica riguarda le proprietà primarie. Mentre le affermazioni riguardanti le proprietà secondarie sono soggettive, quelle riguardanti le proprietà primarie sono oggettive, perché la loro verità o falsità può essere stabilita indipendentemente dai modi di sentire, dagli atteggiamenti, dai pregiudizi, dalle preferenze e dagli impegni dei ricercatori. Per esempio, Searle afferma che la conoscenza scientifica riguarda le proprietà primarie, e le affermazioni riguardanti le proprietà primarie sono oggettive perché la loro «verità o falsità può essere stabilita indipendentemente dai modi di sentire, dagli atteggiamenti, dai pregiudizi, dalle preferenze, e dagli impegni dei ricercatori»23. Invece, una proposizione riguardante proprietà secondarie, come «‘l’acqua ha un sapore migliore del vino’», è «soggettiva. È questione di opinione»24. È vero che «tutte le rappresentazioni sono da una certa prospettiva, da un certo punto di vista. Così quando io dico Ivi, p. 80. Searle 2003, p. 7. 24 Ibid.
‘l’acqua consiste di molecole di H2O’, questa è una descrizione al livello della struttura atomica», mentre, «a un altro livello di descrizione, per esempio, al livello della fisica subatomica, potremmo voler dire che l’acqua consiste di quark, muoni e altre varie particelle subatomiche»25. Ciò non toglie che l’affermazione ‘l’acqua consiste di molecole di H2O’ sia oggettiva. Ma, dicendo che la conoscenza scientifica riguarda proprietà primarie e le affermazioni riguardanti le proprietà primarie sono oggettive, ci si riferisce a una nozione relativa di oggettività, cioè alla nozione di oggettività relativa a una data prospettiva, non a una nozione assoluta. Infatti, non solo un’affermazione come ‘l’acqua consiste di molecole di H2O’ è relativa a una descrizione dell’acqua al livello della struttura atomica mentre al livello della struttura subatomica si potrebbe dire che l’acqua consiste di particelle, ma entrambe queste descrizioni sono relative a soggetti umani. Per avere una scienza oggettiva del mondo occorrerebbe una conoscenza che prescindesse dalla prospettiva particolare di ogni creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani. 5. Condivisibilità In realtà l’unica conoscenza del mondo possibile per noi non è una conoscenza oggettiva ma è solo una conoscenza il più possibile indipendente dal punto di vista del singolo soggetto umano. Più precisamente, è solo una conoscenza condivisibile, cioè basata su ipotesi riguardo alle quali più soggetti umani, e possibilmente tutti i soggetti umani, convengono che le ragioni a favore superano nettamente le ragioni contro. Questo non riduce l’importanza della nostra conoscenza del mondo. Infatti, che l’unica conoscenza possibile del mondo sia solo una conoscenza condivisibile non significa che tale conoscenza sia arbitraria. Essa deve essere plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti, e può essere sconfessata in qualsiasi momento in seguito alla scoperta di nuovi dati. Perciò in essa non vi è nulla di arbitrario.
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6. Matematica e condivisibilità Non solo l’unica conoscenza del mondo possibile per noi è solo una conoscenza condivisibile, ma anche l’unica conoscenza matematica possibile per noi è solo una conoscenza condivisibile. Che l’unica conoscenza matematica possibile per noi sia solo una conoscenza condivisibile viene negato da alcuni con l’argomento che pensieri come 2 2 4 sono assolutamente oggettivi perché sono precondizioni del pensare. Difatti noi non possiamo concepire che 2 2 5. In particolare, pensieri come 2 2 4 sono indipendenti dalla nostra struttura biologica, e quindi dalla selezione naturale. Per esempio, Nagel afferma che nulla «può scalzare il pensiero che 2 2 4», perché pensieri del genere fanno parte «dell’impalcatura di tutto ciò che possiamo pensare su noi stessi»26. Difatti «io non posso concepire che 2 2 sia eguale a 5»27. In particolare, pensieri come 2 2 4 sono indipendenti dalla nostra struttura biologica, perché non vi sarebbero «ragioni per fidarsi dei risultati» della nostra capacità razionale, «per esempio, nella matematica», se tale capacità fosse «il prodotto della selezione naturale»28. Perciò tali pensieri devono avere «una base indipendente»29. Contrariamente a quanto afferma Nagel, pensieri come 2 2 4 non sono assolutamente oggettivi perché non hanno una base indipendente ma dipendono dalla nostra struttura biologica, e in ultima analisi dalla struttura del mondo. Come osserva Dehaene, «alla nostra scala il mondo è fatto in grandissima parte di oggetti separabili che si combinano in insiemi secondo la familiare equazione 1 1 2. È per questa ragione che l’evoluzione ha ancorato questa regola nei nostri geni. Forse la nostra aritmetica sarebbe stata radicalmente differente se, come i cherubini, ci fossimo evoluti nei cieli, dove una nuvola più un’altra nuvola fanno ancora una nuvola»30. Addirittura Dickinson dice: «Uno più uno – fa uno – | Due – smettiamola di usarlo – Va bene per le scuole | Ma non per le scelte Nagel 1997, p. 59. Ivi, p. 63. 28 Ivi, p. 135. 29 Ibid. 30 Dehaene 1999, p. 249.
secondarie – | La vita – appunto – o la morte – | O l’eterno – | Di più – sarebbe troppo grande | Perché possa contenerlo un’anima»31. Non solo possiamo concepire che 2 2 5 ma, se ci fossimo evoluti in un ambiente differente, sarebbe stato naturale pensarlo. In tal caso, presumibilmente, Nagel avrebbe fatto le sue stesse affermazioni ma con 2 2 5 al posto di 2 2 4. Che l’unica conoscenza matematica possibile per noi sia solo una conoscenza condivisibile viene negato da altri con l’argomento che la conoscenza matematica è oggettiva perché per essa esiste un criterio oggettivo di verità: la dimostrabilità a partire da assiomi. Per esempio, Tait afferma che per la conoscenza matematica esiste «un criterio oggettivo di verità, cioè la dimostrabilità a partire da assiomi»32. Ma, come abbiamo visto, il concetto di verità come dimostrabilità a partire da assiomi è inadeguato. Si potrebbe pensare che questo dipenda dall’assunzione di Prawitz secondo cui che cosa può contare come dimostrazione di una proposizione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Ma non è così. Infatti, anche lasciando cadere l’assunzione di Prawitz, nascerebbe comunque il problema: in che senso sono veri gli assiomi?. Questa domanda non ammette una risposta soddisfacente. Come riconosce Tait, per poterli considerare veri «dovremmo richiedere almeno che gli assiomi siano coerenti»33. Ma, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, in generale noi non possiamo sapere se gli assiomi sono coerenti. Né ci si può limitare a dire, come fa Tait, che «la coerenza è semplicemente qualcosa che, in ultima analisi, dobbiamo prendere come un atto di fede»34. Così si farebbe dipendere il fatto che la dimostrabilità a partire da assiomi sia un criterio oggettivo di verità da un atto di fede. Inoltre, in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, già nel caso dell’aritmetica vi sono proposizioni A tali che né A né la sua negazione A sono dimostrabili a partire dagli assiomi. Se il criterio oggettivo di verità è la dimostrabilità a partire da assiomi, quale di queste due proposizioni A e A è vera? Tait afferma che una pro-
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Dickinson 2003, n. 497 (1862). Tait 2001, p. 32. 33 Ivi, p. 22. 34 Ivi, p. 23.
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6. Matematica e condivisibilità Non solo l’unica conoscenza del mondo possibile per noi è solo una conoscenza condivisibile, ma anche l’unica conoscenza matematica possibile per noi è solo una conoscenza condivisibile. Che l’unica conoscenza matematica possibile per noi sia solo una conoscenza condivisibile viene negato da alcuni con l’argomento che pensieri come 2 2 4 sono assolutamente oggettivi perché sono precondizioni del pensare. Difatti noi non possiamo concepire che 2 2 5. In particolare, pensieri come 2 2 4 sono indipendenti dalla nostra struttura biologica, e quindi dalla selezione naturale. Per esempio, Nagel afferma che nulla «può scalzare il pensiero che 2 2 4», perché pensieri del genere fanno parte «dell’impalcatura di tutto ciò che possiamo pensare su noi stessi»26. Difatti «io non posso concepire che 2 2 sia eguale a 5»27. In particolare, pensieri come 2 2 4 sono indipendenti dalla nostra struttura biologica, perché non vi sarebbero «ragioni per fidarsi dei risultati» della nostra capacità razionale, «per esempio, nella matematica», se tale capacità fosse «il prodotto della selezione naturale»28. Perciò tali pensieri devono avere «una base indipendente»29. Contrariamente a quanto afferma Nagel, pensieri come 2 2 4 non sono assolutamente oggettivi perché non hanno una base indipendente ma dipendono dalla nostra struttura biologica, e in ultima analisi dalla struttura del mondo. Come osserva Dehaene, «alla nostra scala il mondo è fatto in grandissima parte di oggetti separabili che si combinano in insiemi secondo la familiare equazione 1 1 2. È per questa ragione che l’evoluzione ha ancorato questa regola nei nostri geni. Forse la nostra aritmetica sarebbe stata radicalmente differente se, come i cherubini, ci fossimo evoluti nei cieli, dove una nuvola più un’altra nuvola fanno ancora una nuvola»30. Addirittura Dickinson dice: «Uno più uno – fa uno – | Due – smettiamola di usarlo – Va bene per le scuole | Ma non per le scelte Nagel 1997, p. 59. Ivi, p. 63. 28 Ivi, p. 135. 29 Ibid. 30 Dehaene 1999, p. 249.
secondarie – | La vita – appunto – o la morte – | O l’eterno – | Di più – sarebbe troppo grande | Perché possa contenerlo un’anima»31. Non solo possiamo concepire che 2 2 5 ma, se ci fossimo evoluti in un ambiente differente, sarebbe stato naturale pensarlo. In tal caso, presumibilmente, Nagel avrebbe fatto le sue stesse affermazioni ma con 2 2 5 al posto di 2 2 4. Che l’unica conoscenza matematica possibile per noi sia solo una conoscenza condivisibile viene negato da altri con l’argomento che la conoscenza matematica è oggettiva perché per essa esiste un criterio oggettivo di verità: la dimostrabilità a partire da assiomi. Per esempio, Tait afferma che per la conoscenza matematica esiste «un criterio oggettivo di verità, cioè la dimostrabilità a partire da assiomi»32. Ma, come abbiamo visto, il concetto di verità come dimostrabilità a partire da assiomi è inadeguato. Si potrebbe pensare che questo dipenda dall’assunzione di Prawitz secondo cui che cosa può contare come dimostrazione di una proposizione è specificato dalla teoria del significato per il linguaggio a cui appartiene la proposizione. Ma non è così. Infatti, anche lasciando cadere l’assunzione di Prawitz, nascerebbe comunque il problema: in che senso sono veri gli assiomi?. Questa domanda non ammette una risposta soddisfacente. Come riconosce Tait, per poterli considerare veri «dovremmo richiedere almeno che gli assiomi siano coerenti»33. Ma, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, in generale noi non possiamo sapere se gli assiomi sono coerenti. Né ci si può limitare a dire, come fa Tait, che «la coerenza è semplicemente qualcosa che, in ultima analisi, dobbiamo prendere come un atto di fede»34. Così si farebbe dipendere il fatto che la dimostrabilità a partire da assiomi sia un criterio oggettivo di verità da un atto di fede. Inoltre, in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, già nel caso dell’aritmetica vi sono proposizioni A tali che né A né la sua negazione A sono dimostrabili a partire dagli assiomi. Se il criterio oggettivo di verità è la dimostrabilità a partire da assiomi, quale di queste due proposizioni A e A è vera? Tait afferma che una pro-
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Dickinson 2003, n. 497 (1862). Tait 2001, p. 32. 33 Ivi, p. 22. 34 Ivi, p. 23.
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posizione A come quella data dal primo teorema di incompletezza di Gödel è «indeterminata», tuttavia «questo non significa che non possano esistere ragioni naturali, se solo le cerchiamo, per determinarla»35. Ma allora la sua determinazione non avverrebbe in base al criterio oggettivo di verità di Tait, e quindi non sarebbe giustificata in base a esso. Perciò dire che la dimostrabilità a partire da assiomi è un criterio oggettivo di verità è insostenibile. Tanto più che Tait afferma che il fatto che esistano ragioni naturali per decidere A in una direzione, cioè, per accettare A, «non significa che non possano esistere anche ragioni naturali per deciderla nell’altra direzione»36. Cioè, per accettare A. Ma questo implica che nella matematica non esiste un criterio oggettivo di verità. 35 36
Ivi, p. 31. Ibid.
7.
La chimera della certezza
1. La ricerca della certezza Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la certezza. I sostenitori della concezione fondazionalista identificano il problema della conoscenza con la ricerca della certezza. A loro parere, senza la certezza la conoscenza è impossibile perché fa nascere il dubbio scettico. Perciò, se la conoscenza deve essere possibile, si deve ricercare la certezza. Per esempio, Husserl afferma che la scienza deve andare in cerca di verità che abbiano «la sicurezza assoluta o, che è lo stesso, l’assoluta indubitabilità»1. Ciò è necessario «se non vogliamo naufragare sugli scogli dell’estremo scetticismo»2. Questo deriva dalla seconda assunzione della concezione fondazionalista, che le conoscenze immediatamente giustificate devono essere indubitabili. Per esempio, Husserl afferma che la scienza deve basarsi su «conoscenze in sé prime, che devono o possono sostenere l’intero edificio della conoscenza»3. Tali conoscenze in sé prime devono essere tali «da escludere già anticipatamente ogni dubbio»4. Questo è necessario affinché l’edificio si basi «su fondamenta indubitabili e, come ogni costruzione ben fatta, cresca in altezza come fabbricazione solida, aggiungendo pietra su pietra secondo principi guida»5. Husserl 1950-, I, p. 55. Ivi, XVIII, p. 28. 3 Ivi, I, p. 54. 4 Ivi, I, p. 56. 5 Ivi, XXV, p. 6. 1 2
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posizione A come quella data dal primo teorema di incompletezza di Gödel è «indeterminata», tuttavia «questo non significa che non possano esistere ragioni naturali, se solo le cerchiamo, per determinarla»35. Ma allora la sua determinazione non avverrebbe in base al criterio oggettivo di verità di Tait, e quindi non sarebbe giustificata in base a esso. Perciò dire che la dimostrabilità a partire da assiomi è un criterio oggettivo di verità è insostenibile. Tanto più che Tait afferma che il fatto che esistano ragioni naturali per decidere A in una direzione, cioè, per accettare A, «non significa che non possano esistere anche ragioni naturali per deciderla nell’altra direzione»36. Cioè, per accettare A. Ma questo implica che nella matematica non esiste un criterio oggettivo di verità. 35 36
Ivi, p. 31. Ibid.
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La chimera della certezza
1. La ricerca della certezza Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la certezza. I sostenitori della concezione fondazionalista identificano il problema della conoscenza con la ricerca della certezza. A loro parere, senza la certezza la conoscenza è impossibile perché fa nascere il dubbio scettico. Perciò, se la conoscenza deve essere possibile, si deve ricercare la certezza. Per esempio, Husserl afferma che la scienza deve andare in cerca di verità che abbiano «la sicurezza assoluta o, che è lo stesso, l’assoluta indubitabilità»1. Ciò è necessario «se non vogliamo naufragare sugli scogli dell’estremo scetticismo»2. Questo deriva dalla seconda assunzione della concezione fondazionalista, che le conoscenze immediatamente giustificate devono essere indubitabili. Per esempio, Husserl afferma che la scienza deve basarsi su «conoscenze in sé prime, che devono o possono sostenere l’intero edificio della conoscenza»3. Tali conoscenze in sé prime devono essere tali «da escludere già anticipatamente ogni dubbio»4. Questo è necessario affinché l’edificio si basi «su fondamenta indubitabili e, come ogni costruzione ben fatta, cresca in altezza come fabbricazione solida, aggiungendo pietra su pietra secondo principi guida»5. Husserl 1950-, I, p. 55. Ivi, XVIII, p. 28. 3 Ivi, I, p. 54. 4 Ivi, I, p. 56. 5 Ivi, XXV, p. 6. 1 2
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Ma la ricerca di Husserl di conoscenze in sé prime dotate di tali caratteri non ha avuto successo. Per ricercarle Husserl parte dall’attività costitutiva dell’io proponendosi di arrivare alla scoperta del ‘mondo essente’, ma in questo modo arriva solo alla scoperta del mondo come correlato della soggettività. E così, alla fine della vita, egli si ritrova ancora alle prese col problema: «È possibile cominciare con una verità, con una verità definitiva? Una verità definitiva, una verità attraverso la quale io possa enunciare qualcosa su un essente in sé, nella certezza indubitabile di enunciare qualcosa di definitivo?»6. È «possibile che un essente in sé sia per me tanto indubitabilmente certo in un’esperienza immediata, che io possa, mediante concetti descrittivi immediatamente adeguati all’esperienza e al suo contenuto, enunciare immediate verità in sé?»7. Non riuscendo a dare una risposta convincente a tali domande, Husserl amaramente conclude: «Proprio ora che sono alla fine so che devo cominciare da principio»8. 2. I programmi fondazionali Nel concepire la conoscenza come basata su conoscenze immediatamente giustificate che devono essere indubitabili, i sostenitori della concezione fondazionalista hanno in mente innanzitutto la matematica. Questo è comprensibile dal momento che tradizionalmente la matematica è stata considerata il paradigma della certezza. Tanto che Stevin, quando volle introdurre nella lingua olandese una parola per designare la matematica, coniò la parola ‘wiskunde’, composta da ‘wis’, che significa ‘certo’, e ‘kunde’, che significa ‘conoscenza’. Avendo in mente innanzitutto la matematica, è naturale che i sostenitori della concezione fondazionalista si interroghino sulla base della sua certezza. La risposta di Frege, Hilbert e Brouwer – gli iniziatori dei tre principali programmi di fondazione della matematica della prima metà del Novecento – è che la base della certezza della matematica è l’intuizione. Scopo dei loro programmi è dimostrarlo, anche se es-
si dissentono su quale intuizione porre a fondamento: l’intuizione sensibile pura, cioè un’intuizione che è sensibile in quanto riguarda oggetti spazio-temporali, ma è pura in quanto non contiene nulla dovuto alla sensazione; oppure l’intuizione intellettuale, cioè un’intuizione riguardante oggetti non spazio-temporali. Così, Frege vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica – che per Frege è la teoria del numero, di qualsiasi tipo di numero, naturale, reale o complesso – è l’intuizione intellettuale, perché questa è l’intuizione mediante la quale «si coglie o si pensa un pensiero»9. A tale scopo Frege formula il programma di mostrare che «le leggi dell’aritmetica sono giudizi analitici»10. Per giudizio analitico Frege intende una proposizione che può essere dimostrata a partire da «verità primitive» logiche, facendo uso «solo di leggi logiche generali e di definizioni»11. Perciò la sua affermazione che le leggi dell’aritmetica sono giudizi analitici significa che esse sono deducibili da verità primitive logiche. Queste ultime sgorgano dalla «fonte conoscitiva logica», cioè dall’intuizione intellettuale, che «è chiamata in causa laddove vengono tratte inferenze, e quindi pressoché dovunque»12. Perciò, se si riuscisse a dimostrare che le leggi dell’aritmetica sono analitiche, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica è l’intuizione intellettuale. Invece Hilbert vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, perché gli oggetti matematici propriamente detti sono «oggetti concreti extra logici che esistono intuitivamente come esperienza immediata, prima di ogni pensiero»13. A tale scopo Hilbert formula il programma di dimostrare la coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica nella matematica finitaria, dove quest’ultima è quella parte ristretta della matematica che si basa unicamente sull’intuizione sensibile pura e corrisponde grosso modo alla matematica sviluppata dall’antichità fino ai primi deFrege 1990, p. 354 nota. Frege 1961, p. 99. 11 Ivi, p. 4. 12 Frege 1969, pp. 298-299. 13 Hilbert 1926, p. 171. 9
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Ivi, VI, p. 269. Ibid. 8 Brand 1955, p. XIII. 6 7
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Ma la ricerca di Husserl di conoscenze in sé prime dotate di tali caratteri non ha avuto successo. Per ricercarle Husserl parte dall’attività costitutiva dell’io proponendosi di arrivare alla scoperta del ‘mondo essente’, ma in questo modo arriva solo alla scoperta del mondo come correlato della soggettività. E così, alla fine della vita, egli si ritrova ancora alle prese col problema: «È possibile cominciare con una verità, con una verità definitiva? Una verità definitiva, una verità attraverso la quale io possa enunciare qualcosa su un essente in sé, nella certezza indubitabile di enunciare qualcosa di definitivo?»6. È «possibile che un essente in sé sia per me tanto indubitabilmente certo in un’esperienza immediata, che io possa, mediante concetti descrittivi immediatamente adeguati all’esperienza e al suo contenuto, enunciare immediate verità in sé?»7. Non riuscendo a dare una risposta convincente a tali domande, Husserl amaramente conclude: «Proprio ora che sono alla fine so che devo cominciare da principio»8. 2. I programmi fondazionali Nel concepire la conoscenza come basata su conoscenze immediatamente giustificate che devono essere indubitabili, i sostenitori della concezione fondazionalista hanno in mente innanzitutto la matematica. Questo è comprensibile dal momento che tradizionalmente la matematica è stata considerata il paradigma della certezza. Tanto che Stevin, quando volle introdurre nella lingua olandese una parola per designare la matematica, coniò la parola ‘wiskunde’, composta da ‘wis’, che significa ‘certo’, e ‘kunde’, che significa ‘conoscenza’. Avendo in mente innanzitutto la matematica, è naturale che i sostenitori della concezione fondazionalista si interroghino sulla base della sua certezza. La risposta di Frege, Hilbert e Brouwer – gli iniziatori dei tre principali programmi di fondazione della matematica della prima metà del Novecento – è che la base della certezza della matematica è l’intuizione. Scopo dei loro programmi è dimostrarlo, anche se es-
si dissentono su quale intuizione porre a fondamento: l’intuizione sensibile pura, cioè un’intuizione che è sensibile in quanto riguarda oggetti spazio-temporali, ma è pura in quanto non contiene nulla dovuto alla sensazione; oppure l’intuizione intellettuale, cioè un’intuizione riguardante oggetti non spazio-temporali. Così, Frege vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica – che per Frege è la teoria del numero, di qualsiasi tipo di numero, naturale, reale o complesso – è l’intuizione intellettuale, perché questa è l’intuizione mediante la quale «si coglie o si pensa un pensiero»9. A tale scopo Frege formula il programma di mostrare che «le leggi dell’aritmetica sono giudizi analitici»10. Per giudizio analitico Frege intende una proposizione che può essere dimostrata a partire da «verità primitive» logiche, facendo uso «solo di leggi logiche generali e di definizioni»11. Perciò la sua affermazione che le leggi dell’aritmetica sono giudizi analitici significa che esse sono deducibili da verità primitive logiche. Queste ultime sgorgano dalla «fonte conoscitiva logica», cioè dall’intuizione intellettuale, che «è chiamata in causa laddove vengono tratte inferenze, e quindi pressoché dovunque»12. Perciò, se si riuscisse a dimostrare che le leggi dell’aritmetica sono analitiche, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica è l’intuizione intellettuale. Invece Hilbert vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, perché gli oggetti matematici propriamente detti sono «oggetti concreti extra logici che esistono intuitivamente come esperienza immediata, prima di ogni pensiero»13. A tale scopo Hilbert formula il programma di dimostrare la coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica nella matematica finitaria, dove quest’ultima è quella parte ristretta della matematica che si basa unicamente sull’intuizione sensibile pura e corrisponde grosso modo alla matematica sviluppata dall’antichità fino ai primi deFrege 1990, p. 354 nota. Frege 1961, p. 99. 11 Ivi, p. 4. 12 Frege 1969, pp. 298-299. 13 Hilbert 1926, p. 171. 9
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Ivi, VI, p. 269. Ibid. 8 Brand 1955, p. XIII. 6 7
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cenni dell’Ottocento. Infatti, per Hilbert la coerenza è una condizione necessaria e sufficiente per la verità degli assiomi di una formalizzazione della matematica perché, come abbiamo visto, per lui ‘coerente’, ossia ‘non contraddittorio’, è identico a ‘vero’. Ma «noi non possiamo essere mai sicuri in anticipo della non contraddittorietà dei nostri assiomi finché non ne abbiamo dato una apposita dimostrazione»14. Questa, per essere inoppugnabile, deve usare metodi assolutamente affidabili, quali sono quelli della matematica finitaria. Se si riuscisse a dare una dimostrazione della coerenza di una formalizzazione della matematica nella matematica finitaria, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, e quindi che «la conoscenza matematica si basa alla fin fine su un tipo di penetrazione intuitiva di questo genere»15. Dal canto suo, Brouwer vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale. Questa è il fondamento non solo dell’aritmetica ma anche della geometria, perché «l’apriorità del tempo non qualifica come giudizi sintetici a priori soltanto le proprietà dell’aritmetica, ma fa la stessa cosa con quelle della geometria»16. A tale scopo Brouwer formula il programma di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la cosiddetta ‘matematica intuizionista’, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale. Se questa sostituzione riuscisse, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale, e perciò che si è «costruita una nuova struttura della matematica vera e propria con incrollabile certezza»17. I programmi di Frege, Hilbert e Brouwer fanno venire in mente la favola di quel filosofo indiano di cui parla Locke, il quale «diceva che il mondo era sostenuto da un grande elefante», al quale «fu chiesto su che cosa poggiasse l’elefante; al che la sua risposta fu: su una grande tartaruga; ma, venendo di nuovo incalzato per sapere che cosa sostenesse la tartaruga dal largo dorso, rispose: qualcosa, ma non Hilbert 1970, III, p. 161. Ivi, III, p. 383. 16 Brouwer 1975-76, I, p. 128. 17 Ivi, I, p. 412.
sapeva dire che cosa»18. Il mondo, l’elefante e la tartaruga sono, nel caso di Frege, l’aritmetica, i principi logici, e l’intuizione intellettuale; nel caso di Hilbert, tutta la matematica, la dimostrazione nella matematica finitaria della coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica, e l’intuizione sensibile pura; nel caso di Brouwer, la matematica intuizionista, i principi della matematica intuizionista, e l’intuizione sensibile pura temporale. La ragione per cui i programmi di Frege, Hilbert e Brouwer fanno venire in mente la favola di quel filosofo indiano, è che non si può mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione più di quanto si possa mostrare che la base che sostiene il mondo è una tartaruga. Russell che, come abbiamo visto, estende il programma di Frege dall’aritmetica a tutta la matematica, lo ammette: «Nel procedere del lavoro mi riveniva continuamente in mente la favola dell’elefante e della tartaruga. Avendo costruito un elefante su cui potesse poggiare il mondo matematico, scoprii che l’elefante barcollava, e passai a costruire una tartaruga per impedirgli di cadere. Ma la tartaruga non era più sicura dell’elefante, e dopo una ventina di anni di lavoro molto arduo, arrivai alla conclusione che non vi era nient’altro che io potessi fare per rendere indubitabile la conoscenza matematica»19. 3. Crollo dei programmi fondazionali La conclusione di Russell che non vi era nient’altro che egli potesse fare per rendere indubitabile la conoscenza matematica era giustificata, perché il programma di Frege, e quindi a maggior ragione quello di Russell, è fallito, così come sono falliti i programmi di Hilbert e Brouwer. Il programma di Frege di ridurre l’aritmetica alla logica è fallito in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che non tutte le leggi dell’aritmetica sono deducibili da verità primitive logiche. Perciò il programma di Frege non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica non può essere l’intuizione intellettuale.
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Locke 1975, p. 296. Russell 1956, p. 53.
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cenni dell’Ottocento. Infatti, per Hilbert la coerenza è una condizione necessaria e sufficiente per la verità degli assiomi di una formalizzazione della matematica perché, come abbiamo visto, per lui ‘coerente’, ossia ‘non contraddittorio’, è identico a ‘vero’. Ma «noi non possiamo essere mai sicuri in anticipo della non contraddittorietà dei nostri assiomi finché non ne abbiamo dato una apposita dimostrazione»14. Questa, per essere inoppugnabile, deve usare metodi assolutamente affidabili, quali sono quelli della matematica finitaria. Se si riuscisse a dare una dimostrazione della coerenza di una formalizzazione della matematica nella matematica finitaria, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, e quindi che «la conoscenza matematica si basa alla fin fine su un tipo di penetrazione intuitiva di questo genere»15. Dal canto suo, Brouwer vuole mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale. Questa è il fondamento non solo dell’aritmetica ma anche della geometria, perché «l’apriorità del tempo non qualifica come giudizi sintetici a priori soltanto le proprietà dell’aritmetica, ma fa la stessa cosa con quelle della geometria»16. A tale scopo Brouwer formula il programma di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la cosiddetta ‘matematica intuizionista’, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale. Se questa sostituzione riuscisse, ne seguirebbe che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale, e perciò che si è «costruita una nuova struttura della matematica vera e propria con incrollabile certezza»17. I programmi di Frege, Hilbert e Brouwer fanno venire in mente la favola di quel filosofo indiano di cui parla Locke, il quale «diceva che il mondo era sostenuto da un grande elefante», al quale «fu chiesto su che cosa poggiasse l’elefante; al che la sua risposta fu: su una grande tartaruga; ma, venendo di nuovo incalzato per sapere che cosa sostenesse la tartaruga dal largo dorso, rispose: qualcosa, ma non Hilbert 1970, III, p. 161. Ivi, III, p. 383. 16 Brouwer 1975-76, I, p. 128. 17 Ivi, I, p. 412.
sapeva dire che cosa»18. Il mondo, l’elefante e la tartaruga sono, nel caso di Frege, l’aritmetica, i principi logici, e l’intuizione intellettuale; nel caso di Hilbert, tutta la matematica, la dimostrazione nella matematica finitaria della coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica, e l’intuizione sensibile pura; nel caso di Brouwer, la matematica intuizionista, i principi della matematica intuizionista, e l’intuizione sensibile pura temporale. La ragione per cui i programmi di Frege, Hilbert e Brouwer fanno venire in mente la favola di quel filosofo indiano, è che non si può mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione più di quanto si possa mostrare che la base che sostiene il mondo è una tartaruga. Russell che, come abbiamo visto, estende il programma di Frege dall’aritmetica a tutta la matematica, lo ammette: «Nel procedere del lavoro mi riveniva continuamente in mente la favola dell’elefante e della tartaruga. Avendo costruito un elefante su cui potesse poggiare il mondo matematico, scoprii che l’elefante barcollava, e passai a costruire una tartaruga per impedirgli di cadere. Ma la tartaruga non era più sicura dell’elefante, e dopo una ventina di anni di lavoro molto arduo, arrivai alla conclusione che non vi era nient’altro che io potessi fare per rendere indubitabile la conoscenza matematica»19. 3. Crollo dei programmi fondazionali La conclusione di Russell che non vi era nient’altro che egli potesse fare per rendere indubitabile la conoscenza matematica era giustificata, perché il programma di Frege, e quindi a maggior ragione quello di Russell, è fallito, così come sono falliti i programmi di Hilbert e Brouwer. Il programma di Frege di ridurre l’aritmetica alla logica è fallito in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che non tutte le leggi dell’aritmetica sono deducibili da verità primitive logiche. Perciò il programma di Frege non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate dell’aritmetica non può essere l’intuizione intellettuale.
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Locke 1975, p. 296. Russell 1956, p. 53.
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Il programma di Hilbert di dimostrare nella matematica finitaria la coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica è fallito sia in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che non può esistere una formalizzazione di tutta la matematica, sia in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che, se pure una tale formalizzazione esistesse, la sua coerenza non sarebbe dimostrabile nella matematica finitaria. Perciò il programma di Hilbert non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica non può essere l’intuizione sensibile pura. Il programma di Brouwer di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la matematica intuizionista, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale, è fallito perché la matematica intuizionista non permette di trattare certi oggetti matematici, per esempio le funzioni definite ovunque sui numeri reali e discontinue, che sono importanti per la fisica. Ma esso è fallito anche in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, perché per Brouwer un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione, dal momento che egli non ammette «verità prima che tali verità siano state esperite»20. Per ‘dimostrazione’ Brouwer intende ‘dimostrazione assiomatica’, perché egli definisce la «matematica intuizionista» come una matematica che «deduce teoremi», sebbene li deduca «esclusivamente per mezzo della costruzione introspettiva»21. Questo significa che la matematica intuizionista è una matematica che deduce teoremi da assiomi basati sull’intuizione, mediante deduzioni basate sull’intuizione. Perciò, per Brouwer, un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria basata sull’intuizione. In particolare, un enunciato dell’aritmetica è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria dei numeri basata sull’intuizione. Ma allora la proprietà di essere una dimostrazione in tale teoria non è rappresentabile nella teoria. Infatti, se fosse rappresentabile nella teoria, con un procedimento del tutto simile a quello con cui si dimostra il primo teorema di incompletezza di Gödel, si potrebbe costruire un enunciato dell’aritmetica vero di cui non si po20 21
Brouwer 1975-76, I, p. 488. Ibid.
trebbe dare una dimostrazione nella teoria. Ciò contraddirebbe il fatto che per Brouwer un enunciato dell’aritmetica è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria dei numeri basata sull’intuizione. Che la proprietà di essere una dimostrazione nella teoria non sia rappresentabile nella teoria implica che tale proprietà è una proprietà molto astratta. Ma per Brouwer una dimostrazione matematica parte da assiomi basati sull’intuizione e prosegue con una deduzione basata sull’intuizione, perciò, come sottolinea Heyting, essa «deve essere così immediata per la mente, e il suo risultato così chiaro, da non richiedere assolutamente alcun fondamento»22. Perciò la proprietà di essere una dimostrazione nella teoria deve essere immediata, dunque non può essere molto astratta. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude che l’assunzione di Brouwer che un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria basata sull’intuizione è insostenibile, il che fa crollare uno dei capisaldi della concezione di Brouwer. Perciò il programma di Brouwer non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica non può essere l’intuizione sensibile pura temporale. 4. Obiezioni contro l’uso dei teoremi di incompletezza Il fallimento dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer mostra che l’idea della concezione fondazionalista, che la conoscenza sia un edificio le cui fondamenta sono indubitabili, non trova riscontro neppure nel campo in cui tale idea sarebbe più naturale, cioè la matematica. Questo indica che non vi è alcun modo di rendere indubitabile la conoscenza matematica. Se ne può concludere, perciò, che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Come abbiamo visto, i teoremi di incompletezza di Gödel svolgono un ruolo decisivo nello stabilire tale conclusione. Contro il loro uso nello stabilirla si potrebbero però avanzare due obiezioni. La prima obiezione è che, o «noi non abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC» – la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel con as22
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Heyting 1956, p. 6.
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Il programma di Hilbert di dimostrare nella matematica finitaria la coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica è fallito sia in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che non può esistere una formalizzazione di tutta la matematica, sia in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, che implica che, se pure una tale formalizzazione esistesse, la sua coerenza non sarebbe dimostrabile nella matematica finitaria. Perciò il programma di Hilbert non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica non può essere l’intuizione sensibile pura. Il programma di Brouwer di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la matematica intuizionista, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale, è fallito perché la matematica intuizionista non permette di trattare certi oggetti matematici, per esempio le funzioni definite ovunque sui numeri reali e discontinue, che sono importanti per la fisica. Ma esso è fallito anche in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, perché per Brouwer un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione, dal momento che egli non ammette «verità prima che tali verità siano state esperite»20. Per ‘dimostrazione’ Brouwer intende ‘dimostrazione assiomatica’, perché egli definisce la «matematica intuizionista» come una matematica che «deduce teoremi», sebbene li deduca «esclusivamente per mezzo della costruzione introspettiva»21. Questo significa che la matematica intuizionista è una matematica che deduce teoremi da assiomi basati sull’intuizione, mediante deduzioni basate sull’intuizione. Perciò, per Brouwer, un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria basata sull’intuizione. In particolare, un enunciato dell’aritmetica è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria dei numeri basata sull’intuizione. Ma allora la proprietà di essere una dimostrazione in tale teoria non è rappresentabile nella teoria. Infatti, se fosse rappresentabile nella teoria, con un procedimento del tutto simile a quello con cui si dimostra il primo teorema di incompletezza di Gödel, si potrebbe costruire un enunciato dell’aritmetica vero di cui non si po20 21
Brouwer 1975-76, I, p. 488. Ibid.
trebbe dare una dimostrazione nella teoria. Ciò contraddirebbe il fatto che per Brouwer un enunciato dell’aritmetica è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria dei numeri basata sull’intuizione. Che la proprietà di essere una dimostrazione nella teoria non sia rappresentabile nella teoria implica che tale proprietà è una proprietà molto astratta. Ma per Brouwer una dimostrazione matematica parte da assiomi basati sull’intuizione e prosegue con una deduzione basata sull’intuizione, perciò, come sottolinea Heyting, essa «deve essere così immediata per la mente, e il suo risultato così chiaro, da non richiedere assolutamente alcun fondamento»22. Perciò la proprietà di essere una dimostrazione nella teoria deve essere immediata, dunque non può essere molto astratta. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude che l’assunzione di Brouwer che un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione in una teoria basata sull’intuizione è insostenibile, il che fa crollare uno dei capisaldi della concezione di Brouwer. Perciò il programma di Brouwer non è realizzabile. Dunque la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica non può essere l’intuizione sensibile pura temporale. 4. Obiezioni contro l’uso dei teoremi di incompletezza Il fallimento dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer mostra che l’idea della concezione fondazionalista, che la conoscenza sia un edificio le cui fondamenta sono indubitabili, non trova riscontro neppure nel campo in cui tale idea sarebbe più naturale, cioè la matematica. Questo indica che non vi è alcun modo di rendere indubitabile la conoscenza matematica. Se ne può concludere, perciò, che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Come abbiamo visto, i teoremi di incompletezza di Gödel svolgono un ruolo decisivo nello stabilire tale conclusione. Contro il loro uso nello stabilirla si potrebbero però avanzare due obiezioni. La prima obiezione è che, o «noi non abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC» – la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel con as22
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Heyting 1956, p. 6.
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sioma di scelta – e allora «non vi è nulla nel secondo teorema di incompletezza che possa far nascere alcun dubbio del genere»23. Oppure «abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC», ma in tal caso «non abbiamo alcuna ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC formalizzabile in ZFC farebbe qualcosa per rimuovere tali dubbi»24. Infatti, «poiché la coerenza di ZFC è esattamente ciò che è in discussione, non vi è alcuna ragione di attendersi che una tale dimostrazione abbia alcun peso»25. Ma questa obiezione è insostenibile. Infatti il primo caso, cioè che noi non abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC, potrebbe realizzarsi solo se noi potessimo dimostrare la coerenza di ZFC con mezzi assolutamente affidabili. Ma tale possibilità è esclusa dal secondo teorema di incompletezza di Gödel, perciò non avere dubbi sulla coerenza di ZFC è solo un atto di fede. D’altra parte nel secondo caso, cioè che noi abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC, la questione non è se abbiamo qualche ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC formalizzabile in ZFC farebbe qualcosa per rimuovere tali dubbi. La questione è invece se abbiamo qualche ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC effettuata con mezzi assolutamente affidabili li rimuoverebbe, e a questa domanda si può rispondere affermativamente. Naturalmente si tratta di una risposta data unicamente per amore dell’argomento, perché, come si è detto, la possibilità di una tale dimostrazione della coerenza di ZFC è esclusa dal secondo teorema di incompletezza di Gödel. La seconda obiezione è che, se la conoscenza matematica non è assolutamente certa, allora neppure i teoremi di incompletezza di Gödel, essendo risultati matematici, sono assolutamente certi. Perciò concludere che, in virtù di essi, la conoscenza matematica non è assolutamente certa, non è assolutamente certo26. Ma anche questa obiezione è insostenibile. Infatti, essa trascura che l’uso dei risultati di incompletezza di Gödel per concludere che la conoscenza matematica non è assolutamente certa si basa su una
riduzione all’assurdo, perché è del tipo seguente. Supponiamo che la conoscenza matematica sia assolutamente certa. Allora i teoremi di incompletezza di Gödel sono assolutamente certi. Ma tali teoremi implicano che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude perciò che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Come si è detto, questo argomento si basa su una riduzione all’assurdo. Ma la certezza della riduzione all’assurdo fa parte dell’assunzione che la conoscenza matematica sia assolutamente certa, perché la riduzione all’assurdo è essenziale per la dimostrazione di tantissimi risultati matematici. 5. Concezione fondazionalista debole e certezza Di fronte al fallimento degli approcci al problema della certezza basati sulla concezione fondazionalista sono stati tentati altri approcci, basati sulla concezione fondazionalista debole. Per esempio, Wittgenstein afferma che, nel sistema della nostra conoscenza, «la fondazione, la giustificazione della convinzione arriva a un termine»27. Il termine è costituito da proposizioni come ‘Qui c’è una mano’, che «sembrano stare a fondamento di ogni chiedere e di ogni pensare»28. Tali proposizioni sono «al riparo da ogni dubbio. Stanno fuori della via lungo la quale procede la ricerca»29. Altrimenti il dubbio non potrebbe neppure nascere, perché esso «poggia solo su ciò che è fuori di dubbio»30. Chi «volesse dubitare di tutto non arriverebbe neppure a dubitare. Il gioco stesso del dubitare presuppone la certezza»31. Che le proposizioni che stanno a fondamento siano al riparo da ogni dubbio, non significa però, secondo Wittgenstein, che esse siano indubitabili in senso assoluto, perché «ci si può sbagliare anche sul fatto che ‘Qui c’è una mano’»32. Una proposizione del genere è al riparo da ogni dubbio solo nel senso che «la si accetta come un’ovWittgenstein 1969, 204. Ivi, 415. 29 Ivi, 88. 30 Ivi, 519. 31 Ivi, 115. 32 Ivi, 25. 27
Franzén 2005, p. 105. 24 Ivi, pp. 105-106. 25 Ivi, p. 105. 26 Questa obiezione mi è stata rivolta da Reuben Hersh, nella veste di avvocato del diavolo, non perché la condividesse. 23
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sioma di scelta – e allora «non vi è nulla nel secondo teorema di incompletezza che possa far nascere alcun dubbio del genere»23. Oppure «abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC», ma in tal caso «non abbiamo alcuna ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC formalizzabile in ZFC farebbe qualcosa per rimuovere tali dubbi»24. Infatti, «poiché la coerenza di ZFC è esattamente ciò che è in discussione, non vi è alcuna ragione di attendersi che una tale dimostrazione abbia alcun peso»25. Ma questa obiezione è insostenibile. Infatti il primo caso, cioè che noi non abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC, potrebbe realizzarsi solo se noi potessimo dimostrare la coerenza di ZFC con mezzi assolutamente affidabili. Ma tale possibilità è esclusa dal secondo teorema di incompletezza di Gödel, perciò non avere dubbi sulla coerenza di ZFC è solo un atto di fede. D’altra parte nel secondo caso, cioè che noi abbiamo dubbi sulla coerenza di ZFC, la questione non è se abbiamo qualche ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC formalizzabile in ZFC farebbe qualcosa per rimuovere tali dubbi. La questione è invece se abbiamo qualche ragione per credere che una dimostrazione della coerenza di ZFC effettuata con mezzi assolutamente affidabili li rimuoverebbe, e a questa domanda si può rispondere affermativamente. Naturalmente si tratta di una risposta data unicamente per amore dell’argomento, perché, come si è detto, la possibilità di una tale dimostrazione della coerenza di ZFC è esclusa dal secondo teorema di incompletezza di Gödel. La seconda obiezione è che, se la conoscenza matematica non è assolutamente certa, allora neppure i teoremi di incompletezza di Gödel, essendo risultati matematici, sono assolutamente certi. Perciò concludere che, in virtù di essi, la conoscenza matematica non è assolutamente certa, non è assolutamente certo26. Ma anche questa obiezione è insostenibile. Infatti, essa trascura che l’uso dei risultati di incompletezza di Gödel per concludere che la conoscenza matematica non è assolutamente certa si basa su una
riduzione all’assurdo, perché è del tipo seguente. Supponiamo che la conoscenza matematica sia assolutamente certa. Allora i teoremi di incompletezza di Gödel sono assolutamente certi. Ma tali teoremi implicano che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude perciò che la conoscenza matematica non è assolutamente certa. Come si è detto, questo argomento si basa su una riduzione all’assurdo. Ma la certezza della riduzione all’assurdo fa parte dell’assunzione che la conoscenza matematica sia assolutamente certa, perché la riduzione all’assurdo è essenziale per la dimostrazione di tantissimi risultati matematici. 5. Concezione fondazionalista debole e certezza Di fronte al fallimento degli approcci al problema della certezza basati sulla concezione fondazionalista sono stati tentati altri approcci, basati sulla concezione fondazionalista debole. Per esempio, Wittgenstein afferma che, nel sistema della nostra conoscenza, «la fondazione, la giustificazione della convinzione arriva a un termine»27. Il termine è costituito da proposizioni come ‘Qui c’è una mano’, che «sembrano stare a fondamento di ogni chiedere e di ogni pensare»28. Tali proposizioni sono «al riparo da ogni dubbio. Stanno fuori della via lungo la quale procede la ricerca»29. Altrimenti il dubbio non potrebbe neppure nascere, perché esso «poggia solo su ciò che è fuori di dubbio»30. Chi «volesse dubitare di tutto non arriverebbe neppure a dubitare. Il gioco stesso del dubitare presuppone la certezza»31. Che le proposizioni che stanno a fondamento siano al riparo da ogni dubbio, non significa però, secondo Wittgenstein, che esse siano indubitabili in senso assoluto, perché «ci si può sbagliare anche sul fatto che ‘Qui c’è una mano’»32. Una proposizione del genere è al riparo da ogni dubbio solo nel senso che «la si accetta come un’ovWittgenstein 1969, 204. Ivi, 415. 29 Ivi, 88. 30 Ivi, 519. 31 Ivi, 115. 32 Ivi, 25. 27
Franzén 2005, p. 105. 24 Ivi, pp. 105-106. 25 Ivi, p. 105. 26 Questa obiezione mi è stata rivolta da Reuben Hersh, nella veste di avvocato del diavolo, non perché la condividesse. 23
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vietà, non la si mette mai in discussione»33. Inoltre, le proposizioni che stanno a fondamento non sono vere, perché «il fondamento non è né vero né falso»34. Esse vengono adottate non in quanto sono vere ma in quanto sono ragionevoli, cioè in quanto si può «dire: ‘L’uomo ragionevole crede questo’»35. Dunque, «quando diciamo che noi sappiamo che..., intendiamo dire che, al nostro posto, anche ogni essere ragionevole lo saprebbe, che il dubitarne sarebbe irragionevole»36. Questo implica che le proposizioni che stanno a fondamento possono, col tempo, essere sostituite da altre, perché «ciò che agli uomini appare ragionevole o irragionevole cambia. In certe epoche agli uomini sembrano ragionevoli certe cose che in altre epoche sembrano irragionevoli. E viceversa»37. Ma l’approccio di Wittgenstein al problema della certezza è inadeguato, perché quello della ragionevolezza è un criterio inattendibile. Per esempio, Wittgenstein afferma che, se io dico a un bambino che è impossibile arrivare sulla Luna e il bambino mi risponde che «forse c’è un modo per poterci arrivare, e semplicemente io non lo conosco, ecc.», il «bambino non rimarrà aggrappato a tale credenza» a lungo, e «ben presto verrà convinto da quello che gli diciamo in tutta serietà»38. Infatti è irragionevole credere che si possa arrivare sulla Luna, perché «tutti noi crediamo che è impossibile arrivare sulla Luna»39. Certo, «può darsi che vi siano uomini che credono che ciò sia possibile e che un giorno o l’altro accadrà», ma in questo caso «noi diciamo: questa gente non sa molte cose che noi sappiamo»40. In particolare non sa che «il nostro sistema di fisica ci vieta di crederlo. Questo, infatti, esige che si risponda alle domande: ‘Come ha fatto a vincere la forza di gravità?’, ‘Come ha fatto a vivere in assenza di un’atmosfera?’, e a migliaia di altre domande a cui non si potrebbe dare una risposta»41. Lasciamo pure, dunque, Ivi, 87. Ivi, 205. 35 Ivi, 323. 36 Ivi, 325. 37 Ivi, 336. 38 Ivi, 106. 39 Ivi, 286. 40 Ibid. 41 Ivi, 108. 33 34
che questi uomini «siano così sicuri del fatto loro», ma «essi sono in errore, e noi lo sappiamo. Se confrontiamo il sistema della nostra conoscenza col loro, si vede che il loro sistema è di gran lunga il più povero»42. Questo argomento di Wittgenstein è di una inadeguatezza addirittura imbarazzante. Certo, alla sua epoca nessun uomo era ancora arrivato sulla Luna, ma coloro che credevano che fosse possibile arrivarci, e che un giorno o l’altro ci si sarebbe arrivati, non erano affatto irragionevoli, perché il sistema di fisica dell’epoca non vietava affatto di crederlo. E difatti, solo qualche decennio più tardi, due uomini sarebbe arrivati sulla Luna senza contravvenire a quel sistema di fisica, anzi proprio grazie a esso. Questo mostra che il criterio della ragionevolezza è inattendibile perché porta a fare affermazioni che sono soggette facilmente a essere smentite. Tanto più che, per Wittgenstein, quello della ragionevolezza è l’unico criterio. Egli, infatti, afferma che, alle proposizioni che stanno a fondamento, «noi assentiamo senza sottoporle a un controllo particolare», perciò tali proposizioni «svolgono una funzione logica del tutto particolare nel sistema»43. Ma allora, sia porre certe proposizioni a fondamento in un dato momento, sia sostituirle con altre in un altro momento, sono atti arbitrari, perché noi assentiamo a tali proposizioni senza sottoporle ad alcun controllo particolare, solo in base al fatto che ci sembrano ragionevoli, e, come abbiamo visto, quello della ragionevolezza è un criterio inattendibile. 6. Incertezza e possibilità della conoscenza Di fronte al fallimento degli approcci al problema della certezza basati sulla concezione fondazionalista e sulla concezione fondazionalista debole, c’è da chiedersi se l’intera impresa della ricerca della certezza sia giustificata. Ora, è innegabile che tale ricerca risponda a un profondo bisogno degli esseri umani che, nella loro vita dominata dalla precarietà, avvertono disperatamente l’esigenza di trovare appigli sicuri, e li cercano nella religione, nella scienza, nella filosofia. Ma questa esigen42 43
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Ivi, 286. Ivi, 136.
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che questi uomini «siano così sicuri del fatto loro», ma «essi sono in errore, e noi lo sappiamo. Se confrontiamo il sistema della nostra conoscenza col loro, si vede che il loro sistema è di gran lunga il più povero»42. Questo argomento di Wittgenstein è di una inadeguatezza addirittura imbarazzante. Certo, alla sua epoca nessun uomo era ancora arrivato sulla Luna, ma coloro che credevano che fosse possibile arrivarci, e che un giorno o l’altro ci si sarebbe arrivati, non erano affatto irragionevoli, perché il sistema di fisica dell’epoca non vietava affatto di crederlo. E difatti, solo qualche decennio più tardi, due uomini sarebbe arrivati sulla Luna senza contravvenire a quel sistema di fisica, anzi proprio grazie a esso. Questo mostra che il criterio della ragionevolezza è inattendibile perché porta a fare affermazioni che sono soggette facilmente a essere smentite. Tanto più che, per Wittgenstein, quello della ragionevolezza è l’unico criterio. Egli, infatti, afferma che, alle proposizioni che stanno a fondamento, «noi assentiamo senza sottoporle a un controllo particolare», perciò tali proposizioni «svolgono una funzione logica del tutto particolare nel sistema»43. Ma allora, sia porre certe proposizioni a fondamento in un dato momento, sia sostituirle con altre in un altro momento, sono atti arbitrari, perché noi assentiamo a tali proposizioni senza sottoporle ad alcun controllo particolare, solo in base al fatto che ci sembrano ragionevoli, e, come abbiamo visto, quello della ragionevolezza è un criterio inattendibile. 6. Incertezza e possibilità della conoscenza Di fronte al fallimento degli approcci al problema della certezza basati sulla concezione fondazionalista e sulla concezione fondazionalista debole, c’è da chiedersi se l’intera impresa della ricerca della certezza sia giustificata. Ora, è innegabile che tale ricerca risponda a un profondo bisogno degli esseri umani che, nella loro vita dominata dalla precarietà, avvertono disperatamente l’esigenza di trovare appigli sicuri, e li cercano nella religione, nella scienza, nella filosofia. Ma questa esigen42 43
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za non può essere soddisfatta. La precarietà è un carattere costitutivo della vita umana e non vi è modo di sottrarsi a essa. Si può cercare di tenerla a bada entro certi limiti ma non si può mai eliminarla del tutto. La precarietà è un carattere costitutivo anche della conoscenza umana, perché ogni conoscenza si basa su ipotesi e nessuna ipotesi è indubitabile, perciò la conoscenza umana non è assolutamente certa. Questo non significa però che, come vorrebbero i sostenitori della concezione fondazionalista, senza la certezza la conoscenza è impossibile perché porta al dubbio scettico. Innanzitutto, come abbiamo visto, i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna sono infondati. Ma soprattutto, l’incertezza non implica affatto che la conoscenza è impossibile, bensì solo che essa è sempre incerta. Ciò che è impossibile è la conoscenza certa. Come diceva già Senofane, «la certezza nessun uomo l’ha mai sperimentata, né ci sarà mai chi la sperimenterà», ma «su tutto si possono solo fare ipotesi»44. La conoscenza incerta, invece, è possibile perché «col tempo, ricercando, gli uomini trovano a poco a poco il meglio»45. 7. Un argomento che si autoconfuta? Contro l’affermazione che la conoscenza umana non è assolutamente certa si potrebbe obiettare che essa si autoconfuta, perché chi la fa non può esserne assolutamente certo. Una buona risposta a questa obiezione è quella di Peirce, il quale osserva: «Io sono un uomo sul quale i critici non hanno mai trovato da dire niente di buono»46. Solo «una volta, per quanto mi ricordi, ho provato il piacere dell’elogio»47. Fu «un piacere beatifico; eppure quella lode voleva essere un biasimo. Fu quando un critico disse che io non sembravo assolutamente sicuro delle mie stesse conclusioni. Farò di tutto per evitare che l’occhio di quel critico cada mai su ciò che sto scrivendo ora, perché gli devo un grande piacere; ed era così evidente il suo malanimo che, se egli lo scoprisse, ho pauDiels 1934, 21 B 34 (Senofane). Ivi, 21 B 18. 46 Peirce 1931-58, 1.10. 47 Ibid. 44 45
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ra che le fiamme dell’inferno riceverebbero nuovo alimento nel suo petto»48. Infatti, con la sua obiezione quel critico aveva implicitamente riconosciuto che «noi non possiamo mai essere assolutamente sicuri di niente»49. 48 49
Ibid. Ivi, 1.147.
za non può essere soddisfatta. La precarietà è un carattere costitutivo della vita umana e non vi è modo di sottrarsi a essa. Si può cercare di tenerla a bada entro certi limiti ma non si può mai eliminarla del tutto. La precarietà è un carattere costitutivo anche della conoscenza umana, perché ogni conoscenza si basa su ipotesi e nessuna ipotesi è indubitabile, perciò la conoscenza umana non è assolutamente certa. Questo non significa però che, come vorrebbero i sostenitori della concezione fondazionalista, senza la certezza la conoscenza è impossibile perché porta al dubbio scettico. Innanzitutto, come abbiamo visto, i principali dubbi scettici avanzati nell’antichità e nell’età moderna sono infondati. Ma soprattutto, l’incertezza non implica affatto che la conoscenza è impossibile, bensì solo che essa è sempre incerta. Ciò che è impossibile è la conoscenza certa. Come diceva già Senofane, «la certezza nessun uomo l’ha mai sperimentata, né ci sarà mai chi la sperimenterà», ma «su tutto si possono solo fare ipotesi»44. La conoscenza incerta, invece, è possibile perché «col tempo, ricercando, gli uomini trovano a poco a poco il meglio»45. 7. Un argomento che si autoconfuta? Contro l’affermazione che la conoscenza umana non è assolutamente certa si potrebbe obiettare che essa si autoconfuta, perché chi la fa non può esserne assolutamente certo. Una buona risposta a questa obiezione è quella di Peirce, il quale osserva: «Io sono un uomo sul quale i critici non hanno mai trovato da dire niente di buono»46. Solo «una volta, per quanto mi ricordi, ho provato il piacere dell’elogio»47. Fu «un piacere beatifico; eppure quella lode voleva essere un biasimo. Fu quando un critico disse che io non sembravo assolutamente sicuro delle mie stesse conclusioni. Farò di tutto per evitare che l’occhio di quel critico cada mai su ciò che sto scrivendo ora, perché gli devo un grande piacere; ed era così evidente il suo malanimo che, se egli lo scoprisse, ho pauDiels 1934, 21 B 34 (Senofane). Ivi, 21 B 18. 46 Peirce 1931-58, 1.10. 47 Ibid. 44 45
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ra che le fiamme dell’inferno riceverebbero nuovo alimento nel suo petto»48. Infatti, con la sua obiezione quel critico aveva implicitamente riconosciuto che «noi non possiamo mai essere assolutamente sicuri di niente»49. 48 49
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La chimera dell’intuizione
1. Ruolo dell’intuizione Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è l’intuizione. Tradizionalmente l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, cioè che non richiede la mediazione dell’inferenza. Così Kant afferma che, «in qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza può riferirsi a oggetti, l’intuizione è il modo in cui vi si riferisce immediatamente»1. Similmente, Wittgenstein afferma che «ciò che si intende per ‘intuizione’ è che uno sa immediatamente qualcosa che gli altri sanno solo dopo una lunga esperienza»2. Ma, che l’intuizione sia una fonte di conoscenza diretta, immediata, è insostenibile perché ciò non vale neppure nel caso di oggetti semplici come i numeri interi. Come osserva Dieudonné, «l’intuizione degli interi è una grandiosa mistificazione, perché nessuno che io conosca possiede intuizione, nel senso proprio dell’intuizione, cioè una conoscenza immediata, di numeri interi superiori al dieci. Di conseguenza, dire che si ha intuizione di numeri interi superiori a dieci è una grossa impostura»3. Inoltre, tradizionalmente l’intuizione è stata vista non solo come una fonte di conoscenza diretta, immediata, ma anche come una fonte di conoscenza superiore, in quanto capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Kant 1900-, III, p. 49 (B 33). Wittgenstein 1976, p. 30. 3 Dieudonné 1981, p. 23. 1 2
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Per esempio, Bergson afferma che vi sono «due modi profondamente diversi di conoscere una cosa»4. Il primo «implica che si giri intorno alla cosa», il secondo, «che si entri in essa»; il primo dipende dal punto di vista da cui ci si pone», il secondo «non assume alcun punto di vista»; il primo «si ferma al relativo», il secondo «attinge l’assoluto»5. Tali due modi sono, rispettivamente, l’analisi e l’intuizione. L’analisi si ferma al relativo, perché ci offre solo «una rappresentazione presa da un certo punto di vista»6. L’intuizione, invece, è «un mezzo per possedere una realtà assolutamente, invece di conoscerla relativamente, per collocarsi dentro di essa, invece di assumere punti di vista su di essa»7. Infatti l’intuizione è «la simpatia attraverso la quale ci si trasporta dentro un oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile»8. Ma, che l’intuizione sia una forma di conoscenza superiore in quanto capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto, trova numerose smentite. Per esempio, Gödel afferma che «sono necessari continui appelli all’intuizione» sia «per ottenere risposte non ambigue alle questioni della teoria degli insiemi infinitaria», come l’ipotesi del continuo di Cantor, sia «per risolvere problemi della teoria dei numeri finitaria (del tipo della congettura di Goldbach)», cioè «proposizioni universali sui numeri interi di cui si può decidere ogni singolo caso particolare»9. Ma decenni di appelli all’intuizione non sono serviti a Gödel, né ad alcun altro, per ottenere una risposta non ambigua all’ipotesi del continuo di Cantor né alla congettura di Goldbach. Ironicamente, un altro famoso problema della teoria dei numeri finitaria, il problema di Fermat, è stato risolto non facendo appello all’intuizione dei numeri interi ma usando ipotesi non relative ai numeri interi.
Bergson 1959, p. 1393. Ibid. 6 Ivi, p. 1395. 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Gödel 1986-2002, II, p. 269 e nota 42. 4 5
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La chimera dell’intuizione
1. Ruolo dell’intuizione Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è l’intuizione. Tradizionalmente l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, cioè che non richiede la mediazione dell’inferenza. Così Kant afferma che, «in qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza può riferirsi a oggetti, l’intuizione è il modo in cui vi si riferisce immediatamente»1. Similmente, Wittgenstein afferma che «ciò che si intende per ‘intuizione’ è che uno sa immediatamente qualcosa che gli altri sanno solo dopo una lunga esperienza»2. Ma, che l’intuizione sia una fonte di conoscenza diretta, immediata, è insostenibile perché ciò non vale neppure nel caso di oggetti semplici come i numeri interi. Come osserva Dieudonné, «l’intuizione degli interi è una grandiosa mistificazione, perché nessuno che io conosca possiede intuizione, nel senso proprio dell’intuizione, cioè una conoscenza immediata, di numeri interi superiori al dieci. Di conseguenza, dire che si ha intuizione di numeri interi superiori a dieci è una grossa impostura»3. Inoltre, tradizionalmente l’intuizione è stata vista non solo come una fonte di conoscenza diretta, immediata, ma anche come una fonte di conoscenza superiore, in quanto capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Kant 1900-, III, p. 49 (B 33). Wittgenstein 1976, p. 30. 3 Dieudonné 1981, p. 23. 1 2
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Per esempio, Bergson afferma che vi sono «due modi profondamente diversi di conoscere una cosa»4. Il primo «implica che si giri intorno alla cosa», il secondo, «che si entri in essa»; il primo dipende dal punto di vista da cui ci si pone», il secondo «non assume alcun punto di vista»; il primo «si ferma al relativo», il secondo «attinge l’assoluto»5. Tali due modi sono, rispettivamente, l’analisi e l’intuizione. L’analisi si ferma al relativo, perché ci offre solo «una rappresentazione presa da un certo punto di vista»6. L’intuizione, invece, è «un mezzo per possedere una realtà assolutamente, invece di conoscerla relativamente, per collocarsi dentro di essa, invece di assumere punti di vista su di essa»7. Infatti l’intuizione è «la simpatia attraverso la quale ci si trasporta dentro un oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile»8. Ma, che l’intuizione sia una forma di conoscenza superiore in quanto capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto, trova numerose smentite. Per esempio, Gödel afferma che «sono necessari continui appelli all’intuizione» sia «per ottenere risposte non ambigue alle questioni della teoria degli insiemi infinitaria», come l’ipotesi del continuo di Cantor, sia «per risolvere problemi della teoria dei numeri finitaria (del tipo della congettura di Goldbach)», cioè «proposizioni universali sui numeri interi di cui si può decidere ogni singolo caso particolare»9. Ma decenni di appelli all’intuizione non sono serviti a Gödel, né ad alcun altro, per ottenere una risposta non ambigua all’ipotesi del continuo di Cantor né alla congettura di Goldbach. Ironicamente, un altro famoso problema della teoria dei numeri finitaria, il problema di Fermat, è stato risolto non facendo appello all’intuizione dei numeri interi ma usando ipotesi non relative ai numeri interi.
Bergson 1959, p. 1393. Ibid. 6 Ivi, p. 1395. 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Gödel 1986-2002, II, p. 269 e nota 42. 4 5
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2. Intuizione e principi delle teorie scientifiche Spesso si afferma che è mediante l’intuizione che si arriva alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche. Per esempio Einstein, dopo aver dichiarato che «il compito supremo del fisico è arrivare a quelle leggi elementari universali a partire dalle quali si può costruire il cosmo mediante la pura deduzione», afferma che «non esiste alcuna via logica» che porti «a tali leggi; solo l’intuizione, che poggia sulla comprensione empatica dell’esperienza, può raggiungerle»10. Ma dire che è mediante l’intuizione che si arriva alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche è ingiustificato, perché tali leggi sono generali mentre l’intuizione è stata concepita, almeno da Kant in poi, come singolare. Infatti Kant afferma che «l’intuizione è una rappresentazione singolare» e perciò differisce dal concetto che è «una rappresentazione generale ovvero una rappresentazione di ciò che è comune a più oggetti, dunque è una rappresentazione in quanto può essere contenuta in diverse altre»11. Come può allora l’intuizione singolare permettere di arrivare alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche, che sono generali? 3. Intuizione e assiomi delle teorie matematiche Spesso si afferma anche che è mediante l’intuizione che si arriva agli assiomi delle teorie matematiche. Per esempio, Gödel afferma che «noi abbiamo una sorta di percezione anche degli oggetti della teoria degli insiemi» che è data dall’intuizione, attraverso la quale «gli assiomi ci si impongono come veri»12. L’intuizione «è sufficientemente chiara da produrre gli assiomi della teoria degli insiemi e una serie aperta di loro estensioni»13. Attraverso essa «gli oggetti matematici sono conosciuti con precisione, e le leggi generali possono essere riconosciute con certezza, cioè, mediante l’inferenza deduttiva»14.
È vero che Gödel dichiara che «l’intuizione matematica non deve essere concepita come una facoltà che ci dà una conoscenza immediata degli oggetti considerati», e che «noi formiamo le nostre idee» sugli insiemi «in base a qualcos’altro che è dato immediatamente»15. Questo qualcos’altro è il concetto di insieme. C’è «uno stretto rapporto tra il concetto di insieme» e «le categorie dell’intelletto puro nel senso di Kant», in quanto «la funzione di entrambi è la ‘sintesi’, cioè la generazione di unità a partire da molteplicità (per esempio, in Kant l’idea di un oggetto a partire dai suoi vari aspetti)»16. Tuttavia, secondo Gödel, per avere conoscenza degli insiemi il concetto di insieme deve essere rappresentato nell’intuizione. Per Gödel una tale rappresentazione è possibile perché noi possiamo «estendere la nostra conoscenza di questi concetti astratti, cioè rendere precisi tali concetti e cogliere in modo comprensivo e sicuro le relazioni fondamentali che sussistono tra essi, cioè gli assiomi che valgono per essi», semplicemente «coltivando (approfondendo) la conoscenza dei concetti astratti»17. Il procedimento da seguire consiste «nel concentrarci più attentamente sui concetti considerati dirigendo la nostra attenzione in un certo modo, cioè, sui nostri atti nell’usare questi concetti, sui nostri poteri di effettuare i nostri atti, ecc.»18. Questo «produrrà in noi un nuovo stato di coscienza, in cui noi descriviamo in dettaglio i concetti basilari che usiamo nel nostro pensiero, o cogliamo altri concetti basilari finora a noi sconosciuti»19. Avremo così un «cogliere intuitivo di sempre nuovi assiomi che sono logicamente indipendenti da quelli precedenti»20. Questo cogliere intuitivo è il risultato «di una autoconoscenza sempre più approfondita della ragione», o, «per essere più precisi, di una conoscenza razionale sempre più completa dell’essenza della ragione (della quale essenza la facoltà di autoconoscenza è essa stessa una parte costituente)»21. Ivi, II, p. 268. Ivi, II, p. 268, nota 40. 17 Ivi, III, p. 383. 18 Ibid. 19 Ibid. 20 Ivi, III, p. 385. 21 Gödel 2006, p. 259. 15 16
Einstein 1995, p. 226. Kant 1900-, IX, p. 91. 12 Gödel 1986-2002, II, p. 268. 13 Ibid. 14 Ivi, III, p. 312, nota 18. 10 11
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2. Intuizione e principi delle teorie scientifiche Spesso si afferma che è mediante l’intuizione che si arriva alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche. Per esempio Einstein, dopo aver dichiarato che «il compito supremo del fisico è arrivare a quelle leggi elementari universali a partire dalle quali si può costruire il cosmo mediante la pura deduzione», afferma che «non esiste alcuna via logica» che porti «a tali leggi; solo l’intuizione, che poggia sulla comprensione empatica dell’esperienza, può raggiungerle»10. Ma dire che è mediante l’intuizione che si arriva alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche è ingiustificato, perché tali leggi sono generali mentre l’intuizione è stata concepita, almeno da Kant in poi, come singolare. Infatti Kant afferma che «l’intuizione è una rappresentazione singolare» e perciò differisce dal concetto che è «una rappresentazione generale ovvero una rappresentazione di ciò che è comune a più oggetti, dunque è una rappresentazione in quanto può essere contenuta in diverse altre»11. Come può allora l’intuizione singolare permettere di arrivare alle leggi fondamentali delle teorie scientifiche, che sono generali? 3. Intuizione e assiomi delle teorie matematiche Spesso si afferma anche che è mediante l’intuizione che si arriva agli assiomi delle teorie matematiche. Per esempio, Gödel afferma che «noi abbiamo una sorta di percezione anche degli oggetti della teoria degli insiemi» che è data dall’intuizione, attraverso la quale «gli assiomi ci si impongono come veri»12. L’intuizione «è sufficientemente chiara da produrre gli assiomi della teoria degli insiemi e una serie aperta di loro estensioni»13. Attraverso essa «gli oggetti matematici sono conosciuti con precisione, e le leggi generali possono essere riconosciute con certezza, cioè, mediante l’inferenza deduttiva»14.
È vero che Gödel dichiara che «l’intuizione matematica non deve essere concepita come una facoltà che ci dà una conoscenza immediata degli oggetti considerati», e che «noi formiamo le nostre idee» sugli insiemi «in base a qualcos’altro che è dato immediatamente»15. Questo qualcos’altro è il concetto di insieme. C’è «uno stretto rapporto tra il concetto di insieme» e «le categorie dell’intelletto puro nel senso di Kant», in quanto «la funzione di entrambi è la ‘sintesi’, cioè la generazione di unità a partire da molteplicità (per esempio, in Kant l’idea di un oggetto a partire dai suoi vari aspetti)»16. Tuttavia, secondo Gödel, per avere conoscenza degli insiemi il concetto di insieme deve essere rappresentato nell’intuizione. Per Gödel una tale rappresentazione è possibile perché noi possiamo «estendere la nostra conoscenza di questi concetti astratti, cioè rendere precisi tali concetti e cogliere in modo comprensivo e sicuro le relazioni fondamentali che sussistono tra essi, cioè gli assiomi che valgono per essi», semplicemente «coltivando (approfondendo) la conoscenza dei concetti astratti»17. Il procedimento da seguire consiste «nel concentrarci più attentamente sui concetti considerati dirigendo la nostra attenzione in un certo modo, cioè, sui nostri atti nell’usare questi concetti, sui nostri poteri di effettuare i nostri atti, ecc.»18. Questo «produrrà in noi un nuovo stato di coscienza, in cui noi descriviamo in dettaglio i concetti basilari che usiamo nel nostro pensiero, o cogliamo altri concetti basilari finora a noi sconosciuti»19. Avremo così un «cogliere intuitivo di sempre nuovi assiomi che sono logicamente indipendenti da quelli precedenti»20. Questo cogliere intuitivo è il risultato «di una autoconoscenza sempre più approfondita della ragione», o, «per essere più precisi, di una conoscenza razionale sempre più completa dell’essenza della ragione (della quale essenza la facoltà di autoconoscenza è essa stessa una parte costituente)»21. Ivi, II, p. 268. Ivi, II, p. 268, nota 40. 17 Ivi, III, p. 383. 18 Ibid. 19 Ibid. 20 Ivi, III, p. 385. 21 Gödel 2006, p. 259. 15 16
Einstein 1995, p. 226. Kant 1900-, IX, p. 91. 12 Gödel 1986-2002, II, p. 268. 13 Ibid. 14 Ivi, III, p. 312, nota 18. 10 11
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Ma la posizione di Gödel va incontro a difficoltà che la rendono insostenibile. 1) Gödel afferma che noi abbiamo una sorta di percezione anche degli oggetti della teoria degli insiemi che è data dall’intuizione, attraverso la quale gli assiomi ci si impongono come veri. Ma questo va incontro alla difficoltà che, come nella percezione sensibile gli oggetti esercitano un’azione causale su di noi, così nell’intuizione gli oggetti dovrebbero esercitare un’azione causale su di noi. Per esempio, Kant afferma che la sensazione è «l’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne veniamo affetti»22. Nello stesso modo l’intuizione «si riscontra soltanto quando l’oggetto è dato; il che a sua volta è possibile, per noi uomini almeno, solo se l’oggetto agisce, in qualche modo sul nostro animo»23. Ma, mentre nella sensazione gli oggetti fisici esercitano un’azione causale su di noi attraverso i nostri recettori sensoriali, in che modo nell’intuizione gli insiemi potrebbero esercitare su di noi un’azione causale? 2) Gödel afferma che attraverso l’intuizione gli oggetti matematici, cioè gli insiemi, sono conosciuti con precisione, e le leggi generali su di essi possono essere riconosciute con certezza, mediante l’inferenza deduttiva. Ma le leggi generali sugli insiemi non possono essere riconosciute con certezza mediante l’inferenza deduttiva perché, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, la coerenza degli assiomi della teoria degli insiemi non è dimostrabile a partire da tali assiomi, e perciò a maggior ragione non è dimostrabile con mezzi assolutamente affidabili. Dunque noi non possiamo riconoscere con certezza la coerenza degli assiomi della teoria degli insiemi, e quindi non possiamo riconoscere con certezza neppure le leggi generali sugli insiemi. 3) Gödel afferma che l’intuizione non ci dà una conoscenza immediata degli insiemi, ma noi formiamo le nostre idee sugli insiemi in base al concetto di insieme. E aggiunge che quest’ultimo ha uno stretto rapporto con le categorie dell’intelletto puro di Kant, in quanto la funzione di entrambi è la sintesi, cioè la generazione di unità a partire da molteplicità, ma che, per avere conoscenza degli insiemi, il concetto di insieme deve essere rappresentato nell’intui-
zione. Gödel si riferisce qui al fatto che, per Kant, solo mediante le categorie «diviene in generale possibile pensare un qualunque oggetto dell’esperienza»24. Nello stesso modo, secondo Gödel, solo mediante il concetto di insieme diviene in generale possibile pensare un qualunque insieme. Ancora secondo Kant, «le funzioni del comporre (della sintesi) vengono prima, ma non hanno ancora alcun oggetto; lo ricevono mediante lo schematizzare, cioè mediante intuizioni a priori alle quali possono essere applicate. Questo produce la conoscenza delle cose come fenomeni»25. Nello stesso modo, secondo Gödel, la funzione del comporre (della sintesi) oggetti in un insieme, ossia il concetto di insieme, viene prima, ma non ha ancora alcun oggetto; lo riceve mediante lo schematizzare, cioè mediante intuizioni a priori alle quali tale concetto può essere applicato, e questo produce la conoscenza degli insiemi. Ma, nel caso di Kant, che cosa significhi schematizzare un concetto matematico, per esempio quello di triangolo, è chiaro. Significa rappresentare «l’oggetto che corrisponde a questo concetto o per mezzo della semplice immaginazione, nell’intuizione pura, o, basandomi su questa, anche sulla carta, nell’intuizione empirica»26. Invece, nel caso di Gödel, che cosa significhi schematizzare il concetto di insieme è oscuro, dato il carattere astratto di tale concetto. 4) Gödel afferma che una rappresentazione del concetto di insieme nell’intuizione è possibile perché noi possiamo estendere la nostra conoscenza di tale concetto e cogliere in modo comprensivo e sicuro gli assiomi che valgono per esso concentrandoci più attentamente sul concetto in questione. Ma questo è insostenibile. Infatti, supponiamo che noi riusciamo a cogliere in modo comprensivo e sicuro gli assiomi T che valgono per gli insiemi, e quindi la loro coerenza, mediante un’intuizione ottenuta attraverso la procedura del concentrarsi più attentamente sul concetto di insieme, diciamo S. Allora, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, esiste un enunciato A di T che è vero di S ma non è dimostrabile a partire da T. Perciò la teoria T T A è coerente, e quindi ha un modello, diciamo S. Allora A è vero di S, per cui A è falso di S. Pertanto Ivi, III, p. 105 (B 126). Ivi, XIII, p. 468. 26 Ivi, III, p. 469 (B 741). 24
Kant 1900-, III, p. 50 (B 34). 23 Ivi, III, p. 49 (B 33). 22
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Ma la posizione di Gödel va incontro a difficoltà che la rendono insostenibile. 1) Gödel afferma che noi abbiamo una sorta di percezione anche degli oggetti della teoria degli insiemi che è data dall’intuizione, attraverso la quale gli assiomi ci si impongono come veri. Ma questo va incontro alla difficoltà che, come nella percezione sensibile gli oggetti esercitano un’azione causale su di noi, così nell’intuizione gli oggetti dovrebbero esercitare un’azione causale su di noi. Per esempio, Kant afferma che la sensazione è «l’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne veniamo affetti»22. Nello stesso modo l’intuizione «si riscontra soltanto quando l’oggetto è dato; il che a sua volta è possibile, per noi uomini almeno, solo se l’oggetto agisce, in qualche modo sul nostro animo»23. Ma, mentre nella sensazione gli oggetti fisici esercitano un’azione causale su di noi attraverso i nostri recettori sensoriali, in che modo nell’intuizione gli insiemi potrebbero esercitare su di noi un’azione causale? 2) Gödel afferma che attraverso l’intuizione gli oggetti matematici, cioè gli insiemi, sono conosciuti con precisione, e le leggi generali su di essi possono essere riconosciute con certezza, mediante l’inferenza deduttiva. Ma le leggi generali sugli insiemi non possono essere riconosciute con certezza mediante l’inferenza deduttiva perché, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, la coerenza degli assiomi della teoria degli insiemi non è dimostrabile a partire da tali assiomi, e perciò a maggior ragione non è dimostrabile con mezzi assolutamente affidabili. Dunque noi non possiamo riconoscere con certezza la coerenza degli assiomi della teoria degli insiemi, e quindi non possiamo riconoscere con certezza neppure le leggi generali sugli insiemi. 3) Gödel afferma che l’intuizione non ci dà una conoscenza immediata degli insiemi, ma noi formiamo le nostre idee sugli insiemi in base al concetto di insieme. E aggiunge che quest’ultimo ha uno stretto rapporto con le categorie dell’intelletto puro di Kant, in quanto la funzione di entrambi è la sintesi, cioè la generazione di unità a partire da molteplicità, ma che, per avere conoscenza degli insiemi, il concetto di insieme deve essere rappresentato nell’intui-
zione. Gödel si riferisce qui al fatto che, per Kant, solo mediante le categorie «diviene in generale possibile pensare un qualunque oggetto dell’esperienza»24. Nello stesso modo, secondo Gödel, solo mediante il concetto di insieme diviene in generale possibile pensare un qualunque insieme. Ancora secondo Kant, «le funzioni del comporre (della sintesi) vengono prima, ma non hanno ancora alcun oggetto; lo ricevono mediante lo schematizzare, cioè mediante intuizioni a priori alle quali possono essere applicate. Questo produce la conoscenza delle cose come fenomeni»25. Nello stesso modo, secondo Gödel, la funzione del comporre (della sintesi) oggetti in un insieme, ossia il concetto di insieme, viene prima, ma non ha ancora alcun oggetto; lo riceve mediante lo schematizzare, cioè mediante intuizioni a priori alle quali tale concetto può essere applicato, e questo produce la conoscenza degli insiemi. Ma, nel caso di Kant, che cosa significhi schematizzare un concetto matematico, per esempio quello di triangolo, è chiaro. Significa rappresentare «l’oggetto che corrisponde a questo concetto o per mezzo della semplice immaginazione, nell’intuizione pura, o, basandomi su questa, anche sulla carta, nell’intuizione empirica»26. Invece, nel caso di Gödel, che cosa significhi schematizzare il concetto di insieme è oscuro, dato il carattere astratto di tale concetto. 4) Gödel afferma che una rappresentazione del concetto di insieme nell’intuizione è possibile perché noi possiamo estendere la nostra conoscenza di tale concetto e cogliere in modo comprensivo e sicuro gli assiomi che valgono per esso concentrandoci più attentamente sul concetto in questione. Ma questo è insostenibile. Infatti, supponiamo che noi riusciamo a cogliere in modo comprensivo e sicuro gli assiomi T che valgono per gli insiemi, e quindi la loro coerenza, mediante un’intuizione ottenuta attraverso la procedura del concentrarsi più attentamente sul concetto di insieme, diciamo S. Allora, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, esiste un enunciato A di T che è vero di S ma non è dimostrabile a partire da T. Perciò la teoria T T A è coerente, e quindi ha un modello, diciamo S. Allora A è vero di S, per cui A è falso di S. Pertanto Ivi, III, p. 105 (B 126). Ivi, XIII, p. 468. 26 Ivi, III, p. 469 (B 741). 24
Kant 1900-, III, p. 50 (B 34). 23 Ivi, III, p. 49 (B 33). 22
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S e S sono entrambi modelli di T, e dunque sono entrambi concetti di insieme, ma A è vero di S e falso di S. Di conseguenza S e S non possono essere isomorfi, e perciò S e S sono concetti di insieme essenzialmente differenti. Ora se, come ci chiede Gödel, ci concentriamo più attentamente sul modo in cui abbiamo ottenuto S, possiamo rappresentare nell’intuizione il concetto di insieme S. Abbiamo allora due intuizioni differenti, una delle quali ci assicura che il genuino concetto di insieme è S, mentre l’altra ci assicura che il genuino concetto di insieme è S. Poiché i concetti di insieme S e S non sono isomorfi e perciò sono essenzialmente differenti, questo fa nascere il problema: quale di S e S è il genuino concetto di insieme? La procedura del concentrarci più attentamente sul concetto di insieme non ci dà alcuna risposta. 4. Fallibilità dell’intuizione Si è detto che, tra le ragioni per cui molti filosofi dell’età moderna e contemporanea hanno considerato l’intuizione come una fonte di conoscenza superiore, e perciò le hanno attribuito un ruolo centrale nella conoscenza, c’è il fatto che, a loro parere, l’intuizione è capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Questo implica che essa è capace di coglierlo infallibilmente. Alla capacità dell’intuizione di cogliere l’oggetto infallibilmente Gödel attribuisce una colorazione quasi politica perché afferma che essa corrisponde alla «filosofia della matematica di destra, e all’istinto del matematico, che la dimostrazione di una proposizione» matematica «debba fornire un fondamento sicuro di tale proposizione»27. Secondo la «filosofia della matematica di destra», se si vogliono giustificare le proposizioni matematiche «con certezza matematica», una «certa parte della matematica deve essere riconosciuta come vera nel senso della vecchia matematica di destra»28. Tale parte della matematica è quella la cui verità può essere colta attraverso l’intuizione. Quest’ultima, «andando verso una sempre maggior 27 28
Gödel 1986-2002, III, p. 379. Ivi, III, p. 378.
chiarezza nei suoi fondamenti», ci salva «dallo scetticismo»29. Assicurando la certezza matematica attraverso l’intuizione, la filosofia della matematica di destra rende conto del carattere più profondo della matematica, la quale, «per sua natura in quanto scienza a priori, ha sempre, di per sé, un’inclinazione verso destra»30. L’attribuzione all’intuizione della capacità di cogliere l’oggetto infallibilmente sta alla base dei programmi di fondazione della matematica di Frege, Hilbert e Brouwer. Sta alla base del programma di Frege di ridurre l’aritmetica alla logica perché, proponendosi di mostrare che il fondamento della certezza dell’aritmetica è l’intuizione intellettuale, tale programma presuppone che l’intuizione intellettuale sia capace di farci conoscere infallibilmente i principi della logica. Sta alla base del programma di Hilbert di dimostrare la coerenza di una formalizzazione della matematica nella matematica finitaria perché, proponendosi di mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, tale programma presuppone che l’intuizione sensibile pura sia capace di farci conoscere infallibilmente le verità della matematica finitaria. Sta alla base del programma di Brouwer di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la matematica intuizionista, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale perché, proponendosi di mostrare che il fondamento della certezza della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale, tale programma presuppone che l’intuizione sensibile pura temporale sia capace di farci conoscere infallibilmente le verità matematiche. Ma, che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente, è smentito dal fatto che l’intuizione spesso porta a errori. Per esempio, Frege adotta, come assioma principale del sistema logico a cui vorrebbe ridurre l’aritmetica, la cosiddetta ‘Legge Fondamentale V’: {x F(x)} {x G(x)} x(F(x) G(x)). 29 30
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Ivi, III, p. 376. Ibid.
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S e S sono entrambi modelli di T, e dunque sono entrambi concetti di insieme, ma A è vero di S e falso di S. Di conseguenza S e S non possono essere isomorfi, e perciò S e S sono concetti di insieme essenzialmente differenti. Ora se, come ci chiede Gödel, ci concentriamo più attentamente sul modo in cui abbiamo ottenuto S, possiamo rappresentare nell’intuizione il concetto di insieme S. Abbiamo allora due intuizioni differenti, una delle quali ci assicura che il genuino concetto di insieme è S, mentre l’altra ci assicura che il genuino concetto di insieme è S. Poiché i concetti di insieme S e S non sono isomorfi e perciò sono essenzialmente differenti, questo fa nascere il problema: quale di S e S è il genuino concetto di insieme? La procedura del concentrarci più attentamente sul concetto di insieme non ci dà alcuna risposta. 4. Fallibilità dell’intuizione Si è detto che, tra le ragioni per cui molti filosofi dell’età moderna e contemporanea hanno considerato l’intuizione come una fonte di conoscenza superiore, e perciò le hanno attribuito un ruolo centrale nella conoscenza, c’è il fatto che, a loro parere, l’intuizione è capace di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Questo implica che essa è capace di coglierlo infallibilmente. Alla capacità dell’intuizione di cogliere l’oggetto infallibilmente Gödel attribuisce una colorazione quasi politica perché afferma che essa corrisponde alla «filosofia della matematica di destra, e all’istinto del matematico, che la dimostrazione di una proposizione» matematica «debba fornire un fondamento sicuro di tale proposizione»27. Secondo la «filosofia della matematica di destra», se si vogliono giustificare le proposizioni matematiche «con certezza matematica», una «certa parte della matematica deve essere riconosciuta come vera nel senso della vecchia matematica di destra»28. Tale parte della matematica è quella la cui verità può essere colta attraverso l’intuizione. Quest’ultima, «andando verso una sempre maggior 27 28
Gödel 1986-2002, III, p. 379. Ivi, III, p. 378.
chiarezza nei suoi fondamenti», ci salva «dallo scetticismo»29. Assicurando la certezza matematica attraverso l’intuizione, la filosofia della matematica di destra rende conto del carattere più profondo della matematica, la quale, «per sua natura in quanto scienza a priori, ha sempre, di per sé, un’inclinazione verso destra»30. L’attribuzione all’intuizione della capacità di cogliere l’oggetto infallibilmente sta alla base dei programmi di fondazione della matematica di Frege, Hilbert e Brouwer. Sta alla base del programma di Frege di ridurre l’aritmetica alla logica perché, proponendosi di mostrare che il fondamento della certezza dell’aritmetica è l’intuizione intellettuale, tale programma presuppone che l’intuizione intellettuale sia capace di farci conoscere infallibilmente i principi della logica. Sta alla base del programma di Hilbert di dimostrare la coerenza di una formalizzazione della matematica nella matematica finitaria perché, proponendosi di mostrare che la base della certezza assoluta delle conoscenze immediatamente giustificate della matematica è l’intuizione sensibile pura, tale programma presuppone che l’intuizione sensibile pura sia capace di farci conoscere infallibilmente le verità della matematica finitaria. Sta alla base del programma di Brouwer di sostituire la matematica esistente con un nuovo tipo di matematica, la matematica intuizionista, basata unicamente sull’intuizione sensibile pura temporale perché, proponendosi di mostrare che il fondamento della certezza della matematica è l’intuizione sensibile pura temporale, tale programma presuppone che l’intuizione sensibile pura temporale sia capace di farci conoscere infallibilmente le verità matematiche. Ma, che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente, è smentito dal fatto che l’intuizione spesso porta a errori. Per esempio, Frege adotta, come assioma principale del sistema logico a cui vorrebbe ridurre l’aritmetica, la cosiddetta ‘Legge Fondamentale V’: {x F(x)} {x G(x)} x(F(x) G(x)). 29 30
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Ivi, III, p. 376. Ibid.
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Essa asserisce che due concetti F(x) e G(x) hanno la stessa estensione se e solo se hanno lo stesso valore per lo stesso argomento31. Frege adotta come assioma principale tale legge perché si fida ciecamente dell’intuizione, la quale gli dice che essa è quello che si ha «in mente, per esempio, quando si parla di estensioni di concetti»32. Si fida così ciecamente dell’intuizione che, di fronte alla possibilità che qualcuno possa mostrare che gli assiomi del suo sistema logico «portano a conseguenze palesemente false», dichiara spavaldamente che «questo non riuscirà a nessuno»33. Ma Russell gli comunica che dalla Legge Fondamentale V si può dedurre una proposizione della forma y y y y, dunque una contraddizione. Frege riconosce che tale contraddizione – il paradosso di Russell – scuote «uno dei fondamenti del suo edificio»34. Il suo sconcerto è accresciuto da una lettera di Hilbert con la quale questi lo informa che un paradosso simile era già stato scoperto da «Zermelo tre quattro anni fa»35. E Zermelo lo aveva scoperto quando era venuto a conoscenza di «altre contraddizioni ancora più persuasive» trovate dallo stesso Hilbert «già quattro cinque anni fa»36. Dunque, non solo l’intuizione ha ingannato Frege, ma Hilbert, Zermelo e Russell si sono subito resi conto dell’errore. 5. Proprietà matematiche contrarie all’intuizione Che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente è smentito anche dal fatto che molti oggetti matematici hanno proprietà contrarie all’intuizione. Per esempio, l’intuizione ci dice che ogni superficie limitata da un contorno, come un rettangolo o un cerchio, ha due facce, e che, tagliando in due tale superficie, essa si divide in due pezzi separati. Ma un controesempio è dato dal nastro di Möbius, che si ottiene prendendo un nastro lungo e sottile, torcendone una delle estremità 31 La formulazione originaria di Frege della Legge Fondamentale V è un po’ più generale perché riguarda funzioni qualsiasi invece che solo concetti, ma questo è inessenziale qui. 32 Frege 1962, I, p. VII. 33 Ivi, I, p. XXVI. 34 Ivi, II, p. 253. 35 Hilbert 1976b, p. 80 nota. 36 Ivi, p. 80.
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rispetto all’altra in modo da farle descrivere mezzo giro nel senso della lunghezza, e poi saldando le estremità tra loro.
Il nastro di Möbius è una superficie limitata da un contorno, ma ha una sola faccia perché, seguendo una linea continua, si può raggiungere qualsiasi punto della figura senza attraversarne il contorno e senza fare buchi nel nastro. In particolare, seguendo la linea mediana del nastro, dopo un giro ci si trova nel punto che sta immediatamente dietro quello di partenza e, seguendo ancora la linea mediana del nastro, dopo un altro giro ci si ritrova al punto di partenza. Inoltre, tagliando in due il nastro lungo la linea mediana, il nastro rimane in un solo pezzo. Questo contraddice l’intuizione. Un ulteriore esempio è che l’intuizione ci dice che la lunghezza di una linea curva costituita da semicerchi eguali posti su lati alterni di una linea retta, col diminuire del diametro dei semicerchi approssima sempre più la lunghezza della linea retta, e al limite diverrà eguale a essa.
Ma un controesempio è dato dalla seguente ‘dimostrazione’ che la lunghezza di un semicerchio è eguale al diametro del semicerchio. Consideriamo un semicerchio di raggio r e dividiamone il diametro in n parti eguali. Sugli n segmenti risultati costruiamo n semicerchi eguali posti su lati alterni del diametro del semicerchio.
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Essa asserisce che due concetti F(x) e G(x) hanno la stessa estensione se e solo se hanno lo stesso valore per lo stesso argomento31. Frege adotta come assioma principale tale legge perché si fida ciecamente dell’intuizione, la quale gli dice che essa è quello che si ha «in mente, per esempio, quando si parla di estensioni di concetti»32. Si fida così ciecamente dell’intuizione che, di fronte alla possibilità che qualcuno possa mostrare che gli assiomi del suo sistema logico «portano a conseguenze palesemente false», dichiara spavaldamente che «questo non riuscirà a nessuno»33. Ma Russell gli comunica che dalla Legge Fondamentale V si può dedurre una proposizione della forma y y y y, dunque una contraddizione. Frege riconosce che tale contraddizione – il paradosso di Russell – scuote «uno dei fondamenti del suo edificio»34. Il suo sconcerto è accresciuto da una lettera di Hilbert con la quale questi lo informa che un paradosso simile era già stato scoperto da «Zermelo tre quattro anni fa»35. E Zermelo lo aveva scoperto quando era venuto a conoscenza di «altre contraddizioni ancora più persuasive» trovate dallo stesso Hilbert «già quattro cinque anni fa»36. Dunque, non solo l’intuizione ha ingannato Frege, ma Hilbert, Zermelo e Russell si sono subito resi conto dell’errore. 5. Proprietà matematiche contrarie all’intuizione Che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente è smentito anche dal fatto che molti oggetti matematici hanno proprietà contrarie all’intuizione. Per esempio, l’intuizione ci dice che ogni superficie limitata da un contorno, come un rettangolo o un cerchio, ha due facce, e che, tagliando in due tale superficie, essa si divide in due pezzi separati. Ma un controesempio è dato dal nastro di Möbius, che si ottiene prendendo un nastro lungo e sottile, torcendone una delle estremità 31 La formulazione originaria di Frege della Legge Fondamentale V è un po’ più generale perché riguarda funzioni qualsiasi invece che solo concetti, ma questo è inessenziale qui. 32 Frege 1962, I, p. VII. 33 Ivi, I, p. XXVI. 34 Ivi, II, p. 253. 35 Hilbert 1976b, p. 80 nota. 36 Ivi, p. 80.
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rispetto all’altra in modo da farle descrivere mezzo giro nel senso della lunghezza, e poi saldando le estremità tra loro.
Il nastro di Möbius è una superficie limitata da un contorno, ma ha una sola faccia perché, seguendo una linea continua, si può raggiungere qualsiasi punto della figura senza attraversarne il contorno e senza fare buchi nel nastro. In particolare, seguendo la linea mediana del nastro, dopo un giro ci si trova nel punto che sta immediatamente dietro quello di partenza e, seguendo ancora la linea mediana del nastro, dopo un altro giro ci si ritrova al punto di partenza. Inoltre, tagliando in due il nastro lungo la linea mediana, il nastro rimane in un solo pezzo. Questo contraddice l’intuizione. Un ulteriore esempio è che l’intuizione ci dice che la lunghezza di una linea curva costituita da semicerchi eguali posti su lati alterni di una linea retta, col diminuire del diametro dei semicerchi approssima sempre più la lunghezza della linea retta, e al limite diverrà eguale a essa.
Ma un controesempio è dato dalla seguente ‘dimostrazione’ che la lunghezza di un semicerchio è eguale al diametro del semicerchio. Consideriamo un semicerchio di raggio r e dividiamone il diametro in n parti eguali. Sugli n segmenti risultati costruiamo n semicerchi eguali posti su lati alterni del diametro del semicerchio.
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In base a quanto ci dice l’intuizione, la lunghezza Ln della linea curva costituita dagli n semicerchi, col crescere di n approssima sempre più la lunghezza del diametro del semicerchio, cioè 2r, e al limite diviene eguale a essa, cioè: (1) n lim Ln 2r Ma ciascuno degli n semicerchi ha diametro 2r n , quindi raggio r 2 n r r r , e dunque lunghezza . Perciò Ln n r. n n n 2 Pertanto: (2) n lim Ln r Da (1) e (2) segue che r 2r, cioè che la lunghezza di un semicerchio è eguale al diametro del semicerchio. Ma questo è assurdo, come si vede anche dal fatto che implica che 2. Siccome (2) è corretto, ne segue che (1) deve essere scorretto. Ma (1) si basa sull’intuizione. Dunque la conclusione contraddice l’intuizione. 6. Superfluità dell’intuizione A prescindere da altre prove che si potrebbero addurre, quelle menzionate sopra sono sufficienti per concludere che l’affermazione che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente è insostenibile. L’intuizione non è capace di cogliere l’oggetto infallibilmente in alcun campo, neppure nella matematica. Perciò non ha fondamento una delle ragioni che, nell’età moderna e contemporanea, hanno indotto molti filosofi ad attribuirle un ruolo centrale nella conoscenza. In particolare, non ha fondamento la filosofia della matematica ‘di destra’ sostenuta da Gödel, che vede nell’intuizione una garanzia assoluta della sicurezza della matematica. Contrariamente a quanto vorrebbe Gödel, si deve perciò rinunciare «ai vecchi aspetti di de126
stra della matematica», non li si può «conservare in contraddizione con lo spirito del tempo»37. Non solo l’intuizione non è capace di cogliere l’oggetto infallibilmente in alcun campo, neppure nella matematica, ma addirittura non svolge alcun ruolo nella conoscenza. Quest’ultima non nasce da una fonte come l’intuizione, non suscettibile di una spiegazione razionale, ma si ottiene attraverso processi razionali e in effetti processi logici, sia pure logici non nel senso di una logica comprendente solo inferenze deduttive, bensì di una logica più ampia, comprendente anche e soprattutto inferenze non deduttive. Infatti la conoscenza non si ottiene attraverso l’intuizione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. 7. L’intuizione fallibile Si potrebbe obiettare che l’argomento contro l’intuizione basato sulla sua fallibilità non tiene conto del fatto che alcuni sostenitori dell’intuizione, pur affermandone il ruolo centrale nella conoscenza, e in particolare l’indispensabilità per cogliere qualche principio logico di inferenza deduttiva, ammettono che l’intuizione è fallibile. Per esempio, Hanna afferma che «l’intuizione è cognitivamente indispensabile», e in particolare «ogni processo di ragionamento» deve «fondarsi in ultima analisi sull’intuizione di qualche principio logico di inferenza deduttiva che governi la relazione rilevante di implicazione tra le premesse e la conclusione del ragionamento», altrimenti «si avrebbe un regresso all’infinito nei fondamenti giustificativi inferenziali deduttivi»38. Tuttavia «l’intuizione è fallibile», cioè «è sempre possibile che essa si sbagli»39. Una «intuizione che S non può fornire una garanzia epistemica del fatto che è necessariamente S»40. Questa obiezione, però, è inadeguata perché fa nascere il problema: se l’intuizione è fallibile, come si può sapere se un’intuizione che S è giusta o sbagliata? Non lo si può sapere basandosi sull’intuiGödel 1986-2002, III, p. 380. Hanna 2006, p. 172. 39 Ibid. 40 Ibid. 37 38
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In base a quanto ci dice l’intuizione, la lunghezza Ln della linea curva costituita dagli n semicerchi, col crescere di n approssima sempre più la lunghezza del diametro del semicerchio, cioè 2r, e al limite diviene eguale a essa, cioè: (1) n lim Ln 2r Ma ciascuno degli n semicerchi ha diametro 2r n , quindi raggio r 2 n r r r , e dunque lunghezza . Perciò Ln n r. n n n 2 Pertanto: (2) n lim Ln r Da (1) e (2) segue che r 2r, cioè che la lunghezza di un semicerchio è eguale al diametro del semicerchio. Ma questo è assurdo, come si vede anche dal fatto che implica che 2. Siccome (2) è corretto, ne segue che (1) deve essere scorretto. Ma (1) si basa sull’intuizione. Dunque la conclusione contraddice l’intuizione. 6. Superfluità dell’intuizione A prescindere da altre prove che si potrebbero addurre, quelle menzionate sopra sono sufficienti per concludere che l’affermazione che l’intuizione sia capace di cogliere l’oggetto infallibilmente è insostenibile. L’intuizione non è capace di cogliere l’oggetto infallibilmente in alcun campo, neppure nella matematica. Perciò non ha fondamento una delle ragioni che, nell’età moderna e contemporanea, hanno indotto molti filosofi ad attribuirle un ruolo centrale nella conoscenza. In particolare, non ha fondamento la filosofia della matematica ‘di destra’ sostenuta da Gödel, che vede nell’intuizione una garanzia assoluta della sicurezza della matematica. Contrariamente a quanto vorrebbe Gödel, si deve perciò rinunciare «ai vecchi aspetti di de126
stra della matematica», non li si può «conservare in contraddizione con lo spirito del tempo»37. Non solo l’intuizione non è capace di cogliere l’oggetto infallibilmente in alcun campo, neppure nella matematica, ma addirittura non svolge alcun ruolo nella conoscenza. Quest’ultima non nasce da una fonte come l’intuizione, non suscettibile di una spiegazione razionale, ma si ottiene attraverso processi razionali e in effetti processi logici, sia pure logici non nel senso di una logica comprendente solo inferenze deduttive, bensì di una logica più ampia, comprendente anche e soprattutto inferenze non deduttive. Infatti la conoscenza non si ottiene attraverso l’intuizione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. 7. L’intuizione fallibile Si potrebbe obiettare che l’argomento contro l’intuizione basato sulla sua fallibilità non tiene conto del fatto che alcuni sostenitori dell’intuizione, pur affermandone il ruolo centrale nella conoscenza, e in particolare l’indispensabilità per cogliere qualche principio logico di inferenza deduttiva, ammettono che l’intuizione è fallibile. Per esempio, Hanna afferma che «l’intuizione è cognitivamente indispensabile», e in particolare «ogni processo di ragionamento» deve «fondarsi in ultima analisi sull’intuizione di qualche principio logico di inferenza deduttiva che governi la relazione rilevante di implicazione tra le premesse e la conclusione del ragionamento», altrimenti «si avrebbe un regresso all’infinito nei fondamenti giustificativi inferenziali deduttivi»38. Tuttavia «l’intuizione è fallibile», cioè «è sempre possibile che essa si sbagli»39. Una «intuizione che S non può fornire una garanzia epistemica del fatto che è necessariamente S»40. Questa obiezione, però, è inadeguata perché fa nascere il problema: se l’intuizione è fallibile, come si può sapere se un’intuizione che S è giusta o sbagliata? Non lo si può sapere basandosi sull’intuiGödel 1986-2002, III, p. 380. Hanna 2006, p. 172. 39 Ibid. 40 Ibid. 37 38
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zione perché questa è fallibile, dunque lo si può sapere solo basandosi sul ragionamento. Ma se il ragionamento si fonda in ultima analisi sull’intuizione di qualche principio logico, come si può sapere se tale principio logico è giusto o sbagliato? Non lo si può sapere basandosi sull’intuizione perché questa è fallibile, dunque lo si può sapere solo basandosi sul ragionamento. E così via. Si ha così un regresso all’infinito. Perciò l’obiezione implica che non si può sapere se un’intuizione che S è giusta o sbagliata.
La chimera della deduzione
1. Il deduttivismo Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la deduzione. Tradizionalmente, intuizione e deduzione sono state viste come fonti complementari della conoscenza. In particolare, come abbiamo visto, l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, cioè che non richiede la mediazione dell’inferenza. La deduzione, invece, è stata vista come una fonte di conoscenza mediata, che richiede la mediazione dell’inferenza in quanto consiste di una serie di inferenze a partire da principi conosciuti mediante l’intuizione. Questo modo di vedere le fonti della conoscenza è stato molto influente nell’età moderna e contemporanea, da Descartes a Husserl e alla filosofia analitica. Per esempio, Husserl afferma che, anche se «la fonte originaria di ogni validità, in tutti i domini di oggetti e da tutti i punti di vista su di essi, è l’evidenza originaria immediata», cioè l’intuizione, «a tale fonte si può attingere» anche «indirettamente in diversi modi»1. In molti casi «una proposizione si riferisce mediatamente a fondamenti immediatamente evidenti», e perciò ha «una sorta di evidenza derivata, di ‘evidenza mediata’»2. Questo «tipo derivato di evidenza può presentarsi per sua natura soltanto nell’ultimo termine di una connessione di posizioni che comincia da evidenze immediate», ed è «sostenuto a ogni passo da evidenze che in parte sono immediate, in parte sono già derivate»3. Dunque può presentarsi solo Husserl 1950-, III, p. 346. Ibid., III, p. 348. 3 Ibid. 1 2
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zione perché questa è fallibile, dunque lo si può sapere solo basandosi sul ragionamento. Ma se il ragionamento si fonda in ultima analisi sull’intuizione di qualche principio logico, come si può sapere se tale principio logico è giusto o sbagliato? Non lo si può sapere basandosi sull’intuizione perché questa è fallibile, dunque lo si può sapere solo basandosi sul ragionamento. E così via. Si ha così un regresso all’infinito. Perciò l’obiezione implica che non si può sapere se un’intuizione che S è giusta o sbagliata.
La chimera della deduzione
1. Il deduttivismo Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la deduzione. Tradizionalmente, intuizione e deduzione sono state viste come fonti complementari della conoscenza. In particolare, come abbiamo visto, l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, cioè che non richiede la mediazione dell’inferenza. La deduzione, invece, è stata vista come una fonte di conoscenza mediata, che richiede la mediazione dell’inferenza in quanto consiste di una serie di inferenze a partire da principi conosciuti mediante l’intuizione. Questo modo di vedere le fonti della conoscenza è stato molto influente nell’età moderna e contemporanea, da Descartes a Husserl e alla filosofia analitica. Per esempio, Husserl afferma che, anche se «la fonte originaria di ogni validità, in tutti i domini di oggetti e da tutti i punti di vista su di essi, è l’evidenza originaria immediata», cioè l’intuizione, «a tale fonte si può attingere» anche «indirettamente in diversi modi»1. In molti casi «una proposizione si riferisce mediatamente a fondamenti immediatamente evidenti», e perciò ha «una sorta di evidenza derivata, di ‘evidenza mediata’»2. Questo «tipo derivato di evidenza può presentarsi per sua natura soltanto nell’ultimo termine di una connessione di posizioni che comincia da evidenze immediate», ed è «sostenuto a ogni passo da evidenze che in parte sono immediate, in parte sono già derivate»3. Dunque può presentarsi solo Husserl 1950-, III, p. 346. Ibid., III, p. 348. 3 Ibid. 1 2
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nell’ultimo termine di una deduzione, che è il modo del «fondare e dimostrare mediato»4. Oltre a essere vista come una fonte di conoscenza mediata, la deduzione è stata vista come l’essenza del ragionamento. Questo sta alla base del deduttivismo, la concezione secondo cui le due uniche fonti della conoscenza sono l’intuizione e la deduzione. Riducendo il ragionamento al solo ragionamento deduttivo, il deduttivismo può riassumersi nel motto: il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso. Questa concezione del ragionamento è stata molto influente nell’età moderna e contemporanea, da Descartes a Popper. Per esempio, Popper afferma che «le teorie sono essenzialmente sistemi argomentativi di asserzioni: la loro caratteristica principale è che esse spiegano deduttivamente»5. I punti di partenza delle deduzioni nelle teorie sono il prodotto di «‘un’intuizione creativa’, nel senso di Bergson»6. Quanto «all’induzione (o alla logica induttiva, o al comportamento induttivo, o all’apprendimento per induzione o per ripetizione o per ‘istruzione’)», in realtà «non esiste nulla del genere»7. Non solo l’inferenza induttiva è «induttivamente ‘scorretta’ (per usare una parola diversa da ‘non valida’)», ma «non esiste alcuna regola di inferenza induttiva mai proposta – inferenza che porti a teorie o leggi universali – che possa essere presa sul serio neppure per un minuto»8. Popper chiama «deduttivismo conseguente» la sua posizione, perché in base a essa «non esiste alcuna induzione di alcun genere»9. In effetti la sua posizione è una versione molto chiara e netta del deduttivismo. 2. Prime difficoltà del deduttivismo Nonostante la sua influenza, il deduttivismo va incontro a difficoltà che lo rendono insostenibile. Innanzitutto, le conclusioni raggiunte dagli scienziati, cioè le ipoIbid. Popper 1974b, p. 61. 6 Popper 1959, p. 32. 7 Popper 1974b, p. 116. 8 Ivi, p. 117. 9 Popper 1994a, p. 425. 4 5
tesi che essi formulano, in generale non sono completamente garantite dalle loro premesse, ossia dai dati esistenti. Vi sono due modi per affrontare questa situazione, che sono alternativi tra loro. Il primo modo consiste nel riconoscere che il ragionamento mediante il quale gli scienziati formulano le ipotesi per risolvere i problemi è di tipo non deduttivo. Questo modo, però, non è disponibile per i deduttivisti perché contraddirebbe il loro motto che il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso. Inoltre, secondo i deduttivisti, così si scivolerebbe nello psicologismo e nel relativismo. Il secondo modo consiste nell’affermare che il ragionamento usato dagli scienziati è di tipo entimematico, cioè lascia implicite alcune premesse, che vengono assunte tacitamente. Questo è l’unico modo disponibile per i deduttivisti, e in effetti è il modo che essi hanno adottato a partire dagli Stoici. Nondimeno si tratta di un modo assolutamente problematico perché, come prontamente osservarono gli Epicurei, trascura che le premesse lasciate implicite potrebbero ottenersi solo mediante inferenze non deduttive10. 3. La matematica dell’Ottocento e il deduttivismo Persino la geometria, tradizionalmente considerata come il paradigma del ragionamento, per molta parte della sua storia non ha soddisfatto i requisiti del deduttivismo. Dall’antichità fino alla fine dell’Ottocento le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori non sono state procedure deduttive. Addirittura Russell afferma che «nel diciannovesimo secolo probabilmente non esisteva un singolo pezzo di ragionamento matematico» che «deducesse correttamente il suo risultato dalle premesse esplicite formulate»11. Questo ha la paradossale conseguenza che, a rigore, secondo il deduttivismo, tutta la geometria e in generale tutta la matematica, dalle origini fino alla fine dell’Ottocento, non era propriamente matematica. Sorge allora la domanda: ma, se non era propriamente matematica, che cos’era? E in virtù di quale misteriosa armonia presta10 11
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Cfr. Cellucci 2002, cap. 29. Russell 1979, p. 457.
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nell’ultimo termine di una deduzione, che è il modo del «fondare e dimostrare mediato»4. Oltre a essere vista come una fonte di conoscenza mediata, la deduzione è stata vista come l’essenza del ragionamento. Questo sta alla base del deduttivismo, la concezione secondo cui le due uniche fonti della conoscenza sono l’intuizione e la deduzione. Riducendo il ragionamento al solo ragionamento deduttivo, il deduttivismo può riassumersi nel motto: il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso. Questa concezione del ragionamento è stata molto influente nell’età moderna e contemporanea, da Descartes a Popper. Per esempio, Popper afferma che «le teorie sono essenzialmente sistemi argomentativi di asserzioni: la loro caratteristica principale è che esse spiegano deduttivamente»5. I punti di partenza delle deduzioni nelle teorie sono il prodotto di «‘un’intuizione creativa’, nel senso di Bergson»6. Quanto «all’induzione (o alla logica induttiva, o al comportamento induttivo, o all’apprendimento per induzione o per ripetizione o per ‘istruzione’)», in realtà «non esiste nulla del genere»7. Non solo l’inferenza induttiva è «induttivamente ‘scorretta’ (per usare una parola diversa da ‘non valida’)», ma «non esiste alcuna regola di inferenza induttiva mai proposta – inferenza che porti a teorie o leggi universali – che possa essere presa sul serio neppure per un minuto»8. Popper chiama «deduttivismo conseguente» la sua posizione, perché in base a essa «non esiste alcuna induzione di alcun genere»9. In effetti la sua posizione è una versione molto chiara e netta del deduttivismo. 2. Prime difficoltà del deduttivismo Nonostante la sua influenza, il deduttivismo va incontro a difficoltà che lo rendono insostenibile. Innanzitutto, le conclusioni raggiunte dagli scienziati, cioè le ipoIbid. Popper 1974b, p. 61. 6 Popper 1959, p. 32. 7 Popper 1974b, p. 116. 8 Ivi, p. 117. 9 Popper 1994a, p. 425. 4 5
tesi che essi formulano, in generale non sono completamente garantite dalle loro premesse, ossia dai dati esistenti. Vi sono due modi per affrontare questa situazione, che sono alternativi tra loro. Il primo modo consiste nel riconoscere che il ragionamento mediante il quale gli scienziati formulano le ipotesi per risolvere i problemi è di tipo non deduttivo. Questo modo, però, non è disponibile per i deduttivisti perché contraddirebbe il loro motto che il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso. Inoltre, secondo i deduttivisti, così si scivolerebbe nello psicologismo e nel relativismo. Il secondo modo consiste nell’affermare che il ragionamento usato dagli scienziati è di tipo entimematico, cioè lascia implicite alcune premesse, che vengono assunte tacitamente. Questo è l’unico modo disponibile per i deduttivisti, e in effetti è il modo che essi hanno adottato a partire dagli Stoici. Nondimeno si tratta di un modo assolutamente problematico perché, come prontamente osservarono gli Epicurei, trascura che le premesse lasciate implicite potrebbero ottenersi solo mediante inferenze non deduttive10. 3. La matematica dell’Ottocento e il deduttivismo Persino la geometria, tradizionalmente considerata come il paradigma del ragionamento, per molta parte della sua storia non ha soddisfatto i requisiti del deduttivismo. Dall’antichità fino alla fine dell’Ottocento le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori non sono state procedure deduttive. Addirittura Russell afferma che «nel diciannovesimo secolo probabilmente non esisteva un singolo pezzo di ragionamento matematico» che «deducesse correttamente il suo risultato dalle premesse esplicite formulate»11. Questo ha la paradossale conseguenza che, a rigore, secondo il deduttivismo, tutta la geometria e in generale tutta la matematica, dalle origini fino alla fine dell’Ottocento, non era propriamente matematica. Sorge allora la domanda: ma, se non era propriamente matematica, che cos’era? E in virtù di quale misteriosa armonia presta10 11
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Cfr. Cellucci 2002, cap. 29. Russell 1979, p. 457.
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bilita qualcosa che non era propriamente matematica ha potuto poi essere riformulato deduttivamente diventando matematica? 4. Euclide e il deduttivismo Che le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento non siano state procedure deduttive contraddice l’opinione diffusa che gli Elementi di Euclide siano il paradigma di sistema deduttivo. Per esempio, Pólya afferma che «la geometria, quale presentata negli Elementi di Euclide, non è una mera collezione di fatti ma un sistema logico»12. In essa «ogni proposizione è disposta in modo da potersi basare sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti. Possiamo considerare la disposizione delle proposizioni come la principale acquisizione di Euclide, e il sistema logico» formato da esse «come il principale merito degli Elementi. Non solo la geometria di Euclide è un sistema logico, ma è il primo e il massimo esempio di un tale sistema»13. Ma, che nella geometria quale presentata negli Elementi di Euclide ogni proposizione sia disposta in modo da potersi basare sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti, appare insostenibile. Per vederlo basta considerare già la prima dimostrazione degli Elementi di Euclide, che stabilisce la proposizione: Per ogni segmento di retta AB, c’è un triangolo equilatero di lato AB.
La dimostrazione di Euclide procede nel modo seguente. Sia AB un segmento di retta dato. Con centro A e raggio AB tracciamo il 12 13
Pólya 1948, p. 189. Ivi, pp. 189-190.
cerchio BCD (Postulato 3: Per due punti qualsiasi distinti A e B esiste un cerchio con centro A e raggio AB). Con centro B e raggio BA tracciamo il cerchio ACE (Postulato 3: già citato). Dal punto C in cui i cerchi si incontrano, tracciamo le rette CA e CB (Postulato 1: Per due punti qualsiasi distinti A e B esiste un’unica retta passante per A e B). Poiché A è il centro del cerchio BCD, AC è eguale ad AB (Definizione 15: Un cerchio è una figura piana compresa da una linea tale che tutte le rette che cadono sulla linea da un punto tra quelli che giacciono internamente alla figura sono eguali tra loro). Poiché B è il centro del cerchio ACE, BC è eguale ad AB (Definizione 15: già citata). Poiché AC e BC sono eguali ad AB, essi sono eguali tra loro (Nozione comune 1: Cose che sono eguali a una stessa cosa sono eguali tra loro). Perciò ABC è un triangolo equilatero di lato AB (Definizione 20: Un triangolo equilatero è quello che ha i tre lati eguali). Questa dimostrazione non è deduttiva perché in essa si fa uso del fatto che i due cerchi BCD e ACE si incontrano in un punto C, un fatto che Euclide non dimostra ma dà per scontato in base alla figura. In realtà, invece, tale fatto non è dimostrabile basandosi sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti degli Elementi. Ciò mostra che già la prima dimostrazione degli Elementi di Euclide non è una procedura deduttiva. 5. Hilbert e il deduttivismo Secondo i sostenitori del deduttivismo, che le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento non siano state procedure deduttive non costituisce, però, un argomento conclusivo contro il deduttivismo. Alla fine dell’Ottocento, con le sue Grundlagen der Geometrie, Hilbert ha sviluppato un sistema di geometria alternativo a quello degli Elementi di Euclide, e le procedure dimostrative di Hilbert ivi sono, esse sì, procedure deduttive. Per esempio, Hartshorne afferma che le falle nelle dimostrazioni di Euclide pongono il compito «di fornire un nuovo insieme di assiomi da cui possiamo sviluppare la geometria secondo i moderni standard di rigore», e questo compito è stato realizzato da «un insieme di assiomi proposto da Hilbert»14. 14
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Hartshorne 2000, p. 2.
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bilita qualcosa che non era propriamente matematica ha potuto poi essere riformulato deduttivamente diventando matematica? 4. Euclide e il deduttivismo Che le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento non siano state procedure deduttive contraddice l’opinione diffusa che gli Elementi di Euclide siano il paradigma di sistema deduttivo. Per esempio, Pólya afferma che «la geometria, quale presentata negli Elementi di Euclide, non è una mera collezione di fatti ma un sistema logico»12. In essa «ogni proposizione è disposta in modo da potersi basare sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti. Possiamo considerare la disposizione delle proposizioni come la principale acquisizione di Euclide, e il sistema logico» formato da esse «come il principale merito degli Elementi. Non solo la geometria di Euclide è un sistema logico, ma è il primo e il massimo esempio di un tale sistema»13. Ma, che nella geometria quale presentata negli Elementi di Euclide ogni proposizione sia disposta in modo da potersi basare sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti, appare insostenibile. Per vederlo basta considerare già la prima dimostrazione degli Elementi di Euclide, che stabilisce la proposizione: Per ogni segmento di retta AB, c’è un triangolo equilatero di lato AB.
La dimostrazione di Euclide procede nel modo seguente. Sia AB un segmento di retta dato. Con centro A e raggio AB tracciamo il 12 13
Pólya 1948, p. 189. Ivi, pp. 189-190.
cerchio BCD (Postulato 3: Per due punti qualsiasi distinti A e B esiste un cerchio con centro A e raggio AB). Con centro B e raggio BA tracciamo il cerchio ACE (Postulato 3: già citato). Dal punto C in cui i cerchi si incontrano, tracciamo le rette CA e CB (Postulato 1: Per due punti qualsiasi distinti A e B esiste un’unica retta passante per A e B). Poiché A è il centro del cerchio BCD, AC è eguale ad AB (Definizione 15: Un cerchio è una figura piana compresa da una linea tale che tutte le rette che cadono sulla linea da un punto tra quelli che giacciono internamente alla figura sono eguali tra loro). Poiché B è il centro del cerchio ACE, BC è eguale ad AB (Definizione 15: già citata). Poiché AC e BC sono eguali ad AB, essi sono eguali tra loro (Nozione comune 1: Cose che sono eguali a una stessa cosa sono eguali tra loro). Perciò ABC è un triangolo equilatero di lato AB (Definizione 20: Un triangolo equilatero è quello che ha i tre lati eguali). Questa dimostrazione non è deduttiva perché in essa si fa uso del fatto che i due cerchi BCD e ACE si incontrano in un punto C, un fatto che Euclide non dimostra ma dà per scontato in base alla figura. In realtà, invece, tale fatto non è dimostrabile basandosi sugli assiomi, sulle definizioni e sulle proposizioni precedenti degli Elementi. Ciò mostra che già la prima dimostrazione degli Elementi di Euclide non è una procedura deduttiva. 5. Hilbert e il deduttivismo Secondo i sostenitori del deduttivismo, che le procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento non siano state procedure deduttive non costituisce, però, un argomento conclusivo contro il deduttivismo. Alla fine dell’Ottocento, con le sue Grundlagen der Geometrie, Hilbert ha sviluppato un sistema di geometria alternativo a quello degli Elementi di Euclide, e le procedure dimostrative di Hilbert ivi sono, esse sì, procedure deduttive. Per esempio, Hartshorne afferma che le falle nelle dimostrazioni di Euclide pongono il compito «di fornire un nuovo insieme di assiomi da cui possiamo sviluppare la geometria secondo i moderni standard di rigore», e questo compito è stato realizzato da «un insieme di assiomi proposto da Hilbert»14. 14
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Hartshorne 2000, p. 2.
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Ma, che le procedure dimostrative di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie siano procedure deduttive, appare insostenibile. Per vederlo basta considerare già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, che stabilisce la proposizione: Per due punti qualsiasi A e C, esiste sempre almeno un punto D sulla retta AC che giace tra A e C.
La dimostrazione di Hilbert procede nel modo seguente. C’è un punto E che non giace sulla retta AC (Assioma I.3: Ci sono almeno due punti su una retta. Ci sono almeno tre punti che non giacciono su una retta). Sulla retta AE c’è un punto F tale che E è un punto del segmento AF (Assioma II.2: Per due punti A e B c’è almeno un punto C sulla retta AB tale che B giace tra A e C). Sulla retta FC c’è un punto G tale che C è un punto del segmento FG (Assioma II.2: già citato). Il punto G non giace sul segmento FC (Assioma II.3: Di tre punti qualsiasi su una retta ce n’è al massimo uno che giace tra gli altri due). Perciò la retta EG deve intersecare il segmento AC in un punto D (Assioma II.4: Siano A, B, C tre punti che non giacciono su una retta, e sia a una retta del piano ABC non passante per alcuno dei punti A, B, C: allora, se la retta a passa per un punto del segmento AB, essa passa anche per un punto del segmento AC oppure per un punto del segmento BC). Questa dimostrazione non è deduttiva perché in essa si fa uso di vari fatti che Hilbert non dimostra ma dà per scontati in base alla figura. Per esempio, nel terzo passo della dimostrazione, per poter applicare l’Assioma II.2 concludendo che sulla retta FC c’è un punto G tale che C è un punto del segmento FG, è essenziale aver dimostrato che F C, altrimenti non si avrebbe alcuna retta FC. Ma Hilbert non lo dimostra, lo dà per scontato in base alla figura. Parimenti, nell’ultimo passo della dimostrazione, Hilbert fa uso dell’Assioma II.4 per concludere, dal fatto che A, F, C sono tre punti che 134
non giacciono su una retta, e EG è una retta del piano AFC non passante per alcuno dei punti A, F, C e passante per un punto del segmento AF, che EG passa per un punto del segmento AC. Ma l’Assioma II.4 non assicura questo, assicura soltanto che EG passa o per un punto del segmento AC oppure per un punto del segmento FC. Per concludere che EG passa per un punto del segmento AC, è essenziale aver dimostrato che EG non può passare per alcun punto del segmento FC. Ma Hilbert non lo dimostra, lo dà per scontato in base alla figura. Ciò mostra che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva. Perciò l’opinione dei deduttivisti che le falle degli Elementi di Euclide siano state tappate da Hilbert è ingiustificata. A maggior ragione è ingiustificato considerare le Grundlagen der Geometrie di Hilbert come il paradigma del deduttivismo, come fa Shapiro quando stabilisce l’identità: «Deduttivismo: le Grundlagen der Geometrie di Hilbert»15. Inoltre, che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non sia una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura, rende problematica l’affermazione di Hilbert che l’uso della figura «non è affatto necessario», semplicemente «facilita l’interpretazione ed è un mezzo fruttuoso di scoperta di nuove proposizioni», ma «può essere facilmente fuorviante. Un teorema è dimostrato solo quando la dimostrazione è completamente indipendente dalla figura»16. Infatti, se la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura, se ne deve allora concludere che per Hilbert essa non dimostra davvero il teorema? 6. Uso della figura e intuizione Che la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non sia una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura non significa che essa faccia appello all’intuizione. Questo contraddice un’opinione diffusa. Per esempio, Tragesser afferma che, nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geo15 16
Shapiro 2000, p. 148. Hilbert 2004, p. 75.
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Ma, che le procedure dimostrative di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie siano procedure deduttive, appare insostenibile. Per vederlo basta considerare già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, che stabilisce la proposizione: Per due punti qualsiasi A e C, esiste sempre almeno un punto D sulla retta AC che giace tra A e C.
La dimostrazione di Hilbert procede nel modo seguente. C’è un punto E che non giace sulla retta AC (Assioma I.3: Ci sono almeno due punti su una retta. Ci sono almeno tre punti che non giacciono su una retta). Sulla retta AE c’è un punto F tale che E è un punto del segmento AF (Assioma II.2: Per due punti A e B c’è almeno un punto C sulla retta AB tale che B giace tra A e C). Sulla retta FC c’è un punto G tale che C è un punto del segmento FG (Assioma II.2: già citato). Il punto G non giace sul segmento FC (Assioma II.3: Di tre punti qualsiasi su una retta ce n’è al massimo uno che giace tra gli altri due). Perciò la retta EG deve intersecare il segmento AC in un punto D (Assioma II.4: Siano A, B, C tre punti che non giacciono su una retta, e sia a una retta del piano ABC non passante per alcuno dei punti A, B, C: allora, se la retta a passa per un punto del segmento AB, essa passa anche per un punto del segmento AC oppure per un punto del segmento BC). Questa dimostrazione non è deduttiva perché in essa si fa uso di vari fatti che Hilbert non dimostra ma dà per scontati in base alla figura. Per esempio, nel terzo passo della dimostrazione, per poter applicare l’Assioma II.2 concludendo che sulla retta FC c’è un punto G tale che C è un punto del segmento FG, è essenziale aver dimostrato che F C, altrimenti non si avrebbe alcuna retta FC. Ma Hilbert non lo dimostra, lo dà per scontato in base alla figura. Parimenti, nell’ultimo passo della dimostrazione, Hilbert fa uso dell’Assioma II.4 per concludere, dal fatto che A, F, C sono tre punti che 134
non giacciono su una retta, e EG è una retta del piano AFC non passante per alcuno dei punti A, F, C e passante per un punto del segmento AF, che EG passa per un punto del segmento AC. Ma l’Assioma II.4 non assicura questo, assicura soltanto che EG passa o per un punto del segmento AC oppure per un punto del segmento FC. Per concludere che EG passa per un punto del segmento AC, è essenziale aver dimostrato che EG non può passare per alcun punto del segmento FC. Ma Hilbert non lo dimostra, lo dà per scontato in base alla figura. Ciò mostra che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva. Perciò l’opinione dei deduttivisti che le falle degli Elementi di Euclide siano state tappate da Hilbert è ingiustificata. A maggior ragione è ingiustificato considerare le Grundlagen der Geometrie di Hilbert come il paradigma del deduttivismo, come fa Shapiro quando stabilisce l’identità: «Deduttivismo: le Grundlagen der Geometrie di Hilbert»15. Inoltre, che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non sia una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura, rende problematica l’affermazione di Hilbert che l’uso della figura «non è affatto necessario», semplicemente «facilita l’interpretazione ed è un mezzo fruttuoso di scoperta di nuove proposizioni», ma «può essere facilmente fuorviante. Un teorema è dimostrato solo quando la dimostrazione è completamente indipendente dalla figura»16. Infatti, se la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura, se ne deve allora concludere che per Hilbert essa non dimostra davvero il teorema? 6. Uso della figura e intuizione Che la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non sia una procedura deduttiva perché si basa sull’uso della figura non significa che essa faccia appello all’intuizione. Questo contraddice un’opinione diffusa. Per esempio, Tragesser afferma che, nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geo15 16
Shapiro 2000, p. 148. Hilbert 2004, p. 75.
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metrie di Hilbert, la figura ci dà «la comprensione intuitiva del contenuto del teorema»17. È tale comprensione intuitiva «che porta all’idoneità della figura» a svolgere un ruolo nella dimostrazione del teorema, perciò essa «sta al posto della costruzione logica»18. Ma queste affermazioni sono ingiustificate. Il ruolo che la figura svolge nella prima dimostrazione, o in qualsiasi altra dimostrazione, delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, non ha nulla a che fare con l’intuizione. Infatti, come abbiamo visto, l’intuizione è stata tradizionalmente considerata come una fonte di conoscenza immediata, che perciò non richiede la mediazione dell’inferenza, mentre l’uso della figura si basa sull’inferenza. Che l’uso della figura si basi sull’inferenza si vede, ad esempio, dal fatto che, nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, per vedere che la figura permette di ottenere il risultato, occorre individuare in essa i dati rilevanti. Individuarli produce un’organizzazione dei dati che è il risultato di un’inferenza, e di un’inferenza ampliativa perché, portando alcuni dati in primo piano e lasciandone altri sullo sfondo, tale inferenza produce qualcosa di nuovo rispetto ai dati: appunto, una certa loro organizzazione. Più in generale, che l’uso della figura si basi sull’inferenza, si vede dal fatto che esso si fonda sulla visione, la quale non si riduce ai dati forniti dai recettori retinici. La visione richiede che, partendo dai dati, si faccia un’ipotesi sulla cosa che sta lì davanti a noi, e tale ipotesi è il risultato di un’inferenza, e specificamente di un’inferenza ampliativa, perché non è contenuta completamente nei dati forniti dai recettori retinici. Naturalmente l’inferenza non va intesa qui nel senso ristretto di inferenza proposizionale, cioè di passaggio da una o più proposizioni a un’altra proposizione, bensì nel senso generalizzato di passaggio da uno o più dati a un altro dato. Né va intesa nel senso ristretto di inferenza consapevole, bensì nel senso generalizzato di inferenza che può anche essere inconsapevole, perché nella visione i processi inferenziali si svolgono troppo velocemente, e a un livello troppo basso nella mente, per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Basandosi su un’inferenza, la visione è un’operazione logica. Logica, si intende, nel senso di una logica estesa, che non si limiti alle 17 18
Tragesser 1992b, p. 225. Tragesser 1992a, p. 177.
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inferenze proposizionali ma comprenda anche inferenze non proposizionali, e non si limiti alle inferenze consapevoli ma comprenda anche inferenze inconsapevoli. Poiché l’uso della figura si fonda sulla visione e la visione è un’operazione logica, è ingiustificato affermare, come fa Tragesser, che nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert la figura ci dà la comprensione intuitiva del contenuto del teorema e perciò sta al posto della costruzione logica. L’affermazione di Tragesser si basa su due assunzioni. La prima è che l’inferenza si identifichi con l’inferenza deduttiva proposizionale consapevole. In virtù di tale assunzione, poiché l’uso della figura si basa su un’inferenza che non è né deduttiva né proposizionale né consapevole, Tragesser ne conclude che l’uso della figura non può basarsi sulla logica. La seconda assunzione è che le due uniche fonti della conoscenza siano l’intuizione e la deduzione. In virtù di tale assunzione, avendo escluso che l’uso della figura possa basarsi sulla logica, Tragesser ne conclude che esso deve basarsi sull’intuizione, e perciò che la comprensione intuitiva sta al posto della costruzione logica. Ma di queste due assunzioni Tragesser non dà, né si può dare, alcuna giustificazione. 7. Dimostrazioni e dimostrazioni formali Dal fatto che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva si può concludere che, al pari delle procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento, anche le procedure dimostrative di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie non sono procedure deduttive. Si potrebbe obiettare che neppure questo è un argomento conclusivo contro il deduttivismo, perché si potrebbero sempre sostituire le dimostrazioni di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie con dimostrazioni puramente formali basate sulle regole del calcolo dei predicati, che non fanno uso di figure. È vero che, a differenza delle dimostrazioni di Hilbert, che constano di un numero ridotto di passi, tali dimostrazioni potrebbero anche constare di centinaia di passi e sarebbero virtualmente incomprensibili. Ma questo è un fatto pratico, che non esclude che in linea di principio si potrebbero 137
metrie di Hilbert, la figura ci dà «la comprensione intuitiva del contenuto del teorema»17. È tale comprensione intuitiva «che porta all’idoneità della figura» a svolgere un ruolo nella dimostrazione del teorema, perciò essa «sta al posto della costruzione logica»18. Ma queste affermazioni sono ingiustificate. Il ruolo che la figura svolge nella prima dimostrazione, o in qualsiasi altra dimostrazione, delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, non ha nulla a che fare con l’intuizione. Infatti, come abbiamo visto, l’intuizione è stata tradizionalmente considerata come una fonte di conoscenza immediata, che perciò non richiede la mediazione dell’inferenza, mentre l’uso della figura si basa sull’inferenza. Che l’uso della figura si basi sull’inferenza si vede, ad esempio, dal fatto che, nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert, per vedere che la figura permette di ottenere il risultato, occorre individuare in essa i dati rilevanti. Individuarli produce un’organizzazione dei dati che è il risultato di un’inferenza, e di un’inferenza ampliativa perché, portando alcuni dati in primo piano e lasciandone altri sullo sfondo, tale inferenza produce qualcosa di nuovo rispetto ai dati: appunto, una certa loro organizzazione. Più in generale, che l’uso della figura si basi sull’inferenza, si vede dal fatto che esso si fonda sulla visione, la quale non si riduce ai dati forniti dai recettori retinici. La visione richiede che, partendo dai dati, si faccia un’ipotesi sulla cosa che sta lì davanti a noi, e tale ipotesi è il risultato di un’inferenza, e specificamente di un’inferenza ampliativa, perché non è contenuta completamente nei dati forniti dai recettori retinici. Naturalmente l’inferenza non va intesa qui nel senso ristretto di inferenza proposizionale, cioè di passaggio da una o più proposizioni a un’altra proposizione, bensì nel senso generalizzato di passaggio da uno o più dati a un altro dato. Né va intesa nel senso ristretto di inferenza consapevole, bensì nel senso generalizzato di inferenza che può anche essere inconsapevole, perché nella visione i processi inferenziali si svolgono troppo velocemente, e a un livello troppo basso nella mente, per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Basandosi su un’inferenza, la visione è un’operazione logica. Logica, si intende, nel senso di una logica estesa, che non si limiti alle 17 18
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inferenze proposizionali ma comprenda anche inferenze non proposizionali, e non si limiti alle inferenze consapevoli ma comprenda anche inferenze inconsapevoli. Poiché l’uso della figura si fonda sulla visione e la visione è un’operazione logica, è ingiustificato affermare, come fa Tragesser, che nella prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert la figura ci dà la comprensione intuitiva del contenuto del teorema e perciò sta al posto della costruzione logica. L’affermazione di Tragesser si basa su due assunzioni. La prima è che l’inferenza si identifichi con l’inferenza deduttiva proposizionale consapevole. In virtù di tale assunzione, poiché l’uso della figura si basa su un’inferenza che non è né deduttiva né proposizionale né consapevole, Tragesser ne conclude che l’uso della figura non può basarsi sulla logica. La seconda assunzione è che le due uniche fonti della conoscenza siano l’intuizione e la deduzione. In virtù di tale assunzione, avendo escluso che l’uso della figura possa basarsi sulla logica, Tragesser ne conclude che esso deve basarsi sull’intuizione, e perciò che la comprensione intuitiva sta al posto della costruzione logica. Ma di queste due assunzioni Tragesser non dà, né si può dare, alcuna giustificazione. 7. Dimostrazioni e dimostrazioni formali Dal fatto che già la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert non è una procedura deduttiva si può concludere che, al pari delle procedure dimostrative di Euclide e dei suoi successori fino alla fine dell’Ottocento, anche le procedure dimostrative di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie non sono procedure deduttive. Si potrebbe obiettare che neppure questo è un argomento conclusivo contro il deduttivismo, perché si potrebbero sempre sostituire le dimostrazioni di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie con dimostrazioni puramente formali basate sulle regole del calcolo dei predicati, che non fanno uso di figure. È vero che, a differenza delle dimostrazioni di Hilbert, che constano di un numero ridotto di passi, tali dimostrazioni potrebbero anche constare di centinaia di passi e sarebbero virtualmente incomprensibili. Ma questo è un fatto pratico, che non esclude che in linea di principio si potrebbero 137
sempre sostituire le dimostrazioni di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie con dimostrazioni puramente formali. Per esempio, Mueller afferma che la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert potrebbe essere sostituita con «una successione finita di formule logiche, ciascuna delle quali o è un assioma oppure è una trasformazione sintattica di formule precedenti della successione secondo regole fissate»19. È vero che la dimostrazione formale risultante «richiederebbe più di cento formule del genere, e sarebbe virtualmente incomprensibile a meno che non venisse letta alla luce della dimostrazione di Hilbert. Tuttavia la possibilità di una tale rappresentazione ha un effetto sull’interpretazione filosofica della geometria di Hilbert»20. Essa implica che si può «meccanizzare la geometria elementare»21. Perciò, anche se «moltissimo ragionamento matematico può comportare l’intuizione o un qualche tipo di immaginazione», tale «intuizione è irrilevante per il contenuto della matematica, così come lo è per la correttezza del ragionamento»22. Ma questa obiezione trascura che sostituire la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert con una dimostrazione formale comporterebbe sostituire l’uso della figura con l’uso di certi assiomi23. Perciò la dimostrazione formale sarebbe essenzialmente diversa dalla, e perciò non potrebbe essere considerata una rappresentazione della, dimostrazione di Hilbert. In particolare, al pari di Tragesser, Mueller assume che una dimostrazione che si basa sull’uso della figura faccia appello all’intuizione. Ma, come abbiamo visto, tale assunzione è ingiustificata. Inoltre, Mueller assume che la verifica della correttezza di una dimostrazione formale non sia problematica in quanto è meccanizzabile. Ma anche questa assunzione è ingiustificata perché, attraverso la meccanizzazione, il problema della correttezza delle dimostrazioni formali non verrebbe risolto ma solo trasformato in quello della correttezza dei programmi per controllare la correttezza delle dimostrazioni formali. E, per il teorema di Rice, non esiste alcun algoritMueller 1981, p. 4. Ibid. 21 Ivi, p. 8. 22 Ivi, p. 10. 23 Cfr. Meikle-Fleuriot 2003. 19 20
mo che in generale permetta di controllare la correttezza dei programmi, cioè permetta di controllare se un programma calcola la funzione che esso implementa. 8. Deduttivismo e teoremi di incompletezza Ma il deduttivismo va incontro a difficoltà ancora più sostanziali a causa dei risultati di incompletezza. Una prima difficoltà è costituita dal teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine, che è un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel e della categoricità degli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine. Nel motto del deduttivismo che il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso, il ragionamento deduttivo si suppone inteso nel modo più generale possibile, dunque non ristretto al ragionamento deduttivo della logica del primo ordine ma esteso al ragionamento deduttivo di una logica di ordine qualsiasi. Difatti Hilbert sottolinea che già nel campo della matematica il ragionamento deduttivo richiede quantificazioni applicate «a specie superiori di variabili, e innanzitutto a quella delle funzioni di variabile reale»24. Questo vale a maggior ragione per il ragionamento deduttivo in campi diversi dalla matematica. Ma allora il deduttivismo è confutato conclusivamente dal teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine. In base a esso, non esiste alcun insieme di assiomi logici e regole di deduzione logiche che soddisfi certi requisiti minimi, il quale permetta di dimostrare tutti gli enunciati logicamente validi della logica del secondo ordine, intendendo per enunciati logicamente validi gli enunciati veri in tutti i modelli pieni. Questo significa che la deduzione non è abbastanza potente per dimostrare tutti gli enunciati logicamente validi della logica del secondo ordine. Un’altra difficoltà è costituita dai teoremi di incompletezza di Gödel, i quali implicano che il ragionamento deduttivo non può essere fondato. Non può esserlo né nel senso forte che non si può dimostrare che non porta ad alcuna falsità, né nel senso debole che non si può dimostrare che non porta ad alcuna contraddizione. 24
138
Hilbert 1929, p. 6.
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sempre sostituire le dimostrazioni di Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie con dimostrazioni puramente formali. Per esempio, Mueller afferma che la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert potrebbe essere sostituita con «una successione finita di formule logiche, ciascuna delle quali o è un assioma oppure è una trasformazione sintattica di formule precedenti della successione secondo regole fissate»19. È vero che la dimostrazione formale risultante «richiederebbe più di cento formule del genere, e sarebbe virtualmente incomprensibile a meno che non venisse letta alla luce della dimostrazione di Hilbert. Tuttavia la possibilità di una tale rappresentazione ha un effetto sull’interpretazione filosofica della geometria di Hilbert»20. Essa implica che si può «meccanizzare la geometria elementare»21. Perciò, anche se «moltissimo ragionamento matematico può comportare l’intuizione o un qualche tipo di immaginazione», tale «intuizione è irrilevante per il contenuto della matematica, così come lo è per la correttezza del ragionamento»22. Ma questa obiezione trascura che sostituire la prima dimostrazione delle Grundlagen der Geometrie di Hilbert con una dimostrazione formale comporterebbe sostituire l’uso della figura con l’uso di certi assiomi23. Perciò la dimostrazione formale sarebbe essenzialmente diversa dalla, e perciò non potrebbe essere considerata una rappresentazione della, dimostrazione di Hilbert. In particolare, al pari di Tragesser, Mueller assume che una dimostrazione che si basa sull’uso della figura faccia appello all’intuizione. Ma, come abbiamo visto, tale assunzione è ingiustificata. Inoltre, Mueller assume che la verifica della correttezza di una dimostrazione formale non sia problematica in quanto è meccanizzabile. Ma anche questa assunzione è ingiustificata perché, attraverso la meccanizzazione, il problema della correttezza delle dimostrazioni formali non verrebbe risolto ma solo trasformato in quello della correttezza dei programmi per controllare la correttezza delle dimostrazioni formali. E, per il teorema di Rice, non esiste alcun algoritMueller 1981, p. 4. Ibid. 21 Ivi, p. 8. 22 Ivi, p. 10. 23 Cfr. Meikle-Fleuriot 2003. 19 20
mo che in generale permetta di controllare la correttezza dei programmi, cioè permetta di controllare se un programma calcola la funzione che esso implementa. 8. Deduttivismo e teoremi di incompletezza Ma il deduttivismo va incontro a difficoltà ancora più sostanziali a causa dei risultati di incompletezza. Una prima difficoltà è costituita dal teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine, che è un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel e della categoricità degli assiomi dell’aritmetica di Peano del secondo ordine. Nel motto del deduttivismo che il ragionamento o è deduttivo oppure è difettoso, il ragionamento deduttivo si suppone inteso nel modo più generale possibile, dunque non ristretto al ragionamento deduttivo della logica del primo ordine ma esteso al ragionamento deduttivo di una logica di ordine qualsiasi. Difatti Hilbert sottolinea che già nel campo della matematica il ragionamento deduttivo richiede quantificazioni applicate «a specie superiori di variabili, e innanzitutto a quella delle funzioni di variabile reale»24. Questo vale a maggior ragione per il ragionamento deduttivo in campi diversi dalla matematica. Ma allora il deduttivismo è confutato conclusivamente dal teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine. In base a esso, non esiste alcun insieme di assiomi logici e regole di deduzione logiche che soddisfi certi requisiti minimi, il quale permetta di dimostrare tutti gli enunciati logicamente validi della logica del secondo ordine, intendendo per enunciati logicamente validi gli enunciati veri in tutti i modelli pieni. Questo significa che la deduzione non è abbastanza potente per dimostrare tutti gli enunciati logicamente validi della logica del secondo ordine. Un’altra difficoltà è costituita dai teoremi di incompletezza di Gödel, i quali implicano che il ragionamento deduttivo non può essere fondato. Non può esserlo né nel senso forte che non si può dimostrare che non porta ad alcuna falsità, né nel senso debole che non si può dimostrare che non porta ad alcuna contraddizione. 24
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Hilbert 1929, p. 6.
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Il ragionamento deduttivo non può essere fondato nel senso forte che non si può dimostrare che esso non porta ad alcuna falsità in virtù di un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel, il teorema dell’esistenza di estensioni false, in base al quale ogni teoria coerente sufficientemente potente ha un’estensione coerente in cui è dimostrabile un enunciato falso. Questo significa che non solo non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna falsità, ma anzi si può dimostrare che esso, anche quando è coerente, può portare a delle falsità. Il ragionamento deduttivo non può essere fondato neppure nel senso debole che non si può dimostrare che esso non porta ad alcuna contraddizione in virtù del secondo teorema di incompletezza di Gödel, in base al quale la coerenza di nessuna teoria sufficientemente potente è dimostrabile in quella teoria ma solo in una sua estensione propria. Di nuovo per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, la coerenza di tale estensione propria non è dimostrabile in quell’estensione propria ma solo in una sua estensione propria. E così via. Questo significa che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione, perché dimostrarlo comporterebbe un regresso all’infinito. Ma, dall’antichità ai nostri giorni, il regresso all’infinito è stato considerato inaccettabile dal deduttivismo. Per esempio Tarski, che del deduttivismo è un eminente rappresentante, afferma che «noi dimostriamo ogni proposizione in base ad altre proposizioni, dimostriamo queste altre proposizioni in base ad ancora altre proposizioni, e così via: se vogliamo evitare sia un circolo vizioso sia un regresso all’infinito, la procedura deve essere interrotta in qualche punto»25. Perciò dobbiamo partire da «un piccolo numero di proposizioni, dette assiomi o proposizioni primitive, che sembrano essere intuitivamente evidenti e sono riconosciute vere senza alcuna giustificazione ulteriore»26. Queste affermazioni di Tarski, oltre a confermare che il regresso all’infinito è considerato inaccettabile dal deduttivismo, mostrano che il rifiuto del regresso all’infinito è essenziale per esso, perché è proprio in virtù di tale rifiuto che il deduttivismo conclude che la di25 26
Tarski 1969, p. 70. Ibid.
mostrazione deve partire da un piccolo numero di proposizioni intuitivamente evidenti. Dal momento che, per il deduttivismo, le due uniche fonti della conoscenza sono l’intuizione e la deduzione, poiché la verità delle proposizioni primitive non può essere stabilita mediante la deduzione, essa può essere conosciuta solo mediante l’intuizione. Poiché il regresso all’infinito è inaccettabile per il deduttivismo, dal fatto che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione perché dimostrarlo comporterebbe un regresso all’infinito, si può concludere che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione. 9. Deduttivismo e irrazionalismo Anche prescindendo dalle difficoltà a cui va incontro, il deduttivismo ha il difetto di sboccare nell’irrazionalismo. Infatti fa appello a una fonte di conoscenza ineffabile, l’intuizione, che non è suscettibile di spiegazione razionale perché non può essere ricondotta a processi di cui si possa rendere conto in alcun modo. Kripke afferma: «Per conto mio io penso» che l’intuizione «sia una prova molto pesante a favore di qualcosa. Davvero non so, in un certo senso, quale prova più conclusiva si potrebbe avere riguardo a qualcosa, in ultima analisi»27. Ma vale esattamente il contrario. Essendo completamente soggettiva e arbitraria, l’intuizione non può essere usata come prova a favore di alcunché. Davvero non si sa quale prova meno conclusiva si potrebbe avere riguardo a qualcosa. Secondo il deduttivismo, l’intuizione permette di ottenere un tipo di conoscenza che non può essere raggiunta per alcuna altra via. Per esempio, Gödel afferma che, per gli «assiomi non esiste alcun altro fondamento» o possibilità di conoscenza tranne che «essi (o proposizioni che li implicano) possano essere direttamente percepiti come veri» mediante «un’intuizione degli oggetti che cadono sotto di essi»28. Ma così il deduttivismo assume che esista un tipo di conoscenza che non può essere raggiunta attraverso alcun processo razionale. 27 28
140
Kripke 1980, p. 42. Gödel 1986-2002, III, pp. 346-347.
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Il ragionamento deduttivo non può essere fondato nel senso forte che non si può dimostrare che esso non porta ad alcuna falsità in virtù di un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel, il teorema dell’esistenza di estensioni false, in base al quale ogni teoria coerente sufficientemente potente ha un’estensione coerente in cui è dimostrabile un enunciato falso. Questo significa che non solo non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna falsità, ma anzi si può dimostrare che esso, anche quando è coerente, può portare a delle falsità. Il ragionamento deduttivo non può essere fondato neppure nel senso debole che non si può dimostrare che esso non porta ad alcuna contraddizione in virtù del secondo teorema di incompletezza di Gödel, in base al quale la coerenza di nessuna teoria sufficientemente potente è dimostrabile in quella teoria ma solo in una sua estensione propria. Di nuovo per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, la coerenza di tale estensione propria non è dimostrabile in quell’estensione propria ma solo in una sua estensione propria. E così via. Questo significa che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione, perché dimostrarlo comporterebbe un regresso all’infinito. Ma, dall’antichità ai nostri giorni, il regresso all’infinito è stato considerato inaccettabile dal deduttivismo. Per esempio Tarski, che del deduttivismo è un eminente rappresentante, afferma che «noi dimostriamo ogni proposizione in base ad altre proposizioni, dimostriamo queste altre proposizioni in base ad ancora altre proposizioni, e così via: se vogliamo evitare sia un circolo vizioso sia un regresso all’infinito, la procedura deve essere interrotta in qualche punto»25. Perciò dobbiamo partire da «un piccolo numero di proposizioni, dette assiomi o proposizioni primitive, che sembrano essere intuitivamente evidenti e sono riconosciute vere senza alcuna giustificazione ulteriore»26. Queste affermazioni di Tarski, oltre a confermare che il regresso all’infinito è considerato inaccettabile dal deduttivismo, mostrano che il rifiuto del regresso all’infinito è essenziale per esso, perché è proprio in virtù di tale rifiuto che il deduttivismo conclude che la di25 26
Tarski 1969, p. 70. Ibid.
mostrazione deve partire da un piccolo numero di proposizioni intuitivamente evidenti. Dal momento che, per il deduttivismo, le due uniche fonti della conoscenza sono l’intuizione e la deduzione, poiché la verità delle proposizioni primitive non può essere stabilita mediante la deduzione, essa può essere conosciuta solo mediante l’intuizione. Poiché il regresso all’infinito è inaccettabile per il deduttivismo, dal fatto che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione perché dimostrarlo comporterebbe un regresso all’infinito, si può concludere che non si può dimostrare che il ragionamento deduttivo non porta ad alcuna contraddizione. 9. Deduttivismo e irrazionalismo Anche prescindendo dalle difficoltà a cui va incontro, il deduttivismo ha il difetto di sboccare nell’irrazionalismo. Infatti fa appello a una fonte di conoscenza ineffabile, l’intuizione, che non è suscettibile di spiegazione razionale perché non può essere ricondotta a processi di cui si possa rendere conto in alcun modo. Kripke afferma: «Per conto mio io penso» che l’intuizione «sia una prova molto pesante a favore di qualcosa. Davvero non so, in un certo senso, quale prova più conclusiva si potrebbe avere riguardo a qualcosa, in ultima analisi»27. Ma vale esattamente il contrario. Essendo completamente soggettiva e arbitraria, l’intuizione non può essere usata come prova a favore di alcunché. Davvero non si sa quale prova meno conclusiva si potrebbe avere riguardo a qualcosa. Secondo il deduttivismo, l’intuizione permette di ottenere un tipo di conoscenza che non può essere raggiunta per alcuna altra via. Per esempio, Gödel afferma che, per gli «assiomi non esiste alcun altro fondamento» o possibilità di conoscenza tranne che «essi (o proposizioni che li implicano) possano essere direttamente percepiti come veri» mediante «un’intuizione degli oggetti che cadono sotto di essi»28. Ma così il deduttivismo assume che esista un tipo di conoscenza che non può essere raggiunta attraverso alcun processo razionale. 27 28
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Kripke 1980, p. 42. Gödel 1986-2002, III, pp. 346-347.
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Questa assunzione è ingiustificata. Infatti, come si è già accennato, la conoscenza non si ottiene attraverso l’intuizione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive, e perciò mediante processi razionali, anzi processi logici, sia pure logici non nel senso di una logica ristretta, comprendente solo inferenze deduttive, bensì di una logica più ampia, comprendente anche inferenze non deduttive.
La chimera del rigore
1. Metodo filosofico e metodo matematico Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è il rigore. Almeno a partire dal Seicento il rigore è stato perseguito assumendo che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico. Questa assunzione è stata motivata dalla speranza che, usando il metodo della matematica, si possa rendere rigorosa la filosofia, permettendole di avere un successo simile a quello della matematica. Per esempio, Wolff afferma che «le regole del metodo filosofico sono le stesse di quelle del metodo matematico»1. Nella matematica «tutti i termini con cui sono designati gli oggetti di cui si dimostra qualcosa sono spiegati mediante concetti distinti e dettagliati; tutte le proposizioni sono dimostrate mediante inferenze ordinatamente dipendenti l’una dall’altra»2. Nello stesso modo «nel metodo filosofico non ci si deve servire che di termini spiegati con una definizione accurata, né si ammette come vero se non ciò che è sufficientemente dimostrato»3. Perciò il metodo filosofico deve essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, perché, «se le cose certe saranno dotate di accurate dimostrazioni, se inoltre saranno esposte definizioni esatte delle cose, se cioè avremo una filosofia apodittica», allora «vi sarà un maggior progresso nello scoprire nuove verità, sull’esempio dei geometri e degli astronomi»4. Wolff 1965-, II.1.1, p. 69. Ivi, I.9, pp. 61-62. 3 Ivi, II.1.1, p. 69. 4 Ivi, II.36, p. III. 1 2
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Questa assunzione è ingiustificata. Infatti, come si è già accennato, la conoscenza non si ottiene attraverso l’intuizione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive, e perciò mediante processi razionali, anzi processi logici, sia pure logici non nel senso di una logica ristretta, comprendente solo inferenze deduttive, bensì di una logica più ampia, comprendente anche inferenze non deduttive.
La chimera del rigore
1. Metodo filosofico e metodo matematico Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è il rigore. Almeno a partire dal Seicento il rigore è stato perseguito assumendo che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico. Questa assunzione è stata motivata dalla speranza che, usando il metodo della matematica, si possa rendere rigorosa la filosofia, permettendole di avere un successo simile a quello della matematica. Per esempio, Wolff afferma che «le regole del metodo filosofico sono le stesse di quelle del metodo matematico»1. Nella matematica «tutti i termini con cui sono designati gli oggetti di cui si dimostra qualcosa sono spiegati mediante concetti distinti e dettagliati; tutte le proposizioni sono dimostrate mediante inferenze ordinatamente dipendenti l’una dall’altra»2. Nello stesso modo «nel metodo filosofico non ci si deve servire che di termini spiegati con una definizione accurata, né si ammette come vero se non ciò che è sufficientemente dimostrato»3. Perciò il metodo filosofico deve essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, perché, «se le cose certe saranno dotate di accurate dimostrazioni, se inoltre saranno esposte definizioni esatte delle cose, se cioè avremo una filosofia apodittica», allora «vi sarà un maggior progresso nello scoprire nuove verità, sull’esempio dei geometri e degli astronomi»4. Wolff 1965-, II.1.1, p. 69. Ivi, I.9, pp. 61-62. 3 Ivi, II.1.1, p. 69. 4 Ivi, II.36, p. III. 1 2
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L’assunzione che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, viene fatta propria dalla filosofia analitica, secondo la quale il metodo della filosofia è l’analisi delle proposizioni. Attraverso tale analisi il significato dei concetti viene spiegato mediante definizioni, e la verità delle proposizioni viene stabilita mediante dimostrazioni. Per esempio, Ramsey afferma che «nella filosofia noi prendiamo le proposizioni che formuliamo nella scienza e nella vita quotidiana, e cerchiamo di presentarle in un sistema logico con termini primitivi e definizioni ecc.»5. Infatti, «noi siamo spinti a filosofare perché non sappiamo chiaramente che cosa intendiamo; la questione è sempre ‘Che cosa intendo per x?’ E solo molto occasionalmente possiamo deciderlo senza riflettere sul significato»6. Possiamo farlo solo nel caso di questioni molto semplici, ma, «per decidere questioni più complicate di questo tipo, ovviamente abbiamo bisogno di una struttura logica, di un sistema di logica», e specificamente di un sistema assiomatico, «in cui riportarle»7. La ragione per cui, secondo la filosofia analitica, il metodo della filosofia deve essere lo stesso di quello della matematica, è che per essa la filosofia è un’attività simile alla matematica in quanto è libera dalle costrizioni dell’esperienza, si basa solo sul pensiero concettuale, e perciò si sviluppa in base al puro raziocinio. Questo lascia sperare che, adottando il metodo della matematica come metodo della filosofia, quest’ultima possa avere un successo simile a quello della matematica. Per esempio, Dummett afferma che la filosofia è un’attività che «non ha bisogno di input dall’esperienza: è esclusivamente il prodotto del pensiero»8. Essa «condivide con la matematica la peculiarità di non fare appello ad alcuna nuova fonte di informazione, ma di basarsi soltanto su un tipo di ragionamento che è fondato su ciò che già sappiamo»9. Al pari della matematica, la filosofia ha una base che «non è empirica, bensì razionalista»10. L’esempio «della maRamsey 1990, p. 1. Ivi, p. 6. 7 Ivi, p. 5. 8 Dummett 2001, p. 10. 9 Ivi, pp. 15-16. 10 Ivi, p. 9. 5 6
tematica conforta la filosofia» perché «mostra che anche il pensiero privo di un input specifico dall’esperienza può far progredire la conoscenza in direzioni inaspettate»11. Si è realizzata la speranza della filosofia analitica che, adottando il metodo della matematica come metodo della filosofia, quest’ultima possa avere un successo simile a quello della matematica? La risposta è negativa. Lo stesso Dummett lo riconosce, ma afferma che questo si deve al fatto che «la filosofia analitica ha attraversato, in tempi relativamente recenti, una fase distruttiva», nella quale «la demolizione è sembrata quasi essere il principale scopo legittimo della filosofia», e «l’opera di demolizione è stata condotta così a fondo che quella di ricostruzione è necessariamente lenta»12. Questa spiegazione, però, appare semplicistica, perché sarebbe difficile affermare che, nel periodo anteriore alla sua presunta fase distruttiva, la filosofia analitica abbia avuto un successo simile a quello della matematica. 2. Un’immagine distorta della matematica In realtà, nel prendere a modello la matematica, la filosofia analitica ne dà un’immagine distorta. A differenza di quanto ritiene la filosofia analitica, la matematica non è un’attività che è libera dalle costrizioni dell’esperienza, si basa solo sul pensiero concettuale e perciò si sviluppa in base al puro raziocinio. Al contrario, essa richiede continui input dall’esperienza, perché i problemi di cui si occupa sono suggeriti dall’esperienza, la loro soluzione richiede interazioni con l’esperienza, e essa è volta a interpretare e a controllare l’esperienza. Inoltre, il metodo della matematica non è, come ritiene la filosofia analitica, il metodo assiomatico bensì il metodo analitico. Infatti, il matematico non parte da definizioni e assiomi arbitrari e deduce da essi conseguenze logiche, ma parte da problemi suggeriti dall’esperienza e cerca di risolverli formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Credere che il matematico parta da definizioni e assiomi arbitrari e deduca da essi conseguenze logiche, ha portato la 11 12
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Ivi, pp. 10-11. Dummett 1991, p. 1.
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L’assunzione che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, viene fatta propria dalla filosofia analitica, secondo la quale il metodo della filosofia è l’analisi delle proposizioni. Attraverso tale analisi il significato dei concetti viene spiegato mediante definizioni, e la verità delle proposizioni viene stabilita mediante dimostrazioni. Per esempio, Ramsey afferma che «nella filosofia noi prendiamo le proposizioni che formuliamo nella scienza e nella vita quotidiana, e cerchiamo di presentarle in un sistema logico con termini primitivi e definizioni ecc.»5. Infatti, «noi siamo spinti a filosofare perché non sappiamo chiaramente che cosa intendiamo; la questione è sempre ‘Che cosa intendo per x?’ E solo molto occasionalmente possiamo deciderlo senza riflettere sul significato»6. Possiamo farlo solo nel caso di questioni molto semplici, ma, «per decidere questioni più complicate di questo tipo, ovviamente abbiamo bisogno di una struttura logica, di un sistema di logica», e specificamente di un sistema assiomatico, «in cui riportarle»7. La ragione per cui, secondo la filosofia analitica, il metodo della filosofia deve essere lo stesso di quello della matematica, è che per essa la filosofia è un’attività simile alla matematica in quanto è libera dalle costrizioni dell’esperienza, si basa solo sul pensiero concettuale, e perciò si sviluppa in base al puro raziocinio. Questo lascia sperare che, adottando il metodo della matematica come metodo della filosofia, quest’ultima possa avere un successo simile a quello della matematica. Per esempio, Dummett afferma che la filosofia è un’attività che «non ha bisogno di input dall’esperienza: è esclusivamente il prodotto del pensiero»8. Essa «condivide con la matematica la peculiarità di non fare appello ad alcuna nuova fonte di informazione, ma di basarsi soltanto su un tipo di ragionamento che è fondato su ciò che già sappiamo»9. Al pari della matematica, la filosofia ha una base che «non è empirica, bensì razionalista»10. L’esempio «della maRamsey 1990, p. 1. Ivi, p. 6. 7 Ivi, p. 5. 8 Dummett 2001, p. 10. 9 Ivi, pp. 15-16. 10 Ivi, p. 9. 5 6
tematica conforta la filosofia» perché «mostra che anche il pensiero privo di un input specifico dall’esperienza può far progredire la conoscenza in direzioni inaspettate»11. Si è realizzata la speranza della filosofia analitica che, adottando il metodo della matematica come metodo della filosofia, quest’ultima possa avere un successo simile a quello della matematica? La risposta è negativa. Lo stesso Dummett lo riconosce, ma afferma che questo si deve al fatto che «la filosofia analitica ha attraversato, in tempi relativamente recenti, una fase distruttiva», nella quale «la demolizione è sembrata quasi essere il principale scopo legittimo della filosofia», e «l’opera di demolizione è stata condotta così a fondo che quella di ricostruzione è necessariamente lenta»12. Questa spiegazione, però, appare semplicistica, perché sarebbe difficile affermare che, nel periodo anteriore alla sua presunta fase distruttiva, la filosofia analitica abbia avuto un successo simile a quello della matematica. 2. Un’immagine distorta della matematica In realtà, nel prendere a modello la matematica, la filosofia analitica ne dà un’immagine distorta. A differenza di quanto ritiene la filosofia analitica, la matematica non è un’attività che è libera dalle costrizioni dell’esperienza, si basa solo sul pensiero concettuale e perciò si sviluppa in base al puro raziocinio. Al contrario, essa richiede continui input dall’esperienza, perché i problemi di cui si occupa sono suggeriti dall’esperienza, la loro soluzione richiede interazioni con l’esperienza, e essa è volta a interpretare e a controllare l’esperienza. Inoltre, il metodo della matematica non è, come ritiene la filosofia analitica, il metodo assiomatico bensì il metodo analitico. Infatti, il matematico non parte da definizioni e assiomi arbitrari e deduce da essi conseguenze logiche, ma parte da problemi suggeriti dall’esperienza e cerca di risolverli formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Credere che il matematico parta da definizioni e assiomi arbitrari e deduca da essi conseguenze logiche, ha portato la 11 12
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Ivi, pp. 10-11. Dummett 1991, p. 1.
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filosofia analitica a banalizzare la matematica, considerandola come consistente di proposizioni analitiche. Per esempio, Ayer afferma che «le proposizioni della matematica sono proposizioni analitiche» perché «il criterio di una proposizione analitica è che la sua validità deve seguire semplicemente dalle definizioni dei termini contenuti in essa, e questa condizione è soddisfatta dalle proposizioni della matematica pura»13. L’apparente informatività delle proposizioni della matematica, così «come la loro utilità, dipende dai limiti della nostra ragione»14. Un essere «il cui intelletto fosse infinitamente potente non proverebbe alcun interesse» per la matematica, perché «sarebbe capace di vedere con un solo sguardo tutto ciò che è implicato dalle sue definizioni, e, di conseguenza, non potrebbe mai apprendere dall’inferenza logica nulla di cui non fosse già pienamente consapevole. Ma i nostri intelletti non sono di quest’ordine. Noi siamo capaci di percepire con un solo sguardo solo una minuscola proporzione delle conseguenze delle nostre definizioni»15. Perciò, quanto più una proposizione matematica «è complessa, tante più probabilità ha di interessarci e di sorprenderci»16. Come abbiamo già visto in relazione al programma di Frege, però, per il primo teorema di incompletezza di Gödel l’affermazione che le proposizioni della matematica sono proposizioni analitiche è infondata. 3. Il ruolo delle definizioni nella matematica Che la filosofia analitica proponga un’immagine distorta della matematica appare chiaro, in particolare, dal modo in cui essa concepisce le definizioni. Secondo la filosofia analitica, sebbene il metodo della filosofia sia il metodo della matematica inteso come consistente nel metodo assiomatico, tra la filosofia e la matematica vi è una differenza riguardo alle definizioni. Mentre nella filosofia le definizioni sono il risultato di un’analisi di concetti già posseduti, sebbene confusi, per cui Ayer 1990, p. 77. Ivi, p. 82. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 83.
le definizioni sono un punto di arrivo dell’indagine, nella matematica non si possiede alcun concetto prima della definizione ma è attraverso essa che il concetto è dato per la prima volta, per cui le definizioni sono un punto di partenza. Per esempio, Dummett afferma che, nel dare le sue definizioni, il filosofo «fa leva sulla nostra preesistente comprensione implicita dei concetti», perché «l’unica risorsa del filosofo è l’analisi di quei concetti che già sono in nostro possesso ma che capiamo confusamente: egli cerca di dissipare la confusione»17. Essendo il risultato dell’analisi di concetti, le definizioni sono un punto di arrivo. I matematici, invece, formano i loro concetti per la prima volta attraverso le definizioni. Una volta «fatto questo, la loro argomentazione procede entro i confini tracciati dalle definizioni adottate»18. Perciò le definizioni sono un punto di partenza. È vero che «a volte anche i matematici devono applicarsi all’analisi concettuale, cioè alla ricerca di definizioni di concetti come, per esempio, quelli di equivalenza numerica, di continuità, di dimensione», ma i loro scopi «differiscono da quelli dei filosofi»19. Infatti, «ai matematici non interessa che le definizioni escogitate colgano i concetti così come vengono implicitamente intesi nella vita di ogni giorno: a loro interessa la formulazione di concetti precisi sotto cui si possa ragionevolmente sostenere che determinatamente ricade o non ricade qualsiasi caso. Fatto questo, la loro argomentazione procede entro i confini tracciati dalle definizioni adottate»20. Ma questo modo di concepire le definizioni è contrario alla realtà. Infatti, è ingiustificato dire che nella matematica non si possiede alcun concetto prima della definizione ma è attraverso essa che il concetto è dato per la prima volta. Se così fosse, non si spiegherebbe perché i matematici spesso cerchino nuove definizioni di concetti di cui è già stata data una definizione. Questo avviene perché, al pari del filosofo, nel dare le sue definizioni, il matematico fa leva sulla sua preesistente comprensione implicita dei concetti, e arrivare a una loro formulazione adeguata richiede tentativi e aggiustamenti successivi. Dummett 2001, p. 16. Ibid. 19 Ibid. 20 Ibid.
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filosofia analitica a banalizzare la matematica, considerandola come consistente di proposizioni analitiche. Per esempio, Ayer afferma che «le proposizioni della matematica sono proposizioni analitiche» perché «il criterio di una proposizione analitica è che la sua validità deve seguire semplicemente dalle definizioni dei termini contenuti in essa, e questa condizione è soddisfatta dalle proposizioni della matematica pura»13. L’apparente informatività delle proposizioni della matematica, così «come la loro utilità, dipende dai limiti della nostra ragione»14. Un essere «il cui intelletto fosse infinitamente potente non proverebbe alcun interesse» per la matematica, perché «sarebbe capace di vedere con un solo sguardo tutto ciò che è implicato dalle sue definizioni, e, di conseguenza, non potrebbe mai apprendere dall’inferenza logica nulla di cui non fosse già pienamente consapevole. Ma i nostri intelletti non sono di quest’ordine. Noi siamo capaci di percepire con un solo sguardo solo una minuscola proporzione delle conseguenze delle nostre definizioni»15. Perciò, quanto più una proposizione matematica «è complessa, tante più probabilità ha di interessarci e di sorprenderci»16. Come abbiamo già visto in relazione al programma di Frege, però, per il primo teorema di incompletezza di Gödel l’affermazione che le proposizioni della matematica sono proposizioni analitiche è infondata. 3. Il ruolo delle definizioni nella matematica Che la filosofia analitica proponga un’immagine distorta della matematica appare chiaro, in particolare, dal modo in cui essa concepisce le definizioni. Secondo la filosofia analitica, sebbene il metodo della filosofia sia il metodo della matematica inteso come consistente nel metodo assiomatico, tra la filosofia e la matematica vi è una differenza riguardo alle definizioni. Mentre nella filosofia le definizioni sono il risultato di un’analisi di concetti già posseduti, sebbene confusi, per cui Ayer 1990, p. 77. Ivi, p. 82. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 83.
le definizioni sono un punto di arrivo dell’indagine, nella matematica non si possiede alcun concetto prima della definizione ma è attraverso essa che il concetto è dato per la prima volta, per cui le definizioni sono un punto di partenza. Per esempio, Dummett afferma che, nel dare le sue definizioni, il filosofo «fa leva sulla nostra preesistente comprensione implicita dei concetti», perché «l’unica risorsa del filosofo è l’analisi di quei concetti che già sono in nostro possesso ma che capiamo confusamente: egli cerca di dissipare la confusione»17. Essendo il risultato dell’analisi di concetti, le definizioni sono un punto di arrivo. I matematici, invece, formano i loro concetti per la prima volta attraverso le definizioni. Una volta «fatto questo, la loro argomentazione procede entro i confini tracciati dalle definizioni adottate»18. Perciò le definizioni sono un punto di partenza. È vero che «a volte anche i matematici devono applicarsi all’analisi concettuale, cioè alla ricerca di definizioni di concetti come, per esempio, quelli di equivalenza numerica, di continuità, di dimensione», ma i loro scopi «differiscono da quelli dei filosofi»19. Infatti, «ai matematici non interessa che le definizioni escogitate colgano i concetti così come vengono implicitamente intesi nella vita di ogni giorno: a loro interessa la formulazione di concetti precisi sotto cui si possa ragionevolmente sostenere che determinatamente ricade o non ricade qualsiasi caso. Fatto questo, la loro argomentazione procede entro i confini tracciati dalle definizioni adottate»20. Ma questo modo di concepire le definizioni è contrario alla realtà. Infatti, è ingiustificato dire che nella matematica non si possiede alcun concetto prima della definizione ma è attraverso essa che il concetto è dato per la prima volta. Se così fosse, non si spiegherebbe perché i matematici spesso cerchino nuove definizioni di concetti di cui è già stata data una definizione. Questo avviene perché, al pari del filosofo, nel dare le sue definizioni, il matematico fa leva sulla sua preesistente comprensione implicita dei concetti, e arrivare a una loro formulazione adeguata richiede tentativi e aggiustamenti successivi. Dummett 2001, p. 16. Ibid. 19 Ibid. 20 Ibid.
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Ciò vale non solo per le definizioni esplicite ma anche per le definizioni implicite, date da assiomi, come la definizione del concetto di gruppo21. I matematici spesso formulano sistemi di assiomi essenzialmente differenti per uno stesso concetto. Questo si spiega solo ammettendo l’esistenza di una comprensione preassiomatica di tale concetto, derivante dalla familiarità con alcuni suoi esempi particolari, che guida nella formulazione di sistemi di assiomi essenzialmente differenti. Il concetto non è definito implicitamente in modo esclusivo da alcuno specifico sistema di assiomi. Al pari di tutti gli altri concetti matematici esso ammette una serie aperta di presentazioni attraverso nuove ipotesi, ciascuna delle quali fornisce una nuova prospettiva su di esso, che ne mette in luce nuovi aspetti. Come i filosofi, anche i matematici non formano i loro concetti per la prima volta mediante le definizioni. Per loro le definizioni non sono un punto di partenza, che è costituito da problemi suggeriti dall’esperienza, bensì sono un punto di arrivo. Le definizioni coronano l’opera, non danno inizio a essa. Questo dipende dal fatto che esse sono uno dei possibili tipi di ipotesi per risolvere i problemi. Ogni definizione è formulata in vista della soluzione di un problema, né vi sarebbe ragione di formularla altrimenti. In quanto è formulata in vista della soluzione di un problema, una definizione dipende dal problema. Il problema guida la risposta, perciò la definizione è legata al problema da cui trae origine. Essendo ipotesi per la soluzione di problemi, come tutte le altre ipotesi le definizioni non sono un punto di partenza bensì un punto di arrivo dell’attività matematica. 4. Metodo assiomatico e soluzione di problemi Alla base dell’assunzione della filosofia analitica che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, vi è l’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, al contrario di quanto accade con i problemi filosofici, ai quali finora sono state date risposte che «non soddisfano nessuno tranne i loro autori»22. C’è allora da sperare che, ap21 22
Cfr. Cellucci 2002, p. 37. Dummett 1991, p. 19.
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plicato alla filosofia, il metodo della matematica possa avere un successo simile. L’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, è condivisa anche da molti matematici. Per esempio, Hilbert afferma che «in matematica non esiste alcun ignorabimus»23. Ogni «problema matematico determinato deve essere necessariamente suscettibile di una esatta sistemazione, o riuscendo a dare una risposta alla questione posta, oppure mostrando l’impossibilità di una sua soluzione»24. Questo è possibile grazie al metodo assiomatico. Infatti, «per quanto inaccessibili» ci sembrino i problemi matematici e «per quanto siamo talora del tutto privi di prospettive di fronte a essi, noi abbiamo comunque la sicura convinzione che la loro soluzione deve riuscire mediante un numero finito di inferenze puramente logiche»25. Al contrario, molte affermazioni dei filosofi sono contestabili o addirittura insensate, come quella di Heidegger secondo cui «il Niente è la negazione della totalità dell’ente»26. Tale affermazione «è istruttiva perché, nonostante la sua brevità, essa esemplifica tutte le principali infrazioni» che si possono commettere contro «i principi stabiliti dalla mia teoria della dimostrazione»27. Infatti, «concetti come ‘la totalità dell’ente’», ossia la totalità di ciò che è, «contengono in sé una contraddizione, e già da soli pregiudicano il senso di ogni asserzione»28. Inoltre, «al concetto problematico di totalità dell’ente» Heidegger applica «la negazione», trascurando che «in generale l’enunciato ottenuto mediante la negazione è un enunciato ideale, e voler prendere anche questo enunciato ideale in sé come reale significherebbe disconoscere la natura e l’essenza del pensiero»29. Ma l’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, è insostenibile. Infatti, Hilbert 1970, III, p. 298. Ivi, p. 297. 25 Ibid. 26 Heidegger 1975-, IX, pp. 107-108. 27 Hilbert 1931a, p. 493. 28 Ibid. 29 Ivi, pp. 493-494. 23 24
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Ciò vale non solo per le definizioni esplicite ma anche per le definizioni implicite, date da assiomi, come la definizione del concetto di gruppo21. I matematici spesso formulano sistemi di assiomi essenzialmente differenti per uno stesso concetto. Questo si spiega solo ammettendo l’esistenza di una comprensione preassiomatica di tale concetto, derivante dalla familiarità con alcuni suoi esempi particolari, che guida nella formulazione di sistemi di assiomi essenzialmente differenti. Il concetto non è definito implicitamente in modo esclusivo da alcuno specifico sistema di assiomi. Al pari di tutti gli altri concetti matematici esso ammette una serie aperta di presentazioni attraverso nuove ipotesi, ciascuna delle quali fornisce una nuova prospettiva su di esso, che ne mette in luce nuovi aspetti. Come i filosofi, anche i matematici non formano i loro concetti per la prima volta mediante le definizioni. Per loro le definizioni non sono un punto di partenza, che è costituito da problemi suggeriti dall’esperienza, bensì sono un punto di arrivo. Le definizioni coronano l’opera, non danno inizio a essa. Questo dipende dal fatto che esse sono uno dei possibili tipi di ipotesi per risolvere i problemi. Ogni definizione è formulata in vista della soluzione di un problema, né vi sarebbe ragione di formularla altrimenti. In quanto è formulata in vista della soluzione di un problema, una definizione dipende dal problema. Il problema guida la risposta, perciò la definizione è legata al problema da cui trae origine. Essendo ipotesi per la soluzione di problemi, come tutte le altre ipotesi le definizioni non sono un punto di partenza bensì un punto di arrivo dell’attività matematica. 4. Metodo assiomatico e soluzione di problemi Alla base dell’assunzione della filosofia analitica che il metodo della filosofia debba essere lo stesso di quello della matematica, vi è l’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, al contrario di quanto accade con i problemi filosofici, ai quali finora sono state date risposte che «non soddisfano nessuno tranne i loro autori»22. C’è allora da sperare che, ap21 22
Cfr. Cellucci 2002, p. 37. Dummett 1991, p. 19.
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plicato alla filosofia, il metodo della matematica possa avere un successo simile. L’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, è condivisa anche da molti matematici. Per esempio, Hilbert afferma che «in matematica non esiste alcun ignorabimus»23. Ogni «problema matematico determinato deve essere necessariamente suscettibile di una esatta sistemazione, o riuscendo a dare una risposta alla questione posta, oppure mostrando l’impossibilità di una sua soluzione»24. Questo è possibile grazie al metodo assiomatico. Infatti, «per quanto inaccessibili» ci sembrino i problemi matematici e «per quanto siamo talora del tutto privi di prospettive di fronte a essi, noi abbiamo comunque la sicura convinzione che la loro soluzione deve riuscire mediante un numero finito di inferenze puramente logiche»25. Al contrario, molte affermazioni dei filosofi sono contestabili o addirittura insensate, come quella di Heidegger secondo cui «il Niente è la negazione della totalità dell’ente»26. Tale affermazione «è istruttiva perché, nonostante la sua brevità, essa esemplifica tutte le principali infrazioni» che si possono commettere contro «i principi stabiliti dalla mia teoria della dimostrazione»27. Infatti, «concetti come ‘la totalità dell’ente’», ossia la totalità di ciò che è, «contengono in sé una contraddizione, e già da soli pregiudicano il senso di ogni asserzione»28. Inoltre, «al concetto problematico di totalità dell’ente» Heidegger applica «la negazione», trascurando che «in generale l’enunciato ottenuto mediante la negazione è un enunciato ideale, e voler prendere anche questo enunciato ideale in sé come reale significherebbe disconoscere la natura e l’essenza del pensiero»29. Ma l’idea che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, permetta di risolvere tutti i problemi matematici e di risolverli in modo definitivo, è insostenibile. Infatti, Hilbert 1970, III, p. 298. Ivi, p. 297. 25 Ibid. 26 Heidegger 1975-, IX, pp. 107-108. 27 Hilbert 1931a, p. 493. 28 Ibid. 29 Ivi, pp. 493-494. 23 24
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in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, per ogni teoria che soddisfi certi requisiti minimi, vi sono problemi della teoria non solubili mediante gli assiomi della teoria. Inoltre, anche nel caso dei problemi solubili mediante gli assiomi della teoria, la loro soluzione non può considerarsi definitiva perché, in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, non è possibile dare una giustificazione conclusiva degli assiomi. A maggior ragione è ingiustificato sperare che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, possa permettere di risolvere tutti i problemi filosofici e di risolverli in modo definitivo. Certo, è lecito pensare che la filosofia sia un’attività che ha alcuni punti di contatto con la matematica. Ma, contrariamente a quanto ritiene la filosofia analitica, essa non li ha perché la matematica sia un’attività che si basa solo sul pensiero concettuale, ma perché non lo è. Né li ha perché il metodo della matematica sia il metodo assiomatico, ma perché non lo è. Né li ha perché la matematica permetta di risolvere tutti i suoi problemi e di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico, ma perché non lo permette. La matematica non si basa solo sul pensiero concettuale, perché richiede continui input dall’esperienza. Il metodo della matematica non è il metodo assiomatico, perché ciò è confutato dal primo teorema di incompletezza di Gödel. La matematica non permette di risolvere tutti i suoi problemi né tanto meno di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico, perché ciò è confutato dal primo e dal secondo teorema di incompletezza di Gödel. A maggior ragione la filosofia non si basa solo sul pensiero concettuale, il suo metodo non è il metodo assiomatico, ed essa non permette di risolvere tutti i suoi problemi né tanto meno di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico.
strazione»30. La matematica ha bisogno di definizioni attraverso cui «il concetto deve essere delimitato rigorosamente»31. E ha bisogno di dimostrazioni «condotte in modo logicamente rigoroso in passi deduttivi senza lacune»32. Ma «il definire e l’inferire sono soggetti a leggi logiche»33. Perciò la matematica ha bisogno di rigore logico. Certo, quest’ultimo «ha come conseguenza ineluttabile l’allungamento delle dimostrazioni»34. Ma «nella matematica non ci si deve accontentare del fatto che qualcosa appare ovvio o che siamo convinti di qualcosa, ma si deve tendere a una visione chiara del tessuto di inferenze che fa da sostegno alla nostra convinzione», perché «solo così si può edificare un sistema»35. Ciò richiede di «scrivere tutti i passi intermedi per far cadere su di essi la piena luce della consapevolezza»36. In particolare, Frege ricerca il rigore logico nell’aritmetica. Egli presenta la sua ricerca come una naturale continuazione del lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor. Infatti afferma che, «sviluppandosi ulteriormente, questa via deve condurci alla fine al concetto di numero naturale, e alle proposizioni più semplici sui numeri interi positivi, che costituiscono il fondamento dell’intera aritmetica»37. Si devono definire con precisione il concetto di numero naturale e tutti gli altri concetti di numero, e si devono «dimostrare col massimo rigore, se è possibile, le proposizioni fondamentali dell’aritmetica», perché «solo se si è eliminata con la massima cura ogni lacuna dalla catena deduttiva, si può dire con sicurezza su quali verità primitive si fonda la dimostrazione»38. Ma, presentare la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica come una naturale continuazione del lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor, è fuorviante. Infatti, alla base del lavoro di rigorizzazione dell’analisi vi era l’esigenza di rimuovere difficoltà relative a questioni, come le serie di Fourier, la convergenza o l’esistenza di derivate e integrali, che Frege 1990, p. 223. Frege 1962, II, p. 69. 32 Ivi, p. 234. 33 Frege 1969, p. 219. 34 Frege 1990, p. 221. 35 Frege 1969, p. 221. 36 Frege 1962, I, p. VIII. 37 Frege 1961, p. 2. 38 Ivi, p. 4. 30
5. Rigore e logica
31
La filosofia analitica mutua la sua concezione del rigore matematico da Frege, secondo cui il rigore consiste nella precisione dei concetti e nella mancanza di lacune nelle dimostrazioni, dunque è rigore logico. Infatti, Frege dichiara che il suo «sforzo è rivolto» alla «massima precisione logica» dei concetti e «al rigore senza lacune della dimo150
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in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, per ogni teoria che soddisfi certi requisiti minimi, vi sono problemi della teoria non solubili mediante gli assiomi della teoria. Inoltre, anche nel caso dei problemi solubili mediante gli assiomi della teoria, la loro soluzione non può considerarsi definitiva perché, in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, non è possibile dare una giustificazione conclusiva degli assiomi. A maggior ragione è ingiustificato sperare che il metodo della matematica, inteso come consistente nel metodo assiomatico, possa permettere di risolvere tutti i problemi filosofici e di risolverli in modo definitivo. Certo, è lecito pensare che la filosofia sia un’attività che ha alcuni punti di contatto con la matematica. Ma, contrariamente a quanto ritiene la filosofia analitica, essa non li ha perché la matematica sia un’attività che si basa solo sul pensiero concettuale, ma perché non lo è. Né li ha perché il metodo della matematica sia il metodo assiomatico, ma perché non lo è. Né li ha perché la matematica permetta di risolvere tutti i suoi problemi e di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico, ma perché non lo permette. La matematica non si basa solo sul pensiero concettuale, perché richiede continui input dall’esperienza. Il metodo della matematica non è il metodo assiomatico, perché ciò è confutato dal primo teorema di incompletezza di Gödel. La matematica non permette di risolvere tutti i suoi problemi né tanto meno di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico, perché ciò è confutato dal primo e dal secondo teorema di incompletezza di Gödel. A maggior ragione la filosofia non si basa solo sul pensiero concettuale, il suo metodo non è il metodo assiomatico, ed essa non permette di risolvere tutti i suoi problemi né tanto meno di risolverli in modo definitivo mediante il metodo assiomatico.
strazione»30. La matematica ha bisogno di definizioni attraverso cui «il concetto deve essere delimitato rigorosamente»31. E ha bisogno di dimostrazioni «condotte in modo logicamente rigoroso in passi deduttivi senza lacune»32. Ma «il definire e l’inferire sono soggetti a leggi logiche»33. Perciò la matematica ha bisogno di rigore logico. Certo, quest’ultimo «ha come conseguenza ineluttabile l’allungamento delle dimostrazioni»34. Ma «nella matematica non ci si deve accontentare del fatto che qualcosa appare ovvio o che siamo convinti di qualcosa, ma si deve tendere a una visione chiara del tessuto di inferenze che fa da sostegno alla nostra convinzione», perché «solo così si può edificare un sistema»35. Ciò richiede di «scrivere tutti i passi intermedi per far cadere su di essi la piena luce della consapevolezza»36. In particolare, Frege ricerca il rigore logico nell’aritmetica. Egli presenta la sua ricerca come una naturale continuazione del lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor. Infatti afferma che, «sviluppandosi ulteriormente, questa via deve condurci alla fine al concetto di numero naturale, e alle proposizioni più semplici sui numeri interi positivi, che costituiscono il fondamento dell’intera aritmetica»37. Si devono definire con precisione il concetto di numero naturale e tutti gli altri concetti di numero, e si devono «dimostrare col massimo rigore, se è possibile, le proposizioni fondamentali dell’aritmetica», perché «solo se si è eliminata con la massima cura ogni lacuna dalla catena deduttiva, si può dire con sicurezza su quali verità primitive si fonda la dimostrazione»38. Ma, presentare la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica come una naturale continuazione del lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor, è fuorviante. Infatti, alla base del lavoro di rigorizzazione dell’analisi vi era l’esigenza di rimuovere difficoltà relative a questioni, come le serie di Fourier, la convergenza o l’esistenza di derivate e integrali, che Frege 1990, p. 223. Frege 1962, II, p. 69. 32 Ivi, p. 234. 33 Frege 1969, p. 219. 34 Frege 1990, p. 221. 35 Frege 1969, p. 221. 36 Frege 1962, I, p. VIII. 37 Frege 1961, p. 2. 38 Ivi, p. 4. 30
5. Rigore e logica
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La filosofia analitica mutua la sua concezione del rigore matematico da Frege, secondo cui il rigore consiste nella precisione dei concetti e nella mancanza di lacune nelle dimostrazioni, dunque è rigore logico. Infatti, Frege dichiara che il suo «sforzo è rivolto» alla «massima precisione logica» dei concetti e «al rigore senza lacune della dimo150
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ostacolavano lo sviluppo dell’attività matematica perché causavano incertezza circa il dominio di validità di teoremi o le condizioni di esistenza di limiti. Invece, alla base della ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica, vi era la volontà di rendere precisi i concetti e di eliminare le lacune dalle dimostrazioni non per risolvere problemi effettivamente sorti nell’attività matematica, ma solo in nome di un astratto ideale di igiene logica. Dunque, mentre il lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor rispondeva all’esigenza di rimuovere ostacoli all’attività matematica che ne frenavano lo sviluppo, la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica non era una risposta ad alcun serio problema incontrato nell’attività matematica. 6. Rigore e fecondità Il confronto tra la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica e il lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor, mostra che la questione del rigore va impostata diversamente da Frege e dalla filosofia analitica. La matematica, quando ha successo, non lo ha in virtù del rigore ma perché individua problemi significativi e formula ipotesi feconde per la loro soluzione. L’esigenza del rigore nasce solo in particolari momenti, quando si determinano situazioni che ostacolano il suo sviluppo e perciò richiedono un intervento. Questo appare chiaro dalle definizioni. I matematici spesso procedono abbastanza bene anche in mancanza di definizioni molto precise dei loro concetti, e le ricercano solo quando la loro mancanza diventa un intralcio per il loro lavoro. Invece, la definizione di Frege del concetto di numero rispondeva unicamente a un astratto ideale di igiene logica. Frege parte dalla «domanda che cos’è il numero uno»39. E si accorge che per essa «la maggioranza dei matematici non ha pronta alcuna risposta soddisfacente»40. Questo lo porta a dire: «Non è vergognoso per la scienza di essere tanto all’oscuro su un oggetto che le sta così vicino e che pare così semplice?»41. È perciò «nostro imprescindibile doIvi, p. I. Ivi, p. II. 41 Ibid. 39 40
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vere indagarlo con maggior precisione»42. Infatti, «se non si è fatta completa luce sul fondamento stesso dell’edificio aritmetico, non si riuscirà a spiegare con perfetta chiarezza i numeri negativi, frazionari e complessi»43. Frege aveva fiducia che i suoi sforzi potessero incontrare «l’approvazione dei matematici che si prenderanno la pena di prendere in considerazione i fondamenti da me proposti»44. Ma la sua fiducia era mal riposta perché i matematici non tennero in gran conto i suoi sforzi. Come lo stesso Frege aveva previsto, la loro risposta fu: «Metaphysica sunt, non leguntur»45. Il disinteresse dei matematici per la fondazione dell’aritmetica di Frege non fu dovuto però, come supponeva Frege, a un pregiudizio, bensì al fatto che la mancanza di una definizione precisa del concetto di numero non costituiva un ostacolo allo sviluppo della teoria dei numeri. Una risposta alla domanda che cos’è il numero uno era irrilevante al riguardo, perché nessuno dei risultati della teoria dei numeri dipendeva da tale risposta. Perciò dare una definizione precisa del concetto di numero non rispondeva ad alcuna reale esigenza dell’attività matematica, era fine a se stesso, era semplicemente una questione di igiene logica e perciò non era fecondo. Il rigore ha una funzione positiva solo quando risponde a esigenze reali ed è fecondo, cioè è fruttuoso per l’indagine. Se è fine a se stesso, è soltanto un abito stretto che impedisce di muoversi liberamente, e dunque è pedanteria. Quello che importa non è il rigore ma la fecondità. Perciò il concetto di rigore va sostituito con quello di fecondità. Ibid. Ibid. 44 Ivi, p. 10. 45 Frege 1962, I, p. XII. 42 43
ostacolavano lo sviluppo dell’attività matematica perché causavano incertezza circa il dominio di validità di teoremi o le condizioni di esistenza di limiti. Invece, alla base della ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica, vi era la volontà di rendere precisi i concetti e di eliminare le lacune dalle dimostrazioni non per risolvere problemi effettivamente sorti nell’attività matematica, ma solo in nome di un astratto ideale di igiene logica. Dunque, mentre il lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor rispondeva all’esigenza di rimuovere ostacoli all’attività matematica che ne frenavano lo sviluppo, la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica non era una risposta ad alcun serio problema incontrato nell’attività matematica. 6. Rigore e fecondità Il confronto tra la ricerca di Frege di rigore logico nell’aritmetica e il lavoro di rigorizzazione dell’analisi di Cauchy, Weierstrass, Dedekind e Cantor, mostra che la questione del rigore va impostata diversamente da Frege e dalla filosofia analitica. La matematica, quando ha successo, non lo ha in virtù del rigore ma perché individua problemi significativi e formula ipotesi feconde per la loro soluzione. L’esigenza del rigore nasce solo in particolari momenti, quando si determinano situazioni che ostacolano il suo sviluppo e perciò richiedono un intervento. Questo appare chiaro dalle definizioni. I matematici spesso procedono abbastanza bene anche in mancanza di definizioni molto precise dei loro concetti, e le ricercano solo quando la loro mancanza diventa un intralcio per il loro lavoro. Invece, la definizione di Frege del concetto di numero rispondeva unicamente a un astratto ideale di igiene logica. Frege parte dalla «domanda che cos’è il numero uno»39. E si accorge che per essa «la maggioranza dei matematici non ha pronta alcuna risposta soddisfacente»40. Questo lo porta a dire: «Non è vergognoso per la scienza di essere tanto all’oscuro su un oggetto che le sta così vicino e che pare così semplice?»41. È perciò «nostro imprescindibile doIvi, p. I. Ivi, p. II. 41 Ibid. 39 40
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vere indagarlo con maggior precisione»42. Infatti, «se non si è fatta completa luce sul fondamento stesso dell’edificio aritmetico, non si riuscirà a spiegare con perfetta chiarezza i numeri negativi, frazionari e complessi»43. Frege aveva fiducia che i suoi sforzi potessero incontrare «l’approvazione dei matematici che si prenderanno la pena di prendere in considerazione i fondamenti da me proposti»44. Ma la sua fiducia era mal riposta perché i matematici non tennero in gran conto i suoi sforzi. Come lo stesso Frege aveva previsto, la loro risposta fu: «Metaphysica sunt, non leguntur»45. Il disinteresse dei matematici per la fondazione dell’aritmetica di Frege non fu dovuto però, come supponeva Frege, a un pregiudizio, bensì al fatto che la mancanza di una definizione precisa del concetto di numero non costituiva un ostacolo allo sviluppo della teoria dei numeri. Una risposta alla domanda che cos’è il numero uno era irrilevante al riguardo, perché nessuno dei risultati della teoria dei numeri dipendeva da tale risposta. Perciò dare una definizione precisa del concetto di numero non rispondeva ad alcuna reale esigenza dell’attività matematica, era fine a se stesso, era semplicemente una questione di igiene logica e perciò non era fecondo. Il rigore ha una funzione positiva solo quando risponde a esigenze reali ed è fecondo, cioè è fruttuoso per l’indagine. Se è fine a se stesso, è soltanto un abito stretto che impedisce di muoversi liberamente, e dunque è pedanteria. Quello che importa non è il rigore ma la fecondità. Perciò il concetto di rigore va sostituito con quello di fecondità. Ibid. Ibid. 44 Ivi, p. 10. 45 Frege 1962, I, p. XII. 42 43
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La chimera della mente
1. L’invenzione della mente Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la mente. La mente non è sempre esistita ma è stata inventata: inventata nel senso che, a un certo punto, qualcuno ha introdotto il concetto di mente. Chi lo abbia introdotto per primo è una questione controversa. Per esempio, secondo Putnam l’attuale nozione di mente «non è molto antica, o almeno la sua egemonia non è molto antica»1. Certo, «le parole ‘mente’ e ‘anima’, o almeno i loro antenati classici, il latino ‘mens’ e il greco ‘psyché’, sono antichi», e «l’abitudine a identificare nozioni che in realtà sono piuttosto differenti ci porta a pensare che perciò l’attuale nozione di mente debba essere altrettanto antica, ma niente potrebbe essere più falso»2. Nondimeno, anche se chi abbia introdotto per primo il concetto di mente è una questione controversa, sembra difficile negare che, al consolidamento dell’attuale concetto di mente e alla sua affermazione nell’età moderna e contemporanea abbia contribuito in modo sostanziale Descartes. Egli vi ha contribuito con la nettezza delle sue formulazioni, come quella secondo cui «io non sono quella compagine di membra che si chiama corpo umano», sono invece «una cosa che pensa, cioè una mente, ovvero un’intelligenza, ovvero un intelletto, ovvero una ragione», e «sono una cosa vera, e veramente esistente»3. La mente Putnam 1995, p. 3. Ibid. 3 Descartes 1996, VII, p. 27. 1 2
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è «una cosa esistente, sebbene non le si attribuisca nulla di quello che appartiene al corpo», nello stesso modo in cui il corpo è «una cosa esistente, sebbene non gli si attribuisca nulla di ciò che appartiene alla mente»4. Inoltre, non solo la mente è una cosa esistente nello stesso modo in cui il corpo è una cosa esistente, ma «è realmente distinta dal corpo»5. E «non è distinta dal corpo solo per una finzione, o astrazione dell’intelletto, ma è conosciuta come una cosa distinta perché è realmente distinta»6. Io «sono realmente distinto dal mio corpo, e posso esistere senza di esso»7. Questo, secondo Descartes, dipende dal fatto che «la mente e il corpo sono sostanze»8. In particolare, «il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante», ossia della mente, in quanto «tutto ciò che troviamo nella mente sono solo modi differenti di pensare», mentre «l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea», cioè del corpo, in quanto «tutto ciò che si può attribuire al corpo presuppone l’estensione»9. Che la mente e il corpo siano sostanze implica che esse si escludono a vicenda, perché «questa è la natura delle sostanze, che esse si escludono reciprocamente»10. Specificamente, la mente è «una cosa pensante non estesa», mentre il corpo è «una cosa estesa non pensante»11. È vero che, per Descartes, il fatto che la mente sia realmente distinta dal corpo in quanto è una sostanza diversa dal corpo, non significa che essa non sia strettamente congiunta e interagente con esso. Egli, infatti, afferma che la mente «è sostanzialmente unita a esso»12. Anzi, «è veramente congiunta a tutto il corpo, e non si può propriamente dire che sia in qualcuna delle sue parti a esclusione di altre»13. Io «non sono solo alloggiato nel mio corpo come il nocchiero nella sua nave, ma sono talmente congiunto e, per così dire, commisto a esso, da costituire con esso un tutto unico»14. Ivi, VII, p. 226. Ibid. 6 Ivi, VII, p. 229. 7 Ivi, VII, p. 78. 8 Ivi, VII, p. 170. 9 Ivi, VIII-1, p. 25. 10 Ivi, VII, p. 227. 11 Ivi, VIII-1, p. 25. 12 Ivi, VII, p. 228. 13 Ivi, XI, p. 351. 14 Ivi, VII, p. 81. 4 5
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La chimera della mente
1. L’invenzione della mente Un’altra chimera della conoscenza che la filosofia ha ostinatamente sebbene vanamente inseguito è la mente. La mente non è sempre esistita ma è stata inventata: inventata nel senso che, a un certo punto, qualcuno ha introdotto il concetto di mente. Chi lo abbia introdotto per primo è una questione controversa. Per esempio, secondo Putnam l’attuale nozione di mente «non è molto antica, o almeno la sua egemonia non è molto antica»1. Certo, «le parole ‘mente’ e ‘anima’, o almeno i loro antenati classici, il latino ‘mens’ e il greco ‘psyché’, sono antichi», e «l’abitudine a identificare nozioni che in realtà sono piuttosto differenti ci porta a pensare che perciò l’attuale nozione di mente debba essere altrettanto antica, ma niente potrebbe essere più falso»2. Nondimeno, anche se chi abbia introdotto per primo il concetto di mente è una questione controversa, sembra difficile negare che, al consolidamento dell’attuale concetto di mente e alla sua affermazione nell’età moderna e contemporanea abbia contribuito in modo sostanziale Descartes. Egli vi ha contribuito con la nettezza delle sue formulazioni, come quella secondo cui «io non sono quella compagine di membra che si chiama corpo umano», sono invece «una cosa che pensa, cioè una mente, ovvero un’intelligenza, ovvero un intelletto, ovvero una ragione», e «sono una cosa vera, e veramente esistente»3. La mente Putnam 1995, p. 3. Ibid. 3 Descartes 1996, VII, p. 27. 1 2
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è «una cosa esistente, sebbene non le si attribuisca nulla di quello che appartiene al corpo», nello stesso modo in cui il corpo è «una cosa esistente, sebbene non gli si attribuisca nulla di ciò che appartiene alla mente»4. Inoltre, non solo la mente è una cosa esistente nello stesso modo in cui il corpo è una cosa esistente, ma «è realmente distinta dal corpo»5. E «non è distinta dal corpo solo per una finzione, o astrazione dell’intelletto, ma è conosciuta come una cosa distinta perché è realmente distinta»6. Io «sono realmente distinto dal mio corpo, e posso esistere senza di esso»7. Questo, secondo Descartes, dipende dal fatto che «la mente e il corpo sono sostanze»8. In particolare, «il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante», ossia della mente, in quanto «tutto ciò che troviamo nella mente sono solo modi differenti di pensare», mentre «l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea», cioè del corpo, in quanto «tutto ciò che si può attribuire al corpo presuppone l’estensione»9. Che la mente e il corpo siano sostanze implica che esse si escludono a vicenda, perché «questa è la natura delle sostanze, che esse si escludono reciprocamente»10. Specificamente, la mente è «una cosa pensante non estesa», mentre il corpo è «una cosa estesa non pensante»11. È vero che, per Descartes, il fatto che la mente sia realmente distinta dal corpo in quanto è una sostanza diversa dal corpo, non significa che essa non sia strettamente congiunta e interagente con esso. Egli, infatti, afferma che la mente «è sostanzialmente unita a esso»12. Anzi, «è veramente congiunta a tutto il corpo, e non si può propriamente dire che sia in qualcuna delle sue parti a esclusione di altre»13. Io «non sono solo alloggiato nel mio corpo come il nocchiero nella sua nave, ma sono talmente congiunto e, per così dire, commisto a esso, da costituire con esso un tutto unico»14. Ivi, VII, p. 226. Ibid. 6 Ivi, VII, p. 229. 7 Ivi, VII, p. 78. 8 Ivi, VII, p. 170. 9 Ivi, VIII-1, p. 25. 10 Ivi, VII, p. 227. 11 Ivi, VIII-1, p. 25. 12 Ivi, VII, p. 228. 13 Ivi, XI, p. 351. 14 Ivi, VII, p. 81. 4 5
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Ma Descartes non riesce a dare una spiegazione plausibile di come la mente possa a un tempo essere realmente distinta dal corpo e sostanzialmente unita a esso. Egli afferma che noi siamo incapaci «di concepire ben distintamente, e nello stesso tempo, la distinzione tra l’anima e il corpo e la loro unione; per questo, infatti, occorre concepirli come una cosa sola e, nello stesso tempo, concepirli come due, il che è contraddittorio»15. Ma, invece di concluderne, come sarebbe naturale, che concepire la mente e il corpo come sostanze differenti è impossibile, Descartes afferma che si deve rinunciare a comprendere come queste due sostanze possano essere unite tra loro, contentandosi di dire che la loro unione è qualcosa che qualsiasi persona «avrà provato in se stessa»16. Egli adotta una sorta di occasionalismo secondo cui è Dio che ordina che la mente debba avere sensazioni di un certo tipo quando la microstruttura del cervello è configurata in un certo modo. Infatti afferma che, «quando Dio unirà un’anima razionale a questa macchina», cioè al corpo, «egli le darà come sede principale il cervello, e la farà di natura tale che, a seconda dei diversi modi in cui le entrate dei pori che sono sulla superficie interna di questo cervello verranno aperte tramite i nervi, essa avrà sensazioni differenti»17. In realtà, nonostante la conclamata unione tra la mente e il corpo, Descartes dichiara che la mente, pur essendo «sostanzialmente unita al corpo», cioè unita al corpo in una unione sostanziale, «può essere senza il corpo», perché «quell’unione sostanziale non impedisce che si possa avere un concetto chiaro e distinto della sola mente come di una cosa completa», nello stesso modo in cui chi dica che il braccio di un uomo «appartiene alla natura dell’uomo intero, non dà per questo occasione di sospettare che esso non possa sussistere per sé»18. In particolare, secondo Descartes, non si deve supporre, «per il fatto che la facoltà di pensare è assopita negli infanti e non è certo estinta ma turbata nei folli, che essa sia talmente congiunta agli organi corporei da non poter esistere senza di essi»19. Infatti, «dal fatto che noi sperimentiamo che la facoltà di pensare è spesso impe-
dita da questi organi, non segue in alcun modo che sia prodotta da essi»20. L’invenzione della mente ha avuto importanti riflessi sul modo di intendere la conoscenza. Infatti, ha portato a concepirla come un processo che si svolge interamente nella mente, a cui quindi il corpo, e in particolare le sue capacità sensoriali e motorie, non concorrono in alcun modo. Inoltre, ha portato a concepirla come un processo che si basa solo sulle idee o rappresentazioni della mente, e anzi ha per oggetto tali idee o rappresentazioni. Anche qui, al consolidamento e all’affermazione di questo modo di concepire la conoscenza ha contribuito in modo decisivo Descartes con la nettezza delle sue formulazioni, come quella secondo cui «non vi può essere alcuna conoscenza se non nella mente»21. Perciò «conoscere la verità delle cose appartiene soltanto alla mente, e non al composto della mente e del corpo»22. Gli oggetti esterni «non sono percepiti propriamente dai sensi né dalla facoltà dell’immaginazione, ma solo dall’intelletto, né sono percepiti per il fatto che si tocchino o si vedano, ma solo perché vengono concepiti chiaramente dall’intelletto»23. Infatti, «la percezione dei sensi è assai oscura e confusa in molte cose», in quanto proviene «dall’unione e quasi commistione della mente col corpo»24. Perciò gli oggetti esterni possono essere percepiti chiaramente e distintamente solo dall’intelletto, la cui «percezione non è un vedere, né un toccare, né un immaginare», ma «è un guardare dentro della sola mente»25. Questo non significa che, per Descartes, i sensi non svolgano alcun ruolo nella conoscenza. Ma, a suo parere, quando ci formiamo idee degli oggetti esterni, questo non avviene perché essi «abbiano immesso nella nostra mente quelle idee attraverso gli organi di senso», ma solo perché vi hanno immesso qualcosa che ha «fornito alla mente l’occasione di formare quelle idee»26. La nostra conoscenza delle cose si basa solo sulle idee, perché «noi non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose se non attraverso le idee che concepiaIbid. Ivi, III, p. 442. 22 Ivi, III, p. 83. 23 Ivi, III, p. 34. 24 Ivi, III, pp. 80-81. 25 Ivi, III, p. 31. 26 Ivi, VIII-2, p. 359. 20 21
Ivi, III, p. 693. Ivi, III, p. 694. 17 Ivi, XI, p. 143. 18 Ivi, III, p. 694. 19 Ibid. 15 16
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Ma Descartes non riesce a dare una spiegazione plausibile di come la mente possa a un tempo essere realmente distinta dal corpo e sostanzialmente unita a esso. Egli afferma che noi siamo incapaci «di concepire ben distintamente, e nello stesso tempo, la distinzione tra l’anima e il corpo e la loro unione; per questo, infatti, occorre concepirli come una cosa sola e, nello stesso tempo, concepirli come due, il che è contraddittorio»15. Ma, invece di concluderne, come sarebbe naturale, che concepire la mente e il corpo come sostanze differenti è impossibile, Descartes afferma che si deve rinunciare a comprendere come queste due sostanze possano essere unite tra loro, contentandosi di dire che la loro unione è qualcosa che qualsiasi persona «avrà provato in se stessa»16. Egli adotta una sorta di occasionalismo secondo cui è Dio che ordina che la mente debba avere sensazioni di un certo tipo quando la microstruttura del cervello è configurata in un certo modo. Infatti afferma che, «quando Dio unirà un’anima razionale a questa macchina», cioè al corpo, «egli le darà come sede principale il cervello, e la farà di natura tale che, a seconda dei diversi modi in cui le entrate dei pori che sono sulla superficie interna di questo cervello verranno aperte tramite i nervi, essa avrà sensazioni differenti»17. In realtà, nonostante la conclamata unione tra la mente e il corpo, Descartes dichiara che la mente, pur essendo «sostanzialmente unita al corpo», cioè unita al corpo in una unione sostanziale, «può essere senza il corpo», perché «quell’unione sostanziale non impedisce che si possa avere un concetto chiaro e distinto della sola mente come di una cosa completa», nello stesso modo in cui chi dica che il braccio di un uomo «appartiene alla natura dell’uomo intero, non dà per questo occasione di sospettare che esso non possa sussistere per sé»18. In particolare, secondo Descartes, non si deve supporre, «per il fatto che la facoltà di pensare è assopita negli infanti e non è certo estinta ma turbata nei folli, che essa sia talmente congiunta agli organi corporei da non poter esistere senza di essi»19. Infatti, «dal fatto che noi sperimentiamo che la facoltà di pensare è spesso impe-
dita da questi organi, non segue in alcun modo che sia prodotta da essi»20. L’invenzione della mente ha avuto importanti riflessi sul modo di intendere la conoscenza. Infatti, ha portato a concepirla come un processo che si svolge interamente nella mente, a cui quindi il corpo, e in particolare le sue capacità sensoriali e motorie, non concorrono in alcun modo. Inoltre, ha portato a concepirla come un processo che si basa solo sulle idee o rappresentazioni della mente, e anzi ha per oggetto tali idee o rappresentazioni. Anche qui, al consolidamento e all’affermazione di questo modo di concepire la conoscenza ha contribuito in modo decisivo Descartes con la nettezza delle sue formulazioni, come quella secondo cui «non vi può essere alcuna conoscenza se non nella mente»21. Perciò «conoscere la verità delle cose appartiene soltanto alla mente, e non al composto della mente e del corpo»22. Gli oggetti esterni «non sono percepiti propriamente dai sensi né dalla facoltà dell’immaginazione, ma solo dall’intelletto, né sono percepiti per il fatto che si tocchino o si vedano, ma solo perché vengono concepiti chiaramente dall’intelletto»23. Infatti, «la percezione dei sensi è assai oscura e confusa in molte cose», in quanto proviene «dall’unione e quasi commistione della mente col corpo»24. Perciò gli oggetti esterni possono essere percepiti chiaramente e distintamente solo dall’intelletto, la cui «percezione non è un vedere, né un toccare, né un immaginare», ma «è un guardare dentro della sola mente»25. Questo non significa che, per Descartes, i sensi non svolgano alcun ruolo nella conoscenza. Ma, a suo parere, quando ci formiamo idee degli oggetti esterni, questo non avviene perché essi «abbiano immesso nella nostra mente quelle idee attraverso gli organi di senso», ma solo perché vi hanno immesso qualcosa che ha «fornito alla mente l’occasione di formare quelle idee»26. La nostra conoscenza delle cose si basa solo sulle idee, perché «noi non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose se non attraverso le idee che concepiaIbid. Ivi, III, p. 442. 22 Ivi, III, p. 83. 23 Ivi, III, p. 34. 24 Ivi, III, pp. 80-81. 25 Ivi, III, p. 31. 26 Ivi, VIII-2, p. 359. 20 21
Ivi, III, p. 693. Ivi, III, p. 694. 17 Ivi, XI, p. 143. 18 Ivi, III, p. 694. 19 Ibid. 15 16
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mo di esse»27. Noi le concepiamo guardando in noi stessi, perché «la mente, quando concepisce, si volge in un certo modo verso se stessa, e considera ciascuna delle idee che ha in sé»28. Anzi, non solo la nostra conoscenza delle cose si basa soltanto sulle idee, ma essa ha per oggetto le idee, perché queste sono «tutto ciò che viene percepito immediatamente dalla mente»29. 2. Il funzionalismo e la mente L’invenzione della mente è stata un punto fermo da Descartes fino all’età contemporanea. Un esempio di ciò è dato dal funzionalismo, la concezione secondo cui gli stati mentali sono individuati unicamente dal loro ruolo funzionale, e perciò hanno un’identità indipendente dal loro supporto fisico. Per esempio Putnam, uno degli esponenti più significativi del funzionalismo, afferma che «il mentale è una caratteristica reale e autonoma del nostro mondo»30. L’autonomia del mentale implica che, «quale che possa essere il nostro funzionamento mentale, non sembra esserci alcuna seria ragione per credere che esso sia spiegabile mediante la nostra fisica e la nostra chimica»31. Anche se «non abbiamo idea di quale aspetto avrebbe una teoria psicologica esauriente», ne sappiamo abbastanza «per rilevare illuminanti differenze tra ogni possibile teoria psicologica di un essere umano» e «una descrizione fisica o chimica»32. Possiamo dire perciò che «i nostri stati mentali, per esempio pensare alle vacanze dell’estate prossima, non possono essere identici ad alcuno stato fisico o chimico»33. Dunque anche se, a differenza di Descartes, Putnam non afferma che la mente è una sostanza diversa dal corpo, tuttavia afferma che c’è un senso in cui il mentale è diverso dal fisico, perché i nostri stati mentali non possono essere identici ad alcuno stato fisico o chimico. Alla base della posizione di Putnam vi è il rifiuto del materialismo, la Ivi, III, p. 476. Ivi, VII, p. 73. 29 Ivi, VII, p. 181. 30 Putnam 1975, II, p. 291. 31 Ivi, II, p. 297. 32 Ivi, II, p. 292. 33 Ivi, II, p. 293.
convinzione che, «se si assume che il materialismo sia la negazione dell’esistenza di attributi ‘non fisici’, allora il materialismo è falso»34. In quale senso, secondo Putnam, il mentale sia diverso dal fisico, viene da lui spiegato dicendo che, «da quanto già sappiamo sui computer, ecc., è chiaro che, qualunque possa essere il programma del cervello, deve essere fisicamente possibile, anche se non necessariamente praticamente fattibile, produrre qualcosa con lo stesso programma ma con una costituzione fisica e chimica differente»35. Perciò sarebbe assurdo identificare uno stato mentale «con la sua realizzazione fisica o chimica, dato che quella realizzazione in un certo senso è accidentale, almeno dal punto di vista della psicologia (che è la scienza pertinente)»36. Sarebbe come se «incontrassimo dei Marziani e scoprissimo che sono isomorfi a noi sotto tutti gli aspetti funzionali, ma ci rifiutassimo di ammettere che essi possano sentire dolore perché le loro fibre C sono differenti»37. Si deve perciò «ricercare una descrizione più astratta dei processi mentali umani», e quindi del pensiero umano, «in termini di ‘stati mentali’ (la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata)», che «specifichi le leggi che controllano l’ordine in cui gli stati si succedono l’uno all’altro»38. Infatti, «l’organizzazione funzionale (la soluzione di problemi, il pensiero) dell’essere umano» può «essere descritta in termini di successioni rispettivamente di stati mentali o logici», e può essere descritta completamente in termini di tali successioni «senza far riferimento alla natura della ‘realizzazione fisica’ di questi stati»39. Perciò, «fossimo pure fatti di formaggio svizzero, la cosa non avrebbe importanza»40. L’importante non è il supporto fisico ma la sua organizzazione funzionale. L’invenzione della mente ha portato anche il funzionalismo a concepire la conoscenza come un processo che si svolge interamente nella mente, a cui il supporto fisico non concorre in alcun modo. E lo ha portato a concepirla come un processo che si basa solo sulle idee o rappresentazioni delle mente, e anzi ha per oggetto tali idee o rappresentazioni. Ivi, II, p. 393. Ibid. 36 Ibid. 37 Ibid. 38 Ivi, II, p. 373. 39 Ibid. 40 Ivi, II, p. 291.
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mo di esse»27. Noi le concepiamo guardando in noi stessi, perché «la mente, quando concepisce, si volge in un certo modo verso se stessa, e considera ciascuna delle idee che ha in sé»28. Anzi, non solo la nostra conoscenza delle cose si basa soltanto sulle idee, ma essa ha per oggetto le idee, perché queste sono «tutto ciò che viene percepito immediatamente dalla mente»29. 2. Il funzionalismo e la mente L’invenzione della mente è stata un punto fermo da Descartes fino all’età contemporanea. Un esempio di ciò è dato dal funzionalismo, la concezione secondo cui gli stati mentali sono individuati unicamente dal loro ruolo funzionale, e perciò hanno un’identità indipendente dal loro supporto fisico. Per esempio Putnam, uno degli esponenti più significativi del funzionalismo, afferma che «il mentale è una caratteristica reale e autonoma del nostro mondo»30. L’autonomia del mentale implica che, «quale che possa essere il nostro funzionamento mentale, non sembra esserci alcuna seria ragione per credere che esso sia spiegabile mediante la nostra fisica e la nostra chimica»31. Anche se «non abbiamo idea di quale aspetto avrebbe una teoria psicologica esauriente», ne sappiamo abbastanza «per rilevare illuminanti differenze tra ogni possibile teoria psicologica di un essere umano» e «una descrizione fisica o chimica»32. Possiamo dire perciò che «i nostri stati mentali, per esempio pensare alle vacanze dell’estate prossima, non possono essere identici ad alcuno stato fisico o chimico»33. Dunque anche se, a differenza di Descartes, Putnam non afferma che la mente è una sostanza diversa dal corpo, tuttavia afferma che c’è un senso in cui il mentale è diverso dal fisico, perché i nostri stati mentali non possono essere identici ad alcuno stato fisico o chimico. Alla base della posizione di Putnam vi è il rifiuto del materialismo, la Ivi, III, p. 476. Ivi, VII, p. 73. 29 Ivi, VII, p. 181. 30 Putnam 1975, II, p. 291. 31 Ivi, II, p. 297. 32 Ivi, II, p. 292. 33 Ivi, II, p. 293.
convinzione che, «se si assume che il materialismo sia la negazione dell’esistenza di attributi ‘non fisici’, allora il materialismo è falso»34. In quale senso, secondo Putnam, il mentale sia diverso dal fisico, viene da lui spiegato dicendo che, «da quanto già sappiamo sui computer, ecc., è chiaro che, qualunque possa essere il programma del cervello, deve essere fisicamente possibile, anche se non necessariamente praticamente fattibile, produrre qualcosa con lo stesso programma ma con una costituzione fisica e chimica differente»35. Perciò sarebbe assurdo identificare uno stato mentale «con la sua realizzazione fisica o chimica, dato che quella realizzazione in un certo senso è accidentale, almeno dal punto di vista della psicologia (che è la scienza pertinente)»36. Sarebbe come se «incontrassimo dei Marziani e scoprissimo che sono isomorfi a noi sotto tutti gli aspetti funzionali, ma ci rifiutassimo di ammettere che essi possano sentire dolore perché le loro fibre C sono differenti»37. Si deve perciò «ricercare una descrizione più astratta dei processi mentali umani», e quindi del pensiero umano, «in termini di ‘stati mentali’ (la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata)», che «specifichi le leggi che controllano l’ordine in cui gli stati si succedono l’uno all’altro»38. Infatti, «l’organizzazione funzionale (la soluzione di problemi, il pensiero) dell’essere umano» può «essere descritta in termini di successioni rispettivamente di stati mentali o logici», e può essere descritta completamente in termini di tali successioni «senza far riferimento alla natura della ‘realizzazione fisica’ di questi stati»39. Perciò, «fossimo pure fatti di formaggio svizzero, la cosa non avrebbe importanza»40. L’importante non è il supporto fisico ma la sua organizzazione funzionale. L’invenzione della mente ha portato anche il funzionalismo a concepire la conoscenza come un processo che si svolge interamente nella mente, a cui il supporto fisico non concorre in alcun modo. E lo ha portato a concepirla come un processo che si basa solo sulle idee o rappresentazioni delle mente, e anzi ha per oggetto tali idee o rappresentazioni. Ivi, II, p. 393. Ibid. 36 Ibid. 37 Ibid. 38 Ivi, II, p. 373. 39 Ibid. 40 Ivi, II, p. 291.
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Per esempio Fodor, un altro significativo esponente del funzionalismo, afferma che «noi abbiamo accesso al mondo solo attraverso i modi in cui lo rappresentiamo»41. La mente è «un organo la cui funzione è la manipolazione delle rappresentazioni, e queste, a loro volta, costituiscono il dominio dei processi mentali e gli oggetti (immediati) degli stati mentali»42. La conoscenza si basa solo sulle nostre rappresentazioni, dove per rappresentazioni si intendono quelle che erano «spesso chiamate ‘idee’ nella letteratura precedente»43. Inoltre, non solo la conoscenza si basa solo sulle nostre rappresentazioni, ma ha per oggetto le rappresentazioni. Per esempio, la mia conoscenza di Giovanni «è una relazione con un’idea, cioè con una rappresentazione interna di Giovanni»44. È vero che il fatto che la mia conoscenza di Giovanni sia una relazione con una rappresentazione interna di Giovanni «è del tutto compatibile col suo essere (trasparentemente) costruibile come una relazione con Giovanni»45. Ma è costruibile come una relazione con Giovanni solo «in virtù del suo stare in relazione con l’idea di Giovanni»46. Come per Descartes, anche per Fodor, quindi, noi non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose se non attraverso le idee che noi concepiamo di esse. 3. Mente disincarnata e conoscenza disincarnata Il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare sta alla base della concezione della mente disincarnata, secondo la quale la mente è totalmente autonoma rispetto al corpo. Che, per la concezione della mente disincarnata, la mente sia totalmente autonoma rispetto al corpo, significa che mente e corpo sono generi differenti in quanto, ad esempio, il corpo è nello spazio mentre la mente non lo è. Significa anche che la natura della mente non dipende da alcun suo legame col corpo, che i nostri stati menFodor 1981, p. 241. Ivi, p. 203. 43 Ivi, p. 26. 44 Ivi, pp. 200-201. 45 Ivi, p. 201. 46 Ibid. 41
tali non sono identici ad alcuno stato fisico o chimico né possono essere spiegati in termini fisici o chimici, e che perciò si può dare una descrizione astratta del pensiero in termini di stati mentali la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata. E significa, inoltre, che la mente è qualcosa di interno, non nel senso che sia spazialmente collocata nel corpo, dal momento che la mente non è nello spazio, ma nel senso che io posso aver accesso ai miei stati mentali mediante l’autoriflessione, e solo io posso aver accesso a essi. Il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare sta anche alla base della concezione della conoscenza disincarnata, secondo la quale la conoscenza è un processo interamente mentale. Che, per la concezione della conoscenza disincarnata, la conoscenza sia un processo interamente mentale, significa che è un processo che si svolge interamente nella mente, e quindi non dipende in alcun modo dal corpo. Significa anche che tale processo si basa solo sulle idee o rappresentazioni delle mente. E significa, inoltre, che il processo della conoscenza ha per oggetto proprio tali idee o rappresentazioni. Che il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare stia alla base sia di una concezione della mente sia di una concezione della conoscenza, non sorprende perché, nell’età moderna e contemporanea, le concezioni della mente e della conoscenza sono state così profondamente intrecciate tra loro da essere spesso non facilmente distinguibili. Questo vale, in particolare, per le concezioni della mente disincarnata e della conoscenza disincarnata. In effetti, la concezione della conoscenza disincarnata può considerarsi una parte della concezione della mente disincarnata perché, in base a essa, la conoscenza è un processo interamente mentale. Per questo motivo in seguito, nel parlare di concezione della mente disincarnata, si assumerà tacitamente che essa includa la concezione della conoscenza disincarnata. 4. Difficoltà della concezione della mente disincarnata
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Nonostante la fortuna di cui la concezione della mente disincarnata ha goduto da Descartes al funzionalismo, tale concezione va incontro a difficoltà sostanziali. Le principali sono l’inseparabilità dal mondo, 160
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Per esempio Fodor, un altro significativo esponente del funzionalismo, afferma che «noi abbiamo accesso al mondo solo attraverso i modi in cui lo rappresentiamo»41. La mente è «un organo la cui funzione è la manipolazione delle rappresentazioni, e queste, a loro volta, costituiscono il dominio dei processi mentali e gli oggetti (immediati) degli stati mentali»42. La conoscenza si basa solo sulle nostre rappresentazioni, dove per rappresentazioni si intendono quelle che erano «spesso chiamate ‘idee’ nella letteratura precedente»43. Inoltre, non solo la conoscenza si basa solo sulle nostre rappresentazioni, ma ha per oggetto le rappresentazioni. Per esempio, la mia conoscenza di Giovanni «è una relazione con un’idea, cioè con una rappresentazione interna di Giovanni»44. È vero che il fatto che la mia conoscenza di Giovanni sia una relazione con una rappresentazione interna di Giovanni «è del tutto compatibile col suo essere (trasparentemente) costruibile come una relazione con Giovanni»45. Ma è costruibile come una relazione con Giovanni solo «in virtù del suo stare in relazione con l’idea di Giovanni»46. Come per Descartes, anche per Fodor, quindi, noi non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose se non attraverso le idee che noi concepiamo di esse. 3. Mente disincarnata e conoscenza disincarnata Il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare sta alla base della concezione della mente disincarnata, secondo la quale la mente è totalmente autonoma rispetto al corpo. Che, per la concezione della mente disincarnata, la mente sia totalmente autonoma rispetto al corpo, significa che mente e corpo sono generi differenti in quanto, ad esempio, il corpo è nello spazio mentre la mente non lo è. Significa anche che la natura della mente non dipende da alcun suo legame col corpo, che i nostri stati menFodor 1981, p. 241. Ivi, p. 203. 43 Ivi, p. 26. 44 Ivi, pp. 200-201. 45 Ivi, p. 201. 46 Ibid. 41
tali non sono identici ad alcuno stato fisico o chimico né possono essere spiegati in termini fisici o chimici, e che perciò si può dare una descrizione astratta del pensiero in termini di stati mentali la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata. E significa, inoltre, che la mente è qualcosa di interno, non nel senso che sia spazialmente collocata nel corpo, dal momento che la mente non è nello spazio, ma nel senso che io posso aver accesso ai miei stati mentali mediante l’autoriflessione, e solo io posso aver accesso a essi. Il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare sta anche alla base della concezione della conoscenza disincarnata, secondo la quale la conoscenza è un processo interamente mentale. Che, per la concezione della conoscenza disincarnata, la conoscenza sia un processo interamente mentale, significa che è un processo che si svolge interamente nella mente, e quindi non dipende in alcun modo dal corpo. Significa anche che tale processo si basa solo sulle idee o rappresentazioni delle mente. E significa, inoltre, che il processo della conoscenza ha per oggetto proprio tali idee o rappresentazioni. Che il concetto di mente che Descartes ha contribuito in modo decisivo a consolidare e ad affermare stia alla base sia di una concezione della mente sia di una concezione della conoscenza, non sorprende perché, nell’età moderna e contemporanea, le concezioni della mente e della conoscenza sono state così profondamente intrecciate tra loro da essere spesso non facilmente distinguibili. Questo vale, in particolare, per le concezioni della mente disincarnata e della conoscenza disincarnata. In effetti, la concezione della conoscenza disincarnata può considerarsi una parte della concezione della mente disincarnata perché, in base a essa, la conoscenza è un processo interamente mentale. Per questo motivo in seguito, nel parlare di concezione della mente disincarnata, si assumerà tacitamente che essa includa la concezione della conoscenza disincarnata. 4. Difficoltà della concezione della mente disincarnata
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Nonostante la fortuna di cui la concezione della mente disincarnata ha goduto da Descartes al funzionalismo, tale concezione va incontro a difficoltà sostanziali. Le principali sono l’inseparabilità dal mondo, 160
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il ruolo del corpo, il ruolo delle emozioni, il problema omuncolare, il problema della disgiunzione. 4.1. L’inseparabilità dal mondo La concezione della mente disincarnata trascura che il pensiero umano non può essere separato dal mondo, perché noi siamo in grado di pensare e operare nel mondo solo in quanto ne facciamo parte. In particolare, la conoscenza umana è possibile solo se gli esseri umani fanno parte del mondo, perché essa è un modo di essere degli esseri umani nel mondo. Se il pensiero umano fosse separabile dal mondo, se fosse un processo che si svolge interamente nella mente, sarebbe difficile spiegare come la mente possa uscire fuori di se stessa e conoscere qualcosa di esterno a essa. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa anche una trattazione del modo in cui la mente conosce il mondo. Ma questo è impossibile perché, secondo la concezione della mente disincarnata, la conoscenza è un processo che ha per oggetto le idee o rappresentazioni della mente, e queste ultime sono esperite come interne alla mente solo in quanto sono formate dalla mente. E come una trattazione del modo in cui la mente si forma rappresentazioni del mondo potrebbe spiegare perché tali rappresentazioni corrispondono alla realtà esterna? Non potrebbe farlo se non appellandosi all’armonia prestabilita, un’ipotesi ancor più oscura e implausibile di ciò che vorrebbe spiegare. In realtà la conoscenza non è un processo puramente mentale, cioè un processo che si svolge interamente dentro la mente. In essa il soggetto, conformemente al suo essere nel mondo, è sempre fuori, perciò il suo conoscere il mondo non comporta un uscire da un dentro della mente a un fuori di essa. Il suo conoscere il mondo non è un rientrare nel recinto della mente portando con sé il bottino di conoscenza fatto uscendo fuori del recinto, ma è sempre un rimanere nel mondo.
li senza far riferimento a essi. Per esempio, molti dei nostri concetti quotidiani sarebbero completamente differenti se i nostri occhi percepissero radiazioni elettromagnetiche di lunghezza d’onda diversa da quelle che effettivamente percepiscono. Nello stesso modo, il fatto che i nostri corpi abbiano una certa struttura e dimensione svolge un ruolo essenziale nel modo in cui pensiamo noi stessi nel mondo. Perciò, mentre secondo la concezione della mente disincarnata si può dare una descrizione astratta dei processi mentali umani in termini di stati mentali la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata, in realtà questo non è possibile perché i processi mentali dipendono dal corpo. Il pensiero umano e la conoscenza umana dipendono in modo essenziale dal fatto che gli esseri umani hanno un corpo e che questo è fatto in un certo modo. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa una trattazione del contributo del corpo al pensiero umano. Ma questo è impossibile a causa dell’assunzione della concezione della mente disincarnata che, in virtù dell’autonomia e indipendenza dei processi mentali dal supporto materiale, e specificamente dal corpo, il pensiero umano consiste interamente di processi mentali e perciò non dipende dal corpo. Sarebbe incompatibile con tale assunzione includere nella trattazione del pensiero umano il contributo del corpo, perché con tale inclusione i processi mentali non sarebbero più autonomi e indipendenti dal supporto materiale.
4.2. Il ruolo del corpo La concezione della mente disincarnata trascura il ruolo essenziale che il corpo svolge nel pensiero, e in particolare nella conoscenza. Molti degli aspetti fondamentali del pensiero e della conoscenza umana dipendono dal tipo di corpo che abbiamo e dalle sue capacità sensoriali e motorie, e non sono spiegabi-
4.3. Il ruolo delle emozioni La concezione della mente disincarnata trascura il ruolo delle emozioni nel pensiero umano, e in particolare nella conoscenza umana. Le emozioni sono strettamente connesse con il raggiungimento di scopi, in particolare nella conoscenza esse sono connesse con la soluzione di problemi. Il processo della soluzione di problemi è complesso perché spesso implica una molteplicità di scopi in conflitto tra loro, rapidi cambiamenti di ambiti e ricche interazioni ambientali e sociali. Le emozioni forniscono una valutazione sommaria della situazione di fronte a cui ci si trova. La valutazione che certi aspetti della situazione sono molto importanti per il raggiungimento di uno scopo può portare a focalizzarsi su tali aspetti, concentrando le proprie limitate risorse su ciò che più conta per il raggiungimento di quello scopo. Inoltre, le emozioni imprimono prontezza all’azione, perché spingono ad affrontare immediatamente la
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il ruolo del corpo, il ruolo delle emozioni, il problema omuncolare, il problema della disgiunzione. 4.1. L’inseparabilità dal mondo La concezione della mente disincarnata trascura che il pensiero umano non può essere separato dal mondo, perché noi siamo in grado di pensare e operare nel mondo solo in quanto ne facciamo parte. In particolare, la conoscenza umana è possibile solo se gli esseri umani fanno parte del mondo, perché essa è un modo di essere degli esseri umani nel mondo. Se il pensiero umano fosse separabile dal mondo, se fosse un processo che si svolge interamente nella mente, sarebbe difficile spiegare come la mente possa uscire fuori di se stessa e conoscere qualcosa di esterno a essa. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa anche una trattazione del modo in cui la mente conosce il mondo. Ma questo è impossibile perché, secondo la concezione della mente disincarnata, la conoscenza è un processo che ha per oggetto le idee o rappresentazioni della mente, e queste ultime sono esperite come interne alla mente solo in quanto sono formate dalla mente. E come una trattazione del modo in cui la mente si forma rappresentazioni del mondo potrebbe spiegare perché tali rappresentazioni corrispondono alla realtà esterna? Non potrebbe farlo se non appellandosi all’armonia prestabilita, un’ipotesi ancor più oscura e implausibile di ciò che vorrebbe spiegare. In realtà la conoscenza non è un processo puramente mentale, cioè un processo che si svolge interamente dentro la mente. In essa il soggetto, conformemente al suo essere nel mondo, è sempre fuori, perciò il suo conoscere il mondo non comporta un uscire da un dentro della mente a un fuori di essa. Il suo conoscere il mondo non è un rientrare nel recinto della mente portando con sé il bottino di conoscenza fatto uscendo fuori del recinto, ma è sempre un rimanere nel mondo.
li senza far riferimento a essi. Per esempio, molti dei nostri concetti quotidiani sarebbero completamente differenti se i nostri occhi percepissero radiazioni elettromagnetiche di lunghezza d’onda diversa da quelle che effettivamente percepiscono. Nello stesso modo, il fatto che i nostri corpi abbiano una certa struttura e dimensione svolge un ruolo essenziale nel modo in cui pensiamo noi stessi nel mondo. Perciò, mentre secondo la concezione della mente disincarnata si può dare una descrizione astratta dei processi mentali umani in termini di stati mentali la cui realizzazione fisica, se c’è, non è specificata, in realtà questo non è possibile perché i processi mentali dipendono dal corpo. Il pensiero umano e la conoscenza umana dipendono in modo essenziale dal fatto che gli esseri umani hanno un corpo e che questo è fatto in un certo modo. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa una trattazione del contributo del corpo al pensiero umano. Ma questo è impossibile a causa dell’assunzione della concezione della mente disincarnata che, in virtù dell’autonomia e indipendenza dei processi mentali dal supporto materiale, e specificamente dal corpo, il pensiero umano consiste interamente di processi mentali e perciò non dipende dal corpo. Sarebbe incompatibile con tale assunzione includere nella trattazione del pensiero umano il contributo del corpo, perché con tale inclusione i processi mentali non sarebbero più autonomi e indipendenti dal supporto materiale.
4.2. Il ruolo del corpo La concezione della mente disincarnata trascura il ruolo essenziale che il corpo svolge nel pensiero, e in particolare nella conoscenza. Molti degli aspetti fondamentali del pensiero e della conoscenza umana dipendono dal tipo di corpo che abbiamo e dalle sue capacità sensoriali e motorie, e non sono spiegabi-
4.3. Il ruolo delle emozioni La concezione della mente disincarnata trascura il ruolo delle emozioni nel pensiero umano, e in particolare nella conoscenza umana. Le emozioni sono strettamente connesse con il raggiungimento di scopi, in particolare nella conoscenza esse sono connesse con la soluzione di problemi. Il processo della soluzione di problemi è complesso perché spesso implica una molteplicità di scopi in conflitto tra loro, rapidi cambiamenti di ambiti e ricche interazioni ambientali e sociali. Le emozioni forniscono una valutazione sommaria della situazione di fronte a cui ci si trova. La valutazione che certi aspetti della situazione sono molto importanti per il raggiungimento di uno scopo può portare a focalizzarsi su tali aspetti, concentrando le proprie limitate risorse su ciò che più conta per il raggiungimento di quello scopo. Inoltre, le emozioni imprimono prontezza all’azione, perché spingono ad affrontare immediatamente la
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soluzione di un problema senza perdersi in lunghe riflessioni. Esse non sono, quindi, accessori accidentali e fastidiosi del pensiero umano, ma svolgono funzioni conoscitive importanti riguardanti la valutazione, la focalizzazione e l’azione per la soluzione dei problemi. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa anche la simulazione delle emozioni, intese come stati del corpo, da parte della mente. Ma questo è impossibile. In primo luogo, tale simulazione non sarebbe in grado di spiegare completamente come le emozioni ci aiutano nella valutazione sommaria della situazione di fronte a cui ci si trova, nella focalizzazione degli aspetti della situazione importanti per il raggiungimento di uno scopo, e nell’azione per la soluzione di problemi. In secondo luogo, nel caso, ad esempio, di una situazione di grave pericolo, la rappresentazione della situazione non è semplicemente una delle tante attive nella nostra mente. Noi dobbiamo focalizzare immediatamente la nostra attenzione sulla fonte del pericolo e agire per cercare di evitarlo. Provare un sentimento di paura di fronte alla situazione di pericolo ci spinge a farlo. In terzo luogo, una comprensione delle emozioni non si raggiunge solo grazie a un riferimento a stati mentali, ma anche osservando che il corpo ha meccanismi speciali per generare un’esperienza consapevole e per usare le emozioni al fine di ottenere valutazioni, focalizzazioni e azioni. Questo comporta un appello a considerazioni biologiche, che facciano luce sul particolare ruolo svolto dalle emozioni nelle operazioni del pensiero. 4.4. Il problema omuncolare La concezione della mente disincarnata trascura che, concepire la conoscenza come un processo che ha per oggetto le rappresentazioni della mente implica assumere che la mente sia uno spazio interiore in cui essa, quando conosce, considera ciascuna delle rappresentazioni che ha in sé. Ma assumere questo equivale ad assumere che dentro di noi vi sia un homunculus capace di interpretare tali rappresentazioni. Infatti, nulla è una rappresentazione in sé ma lo è solo rispetto a un interprete, e perciò, per avere una rappresentazione, dentro di noi dovrebbe esserci un homunculus capace di interpretarla. A sua volta, però, tale homunculus non potrebbe interpretare tale rappresentazione, ma dentro di lui dovrebbe esserci un altro homunculus capace di interpretarla. E così via all’infinito. 164
Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà dicendo che si può evitare il regresso all’infinito assumendo che dentro di noi vi sia una gerarchia di homunculi, dai più intelligenti ai più stupidi. È quanto fa Dennett, il quale afferma che al livello più alto vi è «un comitato, un esercito di homunculi intelligenti aventi scopi, informazioni e strategie. Ogni homunculus, a sua volta, viene analizzato e suddiviso in homunculi più piccoli, ma, quel che è più importante, meno intelligenti»47. Quando infine «si raggiunge il livello in cui gli homunculi non sono altro che sommatori e sottrattori, quando, cioè, essi hanno bisogno solo dell’intelligenza necessaria per scegliere il più grande tra due numeri quando sono istruiti a farlo, essi sono stati ridotti al rango di funzionari ‘che possono essere sostituiti da una macchina’»48. A quel punto «tutti gli homunculi sono stati eliminati dalla teoria»49. Così «gli immaginari homunculi vengono congedati dal proprio schema mobilitando eserciti di idioti di tal genere a fare il lavoro»50. Ma questa soluzione è inadeguata perché si basa sull’assunzione che le operazioni del livello più basso siano semplicemente addizioni e sottrazioni, e di questo non vi è alcuna prova, anzi vi sono forti indicazioni contrarie al riguardo. Leibniz criticava coloro che facevano appello a «qualità occulte o facoltà che ci si immaginava simili a piccoli demoni o folletti capaci di fare senza fatica ciò che si chiede, come se gli orologi da tasca segnassero le ore in virtù di una certa facoltà di dire le ore senza aver bisogno di ruote, o come se i mulini macinassero il grano in virtù di una facoltà molitoria senza aver bisogno di nulla che somigliasse alle mole»51. Il ricorso agli homunculi è simile all’appello ai piccoli demoni o folletti criticato da Leibniz. È come se dicessimo che noi siamo capaci di interpretare le rappresentazioni in virtù di una facoltà interpretativa. 4.5. Il problema della disgiunzione La concezione della mente disincarnata trascura che assumere che la conoscenza consista interaDennett 1978, p. 80. Ivi, pp. 80-81. 49 Ivi, p. 81. 50 Ivi, p. 124. 51 Leibniz 1965, V, p. 61. 47 48
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soluzione di un problema senza perdersi in lunghe riflessioni. Esse non sono, quindi, accessori accidentali e fastidiosi del pensiero umano, ma svolgono funzioni conoscitive importanti riguardanti la valutazione, la focalizzazione e l’azione per la soluzione dei problemi. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà estendendo la concezione della mente disincarnata così da includere in essa anche la simulazione delle emozioni, intese come stati del corpo, da parte della mente. Ma questo è impossibile. In primo luogo, tale simulazione non sarebbe in grado di spiegare completamente come le emozioni ci aiutano nella valutazione sommaria della situazione di fronte a cui ci si trova, nella focalizzazione degli aspetti della situazione importanti per il raggiungimento di uno scopo, e nell’azione per la soluzione di problemi. In secondo luogo, nel caso, ad esempio, di una situazione di grave pericolo, la rappresentazione della situazione non è semplicemente una delle tante attive nella nostra mente. Noi dobbiamo focalizzare immediatamente la nostra attenzione sulla fonte del pericolo e agire per cercare di evitarlo. Provare un sentimento di paura di fronte alla situazione di pericolo ci spinge a farlo. In terzo luogo, una comprensione delle emozioni non si raggiunge solo grazie a un riferimento a stati mentali, ma anche osservando che il corpo ha meccanismi speciali per generare un’esperienza consapevole e per usare le emozioni al fine di ottenere valutazioni, focalizzazioni e azioni. Questo comporta un appello a considerazioni biologiche, che facciano luce sul particolare ruolo svolto dalle emozioni nelle operazioni del pensiero. 4.4. Il problema omuncolare La concezione della mente disincarnata trascura che, concepire la conoscenza come un processo che ha per oggetto le rappresentazioni della mente implica assumere che la mente sia uno spazio interiore in cui essa, quando conosce, considera ciascuna delle rappresentazioni che ha in sé. Ma assumere questo equivale ad assumere che dentro di noi vi sia un homunculus capace di interpretare tali rappresentazioni. Infatti, nulla è una rappresentazione in sé ma lo è solo rispetto a un interprete, e perciò, per avere una rappresentazione, dentro di noi dovrebbe esserci un homunculus capace di interpretarla. A sua volta, però, tale homunculus non potrebbe interpretare tale rappresentazione, ma dentro di lui dovrebbe esserci un altro homunculus capace di interpretarla. E così via all’infinito. 164
Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà dicendo che si può evitare il regresso all’infinito assumendo che dentro di noi vi sia una gerarchia di homunculi, dai più intelligenti ai più stupidi. È quanto fa Dennett, il quale afferma che al livello più alto vi è «un comitato, un esercito di homunculi intelligenti aventi scopi, informazioni e strategie. Ogni homunculus, a sua volta, viene analizzato e suddiviso in homunculi più piccoli, ma, quel che è più importante, meno intelligenti»47. Quando infine «si raggiunge il livello in cui gli homunculi non sono altro che sommatori e sottrattori, quando, cioè, essi hanno bisogno solo dell’intelligenza necessaria per scegliere il più grande tra due numeri quando sono istruiti a farlo, essi sono stati ridotti al rango di funzionari ‘che possono essere sostituiti da una macchina’»48. A quel punto «tutti gli homunculi sono stati eliminati dalla teoria»49. Così «gli immaginari homunculi vengono congedati dal proprio schema mobilitando eserciti di idioti di tal genere a fare il lavoro»50. Ma questa soluzione è inadeguata perché si basa sull’assunzione che le operazioni del livello più basso siano semplicemente addizioni e sottrazioni, e di questo non vi è alcuna prova, anzi vi sono forti indicazioni contrarie al riguardo. Leibniz criticava coloro che facevano appello a «qualità occulte o facoltà che ci si immaginava simili a piccoli demoni o folletti capaci di fare senza fatica ciò che si chiede, come se gli orologi da tasca segnassero le ore in virtù di una certa facoltà di dire le ore senza aver bisogno di ruote, o come se i mulini macinassero il grano in virtù di una facoltà molitoria senza aver bisogno di nulla che somigliasse alle mole»51. Il ricorso agli homunculi è simile all’appello ai piccoli demoni o folletti criticato da Leibniz. È come se dicessimo che noi siamo capaci di interpretare le rappresentazioni in virtù di una facoltà interpretativa. 4.5. Il problema della disgiunzione La concezione della mente disincarnata trascura che assumere che la conoscenza consista interaDennett 1978, p. 80. Ivi, pp. 80-81. 49 Ivi, p. 81. 50 Ivi, p. 124. 51 Leibniz 1965, V, p. 61. 47 48
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mente di processi mentali non permette di render conto del fatto che una rappresentazione può non corrispondere all’oggetto che la ha attivata, cioè che ha immesso nella mente, attraverso gli organi di senso, qualcosa che le ha fornito l’occasione di formare quella rappresentazione. Per esempio, può accadere che di notte io scambi un lupo per un cane, cioè che quel lupo non attivi in me la rappresentazione ‘lupo’ bensì la rappresentazione ‘cane’. Qual è allora il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’? Non si può dire che è un lupo, perché la rappresentazione ‘cane’ non può contenere lupi. Né si può dire che è un cane, perché in tal caso essa rappresenterebbe un lupo come qualcosa che non è. Si può dire allora che il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è di tipo disgiuntivo, cioè ‘cane o lupo’? Chiaramente no, altrimenti la mia rappresentazione ‘cane’, essendo stata attivata in me da un lupo, non sarebbe una rappresentazione sbagliata ma una rappresentazione corretta. In generale, se si ammettesse che il contenuto di una rappresentazione può essere di tipo disgiuntivo, nessuna rappresentazione sarebbe mai erronea perché, scegliendo come suo contenuto un’opportuna disgiunzione, ogni rappresentazione diverrebbe corretta. Tutte le rappresentazioni diverrebbero infallibili se i disgiunti costituenti il contenuto di tipo disgiuntivo di una rappresentazione comprendessero sia ciò che essa vuole rappresentare sia ciò che essa non vuole rappresentare. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà dicendo, come fa Fodor, che «il cuore della soluzione del problema della disgiunzione» consiste nel far appello alla «dipendenza asimmetrica»52. Cioè al fatto che, nonostante il mio occasionale scambiare un lupo per un cane, il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane, e non un cane o un lupo, perché il fatto che un lupo attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ dipende asimmetricamente dal fatto che un cane attiva nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. Asimmetricamente nel senso che, se un cane non attivasse nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, allora un lupo non attiverebbe tale rappresentazione nella mia mente, mentre, se un lupo non attivasse nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, un cane attiverebbe tale rappresentazione nella mia mente. 52
Ma questa soluzione è inadeguata perché non spiega come un lupo possa attivare nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ solo perché un cane attiva nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. In base a tale soluzione, infatti, il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane solo in quanto il fatto che un lupo attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ dipende asimmetricamente dal fatto che una cane attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. Ma allora, per affermare che il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane, si dovrebbe stabilire che sussiste questa relazione di dipendenza asimmetrica. E, per stabilirlo, si dovrebbe stabilire che un cane attiverebbe comunque nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, anche se un lupo non la attivasse. Si avrebbe così un circolo. 5. Mente incarnata Tutte queste difficoltà, e altre ancora che si potrebbero formulare, mostrano a sufficienza che la concezione della mente disincarnata è insostenibile. Essa va sostituita con la concezione della mente incarnata, secondo la quale la mente consiste semplicemente di certe capacità del corpo, tra cui sono comprese anche le capacità sensoriali e motorie. Dal punto di vista della concezione della mente incarnata, parlare di mente è dunque solo un modo abbreviato di riferirsi a certe capacità del corpo. E poiché tra queste sono comprese anche le capacità sensoriali e motorie, la mente non risiede nella testa ma nell’intero corpo. Che, tra le capacità del corpo che costituiscono la mente, siano comprese anche le capacità sensoriali e motorie, è naturale perché in origine il sistema nervoso umano si è evoluto principalmente per coordinare le percezioni e i movimenti del corpo, accrescendone così l’efficacia in attività essenziali per la sopravvivenza come la caccia, l’accoppiamento, l’allevamento della prole. L’evoluzione favorì lo sviluppo della conoscenza per l’azione efficace, non per la contemplazione. E le capacità sensoriali e motorie sono essenziali per la conoscenza perché, come vedremo in seguito, nella conoscenza noi facciamo uso di processi esterni alla mente di tipo tecnologico o biologico in cui intervengono le nostre capacità sensoriali e motorie.
Fodor 1990, p. 122.
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mente di processi mentali non permette di render conto del fatto che una rappresentazione può non corrispondere all’oggetto che la ha attivata, cioè che ha immesso nella mente, attraverso gli organi di senso, qualcosa che le ha fornito l’occasione di formare quella rappresentazione. Per esempio, può accadere che di notte io scambi un lupo per un cane, cioè che quel lupo non attivi in me la rappresentazione ‘lupo’ bensì la rappresentazione ‘cane’. Qual è allora il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’? Non si può dire che è un lupo, perché la rappresentazione ‘cane’ non può contenere lupi. Né si può dire che è un cane, perché in tal caso essa rappresenterebbe un lupo come qualcosa che non è. Si può dire allora che il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è di tipo disgiuntivo, cioè ‘cane o lupo’? Chiaramente no, altrimenti la mia rappresentazione ‘cane’, essendo stata attivata in me da un lupo, non sarebbe una rappresentazione sbagliata ma una rappresentazione corretta. In generale, se si ammettesse che il contenuto di una rappresentazione può essere di tipo disgiuntivo, nessuna rappresentazione sarebbe mai erronea perché, scegliendo come suo contenuto un’opportuna disgiunzione, ogni rappresentazione diverrebbe corretta. Tutte le rappresentazioni diverrebbero infallibili se i disgiunti costituenti il contenuto di tipo disgiuntivo di una rappresentazione comprendessero sia ciò che essa vuole rappresentare sia ciò che essa non vuole rappresentare. Si potrebbe pensare di risolvere questa difficoltà dicendo, come fa Fodor, che «il cuore della soluzione del problema della disgiunzione» consiste nel far appello alla «dipendenza asimmetrica»52. Cioè al fatto che, nonostante il mio occasionale scambiare un lupo per un cane, il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane, e non un cane o un lupo, perché il fatto che un lupo attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ dipende asimmetricamente dal fatto che un cane attiva nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. Asimmetricamente nel senso che, se un cane non attivasse nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, allora un lupo non attiverebbe tale rappresentazione nella mia mente, mentre, se un lupo non attivasse nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, un cane attiverebbe tale rappresentazione nella mia mente. 52
Ma questa soluzione è inadeguata perché non spiega come un lupo possa attivare nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ solo perché un cane attiva nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. In base a tale soluzione, infatti, il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane solo in quanto il fatto che un lupo attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’ dipende asimmetricamente dal fatto che una cane attivi nella mia mente la rappresentazione ‘cane’. Ma allora, per affermare che il contenuto della mia rappresentazione ‘cane’ è un cane, si dovrebbe stabilire che sussiste questa relazione di dipendenza asimmetrica. E, per stabilirlo, si dovrebbe stabilire che un cane attiverebbe comunque nella mia mente la rappresentazione ‘cane’, anche se un lupo non la attivasse. Si avrebbe così un circolo. 5. Mente incarnata Tutte queste difficoltà, e altre ancora che si potrebbero formulare, mostrano a sufficienza che la concezione della mente disincarnata è insostenibile. Essa va sostituita con la concezione della mente incarnata, secondo la quale la mente consiste semplicemente di certe capacità del corpo, tra cui sono comprese anche le capacità sensoriali e motorie. Dal punto di vista della concezione della mente incarnata, parlare di mente è dunque solo un modo abbreviato di riferirsi a certe capacità del corpo. E poiché tra queste sono comprese anche le capacità sensoriali e motorie, la mente non risiede nella testa ma nell’intero corpo. Che, tra le capacità del corpo che costituiscono la mente, siano comprese anche le capacità sensoriali e motorie, è naturale perché in origine il sistema nervoso umano si è evoluto principalmente per coordinare le percezioni e i movimenti del corpo, accrescendone così l’efficacia in attività essenziali per la sopravvivenza come la caccia, l’accoppiamento, l’allevamento della prole. L’evoluzione favorì lo sviluppo della conoscenza per l’azione efficace, non per la contemplazione. E le capacità sensoriali e motorie sono essenziali per la conoscenza perché, come vedremo in seguito, nella conoscenza noi facciamo uso di processi esterni alla mente di tipo tecnologico o biologico in cui intervengono le nostre capacità sensoriali e motorie.
Fodor 1990, p. 122.
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6. Precedenti della concezione della mente incarnata La concezione della mente incarnata non è un’assoluta novità. Non che nel passato ne siano state date formulazioni organiche, ma se ne possono trovare varie anticipazioni. Per esempio, Aristotele afferma che l’anima è «l’atto primo perfetto di un corpo naturale dotato di organi»53. Essa è un insieme di capacità del corpo «ed è definita da esse, cioè dalla facoltà nutritiva, sensitiva, pensante e dal movimento»54. Che l’anima sia un insieme di capacità del corpo implica che «l’anima non è separabile dal corpo»55. E che «le affezioni dell’anima non sono separabili dalla materia fisica degli esseri viventi»56. Perciò «non ci si deve chiedere se l’anima e il corpo siano un’unità»57. Supporre che le capacità che costituiscono l’anima possano esistere separatamente dal corpo è assurdo, perché «quei principi la cui azione è corporea, è chiaro che non possono esistere senza un corpo, per esempio, il camminare non può esistere senza i piedi»58. Perciò non ha senso dire che «l’anima prova compassione, apprende, pensa», ma si deve invece dire che «è l’uomo» inteso nella sua totalità «che per mezzo dell’anima prova compassione, apprende, pensa»59. Un altro esempio è Hobbes, il quale afferma che il fatto che «una cosa pensante sia il soggetto della mente, della ragione, o dell’intelletto», non implica che essa non sia «qualcosa di corporeo; il contrario di questo viene assunto» da Descartes «ma non viene» da lui «provato»60. La conoscenza della proposizione ‘Io penso’ non ci viene «da altro che da questo, che noi non possiamo concepire alcun atto senza il suo soggetto, come il saltare senza un saltante, il sapere senza un sapiente, il pensare senza un pensante»61. Ne segue «che una cosa pensante è qualcosa di corporeo; infatti, i soggetti di tutti gli atti sembrano comprendersi solo sotto una ragione corporea, ovvero sotto una Aristotele, De anima, B 1, 412 b 5-6. Ivi, B 2, 413 b 12-13. 55 Ivi, B 1, 413 a 4. 56 Ivi, A 1, 403 b 17-18. 57 Ivi, B 1, 412 b 6. 58 Aristotele, De generatione animalium, B 3, 736 b 22-24. 59 Aristotele, De anima, A 4, 408 b 13-15. 60 Descartes 1996, VII, p. 173. 61 Ibid. 53 54
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ragione materiale»62. Più specificamente, il ragionamento dipende «dal movimento degli organi corporei, e così la mente non sarà nient’altro che un movimento in certe parti del corpo organico»63. 7. Implicazioni della concezione della mente incarnata Sebbene la concezione della mente incarnata non sia un’assoluta novità, nell’età moderna e contemporanea essa è stata oscurata da un’influente tradizione, da Descartes al funzionalismo, la quale respinge l’idea che la mente consista di certe capacità del corpo. Essa la respinge a ragione dal suo punto di vista, perché il fatto che, tra le capacità del corpo in cui, secondo la concezione della mente incarnata, consiste la mente, siano comprese anche le capacità sensoriali e motorie, ha implicazioni che sono in conflitto con alcuni capisaldi di tale tradizione. In particolare, esse sono in conflitto con alcune assunzioni fondamentali di Descartes. 1) Poiché le capacità sensoriali e motorie sono presenti non solo negli organismi più complessi ma anche in quelli più semplici, il mentale è qualcosa che pone gli uomini in un rapporto di continuità con gli altri organismi. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma «non solo che le bestie hanno una ragione minore di quella degli uomini, ma che esse non hanno affatto una ragione»64. 2) Poiché le capacità sensoriali e motorie si basano su processi mentali inconsapevoli, è impossibile dire che tutto il mentale sia consapevole. Esso consta di capacità e processi che sono in parte consapevoli e in parte inconsapevoli. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma che la questione se nella mente «possa esservi qualcosa di cui essa non è consapevole» sembra «chiara di per sé, perché noi comprendiamo benissimo che nella mente così considerata non vi è nulla che non sia pensiero, o che non dipenda dal pensiero»65. Altrimenti «non apparterrebbe alla mente, in quanto è una cosa che pensa; e non può esservi in noi alcun pensiero di cui, nel momento stesso che è in noi, non siamo consapevoli»66. Perciò è indubbio Ibid. Ivi, VII, p. 178. 64 Ivi, VI, p. 58. 65 Ivi, VII, p. 246. 66 Ibid. 62 63
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6. Precedenti della concezione della mente incarnata La concezione della mente incarnata non è un’assoluta novità. Non che nel passato ne siano state date formulazioni organiche, ma se ne possono trovare varie anticipazioni. Per esempio, Aristotele afferma che l’anima è «l’atto primo perfetto di un corpo naturale dotato di organi»53. Essa è un insieme di capacità del corpo «ed è definita da esse, cioè dalla facoltà nutritiva, sensitiva, pensante e dal movimento»54. Che l’anima sia un insieme di capacità del corpo implica che «l’anima non è separabile dal corpo»55. E che «le affezioni dell’anima non sono separabili dalla materia fisica degli esseri viventi»56. Perciò «non ci si deve chiedere se l’anima e il corpo siano un’unità»57. Supporre che le capacità che costituiscono l’anima possano esistere separatamente dal corpo è assurdo, perché «quei principi la cui azione è corporea, è chiaro che non possono esistere senza un corpo, per esempio, il camminare non può esistere senza i piedi»58. Perciò non ha senso dire che «l’anima prova compassione, apprende, pensa», ma si deve invece dire che «è l’uomo» inteso nella sua totalità «che per mezzo dell’anima prova compassione, apprende, pensa»59. Un altro esempio è Hobbes, il quale afferma che il fatto che «una cosa pensante sia il soggetto della mente, della ragione, o dell’intelletto», non implica che essa non sia «qualcosa di corporeo; il contrario di questo viene assunto» da Descartes «ma non viene» da lui «provato»60. La conoscenza della proposizione ‘Io penso’ non ci viene «da altro che da questo, che noi non possiamo concepire alcun atto senza il suo soggetto, come il saltare senza un saltante, il sapere senza un sapiente, il pensare senza un pensante»61. Ne segue «che una cosa pensante è qualcosa di corporeo; infatti, i soggetti di tutti gli atti sembrano comprendersi solo sotto una ragione corporea, ovvero sotto una Aristotele, De anima, B 1, 412 b 5-6. Ivi, B 2, 413 b 12-13. 55 Ivi, B 1, 413 a 4. 56 Ivi, A 1, 403 b 17-18. 57 Ivi, B 1, 412 b 6. 58 Aristotele, De generatione animalium, B 3, 736 b 22-24. 59 Aristotele, De anima, A 4, 408 b 13-15. 60 Descartes 1996, VII, p. 173. 61 Ibid. 53 54
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ragione materiale»62. Più specificamente, il ragionamento dipende «dal movimento degli organi corporei, e così la mente non sarà nient’altro che un movimento in certe parti del corpo organico»63. 7. Implicazioni della concezione della mente incarnata Sebbene la concezione della mente incarnata non sia un’assoluta novità, nell’età moderna e contemporanea essa è stata oscurata da un’influente tradizione, da Descartes al funzionalismo, la quale respinge l’idea che la mente consista di certe capacità del corpo. Essa la respinge a ragione dal suo punto di vista, perché il fatto che, tra le capacità del corpo in cui, secondo la concezione della mente incarnata, consiste la mente, siano comprese anche le capacità sensoriali e motorie, ha implicazioni che sono in conflitto con alcuni capisaldi di tale tradizione. In particolare, esse sono in conflitto con alcune assunzioni fondamentali di Descartes. 1) Poiché le capacità sensoriali e motorie sono presenti non solo negli organismi più complessi ma anche in quelli più semplici, il mentale è qualcosa che pone gli uomini in un rapporto di continuità con gli altri organismi. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma «non solo che le bestie hanno una ragione minore di quella degli uomini, ma che esse non hanno affatto una ragione»64. 2) Poiché le capacità sensoriali e motorie si basano su processi mentali inconsapevoli, è impossibile dire che tutto il mentale sia consapevole. Esso consta di capacità e processi che sono in parte consapevoli e in parte inconsapevoli. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma che la questione se nella mente «possa esservi qualcosa di cui essa non è consapevole» sembra «chiara di per sé, perché noi comprendiamo benissimo che nella mente così considerata non vi è nulla che non sia pensiero, o che non dipenda dal pensiero»65. Altrimenti «non apparterrebbe alla mente, in quanto è una cosa che pensa; e non può esservi in noi alcun pensiero di cui, nel momento stesso che è in noi, non siamo consapevoli»66. Perciò è indubbio Ibid. Ivi, VII, p. 178. 64 Ivi, VI, p. 58. 65 Ivi, VII, p. 246. 66 Ibid. 62 63
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«che la mente, appena è infusa nel corpo di un infante, cominci a pensare e nello stesso tempo sia consapevole dei propri pensieri, anche se poi non se ne ricorda, perché le specie di questi pensieri non restano impresse nella memoria»67. Dunque «noi siamo sempre effettivamente consapevoli degli atti o delle operazioni della nostra mente»68. Pertanto col nome di pensiero devono intendersi «tutte quelle cose che avvengono in noi consapevoli, in quanto vi è in noi consapevolezza di esse»69. 3) Poiché le capacità sensoriali e motorie sono veicoli delle emozioni, in quanto, per esempio, una delle situazioni che innescano le emozioni in un organismo è il ricevere segnali di un certo tipo attraverso i recettori sensoriali, e uno dei modi di manifestarsi delle emozioni è attraverso movimenti muscolari, ne segue che il mentale non è ‘spassionato’ ma è legato alle emozioni. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma che, «secondo l’istituzione della natura», le emozioni «si riferiscono tutte al corpo», perciò nessuna di esse si riferisce alla mente, e dunque esse «non sono date alla mente se non in quanto è congiunta al corpo»70. Queste implicazioni mostrano la radicale divergenza della concezione della mente incarnata dalla concezione della mente disincarnata. 8. Conoscenza incarnata La concezione della mente incarnata sta alla base della concezione della conoscenza incarnata, secondo la quale la conoscenza è un processo che si basa su certe capacità del corpo. Che, per la concezione della conoscenza incarnata, la conoscenza sia un processo che si basa su certe capacità del corpo, significa che essa dipende in modo essenziale dal corpo, e perciò la possibilità della conoscenza e i suoi caratteri sono legati in modo essenziale al corpo. La concezione della conoscenza incarnata può considerarsi una parte della concezione della mente incarnata perché, in base a essa, Ibid. Ibid. 69 Ivi, VIII-1, p. 7. 70 Ivi, XI, p. 430.
la conoscenza è un processo che si basa su quelle capacità del corpo in cui, secondo la concezione della mente incarnata, consiste la mente. Per questo motivo in seguito, nel parlare di concezione della mente incarnata, si assumerà tacitamente che essa includa la concezione della conoscenza incarnata. 9. Conoscenza incarnata e soggettivismo La concezione della conoscenza incarnata si oppone a una tradizione della filosofia moderna, da Descartes a Husserl e alla filosofia analitica, per la quale «L’io era l’unica città, | La cella dove ciascuno deve trovare il suo conforto e il suo dolore, | Il corpo non era altro che un’utile macchina preferita | Fatta per incontri d’amore e per mandare avanti la casa, | Mentre la mente nel suo studio parlava col suo Dio privato»71. In particolare, la concezione della conoscenza incarnata si oppone al carattere radicalmente soggettivistico di tale tradizione. Questo carattere risulta evidente, ad esempio, da Descartes, il quale costruisce tutta la conoscenza basandola sull’unica conoscenza ‘Io penso, dunque sono’, che egli considera chiara e distinta perché, a suo parere, in essa «non vi è nient’altro che una percezione chiara e distinta di ciò che io affermo»72. Una percezione «non sarebbe sufficiente a rendermi certo della verità di una cosa se potesse mai accadere che fosse falso qualcosa che io percepissi così chiaramente e distintamente»73. Ma questo non può mai accadere, perciò si può «stabilire come regola generale che tutto ciò che io percepisco molto chiaramente e molto distintamente è vero»74. Dunque Descartes formula il principio radicalmente soggettivistico che tutto ciò che egli percepisce molto chiaramente e molto distintamente è vero, e basa tutta la conoscenza su tale principio. È appellandosi al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che Dio esiste. Egli, infatti, argomenta che, «mentre osservo che dubito, o che sono una cosa incompleta e dipendente, mi sopravviene l’idea del tutto chiara e distinta di un enAuden 1997, p. 683. Descartes 1996, VII, p. 35. 73 Ibid. 74 Ibid.
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«che la mente, appena è infusa nel corpo di un infante, cominci a pensare e nello stesso tempo sia consapevole dei propri pensieri, anche se poi non se ne ricorda, perché le specie di questi pensieri non restano impresse nella memoria»67. Dunque «noi siamo sempre effettivamente consapevoli degli atti o delle operazioni della nostra mente»68. Pertanto col nome di pensiero devono intendersi «tutte quelle cose che avvengono in noi consapevoli, in quanto vi è in noi consapevolezza di esse»69. 3) Poiché le capacità sensoriali e motorie sono veicoli delle emozioni, in quanto, per esempio, una delle situazioni che innescano le emozioni in un organismo è il ricevere segnali di un certo tipo attraverso i recettori sensoriali, e uno dei modi di manifestarsi delle emozioni è attraverso movimenti muscolari, ne segue che il mentale non è ‘spassionato’ ma è legato alle emozioni. Questo si oppone a Descartes, il quale afferma che, «secondo l’istituzione della natura», le emozioni «si riferiscono tutte al corpo», perciò nessuna di esse si riferisce alla mente, e dunque esse «non sono date alla mente se non in quanto è congiunta al corpo»70. Queste implicazioni mostrano la radicale divergenza della concezione della mente incarnata dalla concezione della mente disincarnata. 8. Conoscenza incarnata La concezione della mente incarnata sta alla base della concezione della conoscenza incarnata, secondo la quale la conoscenza è un processo che si basa su certe capacità del corpo. Che, per la concezione della conoscenza incarnata, la conoscenza sia un processo che si basa su certe capacità del corpo, significa che essa dipende in modo essenziale dal corpo, e perciò la possibilità della conoscenza e i suoi caratteri sono legati in modo essenziale al corpo. La concezione della conoscenza incarnata può considerarsi una parte della concezione della mente incarnata perché, in base a essa, Ibid. Ibid. 69 Ivi, VIII-1, p. 7. 70 Ivi, XI, p. 430.
la conoscenza è un processo che si basa su quelle capacità del corpo in cui, secondo la concezione della mente incarnata, consiste la mente. Per questo motivo in seguito, nel parlare di concezione della mente incarnata, si assumerà tacitamente che essa includa la concezione della conoscenza incarnata. 9. Conoscenza incarnata e soggettivismo La concezione della conoscenza incarnata si oppone a una tradizione della filosofia moderna, da Descartes a Husserl e alla filosofia analitica, per la quale «L’io era l’unica città, | La cella dove ciascuno deve trovare il suo conforto e il suo dolore, | Il corpo non era altro che un’utile macchina preferita | Fatta per incontri d’amore e per mandare avanti la casa, | Mentre la mente nel suo studio parlava col suo Dio privato»71. In particolare, la concezione della conoscenza incarnata si oppone al carattere radicalmente soggettivistico di tale tradizione. Questo carattere risulta evidente, ad esempio, da Descartes, il quale costruisce tutta la conoscenza basandola sull’unica conoscenza ‘Io penso, dunque sono’, che egli considera chiara e distinta perché, a suo parere, in essa «non vi è nient’altro che una percezione chiara e distinta di ciò che io affermo»72. Una percezione «non sarebbe sufficiente a rendermi certo della verità di una cosa se potesse mai accadere che fosse falso qualcosa che io percepissi così chiaramente e distintamente»73. Ma questo non può mai accadere, perciò si può «stabilire come regola generale che tutto ciò che io percepisco molto chiaramente e molto distintamente è vero»74. Dunque Descartes formula il principio radicalmente soggettivistico che tutto ciò che egli percepisce molto chiaramente e molto distintamente è vero, e basa tutta la conoscenza su tale principio. È appellandosi al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che Dio esiste. Egli, infatti, argomenta che, «mentre osservo che dubito, o che sono una cosa incompleta e dipendente, mi sopravviene l’idea del tutto chiara e distinta di un enAuden 1997, p. 683. Descartes 1996, VII, p. 35. 73 Ibid. 74 Ibid.
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te indipendente e completo, cioè Dio»75. Allora, «dal solo fatto che una tale idea sia in me, o che io che ho una tale idea esista, concludo in modo così manifesto che anche Dio esiste»76. È di nuovo appellandosi al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che Dio non può essere ingannatore. Egli, infatti, argomenta che l’idea del tutto chiara e distinta di Dio che è in me è quella di un ente «che ha tutte quelle perfezioni che io non posso comprendere, ma solo in qualche modo sfiorare col pensiero, e che non è assolutamente soggetto ad alcun difetto»77. Perciò Dio «non può essere fallace; è infatti manifesto per lume naturale che ogni frode o inganno dipendono da qualche difetto»78. È ancora appellandosi, sia pure indirettamente, al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che il mondo esterno esiste. Egli, infatti, argomenta che, poiché le mie idee delle cose sensibili «si producono senza la mia cooperazione, anzi spesso anche mio malgrado», esse devono essere prodotte da «qualche sostanza diversa da me», e «questa sostanza o è un corpo» oppure «è Dio»79. Se tale sostanza è un corpo, ovviamente le cose corporee esistono. Se la sostanza in questione è Dio, anche in questo caso si può concludere che «le cose corporee esistono», perché «Dio non è ingannatore» e mi ha dato «una grande propensione a credere che» quelle idee «provengano dalle cose corporee», e non «si potrebbe concepire che egli non è ingannatore se esse provenissero da altro che dalle cose corporee»80. Proprio il carattere radicalmente soggettivistico della tradizione secondo cui la conoscenza è conoscenza disincarnata le impedisce di offrire un resoconto adeguato della conoscenza. In tale tradizione, infatti, il soggetto continua a rigirarsi nel mondo chiuso della mente senza mai riuscire a uscirne fuori, arrivando al mondo delle cose corporee. Per esempio, come abbiamo visto, Descartes fonda la sua prova dell’esistenza delle cose corporee sull’esistenza di Dio, e più precisamente sull’esistenza di un Dio non ingannatore. Ma, come pronIvi, VII, p. 53. Ibid. 77 Ivi, VII, p. 52. 78 Ibid. 79 Ivi, VII, p. 79. 80 Ivi, VII, pp. 79-80. 75 76
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tamente osservò Arnauld, per Descartes «a noi non può essere noto che Dio esiste se non perché egli viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente; dunque, prima che a noi sia noto che Dio esiste, ci deve essere noto che tutto ciò che viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente è vero»81. E, che tutto ciò che viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente sia vero non ci è affatto noto, è solo un’assunzione di Descartes. Egli fa tale assunzione perché senza di essa non sarebbe in grado di stabilire che la conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ è vera. Ma questo non la giustifica. In virtù di tale assunzione il soggetto di Descartes è costretto a rigirarsi nel mondo chiuso della mente senza mai riuscire a uscirne fuori, arrivando al mondo delle cose corporee. Con la concezione della conoscenza incarnata, invece, questo non accade perché per essa il soggetto è sempre fuori, fa parte del mondo. Perciò il suo conoscere il mondo non comporta uscire da un dentro della mente a un fuori di essa. 81
Ivi, VII, p. 214.
te indipendente e completo, cioè Dio»75. Allora, «dal solo fatto che una tale idea sia in me, o che io che ho una tale idea esista, concludo in modo così manifesto che anche Dio esiste»76. È di nuovo appellandosi al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che Dio non può essere ingannatore. Egli, infatti, argomenta che l’idea del tutto chiara e distinta di Dio che è in me è quella di un ente «che ha tutte quelle perfezioni che io non posso comprendere, ma solo in qualche modo sfiorare col pensiero, e che non è assolutamente soggetto ad alcun difetto»77. Perciò Dio «non può essere fallace; è infatti manifesto per lume naturale che ogni frode o inganno dipendono da qualche difetto»78. È ancora appellandosi, sia pure indirettamente, al suo principio radicalmente soggettivistico che Descartes stabilisce che il mondo esterno esiste. Egli, infatti, argomenta che, poiché le mie idee delle cose sensibili «si producono senza la mia cooperazione, anzi spesso anche mio malgrado», esse devono essere prodotte da «qualche sostanza diversa da me», e «questa sostanza o è un corpo» oppure «è Dio»79. Se tale sostanza è un corpo, ovviamente le cose corporee esistono. Se la sostanza in questione è Dio, anche in questo caso si può concludere che «le cose corporee esistono», perché «Dio non è ingannatore» e mi ha dato «una grande propensione a credere che» quelle idee «provengano dalle cose corporee», e non «si potrebbe concepire che egli non è ingannatore se esse provenissero da altro che dalle cose corporee»80. Proprio il carattere radicalmente soggettivistico della tradizione secondo cui la conoscenza è conoscenza disincarnata le impedisce di offrire un resoconto adeguato della conoscenza. In tale tradizione, infatti, il soggetto continua a rigirarsi nel mondo chiuso della mente senza mai riuscire a uscirne fuori, arrivando al mondo delle cose corporee. Per esempio, come abbiamo visto, Descartes fonda la sua prova dell’esistenza delle cose corporee sull’esistenza di Dio, e più precisamente sull’esistenza di un Dio non ingannatore. Ma, come pronIvi, VII, p. 53. Ibid. 77 Ivi, VII, p. 52. 78 Ibid. 79 Ivi, VII, p. 79. 80 Ivi, VII, pp. 79-80. 75 76
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tamente osservò Arnauld, per Descartes «a noi non può essere noto che Dio esiste se non perché egli viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente; dunque, prima che a noi sia noto che Dio esiste, ci deve essere noto che tutto ciò che viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente è vero»81. E, che tutto ciò che viene percepito da noi in modo chiaro ed evidente sia vero non ci è affatto noto, è solo un’assunzione di Descartes. Egli fa tale assunzione perché senza di essa non sarebbe in grado di stabilire che la conoscenza ‘Io penso, dunque sono’ è vera. Ma questo non la giustifica. In virtù di tale assunzione il soggetto di Descartes è costretto a rigirarsi nel mondo chiuso della mente senza mai riuscire a uscirne fuori, arrivando al mondo delle cose corporee. Con la concezione della conoscenza incarnata, invece, questo non accade perché per essa il soggetto è sempre fuori, fa parte del mondo. Perciò il suo conoscere il mondo non comporta uscire da un dentro della mente a un fuori di essa. 81
Ivi, VII, p. 214.
Parte terza
Lo statuto della conoscenza
Parte terza
Lo statuto della conoscenza
12.
I caratteri della conoscenza
1. Caratteri fondamentali della conoscenza Dopo aver considerato la questione delle chimere della conoscenza consideriamo ora quella dello statuto della conoscenza. Alla luce di quanto è stato detto nei capitoli precedenti appare chiaro che le chimere della conoscenza sono qualcosa di cui ci si deve liberare se si vuole sviluppare una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica. Contrariamente a quanto pretendono tali chimere, la conoscenza non ha come scopo la verità ma la plausibilità. Non è oggettiva ma condivisibile. Non è certa ma incerta. Non viene acquisita mediante l’intuizione e la deduzione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Non progredisce in virtù del rigore ma grazie a ipotesi feconde. Non viene perseguita rimanendo chiusi nel teatro della mente ma facendo uso di processi esterni alla mente. La plausibilità, la condivisibilità, l’incertezza, la formulazione di ipotesi mediante inferenze non deduttive, la fecondità, l’uso di processi esterni alla mente sono caratteri fondamentali della conoscenza. Ma che cosa si intende con essi? In questo capitolo si considerano la plausibilità, la condivisibilità, l’incertezza e la fecondità. In capitoli successivi si considereranno la formulazione di ipotesi mediante inferenze non deduttive e l’uso di processi esterni alla mente. 2. Plausibilità Un’ipotesi è plausibile se e solo se è compatibile con i dati esistenti. Questo va inteso nel senso che, confrontando le ragioni a favore e le 177
12.
I caratteri della conoscenza
1. Caratteri fondamentali della conoscenza Dopo aver considerato la questione delle chimere della conoscenza consideriamo ora quella dello statuto della conoscenza. Alla luce di quanto è stato detto nei capitoli precedenti appare chiaro che le chimere della conoscenza sono qualcosa di cui ci si deve liberare se si vuole sviluppare una filosofia rispondente ai caratteri della concezione euristica. Contrariamente a quanto pretendono tali chimere, la conoscenza non ha come scopo la verità ma la plausibilità. Non è oggettiva ma condivisibile. Non è certa ma incerta. Non viene acquisita mediante l’intuizione e la deduzione ma formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Non progredisce in virtù del rigore ma grazie a ipotesi feconde. Non viene perseguita rimanendo chiusi nel teatro della mente ma facendo uso di processi esterni alla mente. La plausibilità, la condivisibilità, l’incertezza, la formulazione di ipotesi mediante inferenze non deduttive, la fecondità, l’uso di processi esterni alla mente sono caratteri fondamentali della conoscenza. Ma che cosa si intende con essi? In questo capitolo si considerano la plausibilità, la condivisibilità, l’incertezza e la fecondità. In capitoli successivi si considereranno la formulazione di ipotesi mediante inferenze non deduttive e l’uso di processi esterni alla mente. 2. Plausibilità Un’ipotesi è plausibile se e solo se è compatibile con i dati esistenti. Questo va inteso nel senso che, confrontando le ragioni a favore e le 177
ragioni contro l’ipotesi in base ai dati esistenti, le ragioni a favore prevalgono su quelle contro. La plausibilità è una questione di ragioni. La plausibilità di un’ipotesi dipende dalle ragioni per accettarla, dalle ragioni per rifiutarla, e dal peso relativo delle une rispetto alle altre. Essa aumenta con l’aumentare delle ragioni a favore e diminuisce con l’aumentare delle ragioni contro, e viceversa diminuisce col diminuire delle ragioni a favore e aumenta col diminuire delle ragioni contro. La plausibilità è legata al contesto. Qualificare un’ipotesi come plausibile vuol dire darne una valutazione rispetto al contesto dei dati esistenti, perché equivale a dire che, in base a essi, le ragioni a favore prevalgono su quelle contro. Ma i dati esistenti non costituiscono una base di valutazione definitiva, perché il contesto può cambiare col tempo. Nel corso del confronto tra le ragioni a favore e le ragioni contro una nuova ipotesi, certe ipotesi fino a quel momento considerate plausibili possono risultare non più plausibili. L’indagine sulla plausibilità della nuova ipotesi può portare alla luce nuovi dati, o aprire nuove prospettive, tali che il rapporto tra le ragioni a favore e le ragioni contro le ipotesi considerate plausibili fino a quel momento viene ribaltato: le ragioni contro prevalgono su quelle a favore. Occorre allora modificare tali ipotesi o persino abbandonarle. Naturalmente si tende sempre a conservare le ipotesi esistenti, ma, in presenza di prove contrarie schiaccianti, alla fine esse vengono modificate o persino abbandonate. Questo non significa, però, che tali ipotesi diventino all’improvviso inutili. Esse possono darci utili indicazioni su con che cosa sostituirle. Come osserva Kant, uno può essere riluttante a «sbarazzarsi di ipotesi false perché le ha concepite e gli sembrano tanto probabili», proprio «come un uomo che ha allevato un bambino con molto sforzo e cura e poi non vuole che egli vada via, per non perdere tutto il suo lavoro, sforzo e spesa»1. Perciò, se viene scoperta una conseguenza falsa, uno «non si perderà subito d’animo, proprio come l’alchimista continua a lavorare in base all’ipotesi di fabbricare oro»2. Certo, «se una conoscenza ha una sola conseguenza falsa, allora è totalmente falsa, sebbene si possano derivare da essa alcune conse1 2
Kant 1900-, XXIV, p. 224. Ivi, XXIV, p. 889.
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guenze corrette»3. Ma, anche quando un’ipotesi si rivela falsa, non c’è ragione di disperarsi. Le ipotesi false «servono a ottenere ipotesi vere fabbricate in epoche successive, perché è impossibile che colui che conosce solo tutte le possibili vie false alla fine non debba trovare la via giusta»4. Semplicemente, si deve cercare di trarre il massimo vantaggio dalle ipotesi false 5. La plausibilità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la probabilità, la verità, la non falsificazione, la verosimiglianza, la corroborazione, la coerenza. 2.1. Probabilità La plausibilità non va confusa con la probabilità, nel senso del calcolo delle probabilità. Per esempio, Keynes afferma che «la probabilità è lo studio dei fondamenti che ci portano ad avere una preferenza razionale per una credenza rispetto a un’altra», cioè a considerare una credenza più plausibile di un’altra, e perciò «riguarda la teoria generale degli argomenti che dalle premesse portano a conclusioni che sono ragionevoli», ossia plausibili, «ma non certe»6. Dunque la probabilità comprende «quella parte della logica che si occupa di argomenti che sono razionali ma non conclusivi»7. Cioè, si occupa del ragionamento plausibile. Pertanto un’ipotesi è più plausibile di un’altra, e perciò noi abbiamo una preferenza razionale per essa, quando essa è più probabile dell’altra. Vi è dunque una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità. Specificamente, poiché gli argomenti che sono razionali ma non conclusivi comprendono gli argomenti induttivi, «la validità di ogni induzione, interpretata rigorosamente, dipende non da una questione di fatto ma dall’esistenza di una relazione di probabilità. Un argomento induttivo afferma non che una certa questione di fatto è proprio così, ma che, relativamente a certe prove, esiste una probabilità a suo favore»8. Ma la tesi dell’esistenza di una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità non ha fondamento. Per esempio, molte importanti Kant 1998, I, p. 87. Kant 1900-, XXIV, p. 225. 5 Per le idee di Kant sulle ipotesi, la probabilità e la verosimiglianza, cfr. Capozzi 2002, cap. 15. 6 Keynes 1948, pp. 97-98. 7 Ivi, p. 217. 8 Ivi, p. 221. 3 4
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ragioni contro l’ipotesi in base ai dati esistenti, le ragioni a favore prevalgono su quelle contro. La plausibilità è una questione di ragioni. La plausibilità di un’ipotesi dipende dalle ragioni per accettarla, dalle ragioni per rifiutarla, e dal peso relativo delle une rispetto alle altre. Essa aumenta con l’aumentare delle ragioni a favore e diminuisce con l’aumentare delle ragioni contro, e viceversa diminuisce col diminuire delle ragioni a favore e aumenta col diminuire delle ragioni contro. La plausibilità è legata al contesto. Qualificare un’ipotesi come plausibile vuol dire darne una valutazione rispetto al contesto dei dati esistenti, perché equivale a dire che, in base a essi, le ragioni a favore prevalgono su quelle contro. Ma i dati esistenti non costituiscono una base di valutazione definitiva, perché il contesto può cambiare col tempo. Nel corso del confronto tra le ragioni a favore e le ragioni contro una nuova ipotesi, certe ipotesi fino a quel momento considerate plausibili possono risultare non più plausibili. L’indagine sulla plausibilità della nuova ipotesi può portare alla luce nuovi dati, o aprire nuove prospettive, tali che il rapporto tra le ragioni a favore e le ragioni contro le ipotesi considerate plausibili fino a quel momento viene ribaltato: le ragioni contro prevalgono su quelle a favore. Occorre allora modificare tali ipotesi o persino abbandonarle. Naturalmente si tende sempre a conservare le ipotesi esistenti, ma, in presenza di prove contrarie schiaccianti, alla fine esse vengono modificate o persino abbandonate. Questo non significa, però, che tali ipotesi diventino all’improvviso inutili. Esse possono darci utili indicazioni su con che cosa sostituirle. Come osserva Kant, uno può essere riluttante a «sbarazzarsi di ipotesi false perché le ha concepite e gli sembrano tanto probabili», proprio «come un uomo che ha allevato un bambino con molto sforzo e cura e poi non vuole che egli vada via, per non perdere tutto il suo lavoro, sforzo e spesa»1. Perciò, se viene scoperta una conseguenza falsa, uno «non si perderà subito d’animo, proprio come l’alchimista continua a lavorare in base all’ipotesi di fabbricare oro»2. Certo, «se una conoscenza ha una sola conseguenza falsa, allora è totalmente falsa, sebbene si possano derivare da essa alcune conse1 2
Kant 1900-, XXIV, p. 224. Ivi, XXIV, p. 889.
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guenze corrette»3. Ma, anche quando un’ipotesi si rivela falsa, non c’è ragione di disperarsi. Le ipotesi false «servono a ottenere ipotesi vere fabbricate in epoche successive, perché è impossibile che colui che conosce solo tutte le possibili vie false alla fine non debba trovare la via giusta»4. Semplicemente, si deve cercare di trarre il massimo vantaggio dalle ipotesi false 5. La plausibilità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la probabilità, la verità, la non falsificazione, la verosimiglianza, la corroborazione, la coerenza. 2.1. Probabilità La plausibilità non va confusa con la probabilità, nel senso del calcolo delle probabilità. Per esempio, Keynes afferma che «la probabilità è lo studio dei fondamenti che ci portano ad avere una preferenza razionale per una credenza rispetto a un’altra», cioè a considerare una credenza più plausibile di un’altra, e perciò «riguarda la teoria generale degli argomenti che dalle premesse portano a conclusioni che sono ragionevoli», ossia plausibili, «ma non certe»6. Dunque la probabilità comprende «quella parte della logica che si occupa di argomenti che sono razionali ma non conclusivi»7. Cioè, si occupa del ragionamento plausibile. Pertanto un’ipotesi è più plausibile di un’altra, e perciò noi abbiamo una preferenza razionale per essa, quando essa è più probabile dell’altra. Vi è dunque una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità. Specificamente, poiché gli argomenti che sono razionali ma non conclusivi comprendono gli argomenti induttivi, «la validità di ogni induzione, interpretata rigorosamente, dipende non da una questione di fatto ma dall’esistenza di una relazione di probabilità. Un argomento induttivo afferma non che una certa questione di fatto è proprio così, ma che, relativamente a certe prove, esiste una probabilità a suo favore»8. Ma la tesi dell’esistenza di una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità non ha fondamento. Per esempio, molte importanti Kant 1998, I, p. 87. Kant 1900-, XXIV, p. 225. 5 Per le idee di Kant sulle ipotesi, la probabilità e la verosimiglianza, cfr. Capozzi 2002, cap. 15. 6 Keynes 1948, pp. 97-98. 7 Ivi, p. 217. 8 Ivi, p. 221. 3 4
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ipotesi universali – cioè della forma xA(x) – della meccanica classica, dell’elettricità, del magnetismo, della chimica, della biologia e della fisiologia, non sono state adottate in base alla loro probabilità, perché sono state ottenute mediante inferenze non deduttive partendo da un piccolo numero di osservazioni. Poiché il numero dei casi a cui tali ipotesi universali si riferiscono è estremamente grande, la loro probabilità è molto piccola o addirittura zero, nondimeno le ipotesi in questione sono plausibili perché sono compatibili con i dati esistenti. Pertanto non vi è una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità. In particolare è infondata l’affermazione di Keynes che la validità di ogni induzione dipende non da una questione di fatto ma dall’esistenza di una relazione di probabilità. Infatti, come si è appena detto, ipotesi ottenute mediante l’induzione possono essere plausibili pur avendo probabilità molto piccola o addirittura zero. 2.2. Verità La plausibilità non va confusa con la verità, e neppure con il criterio della verità. Per esempio, Epicuro afferma che «le opinioni sono alcune vere, altre false», dove «vere sono quelle confermate o non smentite dall’evidenza, false sono quelle smentite o non confermate dall’evidenza. La conferma è l’apprensione, tramite l’evidenza, del fatto che l’oggetto dell’opinione corrisponde all’opinione stessa», mentre «la non smentita consiste nella coerenza con i dati dell’esperienza di ciò che è supposto e presunto ma non evidente»9. Dunque la conferma e la non smentita corrispondono alla plausibilità. Ovviamente «la smentita è l’opposto della non smentita», essendo «la confutazione, da parte dei dati dell’esperienza, di ciò che è supposto ma non evidente», e «la non conferma è l’opposto della conferma: è, infatti, il caso in cui risulta evidente che l’oggetto dell’opinione non è tale quale veniva opinato»10. Perciò, «da un lato, la conferma e la non smentita» sono «il criterio della verità, dall’altro lato, la non conferma e la smentita sono il criterio della falsità», dove «l’evidenza è la base e il fondamento di tutto»11.
Ma la conferma e la non smentita, che corrispondono alla plausibilità, non sono la verità né il criterio della verità, perché si può parlare di verità e di criterio della verità solo rispetto all’unico concetto di verità che Aristotele ritiene adeguato, cioè quello della verità come intuizione dell’essenza, e tale concetto di verità è adeguato solo rispetto alla scienza essenzialistica aristotelica. Esso è inadeguato, invece, rispetto alla scienza moderna, a cui non si applica alcun concetto di verità noto ma solo il concetto di plausibilità. Perciò la conferma e la non smentita non hanno a che fare con la verità né con il criterio della verità. 2.3. Non falsificazione La plausibilità non va confusa con la non falsificazione, cioè con la mancanza di conflitti con i dati dell’osservazione. Per esempio, Popper afferma che, per vedere se una nuova ipotesi o teoria è accettabile, da essa si «derivano conclusioni mediante la deduzione logica»12. Poi «si cerca una decisione rispetto a queste (e altre) asserzioni derivate, mettendole a confronto con i risultati di applicazioni pratiche ed esperimenti. Se tale decisione è positiva, cioè, se le conclusioni singolari risultano essere accettabili, o verificate, allora la teoria ha, per il momento, superato la prova: non abbiamo trovato alcuna ragione per scartarla»13. Essa, quindi, può considerarsi plausibile. Ma, «se la decisione è negativa, o, in altri termini, se le conclusioni sono state falsificate, allora la loro falsificazione falsifica anche la teoria da cui esse erano state dedotte logicamente»14. Mentre una «decisione positiva può sostenere solo temporaneamente la teoria», una decisione negativa deve «sempre demolirla»15. Ma il concetto di non falsificazione è inadeguato perché, che un’ipotesi sia plausibile, non dipende solo dal fatto che non vi sono ragioni contro, ma anche dal fatto che vi sono ragioni a favore, altrimenti si dovrebbe accettare una miriade di ipotesi prive di interesse. Inoltre, che conclusioni dedotte logicamente da un’ipotesi siano in conflitto con qualche dato dell’osservazione non è una ragione sufficiente per considerare demolita l’ipotesi e quindi per abbandoPopper 1959, p. 32. Ivi, p. 33. 14 Ibid. 15 Ibid. 12
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VII, 211-213. 10 Ivi, VII, 215. 11 Ivi, VII, 216. 9
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ipotesi universali – cioè della forma xA(x) – della meccanica classica, dell’elettricità, del magnetismo, della chimica, della biologia e della fisiologia, non sono state adottate in base alla loro probabilità, perché sono state ottenute mediante inferenze non deduttive partendo da un piccolo numero di osservazioni. Poiché il numero dei casi a cui tali ipotesi universali si riferiscono è estremamente grande, la loro probabilità è molto piccola o addirittura zero, nondimeno le ipotesi in questione sono plausibili perché sono compatibili con i dati esistenti. Pertanto non vi è una stretta correlazione tra plausibilità e probabilità. In particolare è infondata l’affermazione di Keynes che la validità di ogni induzione dipende non da una questione di fatto ma dall’esistenza di una relazione di probabilità. Infatti, come si è appena detto, ipotesi ottenute mediante l’induzione possono essere plausibili pur avendo probabilità molto piccola o addirittura zero. 2.2. Verità La plausibilità non va confusa con la verità, e neppure con il criterio della verità. Per esempio, Epicuro afferma che «le opinioni sono alcune vere, altre false», dove «vere sono quelle confermate o non smentite dall’evidenza, false sono quelle smentite o non confermate dall’evidenza. La conferma è l’apprensione, tramite l’evidenza, del fatto che l’oggetto dell’opinione corrisponde all’opinione stessa», mentre «la non smentita consiste nella coerenza con i dati dell’esperienza di ciò che è supposto e presunto ma non evidente»9. Dunque la conferma e la non smentita corrispondono alla plausibilità. Ovviamente «la smentita è l’opposto della non smentita», essendo «la confutazione, da parte dei dati dell’esperienza, di ciò che è supposto ma non evidente», e «la non conferma è l’opposto della conferma: è, infatti, il caso in cui risulta evidente che l’oggetto dell’opinione non è tale quale veniva opinato»10. Perciò, «da un lato, la conferma e la non smentita» sono «il criterio della verità, dall’altro lato, la non conferma e la smentita sono il criterio della falsità», dove «l’evidenza è la base e il fondamento di tutto»11.
Ma la conferma e la non smentita, che corrispondono alla plausibilità, non sono la verità né il criterio della verità, perché si può parlare di verità e di criterio della verità solo rispetto all’unico concetto di verità che Aristotele ritiene adeguato, cioè quello della verità come intuizione dell’essenza, e tale concetto di verità è adeguato solo rispetto alla scienza essenzialistica aristotelica. Esso è inadeguato, invece, rispetto alla scienza moderna, a cui non si applica alcun concetto di verità noto ma solo il concetto di plausibilità. Perciò la conferma e la non smentita non hanno a che fare con la verità né con il criterio della verità. 2.3. Non falsificazione La plausibilità non va confusa con la non falsificazione, cioè con la mancanza di conflitti con i dati dell’osservazione. Per esempio, Popper afferma che, per vedere se una nuova ipotesi o teoria è accettabile, da essa si «derivano conclusioni mediante la deduzione logica»12. Poi «si cerca una decisione rispetto a queste (e altre) asserzioni derivate, mettendole a confronto con i risultati di applicazioni pratiche ed esperimenti. Se tale decisione è positiva, cioè, se le conclusioni singolari risultano essere accettabili, o verificate, allora la teoria ha, per il momento, superato la prova: non abbiamo trovato alcuna ragione per scartarla»13. Essa, quindi, può considerarsi plausibile. Ma, «se la decisione è negativa, o, in altri termini, se le conclusioni sono state falsificate, allora la loro falsificazione falsifica anche la teoria da cui esse erano state dedotte logicamente»14. Mentre una «decisione positiva può sostenere solo temporaneamente la teoria», una decisione negativa deve «sempre demolirla»15. Ma il concetto di non falsificazione è inadeguato perché, che un’ipotesi sia plausibile, non dipende solo dal fatto che non vi sono ragioni contro, ma anche dal fatto che vi sono ragioni a favore, altrimenti si dovrebbe accettare una miriade di ipotesi prive di interesse. Inoltre, che conclusioni dedotte logicamente da un’ipotesi siano in conflitto con qualche dato dell’osservazione non è una ragione sufficiente per considerare demolita l’ipotesi e quindi per abbandoPopper 1959, p. 32. Ivi, p. 33. 14 Ibid. 15 Ibid. 12
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VII, 211-213. 10 Ivi, VII, 215. 11 Ivi, VII, 216. 9
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narla. Infatti i dati dell’osservazione non sono infallibili né sono totalmente indipendenti da ipotesi, e perciò la difficoltà potrebbe dipendere da questo. Per di più potrebbe essere possibile conservare l’ipotesi modificando alcune ipotesi concomitanti. Perciò sarebbe inopportuno considerare demolita l’ipotesi e abbandonarla senza ulteriori indagini. Un esempio ben noto di ciò è dato dal fatto che, sebbene dalle ipotesi della teoria della gravitazione di Newton si deducesse che i pianeti dovevano percorrere certe orbite, l’osservazione mostrò che l’orbita di Urano si discostava considerevolmente da quella dedotta. Perciò, dal punto di vista di Popper, le ipotesi della teoria della gravitazione di Newton avrebbero dovuto considerarsi demolite ed essere abbandonate. Fortunatamente questo non avvenne perché, alla metà dell’Ottocento, Adams e Leverrier avanzarono l’ipotesi che le anomalie dell’orbita di Urano fossero dovute all’esistenza di un pianeta che esercitava una forza aggiuntiva su Urano. Calcolarono la massa e la posizione che avrebbe dovuto avere tale pianeta per determinare gli effetti osservati sull’orbita di Urano, e di lì a poco il nuovo pianeta, Nettuno, venne effettivamente scoperto. Questo esempio non è isolato, perché le ipotesi di quasi tutte le teorie scientifiche sono in conflitto con qualche dato dell’osservazione, ma non per questo vengono subito considerate demolite e abbandonate. Ciò è sottolineato già da Galilei che, contro chi critica «il sistema Copernicano dicendo, con l’autorità di Ticone, che l’eccentricità di Marte e di Venere sono altramente di quello che pose il Copernico, e parimenti che l’auge di Venere non è immobile, come il medesimo credette», osserva che chi afferma questo si comporta come «colui che voleva rovinar sin da i fondamenti la sua casa, dicendo ch’era d’architettura falsa e inabitabile, solo perché il cammino faceva fummo; e l’avrebbe fatto, se il suo compare non l’avvertiva che bastava accomodare il cammino, senza rovinare il resto»16. Se «per ogni particolare accidente che si va scoprendo di nuovo in qualche parte del cielo si deve mutar tutta la struttura del mondo, mai non si verrà a capo di nulla; perché vi assicuro che giammai non sono per osservarsi così giusti i movimenti, le grandezze, le distanze e le disposi16
Galilei 1968, VI, p. 533.
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zioni degli orbi e delle stelle, che continuamente non sieno per aver bisogno di correzioni»17. Perciò, «dato che il Copernico si abbagliasse in quella eccentricità e in quell’auge, emendisi questo, che non ha a che far niente coi fondamenti e con la massima struttura di tutta la fabbrica»18. Dunque «lasciate stare i fondamenti della fabbrica Copernicana, e racconciate a vostro modo l’eccentricità di Marte e di Venere. E movete il suo auge»19. 2.4. Verosimiglianza La plausibilità non va confusa con la verosimiglianza, cioè con l’approssimazione alla verità. Per esempio, Popper afferma che «lo scopo della scienza» è «una migliore approssimazione alla verità»20. Per chiarire che cosa debba intendersi con questo, chiamiamo ‘contenuto di verità’ di una teoria «la classe di tutte le asserzioni vere che seguono» da essa e «che non sono tautologie»21. E ‘contenuto di falsità’ di una teoria la classe di tutte le asserzioni false che seguono da essa. Allora, se A e B sono due teorie confrontabili tra loro, diciamo che B è una migliore approssimazione alla verità, o, in breve, è più verosimile, di A se e solo se o «il contenuto di verità, ma non il contenuto di falsità» di A è più piccolo di quello di B, oppure il contenuto di verità di A non è più grande di quello di B, «ma il suo contenuto di falsità è più grande»22. Una teoria è tanto più plausibile quanto più è verosimile, in questo senso. Ma il concetto di verosimiglianza è inadeguato perché, in base a esso, nessuna ipotesi A può essere più verosimile della sua negazione A se da A, come è usuale, non seguono tutte le asserzioni vere. Infatti, se da A non seguono tutte le asserzioni vere, esisterà qualche asserzione vera, diciamo C, che non segue da A. Consideriamo allora l’asserzione C A. Poiché C è vera, anche C A è vera. Inoltre C A segue da A. Perciò C A appartiene al contenuto di verità di A. D’altra parte C A non appartiene al contenuto di verità di A. Infatti, supponiamo che C A appartenga al contenuIvi, VI, p. 534. Ivi, VI, p. 533. 19 Ivi, VI, p. 534. 20 Popper 1972, p. 57. 21 Ivi, p. 48. 22 Ivi, p. 52. 17 18
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narla. Infatti i dati dell’osservazione non sono infallibili né sono totalmente indipendenti da ipotesi, e perciò la difficoltà potrebbe dipendere da questo. Per di più potrebbe essere possibile conservare l’ipotesi modificando alcune ipotesi concomitanti. Perciò sarebbe inopportuno considerare demolita l’ipotesi e abbandonarla senza ulteriori indagini. Un esempio ben noto di ciò è dato dal fatto che, sebbene dalle ipotesi della teoria della gravitazione di Newton si deducesse che i pianeti dovevano percorrere certe orbite, l’osservazione mostrò che l’orbita di Urano si discostava considerevolmente da quella dedotta. Perciò, dal punto di vista di Popper, le ipotesi della teoria della gravitazione di Newton avrebbero dovuto considerarsi demolite ed essere abbandonate. Fortunatamente questo non avvenne perché, alla metà dell’Ottocento, Adams e Leverrier avanzarono l’ipotesi che le anomalie dell’orbita di Urano fossero dovute all’esistenza di un pianeta che esercitava una forza aggiuntiva su Urano. Calcolarono la massa e la posizione che avrebbe dovuto avere tale pianeta per determinare gli effetti osservati sull’orbita di Urano, e di lì a poco il nuovo pianeta, Nettuno, venne effettivamente scoperto. Questo esempio non è isolato, perché le ipotesi di quasi tutte le teorie scientifiche sono in conflitto con qualche dato dell’osservazione, ma non per questo vengono subito considerate demolite e abbandonate. Ciò è sottolineato già da Galilei che, contro chi critica «il sistema Copernicano dicendo, con l’autorità di Ticone, che l’eccentricità di Marte e di Venere sono altramente di quello che pose il Copernico, e parimenti che l’auge di Venere non è immobile, come il medesimo credette», osserva che chi afferma questo si comporta come «colui che voleva rovinar sin da i fondamenti la sua casa, dicendo ch’era d’architettura falsa e inabitabile, solo perché il cammino faceva fummo; e l’avrebbe fatto, se il suo compare non l’avvertiva che bastava accomodare il cammino, senza rovinare il resto»16. Se «per ogni particolare accidente che si va scoprendo di nuovo in qualche parte del cielo si deve mutar tutta la struttura del mondo, mai non si verrà a capo di nulla; perché vi assicuro che giammai non sono per osservarsi così giusti i movimenti, le grandezze, le distanze e le disposi16
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zioni degli orbi e delle stelle, che continuamente non sieno per aver bisogno di correzioni»17. Perciò, «dato che il Copernico si abbagliasse in quella eccentricità e in quell’auge, emendisi questo, che non ha a che far niente coi fondamenti e con la massima struttura di tutta la fabbrica»18. Dunque «lasciate stare i fondamenti della fabbrica Copernicana, e racconciate a vostro modo l’eccentricità di Marte e di Venere. E movete il suo auge»19. 2.4. Verosimiglianza La plausibilità non va confusa con la verosimiglianza, cioè con l’approssimazione alla verità. Per esempio, Popper afferma che «lo scopo della scienza» è «una migliore approssimazione alla verità»20. Per chiarire che cosa debba intendersi con questo, chiamiamo ‘contenuto di verità’ di una teoria «la classe di tutte le asserzioni vere che seguono» da essa e «che non sono tautologie»21. E ‘contenuto di falsità’ di una teoria la classe di tutte le asserzioni false che seguono da essa. Allora, se A e B sono due teorie confrontabili tra loro, diciamo che B è una migliore approssimazione alla verità, o, in breve, è più verosimile, di A se e solo se o «il contenuto di verità, ma non il contenuto di falsità» di A è più piccolo di quello di B, oppure il contenuto di verità di A non è più grande di quello di B, «ma il suo contenuto di falsità è più grande»22. Una teoria è tanto più plausibile quanto più è verosimile, in questo senso. Ma il concetto di verosimiglianza è inadeguato perché, in base a esso, nessuna ipotesi A può essere più verosimile della sua negazione A se da A, come è usuale, non seguono tutte le asserzioni vere. Infatti, se da A non seguono tutte le asserzioni vere, esisterà qualche asserzione vera, diciamo C, che non segue da A. Consideriamo allora l’asserzione C A. Poiché C è vera, anche C A è vera. Inoltre C A segue da A. Perciò C A appartiene al contenuto di verità di A. D’altra parte C A non appartiene al contenuto di verità di A. Infatti, supponiamo che C A appartenga al contenuIvi, VI, p. 534. Ivi, VI, p. 533. 19 Ivi, VI, p. 534. 20 Popper 1972, p. 57. 21 Ivi, p. 48. 22 Ivi, p. 52. 17 18
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to di verità di A. Allora C A segue da A. Da ciò, e dal fatto che banalmente A segue da A, si ottiene che C segue da A. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude che C A non appartiene al contenuto di verità di A. Poiché C A appartiene al contenuto di verità di A ma non appartiene al contenuto di verità di A, ne segue che A non può essere più verosimile di A. Ma, che nessuna ipotesi A possa essere più verosimile della sua negazione A (se da A non seguono tutte le asserzioni vere), è assurdo. 2.5. Corroborazione La plausibilità non va confusa con la corroborazione, cioè con la capacità di superare controlli. Per esempio, Popper afferma che, «finché una teoria resiste a controlli dettagliati e severi e non è soppiantata da un’altra teoria nel corso del progresso scientifico, possiamo dire che essa ‘ha mostrato la propria tempra’ o che è corroborata»23. Dunque è plausibile. Quanto più severi sono i controlli a cui una teoria ha resistito, tanto maggiore sarà il suo grado di corroborazione, dove per grado di corroborazione si intende «il suo grado di controllabilità; la severità dei controlli a cui è stata sottoposta; e il modo in cui ha resistito a questi controlli»24. Il «grado di corroborazione costituisce una guida alla preferenza tra due teorie, a un certo stadio della discussione, rispetto alla loro allora apparente approssimazione alla verità», perché ci dice che «una delle teorie offerte sembra, alla luce della discussione, quella più vicina alla verità»25. Quindi sembra più plausibile dell’altra. Ma il concetto di corroborazione, cioè di capacità di superare i controlli, è inadeguato. In primo luogo, i controlli dipendono dai dati dell’osservazione, che non sono infallibili né sono totalmente indipendenti da ipotesi. Quale valore decisivo possono avere allora i controlli nel corroborare un’ipotesi? In secondo luogo, se una teoria non supera un controllo, vi sono infinite teorie alternative che potrebbero considerarsi corroborate da esso, perciò, come riconosce lo stesso Popper, «il numero delle teorie che potrebbero essere vere rimane infinito»26. Ma allora, perPopper 1959, p. 33. Ivi, p. 18. 25 Ivi, p. 103. 26 Ivi, p. 15.
ché si dovrebbe preferire una di tali teorie a tutte le altre, se sono egualmente corroborate? In terzo luogo, che una teoria abbia un grado di corroborazione anche molto grande non garantisce che essa resista al prossimo controllo. Come riconosce lo stesso Popper, la corroborazione è solo «un rapporto di valutazione sulla performance passata», ma «non dice assolutamente nulla sulla performance futura, o sulla ‘affidabilità’, di una teoria»27. Essa, quindi, non dice nulla sulla sua «idoneità a sopravvivere in futuro, a resistere ai controlli futuri», così come «nessuno si aspetta che una specie che è sopravvissuta in passato sopravvivrà perciò in futuro»28. Perché allora la corroborazione dovrebbe valere come argomento a favore di una teoria? In quarto luogo, secondo Popper, per quanto grande sia il grado di corroborazione di una teoria, cioè, per quanto severi siano i controlli a cui essa ha resistito, è «sempre possibile che la teoria possa essere falsa, anche se supera tutti questi controlli»29. Ma allora perché il grado di corroborazione dovrebbe costituire una guida nella preferenza tra due teorie rispetto alla loro apparente approssimazione alla verità, dal momento che una teoria falsa non può considerarsi un’approssimazione alla verità in alcun senso, neppure in quello apparente? 2.6. Coerenza La plausibilità non va confusa con la coerenza, cioè con la non contraddittorietà. Come abbiamo visto, in base al concetto di verità come coerenza di Hilbert, un’asserzione è vera se e solo se è coerente – cioè non è in contraddizione – con un insieme specificato di altre asserzioni. Dunque, in base a tale concetto di verità, ‘vero’ è identico a ‘non contraddittorio’, e la non contraddittorietà è la condizione della plausibilità. Ma il concetto di verità come coerenza di Hilbert non ha nulla a che fare con la plausibilità, perché è un concetto assoluto. In base a esso, infatti, un’asserzione è vera se e solo se è coerente con un insieme specificato di altre asserzioni, perciò rispetto a esse è vera in un senso assoluto. Il concetto di plausibilità, invece, è un concetto
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Ivi, p. 18. Ivi, p. 19. 29 Ivi, p. 81.
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to di verità di A. Allora C A segue da A. Da ciò, e dal fatto che banalmente A segue da A, si ottiene che C segue da A. Si ha così una contraddizione. Se ne conclude che C A non appartiene al contenuto di verità di A. Poiché C A appartiene al contenuto di verità di A ma non appartiene al contenuto di verità di A, ne segue che A non può essere più verosimile di A. Ma, che nessuna ipotesi A possa essere più verosimile della sua negazione A (se da A non seguono tutte le asserzioni vere), è assurdo. 2.5. Corroborazione La plausibilità non va confusa con la corroborazione, cioè con la capacità di superare controlli. Per esempio, Popper afferma che, «finché una teoria resiste a controlli dettagliati e severi e non è soppiantata da un’altra teoria nel corso del progresso scientifico, possiamo dire che essa ‘ha mostrato la propria tempra’ o che è corroborata»23. Dunque è plausibile. Quanto più severi sono i controlli a cui una teoria ha resistito, tanto maggiore sarà il suo grado di corroborazione, dove per grado di corroborazione si intende «il suo grado di controllabilità; la severità dei controlli a cui è stata sottoposta; e il modo in cui ha resistito a questi controlli»24. Il «grado di corroborazione costituisce una guida alla preferenza tra due teorie, a un certo stadio della discussione, rispetto alla loro allora apparente approssimazione alla verità», perché ci dice che «una delle teorie offerte sembra, alla luce della discussione, quella più vicina alla verità»25. Quindi sembra più plausibile dell’altra. Ma il concetto di corroborazione, cioè di capacità di superare i controlli, è inadeguato. In primo luogo, i controlli dipendono dai dati dell’osservazione, che non sono infallibili né sono totalmente indipendenti da ipotesi. Quale valore decisivo possono avere allora i controlli nel corroborare un’ipotesi? In secondo luogo, se una teoria non supera un controllo, vi sono infinite teorie alternative che potrebbero considerarsi corroborate da esso, perciò, come riconosce lo stesso Popper, «il numero delle teorie che potrebbero essere vere rimane infinito»26. Ma allora, perPopper 1959, p. 33. Ivi, p. 18. 25 Ivi, p. 103. 26 Ivi, p. 15.
ché si dovrebbe preferire una di tali teorie a tutte le altre, se sono egualmente corroborate? In terzo luogo, che una teoria abbia un grado di corroborazione anche molto grande non garantisce che essa resista al prossimo controllo. Come riconosce lo stesso Popper, la corroborazione è solo «un rapporto di valutazione sulla performance passata», ma «non dice assolutamente nulla sulla performance futura, o sulla ‘affidabilità’, di una teoria»27. Essa, quindi, non dice nulla sulla sua «idoneità a sopravvivere in futuro, a resistere ai controlli futuri», così come «nessuno si aspetta che una specie che è sopravvissuta in passato sopravvivrà perciò in futuro»28. Perché allora la corroborazione dovrebbe valere come argomento a favore di una teoria? In quarto luogo, secondo Popper, per quanto grande sia il grado di corroborazione di una teoria, cioè, per quanto severi siano i controlli a cui essa ha resistito, è «sempre possibile che la teoria possa essere falsa, anche se supera tutti questi controlli»29. Ma allora perché il grado di corroborazione dovrebbe costituire una guida nella preferenza tra due teorie rispetto alla loro apparente approssimazione alla verità, dal momento che una teoria falsa non può considerarsi un’approssimazione alla verità in alcun senso, neppure in quello apparente? 2.6. Coerenza La plausibilità non va confusa con la coerenza, cioè con la non contraddittorietà. Come abbiamo visto, in base al concetto di verità come coerenza di Hilbert, un’asserzione è vera se e solo se è coerente – cioè non è in contraddizione – con un insieme specificato di altre asserzioni. Dunque, in base a tale concetto di verità, ‘vero’ è identico a ‘non contraddittorio’, e la non contraddittorietà è la condizione della plausibilità. Ma il concetto di verità come coerenza di Hilbert non ha nulla a che fare con la plausibilità, perché è un concetto assoluto. In base a esso, infatti, un’asserzione è vera se e solo se è coerente con un insieme specificato di altre asserzioni, perciò rispetto a esse è vera in un senso assoluto. Il concetto di plausibilità, invece, è un concetto
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relativo, perché un’asserzione è plausibile se e solo se è compatibile con i dati esistenti, ma può non rimanere più tale in seguito all’acquisizione di nuovi dati. Inoltre, il concetto di verità come coerenza di Hilbert è un concetto atemporale perché, se un’asserzione è coerente con un insieme specificato di altre asserzioni, essa rimarrà tale quali che siano i nuovi dati acquisiti in futuro. Invece il concetto di plausibilità è un concetto dipendente dal tempo, perché un’asserzione plausibile può non rimanere più tale in futuro. 3. Condivisibilità Un’ipotesi è condivisibile quando rispetto a essa più soggetti umani, e possibilmente tutti i soggetti umani, convengono che le ragioni a favore superano nettamente le ragioni contro. La condivisibilità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la soggettività, l’oggettività. 3.1. Soggettività La condivisibilità non va confusa con la soggettività, cioè con il tener per vero dei singoli. Per esempio, contro chi «equipara la verità e la validità generale e fonda questa sulla certezza generale dell’oggetto del quale si giudica, e tale certezza la fonda sull’accordo generale di coloro che giudicano», quindi sulla condivisibilità, Frege obietta che «così la verità viene ricondotta al tener per vero dei singoli»30. In questo modo «tutto sbocca nell’idealismo; anzi, più coerentemente, nel solipsismo» perché, «se non potessimo cogliere altro che ciò che è in noi stessi, allora sarebbero impossibili sia un conflitto di opinioni sia un accordo reciproco, perché mancherebbe un terreno comune»31. Al contrario, «quando si coglie o si pensa un pensiero, non lo si produce ma si entra in una certa relazione con esso, che esisteva già prima»32. Un pensiero «non è il risultato di un processo interiore o di un’attività mentale dell’uomo, ma è qualcosa di oggettivo, qualcosa che è esattamente identico per tutti gli esseri razionali, per tutti coloro che sono in grado di coglierlo, oggettivo come il Sole»33. E, coFrege 1962, I, p. XV. Ivi, I, p. XIX. 32 Frege 1990, p. 354, nota 5. 33 Frege 1969, p. 7.
me il Sole, esso «è ciò che è», anche se «a uno può apparire in un modo, a un altro in un altro»34. Ma l’affermazione che, quando si coglie o si pensa un pensiero, non lo si produce ma si entra in una certa relazione con esso, che esisteva già prima, trascura che il mio cogliere un pensiero è pur sempre il mio cogliere. Io non posso superare questa condizione confrontando il mio cogliere con il cogliere degli altri, perché per farlo dovrei poter avere una conoscenza di quel pensiero che prescindesse non soltanto dalla prospettiva particolare di qualsiasi singolo soggetto umano, ma dalla prospettiva particolare di qualsiasi singola creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani, e una tale conoscenza è impossibile. Anche se un pensiero non fosse il risultato di un processo interiore o di un’attività mentale di un essere umano ma fosse qualcosa di oggettivo, potrebbe darsi che uno lo colga in un modo e un altro in un altro. Perciò è ingiustificato dire, come fa Frege, che, come il Sole, un pensiero è ciò che è. Esso può benissimo essere ciò che è, ma quello che io so di esso è solo quello che ne colgo, e nulla mi assicura che quello che ne colgo sia ciò che è. 3.2. Oggettività La condivisibilità non va confusa con l’oggettività, cioè con l’indipendenza da ogni soggetto umano. Per esempio, Popper afferma che «l’oggettività delle asserzioni scientifiche consiste nel fatto che esse possono essere controllate intersoggettivamente»35. Più in generale, consiste nel fatto che esse possono essere criticate intersoggettivamente, perché «il controllo intersoggettivo è solo un aspetto molto importante dell’idea più generale di critica intersoggettiva, o, in altri termini, dell’idea di mutuo controllo razionale mediante discussione critica»36. Dunque l’oggettività consiste nella condivisibilità. Ma l’affermazione che l’oggettività consiste nella condivisibilità trascura che una scienza condivisibile è una scienza umana, e quindi strettamente legata alle capacità, forme e modalità conoscitive degli esseri umani. L’unica scienza del mondo che possiamo sperare di avere è solo una scienza basata su tali capacità, forme e modalità conoscitive.
30
Ibid. Popper 1959, p. 44. 36 Ivi, p. 44, nota *1.
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relativo, perché un’asserzione è plausibile se e solo se è compatibile con i dati esistenti, ma può non rimanere più tale in seguito all’acquisizione di nuovi dati. Inoltre, il concetto di verità come coerenza di Hilbert è un concetto atemporale perché, se un’asserzione è coerente con un insieme specificato di altre asserzioni, essa rimarrà tale quali che siano i nuovi dati acquisiti in futuro. Invece il concetto di plausibilità è un concetto dipendente dal tempo, perché un’asserzione plausibile può non rimanere più tale in futuro. 3. Condivisibilità Un’ipotesi è condivisibile quando rispetto a essa più soggetti umani, e possibilmente tutti i soggetti umani, convengono che le ragioni a favore superano nettamente le ragioni contro. La condivisibilità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la soggettività, l’oggettività. 3.1. Soggettività La condivisibilità non va confusa con la soggettività, cioè con il tener per vero dei singoli. Per esempio, contro chi «equipara la verità e la validità generale e fonda questa sulla certezza generale dell’oggetto del quale si giudica, e tale certezza la fonda sull’accordo generale di coloro che giudicano», quindi sulla condivisibilità, Frege obietta che «così la verità viene ricondotta al tener per vero dei singoli»30. In questo modo «tutto sbocca nell’idealismo; anzi, più coerentemente, nel solipsismo» perché, «se non potessimo cogliere altro che ciò che è in noi stessi, allora sarebbero impossibili sia un conflitto di opinioni sia un accordo reciproco, perché mancherebbe un terreno comune»31. Al contrario, «quando si coglie o si pensa un pensiero, non lo si produce ma si entra in una certa relazione con esso, che esisteva già prima»32. Un pensiero «non è il risultato di un processo interiore o di un’attività mentale dell’uomo, ma è qualcosa di oggettivo, qualcosa che è esattamente identico per tutti gli esseri razionali, per tutti coloro che sono in grado di coglierlo, oggettivo come il Sole»33. E, coFrege 1962, I, p. XV. Ivi, I, p. XIX. 32 Frege 1990, p. 354, nota 5. 33 Frege 1969, p. 7.
me il Sole, esso «è ciò che è», anche se «a uno può apparire in un modo, a un altro in un altro»34. Ma l’affermazione che, quando si coglie o si pensa un pensiero, non lo si produce ma si entra in una certa relazione con esso, che esisteva già prima, trascura che il mio cogliere un pensiero è pur sempre il mio cogliere. Io non posso superare questa condizione confrontando il mio cogliere con il cogliere degli altri, perché per farlo dovrei poter avere una conoscenza di quel pensiero che prescindesse non soltanto dalla prospettiva particolare di qualsiasi singolo soggetto umano, ma dalla prospettiva particolare di qualsiasi singola creatura possibile, anche molto diversa dagli esseri umani, e una tale conoscenza è impossibile. Anche se un pensiero non fosse il risultato di un processo interiore o di un’attività mentale di un essere umano ma fosse qualcosa di oggettivo, potrebbe darsi che uno lo colga in un modo e un altro in un altro. Perciò è ingiustificato dire, come fa Frege, che, come il Sole, un pensiero è ciò che è. Esso può benissimo essere ciò che è, ma quello che io so di esso è solo quello che ne colgo, e nulla mi assicura che quello che ne colgo sia ciò che è. 3.2. Oggettività La condivisibilità non va confusa con l’oggettività, cioè con l’indipendenza da ogni soggetto umano. Per esempio, Popper afferma che «l’oggettività delle asserzioni scientifiche consiste nel fatto che esse possono essere controllate intersoggettivamente»35. Più in generale, consiste nel fatto che esse possono essere criticate intersoggettivamente, perché «il controllo intersoggettivo è solo un aspetto molto importante dell’idea più generale di critica intersoggettiva, o, in altri termini, dell’idea di mutuo controllo razionale mediante discussione critica»36. Dunque l’oggettività consiste nella condivisibilità. Ma l’affermazione che l’oggettività consiste nella condivisibilità trascura che una scienza condivisibile è una scienza umana, e quindi strettamente legata alle capacità, forme e modalità conoscitive degli esseri umani. L’unica scienza del mondo che possiamo sperare di avere è solo una scienza basata su tali capacità, forme e modalità conoscitive.
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4. Incertezza Un’ipotesi è incerta quando non è mai definitivamente sicura ma su essa si può sempre avere qualche dubbio. L’incertezza non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: l’ignoranza, la mancanza di evidenza. 4.1. Ignoranza L’incertezza non va confusa con l’ignoranza, cioè con la mancanza di sapere. Per esempio, Kant afferma che il sapere è un «tener per vero» che è «sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», dove «la sufficienza soggettiva si dice convinzione (per me stesso), quella oggettiva si dice certezza (per chiunque)»37. Dunque il sapere implica la certezza, e perciò l’incertezza implica la mancanza di sapere. Ma questo modo di intendere l’incertezza è inadeguato, perché in base a esso non potrebbe mai esserci sapere, dal momento che le ipotesi sono sempre incerte. Nessuna ipotesi è mai conclusivamente giustificata e certa, perché in ogni momento possono emergere nuovi dati che possono mostrarne l’implausibilità. Perciò tutte le ipotesi sono fallibili e quindi incerte. 4.2. Mancanza di evidenza L’incertezza non va confusa con la mancanza di evidenza, cioè con la mancanza di capacità di manifestarsi della cosa. Per esempio, Husserl afferma che, «ove manchi l’evidenza», ossia la capacità di manifestarsi della cosa, «io non posso pretendere alcuna validità definitiva»38. Quando invece vi è l’evidenza, io colgo una cosa «nella piena certezza di questo essere, così da escludere quindi ogni dubbio»39. Dunque l’evidenza implica la certezza, e perciò l’incertezza implica la mancanza di evidenza. Ma questo modo di intendere l’incertezza è inadeguato perché l’evidenza non implica la certezza. Per esempio, la nozione di numero naturale è chiara e gli assiomi dell’aritmetica di Peano sono evidenti rispetto a essa, ma per il secondo teorema di incompletezza di Gödel la loro coerenza non è dimostrabile con i metodi assolutamente certi
della matematica finitaria. Perciò non si può dire che l’aritmetica di Peano sia certa neppure nel senso ristretto che se ne può dimostrare la coerenza con metodi assolutamente certi. Dunque l’evidenza degli assiomi dell’aritmetica di Peano non implica la loro certezza. 5. Fecondità Un’ipotesi è feconda quando, oltre a essere plausibile, è anche fruttuosa per l’indagine. La fecondità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche, la possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali. 5.1. Capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche La fecondità non va confusa con la capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche. Per esempio, Kreisel e MacIntyre affermano che il metodo assiomatico è fecondo perché fornisce «una strategia sia per trovare sia per ricordare dimostrazioni»40. Relativamente «poche proprietà, le poche cosiddette strutture fondamentali del Bourbaki, sono adeguate per strategie simili in un dominio molto ampio della matematica»41. Certo, occorrono «abilità aggiuntive» oltre al metodo assiomatico «perché la scelta appropriata in quali termini vada generalizzata una data dimostrazione o branca della matematica è notoriamente delicata»42. Tuttavia il metodo assiomatico fornisce la strategia generale. Stranamente quest’uso «dell’analisi assiomatica come strategia dimostrativa non sembra molto noto a coloro, come Pólya, che scrivono di euristica»43. Ma questo modo di intendere la fecondità è inadeguato. Infatti, le dimostrazioni non si trovano mediante il metodo assiomatico bensì mediante il metodo analitico, perché il metodo assiomatico serve solo per organizzare e presentare dimostrazioni già trovate. Né le dimostrazioni si ricordano mediante il metodo assiomatico, perché le Kreisel-MacIntyre 1982, p. 232. Ibid. 42 Ivi, pp. 232-233. 43 Ivi, p. 233. 40
Kant 1900-, III, p. 533 (B 850). 38 Husserl 1950-, I, p. 54. 39 Ivi, I, p. 56. 37
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4. Incertezza Un’ipotesi è incerta quando non è mai definitivamente sicura ma su essa si può sempre avere qualche dubbio. L’incertezza non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: l’ignoranza, la mancanza di evidenza. 4.1. Ignoranza L’incertezza non va confusa con l’ignoranza, cioè con la mancanza di sapere. Per esempio, Kant afferma che il sapere è un «tener per vero» che è «sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», dove «la sufficienza soggettiva si dice convinzione (per me stesso), quella oggettiva si dice certezza (per chiunque)»37. Dunque il sapere implica la certezza, e perciò l’incertezza implica la mancanza di sapere. Ma questo modo di intendere l’incertezza è inadeguato, perché in base a esso non potrebbe mai esserci sapere, dal momento che le ipotesi sono sempre incerte. Nessuna ipotesi è mai conclusivamente giustificata e certa, perché in ogni momento possono emergere nuovi dati che possono mostrarne l’implausibilità. Perciò tutte le ipotesi sono fallibili e quindi incerte. 4.2. Mancanza di evidenza L’incertezza non va confusa con la mancanza di evidenza, cioè con la mancanza di capacità di manifestarsi della cosa. Per esempio, Husserl afferma che, «ove manchi l’evidenza», ossia la capacità di manifestarsi della cosa, «io non posso pretendere alcuna validità definitiva»38. Quando invece vi è l’evidenza, io colgo una cosa «nella piena certezza di questo essere, così da escludere quindi ogni dubbio»39. Dunque l’evidenza implica la certezza, e perciò l’incertezza implica la mancanza di evidenza. Ma questo modo di intendere l’incertezza è inadeguato perché l’evidenza non implica la certezza. Per esempio, la nozione di numero naturale è chiara e gli assiomi dell’aritmetica di Peano sono evidenti rispetto a essa, ma per il secondo teorema di incompletezza di Gödel la loro coerenza non è dimostrabile con i metodi assolutamente certi
della matematica finitaria. Perciò non si può dire che l’aritmetica di Peano sia certa neppure nel senso ristretto che se ne può dimostrare la coerenza con metodi assolutamente certi. Dunque l’evidenza degli assiomi dell’aritmetica di Peano non implica la loro certezza. 5. Fecondità Un’ipotesi è feconda quando, oltre a essere plausibile, è anche fruttuosa per l’indagine. La fecondità non va confusa con altre nozioni con cui talora viene mescolata: la capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche, la possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali. 5.1. Capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche La fecondità non va confusa con la capacità di trovare e ricordare dimostrazioni assiomatiche. Per esempio, Kreisel e MacIntyre affermano che il metodo assiomatico è fecondo perché fornisce «una strategia sia per trovare sia per ricordare dimostrazioni»40. Relativamente «poche proprietà, le poche cosiddette strutture fondamentali del Bourbaki, sono adeguate per strategie simili in un dominio molto ampio della matematica»41. Certo, occorrono «abilità aggiuntive» oltre al metodo assiomatico «perché la scelta appropriata in quali termini vada generalizzata una data dimostrazione o branca della matematica è notoriamente delicata»42. Tuttavia il metodo assiomatico fornisce la strategia generale. Stranamente quest’uso «dell’analisi assiomatica come strategia dimostrativa non sembra molto noto a coloro, come Pólya, che scrivono di euristica»43. Ma questo modo di intendere la fecondità è inadeguato. Infatti, le dimostrazioni non si trovano mediante il metodo assiomatico bensì mediante il metodo analitico, perché il metodo assiomatico serve solo per organizzare e presentare dimostrazioni già trovate. Né le dimostrazioni si ricordano mediante il metodo assiomatico, perché le Kreisel-MacIntyre 1982, p. 232. Ibid. 42 Ivi, pp. 232-233. 43 Ivi, p. 233. 40
Kant 1900-, III, p. 533 (B 850). 38 Husserl 1950-, I, p. 54. 39 Ivi, I, p. 56. 37
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dimostrazioni basate su tale metodo sono spesso artificiose e per nulla memorabili. Presentando solo il risultato finale della ricerca, stabilito per una via del tutto diversa da quella attraverso cui il risultato è stato raggiunto, esse occultano il processo mediante il quale si è arrivati al risultato finale, e così contribuiscono a fare della matematica una disciplina difficile. 5.2. Possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali La fecondità non va confusa con la possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali. Per esempio, Azzouni afferma che il metodo assiomatico formale è fecondo perché «le dimostrazioni matematiche ordinarie indicano (l’una o l’altra) derivazione controllabile meccanicamente di teoremi dalle assunzioni che quelle dimostrazioni matematiche ordinarie presuppongono»44. Quando «i matematici accettano una dimostrazione di un teorema, essi hanno riconosciuto una derivazione (di quel teorema) come situata da qualche parte in una famiglia di sistemi algoritmici»45. Certo, «la pratica quotidiana dei matematici non consiste nell’eseguire effettivamente tali derivazioni ma solo nell’indicarle a se stessi o ad altri nella loro professione»46. Nondimeno, sono le derivazioni che stanno alla base della capacità dei matematici di riconoscere «se l’una o l’altra dimostrazione è o non è (dovrebbe essere o non dovrebbe essere) convincente»47. Questo dipende dal fatto che «le derivazioni sono (in linea di principio) controllabili meccanicamente»48. Ciò spiega perché i matematici riescono così facilmente «a concordare tra loro se una dimostrazione stabilisce convincentemente un teorema»49. Ma questo modo di intendere la fecondità è inadeguato. Infatti, dire che le dimostrazioni matematiche ordinarie indicano derivazioni formali anche se la pratica quotidiana dei matematici non consiste nell’eseguirle effettivamente, trascura che il passaggio dalle dimostrazioni matematiche ordinarie alle derivazioni formali non conAzzouni 2004, p. 105. Ivi, p. 100. 46 Ivi, p. 95. 47 Ivi, p. 83. 48 Ivi, p. 84. 49 Ibid. 44 45
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siste semplicemente in una ‘indicazione’, richiede un’analisi del significato, che è un’operazione complessa, facilmente soggetta a errori e non controllabile meccanicamente. Perciò è infondato dire che un matematico può indicare una derivazione formale senza eseguirla effettivamente. Inoltre, anche se il passaggio dalle dimostrazioni matematiche ordinarie alle derivazioni formali consistesse semplicemente in una ‘indicazione’, il problema se una dimostrazione stabilisca convincentemente un teorema si trasformerebbe in quello della correttezza delle derivazioni formali, e quindi nel problema della correttezza dei programmi per controllare la correttezza delle derivazioni formali. Ma, come si è già osservato, per il teorema di Rice non esiste alcun algoritmo che permetta di controllare la correttezza dei programmi. Alla base della credenza che il metodo assiomatico formale sia fecondo perché permette di controllare teoremi mediante derivazioni formali vi è l’assunzione che, poiché le derivazioni formali sono controllabili meccanicamente, rappresentando le dimostrazioni come derivazioni formali se ne assicurerebbe la controllabilità meccanica e quindi la certezza. Ma una dimostrazione non diverrebbe più certa con l’essere rappresentata mediante una derivazione formale. Semplicemente, i dubbi sulla dimostrazione si trasformerebbero in dubbi sulla correttezza della rappresentazione e sulla correttezza del programma per il controllo delle derivazioni formali. Anche volendo prescindere da questi ultimi, rimarrebbero i dubbi sugli assiomi da cui partono le dimostrazioni, e tali dubbi, in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, sono ineliminabili.
dimostrazioni basate su tale metodo sono spesso artificiose e per nulla memorabili. Presentando solo il risultato finale della ricerca, stabilito per una via del tutto diversa da quella attraverso cui il risultato è stato raggiunto, esse occultano il processo mediante il quale si è arrivati al risultato finale, e così contribuiscono a fare della matematica una disciplina difficile. 5.2. Possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali La fecondità non va confusa con la possibilità di controllare teoremi mediante derivazioni formali. Per esempio, Azzouni afferma che il metodo assiomatico formale è fecondo perché «le dimostrazioni matematiche ordinarie indicano (l’una o l’altra) derivazione controllabile meccanicamente di teoremi dalle assunzioni che quelle dimostrazioni matematiche ordinarie presuppongono»44. Quando «i matematici accettano una dimostrazione di un teorema, essi hanno riconosciuto una derivazione (di quel teorema) come situata da qualche parte in una famiglia di sistemi algoritmici»45. Certo, «la pratica quotidiana dei matematici non consiste nell’eseguire effettivamente tali derivazioni ma solo nell’indicarle a se stessi o ad altri nella loro professione»46. Nondimeno, sono le derivazioni che stanno alla base della capacità dei matematici di riconoscere «se l’una o l’altra dimostrazione è o non è (dovrebbe essere o non dovrebbe essere) convincente»47. Questo dipende dal fatto che «le derivazioni sono (in linea di principio) controllabili meccanicamente»48. Ciò spiega perché i matematici riescono così facilmente «a concordare tra loro se una dimostrazione stabilisce convincentemente un teorema»49. Ma questo modo di intendere la fecondità è inadeguato. Infatti, dire che le dimostrazioni matematiche ordinarie indicano derivazioni formali anche se la pratica quotidiana dei matematici non consiste nell’eseguirle effettivamente, trascura che il passaggio dalle dimostrazioni matematiche ordinarie alle derivazioni formali non conAzzouni 2004, p. 105. Ivi, p. 100. 46 Ivi, p. 95. 47 Ivi, p. 83. 48 Ivi, p. 84. 49 Ibid. 44 45
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siste semplicemente in una ‘indicazione’, richiede un’analisi del significato, che è un’operazione complessa, facilmente soggetta a errori e non controllabile meccanicamente. Perciò è infondato dire che un matematico può indicare una derivazione formale senza eseguirla effettivamente. Inoltre, anche se il passaggio dalle dimostrazioni matematiche ordinarie alle derivazioni formali consistesse semplicemente in una ‘indicazione’, il problema se una dimostrazione stabilisca convincentemente un teorema si trasformerebbe in quello della correttezza delle derivazioni formali, e quindi nel problema della correttezza dei programmi per controllare la correttezza delle derivazioni formali. Ma, come si è già osservato, per il teorema di Rice non esiste alcun algoritmo che permetta di controllare la correttezza dei programmi. Alla base della credenza che il metodo assiomatico formale sia fecondo perché permette di controllare teoremi mediante derivazioni formali vi è l’assunzione che, poiché le derivazioni formali sono controllabili meccanicamente, rappresentando le dimostrazioni come derivazioni formali se ne assicurerebbe la controllabilità meccanica e quindi la certezza. Ma una dimostrazione non diverrebbe più certa con l’essere rappresentata mediante una derivazione formale. Semplicemente, i dubbi sulla dimostrazione si trasformerebbero in dubbi sulla correttezza della rappresentazione e sulla correttezza del programma per il controllo delle derivazioni formali. Anche volendo prescindere da questi ultimi, rimarrebbero i dubbi sugli assiomi da cui partono le dimostrazioni, e tali dubbi, in base al secondo teorema di incompletezza di Gödel, sono ineliminabili.
13.
Conoscenza e natura
1. Il ruolo della conoscenza nella natura Abbiamo visto che la tesi della filosofia analitica secondo cui la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza?’, e che ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza che abbia uno statuto normativo, è insostenibile. Questo impone di considerare, come principale questione rispetto alla conoscenza, una diversa questione, e di riconoscere che una risposta a essa non può avere uno statuto normativo. Contrariamente a quanto afferma la filosofia analitica, la principale questione rispetto alla conoscenza è invece: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? Cioè, qual è il ruolo della conoscenza nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi? Ciò che si richiede è una precisa analisi di tale ruolo. Questa analisi non può avere uno statuto normativo, cioè non può stabilire una volta per sempre quale debba essere il ruolo della conoscenza nella natura, può solo chiarire quale di fatto è stato finora. Secondo una lunga tradizione, da Aristotele ai nostri giorni, la conoscenza non svolge alcun ruolo nella vita umana né tanto meno nella vita di tutti gli organismi. Essa è propria solo degli esseri umani, non ha alcuna utilità pratica, e gli esseri umani cominciarono a ricercarla solo quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita. La conoscenza è fine a se stessa, e da essa non deriva nulla oltre la contemplazione. Per esempio, Aristotele afferma che gli esseri umani «ricercano la conoscenza solo per amore del sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui sono andati i fatti lo dimostra: quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita e anche per l’agiatezza e il benessere, solo allora si cominciò a ri192
cercarla»1. Perciò «è chiaro che noi non la ricerchiamo per nessuna utilità esterna a essa»2. Mentre «dalle attività pratiche traiamo un vantaggio più o meno grande al di là dell’azione stessa», dalla conoscenza «non deriva nulla oltre il contemplare»3. Essa «non mira ad alcun fine oltre se stessa»4. La conoscenza è come «il vedere per gli occhi», che «uno desidererebbe avere anche se da esso non gli dovesse venire nulla di diverso dalla vista stessa»5. E, «se amiamo il vedere per se stesso, questo testimonia a sufficienza che tutti amano l’esercizio della sapienza e il conoscere come qualcosa di ultimo»6. Parimenti, Schlick afferma che la conoscenza, «nella misura in cui è scienza, non serve ad alcuna altra funzione vitale»7. È «una funzione indipendente, il cui esercizio ci fornisce una soddisfazione immediata, una via unica al piacere, non paragonabile a nessun’altra», e in questo «consiste il suo valore»8. Ma non è così. La conoscenza non è fine a se stessa, né gli esseri umani cominciarono a ricercarla solo quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita. Essi la ricercarono fin dall’inizio perché la conoscenza svolge un ruolo vitale. Vitale in senso letterale, dal momento che la vita esiste in quanto esiste la conoscenza e non potrebbe esistere senza di essa. Le risorse la cui mancanza ostacola in modo determinante la conservazione della vita e la sua riproduzione, non sono soltanto il cibo e l’esistenza di partner sessuali, ma anche e soprattutto la conoscenza. Infatti, la conoscenza svolge innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza. Si tratta di un compito difficile e rischioso se più del novanta per cento delle specie che si sono sviluppate finora sulla Terra sono scomparse. Gli organismi sopravvivono sfruttando fonti di energia presenti nell’ambiente ed evitando pericoli che potrebbero distruggerli. Essi riescono a farlo solo se sanno entrare in un’opportuna relazione con l’ambiente, e questo richiede che ne abbiano conoscenza. Ogni orAristotele, Metaphysica, A 2, 982 b 20-24. Ivi, A 2, 982 b 24-25. 3 Aristotele, Ethica Nicomachea, K 7, 1177 b 2-4. 4 Ivi, K 7, 1177 b 20. 5 Aristotele, Protrepticus, 70 Düring. 6 Ivi, 72 Düring. 7 Schlick 1925, pp. 92-93. 8 Ivi, p. 93. 1 2
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Conoscenza e natura
1. Il ruolo della conoscenza nella natura Abbiamo visto che la tesi della filosofia analitica secondo cui la principale questione rispetto alla conoscenza è ‘Che cos’è la conoscenza?’, e che ciò che si richiede è una precisa analisi del concetto di conoscenza che abbia uno statuto normativo, è insostenibile. Questo impone di considerare, come principale questione rispetto alla conoscenza, una diversa questione, e di riconoscere che una risposta a essa non può avere uno statuto normativo. Contrariamente a quanto afferma la filosofia analitica, la principale questione rispetto alla conoscenza è invece: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? Cioè, qual è il ruolo della conoscenza nella vita umana, e in generale nella vita di tutti gli organismi? Ciò che si richiede è una precisa analisi di tale ruolo. Questa analisi non può avere uno statuto normativo, cioè non può stabilire una volta per sempre quale debba essere il ruolo della conoscenza nella natura, può solo chiarire quale di fatto è stato finora. Secondo una lunga tradizione, da Aristotele ai nostri giorni, la conoscenza non svolge alcun ruolo nella vita umana né tanto meno nella vita di tutti gli organismi. Essa è propria solo degli esseri umani, non ha alcuna utilità pratica, e gli esseri umani cominciarono a ricercarla solo quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita. La conoscenza è fine a se stessa, e da essa non deriva nulla oltre la contemplazione. Per esempio, Aristotele afferma che gli esseri umani «ricercano la conoscenza solo per amore del sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui sono andati i fatti lo dimostra: quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita e anche per l’agiatezza e il benessere, solo allora si cominciò a ri192
cercarla»1. Perciò «è chiaro che noi non la ricerchiamo per nessuna utilità esterna a essa»2. Mentre «dalle attività pratiche traiamo un vantaggio più o meno grande al di là dell’azione stessa», dalla conoscenza «non deriva nulla oltre il contemplare»3. Essa «non mira ad alcun fine oltre se stessa»4. La conoscenza è come «il vedere per gli occhi», che «uno desidererebbe avere anche se da esso non gli dovesse venire nulla di diverso dalla vista stessa»5. E, «se amiamo il vedere per se stesso, questo testimonia a sufficienza che tutti amano l’esercizio della sapienza e il conoscere come qualcosa di ultimo»6. Parimenti, Schlick afferma che la conoscenza, «nella misura in cui è scienza, non serve ad alcuna altra funzione vitale»7. È «una funzione indipendente, il cui esercizio ci fornisce una soddisfazione immediata, una via unica al piacere, non paragonabile a nessun’altra», e in questo «consiste il suo valore»8. Ma non è così. La conoscenza non è fine a se stessa, né gli esseri umani cominciarono a ricercarla solo quando c’erano già pressoché tutte le cose necessarie per la vita. Essi la ricercarono fin dall’inizio perché la conoscenza svolge un ruolo vitale. Vitale in senso letterale, dal momento che la vita esiste in quanto esiste la conoscenza e non potrebbe esistere senza di essa. Le risorse la cui mancanza ostacola in modo determinante la conservazione della vita e la sua riproduzione, non sono soltanto il cibo e l’esistenza di partner sessuali, ma anche e soprattutto la conoscenza. Infatti, la conoscenza svolge innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza. Si tratta di un compito difficile e rischioso se più del novanta per cento delle specie che si sono sviluppate finora sulla Terra sono scomparse. Gli organismi sopravvivono sfruttando fonti di energia presenti nell’ambiente ed evitando pericoli che potrebbero distruggerli. Essi riescono a farlo solo se sanno entrare in un’opportuna relazione con l’ambiente, e questo richiede che ne abbiano conoscenza. Ogni orAristotele, Metaphysica, A 2, 982 b 20-24. Ivi, A 2, 982 b 24-25. 3 Aristotele, Ethica Nicomachea, K 7, 1177 b 2-4. 4 Ivi, K 7, 1177 b 20. 5 Aristotele, Protrepticus, 70 Düring. 6 Ivi, 72 Düring. 7 Schlick 1925, pp. 92-93. 8 Ivi, p. 93. 1 2
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ganismo acquisisce conoscenza sull’ambiente e, grazie a essa, adotta comportamenti che, quando hanno successo, ne assicurano la sopravvivenza. Perciò la questione della natura della conoscenza e quella della natura della vita sono intimamente legate tra loro. Aristotele ha dunque ragione quando afferma che «tutti gli uomini per natura tendono al conoscere»9. Ma ha ragione solo se per ‘natura’ si intende ‘natura biologica’. Gli uomini tendono al conoscere non al fine di contemplare ma perché la conoscenza svolge un ruolo vitale: è essenziale per la sopravvivenza. In quanto la conoscenza è essenziale per la sopravvivenza, essa è un fenomeno naturale che è presente in tutti gli organismi, anche in quelli non dotati di sistema nervoso. Tutti gli organismi sono sistemi conoscitivi, e la vita stessa deve la sua esistenza e la sua conservazione a un processo conoscitivo. Questo permette di dare una prima risposta alla domanda: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? La conoscenza ha innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza. 2. Origine della conoscenza Che tutti gli organismi siano sistemi conoscitivi, e che la vita stessa debba la sua esistenza e la sua conservazione a un processo conoscitivo, appare chiaro già se si considera quella che presumibilmente è stata l’origine più remota della conoscenza sulla Terra, cioè lo svilupparsi della conoscenza nei procarioti. I procarioti sono i primi organismi che si formarono sulla Terra. Vi si formarono circa quattro miliardi di anni fa, e per circa due miliardi di anni sono rimasti l’unica forma di vita sulla Terra. Essi sono organismi unicellulari. Constano del citoplasma, formato dal genoma (DNA) e da ribosomi; di un involucro, formato da un rivestimento chiamato capsula, da una parete cellulare e da una membrana plasmatica che avvolge il citoplasma; e di appendici, costituite da pili e da flagelli, strutture filamentose che permettono all’organismo di muoversi in ambienti fluidi, avvicinandosi alle sostanze utili come nutrimento e allontanandosi da quelle nocive. 9
Aristotele, Metaphysica, A 1, 980 a 21.
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Per distinguere le sostanze utili da quelle nocive, l’unico senso di cui i procarioti dispongano è quello derivante dal loro contatto immediato con l’ambiente. Essi usano le componenti della superficie della cellula come sensori per valutare l’ambiente e rispondere a esso in un modo vantaggioso per la loro sopravvivenza. Tali componenti dipendono dalla composizione molecolare della parete cellulare e della membrana plasmatica, e dalla funzione delle strutture di superficie, come i flagelli. In aggiunta a ciò, i procarioti utilizzano le componenti della superficie della cellula anche per altri usi, per esempio come barriere di permeabilità che permettono il passaggio delle sostanze utili come nutrimento e impediscono quello delle sostanze nocive; come mezzi per aderire a particolari superfici; come enzimi per mediare reazioni sulla superficie della cellula importanti per la loro sopravvivenza. Ma i procarioti utilizzano le componenti della superficie della cellula innanzitutto come sensori, capaci di reagire alla temperatura, alla pressione osmotica, alla salinità, alla luce, all’ossigeno, alle sostanze utili come nutrimento, ecc., e di inviare al genoma segnali che determinano una risposta dell’organismo utile per la sua sopravvivenza, risposta che viene implementata attraverso effettori costituiti dai flagelli. Nei primi procarioti, le componenti della superficie della cellula usate come sensori si svilupparono grazie ad alcune modifiche della superficie, che diedero luogo a microstrutture costituite da grosse molecole proteiche in grado di distinguere gli stimoli positivi da quelli negativi, cioè le sostanze utili da quelle nocive. Tali microstrutture sono i più lontani antenati dei recettori sensoriali degli esseri umani e degli altri animali. Poi, almeno tre miliardi di anni fa, in alcuni procarioti si sviluppò una forma primitiva di fotosintesi che li rese capaci di procurarsi 195
ganismo acquisisce conoscenza sull’ambiente e, grazie a essa, adotta comportamenti che, quando hanno successo, ne assicurano la sopravvivenza. Perciò la questione della natura della conoscenza e quella della natura della vita sono intimamente legate tra loro. Aristotele ha dunque ragione quando afferma che «tutti gli uomini per natura tendono al conoscere»9. Ma ha ragione solo se per ‘natura’ si intende ‘natura biologica’. Gli uomini tendono al conoscere non al fine di contemplare ma perché la conoscenza svolge un ruolo vitale: è essenziale per la sopravvivenza. In quanto la conoscenza è essenziale per la sopravvivenza, essa è un fenomeno naturale che è presente in tutti gli organismi, anche in quelli non dotati di sistema nervoso. Tutti gli organismi sono sistemi conoscitivi, e la vita stessa deve la sua esistenza e la sua conservazione a un processo conoscitivo. Questo permette di dare una prima risposta alla domanda: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? La conoscenza ha innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza. 2. Origine della conoscenza Che tutti gli organismi siano sistemi conoscitivi, e che la vita stessa debba la sua esistenza e la sua conservazione a un processo conoscitivo, appare chiaro già se si considera quella che presumibilmente è stata l’origine più remota della conoscenza sulla Terra, cioè lo svilupparsi della conoscenza nei procarioti. I procarioti sono i primi organismi che si formarono sulla Terra. Vi si formarono circa quattro miliardi di anni fa, e per circa due miliardi di anni sono rimasti l’unica forma di vita sulla Terra. Essi sono organismi unicellulari. Constano del citoplasma, formato dal genoma (DNA) e da ribosomi; di un involucro, formato da un rivestimento chiamato capsula, da una parete cellulare e da una membrana plasmatica che avvolge il citoplasma; e di appendici, costituite da pili e da flagelli, strutture filamentose che permettono all’organismo di muoversi in ambienti fluidi, avvicinandosi alle sostanze utili come nutrimento e allontanandosi da quelle nocive. 9
Aristotele, Metaphysica, A 1, 980 a 21.
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Per distinguere le sostanze utili da quelle nocive, l’unico senso di cui i procarioti dispongano è quello derivante dal loro contatto immediato con l’ambiente. Essi usano le componenti della superficie della cellula come sensori per valutare l’ambiente e rispondere a esso in un modo vantaggioso per la loro sopravvivenza. Tali componenti dipendono dalla composizione molecolare della parete cellulare e della membrana plasmatica, e dalla funzione delle strutture di superficie, come i flagelli. In aggiunta a ciò, i procarioti utilizzano le componenti della superficie della cellula anche per altri usi, per esempio come barriere di permeabilità che permettono il passaggio delle sostanze utili come nutrimento e impediscono quello delle sostanze nocive; come mezzi per aderire a particolari superfici; come enzimi per mediare reazioni sulla superficie della cellula importanti per la loro sopravvivenza. Ma i procarioti utilizzano le componenti della superficie della cellula innanzitutto come sensori, capaci di reagire alla temperatura, alla pressione osmotica, alla salinità, alla luce, all’ossigeno, alle sostanze utili come nutrimento, ecc., e di inviare al genoma segnali che determinano una risposta dell’organismo utile per la sua sopravvivenza, risposta che viene implementata attraverso effettori costituiti dai flagelli. Nei primi procarioti, le componenti della superficie della cellula usate come sensori si svilupparono grazie ad alcune modifiche della superficie, che diedero luogo a microstrutture costituite da grosse molecole proteiche in grado di distinguere gli stimoli positivi da quelli negativi, cioè le sostanze utili da quelle nocive. Tali microstrutture sono i più lontani antenati dei recettori sensoriali degli esseri umani e degli altri animali. Poi, almeno tre miliardi di anni fa, in alcuni procarioti si sviluppò una forma primitiva di fotosintesi che li rese capaci di procurarsi 195
energia direttamente dal Sole, convertendola in energia chimica. Tale forma di fotosintesi non produceva ossigeno. Successivamente, però, in alcuni procarioti si sviluppò una forma di fotosintesi che lo produceva. Presumibilmente ciò sta all’origine di gran parte dell’ossigeno presente nell’atmosfera della Terra. Naturalmente, per i procarioti in cui si sviluppò tale forma di fotosintesi, c’era il problema di individuare dov’era la luce del Sole, non solo per muoversi verso di essa ma anche per evitare di ricevere troppa radiazione ultravioletta, che avrebbe potuto distruggerli. Fortunatamente per tali procarioti, questa forma di fotosintesi si sviluppò parallelamente allo sviluppo di sensori capaci di distinguere la luce del Sole. Tali sensori sono i più lontani antenati dell’occhio negli esseri umani e negli altri animali. Grazie all’informazione fornita dai sensori i procarioti poterono, mediante i flagelli, avvicinarsi alla superficie dell’ambiente fluido per ricevere la luce del Sole, e allontanarsi da essa per rifugiarsi in zone buie dell’ambiente fluido, in tempo utile per non essere distrutti dalla radiazione ultravioletta. Non solo i procarioti fecero questo ma impararono dall’esperienza, acquistando la capacità di riconoscere, a distanza di tempo, stimoli ripetitivi ricevuti dai sensori. Essi acquistarono tale capacità attraverso modifiche di molecole proteiche del loro corpo, che permisero loro di sviluppare rudimentali forme di apprendimento e di memoria. Queste sono i più lontani antenati dell’apprendimento e della memoria negli esseri umani e negli altri animali. Certo, i procarioti sono privi di sistema nervoso. Ma essi acquisiscono conoscenze sull’ambiente. Operano scelte, preferendo le sostanze chimiche utili a quelle nocive. Manifestano intenzioni e scopi, avvicinandosi alla superficie dell’ambiente fluido per ricevere la luce del Sole, e allontanandosi da essa in tempo utile per non essere danneggiati dalla radiazione ultravioletta. Imparano dall’esperienza, acquistando la capacità di riconoscere a distanza di tempo stimoli ripetitivi ricevuti dai sensori, e sviluppando così forme rudimentali di apprendimento e di memoria. Perciò, pur essendo privi di sistema nervoso, essi presentano i caratteri basilari delle menti animali. Questo è inspiegabile dal punto di vista della concezione della mente disincarnata, secondo la quale la mente è totalmente autonoma rispetto al corpo. È spiegabile solo dal punto di vista della concezione della mente incarnata, secondo la quale la mente consiste di
certe capacità del corpo. I procarioti possono presentare i caratteri basilari delle menti animali perché questi corrispondono a certe capacità del corpo.
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3. Ruolo biologico della conoscenza Che i procarioti abbiano potuto sopravvivere grazie alla formazione di sensori capaci di inviare segnali al genoma, mostra che anche organismi così semplici sono sistemi conoscitivi e che la vita stessa deve la sua esistenza e il suo mantenimento a un processo conoscitivo. Nei procarioti, essere in grado di distinguere le sostanze utili da quelle nocive, o di individuare da dove proveniva la luce del Sole, fu essenziale per la loro sopravvivenza. Essi raggiunsero tale capacità grazie alla conoscenza sull’ambiente acquisita attraverso i sensori. Al pari di tutti gli altri organismi, i procarioti sono vivi e sono fermamente decisi a rimanerlo, e la conoscenza serve loro innanzitutto a questo. Questa funzione della conoscenza è riscontrabile in tutti gli organismi, dai più semplici ai più complessi. Come sottolinea Russell, non si deve mai dimenticare «la nostra continuità evolutiva con gli animali inferiori. In particolare, non si deve definire ‘conoscenza’ in un modo che presupponga un abisso incolmabile tra noi e i nostri antenati che non avevano il vantaggio del linguaggio»10. Infatti, per noi come per loro, la conoscenza serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza. L’unica differenza tra gli organismi più semplici e quelli più complessi è che i più semplici, come i procarioti, se si trovano in un ambiente semplice e favorevole, hanno bisogno solo di poca conoscenza per rispondere adeguatamente all’ambiente e sopravvivere. Bastano sensori molto rudimentali per trattare gli stimoli provenienti dall’ambiente, ed effettori molto semplici per implementare una risposta adeguata. Invece gli organismi più complessi, se si trovano in un ambiente complesso o ostile, hanno bisogno di molta conoscenza per rispondere adeguatamente all’ambiente e sopravvivere. Occorrono loro sensori abbastanza sofisticati ed effettori abbastanza complessi. Ma, soprattutto, occorre loro la capacità di pianificare l’azione, preve10
Russell 1997b, p. 439.
energia direttamente dal Sole, convertendola in energia chimica. Tale forma di fotosintesi non produceva ossigeno. Successivamente, però, in alcuni procarioti si sviluppò una forma di fotosintesi che lo produceva. Presumibilmente ciò sta all’origine di gran parte dell’ossigeno presente nell’atmosfera della Terra. Naturalmente, per i procarioti in cui si sviluppò tale forma di fotosintesi, c’era il problema di individuare dov’era la luce del Sole, non solo per muoversi verso di essa ma anche per evitare di ricevere troppa radiazione ultravioletta, che avrebbe potuto distruggerli. Fortunatamente per tali procarioti, questa forma di fotosintesi si sviluppò parallelamente allo sviluppo di sensori capaci di distinguere la luce del Sole. Tali sensori sono i più lontani antenati dell’occhio negli esseri umani e negli altri animali. Grazie all’informazione fornita dai sensori i procarioti poterono, mediante i flagelli, avvicinarsi alla superficie dell’ambiente fluido per ricevere la luce del Sole, e allontanarsi da essa per rifugiarsi in zone buie dell’ambiente fluido, in tempo utile per non essere distrutti dalla radiazione ultravioletta. Non solo i procarioti fecero questo ma impararono dall’esperienza, acquistando la capacità di riconoscere, a distanza di tempo, stimoli ripetitivi ricevuti dai sensori. Essi acquistarono tale capacità attraverso modifiche di molecole proteiche del loro corpo, che permisero loro di sviluppare rudimentali forme di apprendimento e di memoria. Queste sono i più lontani antenati dell’apprendimento e della memoria negli esseri umani e negli altri animali. Certo, i procarioti sono privi di sistema nervoso. Ma essi acquisiscono conoscenze sull’ambiente. Operano scelte, preferendo le sostanze chimiche utili a quelle nocive. Manifestano intenzioni e scopi, avvicinandosi alla superficie dell’ambiente fluido per ricevere la luce del Sole, e allontanandosi da essa in tempo utile per non essere danneggiati dalla radiazione ultravioletta. Imparano dall’esperienza, acquistando la capacità di riconoscere a distanza di tempo stimoli ripetitivi ricevuti dai sensori, e sviluppando così forme rudimentali di apprendimento e di memoria. Perciò, pur essendo privi di sistema nervoso, essi presentano i caratteri basilari delle menti animali. Questo è inspiegabile dal punto di vista della concezione della mente disincarnata, secondo la quale la mente è totalmente autonoma rispetto al corpo. È spiegabile solo dal punto di vista della concezione della mente incarnata, secondo la quale la mente consiste di
certe capacità del corpo. I procarioti possono presentare i caratteri basilari delle menti animali perché questi corrispondono a certe capacità del corpo.
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3. Ruolo biologico della conoscenza Che i procarioti abbiano potuto sopravvivere grazie alla formazione di sensori capaci di inviare segnali al genoma, mostra che anche organismi così semplici sono sistemi conoscitivi e che la vita stessa deve la sua esistenza e il suo mantenimento a un processo conoscitivo. Nei procarioti, essere in grado di distinguere le sostanze utili da quelle nocive, o di individuare da dove proveniva la luce del Sole, fu essenziale per la loro sopravvivenza. Essi raggiunsero tale capacità grazie alla conoscenza sull’ambiente acquisita attraverso i sensori. Al pari di tutti gli altri organismi, i procarioti sono vivi e sono fermamente decisi a rimanerlo, e la conoscenza serve loro innanzitutto a questo. Questa funzione della conoscenza è riscontrabile in tutti gli organismi, dai più semplici ai più complessi. Come sottolinea Russell, non si deve mai dimenticare «la nostra continuità evolutiva con gli animali inferiori. In particolare, non si deve definire ‘conoscenza’ in un modo che presupponga un abisso incolmabile tra noi e i nostri antenati che non avevano il vantaggio del linguaggio»10. Infatti, per noi come per loro, la conoscenza serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza. L’unica differenza tra gli organismi più semplici e quelli più complessi è che i più semplici, come i procarioti, se si trovano in un ambiente semplice e favorevole, hanno bisogno solo di poca conoscenza per rispondere adeguatamente all’ambiente e sopravvivere. Bastano sensori molto rudimentali per trattare gli stimoli provenienti dall’ambiente, ed effettori molto semplici per implementare una risposta adeguata. Invece gli organismi più complessi, se si trovano in un ambiente complesso o ostile, hanno bisogno di molta conoscenza per rispondere adeguatamente all’ambiente e sopravvivere. Occorrono loro sensori abbastanza sofisticati ed effettori abbastanza complessi. Ma, soprattutto, occorre loro la capacità di pianificare l’azione, preve10
Russell 1997b, p. 439.
dendone in anticipo gli effetti per poter approfittare delle situazioni favorevoli ed evitare quelle svantaggiose. E occorre loro la capacità di imparare dall’esperienza. È in virtù di tale capacità che un organismo riesce a collegare ciò che prima appariva scollegato, e a distinguere ciò che prima appariva indistinto. Naturalmente, tra i sensori e gli effettori deve esserci un sistema intermedio, che elabori gli stimoli ricevuti dall’ambiente attraverso i sensori e implementi una risposta mediante gli effettori. Negli organismi più semplici, come i procarioti, tale sistema intermedio è costituito dal genoma, in quelli più complessi dal sistema nervoso. Spesso si identifica il sistema conoscitivo con il sistema intermedio, ma questo non è corretto. Il sistema conoscitivo è costituito dall’intero organismo e comprende anche processi esterni a esso. In ogni caso, tanto gli organismi più semplici quanto quelli più complessi ricercano la conoscenza non come un fine in sé ma innanzitutto come un mezzo per risolvere il problema della sopravvivenza, individuando quegli aspetti dell’ambiente che fanno la differenza tra conservare la vita e distruggerla, e implementando una risposta adeguata. In quanto serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza, la conoscenza svolge un ruolo biologico, perché per la sopravvivenza è essenziale, da un lato, trovare o avvicinare cose e situazioni vantaggiose, quali le sostanze utili come nutrimento, rifugi protettivi e compagni desiderabili, e, dall’altro lato, trovare ed evitare cose e situazioni pericolose, quali le sostanze nocive come nutrimento, rifugi trabocchetto e compagni indesiderabili. A tale scopo, per gli organismi è indispensabile acquisire informazione su quali oggetti e situazioni sono presenti nell’ambiente, su dove si trovano e quali caratteri hanno, e la conoscenza serve innanzitutto a questo. Più precisamente, invece di dire che la conoscenza svolge un ruolo biologico, si potrebbe dire che essa svolge un ruolo metabiologico. La conoscenza serve, infatti, a ottimizzare l’esercizio delle funzioni biologiche dell’organismo al fine della sopravvivenza. Ma anche tale ruolo metabiologico è in realtà un ruolo biologico, perciò dire che la conoscenza svolge un ruolo biologico sembra appropriato.
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4. Conoscenza ed evoluzione Si è detto che la conoscenza serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza. Ma non solo della sopravvivenza di singoli organismi, bensì anche di intere specie. Rispetto alle specie, la conoscenza serve infatti per risolvere problemi di adattamento. Se in uno o più membri di una specie si sviluppa un nuovo carattere, per esempio un sensore migliore, che risolve un problema di adattamento meglio dei caratteri degli altri membri della specie in cui esso non è presente – per esempio, permette di individuare in anticipo le sostanze nocive – i membri della specie dotati di quel carattere tenderanno ad avere in media più discendenti immediati di quelli che ne sono privi. Se i discendenti immediati ereditano dai genitori il nuovo carattere, la frequenza di quest’ultimo aumenterà nella popolazione finché, dopo un certo numero di generazioni, in ogni membro della specie sarà presente il nuovo carattere. Infatti, col passare delle generazioni, gli organismi e gli organi corporei vengono plasmati in modo da produrre più efficacemente certi risultati attraverso la selezione degli organismi in cui la cosa è riuscita meglio. Il nuovo carattere ha un valore adattativo maggiore dei caratteri dei membri della specie in cui esso non è presente, in quanto aumenta la capacità degli organismi che lo posseggono di sopravvivere e riprodursi. Nel processo ora descritto, ossia la selezione naturale, la conoscenza svolge un ruolo essenziale perché non basta che in un organismo si sviluppi, per esempio, un sensore migliore, occorre che l’organismo sia in grado di elaborare i dati forniti dal sensore, cioè di sviluppare conoscenza, per poter implementare un’azione efficace per la sopravvivenza. Che la conoscenza svolga un ruolo essenziale nella selezione naturale appare evidente se si considera che quegli organismi che non sono stati in grado di conoscere l’esistenza di un mondo esterno, hanno avuto ben poche possibilità di sopravvivere. Quegli organismi che non sono stati in grado di conoscere che nel mondo esterno vi erano altri organismi, hanno avuto ben poche possibilità di avere una discendenza. E quegli organismi che non sono stati in grado di fare ipotesi adeguate sul mondo esterno, sono rimasti più facilmente vittime dei pericoli dell’ambiente e hanno lasciato meno discendenti. Il ruolo essenziale svolto nella selezione naturale dalla conoscenza è riconosciuto già da Russell, il quale afferma che tutta «la nostra 199
dendone in anticipo gli effetti per poter approfittare delle situazioni favorevoli ed evitare quelle svantaggiose. E occorre loro la capacità di imparare dall’esperienza. È in virtù di tale capacità che un organismo riesce a collegare ciò che prima appariva scollegato, e a distinguere ciò che prima appariva indistinto. Naturalmente, tra i sensori e gli effettori deve esserci un sistema intermedio, che elabori gli stimoli ricevuti dall’ambiente attraverso i sensori e implementi una risposta mediante gli effettori. Negli organismi più semplici, come i procarioti, tale sistema intermedio è costituito dal genoma, in quelli più complessi dal sistema nervoso. Spesso si identifica il sistema conoscitivo con il sistema intermedio, ma questo non è corretto. Il sistema conoscitivo è costituito dall’intero organismo e comprende anche processi esterni a esso. In ogni caso, tanto gli organismi più semplici quanto quelli più complessi ricercano la conoscenza non come un fine in sé ma innanzitutto come un mezzo per risolvere il problema della sopravvivenza, individuando quegli aspetti dell’ambiente che fanno la differenza tra conservare la vita e distruggerla, e implementando una risposta adeguata. In quanto serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza, la conoscenza svolge un ruolo biologico, perché per la sopravvivenza è essenziale, da un lato, trovare o avvicinare cose e situazioni vantaggiose, quali le sostanze utili come nutrimento, rifugi protettivi e compagni desiderabili, e, dall’altro lato, trovare ed evitare cose e situazioni pericolose, quali le sostanze nocive come nutrimento, rifugi trabocchetto e compagni indesiderabili. A tale scopo, per gli organismi è indispensabile acquisire informazione su quali oggetti e situazioni sono presenti nell’ambiente, su dove si trovano e quali caratteri hanno, e la conoscenza serve innanzitutto a questo. Più precisamente, invece di dire che la conoscenza svolge un ruolo biologico, si potrebbe dire che essa svolge un ruolo metabiologico. La conoscenza serve, infatti, a ottimizzare l’esercizio delle funzioni biologiche dell’organismo al fine della sopravvivenza. Ma anche tale ruolo metabiologico è in realtà un ruolo biologico, perciò dire che la conoscenza svolge un ruolo biologico sembra appropriato.
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4. Conoscenza ed evoluzione Si è detto che la conoscenza serve innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza. Ma non solo della sopravvivenza di singoli organismi, bensì anche di intere specie. Rispetto alle specie, la conoscenza serve infatti per risolvere problemi di adattamento. Se in uno o più membri di una specie si sviluppa un nuovo carattere, per esempio un sensore migliore, che risolve un problema di adattamento meglio dei caratteri degli altri membri della specie in cui esso non è presente – per esempio, permette di individuare in anticipo le sostanze nocive – i membri della specie dotati di quel carattere tenderanno ad avere in media più discendenti immediati di quelli che ne sono privi. Se i discendenti immediati ereditano dai genitori il nuovo carattere, la frequenza di quest’ultimo aumenterà nella popolazione finché, dopo un certo numero di generazioni, in ogni membro della specie sarà presente il nuovo carattere. Infatti, col passare delle generazioni, gli organismi e gli organi corporei vengono plasmati in modo da produrre più efficacemente certi risultati attraverso la selezione degli organismi in cui la cosa è riuscita meglio. Il nuovo carattere ha un valore adattativo maggiore dei caratteri dei membri della specie in cui esso non è presente, in quanto aumenta la capacità degli organismi che lo posseggono di sopravvivere e riprodursi. Nel processo ora descritto, ossia la selezione naturale, la conoscenza svolge un ruolo essenziale perché non basta che in un organismo si sviluppi, per esempio, un sensore migliore, occorre che l’organismo sia in grado di elaborare i dati forniti dal sensore, cioè di sviluppare conoscenza, per poter implementare un’azione efficace per la sopravvivenza. Che la conoscenza svolga un ruolo essenziale nella selezione naturale appare evidente se si considera che quegli organismi che non sono stati in grado di conoscere l’esistenza di un mondo esterno, hanno avuto ben poche possibilità di sopravvivere. Quegli organismi che non sono stati in grado di conoscere che nel mondo esterno vi erano altri organismi, hanno avuto ben poche possibilità di avere una discendenza. E quegli organismi che non sono stati in grado di fare ipotesi adeguate sul mondo esterno, sono rimasti più facilmente vittime dei pericoli dell’ambiente e hanno lasciato meno discendenti. Il ruolo essenziale svolto nella selezione naturale dalla conoscenza è riconosciuto già da Russell, il quale afferma che tutta «la nostra 199
vita conoscitiva, considerata biologicamente, fa parte del processo di adattamento ai fatti»11. Si tratta di «un processo che esiste, in grado maggiore o minore, in tutte le forme di vita, ma che comunemente non viene detto ‘conoscitivo’ finché non raggiunge un certo livello di sviluppo»12. Il fatto che, rispetto a una specie, la conoscenza serva per risolvere problemi di adattamento, implica che la funzione della conoscenza non è soltanto quella di evitare le minacce a breve termine alla sopravvivenza di un singolo organismo. Quest’ultima può comunque essere assicurata solo per un arco di tempo limitato: tutti gli organismi prima o poi muoiono. Diverso è il caso dei geni, che contengono le istruzioni del progetto dei componenti degli organismi. I caratteri del progetto si propagano promuovendo la riproduzione dei geni. Rispetto a una specie la funzione della conoscenza è appunto quella di propagare i caratteri del progetto promuovendo la riproduzione dei geni. Così la conoscenza svolge un ruolo biologico non solo rispetto a singoli organismi ma a intere specie. 5. Ruolo culturale della conoscenza Che la conoscenza svolga un ruolo biologico non significa, però, che questo sia il suo unico ruolo. La conoscenza svolge anche un ruolo culturale. Questo è implicito nel concetto stesso di cultura. Una cultura è l’insieme delle conoscenze che certi organismi si trasmettono di generazione in generazione non geneticamente, cioè non attraverso il DNA, ma attraverso ciò che essi fanno e comunicano. Una cultura è dunque un insieme di conoscenze. Questo permette di integrare la precedente risposta alla domanda: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? La conoscenza svolge sì innanzitutto un ruolo biologico, ma svolge anche un ruolo culturale, e quest’ultimo non coincide con il ruolo biologico perché si basa su una trasmissione di informazione non genetica. D’altra parte, però, pur non coincidendo con il ruolo biologico, il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone a esso ma è in un rapporto di continuità con esso. Semplicemente, ne è un potenziamento, sia pure notevole, e non può prescindere da esso. 11 12
Ivi, p. 160. Ibid.
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La continuità tra il ruolo culturale della conoscenza e quello biologico appare chiaro in particolare dal fatto che, anche nel suo ruolo culturale, la conoscenza può avere influenza sull’evoluzione biologica. Le conoscenze che costituiscono una cultura permettono agli organismi che ne sono portatori di progettare in certa misura il proprio ambiente, modificando l’ambiente esistente per renderlo più adatto a loro, e tali modifiche hanno influenza su quali organismi sopravvivono e si riproducono. Se più generazioni di organismi modificano ripetutamente il proprio ambiente nello stesso modo, questo può determinare un cambiamento nel processo della selezione naturale. Un semplice esempio di ciò è dato dalla cultura ereditata della pastorizia, che portò all’addomesticamento del bestiame e all’attività associata della produzione del latte e dei suoi derivati. Tale attività alterò l’ambiente di alcune popolazioni umane per abbastanza generazioni da selezionare quei geni che oggi conferiscono alla maggior parte degli adulti una grande tolleranza al lattosio. Che, anche nel suo ruolo culturale, la conoscenza possa avere influenza sull’evoluzione biologica, vale non solo per la specie umana ma anche per altre specie. Alcune di esse sono capaci di modificare il proprio ambiente mediante gli artefatti che producono. Altre poi, pur non essendo capaci di modificare il proprio ambiente, si scelgono un ambiente che può influenzarne l’evoluzione biologica. 6. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale Negli esseri umani non vi è però soltanto il ruolo culturale della conoscenza, nel senso della trasmissione non genetica di conoscenze di generazione in generazione, vi è anche l’evoluzione culturale. Cioè, nelle generazioni successive le conoscenze trasmesse non geneticamente possono essere modificate e accresciute. Come il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone a quello biologico ma ne è semplicemente una continuazione e un potenziamento, lo stesso vale per l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica. Tra esse non vi è un rapporto di contrapposizione bensì di continuità. Ciò dipende dal fatto che il soggetto dell’evoluzione culturale è lo stesso di quello dell’evoluzione biologica. D’altra parte, però, questo non significa che l’evoluzione culturale si riduca all’evoluzione biologica. Sebbene quest’ultima abbia 201
vita conoscitiva, considerata biologicamente, fa parte del processo di adattamento ai fatti»11. Si tratta di «un processo che esiste, in grado maggiore o minore, in tutte le forme di vita, ma che comunemente non viene detto ‘conoscitivo’ finché non raggiunge un certo livello di sviluppo»12. Il fatto che, rispetto a una specie, la conoscenza serva per risolvere problemi di adattamento, implica che la funzione della conoscenza non è soltanto quella di evitare le minacce a breve termine alla sopravvivenza di un singolo organismo. Quest’ultima può comunque essere assicurata solo per un arco di tempo limitato: tutti gli organismi prima o poi muoiono. Diverso è il caso dei geni, che contengono le istruzioni del progetto dei componenti degli organismi. I caratteri del progetto si propagano promuovendo la riproduzione dei geni. Rispetto a una specie la funzione della conoscenza è appunto quella di propagare i caratteri del progetto promuovendo la riproduzione dei geni. Così la conoscenza svolge un ruolo biologico non solo rispetto a singoli organismi ma a intere specie. 5. Ruolo culturale della conoscenza Che la conoscenza svolga un ruolo biologico non significa, però, che questo sia il suo unico ruolo. La conoscenza svolge anche un ruolo culturale. Questo è implicito nel concetto stesso di cultura. Una cultura è l’insieme delle conoscenze che certi organismi si trasmettono di generazione in generazione non geneticamente, cioè non attraverso il DNA, ma attraverso ciò che essi fanno e comunicano. Una cultura è dunque un insieme di conoscenze. Questo permette di integrare la precedente risposta alla domanda: qual è il ruolo della conoscenza nella natura? La conoscenza svolge sì innanzitutto un ruolo biologico, ma svolge anche un ruolo culturale, e quest’ultimo non coincide con il ruolo biologico perché si basa su una trasmissione di informazione non genetica. D’altra parte, però, pur non coincidendo con il ruolo biologico, il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone a esso ma è in un rapporto di continuità con esso. Semplicemente, ne è un potenziamento, sia pure notevole, e non può prescindere da esso. 11 12
Ivi, p. 160. Ibid.
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La continuità tra il ruolo culturale della conoscenza e quello biologico appare chiaro in particolare dal fatto che, anche nel suo ruolo culturale, la conoscenza può avere influenza sull’evoluzione biologica. Le conoscenze che costituiscono una cultura permettono agli organismi che ne sono portatori di progettare in certa misura il proprio ambiente, modificando l’ambiente esistente per renderlo più adatto a loro, e tali modifiche hanno influenza su quali organismi sopravvivono e si riproducono. Se più generazioni di organismi modificano ripetutamente il proprio ambiente nello stesso modo, questo può determinare un cambiamento nel processo della selezione naturale. Un semplice esempio di ciò è dato dalla cultura ereditata della pastorizia, che portò all’addomesticamento del bestiame e all’attività associata della produzione del latte e dei suoi derivati. Tale attività alterò l’ambiente di alcune popolazioni umane per abbastanza generazioni da selezionare quei geni che oggi conferiscono alla maggior parte degli adulti una grande tolleranza al lattosio. Che, anche nel suo ruolo culturale, la conoscenza possa avere influenza sull’evoluzione biologica, vale non solo per la specie umana ma anche per altre specie. Alcune di esse sono capaci di modificare il proprio ambiente mediante gli artefatti che producono. Altre poi, pur non essendo capaci di modificare il proprio ambiente, si scelgono un ambiente che può influenzarne l’evoluzione biologica. 6. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale Negli esseri umani non vi è però soltanto il ruolo culturale della conoscenza, nel senso della trasmissione non genetica di conoscenze di generazione in generazione, vi è anche l’evoluzione culturale. Cioè, nelle generazioni successive le conoscenze trasmesse non geneticamente possono essere modificate e accresciute. Come il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone a quello biologico ma ne è semplicemente una continuazione e un potenziamento, lo stesso vale per l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica. Tra esse non vi è un rapporto di contrapposizione bensì di continuità. Ciò dipende dal fatto che il soggetto dell’evoluzione culturale è lo stesso di quello dell’evoluzione biologica. D’altra parte, però, questo non significa che l’evoluzione culturale si riduca all’evoluzione biologica. Sebbene quest’ultima abbia 201
predisposto gli organismi ad affrontare situazioni simili a quelle che si sono già presentate nel loro passato evolutivo, il mondo presenta situazioni sempre nuove, per le quali non bastano i mezzi derivanti dall’evoluzione biologica, occorrono mezzi più potenti, e questi sono forniti dall’evoluzione culturale. Dunque, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale vi è un rapporto di continuità ma non di coincidenza. Sono perciò ingiustificate affermazioni come quella di Popper secondo cui «dall’ameba ad Einstein vi è solo un passo»13. Anche se, come ammonisce Russell, non si deve definire ‘conoscenza’ in un modo che presupponga un abisso incolmabile tra noi e i nostri antenati che non avevano il vantaggio del linguaggio, l’evoluzione culturale permette di compiere un notevole balzo in avanti rispetto all’evoluzione biologica. Perciò dall’ameba ad Einstein non vi è un solo passo, ma vi sono numerosi e sostanziali passi. L’evoluzione culturale determina una significativa differenza tra gli esseri umani e gli organismi più semplici, come i procarioti. Nel loro sforzo di risolvere il problema della sopravvivenza, tanto gli esseri umani quanto gli altri organismi si trovano costantemente di fronte al problema di disporre solo di risorse limitate. Ma, mentre gli organismi più semplici hanno poco controllo sul proprio ambiente, grazie all’evoluzione culturale gli esseri umani sono capaci di esercitare un notevole controllo su di esso. Certo, per buona parte della loro evoluzione, gli esseri umani si sono trovati in una condizione non molto lontana da quella degli organismi più semplici perché, al pari di essi, hanno avuto un controllo abbastanza limitato sul proprio ambiente e su se stessi, e perciò hanno dovuto dedicare una parte molto ampia dei loro sforzi alla sopravvivenza. In seguito, però, la loro situazione è mutata e oggi, grazie all’evoluzione culturale, essi esercitano un controllo abbastanza ampio sul proprio ambiente e su se stessi, grazie al quale possono permettersi di dedicare alla sopravvivenza solo una parte relativamente limitata dei loro sforzi, impegnandosi anche in attività non rivolte direttamente alla sopravvivenza. Per questo motivo la conoscenza umana sembra servire oggi per scopi diversi dalla sopravvivenza. Ma non è così. Anche se, grazie all’evoluzione culturale, gli esseri umani possono dedicare alla sopravvivenza solo una parte relativa-
mente limitata dei loro sforzi, per sopravvivere essi devono comunque continuare a esercitare un controllo sul proprio ambiente e a perfezionarlo. La sopravvivenza rimane perciò una finalità primaria della conoscenza. Questa svolge ancor oggi negli esseri umani il ruolo biologico di servire innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza, e anche l’evoluzione culturale serve innanzitutto a questo. 7. Obiezioni contro la tesi della continuità Naturalmente, che l’evoluzione culturale non si riduca all’evoluzione biologica, non elimina il fatto che tra essa e l’evoluzione biologica vi è un rapporto di continuità. L’evoluzione culturale si sviluppa sulla base dell’evoluzione biologica. In questo senso si può dire che gli esseri umani e la conoscenza umana non sono altro che una parte della natura. Contro la tesi della continuità tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica è stato però obiettato che, attraverso l’evoluzione culturale, gli esseri umani hanno sviluppato forme di pensiero grazie alle quali hanno compiuto un salto qualitativo che ha permesso loro di affrancarsi dai limiti imposti dalla struttura biologica. Perciò essi sono qualitativamente superiori a tutti gli altri organismi, che invece rimangono costretti entro quei limiti. Non esiste una base biologica del pensiero umano, questo è interamente il risultato di fattori culturali. Il fattore decisivo nel salto qualitativo che ha consentito agli esseri umani di affrancarsi dai limiti imposti dalla struttura biologica è il linguaggio, che quindi è lo strumento chiave della superiorità qualitativa degli esseri umani su tutti gli altri organismi. Per esempio, Heidegger afferma che il fatto «che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare scientificamente sull’uomo come organismo, non prova che l’essenza dell’uomo stia in questo ‘organico’, cioè nel corpo spiegato scientificamente»14. E «l’errore del biologismo non è ancora superato per il fatto che alla corporeità dell’uomo si aggiunga l’anima, e all’anima lo spirito»15. Come «l’essenza dell’uomo non consiste nell’essere un organismo animale, questa inadeguata determinazione dell’essenza dell’uomo non può essere eliminata o corretta con la semplice attribuzione all’uomo di 14
13
Popper 1972, p. 246.
15
202
Heidegger 1975-, IX, p. 324. Ibid.
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predisposto gli organismi ad affrontare situazioni simili a quelle che si sono già presentate nel loro passato evolutivo, il mondo presenta situazioni sempre nuove, per le quali non bastano i mezzi derivanti dall’evoluzione biologica, occorrono mezzi più potenti, e questi sono forniti dall’evoluzione culturale. Dunque, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale vi è un rapporto di continuità ma non di coincidenza. Sono perciò ingiustificate affermazioni come quella di Popper secondo cui «dall’ameba ad Einstein vi è solo un passo»13. Anche se, come ammonisce Russell, non si deve definire ‘conoscenza’ in un modo che presupponga un abisso incolmabile tra noi e i nostri antenati che non avevano il vantaggio del linguaggio, l’evoluzione culturale permette di compiere un notevole balzo in avanti rispetto all’evoluzione biologica. Perciò dall’ameba ad Einstein non vi è un solo passo, ma vi sono numerosi e sostanziali passi. L’evoluzione culturale determina una significativa differenza tra gli esseri umani e gli organismi più semplici, come i procarioti. Nel loro sforzo di risolvere il problema della sopravvivenza, tanto gli esseri umani quanto gli altri organismi si trovano costantemente di fronte al problema di disporre solo di risorse limitate. Ma, mentre gli organismi più semplici hanno poco controllo sul proprio ambiente, grazie all’evoluzione culturale gli esseri umani sono capaci di esercitare un notevole controllo su di esso. Certo, per buona parte della loro evoluzione, gli esseri umani si sono trovati in una condizione non molto lontana da quella degli organismi più semplici perché, al pari di essi, hanno avuto un controllo abbastanza limitato sul proprio ambiente e su se stessi, e perciò hanno dovuto dedicare una parte molto ampia dei loro sforzi alla sopravvivenza. In seguito, però, la loro situazione è mutata e oggi, grazie all’evoluzione culturale, essi esercitano un controllo abbastanza ampio sul proprio ambiente e su se stessi, grazie al quale possono permettersi di dedicare alla sopravvivenza solo una parte relativamente limitata dei loro sforzi, impegnandosi anche in attività non rivolte direttamente alla sopravvivenza. Per questo motivo la conoscenza umana sembra servire oggi per scopi diversi dalla sopravvivenza. Ma non è così. Anche se, grazie all’evoluzione culturale, gli esseri umani possono dedicare alla sopravvivenza solo una parte relativa-
mente limitata dei loro sforzi, per sopravvivere essi devono comunque continuare a esercitare un controllo sul proprio ambiente e a perfezionarlo. La sopravvivenza rimane perciò una finalità primaria della conoscenza. Questa svolge ancor oggi negli esseri umani il ruolo biologico di servire innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza, e anche l’evoluzione culturale serve innanzitutto a questo. 7. Obiezioni contro la tesi della continuità Naturalmente, che l’evoluzione culturale non si riduca all’evoluzione biologica, non elimina il fatto che tra essa e l’evoluzione biologica vi è un rapporto di continuità. L’evoluzione culturale si sviluppa sulla base dell’evoluzione biologica. In questo senso si può dire che gli esseri umani e la conoscenza umana non sono altro che una parte della natura. Contro la tesi della continuità tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica è stato però obiettato che, attraverso l’evoluzione culturale, gli esseri umani hanno sviluppato forme di pensiero grazie alle quali hanno compiuto un salto qualitativo che ha permesso loro di affrancarsi dai limiti imposti dalla struttura biologica. Perciò essi sono qualitativamente superiori a tutti gli altri organismi, che invece rimangono costretti entro quei limiti. Non esiste una base biologica del pensiero umano, questo è interamente il risultato di fattori culturali. Il fattore decisivo nel salto qualitativo che ha consentito agli esseri umani di affrancarsi dai limiti imposti dalla struttura biologica è il linguaggio, che quindi è lo strumento chiave della superiorità qualitativa degli esseri umani su tutti gli altri organismi. Per esempio, Heidegger afferma che il fatto «che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare scientificamente sull’uomo come organismo, non prova che l’essenza dell’uomo stia in questo ‘organico’, cioè nel corpo spiegato scientificamente»14. E «l’errore del biologismo non è ancora superato per il fatto che alla corporeità dell’uomo si aggiunga l’anima, e all’anima lo spirito»15. Come «l’essenza dell’uomo non consiste nell’essere un organismo animale, questa inadeguata determinazione dell’essenza dell’uomo non può essere eliminata o corretta con la semplice attribuzione all’uomo di 14
13
Popper 1972, p. 246.
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Heidegger 1975-, IX, p. 324. Ibid.
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un’anima immortale o della facoltà della ragione o del carattere di persona»16. Vi è una essenziale differenza tra l’uomo e ogni altro animale o vegetale, e consiste nel fatto che ai «vegetali e agli animali manca il linguaggio»17. Quest’ultimo non può essere visto semplicemente come «l’estrinsecazione di un organismo», né «può mai essere pensato in modo adeguato alla sua essenza nemmeno in base al suo carattere di segno»18. Infatti l’uomo «non è solo un essere vivente che accanto ad altre facoltà possiede anche il linguaggio. Piuttosto il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo esiste»19. Ma dire che le forme di pensiero che gli esseri umani hanno sviluppato hanno permesso loro di affrancarsi dai limiti imposti dalla loro struttura biologica, non ha fondamento. Le forme di pensiero sviluppate dagli esseri umani sono state rese possibili proprio dalla loro struttura biologica. Come un computer è in grado di eseguire solo quel software che il suo hardware gli consente, così un essere umano è in grado di pensare solo quei pensieri che la sua struttura biologica gli consente. Anzi i pensieri di un essere umano sono l’espressione della sua struttura biologica. Pinker dice che «i ragni tessono ragnatele perché hanno cervelli da ragno, che danno loro la spinta a tessere e la competenza per riuscire a farlo»20. Nello stesso modo si può dire che gli esseri umani pensano i loro pensieri perché hanno cervelli da esseri umani, che danno loro la spinta a pensarli e la competenza per riuscire farlo. Quanto al linguaggio, come osserva Pinker, esso «non è un’invenzione culturale più di quanto non lo sia la posizione eretta»21. Il linguaggio è semplicemente «un pezzo distinto del corredo biologico del nostro cervello»22. Gli esseri umani «sanno parlare più o meno nello stesso senso in cui i ragni sanno tessere ragnatele»23. La loro vantata superiorità qualitativa è solo un pregiudizio antropocentrico. Gli esseri umani sanno fare cose che altri animali non sanno faIvi, IX, pp. 324-325. Ivi, IX, p. 326. 18 Ibid. 19 Ivi, IX, p. 333. 20 Pinker 2000, p. 5. 21 Ibid. 22 Ivi, p. 4. 23 Ivi, p. 5. 16 17
re, così come altri animali sanno fare cose che gli esseri umani non sanno fare. Perciò il linguaggio non va visto «come l’ineffabile essenza dell’unicità umana, ma come un adattamento biologico a comunicare informazioni»24. Esso è «un adattamento evolutivo, al pari dell’occhio»25. Come la tela del ragno è una proiezione esterna del cervello del ragno, così il linguaggio è una proiezione esterna del cervello degli esseri umani. Sia la tela del ragno sia il linguaggio riflettono la struttura biologica degli esseri che li hanno prodotti, e servono a scopi biologici. Ma, si obietterà, la ricerca della bellezza che sta alla base delle supreme creazioni dell’arte non è forse la prova dell’assoluta autonomia dei prodotti culturali rispetto alla matrice biologica? Niente affatto. Questa obiezione trascura che l’attrazione esercitata dalla bellezza ha una chiara funzione biologica perché svolge un ruolo essenziale nella riproduzione delle specie. 8. Conoscenza scientifica ed evoluzione Si è detto che il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone al ruolo biologico ma è in un rapporto di continuità con esso. Questo vale anche per le conoscenze delle scienze naturali. Mach afferma che, anche se «apparentemente la scienza si è sviluppata come il ramo collaterale più superfluo dello sviluppo biologico e della civiltà», oggi «non possiamo più mettere in dubbio che essa sia diventata il fattore biologicamente e culturalmente più propizio. La scienza si è assunta il compito di sostituire all’adattamento che procedeva a tastoni, inconsapevole, un adattamento più rapido, chiaramente consapevole, metodico»26. In effetti, le conoscenze delle scienze naturali contribuiscono in modo essenziale a risolvere il problema della sopravvivenza degli organismi. Esse sono una naturale estensione di quelle su cui si basavano la caccia e le altre attività mediante le quali i nostri più antichi progenitori risolsero il problema della sopravvivenza, nel senso che entrambi questi tipi di conoscenza servono innanzitutto per risolvere tale problema. Ibid. Ivi, p. 11. 26 Mach 1968, p. 462. 24 25
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un’anima immortale o della facoltà della ragione o del carattere di persona»16. Vi è una essenziale differenza tra l’uomo e ogni altro animale o vegetale, e consiste nel fatto che ai «vegetali e agli animali manca il linguaggio»17. Quest’ultimo non può essere visto semplicemente come «l’estrinsecazione di un organismo», né «può mai essere pensato in modo adeguato alla sua essenza nemmeno in base al suo carattere di segno»18. Infatti l’uomo «non è solo un essere vivente che accanto ad altre facoltà possiede anche il linguaggio. Piuttosto il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo esiste»19. Ma dire che le forme di pensiero che gli esseri umani hanno sviluppato hanno permesso loro di affrancarsi dai limiti imposti dalla loro struttura biologica, non ha fondamento. Le forme di pensiero sviluppate dagli esseri umani sono state rese possibili proprio dalla loro struttura biologica. Come un computer è in grado di eseguire solo quel software che il suo hardware gli consente, così un essere umano è in grado di pensare solo quei pensieri che la sua struttura biologica gli consente. Anzi i pensieri di un essere umano sono l’espressione della sua struttura biologica. Pinker dice che «i ragni tessono ragnatele perché hanno cervelli da ragno, che danno loro la spinta a tessere e la competenza per riuscire a farlo»20. Nello stesso modo si può dire che gli esseri umani pensano i loro pensieri perché hanno cervelli da esseri umani, che danno loro la spinta a pensarli e la competenza per riuscire farlo. Quanto al linguaggio, come osserva Pinker, esso «non è un’invenzione culturale più di quanto non lo sia la posizione eretta»21. Il linguaggio è semplicemente «un pezzo distinto del corredo biologico del nostro cervello»22. Gli esseri umani «sanno parlare più o meno nello stesso senso in cui i ragni sanno tessere ragnatele»23. La loro vantata superiorità qualitativa è solo un pregiudizio antropocentrico. Gli esseri umani sanno fare cose che altri animali non sanno faIvi, IX, pp. 324-325. Ivi, IX, p. 326. 18 Ibid. 19 Ivi, IX, p. 333. 20 Pinker 2000, p. 5. 21 Ibid. 22 Ivi, p. 4. 23 Ivi, p. 5. 16 17
re, così come altri animali sanno fare cose che gli esseri umani non sanno fare. Perciò il linguaggio non va visto «come l’ineffabile essenza dell’unicità umana, ma come un adattamento biologico a comunicare informazioni»24. Esso è «un adattamento evolutivo, al pari dell’occhio»25. Come la tela del ragno è una proiezione esterna del cervello del ragno, così il linguaggio è una proiezione esterna del cervello degli esseri umani. Sia la tela del ragno sia il linguaggio riflettono la struttura biologica degli esseri che li hanno prodotti, e servono a scopi biologici. Ma, si obietterà, la ricerca della bellezza che sta alla base delle supreme creazioni dell’arte non è forse la prova dell’assoluta autonomia dei prodotti culturali rispetto alla matrice biologica? Niente affatto. Questa obiezione trascura che l’attrazione esercitata dalla bellezza ha una chiara funzione biologica perché svolge un ruolo essenziale nella riproduzione delle specie. 8. Conoscenza scientifica ed evoluzione Si è detto che il ruolo culturale della conoscenza non si contrappone al ruolo biologico ma è in un rapporto di continuità con esso. Questo vale anche per le conoscenze delle scienze naturali. Mach afferma che, anche se «apparentemente la scienza si è sviluppata come il ramo collaterale più superfluo dello sviluppo biologico e della civiltà», oggi «non possiamo più mettere in dubbio che essa sia diventata il fattore biologicamente e culturalmente più propizio. La scienza si è assunta il compito di sostituire all’adattamento che procedeva a tastoni, inconsapevole, un adattamento più rapido, chiaramente consapevole, metodico»26. In effetti, le conoscenze delle scienze naturali contribuiscono in modo essenziale a risolvere il problema della sopravvivenza degli organismi. Esse sono una naturale estensione di quelle su cui si basavano la caccia e le altre attività mediante le quali i nostri più antichi progenitori risolsero il problema della sopravvivenza, nel senso che entrambi questi tipi di conoscenza servono innanzitutto per risolvere tale problema. Ibid. Ivi, p. 11. 26 Mach 1968, p. 462. 24 25
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Inoltre, questi due tipi di conoscenza si basano su processi conoscitivi abbastanza simili. Per esempio, come i nostri più antichi antenati cacciatori, per scovare le prede, formularono ipotesi sulla base degli indizi – orme, erba calpestata, rami spezzati, escrementi, ecc. – lasciati da esse, nello stesso modo gli scienziati, per risolvere problemi sul mondo, formulano ipotesi sulla base degli indizi lasciati dalla natura. 9. Conoscenza matematica ed evoluzione Ma non sono solo le conoscenze delle scienze naturali che contribuiscono in modo essenziale a risolvere il problema della sopravvivenza degli organismi. Anche le conoscenze matematiche vi contribuiscono. Capacità matematiche sono presenti non solo negli esseri umani ma anche in molte altre specie animali, le quali mostrano di possedere, al pari degli esseri umani, il senso dello spazio, del numero, della grandezza, delle forma, dell’ordine. Tali capacità matematiche hanno chiaramente una funzione biologica e sono un risultato dell’evoluzione biologica. Almeno alcune di esse sono presenti anche negli organismi più semplici, perché sono indispensabili per la ricerca di un ambiente migliore, con più cibo, meno predatori, più partner sessuali, ecc., e tale ricerca è essenziale per la sopravvivenza. Le capacità matematiche presenti nelle specie animali possono anche essere piuttosto sofisticate. Per esempio se, stando su una spiaggia in riva al mare con un cane, si lancia in acqua una palla da tennis diagonalmente, il cane non si tufferà immediatamente in mare nuotando per tutto il percorso fino alla palla, ma correrà per un tratto sulla battigia e solo allora si tufferà, nuotando fino alla palla. Questo dipende dal fatto che, poiché la velocità con cui un cane corre sulla battigia è superiore a quella con cui nuota, il cane sceglierà di tuffarsi in mare in un punto che minimizza il tempo necessario per raggiungere la palla. Tale punto può essere calcolato per mezzo del calcolo infinitesimale, e il punto effettivamente scelto dal cane si avvicina molto a quello così calcolato27. Significa forse questo che i cani conoscono il calcolo infinitesimale? 27
Cfr. Pennings 2003.
Naturalmente no. I cani sono capaci di scegliere il punto ottimale per tuffarsi grazie alla selezione naturale, che dà una capacità di sopravvivenza maggiore a quegli organismi che hanno migliori capacità di giudizio. Perciò il calcolo richiesto per determinare il punto ottimale per tuffarsi non viene effettuato dal cane ma è stato effettuato dalla natura attraverso la selezione naturale. È grazie a essa che i cani sono capaci di risolvere questo problema da calcolo infinitesimale. I cani sono capaci di risolvere problemi da calcolo infinitesimale anche di tipo più complesso. Per esempio, se si lancia in aria un frisbee e si osserva come un cane corre per cercare di afferrarlo al volo quando ricade giù, si vede che il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee. Questo problema è più complesso del precedente perché, per prevedere dove cadrà il frisbee e nello stesso tempo determinare la direzione in cui il cane deve correre per afferrarlo al volo, si deve tener conto simultaneamente della traiettoria e velocità del frisbee e della velocità del cane. La ragione per cui il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee, è che si muove in modo che la traiettoria del frisbee gli appaia come una linea retta28. Il cane riesce a muoversi così grazie a una complessa matematica che l’evoluzione ha incorporato nel suo sistema visivo e motorio, la quale lo porta a muoversi in un modo che gli permette di mantenere il frisbee fisso nel proprio campo visivo. Anche qui, è in virtù dell’evoluzione che il cane è in grado di risolvere tale problema più complesso da calcolo infinitesimale. Capacità matematiche piuttosto sofisticate sono presenti non solo nei cani ma anche in molti altri organismi non umani. E naturalmente negli esseri umani. Per esempio, i giocatori di baseball, quando corrono per afferrare la palla, non corrono in linea retta ma percorrono un arco, e lo fanno per la stessa ragione dei cani quando corrono per afferrare il frisbee. Le capacità matematiche presenti in molti organismi sono la base della matematica naturale, cioè di una matematica incorporata 28
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Cfr. Shaffer-Krauchunas-Eddy-McBeath 2004.
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Inoltre, questi due tipi di conoscenza si basano su processi conoscitivi abbastanza simili. Per esempio, come i nostri più antichi antenati cacciatori, per scovare le prede, formularono ipotesi sulla base degli indizi – orme, erba calpestata, rami spezzati, escrementi, ecc. – lasciati da esse, nello stesso modo gli scienziati, per risolvere problemi sul mondo, formulano ipotesi sulla base degli indizi lasciati dalla natura. 9. Conoscenza matematica ed evoluzione Ma non sono solo le conoscenze delle scienze naturali che contribuiscono in modo essenziale a risolvere il problema della sopravvivenza degli organismi. Anche le conoscenze matematiche vi contribuiscono. Capacità matematiche sono presenti non solo negli esseri umani ma anche in molte altre specie animali, le quali mostrano di possedere, al pari degli esseri umani, il senso dello spazio, del numero, della grandezza, delle forma, dell’ordine. Tali capacità matematiche hanno chiaramente una funzione biologica e sono un risultato dell’evoluzione biologica. Almeno alcune di esse sono presenti anche negli organismi più semplici, perché sono indispensabili per la ricerca di un ambiente migliore, con più cibo, meno predatori, più partner sessuali, ecc., e tale ricerca è essenziale per la sopravvivenza. Le capacità matematiche presenti nelle specie animali possono anche essere piuttosto sofisticate. Per esempio se, stando su una spiaggia in riva al mare con un cane, si lancia in acqua una palla da tennis diagonalmente, il cane non si tufferà immediatamente in mare nuotando per tutto il percorso fino alla palla, ma correrà per un tratto sulla battigia e solo allora si tufferà, nuotando fino alla palla. Questo dipende dal fatto che, poiché la velocità con cui un cane corre sulla battigia è superiore a quella con cui nuota, il cane sceglierà di tuffarsi in mare in un punto che minimizza il tempo necessario per raggiungere la palla. Tale punto può essere calcolato per mezzo del calcolo infinitesimale, e il punto effettivamente scelto dal cane si avvicina molto a quello così calcolato27. Significa forse questo che i cani conoscono il calcolo infinitesimale? 27
Cfr. Pennings 2003.
Naturalmente no. I cani sono capaci di scegliere il punto ottimale per tuffarsi grazie alla selezione naturale, che dà una capacità di sopravvivenza maggiore a quegli organismi che hanno migliori capacità di giudizio. Perciò il calcolo richiesto per determinare il punto ottimale per tuffarsi non viene effettuato dal cane ma è stato effettuato dalla natura attraverso la selezione naturale. È grazie a essa che i cani sono capaci di risolvere questo problema da calcolo infinitesimale. I cani sono capaci di risolvere problemi da calcolo infinitesimale anche di tipo più complesso. Per esempio, se si lancia in aria un frisbee e si osserva come un cane corre per cercare di afferrarlo al volo quando ricade giù, si vede che il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee. Questo problema è più complesso del precedente perché, per prevedere dove cadrà il frisbee e nello stesso tempo determinare la direzione in cui il cane deve correre per afferrarlo al volo, si deve tener conto simultaneamente della traiettoria e velocità del frisbee e della velocità del cane. La ragione per cui il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee, è che si muove in modo che la traiettoria del frisbee gli appaia come una linea retta28. Il cane riesce a muoversi così grazie a una complessa matematica che l’evoluzione ha incorporato nel suo sistema visivo e motorio, la quale lo porta a muoversi in un modo che gli permette di mantenere il frisbee fisso nel proprio campo visivo. Anche qui, è in virtù dell’evoluzione che il cane è in grado di risolvere tale problema più complesso da calcolo infinitesimale. Capacità matematiche piuttosto sofisticate sono presenti non solo nei cani ma anche in molti altri organismi non umani. E naturalmente negli esseri umani. Per esempio, i giocatori di baseball, quando corrono per afferrare la palla, non corrono in linea retta ma percorrono un arco, e lo fanno per la stessa ragione dei cani quando corrono per afferrare il frisbee. Le capacità matematiche presenti in molti organismi sono la base della matematica naturale, cioè di una matematica incorporata 28
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Cfr. Shaffer-Krauchunas-Eddy-McBeath 2004.
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nella struttura biologica degli organismi che è un prodotto dell’evoluzione biologica. La matematica naturale non va confusa con la matematica artificiale, cioè con la matematica come disciplina, che è invece un prodotto dell’evoluzione culturale29. 10. Obiezioni e risposte Contro l’affermazione che capacità matematiche piuttosto sofisticate sono presenti in molti organismi non umani e sono la base della matematica naturale, si potrebbe obiettare che la matematica si fonda su processi che gli esseri umani compiono in modo consapevole, mentre le operazioni matematiche degli organismi non umani non vengono effettuate da essi in modo consapevole, e perciò non si può dire che essi facciano della matematica. Ma questa obiezione trascura che nessuno negherebbe che gli esseri umani, quando risolvono un problema servendosi di un computer, facciano della matematica, e persino che i programmi di matematica computerizzata, quando calcolano il valore di una derivata o di un integrale, facciano della matematica. Ora, il grado di consapevolezza di un programma di matematica computerizzata, qualunque cosa questo possa significare, è inferiore a quello degli organismi non umani. Perciò, se un programma di matematica computerizzata, quando calcola il valore di una derivata o di un integrale, fa della matematica, a maggior ragione i cani, quando calcolano il punto da cui tuffarsi in acqua o il punto in cui cadrà il frisbee, fanno della matematica. Si potrebbe però obiettare che i programmi di matematica computerizzata sono stati progettati da esseri umani per fare della matematica. Perciò all’origine delle loro capacità matematiche stanno pur sempre degli esseri umani. Ma questa obiezione trascura che, come i programmi di matematica computerizzata sono stati progettati da esseri umani per fare della matematica, così anche i cani sono stati progettati dalla na-
tura per fare della matematica, si intende, ‘progettati’, nel senso della selezione naturale. E gli esseri umani che risolvono un problema matematico servendosi di un computer, o che progettano programmi di matematica computerizzata perché facciano della matematica, sono stati anch’essi progettati dalla natura per fare della matematica. Si potrebbe anche obiettare che le capacità matematiche degli organismi non umani sono molto specializzate, cioè adatte per compiti molto particolari, e non per impieghi generali. È vero che anche gli esseri umani hanno capacità matematiche molto specializzate, derivanti dall’evoluzione biologica. Ma da un certo punto in poi, grazie all’evoluzione culturale, essi hanno sviluppato capacità matematiche adatte non solo per compiti molto particolari bensì anche per impieghi generali. Ed essi non si sono limitati a sviluppare capacità matematiche ma hanno saputo utilizzarle per sviluppare la matematica artificiale. In particolare è grazie a tali capacità che essi hanno potuto progettare programmi di matematica computerizzata. Ma questa obiezione trascura che l’evoluzione culturale è una continuazione dell’evoluzione biologica con altri mezzi e poggia su di essa. I soggetti dell’evoluzione culturale, cioè gli esseri umani, sono dotati di capacità che hanno consentito loro di sviluppare la matematica artificiale perché essi sono stati progettati dalla natura per avere tali capacità, ‘progettati’ nel senso della selezione naturale. La credenza opposta, che l’evoluzione culturale sia indipendente da quella biologica, ignora quali sono i soggetti dell’evoluzione culturale, e che questa è inscindibile dalla natura biologica di tali soggetti. La matematica artificiale è stata sviluppata dai soggetti dell’evoluzione culturale grazie a quelle capacità matematiche per le quali la natura li ha progettati. Questo implica che l’opinione che la matematica artificiale sia indipendente dall’evoluzione biologica perché è universale e necessaria, è ingiustificata. Essa non è universale e necessaria perché l’evoluzione culturale non è indipendente dall’evoluzione biologica, e quest’ultima avrebbe potuto dotarci di capacità matematiche differenti se ci fossimo evoluti in un ambiente differente.
29 La matematica artificiale viene talora detta ‘matematica astratta’ (cfr. Devlin 2005, p. 249). Ma chiamarla ‘matematica artificiale’ sembra più opportuno perché sottolinea che si tratta di una matematica che non è un prodotto diretto dell’evoluzione biologica.
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nella struttura biologica degli organismi che è un prodotto dell’evoluzione biologica. La matematica naturale non va confusa con la matematica artificiale, cioè con la matematica come disciplina, che è invece un prodotto dell’evoluzione culturale29. 10. Obiezioni e risposte Contro l’affermazione che capacità matematiche piuttosto sofisticate sono presenti in molti organismi non umani e sono la base della matematica naturale, si potrebbe obiettare che la matematica si fonda su processi che gli esseri umani compiono in modo consapevole, mentre le operazioni matematiche degli organismi non umani non vengono effettuate da essi in modo consapevole, e perciò non si può dire che essi facciano della matematica. Ma questa obiezione trascura che nessuno negherebbe che gli esseri umani, quando risolvono un problema servendosi di un computer, facciano della matematica, e persino che i programmi di matematica computerizzata, quando calcolano il valore di una derivata o di un integrale, facciano della matematica. Ora, il grado di consapevolezza di un programma di matematica computerizzata, qualunque cosa questo possa significare, è inferiore a quello degli organismi non umani. Perciò, se un programma di matematica computerizzata, quando calcola il valore di una derivata o di un integrale, fa della matematica, a maggior ragione i cani, quando calcolano il punto da cui tuffarsi in acqua o il punto in cui cadrà il frisbee, fanno della matematica. Si potrebbe però obiettare che i programmi di matematica computerizzata sono stati progettati da esseri umani per fare della matematica. Perciò all’origine delle loro capacità matematiche stanno pur sempre degli esseri umani. Ma questa obiezione trascura che, come i programmi di matematica computerizzata sono stati progettati da esseri umani per fare della matematica, così anche i cani sono stati progettati dalla na-
tura per fare della matematica, si intende, ‘progettati’, nel senso della selezione naturale. E gli esseri umani che risolvono un problema matematico servendosi di un computer, o che progettano programmi di matematica computerizzata perché facciano della matematica, sono stati anch’essi progettati dalla natura per fare della matematica. Si potrebbe anche obiettare che le capacità matematiche degli organismi non umani sono molto specializzate, cioè adatte per compiti molto particolari, e non per impieghi generali. È vero che anche gli esseri umani hanno capacità matematiche molto specializzate, derivanti dall’evoluzione biologica. Ma da un certo punto in poi, grazie all’evoluzione culturale, essi hanno sviluppato capacità matematiche adatte non solo per compiti molto particolari bensì anche per impieghi generali. Ed essi non si sono limitati a sviluppare capacità matematiche ma hanno saputo utilizzarle per sviluppare la matematica artificiale. In particolare è grazie a tali capacità che essi hanno potuto progettare programmi di matematica computerizzata. Ma questa obiezione trascura che l’evoluzione culturale è una continuazione dell’evoluzione biologica con altri mezzi e poggia su di essa. I soggetti dell’evoluzione culturale, cioè gli esseri umani, sono dotati di capacità che hanno consentito loro di sviluppare la matematica artificiale perché essi sono stati progettati dalla natura per avere tali capacità, ‘progettati’ nel senso della selezione naturale. La credenza opposta, che l’evoluzione culturale sia indipendente da quella biologica, ignora quali sono i soggetti dell’evoluzione culturale, e che questa è inscindibile dalla natura biologica di tali soggetti. La matematica artificiale è stata sviluppata dai soggetti dell’evoluzione culturale grazie a quelle capacità matematiche per le quali la natura li ha progettati. Questo implica che l’opinione che la matematica artificiale sia indipendente dall’evoluzione biologica perché è universale e necessaria, è ingiustificata. Essa non è universale e necessaria perché l’evoluzione culturale non è indipendente dall’evoluzione biologica, e quest’ultima avrebbe potuto dotarci di capacità matematiche differenti se ci fossimo evoluti in un ambiente differente.
29 La matematica artificiale viene talora detta ‘matematica astratta’ (cfr. Devlin 2005, p. 249). Ma chiamarla ‘matematica artificiale’ sembra più opportuno perché sottolinea che si tratta di una matematica che non è un prodotto diretto dell’evoluzione biologica.
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11. Evoluzione e irragionevole efficacia della matematica Che la matematica non sia indipendente dall’evoluzione biologica aiuta a dare una risposta a quella che Wigner chiama «l’irragionevole efficacia della matematica»30. Secondo Wigner, «l’enorme utilità della matematica nelle scienze naturali è qualcosa che confina col misterioso e di cui non esiste alcuna spiegazione razionale»31. Ma nell’efficacia della matematica non vi è nulla di misterioso. Per spiegarla basta chiedersi: come mai la matematica è stata così inefficace nel trattare la natura dall’antichità fino al Seicento, ed è diventata così efficace a partire da allora? Evidentemente la sua efficacia è legata alla svolta che ha dato origine alla scienza moderna. Tale svolta non è stata dovuta a sviluppi tecnici ma è stata di tipo filosofico. Come si è già sottolineato, essa è consistita nella rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali, come pretendeva la scienza aristotelica, contentandosi di conoscerne alcune affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, che sono di carattere matematico. Finché la scienza aristotelica aveva preteso di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, la matematica aveva avuto ben poche possibilità di applicazione al mondo fisico, perché l’essenza non è una quantità e perciò non può essere trattata mediante la matematica. Ma, con la scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico, divenne possibile usare la matematica per trattare la natura. In virtù di tale scelta il moto, ad esempio, non fu più considerato, come nella scienza aristotelica, una qualità di corpi reali. Al contrario i corpi in movimento vennero considerati oggetti matematici che si muovono in uno spazio matematico. Non è dunque per una ragione misteriosa che, a partire dal Seicento, certe parti della matematica hanno trovato applicazione al mondo fisico. È semplicemente una conseguenza della scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze 30 31
Wigner 1960, p. 1. Ibid.
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naturali, contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico. Questa spiegazione dell’efficacia della matematica nel trattare la natura, però, è parziale perché considera la causa prossima dell’efficacia della matematica, ma non la causa remota. Alla luce di quanto si è detto sulla dipendenza della matematica dall’evoluzione biologica, la causa remota sta nel fatto che noi siamo stati progettati dalla natura per fare della matematica, ‘progettati’ nel senso della selezione naturale. Essa ci ha dotato di certe capacità matematiche che sono la base della matematica naturale, e sono anche, indirettamente, la base della matematica artificiale perché questa viene sviluppata grazie a tali capacità matematiche. Su ciò si è innestata la scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico. Come si è già sottolineato, tali affezioni dipendono da come noi concepiamo le cose, e perciò sono anch’esse legate alle capacità matematiche di cui la natura ci ha dotato, e vengono trattate mediante la matematica artificiale, la quale viene sviluppata grazie a quelle capacità matematiche. Questo chiarisce perché la causa remota dell’efficacia della matematica nel trattare la natura sta nel fatto che noi siamo stati progettati dalla natura per fare della matematica. Noi non siamo estranei alla natura ma ne facciamo parte. Come risultato dell’evoluzione, la natura ci ha dotato di certe capacità matematiche che sono la base della matematica naturale, e sono anche, indirettamente, la base della matematica artificiale perché questa viene sviluppata grazie a quelle capacità matematiche. Tali capacità matematiche sono altresì la base del nostro concepire le sostanze naturali come dotate di affezioni di tipo matematico, quali il luogo, il moto, la figura, la grandezza. Dunque, contrariamente a quanto afferma Wigner, nell’efficacia della matematica nel trattare la natura non vi è nulla di misterioso. Gli esseri umani sopravvivono perché sono stati dotati dalla natura di certe capacità matematiche, grazie alle quali posseggono una matematica naturale e possono sviluppare una matematica artificiale che permette loro di trattare le affezioni di tipo matematico che sono oggetto della scienza moderna. Perciò un po’ paradossalmente si potrebbe dire che la matematica è efficace nel trattare la natura perché gli esseri umani sopravvivono. 211
11. Evoluzione e irragionevole efficacia della matematica Che la matematica non sia indipendente dall’evoluzione biologica aiuta a dare una risposta a quella che Wigner chiama «l’irragionevole efficacia della matematica»30. Secondo Wigner, «l’enorme utilità della matematica nelle scienze naturali è qualcosa che confina col misterioso e di cui non esiste alcuna spiegazione razionale»31. Ma nell’efficacia della matematica non vi è nulla di misterioso. Per spiegarla basta chiedersi: come mai la matematica è stata così inefficace nel trattare la natura dall’antichità fino al Seicento, ed è diventata così efficace a partire da allora? Evidentemente la sua efficacia è legata alla svolta che ha dato origine alla scienza moderna. Tale svolta non è stata dovuta a sviluppi tecnici ma è stata di tipo filosofico. Come si è già sottolineato, essa è consistita nella rinuncia a conoscere l’essenza delle sostanze naturali, come pretendeva la scienza aristotelica, contentandosi di conoscerne alcune affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, che sono di carattere matematico. Finché la scienza aristotelica aveva preteso di conoscere l’essenza delle sostanze naturali, la matematica aveva avuto ben poche possibilità di applicazione al mondo fisico, perché l’essenza non è una quantità e perciò non può essere trattata mediante la matematica. Ma, con la scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico, divenne possibile usare la matematica per trattare la natura. In virtù di tale scelta il moto, ad esempio, non fu più considerato, come nella scienza aristotelica, una qualità di corpi reali. Al contrario i corpi in movimento vennero considerati oggetti matematici che si muovono in uno spazio matematico. Non è dunque per una ragione misteriosa che, a partire dal Seicento, certe parti della matematica hanno trovato applicazione al mondo fisico. È semplicemente una conseguenza della scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze 30 31
Wigner 1960, p. 1. Ibid.
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naturali, contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico. Questa spiegazione dell’efficacia della matematica nel trattare la natura, però, è parziale perché considera la causa prossima dell’efficacia della matematica, ma non la causa remota. Alla luce di quanto si è detto sulla dipendenza della matematica dall’evoluzione biologica, la causa remota sta nel fatto che noi siamo stati progettati dalla natura per fare della matematica, ‘progettati’ nel senso della selezione naturale. Essa ci ha dotato di certe capacità matematiche che sono la base della matematica naturale, e sono anche, indirettamente, la base della matematica artificiale perché questa viene sviluppata grazie a tali capacità matematiche. Su ciò si è innestata la scelta della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni di carattere matematico. Come si è già sottolineato, tali affezioni dipendono da come noi concepiamo le cose, e perciò sono anch’esse legate alle capacità matematiche di cui la natura ci ha dotato, e vengono trattate mediante la matematica artificiale, la quale viene sviluppata grazie a quelle capacità matematiche. Questo chiarisce perché la causa remota dell’efficacia della matematica nel trattare la natura sta nel fatto che noi siamo stati progettati dalla natura per fare della matematica. Noi non siamo estranei alla natura ma ne facciamo parte. Come risultato dell’evoluzione, la natura ci ha dotato di certe capacità matematiche che sono la base della matematica naturale, e sono anche, indirettamente, la base della matematica artificiale perché questa viene sviluppata grazie a quelle capacità matematiche. Tali capacità matematiche sono altresì la base del nostro concepire le sostanze naturali come dotate di affezioni di tipo matematico, quali il luogo, il moto, la figura, la grandezza. Dunque, contrariamente a quanto afferma Wigner, nell’efficacia della matematica nel trattare la natura non vi è nulla di misterioso. Gli esseri umani sopravvivono perché sono stati dotati dalla natura di certe capacità matematiche, grazie alle quali posseggono una matematica naturale e possono sviluppare una matematica artificiale che permette loro di trattare le affezioni di tipo matematico che sono oggetto della scienza moderna. Perciò un po’ paradossalmente si potrebbe dire che la matematica è efficace nel trattare la natura perché gli esseri umani sopravvivono. 211
14.
12. Evoluzione e teleologia Che la matematica, e in generale l’evoluzione culturale, non sia indipendente dall’evoluzione biologica, implica che la conoscenza, mentre ha un fine immediato, cioè la sopravvivenza, non ha un fine ultimo, perché l’evoluzione non lo ha. Popper afferma che «lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo che somiglia strettamente a ciò che Darwin chiama ‘selezione naturale’; cioè la selezione naturale delle ipotesi»32. Tale processo ha un fine ultimo, cioè quello di «trovare teorie vere, o almeno teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente»33. Ma ritenere che la conoscenza abbia un fine ultimo è ingiustificato. Se, come afferma Popper, la conoscenza è il risultato di un processo che somiglia strettamente alla selezione naturale, essa non ha un fine ultimo perché l’evoluzione biologica non lo ha. In particolare, ritenere che la conoscenza abbia come fine ultimo trovare teorie vere, o almeno teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente, contraddice l’affermazione di Popper che, per quanto grande sia il grado di corroborazione di una teoria, cioè, per quanto severi siano i controlli a cui essa ha resistito, è sempre possibile che la teoria possa essere falsa anche se supera tutti quei controlli, e perciò tutte le nostre teorie possono essere false. Se è così, allora lo scopo di trovare teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente è vuoto, dal momento che anche le nuove teorie che eventualmente trovassimo in futuro potrebbero essere false, e teorie false non possono in alcun senso essere vicine alla verità. 32 33
Popper 1972, p. 261. Ivi, p. 264.
La conoscenza come soluzione di problemi
1. Centralità dei problemi per la conoscenza Che la conoscenza serva innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza non è che un caso particolare della circostanza generale che tutta la conoscenza è soluzione di problemi, da quello basilare della sopravvivenza ad altri meno basilari. All’origine della conoscenza sta il fatto che un organismo ha un problema. Se il problema è importante per l’organismo, nasce per esso l’esigenza di trovarne una soluzione. Se il problema è importante per la sopravvivenza stessa dell’organismo, trovarne una soluzione è vitale per esso. Naturalmente non tutta la conoscenza nasce dall’esigenza di risolvere problemi vitali, ma ovviamente questi hanno la priorità rispetto a tutti gli altri. La soluzione di un problema, quando ha successo, produce conoscenza. Ma già vedere che c’è un problema produce conoscenza perché costituisce già di per sé una scoperta. Che la conoscenza sia soluzione di problemi vale per ogni tipo di conoscenza, ivi compresa la conoscenza matematica. Infatti, la matematica parte da problemi suggeriti direttamente dall’esperienza o suggeriti da altri problemi e cerca di trovarne soluzioni, dove i problemi fungono da guida e principio di organizzazione della ricerca. 2. Soluzione di problemi e metodo analitico Ma come si risolve un problema? Questa domanda spesso riceve risposte incongrue, come quella di Proclo, che «il miglior mezzo per la scoperta dei lemmi è un’attitudine mentale a essa»1. O come quel1
Proclo 1992, 211.12-14.
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12. Evoluzione e teleologia Che la matematica, e in generale l’evoluzione culturale, non sia indipendente dall’evoluzione biologica, implica che la conoscenza, mentre ha un fine immediato, cioè la sopravvivenza, non ha un fine ultimo, perché l’evoluzione non lo ha. Popper afferma che «lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo che somiglia strettamente a ciò che Darwin chiama ‘selezione naturale’; cioè la selezione naturale delle ipotesi»32. Tale processo ha un fine ultimo, cioè quello di «trovare teorie vere, o almeno teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente»33. Ma ritenere che la conoscenza abbia un fine ultimo è ingiustificato. Se, come afferma Popper, la conoscenza è il risultato di un processo che somiglia strettamente alla selezione naturale, essa non ha un fine ultimo perché l’evoluzione biologica non lo ha. In particolare, ritenere che la conoscenza abbia come fine ultimo trovare teorie vere, o almeno teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente, contraddice l’affermazione di Popper che, per quanto grande sia il grado di corroborazione di una teoria, cioè, per quanto severi siano i controlli a cui essa ha resistito, è sempre possibile che la teoria possa essere falsa anche se supera tutti quei controlli, e perciò tutte le nostre teorie possono essere false. Se è così, allora lo scopo di trovare teorie che siano più vicine alla verità delle teorie che ci sono note al presente è vuoto, dal momento che anche le nuove teorie che eventualmente trovassimo in futuro potrebbero essere false, e teorie false non possono in alcun senso essere vicine alla verità. 32 33
Popper 1972, p. 261. Ivi, p. 264.
La conoscenza come soluzione di problemi
1. Centralità dei problemi per la conoscenza Che la conoscenza serva innanzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza non è che un caso particolare della circostanza generale che tutta la conoscenza è soluzione di problemi, da quello basilare della sopravvivenza ad altri meno basilari. All’origine della conoscenza sta il fatto che un organismo ha un problema. Se il problema è importante per l’organismo, nasce per esso l’esigenza di trovarne una soluzione. Se il problema è importante per la sopravvivenza stessa dell’organismo, trovarne una soluzione è vitale per esso. Naturalmente non tutta la conoscenza nasce dall’esigenza di risolvere problemi vitali, ma ovviamente questi hanno la priorità rispetto a tutti gli altri. La soluzione di un problema, quando ha successo, produce conoscenza. Ma già vedere che c’è un problema produce conoscenza perché costituisce già di per sé una scoperta. Che la conoscenza sia soluzione di problemi vale per ogni tipo di conoscenza, ivi compresa la conoscenza matematica. Infatti, la matematica parte da problemi suggeriti direttamente dall’esperienza o suggeriti da altri problemi e cerca di trovarne soluzioni, dove i problemi fungono da guida e principio di organizzazione della ricerca. 2. Soluzione di problemi e metodo analitico Ma come si risolve un problema? Questa domanda spesso riceve risposte incongrue, come quella di Proclo, che «il miglior mezzo per la scoperta dei lemmi è un’attitudine mentale a essa»1. O come quel1
Proclo 1992, 211.12-14.
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la di Pólya, che «la prima regola di scoperta è avere cervello e buona fortuna»2. Queste risposte sono incongrue perché sono del tipo di quella del baccelliere di Molière il quale dice che l’oppio fa dormire ‘quia est in eo virtus dormitiva’. Esse, infatti, equivalgono a dire che uno risolve un problema ‘quia est in eo virtus solutiva’. Tali risposte sono tanto più incongrue in quanto Proclo e Pólya ammettono che esistono metodi di scoperta, il migliore dei quali è il metodo analitico. Così Proclo afferma che, sebbene il mezzo migliore per la scoperta dei lemmi sia un’attitudine mentale a essa, «ci sono stati dati certi metodi, il migliore dei quali è il metodo analitico, che riconduce la cosa cercata a un principio riconosciuto»3. E Pólya afferma che, sebbene la prima regola di scoperta sia avere cervello e buona fortuna, un’euristica ragionevole «può sforzarsi di studiare procedure (operazioni, mosse, passi mentali) che sono tipicamente utili per risolvere problemi» e sono di fatto «praticate da ogni persona sana sufficientemente interessata al suo problema»4. La migliore di tali procedure è «il metodo analitico, o metodo della ‘risoluzione all’indietro’»5. Questo rende ragionevole che alla domanda ‘Come si risolve un problema?’, si risponda: mediante il metodo analitico. Tale metodo è stato riconosciuto fin dall’antichità come il principale metodo per la soluzione di problemi, ed è in primo luogo per mezzo di esso che un organismo, qualsiasi organismo, risolve un problema. Come si è già detto, il metodo analitico è il metodo in base al quale, per risolvere un problema, partendo dal problema si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’ipotesi che è una condizione sufficiente per la sua soluzione, e si controlla se l’ipotesi è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. L’ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo. Cioè, partendo dall’ipotesi si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’altra ipotesi che è una condizione sufficiente per la soluzione del problema costituito dall’ipotesi precedente, e si controlla se essa è plausibile. E così via. Dunque la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Pólya 1948, p. 158. Proclo 1992, 211.18-21. 4 Pólya 1948, p. 159. 5 Ivi, p. 198. 2 3
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3. Prima teorizzazione del metodo analitico La prima teorizzazione del metodo analitico si deve a Platone, il quale, alla domanda come si risolve un problema, risponde: «In ciascuna occasione io assumo l’ipotesi che giudico essere la più solida, e considero come vere le cose che mi sembrano accordarsi con essa» mentre «considero come non vere le cose che non mi sembrano accordarsi con essa»6. Una volta assunta un’ipotesi, tu però non andresti avanti finché «non ne avessi indagato le conseguenze, per vedere se esse si accordino o non si accordino tra loro»7. Inoltre, dovresti render conto dell’ipotesi stessa, e, «per render conto dell’ipotesi, tu ne daresti conto nello stesso modo, cioè assumendo un’altra ipotesi, quella che ti sembrasse la migliore tra le ipotesi più elevate, fino a che tu non arrivassi a qualcosa» di provvisoriamente «sufficiente»8. E così via. Dunque la soluzione di un problema è «un esercizio senza fine»9. Che per Platone la soluzione di un problema sia un esercizio senza fine mostra quanto sia ingiustificata l’affermazione di Husserl che l’antichità non arrivò «a riconoscere la possibilità di un compito infinito»10. Quello che Platone prospetta è appunto un tale compito. Platone usa il metodo analitico per risolvere problemi filosofici di vario genere. Un problema filosofico risolto da Platone mediante il metodo analitico è: stabilire se la virtù è insegnabile. Per risolvere tale problema Platone formula la seguente ipotesi: (A) «La virtù è scienza»11. L’ipotesi (A) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, «all’uomo non è insegnabile se non la scienza»12. Perciò da (A) segue che la virtù «è insegnabile»13. Questo risolve il problema. Platone, Phaedo, 100 a 3-7. Ivi, 101 d 4-5. 8 Ivi, 101 d 5-e 1. 9 Platone, Parmenides, 136 c 7. 10 Husserl 1950-, VI, p. 19. 11 Platone, Meno, 87 c 5. 12 Ivi, 87 c 2-3. 13 Ivi, 87 c 6. 6 7
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la di Pólya, che «la prima regola di scoperta è avere cervello e buona fortuna»2. Queste risposte sono incongrue perché sono del tipo di quella del baccelliere di Molière il quale dice che l’oppio fa dormire ‘quia est in eo virtus dormitiva’. Esse, infatti, equivalgono a dire che uno risolve un problema ‘quia est in eo virtus solutiva’. Tali risposte sono tanto più incongrue in quanto Proclo e Pólya ammettono che esistono metodi di scoperta, il migliore dei quali è il metodo analitico. Così Proclo afferma che, sebbene il mezzo migliore per la scoperta dei lemmi sia un’attitudine mentale a essa, «ci sono stati dati certi metodi, il migliore dei quali è il metodo analitico, che riconduce la cosa cercata a un principio riconosciuto»3. E Pólya afferma che, sebbene la prima regola di scoperta sia avere cervello e buona fortuna, un’euristica ragionevole «può sforzarsi di studiare procedure (operazioni, mosse, passi mentali) che sono tipicamente utili per risolvere problemi» e sono di fatto «praticate da ogni persona sana sufficientemente interessata al suo problema»4. La migliore di tali procedure è «il metodo analitico, o metodo della ‘risoluzione all’indietro’»5. Questo rende ragionevole che alla domanda ‘Come si risolve un problema?’, si risponda: mediante il metodo analitico. Tale metodo è stato riconosciuto fin dall’antichità come il principale metodo per la soluzione di problemi, ed è in primo luogo per mezzo di esso che un organismo, qualsiasi organismo, risolve un problema. Come si è già detto, il metodo analitico è il metodo in base al quale, per risolvere un problema, partendo dal problema si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’ipotesi che è una condizione sufficiente per la sua soluzione, e si controlla se l’ipotesi è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. L’ipotesi costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo. Cioè, partendo dall’ipotesi si formula, mediante un’inferenza non deduttiva, un’altra ipotesi che è una condizione sufficiente per la soluzione del problema costituito dall’ipotesi precedente, e si controlla se essa è plausibile. E così via. Dunque la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Pólya 1948, p. 158. Proclo 1992, 211.18-21. 4 Pólya 1948, p. 159. 5 Ivi, p. 198. 2 3
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3. Prima teorizzazione del metodo analitico La prima teorizzazione del metodo analitico si deve a Platone, il quale, alla domanda come si risolve un problema, risponde: «In ciascuna occasione io assumo l’ipotesi che giudico essere la più solida, e considero come vere le cose che mi sembrano accordarsi con essa» mentre «considero come non vere le cose che non mi sembrano accordarsi con essa»6. Una volta assunta un’ipotesi, tu però non andresti avanti finché «non ne avessi indagato le conseguenze, per vedere se esse si accordino o non si accordino tra loro»7. Inoltre, dovresti render conto dell’ipotesi stessa, e, «per render conto dell’ipotesi, tu ne daresti conto nello stesso modo, cioè assumendo un’altra ipotesi, quella che ti sembrasse la migliore tra le ipotesi più elevate, fino a che tu non arrivassi a qualcosa» di provvisoriamente «sufficiente»8. E così via. Dunque la soluzione di un problema è «un esercizio senza fine»9. Che per Platone la soluzione di un problema sia un esercizio senza fine mostra quanto sia ingiustificata l’affermazione di Husserl che l’antichità non arrivò «a riconoscere la possibilità di un compito infinito»10. Quello che Platone prospetta è appunto un tale compito. Platone usa il metodo analitico per risolvere problemi filosofici di vario genere. Un problema filosofico risolto da Platone mediante il metodo analitico è: stabilire se la virtù è insegnabile. Per risolvere tale problema Platone formula la seguente ipotesi: (A) «La virtù è scienza»11. L’ipotesi (A) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, «all’uomo non è insegnabile se non la scienza»12. Perciò da (A) segue che la virtù «è insegnabile»13. Questo risolve il problema. Platone, Phaedo, 100 a 3-7. Ivi, 101 d 4-5. 8 Ivi, 101 d 5-e 1. 9 Platone, Parmenides, 136 c 7. 10 Husserl 1950-, VI, p. 19. 11 Platone, Meno, 87 c 5. 12 Ivi, 87 c 2-3. 13 Ivi, 87 c 6. 6 7
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Ma l’ipotesi (A) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto da Platone nello stesso modo, formulando la seguente nuova ipotesi: (A) «La virtù è un bene»14. L’ipotesi (A) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, «non vi è alcun bene che la scienza non includa in sé»15. Perciò da (A) segue che la virtù è scienza. Dunque, «facendo l’ipotesi che la virtù sia scienza, congetturiamo correttamente»16. Mediante essa, infatti, si ottiene (A). Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (A) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. 4. Origine del metodo analitico Sebbene la prima teorizzazione del metodo analitico si debba a Platone, la pratica di tale metodo è anteriore. Il metodo analitico era già stato usato da Ippocrate di Chio per risolvere vari problemi geometrici. Un problema geometrico risolto da Ippocrate di Chio mediante il metodo analitico è quello della duplicazione del cubo: trovare il lato del cubo di volume doppio del volume di un cubo dato. Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio formula la seguente ipotesi:
L’ipotesi (B) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Da essa, infatti, segue che, dati a e b, si possono trovare x e y tali che a x x y y b, donde (a x)3 (a x)(x y)(y b) e quindi (a x)3 a b. Per b 2a si ha allora (a x)3 1 2, da cui si ottiene x3 2a3, cioè un cubo di volume doppio di quello del cubo di lato a. Dunque, se il cubo dato ha lato a, il lato del cubo di volume doppio sarà x. Pertanto, sotto l’ipotesi (B), «il cubo sarà duplicato»17. Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (B) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto da Menecmo formulando la seguente nuova ipotesi: (B) I medi proporzionali x e y tra due segmenti di retta a e b sono le coordinate del punto di intersezione delle due parabole che soddisfano rispettivamente le condizioni x2 ay e y2 bx. L’ipotesi (B) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, date due rette AB b e BC a perpendicolari tra loro, prolunghiamole dal punto B. Tracciamo le due parabole che soddisfano rispettivamente le condizioni x2 ay e y2 bx. Sia F il punto di intersezione di tali due parabole oltre B. Tracciamo il rettangolo compreso tra le rette EF e DF. x2 = ay
(B) Dati due segmenti di retta a e b, se ne possono sempre trovare altri due, x e y, che sono i medi proporzionali in proporzione continua tra a e b, cioè tali che a x x y y b.
E
__________ a ____________ x _______________ y __________________ b
CENTRARE L'IMMAGINE
A
B
C Ivi, 87 d 2-3. Ivi, 87 d 6-7. 16 Ivi, 87 d 7-8. 14 15
17
216
Eutocio 1972, p. 88, 21.
217
F
D
y2 = bx
Ma l’ipotesi (A) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto da Platone nello stesso modo, formulando la seguente nuova ipotesi: (A) «La virtù è un bene»14. L’ipotesi (A) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, «non vi è alcun bene che la scienza non includa in sé»15. Perciò da (A) segue che la virtù è scienza. Dunque, «facendo l’ipotesi che la virtù sia scienza, congetturiamo correttamente»16. Mediante essa, infatti, si ottiene (A). Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (A) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. 4. Origine del metodo analitico Sebbene la prima teorizzazione del metodo analitico si debba a Platone, la pratica di tale metodo è anteriore. Il metodo analitico era già stato usato da Ippocrate di Chio per risolvere vari problemi geometrici. Un problema geometrico risolto da Ippocrate di Chio mediante il metodo analitico è quello della duplicazione del cubo: trovare il lato del cubo di volume doppio del volume di un cubo dato. Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio formula la seguente ipotesi:
L’ipotesi (B) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Da essa, infatti, segue che, dati a e b, si possono trovare x e y tali che a x x y y b, donde (a x)3 (a x)(x y)(y b) e quindi (a x)3 a b. Per b 2a si ha allora (a x)3 1 2, da cui si ottiene x3 2a3, cioè un cubo di volume doppio di quello del cubo di lato a. Dunque, se il cubo dato ha lato a, il lato del cubo di volume doppio sarà x. Pertanto, sotto l’ipotesi (B), «il cubo sarà duplicato»17. Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (B) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto da Menecmo formulando la seguente nuova ipotesi: (B) I medi proporzionali x e y tra due segmenti di retta a e b sono le coordinate del punto di intersezione delle due parabole che soddisfano rispettivamente le condizioni x2 ay e y2 bx. L’ipotesi (B) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, date due rette AB b e BC a perpendicolari tra loro, prolunghiamole dal punto B. Tracciamo le due parabole che soddisfano rispettivamente le condizioni x2 ay e y2 bx. Sia F il punto di intersezione di tali due parabole oltre B. Tracciamo il rettangolo compreso tra le rette EF e DF. x2 = ay
(B) Dati due segmenti di retta a e b, se ne possono sempre trovare altri due, x e y, che sono i medi proporzionali in proporzione continua tra a e b, cioè tali che a x x y y b.
E
__________ a ____________ x _______________ y __________________ b
CENTRARE L'IMMAGINE
A
B
C Ivi, 87 d 2-3. Ivi, 87 d 6-7. 16 Ivi, 87 d 7-8. 14 15
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Eutocio 1972, p. 88, 21.
217
F
D
y2 = bx
Dall’ipotesi (B) segue che BD EF x e BE DF y. Poiché x2 ay, si ha BD2 BC BE, da cui segue che BC BD BD BE. Nello stesso modo, poiché y2 bx, si ha BE2 AB BD, da cui segue che BD BE BE AB. Perciò BC BD BD BE BE AB, cioè a x x y y b, che è «ciò che si doveva trovare»18. Cioè (B). Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (B) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. Un altro problema geometrico risolto da Ippocrate di Chio mediante il metodo analitico è: quadrare le lunule che si ottengono tracciando un semicerchio sull’ipotenusa e su ciascuno dei cateti di un triangolo rettangolo isoscele.
Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio formula la seguente ipotesi: (C) I cerchi stanno tra loro come i quadrati sui loro diametri. L’ipotesi (C) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti da (C), poiché per il teorema di Pitagora il quadrato sull’ipotenusa è la somma dei quadrati sui cateti, segue che il semicerchio sull’ipotenusa è la somma dei semicerchi sui cateti. Ma il semicerchio sull’ipotenusa consiste del triangolo rettangolo isoscele più i due segmenti circolari, e la somma dei semicerchi sui cateti consiste delle due lunule più i due segmenti circolari. Perciò il triangolo rettangolo isoscele è la somma delle due lunule. Dunque, sotto l’ipotesi (C), si arriva alla quadratura delle due lunule. Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (C) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto, secondo alcuni dallo stesso Ippocrate di Chio, ma più verosimilmente da Eudosso, formulando la seguente nuova ipotesi: 18
(C) Poligoni simili inscritti in cerchi stanno tra loro come i quadrati sui loro diametri. L’ipotesi (C) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, siano A, B due cerchi e C, D i quadrati sui loro diaC A C A C A metri. Supponiamo che oppure . . Allora o D B D B D B A C A C , allora, per qualche A A, sarà . Siano Pn, Qn B B D D i poligoni di n lati inscritti in A, B rispettivamente. Per n sufficientemente grande sarà A Pn A A, e quindi Pn A. Da (C) segue A A C C P P che n , da cui, poiché , si ottiene n . Da ciò, D Qn D Qn B B poiché Pn A, segue che Q n B. Ma questo è impossibile, perché C A Qn è inscritto in B. Similmente nel caso . Se ne conclude che D B A C B D , che è ciò che si doveva trovare. Si è infatti ottenuto (C). QueSe
sto risolve il problema. Ma l’ipotesi (C) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. 5. Fortuna del metodo analitico Sebbene non sia generalmente riconosciuto, il metodo analitico ha continuato a essere il principale metodo di soluzione di problemi fino ai nostri giorni. Un esempio di ciò è dato dal problema di Fermat: stabilire se esistono numeri interi positivi x, y, z tali che xn yn zn per n 2. Si dice comunemente che il problema di Fermat è stato risolto da Wiles e Taylor. Ma non è così. Esso è stato risolto da Ribet mediante la seguente ipotesi, formulata da Taniyama e Shimura: (D) Ogni curva ellittica sui numeri razionali è una forma modulare. L’ipotesi (D) è una condizione sufficiente per la soluzione del
Ivi, p. 84, 6-7.
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Dall’ipotesi (B) segue che BD EF x e BE DF y. Poiché x2 ay, si ha BD2 BC BE, da cui segue che BC BD BD BE. Nello stesso modo, poiché y2 bx, si ha BE2 AB BD, da cui segue che BD BE BE AB. Perciò BC BD BD BE BE AB, cioè a x x y y b, che è «ciò che si doveva trovare»18. Cioè (B). Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (B) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. Un altro problema geometrico risolto da Ippocrate di Chio mediante il metodo analitico è: quadrare le lunule che si ottengono tracciando un semicerchio sull’ipotenusa e su ciascuno dei cateti di un triangolo rettangolo isoscele.
Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio formula la seguente ipotesi: (C) I cerchi stanno tra loro come i quadrati sui loro diametri. L’ipotesi (C) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti da (C), poiché per il teorema di Pitagora il quadrato sull’ipotenusa è la somma dei quadrati sui cateti, segue che il semicerchio sull’ipotenusa è la somma dei semicerchi sui cateti. Ma il semicerchio sull’ipotenusa consiste del triangolo rettangolo isoscele più i due segmenti circolari, e la somma dei semicerchi sui cateti consiste delle due lunule più i due segmenti circolari. Perciò il triangolo rettangolo isoscele è la somma delle due lunule. Dunque, sotto l’ipotesi (C), si arriva alla quadratura delle due lunule. Questo risolve il problema. Ma l’ipotesi (C) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto, secondo alcuni dallo stesso Ippocrate di Chio, ma più verosimilmente da Eudosso, formulando la seguente nuova ipotesi: 18
(C) Poligoni simili inscritti in cerchi stanno tra loro come i quadrati sui loro diametri. L’ipotesi (C) è una condizione sufficiente per la soluzione del problema. Infatti, siano A, B due cerchi e C, D i quadrati sui loro diaC A C A C A metri. Supponiamo che oppure . . Allora o D B D B D B A C A C , allora, per qualche A A, sarà . Siano Pn, Qn B B D D i poligoni di n lati inscritti in A, B rispettivamente. Per n sufficientemente grande sarà A Pn A A, e quindi Pn A. Da (C) segue A A C C P P che n , da cui, poiché , si ottiene n . Da ciò, D Qn D Qn B B poiché Pn A, segue che Q n B. Ma questo è impossibile, perché C A Qn è inscritto in B. Similmente nel caso . Se ne conclude che D B A C B D , che è ciò che si doveva trovare. Si è infatti ottenuto (C). QueSe
sto risolve il problema. Ma l’ipotesi (C) costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto. E così via all’infinito. 5. Fortuna del metodo analitico Sebbene non sia generalmente riconosciuto, il metodo analitico ha continuato a essere il principale metodo di soluzione di problemi fino ai nostri giorni. Un esempio di ciò è dato dal problema di Fermat: stabilire se esistono numeri interi positivi x, y, z tali che xn yn zn per n 2. Si dice comunemente che il problema di Fermat è stato risolto da Wiles e Taylor. Ma non è così. Esso è stato risolto da Ribet mediante la seguente ipotesi, formulata da Taniyama e Shimura: (D) Ogni curva ellittica sui numeri razionali è una forma modulare. L’ipotesi (D) è una condizione sufficiente per la soluzione del
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problema. Infatti Ribet ha mostrato che se, per qualche n 2, esistessero numeri interi positivi x, y, z tali che xn yn zn, essi darebbero luogo a una curva ellittica che non è una forma modulare, contraddicendo (D). Ma l’ipotesi di Taniyama e Shimura costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, ed è stato risolto da Wiles e Taylor nello stesso modo, facendo uso di ipotesi riguardanti vari campi della matematica, dalla geometria differenziale all’analisi complessa. Dunque ciò che Wiles e Taylor hanno risolto non è il problema di Fermat ma il problema costituito dall’ipotesi di Taniyama e Shimura. Si potrebbe obiettare che il problema di Fermat non è stato risolto da Ribet perché, per risolverlo, egli si è servito di un’ipotesi, quella di Taniyama e Shimura, che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Poiché il problema costituito da tale ipotesi è stato risolto da Wiles e Taylor, la soluzione del problema di Fermat deve essere attribuita a loro. Ma questa obiezione ha conseguenze paradossali. Infatti, come si è già detto, per risolvere il problema costituito dall’ipotesi di Taniyama e Shimura, Wiles e Taylor si sono serviti di ipotesi riguardanti vari campi della matematica, le quali poggiano a loro volta su altre ipotesi, ed infine sugli assiomi della teoria degli insiemi. Ora, gli assiomi della teoria degli insiemi non sono stati ancora dimostrati. Perciò, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché per risolverlo si è servito di un’ipotesi, l’ipotesi di Taniyama e Shimura, che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Wiles e Taylor hanno risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si sono serviti di ipotesi, gli assiomi della teoria degli insiemi, che a tutt’oggi non sono state ancora dimostrate. La situazione è del tutto simile a quella della soluzione di Ippocrate di Chio del problema della duplicazione del cubo. Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio si è servito di un’ipotesi, l’ipotesi (B), che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Successivamente il problema costituito dall’ipotesi (B) è stato risolto da Menecmo servendosi di un’altra ipotesi, l’ipotesi (B), la quale poggia a sua volta su altre ipotesi ed infine sugli assiomi della geometria. Perciò, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Ippocrate di Chio ha risolto il proble220
ma della duplicazione del cubo perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Lo stesso vale per la soluzione di Ippocrate di Chio del problema della quadratura della lunula. Anche qui, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Ippocrate di Chio ha risolto il problema della quadratura della lunula perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Come si è detto, la soluzione del problema di Fermat è un esempio del fatto che il metodo analitico ha continuato a essere il principale metodo di soluzione di problemi fino ai nostri giorni. Il suo mancato riconoscimento è dovuto al prevalere tra i matematici del Novecento – a causa dell’influenza della scuola di Göttingen e del Bourbaki – dell’ideologia assiomatica, in base alla quale risolvere un problema significa dedurne la soluzione da assiomi dati. 6. Obiezioni contro il metodo analitico Si è detto che, nel metodo analitico, la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Questo fa nascere varie obiezioni contro tale metodo. Ne esamineremo due19. La prima obiezione è che un processo potenzialmente infinito non è realizzabile perché non si può percorrere una serie infinita, perciò la soluzione di un problema mediante il metodo analitico è impossibile. Per esempio, Tarski afferma che, sebbene un metodo ideale dovrebbe permettere di dimostrare tutto, compresi gli assiomi, «questo ideale non può essere realizzato» perché comporterebbe «un regresso all’infinito»20. Perciò il metodo analitico è impossibile. L’unico metodo possibile è quello assiomatico, che infatti è «l’unico metodo oggi usato per sviluppare le discipline matematiche»21. Ma tale obiezione si basa sull’argomento del regresso all’infinito che, come abbiamo visto, è infondato. La seconda obiezione è che un processo infinito non permette Per altre obiezioni, cfr. Cellucci 2002, cap. 23. Tarski 1969, p. 70. 21 Ibid. 19 20
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problema. Infatti Ribet ha mostrato che se, per qualche n 2, esistessero numeri interi positivi x, y, z tali che xn yn zn, essi darebbero luogo a una curva ellittica che non è una forma modulare, contraddicendo (D). Ma l’ipotesi di Taniyama e Shimura costituisce a sua volta un problema che deve essere risolto, ed è stato risolto da Wiles e Taylor nello stesso modo, facendo uso di ipotesi riguardanti vari campi della matematica, dalla geometria differenziale all’analisi complessa. Dunque ciò che Wiles e Taylor hanno risolto non è il problema di Fermat ma il problema costituito dall’ipotesi di Taniyama e Shimura. Si potrebbe obiettare che il problema di Fermat non è stato risolto da Ribet perché, per risolverlo, egli si è servito di un’ipotesi, quella di Taniyama e Shimura, che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Poiché il problema costituito da tale ipotesi è stato risolto da Wiles e Taylor, la soluzione del problema di Fermat deve essere attribuita a loro. Ma questa obiezione ha conseguenze paradossali. Infatti, come si è già detto, per risolvere il problema costituito dall’ipotesi di Taniyama e Shimura, Wiles e Taylor si sono serviti di ipotesi riguardanti vari campi della matematica, le quali poggiano a loro volta su altre ipotesi, ed infine sugli assiomi della teoria degli insiemi. Ora, gli assiomi della teoria degli insiemi non sono stati ancora dimostrati. Perciò, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché per risolverlo si è servito di un’ipotesi, l’ipotesi di Taniyama e Shimura, che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Wiles e Taylor hanno risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si sono serviti di ipotesi, gli assiomi della teoria degli insiemi, che a tutt’oggi non sono state ancora dimostrate. La situazione è del tutto simile a quella della soluzione di Ippocrate di Chio del problema della duplicazione del cubo. Per risolvere tale problema Ippocrate di Chio si è servito di un’ipotesi, l’ipotesi (B), che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Successivamente il problema costituito dall’ipotesi (B) è stato risolto da Menecmo servendosi di un’altra ipotesi, l’ipotesi (B), la quale poggia a sua volta su altre ipotesi ed infine sugli assiomi della geometria. Perciò, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Ippocrate di Chio ha risolto il proble220
ma della duplicazione del cubo perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Lo stesso vale per la soluzione di Ippocrate di Chio del problema della quadratura della lunula. Anche qui, se Ribet non ha risolto il problema di Fermat perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata, allora neppure Ippocrate di Chio ha risolto il problema della quadratura della lunula perché, per risolverlo, si è servito di un’ipotesi che all’epoca non era stata ancora dimostrata. Come si è detto, la soluzione del problema di Fermat è un esempio del fatto che il metodo analitico ha continuato a essere il principale metodo di soluzione di problemi fino ai nostri giorni. Il suo mancato riconoscimento è dovuto al prevalere tra i matematici del Novecento – a causa dell’influenza della scuola di Göttingen e del Bourbaki – dell’ideologia assiomatica, in base alla quale risolvere un problema significa dedurne la soluzione da assiomi dati. 6. Obiezioni contro il metodo analitico Si è detto che, nel metodo analitico, la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito. Questo fa nascere varie obiezioni contro tale metodo. Ne esamineremo due19. La prima obiezione è che un processo potenzialmente infinito non è realizzabile perché non si può percorrere una serie infinita, perciò la soluzione di un problema mediante il metodo analitico è impossibile. Per esempio, Tarski afferma che, sebbene un metodo ideale dovrebbe permettere di dimostrare tutto, compresi gli assiomi, «questo ideale non può essere realizzato» perché comporterebbe «un regresso all’infinito»20. Perciò il metodo analitico è impossibile. L’unico metodo possibile è quello assiomatico, che infatti è «l’unico metodo oggi usato per sviluppare le discipline matematiche»21. Ma tale obiezione si basa sull’argomento del regresso all’infinito che, come abbiamo visto, è infondato. La seconda obiezione è che un processo infinito non permette Per altre obiezioni, cfr. Cellucci 2002, cap. 23. Tarski 1969, p. 70. 21 Ibid. 19 20
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mai di cogliere completamente il proprio oggetto, perciò ne dà una rappresentazione sempre incompleta. Per esempio, Bergson afferma che il metodo analitico ha il difetto che, «nel suo desiderio eternamente insaziato di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, esso moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta, varia senza soste i simboli per perfezionare una traduzione sempre imperfetta. Perciò continua all’infinito»22. Ma questa obiezione trascura che l’impossibilità di cogliere completamente il proprio oggetto è una conseguenza della scelta dei creatori della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni. Tale scelta implica che la soluzione di un problema è suscettibile di sempre nuovi approfondimenti, che presentano sempre nuovi punti di vista sull’oggetto senza mai arrivare a conoscerne l’essenza. Perciò la conoscenza è un processo potenzialmente infinito. La conoscenza dell’essenza, se fosse possibile, ci permetterebbe di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Una tale conoscenza, come abbiamo visto, ci è data, secondo Bergson, dall’intuizione, la quale ci trasporta all’interno dell’oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e conseguentemente di inesprimibile, rendendo inutile ricercare oltre e facendo così della conoscenza un processo finito. Ma non vi sono elementi per affermare che una conoscenza quale quella ipotizzata da Bergson sia possibile. Perciò dobbiamo accontentarci di girare intorno all’oggetto, moltiplicando senza fine i punti di vista, o meglio, passando da un punto di vista ad altri sempre più penetranti, cioè da una soluzione del problema ad altre sempre più approfondite, per cercare di completare una rappresentazione dell’oggetto che tuttavia rimarrà sempre incompleta. Per questo motivo la conoscenza è un processo potenzialmente infinito. Che la conoscenza sia un processo potenzialmente infinito dipende anche dal fatto che, per ragioni di complessità, in generale non è fattibile formulare prima tutte le possibili ipotesi che permettono di risolvere un problema e poi sceglierne una che sia giustificata. A ogni passo possiamo solo formulare un’ipotesi e valutare le ragioni a favore e le ragioni contro di essa in base ai dati esistenti in
quel momento. Perciò la scoperta e la giustificazione non hanno luogo, come sostiene la concezione fondazionalista, in due fasi distinte, ma, per ragioni di complessità, le due fasi non sono separabili. 7. Ricerca delle ipotesi e inferenza Si è detto che, nel metodo analitico, i problemi si risolvono formulando ipotesi. Ma come si formulano le ipotesi in tale metodo? Esse si formulano a partire dal problema, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze, e specificamente inferenze non deduttive. Inferenze non deduttive, perché le inferenze deduttive sono non ampliative, cioè non estendono la nostra conoscenza. In esse la conclusione è contenuta implicitamente nelle premesse, perciò non contiene nulla di essenzialmente nuovo rispetto alle premesse. Invece un’ipotesi per risolvere un problema deve contenere qualcosa di essenzialmente nuovo rispetto al problema, perciò può ottenersi solo mediante un’inferenza non deduttiva. Solo nelle inferenze non deduttive la conclusione non è contenuta implicitamente nelle premesse, e perciò contiene qualcosa di essenzialmente nuovo rispetto a esse. Dunque solo le inferenze non deduttive sono ampliative, cioè estendono la nostra conoscenza. Come sottolinea Russell, ci si deve render conto «della portata molto limitata dell’inferenza deduttiva quale praticata nella logica e nella matematica pura»23. Perciò «tutte le inferenze usate sia nel senso comune sia nella scienza sono di tipo differente da quelle della logica deduttiva»24. 8. Descrizione più dettagliata del metodo analitico Una descrizione un po’ più dettagliata del metodo analitico può essere data nel modo seguente. Per risolvere un problema innanzitutto lo si esamina, considerandolo sotto vari aspetti osservati in sé o in relazione tra loro. Poi si cercano collegamenti tra il problema e i dati esistenti, per ricavarne informazioni utili per la sua soluzione. I dati esistenti svolgono un 23
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Bergson 1959, p. 1396.
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Russell 1997c, p. 141. Ibid.
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mai di cogliere completamente il proprio oggetto, perciò ne dà una rappresentazione sempre incompleta. Per esempio, Bergson afferma che il metodo analitico ha il difetto che, «nel suo desiderio eternamente insaziato di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, esso moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta, varia senza soste i simboli per perfezionare una traduzione sempre imperfetta. Perciò continua all’infinito»22. Ma questa obiezione trascura che l’impossibilità di cogliere completamente il proprio oggetto è una conseguenza della scelta dei creatori della scienza moderna di rinunciare a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di conoscerne alcune affezioni. Tale scelta implica che la soluzione di un problema è suscettibile di sempre nuovi approfondimenti, che presentano sempre nuovi punti di vista sull’oggetto senza mai arrivare a conoscerne l’essenza. Perciò la conoscenza è un processo potenzialmente infinito. La conoscenza dell’essenza, se fosse possibile, ci permetterebbe di cogliere l’oggetto in modo assoluto. Una tale conoscenza, come abbiamo visto, ci è data, secondo Bergson, dall’intuizione, la quale ci trasporta all’interno dell’oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e conseguentemente di inesprimibile, rendendo inutile ricercare oltre e facendo così della conoscenza un processo finito. Ma non vi sono elementi per affermare che una conoscenza quale quella ipotizzata da Bergson sia possibile. Perciò dobbiamo accontentarci di girare intorno all’oggetto, moltiplicando senza fine i punti di vista, o meglio, passando da un punto di vista ad altri sempre più penetranti, cioè da una soluzione del problema ad altre sempre più approfondite, per cercare di completare una rappresentazione dell’oggetto che tuttavia rimarrà sempre incompleta. Per questo motivo la conoscenza è un processo potenzialmente infinito. Che la conoscenza sia un processo potenzialmente infinito dipende anche dal fatto che, per ragioni di complessità, in generale non è fattibile formulare prima tutte le possibili ipotesi che permettono di risolvere un problema e poi sceglierne una che sia giustificata. A ogni passo possiamo solo formulare un’ipotesi e valutare le ragioni a favore e le ragioni contro di essa in base ai dati esistenti in
quel momento. Perciò la scoperta e la giustificazione non hanno luogo, come sostiene la concezione fondazionalista, in due fasi distinte, ma, per ragioni di complessità, le due fasi non sono separabili. 7. Ricerca delle ipotesi e inferenza Si è detto che, nel metodo analitico, i problemi si risolvono formulando ipotesi. Ma come si formulano le ipotesi in tale metodo? Esse si formulano a partire dal problema, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze, e specificamente inferenze non deduttive. Inferenze non deduttive, perché le inferenze deduttive sono non ampliative, cioè non estendono la nostra conoscenza. In esse la conclusione è contenuta implicitamente nelle premesse, perciò non contiene nulla di essenzialmente nuovo rispetto alle premesse. Invece un’ipotesi per risolvere un problema deve contenere qualcosa di essenzialmente nuovo rispetto al problema, perciò può ottenersi solo mediante un’inferenza non deduttiva. Solo nelle inferenze non deduttive la conclusione non è contenuta implicitamente nelle premesse, e perciò contiene qualcosa di essenzialmente nuovo rispetto a esse. Dunque solo le inferenze non deduttive sono ampliative, cioè estendono la nostra conoscenza. Come sottolinea Russell, ci si deve render conto «della portata molto limitata dell’inferenza deduttiva quale praticata nella logica e nella matematica pura»23. Perciò «tutte le inferenze usate sia nel senso comune sia nella scienza sono di tipo differente da quelle della logica deduttiva»24. 8. Descrizione più dettagliata del metodo analitico Una descrizione un po’ più dettagliata del metodo analitico può essere data nel modo seguente. Per risolvere un problema innanzitutto lo si esamina, considerandolo sotto vari aspetti osservati in sé o in relazione tra loro. Poi si cercano collegamenti tra il problema e i dati esistenti, per ricavarne informazioni utili per la sua soluzione. I dati esistenti svolgono un 23
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Bergson 1959, p. 1396.
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Russell 1997c, p. 141. Ibid.
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ruolo essenziale nell’esame del problema, perché i collegamenti con essi forniscono nuove prospettive sul problema. Poiché l’esame del problema richiede un confronto con i dati esistenti, questo implica che la soluzione di un problema comporta un’interazione tra più sistemi di conoscenze. Successivamente si elencano i caratteri generali che dovrebbe avere una soluzione del problema. Tali caratteri emergono da un esame approfondito del problema. Elencarli, sebbene non permetta ancora di formulare un’ipotesi per la soluzione del problema, è utile perché consente di restringere lo spazio di ricerca dell’ipotesi. Inoltre, si esamina se esiste qualche altro problema già risolto connesso col nostro problema. Infatti, la procedura che ha avuto successo con tale altro problema potrebbe aver successo anche col nostro problema. Si intende che, date le differenze tra i due problemi, in generale questo richiederà qualche modifica nella procedura. In base ai caratteri generali che dovrebbe avere una soluzione del problema si formula un’ipotesi, ottenendola dal problema mediante un’inferenza non deduttiva. In generale, mediante un’inferenza non deduttiva si possono formulare più ipotesi. Se nessuna di esse permette di risolvere il problema, si esamina se esse abbiano qualche assunto in comune. Potrebbe darsi, infatti, che sia tale assunto a impedire la soluzione del problema. In tal caso si nega l’assunto e se ne esaminano le conseguenze. Se invece alcune delle ipotesi formulate mediante l’inferenza non deduttiva permettono di risolvere il problema, si esamina se qualcuna di esse è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. Questo è necessario, perché un’ipotesi potrebbe permettere di risolvere il problema proprio in quanto è incompatibile con i dati esistenti, dal momento che da una contraddizione si può dedurre qualsiasi cosa. Anche quando un’ipotesi è incompatibile con i dati esistenti, essa non deve necessariamente essere respinta, perché i dati esistenti potrebbero contenere un errore sistematico e questo richiede un’indagine. Più spesso, però, quando un’ipotesi è incompatibile con i dati esistenti, questo dipende dal fatto che essa è inadeguata, e allora va abbandonata o almeno modificata. Per modificarla si devono esaminare le ragioni della sua incompatibilità, perché ciò può dare utili indicazioni. Certo, questo non sempre accade: si può sbagliare in mol-
ti modi ma si può imparare solo da alcuni di essi. Nondimeno, in alcuni casi si può imparare dai propri sbagli. Il confronto con i dati esistenti richiede considerazioni esterne al problema. Questo conferma che la soluzione di un problema comporta un’interazione tra più sistemi di conoscenze. D’altra parte, se un’ipotesi è compatibile con i dati esistenti, ciò non è di per sé conclusivo per la sua accettabilità, perché questa può dipendere da altri fattori, tra cui in primo luogo la fecondità, cioè la fruttuosità per l’indagine. Tuttavia quando un’ipotesi risulta, oltre che compatibile con i dati esistenti, anche feconda, essa si consolida e diventa stabile, anche se, a causa delle resistenze che le ipotesi innovative spesso incontrano, può esservi uno scarto temporale tra la formulazione di un’ipotesi e il riconoscimento della sua fecondità. Che un’ipotesi si consolidi e diventi stabile non costituisce però la fine dell’indagine. A differenza dei principi nel metodo assiomatico, che sono dati una volta per sempre, nel metodo analitico ogni ipotesi è provvisoria e destinata a essere sostituita prima o poi da un’altra. Questo dipende dal fatto che ogni ipotesi costituisce un problema e, come ogni problema, deve essere risolto. Come dice Kant, «ogni risposta data» a un problema «genera sempre una nuova domanda, che richiede a sua volta una risposta»25. Per risolvere il problema costituito dall’ipotesi, si ritorna all’inizio del processo fin qui descritto. E così via. Nel corso di questo processo, la formulazione stessa del problema può dover essere modificata in certa misura per renderla più precisa, o può anche dover essere cambiata radicalmente, con l’emergere di nuovi dati. Perciò lo sviluppo della formulazione del problema e lo sviluppo della soluzione del problema possono essere processi paralleli. Questa descrizione del metodo analitico conferma che la soluzione di un problema mediante tale metodo è un processo attraverso il quale si passa dal problema ad altri di profondità sempre maggiore, e che non ha mai termine perché nessuna ipotesi è mai definitiva ma costituisce sempre un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto formulando una nuova ipotesi che costituisce, rispetto all’ipotesi precedente, un approfondimento del problema originario, ma è
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Kant 1900-, IV, p. 352.
ruolo essenziale nell’esame del problema, perché i collegamenti con essi forniscono nuove prospettive sul problema. Poiché l’esame del problema richiede un confronto con i dati esistenti, questo implica che la soluzione di un problema comporta un’interazione tra più sistemi di conoscenze. Successivamente si elencano i caratteri generali che dovrebbe avere una soluzione del problema. Tali caratteri emergono da un esame approfondito del problema. Elencarli, sebbene non permetta ancora di formulare un’ipotesi per la soluzione del problema, è utile perché consente di restringere lo spazio di ricerca dell’ipotesi. Inoltre, si esamina se esiste qualche altro problema già risolto connesso col nostro problema. Infatti, la procedura che ha avuto successo con tale altro problema potrebbe aver successo anche col nostro problema. Si intende che, date le differenze tra i due problemi, in generale questo richiederà qualche modifica nella procedura. In base ai caratteri generali che dovrebbe avere una soluzione del problema si formula un’ipotesi, ottenendola dal problema mediante un’inferenza non deduttiva. In generale, mediante un’inferenza non deduttiva si possono formulare più ipotesi. Se nessuna di esse permette di risolvere il problema, si esamina se esse abbiano qualche assunto in comune. Potrebbe darsi, infatti, che sia tale assunto a impedire la soluzione del problema. In tal caso si nega l’assunto e se ne esaminano le conseguenze. Se invece alcune delle ipotesi formulate mediante l’inferenza non deduttiva permettono di risolvere il problema, si esamina se qualcuna di esse è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti. Questo è necessario, perché un’ipotesi potrebbe permettere di risolvere il problema proprio in quanto è incompatibile con i dati esistenti, dal momento che da una contraddizione si può dedurre qualsiasi cosa. Anche quando un’ipotesi è incompatibile con i dati esistenti, essa non deve necessariamente essere respinta, perché i dati esistenti potrebbero contenere un errore sistematico e questo richiede un’indagine. Più spesso, però, quando un’ipotesi è incompatibile con i dati esistenti, questo dipende dal fatto che essa è inadeguata, e allora va abbandonata o almeno modificata. Per modificarla si devono esaminare le ragioni della sua incompatibilità, perché ciò può dare utili indicazioni. Certo, questo non sempre accade: si può sbagliare in mol-
ti modi ma si può imparare solo da alcuni di essi. Nondimeno, in alcuni casi si può imparare dai propri sbagli. Il confronto con i dati esistenti richiede considerazioni esterne al problema. Questo conferma che la soluzione di un problema comporta un’interazione tra più sistemi di conoscenze. D’altra parte, se un’ipotesi è compatibile con i dati esistenti, ciò non è di per sé conclusivo per la sua accettabilità, perché questa può dipendere da altri fattori, tra cui in primo luogo la fecondità, cioè la fruttuosità per l’indagine. Tuttavia quando un’ipotesi risulta, oltre che compatibile con i dati esistenti, anche feconda, essa si consolida e diventa stabile, anche se, a causa delle resistenze che le ipotesi innovative spesso incontrano, può esservi uno scarto temporale tra la formulazione di un’ipotesi e il riconoscimento della sua fecondità. Che un’ipotesi si consolidi e diventi stabile non costituisce però la fine dell’indagine. A differenza dei principi nel metodo assiomatico, che sono dati una volta per sempre, nel metodo analitico ogni ipotesi è provvisoria e destinata a essere sostituita prima o poi da un’altra. Questo dipende dal fatto che ogni ipotesi costituisce un problema e, come ogni problema, deve essere risolto. Come dice Kant, «ogni risposta data» a un problema «genera sempre una nuova domanda, che richiede a sua volta una risposta»25. Per risolvere il problema costituito dall’ipotesi, si ritorna all’inizio del processo fin qui descritto. E così via. Nel corso di questo processo, la formulazione stessa del problema può dover essere modificata in certa misura per renderla più precisa, o può anche dover essere cambiata radicalmente, con l’emergere di nuovi dati. Perciò lo sviluppo della formulazione del problema e lo sviluppo della soluzione del problema possono essere processi paralleli. Questa descrizione del metodo analitico conferma che la soluzione di un problema mediante tale metodo è un processo attraverso il quale si passa dal problema ad altri di profondità sempre maggiore, e che non ha mai termine perché nessuna ipotesi è mai definitiva ma costituisce sempre un problema che deve essere risolto. Esso viene risolto formulando una nuova ipotesi che costituisce, rispetto all’ipotesi precedente, un approfondimento del problema originario, ma è
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Kant 1900-, IV, p. 352.
a sua volta un problema che deve essere risolto, e così via. Perciò la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito.
A questa descrizione del metodo analitico si possono aggiungere alcune osservazioni esplicative. 1) Il metodo analitico è un metodo alternativo al metodo assiomatico. Quest’ultimo è ciò che si ottiene dal metodo analitico quando il processo della risalita da un’ipotesi all’altra viene interrotto arbitrariamente in un punto, e l’ipotesi introdotta in quel punto viene considerata non più come un problema da risolvere bensì come un assioma, ossia come un punto di partenza assoluto, non problematico. Perciò tale ipotesi non viene più messa in discussione e non ne viene data alcuna giustificazione. In quanto nel metodo assiomatico non si dà alcuna giustificazione delle ipotesi, il metodo assiomatico è un troncamento ingiustificato del metodo analitico. 2) Sebbene nel metodo analitico la soluzione di un problema sia un processo potenzialmente infinito, questo non significa che il passaggio da un’ipotesi a un’altra non possa essere interrotto temporaneamente. Di fatto esso viene interrotto temporaneamente a ogni passo perché, per stabilire se l’ipotesi formulata in quel passo è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti, si devono confrontare le ragioni a favore e le ragioni contro l’ipotesi, e questo richiede di considerare molte conseguenze dell’ipotesi, il che può comportare un lungo processo. Ma l’interruzione è solo temporanea, alla lunga il processo del passaggio a nuove ipotesi deve riprendere perché ogni ipotesi è un problema che, prima o poi, deve essere risolto. Il fatto che, in un dato passo, le ragioni a favore di un’ipotesi prevalgano su quelle contro, dà solo un sostegno temporaneo all’ipotesi, che può essere ribaltato in qualsiasi momento. Il prevalere delle ragioni a favore su quelle contro è sempre relativo ai dati esistenti, e può venir meno se vengono alla luce nuovi dati o si aprono nuove prospettive. 3) Mentre l’intuizione svolge un ruolo essenziale nel metodo assiomatico, essa non svolge alcun ruolo nel metodo analitico, né nel formulare le ipotesi né nel giustificarle. Infatti, l’ipotesi per la soluzione di un problema si ottiene dal problema, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive, dunque non in base
all’intuizione ma mediante il discorso. Inoltre la plausibilità dell’ipotesi viene stabilita confrontando le ragioni a favore e le ragioni contro l’ipotesi, dunque non in base all’intuizione ma mediante il discorso. E anche la questione della fecondità dell’ipotesi viene affrontata non in base all’intuizione ma mediante il discorso. Come si è già detto, tradizionalmente l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, che non richiede la mediazione dell’inferenza. Ma allora le ipotesi non possono essere ottenute né giustificate mediante l’intuizione, perché si ottengono e si giustificano non immediatamente ma attraverso un processo che può anche essere molto lungo. 4) Il metodo analitico è sia un metodo di scoperta sia un metodo di giustificazione. Questo dipende dal fatto che le inferenze non deduttive permettono di inferire, dalle stesse premesse, conclusioni differenti. Per esempio, l’induzione permette di inferire, dalla premessa ‘Tutti i corvi finora osservati sono neri’, sia la conclusione ‘Tutti i corvi sono neri’, sia la conclusione ‘Tutti i corvi finora osservati sono neri, ma quelli che verranno osservati in futuro saranno gialli’. Ciò rende necessaria una scelta tra le differenti conclusioni, e questo richiede di confrontare attentamente le ragioni a favore e le ragioni contro ciascuna di esse. Tale confronto è un processo di giustificazione, perciò il processo della giustificazione fa parte di quello della scoperta. Questo cancella la distinzione tra scoperta e giustificazione, e fa del metodo analitico sia un metodo di scoperta sia un metodo di giustificazione. Così la distinzione tra scoperta e giustificazione perde importanza teorica. 5) Nel metodo analitico le ipotesi non sono né vere né certe. Infatti, se pure le premesse di un’inferenza non deduttiva fossero vere e certe, per l’ampliatività delle inferenze non deduttive la conclusione non sarebbe necessariamente vera né certa. Le ipotesi possono solo essere plausibili. Il processo attraverso cui ne viene stabilita la plausibilità non ne assicura né la verità né la certezza perché consiste nel confrontare le ragioni a favore e le ragioni contro, e tale confronto dipende dai dati esistenti in quel momento, perciò il suo esito può sempre essere ribaltato. 6) Che le ipotesi non siano né vere né certe ma possano solo essere plausibili, non costituisce una diminuzione per il metodo analitico, perché è una conseguenza della rinuncia della scienza moderna a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di co-
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9. Alcune osservazioni sul metodo analitico
a sua volta un problema che deve essere risolto, e così via. Perciò la soluzione di un problema è un processo potenzialmente infinito.
A questa descrizione del metodo analitico si possono aggiungere alcune osservazioni esplicative. 1) Il metodo analitico è un metodo alternativo al metodo assiomatico. Quest’ultimo è ciò che si ottiene dal metodo analitico quando il processo della risalita da un’ipotesi all’altra viene interrotto arbitrariamente in un punto, e l’ipotesi introdotta in quel punto viene considerata non più come un problema da risolvere bensì come un assioma, ossia come un punto di partenza assoluto, non problematico. Perciò tale ipotesi non viene più messa in discussione e non ne viene data alcuna giustificazione. In quanto nel metodo assiomatico non si dà alcuna giustificazione delle ipotesi, il metodo assiomatico è un troncamento ingiustificato del metodo analitico. 2) Sebbene nel metodo analitico la soluzione di un problema sia un processo potenzialmente infinito, questo non significa che il passaggio da un’ipotesi a un’altra non possa essere interrotto temporaneamente. Di fatto esso viene interrotto temporaneamente a ogni passo perché, per stabilire se l’ipotesi formulata in quel passo è plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti, si devono confrontare le ragioni a favore e le ragioni contro l’ipotesi, e questo richiede di considerare molte conseguenze dell’ipotesi, il che può comportare un lungo processo. Ma l’interruzione è solo temporanea, alla lunga il processo del passaggio a nuove ipotesi deve riprendere perché ogni ipotesi è un problema che, prima o poi, deve essere risolto. Il fatto che, in un dato passo, le ragioni a favore di un’ipotesi prevalgano su quelle contro, dà solo un sostegno temporaneo all’ipotesi, che può essere ribaltato in qualsiasi momento. Il prevalere delle ragioni a favore su quelle contro è sempre relativo ai dati esistenti, e può venir meno se vengono alla luce nuovi dati o si aprono nuove prospettive. 3) Mentre l’intuizione svolge un ruolo essenziale nel metodo assiomatico, essa non svolge alcun ruolo nel metodo analitico, né nel formulare le ipotesi né nel giustificarle. Infatti, l’ipotesi per la soluzione di un problema si ottiene dal problema, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive, dunque non in base
all’intuizione ma mediante il discorso. Inoltre la plausibilità dell’ipotesi viene stabilita confrontando le ragioni a favore e le ragioni contro l’ipotesi, dunque non in base all’intuizione ma mediante il discorso. E anche la questione della fecondità dell’ipotesi viene affrontata non in base all’intuizione ma mediante il discorso. Come si è già detto, tradizionalmente l’intuizione è stata vista come una fonte di conoscenza diretta, immediata, che non richiede la mediazione dell’inferenza. Ma allora le ipotesi non possono essere ottenute né giustificate mediante l’intuizione, perché si ottengono e si giustificano non immediatamente ma attraverso un processo che può anche essere molto lungo. 4) Il metodo analitico è sia un metodo di scoperta sia un metodo di giustificazione. Questo dipende dal fatto che le inferenze non deduttive permettono di inferire, dalle stesse premesse, conclusioni differenti. Per esempio, l’induzione permette di inferire, dalla premessa ‘Tutti i corvi finora osservati sono neri’, sia la conclusione ‘Tutti i corvi sono neri’, sia la conclusione ‘Tutti i corvi finora osservati sono neri, ma quelli che verranno osservati in futuro saranno gialli’. Ciò rende necessaria una scelta tra le differenti conclusioni, e questo richiede di confrontare attentamente le ragioni a favore e le ragioni contro ciascuna di esse. Tale confronto è un processo di giustificazione, perciò il processo della giustificazione fa parte di quello della scoperta. Questo cancella la distinzione tra scoperta e giustificazione, e fa del metodo analitico sia un metodo di scoperta sia un metodo di giustificazione. Così la distinzione tra scoperta e giustificazione perde importanza teorica. 5) Nel metodo analitico le ipotesi non sono né vere né certe. Infatti, se pure le premesse di un’inferenza non deduttiva fossero vere e certe, per l’ampliatività delle inferenze non deduttive la conclusione non sarebbe necessariamente vera né certa. Le ipotesi possono solo essere plausibili. Il processo attraverso cui ne viene stabilita la plausibilità non ne assicura né la verità né la certezza perché consiste nel confrontare le ragioni a favore e le ragioni contro, e tale confronto dipende dai dati esistenti in quel momento, perciò il suo esito può sempre essere ribaltato. 6) Che le ipotesi non siano né vere né certe ma possano solo essere plausibili, non costituisce una diminuzione per il metodo analitico, perché è una conseguenza della rinuncia della scienza moderna a conoscere l’essenza delle sostanze naturali contentandosi di co-
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9. Alcune osservazioni sul metodo analitico
noscerne alcune affezioni. Tale rinuncia implica che la conoscenza non consta di proposizioni vere, nel senso dell’unico concetto di verità che è adeguato secondo Aristotele, cioè quello di verità come intuizione dell’essenza, ma consta solo di proposizioni plausibili e quindi non certe. D’altra parte, è solo mediante le inferenze non deduttive che si può compiere quel balzo in avanti rispetto alle premesse, cioè rispetto a ciò che si sa già, che può dare nuova conoscenza. Perciò è solo a costo della plausibilità e dell’incertezza che si può acquisire nuova conoscenza. 7) Nel metodo analitico problemi differenti in generale richiedono ipotesi differenti. Questo dipende dal fatto che le ipotesi sono locali, cioè servono per risolvere uno specifico problema, e non globali, cioè non servono per risolvere qualsiasi problema. A differenza dei principi nel metodo assiomatico, che servono per dimostrare tutte le proposizioni vere di una data branca della conoscenza e perciò sono indipendenti dalla particolare proposizione dimostrata, le ipotesi nel metodo analitico dipendono dal problema perché servono solo per risolvere quel problema. D’altra parte, proprio perché non devono servire per risolvere qualsiasi problema ma solo un particolare problema, le ipotesi possono essere efficienti e anche molto efficienti, il che può essere decisivo per la fattibilità pratica della soluzione del problema. 8) Nel metodo analitico non solo problemi differenti in generale richiedono ipotesi differenti, ma uno stesso problema può essere risolto usando ipotesi differenti. Questo dipende dal fatto che ogni problema ha più facce e perciò può essere visto da prospettive differenti, ciascuna delle quali può portare a un’ipotesi differente e quindi a una soluzione differente. Per esempio, supponiamo, come propone Hanson, «che la carrozza di Galilei investa un pedone nelle strade buie di Padova»26. Allora la «causa della morte» del pedone potrebbe essere stata formulata «da un medico come ‘una emorragia multipla’, da un avvocato come ‘una negligenza da parte del guidatore’, da un costruttore di carrozze come ‘un difetto di costruzione del ceppo del freno’, da un pianificatore civico come ‘la presenza di un alto gruppo di cespugli in quella svolta’»27. E, si potrebbe aggiungere, da un fi26 27
Hanson 1965, p. 52. Ivi, p. 54.
losofo burlone come ‘il fatto che il pedone sia nato’, perché il pedone non sarebbe morto se non fosse nato. Questo esempio mostra che uno stesso problema può essere risolto usando ipotesi differenti. Quando sembra che un problema possa essere risolto mediante un’unica ipotesi c’è da preoccuparsi. C’è infatti da sospettare che la soluzione sia sbagliata, o che il problema sia mal posto. 10. La conoscenza come soluzione di problemi Una volta chiarito che il metodo mediante il quale si risolvono i problemi è il metodo analitico, possiamo dare una risposta alla domanda: che cos’è la conoscenza? Dal punto di vista della concezione euristica la conoscenza è soluzione di problemi – a cominciare da quello della sopravvivenza – basata sul metodo analitico. Questa risposta non ha uno statuto normativo, cioè non pretende di stabilire una volta per sempre quali caratteri debba avere la conoscenza, ma solo di chiarire che cosa di fatto è stata finora. Naturalmente tale risposta è subordinata a quella che è stata data alla domanda ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, cioè che la conoscenza svolge innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza, e poi svolge un ruolo culturale. Affermando che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, la concezione euristica pone i problemi al centro della conoscenza. In base a essa la conoscenza nasce dall’esigenza di risolvere problemi, a cominciare da quello della sopravvivenza, perciò il motore della conoscenza sono i problemi, non le ipotesi. Queste ultime sono solo i mezzi per risolvere i problemi. In particolare, dal punto di vista della concezione euristica, il motore della conoscenza non sono, come vorrebbe la concezione fondazionalista, le conoscenze immediatamente giustificate, cioè gli assiomi o postulati. Come osserva Hamming, «se si scoprisse che il teorema di Pitagora non segue dai postulati» di Euclide, «noi continueremmo a cercare un modo di alterare i postulati fino a che esso fosse vero. I postulati di Euclide derivarono dal teorema di Pitagora, non avvenne l’inverso»28. Euclide «aveva un sacco di teoremi che ‘sapeva essere 28
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Hamming 1980, p. 87.
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noscerne alcune affezioni. Tale rinuncia implica che la conoscenza non consta di proposizioni vere, nel senso dell’unico concetto di verità che è adeguato secondo Aristotele, cioè quello di verità come intuizione dell’essenza, ma consta solo di proposizioni plausibili e quindi non certe. D’altra parte, è solo mediante le inferenze non deduttive che si può compiere quel balzo in avanti rispetto alle premesse, cioè rispetto a ciò che si sa già, che può dare nuova conoscenza. Perciò è solo a costo della plausibilità e dell’incertezza che si può acquisire nuova conoscenza. 7) Nel metodo analitico problemi differenti in generale richiedono ipotesi differenti. Questo dipende dal fatto che le ipotesi sono locali, cioè servono per risolvere uno specifico problema, e non globali, cioè non servono per risolvere qualsiasi problema. A differenza dei principi nel metodo assiomatico, che servono per dimostrare tutte le proposizioni vere di una data branca della conoscenza e perciò sono indipendenti dalla particolare proposizione dimostrata, le ipotesi nel metodo analitico dipendono dal problema perché servono solo per risolvere quel problema. D’altra parte, proprio perché non devono servire per risolvere qualsiasi problema ma solo un particolare problema, le ipotesi possono essere efficienti e anche molto efficienti, il che può essere decisivo per la fattibilità pratica della soluzione del problema. 8) Nel metodo analitico non solo problemi differenti in generale richiedono ipotesi differenti, ma uno stesso problema può essere risolto usando ipotesi differenti. Questo dipende dal fatto che ogni problema ha più facce e perciò può essere visto da prospettive differenti, ciascuna delle quali può portare a un’ipotesi differente e quindi a una soluzione differente. Per esempio, supponiamo, come propone Hanson, «che la carrozza di Galilei investa un pedone nelle strade buie di Padova»26. Allora la «causa della morte» del pedone potrebbe essere stata formulata «da un medico come ‘una emorragia multipla’, da un avvocato come ‘una negligenza da parte del guidatore’, da un costruttore di carrozze come ‘un difetto di costruzione del ceppo del freno’, da un pianificatore civico come ‘la presenza di un alto gruppo di cespugli in quella svolta’»27. E, si potrebbe aggiungere, da un fi26 27
Hanson 1965, p. 52. Ivi, p. 54.
losofo burlone come ‘il fatto che il pedone sia nato’, perché il pedone non sarebbe morto se non fosse nato. Questo esempio mostra che uno stesso problema può essere risolto usando ipotesi differenti. Quando sembra che un problema possa essere risolto mediante un’unica ipotesi c’è da preoccuparsi. C’è infatti da sospettare che la soluzione sia sbagliata, o che il problema sia mal posto. 10. La conoscenza come soluzione di problemi Una volta chiarito che il metodo mediante il quale si risolvono i problemi è il metodo analitico, possiamo dare una risposta alla domanda: che cos’è la conoscenza? Dal punto di vista della concezione euristica la conoscenza è soluzione di problemi – a cominciare da quello della sopravvivenza – basata sul metodo analitico. Questa risposta non ha uno statuto normativo, cioè non pretende di stabilire una volta per sempre quali caratteri debba avere la conoscenza, ma solo di chiarire che cosa di fatto è stata finora. Naturalmente tale risposta è subordinata a quella che è stata data alla domanda ‘Qual è il ruolo della conoscenza nella natura?’, cioè che la conoscenza svolge innanzitutto un ruolo biologico perché serve per risolvere il problema della sopravvivenza, e poi svolge un ruolo culturale. Affermando che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, la concezione euristica pone i problemi al centro della conoscenza. In base a essa la conoscenza nasce dall’esigenza di risolvere problemi, a cominciare da quello della sopravvivenza, perciò il motore della conoscenza sono i problemi, non le ipotesi. Queste ultime sono solo i mezzi per risolvere i problemi. In particolare, dal punto di vista della concezione euristica, il motore della conoscenza non sono, come vorrebbe la concezione fondazionalista, le conoscenze immediatamente giustificate, cioè gli assiomi o postulati. Come osserva Hamming, «se si scoprisse che il teorema di Pitagora non segue dai postulati» di Euclide, «noi continueremmo a cercare un modo di alterare i postulati fino a che esso fosse vero. I postulati di Euclide derivarono dal teorema di Pitagora, non avvenne l’inverso»28. Euclide «aveva un sacco di teoremi che ‘sapeva essere 28
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Hamming 1980, p. 87.
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veri’, compreso il teorema di Pitagora, e dovette trovare postulati che li supportassero»29. In matematica «si parte da alcune delle cose che si vogliono, e si cerca di trovare postulati che le supportino»30. L’idea che in essa semplicemente si fissino alcuni postulati arbitrari e poi si facciano deduzioni da essi «non corrisponde alla semplice osservazione»31. Così Hamming coglie un carattere essenziale della concezione euristica, cioè il fatto che il motore della conoscenza sono i problemi, e i postulati, o meglio le ipotesi, sono solo i mezzi per risolvere i problemi. Russell afferma che «quello che la matematica pura asserisce è semplicemente che le proposizioni di Euclide seguono dagli assiomi di Euclide»32. Nello spirito di Hamming, si può capovolgere questa affermazione dicendo che quello che la matematica pura asserisce è semplicemente che gli assiomi di Euclide seguono dal teorema di Pitagora. Seguono, nel senso che si ottengono da esso cercando condizioni sufficienti per risolvere il problema costituito da esso. Hamming 1998, p. 645. Ibid. 31 Hamming 1980, p. 87. 32 Russell 1979, p. 5. 29 30
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Soluzione di problemi contro dimostrazione di teoremi
1. Opposizione tra due tesi sulla conoscenza La tesi della concezione euristica che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si oppone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Per la concezione fondazionalista, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, perciò la conoscenza si basa sul metodo assiomatico. Per tale concezione, dunque, la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. La tesi della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico risale ad Aristotele, il quale afferma che la conoscenza «è un sapere mediante dimostrazione»1. Dove, come abbiamo visto, per Aristotele la dimostrazione è il sillogismo scientifico. 2. Il metodo analitico-sintetico Ma come si trova la dimostrazione di un teorema? Secondo la concezione fondazionalista, la si trova mediante il metodo analitico-sintetico. Questo può essere descritto come il metodo in base al quale, per trovare la dimostrazione di un teorema a partire da assiomi dati, si esamina da quali premesse il teorema può essere dedotto, poi si esamina 1
Aristotele, Analytica Posteriora, A 2, 71 b 17.
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veri’, compreso il teorema di Pitagora, e dovette trovare postulati che li supportassero»29. In matematica «si parte da alcune delle cose che si vogliono, e si cerca di trovare postulati che le supportino»30. L’idea che in essa semplicemente si fissino alcuni postulati arbitrari e poi si facciano deduzioni da essi «non corrisponde alla semplice osservazione»31. Così Hamming coglie un carattere essenziale della concezione euristica, cioè il fatto che il motore della conoscenza sono i problemi, e i postulati, o meglio le ipotesi, sono solo i mezzi per risolvere i problemi. Russell afferma che «quello che la matematica pura asserisce è semplicemente che le proposizioni di Euclide seguono dagli assiomi di Euclide»32. Nello spirito di Hamming, si può capovolgere questa affermazione dicendo che quello che la matematica pura asserisce è semplicemente che gli assiomi di Euclide seguono dal teorema di Pitagora. Seguono, nel senso che si ottengono da esso cercando condizioni sufficienti per risolvere il problema costituito da esso. Hamming 1998, p. 645. Ibid. 31 Hamming 1980, p. 87. 32 Russell 1979, p. 5. 29 30
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Soluzione di problemi contro dimostrazione di teoremi
1. Opposizione tra due tesi sulla conoscenza La tesi della concezione euristica che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si oppone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Per la concezione fondazionalista, perché vi sia conoscenza, devono esservi conoscenze immediatamente giustificate dalle quali si possano dedurre tutte le altre conoscenze dell’area considerata, perciò la conoscenza si basa sul metodo assiomatico. Per tale concezione, dunque, la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. La tesi della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico risale ad Aristotele, il quale afferma che la conoscenza «è un sapere mediante dimostrazione»1. Dove, come abbiamo visto, per Aristotele la dimostrazione è il sillogismo scientifico. 2. Il metodo analitico-sintetico Ma come si trova la dimostrazione di un teorema? Secondo la concezione fondazionalista, la si trova mediante il metodo analitico-sintetico. Questo può essere descritto come il metodo in base al quale, per trovare la dimostrazione di un teorema a partire da assiomi dati, si esamina da quali premesse il teorema può essere dedotto, poi si esamina 1
Aristotele, Analytica Posteriora, A 2, 71 b 17.
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da quali premesse possono essere dedotte tali premesse, e così via finché si arriva ad assiomi compresi tra quelli dati. Questa è l’analisi. A questo punto si inverte il processo passando da tali assiomi, attraverso la serie di premesse così trovate, fino al teorema. Questa è la sintesi. L’analisi non sempre ha successo, perciò il processo dell’analisi non può sempre essere invertito. Ma, quando può esserlo, dà luogo alla sintesi, la quale produce una dimostrazione del teorema. Anche la tesi che la dimostrazione di un teorema si trova mediante il metodo analitico-sintetico risale ad Aristotele, il quale afferma che il medico, l’oratore, il politico, «una volta posto il fine, esaminano» con quale mezzo «questo potrà essere raggiunto», e «con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta tale mezzo», e così via, «finché arrivano alla causa prima che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima»2. A questo punto invertono il processo e, partendo dalla causa prima, arrivano a una decisione rispetto al fine. Essi, dunque, effettuano una «ricerca e un’analisi come nel caso di una dimostrazione geometrica»3. Poi, come nel caso di quest’ultima, invertendo il processo effettuano una sintesi, o costruzione. Poiché quest’ultima parte dalla causa prima che, nell’ordine della scoperta è l’ultima, «ciò che è ultimo nell’analisi è primo nella costruzione»4. L’analisi non sempre ha successo, «se ci si imbatte in qualcosa di impossibile ci si rinuncia», ma «se invece la cosa si rivela possibile, ci si accinge ad agire»5. 3. Differenza tra metodo analitico e metodo analitico-sintetico Il metodo analitico viene spesso confuso con il metodo analitico-sintetico6. Ma i due metodi sono essenzialmente differenti. Mentre il metodo analitico è un procedimento euristico per trovare ipotesi ignote che è indipendente da ogni sistema assiomatico, il metodo analitico-sintetico è un procedimento euristico per trovare dimostrazioni di teoremi dati a partire da assiomi dati, quindi presuppone un sistema assiomatico. Aristotele, Ethica Nicomachea, 3, 1112 b 15-20. Ivi, 3, 1112 b 20-21. 4 Ivi, 3, 1112 b 23-24. 5 Ivi, 3, 1112 b 24-27. 6 Per esempi di tale confusione, cfr. Mueller 1992 e Menn 2002. Sulla differenza tra i due metodi, cfr. Cellucci 1998, pp. 289-299.
La differenza tra i due metodi è espressa da Lakatos dicendo che il metodo analitico procede «senza alcun lemma noto, senza alcun sistema assiomatico sicuro»7. Invece il metodo analitico-sintetico è solo «uno schema euristico nella geometria euclidea già assiomatizzata»8. In esso l’analisi perde «la sua funzione» e, «quando pure viene usata», è «solo uno strumento euristico per mobilitare i lemmi (già dimostrati o banalmente validi) necessari per la sintesi»9. Essa «non è più un’avventura nell’ignoto», ma solo «un esercizio per mobilitare e collegare ingegnosamente le parti pertinenti del noto. I lemmi che un tempo erano congetture audaci e spesso falsificate si irrigidiscono in teoremi ausiliari»10. 4. La direzione dell’analisi nel metodo analitico-sintetico Nel metodo analitico l’analisi è un processo ascensivo. Lo è anche nel metodo analitico-sintetico? La risposta è affermativa perché per Aristotele, come abbiamo visto, l’analisi è un processo in base al quale il medico, l’oratore, il politico e il geometra, partendo dal fine, risalgono ai mezzi per raggiungerlo, dunque è un processo ascensivo. Questo contrasta con un’interpretazione diffusa, che si è affermata soprattutto grazie a Pappo e ha trovato ampio seguito nell’età moderna e contemporanea, secondo la quale Aristotele concepirebbe «l’analisi come una procedura deduttiva che porta dalla premessa (o costruzione) desiderata, che si ipotizza essere vera (o costruibile), a un’altra che si sa essere vera (o costruibile)»11. In base a questa interpretazione, se l’analisi fosse un processo ascensivo, diverrebbe «superflua ogni preoccupazione circa la convertibilità» dell’analisi nella sintesi, «perché l’analisi (degli antecedenti) avrebbe» già «prodotto di per sé la successione deduttiva della sintesi»12. Perciò l’analisi deve essere un processo discensivo. Tale interpretazione, però, è infondata, perché Aristotele non si limita a descrivere l’analisi ma ci indica come effettuarla. Egli, infatLakatos 1978, II, p. 99. Ivi, p. 100. 9 Ibid. 10 Ibid. 11 Knorr 1993, p. 75. 12 Ivi, p. 95 nota 65.
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da quali premesse possono essere dedotte tali premesse, e così via finché si arriva ad assiomi compresi tra quelli dati. Questa è l’analisi. A questo punto si inverte il processo passando da tali assiomi, attraverso la serie di premesse così trovate, fino al teorema. Questa è la sintesi. L’analisi non sempre ha successo, perciò il processo dell’analisi non può sempre essere invertito. Ma, quando può esserlo, dà luogo alla sintesi, la quale produce una dimostrazione del teorema. Anche la tesi che la dimostrazione di un teorema si trova mediante il metodo analitico-sintetico risale ad Aristotele, il quale afferma che il medico, l’oratore, il politico, «una volta posto il fine, esaminano» con quale mezzo «questo potrà essere raggiunto», e «con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta tale mezzo», e così via, «finché arrivano alla causa prima che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima»2. A questo punto invertono il processo e, partendo dalla causa prima, arrivano a una decisione rispetto al fine. Essi, dunque, effettuano una «ricerca e un’analisi come nel caso di una dimostrazione geometrica»3. Poi, come nel caso di quest’ultima, invertendo il processo effettuano una sintesi, o costruzione. Poiché quest’ultima parte dalla causa prima che, nell’ordine della scoperta è l’ultima, «ciò che è ultimo nell’analisi è primo nella costruzione»4. L’analisi non sempre ha successo, «se ci si imbatte in qualcosa di impossibile ci si rinuncia», ma «se invece la cosa si rivela possibile, ci si accinge ad agire»5. 3. Differenza tra metodo analitico e metodo analitico-sintetico Il metodo analitico viene spesso confuso con il metodo analitico-sintetico6. Ma i due metodi sono essenzialmente differenti. Mentre il metodo analitico è un procedimento euristico per trovare ipotesi ignote che è indipendente da ogni sistema assiomatico, il metodo analitico-sintetico è un procedimento euristico per trovare dimostrazioni di teoremi dati a partire da assiomi dati, quindi presuppone un sistema assiomatico. Aristotele, Ethica Nicomachea, 3, 1112 b 15-20. Ivi, 3, 1112 b 20-21. 4 Ivi, 3, 1112 b 23-24. 5 Ivi, 3, 1112 b 24-27. 6 Per esempi di tale confusione, cfr. Mueller 1992 e Menn 2002. Sulla differenza tra i due metodi, cfr. Cellucci 1998, pp. 289-299.
La differenza tra i due metodi è espressa da Lakatos dicendo che il metodo analitico procede «senza alcun lemma noto, senza alcun sistema assiomatico sicuro»7. Invece il metodo analitico-sintetico è solo «uno schema euristico nella geometria euclidea già assiomatizzata»8. In esso l’analisi perde «la sua funzione» e, «quando pure viene usata», è «solo uno strumento euristico per mobilitare i lemmi (già dimostrati o banalmente validi) necessari per la sintesi»9. Essa «non è più un’avventura nell’ignoto», ma solo «un esercizio per mobilitare e collegare ingegnosamente le parti pertinenti del noto. I lemmi che un tempo erano congetture audaci e spesso falsificate si irrigidiscono in teoremi ausiliari»10. 4. La direzione dell’analisi nel metodo analitico-sintetico Nel metodo analitico l’analisi è un processo ascensivo. Lo è anche nel metodo analitico-sintetico? La risposta è affermativa perché per Aristotele, come abbiamo visto, l’analisi è un processo in base al quale il medico, l’oratore, il politico e il geometra, partendo dal fine, risalgono ai mezzi per raggiungerlo, dunque è un processo ascensivo. Questo contrasta con un’interpretazione diffusa, che si è affermata soprattutto grazie a Pappo e ha trovato ampio seguito nell’età moderna e contemporanea, secondo la quale Aristotele concepirebbe «l’analisi come una procedura deduttiva che porta dalla premessa (o costruzione) desiderata, che si ipotizza essere vera (o costruibile), a un’altra che si sa essere vera (o costruibile)»11. In base a questa interpretazione, se l’analisi fosse un processo ascensivo, diverrebbe «superflua ogni preoccupazione circa la convertibilità» dell’analisi nella sintesi, «perché l’analisi (degli antecedenti) avrebbe» già «prodotto di per sé la successione deduttiva della sintesi»12. Perciò l’analisi deve essere un processo discensivo. Tale interpretazione, però, è infondata, perché Aristotele non si limita a descrivere l’analisi ma ci indica come effettuarla. Egli, infatLakatos 1978, II, p. 99. Ivi, p. 100. 9 Ibid. 10 Ibid. 11 Knorr 1993, p. 75. 12 Ivi, p. 95 nota 65.
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ti, afferma che la logica deve insegnarci «come troveremo sempre sillogismi per risolvere ogni dato problema, e per quale via potremo assumere le premesse appropriate per ciascun problema: si può dire, infatti, che non basta conoscere il modo di svilupparsi dei sillogismi, ma occorre anche possedere la capacità di produrli»13. Cioè la logica deve insegnarci, dato un problema, come trovare le premesse di un sillogismo che abbia come conclusione la soluzione del problema. Questo si riduce alla ricerca del termine medio, perché «è chiaro che tutte le cose cercate sono una ricerca del medio»14. Ora, la logica ci insegna come trovare il termine medio mediante una tecnica, l’inventio medii, che ha un carattere ascensivo perché riguarda il passaggio dalla conclusione alle premesse. Questo conferma che per Aristotele l’analisi è un processo ascensivo. Parimenti infondata è l’affermazione che, se l’analisi fosse un processo ascensivo, diverrebbe superflua ogni preoccupazione circa la convertibilità dell’analisi nella sintesi perché l’analisi avrebbe già prodotto di per sé la successione deduttiva della sintesi. Come osserva Aristotele, «se fosse impossibile dedurre il vero dal falso, l’analisi sarebbe facile; infatti l’analisi sarebbe necessariamente convertibile»15. Ma, poiché si può dedurre qualcosa di vero da qualcosa di falso, l’analisi non è facile, e perciò «talvolta accade, come nel caso delle dimostrazioni geometriche, che, dopo aver effettuato l’analisi, non siamo in grado di effettuare la sintesi»16. Che si possa dedurre qualcosa di vero da qualcosa di falso costituisce una prima ragione per cui l’analisi non sempre è convertibile nella sintesi. Inoltre, Aristotele afferma che, mentre la dimostrazione deve dedurre la conclusione da premesse che ne sono la causa, l’inventio medii non assicura di per sé che le premesse scoperte mediante essa siano le cause della conclusione. Per esempio, mediante l’inventio medii, dalla conclusione ‘Nessun muro respira’, si possono ottenere sia le premesse ‘Tutto ciò che respira ha i polmoni’ e ‘Nessun muro ha i polmoni’, sia le premesse ‘Tutto ciò che respira è un animale’ e ‘Nessun muro è un animale’. Ma, mentre le premesse ‘Tutto ciò che respira ha i polmoni’ e ‘Nessun muro ha i polmoni’ sono le cause del-
la conclusione ‘Nessun muro respira’, le premesse ‘Tutto ciò che respira è un animale’ e ‘Nessun muro è un animale’ non sono le cause di tale conclusione perché, «se la causa del non respirare fosse questa, bisognerebbe che l’essere un animale fosse la causa del respirare»17. Chiaramente, invece, non lo è, perché «non ogni animale respira»18. Che non tutte le premesse scoperte mediante l’inventio medii siano le cause della conclusione costituisce una seconda ragione per cui l’analisi non sempre è convertibile nella sintesi. 5. Origini dell’opposizione tra due tesi sulla conoscenza Si è detto che la tesi della concezione euristica che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si oppone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Tale opposizione risale a Platone e Aristotele. Da un lato, Platone critica la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, affermando che coloro che praticano tale metodo usano impropriamente le ipotesi perché «tutti questi elementi li danno per scontati, assumendoli come ipotesi, e non credono sia necessario renderne conto né a se stessi né ad altri, quasi che fossero del tutto evidenti. Poi, partendo da queste ipotesi» assunte come principi assiomatici e «sviluppandone le conseguenze, convengono sulle conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine»19. Ma così essi si muovono «come sonnambuli nei confronti dell’essere, né mai si desteranno a coglierlo finché lasceranno immobili le ipotesi, incapaci di renderne ragione»20. Infatti, un’ipotesi che non è fondata decade a semplice convenzione, e «come è possibile che da una tale artificiosa convenzione scaturisca una scienza?»21. Invece il metodo analitico «interpreta le ipotesi non come principi assiomatici ma come ipotesi in senso proprio, cioè come gradini e punti di appoggio»22. Come gradini e punti di appoggio per saAristotele, Analytica Posteriora, A 13, 78 b 16-17. Ivi, A 13, 78 b 22-23. 19 Platone, Respublica, VI 510 c 6-d 3. 20 Ivi, VII 533 b 8-c 3. 21 Ivi, VII 533 c 4-5. 22 Ivi, VI 511 b 5-6. 17 18
Aristotele, Analytica Priora, A 27, 43 a 20-24. Aristotele, Analytica Posteriora, B 3, 90 a 35-36. 15 Ivi, A 12, 78 a 6-8. 16 Aristotele, De Sophisticis Elenchis, 16, 175 a 27-28. 13 14
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ti, afferma che la logica deve insegnarci «come troveremo sempre sillogismi per risolvere ogni dato problema, e per quale via potremo assumere le premesse appropriate per ciascun problema: si può dire, infatti, che non basta conoscere il modo di svilupparsi dei sillogismi, ma occorre anche possedere la capacità di produrli»13. Cioè la logica deve insegnarci, dato un problema, come trovare le premesse di un sillogismo che abbia come conclusione la soluzione del problema. Questo si riduce alla ricerca del termine medio, perché «è chiaro che tutte le cose cercate sono una ricerca del medio»14. Ora, la logica ci insegna come trovare il termine medio mediante una tecnica, l’inventio medii, che ha un carattere ascensivo perché riguarda il passaggio dalla conclusione alle premesse. Questo conferma che per Aristotele l’analisi è un processo ascensivo. Parimenti infondata è l’affermazione che, se l’analisi fosse un processo ascensivo, diverrebbe superflua ogni preoccupazione circa la convertibilità dell’analisi nella sintesi perché l’analisi avrebbe già prodotto di per sé la successione deduttiva della sintesi. Come osserva Aristotele, «se fosse impossibile dedurre il vero dal falso, l’analisi sarebbe facile; infatti l’analisi sarebbe necessariamente convertibile»15. Ma, poiché si può dedurre qualcosa di vero da qualcosa di falso, l’analisi non è facile, e perciò «talvolta accade, come nel caso delle dimostrazioni geometriche, che, dopo aver effettuato l’analisi, non siamo in grado di effettuare la sintesi»16. Che si possa dedurre qualcosa di vero da qualcosa di falso costituisce una prima ragione per cui l’analisi non sempre è convertibile nella sintesi. Inoltre, Aristotele afferma che, mentre la dimostrazione deve dedurre la conclusione da premesse che ne sono la causa, l’inventio medii non assicura di per sé che le premesse scoperte mediante essa siano le cause della conclusione. Per esempio, mediante l’inventio medii, dalla conclusione ‘Nessun muro respira’, si possono ottenere sia le premesse ‘Tutto ciò che respira ha i polmoni’ e ‘Nessun muro ha i polmoni’, sia le premesse ‘Tutto ciò che respira è un animale’ e ‘Nessun muro è un animale’. Ma, mentre le premesse ‘Tutto ciò che respira ha i polmoni’ e ‘Nessun muro ha i polmoni’ sono le cause del-
la conclusione ‘Nessun muro respira’, le premesse ‘Tutto ciò che respira è un animale’ e ‘Nessun muro è un animale’ non sono le cause di tale conclusione perché, «se la causa del non respirare fosse questa, bisognerebbe che l’essere un animale fosse la causa del respirare»17. Chiaramente, invece, non lo è, perché «non ogni animale respira»18. Che non tutte le premesse scoperte mediante l’inventio medii siano le cause della conclusione costituisce una seconda ragione per cui l’analisi non sempre è convertibile nella sintesi. 5. Origini dell’opposizione tra due tesi sulla conoscenza Si è detto che la tesi della concezione euristica che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si oppone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Tale opposizione risale a Platone e Aristotele. Da un lato, Platone critica la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, affermando che coloro che praticano tale metodo usano impropriamente le ipotesi perché «tutti questi elementi li danno per scontati, assumendoli come ipotesi, e non credono sia necessario renderne conto né a se stessi né ad altri, quasi che fossero del tutto evidenti. Poi, partendo da queste ipotesi» assunte come principi assiomatici e «sviluppandone le conseguenze, convengono sulle conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine»19. Ma così essi si muovono «come sonnambuli nei confronti dell’essere, né mai si desteranno a coglierlo finché lasceranno immobili le ipotesi, incapaci di renderne ragione»20. Infatti, un’ipotesi che non è fondata decade a semplice convenzione, e «come è possibile che da una tale artificiosa convenzione scaturisca una scienza?»21. Invece il metodo analitico «interpreta le ipotesi non come principi assiomatici ma come ipotesi in senso proprio, cioè come gradini e punti di appoggio»22. Come gradini e punti di appoggio per saAristotele, Analytica Posteriora, A 13, 78 b 16-17. Ivi, A 13, 78 b 22-23. 19 Platone, Respublica, VI 510 c 6-d 3. 20 Ivi, VII 533 b 8-c 3. 21 Ivi, VII 533 c 4-5. 22 Ivi, VI 511 b 5-6. 17 18
Aristotele, Analytica Priora, A 27, 43 a 20-24. Aristotele, Analytica Posteriora, B 3, 90 a 35-36. 15 Ivi, A 12, 78 a 6-8. 16 Aristotele, De Sophisticis Elenchis, 16, 175 a 27-28. 13 14
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lire verso ipotesi sempre più soddisfacenti. Solo tale metodo «procede per questa via, togliendo di mezzo le ipotesi, verso il principio stesso, per trovarvi la propria giustificazione; e soltanto esso estrae a poco a poco l’occhio dell’anima dal fango barbarico in cui era invischiato e lo dirige verso l’alto»23. Esso, infatti, procede «passando attraverso tutte le confutazioni e sforzandosi di confutare non secondo l’opinione ma secondo la realtà»24. Cioè, sottoponendo le ipotesi a tutte le prove e non basandosi su altre ipotesi ma sui dati della realtà. Fare questo è necessario perché, «senza passare attraverso tutte le possibilità, cioè senza andare in tutte le direzioni, è impossibile che la mente, anche se incontra la verità, la conosca»25. Dall’altro lato, invece, Aristotele critica la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, affermando che il metodo analitico permette «non già di conoscere qualcosa in modo assoluto, ma solo di conoscerlo in base a un’ipotesi»26. Ma la conoscenza «deve procedere da cose necessarie»27. E «ciò che per sé è necessario che sia, ed è necessario che sembri, non è un’ipotesi»28. Invece il metodo assiomatico fa conoscere le cose non in base a un’ipotesi ma in base a principi assiomatici, dunque procedendo da cose necessarie, perché i principi assiomatici sono necessari. È vero che tale metodo non scopre i principi assiomatici ma assume che essi provengano «da una conoscenza preesistente»29. Ma questo non è un limite, perché lo scopo del metodo assiomatico non è scoprire principi assiomatici bensì fondare la conoscenza indicandone le fondamenta, e queste devono provenire da una conoscenza già esistente, perché «le fondamenta devono sussistere prima della casa»30. 6. Ragioni dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico e la tesi che la conoscenza è dimostrazione Ivi, VII 533 c 9-d 3. Ivi, VII 534 c 1-3. 25 Platone, Parmenides, 136 e 1-3. 26 Aristotele, Analytica Posteriora, A 22, 84 a 5-6. 27 Ivi, A 6, 74 b 15. 28 Ivi, A 10, 76 b 23-24. 29 Ivi, A 1, 71 a 1-2. 30 Ivi, B 12, 95 b 37. 23 24
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di teoremi basata sul metodo assiomatico, permane anche dopo Platone e Aristotele sotto forma di opposizione tra problemi e teoremi. Infatti, come ci informa Proclo, «tra gli antichi, alcuni, come Speusippo e Anfinomo, stimarono giusto chiamare tutte» le proposizioni che sono dedotte dai principi «‘teoremi’, ritenendo che per le scienze teoretiche fosse più appropriata tale designazione che non quella di ‘problemi’, specialmente in quanto esse trattano di cose eterne», perché «delle cose eterne non c’è nascita e perciò in esse non troverebbe alcuno spazio la nozione di problema, la quale indica una nascita e una produzione di qualcosa che prima non esisteva, come la costruzione di un triangolo equilatero, o di un quadrato quando ne sia dato il lato, o l’apposizione di una retta su un punto dato»31. Per questi antichi «è meglio dire che tutte queste cose esistono e che noi guardiamo la loro formazione non come un produrle ma come un comprenderle», dunque «tutto viene trattato come un teorema e non come un problema»32. Altri antichi, invece, «come i matematici della scuola di Menecmo, ritennero giusto chiamare tutte» le proposizioni che sono dedotte dai principi «‘problemi’, descrivendo il loro scopo come duplice: ora quello di dare la cosa cercata, ora, dopo aver assunto la cosa cercata come già definita, quello di vedere che cosa è, o di quale genere è, o quali proprietà ha, o in quali relazioni sta con qualcos’altro»33. Il fatto che Speusippo e Anfinomo fossero filosofi e Menecmo fosse un matematico è significativo perché, nella Grecia antica, generalmente i filosofi appoggiavano la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, e i matematici appoggiavano la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. La ragione per cui i filosofi generalmente appoggiavano la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, è che essi erano principalmente interessati alla certezza della conoscenza. Per esempio, Aristotele afferma che i problemi differiscono dai teoremi perché sono «questioni riguardo alle quali esistono ragionamenti opposti – risulta infatti problematico stabilire se qualcosa è Proclo 1992, 77.15-78.3. Ivi, 78.3-8. 33 Ivi, 78.8-13. 31 32
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lire verso ipotesi sempre più soddisfacenti. Solo tale metodo «procede per questa via, togliendo di mezzo le ipotesi, verso il principio stesso, per trovarvi la propria giustificazione; e soltanto esso estrae a poco a poco l’occhio dell’anima dal fango barbarico in cui era invischiato e lo dirige verso l’alto»23. Esso, infatti, procede «passando attraverso tutte le confutazioni e sforzandosi di confutare non secondo l’opinione ma secondo la realtà»24. Cioè, sottoponendo le ipotesi a tutte le prove e non basandosi su altre ipotesi ma sui dati della realtà. Fare questo è necessario perché, «senza passare attraverso tutte le possibilità, cioè senza andare in tutte le direzioni, è impossibile che la mente, anche se incontra la verità, la conosca»25. Dall’altro lato, invece, Aristotele critica la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, affermando che il metodo analitico permette «non già di conoscere qualcosa in modo assoluto, ma solo di conoscerlo in base a un’ipotesi»26. Ma la conoscenza «deve procedere da cose necessarie»27. E «ciò che per sé è necessario che sia, ed è necessario che sembri, non è un’ipotesi»28. Invece il metodo assiomatico fa conoscere le cose non in base a un’ipotesi ma in base a principi assiomatici, dunque procedendo da cose necessarie, perché i principi assiomatici sono necessari. È vero che tale metodo non scopre i principi assiomatici ma assume che essi provengano «da una conoscenza preesistente»29. Ma questo non è un limite, perché lo scopo del metodo assiomatico non è scoprire principi assiomatici bensì fondare la conoscenza indicandone le fondamenta, e queste devono provenire da una conoscenza già esistente, perché «le fondamenta devono sussistere prima della casa»30. 6. Ragioni dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico e la tesi che la conoscenza è dimostrazione Ivi, VII 533 c 9-d 3. Ivi, VII 534 c 1-3. 25 Platone, Parmenides, 136 e 1-3. 26 Aristotele, Analytica Posteriora, A 22, 84 a 5-6. 27 Ivi, A 6, 74 b 15. 28 Ivi, A 10, 76 b 23-24. 29 Ivi, A 1, 71 a 1-2. 30 Ivi, B 12, 95 b 37. 23 24
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di teoremi basata sul metodo assiomatico, permane anche dopo Platone e Aristotele sotto forma di opposizione tra problemi e teoremi. Infatti, come ci informa Proclo, «tra gli antichi, alcuni, come Speusippo e Anfinomo, stimarono giusto chiamare tutte» le proposizioni che sono dedotte dai principi «‘teoremi’, ritenendo che per le scienze teoretiche fosse più appropriata tale designazione che non quella di ‘problemi’, specialmente in quanto esse trattano di cose eterne», perché «delle cose eterne non c’è nascita e perciò in esse non troverebbe alcuno spazio la nozione di problema, la quale indica una nascita e una produzione di qualcosa che prima non esisteva, come la costruzione di un triangolo equilatero, o di un quadrato quando ne sia dato il lato, o l’apposizione di una retta su un punto dato»31. Per questi antichi «è meglio dire che tutte queste cose esistono e che noi guardiamo la loro formazione non come un produrle ma come un comprenderle», dunque «tutto viene trattato come un teorema e non come un problema»32. Altri antichi, invece, «come i matematici della scuola di Menecmo, ritennero giusto chiamare tutte» le proposizioni che sono dedotte dai principi «‘problemi’, descrivendo il loro scopo come duplice: ora quello di dare la cosa cercata, ora, dopo aver assunto la cosa cercata come già definita, quello di vedere che cosa è, o di quale genere è, o quali proprietà ha, o in quali relazioni sta con qualcos’altro»33. Il fatto che Speusippo e Anfinomo fossero filosofi e Menecmo fosse un matematico è significativo perché, nella Grecia antica, generalmente i filosofi appoggiavano la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, e i matematici appoggiavano la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. La ragione per cui i filosofi generalmente appoggiavano la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, è che essi erano principalmente interessati alla certezza della conoscenza. Per esempio, Aristotele afferma che i problemi differiscono dai teoremi perché sono «questioni riguardo alle quali esistono ragionamenti opposti – risulta infatti problematico stabilire se qualcosa è Proclo 1992, 77.15-78.3. Ivi, 78.3-8. 33 Ivi, 78.8-13. 31 32
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una determinata cosa o no, perché vi sono argomenti convincenti a favore di entrambe le alternative», perciò riguardo a tali questioni «non abbiamo un argomento conclusivo dato che sono così vaste, e pensiamo sia difficile fornirne il perché»34. Per questo motivo Aristotele ritiene che i problemi non appartengano alla scienza, cioè al dominio del discorso certo, bensì alla dialettica, ossia al dominio del discorso plausibile. La ragione per cui, invece, i matematici generalmente appoggiavano la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, è che essi erano principalmente interessati alla crescita della conoscenza, e consideravano i problemi come uno strumento essenziale per ottenerla. Per esempio, Carpo di Antiochia afferma che «il genere dei problemi ha la priorità rispetto a quello dei teoremi» perché «mediante i problemi si scoprono gli argomenti di cui si cercano le proprietà»35. Inoltre, «per i problemi è stata trovata una certa procedura comune, cioè il metodo dell’analisi», o metodo analitico, «seguendo il quale si può riuscire a trovarne una soluzione. Così infatti si possono investigare i problemi più oscuri»36. 7. Implicazioni dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico e la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico è un’opposizione tra due punti di vista alternativi sulla conoscenza. La tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico implica che la conoscenza è un sistema chiuso. In base a essa, infatti, la conoscenza relativa a una data area è contenuta tutta implicitamente negli assiomi per quell’area, che sono dati dall’inizio una volta per sempre, e lo sviluppo della conoscenza relativa a quell’area consiste nel rendere esplicito il contenuto degli assiomi e non richiede null’altro oltre quanto è contenuto dall’inizio negli assiomi. Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata Aristotele, Topica, I, 11, 104 b 12-16. Proclo 1992, 242.1-4. 36 Ivi, 242.14-17. 34 35
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sul metodo analitico implica che la conoscenza è un sistema aperto. In base a essa, infatti, l’unica cosa che è data dall’inizio è il problema da risolvere, e lo sviluppo della conoscenza relativa al problema consiste nel formulare ipotesi plausibili per la sua soluzione che possono anche riguardare aree diverse da quella del problema37. Questa opposizione tra due punti di vista alternativi sulla conoscenza dà luogo a nozioni alternative di dimostrazione e di teoria. In base alla tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, le dimostrazioni sono deduzioni di proposizioni da assiomi che sono veri in qualche senso di ‘vero’. Esse partono da assiomi dati e discendono alla proposizione da dimostrare. Il loro scopo è dare una fondazione e giustificazione della proposizione. Una teoria è un insieme chiuso di assiomi e di proposizioni ottenute dagli assiomi mediante inferenze deduttive – chiuso, perché gli assiomi sono dati dall’inizio una volta per sempre e le proposizioni appartenenti all’insieme sono determinate interamente dagli assiomi. Invece, in base alla tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, le dimostrazioni sono derivazioni non deduttive di ipotesi plausibili da problemi. Esse partono da un problema dato e risalgono a ipotesi plausibili. Il loro scopo è dare una soluzione al problema38. Una teoria è un insieme aperto di problemi e di ipotesi per la loro soluzione ottenute dai problemi mediante inferenze non deduttive – aperto, perché le ipotesi non sono date dall’inizio e possono appartenere ad aree diverse da quella del problema, e la soluzione del problema può generare nuovi problemi. 8. Carattere asimmetrico dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico e la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico ha però un carattere asimmetrico. La tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico è confutata dal primo teorema di incompletez37 Sulle nozioni di sistema chiuso e sistema aperto, cfr. Cellucci 1998, capp. 67, 9; Cellucci 2002, capp. 7, 26. 38 Su questa nozione di dimostrazione, cfr. Cellucci 2008b.
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una determinata cosa o no, perché vi sono argomenti convincenti a favore di entrambe le alternative», perciò riguardo a tali questioni «non abbiamo un argomento conclusivo dato che sono così vaste, e pensiamo sia difficile fornirne il perché»34. Per questo motivo Aristotele ritiene che i problemi non appartengano alla scienza, cioè al dominio del discorso certo, bensì alla dialettica, ossia al dominio del discorso plausibile. La ragione per cui, invece, i matematici generalmente appoggiavano la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, è che essi erano principalmente interessati alla crescita della conoscenza, e consideravano i problemi come uno strumento essenziale per ottenerla. Per esempio, Carpo di Antiochia afferma che «il genere dei problemi ha la priorità rispetto a quello dei teoremi» perché «mediante i problemi si scoprono gli argomenti di cui si cercano le proprietà»35. Inoltre, «per i problemi è stata trovata una certa procedura comune, cioè il metodo dell’analisi», o metodo analitico, «seguendo il quale si può riuscire a trovarne una soluzione. Così infatti si possono investigare i problemi più oscuri»36. 7. Implicazioni dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico e la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico è un’opposizione tra due punti di vista alternativi sulla conoscenza. La tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico implica che la conoscenza è un sistema chiuso. In base a essa, infatti, la conoscenza relativa a una data area è contenuta tutta implicitamente negli assiomi per quell’area, che sono dati dall’inizio una volta per sempre, e lo sviluppo della conoscenza relativa a quell’area consiste nel rendere esplicito il contenuto degli assiomi e non richiede null’altro oltre quanto è contenuto dall’inizio negli assiomi. Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata Aristotele, Topica, I, 11, 104 b 12-16. Proclo 1992, 242.1-4. 36 Ivi, 242.14-17. 34 35
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sul metodo analitico implica che la conoscenza è un sistema aperto. In base a essa, infatti, l’unica cosa che è data dall’inizio è il problema da risolvere, e lo sviluppo della conoscenza relativa al problema consiste nel formulare ipotesi plausibili per la sua soluzione che possono anche riguardare aree diverse da quella del problema37. Questa opposizione tra due punti di vista alternativi sulla conoscenza dà luogo a nozioni alternative di dimostrazione e di teoria. In base alla tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico, le dimostrazioni sono deduzioni di proposizioni da assiomi che sono veri in qualche senso di ‘vero’. Esse partono da assiomi dati e discendono alla proposizione da dimostrare. Il loro scopo è dare una fondazione e giustificazione della proposizione. Una teoria è un insieme chiuso di assiomi e di proposizioni ottenute dagli assiomi mediante inferenze deduttive – chiuso, perché gli assiomi sono dati dall’inizio una volta per sempre e le proposizioni appartenenti all’insieme sono determinate interamente dagli assiomi. Invece, in base alla tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, le dimostrazioni sono derivazioni non deduttive di ipotesi plausibili da problemi. Esse partono da un problema dato e risalgono a ipotesi plausibili. Il loro scopo è dare una soluzione al problema38. Una teoria è un insieme aperto di problemi e di ipotesi per la loro soluzione ottenute dai problemi mediante inferenze non deduttive – aperto, perché le ipotesi non sono date dall’inizio e possono appartenere ad aree diverse da quella del problema, e la soluzione del problema può generare nuovi problemi. 8. Carattere asimmetrico dell’opposizione L’opposizione tra la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico e la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico ha però un carattere asimmetrico. La tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico è confutata dal primo teorema di incompletez37 Sulle nozioni di sistema chiuso e sistema aperto, cfr. Cellucci 1998, capp. 67, 9; Cellucci 2002, capp. 7, 26. 38 Su questa nozione di dimostrazione, cfr. Cellucci 2008b.
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za di Gödel. In base a esso, infatti, per ogni teoria che soddisfi certi requisiti minimi, esisteranno enunciati della teoria veri ma non dimostrabili in essa. Per dimostrarli occorrono nuovi assiomi, indimostrabili nella teoria. Perciò la conoscenza non può essere un sistema chiuso, e dunque non può essere dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico non solo non è confutata ma anzi è confermata dal primo teorema di incompletezza di Gödel. In base a esso, infatti, per risolvere un problema, in generale non sono sufficienti ipotesi relative all’area del problema, occorrono ipotesi relative ad altre aree. Perciò la conoscenza è un sistema aperto. La necessità di ricorrere a ipotesi relative ad aree differenti da quella del problema è inspiegabile dal punto di vista secondo cui la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. In base a esso, infatti, tutte le proposizioni vere di una data area della conoscenza devono essere dimostrabili mediante gli assiomi relativi a quell’area, che non solo non richiedono ma addirittura non consentono l’aggiunta di nuovi assiomi, perché la loro aggiunta sarebbe «qualcosa di assolutamente illecito e illogico»39. Illogico nel senso che, se si aggiunge al sistema come assioma una qualsiasi formula «non dimostrabile, allora dal sistema di assiomi esteso si può derivare una contraddizione»40. La necessità di ricorrere a ipotesi relative ad aree differenti da quella del problema è invece perfettamente spiegabile dal punto di vista secondo cui la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. In base a esso, infatti, la soluzione di un problema si ottiene partendo dal problema e formulando ipotesi che non devono essere limitate ad alcuna area prefissata, e perciò possono essere relative anche ad aree molto diverse da quella del problema. Che le ipotesi non debbano essere limitate ad alcuna area prefissata permette, come osserva Grosholz, «di esplorare le analogie tra cose disparate», generando così «nuove cose intelligibili», tra cui cose che presentano caratteri propri di aree differenti, che Grosholz chiama «ibridi»41. Hilbert 1976a, p. 67. Hilbert 1929, p. 7. 41 Grosholz 2007, p. 49.
Così, nel caso del problema di Fermat, che è un problema relativo ai numeri naturali, l’ipotesi usata da Ribet per risolvere il problema riguarda le curve ellittiche sui numeri razionali, dunque cose diverse dai numeri naturali. Sulla scelta delle ipotesi non vi sono restrizioni. Gli unici requisiti che esse devono soddisfare è essere condizioni sufficienti per la soluzione del problema ed essere plausibili. Perciò la conoscenza è un sistema aperto. 9. Impossibilità di una autofondazione Che, in base alla tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, la conoscenza sia un sistema aperto, implica che una autofondazione della matematica come quella prevista da Frege, Hilbert e Brouwer è impossibile. Non si può dare una fondazione della matematica basata unicamente sui mezzi della matematica stessa. Frege, Hilbert e Brouwer assumevano che i loro programmi potessero essere realizzati senza affrontare questioni esterne alla matematica, come quelle della natura della conoscenza, della mente, e così via. A loro parere la fondazione della matematica era un lavoro che i matematici potevano sbrigare da sé con i propri mezzi, senza dover elaborare concezioni filosofiche generali. Per esempio, Hilbert afferma che, «per la nuova fondazione della matematica», c’è bisogno solo della logica matematica, che è una branca della matematica creata appositamente a tale scopo, ed è «una matematica in certo senso nuova, una metamatematica», la quale «si aggiunge alla matematica vera e propria»42. Il fallimento dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer mostra che l’assunzione di Frege, Hilbert e Brouwer era insostenibile. La fondazione di una teoria matematica richiede mezzi non disponibili nella teoria. Perciò la fondazione di una teoria per tutta la matematica, come la teoria degli insiemi, richiede mezzi non disponibili nella matematica. Per comprendere la natura della matematica occorre andare al di là dall’ambito degli oggetti e dei modi di rappresentazione della ma-
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Hilbert 1970, p 174.
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za di Gödel. In base a esso, infatti, per ogni teoria che soddisfi certi requisiti minimi, esisteranno enunciati della teoria veri ma non dimostrabili in essa. Per dimostrarli occorrono nuovi assiomi, indimostrabili nella teoria. Perciò la conoscenza non può essere un sistema chiuso, e dunque non può essere dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico non solo non è confutata ma anzi è confermata dal primo teorema di incompletezza di Gödel. In base a esso, infatti, per risolvere un problema, in generale non sono sufficienti ipotesi relative all’area del problema, occorrono ipotesi relative ad altre aree. Perciò la conoscenza è un sistema aperto. La necessità di ricorrere a ipotesi relative ad aree differenti da quella del problema è inspiegabile dal punto di vista secondo cui la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico. In base a esso, infatti, tutte le proposizioni vere di una data area della conoscenza devono essere dimostrabili mediante gli assiomi relativi a quell’area, che non solo non richiedono ma addirittura non consentono l’aggiunta di nuovi assiomi, perché la loro aggiunta sarebbe «qualcosa di assolutamente illecito e illogico»39. Illogico nel senso che, se si aggiunge al sistema come assioma una qualsiasi formula «non dimostrabile, allora dal sistema di assiomi esteso si può derivare una contraddizione»40. La necessità di ricorrere a ipotesi relative ad aree differenti da quella del problema è invece perfettamente spiegabile dal punto di vista secondo cui la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. In base a esso, infatti, la soluzione di un problema si ottiene partendo dal problema e formulando ipotesi che non devono essere limitate ad alcuna area prefissata, e perciò possono essere relative anche ad aree molto diverse da quella del problema. Che le ipotesi non debbano essere limitate ad alcuna area prefissata permette, come osserva Grosholz, «di esplorare le analogie tra cose disparate», generando così «nuove cose intelligibili», tra cui cose che presentano caratteri propri di aree differenti, che Grosholz chiama «ibridi»41. Hilbert 1976a, p. 67. Hilbert 1929, p. 7. 41 Grosholz 2007, p. 49.
Così, nel caso del problema di Fermat, che è un problema relativo ai numeri naturali, l’ipotesi usata da Ribet per risolvere il problema riguarda le curve ellittiche sui numeri razionali, dunque cose diverse dai numeri naturali. Sulla scelta delle ipotesi non vi sono restrizioni. Gli unici requisiti che esse devono soddisfare è essere condizioni sufficienti per la soluzione del problema ed essere plausibili. Perciò la conoscenza è un sistema aperto. 9. Impossibilità di una autofondazione Che, in base alla tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, la conoscenza sia un sistema aperto, implica che una autofondazione della matematica come quella prevista da Frege, Hilbert e Brouwer è impossibile. Non si può dare una fondazione della matematica basata unicamente sui mezzi della matematica stessa. Frege, Hilbert e Brouwer assumevano che i loro programmi potessero essere realizzati senza affrontare questioni esterne alla matematica, come quelle della natura della conoscenza, della mente, e così via. A loro parere la fondazione della matematica era un lavoro che i matematici potevano sbrigare da sé con i propri mezzi, senza dover elaborare concezioni filosofiche generali. Per esempio, Hilbert afferma che, «per la nuova fondazione della matematica», c’è bisogno solo della logica matematica, che è una branca della matematica creata appositamente a tale scopo, ed è «una matematica in certo senso nuova, una metamatematica», la quale «si aggiunge alla matematica vera e propria»42. Il fallimento dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer mostra che l’assunzione di Frege, Hilbert e Brouwer era insostenibile. La fondazione di una teoria matematica richiede mezzi non disponibili nella teoria. Perciò la fondazione di una teoria per tutta la matematica, come la teoria degli insiemi, richiede mezzi non disponibili nella matematica. Per comprendere la natura della matematica occorre andare al di là dall’ambito degli oggetti e dei modi di rappresentazione della ma-
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tematica, affrontando questioni esterne ad essa, come quelle della natura della conoscenza, della mente, e così via. 10. Razionalismo contro irrazionalismo Oltre ad andare incontro alle difficoltà già rilevate, la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico riduce la conoscenza matematica a un fatto irrazionale, basato sull’intuizione, e la dimostrazione a un ornamento retorico. Per esempio Hardy, che è un sostenitore di tale tesi, afferma che il matematico è «in primo luogo un osservatore, un uomo che guarda fissamente una catena di montagne distante»43. Quando vede un picco, «se vuole che qualcun altro lo veda lo segna a dito», e, «quando anche il suo allievo lo vede, la ricerca, l’argomentazione, la dimostrazione è finita»44. Il vedere picchi e segnarli a dito non è altro che l’intuizione matematica. Che l’attività del matematico consista nel vedere picchi e segnarli a dito implica che, «a rigore, non esiste una cosa come la dimostrazione matematica; in ultima analisi non possiamo far altro che segnare a dito»45. Le dimostrazioni sono solo «gas, ornamenti retorici volti a influenzare la psicologia, figure sulla lavagna nelle lezioni, mezzi per stimolare l’immaginazione degli allievi»46. Ma, riducendo la conoscenza matematica a un fatto irrazionale, basato sull’intuizione, e la dimostrazione a un ornamento retorico, la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico entra in conflitto con lo scopo della concezione fondazionalista di dare una fondazione e giustificazione della conoscenza. Se la conoscenza matematica è un fatto irrazionale e la dimostrazione è solo un ornamento retorico, perché si dovrebbe dare una fondazione e giustificazione della conoscenza matematica mediante il metodo assiomatico? Come si potrebbe evitare di considerare ciò un mero ornamento retorico? Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico non va incontro a questa difficoltà, perché conHardy 1929, p. 18. Ibid. 45 Ibid. 46 Ibid. 43 44
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sidera la conoscenza matematica come un fatto assolutamente razionale. Come si è già sottolineato, infatti, l’intuizione non svolge alcun ruolo nel metodo analitico, né nel formulare le ipotesi né nel giustificarle, in esso intervengono soltanto processi razionali. 11. Il paradosso della ricerca Contro la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si potrebbe tuttavia obiettare che essa dà per scontato che sia possibile risolvere problemi, mentre questo è in conflitto con il cosiddetto ‘paradosso della ricerca’: «Per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che sa né ciò che non sa: ciò che sa, perché conoscendolo non ha bisogno di ricercarlo; ciò che non sa, perché in tal caso neppure sa che cosa ricerca»47. Ma non è così. Infatti, ciò che l’uomo sa sono le soluzioni di problemi già trovate, ed è vero che conoscendole l’uomo non ha bisogno di ricercarle, ma egli ha sempre bisogno di rimetterle in discussione, perché nessuna soluzione, cioè nessuna ipotesi, è mai definitiva, costituisce sempre un problema che deve essere risolto. Perciò è ingiustificato dire che per l’uomo non è possibile ricercare ciò che sa perché conoscendolo non ha bisogno di ricercarlo. Ciò che sa, non lo sa mai in modo definitivo. D’altra parte, ciò che l’uomo non sa sono le soluzioni di problemi non ancora trovate, e il fatto che non le sappia non significa che egli non sa che cosa ricerca, ma solo che non ha ancora trovato una soluzione, il che non esclude che un giorno possa trovarla. Perciò è ingiustificato dire che per l’uomo non è possibile ricercare ciò che non sa perché in tal caso neppure sa che cosa ricerca. Egli sa che cosa ricerca, anche se non ha ancora trovato una soluzione. 47
Platone, Meno, 80 e 2-5.
tematica, affrontando questioni esterne ad essa, come quelle della natura della conoscenza, della mente, e così via. 10. Razionalismo contro irrazionalismo Oltre ad andare incontro alle difficoltà già rilevate, la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico riduce la conoscenza matematica a un fatto irrazionale, basato sull’intuizione, e la dimostrazione a un ornamento retorico. Per esempio Hardy, che è un sostenitore di tale tesi, afferma che il matematico è «in primo luogo un osservatore, un uomo che guarda fissamente una catena di montagne distante»43. Quando vede un picco, «se vuole che qualcun altro lo veda lo segna a dito», e, «quando anche il suo allievo lo vede, la ricerca, l’argomentazione, la dimostrazione è finita»44. Il vedere picchi e segnarli a dito non è altro che l’intuizione matematica. Che l’attività del matematico consista nel vedere picchi e segnarli a dito implica che, «a rigore, non esiste una cosa come la dimostrazione matematica; in ultima analisi non possiamo far altro che segnare a dito»45. Le dimostrazioni sono solo «gas, ornamenti retorici volti a influenzare la psicologia, figure sulla lavagna nelle lezioni, mezzi per stimolare l’immaginazione degli allievi»46. Ma, riducendo la conoscenza matematica a un fatto irrazionale, basato sull’intuizione, e la dimostrazione a un ornamento retorico, la tesi che la conoscenza è dimostrazione di teoremi basata sul metodo assiomatico entra in conflitto con lo scopo della concezione fondazionalista di dare una fondazione e giustificazione della conoscenza. Se la conoscenza matematica è un fatto irrazionale e la dimostrazione è solo un ornamento retorico, perché si dovrebbe dare una fondazione e giustificazione della conoscenza matematica mediante il metodo assiomatico? Come si potrebbe evitare di considerare ciò un mero ornamento retorico? Invece, la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico non va incontro a questa difficoltà, perché conHardy 1929, p. 18. Ibid. 45 Ibid. 46 Ibid. 43 44
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sidera la conoscenza matematica come un fatto assolutamente razionale. Come si è già sottolineato, infatti, l’intuizione non svolge alcun ruolo nel metodo analitico, né nel formulare le ipotesi né nel giustificarle, in esso intervengono soltanto processi razionali. 11. Il paradosso della ricerca Contro la tesi che la conoscenza è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si potrebbe tuttavia obiettare che essa dà per scontato che sia possibile risolvere problemi, mentre questo è in conflitto con il cosiddetto ‘paradosso della ricerca’: «Per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che sa né ciò che non sa: ciò che sa, perché conoscendolo non ha bisogno di ricercarlo; ciò che non sa, perché in tal caso neppure sa che cosa ricerca»47. Ma non è così. Infatti, ciò che l’uomo sa sono le soluzioni di problemi già trovate, ed è vero che conoscendole l’uomo non ha bisogno di ricercarle, ma egli ha sempre bisogno di rimetterle in discussione, perché nessuna soluzione, cioè nessuna ipotesi, è mai definitiva, costituisce sempre un problema che deve essere risolto. Perciò è ingiustificato dire che per l’uomo non è possibile ricercare ciò che sa perché conoscendolo non ha bisogno di ricercarlo. Ciò che sa, non lo sa mai in modo definitivo. D’altra parte, ciò che l’uomo non sa sono le soluzioni di problemi non ancora trovate, e il fatto che non le sappia non significa che egli non sa che cosa ricerca, ma solo che non ha ancora trovato una soluzione, il che non esclude che un giorno possa trovarla. Perciò è ingiustificato dire che per l’uomo non è possibile ricercare ciò che non sa perché in tal caso neppure sa che cosa ricerca. Egli sa che cosa ricerca, anche se non ha ancora trovato una soluzione. 47
Platone, Meno, 80 e 2-5.
16.
La conoscenza percettiva
1. La visione e l’occhio come macchina fotografica Che la conoscenza sia soluzione di problemi basata sul metodo analitico vale anche per quel particolare tipo di conoscenza che è la conoscenza percettiva. Anch’essa è soluzione di problemi, e, come tutti i problemi, anche i suoi problemi si risolvono formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Questa affermazione può sembrare bizzarra perché, quando si parla di visione, si pensa all’occhio come a una macchina fotografica. Si pensa cioè che, come la fotografia si basa sul fatto che su un sensore si forma un’immagine dell’oggetto perfettamente a fuoco e uniformemente dettagliata dal centro alla periferia che viene trasmessa alla memoria, così la visione si basa sul fatto che sulla retina si forma un’immagine dell’oggetto perfettamente a fuoco e uniformemente dettagliata dal centro alla periferia che viene trasmessa al cervello. Se così fosse, sarebbe bizzarro affermare che la conoscenza percettiva è soluzione di problemi e che, come tutti i problemi, anche i problemi percettivi si risolvono formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. In tal caso, infatti, nella visione non vi sarebbe alcun problema da risolvere, l’immagine dell’oggetto sarebbe registrata puntualmente dalla retina e trasmessa fedelmente al cervello. Ma non è così. La retina è percorsa da una fitta rete di vasi sanguigni e fibre nervose, che bloccano e rifraggono la luce incidente impedendole parzialmente di raggiungere i recettori, i quali sono posti sulla faccia posteriore della retina. Solo una zona estremamente ristretta di quest’ultima, del diametro di meno di mezzo millimetro, la fovea, non è percorsa da vasi sanguigni e fibre nervose, perciò solo in tale zona la luce può colpire direttamente i recettori. Mano a 244
mano che ci si allontana da essa, l’acuità visiva decresce rapidamente fino ad annullarsi quasi del tutto alla periferia della retina, e lo stesso vale per la sensibilità ai colori. Inoltre, la lunghezza focale è diversa per il rosso e per il blu, perciò uno dei due estremi dello spettro dei colori è sempre sfuocato. Per di più, una zona della retina notevolmente più ampia della fovea e distante da essa una decina di gradi, cioè quella in cui le fibre nervose della retina formano il nervo ottico, è priva di recettori e perciò è insensibile alla luce. Per supplire a questi limiti dell’occhio, noi lo muoviamo continuamente, da quattro a cinque volte al secondo, per permettere alla fovea di focalizzare le varie parti degli oggetti del mondo esterno. Questi movimenti dell’occhio, detti saccadi, sono essenziali per la visione. Se si mantiene fisso l’occhio, o si usano mezzi artificiali per mantenere fissa l’immagine sulla retina compensando i movimenti dell’occhio, la visione decade diventando sfocata e imperfetta. A causa dei movimenti dell’occhio, l’immagine sulla retina cambia da quattro a cinque volte al secondo, perciò, anche quando gli oggetti rimangono immutati, ciascuna immagine rimane sulla retina solo per una frazione di secondo. Questo fa nascere vari problemi. Gli stimoli sulla retina sono poveri e instabili. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva ricca e stabile? L’immagine sulla retina è capovolta. Perché allora gli oggetti ci appaiono eretti? Le immagini di uno stesso oggetto sulle retine dei nostri due occhi sono un po’ diversi tra loro. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva unica? Le immagini sulla retina sono bidimensionali e da esse non si possono ricavare stimoli tridimensionali, dal momento che vi è un numero infinito di stimoli tridimensionali corrispondenti a un’immagine bidimensionale. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva tridimensionale? Dai limiti dell’occhio appare chiaro che la visione non può basarsi sul fatto che l’occhio sia simile a una macchina fotografica. 2. La visione e le immagini mentali La visione non può basarsi neppure sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno. Infatti, le immagini mentali non somigliano ad oggetti del mondo esterno. Per esempio, i due tavoli seguenti sono eguali, sono so245
16.
La conoscenza percettiva
1. La visione e l’occhio come macchina fotografica Che la conoscenza sia soluzione di problemi basata sul metodo analitico vale anche per quel particolare tipo di conoscenza che è la conoscenza percettiva. Anch’essa è soluzione di problemi, e, come tutti i problemi, anche i suoi problemi si risolvono formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Questa affermazione può sembrare bizzarra perché, quando si parla di visione, si pensa all’occhio come a una macchina fotografica. Si pensa cioè che, come la fotografia si basa sul fatto che su un sensore si forma un’immagine dell’oggetto perfettamente a fuoco e uniformemente dettagliata dal centro alla periferia che viene trasmessa alla memoria, così la visione si basa sul fatto che sulla retina si forma un’immagine dell’oggetto perfettamente a fuoco e uniformemente dettagliata dal centro alla periferia che viene trasmessa al cervello. Se così fosse, sarebbe bizzarro affermare che la conoscenza percettiva è soluzione di problemi e che, come tutti i problemi, anche i problemi percettivi si risolvono formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. In tal caso, infatti, nella visione non vi sarebbe alcun problema da risolvere, l’immagine dell’oggetto sarebbe registrata puntualmente dalla retina e trasmessa fedelmente al cervello. Ma non è così. La retina è percorsa da una fitta rete di vasi sanguigni e fibre nervose, che bloccano e rifraggono la luce incidente impedendole parzialmente di raggiungere i recettori, i quali sono posti sulla faccia posteriore della retina. Solo una zona estremamente ristretta di quest’ultima, del diametro di meno di mezzo millimetro, la fovea, non è percorsa da vasi sanguigni e fibre nervose, perciò solo in tale zona la luce può colpire direttamente i recettori. Mano a 244
mano che ci si allontana da essa, l’acuità visiva decresce rapidamente fino ad annullarsi quasi del tutto alla periferia della retina, e lo stesso vale per la sensibilità ai colori. Inoltre, la lunghezza focale è diversa per il rosso e per il blu, perciò uno dei due estremi dello spettro dei colori è sempre sfuocato. Per di più, una zona della retina notevolmente più ampia della fovea e distante da essa una decina di gradi, cioè quella in cui le fibre nervose della retina formano il nervo ottico, è priva di recettori e perciò è insensibile alla luce. Per supplire a questi limiti dell’occhio, noi lo muoviamo continuamente, da quattro a cinque volte al secondo, per permettere alla fovea di focalizzare le varie parti degli oggetti del mondo esterno. Questi movimenti dell’occhio, detti saccadi, sono essenziali per la visione. Se si mantiene fisso l’occhio, o si usano mezzi artificiali per mantenere fissa l’immagine sulla retina compensando i movimenti dell’occhio, la visione decade diventando sfocata e imperfetta. A causa dei movimenti dell’occhio, l’immagine sulla retina cambia da quattro a cinque volte al secondo, perciò, anche quando gli oggetti rimangono immutati, ciascuna immagine rimane sulla retina solo per una frazione di secondo. Questo fa nascere vari problemi. Gli stimoli sulla retina sono poveri e instabili. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva ricca e stabile? L’immagine sulla retina è capovolta. Perché allora gli oggetti ci appaiono eretti? Le immagini di uno stesso oggetto sulle retine dei nostri due occhi sono un po’ diversi tra loro. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva unica? Le immagini sulla retina sono bidimensionali e da esse non si possono ricavare stimoli tridimensionali, dal momento che vi è un numero infinito di stimoli tridimensionali corrispondenti a un’immagine bidimensionale. Perché allora abbiamo un’esperienza visiva tridimensionale? Dai limiti dell’occhio appare chiaro che la visione non può basarsi sul fatto che l’occhio sia simile a una macchina fotografica. 2. La visione e le immagini mentali La visione non può basarsi neppure sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno. Infatti, le immagini mentali non somigliano ad oggetti del mondo esterno. Per esempio, i due tavoli seguenti sono eguali, sono so245
lo orientati diversamente nel piano, nondimeno ci appaiono differenti, perciò le loro immagini mentali sono differenti. Queste ultime, quindi, non somigliano ai due tavoli, dal momento che questi sono eguali.
Che le immagini mentali non somiglino ad oggetti del mondo esterno è sottolineato già da Descartes, il quale afferma che noi non vediamo gli oggetti «in base alla somiglianza delle immagini che sono nell’occhio; perché queste immagini contengono ordinariamente solo degli ovali e dei rombi, mentre ci fanno vedere dei cerchi e dei quadrati»1. Inoltre, se la visione si basasse sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno, dentro di noi dovrebbe esserci un homunculus capace di percepire tale somiglianza, dentro tale homunculus dovrebbe esserci un altro homunculus capace di percepire quella somiglianza, e così via all’infinito. Anche questo è sottolineato già da Descartes, il quale afferma che «occorre guardarsi dal supporre» che «per sentire l’anima abbia bisogno di contemplare delle immagini che sono inviate dagli oggetti al cervello»2. Anche se una tale immagine «conserva sempre qualcosa della somiglianza con gli oggetti da cui essa proviene», non si può dire che «è per mezzo di tale somiglianza che l’immagine fa sì che noi li sentiamo», perché questo sarebbe «come se ci fossero di nuovo altri occhi nel nostro cervello», quelli di un homunculus, «con i quali noi li possiamo percepire»3.
Descartes 1996, VI, pp. 140-141. Ivi, VI, p. 112. 3 Ivi, VI, p. 130.
3. La visione come soluzione di problemi Ma se la visione non può basarsi sul fatto che l’occhio sia simile a una macchina fotografica né sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno, su che cosa si basa? Si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi su oggetti del mondo esterno a partire dagli stimoli sulla retina, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive. La visione risolve il problema di determinare, a partire dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, che cosa sono gli oggetti del mondo esterno che hanno dato origine a tali stimoli. Perciò essa è soluzione di problemi. E, come tutti gli altri problemi, anche quello della visione viene risolto mediante il metodo analitico, formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Dunque anche la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. Che le inferenze su cui si basa la visione siano inferenze non deduttive, dipende dal fatto che le ipotesi a cui esse conducono non sono immagini somiglianti ad oggetti del mondo esterno ma sono modi di collegare gli stimoli sulla retina a tali oggetti, modi che vanno necessariamente al di là degli stimoli perché questi non sono sufficienti per spiegare la visione. Naturalmente, le inferenze non deduttive su cui si basa la visione non sono inferenze proposizionali, cioè passaggi da una o più proposizioni a un’altra proposizione, ma inferenze generalizzate, ossia passaggi da uno o più dati a un altro dato, perché molte delle inferenze su cui si basa la visione non hanno un correlato linguistico. Questo si oppone all’affermazione della filosofia analitica che «anche la percezione attinge a strutture proposizionali per sviluppare il suo processo inferenziale»4. Tutte «le inferenze devono iniziare e terminare in proposizioni»5. Nella percezione l’informazione «deve essere codificata proposizionalmente quando viene ricevuta o subito dopo, se deve essere computazionalmente attiva»6. Questo è insostenibile, perché esperienze visive anche elementari hanno una grana troppo fine per essere esprimibili adeguatamente mediante il linguaggio. Maloney 1989, p. 18. Ivi, p. 18 nota 2. 6 Ibid.
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lo orientati diversamente nel piano, nondimeno ci appaiono differenti, perciò le loro immagini mentali sono differenti. Queste ultime, quindi, non somigliano ai due tavoli, dal momento che questi sono eguali.
Che le immagini mentali non somiglino ad oggetti del mondo esterno è sottolineato già da Descartes, il quale afferma che noi non vediamo gli oggetti «in base alla somiglianza delle immagini che sono nell’occhio; perché queste immagini contengono ordinariamente solo degli ovali e dei rombi, mentre ci fanno vedere dei cerchi e dei quadrati»1. Inoltre, se la visione si basasse sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno, dentro di noi dovrebbe esserci un homunculus capace di percepire tale somiglianza, dentro tale homunculus dovrebbe esserci un altro homunculus capace di percepire quella somiglianza, e così via all’infinito. Anche questo è sottolineato già da Descartes, il quale afferma che «occorre guardarsi dal supporre» che «per sentire l’anima abbia bisogno di contemplare delle immagini che sono inviate dagli oggetti al cervello»2. Anche se una tale immagine «conserva sempre qualcosa della somiglianza con gli oggetti da cui essa proviene», non si può dire che «è per mezzo di tale somiglianza che l’immagine fa sì che noi li sentiamo», perché questo sarebbe «come se ci fossero di nuovo altri occhi nel nostro cervello», quelli di un homunculus, «con i quali noi li possiamo percepire»3.
Descartes 1996, VI, pp. 140-141. Ivi, VI, p. 112. 3 Ivi, VI, p. 130.
3. La visione come soluzione di problemi Ma se la visione non può basarsi sul fatto che l’occhio sia simile a una macchina fotografica né sul fatto che noi contempliamo immagini mentali somiglianti ad oggetti del mondo esterno, su che cosa si basa? Si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi su oggetti del mondo esterno a partire dagli stimoli sulla retina, ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive. La visione risolve il problema di determinare, a partire dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, che cosa sono gli oggetti del mondo esterno che hanno dato origine a tali stimoli. Perciò essa è soluzione di problemi. E, come tutti gli altri problemi, anche quello della visione viene risolto mediante il metodo analitico, formulando ipotesi mediante inferenze non deduttive. Dunque anche la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. Che le inferenze su cui si basa la visione siano inferenze non deduttive, dipende dal fatto che le ipotesi a cui esse conducono non sono immagini somiglianti ad oggetti del mondo esterno ma sono modi di collegare gli stimoli sulla retina a tali oggetti, modi che vanno necessariamente al di là degli stimoli perché questi non sono sufficienti per spiegare la visione. Naturalmente, le inferenze non deduttive su cui si basa la visione non sono inferenze proposizionali, cioè passaggi da una o più proposizioni a un’altra proposizione, ma inferenze generalizzate, ossia passaggi da uno o più dati a un altro dato, perché molte delle inferenze su cui si basa la visione non hanno un correlato linguistico. Questo si oppone all’affermazione della filosofia analitica che «anche la percezione attinge a strutture proposizionali per sviluppare il suo processo inferenziale»4. Tutte «le inferenze devono iniziare e terminare in proposizioni»5. Nella percezione l’informazione «deve essere codificata proposizionalmente quando viene ricevuta o subito dopo, se deve essere computazionalmente attiva»6. Questo è insostenibile, perché esperienze visive anche elementari hanno una grana troppo fine per essere esprimibili adeguatamente mediante il linguaggio. Maloney 1989, p. 18. Ivi, p. 18 nota 2. 6 Ibid.
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Inoltre, le inferenze non deduttive su cui si basa la visione non sono inferenze consapevoli bensì inferenze inconsapevoli. Questo contrasta con la tesi di Hanson che all’alba Brahe «vede il Sole cominciare il suo viaggio da orizzonte a orizzonte», cioè «orbitare intorno alla nostra Terra fissa», mentre Kepler vede «l’orizzonte abbassarsi, o allontanarsi, dalla nostra stella locale fissa»7. Tale differenza «non è dovuta né a immagini visive differenti né ad alcuna ‘interpretazione’ sovrapposta alla sensazione»8. Dipende invece «dalle loro conoscenze, dalla loro esperienza e dalle loro teorie»9. Ma questo è insostenibile perché, per esempio, le nostre conoscenze, la nostra esperienza, le nostre teorie ci dicono che la luna piena all’orizzonte ha la stessa dimensione di quando è alta nel cielo, nondimeno noi continuiamo a vederla all’orizzonte molto più grande di quando è alta nel cielo. Dunque, contrariamente a quanto afferma Hanson, ciò che vediamo resiste ostinatamente alle nostre conoscenze consapevoli, alla nostra esperienza, alle nostre teorie. Le inferenze su cui si basa la visione non sono inferenze consapevoli, bensì inferenze inconsapevoli le quali hanno il sopravvento su quelle consapevoli. Così un’inferenza inconsapevole, basata sulla regola di inferenza in base alla quale la grandezza percepita è una funzione congiunta dell’angolo visivo e della distanza apparente, fa sì che, poiché la distanza apparente della luna all’orizzonte è molto più piccola della distanza apparente della luna alta nel cielo, noi vediamo la luna piena all’orizzonte molto più grande di quando è alta nel cielo. Questo implica che, nell’affermazione che la conoscenza è soluzione di problemi, la conoscenza deve essere intesa nel senso più ampio possibile. In particolare, non deve essere ristretta alla conoscenza proposizionale, cioè alla conoscenza codificabile mediante proposizioni, perché gran parte delle inferenze su cui si basa la visione non hanno un correlato linguistico. Né deve essere ristretta alla conoscenza consapevole, cioè alla conoscenza ottenuta attraverso processi accessibili alla nostra introspezione, perché gran parte della noHanson 1965, p. 23. Ibid. 9 Ivi, p. 18. 7 8
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stra conoscenza visiva non è conoscenza consapevole, dal momento che si ottiene attraverso processi che si svolgono troppo velocemente e a un livello troppo basso nella mente per essere accessibili alla nostra introspezione. 4. La visione e i limiti dell’occhio Concependo la visione come soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si può dare una risposta ai problemi sollevati dai limiti dell’occhio. Così, infatti, si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva ricca e stabile, nonostante gli stimoli sulla retina siano poveri e instabili. Questo accade perché quello che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione di ipotesi che vanno oltre gli stimoli sulla retina. Per esempio, quando vediamo un oggetto muoversi velocemente, l’occhio si muove con l’oggetto, perciò l’immagine dell’oggetto, che noi percepiamo muoversi velocemente, in realtà è abbastanza stabile sulla retina, mentre l’immagine dello sfondo rispetto a cui l’oggetto si muove, che noi invece percepiamo fermo, in realtà si muove velocemente sulla retina. Dunque ciò che vediamo si basa su un’ipotesi che ci fa distinguere la stabilità dell’immagine dell’oggetto sulla retina dal movimento dell’oggetto nel mondo. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se non fossimo in grado di fare tale distinzione. Inoltre, si spiega perché gli oggetti ci appaiono eretti, nonostante l’immagine sulla retina sia capovolta. Questo accade perché ciò che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione di ipotesi che vanno al di là degli stimoli sulla retina. Per esempio, se un soggetto si mette occhiali che capovolgono l’immagine sulla retina, egli non percepisce semplicemente gli oggetti della sua esperienza visiva come capovolti. Al contrario, all’inizio la sua esperienza visiva ne risulta sconvolta, ogni cosa gli appare terribilmente distorta, solo dopo alcuni giorni è in grado di muoversi senza grosse difficoltà, e dopo qualche settimana ha la sensazione che la sua esperienza visiva sia tornata normale. Questo accade perché il capovolgimento dell’immagine distrugge le ipotesi in base alle quali il soggetto era abituato a collegare gli stimoli sulla retina agli ogget249
Inoltre, le inferenze non deduttive su cui si basa la visione non sono inferenze consapevoli bensì inferenze inconsapevoli. Questo contrasta con la tesi di Hanson che all’alba Brahe «vede il Sole cominciare il suo viaggio da orizzonte a orizzonte», cioè «orbitare intorno alla nostra Terra fissa», mentre Kepler vede «l’orizzonte abbassarsi, o allontanarsi, dalla nostra stella locale fissa»7. Tale differenza «non è dovuta né a immagini visive differenti né ad alcuna ‘interpretazione’ sovrapposta alla sensazione»8. Dipende invece «dalle loro conoscenze, dalla loro esperienza e dalle loro teorie»9. Ma questo è insostenibile perché, per esempio, le nostre conoscenze, la nostra esperienza, le nostre teorie ci dicono che la luna piena all’orizzonte ha la stessa dimensione di quando è alta nel cielo, nondimeno noi continuiamo a vederla all’orizzonte molto più grande di quando è alta nel cielo. Dunque, contrariamente a quanto afferma Hanson, ciò che vediamo resiste ostinatamente alle nostre conoscenze consapevoli, alla nostra esperienza, alle nostre teorie. Le inferenze su cui si basa la visione non sono inferenze consapevoli, bensì inferenze inconsapevoli le quali hanno il sopravvento su quelle consapevoli. Così un’inferenza inconsapevole, basata sulla regola di inferenza in base alla quale la grandezza percepita è una funzione congiunta dell’angolo visivo e della distanza apparente, fa sì che, poiché la distanza apparente della luna all’orizzonte è molto più piccola della distanza apparente della luna alta nel cielo, noi vediamo la luna piena all’orizzonte molto più grande di quando è alta nel cielo. Questo implica che, nell’affermazione che la conoscenza è soluzione di problemi, la conoscenza deve essere intesa nel senso più ampio possibile. In particolare, non deve essere ristretta alla conoscenza proposizionale, cioè alla conoscenza codificabile mediante proposizioni, perché gran parte delle inferenze su cui si basa la visione non hanno un correlato linguistico. Né deve essere ristretta alla conoscenza consapevole, cioè alla conoscenza ottenuta attraverso processi accessibili alla nostra introspezione, perché gran parte della noHanson 1965, p. 23. Ibid. 9 Ivi, p. 18. 7 8
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stra conoscenza visiva non è conoscenza consapevole, dal momento che si ottiene attraverso processi che si svolgono troppo velocemente e a un livello troppo basso nella mente per essere accessibili alla nostra introspezione. 4. La visione e i limiti dell’occhio Concependo la visione come soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si può dare una risposta ai problemi sollevati dai limiti dell’occhio. Così, infatti, si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva ricca e stabile, nonostante gli stimoli sulla retina siano poveri e instabili. Questo accade perché quello che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione di ipotesi che vanno oltre gli stimoli sulla retina. Per esempio, quando vediamo un oggetto muoversi velocemente, l’occhio si muove con l’oggetto, perciò l’immagine dell’oggetto, che noi percepiamo muoversi velocemente, in realtà è abbastanza stabile sulla retina, mentre l’immagine dello sfondo rispetto a cui l’oggetto si muove, che noi invece percepiamo fermo, in realtà si muove velocemente sulla retina. Dunque ciò che vediamo si basa su un’ipotesi che ci fa distinguere la stabilità dell’immagine dell’oggetto sulla retina dal movimento dell’oggetto nel mondo. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se non fossimo in grado di fare tale distinzione. Inoltre, si spiega perché gli oggetti ci appaiono eretti, nonostante l’immagine sulla retina sia capovolta. Questo accade perché ciò che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione di ipotesi che vanno al di là degli stimoli sulla retina. Per esempio, se un soggetto si mette occhiali che capovolgono l’immagine sulla retina, egli non percepisce semplicemente gli oggetti della sua esperienza visiva come capovolti. Al contrario, all’inizio la sua esperienza visiva ne risulta sconvolta, ogni cosa gli appare terribilmente distorta, solo dopo alcuni giorni è in grado di muoversi senza grosse difficoltà, e dopo qualche settimana ha la sensazione che la sua esperienza visiva sia tornata normale. Questo accade perché il capovolgimento dell’immagine distrugge le ipotesi in base alle quali il soggetto era abituato a collegare gli stimoli sulla retina agli ogget249
ti della sua esperienza visiva, perciò egli è costretto a formulare nuove ipotesi e, finché non ha imparato a farlo, la sua esperienza visiva ne risulta sconvolta. Per la stessa ragione, se il soggetto, quando dopo qualche settimana ha la sensazione che la sua esperienza visiva sia tornata normale, si toglie gli occhiali, la sua esperienza visiva ne risulta nuovamente sconvolta, e tornare alla normalità richiede un nuovo periodo di aggiustamento. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se non sapessimo percepire adeguatamente l’orientamento degli oggetti. Parimenti si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva unica, nonostante che le immagini di uno stesso oggetto sulle retine dei nostri due occhi siano un po’ differenti tra loro. Questo accade perché ciò che vediamo non sono le immagini sulle due retine bensì il risultato della formulazione dell’ipotesi che gli stimoli sulle due retine siano prodotti dallo stesso oggetto. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se vedessimo uno stesso oggetto come due oggetti differenti. E ancora, si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva tridimensionale, nonostante le immagini sulla retina siano bidimensionali. Di nuovo, questo accade perché ciò che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione dell’ipotesi che l’oggetto davanti a noi è tridimensionale. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se vedessimo tutti gli oggetti come bidimensionali. 5. Origini della visione come soluzione di problemi L’affermazione che la visione si basa su inferenze inconsapevoli ha avuto vari sostenitori, da Tolomeo e Alhazen a Descartes, von Helmholtz e Peirce. Per esempio, Descartes afferma che «la grandezza, la distanza e la figura possono essere percepite le une dalle altre solo mediante l’inferenza»10. L’inferenza mediante la quale noi le percepiamo è per 10
Descartes 1996, VII, p. 438.
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lo più un’inferenza inconsapevole perché, quando percepiamo le cose, noi «ragioniamo e giudichiamo così velocemente di quelle cose» che «non distinguiamo queste operazioni dalla semplice percezione dei sensi»11. 6. Visione e concezione fondazionalista L’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si contrappone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza percettiva è conoscenza diretta, non inferenziale, perché è conoscenza di dati di senso. È conoscenza consapevole, perché i dati di senso sono qualcosa di cui siamo immediatamente consapevoli. Ed è conoscenza indubitabile, perché i dati di senso costituiscono una solida base per la nostra conoscenza del mondo esterno. Per esempio, Russell afferma che i dati di senso sono cose «di cui abbiamo conoscenza diretta»12. Dove per ‘conoscenza diretta’ si intende la conoscenza «di ciò di cui siamo immediatamente consapevoli, senza l’intermediario di alcun processo di inferenza o di alcuna conoscenza di verità»13. Per ‘dati di senso’ si intendono «le cose che sono conosciute immediatamente nella sensazione: cose come i colori, i suoni, gli odori, le durezze, le ruvidezze, e così via»14. E per ‘sensazione’ si intende «l’esperienza di essere immediatamente consapevoli di queste cose. Così, quando vediamo un colore, abbiamo la sensazione del colore, ma il colore stesso è un dato di senso, non una sensazione. Il colore è ciò di cui siamo immediatamente consapevoli, e la consapevolezza stessa è la sensazione»15. Poiché ne abbiamo conoscenza diretta, «noi siamo certi dei nostri dati di senso», i quali costituiscono «una solida base da cui cominciare la nostra ricerca della conoscenza»16.
Ibid. Russell 1997a, p. 48. 13 Ivi, p. 46. 14 Ivi, p. 12. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 19. 11 12
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ti della sua esperienza visiva, perciò egli è costretto a formulare nuove ipotesi e, finché non ha imparato a farlo, la sua esperienza visiva ne risulta sconvolta. Per la stessa ragione, se il soggetto, quando dopo qualche settimana ha la sensazione che la sua esperienza visiva sia tornata normale, si toglie gli occhiali, la sua esperienza visiva ne risulta nuovamente sconvolta, e tornare alla normalità richiede un nuovo periodo di aggiustamento. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se non sapessimo percepire adeguatamente l’orientamento degli oggetti. Parimenti si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva unica, nonostante che le immagini di uno stesso oggetto sulle retine dei nostri due occhi siano un po’ differenti tra loro. Questo accade perché ciò che vediamo non sono le immagini sulle due retine bensì il risultato della formulazione dell’ipotesi che gli stimoli sulle due retine siano prodotti dallo stesso oggetto. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se vedessimo uno stesso oggetto come due oggetti differenti. E ancora, si spiega perché abbiamo un’esperienza visiva tridimensionale, nonostante le immagini sulla retina siano bidimensionali. Di nuovo, questo accade perché ciò che vediamo non è l’immagine sulla retina bensì il risultato della formulazione dell’ipotesi che l’oggetto davanti a noi è tridimensionale. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se vedessimo tutti gli oggetti come bidimensionali. 5. Origini della visione come soluzione di problemi L’affermazione che la visione si basa su inferenze inconsapevoli ha avuto vari sostenitori, da Tolomeo e Alhazen a Descartes, von Helmholtz e Peirce. Per esempio, Descartes afferma che «la grandezza, la distanza e la figura possono essere percepite le une dalle altre solo mediante l’inferenza»10. L’inferenza mediante la quale noi le percepiamo è per 10
Descartes 1996, VII, p. 438.
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lo più un’inferenza inconsapevole perché, quando percepiamo le cose, noi «ragioniamo e giudichiamo così velocemente di quelle cose» che «non distinguiamo queste operazioni dalla semplice percezione dei sensi»11. 6. Visione e concezione fondazionalista L’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico, si contrappone a quella della concezione fondazionalista che la conoscenza percettiva è conoscenza diretta, non inferenziale, perché è conoscenza di dati di senso. È conoscenza consapevole, perché i dati di senso sono qualcosa di cui siamo immediatamente consapevoli. Ed è conoscenza indubitabile, perché i dati di senso costituiscono una solida base per la nostra conoscenza del mondo esterno. Per esempio, Russell afferma che i dati di senso sono cose «di cui abbiamo conoscenza diretta»12. Dove per ‘conoscenza diretta’ si intende la conoscenza «di ciò di cui siamo immediatamente consapevoli, senza l’intermediario di alcun processo di inferenza o di alcuna conoscenza di verità»13. Per ‘dati di senso’ si intendono «le cose che sono conosciute immediatamente nella sensazione: cose come i colori, i suoni, gli odori, le durezze, le ruvidezze, e così via»14. E per ‘sensazione’ si intende «l’esperienza di essere immediatamente consapevoli di queste cose. Così, quando vediamo un colore, abbiamo la sensazione del colore, ma il colore stesso è un dato di senso, non una sensazione. Il colore è ciò di cui siamo immediatamente consapevoli, e la consapevolezza stessa è la sensazione»15. Poiché ne abbiamo conoscenza diretta, «noi siamo certi dei nostri dati di senso», i quali costituiscono «una solida base da cui cominciare la nostra ricerca della conoscenza»16.
Ibid. Russell 1997a, p. 48. 13 Ivi, p. 46. 14 Ivi, p. 12. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 19. 11 12
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7. Argomenti per la visione come soluzione di problemi A favore dell’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si possono dare vari argomenti: la costanza della dimensione, la costanza della forma, la costanza del colore, i contorni illusori, i non vedenti che recuperano la vista, e il tatto come surrogato della visione. 7.1. La costanza della dimensione Sebbene oggetti della stessa dimensione ma a distanze differenti diano luogo a immagini sulla retina di dimensioni differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono della stessa dimensione. Per esempio, l’uomo sul fondo ci appare di dimensioni normali ma, se lo spostiamo in avanti fino ad affiancare quello in primo piano, non ci sembra più tale.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che l’uomo sul fondo sia di dimensioni normali, come l’uomo in primo piano, in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente le dimensioni di un oggetto rimangono costanti quando l’oggetto si avvicina o si allontana da noi. In base a ciò noi inferiamo che l’uomo sul fondo è di dimensioni normali anche se ci appare più piccolo. Per la stessa ragione noi formuliamo l’ipotesi che l’uomo che affianca quello in primo piano non sia di dimensioni normali, in quanto inferiamo che, essendo in primo piano, deve essere più piccolo e perciò ci appare più piccolo. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se le dimensioni di un oggetto cambiassero quando l’oggetto si avvicina o si allontana da noi. Ciò appare chiaro dal fatto che la costanza della dimensione vale solo in si252
tuazioni familiari. Per esempio, le case, le automobili, le persone viste da un aereo, cioè in una situazione che non rientra nella nostra esperienza evolutiva, non ci appaiono di dimensioni normali. 7.2. La costanza della forma Sebbene due oggetti della stessa forma ma orientati diversamente diano luogo a immagini sulla retina di forme differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono della stessa forma. Tale è il caso, ad esempio, di due piatti orientati diversamente.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che i due piatti abbiano la stessa forma in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente la forma di un oggetto rimane costante quando l’oggetto viene orientato diversamente. In virtù di ciò noi inferiamo che i due piatti hanno la stessa forma anche se essi ci appaiono di forme differenti. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se la forma di un oggetto cambiasse quando l’oggetto viene orientato diversamente. Ciò appare chiaro dal fatto che il fenomeno si presenta solo in situazioni familiari. Per esempio, un cerchio e un’ellisse ci appaiono di forme differenti. 7.3. La costanza del colore Sebbene due oggetti dello stesso colore, ma illuminati con luci di colori differenti, diano luogo alla formazione sulla retina di immagini di colori differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono dello stesso colore. Per esempio, due fogli di carta bianca, illuminati l’uno dalla luce azzurrina del mattino e l’altro dalla luce rossastra del tramonto, ci appaiono entrambi bianchi. Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che i due fogli di carta abbiano lo stesso colore in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente il colore di un oggetto rimane costante indipendentemente dalla sua illuminazione. In virtù di ciò noi inferiamo che i due fogli di carta hanno lo stesso colore, anche se ci appaiono di colori differenti. Questo è il ri253
7. Argomenti per la visione come soluzione di problemi A favore dell’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico si possono dare vari argomenti: la costanza della dimensione, la costanza della forma, la costanza del colore, i contorni illusori, i non vedenti che recuperano la vista, e il tatto come surrogato della visione. 7.1. La costanza della dimensione Sebbene oggetti della stessa dimensione ma a distanze differenti diano luogo a immagini sulla retina di dimensioni differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono della stessa dimensione. Per esempio, l’uomo sul fondo ci appare di dimensioni normali ma, se lo spostiamo in avanti fino ad affiancare quello in primo piano, non ci sembra più tale.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che l’uomo sul fondo sia di dimensioni normali, come l’uomo in primo piano, in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente le dimensioni di un oggetto rimangono costanti quando l’oggetto si avvicina o si allontana da noi. In base a ciò noi inferiamo che l’uomo sul fondo è di dimensioni normali anche se ci appare più piccolo. Per la stessa ragione noi formuliamo l’ipotesi che l’uomo che affianca quello in primo piano non sia di dimensioni normali, in quanto inferiamo che, essendo in primo piano, deve essere più piccolo e perciò ci appare più piccolo. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se le dimensioni di un oggetto cambiassero quando l’oggetto si avvicina o si allontana da noi. Ciò appare chiaro dal fatto che la costanza della dimensione vale solo in si252
tuazioni familiari. Per esempio, le case, le automobili, le persone viste da un aereo, cioè in una situazione che non rientra nella nostra esperienza evolutiva, non ci appaiono di dimensioni normali. 7.2. La costanza della forma Sebbene due oggetti della stessa forma ma orientati diversamente diano luogo a immagini sulla retina di forme differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono della stessa forma. Tale è il caso, ad esempio, di due piatti orientati diversamente.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che i due piatti abbiano la stessa forma in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente la forma di un oggetto rimane costante quando l’oggetto viene orientato diversamente. In virtù di ciò noi inferiamo che i due piatti hanno la stessa forma anche se essi ci appaiono di forme differenti. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se la forma di un oggetto cambiasse quando l’oggetto viene orientato diversamente. Ciò appare chiaro dal fatto che il fenomeno si presenta solo in situazioni familiari. Per esempio, un cerchio e un’ellisse ci appaiono di forme differenti. 7.3. La costanza del colore Sebbene due oggetti dello stesso colore, ma illuminati con luci di colori differenti, diano luogo alla formazione sulla retina di immagini di colori differenti, in situazioni familiari essi ci appaiono dello stesso colore. Per esempio, due fogli di carta bianca, illuminati l’uno dalla luce azzurrina del mattino e l’altro dalla luce rossastra del tramonto, ci appaiono entrambi bianchi. Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che i due fogli di carta abbiano lo stesso colore in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che normalmente il colore di un oggetto rimane costante indipendentemente dalla sua illuminazione. In virtù di ciò noi inferiamo che i due fogli di carta hanno lo stesso colore, anche se ci appaiono di colori differenti. Questo è il ri253
sultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se il colore di un oggetto cambiasse con l’illuminazione. Ciò appare chiaro dal fatto che il fenomeno si presenta solo in situazioni familiari. Per esempio, se illuminiamo due fogli di carta bianca con luci non naturali, per esempio, l’uno con una luce monocromatica azzurra e l’altro con una luce monocromatica rossa, essi ci appaiono, rispettivamente, di colore azzurro e rosso. Su questo si basa la cinematografia a colori, altrimenti, proiettando un film su uno schermo bianco, questo continuerebbe ad apparirci bianco. 7.4. I contorni illusori Se ci viene mostrata la seguente immagine e ci viene chiesto che cosa vi vediamo, rispondiamo che vi vediamo una tigre, non cinque sezioni anatomiche di tigre, anche se quest’ultima risposta sarebbe compatibile con l’immagine.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che si tratti di una tigre parzialmente nascosta da quattro oggetti verticali, per esempio, quattro alberi. Formuliamo tale ipotesi in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che la nostra esperienza visiva sarebbe normalmente questa se una tigre fosse parzialmente nascosta da quattro alberi. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se una situazione del genere non producesse normalmente in noi un’esperienza visiva di questo tipo. Infatti, se essa producesse normalmente in noi l’esperienza visiva di cinque sezioni anatomiche di tigre, non prenderemmo precauzioni e perciò avremmo scarse possibilità di sopravvivere a un incontro con una tigre. 7.5. I non vedenti che recuperano la vista I non vedenti i quali, grazie a un’operazione, recuperano la capacità di ricevere stimoli visivi 254
dopo un lungo periodo di cecità, non per questo recuperano la capacità di vedere. Essi la recuperano solo dopo un lungo esercizio. Questo dipende dal fatto che, per vedere, essi devono prima imparare a formulare ipotesi sugli oggetti della loro esperienza visiva, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. Finché non hanno imparato a farlo, essi non sanno interpretare adeguatamente gli stimoli. 7.6. Il tatto come surrogato della visione Riguardo all’uso di un bastone per tastare il terreno onde poter camminare, in mancanza di illuminazione, in luoghi che presentino asperità, Descartes dice che «è vero che questo tipo di sentire è un po’ confuso e oscuro in quelli che non ne hanno una lunga pratica; ma consideratelo in quelli che, essendo nati ciechi, se ne sono serviti per tutta la vita, e troverete che in essi è così perfetto e così esatto che si potrebbe quasi dire che essi vedono con le mani»17. Questo dipende dal fatto che, partendo dagli stimoli tattili ricevuti attraverso il bastone, i nati ciechi hanno imparato a formulare ipotesi sugli oggetti della loro esperienza tattile, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. Una versione più elaborata di questo argomento può essere data facendo riferimento ai sistemi di sostituzione tattile della visione, che consistono in una telecamera fissata sulla testa i cui segnali attivano una matrice di stimolatori messi a contatto con la pelle in qualche parte del corpo. I non vedenti dotati di tali sistemi, in una prima fase hanno solo sensazioni tattili, ma dopo un lungo esercizio cominciano ad avere sensazioni quasi visive, sia pure grossolane. Essi hanno l’impressione di avere un’esperienza diretta degli oggetti, come questi vengono catturati dalla telecamera. Imparano a effettuare giudizi visivi circa la forma, la grandezza, il numero e le relazioni spaziali tra le cose del tipo di quelli che si effettuano nella visione normale, e, mano a mano che acquistano esperienza, diventano capaci di effettuare compiti abbastanza complicati. Anche qui, questo dipende dal fatto che, partendo dagli stimoli tattili ricevuti da una matrice di stimolatori attivati dai segnali visivi della telecamera, essi hanno imparato a formulare ipotesi sugli og17
Descartes 1996, VI, p. 84.
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sultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se il colore di un oggetto cambiasse con l’illuminazione. Ciò appare chiaro dal fatto che il fenomeno si presenta solo in situazioni familiari. Per esempio, se illuminiamo due fogli di carta bianca con luci non naturali, per esempio, l’uno con una luce monocromatica azzurra e l’altro con una luce monocromatica rossa, essi ci appaiono, rispettivamente, di colore azzurro e rosso. Su questo si basa la cinematografia a colori, altrimenti, proiettando un film su uno schermo bianco, questo continuerebbe ad apparirci bianco. 7.4. I contorni illusori Se ci viene mostrata la seguente immagine e ci viene chiesto che cosa vi vediamo, rispondiamo che vi vediamo una tigre, non cinque sezioni anatomiche di tigre, anche se quest’ultima risposta sarebbe compatibile con l’immagine.
Questo dipende dal fatto che noi formuliamo l’ipotesi che si tratti di una tigre parzialmente nascosta da quattro oggetti verticali, per esempio, quattro alberi. Formuliamo tale ipotesi in base alla nostra esperienza ordinaria del mondo, la quale ci dice che la nostra esperienza visiva sarebbe normalmente questa se una tigre fosse parzialmente nascosta da quattro alberi. Questo è il risultato di un adattamento, perché noi non sapremmo assumere comportamenti appropriati rispetto all’ambiente se una situazione del genere non producesse normalmente in noi un’esperienza visiva di questo tipo. Infatti, se essa producesse normalmente in noi l’esperienza visiva di cinque sezioni anatomiche di tigre, non prenderemmo precauzioni e perciò avremmo scarse possibilità di sopravvivere a un incontro con una tigre. 7.5. I non vedenti che recuperano la vista I non vedenti i quali, grazie a un’operazione, recuperano la capacità di ricevere stimoli visivi 254
dopo un lungo periodo di cecità, non per questo recuperano la capacità di vedere. Essi la recuperano solo dopo un lungo esercizio. Questo dipende dal fatto che, per vedere, essi devono prima imparare a formulare ipotesi sugli oggetti della loro esperienza visiva, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. Finché non hanno imparato a farlo, essi non sanno interpretare adeguatamente gli stimoli. 7.6. Il tatto come surrogato della visione Riguardo all’uso di un bastone per tastare il terreno onde poter camminare, in mancanza di illuminazione, in luoghi che presentino asperità, Descartes dice che «è vero che questo tipo di sentire è un po’ confuso e oscuro in quelli che non ne hanno una lunga pratica; ma consideratelo in quelli che, essendo nati ciechi, se ne sono serviti per tutta la vita, e troverete che in essi è così perfetto e così esatto che si potrebbe quasi dire che essi vedono con le mani»17. Questo dipende dal fatto che, partendo dagli stimoli tattili ricevuti attraverso il bastone, i nati ciechi hanno imparato a formulare ipotesi sugli oggetti della loro esperienza tattile, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. Una versione più elaborata di questo argomento può essere data facendo riferimento ai sistemi di sostituzione tattile della visione, che consistono in una telecamera fissata sulla testa i cui segnali attivano una matrice di stimolatori messi a contatto con la pelle in qualche parte del corpo. I non vedenti dotati di tali sistemi, in una prima fase hanno solo sensazioni tattili, ma dopo un lungo esercizio cominciano ad avere sensazioni quasi visive, sia pure grossolane. Essi hanno l’impressione di avere un’esperienza diretta degli oggetti, come questi vengono catturati dalla telecamera. Imparano a effettuare giudizi visivi circa la forma, la grandezza, il numero e le relazioni spaziali tra le cose del tipo di quelli che si effettuano nella visione normale, e, mano a mano che acquistano esperienza, diventano capaci di effettuare compiti abbastanza complicati. Anche qui, questo dipende dal fatto che, partendo dagli stimoli tattili ricevuti da una matrice di stimolatori attivati dai segnali visivi della telecamera, essi hanno imparato a formulare ipotesi sugli og17
Descartes 1996, VI, p. 84.
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getti della loro esperienza, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. 8. Obiezioni contro la visione come soluzione di problemi Contro l’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico sono state mosse varie obiezioni: l’esistenza di invarianti, l’inferenza come metafora, l’inferenza come trasformazione di proposizioni, il controllo delle ipotesi visive, i vincoli del sistema visivo. 8.1. L’esistenza di invarianti È ingiustificato dire che gli stimoli sulla retina non bastano per la visione e che perciò questa deve andare necessariamente al di là di essi, perché nella visione l’informazione «consiste di invarianti che soggiacciono al cambiamento. Essa non consiste di stimoli, né di schemi di stimoli, né di successioni di stimoli. Un sistema percettivo non risponde a stimoli» ma «estrae invarianti»18. Per esempio, sebbene la grandezza di un oggetto diminuisca in modo proporzionale al quadrato della distanza, due oggetti della stessa grandezza, ma a distanze differenti dall’osservatore, gli appariranno della stessa grandezza perché il rapporto tra la grandezza del primo oggetto e la sua distanza dall’orizzonte è eguale al rapporto tra la grandezza del secondo oggetto e la sua distanza dall’orizzonte, cioè tale rapporto è invariante rispetto a tutte le distanze dall’osservatore. Ma questa obiezione non è valida perché che il rapporto tra la grandezza di un oggetto e la sua distanza dall’orizzonte sia invariante rispetto a tutte le distanze dall’osservatore è una regola di inferenza, e perciò non confuta, anzi conferma, l’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. 8.2. L’inferenza come metafora Parlare di inferenze nel caso della visione è solo una metafora, perché non si tratta di inferenze ma semplicemente di operazioni in cui intervengono certe strutture neuronali. Ma questa obiezione non è valida, dal momento che nello stesso modo si potrebbe dire che parlare di inferenze nel caso del nostro ra-
gionamento consapevole è solo una metafora, perché non si tratta di inferenze ma semplicemente di operazioni in cui intervengono certe strutture neuronali. Per esempio, Peirce afferma che «nell’organismo avviene qualcosa che è equivalente al processo sillogistico»19. 8.3. L’inferenza come trasformazione di proposizioni Parlare di inferenze nel caso della visione è improprio, perché le inferenze sono «trasformazioni di proposizioni secondo una regola, derivazioni di proposizioni da premesse in conformità a uno schema di derivazione», mentre «percepire qualcosa non comporta alcuna trasformazione di proposizioni né da parte del percipiente né da parte del suo cervello»20. Perciò non ci si deve lasciar fuorviare «dall’affermazione incoerente che le percezioni sono conclusioni di inferenze inconsapevoli. Si possono formare ipotesi su ciò che si vede, ma vedere non è formare un’ipotesi»21. Ma questa obiezione non è valida perché si basa sull’assunzione che le inferenze siano trasformazioni di proposizioni, per cui la percezione, non essendo una trasformazione di proposizioni, non è un’inferenza. Tale assunzione è ingiustificata, perché le inferenze che intervengono nella visione non sono trasformazioni di proposizioni ma trasformazioni di dati. 8.4. Il controllo delle ipotesi visive Anche ammesso che la visione si basi sulla formulazione di ipotesi, «un’ipotesi è qualcosa che deve rispondere a certe prove, a certi dati. A quali dati potrebbero rispondere le ipotesi percettive» se non «le percezioni stesse?»22. Ma questa obiezione non è valida, perché le ipotesi che intervengono nella visione rispondono a dati costituiti da altri stimoli sensoriali, o meglio, costituiti da ipotesi formulate a partire da altri stimoli sensoriali. Per esempio, noi osserviamo un bastone nell’acqua e ci sembra spezzato, perciò formuliamo l’ipotesi che esso sia spezzato, poi controlliamo tale ipotesi, per esempio, toccando il bastone, e così ci rendiamo conto che esso non è spezzato. In questo modo l’ipotesi che il bastone sia spezzato, che era stata formulata a partire daPeirce 1931-58, 5.268. Bennett-Hacker 2003, p. 137. 21 Ibid. 22 Anscombe 1974, p. 213. 19 20
18
Gibson 1976, p. 236.
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getti della loro esperienza, che permettono loro di collegare gli stimoli agli oggetti. 8. Obiezioni contro la visione come soluzione di problemi Contro l’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico sono state mosse varie obiezioni: l’esistenza di invarianti, l’inferenza come metafora, l’inferenza come trasformazione di proposizioni, il controllo delle ipotesi visive, i vincoli del sistema visivo. 8.1. L’esistenza di invarianti È ingiustificato dire che gli stimoli sulla retina non bastano per la visione e che perciò questa deve andare necessariamente al di là di essi, perché nella visione l’informazione «consiste di invarianti che soggiacciono al cambiamento. Essa non consiste di stimoli, né di schemi di stimoli, né di successioni di stimoli. Un sistema percettivo non risponde a stimoli» ma «estrae invarianti»18. Per esempio, sebbene la grandezza di un oggetto diminuisca in modo proporzionale al quadrato della distanza, due oggetti della stessa grandezza, ma a distanze differenti dall’osservatore, gli appariranno della stessa grandezza perché il rapporto tra la grandezza del primo oggetto e la sua distanza dall’orizzonte è eguale al rapporto tra la grandezza del secondo oggetto e la sua distanza dall’orizzonte, cioè tale rapporto è invariante rispetto a tutte le distanze dall’osservatore. Ma questa obiezione non è valida perché che il rapporto tra la grandezza di un oggetto e la sua distanza dall’orizzonte sia invariante rispetto a tutte le distanze dall’osservatore è una regola di inferenza, e perciò non confuta, anzi conferma, l’affermazione che la visione è soluzione di problemi basata sul metodo analitico. 8.2. L’inferenza come metafora Parlare di inferenze nel caso della visione è solo una metafora, perché non si tratta di inferenze ma semplicemente di operazioni in cui intervengono certe strutture neuronali. Ma questa obiezione non è valida, dal momento che nello stesso modo si potrebbe dire che parlare di inferenze nel caso del nostro ra-
gionamento consapevole è solo una metafora, perché non si tratta di inferenze ma semplicemente di operazioni in cui intervengono certe strutture neuronali. Per esempio, Peirce afferma che «nell’organismo avviene qualcosa che è equivalente al processo sillogistico»19. 8.3. L’inferenza come trasformazione di proposizioni Parlare di inferenze nel caso della visione è improprio, perché le inferenze sono «trasformazioni di proposizioni secondo una regola, derivazioni di proposizioni da premesse in conformità a uno schema di derivazione», mentre «percepire qualcosa non comporta alcuna trasformazione di proposizioni né da parte del percipiente né da parte del suo cervello»20. Perciò non ci si deve lasciar fuorviare «dall’affermazione incoerente che le percezioni sono conclusioni di inferenze inconsapevoli. Si possono formare ipotesi su ciò che si vede, ma vedere non è formare un’ipotesi»21. Ma questa obiezione non è valida perché si basa sull’assunzione che le inferenze siano trasformazioni di proposizioni, per cui la percezione, non essendo una trasformazione di proposizioni, non è un’inferenza. Tale assunzione è ingiustificata, perché le inferenze che intervengono nella visione non sono trasformazioni di proposizioni ma trasformazioni di dati. 8.4. Il controllo delle ipotesi visive Anche ammesso che la visione si basi sulla formulazione di ipotesi, «un’ipotesi è qualcosa che deve rispondere a certe prove, a certi dati. A quali dati potrebbero rispondere le ipotesi percettive» se non «le percezioni stesse?»22. Ma questa obiezione non è valida, perché le ipotesi che intervengono nella visione rispondono a dati costituiti da altri stimoli sensoriali, o meglio, costituiti da ipotesi formulate a partire da altri stimoli sensoriali. Per esempio, noi osserviamo un bastone nell’acqua e ci sembra spezzato, perciò formuliamo l’ipotesi che esso sia spezzato, poi controlliamo tale ipotesi, per esempio, toccando il bastone, e così ci rendiamo conto che esso non è spezzato. In questo modo l’ipotesi che il bastone sia spezzato, che era stata formulata a partire daPeirce 1931-58, 5.268. Bennett-Hacker 2003, p. 137. 21 Ibid. 22 Anscombe 1974, p. 213. 19 20
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Gibson 1976, p. 236.
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gli stimoli sulla retina, viene controllata mediante gli stimoli del tatto, o meglio, mediante un’altra ipotesi formulata a partire dagli stimoli del tatto. 8.5. I vincoli del sistema visivo Non vi è alcun bisogno di supporre che la visione si basi sulla formulazione di ipotesi, perché la visione si basa unicamente sul fatto che il nostro sistema visivo incorpora «(senza rappresentare esplicitamente e trarre inferenze da) certi vincoli molto generali sulle interpretazioni che ad esso è consentito dare»23. Tali vincoli «portano alla corretta interpretazione» degli stimoli dando così luogo alla visione «senza ‘inferenze inconsapevoli’»24. Essi si basano «su principi che derivano da leggi dell’ottica e della geometria proiettiva»25. Ma questa obiezione non è valida perché richiederebbe che il nostro sistema visivo incorporasse dall’inizio vincoli capaci di portare alla corretta interpretazione di tutti i nuovi tipi di esperienza visiva a cui andiamo continuamente incontro, anche quelli che non si sono mai presentati nella storia evolutiva della specie, e di questo non vi è alcuna prova. 9. Visione e movimento L’affermazione che la visione si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi sugli oggetti del mondo esterno, a partire dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive, va però integrata. Infatti, come si è detto, la visione richiede continui movimenti dell’occhio. Ma essa può richiedere anche movimenti della testa o dell’intero corpo. Per esempio, un cubo osservato di fronte ci sembra un quadrato, e per vedere che è un cubo dobbiamo muovere la testa o l’intero corpo. Da come cambia il modo in cui l’oggetto ci appare quando moviamo la testa o l’intero corpo, inferiamo che è un cubo. Dunque noi ci serviamo anche dei movimenti della testa o dell’intero corpo per scoprire che cosa sono gli oggetti del mondo esterno. Tali movimenti producono cambiamenti nel modo in cui ci Pylyshyn 2003, p. 96. Ibid. 25 Ivi, p. 120.
appaiono tali oggetti, e ci permettono di fare opportune inferenze sulle loro proprietà spaziali. Perciò l’affermazione di cui sopra va integrata dicendo che la visione si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi sugli oggetti del mondo esterno a partire sia dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, sia dai movimenti dell’occhio, della testa o dell’intero corpo, mediante inferenze non deduttive. 10. Vista e tatto L’interpretazione più immediata dell’esempio del cubo è che noi percepiamo le proprietà spaziali degli oggetti attraverso la vista. Secondo alcuni, invece, noi non le percepiamo attraverso la vista ma attraverso il tatto, che acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento. Per esempio, Berkeley afferma che, quando «diciamo che un oggetto si trova a una certa distanza», o «che esso si avvicina, o si allontana», parliamo di qualcosa «che propriamente appartiene al tatto, e che non viene veramente percepito dall’occhio»26. Lo stesso vale per le altre proprietà spaziali degli oggetti, come la grandezza e la forma. Il tatto acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento. Per esempio, quando uno «dice di vedere questa o quella cosa a una certa distanza», ciò che vede «semplicemente suggerisce al suo intelletto che, dopo aver percorso una certa distanza, da misurare attraverso il movimento del suo corpo, che è percettibile col tatto, egli arriverà a percepire questa o quella idea tangibile che di solito è stata connessa con questa o quella idea visibile»27. Ma queste affermazioni sono ingiustificate, perché la vista non ha bisogno del tatto per percepire la distanza, può percepirla direttamente attraverso il movimento. Come si è già osservato, nella visione gli oggetti non ci sono dati di colpo nella loro totalità ma per stadi successivi, grazie ai movimenti dell’occhio, della testa o dell’intero corpo. Producendo cambiamenti nel modo in cui ci appaiono gli oggetti, tali movimenti ci permettono di fare opportune inferenze sulle proprietà spaziali degli oggetti, che portano a ipotesi su di essi.
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Berkeley 1948-57, I, pp. 189-190. Ivi, I, p. 188.
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gli stimoli sulla retina, viene controllata mediante gli stimoli del tatto, o meglio, mediante un’altra ipotesi formulata a partire dagli stimoli del tatto. 8.5. I vincoli del sistema visivo Non vi è alcun bisogno di supporre che la visione si basi sulla formulazione di ipotesi, perché la visione si basa unicamente sul fatto che il nostro sistema visivo incorpora «(senza rappresentare esplicitamente e trarre inferenze da) certi vincoli molto generali sulle interpretazioni che ad esso è consentito dare»23. Tali vincoli «portano alla corretta interpretazione» degli stimoli dando così luogo alla visione «senza ‘inferenze inconsapevoli’»24. Essi si basano «su principi che derivano da leggi dell’ottica e della geometria proiettiva»25. Ma questa obiezione non è valida perché richiederebbe che il nostro sistema visivo incorporasse dall’inizio vincoli capaci di portare alla corretta interpretazione di tutti i nuovi tipi di esperienza visiva a cui andiamo continuamente incontro, anche quelli che non si sono mai presentati nella storia evolutiva della specie, e di questo non vi è alcuna prova. 9. Visione e movimento L’affermazione che la visione si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi sugli oggetti del mondo esterno, a partire dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, mediante inferenze non deduttive, va però integrata. Infatti, come si è detto, la visione richiede continui movimenti dell’occhio. Ma essa può richiedere anche movimenti della testa o dell’intero corpo. Per esempio, un cubo osservato di fronte ci sembra un quadrato, e per vedere che è un cubo dobbiamo muovere la testa o l’intero corpo. Da come cambia il modo in cui l’oggetto ci appare quando moviamo la testa o l’intero corpo, inferiamo che è un cubo. Dunque noi ci serviamo anche dei movimenti della testa o dell’intero corpo per scoprire che cosa sono gli oggetti del mondo esterno. Tali movimenti producono cambiamenti nel modo in cui ci Pylyshyn 2003, p. 96. Ibid. 25 Ivi, p. 120.
appaiono tali oggetti, e ci permettono di fare opportune inferenze sulle loro proprietà spaziali. Perciò l’affermazione di cui sopra va integrata dicendo che la visione si basa sul fatto che noi formuliamo ipotesi sugli oggetti del mondo esterno a partire sia dagli stimoli sulla retina ed eventualmente da altri dati, sia dai movimenti dell’occhio, della testa o dell’intero corpo, mediante inferenze non deduttive. 10. Vista e tatto L’interpretazione più immediata dell’esempio del cubo è che noi percepiamo le proprietà spaziali degli oggetti attraverso la vista. Secondo alcuni, invece, noi non le percepiamo attraverso la vista ma attraverso il tatto, che acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento. Per esempio, Berkeley afferma che, quando «diciamo che un oggetto si trova a una certa distanza», o «che esso si avvicina, o si allontana», parliamo di qualcosa «che propriamente appartiene al tatto, e che non viene veramente percepito dall’occhio»26. Lo stesso vale per le altre proprietà spaziali degli oggetti, come la grandezza e la forma. Il tatto acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento. Per esempio, quando uno «dice di vedere questa o quella cosa a una certa distanza», ciò che vede «semplicemente suggerisce al suo intelletto che, dopo aver percorso una certa distanza, da misurare attraverso il movimento del suo corpo, che è percettibile col tatto, egli arriverà a percepire questa o quella idea tangibile che di solito è stata connessa con questa o quella idea visibile»27. Ma queste affermazioni sono ingiustificate, perché la vista non ha bisogno del tatto per percepire la distanza, può percepirla direttamente attraverso il movimento. Come si è già osservato, nella visione gli oggetti non ci sono dati di colpo nella loro totalità ma per stadi successivi, grazie ai movimenti dell’occhio, della testa o dell’intero corpo. Producendo cambiamenti nel modo in cui ci appaiono gli oggetti, tali movimenti ci permettono di fare opportune inferenze sulle proprietà spaziali degli oggetti, che portano a ipotesi su di essi.
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Perciò la vista acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento senza passare attraverso il tatto. Inoltre, essa acquista un contenuto spaziale in modo differente dal tatto. Infatti, mentre noi percepiamo che un oggetto è un cubo mediante la vista in base al modo in cui esso cambia quando muoviamo l’occhio, la testa o il corpo, noi percepiamo che l’oggetto è un cubo mediante il tatto in base al modo in cui esso guida o contrasta i movimenti delle nostre mani su di esso, che suggerisce come sono strutturate le sue facce e i suoi vertici. Naturalmente, che la vista acquisti un contenuto spaziale attraverso il movimento senza passare attraverso il tatto, non significa che gli stimoli tattili non possano servire per formulare ipotesi sulle proprietà spaziali degli oggetti. Significa soltanto che gli stimoli sulla retina costituiscono la base primaria per formularle.
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Logica naturale e logica artificiale
1. Distinzione tra logica naturale e logica artificiale Si è detto che le ipotesi per la soluzione di problemi si formulano mediante inferenze, e specificamente mediante inferenze non deduttive. Ma a quale tipo di logica appartengono tali inferenze? Appartengono innanzitutto alla logica naturale, cioè a quella naturale capacità che gli organismi hanno di risolvere i problemi, a cominciare da quello della sopravvivenza, che è un prodotto dell’evoluzione biologica. La logica naturale non va confusa con la logica artificiale, cioè con la logica come disciplina, che è invece un prodotto dell’evoluzione culturale. La distinzione tra logica naturale e logica artificiale è connessa con quella tra matematica naturale e matematica artificiale. Infatti, la matematica naturale si basa sulla logica naturale, la matematica artificiale sulla logica artificiale. Mentre, però, la distinzione tra matematica naturale e matematica artificiale è relativamente recente perché è legata alla scoperta della presenza di capacità matematiche in molti organismi, la distinzione tra logica naturale e logica artificiale è più antica perché è stata formulata tra Cinquecento e Seicento da vari filosofi, il più noto dei quali è Ramo. Nel periodo in questione la distinzione tra logica naturale e logica artificiale non viene vista come una opposizione, anzi si ritiene che la logica artificiale debba essere modellata sulla logica naturale. Per esempio, Ramo afferma che la logica naturale, o dialettica naturale, è «propria dell’uomo e nasce con lui»1. Essa è «insita, e impressa, nelle singole menti degli uomini»2. Perciò è «la natura» che 1 2
Ramo 1964a, 6 r 14-15. Ramo 1964b, 4 v 43-44.
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Perciò la vista acquista un contenuto spaziale attraverso il movimento senza passare attraverso il tatto. Inoltre, essa acquista un contenuto spaziale in modo differente dal tatto. Infatti, mentre noi percepiamo che un oggetto è un cubo mediante la vista in base al modo in cui esso cambia quando muoviamo l’occhio, la testa o il corpo, noi percepiamo che l’oggetto è un cubo mediante il tatto in base al modo in cui esso guida o contrasta i movimenti delle nostre mani su di esso, che suggerisce come sono strutturate le sue facce e i suoi vertici. Naturalmente, che la vista acquisti un contenuto spaziale attraverso il movimento senza passare attraverso il tatto, non significa che gli stimoli tattili non possano servire per formulare ipotesi sulle proprietà spaziali degli oggetti. Significa soltanto che gli stimoli sulla retina costituiscono la base primaria per formularle.
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Logica naturale e logica artificiale
1. Distinzione tra logica naturale e logica artificiale Si è detto che le ipotesi per la soluzione di problemi si formulano mediante inferenze, e specificamente mediante inferenze non deduttive. Ma a quale tipo di logica appartengono tali inferenze? Appartengono innanzitutto alla logica naturale, cioè a quella naturale capacità che gli organismi hanno di risolvere i problemi, a cominciare da quello della sopravvivenza, che è un prodotto dell’evoluzione biologica. La logica naturale non va confusa con la logica artificiale, cioè con la logica come disciplina, che è invece un prodotto dell’evoluzione culturale. La distinzione tra logica naturale e logica artificiale è connessa con quella tra matematica naturale e matematica artificiale. Infatti, la matematica naturale si basa sulla logica naturale, la matematica artificiale sulla logica artificiale. Mentre, però, la distinzione tra matematica naturale e matematica artificiale è relativamente recente perché è legata alla scoperta della presenza di capacità matematiche in molti organismi, la distinzione tra logica naturale e logica artificiale è più antica perché è stata formulata tra Cinquecento e Seicento da vari filosofi, il più noto dei quali è Ramo. Nel periodo in questione la distinzione tra logica naturale e logica artificiale non viene vista come una opposizione, anzi si ritiene che la logica artificiale debba essere modellata sulla logica naturale. Per esempio, Ramo afferma che la logica naturale, o dialettica naturale, è «propria dell’uomo e nasce con lui»1. Essa è «insita, e impressa, nelle singole menti degli uomini»2. Perciò è «la natura» che 1 2
Ramo 1964a, 6 r 14-15. Ramo 1964b, 4 v 43-44.
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«istituisce il principio dell’inferire»3. Invece la logica artificiale è istituita dall’uomo, e tuttavia deve essere «costruita a somiglianza della dialettica naturale (di cui è l’osservazione)»4. In essa «si tratterà di fissare secondo regole e precetti ciò che il giudizio naturale avrà prestabilito»5. La logica artificiale «osserverà quelle regole insite nelle menti umane e innate»6. In questo modo essa avrà «leggi che sono corrette per natura»7. Distinguendo tra logica naturale e logica artificiale Ramo non poteva rendersi conto, perché Darwin non era ancora nato, di star distinguendo tra due tipi di evoluzione. Ma oggi possiamo dire che, alla base della sua distinzione, vi era quella tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, perché la logica naturale è un prodotto dell’evoluzione biologica mentre la logica artificiale è un prodotto dell’evoluzione culturale. Il modo in cui Ramo considera il rapporto tra la logica naturale e la logica artificiale permane fino alla prima metà del Settecento. Dopo di allora la richiesta che la logica artificiale debba essere modellata sulla logica naturale viene lasciata cadere. La distinzione tra logica naturale e logica artificiale diventa un’opposizione, perché prevale l’idea che la logica naturale non sia propriamente una logica, e che l’unica logica sia quella artificiale. Per esempio, Kant afferma che, sebbene si usi «dividere la logica in logica naturale» e «logica artificiale», tale «divisione è inammissibile»8. La logica naturale «dovrebbe costituire l’insieme delle regole dell’intelletto che usiamo senza averne coscienza. Ma poiché non conosciamo queste regole, essa non può essere una scienza»9. Solo la logica artificiale merita il nome di logica «quale scienza delle regole necessarie e universali del pensiero, che possono essere conosciute a priori, indipendentemente dall’uso naturale ‘in concreto’ dell’intelletto e della ragione»10. La logica naturale «non è propriaRamo 1964a, 5 v 41-43. Ramo 1964b, 4v 27-28. 5 Ramo 1964a, 19 v 41-42. 6 Ivi, 7 v 31-33. 7 Ivi, 8 r 11. 8 Kant 1900-, IX, p. 17. 9 Ivi, XXIV, p. 791. 10 Ivi, IX, p. 17.
mente una logica, ma una scienza antropologica che ha solo principi empirici»11. Ma, dicendo che l’unica logica è quella artificiale, si diminuisce l’interesse della logica perché la logica artificiale, quale intesa tradizionalmente, è una logica deduttiva e perciò non serve per l’acquisizione di nuove conoscenze. Questo trova riscontro nell’affermazione di Kant che la logica artificiale è solo una propedeutica alle scienze, «come propedeutica costituisce per così dire solo il vestibolo delle scienze e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica per giudicarle, ma la loro acquisizione deve venir cercata nelle scienze così dette propriamente e oggettivamente»12. Deve venir cercata in esse, perché la logica deduttiva non serve per l’acquisizione di nuove conoscenze. 2. Caratteri delle due logiche La logica naturale, essendo un risultato dell’evoluzione biologica, è una logica innata. Invece la logica artificiale, essendo un risultato dell’evoluzione culturale, è una logica acquisita. Che la logica naturale sia una logica innata è sostenuto con efficaci argomenti da Locke. Per esempio, egli osserva che, se la logica naturale non fosse una logica innata, ne seguirebbe che «prima di Aristotele non vi fu nessuno che conoscesse o potesse conoscere cosa alcuna mediante la ragione»13. E oggi solo gli esperti di logica artificiale avrebbero capacità logiche, tutti gli altri, cioè la stragrande maggioranza degli esseri umani, non le avrebbero. Ma gli esseri umani hanno «una mente che può ragionare senza essere istruita nei metodi del sillogizzare»14. L’intelletto «non viene istruito a ragionare mediante queste regole; esso ha una facoltà innata di percepire la coerenza o incoerenza delle sue idee, e può disporle in modo giusto»15. Di fatto molti esseri umani ragionano acutamente senza aver «mai sentito parlare di sillogismo»16. Lo stesso Aristotele «scoprì che certe
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Ibid. Ivi, III, p. 8. 13 Locke 1975, p. 671. 14 Ibid. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 670. 11 12
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«istituisce il principio dell’inferire»3. Invece la logica artificiale è istituita dall’uomo, e tuttavia deve essere «costruita a somiglianza della dialettica naturale (di cui è l’osservazione)»4. In essa «si tratterà di fissare secondo regole e precetti ciò che il giudizio naturale avrà prestabilito»5. La logica artificiale «osserverà quelle regole insite nelle menti umane e innate»6. In questo modo essa avrà «leggi che sono corrette per natura»7. Distinguendo tra logica naturale e logica artificiale Ramo non poteva rendersi conto, perché Darwin non era ancora nato, di star distinguendo tra due tipi di evoluzione. Ma oggi possiamo dire che, alla base della sua distinzione, vi era quella tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, perché la logica naturale è un prodotto dell’evoluzione biologica mentre la logica artificiale è un prodotto dell’evoluzione culturale. Il modo in cui Ramo considera il rapporto tra la logica naturale e la logica artificiale permane fino alla prima metà del Settecento. Dopo di allora la richiesta che la logica artificiale debba essere modellata sulla logica naturale viene lasciata cadere. La distinzione tra logica naturale e logica artificiale diventa un’opposizione, perché prevale l’idea che la logica naturale non sia propriamente una logica, e che l’unica logica sia quella artificiale. Per esempio, Kant afferma che, sebbene si usi «dividere la logica in logica naturale» e «logica artificiale», tale «divisione è inammissibile»8. La logica naturale «dovrebbe costituire l’insieme delle regole dell’intelletto che usiamo senza averne coscienza. Ma poiché non conosciamo queste regole, essa non può essere una scienza»9. Solo la logica artificiale merita il nome di logica «quale scienza delle regole necessarie e universali del pensiero, che possono essere conosciute a priori, indipendentemente dall’uso naturale ‘in concreto’ dell’intelletto e della ragione»10. La logica naturale «non è propriaRamo 1964a, 5 v 41-43. Ramo 1964b, 4v 27-28. 5 Ramo 1964a, 19 v 41-42. 6 Ivi, 7 v 31-33. 7 Ivi, 8 r 11. 8 Kant 1900-, IX, p. 17. 9 Ivi, XXIV, p. 791. 10 Ivi, IX, p. 17.
mente una logica, ma una scienza antropologica che ha solo principi empirici»11. Ma, dicendo che l’unica logica è quella artificiale, si diminuisce l’interesse della logica perché la logica artificiale, quale intesa tradizionalmente, è una logica deduttiva e perciò non serve per l’acquisizione di nuove conoscenze. Questo trova riscontro nell’affermazione di Kant che la logica artificiale è solo una propedeutica alle scienze, «come propedeutica costituisce per così dire solo il vestibolo delle scienze e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica per giudicarle, ma la loro acquisizione deve venir cercata nelle scienze così dette propriamente e oggettivamente»12. Deve venir cercata in esse, perché la logica deduttiva non serve per l’acquisizione di nuove conoscenze. 2. Caratteri delle due logiche La logica naturale, essendo un risultato dell’evoluzione biologica, è una logica innata. Invece la logica artificiale, essendo un risultato dell’evoluzione culturale, è una logica acquisita. Che la logica naturale sia una logica innata è sostenuto con efficaci argomenti da Locke. Per esempio, egli osserva che, se la logica naturale non fosse una logica innata, ne seguirebbe che «prima di Aristot