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Italian Pages X, 170 pagg. 25 figg. a colori. [183] Year 2012
pagine di scienza
Luciano Boi
Pensare l’impossibile Dialogo infinito tra arte e scienza
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LUCIANO BOI École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS), Centre d'Analyse et de Mathématique Sociales, Paris
Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi ISSN 2239-7477
e-ISSN 2239-7663 Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council
ISBN 978-88-470-1672-9 DOI 10.1007/978-88-470-1673-6
ISBN 978-88-470-1673-6 (eBook)
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INDICE
Introduzione
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1 Oggetti, trasformazioni, eventi e forme 13
2 La struttura nodale del cosmo: l’intuizione profonda di Eielson 27
3 Il vuoto quantico e l’energia dell’universo 33
4 Le nuove forme e forze dello spazio-tempo 41
5 Il vuoto e il silenzio: sul bordo del dicibile
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6 Dalla matematica dei nodi ai nodi della vita 57
7 Le dimensioni dello spazio nell’opera di Fontana 79
8 I buchi e la metamorfosi dello spazio 93 9 Il movimento plastico e il tempo non lineare dei nodi 109
10 Il mondo elastico delle corde e il tessuto cosmico della materia 117
11 Il dubbio e la creazione nell’arte e nella scienza
12 L’universo fantastico di un esploratore delle geometrie 143
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13 Storia e mitologia dei nodi 155
Bibliografia 161
Ringraziamenti
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Fonti delle illustrazioni 179
Introduzione
La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. Dante Alighieri 1
Una verosimile impossibilità è preferibile a una non verosimile possibilità. Aristotele 2
Proviamo, per un attimo, a immaginare quali opportunità si schiuderebbero se, un giorno, la matematica e l’arte (scienze della forma per eccellenza), le scienze della natura e dei suoi processi, l’indagine sul significato degli oggetti e degli eventi, la letteratura, il senso del bello e del giusto si fondessero in un’opera armoniosa, in cui le affinità e le connessioni ci apparissero in una nuova luce e da cui persino le differenze risultassero con maggior chiarezza. Cosa accadrebbe di nuovo se questa sintesi diventasse al contempo uno straordinario strumento di lavoro, una nuova geometria mentale e un’alchimia spirituale che permettessero di combinare, per esempio, proprietà matematiche con qualità artistiche, elementi della natura e della cultura umana con effetti di senso, per dedurne e creare nuovi concetti e metodi che servano da trampolino per altre operazioni dello spirito? La ricerca di forme originali e inedite di conoscenza, una nuova educazione culturale, un progetto utopico (irrealistico, se si vuole) per un pensiero che vada oltre le barriere disciplinari e metodologiche in cui si sono “congelati” i saperi e le forme linguistiche che li esprimono; queste aspirazioni ci appaiono come altrettante sfide 1 2
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, 1316-1321. Aristotele, Dell’Arte Poetica [1460a], a cura di C. Gallavotti, Mondadori, Milano, 1974.
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mobili rivolte alla nostra intelligenza e sensibilità, che non possiamo oggi non raccogliere e far fruttificare. I nodi e i buchi sono gesti “primitivi” (proto-topologici) e semplici, ma gravidi di significato, sono operazioni solo in apparenza povere ma, in realtà, segni di strategie complesse, trasformazioni profonde che non lasciano mai immutato lo spazio o la materia su cui agiscono. Nella loro autentica alterità e segreta complessità, i nodi e i buchi esprimono una grande energia e una forte singolarità, che mettono in movimento le cose e allo stesso tempo le riorganizzano, le riconfigurano, le convertono in altre cose con nuove qualità. Ciò contribuisce a far comparire una fenomenologia e un’ontologia più ricche degli oggetti e degli eventi, e a dare forma a un nuovo tessuto di relazioni e significati. Inoltre, nodi e buchi condividono le proprietà dell’ubiquità e di una certa universalità, che si traducono in particolare nel fatto che si ritrovano a tutte le scale e si presentano in una moltitudine di forme. Questo lavoro è un tentativo di mettere a confronto la matematica e l’arte, non in modo generico o generale, ma attraverso un’indagine sempre più ravvicinata che penetri fino al dettaglio, senza però mai perdere di vista la loro organizzazione e dinamica globale, grazie a una disamina approfondita di tre oggetti-concetti: nodi, buchi e spazi. Nodi e buchi si intrecciano e si compenetrano su più piani e ridefiniscono le configurazioni e le dinamiche dello spazio a più livelli; l’intento di questo saggio è capire le modalità trasformatrici e gli effetti di senso che questo intreccio e questa compenetrazione sono capaci di generare. Oggetti fisici (dotati di forza e di attributi a essa connessi) e concetti astratti (capaci di una potenza che trascende la pura fisicità del supporto materiale) allo stesso tempo, i nodi e i buchi sono strumenti di creazione e generatori di forme. Nei diversi capitoli che compongono questo libro, concepiti come variazioni di una stessa sinfonia, cerchiamo di mostrare come questi oggetti-concetti creano nuovi spazi all’interno e sulla superficie di uno stesso supporto spaziale; originano nuove forme a partire da trasformazioni che agiscono in un campo di possibili variazioni, da conflitti tra forze e gesti che possono ricomporsi in modi inattesi, da connessioni invisibili che producono eventi e si scambiano effetti di significato. I nodi e i buchi liberano l’intuizione spaziale e l’immaginazione delle forme dagli schemi rigidi del formalismo, dalle angustie dei linguaggi codificati, siano essi relativi alla mera figurazione
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simbolica o allo scientismo positivista, e così facendo sprigionano nuove forze e qualità inerenti all’interiorità nascosta della spazialità come forma di vita, come luogo di incontro tra materia e spirito, tra naturalità degli esseri viventi e umanità delle cose. I nodi e i buchi sono l’espressione in continuo movimento di nuovi territori intrisi di senso, di mondi che solo apparentemente possono sembrarci estranei, ma che, in realtà, sono spesso intimamente connessi e magari legati a uno stesso flusso di eventi, a una stessa moltitudine di forme. In alcuni dei capitoli che compongono questo saggio, cerchiamo di dare un significato matematico e artistico preciso a quanto appena detto in stile essenzialmente metaforico. Possiamo dire che Lucio Fontana e Jorge Eielson erano abitati dall’infinito, dall’infinito della materia, dello spazio, del tempo, del vuoto. Le loro opere e le loro anime sono come una vasta vertigine intorno al vuoto, un oceano senza confini intorno a un nodo o a un buco nel nulla. Entrambi, in modi diversi, proiettavano questo infinito fuori di sé, ed ecco i pensieri sgorgare dal vuoto, attraversare al contempo con forza e leggerezza gli spazi, scintillando e balenando, passando da una forma all’intuizione di una nuova forma attraverso ciò che muove segretamente la trasmutazione dell’una nell’altra. Fontana ed Eielson si nutrono del dubbio, sposano le incertezze e coltivano le contraddizioni, non per piacere, ma per rompere la razionalità già fatta e accettata, per scavare sotto l’apparenza e resistere alle convenzioni acritiche. Sono innamorati degli oggetti dimenticati dagli altri, amano i sassi, le sedie, gli alberi, i fiori e i cerbiatti, sono mistici e scettici, eretici e buddisti, ilari e saggi. Ciò che colpisce ed entusiasma in loro è l’incessante mobilità del pensiero, la sensibilità profonda, illimitata e generosa nei confronti dei cambiamenti, delle trasformazioni, delle conversioni, delle transizioni, dei passaggi, delle variazioni e delle ricomposizioni segrete. L’opera di Jorge Eielson e quella di Lucio Fontana sono uniche per la forza immaginativa e lo straordinario germogliare di forme che consentono. Bisogna saper “vedere” e “rivedere” queste opere, nel silenzio che ci “parla” senza bisogno di parole, che “abita” gli interstizi del loro spazio interno, e che è scandito da un ritmo temporale che non è quello diacronico, ripetitivo, ma piuttosto quello grazie al quale nuove dimensioni spaziali e temporali si dischiudono, irraggiando un’altra luce sugli oggetti, le cose, gli esseri viventi. In questo modo, un tessuto di relazioni via
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Le forme tra astratto e concreto “Il matematico, il pittore e il poeta, sono creatori di forme”, scriveva Godfrey H. Hardy nel suo noto volume A Mathematician’s Apology (Cambridge University Press, Cambridge 1940; trad. it.: Apologia di un matematico, Garzanti, Milano, 2002). Le forme che essi creano sono tutte durature, anche se in diverso modo, e dotate di una certa robustezza. Le forme possono essere fatte di idee, principi o modelli che attraverso processi si mutano in oggetti, corpi e organismi con il favore dello spazio e il lavorio del tempo. Una forma si realizza come l’unione di sostanza astratta e di sostanza concreta, come risultato di accordo e conflitto tra forze fisiche e aggregazioni di materia in strutture ben definite. Quando queste diverse sostanze, forze e aggregazioni fanno parte di un tutt’uno, allora la forma emerge e tende a stabilizzarsi. Se invece questo tutt’uno non arriva a compimento, o viene a mancare a causa di privazione o alterazione, la forma non riesce più a preservarsi da possibile corruzione. Paul Valéry aveva intuito questa concrescenza della forma, che sorge dall’incontro di sostanze diverse e passa per processi differenti: “Le parti di qualsiasi formazione naturale o organismo vivente sono unite da un legame diverso dalla coesione e solidità della materia. [...] La vita passa e ripassa dalla molecola alla cellula, e da queste alle masse sensibili, a prescindere dai compartimenti delle nostre scienze, vale a dire dai nostri mezzi di azione.” (P. Valéry, L’homme et la coquille,1937). In un linguaggio marcato da un connubio scientifico-letterario, lo scrittore e medico siciliano Giuseppe Bonaviri sottolinea lo stesso fatto: “Gli alberi, da minimi semi in men di niente s’allargano in una accelerata riproduzione nell’informe aria, modellandola in un esilarante scoppio di fiori e gemme. [...] La corteccia cambia da pianta a pianta, nella stessa presentandosi or sotto una forma ora sotto un’altra, a seconda del montare e del decrescere delle tempeste solari. Bastava, per esempio, esaminare quella del fico per accorgersi come sia liscia e tumida in maggio, e come si invecchi e induri in inverno. [...] Ma l’importanza risiede nell’anello subcorticale che nel mezzo chiude canaletti e nervi attorno all’ignudo midollo. I quadrelli, che col passar degli anni si fissurano in una diversa disposizione di croste, alimentano larve di ragni involti in fiocchi, e in bella ordinanza sono percorsi da vermi e formiche in cerca di nutrimento e infinitesimi scoli di umori corruttibili. Sono a loro volta infiltrati da radichette di muschio e miceli che minimamente usufruiscono dei raggi stellari e di fecondabili pollini che di gran lena seguono le aeree correnti. [...] Tutto ciò era un modo per semplificarci quanto sotto
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quelle squame prodigiosamente si riproduce, essendo dopotutto la premonizione del connubio impaziente che ogni albero aspetta con elementi vibranti. Indirettamente, ce lo dimostrano le farfalle che per potenziare gli agri sapori della corteccia, bramosamente aperta verso il regno animale, vi vanno a morire dentro e vi si organizzano nel prosieguo dei giorni in grani fioriti e in foglie.” (G. Bonaviri, Notti sull’altura, Sellerio, Palermo, 2009).
via emerge e si condensa nel nodo o nel taglio che le attirano. Al contempo, il nodo e il taglio liberano ed esprimono in modi diversi una loro vita interiore fiorente di forze e di forme, di “vera” purezza. Percorrere con l’intuizione il nodo dall’interno è come immergersi in un mondo di trasformazioni, di differenze e di armonie, di forme sublimi e rigogliose di vita. In fondo si può dire che il nodo e il taglio sono forme che danno luogo a una rigenerazione continua della realtà, che infondono senso del vero e del bello nella nostra ricerca incessante per comprendere il mondo che ci circonda. Eielson e Fontana sono riusciti nell’intento di pensare l’impensabile, di rendere visibile l’invisibile, di immaginare l’infinito al di là delle immagini finite e apparenti. Il nodo esprime un percorso interiore dove ribellione e intuizione si incontrano e si fondono in un atto di creazione, ma esprime anche un percorso concreto che si svolge nello spazio e nel tempo e lungo il quale culture, saperi e persone si intrecciano e si annodano per costruire un dialogo infinito. È importante che la matematica e l’arte siano intese innanzi tutto come strumenti del pensiero, generatori di concetti e di forme: anzi, si tratta degli strumenti e dei generatori di gran lunga più raffinati di cui disponiamo per comprendere ciò che ci circonda. La matematica e l’arte sono, insomma, una forma di conoscenza e un modo di comprensione, i cui nuovi concetti sono generati attraverso un lento processo di distillazione nell’alambicco del pensiero. Un tratto distintivo sia della matematica sia dell’arte è che non si può isolarne una parte senza privare l’insieme della sua essenza. Sotto questo profilo, il mondo matematico e il mondo dell’arte sono come un’entità biologica che può sopravvivere solo preservandone l’integrità. Si può così affermare che la migliore metafora per rappresentarci l’insieme delle teorie matematiche e artistiche
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sia quella di organismo (e non quella molto più comune di struttura piramidale), nel quale non esisterebbe un centro ma piuttosto una rete, un reticolo dove le diverse parti importanti sarebbero in risonanza e interagirebbero tra loro. Una tale unità organica sarebbe possibile perché gli oggetti matematici e quelli artistici si realizzano in tanti sostrati diversi e si manifestano in diverse incarnazioni. C’è qualcosa di straordinario in questa reincarnazione (e metamorfosi) degli oggetti della matematica e dell’arte, nel dinamismo che consente loro di generarsi. Quella di vita organica è molto probabilmente l’immagine più profonda per rappresentarci la matematica e l’arte. Cosa distingue e cosa accomuna un artista e un matematico? Chiaramente li distingue il tipo di strumenti usati per creare dei concetti e il modo di procedere per dimostrare i risultati ottenuti. Forse li distingue anche la “materia prima” e il modo di lavorarla. Nell’artista la materia prima è l’esperienza umana nel mondo materiale (mondo degli oggetti, delle forme, dei colori). L’arte ha come ingrediente principale il conflitto tra la realtà interiore dell’individuo e la realtà esterna. Tuttavia questa materia non è esclusiva: altre fonti svolgono un ruolo importante nella creazione artistica. L’attività artistica richiede un gesto radicale di creazione, un atto di ribellione. Per creare, l’artista ha bisogno per l’appunto di rompere con il presunto carattere evidente e lineare del legame che esiste tra la realtà interiore e la realtà esterna, e lo fa essenzialmente trasformando il mondo materiale degli oggetti in un universo di eventi, di entità e di esseri immaginari, ma non per questo meno reali. Anche il più semplice degli oggetti può rivelare qualità estetiche e simboliche nascoste, diventare così un evento e acquisire un’esistenza propria. L’arte passa attraverso la creazione ex novo dell’interazione tra soggetto e mondo fisico. Il matematico compie un periplo in una diversa geografia, in un altro paesaggio, e lungo il percorso entra in conflitto con un’altra realtà, la realtà matematica, altrettanto resistente e inesauribile, anche se in un altro modo, della realtà materiale in cui viviamo. Se è vero che le idee matematiche sono prodotte dalla nostra mente nel momento in cui le pensiamo, è vero anche che esse esistono in un certo modo anche quando non le pensiamo; esse esistono in quanto “operano” in una moltitudine di fenomeni e di situazioni concrete. Per esempio: l’idea o lo schema di gruppo si ritrova nell’oggetto cristallo o nel quasicristallo; la serie di Fibonacci si ritrova in una grande varietà di fiori; la geometria frattale evidenzia la
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proprietà dell’autosomiglianza 3 in una moltitudine di oggetti naturali e di esseri viventi (coste, fiumi, nuvole, alberi, polmoni); certe singolarità topologiche locali della teoria delle catastrofi 4 rappresentano la forma di un’onda o di una piega; certi concetti topologici, come l’invariante di Eulero-Poincaré o la somma connessa di due superfici, aiutano a esprimere proprietà profonde dei nodi o dei buchi. In questo senso, si può affermare che esiste una certa “partecipazione” delle entità e delle strutture matematiche alla realtà empirica. Al contempo – e non vi è contraddizione con quanto appena detto – queste entità e strutture possono agire dinamicamente su un certo supporto materiale (o su più supporti materiali), dando luogo a trasformazioni (continue o discrete) capaci di generare delle forme. Da questo punto di vista, ciò che rende saliente e significante la materia è la grande varietà di forme diverse che possono scaturirne. Si deve inoltre osservare che l’introspezione e l’esperienza mentale – vale a dire l’intuizione, l’immaginazione, la visione interiore – hanno un ruolo importante sia nella matematica sia nell’arte. L’atto creativo proviene dalla capacità di “entrare nella pelle delle cose”, per potersi identificare tramite empatia con qualsiasi ente del mondo esterno. Ed è questa specie di identificazione che trasforma un fenomeno oggettivo in una sorta di esperienza concreta
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Per autosomiglianza si intende che un oggetto geometrico mantiene la stessa forma quando lo si guarda da vicino o da lontano. Qualsiasi oggetto detto frattale gode di tale proprietà. In altre parole, i frattali sono forme in cui il generale riproduce la parte e la parte riproduce il tutto. Le strutture frattali spesso si inverano negli oggetti e nei fenomeni rugosi. La frattalità e la rugosità sono infatti due proprietà della natura e del mondo vivente legate tra loro. Si tratta di proprietà molto importanti e significanti per capire le forme e il modo in cui esse si generano. La retta e il piano ideali sono esempi di autosomiglianza noti a tutti. La sfera invece non è autosomigliante: se la si guarda da vicino sembra piatta, mentre da lontano appare puntiforme, come tutti gli oggetti limitati da un bordo. Benché esistano dei frattali “eccezionali”, in realtà la frattalità è quasi una regola di natura, che a seconda dei casi può riguardare gli accidenti o l’essenza delle cose. 4 Nella teoria delle singolarità e delle catastrofi, sviluppata da René Thom, gli accidenti appartengono all’essenza delle cose e degli esseri, e spesso sono gli accidenti topologici locali che generano dinamicamente le morfologie in una grande varietà di fenomeni. Il matematico e filosofo francese ha sempre rivolto un’attenzione particolare a ciò che era inatteso, o che resisteva alla capacità esplicativa della teoria, insomma, agli accidenti delle cose e della conoscenza. Alcuni di questi accidenti sono privi di interesse, ma altri determinano una nuova visione e ci rivelano ciò che non siamo stati capaci di vedere prima. Ed è questo tipo di accidenti che ci mette sulle tracce di una situazione significativa, di un evento in corso di formazione (in cui processo, dinamica e storia si trovano a essere intimamente intrecciati).
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e mentale allo stesso tempo, ovvero in un’esperienza fenomenologicamente vissuta. Un matematico si serve di uno strumento concettuale per creare degli oggetti matematici essenzialmente nello stesso modo in cui un artista, per esempio un pittore, si serve di un pennello o di una stoffa per creare un’opera. L’intuizione trasformatrice dello spazio e una certa “visione” introspettiva degli oggetti, come eventi intrisi di movimento e di senso, costituiscono un territorio comune alla matematica e all’arte, in cui discretamente e intensamente si incontrano e scoprono alcune delle loro profonde affinità. Si può dire che nella matematica, a differenza di quanto avviene nelle scienze sperimentali, vi sia qualcosa di profondo che la accomuna alla libera creazione artistica. Entrambe sviluppano una certa singolarità sensibile, che risiede nella capacità di generare e organizzare delle forme. Il senso dei concetti artistici, così come quello dei concetti matematici, si fa e si disfa, si modifica e si riconfigura continuamente, in concomitanza con la generazione e l’organizzazione delle forme. A tale proposito, un tema comune all’arte e alla matematica è il concetto di dimensione 5. La storia di entrambe ce ne offre innumerevoli esempi: dalle proiezioni da un punto all’infinito, che hanno impegnato i grandi artisti rinascimentali (Paolo Uccello, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca) e i fondatori della geometria proiettiva (Gérard Desargues, Blaise Pascal), ai modelli di geometria non euclidea in dimensioni superiori, che hanno profondamente ispirato Poincaré e Duchamp; dalla “bottiglia di Klein” 6 – modello di spazio non orientabile, che si può realizzare soltanto in dimensioni superiori a tre e che ha tanto affascinato i topologi (primo tra tutti Klein stesso!) e diversi artisti – all’ipercubo 7, esempio di 5 Il concetto di dimensione è un’acquisizione recente, in gran parte dovuta ai matematici Henri Poincaré, Felix Hausdorff e Henri Lebesgue, i quali l’hanno introdotto all’inizio del secolo scorso e l’hanno definito, nella sua generalità, nell’ambito della topologia algebrica e della topologia generale (o insiemistica). 6 La bottiglia di Klein è un famoso esempio di varietà compatta senza bordo non orientabile, in cui non vi è soluzione di continuità tra l’interno e l’esterno della superficie. Per ottenerla, occorre congiungere due nastri di Möbius, facendo corrispondere i punti dei cerchi che costituiscono i loro bordi. 7 Per costruire un cubo si disegnano sei quadrati contigui su un foglio, si ritaglia la loro sagoma complessiva e si ripiega la figura piana facendo combaciare i bordi dei quadrati. In modo analogo, partendo dalla stessa figura piana, che dopo il ripiegamento dà luogo al cubo, e ponendo su ognuno dei quadrati un cubo, possiamo immaginare di ripiegare quest’oggetto ottenendo un ipercubo. Ovviamente
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rappresentazione di un oggetto a quattro dimensioni, che ha costituito un’importante fonte d’ispirazione per l’artista catalano Salvador Dalì 8, come pure per il matematico Thomas Banchoff. Il concetto di dimensione è essenziale per almeno due ragioni: primo, per capire l’organizzazione intrinseca dello spazio, non solo di quello tridimensionale in cui viviamo, ma degli spazi a più di tre dimensioni; secondo, per capire che cosa rende possibile sia l’immersione di uno spazio bidimensionale (cioè una superficie) in uno spazio a tre o più dimensioni, sia la proiezione di uno spazio a tre o più dimensioni (ossia n ≥ 3) su uno spazio a minor numero di dimensioni. Citiamo il ben noto esempio della geometria proiettiva, un ramo della geometria che studia le figure geometriche non secondo le loro relazioni euclidee (come distanze, angoli ecc.), ma considerandole come proiettate su piani. Una delle principali motivazioni della geometria proiettiva fu di natura pittorica: quando nel Rinascimento si iniziò a riscoprire la prospettiva, cioè la tecnica pittorica che consente di rappresentare un oggetto tridimensionale su un piano bidimensionale (la tela) senza “appiattirlo”, alcuni maestri (come Piero della Francesca) descrissero questa tecnica e diedero il via a una serie di ricerche, che nel Seicento portarono Gérard Desargues a gettare le fondamenta di un nuovo tipo di geometria, diversa da quella euclidea. In sostanza, dal punto di vista della geometria proiettiva, due figure sono considerate equivalenti se possono essere proiettate l’una sull’altra. Si può osservare a questo proposito che il problema della tridimensionalità dello spazio, rimesso in discussione da molti fisici contemporanei, non è così semplice come potrebbe sembrare. L’affermazione “lo spazio ha tre dimensioni”9, anche assumendo come modello per lo spazio uno degli oggetti contemplati dalla
l’operazione non è realizzabile in questo modo, a meno di non compenetrare la materia in se stessa. Possiamo però, distorcendo le distanze, disegnare in due dimensioni la proiezione tridimensionale dell’ipercubo. 8 Nella Crocifissione, dipinta da Salvador Dalì nel 1954, la croce è costituita da otto cubi (sottotitolo dell’opera è infatti Corpus Hypercubus). Se riuscissimo a piegare la struttura in una quarta dimensione e a unire i cubi lungo facce quadrate, potremmo ottenere l’ipercubo di un tesseratto costruito con 24 celle ottaedriche che non ha un analogo tridimensionale, esattamente come è possibile incollare una croce piatta formata da sei quadrati di cartone in modo da comporre una scatola cubica. 9 Il grande matematico francese Henri Poincaré si era cimentato con la questione nel famoso articolo “Pourquoi l’espace a trois dimensions”, pubblicato nel 1912 sulla Revue de métaphysique et de morale 20, pp. 483–504.
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topologia10, è tutt’altro che facile da spiegare. Eppure, la tridimensionalità sembra essere un dato ricorrente in tutti gli oggetti matematici che ammettono modelli spaziali, concreti. Per esempio, da millenni l’uomo conosce i nodi, li usa e li studia: i marinai ne conoscono molti tipi diversi 11, e quindi sanno bene che vi sono nodi equivalenti tra loro dal punto di vista “topologico”: alcuni nodi, pur essendo molto complicati, si sciolgono tirando le due estremità della corda che li realizza, altri no. Ancora oggi non esiste una classificazione completa dei nodi, e per distinguere nodi non equivalenti sono stati introdotti degli invarianti matematici estremamente complessi (negli anni Novanta il matematico Vaughan Jones ha definito dei polinomi che consentono una classificazione molto raffinata, anche se non definitiva, dei nodi). È possibile dimostrare che in uno spazio a più di tre dimensioni ogni nodo si può sciogliere 12. Questo è un teorema topologico molto interessante: ne esistono simili che sanciscono come certe proprietà geometriche acquistano un significato solo negli spazi a tre dimensioni13. Di grande interesse è inoltre la
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La topologia prevede la possibilità di realizzare figure costruite con materiale deformabile arbitriamente. In altre parole, si interessa delle proprietà delle figure geometriche capaci di persistere anche quando sono sottoposte a piegamenti e stiramenti. In topologia è fondamentale l’intuizione di una superficie concepita come un foglio di gomma flessibile ed estensibile a piacere e in grado di assumere per deformazione continua, senza lacerazioni e saldature, innumerevoli forme. Per esempio, un rettangolo può essere considerato topologicamente identico a una circonferenza, in quanto, sebbene le linee curve siano diventate rette, entrambe le figure mantengono proprietà comuni, e precisamente l’ordine dei punti. Analogamente, dal punto di vista topologico una sfera e un cubo hanno le stesse proprietà. Si può infatti immaginare di costruire una sfera in materiale plasmabile e di deformarla per ottenere un cubo. Tale deformazione è reversibile: ovvero un cubo può essere trasformato in una sfera. Basti pensare alla Balconata di Escher (1945): in questa litografia l’autore ha trasformato topologicamente il centro della figura dilatandolo in forma di bolla. È come se la composizione grafica venisse disegnata su una pellicola di gomma gonfiata al centro. Comprimendo o stirando non possiamo, invece, passare dalla forma sferica a quella di una ciambella col buco. 11 Per una dettagliata descrizione di numerosi tipi di nodi, vedi C.W. Ashley, The Ashley book of knots, Faber and Faber, Londra, 1972 (ristampa della prima edizione del 1944; trad. it.: Il libro dei nodi, Rizzoli, Milano, 1974). 12 Vedi L. Boi, “Introduction to the mathematical theory of knots”, in: J.-P. Françoise, G. Naber, T.S. Tsun (eds) Encyclopedia of Mathematical Physics, Elsevier, Oxford, 2006, pp. 399–406. 13 Vedi L. Boi, “The Aleph of space. On some extensions of geometrical and topological concepts in the twentieth-century mathematics: from surfaces and manifolds to knots and links”, in: G. Sica (ed), What is Geometry? Polimetrica, Milano, 2006, pp. 70–152.
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constatazione che la teoria dei nodi ha conseguenze notevolissime su alcune moderne teorie quantistiche: taluni modelli della fisica moderna, come quelli delle cosiddette stringhe, sono descritti in termini di geometria dei nodi e delle loro simmetrie14. Non è questa la sede per affrontare la questione delle diverse caratteristiche dello spazio tridimensionale e delle difficoltà che tuttora si incontrano nel darne una spiegazione soddisfacente. Limitiamoci ad accennare al fatto che la peculiarità della tridimensionalità dello spazio ha radici profonde nella nostra percezione e nella presa degli oggetti intorno a noi15, nella necessità fisiologica di muoverci e orientarci nell’ambiente circostante, nonché nel tipo di costituzione biologica che ci distingue da quasi tutte le altre specie animali. Per esempio, in un mondo bidimensionale (come quello concepito dall’insegnante e scrittore scozzese Edwin A. Abbott nel suo celebre romanzo Flatlandia16) sarebbe impossibile lo sviluppo di esseri viventi, almeno nel senso che noi attribuiamo alla parola. Proviamo a immaginare un animale in due dimensioni. Come farebbe a nutrirsi? La presenza di un tubo digerente implica la tridimensionalità: un tubo che attraversasse una figura bidimensionale, infatti, la renderebbe non connessa, come dicono i topologi, cioè composta di due parti separate. In generale, più dimensioni possiede un oggetto geometrico, più è facile spostarsi in esso, tant’è vero che i fisici chiamano le dimensioni “gradi di libertà”. Ma, come mostra l’esempio dei nodi, in un mondo con più di tre dimensioni, vi sarebbe forse troppa libertà di movimento: si potrebbero fare troppe cose, e i costituenti della materia avrebbero troppa libertà di movimento per realizzare effettivamente le strutture atomiche, molecolari e biologiche che compongono il nostro mondo e noi stessi. Ora si sa che lo sviluppo e la crescita di qualsiasi essere vivente multicellulare avvengono per combinazione di gradi di libertà e di vincoli.
14 Vedi L. Boi, “Ideas of geometrization, geometric invariants of low-dimensional manifolds, and topological quantum field theories”, International Journal of Geometric Methods in Modern Physics 6(5), 2009, pp. 1–57. 15 Vedi L. Boi, “Phénoménologie et méréologie de la perception spatiale, de Husserl aux théoriciens de la gestalt”, in: L. Boi, P. Kerszberg, F. Patras (eds), Rediscovering Phenomenology. Phenomenological essays on mathematical beings, physical reality, perception and consciousness, Springer, Dordrecht, 2007, pp. 24–47. 16 E.A. Abbott, Flatland: A Romance of Many Dimensions (1884), introduzione e note di T. Banchoff, Princeton University Press, Princeton, 1991 (trad. it.: Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano, 2004).
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È importante notare che le forme matematiche non hanno solamente un contenuto e un significato linguistico, né tantomeno si possono ridurre a un insieme chiuso e autoconsistente di assiomi logici (l’incompletezza non è solo un limite, ma è anche e soprattutto un fattore intrinseco di scoperta). Per ragioni per molti aspetti analoghe, possiamo dire che le forme artistiche non sono unicamente un sistema di segni, esse sono infatti anche un tessuto di cose e di eventi (un’ontologia stratificata e differenziata di un certo genere di oggetti e delle loro relazioni), il cui senso è in continuo movimento, e si riconfigura in modo plastico in funzione dei e in risposta ai diversi contesti oggettivi e soggettivi in cui si trova immerso. Per dirlo con una formula, l’arte e la matematica hanno un’autentica funzione ermeneutica: entrambe sono una forma di conoscenza di oggetti e di eventi; ambedue contribuiscono a svelare una parte della loro storia intrinseca, oggettivandosi in una cultura e in una pratica simbolica umane. Una tela, una scultura, una composizione musicale mobilitano in noi qualcosa che eravamo o che vorremmo essere; risvegliano la memoria, nutrono l’immaginazione, incitano ad avere un altro sguardo sulle cose, un’altra “visione” dell’organizzazione spaziale e del flusso temporale che dispiegano nuove dimensioni e altre qualità. Queste opere non sono perciò riducibili a un senso, che sarebbe fisso e dato una volta per tutte. In altre parole, il loro senso non si esaurisce in una formula, in un insieme di parole; il linguaggio verbale ne costituisce solo un’istanza, una fase; si forma e si esprime attraverso processi di significazione legati alla genesi e alle proprietà delle opere, alla loro percezione differenziata e alle diverse modalità di oggettivazione. Per riassumere, si può dunque dire che tanto la matematica quanto l’arte offrono una pluralità di punti di vista del reale, modi alternativi di “guardare” il mondo. Il linguaggio matematico e quello artistico ci rivelano qualcosa dell’“interiorità” del nostro spazio che è invisibile ai nostri occhi, e allo stesso tempo ci aprono un orizzonte possibile su spazi che vanno al di là del nostro mondo fisico tridimensionale. Terminiamo queste brevi considerazioni introduttive con un richiamo dantesco modificato: ritrovate ogni speranza, voi che entrate in questo mondo meraviglioso e segreto, il mondo dei nodi e dei buchi, sorgenti di conoscenza, principi di vita, fonti di desiderio, ragioni di eresia.
CAPITOLO 1 Oggetti, trasformazioni, eventi e forme In the same way each object in the world is not merely itself but involves every other object and in fact is everything else. Charles N.E. Eliot 1
Lucio Fontana (1899-1968) e Jorge Eduardo Eielson (1924-2006) sono da considerarsi tra i più grandi artisti contemporanei. I tagli e i buchi dell’artista italo-argentino e i nodi e le torsioni dell’artista peruviano2 esprimono un nuovo intreccio possibile tra scienza, arte e natura, e rivelano al contempo l’essenza libera della conoscenza e il carattere generoso degli oggetti. Il loro lavoro creativo li ha portati a esaltare il dialogo tra culture, filosofie e arti diverse e anche molto lontane nello spazio e nel tempo. Questo capitolo è dedicato a una prima disamina di alcuni aspetti scientifici, artistici e filosofici dell’opera dell’artista e scrittore Jorge Eielson. Nei successivi tre capitoli proporremo un’analisi più approfondita delle sue opere che vanno sotto il nome di Nodi, Quipus e Corde, concentrandoci soprattutto sul loro significato matematico, a partire da una ricostruzione delle intuizioni spaziali e delle nozioni topologiche sottostanti la loro concezione e realizzazione. Nel quinto e sesto capitolo cercheremo di mettere in evidenza l’analogia profonda che esiste tra le concezioni del cosmo e della materia di questo artista e le più recenti teorie cosmologiche e fisiche sulla struttura del mondo fisico a scala macroscopica e microscopica. Il settimo e l’ottavo capitolo sono interamente dedicati all’analisi delle idee e delle opere di Lucio Fontana, in particolare dei suoi Concetti spaziali, in chiave matematica, e più precisamente topologica. 1
Charles N.E. Eliot, Japanese Buddhism, E. Arnold, London, 1935. Eielson lasciò il Perù nel 1948 per recarsi a Parigi con una borsa di studio; dopo un breve soggiorno a Ginevra, dal 1951 visse sempre in Italia. 2
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Si dimostrerà l’esistenza di una relazione diretta tra i buchi e i tagli realizzati dall’artista e i concetti di “buco” e di “manico”, come sono stati sviluppati dalla moderna topologia algebrica. Sarà inoltre analizzato l’uso estremamente creativo che Fontana fa delle nozioni di dimensione e di trasformazione dello spazio. Infine, negli ultimi capitoli presenteremo le differenze e, soprattutto, le affinità tra il lavoro di Fontana e quello di Eielson; in particolare, attraverso il confronto tra i buchi e i nodi, mostrando che i due linguaggi possono, in molti casi, essere tradotti l’uno nell’altro con risultati talvolta molto interessanti. Il genere di equivalenza che esiste tra il linguaggio dei buchi e quello dei nodi – per i quali proponiamo una lettura in termini di semantica delle forme piuttosto che di sistemi formali – implica l’esistenza di determinate trasformazioni che, se applicate in modo appropriato ai buchi, permettono di generare un certo tipo di nodi. Analogamente, certi nodi possono essere trasformati in buchi rispettando una determinata sequenza di passaggi. Jorge Eielson ha creato un’opera straordinariamente ricca, frutto di un’attività poliedrica che ha abbracciato – oltre che la poesia, la letteratura e altri linguaggi artistici – l’archeologia e l’antropologia, nonché gli ambiti della filosofia e della scienza. L’artista era convinto che tutte queste forme di conoscenza, lungi dall’essere separate e impermeabili tra loro, fossero in realtà manifestazioni e modalità diverse attraverso le quali si esprime l’armonia essenziale e invisibile dell’universo e dello spirito3. Un’armonia, appunto, intimamente dinamica e in continuo movimento, soggetta a un cambiamento incessante e perlopiù imprevedibile. Inoltre, l’universo appariva a Eielson come un insieme di caos e ordine, di instabilità ed equilibrio, di accordo e rottura, elementi che vedeva non come giustapposti ma come complementari, non come contrari immobili, ma capaci di mutare e
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Bisogna forse risalire a Giordano Bruno per trovare l’idea (esposta nell’opera De Umbris Idearum, 1582) che l’universo è un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest’ordine sono le idee, principi eterni e immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell’universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che collega ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.
Oggetti, trasformazioni, eventi e forme
Fig. 1.1 Un’immagine matematica presagita nell’antico mito buddista della “rete” del dio Indra (da D. Mumford, C. Series, D. Wright, Indra’s Pearls. The vision of Felix Klein, Cambridge University Press, Cambridge, 2002)
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ricomporsi ininterrottamente. La visione dell’artista evoca, da un lato, l’antico mito buddista della “rete” del dio Indra che si estende all’infinito e i cui fili si compongono perciò di un numero altrettanto infinito di perle (Fig. 1.1). Dall’altro, questa rete ricorda l’immagine dell’esistenza di una generazione spontanea di mondi che si rispecchiano l’uno nell’altro all’infinito, come nelle stupende forme frattali o negli incantevoli Limite del cerchio dell’artista olandese Maurits C. Escher (Fig. 1.2).
Fig. 1.2 M.C. Escher, Limite del cerchio III,1959
Al di là delle tante miserie e sofferenze che questo mondo ci riserva, Eielson ne vedeva anche e soprattutto lo splendore, quello degli enti e degli esseri palpabili e materiali. Un mondo fatto di oggetti solo apparentemente inerti e senza valore, abitato da sedie, camicie, vestiti, sabbia, scale, ciottoli, bottiglie, tessuti, sfere e piramidi in cristallo e altri oggetti artigianali e quotidiani che per l’artista possedevano un’esistenza vera e propria e persino una certa umanità. Nella sua poesia e nella sua arte, così come nei mondi immaginari e fantastici da lui creati, questi oggetti si trasmutavano
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Escher e la geometria frattale Nella produzione di Escher gli anni che vanno dal 1956 al 1970 individuano quello che possiamo definire periodo dell’infinito. L’opera riprodotta nella Fig. 1.2 è una rappresentazione di uno spazio iperbolico, il cui modello è dovuto al matematico francese Henri Poincaré. Per avere un’idea dello spazio che Escher ha voluto rappresentare, immaginiamo di porci al centro del disegno e di voler camminare fino al suo bordo; mentre procediamo, ci contraiamo sempre più, proprio come accade ai pesci della figura. Per raggiungere il bordo, quindi, dovremmo percorrere una distanza che ci sembrerà infinita, ma essendo immersi in questo spazio non ci parrà subito ovvio che sia qualcosa di inusuale. Questa rappresentazione dell’infinito anticipa di qualche decennio la formulazione matematica del concetto di frattale a opera di Benoît Mandelbrot. Vi è tuttavia una differenza importante tra il metodo usato da Escher per costruire certe sue litografie, in particolare quelle con espansione circolare o spirale, e i frattali: nell’effetto concepito da Escher la reiterazione avviene in un punto dello spazio, mentre nei frattali avviene ovunque nello spazio. Nel suo fondamentale lavoro, Les objets fractals. Forme, hasard et dimension (Flammarion, Paris, 1975), Mandelbrot spiega che cos’è un frattale ed evidenzia l’inadeguatezza della geometria euclidea nella descrizione della natura con le seguenti parole: “Perché la geometria viene spesso descritta come fredda e arida? Una ragione è l’incapacità di descrivere la forma di una nuvola o di una montagna, di una linea costiera o di un albero. Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le linee costiere non sono cerchi, il sughero non è liscio e i fulmini non si muovono lungo linee rette.” Analogamente ai triangoli dei modelli iperbolici dei dischi di Poincaré e agli esseri immaginari dei cerchi limite di Escher, un frattale è un oggetto che mostra un’invarianza di scala – ovvero la stessa struttura a tutte le scale (dal tutto alle parti, dall’insieme al dettaglio, la forma frattale presenta una certa invarianza e ubiquità, anche in quegli oggetti e fenomeni che ci possono apparire informi) – e che possiede una dimensione non intera. La dimensione frattale è una generalizzazione della definizione di dimensione euclidea. Si può definire con la seguente formula generale: DF = limε→0 lnN(ε)/ln(1/ε). Per esempio, il cosiddetto tappeto di Sierpinski ha come dimensione frattale: DF = ln8/ln3 = 1,9. Il famoso triangolo di Sierpinski è un insieme topologicamente perfetto, ossia uno spazio topologico (discreto) la cui struttura può essere reiterata all’infinito su tutte le scale conservandosi invariante, cioè riproducendosi secondo un certo fattore (fattore di scala) che corrisponde alle variazioni della dimensione delle forme che appaiono nello spazio. I frattali sono un tipo di struttura spaziale diffusissima in natura e nel mondo vivente (dai fiocchi di neve ai fulmini, dalle foglie ai polmoni, passando per migliaia di altri oggetti e fenomeni). Esiste un rapporto profondo tra caos e frattali. Infatti, i sistemi dinamici caotici di tipo dissipativo presentano attrattori con dimensione frattale, i cosiddetti attrattori strani. L’importanza della teoria dei frattali deriva anche dall’avere messo in luce il fatto che molte idee (oggetti o fenomeni) semplici possono condurre a una bellezza complessa e a una varietà infinita di forme. I frattali consentono di cogliere la testura della realtà e di analizzare l’irregolarità strutturata del mondo naturale.
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Le tassellazioni di Escher e la geometria non euclidea All’origine di molte costruzioni matematiche e artistiche di Escher, in particolare delle tassellazioni del piano, vi è una geometria non euclidea, la geometria iperbolica, una concezione dello spazio e dell’universo che ha aperto possibilità estremamente interessanti alla creazione e all’immaginazione, cui Escher non ha mai cessato di ispirarsi per realizzare le sue opere (altrettanti mondi immaginari che rivelano le infinite possibilità offerte dalla geometria iperbolica per pensare la realtà e i suoi cambiamenti). Riassumendone i principali concetti, si può dire che la geometria iperbolica (inventata da Gauss, Bolyai e Lobatchewski verso il 1830) è una geometria piana nella quale: a) la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di 180°; b) per ogni punto esterno a una retta passano infinite rette parallele alla retta stessa; c) non esistono rettangoli. Il luogo di tale geometria (detto universo) è dato dai punti di un disco nel piano di raggio r (abbastanza grande rispetto all’osservatore) detto disco iperbolico o disco di Poincaré: D = {z ∈ C:|z| 1 nella geometria sferica).
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Drappi iperbolici Una delle più importanti caratteristiche degli spazi iperbolici è che ogni loro porzione è un piano iperbolico. Immaginiamo un drappo di tessuto con una curvatura negativa in grado di coprire perfettamente qualsiasi corpo o oggetto a forma di sella. In questo caso la regione all’interno di un cerchio di un determinato raggio ha un’area maggiore di quella che lo stesso cerchio racchiuderebbe sul piano; quindi, per creare il drappo il sarto potrebbe partire da un pezzo di tessuto piatto, tagliarlo ma, anziché ricucire assieme i bordi lungo la linea di taglio, inserire un ulteriore pezzo di tessuto. (Un procedimento simile, ma opposto, è utilizzato per realizzare un berretto o una “papalina”: si tagliano via delle fette di tessuto, riducendo quello che rimane fino a ottenere una forma a calotta; una stoffa dalla forma semisferica in grado di adattarsi perfettamente alla nostra calotta cranica dovrà avere, all’interno di un cerchio di un determinato raggio, un’area minore di quella che lo stesso cerchio racchiuderebbe se fosse tracciato su un drappo piatto; naturalmente, per coprire le cime di teste – o di sfere – di grandezze differenti occorre prevedere differenti curvature.) A seconda di come l’area aumenta rispetto al raggio, si hanno drappi di tessuto con curvatura differente. I drappi di tessuto con curvatura negativa producono numerose pieghe quando si cerca di appiattirli adagiandoli in un cassetto troppo piccolo. Un magnifico esempio di drappo di tessuto con curvatura negativa e “infinite” pieghe è l’opera di Leonardo Drappo per una figura seduta. Per concepire un’isometria, possiamo quindi immaginare di rivestire una parte di una superficie con un drappo di tessuto: la caratteristica saliente è che il tessuto deve essere sufficientemente flessibile, anche se non troppo elastico. Per inciso, se cercassimo di estendere in tutte le direzioni un tessuto elastico con curvatura positiva costante, esso si richiuderebbe formando una sfera. Se invece cercassimo di estendere in tutte le direzioni un tessuto con curvatura negativa costante, otterremmo una superficie chiamata “piano iperbolico”. Tale superficie diventerebbe sempre più ampia, fino a non poter più essere contenuta nello spazio tridimensionale euclideo. Si noti che esistono altri possibili modi per concepire questa superficie.
Fig. 6.11 Leonardo da Vinci, Drappo per una figura seduta, circa 1470-1480
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tutti i nodi appartengono a una delle tre seguenti categorie (o specie): iperbolici, toroidali o satellite. I nodi di tipo iperbolico sono di gran lunga i più diffusi. Inoltre, grazie a particolari manipolazioni effettuate su di essi (dette chirurgie) è possibile generare una grande varietà di spazi a tre dimensioni. L’iperbolicità del nodo significa che il complementare del nodo (vale a dire i punti dello spazio tridimensionale non situati sul nodo stesso) ammette una struttura geometrica, e più precisamente una struttura geometrica di tipo iperbolico. Questa geometria ci consente di visualizzare ciò che accade all’interno del complementare del nodo o del link (cioè dello spazio che rimane una volta che si toglie il nodo o il link), a condizione di immaginare che i raggi luminosi viaggino lungo le geodesiche di una superficie iperbolica (analogamente al modello spazio-tempo di Minkowski della relatività ristretta di Einstein, dove le traiettorie dei raggi luminosi – ovvero dei fotoni – corrispondono alle “rette” nel modello dell’iperboloide dello spazio iperbolico, dove esse sono le intersezioni dell’iperboloide con un piano passante per il suo centro). L’immagine del complementare dell’anello di Borromeo fornisce un esempio interessante. Gli anelli di Borromeo (Fig. 6.12a) sono un link dotato di una proprietà importante: i tre anelli sono legati tra loro, benché non lo siano a coppie; più precisamente, rimuovendo uno qualsiasi dei tre anelli, i due anelli rimanenti risultano sciolti, anche se i tre insieme non lo sono. Chi vivesse all’interno del complementare del link (Fig. 6.12b) vedrebbe un situazione diversa. Per cercare di capire, poniamoci la seguente domanda: che effetto avrebbe vivere in uno spazio cui si è tolto un link formato da anelli di Borromeo? Cominciamo con l’immaginare sei assi a forma di cono che possiedono una simmetria di ordine 2 piazzati lungo le facce di un cubo; quest’ultimo costituisce il “dominio fondamentale” di questa nuova esperienza spaziale. Proviamo a capire, mettendoci nei panni di osservatori che stanno all’interno, a che cosa somiglia questo spazio. Precisiamo innanzi tutto che i lati, anzi le pareti (poiché siamo in dimensione 3) del “dominio fondamentale” attaccate a un asse di simmetria devono coincidere due a due. Ricordiamo che esistono sei assi che distinguiamo attribuendo a ciascuno un colore diverso. Cominciamo con l’incollare le pareti che contengono gli assi rossi, che possiamo poi cancellare. Si noti che gli assi blu si ricongiungono per formare un’ellisse. Ora incolliamo le pareti che contengono gli assi verdi. Gli assi rossi si
72 Fig. 6.12 a Rappresentazione di un anello di Borromeo. b Vista della sezione cuspidale del complementare dell’anello di Borromeo, secondo la prospettiva di chi vivesse nei pressi della componente rossa del link. Si noti il parallelogramma fondamentale tracciato nel disegno
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Vivere dentro un nodo Lo studio dei nodi, anche dei più semplici, mostra che questi oggetti possono essere pensati in spazi che sfidano la nostra immaginazione. Per rendersene conto, conviene cominciare dalla definizione più elementare di un nodo come una cordicella che viene saldata alle estremità dopo essere stata annodata in modo più o meno complicato. Dal punto di vista intuitivo, due nodi sono equivalenti se i rispettivi modelli di corda si possono deformare l’uno nell’altro. Nella deformazione non sono ammesse autointersezioni; cioè due tratti di spago, incontrandosi, non devono attraversarsi “come fossero fantasmi”. Inoltre in tal caso, ovviamente, non è ammesso tagliare lo spago e poi riattaccarlo, altrimenti ogni nodo sarebbe banale: un nodo si dice banale se è equivalente alla circonferenza. Consideriamo ora tre nodi intrecciati. Ciò che accade è che se ne leviamo uno, gli altri due possono essere separati o sciolti. Quest’oggetto intrecciato si chiama “catena di nodi” (link in inglese, entrelac in francese), cioè l’unione di più curve chiuse eventualmente annodate. Se lo si deforma, si constata che le tre curve svolgono lo stesso ruolo. Il famoso anello di Borromeo costituisce una versione molto simmetrica del nostro oggetto, che può essere incurvato e ritorto in vari modi. (Un altro esempio molto noto e studiato e il “link di Hopf”). Quando si osserva un nodo, generalmente si ignora lo spazio che forma il suo intorno. Ma da un punto di vista matematico, tale spazio è altrettanto importante che il nodo stesso. Tanto più che spesso si arriva a capire meglio qualcosa studiandone il suo contrario (cioè quello che non è). Si chiama “complementare di un oggetto” l’insieme dei punti dello spazio che restano una volta tolto l’oggetto. Per cui, ciò che non è il nodo, è il suo complementare. È naturale ora chiedersi: che cosa resta quando togliamo un nodo dallo spazio a tre dimensioni? Che cosa resta quando non possiamo vedere il nodo e lo spazio è escluso dal nostro campo visivo (il che equivale a rimuovere un nodo dallo spazio tridimensionale)? A tali domande rispondiamo in queste pagine.
ricongiungono per formare a loro volta un’ellisse. Abbiamo così piegato lungo i quattro assi iniziali e ottenuto in questo modo un’ellissoide. Ci resta da piegare gli assi blu, che formano anch’essi un’ellisse. Se gonfiamo gli emisferi anteriore e posteriore dell’ellissoide, gli assi verdi si ricongiungono a loro volta per formare un’ellisse verde. Si constata che alla fine di questo processo abbiamo ottenuto gli anelli di Borromeo. Visto dall’esterno, il nostro “dominio fondamentale” è il complementare degli anelli di Borromeo (un link formato da tre curve chiuse annodate). Ma chiediamoci: che cosa vede un osservatore che sta all’interno del “dominio fondamentale”? Ricordiamoci che attorno a ogni asse conico l’osservatore vede due coppie dello
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stesso oggetto. Anche gli assi rossi producono un analogo effetto duplicante degli oggetti; infatti l’oggetto situato nel “dominio fondamentale” iniziale è duplicato in un cubo vicino dall’asse anteriore, e le due immagini sono duplicate dall’asse posteriore; in questo modo si ottiene un’infinità di coppie allineate di cubi. Gli assi verdi creano una seconda fila infinita di cubi, poi quattro file, e così via. Si ottiene uno strato orizzontale finito di cubi. Infine, gli assi blu duplicano questo strato, e in questo modo l’intero spazio è riempito di cubi. Questo è ciò che vede un osservatore che vive
Fig. 6.13 J.E. Eielson, Nodo XI, 1988. L’immagine può anche essere letta come un link (più complesso dell’anello di Borromeo) a tre componenti annodate fra loro
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nello spazio generato dai sei assi di simmetria di ordine 2 piazzati sulle facce di un cubo8. Proviamo ora a immaginare che cosa accade nel caso in cui gli assi degli anelli di Borromeo abbiano un ordine di simmetria più elevato. Supponiamo di voler introdurre degli assi di ordine 4, dobbiamo allora costruire un “dominio fondamentale” in cui valgono angoli di 90° lungo gli assi. Bisogna quindi modificare il cubo in modo che gli angoli lungo i sei assi siano di 90°. Nella geometria euclidea usuale ciò è impossibile, ma non lo è nella geometria iperbolica o di Lobachevskij. Nella prospettiva iperbolica gli angoli delle facce adiacenti in questo spazio dodecaedrico (inventato da Poincaré9) valgono 90°. Prima di proseguire la nostra esplorazione dello spazio dodecaedrico, cancelliamo le pareti di prima e modifichiamo la forma e il colore degli assi, rappresentati ora da travi. Continuiamo ad aggiungere coppie di dodecaedri attorno a ogni asse colorato.
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Il nodo a otto può essere rappresentato da un diagramma con quattro incroci. Il nodo a otto ha avuto un ruolo determinante nello studio delle varietà tridimensionali, grazie al lavoro di William Thurston il quale ha mostrato alla fine degli anni Settanta che il complementare del nodo a otto comporta una struttura di spazio iperbolico. Più precisamente, ha dimostrato: che il nodo a otto non è un nodo torico (un tipo di nodo contenuto nella superficie del toro); che sul complementare (nella sfera S3) è possibile assegnare una metrica che lo rende uno spazio iperbolico; che è achirale (vale a dire che l’immagine riflessa del nodo a otto è equivalente al nodo stesso). Grazie agli importanti lavori di Thurston, è stato possibile costruire un’infinità di varietà iperboliche tridimensionali. Molti nodi hanno il complementare iperbolico: il complementare del nodo a otto è, tra questi, quello con volume minore. Il complementare del nodo “esiste” nella sfera tridimensionale S3, ottenuta aggiungendo il “punto all’infinito” allo spazio tridimensionale R3. 9 Poincaré introdusse questo tipo di spazio come controesempio alla sua celebre congettura (enunciata nel 1899): “Ogni poliedro che abbia i suoi numeri di Betti uguali a 1 e tutte le sue matrici Tq bilaterali è omeomorfo all’ipersfera”. Infatti, come egli stesso scrive nel Second complément à l’analysis situs (1900) “di fatto, ho costruito un esempio di una varietà con tutti i numeri di Betti e tutti i coefficienti di torsione uguali a 1, ma che non è omeomorfa alla 3-sfera”. In altre parole, conoscere i numeri di Betti e i coefficienti di torsione non basta per conoscere la forma dello spazio (e la forma del nostro universo). L’esempio scoperto da Poincaré, presentato nel cinquième complément e da allora indicato come “spazio dodecaedrico di Poincaré”, è solitamente descritto come la 3-varietà ottenuta incollando insieme le facce opposte di un dodecaedro regolare dopo una rotazione di 36° (un decimo di angolo giro) in senso antiorario. Si tratta di uno spazio sferico, variante multiconnessa dell’ipersfera, il cui volume è però 120 volte più piccolo. Si noti che l’incollamento può essere realizzato solo se si utilizza un dodecaedro incurvato positivamente, in cui gli angoli sono leggermente “gonfiati” a 120°, invece dei 117° del dodecaedro euclideo.
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Facciamolo anzitutto per alcuni degli assi verdi, blu e rossi. Alla fine, i dodecaedri riempiranno l’intero spazio senza sovrapporsi. In questo modo si è ottenuta una tassellazione dello spazio iperbolico in dodecaedri regolari, esattamente nello stesso modo in cui si ottiene una tassellazione dello spazio ordinario in cubi. Ora spostiamoci nello spazio iperbolico per affinare la nostra intuizione. La prima cosa che noteremo è che nello spazio iperbolico le dimensioni apparenti variano al variare dei nostri spostamenti (quindi della nostra posizione). Si tratta di una differenza qualitativa importante tra il nostro spazio e quello iperbolico. Questo effetto è dovuto al fatto che lo spazio iperbolico è generato da assi di simmetria di ordine 4 lungo gli spigoli di un dodecaedro. Aggiustando gli angoli degli assi colorati, si può passare dalla simmetria di ordine 4 alle simmetrie di ordine 5, 6 ecc. Si constata che quando l’ordine della simmetria aumenta, gli assi colorati del dodecaedro divengono molto corti e sempre più lontani. È anche possibile che alcuni degli assi colorati scompaiano all’infinito e che diventino quindi invisibili. Si badi che questa percezione illusoria è l’effetto prodotto da una delle caratteristiche dello spazio iperbolico: si possono infatti costruire un’infinità di coppie di spazi iperbolici con dimensioni sempre più rimpicciolite e le cui distanze si allontanano all’infinito, come le radici di un albero che vediamo sempre più rimpicciolite man mano che si allungano all’infinito, o come un enorme mollusco i cui tentacoli appaiono sempre più piccoli man mano che si allontanano all’infinito. Il modello di poliedro che si ottiene con il procedimento appena descritto si chiama dodecaedro rombico (cioè un poliedro in cui tutte le facce sono rombi, uguali fra loro, e le figure al vertice sono triangoli equilateri o quadrati). In questo nuovo spazio i sei assi colorati sono divenuti sei vertici all’infinito. Per capire meglio come è fatto questo spazio, aggiungiamo delle pareti trasparenti a uno dei poliedri e facciamolo ruotare attorno al suo asse centrale. Quando un vertice all’infinito passa dietro il campo visivo, appaiono nuovi motivi interessanti: in particolare un intreccio straordinario (tanti anelli borromeiani intrecciati tra loro). Visto dall’interno del dodecaedro rombico, l’intreccio appare infinitamente lontano, al punto che la luce sembra non raggiungerlo. Si tratta dell’immagine definitiva del “complementare degli anelli di Borromeo”: in questo spazio i raggi luminosi sono incurvati in modo tale che non tagliano più l’intreccio.
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Fig. 6.14 J.E. Eielson, Aldebaran, 1992
Questa geometria sorprendente e meravigliosa si chiama “struttura iperbolica sul complementare dell’intreccio (del link)”. Secondo un importante teorema – enunciato indipendentemente da Mostow, Marsden e Prasad, tra il 1968 e il 1974 – chiamato anche teorema di rigidità, un complementare d’intreccio
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(link) ammette una struttura iperbolica unica. Un teorema di Thurston (del 1982) afferma che il complementare di ogni nodo o intreccio di nodi (link) ammette una struttura iperbolica. Quanto precede prova che un nodo o un intreccio di nodi è interamente determinato da uno spazio così caratterizzato, cioè dal suo (spazio) complementare avente una struttura iperbolica. Chissà quante sorprese e meraviglie nasconde ancora lo spazio iperbolico!
CAPITOLO 7 Le dimensioni dello spazio nell’opera di Fontana Kunst gibt nicht das Sichtbare wieder, sondern Kunst macht sichbar. Paul Klee1
Alla luce di alcune delle precedenti considerazioni, colpisce la chiara e forte affinità tra il lavoro di Lucio Fontana2 e quello di Eielson, che si sentiva molto vicino all’artista italo-argentino, anche dal punto di vista umano. Affermava, infatti, di sentire una profonda sintonia tra le sue tele annodate o le sue corde intrecciate e i “concetti spaziali”, le tele tagliate e incise, di Fontana. In effetti, sia le tele tagliate sia le tele annodate sono capaci di creare nuove dimensioni spaziali e di moltiplicare gli eventi che accadono nello spazio, come sottolinea lo stesso Fontana nel suo Manifesto spaziale. Nel 1963 scrive: “Ormai, nello spazio, non esiste più la misura assoluta. […] Il senso della misura, del tempo fondato sulla misura, non ha più ragion d’essere. […] Il mio stesso modo di fare arte poggia su [questa] purezza dello spirito liberato dalla materia, su questa filosofia del nulla; non si tratta tuttavia di un nulla di distruzione ma di creazione[…] 3 E il taglio, giustamente, precisamente il buco, i primi buchi, non costituivano la distruzione della tela […], ma una vera dimensione esistente al di là della tela, la libertà di concepire l’arte attraverso qualunque mezzo, attraverso 1
P. Klee, “Schöpferische Konfession”, Tribüne der Kunst und Zeit XIII, 1920, pp. 28–40. Fontana era convinto della necessità di sviluppare un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio. La materia, il colore e il suono in movimento sono fenomeni il cui sviluppo simultaneo è parte integrante di un nuovo modo di fare arte. Questa nuova arte richiede che tutte le energie dell’uomo siano dirette verso la creazione e l’interpretazione. In questo modo, l’essere si manifesta nella sua integralità con la pienezza della sua vitalità. 3 “Sono molto contento, è il nulla! La morte della materia, è la pura filosofia della vita”. Così Fontana descrive le sue ultime opere: la serie di sculture intitolate Nature, trenta grandi sfere in terracotta, con grandi tagli e buchi, realizzate nel 1960. 2
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qualsiasi forma. L’arte non è solamente la pittura o la scultura: l’arte è la creazione dell’uomo, che può trasformarla in qualcosa di completamente nuovo.”4 Per Fontana, l’arte non si riduce dunque né a pittura, né a scultura e neanche a linee delimitate nello spazio, ma esprime la continuità dello spazio nella materia. La sua concezione dello spazio si traduce in un autentico dinamismo plastico, in virtù del quale lo spazio può dar luogo a una varietà differenziata di forme non contenute inizialmente in esso 5. Lo spazio è da intendere come un’entità mobile e flessibile, le cui proprietà e qualità possono cambiare per effetto di un’azione interna o di una perturbazione esterna che opera in (o su di) esso. Così, per esempio, le macchie compatte di colore sulle forme hanno lo scopo di abolire la componente statica della materia, non qualcosa di compiuto dunque, ma piuttosto una propedeutica alla comprensione. Il taglio e il buco come nuove dimensioni dello spazio, di uno spazio qualitativamente aperto, fisicamente vitale, che resiste alla misura assoluta e alla codificazione fissa, rappresentano la vera scoperta artistica di Fontana. La chiave per comprendere le opere spaziali di Fontana sembra essere il concetto di dimensione, una dimensione nuova che apre lo spazio tridimensionale e persino quadridimensionale verso sentieri sconosciuti, verso nuovi orizzonti che solo pochi fisici e matematici avevano osato imboccare; tra questi, i fisici Theodor Kaluza (1885-1954) e Oskar Klein (1894-1977) e il matematico Stephen Smale6 (1930) furono i più audaci e i soli che
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L. Fontana, Manifesto bianco – Spazialismo, Milano, 1966. Questa idea presenta chiare similitudini con la posizione sviluppata dal matematico e filosofo René Thom, che vede la materia da un punto di vista aristotelico, ovvero una sorta di continuo che può acquistare delle forme. La forma, precisa Thom, può essere esterna, visibile, o interna. La forma interna è ciò che si chiamerebbe una qualità dal punto di vista semantico. È materia fornita di qualità la materia signata, introdotta da Tommaso d’Aquino, che attribuisce ad Aristotele l’idea che la materia (cioè l’essenza, la potenza) sia imperfetta e incompiuta rispetto alla forma (cioè l’esistenza, l’atto). E, in una certa misura, qualunque qualità si può precisamente vedere, sempre secondo Thom, come una forma spaziale, una forma estesa in uno spazio astratto. La materia originaria rappresenta un po’, se così si può dire, la materia prima di Aristotele, è il substrato che può ricevere qualunque specie di qualità, qualunque predicato. La materia prima è una specie di idealizzazione che, molto rapidamente, acquista delle qualità, delle forme (vedi R. Thom, Prédire n’est pas expliquer, Flammarion, Paris, 1991). 6 S. Smale, “Generalized Poincaré’s conjecture in dimensions greater than four”, Annals of Mathematics 74(2), 1961, pp. 391–406. 5
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decisero di esplorare i misteri della quinta dimensione (vedi box). La teoria di Kaluza-Klein rappresenta un tentativo di unificazione del campo gravitazionale (descritto dalle equazioni della relatività generale) con il campo elettromagnetico (descritto dalle equazioni di Maxwell) attraverso l’introduzione di una quinta dimensione spaziale, che permetteva un’estensione concettuale della relatività generale, che, come noto, opera in uno spaziotempo a 4 dimensioni (tre spaziali e una temporale). Uno degli aspetti problematici della teoria era costituito dalla non osservabilità dell’ipotizzata quinta dimensione. In effetti, l’universo in cui viviamo ci appare quadridimensionale. Una possibile soluzione del paradosso fu proposta nel 1926 dal fisico svedese Oskar Klein, che ipotizzò che la quarta dimensione spaziale non si
Il lavoro di Smale sulla topologia nella quinta dimensione In uno dei suoi lavori fondamentali sulla topologia degli spazi multidimensionali, del 1960, Smale dimostrò la congettura di Poincaré nel caso degli spazi a n ≥ 5 dimensioni. Una formulazione della congettura di Poincaré, nel caso degli spazi a n dimensioni, è la seguente: ogni varietà chiusa n dimensionale omotopicamente equivalente alla n-sfera è omeomorfa alla n-sfera. L’ingrediente cruciale della dimostrazione di Smale è un nuovo concetto che egli svilupperà qualche anno più tardi nel quadro del teorema dell’h-cobordismo. Il termine cobordismo deriva dalla parola bordo e concerne la connessione tra due varietà (o spazi). Per esempio, se una varietà è un cerchio e l’altra una coppia di cerchi disgiunti, il cobordismo assomiglia a una specie di pantalone, di cui il cerchio singolo sarebbe la vita e i due cerchi disgiunti le aperture per le gambe (o gli orli del pantalone). Le condizioni preliminari del teorema sono che il cobordismo soddisfi certe esigenze e che le due varietà siano semplicemente connesse, vale a dire che non siano bretzels o oggetti di forma simile. A partire da queste assunzioni, Smale dimostra che due varietà sono in un certo senso topologicamente equivalenti, a condizione che l’intero processo di trasformazione/deformazione si svolga nella dimensione 5 o in dimensioni superiori. Per poter dimostrare la congettura di Poincaré per dimensioni superiori alle quattro del nostro spazio-tempo usuale, è necessario assumere che tutte le varietà compatte contraibili possano essere deformate in modo da ottenere una sfera (la superficie di una palla). Smale inventò un procedimento matematico (si potrebbe anche dire, una strategia di riorganizzazione interna dello spazio) che gli permise, oltre che di provare la congettura di Poincaré per le dimensioni ≥ 5, di mostrare anche che certe varietà possono essere costruite incollando tra loro dei dischi. Quest’ultimo risultato fu il punto di partenza per la classificazione generale di tutte le varietà semplicemente connesse.
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estendesse all’infinito, ma fosse “arrotolata” su se stessa costituendo in ciascun punto uno spazio compatto, nella fattispecie un cerchio. La compattificazione così proposta consente a questa dimensione aggiuntiva di estendersi (a differenza di quelle ordinarie) su distanze finite. L’invisibilità della dimensione aggiuntiva può essere allora spiegata solo introducendo l’ulteriore ipotesi che la compattificazione della dimensione extra avvenga a scale così piccole da sfuggire alla sensibilità degli strumenti disponibili (oltre che dei sensi umani, e in particolare della visione). Come è stato evidenziato, in particolare da Giulio Carlo Argan, nello Spazialismo di Fontana non troviamo alcuna definizione univoca del concetto di spazio, che per Fontana non solo non è nulla di determinato, ma è l’indeterminazione pura. Il suo punto di partenza sembra essere il movimento, la relazione spazio-tempo, la quarta dimensione. Ma queste nozioni non bastano. Benché non lo dica espressamente, è chiaro che Fontana aspira non già alla quarta, ma alla cosiddetta quinta dimensione, che è la dimensione dell’indeterminazione, della libertà assoluta, quella dove la forma – perdendo la propria struttura e misura spaziale – non è più differenziabile dall’immagine (intesa qui come il prodotto dell’immaginazione, piuttosto che come sensazione provocata dalla cosa stessa), di cui assume l’estensione infinita, la polivalenza, la mutabilità, l’inconsistenza, una temporalità molto più fluida rispetto a quella della fisica. Ma l’indeterminazione non è fuori dall’esistenza, al contrario: e, come fatto di esistenza, deve essere percepibile o rilevabile in termini visivi. La poetica di Fontana potrebbe dunque riassumersi nella proposizione che dovunque si veda qualcosa, vi è spazio; e viceversa. Ma non si tratta di campo visivo, del semplice senso della vista, bensì dell’immaginazione in particolare. Per cui bisogna riconoscere che vi possa essere uno spazio frutto dell’immaginazione capace di aprire una nuova dimensione dell’esistenza. In altre parole, esiste una visione altamente, esclusivamente immaginativa. Sarebbe d’altronde molto istruttivo riconsiderare una parte dell’arte “antica”, “moderna” e “contemporanea” dal punto di vista della pura immaginazione visiva, che va al di là del campo visivo, che anzi si colloca precisamente in quel bordo tenue, in quella frontiera pellicolare che l’occhio è incapace di penetrare. E lì comincia la visione immaginativa che rivela un’altra esistenza dello spazio, la sua struttura fine, le sue potenzialità invisibili, le sue pieghe e i suoi interstizi profondi. Va notato che Fontana non si
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accontenta di una visualizzazione dell’immaginato mediante un sistema di analogie concettuali o allegorie; egli vuole materialmente vedere l’immagine immaginata, cioè renderla immediatamente percepibile e direttamente significante, e perciò deve farla o costruirla, immergerla in una materia e identificarla in una forma plastica che abbia un’autentica esistenza spaziale. Investe così, necessariamente, la questione della percezione, dunque della luce e della sua relazione con lo spazio. La luce è certamente una condizione della percezione, ma non è riducibile a quella indeterminazione assoluta che è lo spazio. Nei termini di René Thom, la luce e il colore sono pregnanze capaci di far emergere delle salienze nello spazio attraverso la sua materialità, o meglio, trasformando lo stato fisico e modificando determinate proprietà della “materia” presente nello spazio. In termini filosofici, si può dire che luce e colore, in quanto materia, non sono essenza ma esistenza. In riferimento ai primi Concetti spaziali degli anni Cinquanta, una superficie disseminata di piccoli buchi – i cui bordi emergono come creste o sprofondano in piccoli crateri – non si vede senza luce, e la sua configurazione muta necessariamente con il mutare dell’incidenza luminosa; d’altra parte, più viva è l’incidenza luminosa (cioè la pregnanza) e più è in rilievo la configurazione della superficie (quindi la salienza). In questa mutazione vi è tuttavia qualcosa che rimane costante e che definisce per così dire la coesione, l’equivalenza e la continuità di quella superficie, tra tutti gli aspetti che essa assume sotto le diverse incidenze di luce: questo qualcosa è la forma interiore dello spazio o, nel linguaggio di Fontana, il ritmo della disseminazione dei buchi (o dei tagli). Il ritmo della disseminazione dei tagli, e non la luce, è perciò la principale fonte della forma dello spazio che abita la superficie; la pregnanza profonda e le sue possibili variazioni nascono da lì, da questa sorgente topologica del divenire dello spazio. In termini più filosofici, potremmo dire che quel ritmo rappresenta quanto dell’essere della superficie (spazio e universo allo stesso tempo) si dà, inesauribile in sé e in misura costante pur se rinnovata, in tutti i momenti dell’esistere. Va tuttavia notato che la ricerca di quella costante, del ritmo spaziale come ritmo dell’essere, non muove da una struttura data a priori, poiché è la risultante (nel senso della dinamica delle forze) di tutti gli aspetti fenomenici, di tutti i “possibili” che formano la serie di eventi entro cui si forma ed esiste l’immagine.
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Lo spazio è anche il denominatore comune di un insieme di valori, ciascuno dei quali è conchiuso in se stesso e legato agli altri da relazioni semanticamente propagative ed evocative. L’arte e la poetica di Fontana sono dense di implicazioni simboliche. Il ritmo della disseminazione dei piccoli fori, e di altri variopinti frammenti di materia, richiama il ritmo delle costellazioni: il cielo stellato è uno dei temi più frequenti nella sua opera; e anche in questo si osserva un’analogia profonda con l’opera di Eielson, le cui costellazioni (come in parte abbiamo visto) sono un elemento costitutivo della sua visione cosmologica dell’universo e degli esseri viventi. L’uno e l’altro vedono nelle costellazioni che si estendono nello spazio infinito non tanto la rappresentazione o la figurazione del cielo stellato, quanto la presenza dell’universo nelle cose di questa terra, molto probabilmente anche nel destino degli uomini. Entrambi scorgono nel movimento apparentemente casuale delle stelle e degli altri corpi celesti il riflesso di presunte universali armonie, i segni e le ragioni di un disegno cosmico in cui si situa e si dispiega il destino di ogni individuo. Ma invece di un solo destino, predeterminato ab initio, è una necessaria e fortuita diversità dei destini umani che esiste. Il tema del destino umano, che è poi il tema dell’essere ineluttabilmente nello spazio del mondo, si mescola così con quello della spazialità cosmica, perché non vi è spazio che non sia spazio della vita. I tagli di Fontana e i nodi di Eielson ubbidiscono alla necessità di rompere la simmetria perfetta del piano, la piattezza della realtà tangibile, come se la materia, portata al limite ultimo della rarefazione, cristalizzata in una forma pura, volesse recuperare, in quella singolarità spaziale e in quell’incidente temporale, il senso della realtà della propria esistenza. Infatti, i tagli e i nodi mettono in comunicazione gli oggetti enigmatici della creatività umana con la spazialità profonda, imperscrutabile della creatività del cosmo. Entrambe le operazioni (i gesti) – l’annodare e il tagliare – cambiano la topologia dello spazio. In che cosa consiste tale cambiamento? Consideriamo due superfici apparentemente molto diverse tra loro: il cilindro e il toro. Dal punto di vista topologico esse sono diverse dal piano, ma appartengono alla medesima famiglia di spazi a curvatura nulla: le superfici localmente euclidee. Un metodo elegante per caratterizzare queste differenti topologie è la chiusura di lacci (loops). Un laccio è una curva chiusa tracciata su una superficie. A partire da qualsiasi punto del piano infinito possiamo disegnare un laccio qualsiasi, di qualsiasi
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Fig. 7.1 L. Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1959
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grandezza; questo laccio potrebbe essere sempre ristretto e ridotto a un punto senza incontrare ostacoli. La stessa operazione può essere eseguita sulla sfera. Per un topologo, la sfera è una varietà senza buchi e semplicemente connessa: qualsiasi curva tracciata su di essa può essere deformata in modo continuo fino a ridurla a un singolo punto. I topologi definiscono una simile superficie monoconnessa (o semplicemente connessa). Al contrario, il cilindro e il toro non hanno questa proprietà. Certo, esistono lacci che possono essere completamente ristretti, come nel piano; ma per alcuni ciò non è possibile: un cerchio che gira intorno al cilindro o che si arrotola intorno al toro, per esempio, non può essere ridotto in maniera continua fino a un punto. Le superfici in cui i lacci non possono essere ristretti indefinitamente, poiché girano intorno a un buco, hanno una topologia detta multiconnessa
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(o non semplicemente connessa)7. Così, le tele tagliate o forate di Fontana possono essere viste come superfici multiconnesse (spazi multiconnessi). Si può inoltre associare a ogni tela con un certo numero di tagli il concetto spaziale (estremamente importante in topologia algebrica) di numero di Betti di uno spazio topologico, che in pratica rappresenta un modo per contare il massimo numero di tagli che possono essere eseguiti su uno spazio senza dividerlo in due pezzi (cioè senza disconnetterlo). Questo definisce il primo numero di Betti 8, b0 , che rappresenta il numero di componenti connesse in uno spazio, mentre b1 indica il numero di buchi monodimensionali, b2 designa il numero di buchi bidimensionali, e così via. Si può quindi definire una sequenza di numeri di Betti. Il k-esimo numero di Betti bk di uno spazio topologico X è un numero intero positivo o nullo che conta i “buchi” k-dimensionali dello spazio considerato. I numeri di Betti bk(X) sono degli invarianti topologici basilari molto utili per descrivere la forma dello spazio e stabilirne l’ordine di connessione. In 7
Tecnicamente, uno spazio topologico con gruppo fondamentale banale π1(X, x0) (cioè avente un solo elemento) si dice semplicemente connesso. Gli spazi topologici semplicemente connessi hanno un ruolo fondamentale in geometria. La sfera n-dimensionale (e quindi in particolare l’intervallo) è semplicemente connessa. In generale, ogni spazio contraibile, cioè omotopicamente equivalente a un punto, è semplicemente connesso. Quindi un qualsiasi insieme convesso dello spazio euclideo è semplicemente connesso. Anche la retta e il piano sono semplicemente connessi. La sfera n-dimensionale con n ≥ 2 è semplicemente connessa, benché non sia contraibile. Il più elementare spazio topologico non semplicemente connesso è la circonferenza S1. Il suo gruppo fondamentale è isomorfo al gruppo additivo dei numeri interi Z: il numero intero associato a un laccio di S1 è il numero di volte che questo “gira” (cioè si arrotola) intorno a S1. 8 l concetto di “numero di Betti” fu introdotto nel 1871 dal matematico Enrico Betti nel tentativo di generalizzare il lavoro fondamentale di Bernhard Riemann (del 1854) sugli spazi a n dimensioni. Betti riprese l’idea di Riemann di tagliare una superficie lungo delle curve e la generalizza nel concetto di tagliare una varietà di dimensione superiore lungo una varietà al suo interno. Poincaré, a sua volta, generalizzò il lavoro di Betti e i numeri che Betti aveva associato alla varietà. Egli definì una «sottovarietà» come una varietà all’interno di un’altra varietà (per esempio, una curva all’interno di una superficie, oppure una curva o una superficie all’interno di una varietà tridimensionale) e considerò due o più sottovarietà come correlate qualora costituissero il bordo comune di un’ulteriore sottovarietà. Poincaré reinterpretò i numeri presi in considerazione da Betti, oggi noti come “numeri di Betti”, introducendo equazioni tra sottovarietà di una varietà, chiamate “omologie su una varietà”, che esprimevano la relazione di essere bordo all’interno della varietà. La collezione di tutte le omologie indipendenti di una data dimensione formava un gruppo chiamato “gruppo di omologia”. I gruppi di omologia erano identici per le varietà che risultavano omeomorfe, e una volta conosciuti i gruppi di omologia si potevano conoscere i numeri di Betti e anche la loro invarianza sotto omeomorfismo per le varietà a 3 e a n dimensioni.
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particolare, essi permettono di contare il numero di “buchi” dello spazio in diverse dimensioni. Per un cerchio, il primo numero di Betti è 1; per un generico bretzel è il doppio del numero dei buchi; per una sfera è 0 e per un toro è 2. Dal punto di vista matematico, il concetto di gruppo fondamentale, essenziale in topologia, permette di esplorare alcune proprietà formali più profonde delle tele tagliate di Fontana. Il concetto di gruppo fondamentale è uno strumento potente, più
e a
c
b
d
f
g h Fig. 7.2 Nodi e ricami. Il “nodo dritto” più semplice (a) e la sua rappresentazione matematica (b), chiamato “nodo a trifoglio”, sono le operazioni elementari usate per realizzare certi ricami. Nel cosiddetto “nodo di riso” (c, d) si inseriscono dei lacci successivi l’uno all’interno dell’altro per realizzare un ricamo che corrisponde sempre a un nodo assai semplice: infatti, basta tirare uno dei fili per pervenire a scioglierlo del tutto. Il matematico ricamatore sa che le proprietà topologiche del suo ricamo (e) sono
equivalenti a un nodo attorniante tre aperture e delimitato da un curva chiusa (un laccio), (c) nella figura. La rappresentazione matematica del “nodo di riso” (d) mostra che questo nodo è topologicamente equivalente a un “nodo a trifoglio” (c). Entrambi i nodi sono equivalenti alla superficie (f), che a sua volta è equivalente al disco con tre manici (g), e tutti e quattro gli oggetti sono topologicamente equivalenti al Concetto spaziale con tre tagli di Fontana (h e Fig 7.1)
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potente del concetto di omologia, che permette di analizzare la forma di un oggetto e di tradurla in una forma algebrica. Occorre considerare che, se X designa il nostro spazio, allora si possono porre e dimostrare le due seguenti proprietà fondamentali: – Il gruppo di omotopia πk(X, x0) misura il numero di “buchi” kdimensionali in X (il gruppo fondamentale o primo gruppo di omotopia π1(X, x0 ) è anche chiamato gruppo di Poincaré); – Il gruppo di omologia Hk(X) misura i k-sottospazi “essenziali” o “non banali” dello spazio X. In altre parole, l’idea fondamentale è assumere che lo spazio (o la varietà) X sia decomponibile in pezzi standard (archi, triangoli, tetraedri ecc.) e trattare algebricamente il modo in cui tali pezzi sono assemblati insieme a dare tutta la varietà. Ciò consente di descrivere la struttura globale delle varietà mediante strutture algebriche (omologia). Il problema dell’esistenza di una tale decomposizione (triangolazione) – e della sua unicità a meno di equivalenze combinatorie – è conosciuto come Hauptvermutung (“congettura fondamentale”). L’oggetto da analizzare deve essere uno spazio topologico (per esempio un sottoinsieme del piano, dello spazio o di un qualsiasi spazio euclideo). Il risultato della traduzione è un gruppo, detto appunto gruppo fondamentale dello spazio. Prendiamo come esempio il toro: il gruppo fondamentale del toro è un oggetto algebrico che ne cattura la forma, e che qui codifica la presenza di un “buco”. Come sempre in topologia, questo oggetto deve dipendere solo dalla forma del toro e non dalla sua particolare posizione e rappresentazione nello spazio. Il gruppo fondamentale è definito usando le curve (i lacci) sul toro che partono da un punto p e tornano a p, come nella Fig. 7.3. Il laccio della Fig. 7.3a non sembra però catturare informazioni sulla forma del toro: infatti può essere deformato in modo continuo (tramite una omotopia) fino a diventare arbitrariamente piccolo. I due lacci λ e γ della Fig. 7.3b, invece, sono molto più rappresentativi: proprio a causa del buco centrale, nessuno dei due può essere deformato fino a diventare un punto. Inoltre non è possibile ottenere γ deformando λ. Notiamo ancora che queste sono proprietà intrinseche del toro: tramite queste considerazioni ci siamo accorti dell’esistenza di un buco “dall’interno”, senza usare lo spazio tridimensionale che lo contiene. A questo punto notiamo che i due lacci λ e γ possono essere composti in modo da ottenere un terzo laccio (Fig. 7.3c),
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a
b
c
Fig. 7.3 I lacci del gruppo fondamentale del toro. a Il laccio può essere contratto con continuità fino a diventare un punto. b A causa del buco che caratterizza il toro, i lacci λ e γ non possono essere contratti con continuità fino a diven-
tare un punto, né possono essere trasformati l’uno nell’altro per deformazione. c Il laccio λγ (ottenuto combinando λ e γ) compie in successione il cammino dei due lacci di cui è composto
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Fig. 7.4 a, b Illustrazioni del gruppo fondamentale d’omotopia banale della varietà X “senza buchi” (cioè dove qualsiasi cammino o cappio chiuso può essere contratto con continuità fino a diventare un punto. c, d Illustrazioni del
gruppo fondamentale d’omotopia non banale della varietà X “con buchi” (cioè dove esistono famiglie di cammini o cappi chiusi, L', che non possono essere contratti con continuità fino a diventare un punto)
L' L'
L
a
P
P L
c
L P L
L' b
d
P
che prima fa un giro come λ e poi ne fa un altro come γ. Diamo a questo nuovo laccio il nome di λγ. In questo modo – assegnando dei nomi ai lacci, considerandoli a meno di deformazioni e componendoli – otteniamo un gruppo, un oggetto basilare dell’algebra. In questo caso, per esempio, otteniamo il gruppo Z × Z dato da tutte le coppie (x, y) di interi, generato dai lacci λ e γ che si traducono rispettivamente in (1, 0) e (0, 1). La visione di Eielson esprime un altro tipo di radicalità e creatività. Nei suoi lavori la topologia di un nodo non è (o non è solo) una proprietà della curva che lo rappresenta; infatti, lo spazio della
L'
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Fig. 7.5 Congettura di Poincaré. a Una varietà X con gruppo fondamentale di omotopia non banale (tutti i lacci che partono dal punto x0 non possono essere deformati in modo
continuo nel punto x0). b Una varietà X con gruppo fondamentale di omotopia banale (tutti i lacci che partono dal punto x0 possono essere ridotti con continuità a x0)
a
b
tela (lavorato e trasformato dall’artista) genera forme e forze che si originano dal nodo stesso o vi confluiscono, senza pertanto attraversarlo. Nel nodo convergono più cammini intrecciati tra loro, e da questo stesso nodo sorge poi un’infinità di cammini che percorrono altre regioni dello spazio. Benché siano tutti diversi tra loro, questi cammini presentano affinità profonde. Eielson ci mostra come – grazie a un certo tipo di manipolazioni (incurvamenti, piegature, tensioni, torsioni, rotazioni, avvolgimenti, contrazioni, espansioni) della materia (la stoffa dai vari spessori e colori che servirà da matrice primordiale del nodo) – i cammini possano essere deformati e congiunti l’uno con l’altro. Lo spazio-universo globale (cioè l’opera) risulta da una dinamica interna che il nodo riesce a conferire allo spazio omogeneo della tela. Il nodo è ciò che risulta da un’immersione (un certo tipo di trasformazione matematica) nello spazio ambiente tridimensionale. Il nodo scaturisce da una serie di gesti e operazioni assolutamente non neutre, che mettono in moto processi capaci di modificare la situazione di questo stesso spazio. L’immersione avrà l’effetto di dinamizzare, deformare, trasformare lo spazio originario (quello della tela), svelandone una
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interiorità ricca e profonda fino allora “celata” al di là del suo aspetto omogeneo e amorfo. In virtù del nodo che vi è “immerso”, la superficie della tela si converte in uno spazio diventato luogo di eventi insoliti, che sono frutto delle forme e delle forze che muovono quello spazio. Si può dire che il nodo non è nello spazio: è spazio (come l’uomo e la natura non sono nella storia: sono storia). “Immergere” un oggetto matematico (una curva, una superficie, il grafo di una funzione) nello spazio euclideo, porta quest’ultimo a organizzarsi, ad acquisire delle strutture; è un’operazione simile a quella che si compie nel deformare localmente lo spazio in modo da farvi apparire una varietà di nuove forme. In altri termini, si tratta di un processo di individuazione e di qualificazione progressive dello spazio, che ne risulta messo in rilievo. Più precisamente, il nodo cristalizza una discontinuità qualitativa dello spazio, ma questa cristalizzazione nasce da un processo continuo soggiacente, cioè da un tipo di immersione di uno spazio dato in uno di maggiori dimensioni. In realtà siamo di fronte a una situazione molto generale, che interessa sia gli oggetti artistici (tessuti, trecce, tassellazioni ecc.) sia gli oggetti naturali e quelli viventi. Se ne può dare un enunciato astratto: quando uno spazio è soggetto a una limitazione o a una modificazione energica (come spiegazzare una camicia, torcere un pezzo di stoffa o attorcigliare una corda su se stessa), vale a dire quando lo si proietta su qualcosa di minori dimensioni, esso accoglie la limitazione tranne in un certo numero di punti (in un intorno) dove, per cosi dire, si concentra o si accumula tutta la sua individualità primaria. Per Jorge Eielson pensare e creare nodi significava andare alla scoperta delle singolarità segrete e invisibili, ricercare l’individuazione degli oggetti nelle loro stesse pieghe, cogliere quei caratteri universali che mettono in rapporto le cose facendone risaltare le qualità affini. Egli cercava l’ordine nel caos e il caos nell’ordine, il vero nel bello e il bello nel vero, e per questo non ha mai rinunciato a rompere modelli percettivi, schemi di pensiero e precetti morali, preferendo sempre il silenzio e la creazione al rumore e all’ostentazione.
CAPITOLO 8 I buchi e la metamorfosi dello spazio Utopien bedeuten ungefähr so viel wie Möglichkeiten; darin, dass eine Möglichkeit nicht Wirklichkeit ist, drückt sich nichts anderes aus, als dass die Umstände, mit denen sie gegenwärtig verflochten ist, sie daran hindern, denn andernfalls wäre sie ja nun eine Unmöglichkeit; löst man sie nun aus ihrer Bindung und gewährt ihr Entwicklung, so entsteht die Utopie. Es ist ein ähnlicher Vorgang, wie wenn ein Forscher die Veränderung eines Elements in einer zusammengesetzten Erscheinung betrachtet uns daraus seine Folgerungen zieht; Utopie bedeutet das Experiment, worin die mögliche Veränderung eines Elements und die Wirkungen beobachtet werden, die sie in jener zusammengesetzten Erscheinung hervorrufen würde, die wir Leben nennen. Robert Musil1
Nel considerare l’opera di Lucio Fontana, è importante notare che il gesto che consiste nell’effettuare un taglio (o dei tagli 2) nella tela produce un cambiamento permanente nel modo di essere dello spazio. In particolare, esso apre nuove possibilità: la superficie 1
R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Bd. 1, Rowohlt, Berlin, 1930. I tagli di Fontana possono apparire come gesti quasi casuali. Ma con l’attenuarsi del colore delle sue tele, essi divennero sempre più aperture severe, eleganti, dense come pieghe, da intendere come momenti di esplorazione interiore dello spazio, come eventi annunciatori di nuove forze ed energie naturali e umane. I primi tagli voltavano spesso i lembi all’infuori, secondo la tendenza della trama. Un metodo utilizzato da Fontana per ribaltarli consisteva nello staccare la tela dal telaio per rimontarla dalla parte opposta. L’area interna dell’incisione (o ferita) veniva quindi protetta con una garza nera, in modo che guardando al suo interno si vedesse un passaggio dal chiaro all’oscuro (in un gioco di luce e ombra), dalla piattezza della superficie a profondità insondabili dello spazio-universo. 2
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Pensare l’impossibile Fig. 8.1 L. Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1962
della tela non è più semplicemente connessa; si potranno d’ora in poi percorrere più cammini per congiungere un punto con un altro, per passare da un luogo a un altro. I buchi o fori che Fontana intaglia sulla superficie della tela hanno un significato matematico preciso, legato al concetto di genere di una superficie (o di uno spazio a 3 o più dimensioni), e questo cambia radicalmente la percezione del mondo di proprietà e qualità incluso nella tela. Per rendercene conto, spingiamo più in là l’analogia e supponiamo che la tela dell’artista corrisponda a una varietà a 2 dimensioni, cioè a una superficie. Le superfici compatte e orientabili sono classificate dal loro genere, intuitivamente pari al “numero di buchi”. Più in generale, esiste una classificazione delle superfici per ogni superficie di tipo finito. Un risultato fondamentale, conosciuto come congettura di geometrizzazione di Thurston (del 1982), generalizza quanto appena enunciato per le superfici bidimensionali: ogni superficie tridimensionale può essere “sezionata” in modo essenzialmente unico, mediante “tagli” lungo sfere o tori bidimensionali, in pezzi “primi” aventi struttura geometrica di otto possibili tipi diversi. La celebre congettura del matematico francese Henri Poincaré, enunciata nel 1904 3, è un caso particolare della congettura precedente che riguarda tutte le 3-varietà. Secondo la congettura di Poincaré ogni 3-varietà semplicemente connessa chiusa (ossia compatta e senza bordi) ed orientabile è omeomorfa a una sfera tridimensionale. In altri termini, questa congettura afferma che la 3-sfera è l’unica varietà tridimensionale “senza buchi”, cioè dove qualsiasi cammino chiuso può essere contratto fino a diventare un punto. La congettura di Poincaré può essere generalizzata a sfere di dimensione n qualunque, e prende allora il nome di congettura di Poincaré generalizzata: Sia S n una superficie compatta di dimensione n, dello stesso tipo di omotopia della sfera. È vero che S n è omeomorfa alla sfera? La congettura di Poincaré e quella di Thurston sono delle supposizioni sulla natura, sulla forma e sulle proprietà fondamentali del nostro universo e dello spazio in cui viviamo. 3
Considerata durante tutto il XX secolo il più importante problema irrisolto della topologia, la congettura di Poincaré è stata infine dimostrata dal matematico russo Grisha Perelman nel 2003.
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Non commenteremo qui i complessi e tecnici dettagli del contenuto e del significato matematico di queste congetture 4. Vorremmo tuttavia accennare a uno degli aspetti più significativi che si ricollega direttamente al tema di questo lavoro, ovvero al ruolo di generatori di nuove geometrie che hanno i “tagli” negli spazi a tre dimensioni. L’altra osservazione importante è che i buchi e i nodi intervengono nei procedimenti che hanno portato alle dimostrazioni della congettura di Poincaré per dimensioni superiori a 4 (da parte di Smale, Stallings, Zeeman e Wallace); in altre parole, i buchi e i nodi sono ingredienti fondamentali di ogni tentativo mirante a una comprensione profonda delle strutture fini dello spazio e di tutte le possibili trasformazioni e deformazioni che su di esso si possono operare. Dal punto di vista topologico, possiamo dire che buchi (tagli) e anse (manici) sono oggetti complementari ed equivalenti: a due buchi su una sfera che “vive” nel nostro spazio tridimensionale si può sempre far corrispondere un’ansa incollata alla superficie bidimensionale inclusa in R 3. Bisogna inoltre ammettere che le anse possono essere deformate, e in particolare annodate e intrecciate. La questione generale è sapere se un certo tipo di varietà (spazio) è topologicamente equivalente alla superficie bidimensionale rappresentata dalla sfera. Il primo compito è appurare quali sono gli elementi fondamentali che costituiscono la varietà. Per un topologo, anche la varietà più complessa può essere considerata come una sfera alla quale sono attaccate diverse anse suscettibili di essere annodate e congiunte. Considerate singolarmente, queste anse possono essere raddrizzate mediante stiramento e quindi trasformate in cilindri. La tappa seguente consiste nel produrre nuovamente la varietà ricostituendola a partire dagli elementi di base che si sono appena individuati. Ripartendo da una sfera, i cilindri sono dunque intrecciati e annodati tra loro, quindi attaccati alla sfera mediante una sorta di operazione “chirurgica” (un gesto di creazione, un atto di magia); infine, pieghe, rugosità e spigoli sono appiattiti, pareggiati e lisciati fino a che la nuova sfera è topologicamente equivalente (omeomorfa) alla varietà iniziale. 4
Per una presentazione matematica, rimandiamo il lettore al nostro lavoro “The Aleph of Space. On some extensions of geometrical and topological concepts in the twentieth-century mathematics: from surfaces and manifolds to knots and links”, in: G. Sica (ed), What is Geometry?, Polimetrica, Milano, 2006, pp. 79–152.
I buchi e la metamorfosi dello spazio
Fig. 8.2 J.E. Eielson, Quipus 15 AZ-1, 1965. Una treccia che si trasforma in nodo, da cui sorge un tessuto dalle tante piegature che evoca un fascio di luce. Questi tre elementi generano uno spazio dinamico che si forma sopra lo spazio della tela (come un nuovo strato della realtà). Qui il
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nodo può essere assimilato a un nucleo di energia (un crogiolo di forze); la sua topologia caratteristica oppone resistenza alla possibile dissipazione dell’energia presente nello spazio-universo della tela, che viene poi comunque irradiata in forma di luce
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Pensare l’impossibile
La definizione del concetto di “genere di una superficie” che dà il matematico è molto simile all’operazione praticata dall’artista sulla superficie della tela, che diventa così un “universo possibile”. Il genere di una superficie è il massimo numero di curve semplici chiuse lungo le quali si può tagliare la superficie senza disconnetterla. Ovviamente il genere di una superficie è un invariante per omeomorfismo (cioè per deformazioni continue e reversibili). Il genere di una superficie è in realtà legato a un altro invariante e cioè alla caratteristica di Eulero. Supponiamo di suddividere una figura (un quadrato o un’altra superficie) S nel piano o nello spazio in un numero finito di triangoli Ti seguendo una certa regola, e cioè che ogni triangolo si assembli lungo i lati del quadrato (in particolare non è ammesso che due triangoli si sovrappongano, e che il vertice di un triangolo tocchi il lato di un altro triangolo). Tale suddivisione eseguita con le regole appena ricordate viene chiama triangolazione (un metodo estremamente importante in topologia algebrica). Si contino adesso le facce f, gli spigoli s e i vertici v di tutti i triangoli che formano il quadrato; il numero intero ƒ – s + v è la caratteristica di Eulero della superficie S e si designa con χ(S). Si può adesso scrivere la formula invariante: χ(S) = ƒ – s + v. Naturalmente vi sono molti modi diversi per triangolarizzare una superficie, tanto è vero che cambiando lo schema della suddivisione, cambiano anche i singoli numeri ƒ, s e v. Tuttavia, qualunque sia il tipo di triangolazione scelta, il numero χ(S) resterà lo stesso. Lo studio delle proprietà intrinseche delle superfici chiuse (senza bordi) e connesse ha fornito i seguenti risultati (teoremi): – per le figure costruite nel piano χ(quadrato) = 1 e χ(poligono piatto) = 1; – per le superfici costruite nello spazio χ(sfera) = 2, χ(toro) = 0 e gli altri valori di χ(S) indicati in Fig. 8.3. Si ha così la proposizione: sia S una superficie chiusa e connessa, se S è orientabile χ(S) = 2 – 2g(S); se S è non orientabile χ(S) = 2 – g(S). È importante evidenziare che una superficie orientabile (per esempio, un toro, o anche un “concetto spaziale” di Fontana con uno o più buchi) può essere costruita a partire da un nodo qualsiasi (per esempio, un nodo a trifoglio o un nodo di Eielson). Il metodo che permette di realizzare tale costruzione è stato inventato
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I buchi e la metamorfosi dello spazio
S0(sfera) χ(S0) = 2
S1(toro) χ(S1) = 0
S2(toro con 2 buchi) χ(S2) = –2
Sg(toro con g buchi) χ(Sg) = 2 – 2g
Fig. 8.3 Caratteristica di Eulero-Poincaré per superfici (varietà a due dimensioni)
Fig. 8.4 Due tele di Lucio Fontana. A sinistra Concetto spaziale, Attese, 1964; a destra Concetto spaziale, Attese, 1965. La
caratteristica di Eulero-Poincaré della prima tela sarà χ(S2) = –2; quella della seconda χ(Sg) = 2 – 2g (cioè –10)
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Pensare l’impossibile Fig. 8.5 Queste superfici hanno la stessa topologia (lo stesso numero di buchi, di manici e di possibili nodi)
dal matematico tedesco Hans Seifert nel 1935 e ha portato alla definizione di un nuovo invariante (di natura topologica), detto genere. Il metodo si basa sull’idea che ogni superficie orientabile è equivalente a un disco con più manici (o anse). Si aggiunge un manico a un disco ritagliando due buchi dal disco e poi tirando il tubo (a forma di cilindro) in modo da congiungere i due buchi. I manici di una superficie i cui bordi formano una curva annodata sono necessariamente intrecciati (Fig. 8.5). In ambito artistico, i “concetti spaziali” di Fontana – altrettante opere concrete che devono la loro generazione e individuazione ai buchi effettuati sulla superficie della tela – costituiscono una profonda riflessione sui problemi del continuo e della dimensione. Questi due aspetti della spazialità sono in realtà intimamente legati, tanto è vero che l’atto di dividere o di incrementare un determinato continuo equivale a sottrargli o ad aggiungergli delle dimensioni spaziali. Si sa che, matematicamente, una linea si può definire come un continuo spaziale a una dimensione, una superficie come un continuo spaziale a due dimensioni e uno spazio come un continuo a tre dimensioni, e che lo stesso vale per gli
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spazi a più di tre dimensioni. Fontana perviene a creare i suoi concetti spaziali, ossia le sue tele bucate, grazie all’intuizione geometrica, che gli permette di svelare proprietà qualitative dello spazio, e a un’esplorazione delle sue qualità intrinseche, sia singolari sia globali. Da questo punto di vista, il metodo di Fontana è molto simile a quello seguito da Henri Poincaré per creare la nuova scienza della topologia. L’oggetto che interessa entrambi, l’artista come il topologo, è lo spazio informe, cioè anteriore alla misurazione e anche alla proiezione; in altri termini, lo spazio suscettibile di essere deformato in più modi e capace di acquisire forme diverse. Esistono due tipi essenziali di deformazioni, quelle continue e quelle discontinue (o discrete): le prime trasformano lo spazio in un altro spazio di dimensione più piccola, uguale o più grande mediante una serie di deformazioni continue senza disconnetterlo; le seconde lo trasformano tramite una serie di deformazioni discontinue, che rompono la sua connessione semplice, creando allo stesso tempo una connessione multipla. Ciò significa che esiste una relazione profonda tra il continuo e gli intagli che vi si possono operare; infatti, ogni nuovo intaglio effettuato sulla tela corrisponde a una nuova dimensione aperta nello spazio. Un esame del modo in cui Poincaré elabora la sua concezione del continuo, e dunque del numero di dimensioni dello spazio a partire dal concetto di taglio (coupure), getta una luce nuova sul lavoro di Lucio Fontana e ci consente di proporne una lettura in parte inedita. Il matematico francese comincia con il considerare una curva chiusa, cioè un continuo a una dimensione; se, su questa curva, indichiamo due punti qualsiasi per i quali escludiamo di passare, la curva si troverà a essere divisa in due parti e sarà pertanto impossibile passare dall’una all’altra, restando sulla curva e senza attraversare i suddetti due punti. Consideriamo ora una superficie chiusa, che costituisce un continuo a due dimensioni; potremo indicare su tale superficie uno, due e persino un numero infinito di punti inaccessibili; questa superficie non risulterà suddivisa in due parti, per cui sarà sempre possibile passare da un punto a un altro senza incontrare alcun ostacolo. Se invece tracciamo sulla superficie una o più curve chiuse e le consideriamo come tagli (coupures) che è impossibile attraversare, la superficie risulterà frazionata in più parti. Se consideriamo lo spazio, questo non può essere suddiviso in più parti impedendo il passaggio per certi punti, o impedendo il
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superamento di certe linee; questi ostacoli potrebbero sempre essere aggirati. Bisognerà impedire il superamento di certe superfici, ossia di certe sezioni (coupures) a 2 dimensioni; ed è per questo che diciamo che lo spazio ha 3 dimensioni. Siamo ora in grado di definire un continuo a n dimensioni. Un continuo è a n dimensioni quando lo si può scomporre in più parti praticandovi una o più sezioni (coupures) che siano anch’esse dei continui, ma a n – 1 dimensioni. Il continuo a n dimensioni si trova così definito tramite il continuo a n – 1 dimensioni; è una definizione per induzione. Si tratta di un procedimento assai naturale. Infatti, definiamo intuitivamente i volumi come sezioni dello spazio tridimensionale, le superfici come frontiere dei volumi, le linee come frontiere delle superfici, e i punti come ciò che ripartisce le linee. Nonostante il suo aspetto apparentemente elementare, tale procedimento può essere generalizzato e reso molto astratto, senza peraltro perdere la sua forza intuitiva. Grazie a questo metodo, e in particolare al concetto di taglio, si sono potuti stabilire, alla fine dell’Ottocento, i fondamenti della
Fig. 8.6 Su una sfera tutti i lacci possono essere indefinitamente ridotti a un punto per deformazione continua. Su un toro, invece, solo alcuni lacci (quello giallo nella figura) possono essere deformati in questo modo, cioè contratti in un punto. La spiegazione risiede nella proprietà del toro di non essere una superficie semplicemente connessa, ma multiconnessa. Tracciare una curva chiusa semplice (o un laccio) sulla sfera bidimensionale S 2 equivale a realizzare un embedding
(cioè un’immersione senza singolarità, come autotraversamenti ecc.) dell’immagine deformata di un cerchio S 1 in S 2. Ne risulta che S 2 sarà divisa in due parti X e Y, ciascuna delle quali è omeomorfa (topologicamente equivalente) a un disco, vale a dire una palla bidimensionale B2. Sul toro, invece, esistono delle curve chiuse – quelle che si possono far passare attraverso il buco o far girare attorno a esso – che non dividono la superficie in due parti distinte
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topologia algebrica (chiamata all’epoca Analysis Situs). Questo metodo fu introdotto dal matematico tedesco Bernhard Riemann intorno al 1850, e successivamente sviluppato da Poincaré tra il 1895 e il 1904. Secondo Riemann, la sfera per esempio si distingue dal toro perché qualsiasi curva chiusa tracciata su di essa ne divide la superficie in due parti, mentre sul toro si possono tracciare due tipi di curve chiuse, quelle che non dividono la superficie in due e quelle che la dividono in due, alla condizione tuttavia che i due lacci non abbiano alcun punto in comune5 (come quelli disegnati in rosso nella Fig. 8.6). Per concludere, vorremmo fare due brevi considerazioni riguardo al lavoro di Fontana. La prima è che le tele bucate (intagliate) sono veri concetti spaziali, che hanno almeno due funzioni: aprire nuove dimensioni allo spazio, facendone emergere nuove proprietà formali (che abbiamo cercato di illustrare nelle pagine precedenti); svelare potenzialità nascoste inerenti lo spazio incluso nella superficie della tela. Da questo punto di vista, i buchi (intagli) conferiscono alla superficie sulla quale vengono effettuati un volume e 5 Questo concetto fa riferimento a un teorema importante in topologia, il teorema di Jordan sulle curve: una curva chiusa semplice situata nel piano (cioè l’immagine topologica di una sfera) divide il piano esattamente in due regioni e rappresenta la frontiera comune delle stesse. Lo stesso teorema vale per le superfici compatte monoconnesse, come la sfera. La domanda che ora ci si può porre è la seguente: che cosa si può dire riguardo a una curva chiusa di Jordan nello spazio a tre dimensioni? Affermare che il piano è scomposto in due parti dalla curva chiusa equivale ad ammettere l’esistenza di una coppia di punti tali che ogni spezzata che li congiunga (o che sia “contornata” da essi) abbia necessariamente dei punti comuni con la curva stessa. Si suole dire che i punti di quella coppia sono separati dalla curva oppure che sono “intrecciati” con essa. È ben vero che nello spazio a tre dimensioni non esistono più coppie di punti separati dalla nostra curva di Jordan, ma esistono solo poligoni chiusi intrecciati con essa, nel senso evidente che ogni superficie finita contornata dal poligono ha necessariamente dei punti in comune con la nostra curva. Non occorre poi che la superficie contornata dal poligono sia semplicemente connessa, ma può essere scelta in modo del tutto arbitrario. Il teorema di Jordan può essere generalizzato anche in un altro modo ed esteso allo spazio a tre dimensioni. Esso viene allora espresso nel modo seguente. Nello spazio non vi sono soltanto curve, ma anche superfici chiuse, e ogni superficie di questo tipo divide lo spazio in due regioni (esattamente come succedeva nel piano con una curva chiusa). Possiamo ora immaginare come stanno le cose nello spazio a quattro dimensioni: per ogni curva chiusa vi è una superficie chiusa intrecciata con essa, per ogni varietà tridimensionale chiusa una coppia di punti intrecciata con essa. Questi sono casi particolari del teorema della dualità di Alexander.
I buchi e la metamorfosi dello spazio Fig. 8.7 Tavola che illustra le forme di alcune specie di Ascidie tratta da Kunstformen der Natur (“Forme artistiche della natura”), opera pubblicata tra il 1899 e il 1904 da Ernst Haeckel (1834-1919). Zoologo e filosofo tedesco, Haeckel ha fornito importanti contributi allo studio dell’evoluzione di centinaia di piccoli organismi, in particolare alla loro caratterizzazione anatomica e morfologica; è anche noto per essere stato l’inventore del termine ecologia (dal greco oikos, “dimora” o “ambiente”), inteso come studio dell’“economia” della natura, delle relazioni tra i vari organismi e tra gli organismi e l’ambiente organico e inorganico. Nel-
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l’opera citata, Haeckel sviluppa l’idea che la biologia è fortemente legata all’arte tramite le simmetrie, che conferiscono al mondo biologico un profondo valore estetico. Nella maggior parte dei fenomeni viventi osservabili le simmetrie rivelano un nesso stretto tra certi principi matematici e fisici che presiedono alla crescita e all’evoluzione degli organismi biologici e una tendenza diffusa di questi ultimi a realizzare forme e strutture ottimali dal punto di vista dell’armonia e della simmetria interna e il più possibile robuste dal punto di vista delle complesse interazioni con l’ambiente fisico-chimico esterno
una profondità spaziali, moltiplicano le possibilità di movimento e lasciano intravedere una vita cosmica ricca e complessa. La seconda considerazione riguarda la natura e la potenza morfogenetica dei buchi. Essi sono infatti un elemento importante dell’evoluzione e dei comportamenti di molte specie viventi, e anche delle interazioni tra specie diverse, per esempio tra certe specie animali e talune specie vegetali. L’atto di fare un buco con determinate caratteristiche (di forma, dimensione e testura) spesso costituisce nel mondo biologico un processo fondamentale legato all’evoluzione temporale di uno spazio vitale. A ciò si aggiunge la natura multifunzionale di tale processo. Così, mentre in alcune specie animali esso è legato alla riproduzione, in altre è più legato ad aspetti del metabolismo, e in altre ancora alle interazioni con uno o più ecosistemi. Perciò, certi insetti fanno buchi che non hanno la stessa funzione di quelli realizzati dalle larve o di quelli realizzati da uccelli e da altri animali 6. 6
Le larve di certe specie di insetti xilofagi, in particolare dei Cerambicidi appartenenti all’ordine dei Coleotteri e lunghe da 2 a 4 mm, due settimane dopo la nascita cominciano a formare dei buchi nella corteccia di alberi morti o fortemente deperiti o ancora in buona salute (quali le querce, le conifere e svariate latifoglie), buchi che raggiungono anche la profondità di 2 cm alla fine dell’anno, periodo della prima muta. La larva iberna nella corteccia e riprende a nutrirsi in primavera; verso la metà dell’anno successivo comincia a scavarsi un tunnel nel floema, provocando delle fuoriuscite di linfa in questi punti. Dopo una seconda ibernazione, arriva alla sua massima lunghezza (7-9 cm) e cessa di alimentarsi. La larva penetra a maggiore profondità nel legno e passa allo stadio di ninfa, per poi uscire dall’albero, in fase adulta, nel giugno successivo. Lo sviluppo di questo insetto dura quindi tre anni, ma può prolungarsi fino a cinque, provocando l’essicamento degli alberi ospitanti. I danni provocati nell’albero interferiscono con la sua fisiologia, poiché interrompono i tessuti conduttori.
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Proprietà naturali e biologiche dei buchi Naturalisti e biologi sanno bene che i buchi sono intimamente e profondamente legati alla dinamica di numerosi organismi, oltre che alla loro struttura. Un esempio classico è rappresentato dalla dinamica delle spugne naturali (che sono, in realtà, gli scheletri di alcuni animali marini, che la zoologia ha classificato come Poriferi): essa dipende dalla presenza di numerosissimi buchi che si riproducono su tutte le scale (allo stesso modo di un frattale o di una tassellazione iperbolica di Escher). È questa caratteristica spaziale intrinseca che fa sì che le spugne posseggano le loro particolari proprietà di porosità e di flessibilità, che si conservano anche quando vengono sottoposte a notevoli deformazioni della forma e del volume (pressioni, torsioni, schiacciamenti). Entrambe le proprietà hanno un ruolo fondamentale nella dinamica dei fluidi, come già suggeriscono le ricerche di Leonardo da Vinci. Il nome scientifico di questi animali deriva dal latino e significa letteralmente “portatori di pori”. Si può aggiungere che i Poriferi (ovvero le spugne) sono un phylum di animali sui generis, al punto da indurre i tassonomi a collocarli in un sottoregno a parte, quello dei Parazoi. Si ipotizza una loro origine filogeneticamente indipendente dagli altri phyla animali. Secondo un’ipotesi accreditata, i Poriferi si sarebbero evoluti da ceppi ancestrali di organismi unicellulari dotati di flagello (protozoi coanoflagellati) aggregatisi in colonie. Le prime testimonianze fossili dell’esistenza dei Poriferi risalgono a circa 570 milioni di anni fa (fine del Precambriano). La vita dei Poriferi dipende dalle correnti d’acqua, e proprio per sfruttarle pienamente il loro corpo è organizzato intorno a un sistema di canali e camere acquifere: le modalità di filtrazione dipendono quindi dalla morfologia del loro corpo. Una spugna di 1 cm di diametro e 10 cm di altezza è capace di filtrare oltre 20 litri d’acqua in una sola giornata. In tal modo le spugne contribuiscono anche alla pulizia e alla nitidezza delle acque, in quanto trattengono con la filtrazione molte particelle responsabili della torbidità caratteristica delle profondità marine. In base alla ramificazione della loro cavità interna, possiamo distinguere tre differenti tipologie strutturali nei Poriferi. La più semplice e anche meno diffusa è detta “ascon” ed ha una tipica forma a vaso. La seconda è detta “sycon”; anche in questa tipologia è mantenuta la forma a vaso, ma le pareti qui presentano delle pieghe. La terza
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I buchi e la metamorfosi dello spazio
struttura, detta “leucon”, è più complessa: la forma a vaso è totalmente stravolta e la cavità interna presenta numerosi canali ampiamente ramificati. In questa terza struttura l’acqua circola attraverso le ramificazioni dei canali, permettendo una migliore alimentazione per filtrazione.
Ascon
Sycon
Leucon
(da Ewan ar Born, modificata)
CAPITOLO 9 Il movimento plastico e il tempo non lineare dei nodi L’homme regarde une image et voit une réalité. Il regarde un dessin et voit des choses. Il regarde des choses et voit des actes, des opérations possibles. Ce possible seul donne toute leur valeur à ces choses vues. Paul Valéry 1
Nei Nodi plastici di Jorge Eielson si rimane incantati dal movimento che erompe e che invade letteralmente lo spazio della tela. Torsioni e pieghe contribuiscono a creare tale dinamismo. Le torsioni dischiudono le dimensioni dello spazio pittorico, mentre le pieghe si aprono in esso come raggi formanti caustiche di luce o ventagli che generano spettri di colore. Klee, Mondrian, Bill, Duchamp, Picasso, Miró, Burri, Matta, Hains e Fontana sono gli artisti che più hanno lasciato un’impronta profonda e duratura sul lavoro di Eielson. lI nodo, infine, sposta e per certi versi elimina le barriere temporali oggettive e tradizionali, rimescolando passato, presente e futuro. Vengono in mente le parole di Thomas Elliot in Four Quartets, poema sull’esperienza nel tempo e al di là del tempo, la cui prosa e poesia ha esercitato un fascino profondo e duraturo sull’artista peruviano: Tempo presente e tempo passato Sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo è eternamente presente Tutto il tempo è irredimibile. 2
1 2
P. Valéry, Cahiers, vol. II, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1974. T. Eliot, Four Quartets (“Burnt Norton”), Faber and Faber, London, 1943.
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Per Eielson il nodo era molto più di un oggetto ripetitivo: era un archetipo, una forma primordiale della scrittura3, la matrice dell’atto creativo, la quintessenza del mondo, il suo nucleo più peculiare, una specie di crocevia dove il locale e il globale, l’individuo e il cosmo, il singolare e l’universale si ricongiungono senza mai, tuttavia, annullarsi o identificarsi. Il nodo gli appariva come l’espressione più alta e nobile dello sforzo e del gioco, dell’energia e del riposo, dell’equilibrio e dell’instabilità, dell’amore e della tensione, dell’unità e della diversità. Il nodo racchiude in sé come in un nocciolo, compattandolo quindi al più alto grado, un universo invisibile e in parte latente di dimensioni spaziali, di traiettorie temporali, di energie da liberare, di tensioni da propagare, un mondo di storie, riti, miti, simboli, sentimenti, attese e speranze. Esso racchiude insomma un oceano di vita. “I nodi – scrive Eielson – sono la cristallizzazione di un processo interiore tuttora in atto. La loro armonia è dovuta alla presenza dello spazio, di un vuoto pieno di energia, quella del nodo, che comunica un po’ dell’armonia del mondo.” 4 Qui vanno sottolineati due punti importanti: il primo è che il vuoto (quello quantico), sottoposto a un certo tipo di fluttuazioni termiche o di transizioni di fase, può prendere la forma di una singolarità spaziale di tipo nodale; il secondo è relativo al fatto che quando l’organizzazione di sistemi fisici come i fluidi presenta
3
Negli stessi termini si è espresso Italo Calvino, sottolineando come i nodi rappresentino il culmine dell’astrazione mentale e della manualità. Si parla del nodo come segno interno, cifra e modello, allo stesso tempo precondizione e vincolo. Come osserva Alfonso D’Aquino: “[…] Eielson ha realizzato un’infinità di lavori tessili e pittorici con nodi, che sono senza dubbio, nella loro immediata plasticità, la rappresentazione non-verbale di un’immagine poetica. Per esempio, parte di un testo in cui Jorge Eielson evoca i nodi degli indios del Perù che appare nel romanzo – tanto caotico quanto geometrico – El cuerpo de Giulia-no, ci suggerisce, come lettori di Eielson, una possibilità di lettura che prende spunto da una conoscenza extralinguistica. Se i colori nelle sue poesie, quanto le sinestesie fuori dalle pure parole, hanno un ruolo così importante all’interno della sua ampia sperimentazione artistica, allora sarà possibile fare una specie di lettura sinestetica della sua poesia che ci permetta di leggere, insieme a ciò che è scritto, qualcos’altro. Se la lettura è il punto che demarca la distinzione tra la poesia ‘scritta’ e le altre forme che potrebbe adottare, il linguaggio dei nodi, al di là della leggibilità, ci porterebbe alla decifrazione di tale scrittura togliendola dal suo contesto esclusivamente letterario e riportandola alla sua originale ‘identità precosciente’, nella quale i colori, i suoni, le forme e i sensi non riconoscono le differenze esterne.”(A. D’Aquino, “La scrittura vuota”, cit.). 4 J.E. Eielson, Il dialogo infinito, cit.
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una struttura di tipo nodale, la dissipazione di energia nel sistema sarà ridotta al minimo. Il nodo è il luogo dove il reale e il possibile si incontrano, dove il reale può realizzarsi in più mondi possibili; è nel contempo materiale e immateriale. Il nodo vive in una dimensione temporale, quella dell’esistenza dell’artista e degli altri esseri viventi, ma è anche una continua sfida al tempo, soprattutto al tempo unidimensionale e lineare della fisica “classica”. Il nodo è simmetria e armonia, ma è anche ribellione e irriverenza; sorprende, stupisce, incanta e commuove. I modi di rappresentazione e di manifestazione di questo straordinario oggetto topologico fanno parte di un linguaggio dai caratteri e dai significati inesauribili. Questi caratteri compongono una geometria e una musica le cui variazioni si succedono senza fine. Nella scienza, e particolarmente nella matematica, il nodo è il culmine dell’astrazione mentale, ma è anche l’espressione più intima della materializzazione di un modello ideale. Del resto, Eielson concepiva la matematica come un’esplorazione umana delle forme del mondo, un’esplorazione che dà piacere, sorpresa e bellezza. La sentiva come un’altra forma di arte, in cui il vero e il bello possono armonizzarsi: Peccato che questa presa di coscienza sull’importanza del ruolo della bellezza, a tutti i livelli del reale, non riesca a diffondersi. Fuori dall’ambito artistico, ha un ruolo fondamentale nell’equilibrio dell’ecosistema, nella formazione degli infiniti materiali e sostanze che conformano il nostro habitat naturale, nella formulazione di nuove teorie fisiche e matematiche, la cui rigorosa armonia non ha niente da invidiare alle più alte opere d’arte o alle meraviglie della natura. Per un artista la bellezza è Dio. Anche se l’artista è pagano, ateo o agnostico.5
Il nodo rispecchia l’elasticità, la fluidità e le possibilità di cambiamento del mondo, dei mondi, ma anche della mente e delle nostre percezioni. Scrive Eielson: “Come nella topologia dei nodi, questi si modificano con estrema flessibilità passando dal mondo fenomenico, tridimensionale e quotidiano, a dimensioni mentali, che talvolta sfuggono alla nostra percezione.” 6 Senza l’oggetto-
5 6
J.E. Eielson, “Vedere evocare cantare Roma”, cit. Ibidem.
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Verità e bellezza Sull’importanza del criterio estetico, per la scoperta scientifica e la creazione di nuovi concetti che cambiano il nostro modo di vedere il mondo, hanno particolarmente insistito grandi matematici e fisici come Henri Poincaré, Hermann Weyl, Albert Einstein, René Thom e Subrahmanyan Chandrasekhar. In tempi più recenti, l’interesse profondo per la teoria delle stringhe si deve in gran parte alla ricchezza e alla bellezza delle sue strutture matematiche e all’eleganza formale delle sue spiegazioni fisiche. Scrive Poincaré nel 1912: “Lo scienziato non studia la natura perché ciò è utile, ma perché ne trae piacere, e ne trae piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non meriterebbe di essere conosciuta, e la vita stessa non meriterebbe di essere vissuta […] Per ‘bellezza’ intendo quella bellezza intrinseca che scaturisce da un ordine armonioso della natura che si crea tra le sue parti, e che la sensibilità pura può cogliere […] Ed è perché sia la semplicità sia l’infinitezza godono di questa proprietà intrinseca della bellezza, che noi preferiamo spiegare quei fatti che pensiamo essere semplici e infiniti; ed è per la stessa ragione che proviamo un vero piacere nel ritracciare il movimento dei corpi celesti, nello scrutare con l’aiuto di un microscopio la straordinaria piccolezza del mondo microscopico, che è anche la sua immensità, e nello scoprire, studiandone le età geologiche, le tracce del passato, che ci attira per la sua esistenza remota.” (Henri Poincaré, Science et Méthode, Flammarion, Paris, 1908). L’astrofisico di origine indiana Subrahmanyan Chandrasekhar scrive nel 1987, a proposito del rapporto tra bellezza e verità nella scienza: “È perciò chiaro che una teoria elaborata da uno scienziato, che presenta una sensibilità estetica eccezionalmente ben sviluppata, può dimostrarsi vera anche se al momento della sua formulazione sembrava non esserlo. Come scriveva Keats molto tempo fa ‘Ciò che l’immaginazione coglie come bello deve essere vero, che esistesse prima o no’. È davvero incredibile come ciò che la mente umana, nei suoi recessi più profondi e segreti, percepisce come bello si trovi realizzato in natura. Ciò che è intelligibile è anche bello.” (S. Chandrasekhar, Truth and beauty: aesthetics and motivations in science, University of Chicago Press, Chicago, 1987).
nodo, la forma-nodo, l’universo-nodo, la vita sarebbe impensabile, le relazioni tra gli esseri sarebbero povere e rare, i mondi materiali e i pensieri spirituali nascerebbero e sparirebbero senza mai incontrarsi. La ricerca scientifica conferma sempre più l’intuizione e l’immaginazione dell’artista, mostrando il ruolo fondamentale che ha avuto e che ha il nodo: da un lato, nell’origine e nel mantenimento della vita (il DNA si annoda e il cromosoma anche, ed è da lì che prende inizio ogni nuovo ciclo della vita, grazie al processo genetico ed epigenetico della replicazione); dall’altro, nella nascita e nell’espansione del nostro universo, mai uguale a se stesso.
Il movimento plastico e il tempo non lineare dei nodi
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La teoria delle superstringhe propone un modello della realtà quantistica in cui lo spazio fisico e le particelle di materia che in esso vibrano non sono altro che uno spazio fatto di corde che si annodano in continuazione, dando luogo a tutte le forme di materia e a tutti i fenomeni fisici noti. Lo spazio delle stringhe contiene dimensioni “nascoste” (dette anche “dimensioni cilindriche”) che si arrotolano su se stesse formando nodi o catene di nodi. Si può dire che Eielson era alla ricerca di una luce segreta. Verosimilmente pensava che la luce dell’universo e dello spirito fosse proiettata da nodi brillanti di energia che tengono insieme i fili del tessuto cosmico e della rete delle cellule nervose. Allo stesso tempo, i nodi gli apparivano capaci di accogliere e di conservare un mondo invisibile di colori, forme, forze ed eventi. Il brano che segue è molto importante per capire la profondità e il valore del suo pensiero: La metafora della rete, come quella del nodo (e non c'è rete senza nodi, evidentemente), è anche la metafora dell'esistenza, fin dalla catena di nodi spiraloidi che costituisce il DNA primordiale della vita, fino all'insondabile pacchetto di nervi e neuroni che confermano quel miracolo dell'evoluzione che è il cervello umano, tutta la nostra esistenza è la storia di una struttura che, per sopravvivere, deve continuamente inventarsi un'infinita rete di informazioni e di rapporti interattivi che allarghino il suo orizzonte vitale.7
Si può tentare di riassumere l’opera di Eielson affermando che è riuscito ad annodare l’arte e la matematica, la materia e la vita, il corpo e lo spirito, il sublime e l’esperienza quotidiana, il sacro e il profano. Per Eielson, annodare significa far incontrare e incrociare linguaggi espressivi differenti e forme di conoscenza diverse. Agli inizi del secolo scorso, Albert Einstein ha intrecciato spazio e tempo in un tessuto spazio-temporale a quattro dimensioni, vero e proprio teatro di un universo in cui la geometria e gli eventi fisici sono entrambi dinamici, il che significa che essi mutano e si evolvono continuamente nel tempo. Una scoperta geniale che, come si sa, ha rivoluzionato la fisica. Con la sua intuizione e immaginazione, Eielson ha osato annodare materia, spazio e tempo creando
7
J.E. Eielson, La scala infinita, cit.
a
b
c
Fig. 9.1 Un nodo può deformare lo spazio-tempo, non solo perché gli conferisce una certa curvatura locale e globale, ma anche perché crea una o più singolarità topologiche nella sua struttura, modificandone la forma. La presenza di nodi nello spazio-tempo può produrre cambiamenti il cui significato fisico-geometrico è particolarmente rilevante. a Un primo cambiamento può essere la creazione di massa ed energia. Ovvero, si può verificare la comparsa di materia addizionale nella regione fortemente annodata dello spazio-tempo. b Un secondo possibile cambiamento è dato dalla variazione della geometria e del tempo nell’intorno del nodo (nuove dimensioni spaziali e temporali potrebbero così emergere): la geometria diventa sempre più contorta e aggrovigliata man mano che ci si avvicina al nodo, le distanze si accorciano, il volume spaziale si restringe e le traiettorie temporali si riducono ed eventualmente si intersecano. c I nodi (e altre strutture, come i vortici) sono deformazioni locali che inducono una forte compattazione della geometria dello spaziotempo, con diverse possibili conseguenze. Possono verificarsi l’aumento della curvatura e la comparsa di pieghe e altre rugosità; la formazione di nodi può anche causare la transizione dello spazio e dell’universo da uno stato di espansione più o meno uniforme a uno stato di forte contrazione, che ha come effetto il rallentamento dell’espansione dello spazio e dell’universo, riducendola a un volume finito; le traiettorie dei “quanti di energia” (ossia delle particelle come il fotone) sarebbero allora assimilabili a flussi il cui moto avverrebbe lungo le increspature della topologia estrinseca dello spazio-tempo. Altre particelle quantiche di materia potrebbero essere assimilate sia a strutture spaziali, con massima torsione come i nodi nel caso degli adroni, sia a vortici di linee fortemente curvate come nel caso dei leptoni
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così un nuovo linguaggio e un universo magico e straordinario, da cui recentemente la matematica, la fisica e la biologia traggono sempre più ispirazione per tentare di capire il mondo e la vita. Con il suo linguaggio dei nodi, palpitanti e vibranti, Eielson ha aperto nuovi orizzonti alla creazione artistica, alla ricerca scientifica e alla riflessione filosofica. La teoria della relatività generale implica che lo spazio e il tempo, anzi lo spazio-tempo, non hanno una loro esistenza autonoma, ma sono tributari dell’energia e della materia. La forma dello spazio può, a sua volta, influenzare il comportamento della materia e della radiazione. Secondo la teoria delle superstringhe, le proprietà del mondo fisico scaturiscono dalla struttura nodale dello spazio, chiamato dai matematici e dai fisici teorici “spazio di Calabi-Yau”, dal nome dei due matematici (tra i più noti e originali del secolo scorso) che hanno introdotto tale concetto. Si tratta di uno spazio multidimensionale i cui elementi di base non sono più gli “atomi” di Democrito o i punti di Newton e neanche quelli di Einstein, ma stringhe o lacci capaci di annodarsi e di avvolgersi su se stessi, dando luogo a forme spaziali sempre più complesse. Il passaggio da un nodo a un altro esprime una transizione tra uno stato dell’universo e un altro, tra un livello di energia e un altro, tra una forma di vita e un’altra. Nello scenario proposto recentemente dal fisiso teorico Gabriele Veneziano questa transizione non sarebbe affatto unica nella storia cosmica, ma sarebbe una delle infinite (violente) transizioni cui il cosmo va incontro nel corso della sua storia eterna. Ciò significa che anche il nostro universo non finirà mai, ma subirà a sua volta una forte transizione, dopo la quale inizierà una “nuova” storia. Cosicché potremmo dire che il tempo, il “nostro” tempo, non è che uno degli intervalli in cui si divide l’eternità. L’aver messo in campo degli oggetti filiformi, minuscoli oggetti cilindrici vibranti (le corde vibrano naturalmente come onde che si muovono alla velocità della luce), consente a Veneziano e agli altri teorici delle stringhe di superare il paradosso autodistruttivo della relatività generale un momento prima che, riproiettando all’indietro il film della storia cosmica, l’intero universo precipiti in quell’assurdo fisico che è la singolarità iniziale. Se negli istanti successivi al Big Bang la velocità di espansione del nostro universo tende a diminuire, negli istanti precedenti il Big Bang essa tende ad aumentare. In questo scenario non vi è alcuna singolarità iniziale, ma solo una violenta transizione tra uno stato dell’universo e un altro. L’ipotesi che l’universo abbia una
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storia che precede il Big Bang, che vi sia un tempo prima del (nostro) tempo, che il cosmo protenda la sua esistenza tra l’eternità e l’eternità è suggestiva. Ed è intrigante anche dal punto di vista dei fisici, perché consentirebbe di rendere normali e prevedibili quelle modalità evolutive dell’universo che nell’attuale “modello standard” della cosmologia appaiono come “ipotesi ad hoc”, elaborate per tenere insieme i fatti. Ci riferiamo, per esempio, all’ipotesi dell’espansione inflazionaria del nostro universo elaborata da Paul Steinhardt, Alan Guth e Andrei Linde. Lo scenario dell’inflazione di questi autori e quello del “pre Big Bang” di Veneziano non sono solo mere speculazioni metafisiche, ma propongono previsioni verificabili. Lo scenario di Veneziano, per esempio, prevede l’esistenza nel nostro universo di onde gravitazionali fossili di un passato che precede il Big Bang. Queste onde fossili devono avere una certa frequenza e una certa densità di energia, che sono diverse sia da quelle predette dal “modello standard” sia da quelle dello scenario dell’inflazione. Jorge Eielson si sentiva molto vicino a queste nuove teorie cosmologiche, poiché vi vedeva una conferma della sua visione intuitiva che ha radici culturali e filosofiche lontane, per la quale il tempo non esiste, o piuttosto esiste una molteplicità di temporalità, e l’universo non ha né inizio né fine. Da questo punto di vista, la teoria del Big Bang, che fissa un inizio assoluto (la nascita) dell’universo, gli sembrava sbagliata, non meno assurda di quelle teorie che riducono lo spazio a una semplice “polvere” di punti, o che vedono nello spirito un mero aggregato di atomi e molecole.
CAPITOLO 10 Il mondo elastico delle corde e il tessuto cosmico della materia Busca por el agrado de buscar, no por el de encontrar... Jorge Luis Borges1
Il mondo immaginato dalla fisica attuale (e in particolare dalla teoria delle supercorde) è un mondo elastico2. Si pensa per esempio all’esistenza di corde elastiche e tese tra due quark e vibranti in molte configurazioni oscillatorie diverse. La grande intuizione è stata quindi immaginare che le forze che tengono unite le particelle “elementari” siano assimilabili a corde elastiche con due estremità libere oppure congiunte. A ciascuna estremità si immagina di attaccare un quark, o meglio un quark a un’estremità e un antiquark all’altra. A questo punto, molte particelle non sono altro che stati eccitati rotanti o vibranti di tali corde. Altre particelle (mesoni, barioni, glueball) sono oggetti complessi che possono vibrare e oscillare nelle configurazioni più diverse. 1
J.L. Borges, Elogio de la sombra, Emecé, Buenos Aires, 1969. Può essere interessante osservare che l’elasticità è una proprietà fondamentale degli oggetti materiali che popolano il mondo fisico. Molte sostanze sono costituite di atomi, e sono sempre le forze elettriche derivanti dalle cariche degli elettroni e dei nuclei a tenerle insieme. Numerosi esperimenti dimostrano che esse reagiscono in modi diversi a una forza meccanica che cerchi di cambiarne la forma. Questi esperimenti hanno tutti qualcosa in comune: applichiamo una forza meccanica a un campione di una sostanza e osserviamo il cambiamento di forma che ne risulta. Se la forza è abbastanza piccola, questo cambiamento è proporzionale alla forza stessa ed è reversibile; in altre parole, per forze fino a una certa intensità il cambiamento è, qualitativamente, sempre lo stesso. In questi casi di dice che la sostanza si comporta elasticamente; l’elasticità prevale fino a una certa forza massima oltre la quale, cessando la forza stessa, la deformazione non scompare. A questo punto la sostanza ha raggiunto il suo limite elastico; la forma e le dimensioni sono cambiate di qualche decimillesimo. Oltre il limite elastico, la sostanza va a pezzi (fragilità) oppure rimane deformata in permanenza (deformazione plastica). 2
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Per esempio la corda che connette le estremità di un mesone può vibrare come una molla o come una corda di violino; può anche ruotare intorno a un asse, con la forza centrifuga che la tende formando un adrone mulinante come un’elica. Le relazioni tra tutte queste particelle formano un diagramma molto complicato, composto da un enorme numero di vertici e di propagatori. Man mano che si aggiungono vertici e propagatori, le maglie si infittiscono e il reticolo diventa sempre più approssimabile a una superficie continua. Vista da lontano, dunque, una superficie di universo appare liscia, ma se potesse essere osservata a distanza estremamente ravvicinata rivelerebbe la struttura di un diagramma di Feynman, simile a una rete da pesca o a un canestro da basket (Fig. 10.1).
Fig. 10.1 Vista da lontano una regione (o superficie) di universo ci appare liscia, ma se potessimo osservarla al massimo ingrandimento si rivelerebbe un diagramma di Feynman, con un aspetto che si può immaginare simile a quello di una rete da pesca o di un canestro da basket
Fig. 10.2 In basso a sinistra: una sezione macroscopica locale di un diagramma di Feynman che rappresenta una giunzione a Y (un vertice e tre propagatori). Qui a fianco: la stessa sezione modellata nell’opera di J.E. Eielson, Quipus 64 B, 1992. In basso a destra: questo quipu di Eielson, così come lo proponiamo modificato, può anche servire a modellare certi sistemi dinamici a un gran numero di componenti (per esempio particelle o molecole) e la cui principale caratteristica è di ammettere l’esistenza di transizioni di fase (geometricamente, biforcazioni in uno spazio di fasi)
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Nel seguito affrontiamo alcuni aspetti delle importanti relazioni tra la teoria dei nodi e la fisica, in particolare la meccanica statistica. (Si suggerisce al lettore che non abbia familiarità con questi argomenti di saltare le parti più tecniche.) Agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, il matematico Naughan Jones scoprì che esiste una connessione inaspettata tra un invariante polinomiale di nodi a una variabile, V(t) (molto più generale dell’invariante polinomiale di Alexander), e la meccanica statistica delle transizioni di fase (metodo di Rodney J. Baxter). Per passare dalla teoria dei nodi ai modelli della meccanica statistica, bisogna trasformare i nodi in grafi. Si comincia col colorare, come su una dama, una regione su due adiacenti del diagramma di un nodo o di una catena di nodi (link). Per estrarre un grafo si identificano le regioni colorate ai vertici e gli incroci ai lati. I lati devono essere considerati positivi o negativi a seconda della disposizione degli incroci e delle regioni colorate. Per determinare questo segno si procede diminuendo le zone colorate nell’intorno dell’incrocio facendo ruotare il pezzo superiore della corda al di sotto del pezzo inferiore; si associa così al vertice il segno + se si vuole ruotare in senso orario, e il segno – se si vuole ruotare in senso antiorario. In tal modo si può dimostrare che, applicando una mossa di Reidemeister di tipo III al grafo, si ottiene necessariamente la “relazione stella-triangolo” nel modello bidimensionale di Ising, la cui soluzione (del 1944) si deve al matematico norvegese Lars Onsager. Questo modello subisce una transizione di fase. Generalizzando il modello di Onsager, nei primi anni Ottanta Baxter ottenne un risultato importante noto come “modello di spin”. Il punto interessante è che un movimento che lascia invariato il diagramma di un nodo (come quello di Reidemeister) lascia anche invariata la funzione di partizione per esempio di un modello di Ising, che si può direttamente derivare da un diagramma di nodo. Per studiare il comportamento di questi sistemi dinamici, che hanno un ruolo fondamentale nella fisica delle transizioni di fase, si può introdurre la cosiddetta “relazione stella-triangolo”. In meccanica statistica si considerano degli insiemi che comportano un gran numero di particelle le cui proprietà individuali sono molto semplici. Nella teoria dei nodi, tali proprietà corrispondono a piccoli nodi aventi caratteri molto fini. Consideriamo qui il caso della meccanica statistica: allo scopo di studiare le transizioni di fase (come la congelazione o la fusione), i fisici hanno elaborato diversi modelli di interazione tra i
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suoi costituenti elementari detti “modelli di spin”; si tratta di aggregati semplificati definiti a partire da strutture reticolari. Ogni punto della rete possiede uno “spin”, e l’energia dell’interazione tra questo punto e il punto della rete a esso più vicino dipende dai valori dei due “spin”. La funzione di partizione del modello è la seguente:
∑stati exp –E(stati)/kT dove k è la costante di Boltzmann. La relazione “stella-triangolo” – che si può applicare solamente a certi modelli di spin, quali il modello di Ising e il modello a Q stati di Potts – indica che le funzioni di partizione dei due modelli di spin rappresentati qui sotto sono proporzionali.
∑ exp – [E(A, B) + E(A, C)]/kT = R ∑ exp –[E(A, D) + E(B, D) + E(C, D)]/kT La relazione precedente si applica anche al cosiddetto “modello dei vertici”, dove gli “spin” sono situati sui lati di un grafico e dove l’energia è calcolata in funzione di quattro “spin” che si incontrano in uno stesso vertice. Per un “modello di vertice”, la “relazione stellatriangolo” corrisponde all’equazione di Yang-Baxter.
∑ BSY exp – [E(A, B|X, Y) + E(R, S|B, C) + E(Y, Z|S, T)]/kT = = ∑ BSY exp – [E(A, B|S, T ) + E(X, Y|R, S) + E(B, C|Y, Z)]/kT
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Rμν –1/2 gμν R = 8πκTμν L = 1/4 g2 ∫Tr F ∧ *F Fig. 10.3 Un nuovo tipo di diagramma, dove le particelle interagiscono secondo un movimento vibratorio legandosi al nodo (che può essere concepito come un campo fisico e allo stesso tempo come un oggetto topologico singolare). Si può anche parlare di diagramma di Feynman estremamente complicato, ma definito su uno spazio-tempo a forma di nodo, per cui i vertici e
i propagatori della rete tra loro intrecciati corrispondono a generatori di nodi. Questi diagrammi nodali possono rappresentare processi che coinvolgono un numero qualsiasi di particelle. In questo modo la materia e gli oggetti semplici e complessi di cui è costituita potrebbero emergere dalle diverse interazioni tra questi processi
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Da quest’altra visione della realtà fisica, scaturiscono alcune idee radicalmente nuove. Riassumiamole.
• La materia è forma o processo, piuttosto che cosa o sostanza. • L’idea che esista una sorta di sovrapposizione di una moltepli-
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cità di storie possibili dell’universo, che coesistono, si intersecano e si intrecciano costituisce un elemento centrale della teoria quantistica. La fisica attuale ricerca una sorta di “armonia del mondo”, un’armonia di cui il nodo sarebbe l’espressione. Diverse classi di nodi equivalenti potrebbero esistere e corrispondere alle diverse scale di organizzazione della materia, sintetizzando così la straordinaria complessità fenomenica dell’universo. Le corde e i nodi che esse formano sarebbero la stoffa del mondo, la stoffa di cui noi stessi siamo composti. Se potessimo immergerci nel cuore della materia, scopriremmo molto probabilmente che tutto è formato di corde e di nodi che “vivono” in uno spazio multidimensionale (a 10 dimensioni). Un tale mondo sarebbe allo stesso tempo reale e immaginario, formato di tante sovrapposizioni non-lineari… di tante forme, testure, colori diversi. L’immagine attuale della fisica e della matematica è quella di un intreccio di universi possibili, un vortice di particelle, dove ogni singolo dialogo tra oggetti, forme ed eventi è allo stesso tempo un altro dialogo, un’infinità di altri dialoghi.
La teoria delle supercorde, sviluppata a partire dall’inizio degli anni Ottanta, costituisce una rivoluzione concettuale ancora più radicale della nostra concezione del mondo fisico e dello spaziotempo. È ben noto che nella teoria quantistica dei campi (come pure in teorie recenti come la supergravità) si pensa che i costituenti di base della materia, cioè le cosiddette particelle elementari, siano di natura puntiforme (discreta). Si ritiene inoltre che le interazioni tra le forze fondamentali della natura debbano essere interpretate come scambi di particelle “messaggere” di tipo puntiforme, ossia quanti del campo di gauge. La teoria delle supercorde rigetta ambedue gli assunti. Primo, le particelle elementari potrebbero avere una struttura interna il cui comportamento rispecchierebbe le proprietà di oggetti matematici assai complessi; in altri termini, a distanze estremamente piccole (dell’ordine di Δ x ≅ 10–33 cm, corrispondenti a energie E ≅ MPl c2 ≅ 1019 GeV, dove MPl è la cosiddetta massa di
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Planck) le particelle che noi percepiamo come puntiformi potrebbero rivelarsi oggetti estesi, come sono appunto le corde, ed essere descritte da uno schema teorico più generale rispetto al quale l’ordinaria teoria dei campi sarebbe un limite di bassa energia o di grandi distanze. Secondo, invece di comportarsi come punti, queste stesse particelle avrebbero una certa estensione spaziale, capace di trasformarsi e di produrre strutture spaziali intricate e multiformi che potrebbero essere all’origine della grande varietà di comportamenti di molti fenomeni fisici. È chiaro che le ipotesi precedenti conducono a modificare profondamente il tipo di ontologia che si può attribuire alle entità fisiche appartenenti a strutture concettuali caratteristiche delle principali teorie fisiche sviluppate in tempi recenti. Secondo la teoria delle supercorde, tutte le particelle elementari alle quali si è sempre associata l’immagine di punti infinitamente
Fig. 10.4 J.E. Eielson, Nodo e corda, 1968
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piccoli, privi di qualsiasi struttura interna, assomiglierebbero in realtà a lacci microscopici (aperti o chiusi) che si spostano attraverso lo spazio con un movimento vibratorio. Mentre nell’immagine di una particella come un punto si pensava che questo si muovesse nello spazio tracciando una linea detta “linea-universo”, nella teoria delle supercorde a ogni istante la suddetta particella si comporta in realtà come un laccio infinitamente piccolo, che per effetto del suo movimento vibratorio (e secondo determinate condizioni fisiche) può trasformarsi in una sorta di corda annodata o di cappio aggrovigliato. Così, muovendosi attraverso lo spazio nel corso del tempo, il cappio descrive qualcosa che assomiglia a un tubo, a una specie di cilindro che può anche torcersi e arrotolarsi più volte su se stesso. Inoltre, tale oggetto può a sua volta muoversi nell’enorme spazio a 11 dimensioni delle corde (definito da tutte le possibili configurazioni di una corda; questo numero è molto maggiore del numero di punti dello spazio), creando così una famiglia di diverse forme spaziali, nello stesso modo in cui un nodo, se immerso nello spazio tridimensionale (ossia deformato in differenti modi in R3), può creare una grande varietà di superfici con nuove proprietà topologiche. Stando alla teoria delle supercorde, il moto di questi oggetti spaziali complessi è ciò che corrisponde realmente alla traiettoria di una particella nello spazio-tempo alla scala di Planck. Ciò ha portato a pensare che le componenti atomiche e subatomiche della materia – gli atomi e gli elettroni in orbita intorno al nucleo, i protoni e i neutroni che formano lo stesso nucleo, cosi come i quark – siano in effetti oggetti estesi unidimensionali, le corde. Le corde postulate dalla teoria sono dell’ordine di grandezza della distanza di Planck LPl ≅ 10–33 cm, cioè circa 1020 volte più piccole del diametro del protone, e sono definite in uno spazio a 11 dimensioni; sette di queste non sono visibili e si possono osservare soltanto le familiari quattro dello spazio-tempo. Le sette dimensioni aggiuntive sono compattificate, ovvero ripiegate o arrotolate su se stesse da effetti quantistici della gravitazione, e hanno un raggio di curvatura dell’ordine delle dimensioni delle corde, così da formare una struttura talmente piccola da non poter essere osservata direttamente. Tutte le particelle conosciute sono dunque comparate a corde – chiuse o aperte, annodate o sciolte, arrotolate su se stesse o dispiegate – che vibrano nello spazio secondo i modi di vibrazione armonici determinati dalla loro tensione: le comuni particelle
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elementari sono perciò interpretate come modi (stati) di vibrazione differenti di una sola corda. Per separare un quark all’interno di un adrone, è necessario fornire un’energia proporzionale alla separazione desiderata, come se i quark fossero tenuti insieme da una molla. Questa quantità di energia corrisponde alla cosiddetta costante di proporzionalità (detta tensione della corda T), che è l’analogo della costante della molla; il suo valore numerico è dell’ordine di 1013 GeV/cm. Così, nel mondo delle corde l’adrone è un “oggetto” esteso e dinamico, altamente elastico, privo di strutture puntiformi, e quindi incapace di sostenere urti violenti (di tensione infinita). Le particelle costituiscono pertanto una sorta di combinazione delle loro proprietà intrinseche (fisiche) e delle vibrazioni attraverso lo spazio (proprietà geometriche e topologiche). Le proprietà intrinseche corrispondono alle loro simmetrie interne, rappresentate matematicamente da un certo gruppo di trasformazioni che può essere anche molto complesso (per esempio, le teorie delle supercorde che sono esenti da anomalie quantistiche possiedono una simmetria di gauge quantistica di tipo SO(32) o E8 × E8, e la dimensione dello spaziotempo è uguale a 10). Le proprietà fisiche delle particelle appaiono quindi come altrettante caratteristiche di certe forme spaziali risultanti dai diversi movimenti vibratori delle corde. La teoria delle supercorde è forse oggi la teoria più coerente per la gravità quantistica. La gravità quantistica sembra mettere in gioco energie molto superiori a quelle raggiungibili o comunque ipotizzabili. Non è affatto chiaro, al momento, quali predizioni della teoria delle supercorde possono essere sottoposte al vaglio degli esperimenti. Oltre a spiegare realisticamente le interazioni di Yang-Mills, la teoria delle supercorde sembra essere in grado, contrariamente alle teorie di KaluzaKlein, di spiegare l’osservata chiralità dell’interazione debole, purché essa sia formulata in uno spazio a 11 dimensioni (le quattro dello spazio-tempo ordinario più le sette non visibili e compattificate). Ancora più importante è che la teoria delle supercorde sembra essere l’unica teoria della gravità quantistica capace di ovviare al problema concettuale e generale dei cosiddetti infiniti (o divergenze), praticamente presenti in tutte le teorie quantistiche dei campi. (Si sa per esempio che nell’elettrodinamica classica l’energia del campo elettrico generato da un elettrone puntiforme è, strettamente parlando, infinita). Un aspetto concettuale particolarmente interessante è che la teoria
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delle supercorde rappresenta una teoria finita di tutte le interazioni: interazioni di gauge non abeliane e interazioni gravitazionali. In altre parole, la teoria è priva di parametri arbitrari; ciò deriva dalla sua finitezza e dalla sua grande simmetria. Resta il fatto, tuttavia, che la teoria delle supercorde presenta alcuni limiti e problemi fondamentali. Un problema importante è che non si conosce ancora la dinamica che determina il vero stato fondamentale della teoria e le sue proprietà. Inoltre, le predizioni principali della teoria delle supercorde non hanno ancora trovato conferma sperimentale; in particolare non ha trovato evidenza la sua ipotizzata supersimmetria. Le forme spaziali, cui le vibrazioni e le oscillazioni delle corde possono dare luogo, sono oggetti topologici spesso molto complessi, che “vivono” nello spazio fisico delle particelle quantistiche. Per esempio, la carica elettrica può essere concepita come un effetto prodotto dal movimento di una corda, piuttosto che come qualcosa che si aggiunge all’oggetto fondamentale della teoria, cioè alla particella. Più in generale, secondo questa teoria le proprietà fisiche emergerebbero dalle deformazioni cui sarebbe soggetto un certo tipo di oggetti topologici – quali corde, cilindri, tori, anse e nodi – nello spazio dei fenomeni quantistici alla scala di Planck. In accordo con le teorie recenti – che proseguono, estendendolo all’insieme delle forze che esistono in natura, il programma di geometrizzazione della fisica iniziato con la relatività generale di Einstein – si può pertanto affermare che le proprietà e i comportamenti dei fenomeni fisici a un livello fondamentale emergono dalle classi di deformazioni cui è soggetta la forma topologica dello spazio e dello spazio-tempo, peraltro senza che queste diverse topologie siano omeomorfe tra loro. La “realtà fisica” può allora essere vista più come un processo geometrico-topologico di tipo dinamico che come uno stato meramente fisico, o quantomeno come una combinazione dei due, e le proprietà degli enti fondamentali della fisica a certe scale non possono più essere descritte e spiegate rifacendosi alla loro presunta natura sostanziale, ma tramite le loro trasformazioni spazio-temporali e le loro simmetrie interne. Secondo la teoria delle supercorde, per ogni corda aperta o chiusa, esistono diverse configurazioni di vibrazione, e configurazioni diverse corrispondono a tipi di particelle differenti; le proprietà di una particella – per esempio, la sua massa, la carica elettrica, le cariche in rapporto alle interazioni debole e forte –
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sono tutte determinate dall’esatto stato vibratorio del laccio. Anziché introdurre una nuova entità indipendente per ogni particella, abbiamo ora una singola entità – la corda – di cui tutte le particelle sono costituite. Le particelle “messaggere” – fotoni, gluoni, bosoni W e Z – sono anch’esse piccoli cappi vibranti, e possiamo raffigurarci le interazioni tra particelle come un legarsi e uno sciogliersi di cappi. Pertanto, non vi è ontologia possibile della gravità quantistica nella teoria delle supercorde se non si considerano i diversi stati vibratori delle corde e le differenti forme topologiche cui essi danno luogo nello spazio-tempo. Dal punto di vista teorico, una delle predizioni più straordinarie della teoria delle supercorde comporta che lo spettro degli stati di una corda includa neccessariamente il gravitone, la particella che media le interazioni gravitazionali. È importante tuttavia precisare che lo statuto ontologico del gravitone non è lo stesso se lo si considera nel contesto teorico della relatività generale o in quello della teoria delle supercorde (una teoria quantistica della gravitazione). È ben noto che la forza elettrica tra due particelle cariche è dovuta a un continuo scambio di fotoni. Analogamente, possiamo immaginarci l’interazione gravitazionale come uno scambio di quanti di campo gravitazionale, chiamati gravitoni. E, di fatto, finché le particelle interagenti sono separate da grande distanza, questa descrizione funziona piuttosto bene. In tale caso, la forza gravitazionale è debole, e lo spazio-tempo è pressoché piatto (si è già visto che per la relatività generale la gravitazione è connessa intimamente alla curvatura dello spazio-tempo). Possiamo immaginare i gravitoni come minuscole “gobbe” che su questo sfondo rimbalzano tra le particelle; più precisamente, essi ci appaiono come effetti fisici creati dalle deformazioni singolari dello spazio-tempo indotte da una forte curvatura. A scale estremamente piccole, però, la situazione è affatto diversa. Su brevi distanze (inferiori alla lunghezza di Planck), le fluttuazioni quantistiche fanno sì che la geometria dello spazio-tempo acquisti una struttura simile a una schiuma. Non si ha ancora un’idea precisa su come descrivere il moto e l’interazione tra particelle in un simile ambiente caotico. L’immagine di particelle che si muovono in uno spazio-tempo omogeneo e senza asperità, lanciandosi l’un l’altra gravitoni, naturalmente non vale in questa situazione. La teoria delle corde non tratta di particelle puntiformi. Dal punto di vista teorico, le particelle potrebbero essere dotate di proprietà tipiche di “oggetti” spaziali estesi e provvisti di strutture
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interne, benché queste non siano percettibili a causa del debole potere risolutivo dei nostri mezzi di osservazione. Per esempio, le corde possono vibrare in molti modi quantizzati di oscillazione. Le corde di un violino possono emettere un’ampia gamma di suoni armonici. La corda può vibrare come un tutto unico, o come due metà indipendenti, con un nodo (punto stazionario) nel punto di mezzo. E può anche vibrare come se fosse composta di tre parti separate, o di un numero qualsiasi di parti, producendo quindi una serie di armonici. Lo stesso vale nella teoria delle corde. I diversi modi di vibrazione danno in effetti luogo a particelle di tipo diverso, ma questo in sé non è sufficiente per spiegare le differenze tra elettroni e neutrini, fotoni e gluoni, o quark up e quark charm. La chiave per spiegare la grande varietà di particelle elementari sta forse nei profondi cambiamenti nella natura dello spazio, e in particolare nella possibilità che esso, o una sua parte, sia compatto. Immaginiamo uno spazio bidimensionale, per esempio un cilindro liscio che può essere descritto come compatto (finito) in direzione y, ma infinito in direzione x. Ora, riduciamo la direzione y a un diametro di un micron; se lo guardassimo senza l’ausilio di un microscopio, il cilindro ci apparirebbe come uno spazio unidimensionale, una striscia infinitamente sottile; solo al microscopio l’oggetto si rivelerà in realtà bidimensionale, ma la seconda dimensione, quella della direzione y, rimane nascosta all’osservatore. Supponiamo adesso di ridurre ulteriormente il diametro della direzione compatta fino a portarlo alla lunghezza di Planck. Il processo tramite il quale alcune direzioni vengono rese finite, mentre altre sono lasciate infinite, è detto compattificazione. In altri termini, possiamo scegliere di nascondere un numero qualunque di dimensioni arrotolandole in un piccolo spazio compatto. La 2-sfera è solo uno dei modi in cui si possono compattificare due dimensioni. Un altro modo semplice è il toro: come la 2-sfera è la superficie di una palla, così il toro è la superficie di una ciambella, localmente equivalente alla palla relativamente a certe sue proprietà metriche, ma globalmente differente rispetto alle proprietà topologiche. Si possono usare molte altre forme, ma il toro è la più comune. Le dimensioni supplementari devono essere arrotolate in uno spazio compatto microscopico. Oggi le teorie con dimensioni supplementari compattificate sono dette teorie di Kaluza-Klein. La teoria delle supercorde rappresenta una generalizzazione straordinaria dell’idea originaria di Kaluza e Klein, che proposero
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di unificare i concetti di simmetrie interne e di simmetrie spaziotemporali riducendo il primo di essi al secondo attraverso l’introduzione di una dimensione spaziale supplementare, più precisamente una quinta dimensione spaziale che possiede la topologia del cerchio, vale a dire: x A = (x μ, x 5), dove x 5 ≡ (x 5 + 2πR). I diversi modi di compattificazione dello spazio, ovvero di avvolgimento delle sei dimensioni supplementari, e l’aggiunta di nuovi parametri dinamici fondamentali, correlati al moto nelle nuove direzioni, permettono di spiegare i meccanismi interni delle particelle elementari. La teoria delle supercorde offre molte più possibilità delle teorie con particelle puntiformi. Tornando al cilindro, supponiamo che sulla sua superficie si muova una piccola corda chiusa (un laccio). Dapprima ipotizziamo che abbia un raggio abbastanza grande da essere visibile a occhio nudo. Una piccola corda chiusa si muove sulla superficie cilindrica in maniera molto simile a una particella puntiforme: può muoversi parallelamente all’asse o girargli attorno in direzione perpendicolare. Da questo punto di vista la corda non differisce in alcun modo da una particella puntiforme; ma, a differenza della particella puntiforme, può avvolgersi attorno al cilindro, come un elastico di gomma attorno a un tubo di cartone. La corda avvolta è diversa da quella non avvolta. L’elastico in effetti si può avvolgere intorno al tubo un numero qualunque di volte, purché non si rompa. Ciò dà luogo a una nuova proprietà delle particelle: una proprietà che dipende non solo dalla compattificazione delle dimensioni spaziali, ma anche dal fatto che le particelle sono corde, ossia elastiche. La nuova proprietà si chiama numero di avvolgimento, e rappresenta appunto il numero di volte che la corda si avvolge nella dimensione spaziale compattificata. Il numero di avvolgimento è una proprietà della particella che non potremmo capire senza prendere in considerazione distanze piccole quanto il diametro della direzione compattificata, e le dimensioni complementari sono così essenziali per comprendere le complesse proprietà interne delle particelle elementari. Gli spazi a dieci dimensioni (le quattro dello spazio-tempo della relatività generale più le sei arrotolate in un minuscolo spazio esadimensionale) della teoria delle supercorde superano qualsiasi capacità di visualizzazione. La loro geometria può essere assai intricata, stratificata e multiforme: possiamo solo immaginarla e cercare di modellarla mentalmente. Per esempio, la teoria delle supercorde consente di arrotolare sei dimensioni spaziali in oltre un milione di modi. Questi spazi
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vengono chiamati spazi di Calabi-Yau: possono essere estremamente complicati, con centinaia di “buchi” (che permettono di definirne un invariante fondamentale, ossia il genere topologico3), migliaia di “manici” e altre stranezze e singolarità. Torniamo all’esempio “semplice” del cilindro bidimensionale. La lunghezza della circonferenza della sezione è detta scala di compattificazione; nel caso di un tubo di cartone è di qualche centimetro, ma nella teoria delle supercorde è molto probabilmente qualche lunghezza di Planck. Anche se così minuscole, simili lunghezze hanno un effetto sulla fisica ordinaria. La scala di compattificazione nella teoria di Kaluza-Klein fissa il valore della carica elettrica di una particella come l’elettrone, nonché la massa di molte particelle. In altre parole, determina diverse costanti che appaiono nelle comuni leggi della fisica. Variando il raggio del cilindro cambiano le leggi della fisica; trasformando il modo di avvolgimento delle dimensioni spaziali supplementari (cioè deformando la forma e la struttura interna dello spazio geometrico alla scala fisica della lunghezza di Planck) mutano i comportamenti delle interazioni e gli stati dei campi, e la comparsa di ben altri effetti fisici inaspettati può a sua volta modificare la struttura dello spazio e dello spazio-tempo. Vi è quindi un legame profondo tra il tipo di strutture geometriche e topologiche che caratterizzano lo spazio-tempo e le dinamiche (cioè simmetrie più proprietà fisiche) dei campi e delle particelle che “vivono” alla scala quantistica. L’“ontologia” della fisica, sviluppatasi fin dagli inizi degli anni Settanta per risolvere le anomalie concettuali presenti nel “modello standard”, esprime questo nesso strettissimo tra le strutture geometriche e topologiche variabili dello spazio-tempo e le diverse simmetrie interne (i numeri quantici) che determinano le proprietà caratteristiche delle interazioni conformemente alla natura dei parametri presenti nel modello. Ed è perciò che bisognerebbe qualificare tale ontologia come dinamica anziché statica, come interazionale anziché sostanziale. Cerchiamo di precisare la natura di tale legame con qualche esempio. Per descrivere il cilindro è sufficiente specificare un parametro, ossia la scala di compattificazione, ma altri tipi di spazio 3
Per una presentazione matematica di questi invarianti, vedi il nostro lavoro, “Ideas of geometrization, geometric invariants of low-dimensional manifolds and topological quantum field theories”, International Journal of Geometric Methods in Modern Physics 6(5), 2009, pp. 701–757.
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possono richiederne di più. Un toro, per esempio, è determinato da tre parametri. Innanzi tutto il toro ha una dimensione globale, cioè può essere ingrandito o rimpicciolito mantenendo costante la sua forma topologica. In secondo luogo, il toro può essere piatto, come un anello sottile, o “voluminoso” come una ciambella gonfia. Il parametro che determina il volume è un rapporto, quello tra il diametro del buco e il diametro totale: per l’anello sottile il diametro globale e quello del buco sono pressappoco uguali, dunque il loro rapporto vale circa uno; nel caso della ciambella gonfia invece il buco è molto più piccolo, e il rapporto è di conseguenza molto minore. Un’ulteriore quantità è data dalla torsione applicata al toro aperto, cioè al cilindro; si tratta di torcere un’estremità tenendo fissa l’altra, per poi ricongiungerle: si otterrà di nuovo un anello, ma avvitato su se stesso. L’angolo di torsione è dunque la terza variabile. In linguaggio matematico, i parametri che determinano la struttura intrinseca e la forma globale del toro sono detti moduli. In termini più tecnici, essi sono famiglie di deformazioni di un certo tipo di spazio (per esempio una superficie di Riemann). Un toro ha tre moduli. Il cilindro, o meglio una sua sezione trasversale rappresentata da una circonferenza, ne ha uno solo. Un tipico spazio di Calabi-Yau, invece, ne ha centinaia. Un punto particolarmente importante è che questi moduli possono così produrre un “paesaggio” fisico-matematico molto ricco in termini di variabili dinamiche e di invarianti algebrici e topologici, e incredibilmente complicato per i valori che possono assumere i parametri fondamentali delle leggi fisiche. Per esempio, l’estensione della dimensione compattificata del cilindro (descritta prima) determina i valori di diverse costanti di accoppiamento e masse. Ciò significa che le leggi della fisica possono (teoricamente) variare da punto a punto 4, come se un campo scalare di qualche tipo controllasse il valore della carica elettrica e della massa delle particelle. Uno spazio di Calabi-Yau è enormemente più complicato della sezione circolare del cilindro, ma il principio è lo stesso: estensione e forma dello spazio possono variare con la posizione come se centinaia di campi scalari controllassero le leggi della fisica. 4 Questa ipotesi eretica fu già avanzata, anche se in termini più generici, un secolo e mezzo fa da Riemann e Clifford. Per un’analisi approfondita, si veda il nostro libro, Le problème mathématique de l’espace. Un quête de l’intelligible, Springer-Verlag, Berlin-Heidelberg, 1995, in particolare i capitoli III e VIII.
CAPITOLO 11 Il dubbio e la creazione nell’arte e nella scienza Contemplo la basura Y veo una rosa Pero no una rosa en la basura Sino la basura convertida en una rosa Observo una rosa y veo la basura Que alimenta su belleza A través de su corola y sus raíces Así la rosa y la basura Son la misma cosa Porque hoy día son basura Y mañana rosa. Jorge Eielson1
Eielson ci ha lasciato in eredità un messaggio universale, quello del dubbio, del dialogo e della libertà di pensiero, della ricerca della bellezza e della verità, al quale si aggiunge naturalmente un invito a non rinunciare alla creazione e alla critica, a lottare contro ogni forma di mercantilismo e di imbarbarimento della cultura e dei rapporti umani. La sua vita è stata umile e generosa, il suo spirito mostrava una freschezza e una curiosità insaziabili. Per riprendere l’espressione dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, “non bisognava aspettarsi da questo ‘vecchio uomo’ la saggezza, ma al contrario la ‘follia’ nei confronti del senso comune, una sorta di irriverenza nei confronti dell’ordine stabilito” 2. Eielson pensava che un artista o uno scrittore autentico avesse il compito di ribellarsi contro la società fino all’ultimo. Un “vero” intellettuale è colui che sa proporre altre maniere di vedere il mondo, di concepire la realtà, diverse da quelle dominanti dettate spesso dalla brama di potere e dalla sete di profitto. Era fermamente legato ai valori perenni
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J.E. Eielson, Sin título (Milán 1994/1998), Editorial Pre-Textos, Valencia, 2000. K. Ōe, Il salto mortale (Shugaeri), Garzanti, Milano, 2006.
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della giustizia, della dignità umana e dell’onestà personale, come pure a quelli del rispetto, della bontà e della grazia. Questi valori non obbedivano a nessuna forma di manierismo, ma esprimevano qualità naturali e assolutamente pure, che incantavano e attraevano spiritualmente chiunque lo conoscesse. Il suo pensiero rappresenta una sfida artistica, filosofica ed etica al mondo in cui viviamo. Le sue opere figurative e poetiche, che amava paragonare al lavoro di un artigiano o di un contadino, costituiscono un esempio per il nostro secolo e un dono prezioso per i giovani e le generazioni future. Tutti i suoi sforzi e sogni creativi erano tesi a (ri)trovare una relazione e a (ri)creare un’armonia vissuta tra il magico e la ragione, il sacro e il profano, l’uomo e il cosmo, la natura e la cultura, la conoscenza e l’etica, l’arte e la scienza. Eielson ha riportato alla luce un vasto territorio dello spirito ormai inaridito da un pensiero sempre più accademico e superficiale, nel quale la visione e l’opera dei popoli precolombiani incontrano le magnifiche intuizioni e gli straordinari lavori di Leonardo3, l’antico buddismo zen del Giappone s’intreccia con l’affascinante filosofia di Eraclito e Platone, le acque della ragione scientifica si mischiano con quelle della meditazione mistica e della speculazione metafisica. Come facenti parte di un dialogo a più voci e legati da tanti fili invisibili, Eielson leggeva contemporaneamente i lavori storici, archeologici e antropologici sui quipus, gli studi della matematica Maria Reiche sulle linee Nazca del Perú, i lavori del matematico William Thurston sulla geometria dei nodi, le poesie di Rimbaud, Mallarmé e Rilke, i libri di Deleuze e i poemi del mistico San Juan de la Cruz, i saggi del filosofo della scienza Paul Feyerabend, i poemi
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Nell’ultimo ventennio della sua vita Eielson ha realizzato diverse opere e installazioni in omaggio al genio fiorentino, in particolare L’ultima cena (1993) e il Codice sul volo degli uccelli e sugli annodamenti di Leonardo (1993, 1996). Per uno studio dettagliato e completo dei lavori di Leonardo riguardanti i diversi campi del sapere scientifico dell’epoca rinascimentale, si veda D. Arasse, Léonard de Vinci. Le rythme du monde (Hazan, Paris, 1997), in particolare il capitolo “Une science en mouvement”. Nel 1486 Leonardo aveva espresso la sua fiducia nella possibilità del volo umano: “Potrai conoscere l’uomo colle sue congegnate e grandi alie, facendo forza contro alla resistente aria, vincendo, poterla soggiogare e levarsi sopra di lei”. Dal 14 marzo al 15 aprile 1505 scrive parte di quello che doveva essere un organico Trattato degli Uccelli, dal quale avrebbe voluto estrarre il segreto del volo, estendendo nel 1508 i suoi studi all’anatomia degli uccelli e alla resistenza dell’aria; verso il 1515 vi aggiunge lo studio della caduta dei gravi e dei moti dell’aria.
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Intuizione ed esperienza in Leonardo Nella seconda metà del Quattrocento, l’arte italiana conosce un cambiamento profondo che riguarda tutti gli aspetti della creazione artistica e della rappresentazione dello spazio pittorico. Quest’ultimo viene elaborato in termini più rigorosi applicandogli i metodi geometrici delle prospettiva e in un modo più vicino alla complessità delle forme organiche e dei fenomeni naturali. Leonardo appare uno dei principali protagonisti di questo rinnovamento del dialogo tra arte, matematica e natura basato sul richiamo costante del ruolo importante delle forze dinamiche e delle forme in movimento, e sull’idea che la concretezza storica degli individui s’intreccia in modo filiforme con le trasformazioni degli spazi naturali e sociali. Come osserva molto acutamente Argan, “in Leonardo tutto è immanenza” e la ragione dei fenomeni deve essere cercata nelle proprietà inerenti alla loro stessa natura. “L’esperienza della realtà deve essere diretta, non pregiudicata da alcuna certezza a priori: non l’autorità del dogma e delle scritture, non la logica dei sistemi filosofici, non la perfezione degli antichi”. Per Leonardo, infatti, “la realtà è immensa” e inesauribile, possiamo coglierla solo nei fenomeni particolari, e il fenomeno ha tanto più valore conoscitivo quanto (leibnizianamente parlando), nel particolare, manifesta la totalità del reale. Se nell’arte di Michelangelo, per esempio, predomina il sentimento morale, in Leonardo da Vinci predomina il sentimento della natura, “quello per cui sentiamo il ritmo della nostra vita pulsare all’unisono con quello del cosmo” (G.C. Argan, L’arte moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1970). A questo proposito, è bene precisare che per “fenomeno particolare” Leonardo non intende mai qualcosa di isolato dal resto, ma piuttosto un fenomeno che, pur manifestando comportamenti specifici, riflette regole e principi generali. Citiamo alcuni esempi particolarmente significativi. Le importanti osservazioni che Leonardo compì nella botanica lo portarono a postulare che le foglie non sono disposte in modo casuale sui rami, ma secondo leggi matematiche, formulate poi solo tre secoli più tardi dai fratelli Bravais (vedi L. e A. Bravais, “Essai sur la disposition des feuilles curvisériées”, Annales des Sciences Naturelles. Botanique 1837, 7, pp. 42-110, 193-221, 291-348); è una crescita infatti, quella delle foglie, che evita la sovrapposizione per catturare la maggiore quantità di luce. Scoprì anche che gli anelli concentrici nei tronchi indicano l’età della pianta, osservazione confermata da Marcello Malpighi più di un secolo dopo. Osservò inoltre l’eccentricità nel diametro dei tronchi, dovuta al maggior accrescimento della parte in ombra. Soprattutto, scoprì per primo il fenomeno della risalita dell’acqua dalle radici ai tronchi per capillarità, anticipando il concetto di linfa ascendente e discendente. A tutto questo si aggiunse un esperimento che anticipava di molti secoli le colture idroponiche: avendo studiato idraulica, Leonardo sapeva che per far salire l’acqua bisognava compiere un lavoro, quindi anche nelle piante in cui l’acqua risale attraverso le radici doveva compiersi una sorta di lavoro. Per comprendere il fenomeno, quindi, tolse la terra mettendo le radici della pianta direttamente nell’acqua, osservando che la pianta riusciva a crescere, seppure più lentamente.
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di Paul Valéry e gli scritti di René Thom, i saggi metafisici di Émile Michel Cioran e quelli sulla biologia di Stephen Jay Gould, i testi dei presocratici e quelli dei fisici della meccanica quantistica. Non vedeva nessuna barrierra assoluta e non concepiva alcun pregiudizio aprioristico che potesse impedire il dialogo tra tradizioni e pensatori solo apparentemente lontani. Eielson non cessava di insorgere contro ogni tipo di pregiudizio e credenza assoluta, fossero essi di ordine politico, culturale o religioso, e a questo proposito amava citare Einstein: “È infinitamente più facile disintegrare un atomo che i pregiudizi umani”. Ogni giorno che passava era per Jorge Eielson un frammento dell’eternità. Non viveva nel tempo cronologico, lineare e fisico, ma in quello del flusso dinamico e multidimensionale dell’esistenza e della creazione. Ha creato opere che “incantano gli occhi e affascinano l’orecchio”, per riprendere le parole di Octavio Paz (amico da sempre dell’artista e anche curatore della prima raccolta completa delle sue poesie). “Jorge, ha scritto Alvaro Mutis, è un poeta magnifico, che è riuscito a creare un mondo di forme bellissime e durature”4. Negli ultimi anni Eielson aveva ripreso a leggere alcuni autori della letteratura spagnola del “siglo de oro” e soprattutto il poeta San Juan de la Cruz, del cui pensiero si vedono già tracce nelle sue opere letterarie giovanili. Meditava sui poemi scritti dal monaco e mistico spagnolo sui muri della sua cella a Toledo, poco prima di morire nel 1591 in seguito alle persecuzioni subite. L’artista sentiva un’affinità profonda con il pensiero e forse con la vita del grande mistico. Così come i poemi e i trattati di San Juan de la Cruz insegnavano “a cercare e a trovare l’amore umano in fondo alla notte oscura dell’anima, in fondo al ‘nada’ ”, Eielson invitava a cercare negli ignoti anfratti del silenzio e nelle misteriose pieghe del vuoto5, nelle pulsioni e nei sogni, nelle amarezze e nelle gioie degli esseri umani, le radici stesse dell’atto creativo, il significato di una geometria magica della natura e di una musica altrettanto meravigliosa dello spirito, il senso senza fine della vita. Nella poesia, per esempio, la distanza tra il testo e il suo supporto può essere molto grande, dato che la poesia è sempre ciò che sta al di là del supporto. D’altronde, ragionando per analogia, possiamo 4
A. Mutis, “Ricordo di Jorge Eduardo Eielson”, in: Jorge Eielson, Galleria d’Arte Niccoli, Parma, 2003, p. 7. 5 Qui è importante notare il riferimento all’opera di Gilles Deleuze, e in particolare a Le Pli. Leibniz et le baroque, Paris, 1986.
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affermare che qualsiasi processo dinamico non può nascere da un supporto materiale inerte, ma solo da un supporto investito da trasformazioni di forma e da conversioni di stato che modificano le sue configurazioni e proprietà interne, quindi la sua stessa evoluzione. La considerazione precedente ci porta a concepire la poesia perfino oltre il linguaggio o, se si preferisce, oltre un formalismo linguistico dato. San Juan de la Cruz “annulla letteralmente lo spazio (leggerlo è un trasporto, è come lievitare), e annulla il tempo: la sua poesia lo attraversa, sempre fresca e intatta, come appena scritta. Non solo, come se nessuno l’avesse scritta, lei è stata e sarà sempre lì, come l’aria che respiriamo [...] Si tratta di una poesia “impegnata” con se stessa, e dato che la poesia è un atto d’amore, si tratta di una poesia d’amore, compreso l’amore erotico. Per questo esso inonda i nostri sensi, ci fa sentire irrimediabilmente umani e nello stesso tempo leggeri, quasi come gli angeli” 6. Eielson concepiva la sua opera “maestra” come intimamente legata al suo percorso di vita, alle esperienze vissute, all’umiltà e alla generosità degli esseri che un po’ il caso e un po’ le scelte gli avevano fatto incontrare in diversi punti del pianeta che aveva visitato e dove talvolta aveva messo radici. L’opera, la “sua” opera, gli appariva più come un paesaggio attraversato da tanti sentieri, un albero con infinite radici, una costellazione abitata da una varietà infinita di oggetti (vale a dire stelle o nodi), che come un fatto meramente intellettuale. Faceva così sue le parole del poeta spagnolo Antonio Machado (1875-1939): Viandante, sono le tue orme il cammino e nulla più; viandante, non c’è cammino la via si fa camminando. Camminando si fa la via e girando indietro lo sguardo si vede il sentiero che mai si tornerà a calpestare. Viandante non c’è cammino ma solo scie sul mare...7
In uno degli ultimi e più significativi scritti “filosofici”, Eielson ci ha lasciato alcune delle riflessioni che lo hanno accompagnato 6 7
J.E. Eielson, “Vedere evocare cantare Roma”, cit. A. Machado, Campos de Castilla, Renacimiento, Madrid, 1912.
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durante l’intera sua vita, dall’alba al tramonto del suo percorso straordinario, e che resta ancora in gran parte da scoprire: In un certo pensiero orientale ho trovato, finalmente, il silenzio che cercavo, il silenzio della meditazione estrema, e con essa ho dato forma definitiva ai miei pensieri, alle mie immagini, ai miei spazi, al mio modo di concepire l’arte e la vita (unite in un indissolubile allaccio), senza mai pretendere che nulla mi fosse regalato, ma cercando di offrire sempre quel poco, o nulla, che ero in grado di offrire. Questa mia realtà ultima – la quale offre una palatina dissoluzione dell’io, fin dove ciò è possibile per un occidentale, mi ha portato, nelle installazioni e performances, alla quasi cancellazione del reale e ad una parallela sospensione del tempo. I vecchi vestiti degli inizi degli anni sessanta, ora vestono la nostra intera realtà quotidiana, la coprono con un fantomatico sudario, sotto il quale la vita continua, ma come in letargo. Il velo stesso si presenta stranamente rigido e flessibile alla volta, annodato e disciolto, pieno d’anfratti, d’ombre e di luci, di pieni e di vuoti, di curve, pieghe, rilievi, soffici voragini, silenzio. Per far risaltare, come in negativo, quell’altra dimensione della vita, tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile, che non è la morte, ma la stessa vita, quando non viviamo veramente, ma non siamo ancora morti. Il letargo tuttavia, la bianca palude dell’anima distratta, offre una via di salvezza: l’accesso agli spazi superiori, racchiuso nell’umile immagine di una scala di lavoro, pazientemente rammendata, legata senza sosta, fino al raggiungimento della vera vita, che, paradossalmente, non sta così in alto, ma a portata delle nostre mani, a condizione di non lasciarsela sfuggire.8
Vorrei concludere queste brevi riflessioni sottolineando alcuni degli aspetti più importanti dei nodi e del ruolo che essi svolgono in ambito sia scientifico sia artistico. Jorge Eielson ha contribuito più di ogni altro – e non solo nei campi dell’arte e della poesia, poiché la sua influenza tocca anche temi fondamentali della ricerca scientifica e filosofica – a fare dei nodi gli elementi essenziali di un linguaggio universale, e poi a trasformare questo linguaggio in una forma di conoscenza straordinariamente libera e creativa.
• I nodi costituiscono un ponte tra arte e scienza, una relazione essenziale che permette un nuovo dialogo tra la cultura umana e la natura. 8
J.E. Eielson, “Vedere evocare cantare Roma”, cit.
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• La ricerca sui nodi e sui loro significati può essere vista come •
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una forma di conoscenza. L’arte dei nodi (del farli e del trasformarli) è anche uno stile di vita. L’universo ci appare oggi (grazie alle recenti scoperte della cosmologia e della fisica quantistica) una grande struttura annodata. Inoltre, molti fenomeni della fisica su scala cosmica (macroscopica) e subatomica (microscopica) possono essere spiegati tramite le proprietà dei nodi e dei link. Negli ultimi decenni si è messo in luce il legame fondamentale che esiste tra la topologia dei nodi e il mondo vivente. In particolare, si è capito che i nodi sono all’origine della vita, nel senso che la rendono possibile e permettono che essa si sviluppi seguendo cammini “normali” (cioè riducendo al minimo le possibili patologie). Le operazioni dell’annodare e dello sciogliere sono principi dinamici inerenti ai processi biologici. Il nodo funge allo stesso tempo da archetipo e da alfabeto nell’arte, nella letteratura e nella cultura, ma si tratta di un archetipo e di un alfabeto aperti a nuove sollecitazioni e dimensioni, dinamici e perciò impossibili da codificare in un sistema finito di regole, simboli o segni.
L’opera di Eielson sui nodi si lascia concepire e studiare come un libro aperto, cioè come uno spazio a un numero molto grande (forse infinito) di dimensioni spaziali e temporali, ognuna delle quali (come la pagina di un libro) è unita alle altre, o si forma in relazione a esse, per poi crescere in modo autonomo ed esistere di vita propria. Il suo lavoro invita a una lettura in termini di una costante attivazione spaziale delle potenzialità implicite nella tela-mondo, la cui piena espressione può risultare dall’essere aperta alle tante sollecitazioni che possono giungere da tutti gli oggetti e gli esseri al tempo stesso umili e nobili, semplici e molteplici, discreti e radiosi presenti nel nostro mondo tangibile e nella nostra immaginazione; questi oggetti e questi esseri sono perciò parte di noi stessi, e in essi ci proiettiamo continuamente per scavare nel senso delle cose, dei rapporti tra le cose e delle relazioni tra noi e le cose. L’infinito è un tema ricorrente, un filo conduttore dell’opera di Eielson; non è solo sinonimo di mancanza di confini. L’infinito non si riferisce tanto a uno spazio che si estende oltre ogni limite, quanto al fatto che nella realtà qualsiasi cosa, oggetto o evento esiste in relazione ad altre cose, oggetti o eventi, e ciò avviene anche se la loro natura ed esistenza può essere molto diversa. Le relazioni tra gli
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oggetti e gli esseri di questo mondo, siano essi creati o immaginati, non sono lineari e prevedibili, ma trasversali e inaspettate. Oggetti ed esseri che appartengono a sfere anche molto diverse del creato o di quella che noi pensiamo essere spesso illusoriamente la realtà, possono improvvisamente intersecarsi in un nuovo luogo dell’esistenza e dello spirito. Ogni oggetto o essere non ha necessariamente la sua propria individualità, ma diviene un “individuo” allorquando prende la forma di un intreccio di connessioni attraverso il quale si riverbera in un “tutto” (nell’universo) e contemporaneamente il “tutto” (l’universo) si manifesta in ogni singolo “individuo”, oggetto o essere che sia. Questo tema, centrale nell’opera poetica e nella visione cosmologica eielsoniana, è magnificamente espresso nel poema Cuerpo Moltiplicado. Non ho confini La mia pelle è una porta aperta E il mio cervello una casa vuota La punta delle mie dita tocca facilmente Il firmamento e il suolo di legno Non ho piedi né testa Le mie braccia e le mie gambe Sono braccia e gambe Di un animale che starnutisce E che non ha confini Se godo siamo tutti a godere Anche se non tutti godono Se piango siamo tutti a piangere Anche se non tutti piangono Se mi siedo su una sedia Sono migliaia a sedere Sulle loro sedie E se fumo una sigaretta Il fumo raggiunge le stelle Lo stesso film a colori Nella stessa sala buia Mi congiunge e mi separa da tutti Sono uno solo e come tutti Sono uno soltanto” 9.
L’infinito è un tema ricorrente e vitale in molte forme di conoscenza e attività umane, e in particolare nella matematica e nella letteratura. La matematica, com’è noto, senza l’infinito sarebbe 9
J.E. Eielson, Poesia scritta, cit.
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impensabile e impraticabile; l’infinito interviene in tutte le sue intuizioni, costruzioni e dimostrazioni riguardanti i numeri e lo spazio; si può dire che il poter pensare l’infinito, attuale o immaginario, è la sua stessa ragion d’essere. Analogamente, il pensiero libero e liberatorio dell’infinito è stato l’atto fondatore stesso della letteratura. Virgilio, Dante, Petrarca, Leopardi sono poeti dell’infinito per antonomasia. Per Leopardi, l’atto creativo (l’atto poetico) non può essere concepito se non con le radici affondate nell’immaginazione, se non nascosto, nutrito e animato nel fondo misterioso della natura, se non mosso da uno slancio di profonda riflessione verso l’infinito. L’infinito leopardiano comporta l’idea che ogni corpo vivo, come pure il linguaggio che lo esprime, siano costantemente diversi; allo stesso tempo s’accresce continuamente la loro profondità spaziale e il loro flusso temporale. Nel termine e concetto leopardiano di infinito, le variazioni semantiche sedimentatesi nel corso del tempo e che ancora riaffiorano, permangono impresse come in uno specchio che conserva lo spettro delle immagini intatto, anche se mai uguale a se stesso. In altre parole, quello di infinito è un termine profondamente polisemico, e le sue possibili variazioni resistono a qualsiasi definizione univoca e chiusa. Leopardi non blocca il tempo nel passato, nella memoria statica, ma lo ripercorre per intero verso i suoi inizi attraverso tutta la sua durata. Leopardi si avvicina a una nozione di memoria che ha per aspirazione e per missione il superamento e l’abolizione del passato immobile, per restaurare e risollevare la realtà nella sua integrità e unità originaria. Senza dubbio questa aspirazione leopardiana si realizza nei versi de L’Infinito. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.
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L’infinito è collocato tra sogno e memoria, include uno spessore semantico inusitato per concetti come quelli di “interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”. Nella poesia di Leopardi non solo si assiste a una fusione di spazio e di tempo in un fremito musicale che risveglia le cose e con esse si annulla, ma in modo ancora più significativo questa fusione di spazio e di tempo dipende da una sollecitazione della memoria in movimento fattasi sogno, che elimina i limiti spaziali e temporali. L’intensificazione, la dilatazione, la moltiplicazione dei valori semantici delle parole e dei concetti, per portarli a superarsi in atto di creazione, di poesia, è il metodo privilegiato da Leopardi, un metodo che appare più che mai pregnante e valido. Più generalmente, il senso del linguaggio sta oltre il suo formalismo verbale, la sua sintassi; infatti, esso si cela e si trasforma più nelle forme semantiche e nel campo percettivo e interattivo tra soggetti e contesti spazio-temporali. Per esempio, se dico: albero – tutti hanno nella mente un albero; ma nulla è meno albero di quelle tre sillabe da me pronunciate. Il segno verbale designa non un oggetto ma un rapporto, e connota il processo di interazione e di comprensione del soggetto con l’oggetto. Il senso si forma (o emerge) non a partire da una semplice aggregazione o somma di presunti “atomi” di significato, ma nel momento in cui si stabilisce una connessione dinamica e organizzata tra le forme possibili del significato e i contesti naturali dell’oggetto. Per ritornare a Leopardi, è interessante notare per esempio che la funzione dell’aggettivo, in molti casi di aggettivazione, è di incrinare la solidità semantica del sostantivo, di intralciarne all’estremo la decodificazione, di sciogliere l’eccesso di razionalità del discorso nella forza evocativa, intuitiva e creativa del linguaggio, nella potenza incantantoria e magica della parola.
CAPITOLO 12 L’universo fantastico di un esploratore delle geometrie Nell’esplorazione visuale di Michele Mulas, lo spazio diventa forma, e la forma spazio. Le sue opere sono il punto di incontro tra passato e presente, tra il passeggero e l’eterno, tra il caso e la necessità, tra historia (le radici dell’artista) e meta-historia (la spiritualità, la cultura dell’artista) che, mescolandosi, danno origine a queste strutture primordiali, che riecheggiano altre strutture primordiali, come ad esempio quelle delle antiche civiltà mediterranea e precolombiana. Jorge Eielson1
Uomo dalle qualità straordinarie e dal percorso esemplare, l’artista sardo Michele Mulas (1936-2002) è autore di un’opera pittorica e scultorica altrettanto straordinaria, che abita le frontiere mobili tra lo spirito, l’arte e la natura. L’insieme dei suoi lavori rispecchia la trasformazione incessante senza mai svanire di tali frontiere, tanto è vero che perviene a mostrarne in modo luminoso il movimento complesso e sottile, peraltro impercettibile agli occhi di un osservatore distratto e superficiale; questo movimento permette alla natura inerte di trasmutarsi in natura animata, di svelare il significato spirituale, cioè il carattere organico e vivente di una natura che troppo spesso siamo portati a considerare ingiustamente materia priva di vita e passiva, vale a dire incapace di generare altre forme di vita e di autorigenerarsi, e infine, di acquistare un’espressività interiore che non può essere colta con il solo sguardo, nonché un valore estetico che va oltre i limiti fisici della tela. 1
J.E. Eielson, “La pittura di Michele Mulas”, in: Testimone di un’assenza, Edizioni del Centro Studi Jorge Eielson, Firenze, 2010, p. 89.
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Come ha sottolineato Jorge Eielson, le opere di Michele Mulas sono una dimostrazione radiosa di raro equilibrio tra mente e natura, di ecologia profonda e vissuta, alla quale solo l’intuizione di un vero artista è capace di attingere. Più di ogni altro profondamente legato alla sua splendida terra – poiché egli ne ha sempre espresso e difeso le migliori virtù spirituali e qualità umane, che sono la creatività e la laboriosità, l’indipendenza e la libertà, l’umiltà e la generosità (qualità ahimè in pericolo in un’epoca in cui si esalta la distruzione del patrimonio storico e ambientale e si banalizzano le fonti e le espressioni autentiche della cultura sarda così come di molte altre culture in diverse parti del mondo) – l’artista “procede come la natura: la sua arte nasce da lui con la stessa necessità aleatoria delle foglie di un albero. Le sue opere ci appaiono come il risultato di una lunga e intima ricerca sulla bellezza visibile e invisibile del creato”. Esse liberano energia e intensità e racchiudono una materia viva che evoca l’ossigeno puro dei suoi boschi e dei suoi mari, ma anche quelle della sua fantasia e immaginazione. Nel contempo erede delle cosiddette “arte povera”, “arte concettuale” e “minimal art”, il pittore e scultore Michel Mulas è stato negli ultimi quarant’anni una delle figure artistiche più originali e creative nel panorama dell’arte contemporanea. Ispirandosi liberamente a grandi maestri, quali Eielson, Mirò, Klee, Picasso, Mondrian, Fontana, Matta, Calder e Torres Garcia, l’artista sardo è riuscito a trasformare materiali antichi e nuovi in pure superfici di colore, tenute insieme da quella sostanza primordiale e suprema che è la luce, e saputo mostrare grazie alle sue opere piene di movimento e di forza interiore, i legami profondi che ravvicinano il mondo microscopico (invisibile) al mondo macroscopico (visibile, ma solo in parte), il mondo pullulante di vita della natura al mondo sorprendente e infinitamente libero dello spirito. La ricerca di Michele Mulas fa pensare a quella di un esploratore sensibile e attento dei tesori che si celano negli interstizi della geometria dinamica e “vivente” della natura, riportata alla luce e offerta in dono all’intelligenza e al piacere delle sensibilità degli esseri umili e autentici da un artista pieno di ingegno e di immaginazione. La sua arte, oltre alle notevoli qualità formali ed estetiche, riflette in modo ricco e affascinante l’insopprimibile diversità e unità del creato. Oltre che in Sardegna, è vissuto e ha lavorato a Roma, Parigi, New York, Lima, Caracas e Milano, realizzando splendide mostre in ognuna di queste città.
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L’artista ha realizzato grandi e piccole tele, dove si leggono una serie di moduli concatenati, a mo’ di puzzle, ritagliati, uniti e raccordati, racchiusi in uno spazio ben definito, che giunge fino ai bordi della tela. Molto acutamente, il critico Carlo Frianza ha osservato che “la luce e le sue modulazioni cangianti su una superficie piana, le modulazioni magnetiche, la scomposizione iconografica dell’immagine oggettiva che oggi è diventata parente affine della geometria, sono aspetti imperativi di codeste ricerche di Michele Mulas. I sui grafici modulari vivono d’una loro interna armonia e si accrescono nelle varianti di forma-colore, in prospettiva di spazi accresciuti per via di volumi [...] I moduli al di fuori della tela diventano sculture mobili, i ritagli e le forme in legno giocano nel pieno e nel vuoto, concetto importante questo per capire e vivere il lavoro di Michele Mulas. Predomina il colore che nel reticolo crea il senso di una geografia estetica armoniosa e compiuta”. Le trasformazioni dei reticoli rappresentano un campo oggi molto attivo della ricerca matematica e artistica, e di grande interesse per la comprensione delle strutture tridimensionali e dinamiche della percezione. Si vedano, per esempio, i lavori dell’artista ungherese Victor Vasarely (1906-1997) e del geometra e topologo russo Anatolij T. Fomenko (1945). Il primo è il creatore di un linguaggio plastico che intende mostrare l’esistenza di una geometria della natura, nonché l’influenza, in chiave quasi gibsoniana, che essa può avere sul modo in cui percepiamo le cose, gli oggetti che ci circondano. Il secondo ha mostrato l’importanza dei disegni e delle immagini per una comprensione profonda di certe proprietà topologiche degli oggetti e delle strutture reali. Taluni metodi di trasformazione dei reticoli (usati, per esempio, da Vasarely per realizzare alcuni lavori di arte geometrica e percettiva evidenzianti la morfogenesi della tridimensionalità e del movimento, ma anche dal naturalista e biologo scozzese D’Arcy Thompson nella sua importante opera On Growth and Form, del 1917, per modellare il tipo di trasformazioni spaziali che possono essere all’origine dei cambiamenti morfologici di numerosi organismi appartenenti a una stessa specie o a due specie diverse filogeneticamente legate, e che fungono da variazioni dinamiche capaci di influenzare le modalità mutative e i ritmi temporali dell’evoluzione) mostrano che oltre che nel contenuto, la griglia può essere modificata anche nella stessa struttura. Infatti un’ulteriore variabile, che può essere introdotta nei procedimenti progettuali riguardanti la modularità, è quella offerta dalle possibili trasformazioni del reticolo base.
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Per trasformazione affine2, per esempio, dal reticolo a maglie quadrate si ricavano reticoli a maglie rettangolari o romboidali, oppure a forma di parallelogramma. In tal modo verrà a modificarsi il precedente equilibrio tra le direzioni verticale e orizzontale, in quanto una delle due direzioni risulterà preponderante rispetto all’altra, mentre la perdita dell’originaria stabilità fornita dall’angolo retto comporterà la percezione di un senso di movimento nell’intero assetto compositivo. Una volta appreso il principio operativo e acquistata sufficiente pratica nell’esecuzione, si può procedere alla ricerca di trasformazioni progressive in modo da visualizzare il mutamento di una composizione in altre, via via sempre più diverse dalla prima. Ciò equivale a introdurre nelle immagini la dimensione temporale e, di conseguenza, a passare da una visione statica a una percezione dinamica degli eventi, studiati e memorizzati nel momento della loro formazione e trasformazione nello spazio-tempo. D’altro canto, è opportuno rilevare che nell’opera dell’artista è la struttura organico-cellulare che configura e dà espressione al pensiero e al sentire. Aggiungiamo, infatti, che essa è vista ora, come nei dipinti, nel suo proliferare di unità o (per utilizzare un concetto filosofico) di monadi che comunicano tra di loro deformandosi reciprocamente e scambiandosi energia, ora come dilatata da una lente che amplifica i particolari del reticolo periferico, per esempio nelle sculture a parete di legno intagliato. In questo modo, si può affermare che Michele Mulas ha anticipato con la sua intuizione primigenia la teoria matematica recente dei frattali, tra le più importanti e feconde per l’investigazione dei fenomeni del regno organico e inorganico, secondo la quale esiste nella natura una proprietà geometrica assai universale e quasi magica che riproduce su piccola scala un’immagine della realtà macroscopica, in termini meno tecnici, il tutto si riflette nei particolari. Un’immagine può forse aiutare a far meglio cogliere il senso di quello che si è appena detto: il nostro artista ha il dono di creare 2
In geometria, una trasformazione affine dello spazio euclideo è una trasformazione del tipo x Ax + b, ovvero la composizione di una trasformazione lineare determinata da una matrice A e di una traslazione determinata da un vettore b. Le trasformazioni affini sono le trasformazioni più generali che preservano i sottospazi affini. Tra queste, giocano un ruolo importante le affinità: queste sono le trasformazioni affini di uno spazio in se stesso, che sono anche una corrispondenza biunivoca. Esempi di affinità sono rotazioni, omotetie, traslazioni, riflessioni. Le affinità non sono necessariamente isometrie, non preservano cioè angoli e distanze.
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Fig. 12.1 M. Mulas, Bichromo Verde Rosso IV, 1992. Un magnifico puzzle di puber æternum dell’artista, che è il risultato di una profonda meditazione sui sistemi viventi concepiti come strutture morfologiche cariche di storia, le cui forme si deformano per adattarsi alla loro propria evoluzione, pur conservando una certa identità, come quei misteriosi oggetti della topologia contemporanea che tanto hanno affascinato e continuano ad affascinare matematici, fisici e biologi, nonché filosofi, artisti e architetti
degli universi nuovi e fantastici, in forma di disegni o di tele, a partire da un semplice gomitolo che sembra simbolizzare, nello sguardo penetrante e gioioso dell’artista, il nocciolo, il nucleo o l’embrione da cui scaturiscono le innumerevoli forme della natura e degli esseri viventi. Nella stessa immagine della sfera o del gomitolo di filo aggrovigliato si può leggere che nell’universo macroscopico da noi percepibile si nasconde in realtà una moltitudine
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di mondi microscopici dell’ordine dell’intangibile e dell’invisibile, che solo le straordinarie capacità immaginative e pittoriche dell’artista ci permettono di cogliere e di sentire. Modulate entro una scansione ordinata, che potrebbe apparire ripetitiva ma non lo è affatto, le cellule cui si accennava sopra sembrano fluttuare nello spazio vuoto o sul magma del fondo senza peraltro poterne essere separate, come se, per ricorrere al linguaggio dei teorici della psicologia della forma e della percezione, la figura e il fondo avessero valenze intercambiabili, fossero cioè complementari l’una dell’altro, in modo tale da risultare intimamente intricati e condeterminati nello spazio. Gli spazi cui dà corpo Michele Mulas nelle sue tele sono da vedersi ora come degli spazi cosiddetti cellulari – animati da cellule (rappresentate sulla tela come regioni spaziali ben definite dalle loro vicine frontiere oppure dai contrasti di colore) che possono combinarsi e (ri)comporsi in una molteplicità di modi e allo stesso tempo deformarsi e autoorganizzarsi l’una a contatto con l’altra – ora come un labirinto solcato da tanti meandri. Alla frontiera, ai suoi arcani così come ai suoi poteri magici e ai suoi segreti, Michele Mulas si è ispirato fin dagli esordi del suo lavoro artistico e ne ha fatta l’intuizione centrale degli sviluppi molteplici e profondamente innovativi che hanno caratterizzato la sua opera successiva. In tale opera, l’intuizione creatrice che fa costante riferimento alla frontiera – vista ed elaborata dall’artista al contempo come oggetto dinamico e fluido, immagine di cambiamento e di trasmutazione, e infine metafora di libertà e di armonia – affonda sicuramente le radici nelle antiche civiltà mediterranee che hanno nutrito e dato forma alla storia e alla cultura del popolo sardo, così come nell’antica civiltà precolombiana del Perù, alla quale si devono tante creazioni e invenzioni in svariati campi delle arti e delle tecniche, della cultura e della vita pratica. Si sa che le due civiltà sono state molto distanti geograficamente e profondamente diverse spiritualmente. Ciò nonostante, con il suo ingegno e la sua creatività Michele Mulas riesce nel compito di metterne in luce i fili tenui e tuttavia profondi che le congiungono, e di farne emergere certe splendide preziose affinità formali e artistiche. Questo è uno dei tanti segni del carattere e del valore singolari e allo stesso tempo universali dell’uomo e dell’artista Michele Mulas. Il tema della frontiera riveste peraltro attualmente un significato dei più importanti in diversi campi del sapere, dalla topologia
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alla biologia, dall’antropologia alla psicologia e all’etica. Ad alcuni di questi faremo un breve cenno nel tentativo di metterli a confronto con l’opera dell’artista, nel tentativo di mostrare il profondo legame che spesso unisce l’arte alla scienza, allorquando le si concepisce nel senso più nobile del termine. La topologia, disciplina matematica tra le più astratte, può essere infatti definita come quella scienza delle forme le cui frontiere (o bordi) possono essere deformate, sia dal matematico sia dall’artista benchè in modi diversi, così che una possa trasformarsi in un’altra, e quest’ultima in un’altra ancora, e così via, dando luogo a una varietà straordinaria di forme tutte risultanti da un’unica forma originaria. Si pensi a un abile panettiere che quasi per magia trasforma un impasto di farina lievitata dalla forma di ciambella in una miriade di tipi di pane dalle forme più svariate. La biologia, la scienza che indaga le leggi e i processi degli esseri viventi, non potrebbe fare a meno della nozione di frontiera, e più precisamente di quella omologa di membrana. Tanto è vero che le membrane biologiche sono la sede di processi morfologici e dinamici essenziali alla crescita di tutti gli organismi viventi. Inoltre, la bioenergetica ha messo in luce che la logica di certi meccanismi complessi che governano i grandi processi della fotosintesi – sorgente ultima di tutta l’energia utilizzata dal mondo vivente, poiché permette la trasformazione dell’energia solare in energia elettrodinamica, nonché in energia chimica – poggia sul principio di dissimmetria strutturale o morfologica delle membrane biologiche. In molti dei suoi lavori, Michele Mulas riporta alla luce un universo geometrico straordinario per la mente e incantevole per la vista popolato da esseri viventi che esistono realmente o che sono il frutto dell’immaginazione dell’artista; questi esseri, che possono essere concepiti talvolta in forma di cellule o di amebe, altre volte in forma di orchidee o di foglie, e altre volte ancora in forma di cristalli, di alveari o di stelle, si muovono in uno spazio che solo apparentemente può sembrare vuoto, ma che è in realtà gremito di forme di energia e di vita. Talvolta esso si presenta sotto le sembianze di uno spazio geofisico solcato da mille sentieri, alla maniera del paesaggio sardo e mediterraneo, trasformatosi lentamente e armoniosamente nel corso del tempo sotto l’azione delle forze naturali e delle passioni umane, altre volte sotto le sembianze dello spazio anatomico e fisiologico del nostro corpo innervato da una miriade di cellule nervose connesse tra di loro, che assomigliano alle fitte radici di un albero o alle innumerevoli nervature delle
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Fig. 12.2 M. Mulas, Nodo e corda, 2000-2001. Una «composizione ad ameba» di forme geometriche in continua trasformazione che fluttuano nello spazio. Quest’opera dell’artista invita a fare alcune riflessioni più generali sui rapporti tra arte e scienza, e in particolare tra fenomeni naturali e opere estetiche (vedi box a p. 152)
foglie. Certe tele dell’artista non possono non evocare, per esempio, la microstruttura regolare a forma esagonale degli alveari delle api, o anche la struttura dei fossili viventi delle orchidee marine appartenenti alla specie dei radiolari, che contano tra le più remote forme di vita. Osservazioni recenti col microscopio elettronico hanno messo in luce certune caratteristiche meravigliose della geometria dei radiolari viventi. Per esempio, da ognuno di essi si diramano attraverso i piccoli buchi del fossile parecchie centinaia di fili molto sottili, elastici e rettilinei necessari per il suo metabolismo. La cellula assicura il trasporto delle sostanze vitali attraverso sottilissimi tubi cilindrici, chiamati microtubuli, i quali formano reticoli di meravigliosa regolarità, che assomigliano ai nidi delle api. Tali microtubuli in forma esagonale sono congiunti da ponti (specie di membrane) che assolvono il ruolo di pompe. Le opere di Michele Mulas sono inoltre di profondo interesse per il percettologo, per il fatto che i rapporti tra lo spazio, la forma
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e il colore vi acquistano un ruolo centrale e un significato profondo. Un altro loro elemento importante è costituito dai giochi di luci e di ombre, capaci di generare nuove forme o nuovi effetti visivi legati alla percezione. Esse dimostrano che le qualità cromatiche non possono essere considerate solamente come una specie di materia inerte, a partire dalla quale si organizzerebbe la percezione dello spazio e delle forme ivi racchiuse, e che occorre tener conto del fatto che l’organizzazione (o la struttura) spaziale come tale esercita un’influenza determinante sul modo in cui vengono percepiti gli aspetti cromatici. Perciò lo spazio e il colore non possono essere visti come componenti distinte, né essere percepiti separatamente. In un antico testo buddista si legge che la realtà può essere concepita come un intreccio di perle, ognuna delle quali rispecchia tutte le altre, vale a dire che in ogni elemento o aspetto della realtà tutti gli altri sono copresenti. A tale immagine si potrebbe affiancare la rappresentazione in un certo senso profondamente cristiana – o meglio, francescana – della realtà e della natura concepite come dotate di una vita interiore, che pur nella loro finitezza o incompiutezza oggettiva e sensibile possiedono un certo significato ontologico e spirituale universale. La scienza come attività critica e forma di conoscenza del vero e del bello non contraddice tali visioni, ma piuttosto li completa sforzandosi di spiegare e di capire i processi profondi e a volte complessi che sottostanno all’organizzazione della natura e alla generazione della vita. L’opera dell’artista Michele Mulas rappresenta un universo di armonia dove queste tre visioni del mondo e della natura si ricongiungono e diventano una. Nel suo lavoro si assiste al contempo con stupore, con commozione e con gioia alla maturazione di una nuova visione artistica e morfologica delle forme, che ci si rivela sempre più come la condizione necessaria di un’esistenza degna e giusta, della felicità dello spirito e del “nutrimento” stesso del corpo. Il lavoro dell’artista assomiglia a una magnifica sinfonia dove le tante e sempre diverse variazioni scaturiscono dallo stesso tema della forma e dalle sue infinite qualità. Egli ci lascia, generosamente e umilmente, in eredità un’opera immensa e straordinaria che attende ancora di essere in gran parte contemplata, studiata e capita. Queste brevi considerazioni su alcuni degli aspetti e dei significati dell’opera di Michele Mulas vogliono essere un invito a scoprirne la grande bellezza e ricchezza.
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Convergenze tra natura e arte Si può dire che fino agli inizi del Novecento l’immagine scientifica poteva ancora essere distinta da quella estetica, mentre durante il secolo scorso tale differenziazione è andata sempre più attenuandosi, e in taluni casi è scomparsa. È vero che già nel Cinquecento abbiamo delle bellissime tavole di anatomia a opera di Andrea Vesalio, tanto che qualcuno vi intravide la mano di Tiziano; e i disegni di feti e muscoli di Leonardo da Vinci hanno fatto meditare a lungo sui legami profondi tra arte e scienza nel Rinascimento. La vera svolta, tuttavia, si può far risalire alla pubblicazione, tra il 1899 e il 1906 di Kunstformen der Natur di Ernst Haeckel (vedi pp. 104-105), corredato di decine di splendide tavole, che mostravano in particolare i mirabili scheletri dei radiolari osservati al microscopio ottico. Alla fine dell’Ottocento, lo zoologo e filosofo tedesco pubblicò un libro singolare, nel quale ne sottolineava la bellezza per suggerire che la natura è, appunto, magistra hominis, da considerare con rispetto, e anzi da imitare. Nei primi decenni del Novecento molte delle opere di Paul Klee e del primo Miró sono popolate di entità biomorfe viste al microscopio (in questo caso, quello immaginario dell’artista legato più a una visione fluida e incerta della realtà, che a un presunto dominio teorico e sperimentale sui fenomeni). Ciò lascia pensare che l’arte del Novecento abbia praticato, per così dire, la ricerca e la rappresentazione dell’invisibile. Dopo un lungo periodo in cui l’invisibile era stato bandito in ambito estetico – ma lo stesso può essere detto per le principali correnti del pensiero scientifico moderno e contemporaneo, interessate soprattutto se non esclusivamente ai fenomeni visibili (anche se tali con l’ausilio di diversi congegni tecnologici) e riproducibili – le amebe e i protozoi prendono corpo negli acquerelli di Paul Klee o Joan Miró, e l’artista comincia così a guardare non più alla “natura dell’occhio” e alle impressioni della vista, ma a quella di un’indagine più approfondita, in un certo senso più “scientifica”. Accade così sempre più spesso che le opere di certi artisti “parlino” delle forme naturali o biologiche. Per esempio, non possono non colpirci certe somiglianze strabilianti tra alcune figure che l’artista Kandinsky introduce nelle sue opere (si vedano, tra le altre, Ognuno per sé e Mondo azzurro del 1934) e le immagini di embrioni o di amebe dei libri di biologia in suo possesso. Ma la virtuale fungibilità tra immagine scientifica e immagine estetica, che abbiamo sottolineato, ha ragioni profonde. Il grande biologo Conrad Hal Waddington, nel suo libro Behind appearance (1970)
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dedicato ai rapporti tra pittura e scienze del vivente nel XX secolo, ci ha fornito in proposito qualche suggerimento illuminante. Le entità della scienza di Galileo e di Newton erano sempre rappresentabili sotto forma di oggetti concreti e riproducibili: se si parlava della massa, si pensava alla sfera di Galileo buttata giù dalla torre di Pisa; e per Newton la luce era un fascio di palle elastiche infinitesimali. Il pittore, dal canto suo, se dipingeva i suoi paesaggi non infrangeva l’armonia di un mondo che la scienza diceva conforme nella sostanza al dato sensoriale. Ma con la scoperta delle geometrie non euclidee, del concetto di campo elettromagnetico, dei salti quantici e dell’indeterminismo microfisico, della teoria della relatività (ristretta e generale) che manda in frantumi le concezioni del tempo e dello spazio classici, diventerà sempre più difficile compiere delle semplici reificazioni metaforiche. La scienza come l’arte imboccano la via dell’immaginazione concettuale, del diagramma e delle trasformazioni, delle forme mentali di oggetti ed eventi possibili. Si assiste in realtà a un più vasto fenomeno di contaminazione e di sconfinamento che si può definire “convergenza morfologica”. In biologia si indica con questa espressione il fenomeno per cui animali lontani in senso sistematico, hanno assunto nel tempo, vivendo in ambienti simili, forme affini, presentando così omologie strutturali a dispetto della loro diversità genotipica. Malgrado le loro differenze metodologiche e culturali, molti scienziati e pittori del Novecento hanno scelto di esplorare l’invisibile, di capire le cose dall’interno, trovando e rappresentando, a scelta, le forme pure della geometria o il movimento impetuoso della cellula. Se è vero che l’immensa varietà delle creature naturali deriva dall’incessante modellamento e rimodellamento di un piccolo numero di strutture essenziali, le forme studiate dalla scienza e quelle rappresentate dall’arte convergono e in fondo si somigliano, poiché appartengono allo stesso fenomeno di creazione, esplorato con modalità concettuali e strumenti oggettivi diversi. In effetti, la scienza e l’arte sono profondamente intrecciate e si scambiano continuamente idee, metodi e oggetti. Paul Cèzanne, Vincent Van Gogh, Paul Klee, Joan Miró, Wassily Kandinsky, Lucio Fontana e Jorge Eielson non hanno minimamente voluto imitare la natura, ma scoprirne e rappresentarne i processi e le qualità. Voler scoprire e rappresentare non più le cose ma il loro ordine, non più l’esterno ma l’interno, non più il visibile ma l’invisibile, fa sconfinare lo scienziato e l’artista in un nuovo territorio, ricco di segreti, pregno di sorprese e in continua trasmutazione, dove la scienza secerne tanto comprensione quanto piacere e l’arte tanto incanto quanto conoscenza. Tutti questi ingredienti sono necessari per foggiare nuove percezioni e visioni originali della realtà.
CAPITOLO 13 Storia e mitologia dei nodi I tentativi, sinora infruttuosi, di classificare i nodi assomigliano agli sforzi maldestri di un bambino per allacciarsi le scarpe. Alexei Sossinsky1
Quanti sanno che esistono termini del nostro linguaggio ordinario il cui significato spesso non coincide e può andare ben oltre l’uso che se ne fa nella vita di tutti i giorni. È il caso dei due vocaboli correnti “nodo” e “buco”, che i bambini imparano a conoscere sin da quando muovono i primi passi. “Annodati i lacci delle scarpe”, annodati il fiocchetto”, “fai un nodo stretto alla fune”, “attento ai buchi del cammino”, “non fare buchi sul quaderno su cui scrivi”, “infila bene lo spago nel buco” ecc., sono tutte espressioni che ognuno di noi si è fatto ripetere come minimo due volte al giorno durante la sua infanzia e adolescenza. Anche se con un numero più o meno grande di varianti, si può nondimeno affermare con certezza che le stesse espressioni, con lo stesso significato o quantomeno con significati simili, siano esistite e ancora esistano in tutte le culture. Notiamo che tutte le espressioni precedenti traducono o invitano a eseguire un determinato movimento, il quale presuppone sia una certa attenzione sia una determinata azione, e in certi casi entrambe le cose. Notiamo ancora che l’azione inclusa in certune delle espressioni precedenti richiede un’intuizione, seppur inconscia, dello spazio circostante e l’attitudine a saper eseguire uno o più gesti coordinati tra loro. All’inizio il bambino si fa una idea dello spazio che lo circonda tramite l’intuizione di cui deve far prova per compiere dei gesti (delle mosse), come appunto “allacciarsi le 1
A. Sossinsky, Nodi. Genesi di una teoria matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
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scarpe”, “annodare la fune”, “ritagliare delle figure senza lasciare vuoti” ecc. In altre parole, egli impara pian piano a conoscere lo spazio, non in modo astratto o applicando dei principi innati, ma piuttosto esplorando con il corpo – e in particolare con le mani – le possibilità inerenti allo spazio di eseguire determinati gesti in modo coerente ed effettivo, cioè in un modo che “fa senso”. Ciò significa che il senso è una costruzione plastica, un processo che si iscrive nell’esercizio dell’intuizione e nell’azione. In altre parole, esso emerge dalla nostra interazione con gli oggetti e gli esseri che “vivono” nello spazio ambiente, dalla presa di coscienza dei suoi limiti e delle sue impossibilità, e dalla conseguente scoperta delle sue proprietà e del suo modo di funzionamento. L’intuizione dello spazio, molto probabilmente, non è una facoltà innata, o data a priori nell’intelletto (anche se si può, d’altra parte, pensare che l’intuizione, in quanto funzione fisiologica, conosca un certo sviluppo ontogenetico e filogenetico), ma è essenzialmente una capacità che si forma con e grazie all’azione, che si plasma man mano che esploriamo l’interfaccia con lo spazio ambiente, più precisamente con gli oggetti e gli altri esseri che lo abitano. Tant’è vero che nelle prime fasi di questa interazione, del nostro “essere al mondo”, la nostra intuizione dello spazio circostante (il “nostro spazio vitale”) è incerta, instabile e procede a tentoni: infatti, allacciamo male le scarpe, il nodo che abbiamo fatto allo spago si disfa subito dopo (ciò vuol dire che non era un “vero” nodo), non riusciamo a fare il salto o il passo giusto per evitare i buchi ecc. Ciò significa che essa deve ancora crescere, autoregolarsi, trovare quelle proprietà e modalità giuste dei nostri movimenti e dei gesti con i quali manipoliamo gli oggetti, che consentono di capire come è fatto lo spazio, internamente ed esternamente, e quindi anche di capire come noi siamo costituiti rispetto allo spazio. I nodi e i buchi hanno un significato “vitale” preminente. Con questo si intende che hanno un legame fondamentale con la vita, con il suo svilupparsi e riprodursi. Anche se la complessità segreta (uso qui l’aggettivo “segreto” per indicare l’altra faccia della complessità spontanea, non meccanica, auto-organizzata: ovvero la sua semplicità essenziale) di tale legame ci è sconosciuta, non ci può tuttavia sfuggire il fatto che i nodi e i buchi rappresentano una necessità evidente a più livelli della vita. L’anatomia dell’uomo deve molto al ruolo essenziale – per il metabolismo e il funzionamento del corpo – di certi orifizi e certe cavità (l’orifizio anale e
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quello dell’organo copulatore maschile, la cavità nasale e quella dell’orecchio), nonché a più strutture attorcigliate, ripiegate, annodate (si pensi agli avvolgimenti dell’intestino nell’addome, o alle circonvoluzioni della corteccia cerebrale nella scatola cranica). Queste strutture anatomiche essenziali per il metabolismo cominciano a formarsi durante i primi stadi dell’embriogenesi e si stabilizzano poi nel corso dell’ontogenesi, cioè del processo che conduce all’individuazione degli esseri adulti. Ma nella filogenesi ritroviamo altri tipi di buchi e nodi, realizzati dalle diverse specie animali e vegetali a scopi diversi: nutrirsi, riprodursi, camuffarsi o accoppiarsi. I buchi e gli annodamenti sono utilizzati da svariate specie animali come altrettante strategie evolutive per affermarsi in seno a una comunità o sopravvivere di fronte al più forte. Il nodo ha rivestito sempre una grande rilevanza nelle varie culture e nelle pratiche simboliche di ogni epoca, tanto da immortalarlo nelle incisioni rupestri, da inserirlo in contesti rituali, da adottarlo come caratteristica specifica di taluni ordini monastici, da evidenziarlo in molte opere d’arte, dove non è messo in modo casuale o decorativo. Per gli Egizi, il nodo era segno di vita. Buddha insegna che “disfare i nodi del cuore” è il processo che porta alla liberazione, all’elevazione dell’essere, il passaggio a uno stato superiore, e i nodi fatti in un certo ordine possono essere sciolti solo nell’ordine inverso, con un metodo rigoroso che è una regola del Tantrismo. Il nodo di bambù cinese è una successione verticale che segna una gerarchia di stati lungo l’asse Cielo-Terra, e ha similitudini con il concetto dei chakra tantrici, la “gerarchia” di stati lungo il nostro asse corpo-mente, materiale-spirituale, terrestre-celeste: sciogliere questi “nodi” è essenziale per far fluire l’energia vitale nell’uomo e portarlo alla sua libertà. I nove nodi dei taoisti hanno il potere di captare la realtà, di far condensare stati ed elementi. Famoso è il nodo di Gordio, un misero contadino divenuto re di Frigia: il timone del suo carro fu legato dal figlio Mida con un nodo talmente complicato che nessuno era in grado di scioglierlo. Se condo l’oracolo di Telmisso (antica capitale della Frigia), chi vi fosse riuscito sarebbe divenuto padrone dell’Asia. Dopo che molti ebbero tentato e fallito, Alessandro Magno giunse in Frigia nel palazzo di Gordio (nel IV secolo a.C.) e dopo aver tentato inutilmente di sciogliere il nodo lo tagliò a metà con un colpo di spada ed ebbe il regno, ma in modo effimero poiché morì poco dopo. La “soluzione alessandrina” fa riferimento nella mitologia a una falsa soluzione: il nodo si scioglie ma non si taglia; tagliandolo se ne
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distruggono la complessità e realtà invisibili che esso racchiude. Il Nodo di Salomone è uno dei simboli più antichi e riprodotti in ogni tempo dall’uomo: basti pensare che se ne conoscono esemplari tracciati in maniera approssimativa in epoca preistorica, in incisioni rupestri. Tuttavia la sua diffusione si sviluppa soprattutto con le culture euroasiatiche, africane e amerindie, e raggiunge il suo apice nella cultura celtica, fortemente basata sui temi dei nodi, degli intrecci e delle figure ondulate. Il Nodo di Salomone era costituito da complicati intrecci geometrici che disperdevano stregonerie e malefici. Presso l’impero Inca, i nodi (nella loro lingua quipu o Khipu) erano parte integrante della vita quotidiana e rappresentavano un vero e proprio sistema di scrittura e contabilità. Con questo sistema, gli Inca conservavano archivi, creavano calendari, effettuavano censimenti, campionamenti, e trasmettevano messaggi; i nodi erano quindi anche strumenti importantissimi di comunicazione. Un sistema “tridimensionale”, oltre le due dimensioni della nostra scrittura. Il marchingegno era costituito da una cordicella orizzontale, di cotone, raramente di lana, alla quale venivano attaccate altre cordicelle annodate di diverso colore, che a loro volta potevano avere ulteriori funicelle annodate. La contabilità dell’impero era affidata ai quipu-kamaya, o quipucamayoc (contador), “i maestri delle cordicelle a nodi”. E si pensa che solo loro conoscessero il significato di ogni singolo quipu, che è unico. Secondo alcuni studiosi, il quipu era basato sul sistema decimale, in cui il tipo di realizzazione fisica del nodo assumeva una valenza ben precisa: un nodo semplice corrispondeva all’unità, uno doppio alle decine e uno triplo alle centinaia. Per scrivere la cifra 1705, per esempio, si registrava un nodo nella posizione delle migliaia, 7 nodi in quella delle centinaia, nessuno in quella delle decine e 1 nodo riannodato cinque volte nella posizione delle unità. Quest’ultimo era un caso speciale, che serviva da punto di riferimento: lo spazio delle unità non conteneva mai più di un singolo nodo, a forma di 8 per indicare 1 e con un cappio in più per ogni somma da 2 a 9. Un’altra caratteristica appare chiara. Le cordicelle supplementari attaccate alla stringa annodata, indicavano probabilmente una serie di informazioni secondarie, come il numero di uomini in un dato gruppo di contraenti. Il colore della cordicella era fondamentale, poiché identificava il soggetto o il tipo di prodotto cui si riferiva il conteggio (per esempio la cordicella gialla era riservata al mais). Le
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stringhe o cordicelle annodate avevano diversa lunghezza ed erano raggruppate in diversi modi; i nodi possono presentare una varietà di posizioni strabiliante, da qui la difficoltà nella decifrazione dei quipu. Recentemente, lo studioso Gary Urton ha studiato oltre seicento khipu conservati nei vari musei (molti sono dispersi, altri in collezioni private), e ha asserito che in realtà il quipu è da intendersi come un sistema di comunicazione a base binaria. Tale sistema sarebbe una sorta di linguaggio (un codice complesso) basato su sette possibilità, che combinate in un determinato numero di modi fornirebbero 1536 informazioni diverse, un sistema tutt’altro che elementare. È lecito supporre che i quipu celassero un significato non solo “numerico” ma anche artistico e letterario, nel quadro di una certa visione cosmogonica dell’universo di natura ciclica e pertanto illimitata. Probabilmente esistono anche “traduzioni”, trascritte in lingua comprensibile, di quei “libri annodati”. Molti elementi risalenti all’epoca lasciano intendere che la posizione dei nodi e la direzione dell’annodatura contengano preziosi indizi per la decodifica del significato. Si può infatti notare, per esempio, che alcune stringhe assumono forme spiraliformi, altre sono annodate in senso antiorario, altre in senso orario. È probabile che i Khipu avessero una doppia valenza: quella per le attività quotidiane, di uso comune, e quella riservata alle caste sacerdotali, poiché pare che il gesuita Joan Anello Oliva abbia scritto nel Monumenta Piruana codeste parole: “Il quipu che serba i segreti della religione e delle caste ha una chiave di compilazione e composizione differente. [...] Grazie alla dimestichezza che essi hanno con i fili, questi, li riavvolgono in nodi di differenti colori sino a formare il concetto desiderato”. Pare che nel racconto, Oliva descrivesse anche l’aspetto sillabico di un quipu che gli era stato mostrato e che raffigurava il Creatore Pachacamac, specificando che a ogni sillaba corrispondeva uno specifico nodo, in una data posizione ecc. Un messaggio cifrato, praticamente! Questa “arte combinatoria” dei nodi venne ritenuta (pur non comprendendola) idolatria e la stragrande maggioranza dei nodi venne data al rogo dai conquistatori ed evangelizzatori cristiani. Nel Rinascimento e poi nell’epoca moderna innumerevoli artisti, matematici e naturalisti dedicheranno un’attenzione e una ricerca particolari alle qualità e ai significati dei nodi, trasformandoli, in certi casi, in un vero linguaggio necessario per conoscere e spiegare le proprietà delle cose e le strutture del mondo.
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio innanzi tutto Rossella Faraldo, Elide Pittarello e Antonio Saggion per aver accettato di fare una rilettura attenta del manoscritto e per avermi suggerito degli utili miglioramenti e alcune interessanti integrazioni. Desidero inoltre ringraziare tutti coloro con cui ho potuto discutere, in diverse occasioni e in più momenti, di alcuni aspetti dei temi affrontati nel presente lavoro, in modo particolare Toni Rumbau, Martha Canfield, Anna Maria Medici, Antonella Ciabatti, Roberto Barbanti, Claudio Bartocci, Ernesto Carafoli, Claire Luna, Mimma Forlani, Lorraine Verner, Luis Rebaza-Soraluz, Enzo Tiezzi, Maurizio Gribaudi, Ashlee Redfern, Rosanna Tempestini Frizzi, Angela Gorini, Leonilde Russo, Fabrizio Gay, Maria Giulia Dondero, Giuseppe Longo, Mario Zunino, Luigi Zuccaro, Alessandro Sarti, Ugo Bruzzo, Nicoletta Zonchello, William Rowe, Giuseppe O. Longo, Ambra Zaghetto, Silvia De Toffoli, Jean-Pierre Luminet, Paolo Maroscia, Debbie Ford, Paolo Fabbri, Mauro Francaviglia, Placido Deplano, Filomena M. Molder, Gabriela Yepes, Rebecca Simpson, Amélie de Beauffort, Pierre Bernard, Emilio Giossi e Ivan Sirtori. Un ringraziamento particolare va a Josef Haddad, Nathalie Brusseaux e Anne-Gaëlle Amiot, la cui paziente e generosa assistenza tecnica durante il lavoro di realizzazione e riproduzione delle numerose figure e immagini contenute nel libro è stata indispensabile. Numerose correzioni, revisioni e riformulazioni fatte sul manoscritto iniziale le devo alle domande e osservazioni degli studenti
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che hanno seguito negli ultimi tre anni il mio seminario di ricerca all’EHESS dedicato al tema “Scienza e arte dei nodi”. Ringrazio inoltre i docenti e gli studenti che hanno partecipato ai miei seminari sulle “teorie topologiche dei campi quantistici” e sulla “topologia e geometria delle varietà tridimensionali”, tenuti rispettivamente alla SISSA di Trieste (febbraio 2008) e all’Università di Padova (aprile 2009), per le loro interessanti osservazioni e domande. Vorrei esprimere la mia sentita gratitudine a Ivana Bettoni, che mi ha fatto scoprire la forte carica eretica ed erotica di alcuni poemi di San Giovanni della Croce, a Elisabetta Zuccati, le cui danze e contorsioni del corpo nello spazio vuoto della piazza e delle contrade mi hanno ispirato alcune riflessioni sui diversi modi di movimento e di vibrazione dei nodi, e a Ivana Škevin, cui devo alcune delle considerazioni sui nodi marinareschi e sugli intrecci, da quelli letterari a quelli fisici, e per le conversazioni stimolanti sui rapporti tra linguaggi naturali e saperi pratici. Sono particolarmente riconoscente ai matematici, fisici e filosofi con i quali ho compiuto parte dei miei studi e poi scritto alcuni dei miei lavori. Molte cose che ho appreso e diverse idee che fanno da sfondo a questo lavoro le devo al loro insegnamento libero ed esigente. Ringrazio Michel Boileau per le fruttuose discussioni avute a Cargese sulla teoria topologica dei nodi e le sue applicazioni alla fisica e alla biologia, Annalisa Marzuoli per le utili informazioni che mi ha fornito sui nodi satelliti, e Jeff Weeks per i preziosi chiarimenti sul concetto di “dominio fondamentale” degli anelli (link) di Borromeo. I lavori classici sulla teoria matematica dei nodi di R.H. Crowell e R.H. Fox, D. Rolfsen, G. Burcke e H. Zieschang, L.H. Kauffman, K. Murasugi, C.C. Adams e W.B.R. Likorish hanno costituito le basi da cui ho attinto le mie conoscenze sull’argomento e imbastito le diverse esplorazioni lungo i molteplici sentieri e attraverso le infinite manifestazioni che offre la teoria. Sono particolarmente grato alla Fondazione Bogliasco (The Liguria Center for the Arts and Humanities) che mi ha conferito una fellowship durante l’autunno 2004; in quel magnifico e ispirante luogo che è Villa dei Pini ho potuto scrivere di getto la prima stesura di alcuni capitoli del libro. Desidero anche ringraziare le amiche e gli amici che mi hanno accompagnato e a volte orientato nelle letture di scrittori, poeti e saggisti. In particolare, coloro che mi hanno fatto scoprire la
Ringraziamenti
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straordinaria opera letteraria di José María Arguedas, Giuseppe Bonaviri, Yves Bonnefoy, Mamhud Darwish, Kenzaburō Ōe, Juan Rulfo, César Vallejo e Andrea Zanzotto. Una fonte costante e fantastica di illuminazione, gioia e conforto è stata la lettura di Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Italo Calvino, Samuel Beckett, Émile Cioran, Thomas Stearns Eliot, Hermann Hesse, Carlo Emilio Gadda, Fernando Pessoa, Rainer Maria Rilke, Arthur Rimbaud, José Saramago, Alvaro Mutis, Octavio Paz, Giuseppe Ungaretti e Paul Valéry. La mia gratitudine va infine alle persone che mi hanno prodigato un costante incoraggiamento durante il lungo periodo e le diverse fasi di scrittura e riscrittura del libro. La loro presenza fisica e/o spirituale mi ha dato la forza necessaria per portare a termine questo lavoro. Esprimo un vivo omaggio a Michele Mulas, in ricordo della sua creativa e squisita compagnia e amicizia. Il seme di questo libro è germogliato dall’incontro con Jorge Eielson e dal dialogo che ne è scaturito, interrotto solo dalla sua scomparsa. Il vero artigiano che ha intrecciato i fili e tessuto la trama di quest’opera sono gli stessi infiniti dialoghi avuti con lui sui temi più svariati e nei luoghi più insoliti. Ho scritto questo libro, tra mille dubbi e difficoltà, per immaginarmi che il dialogo con Jorge poteva continuare al di là della discontinuità fisica. Ciò dimostra che certi dialoghi continuano a “vivere” anche in assenza dell’essere con cui si dialoga. Questo lavoro è il mio modesto omaggio all’opera straordinariamente ricca dell’artista, e un umile contributo alla rifioritura di una visione eretica delle relazioni tra scienza e arte. Un’idea mi ha guidato durante questa tortuosa e incompiuta esplorazione: la trama dei nodi ha un nesso profondo con la trama e la tessitura delle cose e della vita. E mai come ora il compito di mettere in piena luce alcuni aspetti di questa connessione mi è apparso così affascinante e significante.
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Fig. 1.1: Riproduzione su autorizzazione di Cambridge University Press Figg. 1.2 e 1.3: © 2012 The M.C. Escher Company-Holland. All rights reserved (www.mcescher.com) Fig. 1.4: © Solomon R. Guggenheim Museum, New York Figg. 1.5, 2.1, 2.4, 4.2, 6.2, 6.6, 6.13, 6.14, 8.2, 10.2, 10.3, 10.4, 12.1 e 12.2: Riproduzioni su autorizzazione del Centro Studi Jorge Eielson Fig. 2.3: © Jared Schneidman Design Fig. 6.1: Musée du quai Branly, Parigi. © Photo Scala, Florence Fig. 6.11: Musée du Louvre, Parigi. © Agence Photographique de la Réunion des Musées Nationaux / Thierry Le Mage Fig. 6.12 (in basso): Per gentile concessione di Jeff Weeks Figg. 7.1, 7.2h, 8.1 e 8.4: © SIAE 2012 tutti i diritti riservati. Si ringrazia la Fondazione Lucio Fontana Le illustrazioni non elencate sono state fornite dall’autore.
i blu – pagine di scienza
Volumi pubblicati R. Lucchetti Passione per Trilli. Alcune idee dalla matematica M.R. Menzio Tigri e Teoremi. Scrivere teatro e scienza C. Bartocci, R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti (a cura di) Vite matematiche. Protagonisti del ’900 da Hilbert a Wiles S. Sandrelli, D. Gouthier, R. Ghattas (a cura di) Tutti i numeri sono uguali a cinque R. Buonanno Il cielo sopra Roma. I luoghi dell’astronomia C.V. Vishveshwara Buchi neri nel mio bagno di schiuma ovvero L’enigma di Einstein G.O. Longo Il senso e la narrazione S. Arroyo Il bizzarro mondo dei quanti D. Gouthier, F. Manzoli Il solito Albert e la piccola Dolly. La scienza dei bambini e dei ragazzi V. Marchis Storie di cose semplici D. Munari novepernove. Sudoku: segreti e strategie di gioco J. Tautz Il ronzio delle api M. Abate (a cura di) Perché Nobel? P. Gritzmann, R. Brandenberg Alla ricerca della via più breve P. Magionami Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio E. Cristiani Chiamalo x! Ovvero Cosa fanno i matematici? P. Greco L’astro narrante. La Luna nella scienza e nella letteratura italiana P. Fré Il fascino oscuro dell’inflazione. Alla scoperta della storia dell’Universo R.W. Hartel, A.K. Hartel Sai cosa mangi? La scienza del cibo L. Monaco Water trips. Itinerari acquatici ai tempi della crisi idrica A. Adamo Pianeti tra le note. Appunti di un astronomo divulgatore C. Tuniz, R. Gillespie, C. Jones I lettori di ossa P.M. Biava Il cancro e la ricerca del senso perduto G.O. Longo Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini R. Buonanno La fine dei cieli di cristallo. L’astronomia al bivio del ’600 R. Piazza La materia dei sogni. Sbirciatina su un mondo di cose soffici (lettore compreso)
N. Bonifati Et voilà i robot! Etica ed estetica nell’era delle macchine A. Bonasera Quale energia per il futuro? Tutela ambientale e risorse F. Foresta Martin, G. Calcara Per una storia della geofisica italiana. La nascita dell’Istituto Nazionale di Geofisica (1936) e la figura di Antonino Lo Surdo P. Magionami Quei temerari sulle macchine volanti. Piccola storia del volo e dei suoi avventurosi interpreti G.F. Giudice Odissea nello zeptospazio. Viaggio nella fisica dell’LHC P. Greco L’universo a dondolo. La scienza nell’opera di Gianni Rodari C. Ciliberto, R. Lucchetti (a cura di) Un mondo di idee. La matematica ovunque A. Teti PsychoTech - Il punto di non ritorno. La tecnologia che controlla la mente R. Guzzi La strana storia della luce e del colore D. Schiffer Attraverso il microscopio. Neuroscienze e basi del ragionamento clinico L. Castellani, G.A. Fornaro Teletrasporto. Dalla fantascienza alla realtà F. Alinovi GAME START! Strumenti per comprendere i videogiochi M. Ackmann MERCURY 13. La vera storia di tredici donne e del sogno di volare nello spazio R. Di Lorenzo Cassandra non era un’idiota. Il destino è prevedibile W. Gatti Sanità e Web. Come Internet ha cambiato il modo di essere medico e malato in Italia A. De Angelis L’enigma dei raggi cosmici J.J. Cadenas L’ambientalista nucleare. Alternative al cambiamento climatico M. Capaccioli, S. Galano Arminio Nobile e la misura del cielo N. Bonifati, G.O. Longo Homo Immortalis F. De Blasio Aria, acqua, terra e fuoco - Volume I. Terremoti, frane ed eruzioni vulcaniche L. Boi Pensare l’impossibile. Dialogo infinito tra arte e scienza
Di prossima pubblicazione F. De Blasio Aria, acqua, terra e fuoco - Volume II. Uragani, alluvioni, tsunami e asteroidi S.E. Hough Prevedere l’imprevedibile. La tumultuosa scienza della previsione dei terremoti G. Glaeser, K. Polthier Immagini della matematica