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Italian Pages xvi, 185 [203] Year 1987
CESARE CASES
PATRIE LETTERE
EINAUDI
Le incursioni di un critico militante fra i patrii scrittori, da Manzoni e De Roberto a Gadda ed Elsa Morante, da Pratolini a Primo Levi, da Fortini a Calvino. ISBN 8 8 - 0 6 - 5 9 4 0 1 - X
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M.C.E.
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788806 594015
Patrie lettere, la raccolta di saggi e articoli sulla letteratura italiana di Cesare Cases uscita nel 1974, appare in nuova edizione pressoché raddoppiata. Interventi «in casa» e insieme «fuori casa», perché Cases non è un italianista di mestiere ma li ha scritti prima con la passione del critico militante - a ciò allude l'ironia del titolo - , poi per interessi più casuali e perché il lupo perde il pelo ma non il vizio di occuparsi di cose che non lo riguardano. Del resto, a parte qualche tuffo nel passato, l'intrusione è giustificata dalla lunga frequentazione e affinità di idee e sentimenti con parecchi degli autori trattati: con Calvino, sul cui Barone rampante Cases ha scritto uno degli articoli più frequentemente riprodotti nelle antologie della critica (non solo calviniana); con Primo Levi, di cui recensì sia pur brevemente già il primo libro quando nessuno ancora ne parlava; con Elsa Morante, cui è dedicato un ampio saggio. Oppure, inversamente, è l'estro polemico che agita la penna di Cases, come nel famoso saggio su Gadda, tanto acuto quanto discutibile. Discutibili possono essere tutti questi interventi, ma tutti lasciano il segno, conditi come sono da quel miscuglio di rigidità morale (e talora anche ideologica e politica) e di relativismo ironico che è la contraddittoria caratteristica dell'autore. Dopo Il testimone secondario, questa seconda raccolta di scritti di Cases conferma l'incisività della sua presenza nell'arco di decenni in cui molti prodotti della penna sono crollati insieme agli idoli cui erano stati affissi.
In M>pracoperta: C e s a r e C a s e s i n u n a f o t o g r a f i a di I n g e Si h l a d e n .
Cesare Cases è nato a Milano nel 1920 e insegna letteratura tedesca all'Università di Torino. Ha pubblicato Marxismo e neopositivismo (Einaudi, 1958), Saggi e note di letteratura tedesca (Einaudi, 1963), Thomas Mann (Studio Tesi, 1983), Su Lukàcs (Einaudi, 1985), Il testimone secondario (Einaudi, 1985).
SAGGI
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© 1987 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino ISBN 8 8 - 0 6 - 5 9 4 0 1 - x
Cesare Cases
Patrie lettere
Giulio Einaudi editore
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Indice
p. ix xi xv
Prefazione alla nuova edizione Premessa all'edizione 1974 Avvertenza bibliografica
Patrie lettere
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Letteratura italiana e letterature straniere (1977) Gli italiani esortati alle «pizze» (1986) Platonico dalla cintola in giù (1985) Ritratto dell'abate Galiani (1857) Manzoni «progressista» (1956) Federico De Roberto (1981) Un ingegnere de letteratura (1958) Opinioni su Metello e il neorealismo (1955) II baricentro nel sedere (1971) La Germania di Levi (1959) ha Storia. Un confronto con Menzogna e sortilegio (1974) Mezzogiorno e coscienza letteraria (1958) Levi racconta l'assurdo Difesa di «un» cretino (1967) Levi ripensa l'assurdo (1986) Fortini politico (1985)
156
Milanesi e coccodrilli (1985)
3 12 17 21 30 37 41 70 88 98 104 126
137 138 144
vili
Indice
p. 160
Calvino e il «pathos della distanza» (1958)
167
Calvino al bando (1973)
172
Ricordo di Calvino (1985)
176
Un illuminista irrazionalista (1982)
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Indice dei nomi
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Prefazione alla nuova edizione
Rispetto alla prima edizione, apparsa nel 1974 presso Liviana editrice nella collana « Scartabelli» per iniziativa dei suoi direttori, Pier Vincenzo Mengaldo, Antonio Quaglio e Sergio Romagnoli, cui rinnovo i miei ringraziamenti, questa è pressoché raddoppiata, ciò che significa che l'addio alle patrie lettere che concludeva la vecchia prefazione non era definitivo e che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Responsabile di questi ritorni di fiamma è soprattutto «L'indice dei libri del mese», da cui è tratta la maggior parte dei nuovi contributi. Ma ce n'è altri, come quello iniziale sui rapporti tra letteratura italiana e letterature straniere, che rientrano nella divulgazione accademica, genere rispettabilissimo che coltivo molto volentieri, però scarsamente compatibile con il resto. Lo stesso «Indice» è invece colpevole di un'escursione dalle patrie lettere al patrio linguaggio. Tali intrusioni intorbidano l'immagine del critico militante stanco che tentavo di delineare nella prefazione alla prima edizione. Del resto viviamo in epoca di pluralismo trionfante, e più bizzarramente diversi e contraddittori sono i lacerti di noi medesimi che offriamo al pubblico e più dovremmo meritare il plauso dello spirito del tempo. Più vicino (anche cronologicamente) al modello della critica militante è il lungo saggio sulla Morante che confronta il libro suo da me più amato con quello che mi aveva deluso: l'unico, poiché Aracoeli mi piacque ancora moltissimo e lo considero per certi rispetti il capolavoro della scrittrice. Mi duole di non essermene mai occupato, del resto Fortini aveva detto subito quello che si doveva dire. Il saggio su ha Storia mi fruttò un indimenticabile invito a cena di Elsa, di passaggio a Torino, in un ristorante in
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Prefazione alla nuova edizione
collina. «Tu devi aver scritto un certo articolo, - mi disse, - ma io me ne sono dimenticata, anzi non l'ho nemmeno letto, e stasera faremo come se non l'avessi mai scritto». Cosi fu. A differenza della prima edizione, in cui gli articoli erano in ordine di pubblicazione, qui avrebbero dovuto essere in ordine cronologico degli autori o argomenti trattati. Dico «avrebbero dovuto » perché non sono andato a controllare, fidandomi della memoria, e mi sono accorto troppo tardi che qualcuno era fuori posto (anzi per la verità se n'è accorto l'amico Luca Baranelli, che mi ha concesso il suo prezioso aiuto anche per questa raccolta). Non tutto il male vien per nuocere, perché sono lieto che tra i ringiovaniti ci sia la Morante, in realtà più vecchia di Pratolini che qui viene dopo. Ma la mia è poca generosità, e inconscia, di fronte alla tanta e conscia che da lei promanava. Dedicherei questi articoli alla sua memoria, se non fosse che mi sembrano un mazzo di fiori già un po' appassiti e destinati ad accartocciarsi subito davanti allo sguardo inceneritore di quella dèa tanto generosa con gli amici quanto implacabile con le loro fissazioni ideologiche. CESARE CASES
Gennaio 1987.
Premessa all'edizione
1974
Risulta da questi scritti, che gli amici direttori della collana mi hanno esortato a raccogliere, che di quando in quando mi punge vaghezza di occuparmi delle patrie lettere. Salvo due recenti ricadute, ciò sembra essermi occorso negli anni Cinquanta, quando mi identificavo con il tipo del critico «militante». Rileggendo, sono colpito dalla distanza che separa l'autore di quelle pagine dallo scrivente. Patrie lettere non è un modo di dire. Se accusavo Gadda di «rabbioso nazionalismo», non meno rabbioso era il mio nazionalismo di sinistra, quale emerge dalla chiusa dello stesso saggio su Gadda o da quello sul Metello di Pratolini, ma anche dalle considerazioni sul Galiani «parigino» e «napoletano». Se questo è un segno dei tempi che rientra nel clima gramsciano, mia peculiare è la connessione con un altrettanto furibondo pedagogismo: gli italiani dovevano diventar tali andando tutti a scuola, e a una scuola rigida, autoritaria e centralizzata come quella che piaceva al Galiani e al Manzoni. Le esperienze del 1968, che dovevano indurmi a cambiare radicalmente le mie idee in proposito, erano ancora lontane. Rimproveravo a Felice Del Vecchio di aver tratto scarso profitto dalla Scuola Normale, come se non si desse per avventura anche la possibilità che dalla Scuola Normale ci fosse da trarre solo scarso profitto. In generale la scuola e l'università mi sembravano istituzioni di per sé eccellenti, che si potevano solo potenziare, mai contestare. Terzo punto: il pathos della «coscienza». A scuola gli italiani ci dovevano andare per passare dall'incoscienza alla coscienza, la prima essendo il peccato originale, la seconda il pegno di salvezza. Ma quale coscienza? Nella scuola cosi com'è non si può essere avviati altro che alla coscienza delle
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Premessa all'edizione 1974
classi dirigenti, e questa non è la coscienza che devono assumere le classi oppresse. Di tale problematica sembra che io non avessi allora il menomo sentore, ciò che si avverte anche nel modo in cui affronto la questione meridionale. Si aggiunga il pregiudizio contro l'avanguardia: Felice Del Vecchio valeva meno di Proust, ma con qualche iniezione di coscienza avrebbe potuto valere molto di più, e se si accostava Carlo Levi a Kafka o Gadda a Joyce o a Musil non era, come si potrebbe erroneamente pensare, per fargli un complimento. Eppure anche il mio masochismo autocritico deve riconoscere che questi limiti non tolgono ogni valore ai vecchi scritti. Non a caso essi non furono, ai loro tempi, in odore di santità presso la sinistra ufficiale, di cui pure condividevano il quadro generale. Proprio l'istanza pedagogica, il richiamo al dover essere, attizzati da Lukàcs e dal Gramsci di Letteratura e vita nazionale, avevano il merito di radicalizzare quel quadro e di non dar nulla per scontato. Là dove altri si compiaceva a piantar bandierine, a proclamare annessioni ed esclusioni, io seminavo dubbi. D'accordo con Muscetta quando si trattava di negare che il Metello rappresentasse il «passaggio dal neorealismo al realismo», polemizzavo poi con la sua liquidazione del Manzoni. Allora si trattava, non solo per me ma per tutti, di amministrare 1'«eredità» e di convogliarla verso il «realismo»: io mi limitavo a manovrare diversamente gli scambi, più generosamente per il passato, più avaramente per il presente. Il saggio sul Pasticciaccio, scritto anch'esso d'accordo con Muscetta che dirigeva il «Supplemento scientifico-letterario» di «Mondo operaio», su cui apparve, reagisce invece agli inizi della fase, tuttora in corso, di abdicazione e confusione ideologica della sinistra. E significativo che, come è stato osservato, esso rimanga l'unico lavoro scritto contro Gadda, sia pure con un fondo di comprensione e di simpatia. Certo, è facile oggi scorgere eccessi e stonature, specie nell'insopportabile fanfara finale con l'elogio del «buon cittadino», la mezza apologia del questore di Milano (qui in odio all'Ingravallo di Gadda divenivo quasi un precursore di Frutterò & Lucentini) e il furibondo centralismo linguistico. Tuttavia la sostanza dell'analisi mi sembra ancor oggi
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giusta, e se io eccedevo in retorica socialpatriottarda ho l'impressione che adesso si ecceda nel trattare ogni sforzo unitario della borghesia solo ed unicamente come violenza di classe. Lo scappellarsi di fronte ai dialetti può servire a tranquillizzare la cattiva coscienza di chi li ha distrutti anziché conciliarli, cioè di quella stessa borghesia, ma non giova alle classi oppresse che hanno bisogno di intendersi e non di separarsi. Posso aver fallato nell'accettare, insieme all'«eredità» borghese, anche la violenza che ne faceva parte, ma non nell'individuare nel successo del Pasticciaccio l'inizio di un'operazione confusionaria e regressiva. La ricca aneddotica gaddiana comprende anche la reazione dell'interessato, cui qualche titubante amico aveva portato il mio articolo. Sembra che egli, lettolo, abbia detto: «Il Cases vorrebbe che il Gadda fosse socialista, ma il Gadda non è socialista». La frase coglieva bene quello che c'è di velleitario in una critica militante che non si arrende all'evidenza di ciò che vorrebbe che non fosse, anziché accettarlo com'è e trarne vantaggio per il proprio discorso - ciò che io pure parzialmente tentavo di fare - , ma ne risultava che entrambi eravamo d'accordo su un punto, e cioè che il Gadda non era socialista mentre secondo il Cases bisognava esserlo (anche se allora il suo socialismo assomigliava piuttosto a una dittatura giacobina): gli altri sembravano essersi dimenticati di questa trascurabile esigenza. Il mio nazionalismo giacobino-gramsciano era forse anche un inconscio correttivo alle origini non italiane (specie Lukàcs e Karl Kraus) delle mie ispirazioni culturali più profonde. Esse peraltro comportavano dei vantaggi. Il lukacsiano richiamo alla «totalità», che sentivo estraneo a Gramsci (cfr. il mio pamphlet Marxismo e neopositivismo, Einaudi, Torino 1958), mi permetteva talora di conciliare i furori militanti con analisi abbastanza motivate e dialettiche, senza cadere nell'eclettismo tra giudizio politicosociale ed estetico che caratterizzava la maggior parte della critica del tempo, a cui forse si sarebbe meglio attagliato l'epigramma di Gadda nei miei confronti. Si veda per esempio il discorso sul Barone rampante, dove non mi sfuggiva il sostanziale riformismo di Calvino ma anche la sua capacità di ironizzarlo poeticamente, o
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Premessa all'edizione 1974
l'analisi del populismo del Metello, che nonostante la mitologia della «coscienza» mi sembra meno dogmatica e categoriale di quella poi diffusamente condotta da Asor Rosa in Scrittori e popolo. Nell'intervento sul Metello affiora anche, a proposito del culto della verginità, Karl Kraus. Il suo influsso segna i limiti del mio moralismo, che poteva essere giacobino ma non era conformista, anzi apriva brecce nel muro eretto dalla vulgata di sinistra intorno ai rapporti tra politica e condotta di vita (toccando qui punte femministe) e sapeva che bisognava prendersela più con il criptocattolicesimo comunista che con il cattolicesimo militante, non privo di spunti progressisti, di un Alessandro Manzoni. Insomma, se non credo più nelle patrie lettere - come risulta da alcuni degli scritti qui raccolti - , non ho ragione di vergognarmi del piccolo contributo che ho tentato di dar loro al tempo in cui ci credevo. Perciò non ho soppresso nulla (salvo la parte puramente bio-bibliografica dell'introduzione al Galiani), nemmeno negli ultimi capoversi dell'intervento sul Metello, da cui si sprigionano legioni di scrittori realisti e di critici marxisti che nessuno ha poi visto sfilare in carne ed ossa. La mia prassi valeva più delle mie profezie, e in generale, contrariamente a quanto affermava recentemente Goffredo Fofi in replica a Calvino al bando, mi sono sempre rivelato miglior critico che teorico, anche se la mia critica ha bisogno di nutrirsi di teoria.
Avvertenza bibliografica. I testi di questa raccolta sono stati pubblicati nei seguenti periodici e volumi: Letteratura italiana e letterature straniere, in Dizionario della letteratura italiana, a cura di Ettore Bonora, Rizzoli, Milano 1977, voi. I. Gli italiani esortati alle «pizze», «L'indice dei libri del mese», Torino, in (1986), n. 2. Platonico dalla cintola ingiù, «L'indice dei libri del mese», Torino, 11 (1985), n. 1. Ritratto dell'abate Galiani, Prefazione a F. Galiani, Dialogo sulle donne e altri scritti, a cura di Cesare Cases, Feltrinelli, Milano 1957. Manzoni «progressista», «notiziario Einaudi», Torino, v (1956), n. 3 (parzialmente ristampato in L. Caretti, Manzoni e la critica, Laterza, Bari 1969). Federico De Roberto, «L'Espresso», Roma, 25 ottobre 1 9 8 1 . Un ingegnere de letteratura, «Mondo operaio», Roma, xi (1958), Supplemento scientifico-letterario al n. 5. Opinioni su «Metello» e il neorealismo, «Società», Roma, xi (1955), n. 6. Il baricentro nel sedere, «quaderni piacentini», Piacenza, x (1971), n. 43. La Germania di Levi, «Passato e presente», Roma, 11 (1959), n. 1 1 - 1 2 . «La Storia». Un confronto con «Menzogna e sortilegio», «quaderni piacentini», Piacenza, X I I I (1974), n. 53-54. Mezzogiorno e coscienza letteraria, «Mondo operaio», Roma, xi (1958), Supplemento scientifico-letterario al n. 3-4. Tre note su Primo Levi-, Levi racconta l'assurdo, «Bollettino della Comunità Israelitica di Milano», maggio-giugno 1948. Difesa di «un» cretino, «quaderni piacentini», Piacenza, vi (1967), n. 30. Levi ripensa l'assurdo, «L'indice dei libri del mese», Torino, 111 (1986), n. 7. Fortini politico, «L'indice dei libri del mese», Torino, 11 (1985), n. 2. Milanesi e coccodrilli, «L'indice dei libri del mese», Torino, 11 (1985), n. 4.
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Avvertenza bibliografica
Calvino e il «pathos della distanza», «Città aperta», Roma, n (1958), n. 7-8 (ristampato in I metodi attuali della critica letteraria in Italia, a cura di Maria Corti e Cesare Segre, E R I , Torino 1970). Calvino al bando, «quaderni piacentini», Piacenza, xn (1973), n. go. Ricordo di Calvino, «L'indice dei liberi del mese», Torino, n (1985), n. 8. Un illuminista irrazionalista, «L'Espresso», Roma, 5 settembre 1982.
Patrie lettere
Letteratura italiana e letterature straniere
In una celebre analisi del canto di Farinata, Erich Auerbach ha mostrato quale svolta qualitativa significasse nella storia del realismo occidentale lo stile della Divina commedia. E a questo momento che la letteratura italiana acquisisce di colpo il vantaggio che la renderà egemone fino all'inizio del Seicento. Fino ad allora essa era stata largamente tributaria di due letterature già affermate: la provenzale, che aveva creato per la poesia lirica una coscienza formale e un mondo concettuale diffusosi in tutto l'Occidente, e la francese che aveva offerto una copiosa produzione soprattutto di poesia e prosa narrativa, cortese e cavalleresca. Anche Dante ¿à la palma, per la prosa, alla lingua d'o'il, in cui aveva scritto il suo maestro Brunetto Latini, cosi come Lanfranco Cigala e Sordello da Goito avevano poetato in provenzale. Le tecniche del linguaggio letterario si apprendevano infatti insieme al linguaggio stesso, che al contempo era più familiare alle esigue cerchie, largamente internazionali, dei colti. Perciò Rustichello da Pisa ricorre al francese, in cui si era già addestrato, per redigere il racconto dei viaggi di Marco Polo. Il volgare italiano apparve dapprima in opere a carattere didascalico o nella poesia lirica, sorta nella «magna curia» siciliana, non a caso nel punto più lontano dalla lingua provenzale (ma non dalla sua cultura, che circolava dappertutto). Il grande mutamento che ha luogo nel Trecento ha il rigoglio della vita comunale italiana come premessa necessaria, ma non sufficiente. L'inerzia delle forme e dei linguaggi letterari permette loro di mantenersi a lungo anche in diverse condizioni spirituali, laddove i contenuti ne sono sensibilmente modificati. Cosi
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Letteratura italiana e letterature straniere
la produzione di romanzi cavallereschi in francese continua nell'Italia settentrionale per tutto il Trecento e fin nel Quattrocento, ma la «materia di Francia» (per cui ancora l'Ariosto ricorre direttamente agli originali) vi è vieppiù snaturata e imborghesita. E l'apparizione di tre grandi scrittori, che per di più illustrano generi diversi, a invertire i segni e a offrire modelli la cui efficacia si protrae per secoli. L'eccezionalità di Dante lo rende più ammirato che compreso: in ambito internazionale la Divina Commedia viene recepita soprattutto come grande impresa allegorico-enciclopedica e quindi messa accanto a quel Roman de la Rose la cui imitazione (nel Fiore) era stata una tappa nella stessa evoluzione del poeta, nonché ai Trionfi del Petrarca. Cosi avviene in Geoffrey Chaucer, che grazie ai suoi viaggi in Italia è il primo straniero importante a scoprire gli scrittori italiani e a giovarsi di essi. Massimo è in lui l'influsso di Dante («the grete poete of Ytaille») ed egli nomina il Petrarca di cui traduce un sonetto inserendolo nel Trotlus. Non menziona invece mai il Boccaccio, che pure utilizza ampiamente (dalla novella di Griselda, nella traduzione latina del Petrarca, al Filostrato), e si suppone addirittura che forse non conoscesse il Decameron, pervenendo indipendentemente all'invenzione della cornice dei Canterbury Tales, e attribuisse al Petrarca le opere boccaccesche a lui note. Comunque sia, in Chaucer l'influsso dei tre grandi trecentisti è contemporaneo e determinante. Ma Chaucer resta un caso isolato che non ha seguito nemmeno in Inghilterra. In generale la cultura degli altri paesi europei non era ancora preparata ad accogliere i fermenti novatori che provenivano dall'Italia; il Quattrocento resta un secolo d'incubazione in cui gli italiani (ad esempio in Spagna) agiscono piuttosto attraverso gli aspetti medievali, dottrinari e morali, delle loro opere. Fa eccezione l'influsso del Petrarca (attraverso il cancelliere Johannes von Neumarkt) sulla corte imperiale di Praga, nel cui ambito sorge alle soglie del secolo l'appassionato dialogo preumanistico di Johannes von Tepl tra l'aratore e la morte (Der Ackermann aus Böhmen). E il Rinascimento ad aprire le porte alla cultura italiana, recuperando anche Petrarca e Boccaccio. L'unità medievale si è dis-
ioLetteratura italiana e letterature straniere
solta (ciò che rende largamente inattuale Dante), gli Stati nazionali che si vanno formando hanno bisogno di una nuova cultura che rifletta le esigenze delle élites tra aristocratiche e borghesi che gravitano soprattutto intorno alle corti. Due opere che hanno un enorme successo internazionale, il Cortegiano del Castiglione e il Galateo del Della Casa, offrono rispettivamente il modello ideale di queste élites e quello spicciolo. La Francia del primo Cinquecento, con Francesco I e sua sorella Margherita di Navarra, diventa infeudata ai costumi, all'arte e alle lettere italiane, cosi come l'Inghilterra nella seconda metà del secolo, quando anche la lingua italiana è di moda e Giovanni Florio, un italiano stabilitosi a Oxford e a Londra, scrive trattati che iniziano i gentiluomini insieme alla conoscenza della lingua e delle « maniere » italiane. E l'ora della scoperta o della riscoperta del linguaggio letterario italiano come modello formale illustre, e chi se ne avvantaggia è anzitutto il Petrarca, che diventa il capostipite della lirica amorosa moderna. Certo, il petrarchismo europeo riprende i moduli più estrinseci, meccanicamente imitabili e riproducibili all'infinito, della poesia petrarchesca: soprattutto l'antitesi e l'iperbole. Del resto il Petrarca importato è già segnato dal concettismo degli imitatori italiani (Serafino Aquilano) e della poesia latina da lui ispirata (Michele Marnilo, Giulio Cesare Scaligero). In queste forme il suo influsso trionfa nel corso del Cinquecento in Dalmazia (Mencetic), in Inghilterra (Wyatt e Surrey), in Francia (poeti della Plèiade), in Spagna (Garcilaso de la Vega), in Olanda (Heinsius, Hooft) e altrove, da ultimo nel secondo decennio del Seicento in Germania (Weckherlin, Opitz). In tale sterminata produzione il Petrarca appare ormai solo come un « avo remoto », per dirla con un critico (Hans Pyritz), di cui a malapena ci si ricorda, ma il cui spirito riemerge dalla moda stimolando sempre nuovi esiti di altezza lirica, di struggimento tra sensuale e metafisico, in Scève, nei sonetti di Shakespeare, in Jean de Sponde, in Donne e Gryphius. Meno lineare - se lineare si può definire il corso di un fiume per il solo fatto che ha per fonte quell'«avo remoto» - è l'influsso del Boccaccio e dei novellieri posteriori. VHeptaméron di Mar-
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Letteratura italiana e letterature straniere
gherita di Navarra è consapevolmente ispirato al Decameron, ma più nelle strutture che nello spirito e nei contenuti. Quanto a Shakespeare e ai drammaturghi elisabettiani, si sa che essi ricorrono spesso ai novellieri cinquecenteschi, ma in loro l'Italia non è tanto o soltanto una fonte di trame e di ambientazioni quanto uno sfondo ideologico, un terreno su cui imperversano le passioni sfrenate e l'istinto del potere, come e più della storia romana o della guerra delle due rose. Il senechismo mediato da Giambattista Giraldi Cintio è alla base della truculenza delle vicende; il Machiavelli (più orecchiato che letto) è il teorico che sta dietro ai malvagi assetati di potere, e forse il soggiorno di Bruno in Inghilterra non è estraneo allo spirito copernicano che rende possibile (specie in Marlowe) la sovversione di tutti i valori. Gli elisabettiani parlano della tumultuosa e contraddittoria ascesa di un paese che è il loro, ma i termini per esprimerla li traggono spesso da cose e idee italiane. Il petrarchismo europeo e il dramma elisabettiano sono i due episodi più vistosi dell'azione della cultura italiana, ma è inutile ricordare che l'Ariosto e il Tasso sono letti dappertutto e influenzano la poesia epica dalla Fairy Queen dello Spenser a Os Lusiadas del Camòes alla Jerusalén conquistada di Lope de Vega, e che anche «minori» come il Pulci e il Folengo diventano fermenti importanti in Rabelais. L'Arcadia del Sannazaro è all'origine del romanzo pastorale, dalla Diana di Jorge de Montemayor all'Arcadia del Sidney e all'Astrée di Honoré d'Urfé, e ancora più grande è il successo del dramma pastorale, più che dell'Aminta del Pastor fido, la cui meritata fama «fino a Stoccolma e a Pietroburgo» ancora Voltaire contrapporrà polemicamente a quella di Shakespeare «che non ha potuto varcare il mare». Diffusissimi furono anche i trattati d'amore e quelli di poetica, specie nelle sintesi dello Scaligero e del Castelvetro. Quando Boileau reagisce al culto dei nostri poeti, lo fa pur sempre in nome dei nostri trattatisti. Poiché il Seicento segna l'inversione di tendenza. Le stesse élites che avevano avuto bisogno del modello italiano per prendere coscienza di se stesse possono ora scrollarselo di dosso: l'Italia è un paese in piena decadenza, per i protestanti è anche il paese
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Letteratura italiana e letterature straniere
degli odiati, ipocriti «papisti». Tuttavia l'ultimo grande ammiratore della cultura italiana è proprio un puritano, John Milton, che scrisse anche parecchi sonetti nella nostra lingua e risenti grandemente dell'esempio del Tasso (segnatamente come teorico) e del Della Casa, da cui trasse la forma del sonetto dominato dall'enjambemenfc esempi di travaglio spirituale o almeno di travaglio poetico che il severo inglese doveva certo preferire al Marino, caro invece al poeta cattolico Richard Crashaw. Del resto il Marino, nonostante il soggiorno e gli onori tributatigli in Francia, viene a rappresentare la variante italiana di un gusto internazionale, il barocco, che domina il secolo e in cui forse l'influsso italiano più forte non è quello di un poeta bensì quello degli Emblemata dell'Alciato, fortunato capostipite di un allegorismo che compenetra profondamente la letteratura, specie la spagnola e la tedesca; quest'ultima si giova anche delle opere italiane a carattere enciclopedico (per esempio Grimmelshausen sfrutta la Piazza universale del Garzoni). La letteratura italiana è diventata una tra le tante: ciascuno prende il suo bene dove lo trova, avrebbe detto La Fontaine (che si ispirò al Boccaccio e all'Ariosto nei Contes), ciò che soprattutto nel sottobosco letterario poté condurre a una specie di equilibrio come quello creatosi, già a partire dal Cinquecento, tra la letteratura italiana e la spagnola. Se le lettere italiane continuano nei secoli seguenti ad esercitare influssi, essi non hanno più quindi un carattere di rivelazione o di modello e sono soltanto momenti costitutivi dell'esperienza di uno scrittore. Cosi Rousseau e Goethe potranno identificarsi con il destino del Tasso. Gli italiani diventeranno parte integrante del patrimonio recuperato dalla letteratura tedesca nel suo periodo di fioritura, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, ma anche in questo caso recuperi veramente determinanti per la prassi poetica, come quello dell'Ariosto nell'Omero« di Wieland o del Petrarca nei sonetti di W. A. Schlegel e di Goethe, saranno eccezioni. Più comune è il caso della riviviscenza già storicizzata, come la riscoperta di Dante da parte dei romantici, o della simpatia per il contemporaneo in cui si scorgono affinità d'intenti, come quella di Goethe per il Manzoni. La storia degli influssi si ato-
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Letteratura italiana e letterature straniere
mizza in una serie di incontri alquanto casuali che interessano prevalentemente gli storici letterari. Che D. H. Lawrence abbia mostrato grande interesse per il Verga e che Robert Musil sia stato uno dei pochi autori effettivamente scossi da D'Annunzio (dal Piacere) e non soltanto toccati da una moda, sono fatti che hanno un'importanza quasi puramente biografica. L'unico movimento italiano che ha avuto risonanza internazionale (in Francia e tra gli espressionisti tedeschi, non tra i futuristi russi che sono sorti indipendentemente) è il futurismo. E sarebbe da sottolineare l'attuale vitalità di Dante, non più visto secondo i moduli romantici come presunto anticipatore dell'era moderna e gigante del realismo fantastico, ma anzi come interprete di un luminoso ordine metafisico e verbale che si erge contro l'irrompere dell'anarchia e della barbarie degli interessi materiali e egoistici. Ciò che per secoli aveva determinato la freddezza nei suoi confronti, e cioè il suo rifiuto di accettare lo sviluppo economico e politico cui doveva la sua ricchezza spirituale ma di cui intravedeva i pericoli, lo rende quanto mai attuale oggi che l'umanità medita sui risultati di questo sviluppo. Da Claudel a Eliot a Pound a Beckett, da George a Borchardt a Peter Weiss, il primo grande poeta italiano sembra essere paradossalmente anche quello più vivo nella coscienza poetica contemporanea. Nel formarsi di quella che Goethe chiamò la Weltliteratur, cioè del confronto reciproco di letterature nazionali ormai tutte maggiorenni o in via di diventarlo, l'Italia resta addietro proprio perché l'epoca letteraria che aveva costituito la sua gloria diventa un'imperiosa tradizione cui è difficile sottrarsi. Se il Chiabrera riprende i metri della Plèiade, è perché essi si possono facilmente assimilare a questa tradizione. Cosi il teatro spagnolo viene adattato al repertorio della commedia dell'arte, mentre Cervantes e i romanzieri picareschi, per quanto tradotti, lasciano poche tracce. Sintomatico è il fatto che nel Settecento ci siano famose traduzioni in versi - quelle degli idilli di Salomone Gessner, l'Ossian del Cesarotti - di opere in prosa, sia pure poetica. Quando la tradizione non riesce ad assorbire l'apporto straniero essa entra
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Letteratura italiana e letterature straniere
in crisi. È quanto largamente accade nei due massimi momenti d'influsso straniero, illuminismo e romanticismo, in Italia strettamente connessi. Tale crisi d'identità porta a esiti diversi: dalla soluzione più radicale che è l'abbandono almeno parziale della propria lingua - il Cesarotti affermava che «la lingua francese è ormai comunissima a tutta l'Italia», e in francese scrissero il Galiani, il Baretti, il Denina e molti altri, per non parlare naturalmente del Goldoni - al tentativo di svecchiarla in senso antiletterario, come fece soprattutto il gruppo del «Caffè», fino a quello di mantenere e adattare le vecchie forme (non senza accenti rivendicativi e antifrancesi) riversando in esse i nuovi contenuti d'Oltralpe: è l'operazione cui attendono in varie guise il Parini, l'Alfieri, il Monti. Di fronte all'enorme influsso della letteratura francese, che diventa un'indispensabile cassa di risonanza, sicché molte opere inglesi ci giungono attraverso traduzioni francesi e inversamente la Francia crea la fortuna internazionale di un Beccaria (e, su un piano più ristretto, ad esempio della Merope del Maffei), passano in seconda linea quelli delle altre letterature, che pure si giovano di attivi mediatori come il Baretti e poi il Foscolo per l'inglese e Aurelio De Giorgi - Bertola per la tedesca. Tuttavia alla svolta del secolo queste letterature acquistano importanza per l'introduzione dei motivi preromantici (Young, Ossian, il Werther) di cui il Foscolo si fa geniale interprete, pur riconducendoli nell'alveo classico. La versione del Berchet di due ballate del Burger, con cui si suole far iniziare il movimento romantico, è invece una proposta dichiaratamente «popolare», cosi come il ricorso ai romanzi di Scott e ai drammi di Schiller (assai cari al Mazzini) vuole ridare contenuti storici nazionali a una letteratura minacciata dall'accademismo e dall'atemporalità. Il Manzoni rende concreto lo sforzo degli illuministi di creare una nuova letteratura estirpando, come disse l'Ascoli, dal cervello dell'Italia l'antichissimo cancro della retorica. Ciò non gli sarebbe stato possibile senza la sua formazione sugli scrittori francesi, sugli illuministi e gli idéologues. Non meno attento lettore di costoro (e di Mme de Staél), il Leopardi
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Letteratura italiana e letterature straniere
scioglie l'altro corno del dilemma aperto nel Settecento, estraendo dalla tradizione rinascimentale (per cui ha un'ammirazione tanto grande quanto l'avversione del Manzoni) i moduli per dar voce e forma a un moderno soggetto abbandonato da una natura sconsacrata e da una società ostile. A partire dal secondo Ottocento la necessità di dare una risposta all'impatto straniero si allenta. La letteratura italiana si assesta nella rete della Weltliteratur con sue caratteristiche, provinciali o meno: il Carducci traduce Heine e vibra all'unisono con Barbier e Hugo; il naturalismo francese stimola il verismo; in compenso il romanzo russo, che altrove ha un influsso determinante, trova un'eco sfocata forse solo in Giovanni Episcopo del D'Annunzio, che esalta e utilizza anche Wagner e Nietzsche, con sostanziali deformazioni specie per quest'ultimo. In generale la fortuna, nell'Italia novecentesca, di certi scrittori (Nietzsche, Ibsen, i russi, più tardi Thomas Mann) non si ripercuote in un influsso reale ad essa proporzionato: o vengono fraintesi perché non esistono le condizioni necessarie per intenderli, oppure confermano tendenze già presenti. Ad esempio la problematica di Pirandello, per quanto avanzata e arricchita da orizzonti internazionali, è sostanzialmente riconducibile alle radici siciliane, e nel mito americano Vittorini e Pavese trovano la conferma di uno stato d'animo, emerso dalla protesta contro il fascismo, in cui la rivolta individuale cerca l'identificazione con strati sociali disgregati e oppressi. Del resto, ogni influsso che non sia superficiale agisce ovviamente solo su un terreno predisposto. C'è piuttosto da chiedersi se in un'umanità profondamente unificata, al tempo delle guerre mondiali e della bomba atomica, ogni terreno non sia egualmente predisposto. Ciò estende al massimo e insieme vanifica la Weltliteratur, poiché questa cessa di essere uno scambio che aiuta ogni nazione a «esplorare il proprio petto», il concetto stesso di letteratura nazionale apparendo in qualche modo superato. Se il neorealismo fu un ultimo tentativo di affermare sul piano letterario la specificità della situazione italiana, esso ha anche dimostrato che tale specificità era largamente illusoria. La
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crisi dei contenuti e degli strumenti stessi della letteratura, in qualsiasi modo si pensi di uscirne, coinvolge in egual misura gli scrittori italiani e stranieri, indipendentemente da ogni reciproco influsso. (1977)-
Gli italiani esortati alle «pizze»
Questo numero di «Sigma» 1 è sorto dal saggio introduttivo che Gian Luigi Beccaria ha scritto e fatto circolare tra linguisti, scrittori e uomini di scuola, pubblicandolo insieme alle risposte. La provocazione è riuscita anche perché il fronte dei linguisti cominciava già a sgretolarsi. Si potrebbe supporre a prima vista che essi sottolineassero nella lingua l'istituzione, la stabilità, l'omogeneità, la langue insomma, mentre gli scrittori dovrebbero scorgervi piuttosto la parole, la spontaneità, l'irregolarità, lo scarto, l'idioletto, su cui si fonda la loro libertà di scrittori. Invece succede generalmente l'opposto, perché la linguistica è sorta in polemica con la grammatica tradizionale e accoglie e studia ogni manifestazione verbale rifiutandosi di appoggiare qualsiasi deontologia. Lo «scriver bene» non interessa i linguisti neanche in prima persona; molti, e proprio tra i più grandi, scrivevano malissimo, da Wilhelm von Humboldt a Giacomo Devoto. Interessa però gli scrittori, sia perché vogliono scrivere in modo «esemplare», sia perché hanno bisogno di un pubblico omogeneo in grado di apprezzare questo esempio. Nel nostro Ottocento tale opposizione si è notoriamente incarnata (e mi scuso della semplificazione) in due uomini di statura eccezionale: il Manzoni, che voleva imporre a tutti una lingua standard, il fiorentino delle classi colte, attraverso il sistema scolastico, e l'Ascoli, che vedeva sorgere la lingua unitaria dall'attività spontanea degli «operaj della mente». Il primo scorgeva il suo modello nel centralismo francese, il secondo nell'operosità ' AA.vv., Italiano lingua selvaggia, in «Sigma»,
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n. 1-2, Milano 1985.
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culturale decentrata dei tedeschi. I linguisti seguirono l'Ascoli, il Manzoni trovò qualche comprensione (o incomprensione) solo tra le cosiddette «vestali della scuola media», che dopo il 1968 si ritirarono in convento. Allora l'anarchia trionfava, Tullio De Mauro in un memorabile articolo dell'«Espresso» difese l'uso del «cioè» ripetuto a oltranza. Senonché nel frattempo l'ideale manzoniano della lingua nazionale imposta si era realizzato (ahimè, quanto diversamente dagli intendimenti!) grazie alla Tv. Mike Bongiorno, secondo Eco citato da Beccaria, ha contribuito all'unità d'Italia non meno di Cavour. Si capisce che i linguisti siano alquanto turbati da questi sviluppi. Non sarebbe stato meglio applicare le teorie manzoniane prima che se ne impadronisse Bongiorno? Già sconfitte sul piano teorico, esse riprendono piede un po' dappertutto. Su «Belfagor » Giulio Lepschy deve addirittura rimproverare a Francesco Bruni di sottovalutare nel suo grosso volume sull'Italiano l'Ascoli a favore di Manzoni. Le vestali escono dai monasteri e vanno a ruba le ristampe di grammatiche puristiche. «Tira aria di restaurazione», constata Beccaria, il quale soffia un po' anche lui in quest'aria, insistendo sull'indispensabilità dell'istituzione scolastica, chiamando « gemma scolastica » il vecchio liceo, ammonendo che libertà non significa «lingua selvaggia e fuori norma, bensì libertà entro la norma» e denunciando i linguaggi settoriali, per cui si ripetono formule stereotipe mentre sta decadendo «la libertà di pensare e di elaborare autonomamente». Beccaria ammette il grosso divario tra la competenza dell'italiano parlato, che è enormemente aumentata, e quella dell'italiano scritto, che è altrettanto enormemente regredita. Ma in complesso la sua analisi è fortemente negativa, anche se Malerba lo chiama «naufrago ottimista». Le reazioni sono assai interessanti: nell'insieme regge ancora l'opposizione linguisti-scrittori. Questi ultimi (Malerba, Etiemble) imperversano contro la catastrofe linguistica, per di più Ceronetti e Frutterò & Lucentini si sentono spinti a ribadire la loro certezza nell'irrimediabile cretinismo delle masse, mentre alcuni linguisti (lo stesso Beccaria, poi soprattutto Sabatini) sottolineano il sincero desiderio dei giovani di uscire da una babele di cui
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sono i primi a soffrire. Poiché i linguisti hanno come sempre maggior comprensione per la forza dei fatti e per la possibilità che si tratti di una « transizione » e non necessariamente di una catastrofe. Ma di ciò non sono troppo convinti, il tono preoccupato c'è quasi dappertutto, anche Maria Corti riconosce che «leggere e scrivere... sono oggi in ribasso a causa di uno strapotere della oralità, visualità e dei loro riti di adescamento ». Nessuno inneggia al «cioè», troviamo anzi la lode della letteratura obbligata e noiosa, della « pizza », non solo in Marinella Pregliasco (che forse sarà una «vestale» poiché difende anche il latino), e quella della norma e della grammatica. Pochi hanno peraltro nostalgia delle vecchie grammatiche, e infatti non si tratta tanto di ripristinare e imporre norme quanto di offrire esempi paradigmatici, non nel senso che si debbano imitare ma che si depositino nella coscienza come possibilità immanenti già dimostratesi realizzabili. Non è solo il centenario o una certa sterzata a destra a far evocare sempre il Manzoni. Francesco Bruni, di fronte al «conformismo» e «benpensantismo» (!) di chi non vuol far leggere Ipromessi sposi nelle scuole, vede proprio nella «difficoltà di quella lingua... l'argomentazione più efficace» per la scelta del suo autore prediletto. Poiché sappiamo che il Bruni è manzoniano anche in linguistica, e qui rappresenta l'ala più decisionistica. Inutile dire che Lepschy rappresenta invece quella più spontaneistica. Egli ricorda che tutte le lingue sono all'inizio caotiche e «creole» e che non ha senso ritenerle prive di grammatica. Il suo è di gran lunga il contributo più ottimistico e linguisticamente ortodosso, ma anche quello che pensa nei termini di una pazienza secolare o millenaria. Si vede (lo dice anche lui) che non vive in Italia e non ha da correggere tutte quelle tesi di laurea che mettono a dura prova lo spontaneismo degli altri. In Inghilterra, grazie allo stacanovismo delle prove scritte nelle scuole, la lingua colta resiste infatti piuttosto bene. Ma altrove? Nel suo ottimo intervento Cesare Segre sottolinea gli enormi progressi linguistici compiuti in Italia e vede il pericolo in fenomeni extralinguistici, riducibili alla tendenza all'automatismo. Tali fenomeni sono generali, mentre i contributori inclinano a cercare le cause nei vecchi mali italiani e nell'affrettata unifica-
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zione linguistica. I mali del passato, però, ce li hanno tutti e, anche se non li avessero, quelli che contano sono i mali presenti. Se ti piglia il cancro, poco importa che prima fossi già malazzato o sano come un pesce. Che ne è dei modelli del Manzoni e dell'Ascoli? Il superbo edificio giacobino-napoleonico in cui infiniti decreti ministeriali regolavano ogni accordo di participio passato è crollato come un castello di carte. Gli « opera) della mente» teutonici scrivono un orribile sociologese cui quello italiano non ha nulla da invidiare. Dappertutto ci si sta avviando a una bipartizione tra linguaggio povero e manipolato e gerghi specialistici che divide l'umanità in due categorie altrettanto poco umane (Morlocchi e Eloi, secondo Wells ripreso da Pier Marco Bertinetto). Non bisogna dunque agire tanto sulla lingua quanto sul cervello: gli automatismi distruggono il pensiero discorsivo. Sull'esigenza di un italiano come «lingua intellettuale» insiste egregiamente Guido Guglielmi. Ma particolarmente notevole trovo l'intervento degli insegnanti del «Rosa Luxemburg» di Torino. O Quiriti, ascoltate le vostre vestali, spesso assai meno sciocche di quanto ve le spaccino. Esse propongono di «offrire ai giovani tutto ciò che in qualche modo si opponga e funga da argine all'azione disgregatrice delle più elementari e tradizionali strutture logicoargomentative da parte dei massmedia». «Non si può lasciar nutrire i giovani di immagini e pretendere da loro che parlino e scrivano con rigore logico, in modo personale e correttamente». Dunque, d'accordo con la Corti. L'unico inconveniente di questo programma è che è un programma negativo. Si tratta di separare, di isolare, di escludere (come appunto fanno gli inglesi). E noi sappiamo benissimo - questo nel fascicolo non si dice ma non per questo è men vero - che anche noi docenti siamo investiti, per forza di cose, dall'incertezza linguistica indotta dall'esterno. Facciamo finta di non accorgercene per quel che ci riguarda, ma lo notiamo subito nei colleghi. Dovremmo ritirarci tutti nel tempio di Vesta e chiudere le porte mettendoci a correggere e a correggerci. Gli insegnanti del «Rosa Luxemburg» hanno però le loro perplessità e attendono la parola risolutiva da «quelli che, per la loro competenza, sono preposti all'elaborazione di nuovi modelli culturali».
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Fanno male. I competenti, come risulta alla lettura più di quanto non emerga da questa rapida esposizione, hanno idee divergenti e contraddittorie e sono d'accordo solo sul sacrosanto principio che bisogna pensare con la propria testa. La contraddittorietà non impedisce che quasi tutti i contributi, da noi menzionati solo in piccola parte, siano di alto livello e possano avviare una discussione assai proficua. Per giuste che siano molte delle obiezioni che ha suscitato, il merito principale spetta all'appassionata introduzione di Beccaria. La Rai-Tv ha capito subito qual era il nemico e non ha perso tempo. Appena uscito il fascicolo, approfittando della vicinanza topografica dell'università di Torino, ha attirato Beccaria, che ne usciva intontito dopo aver sistemato la punteggiatura di venti tesi, nelle segrete di Via Verdi, dove un malvagio scienziato prezzolato gli ha fatto un'endovenosa che paralizza tutti i centri della volontà. Cosi ridotto a un puro automa, Beccaria si è esibito per intere settimane alla Tv circondato dai ceffi di presentatori, vallette, cantautori, acrobati, ballerine: tutti analfabeti televisivi garantiti con certificato d'origine. Beccaria non si occupava di costoro bensì di due giovani di sesso diverso scelti dalla Tv per la loro bellezza, cui proponeva etimologie complicate che non si capisce perché i malcapitati dovessero sapere. Difatti non le sapevano, ma con gesto magnanimo Beccaria li assolveva, mentre il presentatore distribuiva premi in libri e spille per svariati milioni ai più belli e una Divina Commedia ai perdenti, perché si abbeverassero alle fonti della lingua prima di ripresentarsi. I telespettatori si confermavano vieppiù nell'idea che l'italiano, come tutto al mondo, è un terno al lotto che per lo più si azzecca, ciò che non meraviglia sapendo che questa lingua deve la sua esistenza a Mike Bongiorno. I colleghi di Beccaria, ignari del retroscena, plaudivano dalle colonne dei giornali all'audace iniziativa. Il trionfo della Rai-Tv è totale, il numero di « Sigma» completamente neutralizzato. Quando Beccaria avrà ripreso l'uso del libero arbitrio dovrà pianificare intere annate della rivista per rimediare al disastro. Ma ci riuscirà. Parola mia. (1986).
Platonico dalla cintola in giù
«Stampato in mille esemplari». Pochini, si direbbe, visto che si tratta di un capolavoro ignorato del nostro Cinquecento 1 , alcune pagine del quale sono degne di figurare in ogni antologia. Ma quando si apprende che delle numerose edizioni cinquecentesche sono sopravvissute solo due (dicesi due) copie nel famoso «Inferno» della Bibliothèque Nationale di Parigi; che il libro ha avuto una sola ristampa nel 1863 (a Cosmopoli, cioè Bruxelles) a cura di un bibliofilo francese; che più tardi è stato tradotto in francese e in tedesco ma mai più riedito in Italia, non resta che ringraziare l'editore, il curatore e il prefatore di queste mille copie eccellentemente presentate e stampate. La secolare emarginazione del libro era dovuta alla sua oscenità, di cui si può certo parlare in quanto non vi si fa altro che ragionare di cazzi, potte e culi, ma questa gloriosa trinità è maneggiata da una fantasia irrefrenabile che trascende ogni fine propriamente osceno. Neil'ambiente senese dell'Accademia degli Intronati, cui appartiene l'autore, la libertà sessuale era evidentemente solo un aspetto di una grande libertà di costumi e di pensiero, non senza tratti aristocratici. La situazione cambiò dopo la caduta della repubblica nel 1530: l'Accademia, per mantenersi in vita, adottò toni più costumati e si rivolse alle donne (escluse dalla misoginia dei primi Intronati) fino a produrre il Dialogo de' giuochi di Girolamo Bargagli (1572), ricettario di intrattenimenti della buona società che ebbe molto successo in 1 ANTONIO VIGNALI (ARSICCIO INTRONATO), La cazzarla. Testo critico e note a cura di Pasquale Stoppelli, introduzione di Nino Borsellino, Edizioni dell'Elefante, Roma 1984.
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Germania e altrove e che secondo il Borsellino «è in realtà un anti-Cazzaria». Il dialogo del Vignali è invece tutt'altro che un'opera precettistica, nemmeno nel campo dell'oscenità. E una parodia del trattato filosofico, con un ambivalente rapporto con Platone. I protagonisti sono quegli organi dalla cintola in giù che Platone aveva insegnato a disprezzare come inferiori. Ma il modello è quello del dialogo platonico, a cominciare dalla finzione della ripresa di una questione lasciata in sospeso. L'Arsiccio (cioè il Vignali stesso) rimprovera un altro Intronato, il Sodo, con cui ha un rapporto omosessuale che - anche qui in polemica con l'eros platonico che si esaurisce in discorsi - si consuma tranquillamente durante il dialogo, di non aver saputo rispondere quella sera stessa, a cena, a chi gli chiedeva la ragione per cui «i coglioni non entrano mai in potta o in culo». E questo il problema filosofico che sarà risolto solo alla fine, dopo averne risolto moltissimi altri (una cinquantina) non meno ameni, del tipo «perché le donne siano tanto vaghe dei cazzi grossi» o «perché il culo stia sotto la potta», ma anche «per che cagione i frati abbiano trovato la confessione». Si tratta in generale di stabilire le vere ragioni « filosofiche » di ciò che esiste in natura, confutando quelle false, proposte dal Sodo o riferite dallo stesso Arsiccio-Socrate. Questo dà luogo a un gioco pirotecnico in cui occupano gran posto i miti genetici ispirati da Platone. Cosi il mito dell'androgino narrato da Aristofane nel Convito viene ripreso (con tratti desunti dal Timeo) in forma grottesca come possibile genesi del cazzo e della potta quale risultato della separazione delle due metà quando l'argilla era ancora troppo fresca, sicché dalla parte dell'uomo sarebbe rimasta una protuberanza e dall'altra una rientranza. Nella geniale parte conclusiva il Vignali adombra in un lungo mito, questa volta del tutto originale, la storia delle lotte di fazione che si ebbero a Siena nel 1524-25 tra gruppi su base familiare, detti i Monti, soprattutto tra il Monte dei Nove, di tendenze oligarchiche, e il Monte del Popolo o dei Libertini, favorevole al ripristino delle libertà comunali. La prepotenza del capo dei Noveschi, Fabio Petrucci, gli alienò anche un buon numero di costoro,
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che coalizzandosi ai Libertini abbatterono la sua dittatura. Ma le contese durarono fino al 1527, quando i Libertini prevalsero definitivamente sui Noveschi. Per quanto sia lecito sospettare che La cazzarla sia stata addirittura scritta per questa allegoria politica, seyza l'acribia dello Stoppelli nessuno penserebbe che di allegoria si tratta. Certo i cazzi, i culi, le fiche cambiano di funzione: dovendo servire da sostituti di raggruppamenti politici essi si librano in un'atmosfera astratta e surreale in cui non stanno in rapporto organico tra loro, ma con i loro simili, sicché scorgiamo eserciti di cazzi, culi ecc. che dopo aver abbattuto il tiranno Cazzone (cioè il Petrucci) discettano sulla miglior forma di governo. Ma la genialità del Vignali sta nel fatto che questa guerra di membri isolati, che sembrano usciti dalla fantasia di Grandville e accettabili solo come allegorie, diventa contemporaneamente la risposta al problema della genesi e della posizione relativa degli organi. Se, per esempio, «pisciando si tirano le corregge», è perché dopo la pace i culi «presero molta suspizione» che i cazzi rompessero i patti e volessero « entrarli in casa sprovvedutamente»: quindi si tengono serrati e per emettere venti aspettano che i cazzi siano affaccendati nel pisciare. I particolari si collocano uno dopo l'altro nel bizzarro quadro, talvolta con il procedimento ritardante consueto nei dialoghi. L'Arsiccio parla dell'alleanza tra cazzi grossi e fiche belle e il Sodo si meraviglia perché non ha mai sentito parlare di fiche belle o brutte, ma l'Arsiccio lo zittisce e prosegue la narrazione fino alla sconfitta di questa coalizione: le fiche belle vengono sterminate fino all'ultima, sicché oggi sussistono solo fiche brutte e puzzolenti, con grande soddisfazione dei nostri Intronati misogini. E cosi, quasi di sfuggita, si dà anche la risposta al famoso quesito da cui il dialogo ha preso le mosse: i coglioni (forse l'esitante Monate dei Gentiluomini), che avevano denunciato la congiura a Cazzone, sono stati puniti legandoli in un sacco due a due e, «come traditori, son cosí dal culo e da la potta odiati e scacciati, né alcuno di loro gli vuol ricevere». Wilhelm Stekel, lo psicoanalista discepolo di Freud che scrisse una prefazione alla traduzione tedesca qui riprodotta in appendi-
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ce, pur scorgendovi la prova di una mancanza di repressione divenuta poi inconcepibile, si contraddice parlando di «eterno umano » adombrato « sotto gli scherzi apparentemente grossolani e sotto i ragionamenti puerili », « il che conferma il vecchio detto che anche nelle pozzanghere si riflette il sole». Da buon freudiano, lo Stekel voleva insieme negare e giustificare la repressione. Ma se avesse conosciuto l'originale difficilmente avrebbe parlato di «pozzanghere». Il Vignali non si crogiola nella lussuria fino a rovesciarla nel senso della morte, come l'Aretino, ma si serve di certi «enti realissimi» per irridere a quelli irrealissimi della teologia platonico-cristiana, mentre d'altro canto questo confronto rende partecipe dell'immaterialità «platonica» dell'astrazione e del Verbo il popolo dei cazzi e dei culi. La rivendicazione di questo fondamento materiale è sentita giustamente fin dalle prime battute come un primum filosofico che apre la via ad ogni libertà, e non a caso sembra atto anche a travestire un discorso politico. Un discorso su una repubblica moribonda. Poco dopo la pubblicazione della Cazzarla, nel 1 5 3 0 , il Vignali dovette andare in esilio in Spagna e poi a Milano, alla corte di un cardinale, dove mori nel 1559. Anche lui aveva dovuto piegarsi al compromesso con le autorità, ma ciò non gli impedì di essere perseguitato dalla fama del suo capolavoro. Il quale fini dove doveva finire: all'Inferno. Poiché nel frattempo si era instaurata la controriforma, tra l'entusiasmo di molti critici cattolici e oggi anche marxisti. (1985)-
Ritratto dell'abate Galiani
In cinquantanove anni di vita il Galiani fu assente da Napoli solo per un decennio, ma questo decennio basta perché tutti i critici si pongano il problema se egli sia da considerarsi scrittore italiano o francese. A Parigi il Galiani ebbe anzitutto la rivelazione della società. Abituato all'individualismo culturale e alla separazione della cultura dalla vita inevitabile in uno stato arretrato come quello di Napoli, in cui a un popolo intelligente e vivace, ma lasciato nell'ignoranza, si contrapponevano una nobiltà rozza e lazzarona e una scarsa borghesia dagli orizzonti ristretti, il Galiani si trovò di colpo in un ambiente in cui la cultura era divenuta un fatto sociale che si imponeva a tutte le classi superiori con quella prontezza e universalità già instaurate dal regime centralizzatore e dalla creazione di Versailles. Qui ogni paradosso, ogni barzelletta del Galiani, che a Napoli avrebbero suscitato il riso effimero di qualche amico, erano immediatamente ammirati, commentati, amplificati, consacrati da un enorme risonatore che partiva dai salotti di Mme Geoffrin o di Mme Necker e giungeva, attraverso Grimm, fino ai principi tedeschi e a Caterina di Russia. Sprofondato nella sua poltrona, minuscolo (era di poco superiore al metro) e gesticolante, con la parrucca di traverso o addirittura in mano, a ritmare la sua impareggiabile mimica, il Galiani si sentiva davvero quel ninnolo di lusso disputato da tutte le dame di cui il Diderot si augurava che gli stipettai potessero fabbricarlo in serie. Lo stesso Diderot paragonava le sue celie alla fiamma dello spirito di vino, dolce e leggera, che passeggiava dappertutto senza bruciare. Né si trattava soltanto dell'ebbrezza del successo e della vanità soddisfatta, per quanto il nostro mondano abate non vi
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fosse affatto insensibile. Nel crepitio dei bons mots, nelle piacevoli schermaglie della conversazione si creava una nuova cultura e un pensiero nuovo. A Parigi si aveva la coscienza di vivere all'avanguardia del mondo. Dieci anni, ma quali anni! Nel 1759, quando il Galiani arriva a Parigi, cade la condanna definitiva dell' Enciclopedia e il D'Alembert, spaventato, si ritira dall'impresa, lasciando solo il Diderot, mentre il parlamento condanna il libro di Helvétius De l'esprit e i nemici degli illuministi festeggiano un breve trionfo. Ma alla fine dello stesso anno Sartine, amico personale del Diderot, viene nominato luogotenente di polizia. Gli enciclopedisti escono vincitori dalla crisi. Nel 1769, alla partenza del Galiani, escono gli ultimi volumi di tavole dell 'Enciclopedia. In dieci anni la gigantesca macchina diretta contro la cultura feudale era stata ultimata e i «filosofi» non erano più all'opposizione, ma avevano conquistato il mondo intero: in dieci anni l'intolleranza, il fanatismo, la superstizione erano divenuti i bersagli di moda, i luoghi comuni che parevano ormai fantocci superati. La critica si era spinta fino a scalzare le fondamenta stesse della religione nell'allegra compagnia di atei che consumava i famosi pranzi del barone d'Holbach, questo maitre d'hotel de la philosophie, secondo la definizione del Galiani. In questo ambiente la spregiudicatezza del Galiani si trovava perfettamente a suo agio. Certo di tutto il lavoro degli enciclopedisti si riflette nel napoletano soprattutto il lato negativo, il demone dell'irrisione e della corrosione che spesso sfuma nel badinage, nel libertinaggio morale, estetico, stilistico. La volubile frammentarietà e contraddittorietà del pensiero del Galiani è assai più spinta di quella del Diderot, la cui opera, nonostante l'apparente disordine, ha una coerenza e un'unità ben maggiori. In compenso il suo spirito paradossale e l'influsso del Vico gli permettevano talvolta una maggiore aderenza alla realtà che gli faceva superare certi limiti dell'illuminismo. Nulla di analogo, per esempio, ai panegirici della «virtù» che ingombrano tanto spesso gli scritti del Diderot, cui sempre bisogna riferirsi come termine di paragone. Tuttavia quei panegirici, che sembrano gratuiti e in palese contrasto con l'aspetto fondamentale del pensiero didero-
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tiano, la difesa dello sviluppo di tutti gli istinti umani, rientravano nelle contraddizioni ideologiche fondamentali che dovevano presto incarnarsi sulla scena della Rivoluzione. La stessa chiarezza di idee del napoletano, se gli dava indubbiamente ragione nei singoli casi, testimoniava dunque dell'incapacità di nutrire le generose illusioni, i fecondi errori che accompagnavano l'ascesa di una forte borghesia. Di fronte a queste illusioni il brutale cinismo del Galiani - il « Machiavellino » - che suscitava un indulgente imbarazzo negli amici (mentre oggi lo rende caro a nietzschiani da strapazzo, come Ernst Jiinger, in cerca di antenati spirituali), girava spesso a vuoto. Ma talvolta, ripetiamo, colpiva nel segno e significava un progresso reale nelle controversie illuministiche. Cosi nella questione dei grani. I fisiocratici (o gli «economisti», come si chiamavano allora) reclamavano, contro il protezionismo precedente, la libertà di commercio del grano. Nel loro pensiero essa avrebbe rivalutato l'agricoltura, unica fonte di ricchezza. Non per nulla molti di essi, come il Mirabeau, erano grandi proprietari terrieri. Nei Dialogues che suscitarono un enorme scalpore, molte risposte e un'apologia, recentemente pubblicata, del Diderot, il Galiani non difese semplicemente il mercantilismo, come a torto talora si dice, ma sottolineò la contingenza dei fatti economici e negò l'esigenza di un principio unico per risolverli: la libertà del commercio dei grani, che sarebbe stata indispensabile, per esempio, nello Stato della Chiesa, doveva condurre la Francia alla rovina. Vi è qui l'opposizione vichiana all'intransigenza razionalistica dell'illuminismo francese. Ma vi è anche, come si desume soprattutto dalle lettere, una considerazione politica più precisa. Il Galiani comprendeva che la libertà dei grani avrebbe improvvisamente portato il contadino alla ribalta e gli avrebbe conferito un potere tale da minacciare l'edificio sociale esistente. Egli non si faceva illusioni al riguardo: le classi dirigenti avevano sempre cercato di opprimere il contadino ed ora i fisiocratici, proprio sperando di salvare la consistenza della grande proprietà terriera, ne distruggevano la base. Il Galiani era dalla parte degli oppressori e quindi li metteva in guardia. Egli ha cosi analizzato le contraddizioni
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degli economisti, intenzionalmente conservatori, ma sostanzialmente rivoluzionari. Né si può dire che questo suo punto di vista rispondesse a uno spirito grettamente reazionario. Il Galiani era troppo intelligente per non rendersi conto che l'oppressione è utile solo quando è sopportabile. Cercare il punto in cui è possibile conciliare il benessere relativo delle popolazioni col massimo beneficio per l'aristocrazia: ecco in fondo il problema della «geometria politica», dal Galiani adombrato sotto il problema dei rapporti tra «ragione» e «istinti». Egli fu cosi tra i pochi italiani che pensarono alla possibilità di creare una teoria delle classi dirigenti e questo suo paternalismo scientifico, se poteva apparire arretrato di fronte allo spontaneo dilagare delle idee rivoluzionarie in Francia, suonava critica ai metodi antiquati e inumani di sfruttamento agricolo usati nell'Italia centro-meridionale. In questo senso il Galiani è veramente un «Machiavellino», un erede del Machiavelli. Lo è anche nel sottolineare dappertutto il momento dell'egemonia. La polemica contro l'astratto laissez faire dei fisiocratici rientra in un'offensiva generale contro ogni e qualsiasi laissez faire che è forse il Leitmotiv più costante del pensiero del Nostro. Anche qui l'azione decisiva dell'esperienza francese non fa dubbio. Il piccolo esuberante napoletano che non rispettava nessuna regola, che attraversava i salotti sconvolgendo il ritmo consacrato della conversazione, scandalizzando l'austera Mme Necker, portando di traverso perfino la parrucca, era il primo a riconoscere il primato delle regole, dell'ordine, della police, della costrizione sociale, che invidiava ai francesi, protestando contro la loro tendenza a liberarsene per evadere in un rousseauiano o fisiocratico stato di natura. Che si tratti di politica, di economia o di educazione, egli è sempre per il metodo del cuculo contro la spontaneità dell'usignolo, e la lettura dell'Antiemilio delineato, in forma al solito alquanto estremista, in una lettera alla d'Epinay, è vivamente consigliabile come antidoto in tempi in cui la moda della « scuola attiva » minaccia di cancellare i confini tra scuola e vacanza in omaggio a un preteso libero sviluppo della personalità. Nel Dialogue sur les femmes questo autoritarismo pedagogico viene spie-
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gato, non senza qualche contraddizione, come sviluppo degli istinti naturali. Né anch'esso va esente dall'ambiguità propria del Galiani per quanto riguarda i fini: egli ammette che possa essere indifferentemente messo al servizio dell'obbedienza al principe o dell'obbedienza alla legge, della monarchia o della democrazia. Poiché in tutta questa polemica autoritaria si manifesta il rifiuto del significato reale del mito dello stato di natura, in cui si proiettava la coincidenza, agli occhi della borghesia francese, degli interessi particolari di classe e di quelli generali. Anche in questo caso il Galiani, prodotto di una borghesia che non era in grado di condividere tale illusione, è insieme al di sopra e al di sotto di essa. Egli sente intensamente il momento dell'egemonia come pura questione di esercizio del potere, senza sentire il bisogno di metterlo al servizio della classe in ascesa. Si vedano per esempio le pagine sull'origine del Cristianesimo, cosi lontane dalla sommaria teoria illuministica dell'«impostura dei preti» nello scorgere nella Chiesa nient'altro che una organizzazione civile che si erige contro un'altra senza riuscire a soppiantarla, ma anche cosi insensibili al valore dei « cambi della guardia » storici (gli accenni in questo senso, nella tradizione del Robertson, sanno più di Grimm che di Galiani) quale appariva, sia pure in forma errata e mitologica, in quella teoria dell'impostura. La concretezza e lo storicismo del Galiani rischiavano a ogni momento di tradursi nell'astrattezza e nell'antistoricismo di chi concepisce la vita sociale come un semplice gioco di forze, una circolazione di élites', e di fronte a ciò le illusioni degli enciclopedisti francesi erano ben più concrete, perché più a contatto con la prassi e più feconde per essa. Il machiavellismo del Galiani, se aveva un indubbio accento innovatore nel suo insistere sulla responsabilità delle classi dirigenti, gli permetteva di adagiarsi nei limiti della società costituita e di rifiutarsi di trarre dalla cultura francese quella lezione rivoluzionaria che pochi vi discernevano cosi chiaramente come lui. Tutto ciò va tenuto presente nella questione psicologica e letteraria del Galiani «francese» («il nous appartieni», diceva il Sainte-Beuve) e del Galiani «napoletano». Poiché non si tratta
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soltanto di una questione linguistica. Che il Galiani si impadronisse rapidamente della lingua francese e vi si trovasse più a suo agio che nell'italiano paludato e rettorico del tempo, non fa meraviglia. Basta confrontare lo stile degli scritti italiani anteriori e successivi al soggiorno parigino per rendersi conto della benefica azione della chiarezza e semplicità francese. Ma sotto la questione della forma vi è una questione di contenuto. Il Galiani «francese » è lo spregiudicatissimo e audacissimo critico della religione e dei costumi,' mentre il Galiani «italiano» non va al di là della V spiritosa canzonatura dei barbassori accademici. E troppo strettamente legato all'aristocrazia dominante, pur disprezzandola, per potervisi ribellare. E un coscienzioso e fedele servitore di un governo cui si sente intimamente estraneo. E un abate irriverente, miscredente, donnaiolo, come tanti nel Settecento, ma ogni tanto scrive al papa lunghe epistole latine e si fa conferire titoli e prebende. Parigi significava per lui la liberazione da questa doppia vita, la possibilità di gettare la maschera, almeno fino a un certo punto. Perché la Francia - e ad onore del Galiani bisogna dire che egli ne ebbe sempre la consapevolezza - non era il suo paese. L'uomo frequentava i salotti più audaci, ma il diplomatico restava il suddito del re di Napoli, ed ebbe ad accorgersene quando il richiamo lo colse di sorpresa. Di qui nel Galiani la mancanza d'impegno, l'aureola di futilità di cui ama circondarsi anche quando è profondo, l'impressione che non faccia mai sul serio. C'era sempre in lui, che pareva darsi e scatenarsi completamente nella conversazione, quella riserva segreta che colpiva il Diderot. Sotto la girandola multicolore del Galiani « francese » restava intatto un Galiani insoddisfatto di se stesso e degli altri, un Galiani «italiano». Non per nulla il suo capolavoro è la corrispondenza tenuta dopo il ritorno a Napoli con gli amici francesi e in particolare con Mme d'Epinay, fino alla morte di questa, che segna la rinuncia definitiva a mantenersi fedele alla nostalgia di Parigi. Qui il Galiani può continuamente confrontare le sue due anime, l'italiana e la francese, la seria e la buffonesca, e misurarle alla differenza tra la vita parigina e la vita napoletana. E un ultimo ten-
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tativo di liberazione e di sintesi, uno sforzo di trasformare l'amarezza in boutade e la cattiva coscienza in cinismo. E questa corrispondenza culmina nella lettera bellissima all'abate Mayeul, in cui alla brillante e feroce satira contro la metafisica religiosa si accompagna il desolato e già leopardiano pessimismo della noia, il senso del nulla che si cela tra i fiori velenosi dello spirito galianeo. Questo, che si potrebbe chiamare l'esistenzialismo avant lettre dell'abate Galiani (la dialettica dell'essere e del nulla nella lettera al Mayeul giustificherebbe tale definizione), è la chiave del suo carattere e della sua opera. I contemporanei, specialmente Diderot, l'avevano già capito. Il nostro «Machiavellino» era in realtà una grande intelligenza che non sapeva affrontare le ultime conseguenze del proprio pensiero, che aggirava la serietà perché la serietà era scomoda. Lo stato d'animo di questo produttore d'allegria è quello della «coscienza lacerata» di cui parla Hegel a proposito di uno stretto parente spirituale, il diderotiano nipote di Rameau. In entrambi i casi a un'esatta analisi delle condizioni sociali non corrispondeva un'adeguata presa di posizione pratica: la critica sfocia nella pantomima anziché divenire l'austera norma di vita del «filosofo» Diderot. E ozioso chiedersi se il Galiani avrebbe potuto, comportandosi altrimenti, uscire da questa situazione. Restando napoletano, non sarebbe più stato il Galiani; sarebbe stato un Pietro Giannone, meno divertente, ma più coerente, meno benvoluto, ma più in pace con se stesso, e ospite delle galere anziché dei salotti. Il Galiani reale dovette all'ambiguità della sua posizione se fu festeggiatissimo in vita, ma piuttosto trascurato dai posteri, almeno in Italia. Difatti se in Italia, e più particolarmente a Napoli, si trovano i maggiori studiosi del Galiani, egli è assai più vivo in Francia o in Germania (dove i Dialogues furono tradotti da Hamann) che non da noi. E si capisce il perché. Gli uomini del Risorgimento non potevano vedere in lui, più vicino, nella condotta pratica, alle genuflessioni del Metastasio che al disdegno dell'Alfieri, un loro precursore. D'altra parte i loro antagonisti clericali non potevano più condividere l'indulgenza dei papi del Settecento verso lo scettico abate nemico dei Gesui-
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ti. Cosi la sua fama traversò il periodo della formazione della coscienza nazionale senza cristallizzarsi da nessuna parte, «a Dio spiacente ed a' nemici sui». Il Galiani occupa, nella storia degli intellettuali italiani delineata da Gramsci, una posizione intermedia. Non è più l'italiano completamente sperduto e assimilato nell'ambiente europeo - e di ciò reca appunto testimonianza il suo interiore dissidio, la sua «coscienza lacerata» che non si acqueta in una intera emigrazione spirituale - e non è ancora l'italiano alfieriano che si ribella al proprio ambiente, dichiara guerra ai tiranni e trasforma la letteratura in battaglia ideologica al servizio dell'emancipazione nazionale. In ciò che vi è di meglio nella sua dissipata produzione e nella sua stessa fortuna egli è più europeo che italiano. Ma all'Italia guardò sempre, e la sua monotona noia napoletana è già una forma, certo embrionale ancora e vergognosa, di coscienza nazionale. Nessuno nei salotti parigini ricordava più le origini germaniche di Grimm e d'Holbach o quelle svizzere di Necker, Rousseau, Meister. Invece il Galiani restò sempre «le petit abbé napolìtain» e i contemporanei videro in quell'uomo ridicolmente piccolo quasi un campione delle grandi possibilità che la cultura italiana aveva di fronte a sé una volta che fosse riuscita a scuotere il giogo di un'arretrata struttura politico-sociale e di una deprimente ipocrisia religiosa. Tra i fuochi fatui del Galiani essi cominciavano a scoprire l'Italia e i suoi problemi. Quando la duchessa di Choiseul diceva, parlando di lui, che in Francia lo spirito si trovava in moneta spicciola e in Italia in verghe d'oro, riconosceva più o meno consapevolmente che il famoso esprit francese non era un appannaggio esclusivo della sua nazione, bensì il naturale completamento di una società organica in evoluzione. Gli italiani avevano tanto e più esprit dei francesi, ma per rivelarlo bisognava che si recassero là dove esso poteva venire inteso, nei bureaux d'esprit, come allora si diceva. Per questo gli scritti italiani del Galiani interessano soltanto gli studiosi, mentre quelli francesi, e in particolare l'epistolario, che il Sainte-Beuve non esitava a definire il migliore di tutti quelli, pur numerosissimi, del x v i i i secolo, si in-
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tegrano perfettamente, senza perdere il loro accento napoletano, in quella letteratura francese prerivoluzionaria che ha conservato un carattere attuale e universale. (1957)-
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Manzoni «progressista»
Il nuovo volume del corpus einaudiano delle opere del De Sanctis, curato da Carlo Muscetta e Dario Puccini, comprende tutti i saggi e le lezioni edite ed inedite sul Manzoni, ad eccezione di quelle della prima scuola napoletana, destinate ad essere raccolte in uno dei volumi di scritti giovanili. Questa edizione si differenzia dalle precedenti in quanto vi sono per la prima volta pubblicate integralmente le lezioni della seconda scuola napoletana nonché i resoconti fatti da Teodoro Frizzoni delle lezioni Del romanzo storico e dei « Promessi sposi » tenute a Zurigo nel 1858. Tale completezza fa si che si incontrino di necessità molte ripetizioni, ma presenta il grande vantaggio di permettere di seguire tappa per tappa l'evoluzione delle idee del De Sanctis. E ciò che fa Carlo Muscetta nella densa prefazione al volume. In essa si insiste anzitutto sull'importanza di questi studi manzoniani, in cui il De Sanctis arriva alle più alte formulazioni del suo metodo critico, e si sottolineano i giudizi limitativi, che altri critici (Muscetta cita particolarmente il Momigliano) avevano invece la tendenza a considerare aberranti e superati. Le maggiori riserve sui Promessi sposi («... non è un monumento nazionale come la Divina Commedia, è un lavoro meditato nel silenzio del gabinetto, dove non troviamo la nostra vita, tutto ciò che ci agitava in quei tempi») si trovano all'inizio delle lezioni zurighesi (p. 348), dove peraltro non vengono poi approfondite. Sembra che dopo gli entusiasmi del De Sanctis cattolicheggiante delle prime lezioni napoletane, sopravvenuto il turbine del '48, la radicalizzazione politica, la lettura di Hegel e le esperienze europee, si siano pre-
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sentati alla mente del grande critico dei dubbi non mai interamente dissipati. Muscetta, lungi dal cercare di attenuarne l'importanza, trova anzi che il limite del De Sanctis sta nel non aver sviluppato questi motivi, finendo per offrire «una piena giustificazione del punto di vista cattolico-liberale e moderato-borghese del Manzoni». E conclude, appoggiandosi a Gramsci, col dire che «non solo il carattere nazionale-popolare» dei Promessi sposi « sarà da riconsiderare entro limiti più angusti, ma lo stesso cristianesimo del Manzoni non sarà più da valutare positivamente come religiosità moderna, bensì come eredità della Controriforma». Muscetta si ferma alle soglie di questo « nuovo corso della critica manzoniana» che del resto non può rientrare nei limiti della sua prefazione. I suoi suggerimenti bastano però a indicare quanto il «caso» Manzoni sia ancora scottante. Si può dire, infatti, che in ogni città italiana c'è una fazione di intellettuali di sinistra che trova il Manzoni «progressista» e un'altra che, pur cavandosi il cappello, lo trova «reazionario» o perlomeno conservatore. Di qui la grande utilità di una rilettura delle pagine del De Sanctis, in cui gli uni e gli altri possono trovar esca a rinfocolare la contesa. Sia lecito allora spezzare una lancia, non già contro Muscetta, ma contro un ipotetico, meno assennato estrapolatore del suo «nuovo corso». Sullo scarso carattere nazionale-popolare dei Promessi sposi, sull'atteggiamento verso gli «umili» da «società protettrice degli animali», ci sono i noti giudizi di Gramsci, accompagnati dalla riserva che si tratta «di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto». Tuttavia è proprio questa scissione tra giudizio sociologico-ideologico e giudizio estetico che occorrerebbe superare. Non è soltanto il confronto con Tolstoj, da lui utilizzato, che dà ragione a Gramsci. Il disprezzo dei nostri superciliosi critici per Walter Scott non impedisce ai suoi personaggi, armigeri o porcari, di essere la sostanza reale del processo che si svolge nelle sfere superiori. Se essi non sono, né possono essere consapevoli di «fare» la storia, sono però consapevoli di viverci dentro, di esserne parte integrante, mentre Renzo e Lucia,
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dice il De Sanctis, «avrebbero cosi poco immaginato di essere materia storica come un pastore potrebbe immaginare di essere re. La storia non è mossa da loro; anzi è la storia che muove loro» e «il genio malefico della storia» è Don Rodrigo (p. 53). Naturalmente questa differenza è in prima istanza quella tra la storia inglese, il cui carattere nazionale-popolare garantiva*quella «medesimezza umana» tra inferiori e superiori che Gramsci non riscontrava nei Promessi sposi, e la storia italiana, specie nel periodo trattato. «Trovi qui, - dice sempre il De Sanctis (p. 69), - un quadro animato della dominazione straniera, con un'aria quasi di indifferenza, che aggiunge allo strazio; perché il dominatore non ha coscienza della sua violenza, e il dominato non ha coscienza della sua servitù... » Tuttavia ciò non basta, perché il carattere molecolare del processo storico permane anche quando il popolo è apparentemente tagliato fuori dalla storia. La guerra dei trent'anni rappresenta pure un periodo di passività per il popolo tedesco. Però nel Campo di Wallenstein Schiller, non senza il concorso di Goethe, aveva potuto rimediare almeno parzialmente all'astrattezza dell'impostazione del dramma del condottiero facendo vedere come questo si innestasse sui vari sentimenti e atteggiamenti del suo composito esercito, i quali, se non riflettono certo una coscienza nazionale-popolare, stanno almeno ad indicare che le azioni dei reggitori non hanno luogo in una zona rarefatta in cui non trovano impulsi né resistenze se non nelle loro interne contraddizioni. Invece il Manzoni, anche nei cori delle tragedie, dà la parola al popolo solo per ribadire la sua naturale estraneità alle vicende. In questo senso non si può non essere d'accordo con le riserve di Muscetta sul «carattere eminentemente democratico» dal De Sanctis riscontrato nei Promessi sposi. Tuttavia il paternalismo del Manzoni è cosi animato da sete di giustizia e da orrore dell'oppressione, che se non è democratico è pure rivoluzionario. C'è qualche cosa in lui che è assolutamente nuovo e originale nella letteratura italiana: il senso della responsabilità della società nei confronti dell'individuo. Il cattolico Manzoni invita alla rassegnazione, però solo dopo avere spietatamente smontato l'atroce
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meccanismo che produce la monaca di Monza, con una cosi rara e ammirevole mancanza di rispetto per certe istituzioni, a cominciare dalla famiglia, che si lascia addietro Diderot e che dovrebbe bastare a bandirlo dalle nostre scuole se ci si accorgesse del velen dell'argomento. Certo il quadro degli orrori feudali che egli ci dà è un quadro conchiuso, visto nella prospettiva del passato e senza nessun mordente polemico attuale. Per il Manzoni, come per Hegel secondo Marx, c'è bensì stata una rivoluzione, ma non ce ne sarà più. Diderot e Voltaire avevano lavorato per lui, ed ora egli poteva permettersi il lusso di bruciare solennemente i settanta volumi dell'edizione di Kehl. Ragione per cui, nonostante la sua passione per la verità storica, è proprio lui a peccare di antistoricismo e a sostituire al decorso storico un astratto e atemporale conflitto tra responsabilità e moventi egoistici. Ciò è particolarmente visibile nella Storia della colonna infame, scritta con l'esplicito intento di rifare, confutandole parzialmente, le Osservazioni sulla tortura. Ora il Verri aveva ristabilito la verità per mostrare come l'uso della tortura portasse al delitto giuridico: da buon illuminista egli prendeva dunque lo spunto da quest'ultimo per condannare gli stessi istituti della società feudale che ne erano responsabili. Invece il Manzoni, per cui la tortura era (grazie a quei tali con cui organizzava i suoi autodafé casalinghi) un ricordo del passato, vuole dimostrare che non si trattava tanto di essa, quanto delle «passioni perverse» dei giudici, i quali, tortura o no, avrebbero potuto giudicare rettamente se da quelle non fossero stati travolti. E chiaro come questa impostazione manzoniana trasponga i problemi dal campo storico concreto a quello degli «eterni» conflitti morali, dalla grande morale alla piccola, secondo il motto di Mirabeau «la petite morale tue la grande», condannato nel dialogo Dell'invenzione e significativamente illustrato con l'esempio di Vergniaud, che aveva votato contro coscienza la morte di Luigi X V I per evitare la guerra civile. Ma chi legga la Colonna infame dovrà riconoscere che con la leva di questa «piccola morale» il Manzoni ha scritto pagine ancora più illuministiche di quelle del Verri, pagine degne di stare a paro della storia del dente d'oro in
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Fontenelle o dell 'Epistola sulla tolleranza nella capacità di dissolvere i mostri alla luce della ragione. Poiché qui la luce della ragione è rafforzata dalla luce del trascendente, è l'arma di cui Dio si serve per confrontare la semplice, irrefutabile realtà con le infami macchinazioni dei giudici. E sempre cosi che attraverso la « piccola morale » cattolica si finisce per ritrovare la grande? No certo, e nemmeno nel Manzoni. Ci sono anche gli «elementi di brescianesimo» visti da Gramsci. Ma di qui a dire che la religione manzoniana è «eredità della Controriforma» ci corre. Il Manzoni, che non per nulla ebbe in antipatia il Tasso fin da giovane, ci sembra proprio agli antipodi della Controriforma, per cui la realtà è ovvia, quindi sostanzialmente indegna di essere esaminata davvicino, e le «perverse passioni » si purgano nel confessionale senza bisogno di fare tanto chiasso. Sembra anzi impossibile che nel paese della Controriforma, dove Iddio è un pacifico e remoto alibi per la viltà di Don Abbondio, sia apparso un Dio cosi attivo, petulante, rompiscatole, nominato (e non invano) in ogni pagina; un Dio «che affanna e suscita, che atterra e che consola»; un Dio che serve da criterio ermeneutico della realtà, da avallo di quella sua ferrea necessità di sapore capitalistico-ricardiano che appare per esempio nelle pagine sulla carestia, e insieme da monito ad operare, sia pure paternalisticamente, ma intelligentemente e umanamente, entro questi limiti. Marx ha detto una volta che gli economisti borghesi sono come i teologi costretti a dimostrare che tutte le religioni sono sbagliate e inventate, fuorché la loro. Il Manzoni è in qualche modo la realizzazione di questa metafora, poiché in lui Dio è la garanzia che l'ordinamento feudale è tramontato senza colpo ferire e che ora si tratta di rimboccarsi le maniche e di mettersi al lavoro. Il «brescianesimo» del Manzoni consiste nell'aver egli contrabbandato in Italia il suo Dio giansenista, conosciuto a Parigi e sorto dalle ceneri dell'edizione di Kehl, senza avergli fatto pagar dogana al confine, e anzi presentandolo come genuino prodotto nazionale e contraffacendo il marchio di fabbrica, di modo che lo
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si potesse confondere con quello della Controriforma (i cui rappresentanti, del resto, non si lasciarono mai ingannare). Sicché, esortando alla rassegnazione davanti al suo Dio attivista cattolico della borghesia, finiva indirettamente per esortare a rassegnarsi al Dio feudale, al residuo del Medioevo, e alla società che egli incarna. C'è nel Manzoni qualche cosa di quella borghesia milanese che fa un gran baccano assicurando che se andasse a Roma instaurerebbe subito il laburismo inglese e il paradiso elvetico, mentre in realtà a Roma ci va, ma soltanto per combinare l'intrallazzo coi latifondisti meridionali. Il Manzoni era più furbo, e a Roma non mise mai piede. Il suo intrallazzo col Dio del padre Bresciani lo combinò a Milano, e si chiamò nientemeno che I promessi sposi. Il De Sanctis vide bene, a Zurigo, che per condurre a termine questa geniale operazione il Manzoni aveva dovuto isolarsi «nel silenzio del gabinetto». Tuttavia l'attività artistica, a differenza di altre, si esaurisce nel proprio prodotto, è «priva di interesse», per dirla con Kant. L'efficienza rivelata dall'alchimia moderata del Manzoni è dunque qualitativamente diversa da quella dell'alchimia politica su cui è stata edificata l'unità italiana. Se qui il risultato impone di discutere la validità di un'impostazione di cui risentiamo anche a un secolo di distanza, là è da vedere al contrario se non sia proprio il «silenzio del gabinetto», il carattere lievemente artificiale - e quindi ideologico e predicatorio - della creazione manzoniana a costituire non solo l'indubbio limite, ma anche la causa essendi di un capolavoro della forma romanzesca che non avrebbe potuto sorgere altrimenti. Affiorano qui i problemi del significato del romanzo, della difficoltà che questa forma presentava e in parte presenta ancor oggi in Italia, del rapporto Manzoni-Leopardi ecc., e perciò è meglio far punto, tanto più che mi sono completamente dimenticato del De Sanctis e di Muscetta divagando senza bussola e aggravando le contraddizioni anziché tentare di risolverle. Ciò che succede spesso davanti a quest'uomo impossibile, questo figlio di un patrizio stolido e cornuto e di una bella intellettuale emancipata, questo nevropatico sensuale e caparbio che per aumentare lo
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scandalo ha perfino subito una sincera crisi religiosa. E noi italiani, abituati a conversioni d'altro genere, stentiamo ancora a capacitarcene. (1956).
Federico De Roberto
Chiedere giustizia per Federico De Roberto (1861-1927) è perfettamente inutile. Se l'avesse avuta, occuperebbe nelle storie letterarie dai tre ai cinque quarti, a seconda dei gusti, dello spazio dedicato a Verga. Invece, o non vi compare affatto - c'è stata nei suoi confronti, scrive Carlo A. Madrignani su «Belfagor», (1981, n. 3), «una vera e propria congiura del silenzio» - oppure il suo capolavoro, I Viceré, anche in manuali recenti, è liquidato in quattro righe, sempre in tandem con II marchese di Roccaverdina di Capuana, una squallida risciacquatura da Maupassant, buona tutt'al più per entrare in cinquina allo Strega. Insomma, un caso di supplizio di Mezenzio: costui, secondo Virgilio, legava i suoi nemici a dei cadaveri, facendoli imputridire lentamente. Ormai, anche se gli italianisti tenessero un congresso ecumenico per sciogliere De Roberto da quell'abbraccio mortale, sarà ridotto in modo da non poterlo più rimettere in piedi. L'unica cosa che si può fare è esortare a leggere 1'«Oscar» n. 1368 (L'imperio) prima che sia scacciato nelle librerie dal 1369 (Hitchcock, La morte può essere bella). L'imperio è la continuazione dei Viceré, disponibili nei «Grandi Libri Garzanti». Sono due romanzi assai diversi: il più vecchio (1864) è la saga familiare dei principi Uzeda, chiamati appunto i Viceré per la loro ricchezza e prepotenza, nel periodo tra il 1850 e il 1882, cruciale per la nobiltà siciliana, che per interesse deve tradire la fedeltà ai Borboni e adattarsi al fatto compiuto. L'opera termina appunto con l'elezione a deputato del Regno d'Italia dell'ultimo rampollo della famiglia, Consalvo Uzeda di Francalanza. L'imperio segue la vita di
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costui a Roma, la sua lotta senza scrupoli per assicurarsi una fetta di potere. Terminato in sostanza prima del 1 9 1 0 , il libro non fu mai veramente rifinito e usci postumo nel 1929 (il testo dell'«Oscar» è migliorato grazie al solerte curatore e prefatore Madrignani). Anche questa difficile gestazione, oltre alla diversa ambientazione e tematica, contribuisce a fare dell'Imperio un libro sbozzato a grandi blocchi, molto concentrato, incurante di lacune e contraddizioni, con pochi veri personaggi e molte comparse, di fronte all'ampiezza e alla relativa tranquillità narrativa dei Viceré, opera più policentrica che fa grande uso del dialogo. Bisogna leggere entrambi i romanzi, chi ha paura della mole dei Viceré cominci con questo Imperio, che è lungo meno della metà e sorprendentemente attuale. E la storia di una disillusione, quella del seguace prima zelante e poi disgustato di Consalvo di Francalanza, Federico Ranaldi, un giovane giornalista infiammato dagli ideali risorgimentali che mette la sua penna al servizio del deputato siciliano credendolo un sincero paladino della Destra storica e accorgendosi man mano che crede solo nei propri interessi e nella propria carriera. Dato che gli altri, parlamentari o giornalisti, non sono da meno, tutta Roma è un luogo di corruzione e il libro è quel «libro terribile » che aveva annunciato l'autore e che resta attuale, solo che la corruzione oggi è burocratizzata e un romanzo cosi, che abbisogna della passionalità degli Uzeda, non si può più scrivere. In compenso c'è già tutto, compresa la politica fatta in trattoria o al bordello. Un passo straordinario è quello in cui Consalvo si serve della morte dello zio, un emerito farabutto, per trasformarlo in eroe nazionale e ottenere l'ambito telegramma di condoglianze del re, grazie alla mobilitazione dei mass media di allora, i giornali e l'Agenzia Stefani. Il suo stesso giornale gli chiede, «per telegrafo, notizie biografiche del morto, celebre ma ignoto». Questo valga come esempio dello stile di De Roberto, denso e nervoso, fondato sull'asindeto e sui due punti, e in cui anche la battuta si rattrappisce in ossimoro («celebre ma ignoto»). L'intelligenza e la
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passione che consumano i personaggi tanto da scarnificarli (l'unico che ci si può rappresentare concretamente è l'enorme e violento Don Blasco dei Viceré) sono i due poli tra cui si muove anche lo stile. L'intellettualismo, del resto, fa si che autore e personaggi abbiano sempre una certa comprensione per le idee altrui che li fa scendere senza accorgersi la china del trasformismo, il quale finisce per diventare un connotato indispensabile della politica e ne espelle definitivamente la morale, che nella sua impotenza ribadisce il verdetto sul mondo. Autore di un saggio sul Leopardi, De Roberto è in realtà più vicino a Schopenhauer e alle sue versioni positivistiche. Ranaldi, che ha piantato tutto ed è tornato a casa, esce alla fine in una filippica in cui auspica l'avvento di uomini risoluti che «coi più potenti mezzi della chimica futura» facciano fuori il genere umano. «Perché odieranno la vita essi saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare pezzo a pezzo il mondo si chiameranno geoclasti». E sorprendente la coincidenza con l'ultima pagina della Coscienza di Zeno, senza la levità dell'ebreo triestino e con molta pesante tetraggine meridionale. Entrambi, il siciliano e il triestino, erano lungimiranti ma sbagliavano nel rappresentarsi la faccenda come dovuta all'iniziativa di singoli eversori. Invece ci sta provvedendo proprio l'Imperio. Il geoclasta era Consalvo, non Ranaldi. Difetti? Si, e grossi, qualcuno già accennato. Soprattutto però la tendenza del parossismo del pensiero e dei sentimenti a capovolgersi in ingenuità e convenzione. Già con la tirata di Ranaldi l'«Oscar» n. 1368 sfiora effettivamente il 1369 (La morte può essere bella), ma poi il giornalista ci ripensa e chiede la mano di una virtuosa fanciulla, con il che siamo già al n. 1432 (Cartland, Tentazione d'amore) o addirittura al 1 4 1 0 (Hauser, Vivere giovani vivere a lungo). Ma che importa? L'importante è aver dentro il demone della verità, e De Roberto l'aveva. Difetti analoghi sono stati sempre rinfacciati a Zola, a Dostoevskij, soprattutto a Balzac. Eppure, quando gli extraterrestri sbarcheranno su una terra ormai completamente geoclastizzata e, trovando questi autori nel bunker di un riccastro sopravvissuto due giorni in più, comin-
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ceranno a leggerli, se li porteranno dietro per finirli in più spirabil aere. Il riccastro non avrà certo mai sentito nominare De Roberto. Peccato. Gli extraterrestri non dovrebbero esserne privati, visto che i terrestri italiani non sanno cosa farsene e che questa potrebbe essere la sua ultima chance. (1981).
Un ingegnere de letteratura
... ché solo a Milano ci possono essere dei letterati cosi SF74
Dalla lettura del Pasticciaccio1 non risulta affatto che Carlo Emilio Gadda sia ingegnere e milanese. Per un lettore sprovveduto potrebbe essere anche abruzzese e pittore di alluci. Tuttavia ci tiene tanto e ce lo ripete tanto spesso che ormai lo sanno anche i boccali di Montelupo. E poi è effettivamente importante. Cominciamo dunque di qui. Ingegnere e milanese è un'endiadi per quella coscienza popolare che è diventata il punto di riferimento di Gadda. E come 1'« industriale de commercio, de quelli che stanno a Torino a fabbrica le macchine» che appare nei discorsi smozzicati della bellissima Ines Cionini del romanzo (198). Gadda sarebbe allora un ingegnere de letteratura de quelli che stanno (o staveno) a Milano a fabbrica pasticciacci. Ma noi, che non siamo la Cionini, distinguiamo pure i due concetti. Primo: l'ingegnere, o meglio l'ingegnere de letteratura. Fu già un tempo in cui lo studio e il culto delle matematiche erano una garanzia del desiderio di mettere ordine nella realtà e nello stile, di pensare e scrivere more geometrico, da Spinoza a Stendhal. Ancor oggi è lecito assumere che il politecnico abbia influito per esempio sulle sottigliezze di un Robert Musil. Ma in complesso è più frequente il caso che le matematiche vengano sbandierate per ricattare il lettore. E come potrebbe costui, digiuno com'è di tutto, e financo del teorema di Pitagora, dubitare del «rigore» di certa poesia e narrativa moderna, quan' Querpasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1 9 5 7 . 1 numeri senz'altra indicazione rimandano alle pagine di questo libro. Le altre opere sono indicate con abbreviazioni (seguite dal numero della pagina): SF: I sogni e la fòlgore, Einaudi, Torino 1955; G G P : Giornale di guerra e di prigionia, Sansoni, Firenze 1955-
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Un ingegnere de letteratura
do vi è apposto il nihil obstat della facoltà di matematica e ingegneria? Fiorisce cosi l'ermetismo matematico: Mallarmé più Leonardo e Cartesio dà Valéry, tra le vane proteste di Julien Benda. Le forme più astratte della ragione diventano l'alibi degli irrazionalisti, cosi come nel racconto gaddiano Papà e mamma (nelle Novelle dal ducato in fiamme) i coniugi Velaschi si servono della sua « affezione precoce per le trovate migliori della meccanica » per evitare al figlio di andare in guerra, imboscandolo in una fabbrica. Pasticciacci si, ma loici e ingegnereschi. Quadri di decomposizione fisica e morale, si, ma siccome te li dà un ingegnere, è da supporre che siano soltanto il contraltare romano-fascista agli ideali costruttivi del primo Gadda, alle «strade ottime, larghe, asfaltate, di pretta costruzione italiana» (SF 200) su cui egli voleva marciare. Qui dall'ingegnere si passa al milanese. Nascere in una famiglia borghese di Milano è insieme una disgrazia e un privilegio in quanto si appartiene alla borghesia più attiva, energica e moderna della penisola; e una disgrazia in quanto questa borghesia, non avendo potuto o saputo, se non in rari momenti e in rare élites, darsi un contenuto veramente nazionale, ha irrimediabilmente ristretto i propri orizzonti, chiudendosi in una grettezza di aspirazioni e di costumi che non è nemmeno alleviata dal decoro subalpino e dall'austerità patriarcale di cui si adornano le borghesie sorelle degli altri due vertici del triangolo industriale. Alle grandi dimensioni esterne della vita milanese si contrappone l'esiguità del diametro interno, esiguità che rende più feroce e insopportabile, a una anima sensibile, l'impero del denaro. A Milano si vive il capitalismo nella sua nuda estroversione, privi dell'assetto civile e culturale che esso si è dato in altri paesi, e privi altresì di quei margini di cattolica rilassatezza, sia pure oggettivamente deleteri, ma soggettivamente gradevoli, che il sopravvivere di certe strutture feudali consente alle città dell'Italia centromeridionale. A questa situazione Milano ha istintivamente reagito, al tempo in cui da una parte andava rapidamente aumentando d'importanza, e dall'altra si mostrava sempre meglio la sua incapacità di influire in modo decisivo sulla vita spirituale della nazione (e cioè negli
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ultimi decenni del secolo scorso), nei due sensi in cui naturalmente si dissocia un impulso nazionale mancato: la valorizzazione della superstruttura municipale e il ricorso agli orizzonti internazionali. 11 primo tentativo era votato al fallimento, e oggi il municipalismo non vive nella borghesia milanese se non sotto forma di orgoglio neocapitalistico e di regali di Natale ai vigili urbani. Il secondo invece doveva prosperare sempre più, e Milano restò la porta d'accesso della cultura straniera e il centro di molte resistenze alla cultura nazionale nella sua forma idealistica. Per giustificate che fossero (si pensi per esempio in filosofia all'attività degli ultimi positivisti, e poi di Martinetti e del primo Banfi), tali resistenze portano un carattere prevalentemente difensivo, e non è un caso che l'opera di Gramsci (che pure da giovane avrebbe voluto trasportare la capitale a Milano) non ne abbia praticamente ricevuto lievito alcuno nell'assunto di «rovesciare» il crocianesimo, rimasto l'unica impresa culturale egemonica della borghesia italiana. Anche qui l'estroversione di Milano serviva a sprovincializzare molte cose, ma non nazionalizzava nulla, e si esauriva nell'accettazione e nell'elaborazione di ideologie proprie di un capitalismo avanzato, ma privo di respiro nazionale. E quindi particolarmente atto ad accogliere gli stimoli della cultura europea del periodo imperialistico. Già al tempo della nascita di Milano come grande città, se Emilio De Marchi riesce egregiamente a rendere questa trasformazione con mezzi realistici, altri scapigliati, come Dossi, imparano a uscire dalla cerchia capitalistica per la tangente del bizzarro e del puntuale-autobiografico. Nasce, se non il pasticciaccio, il pasticcio. Il bizantinismo e l'intimismo, espressioni del ristretto ambito interno, complementari alla smaccata estroversione dei futuristi, si radicano sempre più tra le selve di cemento armato, e perfino la poesia dialettale abbandona con Delio Tessa i modi coloriti della tradizione portiana per cantare la variante milanese del waste land europeo della solitudine e della morte. Tale è l'ambiente in cui si sviluppa Gadda. Allora a chi nasceva, come lui, in via Manzoni, la tradizione municipale offriva ancora molte risorse, né la barbarie neomilanese aveva ancora sop-
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presso la galleria De Cristoforis, eretto grandiosi monumenti al dio del cattivo gusto e distrutto quasi interamente quelle vie tranquille che custodivano gelosamente gli agi di un'alacre borghesia e in cui si aggiravano le ombre del Manzoni e del Cattaneo. Di questa Milano Gadda seppe darci, neW Adalgisa, scorci pasticciati e sconclusionati more gaddiano, ma talora felici quando ritraggono affettuosamente la buona linfa milanese: quei prodotti tra il popolano e il piccolo-borghese, ma non privi di un pizzico di bohème, di qualche evasione nel teatro o nel caffè, o soltanto in qualche innocente mania, di cui la migliore rappresentante resta l'Adalgisa stessa, che si esibiva al Fossati, ma soltanto in attesa di trovare il suo uomo; il «povero Carlo», il ragioniere filatelico ed entomologo che «ha radici e sviluppo nell'epoca positivistica» (SF 562). Quell'Adalgisa che non per nulla gli amici chiamavano portianamente «la Tettòn» (SF 538), a un'epoca in cui la mania citatoria del Nostro poteva ancora avere un senso, e attribuire una tradizione e un'anima a quel ben di Dio che nelle varie Ines del Pasticciaccio diventa soltanto l'oggetto di una eulta pornografia. Più forte di questa, positiva, è però l'esperienza di quella crudele solitudine milanese che né le ben avviate industrie, né il Savini e la Scala, e nemmeno lo spettacolo della Tettòn al Fossati riescono a colmare. Dietro gli androni delle case nobili e borghesi si muovono, timidi e sommessi, pallidi rampolli asfissiati dalla noiosità familiare, come quel contino Gigi che ci vogliono ottanta pagine di San Giorgio in casa Braschi (nel Ducato in fiamme) per far cadere nelle braccia della bella serva Jole. Se in questo racconto e in altri schizzi tali situazioni sono attenuate dall'appello dei ghirigori e si risolvono in tono scherzoso, esse assumono accenti ben più gravi e desolati quando non si tratta più dei Gigi, ma del Carolus Aemilius. «Veramente le prove sostenute nella mia infanzia sono state tali, per circostanze famigliari, da scuotere qualunque sistema nervoso: figuriamoci il mio di me, che avevo paura a salutare per la via un mio compagno di scuola o la mia maestra, che immelanconivo e impaurivo all'avvicinarsi della sera» ( G G P 131-32). Ci crediamo senz'altro, tanto più che queste pa-
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role sono confermate nei diari da esplosioni nevrotiche e da crisi di sconforto, con quelle oscillazioni tra moti di affetto morboso e di repulsione verso i familiari che sono il frutto di un'educazione sbagliata. Peccato che questo «sistema nervoso viziato congenitamente da una sensitività morbile » (GGP 6) abbia per effetto un narcisismo che mette sempre in primo piano, pur autoflagellandolo, quel personaggio senza dubbio importantissimo, ma alla lunga alquanto molesto come tutti i personaggi che stanno continuamente sulla scena a ripetere gli stessi gesti e le stesse smorfie, che è il Nostro, «cioè il medesimo Gadda» (FS 188). L'esibizionismo nevrotico del quale, che avrebbe potuto costituire un capitolo delle Malattie del secolo di Max Nordau - lettura di guerra del Nostro ( G G P 60), assai tipica per la sua formazione - , si esplica nel bisogno di ribadirsi ad ogni piè sospinto anche soltanto attraverso le continue ripetizioni del proprio nome, con varianti e pseudonimi. Il padre gli aveva predetto (manifestando un'insipienza pedagogica prettamente borghese-milanese): «Tu non farai niente di buono nella vita» ( G G P 232), e lui tende ad assicurarsi della propria esistenza, contro l'ombra del padre, moltiplicando ad ogni pagina i nomi sacri ed esecrandi di Carlo Emilio, C E G . , Carolus Aemilius, Gadda Duca di Sant'Aquila, Gaddüs, Eraclito di via San Simpliciano, ecc. ecc. Tali ripetizioni sono particolarmente curiose e sintomatiche nel diario, che dopo tutto dovrebbe essere privato. Dovrebbe, ma non si sa bene fino a che punto, poiché si dice ( G G P 151): «Chi fosse a leggere queste note non creda... » Non si tratta di compiacimento letterario; è che non gli basta persuadere se stesso che suo padre aveva torto: ci si devono mettere anche i posteri. Se Gadda riesce cosi più a suscitare l'esasperazione del lettore che ad esprimere la propria, ciò non toglie che questa abbia un fondamento disperatamente genuino. Il quale si dischiude appieno quelle rare volte in cui egli riesce a presentare queste tragiche esperienze come qualche cosa di più di una vicenda patologica, e a riempire le lagne del malato di un significato esemplare. Ciò accade soprattutto nel capitolo Tendo al mio fine (scritto in risposta a un referendum di «Solaria» e raccolto nel Castello di Udine),
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che è la migliore autoanalisi dell'essenza e degli intenti del Nostro. Il «fine» - avverte il dott. Feo Averrois, commentando filologicamente i detti del «convoluto Eraclito di via S. Simpliciano» (SF 122) - è «ambiguo per morte e finalità». Lo scritto si apre con splendidi periodi che occorre trascrivere per intero: Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s'è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, netta bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla, io, che di tutti li scrittori della Italia antichi e moderni sono quello che più possiede di comodini da notte, vorrò dipartirmi un giorno dalle sfiancate séggiole dove m'ha collocato la sapienza e la virtù de' sapienti e de' virtuosi, e, andando verso l'orrida solitudine mia, levarò in lode di quelli quel canto, a che il mandolino dell'anima, ben grattato, potrà dare bellezza nel ghigno. La virtù, senza il becco di un quattrino, è pur veneranda cosa: e questo si arà da sentire nelle mie note. Era ed è la legge che custodisce ed impone l'inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica (SF 1 1 9 ) .
E continua annunciando il programma del pasticcio universale nello stile delle profezie leonardesche: «Sarò il poeta del bene e della virtù, e il famiglio dell'ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco... » « Conterò sogni e chimere... ; e conterò li sputi e catarri de' cittadini nostri... » «... e talora sospingerò l'ardire mio e la fantasiosa vena infino a immaginare che le serrande chiudino e le maniglie servino a chiudere». « E leggerò i libri sapientissimi delli scrittori...» «I pensieri più belli si dissolveranno, ogni volere, ogni gioia...» Fino al mirabile finale cimiteriale: «Crescerà ne' vecchi muri l'urtica: e l'erba di sopra la lassitudine mia. E l'erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà» (SF 119-22). Anche se l'opera del Carolus Aemilius Maximus, nel suo complesso, cadrà forse presto in oblio, queste pagine resteranno in ogni antologia della nostra prosa novecentesca. Il programma sopravviverà alla esecuzione. Il cavallo, cioè - spiega il solito Feo Averrois (SF 123) - «la saluberrima stupidità, superstite e pascolante sopra la vana fatica del pensiero » avrà tutte le ragioni di campare sulla fatica, davvero vana, del gigante del pensiero pasticciato, ma queste pagine le rispetterà, poiché esse sono, ac-
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canto alle poesie di Montale, la più classica esposizione di quel nichilismo italiano che serpeggia un po' dappertutto, ma è quasi sempre intralciato da tendenze di altro ordine, sia semplicemente provinciali o retoriche, sia veramente realistiche, nazionali e progressiste. In Tendo al mio fine c'è tutto: la «legge», cioè, secondo Averrois, «in senso lato, agnatizio e tribuico... la tribù e il ceto mercativo-politecnico di Milano e dintorni»; l'orrore per questo capitalismo ambrosiano che disconosce «le ragioni oscure e vivide della vita», e insieme l'incapacità di uscirne, e il programma di cantarne il bene e la virtù accanto al grugnito del porco, la falsa coscienza e la realtà immonda, distorcendo e deformando tutti gli oggetti del mondo capitalistico per contraddirli restandone all'interno: «infino» a ritrovarli tali e quali, banali e funzionali, nelle serrande che chiudono e nelle maniglie che servono a chiudere, poiché tutto il pasticciamento del cosmo serviva al Dio-artista soltanto per sbalordire il filisteo. A questo altissimo livello di scrittura anche il dramma individuale si legittima: la povertà di Gadda - colpa imperdonabile agli occhi della borghesia milanese - e la sua atra ipocondria, consegnate in tante elucubrazioni narcisistiche, assumono il carattere di un vero dramma individuale che rimane pressoché isolato nelle lettere italiane d'oggi. Come taluni filosofi milanesi riproponevano, di fronte allo storicismo facilmente assolutorio e ottimista degli idealisti meridionali, gli ineliminabili conflitti tra l'individuo e il mondo, appoggiandosi a Kant, ai neokantiani, e più tardi a Kierkegaard e agli esistenzialisti; cosi Gadda, cadute le certezze positivistiche e politecniche che egli aveva ancora assorbito, canta in queste pagine la solitaria singolarità del soggetto che, abbandonato a se stesso in un ambiente dominato dal denaro in cui sono stati distrutti quei legami naturali precapitalistici che facilitano l'integrazione della vita individuale, «tende al suo fine», cioè si decide alla morte, per dirla con Heidegger, onde sfuggire alla tirannia dello stupido man cavallino. Mentre in Montale - il solo che gli può essere paragonato - la nullità della vita e lo scatto che, cancellandola per un istante, finisce per ribadirla, si depositano nelle forme dell'essenzialità lirica, scabra pomice li-
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gure appena lambita dal mare dei rumori del mondo, Gadda pretende di giungere al suo fine solo dopo avere onninamente sovvertito e deformato la realtà cara ai cavalli. Novello eroe acheo, egli vuol trascinare sul suo rogo i corpi degli oggetti del capitalismo, fatti prigionieri della sua arte. Tuttavia di persuasivo, in tale impresa, resta, dicevamo, soltanto il programma. Gadda ha tradotto i Sueños di Quevedo, il primo grande tentativo di oggettivare le deformazioni che il capitalismo ingenera nella vita degli uomini. Ma, appunto, di oggettivarle, cioè di presentare nella realtà deformata la realtà più autentica, nei suoi tratti invisibili ad occhio nudo e percepibili soltanto con gli occhi dello spirito. Si capisce l'affinità elettiva di Gadda per questo autore. Il suo modo di deformare la realtà è però diverso ed opposto. In Quevedo, come in Swift o in E. T. A. Hoffmann, la resistenza al capitalismo, lungi dall'essere un fatto puramente individuale, viene compiuta in nome dei valori umani da esso conculcati, e in questi la deformazione ha il suo costante termine di riferimento e di confronto. Gadda invece, sul piano oggettivo, è succubo di quel capitalismo di cui ha orrore, poiché altro non vede in esso se non l'imperversare della cavallina stupidità, che congiura alla rovina morale di un solo, cioè del Nostro. E quindi naturale che la fantasia di costui non riesca a creare un mondo deformato articolato in rapporti che riflettano adeguatamente l'essenza del capitalismo. Mancando una direzione oggettiva - che non sarebbe più «il suo fine», ma un fine generalmente umano - abbiamo da una parte la lamentazione monodica, che può assurgere alle altezze ora viste, e dall'altra l'accanimento della soggettività esasperata nel dilaniare la realtà, rimestandola, pasticciandola, distruggendola, ma senza che questo processo equivalga a un miglior modo di intenderla. Gli oggetti del capitalismo deformati restano gli oggetti del capitalismo, nel loro essere-cosi-e-non-altrimenti, e la confusione che vi si instaura è il risultato dell'arbitrio del soggetto e non un riordinamento fantastico secondo dei principi immanenti. A j e a n Paul - molto ammirato da Carlo Dossi, e quindi in qualche modo nonno di Gadda - Hegel rimproverava «i barocchi inventari di oggetti eteroge-
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nei le cui relazioni, combinate dall'umorismo, si lasciano decifrare a stento». E aggiunge: Queste cose neanche il più grande umorista può averle presenti alla memoria, e quindi molte combinazioni di Jean Paul danno effettivamente a divedere che esse non sono scaturite dalla forza del genio, ma sono state messe insieme in modo esteriore. Perciò Jean Paul, per aver sempre nuovo materiale, consultava tutti i libri delle più svariate specie, libri di botanica, di diritto, di viaggi, di filosofia, prendendo subito nota di ciò che lo colpiva e aggiungendo ciò che gli veniva in mente subito; e quando passava al momento della creazione, metteva in rapporto le cose più eterogenee - le piante brasiliane e il tribunale della Camera Imperiale. Ciò è poi stato lodato come originalità o scusato come umorismo, che rende lecita qualsiasi cosa. Ma la vera originalità esclude un simile arbitrio 2 .
Questi inventari di oggetti e di nozioni eteroclite si trovano anche in Gadda, che siano o no desunti da quaderni di appunti del tipo jeanpauliano. Tuttavia sono forse in lui ancora più appariscenti altri due mezzi di distorsione soggettiva del reale che sconvolgono la pagina a un grado inimmaginabile in Jean Paul, dove pure essi già si trovavano: l'excursus e la deformazione verbale. Il primo ha la funzione di svalutare le capacità espositive del discorso, interrompendolo ogni volta che minaccia di trasformarsi in racconto. Ciò è particolarmente evidente nell'apparato di note grottesche di cui Gadda suole provvedere i suoi scritti (anche il Pasticciaccio aveva qualche nota, eliminata nell'edizione in volume), poiché qui gli intenti esplicativi, caricaturati nell'apparente oggettività scientifica dei dati, irti di cifre e di etimi, vengono vanificati in mille modi dal vicendevole ironizzarsi dei dati stessi. Per esempio in una nota su Gaetano Negri (SF 483) che ha scopi dichiaratamente apologetici - «ricordato da monumento eneo ai Giardini Pubblici di Milano: ed aere perennius dalle sue opere», questo lombardo positivista tormentato non può non esser caro al Nostro - il racconto della vita, che non risparmia il giorno, il mese e l'anno di nascita, morte e nomina a senatore, ed enumera le varie attività e benemerenze, «tende» in un solo periodo «al fine»: «...mori per accidente: sdrucciolando (dial. 2
G. W . F. H E G E L ,
Ästhetik, Berlin 1 9 5 5 , p. 3 0 3 .
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lomb.: scarligando) a un mal passo... durante una gitarella... Animo eminentemente ottimistico, non appena percepito il lubrico passo, gridò alla moglie e alla figlia, che sopravvenivano: "Atenti" (indeclinabile) "che se scarliga!" Scarligò lui stesso, defunse». Questo malo passo, su cui ironizzò anche il Croce con minor simpatia per il personaggio, ma con maggiore pietà linguistica (ché mai avrebbe infierito in mortuos baloccandosi con quel « defunse»), è tipico per il nichilismo al rallentatore del Nostro, il cui sforzo titanico consiste nell'accatastare impacci sulla via che tende al fine, fermandosi anche sul ciglio dell'abisso per controllare una data, una voce dialettale, un'assenza di declinazione. Sicché uno dei pochi veri « errori » riscontrati da Giacomo Devoto nel suo accurato saggio sulla lingua di Gadda 3 , e cioè 1'«indecifrabile paura» che passa tra la cessazione del fischio della granata e il suo scoppio (poiché «indecifrabile» può essere, osserva il Devoto, soltanto «cosa che richiede lungo studio») non è forse un errore, ma una testimonianza del gesto con cui il Carolus Aemilius Cunctator allontana da sé ogni evento, spostandolo all'infinito. L'attimo è realmente indecifrabile, in quanto al di là di esso si spalanca la funesta possibilità dell'evento (funesta anche quando non si tratta di uno scoppio di granata), ed occorre quindi a qualsiasi costo ricamare su questa indecifrabilità la digressione che allontani il pericolo, moltiplicando l'indecifrabilità stessa. In questo senso anche la deformazione verbale e il ricorso ai dialetti, alle lingue straniere, ecc. sono da considerare come la tendenza a riportare l'excursus in seno all'unità stessa della parola, a snaturare la sua funzione denominatrice, il suo rapporto con l'oggetto da una parte e con la comunità dei parlanti dall'altra. Contrariamente ajean Paul, che esprime la fuga dal reale prevalentemente attraverso il cumulo delle secondarie e il sovvertimento dei nessi sintattici, Gadda non altera se non in misura relativamente piccola, come risulta anche dall'indagine del Devoto, la struttura sintattica tradizionale, e quando lo fa vi adatta in corrispondenza la punteggiatura, in modo che lo sguardo del lettore 5
G. DEVOTO,
Studi di stilistica. Le Monnier, Firenze 1950, p. 89.
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non fatica molto a ritrovare l'ordito in mezzo al coacervo degli inserti e delle parentesi. La sua illeggibilità ha altre origini, e cioè la futilità dei particolari e una gamma lessicale che non trascura nessuna possibilità di fare lo sgambetto alla parola consueta. I due fenomeni sono concomitanti, e servono entrambi a frustrare le predisposizioni del lettore nei suoi orizzonti logici e linguistici, in ciò che potrebbe approssimativamente aspettarsi che venga detto e nella forma in cui potrebbe aspettarselo. Il Devoto ha visto questo processo anzitutto come lotta dell'espressione affettiva contro la natura istituzionale del linguaggio, indicando, in pagine di Gadda che non sono tra le sue più tormentate, fino a che punto tale lotta è da considerarsi più o meno legittima e riuscita. Un'analisi di tal genere riporta però la questione a una problematica linguistica generale in cui si perde il quid specifico gaddiano, cioè l'abnormità del rapporto tra affettività espressiva e linguaggio istituzionale, visto non più in relazione ai limiti di elasticità del linguaggio stesso, ma all'intuizione fondamentale della vita e dell'arte che vi si depositano. Ritorneremo su questo a proposito del Pasticciaccio, dove l'alterazione soggettiva del linguaggio istituzionale troverà un parziale fondamento oggettivo nella «collettività fabulante». Per il momento ci interessa ribadire che comunque il programma distruttivo di Gadda non si attua tanto nella creazione di un mondo fantastico deformato, quanto nella deformazione di un materiale linguistico che, riferendosi a una realtà per lo più quotidiana e banale, la nega e la trascende solo attraverso la deformazione stessa. Non per nulla Gadda idoleggia 1'«indecifrabile ermeticità» del «mondo meraviglioso e saggio» degli Etruschi «che diede a Roma i Tarquini e poi la lupa e disdegnò parlare, se non per enigmi, alle anime scempie di cosmopoli» (SF 190), dove la parola «cosmopoli» allude alle «idee del ginevrismo contemporaneo e de' fantastici culti del mondo moderno, specie nordamericano» (SF 219), cioè insomma al capitalismo. Tuttavia Gadda sente troppo profondamente l'inumanità del capitalismo e si arrovella troppo, sia pure a ruota libera, e vantando più che precisando il suo «pensiero», per limitarsi ad uscirne
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con la scrittura etrusca. Il socialismo non gli offre una soluzione, sia perché egli è troppo radicato nel suo amore-odio per il ceto mercativo-politecnico milanese, sia anche perché esso gli si presenta in una forma pur essa milanese: come quella socialdemocrazia di spirito positivistico e di funzioni prevalentemente sindacali e amministrative che agli occhi di un borghese inquieto appare quasi la naturale prosecuzione ed estensione del capitalismo, di cui condivide le virtù e le miserie. L'Università Popolare, l'Umanitaria, il movimento cooperativo e le altre benemerite istituzioni sulla cui humus nasce la figura del «povero Carlo» sono vanti milanesi cui il Nostro non è affatto insensibile, ma che vede anzitutto come effetti di un civile paternalismo borghese il cui eroe è Luigi Luzzatti (SF 563). Questo socialismo non può dunque aprire una prospettiva positiva all'animo esagitato di Gadda. Ben diverso è il caso del nazionalismo, e se i libri di guerra di Gadda hanno un'importanza che trascende il loro valore letterario (tutto sommato assai minore di quanto ci si voglia far credere) è perché essi rivelano con straordinaria precisione, nelle notazioni di un'anima confusa, ma fondamentalmente sincera, quell'identità di decadenza individuale e di rabbioso nazionalismo che meglio conosciamo attraverso opere straniere, per la solita ragione che il miscuglio del pentolone gaddiano è piuttosto raro tra noi. Gadda è conscio di affogare il proprio furore nel furore collettivo e di potenziare in esso le proprie qualità sommerse dalla vita borghese. Una volta che non riesce a partecipare a un'azione bellica, prorompe: «Intanto il mio triste, nebuloso, schiacciante destino mi ha ripiombato nella mediocrità della vita, anche sotto le armi... Certo le mie capacità militari sono poche: ma appena sentito il rumore della battaglia... una specie di commozione sovrumana mi pervade l'anima... l'ardore della lotta mi prende, sotto forma d'un moltiplicarsi della energia, della volontà, del vigore fisico, della spensieratezza e dell'entusiasmo» ( G G P 1 5 1 ) . Si aggiunga il motivo della fine della solitudine nella fraternità di guerra: « Oh, miei vecchi soldati, miei giovanissimi compagni, quali divini momenti abbiamo vissuto insieme! Il resto della lurida vita non significa nulla» (GGP 169). Gadda stesso parla della sua «re-
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torica patriottarda e militaresca» (SF 142) vedendone «il germine» nel suo albero genealogico, poiché ebbe «consanguinei i quali furono ministri zelantissimi dello Stato italiano» e per i suoi il Regno d'Italia «era cosa viva e verace ». Al solito, il grande vantaggio del nazionalismo è quello di permettere di evadere dalla famiglia e dalla società borghese pur restando in esse. Nazionalismo, ma non nazione. Quando evoca le «meraviglie d'Italia», Gadda cade in una retorica di una commovente ingenuità. Parla di Venezia minacciata dalla guerra - «questa città... racchiudente le fortune della nostra fioritura artistica in cosi cospicua somma, è un oggetto di preoccupazione intensa per la mente appassionata alle magnificenze della pittura...» ( G G P 1 1 5 ) - con toni da giornalista del «Corriere della Sera» di allora, dimenticando tutta la sua saputaggine e cadendo assai al di sotto di quel D'Annunzio ammirato dal giovane studente interventista. Di tali meraviglie, manco a dirlo, gli italiani sono affatto indegni. Salvo i suoi compagni, sono tutti, chi più chi meno, «cani assassini, che hanno consegnato al nemico tanta parte della patria... », «cani porci», «cani, vili» che vorrebbe «essere un dittatore per mandarli al patibolo» ( G G P 201), che hanno lasciato prendere dal nemico Cesare Battisti ( G G P 57). I furori milanesi dell'ingegnere contro l'anarchia italiana («Questo è l'ordine e la cura che gli italiani pongono ai loro interessi... », G G P 1 1 2 ) sono parzialmente comprensibili. Egli odia 1'«ignobile e turpe mito della furberia» e l'espressione «far fesso» (SF 132) e domanda agli italiani «di tutti i tempi e di tutti i luoghi»: «appartengo io alla vostra razza? So vincere la mia ragione personale con la ragione dell'interesse del servizio e della concordia, oppure no? » E sottoscrive il perinde ac cadaver dei gesuiti ( G G P 89). Nobili accenti invero, ma ahimè Gadda, degno rampollo delle classi dirigenti settentrionali, li tira fuori solo allorché c'è da lamentarsi della svogliatezza dei subordinati nel farsi macellare dal nemico, e pretende una mentalità statale e politecnica in articulo mortis da coloro che sono stati lasciati nella miseria e nell'ignoranza in vita. Pretende l'ordine dai soldati, quando lui ha studiato le matematiche solo per pasticciare il reale. Pretende lo spirito nazionale,
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quando lui non ha altro che la retorica nazionalistica, e ne è consapevole. Certo Gadda è un retore, si, e ce lo assicura lui (SF 142), ma pur sempre un retore troppo onesto per non vedere certe volte le cose come sono. Possiamo dire con lui, quando parla di uno di quei disastrosi « attacchi frontali » cari ai nostri comandi nella prima guerra mondiale: «Sembra che la "frenesia bellica" del Ns. non abbia ottuso del tutto le sue facoltà critiche» (SF 182). Ma l'atteggiamento fondamentale resta quello che è, e cioè un nazionalismo che disprezza il popolo, vuole l'obbedienza passiva e si lamenta che i treni non vadano in orario. Che se qualcuno vorrà poi conoscere un ben diverso rapporto tra ufficiali e soldati, lo potrà trovare nel tenente Ottolenghi di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu, libro che gli italiani si rifiutano di leggere perché scritto in una lingua loro invisa, l'italiano appunto, anziché in gaddesco. La «devozione al silenzio», lo «spirito tedesco» ( G G P 150) del Gaddiis von Gaddesheim, la sua avversione per l'irresponsabilità degli italiani, si fanno particolarmente sentire quando egli, reduce dalla prigionia, va a Roma e a Napoli, donde riporta «una impressione di caldo orribile, di vuoto, di tedio», che lo fa imprecare insieme contro il proprio temperamento e la «realtà merdosa». « Se la realtà avesse avuto minor forza sopra di me, oppure se la realtà fosse di quelle che consentono la grandezza, (Roma, Germania), io sarei un uomo che vale qualcosa» ( G G P 269). Un preannuncio dell'asse Roma-Berlino, che avrebbe dovuto ricostruire le colonne e gli archi e fare andare i treni con regolarità teutonica. Eppure questa attuazione dell'ideale gaddiano non soddisfece punto il Nostro: al solito, l'uomo era migliore della sua ideologia, e non poteva non vedere che le colonne erano di cartapesta e i treni fatti ad uso dei turisti stranieri. La questione dell'antifascismo di Gadda va affrontata senza credere né alle sue dichiarazioni, né ai pettegolezzi altrui. Che egli sia stato visto al caffè con qualche gerarca non significa proprio nulla. D'altra parte gli inventari delle ingiurie rivolte a Mussolini nel Pasticciaccio [tot «merda», tot «bucio»), coscienziosamente compilati da qualche perdigiorno, significano ancora meno e possono impres-
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sionare tutt'al più certi nostalgici distributori di premi letterari. In realtà la natura e i limiti dell'antifascismo di Gadda sono ben chiari e si possono facilmente desumere dalle idee e dalla psicologia del nostro retore antiretorico. Mussolini gli aveva rubato il mestiere: la grandezza romana e Giulio Cesare, la soppressione del «far fessi» e degli «italiani porci», la moralizzazione della vita pubblica («Furti, coltellate, ruffianate... la divina terra d'Ausonia manco s'aricordava più che robba fusse», 80-81), la fine dell'allegria, l'obbedienza gesuitica del perìnde ac cadaver. Ma Mussolini era un Gadda incolto e plebeo, che il politecnico non sapeva manco che robba fusse, che di Giulio Cesare ignorava il discorso indiretto (su cui tutti i personaggi gaddiani antepasticciaccio sono costretti a sudare), che della retorica romana si serviva per bassi fini demagogici anziché come contraltare alla decadenza, che « er concetto d'una maggiore austerità civile» (80) lo adoperava soltanto per gettar la polvere negli occhi. L'antifascismo di Gadda rientra dunque nei casi di quell'antifascismo di destra che del fascismo non depreca tanto lo spirito, quanto le modalità dell'attuazione, la volgarità e la barbarie, l'odor di canaglia. Lo si può paragonare, mutatis mutandis, all'atteggiamento di Stefan George verso il nazismo o di Bernanos verso il franchismo e il pétainismo. Atteggiamenti rispettabilissimi se considerati dal punto di vista del giudizio sugli individui (i quali dopo tutto rifiutavano prebende che avrebbero avuto buoni numeri per ottenere, e si esponevano a persecuzioni), ma di scarso valore ideologico e politico, a meno che non conducano a una radicale revisione di principi. Ora il Pasticciaccio segna, si, per più rispetti una svolta decisiva nelle concezioni e nell'arte di Gadda, ma tale svolta poco ha a che vedere con l'antifascismo, che infatti resta nel romanzo del tutto esteriore e superaddito: una testimonianza di simpatici livori gaddiani e una coloritura storica, ma nulla che agisca in profondità sulla visione del mondo. L'idea, suggerita da qualcuno in vena di umorismo, che Mussolini sia l'autore ultimo del delitto su cui investiga il commissario Ingravallo, mentre vorrebbe rimediare a tale esteriorità, in realtà la ribadisce, nulla essendo più estraneo a Gadda di un simile simbolismo politico, nulla più atempo-
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rale e apolitico di quella società romana sfatta e deliquescente che è, essa, la vera responsabile del Pasticciaccio. Poiché il tratto distintivo, emergente sin dalle prime pagine e dalle prime righe, di questo capolavoro del secolo o del millennio, è che il suo soggetto onnipresente e glossolalico è il « nostro mondo detto "latino" » (5), e cioè l'Italia non egemonizzata, porca e vile, bella e canagliesca, amorosa e delittuosa, credula e scettica, caotica e rigogliosa, dotta e analfabeta, che ha centro in quella Roma in cui Gadda non aveva un tempo trovato altro che caldo e tedio. Ciccio Ingravallo non rappresenta in alcun modo un'antitesi a questo mondo: ne rappresenta, tutt'al più, la coscienza, ma una coscienza che non va al di là dei suoi orizzonti. Egli è al centro del «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero», di cui teorizza l'inestricabilità riformando «il senso della categoria di causa» e sostituendo «alla causa le cause» (7), e di cui è parte integrante anch'egli, poiché in questo gnommero i commissari di polizia non possono non. essere amici, e amici vogliosi e turbati, delle belle vittime, e gli agenti di polizia amici e frequentatori delle prostitute che arrestano. La complicità regna sovrana e invincibile, tra assassini, assassinati e ricercatori degli assassini, ed ogni lacuna faticosamente prodotta in essa si richiude senza lasciar traccia, poiché ogni fatto e ogni sentimento è anche il contrario di se stesso, ogni analisi è fallace, e l'infinità delle cause abolisce il concetto stesso di causalità. Ciccio Ingravallo - questione di coscienza professionale - ha un bel provare a districarsi nel gnommero, ché a poco può giovare la sua superiorità culturale, la lettura di Kant, Montesquieu, Lawrence e Norman Douglas. Nella società in cui vive il pasticciaccio è un fatto costituzionale, e se per avventura Gadda gli tenesse in serbo una seconda parte in cui gli riuscirà di incolpare qualche bullo, la soddisfazione sarà magra, poiché questo anello nell'imperscrutabile catena delle cause non sarà mai un essere dotato di coscienza e volontà, ma solo una comparsa buttata li dal caso o dal destino, davanti a un coltello, a simulare una causalità e una razionalità che hanno abbandonato il mondo. Già questa constatazione iniziale pone due problemi. Primo:
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come mai Gadda, che voleva ridurre tutti gli italiani al rispetto dell'ordine e della legge, al dominio di se stessi, allo spirito romano o germanico, alle matematiche e al discorso indiretto; come mai questo stesso Gadda ora accetta supinamente e descrive come conchiuso e normale proprio quel mondo che aborriva? Qui il fascismo potrebbe forse avere effettivamente svolto una certa funzione. Deluso dalla falsa romanità, consapevole che le strade «di pretta costruzione italiana» conducevano soltanto alle ridotte del menefreghismo e della cupidigia fascista, Gadda potrebbe aver perso ogni speranza di convertire il popolo italiano. Il «famiglio dell'ideale», convinto che il porco nel brago e la cavallina stupidità sono fenomeni ineliminabili, avrebbe risalito senza speranza quelle valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Se cosi è, resta da vedere perché il Carolus Aemilius abbia opposto una resistenza cosi poco romana; perché siano bastati i làbari e le aquile fasciste per fargli perdere la fede nel genuino discorso indiretto. In realtà il fenomeno deve avere radici più profonde. Sappiamo che Gadda, dopo vari soggiorni in Italia e all'estero, si è fissato definitivamente (salvo una parentesi decennale a Firenze) a Roma, seguendo un itinerario familiare a parecchi intellettuali milanesi, che a Roma trovano ciò che manca loro nella città natale, e cioè anzitutto, per dirla con Gadda, «le ragioni oscure e vivide della vita»; la possibilità di vivere, almeno in superficie, al di fuori della stretta del capitalismo, là dove li si rispetta anche se hanno pochi quattrini, e dove perfino il demone del denaro assume aspetti amabilmente pittoreschi, lubrichi, stravaganti: via Veneto o Cinecittà. Accadde quel che doveva accadere: sbolli l'atro umore gaddiano, e il Nostro scopri che esisteva un modo di vivere nel capitalismo senza soffrire troppo di esso. Non più patemi per il dramma individuale nel capitalismo e per il tentativo di estrovertirlo redimendo gli italiani vili. Non più nazionalismo esasperato da una parte e orrore di sé dall'altra. Nel gnommero, nel pasticciaccio, nel sostrato oscuro e immemoriale della società italiana, Gadda ha trovato radici agnatizie con cui poteva conciliarsi meglio che non con la tribù sua milanese. Lasciamo perdere gli italiani, che sono soltanto postulati del nazionalismo nella teo-
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ria e porci nella pratica, e abbandoniamoci al filo della corrente, che ci porta su, su, agli etruschi, ai greci, ai latini... In questa matrice, che è insieme soggetto ed oggetto del pasticciaccio, si annullano e si confondono, e insieme si realizzano, quel caparbio e querulo personaggio, il Gaddus Gaddissimus, e quella realtà capitalistica che egli voleva demolire e pasticciare con l'arma della violenza verbale, e che qui è già dissolta nel caos primigenio pree paracapitalistico e parla di per sé con mille bocche e mille favelle e dialetti indecifrabili, che il Nostro non deve far altro che captare. Si dirà - e in ciò consiste il secondo problema - che la pura e semplice descrizione di tale realtà costituisce anzi una condanna implicita di essa. Gadda non avrebbe rinunciato a nulla, e scomparendo dietro la nuda presenza del pasticciaccio, lo additerebbe all'universale esecrazione. Non è da escludere che tali possano essere state le intenzioni soggettive dell'autore, ma l'essenziale è il risultato, e il risultato le smentisce. Se gli orizzonti di Gadda fossero stati veramente modificati dall'esperienza del fascismo e dell'antifascismo, se egli avesse profondamente vissuto i problemi nazionali, egli avrebbe trovato un angolo visuale sottratto al pasticciaccio da cui fosse possibile giudicarlo come un insieme di relazioni storicamente e socialmente determinate. Questo angolo visuale può essere naturalmente situato nelle classi lavoratrici. Dopo tutto a Roma non ci sono soltanto prostitute e agenti di P. S. Reduce dalla visita al sepolcro del Tasso, il Leopardi descrive la strada che vi mena, «tutta costeggiata di case destinate alla manifattura» e risonante «dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti». E continua: «In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa popolazione».
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Correva l'anno di grazia 1823, e da allora al tempo del fetente in fez aumentarono l'intrigo e l'impostura, ma altresì le manifatture. Del resto non è necessario che l'angolo visuale sia dato dalla coscienza dei lavoratori: può essere una coscienza qualsiasi, e anche quella di una prostituta (la Romana di Moravia insegni), quando essa abbia abbastanza vitalità, dirittura e linfa umana da affermare la presenza della ragione e della speranza, in mezzo e contro al mortale gnommero in cui si trova avviluppata, e che allora si chiarisce a se stesso e si risolve da sé in rapporti razionali. Ma a Gadda una via del genere era preclusa dalla sua sfiducia nel popolo italiano come soggetto storico di un processo fondamentalmente unitario. Egli oscilla invece tra Milano e Roma come poli del dilemma precostituito tra «legge» capitalistica e «legge» dell'amorfo pasticciaccio sociale; e se Roma gli riesce, ad onta di ogni premessa, più congeniale di Milano, è perché vi trova ciò di cui andava in cerca: la zona d'ombra al di qua del bene e del male, in cui il furore individuale si placa nella matrice cosmica del sesso e della morte. Perciò egli può per la prima volta oggettivare pienamente se stesso e scrivere un romanzo, o antiromanzo che sia. Cercando il Fine, Gadda ha insomma trovato l'Origine, e già qualche filosofo irrazionalista avrebbe potuto dirgli che il Fine e l'Origine sono la stessa cosa, lo stesso fondamento originario dell'essere da cui si emerge e a cui si ritorna. La legge dinamica che impera nel Pasticciaccio è il movimento all'indietro che riconduce la creatura all'Origine e che Gadda chiama «tensione del rientro» (104) o «rientro nell'indistinto» (125). «In quanto l'indistinto soltanto, l'Abisso o la Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi... » Questa «tendenza al caos» che è 1'«alterazione sentimentale» di Liliana, la vittima (125), è in lei l'effetto della sterilità e l'alternativa ad essa: un tentativo di tornare all'Origine diverso da quello normale nella personalità femminile, «tipicamente centrogravitata negli ovarii» e che consiste nelPassimilare l'elemento maschile, nell'« introitare», «elicitare», «cumulare» (124). Il rientro è dunque anzitutto rientro nella matrice femminile, e al di là di essa nel caos e nel
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nulla. Ma passando attraverso una zona intermedia dell'indistinto: la «catena delle cognazioni» (172), che spiega l'affetto di Liliana per il cugino Giuliano, «il campione della razza, de sta bella razza dei Valdarena» (139) ed esercita una forza irresistibile, una «tensione demoniaca» che manda all'aria i certificati dello stato civile e richiama «dal buio e dalla notte » il membro della gens, del clan, che per esogamia è divenuto un'«unità gamica estromessa» (104). Il Sesso, la Morte e la Tribù: ecco le divinità ctoniche e ancestrali che presiedono al pasticciaccio, le tre forme dell'Origine. Non ci si venga dunque a dire che nel romanzo il contenuto non c'è. C'è eccome, e massiccio: solo che non si può pretendere che il gnommero si dipani in quelle vicende e rapporti lineari che presuppongono l'egemonia degli dèi del logos, dello Stato e della vita individuale. I quali sono qui invece del tutto impotenti, e agiscono al massimo come garanzia che gli oggetti e le persone abbiano abbastanza consistenza, abbastanza nettezza di contorni, da offrire qualche resistenza alla legge del rientro nell'indistinto, senza di che non ci sarebbe più libro ma soltanto un muto spalancarsi dell'Abisso. La morte essendo «una decombinazione estrema dei possibili», «il risolversi di un'unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d'ogni rapporto con la realtà sistematrice» (77), la «tensione del rientro» sarà un continuo allentamento dei legami che costituiscono il principium individuationis. Cosi il moto che riconduce l'individuo al regno delle Madri si estenderà ad ogni e qualsiasi relazione: i fiumi torneranno alla fonte, le parole agli etimi. E questo il significato del passo (32) in cui nei «labbri stupendi» delle spose romane il nome veneto della Menegazzi «risaliva l'etimo, puntava contro corrente, cioè contro l'erosione operata dagli anni» come «certi pesci anadromi che sanno chilometrare all'insu, su, su, su, fino a ritrovare le linfe natali: fino alle montagne sorgive dello Yukon... », sicché ridiventava Menegaccio e poi Ménego, Domenico, Dominicus, il «possessivo di cui era tutto». Cosi la «catena delle cognazioni» che unisce Di Pietrantonio a Ingravallo (172), «ribadita nel tempo lungo la catena del monte,
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del duro monte Appennino, aveva risalito l'acerba costura dello stivale su, su, da Vinchiaturo a Ovindoli». Invece del moto anadromo, abbiamo talvolta il catadromo, e la «deduttiva sonorità» del notaio partenopeo induce l'orecchio ad «abbandonarsi a tanto felice argomentare come conquiso turacciolo dal dolce filo di correntia verso a valle, verso dove chiama il profondo» (122). Molto si risale, nel Pasticciaccio, e molto si discende, ma in realtà il moto è unico, poiché la sorgente coincide col profondo, il Fine con l'Origine. Anche l'Eraclito di via S. Simpliciano ha scoperto che «la via all'insu e la via all'ingiu sono una e la stessa». Il moto diventa caduta irrefrenabile, non più trattenuta dalla viscosità del gnommero, solo quando il destino individuale si stacca dalle Madri, interrompe la catena delle cognazioni e ripiega su un isolamento fatale. E il caso di Liliana, la donna che non riuscendo a esser madre in una società in cui non è possibile trovar compensi nel lavoro o nella cultura, cade in un «delirio di solitudine» che il dott. Fumi trova «raro int'a femmina... int'a femmena romana poi... » L'inerzia del clan non frena più chi si sottrae alla sua legge; la sposa romana viene a trovarsi in una situazione peggio che milanese, e per lei «precipitavano gli anni, l'uno dopo l'altro, dalla loro buia stalla, nel nulla». «Gli anni! come una rosa che sfiori: i petali, uno dopo l'altro... nel nulla» (1501 5 1 ) . Chi vive cosi è votato alla morte già prima che lo raggiunga il coltello assassino, e perciò la lettura del testamento dà l'impressione che Liliana «già presagisse l'imminenza della propria fine; se non anche, addirittura, che avesse premeditato il suicidio» (123).
Peraltro il mondo di Gadda è sorretto in questo libro, ripetiamo, dal sostrato ancestrale che è diventato la sua nuova «legge», al posto del ceto mercativo-politecnico milanese. Almeno nei primi quattro capitoli il discorso si sostiene per suo proprio peso. Il nichilismo di Gadda non ha qui bisogno di rallentarsi attraverso l'eccesso di digressioni finché il fattaccio resta all'interno del clan Balducci-Valdarena, e Ciccio Ingravallo, egli stesso membro elettivo del clan, è intento a studiarne l'intricata problematica. La Menegazzi, Liliana, il cugino, il marito: tutto ciò forma un com-
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plesso unico topograficamente situato in quello stabile di via Merulana, formicolante di «spose» e «creature»; un nodo di destini su cui il delitto già incombeva, poiché il destino ha «un'anima, anzi un'animaccia porca», per dirla con Ingravallo (27). Senonché anche nella composizione del Pasticciaccio l'Origine coincide con la Fine: nei primi capitoli sono state scoperte tutte le carte, e il Sesso, la Morte e la Tribù hanno fatto la loro imperiosa comparsa e hanno recitato la loro parte. E siccome sono personaggi non suscettibili di sviluppo, in realtà il «romanzo» potrebbe chiudersi qui, e i responsabili sarebbero già individuati. Passando ad altro ambiente, ai Due Santi, al casello ferroviario, al mercato di via Vittorio, alle puntate in motocicletta o in calesse, s'incontrano personaggi che al fattaccio non sono più collegati da un rapporto organico, ma ricevono la loro investitura, il diritto all'esistenza, dall'appartenenza a quella malavita che può essere la mano occasionale del destino, ma non lo rappresenta direttamente. Per quanto si trovino tra di essi interessanti reduplicazioni del Sesso puro, esente dalla problematica di Liliana, come la Ines Cionini e la Lavinia Mattonari; per quanto appaia la figura della strega ruffiana, Zamira Pacori; per quanto l'orrido vecchio che chiude il libro incarni la massima decomposizione nell'indistinto, che nemmeno «si capiva s'era un vivo o s'era un morto; s'era un omo o una donna» (341); tuttavia nel complesso il romanzo perde di sostanza e diventa sempre meno romanzo a mano a mano che diminuisce la densità del pasticciaccio, mentre negli interstizi proliferano lunghi excursus sul tipo del sogno del maresciallo motociclista o delle considerazioni sugli alluci nella pittura italiana. Il nuovo Gadda si dissolve nel vecchio, anche se il sostrato carnale e ancestrale in cui affondano le figure della seconda parte conferisce loro una concretezza e una trasparenza emotiva che mancano alla tribù milanese. Questi grumi in cui si intensificano il Sesso e l'Indistinto, più indifesi del clan di via Merulana di fronte al razionalismo di parata degli inquisitori, vi reagiscono con un'esaltazione della loro animale paura e della loro animale bellezza che produce ancora belle pagine come quelle in cui si descrive il turbamento della Cionini (206-7). Gli italiani porci, ridotti
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come sono, dopoché Gadda si è levato dalla testa l'idea di sottoporli alla disciplina gesuitica, a una vita puramente istintiva e corporea, abbandonata dalle vie della storia in una dolce e remota passività, hanno diritto a quella compiaciuta tenerezza che spetta ai cari relitti dell'epoca feudale e su, su, su, della preistoria, del clan, della prostituzione sacra. Ma la loro anima esaurendosi nel potenziamento della vita del corpo, nell'intelligenza della carne, nel vibrare degli impulsi che si dipartono su, su, dal sesso - «una repentina commozione che le fosse ascesa dall'utero per i linfatici e le vie vagali fin dentro il pieno delle poppe » (255) - , essa resta tutta presa nel labirinto e gnommero della carnalità, né può costituire la base di vere relazioni umane e quindi di un romanzo. Perciò dalle prestigiose notazioni, tra il sensuale trepido e commosso e il sensuale orrido, si passa ben presto al funambolesco recitativo dell'anima collettiva del pasticciaccio e alla prevaricazione dei particolari, per cui gli alluci appaiono in un mostruoso primo piano, veri simboli della deformazione universale dei rapporti. Questo appiattimento dell'essenza dell'uomo alla fisicità da una parte, alle relazioni puramente naturali e ancestrali dall'altra, escludendo la coscienza, avviene però in un ambiente saturo di antica civiltà e cultura che, diventate una seconda natura, pervadono anche la vita irriflessa pur lasciandola irriflessa. Se nel mondo del Pasticciaccio non c'è nessun Creonte che osi distruggere la legge del clan per imporre gli dèi della città e della ragione, che appaiono solo sotto la forma caricaturale di Mussolini, nera negazione della legge che vorrebbe rappresentare la legge stessa; se Ingravallo non è affatto quel Creonte; tuttavia questa vacanza di nessi razionali, sociali, statuali, è il prodotto della decomposizione di un'infinità di nessi precedenti, e la gradevole barbarie del clan si erge sulle rovine della storia. Anche i personaggi più illetterati del Pasticciaccio hanno una loro cultura sui generis. Cosi la Zamira, per dimostrare che al giorno d'oggi non c'è nessuno che non abbia «du sorelle da marità» dice che «ce l'aveva perfino quel gran poeta patriottico, che cià fatto tanto piagne... » ed esita sul nome di Giovanni Prati prima di ricordarsi quello giusto di Giovanni Pascoli (251). Si cita per esemplificare una situazione
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tipica del clan cattolico (le sorelle da maritare, che sono del resto un Leitmotiv del romanzo), ma intanto si cita. Tuttavia il dotto analfabetismo, la eulta incoltura, la civile barbarie di questo mondo non appaiono in prima linea in simili interventi diretti dei personaggi, bensì, naturalmente, nel linguaggio stesso di Gadda nella sua enorme estensione sincronica e diacronica. Escluderemmo infatti che questo linguaggio sia qui da considerarsi soltanto sotto l'aspetto della ricerca stilistica. Non c'è dubbio che esso si presti a diventare fine a se stesso, a proliferare al di fuori di qualsiasi riferimento al contenuto. Ciò avviene spesso anche nel Pasticciaccio. In esso è però spesso dato cogliere (anche qui specie nei primi capitoli) una necessità superiore che unifica e guida la dissipazione verbale. Il linguaggio di Gadda ha raggiunto la massima anarchia, ma ha anche trovato il soggetto glossolalico che la giustifica, e cioè la «collettività fabulante», i cui termini si «annidano nei timpani» dello stesso Ingravallo (34). Quando tale collettività fabulante produce, obbedendo alla tendenza all'ipercorrezione («la Menegazzi o per più pulito dire la Menecacci», 53), il fenomeno di anafonesi per cui il nome veneto risale all'origine, a Dominicus, il «possessivo di cui era tutto», si rivela la sua capacità inconscia di svuotare la parola del suo valore puramente strumentale e designativo per ricondurla alla pregnanza primigenia. Le spose romane sono altrettante Gadda sans le savoir. La dissoluzione del linguaggio istituzionale non deriva dunque soltanto da intenti di ricerca di espressività affettiva da parte del soggetto, quali erano quelli individuati dal Devoto nel Castello di Udine, ma è l'equivalente formale del rientro nell'indistinto, del ritorno alle Madri. Di qui l'inaudita estensione della gamma linguistica. Neil 'Adalgisa Gadda poteva ancora scrivere: «L'orditura sintattica, le clausole prosodiche, l'impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell'aura di via Pasquirolo o del Pontaccio... » (SF 381). Già allora egli non si atteneva affatto strettamente a tali intenti mimetici e inseriva riboboli trecenteschi o articoli inglesi che non si sa quale affettività, di soggetto o di ambiente, potessero esprimere. Tuttavia si era ancora ben lontani dal Pasticciac-
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ciò e dalla sua anima collettiva, dal suo magma germinale che può parlare insieme tutte le lingue, tutti i dialetti e tutti gli stadi delle une e degli altri; per cui sarebbe vano distinguere nel discorso indiretto libero il clima o l'aura di un determinato personaggio (ancora riconoscibili, almeno, nel discorso diretto), e nessuno, se non appunto la collettività fabulante, interviene ad aggiungere la punta dialettale dopo l'allusione dotta - per prendere il primo esempio che capita - in una serie di parole come «uno scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso» (254). Nessuno, dalla «tepida contiguità della coscia della ragazza », è indotto a formulare con «hélas!, keine Rosen ohne Dornen» il rimpianto che «il brivido fosse condiviso col conducente dall'altro lato» (267). Nessuno inserisce una parentesi del genere: «l'odor buono dell'incenso, erogabile (con cuidado) per parsimonioso dondolio del turibolo » (341), a meno che non si tratti del Gadda medesimo, e del suo inconscio desiderio di rivedere le bucce a Don Lisander, cui gli ispanisti rimproverano di aver scritto « Adelante, Pedro, con juicio», anziché appunto «con cuidado». Un secolo di filologia non è passato invano. E in verità, a Gadda non mancherebbero buone ragioni di avercela col suo grande conterraneo, che osa parodiare all'inizio del capitolo ottavo (« Il sole non aveva ancora la minima intenzione di apparire all'orizzonte», 229); l'affossatore della lingua italiana col grande assertore dell'unità linguistica nazionale. Lasciamo ad altri il compito di istituire un confronto tra il pasticcio linguistico gaddiano e analoghi tentativi contemporanei europei, soprattutto il Joyce di Finnegan's Wake. Confronto che sarà certo interessante, dato il grande significato di tali tentativi, cui non rimase estraneo nemmeno il tardo Thomas Mann (nc\Y Eletto), e che può gettare una luce interessante sui rapporti tra decadenza italiana ed europea, sotto il minimo comune denominatore del «rientro nell'indistinto». A noi il Pasticciaccio interessa piuttosto come estrema negazione del carattere istituzionale della lingua e dei dialetti italiani. Insistiamo: della lingua e dei dialetti, poiché nella particolare situazione italiana il ricorso al dialetto può essere indizio (che lo si deprechi o meno) proprio della ricerca di una ba-
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se linguistica istituzionalmente più sicura, di una maggiore adesione a una comunità concreta di parlanti: ragion per cui il dialetto non esclude, nel teatro e nella lirica, orizzonti realmente nazionali e non soltanto provinciali (un romanzo in dialetto è invece un assurdo, il romanzo essendo una forma strettamente collegata alla nascita della società borghese e alla distruzione del particolarismo feudale). Anche nel dialetto c'è ordine e ragione, e gli dèi della città. Ma Gadda si è proposto di pasticciare tutte le grammatiche storiche e gli atlanti linguistici italiani compilati da quei candidi glottologi tedeschi o svizzeri che vogliono spesso mettere ordine ad ogni costo là dove noi non vorremmo spesso vedere altro che l'anarchia crociana dei parlanti-monadi (soltanto postulata, poiché Croce era troppo buon egemone per non intendere la necessità di istituzioni, come mostra anche la sua comprensione per le dottrine linguistiche manzoniane), oppure la babele ancestrale del Nostro. Si pone allora il problema di chi debba leggere il Pasticciaccio. Gli italiani no, perché non esistono. I romani, gli abruzzesi, i latini, greci ecc.? Si, purché riuscissero a vivere tutti nello stesso tempo e nello stesso luogo; se godessero cioè di quelle facoltà di cui godono i filologi, i quali infatti sono coloro che più cedono all'incanto del Nostro. Dobbiamo dunque concludere che il Pasticciaccio è, come Finnegan's Wake, un libro scritto per nessuno, un dialogo tra lo scrittore e Dio, o tra lo scrittore e l'Indistinto? Andiamo cauti: le numerose edizioni del libro stanno a testimoniare che esso si legge, o perlomeno si compra e si sfoglia, laonde non ha del tutto torto chi, di fronte alle riserve di alcuni critici, si appella al favore del pubblico «che è sempre il miglior giudice». Se Gadda ha ottenuto quel successo editoriale che gli era prima negato, ciò accade per la solita ragione che questa volta non parla in prima persona, ma in nome di una collettività fabulante che ha potuto ritrovarsi nel romanzo. Poiché gli italiani esistono, si, ma esistono purtroppo anche molti miscugli eterogenei di elementi etruschi ecc., abruzzesi ecc., francesi ecc., che di italiano non hanno che il passaporto, e che quindi costituiscono degli ideali lettori potenziali. Anche se potranno intendere solo una parte del
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libro, ne intenderanno e approveranno il messaggio. Non l'Italiano, ma l'Arabo, il Parto, il Siro, in suo sermon l'udì. E perfino il Marxista, ove abbia relegato Gramsci in soffitta. Ché se pochi proveranno il brivido di ebbrezza individualistica che dà il riconoscere nel «possessivo di cui era tutto» (52) il canto X I I del Paradiso, nel «grascio era» (82) la Vita di Cola, nel «furugozzo» (155) la Preghiera del Porta ecc. ecc. (brivido non disturbato dalle note care a Feo Averrois, che ti dava la pagina e l'edizione), molti proveranno il brivido più generico, ma forse più fascinoso, di librarsi nella cultura senza rinunciare all'ignoranza e all'incoscienza, di essere contemporaneamente la Ines Cionini e il Carolus Aemilius. Come la «bella porca de li Castelli», saranno portati a balia «a la macchia de Galloro, a magnà la ghiandola dell'imperatore Caligula! la ghiandola del principe Colonna!... ch'ha vinto tutti li peggio turchi pe mare e pe terra a la gran battaja de Levati da li piedi» (317). E chi non vorrebbe imitare questa porca storicizzata e culturale che il Lanciani Ascanio offre al mercato di piazza Vittorio? Gli italiani «cani porci» hanno trovato un cibo adatto per loro. Sarebbe anzi bene che lo Stato italiano, spesso ben disposto ad appoggiare le iniziative intese a sabotare la nazione italiana, portasse a balia alla macchia di Galloro tutti gli scolari della Repubblica, imponendo obbligatoriamente il Pasticciaccio al posto dei libri di testo in uso nelle nostre scuole. Si realizzerebbe cosi la scuola opzionale, poiché in questa nuova Enciclopedia Italiana sono amenamente mescolate tutte le discipline: la matematica, la fisica, la storia, le lingue classiche e moderne, e chi più ne ha, più ne metta. Il discente non avrebbe da ricavarle da aride esposizioni sistematiche, bensì, in omaggio ai dettami della moderna pedagogia, da qualche problema particolare che può scegliersi ad libitum nel maremagno del sapere: la chimica e la mineralogia dai «pleòcromi cristalli» del «sesquiossido A1 2 0,» (286), la teologia del concilio di Magonza (126) e la storia dell'arte dalla rappresentazione degli alluci. Il tutto gradevolmente somministrato per mezzo di dolci forme femminili, fattacci di cronaca, galline cacanti, porchette alla romana: una perfetta fusione tra la cultura e
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la vita ottenuta passando a ogni istante dalla vita più ottusa alla cultura più astratta e viceversa. E soprattutto i ragazzi delle scuole si potrebbero convincere di ciò di cui sono già per metà convinti: che la lingua italiana non esiste, che ci sono soltanto il latino e il gaddesco per le classi colte e il dialetto per il popolo. Sarebbe la vittoria definitiva nella gran battaja de Lévati da li piedi, lingua italiana. Tale è il Pasticciaccio-, veramente il capolavoro del secolo o del millennio se fosse possibile scrivere un capolavoro negando la nazione che l'ha prodotto. Né ci si venga a citare il Folengo, il quale scriveva nell'intento di satireggiare il mondo feudale in decomposizione e di dissolvere dall'interno la sua forma linguistica, il latino. Né si dica che all'artista tutto è lecito: consentiamo che Gadda è un artista notevole e talora grande, ma non consentiamo che ci si ritiri nel regno delle forme, come sogliono fare molti lettori e critici del Pasticciaccio, per ignorare quegli elementi sostanziali cui il romanzo deve la sua importanza e il suo successo. Chi scrive ha in comune con Gadda l'aver frequentato il liceo «Parini». Ora in quelle aule austere di via Fatebenefratelli è subentrata la Questura di Milano, e, là dove regnavano Giulio Cesare e il suo discorso indiretto, medita, in un pasticciaccio di dialetti meridionali, qualche Ciccio Ingravallo. Nel frattempo Gadda migrava a Roma, e anche se non è uno di quei «farabuttelli di provincia» che la strega ruffiana Zamira «dekirkegaardizzava» (181), era abbastanza carico di complessi, il burino milanese, da farsi dekirkegaardizzare da quella maggior strega e ruffiana che è «la città, detta l'Urbe». Lasciò i positivisti, e in compagnia di Freud e di Bachofen si calò nell'abisso dell'Indistinto, ch'ivi ha stanza. E il discorso indiretto? Ahimè, restò in via Fatebenefratelli, sepolto sotto un mucchio di scartoffie di Ciccio Ingravallo. Ma non inteneriamoci sui ricordi d'infanzia. Il mondo e l'Italia vanno avanti, sia pure tra paurose contraddizioni. Gli Ingravallo di Milano non stanno con le mani in mano, e se hanno spesso fatto bastonare gli operai, arrestano però i banditi di via Osoppo e sorvegliano l'attuazione della legge Merlin. E c'è un nuovo liceo «Parini» nel cui atrio è inciso il monito al «buon cittadino» che deve
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guidar l'ingegno «al segno», «cosi che lui la patria estimi». Prepara dei buoni cittadini? Probabilmente no, perché per esser tali non basta il discorso indiretto, il quale aveva le sue responsabilità, e sta morendo di giusta morte. E difatti non salvò Gadda dal nazionalismo astratto prima, dall'indistinto romano poi. Non al «segno» egli giunse, ma al «fine», e scopri che le serrande chiudono, le maniglie servono a chiudere, e l'Italia è un paese in cui, tra il capitalismo e l'indistinto, questo è ancora, per chi ha bisogno di dekirkegaardizzarsi, il minore dei mali. Non imputiamoglielo a sua colpa, poiché il «buon cittadino» può proporsi soltanto il «segno - dove natura e i primi - casi ordinar». E abbiamo visto quanto dolorosa fosse la natura di Gadda, quanto infelici i primi casi. Avvaliamoci invece della testimonianza indiretta di quest'uomo di grande ingegno per riaffermare un'altra volta l'urgenza del problema, del porro unum et necessarium, del nodo storico di cui il neo-capitalismo da una parte e la « crisi del socialismo» dall'altra possono cambiare le condizioni, ma non l'essenza: non si può dare un'anima a Milano senza dar lavoro a Roma e a Napoli; non si può trasformare l'indistinto feudale senza distruggere il capitalismo; non si può fare che l'Italia sia degli italiani senza dar loro, anziché l'alternativa di classe tra l'analfabetismo e il discorso indiretto latino, la lingua e la cultura d'Italia. (1958).
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Il dibattito tra Muscetta e «Il Contemporaneo» intorno a Metello investe problemi cosi importanti che non può meravigliare che esso attiri l'attenzione anche di chi di moderna letteratura italiana abitualmente non si occupa. L'incompetenza può costituire certamente un grave handicap, tanto più che la questione non offre il destro ai mezzi termini e richiede formulazioni nette e crude, quali si troveranno anche in quanto segue, in palese contrasto con la pregiudiziale appena accennata. Tuttavia il punto di vista di un lettore non prevenuto in questo campo, e che è più esperto della problematica della letteratura tedesca o francese che non di quella italiana, può avere un certo valore di stimolo appunto perché viene dall'esterno, e perciò mi decido a esporlo. Tra i libri di Pratolini quello che mi è piaciuto di più, e di gran lunga, è Un eroe del nostro tempo, che mi sembra venga invece generalmente trascurato. Cercherò di spiegare le ragioni di questa preferenza, indispensabili per arrivare a Metello, e qui il discorso si farà assai lungo. Nel saggio di Muscetta su Metello si rivendica, citando Lukács, il diritto di «distribuir botte alla decadenza» e «Il Contemporaneo» risponde affermando che anzi in Metello c'è il superamento del decadentismo. Penso che sarebbe prima necessario precisare in che senso si può parlare, in Italia, di decadentismo, col che si dissiperebbero forse alcuni equivoci. Il decadentismo italiano si presenta in forme insieme analoghe e diverse da quello degli altri paesi. Non si possono naturalmente definire in due battute tali analogie e differenze, tanto più che la molteplicità di forme della vita e della società italiana le complica ulteriormente. Tuttavia è possibile fissare schematicamente e liberamen-
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te alcuni punti, limitandoci alle forme più vistose della decadenza italiana: quelle, tanto per intenderci, che hanno il loro equivalente politico nel fascismo, e non quelle più segrete e intimistiche. Mi sembra che il punto essenziale da cui bisogna partire è che in Italia, dato che l'insufficienza del momento egemonico ha impedito alle classi dirigenti di imprimere un carattere uniforme e omogeneo alla società, l'azione di questa sull'individuo non si esercita con la stessa intensità con cui si esercita altrove, e la «pianta uomo» dà l'impressione di crescere qui allo stato brado, allo stato di natura. Donde l'individualismo, l'incapacità di conversare, l'ideale dell'arrangiarsi, l'incredulità nell'influsso (positivo e negativo) della società sull'individuo ed altri noti aspetti del carattere nazionale italiano già acutamente analizzati dal Leopardi. Ora l'impressione che l'italiano sia un prodotto naturale è evidentemente falsa, in quanto la diseducazione è pur sempre un tipo di educazione, l'assenza di società è un tipo di società, e là dove non viene imposta una certa forma di cultura vi suppliscono forme più arretrate, sicché se qualcuno non crede - e ha buone ragioni di non credere - ai benefici della società, spera in Sant'Antonio. Ma è certo che il carattere naturale della «pianta» italiana diventa, da relativo che è, assoluto, quando lo si confronti con una società borghese organicamente sviluppata. In questo inevitabile confronto c'è rischio che il mito dell'italiano diventi, sia per gli italiani che per gli stranieri, una nuova edizione del mito del buon selvaggio: natura contro convenzione, individuo contro tirannia sociale, ecc. Anche il mito del buon selvaggio italiano fu in origine un mito progressivo: gli entusiasmi italiani di Arrigo Beyle, per es., si spiegano con l'avversione per la società borghese costituita, che aveva soffocato in Francia le grandi passioni ancora possibili in Italia (un'analoga funzione ha la Corsica in Mérimée). E certo questo mito è fondato su qualche cosa di reale: l'aspetto positivo della «natura» italiana, quelle doti di spontaneità, di generosità, di sincerità che hanno sempre attirato gli stranieri costretti a refouler tante cose a casa loro. L'italiano diventa quasi il
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simbolo della nostalgia dell'uomo integro, non asservito alla divisione capitalistica del lavoro, non mortificato dall'inumanità del meccanismo sociale borghese. La diseducazione appare invidiabile di fronte alla cattiva educazione. La spontaneità italiana non tarda però a diventare un mito decadente proprio nei suoi lati negativi. Burckhardt comincia a tracciare il quadro dell'uomo del Rinascimento immorale e sfrenato che diventerà l'ideale degli imperialisti. E la rivolta degli istinti farà approdare in Italia le donne di Lawrence, affinché crogiolandosi al sole dimentichino le brume inglesi e i tabú annessi e connessi, nel che saranno generosamente aiutate da qualche bruno e tarchiato pastore del luogo («quegli uomini terribilmente vivi, col loro nero sguardo d'animale» diceva con disprezzo Tonio Kroger, che soffriva dell'opposta forma di decadenza). Insomma, l'Italia diventa la colonia degli sperimentatori del culto della vita, delle donne nordiche vogliose di intervistare la virilità di Mussolini o del bandito Giuliano e degli uomini assillati da complessi e problemi di vario ordine e misura che scompaiono per incanto in questa terra priva di problemi. Dopo l'ultima guerra e le conversioni in massa che ha determinato prende più che mai piede un altro grande motivo di invidia: il cattolicesimo. Nel libro sull'Italia di Graham Greene si può trovare un bell'esempio della contrapposizione tra i cupi protestanti, che si suicidano in mezzo a gran dovizia di frigoriferi e Rolls Royce, e gli allegri cattolici meridionali, che non si suicidano mai, e nemmeno muoiono di morte naturale (ciò che sarebbe indubbiamente assai «borghese» e di poco meno grave del suicidio), bensì delle morti più variopinte e suggestive, come sarebbero la morte per fame, per delitto passionale o sotto la motocicletta di qualche discendente degli sfrenati uomini del Rinascimento che non trova altro modo di imporre la propria volontà di potenza. Tutte morti che gl'italiani, grazie alle loro tradizioni cattoliche, sopportano benissimo rendendone grazie a Dio. Tanto avevano pienamente goduto della Vita (cioè del sole e dell'attività riproduttiva) che, se muoiono, non è già per disgusto di essa, sibbene in omaggio all'esuberanza vitale di qualcun altro. Proprio
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come gli animali, che sono infatti l'ultimo inconfessato termine di certe nostalgie. E inutile dire che questo paradiso dei decadenti non è altro che il negativo della loro propria forma di decadenza, e di ciò almeno si accorgeva Tonio Kroger. La questione è di vedere fino a che punto la decadenza italiana si presti effettivamente a diventare il decadente paradiso dei decadenti stranieri, e come il confronto tra i due tipi di decadenza si rifletta sulla coscienza che gli italiani assumono del proprio. L'impostazione dei problemi della decadenza in paesi a società capitalistica pienamente sviluppata è naturalmente diversa dalla nostra. Basti prendere due esponenti tipici come Gide e Thomas Mann: il primo parte dall'esistenza di un mondo di pesanti contraintes sociali contro cui ci si ribella e che non ha un equivalente in Italia. Quanto a Mann, la sua problematica del divorzio tra Vita e Spirito, tra «borghese» e «artista», è pressoché incomprensibile da noi. Ciò significa che in Italia non si può avere una vera e propria «rivolta degli istinti» perché è mancata la base di un'uniforme costrizione sociale esercitata dalla borghesia che spinga la decadenza sul doppio binario dell'esangue Spirito e dell'ottusa e animalesca Vita, nonché alla nostalgia del primo per la seconda. Tuttavia anche l'Italia è un paese capitalistico: solo che in esso la borghesia si trova al livello della decadenza (imperialistica) prima di trovarsi a quello della piena maturità, come Marx già ai suoi tempi prevedeva per la borghesia tedesca (la differenza tra l'evoluzione dei due paesi, per accennarla in due parole, sta nel fatto che il compromesso tra la borghesia e le vecchie forze costituisce in Germania una sintesi egemonica reazionaria, quella del prussianesimo bismarckiano, mentre in Italia resta una coesistenza sulla base del moderatismo). Anche l'Italia ha dunque la' sua brava decadenza. Se non c'è la rivolta degli istinti c'è l'utilizzazione delle riserve di istinti che la borghesia risorgimentale aveva appena riverniciato. La diseducazione si erge orgogliosa e scopre il proprio primato, ribadito dalla rivolta dei popoli educati. E siccome è una nobile, antichissima diseducazione, essa può permettersi il raro lusso di ammantarsi di belle forme o di bella retorica, ciò che co-
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stituisce un motivo di fascino in più nell'incontro tra decadenza italiana e straniera, che non manca di aver luogo. D'Annunzio si ritrova in Wagner e Suarès scopre in lui il novello condottiero. Mussolini legge Zarathustra. I «neri sguardi d'animale» dei figli di papà in doppiopetto blu si incontrano sull'asse Roma-Berlino con gli occhi d'acciaio delle «bionde bestie»: i figli, in calzoncini di cuoio, dei borghesi tedeschi incollettati. Finita la fase convulsa dell'imperialismo e iniziata quella mistico-paternalistica, c'è sempre modo di intendersi. Se non funziona più la coincidenza tra ritorno agli istinti e al sesso e primato naturale degli istinti e del sesso funzionerà l'incontro tra il senso di insicurezza e di disperazione delle masse atomizzate nei paesi capitalistici e la veneranda custode delle migliori qualità d'oppio. La possibilità di elevare la decadenza italiana a decadenza europea è dunque data a tutti i livelli e a tutti gli stadi, tenendo però sempre presente la differenza specifica, e cioè il fatto che la decadenza italiana è insieme preborghese e tardo-borghese, e non costituisce una reazione ma un ritrovamento. In questo senso è anch'essa «naturale» e sembra fuori dal tempo: l'arciitaliano di Curzio Malaparte si identifica con l'uomo deteriore del Rinascimento, l'«uomo di Guicciardini», con maggior diritto che non la «bestia bionda» coi Vichinghi o coi Germani di Tacito. Cosi il decadente italiano applica alla moderna lotta per la vita la millenaria classificazione della «pianta uomo» in «dritti» e in «fessi», e quando va all'estero constata con soddisfazione (e può chiamarsi anche Mario Tobino) che di dritti come noi non ce n'è, salvo sentire i complessi d'inferiorità degli scrittori del «Borghese» per l'organizzazione nordica, subito del resto raddrizzati dalla dolce memoria della pastasciutta e del gallismo. La reazione puritana rimane spesso imprigionata nello stesso schema metafisico e atemporale: in odio ai «dritti» e a riabilitazione dei «fessi» si contrappongono i violenti, vili, cattivi e i miti, buoni e coraggiosi, i «luigini» e i «cafoni», gli «italieschi» e gli «italiani», per adottare la terminologia di un libro spiritoso, ingiustamente dimenticato, di Giorgio Fenoaltea. Il superamento della decadenza non può dunque consistere in
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altro se non nella liquidazione totale di questo mito antistorico del selvaggio italiano e delle antinomie relative, e nella dimostrazione che la pretesa «natura» è soltanto diseducazione. La dimostrazione è già data, naturalmente, dai fatti: dalla Resistenza, che ha sottratto larghi strati del popolo italiano alla passività e li ha acquisiti alla consapevolezza storica, e dall'affermarsi dei partiti marxisti. Alla letteratura si pone il compito di rappresentare concretamente questo processo nell'evoluzione dei personaggi, nella formazione o nella distruzione della loro personalità a contatto con l'ambiente storico-sociale. Personalità, quindi, e non «nature». Ma sempre tenendo conto delle particolari condizioni italiane. Già restando all'interno della decadenza era riuscito a Moravia, negli Indifferenti, di rappresentare il disfacimento morale come prodotto di una situazione di fermo, di un ingorgo storico, e con ciò egli aveva genialmente anticipato molto «essere-nelmondo» del posteriore esistenzialismo. Qui appunto la decadenza italiana, scrutando se stessa, si elevava al livello europeo. Mentre il limite fondamentale di uno scrittore cosi dotato come Brancati sta nel fatto che egli tende a esemplificare la sua interessante problematica, che investe profondamente proprio la diseducazione italiana, su casi dati per natura, e quindi ne vanifica la necessità, riducendola alla casuale fisiologia del Bell'Antonio o di Paolo il Caldo. Questi limiti sono anche limiti artistici: Brancati non riesce a concludere un romanzo perché la natura non conclude mai, se non con la morte, e gli impotenti restano impotenti, e i caldi, caldi. Ma in scrittori come Pratolini (e sarebbe ora di tornare a lui!) che vogliono rappresentare proprio il superamento della decadenza, in base alle esperienze della Resistenza e delle lotte della classe operaia, la questione della diseducazione italiana si complica ulteriormente. Poiché si tratta di utilizzarne sia i dati negativi che quelli positivi, mostrando da un lato come l'istintività, il gallismo ecc. conducano alla brutalità e alla violenza di classe, e dall'altro come la spontaneità e l'immediatezza di buon conio (le virtù di umanità, generosità, intuizione ecc. non obliterate dal rullo compressore del meccanismo capitalistico) costituiscano un'ottima
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materia prima per la trasformazione della pianta uomo in corrispondenza al rinnovamento di tutte le strutture della società italiana. Quell'ottima materia prima che piaceva a Stendhal, che piace ancora a Gor'kij e con cui è fatto il Mario di Thomas Mann (poiché non tutti gli stranieri vengono in Italia soltanto per trovare il contraltare della loro decadenza). Senza dimenticare però che si tratta soltanto di materia prima, che la spontaneità e l'immediatezza non bastano mai e non devono mai essere erette a mito del buon selvaggio italiano, soprattutto in Italia (agli stranieri questo si potrà anche perdonare). Ora il difetto costitutivo delle Cronache di poveri amanti consiste a mio parere nel fatto che l'avvento del fascismo vi funziona un po' da cartina al tornasole che misura la buona o cattiva spontaneità dei personaggi e rivela in essi gli «italiani» e «italieschi» che coesistevano sonnecchiando e lavorando e fornicando tra i vecchi umidi muri di Via del Corno fin dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini. Che queste reazioni individuali al fascismo siano veracemente ed efficacemente caratterizzate è indubbio, e ciò fa delle Cronache un libro pur sempre notevole: tuttavia ciò non cancella l'impressione di un episodio storico che investe Via del Corno senza poterne scuotere la sostanziale atemporalità. Tale impressione è confortata dalla ripresa della tecnica corale, a scene girevoli, del Quartiere, con la stessa ariosità ma anche con la stessa apertura che tende a dissolvere la forma del romanzo e che corrisponde all'atmosfera senza tempo tinta del « "popolo minuto" sempre, fatto ignaro ormai, ciompi da se stessi traditi», come si dice appunto nel Quartiere. Ben diversa è l'impostazione di Un eroe del nostro tempo. Qui il problema della diseducazione italiana è affrontato di petto sulla scorta di pochi personaggi che lo portano alle estreme conseguenze. La questione è di vedere se sarà possibile l'educazione di Sandrino, questo rappresentante della generazione perduta che le tradizioni paterne e l'abbandono agli istinti di violenza sospingono sulla strada del delitto. Accanto a lui, e ancor più di lui indifesa di fronte alla propria animalità in seguito alla scarsezza di esperienze e alla povertà della sua vita intima (il marito, «in dieci anni di matrimonio non si era mai permessa di interrogarlo») è l'aman-
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te, la vedova Virginia. Dall'altra parte stanno gli educatori: gli operai comunisti Bruna e Faliero e Elena, la ragazza figlia di uno scrittore antifascista che sembra possa convertire Sandrino in extremis. Di fronte agli «incoscienti», Sandrino e Virginia, essi rappresentano il mondo della consapevolezza. «Non mi succede mai nulla di cui non abbia coscienza» afferma Bruna raccontando l'episodio cruciale in cui sta per cedere di fronte alla brutalità di Sandrino. Ed Elena dice a costui: Tu ripeti spesso «parliamoci chiaro»... Ebbene, è proprio allora che dici le cose più confuse... Poiché è cosi: sembra le parole ti escano di bocca senza che tu le accompagni col pensiero. Papà diceva che questo è tipico degli irresponsabili... L'ha scritto in un suo libro a proposito di una donna dominata dagli istinti. Tutto quello che le sue emozioni la portavano a fare, le sue parole erano li pronte a giustificarlo.
Sembra quasi l'autocritica di quella malsana psicologia a base di astratti amori e di astratti furori che grava su tanta letteratura italiana e si risente ancora nel Quartiere. E bisognerebbe citare tutte queste bellissime pagine (il racconto di Bruna a Virginia, il dialogo tra Elena e Sandrino) per mostrare fino a che punto Pratolini abbia qui colto i rapporti essenziali. Certo non sempre egli ha interamente sfruttato le possibilità di tale esatta e profonda impostazione: per es. ha sottolineato un po' troppo l'atavismo dell'attitudine alla «bestialità» e alla «coscienza» (Virginia è vedova di un repubblichino, Sandrino figlio di un volontario d'Etiopia, mentre Bruna è figlia di operai comunisti ecc.), e qui rispunta l'elemento naturale che festeggerà i suoi tripudi in Metello e si profila la solita distinzione tra italiani naturaliter buoni e fasulli. Tuttavia nelle vicende stesse del libro non si crede più alla spontaneità accennata nell'antefatto, e non succede veramente «nulla di cui non si abbia coscienza». Se c'è una certa tendenza ad anticipare il quod erat demonstrandum, c'è però la giusta tesi, e c'è la dimostrazione. Questo libro è quindi il più conchiuso e il meglio costruito che Pratolini abbia scritto, non senza un indubbio schematismo che talvolta rasenta il romanzo d'appendice; ciò che non spaventa molto i lukàcsiani (i quali nutrono più o meno inconfessate tenerezze per tale genere di let-
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teratura) mentre spiega l'avversione degli ammiratori dell'ampia coralità dei primi romanzi o della poetica pratoliniana della memoria. Ed è vero che parecchie doti dell'altro Pratolini (per es. le capacità descrittive) non emergono in questo che è il meno pratoliniano dei suoi libri. Direi però che è proprio tale rinuncia, tale recisa autolimitazione, a testimoniare in favore dell'onestà dello scrittore. Egli avrebbe potuto aggiungere senza fatica belle pagine liriche, e non l'ha fatto, perché ha fatto qualche cosa di più: un tentativo, in gran parte riuscito, di creare personaggi negativi e positivi a partire dagli aspetti negativi e positivi della spontaneità italiana, e non in modo meccanico, ma attraverso uno sviluppo, un'evoluzione (con le sue contraddizioni, ricadute ecc.) che accosta Un eroe del nostro tempo all' Entwicklungsroman, al romanzo dell'educazione (e della diseducazione). E a proposito di questo libro è ben lecito parlare di un «superamento della decadenza» in misura assai superiore di quanto non lo si possa fare per altri libri usciti dall'esperienza dell'antifascismo. Anche Metello dovrebbe essere, e ben più esplicitamente e volutamente, un romanzo dell'educazione. Tuttavia non lo è affatto, e questa stridente contraddizione tra intenti e risultati balza fuori a prima vista, direi, da ogni pagina, poiché sempre si insiste sull'apporto che le singole esperienze dànno alla formazione di Metello, e sempre questo apporto resta sulla carta. Lo sviluppo, se c'è, è quello naturale della «pianta uomo», nei suoi «valori indistruttibili» di cui si parla nel risvolto di copertina; valori che hanno un'irresistibile fisicità anche quando con la fisiologia non hanno nulla a che vedere. Su questo punto, e su Metello naturaliter socialista, hanno già insistito Fortini e Muscetta, ed è inutile ripetere: basta sottoscrivere. Non sono in grado di giudicare se Muscetta abbia o meno ragione nel mettere in dubbio l'esattezza degli orizzonti storici di Pratolini in questo romanzo. E probabile però, a priori, che abbia ragione, per il semplice fatto che questi orizzonti non riescono mai ad essere qualche cosa di più di uno sfondo, di uno scenario. L'evoluzione di Metello dovrebbe risultare dalla dialettica tra il suo destino individuale e la società, la lotta di classe. Ora è pro-
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prio questo che manca nel modo più totale. «Il Contemporaneo» afferma che in Metello «la vita privata è strettamente intrecciata con la pubblica». Ma quale vita pubblica? Quella del socialismo? Proprio il massimo sforzo di creare questa sintesi, e cioè la coincidenza tra l'adulterio e il culmine dello sciopero, ne rivela chiaramente l'inanità. Metello «sconta» l'adulterio con la mancata partecipazione alla riunione decisiva. Sesso e socialismo, per adoperare la lapidaria definizione di Muscetta, si scontrano, e il socialismo resta soccombente come volevasi dimostrare. Delle due anime che albergano per legge di natura nel petto faustiano di Metello una esce per la tangente ed emigra verso le siepi di Terzollina. Ma se questo è un peccato, è un peccato di fronte al socialismo in quanto, come «vita pubblica», dovrebbe agire anche sulla coscienza individuale, sulla vita privata? E quello che si vuol far credere («E Metello, in una circostanza del genere, si dimenticava di tutto per correr dietro alle sottane dell'Idina?»). In realtà però sesso e socialismo sono cosi distinti, e insieme convivono cosi bene, che non c'è reale conflitto tra loro: esso è imposto soltanto dalle circostanze esteriori. Il peccato non è di fronte al socialismo: è di fronte al sacramento. Muscetta ha insistito sulla conversione di Viola e su altri elementi di «provvidenzialismo cattolico». «Il Contemporaneo» risponde che in Metello «non vi è nulla di mistico, nessun riferimento alla divinità» ecc. Ora non si tratta di professioni di fede: si tratta di vedere quale «educazione dei sentimenti» (e spesso delle idee) è operante quando il socialismo è puramente epidermico e non educa un bel nulla. Il matrimonio di Bruna e Faliero era fondato sulla «coscienza», sul fatto che «le idee che abbiamo diminuiscono di significato se non c'è l'amore...» «Penso, - dice Faliero, - che non si possa volere interamente il bene dell'umanità, che non si possa lottare con tutta la scienza e la freddezza necessarie, se non si ama anche fisicamente qualcuno». La solidità del legame amoroso era dunque data dall'accordo tra comunione dei corpi e comunione degli spiriti, entrambe essendo un atto di fede nella vita, una verifica sempre rinnovata, in mezzo alle lotte e alle difficoltà, delle possibilità di felicità umana. Il mo-
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mento di crisi di questo profondo rapporto, quello in cui in Bruna, tra le braccia di Sandrino, sembra che abbiano il sopravvento i puri istinti, è anche il momento che lo ribadisce definitivamente. Qui si che la «vita privata» è strettamente determinata dalla «vita pubblica» e dal suo trasformarsi in coscienza individuale. Ma in Metello? In Metello, siccome c'è sempre una «vita pubblica» assunta in quella privata, e l'esperienza socialista non può assolvere questa funzione, ciò che si contrappone agli istinti è soltanto la loro legalizzazione consacrata, il tabú domestico, il legame matrimoniale nella sua irrazionale potenza. E qui non salverei, come fa Muscetta, il personaggio di Ersilia, simpatico quanto si vuole, ma pur sempre per elezione e non per coscienza. Nella carriera del libertino Metello ci sono la prostituta, l'amante prematrimoniale, la moglie e l'amante postmatrimoniale: tutte li ad attenderlo ab aeterno e ad «educarlo». Ersilia è la meglio del mazzo perché è una buona, coraggiosa, fedele compagna della sua vita come se ne trovano solo a San Frediano. E la buona selvaggia per eccellenza. Ma appartiene anch'essa a una società statica e immemore che produce ottime piante matrimoniali, Griselde ad uso e consumo di nobili, borghesi e popolani, e cattive piante adulterine non meno necessarie alla completezza del quadro e all'educazione dei singoli. Che cosa è questa concezione se non una concezione «provvidenzialistica»? Nel vacuum lasciato dall'inefficienza di ogni altra educazione irrompono le vecchie acque ora intorbidate ora decantate dal gioco alterno degli istinti e dei tabú. Non mi pare che ci voglia l'intransigenza anticontroriformistica di Muscetta per vedere questo. Si dirà però che non si può pretendere da Metello la stessa consapevolezza dei personaggi di Un eroe del nostro tempo. Ed è vero: ci sono cinquant'anni di mezzo. Si sa che ancor oggi è facile incontrare operai che hanno una coscienza politica molto elevata accanto a una morale sessuale e familiare deteriore. La carriera di Metello potrebbe essere sociologicamente verisimile. Ma prima di tutto la letteratura non è il rapporto Kinsey, e il sesso interessa solo finché ha una funzione reale nell'educazione (o diseduca-
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zione) dei sentimenti e della personalità, e non soltanto nell'educazione dei sensi, che dopo tutto è più o meno ovvia. L'uso di un crudo realismo sessuale nella storia dell'Eroe del nostro tempo poteva talvolta cadere nell'abuso e nel compiacimento (come nell'episodio alquanto superfluo della prostituta milanese Kati) ma era pur reso necessario dall'impostazione stessa della figura di Sandrino e del suo destino. E la scena del bordello nelle Terre del Sacramento di Jovine, ad esempio, pur essendo una pagina di fedele sociologia che riflette tutto lo squallore della vita sessuale di provincia, era funzionale in quanto le forzate imprese del giovane protagonista, novello Guidon Selvaggio, contribuivano a creare intorno a lui, in una penombra umoristica, quell'alone di predestinazione che lo accompagnerà fino alla morte eroica. Niente di simile in Metello (e anche qui è inutile ricalcare le orme di Muscetta). In secondo luogo: siamo sicuri che la vita e le concezioni sessuali di Metello siano quelle dell'operaio medio? «Il Contemporaneo » ha protestato perché Muscetta vuol mandare Metello in prigione per corruzione di minorenni. Non ci sono gli estremi, infatti, ma solo per una ventina di giorni di ritardo sul compleanno di Idina, dovuti presumibilmente al solito intervento provvidenziale. Però a p. 247 resta scritto nero su bianco che, rivoltandosi nel letto al pensiero di Idina, «Metello scoperse di non aver mai "avuto a che fare con una ragazza minorenne" e di aver perduto, in quei due anni, una grande occasione». Si notino le virgolette, che mostrano come la frase sia desunta dalla sociologia, dal costume, dai discorsi dei compagni di Metello. Simili «sentimenti» albergano certo nell'animo di vecchi commessi viaggiatori o di giovani vitelloni nella Clochemerle italiana, e di qui può darsi che si estendano agli operai, o almeno al loro linguaggio. Ma è questo il costume tipico degli operai, sia pure di fine Ottocento? Ci rifiutiamo nel modo più categorico di crederlo. «Il Contemporaneo» trova «semplici e puliti» ed «esenti da ogni complicazione sessuale» gli amori di Metello. Ebbene: mi sembra che di fronte all'orribile libidine anagrafica di costui risultino «semplici e puliti» anche gli amori del marchese de Sade, che almeno non li attribuiva
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all'uomo medio. Certo Metello, appena formulati questi pensieri, «d'improvviso si senti pieno di vergogna»: Ersilia si è svegliata in quel momento, ed egli la possiede, perché confusamente capiva che ora, possedere la moglie era come sporcarsi e sporcarla anche moralmente, ma anche significava allontanare da sé, con energia, con furore cotesti pensieri e testimoniare ad Ersilia... la sua fedeltà e il suo affetto che non erano mutati.
Siamo alla solita alternativa: non a quella tra istinti bruti e istinti assunti nella consapevolezza e armonizzati con la personalità (che è quella propria di Bruna) ma tra istinti peccaminosi, che sorgono e prendono piede e si delibano quasi solo grazie ai tabu (la minore età, il matrimonio) cui si contrappongono, e istinti canonizzati dalla consuetudine e dal sacramento. Di fronte a questo «semplice e pulito» paradiso sessuale italiano, tanto poco decadente (forse perché non mai turbato da ombra di consapevolezza), occorrerebbe importare, per esempio, la polemica di Karl Kraus contro il culto della verginità «nato dalle perverse libidini dei defloratori» e il suo monito che una bottiglia vale per il suo contenuto, e quanto a stapparla, preferiva che lo facesse un cameriere. Del resto Kraus aveva ragione solo per certi dongiovanni cittadini, mentre in altre situazioni, specie nelle campagne, il culto della verginità può avere un significato morale che oltrepassa la mera vellicazione fisiologica. Ma che dire del culto della minore età? C'è poco da fare. La conversione di Viola può essere marginale, come sostiene «Il Contemporaneo», ma è almeno una vera conversione; è marginale, ma è in armonia col personaggio e non è contraddetta da niente altro nel corso del romanzo. E la morale del Monsignore che l'ha salvata («che tutte le creature, prima di essere figli di un padre e di una madre, sono figli del Signore») è in larga parte la morale ultima che determina lo smussamento di tutti i conflitti denunciato da Muscetta. Peccato e perdono: entrambi facili, entrambi ovvii, entrambi privi di ogni sale dialettico e di ogni «fatica del negativo». Su questo stato di natura della «vita privata» non possono incidere né gli scioperi né le teorie socialiste della «vita pubblica». La lettura della «Critica Sociale» dovrebbe servire a far passare il socialismo di Metello dalla fase
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economicistica, sindacalistica e spontanea a quella della consapevolezza ideologica, come si mostra nel passo, sostanzialmente accettabile, della forza-lavoro, dove si dice che «le parole stampate... t'insegnano a ragionare su un argomento, e quello che magari pensi digià, ti sembra anche più vero». Giusto. Tuttavia vorremmo che Metello leggesse meno e soffrisse di più le proprie esperienze, senza di che anche le parole stampate resteranno sempre, come dice, tradendosi, lui stesso, «magia», magia nera che dovrebbe simulare la coscienza là dove non c'è e sostituire la tautologia al processo di assimilazione. Per questo appare sempre più persuasivo e sincero il femminile empirismo di Ersilia («Non ti venisse l'idea di dimostrarmi che l'aceto si fa col vino»). Una volta che siamo nello stato di natura, restiamoci, e la compagnia di Ersilia sarà ancora (ha ragione Muscetta) la migliore. Umberto Saba ha detto una volta che gli italiani non ammazzano mai, a differenza di altri popoli, il Padre, bensì, a partire da Romolo e Remo, il Fratello. In forma mitico-freudiana è qui adombrata la verità che in Italia le trasformazioni politico-sociali non hanno mai liquidato in modo decisivo il passato. Si potrebbe dire che nelle Cronache Pratolini ha ammazzato il Fratello e in Un eroe del nostro tempo il Padre. E in Metello? In Metello non si ammazza più nessuno perché tutti son «figli del Signore». Gli aspetti negativi del buon selvaggio italiano vengono ad essere redenti e assunti in quelli positivi; gli «italiani» serbano la beata incoscienza degli «italieschi» e il «dritto» Cipressino è al contempo il buon socialista Metello. Sembra quasi che Pratolini abbia esplicitamente scritto la palinodia di Un eroe del nostro tempo. Tutto quello che là era visto sotto la dura luce delle contraddizioni reali qui diventa l'elemento di un quadretto arcadico. La procace vedovella abbandonata agli istinti non è più Virginia, ma Viola; non contribuisce a diseducare Sandrino, ma a educare Metello; non finisce assassinata, ma in odore di santità, e la sua stessa libidine è un'astuzia della Provvidenza per procacciarle un figlio, un figlio di nessuno e di Dio. E Metello è un Sandrino con le idee di Faliero. Se c'è una differenziazione, una contraddizione, essa è ridotta al fattore topografico, alla faida di quartiere. La grande questio-
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ne, in fondo, è di vedere se Metello è degno o meno di essere passato per San Frediano e di avervi trovato la moglie. La belTldina, rappresentante di tutto ciò che non è San Frediano, dice che «il signor Metello... pare ci abbia mai nemmeno messo piede, un uomo cosi distinto... » Per fortuna c'è Ersilia, coi suoi muscoli e le sue energie di vera sanfredianina, a cavare gli occhi a chiunque si attenti a rendere il marito infedele a lei e al quartiere d'origine. Certo in Metello ci sono tante altre cose, e belle: la terra di Mugello, l'appello dei prigionieri, l'ombrellino dell'Idina, e soprattutto sole, molto sole sulle strade e sui «ponti» dove lavorano i muratori. Belle cose che fanno leggere il libro e che ce ne avrebbero forse fatto dimenticare i sette peccati capitali se non ci fosse stato decantato come « rottura con la tradizione decadente ». Può essere una simile rottura per i soliti stranieri che vengono a chinarsi sulle riserve sanfredianesi dove si coltiva allo stato puro e vergine il buon selvaggio italiano senza problemi. Metello, prevediamo, avrà molte traduzioni. Ma se non si accetta questa mentalità coloniale bisogna riconoscere che questo libro rappresenta proprio la sublimazione della peggior decadenza italiana. E triste dirlo, ma è cosi. Il travestimento è riuscito a tal punto che in una recensione di Anna Maria Ortese (nell'«Indicatore Eda», n. 2, 1955) si lamenta addirittura il carattere troppo esemplare della «sacra famiglia» di Metello e dell'«innocenza di classe» che essa incarna. Dunque ci siamo: l'innocenza del buon selvaggio italiano (ivi compresa la tenerezza per le minorenni qua minorenni) è diventata senz'altro 1'«innocenza di classe» del proletariato italiano, con gran gioia, supponiamo, di chiunque voglia vedere questo proletariato abdicare alla sua funzione storica e sprofondare nelle immemori tenebre del mito del popolo enotrio. Che poi magari si trovi questa innocenza eccessivamente ossequiente ai canoni del marxismo, è veramente il colmo dell'ironia. Come mai questa défaillance di Pratolini? Il passaggio dall'esaltazione della coscienza alla celebrazione dell'incoscienza? Credo che «Il Contemporaneo» abbia ragione nel rimproverare a Muscetta di aver troppo sottolineato la pressione della situazione politica immediata sulla composizione di Metello. Non certo per
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una «questione di metodo». Non è affatto detto che lo scrittore debba subire soltanto l'azione della «situazione storica» e non quella della «contingenza storica». Dipenderà dal temperamento dello scrittore e dal momento in cui egli si trova nella sua evoluzione. Può essere benissimo che basti una momentanea involuzione politica per determinare un'involuzione di quello scrittore in quel momento. E questo può essere il caso di Pratolini. Ma visto che ciò si potrà stabilire in maniera definitiva solo quando si avrà davanti agli occhi tutta o quasi tutta la sua opera e la si potrà magari confrontare, che so io, con l'autobiografia e l'epistolario, è bene essere prudenti e accordare a Pratolini tutto il credito che si merita, senza metterlo sullo stesso piano dei registi cinematografici, del resto sottoposti a pressioni di ben altra natura e imperiosità. Ciò che ci interessa sono i limiti dell'opera e non quelli dell'uomo. Una volta che abbiamo constatato i primi, e che li abbiamo ricondotti a limiti ideologici, a errori nel concepire e valutare la realtà - infierendo e «distribuendo botte» contro di ciò senza paura di lavorare per il re di Prussia, ovverossia per coloro che godono nel veder discordie in un campo d'Agramante in cui il più umile e sprovveduto fantaccino interessa, come essi ben sanno, più di tutti i loro caporioni - il nostro lavoro è fatto, e per il momento non dobbiamo chiederci se la caduta sia dovuta a una pressione esteriore, o alla legge di gravità che riconduce Pratolini al paradiso ora torbido ora socialista di San Frediano e Santa Croce, o a tutte e due le cose insieme. L'importante è che si rimetta in piedi. Ma per questo bisogna respingere in toto la massima del «Contemporaneo» per cui «compito del critico è quello di valutare il romanzo in questi limiti» e cioè nei «limiti di Metello, fissati dallo stesso autore». E una massima contraria ad ogni critica degna di questo nome. «Compito del critico» è proprio quello di non stare mai al gioco dell'autore. Quando un professore francese, a chi gli rimproverava di aver trattato il Misanthrope come tragedia, contro l'evidente intenzione di Molière, rispose «C'est que Molière se trompait », poteva aver torto nel caso particolare,
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ma aveva mille volte ragione in linea di principio. Certo anche l'intento dell'autore deve essere assunto nella considerazione critica e ne costituisce un elemento importante. Nel caso specifico Pratolini non si sbagliava di molto e nel risvolto di copertina coi suoi «valori indistruttibili» c'è già buona parte dello spirito da Gerusalemme Conquistata di Metello. Ciò significa che l'autolimitazione dell'autore, positiva nel caso di Un eroe del nostro tempo, è qui l'inizio di un'impostazione sbagliata. Muscetta, come riconosce anche «Il Contemporaneo», è giustamente partito dal risvolto, ma altrettanto giustamente se ne è liberato ed è ricorso a Engels e Lenin. Nonché, naturalmente, a Gor'kij e Tolstoj. Poiché è giusto e naturale riferirsi ad essi, o ad altri classici del realismo, quando si discute di narrativa, cosi come è giusto e naturale riferirsi a Hegel o a Marx quando si parla di filosofia. Lo sarebbe anche se si trattasse di Luciana Peverelli, e lo è a maggior ragione quando si tratta di un'opera che dovrebbe rappresentare «il trapasso dal neorealismo al realismo». Pratolini non è né Gor'kij né Tolstoj? Chi lo afferma? Lui stesso nel risvolto di copertina? Non bisogna dargli retta, allora. Se non lo è può diventarlo: grazie a Dio è vivo e vegeto e ha passato di poco la quarantina. Molti scrittori hanno dato il loro meglio assai più tardi. Pratolini, come Tolstoj e Gor'kij e tutti gli uomini, compresi i selvaggi e i sanfredianini, è un miscuglio di natura e di consapevolezza. La sua natura non è quella di Gor'kij e di Tolstoj? Forse, ma è troppo presto per dirlo, mentre quello che possiamo sicuramente affermare è che è una ricca tempra di scrittore, un'ottima e robustissima pianta, un'Ersilia delle lettere, un uomo che sa indorare di sole e di poesia anche i dubbi personaggi di Metello. Comunque sulla sua natura, qual ch'essa sia, non possiamo far niente. Sulla sua consapevolezza, invece, possiamo far molto, perché, come dice giustamente «Il Contemporaneo», la situazione storica dello scrittore è «caratterizzata anche... dalle posizioni dei vari gruppi di intellettuali, dalla cultura che essi esprimono, dalle esigenze che essi avanzano e dai vizi che perpetuano». Appunto. Per questo è necessaria la massima libertà di critica: perché si avanzino delle esigenze giuste e non si perpetuino i vecchi vizi. Altrimenti
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si continuerà a credere che per effettuare la «rottura col decadentismo » basti aggirare « il gusto del torbido e dello sporco » e sostituire ragazze sane e appetitose a brutti pederasti, e gli scioperi alla cronaca nera. Per « Il Contemporaneo » però Muscetta è egli stesso un esempio dei vizi che denuncia, e cioè dell'Arcadia, del vecchio letterato italiano ecc. Può darsi che nella suprema eleganza del discorso di Muscetta ci sia qualche cosa di simile, e nella sua liquidazione degli altri critici un ricordo del «dritto» che infila uno dopo l'altro i «fessi», cosi come in quanto precede si potrà trovare dell'astratto dottrinarismo e del prolisso compiacimento ironico. Tuttavia, che cosa ce ne importa? Che cosa ci importano le questioni e i limiti personali quando non si traducono in limiti degli orizzonti, anzi magari li approfondiscono, sia pure unilateralmente? Se si poteva rimproverare a Muscetta di attribuire a Pratolini un cedimento di fronte alla situazione contingente, a maggior ragione si deprecheranno gli attacchi personali del «Contemporaneo». «Dai loro frutti li riconoscerai». Muscetta ha scritto un saggio che si oppone con ottimi argomenti a un'erronea sopravvalutazione. Questo è l'essenziale. E forse per scriverlo ci volevano proprio i limiti e gli umori di Muscetta, ci voleva che la sua «natura» si facesse «consapevolezza». Penso perciò che debbano essergli grati tutti coloro i quali sono convinti che i problemi della narrativa italiana non si risolvono se non affrontando, senza compromessi e senza false illusioni, i problemi della società italiana. (1955)-
Il baricentro nel sedere
Confesso di non essere mai riuscito, prima di oggi, a leggere per intero un libro di Mario Soldati, e l'ostacolo era sempre uno solo: la sottigliezza. Certo, anche Proust, per esempio, è sottile, ma si ha sempre l'impressione che lo è perché non può farne a meno, perché le cose e gli uomini sono cosi, tanto più nel riflesso esasperato della memoria. Invece la sottigliezza di Soldati è programmata, è una manifestazione dell'onnipotenza del soggetto, ciò che non torna, poiché l'onnipotenza cerca naturalmente la semplicità. E la resistenza dell'oggetto che crea le complicazioni. Ve lo immaginate Dio che si frega le mani dicendo: adesso vi creo un mondo talmente labirintico che nessuno ci si raccapezza? E siccome il mondo è effettivamente cosi, questa è una delle migliori prove che non è stato creato da Dio, e quelli che sostengono il contrario hanno dovuto sempre proiettarvi una purezza di linee che non si sogna di avere. Non mi sarei quindi accinto a leggere (per di più per intero) L'attore', se questo libro non avesse suscitato consensi che vanno al di là della critica ufficiale. Qui aveva funzionato anche l'informazione clandestina, l'unica su cui si possa fare qualche affidamento in tempi di industria culturale. Il primo a raccomandarmi il libro fu il mio vecchio amico Mastigoforo, implacabile persecutore della cattiva letteratura in nome dell'istanza morale. Mi disse: « E bellissimo. Va', e dillo a quei tuoi giovani amici, i Trecon-la-Puzza-sotto-il-Naso, che certamente lo snobberanno». Lieto di poter condurre insieme a Mastigoforo un'altra battaglia 1
M. SOLDATI, L'attore, Mondadori, Milano 1970.
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contro la boria intellettuale e in difesa del cretino', mi recai senza por tempo in mezzo dai tre personaggi indicati per porgere loro il guanto della sfida. O meraviglia! I Tre avevano appena finito di leggere il libro e lo lodarono ad una voce, sia pure con una sfumatura di degnazione. « E un fumettone, - dissero - ma è divertentissimo. Leggilo! » E mi tesero una copia. Sbigottito, mi congedai in fretta ed errai tutta la notte nel bosco, in preda a grave turbamento, con il libro in mano. Cammina e cammina, superai un'aspra montagna e alle luci dell'alba giunsi a una radura dove si teneva una riunione plenaria dei collaboratori della casa editrice «Asperrima tantum», che negli ultimi anni aveva quasi messo al bando i romanzieri italiani. «Abbiamo fatto male, - stava autocriticandosi Logoclasta, autore di poesie dadaiste - ogni tanto viene fuori qualcosa di buono come L'attore». Gli fecero coro Pangràmmato, Tanatofilo, Semiolatra, Fisiomaco e altri molti, tutti alfieri dell'avanguardia, che finora avevano riversato fiumi d'inchiostro e di derisione su Bassani, Cassola, Soldati e in generale sulla letteratura «consolatoria». Non mi restava che leggere il romanzo, anche il giudizio più limitativo prometteva un gran divertimento. Che non ci fu. Fumettone si, ma noioso. Prima di tutto, anche qui c'è sottigliezza, finché se ne vuole. Ma anche qui la sottigliezza è tutta nel soggetto, che si compiace della sua immensa acutezza e della sua pressoché totale capacità di risolvere i problemi più ardui. Il romanzo in prima persona (affermano gli studiosi del genere) si distingue da quello impersonale in quanto il soggetto narrante, vivendo e vestendo panni, non può disporre dell'ubiquità e dell'onnipotenza dell'autore che cela la propria identità. Ma qui la distinzione non sussiste, il primo ha tutti i privilegi del secondo. Il risultato è che il narratore diventa più importante della storia narrata. Diavolo d'un uomo! Se non fosse già Mario Soldati, meriterebbe di esserlo. E onnisciente, e se si dimentica qualcosa, o non lo intuisce subito, è solo per farti sospirare il momento in cui se ne ricorda o lo intuisce. E onnipotente, e se talora fallisce, per esempio nei suoi rapporti con i bigs 1
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della televisione che riescono sempre a fregarlo, è perché sapeva fin da principio che in questi rapporti lui ha sempre la peggio, sicché questa piccola offesa all'onnipotenza va a tutto vantaggio dell'onniscienza. E onniesperiente: non ci sono né cibi, né vini, né donne, né città che non lo stimolino e che egli non sappia subito assaporare, definire, classificare. E onnipresente, l'aereo lo porta in un attimo da qualsiasi parte, da Roma a Milano a Genova a Parigi, e dove non arriva l'aereo prende il taxi. Ed è onnieffidente: non si trova mai in imbarazzo e ha sempre sottomano tutto il necessario. «Guardai ancora, nella guida del Touring che avevo meco, la piantina di Bordighera». Ma era in taxi, dopo che aveva passato la notte a giocare al casinò di San Remo, aveva vinto un mucchio di soldi, aveva avuto incontri sconvolgenti, aveva fatto una passeggiata fino all'alba, aveva scritto una lettera, aveva perfino dormito un po' e poi era balzato sul predetto taxi. Chi mai in simili frangenti si sarebbe ricordato di prender seco la guida del Touring, specie avendo come mèta una città cosi poco tentacolare come Bordighera e recandovisi per ragioni nientaffatto turistiche? Lui, si. La noia comincia di qui, è la noia mortale e teologica dell'onnipotenza, una noia assai simile a quella che prende il lettore del libro di Citati su Goethe, dove gli onnipotenti sono due, Goethe e Citati: il primo può creare tutto quello che vuole (eventuali fattori di disturbo, per esempio la Rivoluzione francese, li scaccia via infastidito come insetti molesti); il secondo avrebbe un limite naturale nel suo oggetto, ma su questo sa tutto, anche quello che questi non sa, e quindi standogli dietro le spalle ne mima l'onnipotenza creatrice, anzi quasi illude se stesso e il lettore di essere lui la causa di essa, e che lo stesso creatore sia una sua creazione. Non molto diverso, a ben guardare, è il rapporto del narratore di Soldati con il suo personaggio, Enzo Melchiorri, poiché se la biografia questa volta è immaginaria, il biografato è pur sempre un artista che ha anch'egli la prerogativa dell'onnipotenza creatrice, sia pure sulla scena. L'affinità tra i due non sta soltanto nell'antica amicizia e nel comune ambiente di lavoro, ma nella comune fiducia nella propria onnipotenza. In Melchiorri, che vive in pensione nella sua villa di Bordighera con la vecchia moglie Licia, de-
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dita al gioco, e una giovane e demoniaca serva còrsa, Giovanna, essa si esplica soprattutto nel gusto delle macchinazioni per umiliare la prima e ottenere il possesso della seconda. Quanto al narratore, non solo egli interviene cercando di procurare una scrittura a Melchiorri in un romanzo sceneggiato alla Tv, ma naturalmente egli, come Citati su Goethe, sa ben presto su di lui anche tutto ciò che lui non sa di se stesso. Un burattinaio tira le fila, un altro gli sta alle spalle e domina tutto il sottilissimo gioco. Apparentemente, le cose vanno male e i burattini falliscono in pieno. Il narratore non riesce ad avere la parte per Melchiorri, questi apprende ciò che il primo aveva già intuito, e cioè che anziché essere lui a ordire la trama, è egli stesso vittima delle macchinazioni di un losco attore fallito, Nicky Argenta, che era l'amante della serva còrsa. Si arriva alla tragedia: Giovanna viene trovata morta in seguito a un incidente d'auto, chissà, forse provocato da Licia, che nel frattempo è inspiegabilmente partita per Trieste. Argenta, che sospetta come gli altri e come noi, ricatta Melchiorri, che entra temporaneamente nella Casa di Riposo per vecchi attori. Ma la tragedia subito si rovescia in commedia: Nicky Argenta compra la villa di Melchiorri, il quale torna a viverci interpretando il personaggio del Servitore immaginario e ricevendo in frac gli invitati di Argenta. Liberato dalla moglie e da Giovanna, tutto sommato è felicissimo. Poiché «non solo l'attore, ma ogni essere umano deve, qualche volta per sentirsi vivo, potersi immaginare un po' ». «In ogni finzione c'è sempre del vero». Quindi nel desiderio di fingere c'è «una profonda riuscita», che il narratore, manco a dirlo, «aveva sempre intuito». Si spiega cosi anche che Melchiorri, «uomo mitissimo», avesse finito per strumentalizzare le donne che amava, «trasformandole, anche loro, in finzioni», e provocando un omicidio. Il guaio dell'onnipotenza è che è, appunto, una finzione. Le parole appena citate sono il solo indizio di una mezza intenzione di Soldati di voler dimostrare proprio questo. C'è l'insistenza sull'atmosfera romana e sull'ambiente irreale della televisione, sicché taluni hanno visto nel romanzo una denuncia della vacuità di questo mondo. Ciò mi sembra assai difficile da sostenere. Soldati è per l'appunto un «essere umano» affezionatissimo alla finzione.
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La tragedia cui dà luogo lo scontro della finzione con la realtà non turba nessuno, nemmeno i personaggi (per non parlare del narratore che sapeva già tutto dalla guida del Touring), e dopo di esso la finzione ricomincia più e meglio di prima. In Homo Faber di Max Frisch una fiducia soggettiva nell'onnipotenza (di carattere tecnico-scientifico, questa, anziché artistico-intuitivo, ma sempre di onnipotenza si tratta) crollava di fronte a un fatto irrazionale e imprevedibile: l'ingegnere homo faber, che credeva di poter razionalizzare tutto, scopriva di essere stato l'amante della propria figlia. La tragedia era teutonicamente legnosa e meccanica, però c'era, e tutto era centrato su di essa. Qui invece la verità è che nessuno vuole uscire dall'onnipotenza della finzione. Nulla lo dimostra meglio del ruolo che ha il denaro. L'onnipotenza, per avere un minimo di verisimiglianza, deve presupporre la ricchezza. La mancanza di soldi è una criptonite che toglie le forze a ogni Nembo Kid. Per il narratore, non c'è da stare in ansia. E vero che gli manca il senso degli affari, ma questo è un lusso che si può permettere perché è al di là della barriera del suono, e tende a ricordarlo sempre non tanto per civetteria quanto per scaramanzia, cosi come ha l'intuizione infallibile, confortata da lunga scienza, che non vincerà alla roulette, ma poi, almeno per quanto ci risulta, vince lo stesso. Per Enzo Melchiorri, invece, le cose si mettono male. Non è certo la vecchiaia, ma la povertà a limitare le sue velleità. Fin dall'inizio sappiamo che, in conseguenza della passione del gioco che divora sua moglie, ha perso tutto il capitale e ha dovuto ipotecare due terzi della villa, che va in rovina. Si rivolge quindi al narratore per trovare un lavoro che lo rimetta un po' in sesto. Ne risulta che il denaro, o la sua mancanza, compenetra il libro dal principio alla fine, non meno di un romanzo balzachiano. Invano l'autore ci propone una teoria per cui gli attori hanno il baricentro nel sedere, teoria che fin dalle prime pagine, in un incontro a Fiumicino, si affaccia come la maàeleìne di Soldati, il motivo che introduce e fa apparire in scena l'attore, e che poi viene ripreso in esteso. Sarà una bellissima teoria, paragonabile al Paradosso dell'attore di Diderot o al Teatro delle marionette di Kleist, ma l'attenzione ci scivola sopra perché il vero bari-
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centro dei personaggi, attori o meno, è il denaro e non il sedere. Il che sarebbe naturalissimo se il denaro fosse, come dovrebbe essere, l'unico elemento reale in questo mondo dominato dalla finzione. La quale è ingenerata essa stessa dal denaro, ma questo purtroppo è autentico. E invece qui è fasullo anch'esso. Come nella fiaba del cappello di Fortunato, e in barba ad ogni legge economica, più ne scorre via e più si riforma. Questo Melchiorri alle soglie della mendicità e della Casa di Riposo per vecchi artisti spende e spande più di prima, invece di arginare la follia della moglie la incoraggia, per umiliarla. Vuole centomila lire per giocare al casinò? E lui, attraverso la corsa, gliene passa duecentomila. Questo un giorno si e un giorno no, o almeno una volta alla settimana. Per non parlare di certi orologini Rolex da duecentocinquantamila lire l'uno che lui e la moglie regalano anche a chi non li vuole. C'è un «signore piccolo, magro, anziano, vestito di nero », certo Manuel Gismondi, che cura i suoi interessi, e deve essere proprio un mago della finanza. Quando poi non rimane più neanche un baiocco, chi compra la villa è Nicky Argenta, che conosciamo come attore fallito e ricattatore di mezza tacca, che vive solo di espedienti e si fa pagare anche il drink. Chissà dove avrà trovato i soldi. Insomma, perfino il denaro non oppone resistenza all'onnipotenza, né crea veri drammi. Anch'esso, il dio che affanna e suscita, che atterra e che consola, non scuote nulla e contribuisce alla noia. Si dirà che queste sono osservazioni di un invido lettore a stipendio fisso, piattamente razionalista e un po' avaro; di un temperamento anale, come direbbero gli psicanalisti. In quel mondo li non si fanno troppi conti, chi meno ha più ha, non per nulla sono tutti giocatori, e poi per rimediare c'è sempre Manuel Gismondi. Sarà benissimo, ma con questo siamo arrivati proprio al centro della contraddizione. Non dubitiamo che ambienti siffatti esistano davvero e che i loro rappresentanti, pur avendo il baricentro nel sedere, siano alieni da ogni analità. Ma nell'Ottocento si trattava di personaggi autonomi, milordi inglesi e granduchi russi, che al tavolo da gioco erano attirati appunto dall'oscura voluttà di arrischiare la propria autonomia, nonché il maltolletto cui
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la dovevano, per perderli o per rafforzarli; e quando si erano giocati l'ultimo mugico o l'ultimo cavallo si sopprimevano con flemma inglese o entusiasmo russo. Ogni roulette era in fondo una roulette russa. Oggi invece i giocatori non hanno più niente da arrischiare fuorché i soldi: sono pacifici sistemisti come quel professore universitario tedesco che ha quasi sbancato un casinò, o larve della società industriale che possono dire alla roulette: tu uccidi un uomo morto. Se magari, a differenza dei loro predecessori della belle epoque, non si uccidono, è perché anche la loro perdita è precalcolata: perché la lunga mano dei monopoli li ha spediti là in una missione di human relatìons, o perché la réclame che si fanno in questo modo può rendere più della perdita. Ora la contraddizione dei personaggi di Soldati sta nel fatto che essi hanno mantenuto l'autonomia individuale della belle époque, pretendendo di essere interessanti, di far pazzie e di giocarsi la villa di Bordighera come se fosse la Capponcina, ma vivono ai nostri giorni e non si ammazzano, evidentemente perché i monopoli - non Manuel Gismondi, che viene anche lui dal vecchio mondo - hanno deciso di conservarli in vita honoris causa, per tenerezza verso il passato o più probabilmente verso Mario Soldati, benché non servano più a niente. La contraddizione non emerge solo al tavolo da gioco, ma impronta di sé tutto il romanzo, che fino a un certo punto si vorrebbe elegiaco. La cornice è «il mondo delle celebrità», come si intitola un capitolo d eW Elite del potere di C. W. Mills. Nella recensione, peraltro assai positiva, scritta da Sweezy a questo libro, l'unica nota di vera e propria indignazione riguarda questo capitolo. Sweezy scrive: Le celebrità - del cinema, della televisione, del palcoscenico, dello sport non sono una parte integrante della classe dominante o dell'elite del potere, e, in generale, non competono in prestigio coi ricchi e con i potenti. Al contrario, i ricchi ed i potenti hanno ogni interesse a creare le celebrità, in parte perché costituiscono un buon affare, ed in parte per distrarre l'attenzione della popolazione subalterna da cose più serie.
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Il narratore di Soldati ha una funzione di intermediario tra il potere vero e il «mondo delle celebrità»: è giornalista e regista televisivo, e in questa funzione non risparmia la precisione documentaria, va a Cannes per «L'Espresso» con Ercole Patti e Carlo Laurenzi e fa la sceneggiatura dei Misteri di Parigi insieme a Umberto Eco, specialista in materia. Ma per il suo ambiente attuale ha scarsa simpatia: la sua belle epoque arriva al massimo alla Roma dell'immediato dopoguerra e al ristorante Canemorto, che frequentava allora, e le celebrità cui è affezionato, lungi dall'essere gli attuali divi televisivi, sono quelle come Enzo Melchiorri che provengono dall'epoca di Ermete Zacconi e Irma Gramatica, anzi di Eleonora Duse, di cui Melchiorri conserva un calco della mano, che gli ha regalato appunto il narratore. Gente che aveva le virtù e i vizi dei grandi individui, che amava e odiava e giocava, passionale e generosa. D'altra parte il regalo della mano della Duse è simbolico, poiché il narratore (che se ne disfa con piacere) non ha intenzione di sprofondare nel passato. La sua funzione di mediatore è duplice: stendendo sulle ombre del passato la mano onnipotente dei monopoli al posto di quella, poco efficiente, della Duse, egli vuole salvare Melchiorri ma anche la propria anima e, in buona misura, quella dei monopoli stessi. Il mondo di oggi non si può rigenerare con quello di ieri, ma può lasciarlo vivere e farsene bello, dimostrando che c'è ancora un Servitore immaginario là dove non ci dovrebbero essere e non ci sono in effetti altro che servitori reali. In questo senso il libro è almeno altrettanto apologetico quanto elegiaco. Ma l'apologia nega continuamente l'elegia e viceversa, il nuovo e il vecchio si svuotano a vicenda. Tale mancanza di punti di riferimento è un ottimo terreno per sfoggio di sottigliezze, ma anche la causa prima della fantomaticità del tutto. Il libro si chiama L'attore, e ci si parla tanto di attori e dei loro problemi, eppure alla fine ci si accorge che questi problemi restano del tutto astratti e gratuiti, poiché la tensione propria dell'attore, e che egli rende evidente, è quella tra essere e parere, e qui di essere non ce n'è manco un'oncia. Chi ha il baricentro nel sedere non è l'attore, bensì l'individuo borghese in generale: l'anima gli è scesa in quella posizione per avvicinarsi il più possibile
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all'uscita donde fuggirà sdegnosa alle squallide ripe d'Acheronte, cui del resto sarebbe approdata da un pezzo se Soldati non l'avesse trattenuta per la coda. Tuttavia questa fantomaticità è anche la causa del successo del libro. Il romanzo moderno è caratterizzato dalla rivolta contro l'onnipotenza dell'autore-demiurgo che ricostruiva nella finzione una realtà razionale e perspicua. Ebbene: la realtà non è affatto cosi, né l'autore può darci ad intendere di conoscerla. Ce ne darà allora la fetta che gli è possibile scorgere, oppure ce la darà tutta, ma appunto come irrazionale e mostruosa. La finzione ha passato un brutto quarto d'ora, in Kafka sembrava del tutto morta. Ma lo stesso processo che l'aveva uccisa l'ha riabilitata. Se la verità è insopportabile, la letteratura viene assunta come suo contrario, e se ne vanta il carattere di menzogna. Il demiurgo scomparso ritorna sotto forma di giocoliere di parole e di miti. Goethe, cui l'accesso sembrava precluso dalla barriera d'orrore che ce ne separa, rivive in Citati come campione della manipolazione fantastica, gran mentitore al cospetto del Signore delle Lettere. Il soggetto artistico si ringalluzzisce tutto, fiero delle sue prodezze: sembrava spacciato, sopraffatto dallo strapotere delle cose, dal sogno, dal monologo interiore, dal documento, e invece eccolo qui, funambolo onnipresente. Però questo processo investe solitamente solo l'arte d'avanguardia; i nuovi demiurghi foggiano mondi inaccessibili ai più, mentre Bassani e Cassola restano confinati nelle mura anacronistiche di Ferrara o di Volterra e coltivano l'elegia come tale. I loro personaggi sono di carne o almeno d'ossa, ma proprio per questo sono inverosimili. L'attore traspone sul piano realistico e comunicabile la risorta onnipotenza demiurgica, mostrando la sua profonda analogia coi mass media e conciliando l'attualità con l'elegia. Il suo mondo è tanto fasullo da sembrare quasi autentico e da permettere quell'identificazione che non è concessa all'avanguardia. Il rapporto degli ignoranti con le opere d'arte, scrive Adorno, «è dominato dalla misura in cui essi possono mettersi al posto dei personaggi che vi compaiono; tutti i rami dell'industria culturale si basano su questo e lo ribadiscono nei loro clienti». In questo
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caso l'operazione non è riuscita solo con gli ignoranti, che spaziano tra studi televisivi e festival cinematografici, perdono e riguadagnano sempre al tavolo da gioco e al gioco della vita, escono indenni da mogli folli e corse perverse, e ciò restando cosi come sono, larve deboli e scontente, senza nemmeno bisogno di investirsi della forza di Superman o di munirsi delle apparecchiature di Jimmy Bond. Evidentemente, anche gli intellettuali ci stanno a identificarsi. Molti intellettuali hanno gravitato intorno all'ambiente descritto da Soldati, più perifericamente, qua con una sceneggiatura, là con una consulenza, cavandone fuori magari quel tanto per comperarsi una villetta piccolissima in Riviera, mai abbastanza per avere la certezza di poter procedere, nei loro vecchi giorni, alle necessarie riparazioni. Altrettanto si dica delle mogli irrazionali che allietano la nostra esistenza. Soldati ci rassicura: i soldi li avremo sempre, qualcuno provvederà; e ci basteranno per la villa, per la moglie irrazionale, anche per le amanti reali o presunte. Non finiremo in una Casa di Riposo per vecchi intellettuali. E soprattutto resteremo si sempre alquanto irreali, ma non perderemo mai quel po' di baricentro che ci distingue dal volgo. Perché non dovremmo lasciarci consolare? Forse perché qualche arido e invidioso collega, negli anni delle sue ebbrezze avanguardistiche, ha lanciato l'anatema contro la letteratura consolatoria? Acqua passata, acqua passata... Qualcosa di simile sussurrava anche al mio orecchio il demone dell'identificazione. Ma, chiuso il fumettone, passai con un senso di sollievo ai fumetti veri e propri. Divertenti non sono certo neanch'essi, ma, identificazione per identificazione, almeno ci risparmiano le sottigliezze. Cosi mi tolsi gli occhiali, cinsi il mantello con la grande S, gonfiai il petto e, come il Fraa Zenever del Porta, uscii dalla finestra con una potente sterzata di sedere, su verso il cielo, verso paesi non ancora descritti nelle guide del Touring. Ed è meglio che resti lassù, perché se nella prossima puntata ridiscendessi a terra, a furia di identificazione mi sentirei in dovere di vendicare i torti e di punire i cattivi, e piomberei dritto sui mali consiglieri che fanno propaganda all'Attore. ( 1 y6-ic!84, Garzanti, Milano 1965.
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te per ragioni politiche e che suscitò una vera tempesta sia tra i sindacati che nella stampa. A questo «concerto di proteste» che si stupisce della sentenza, Fortini oppone lo stupore del cittadino «che negli avvenimenti quotidiani cerca di intravedere il disegno di legge generale del proprio tempo», poiché costui non concepisce che il sindacato si indigni con chi dà ragione ai lavoratori. Fortini parte di qui per sottolineare come il mantenimento «non già della democrazia parlamentare, ma del ceto economicoamministrativo che ci amministra» proceda «su un doppio binario»: «da un lato la teoria e la pratica della nuova libera concorrenza non può non sciogliere le mani imprenditoriali nelle aziende per cacciare ammalati, sobillatori e forza-lavoro non riciclabile; da un altro bisogna mantenere, con i costi che conosciamo, il mito del "governo di tutto il popolo", giustizialista e assistenziale, interclassista e, proprio per questo, fautore della "modernizzazione" ». Fortini cita un avvocato, difensore dei cassintegrati, che richiede che non si parli più «solo di diritto dell'organizzazione sindacale ma di partecipazione sindacale ai processi di ristrutturazione », cioè immagina qualche cosa di simile alla camera dei Fasci e delle corporazioni. Secondo Fortini, sta aumentando il numero delle persone che non accettano il doppio binario, esprimendosi se non altro attraverso l'astensionismo. C'è qualcuno che dice le stesse cose di questo articolo? Forse si, ma bisogna cercarle in venti articoli e al decimo hanno perso ogni forza. Quelle armi della critica che si credevano spuntate dall'inflazione della parola ritornano taglienti nel pennino di Fortini. E sul «Corriere»! Si prenda un altro esempio, il memorabile articolo del novembre 1983 che commentava una foto in cui un militare americano a Grenada trascinava per i piedi un nemico ucciso. Fortini, «conoscendo lo spirito militare», suppone che «quel modo di traslare i cadaveri dei nemici» sia stato istillato ai soldati dai loro superiori, e stabilisce delle connessioni che vanno dal cadavere di Ettore alla guerra del Vietnam all'avvento di Pinochet, quando si trascinavano i corpi delle «bestie marxiste». Fortini voleva denunciare
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l'esibizione intimidatoria delle atrocità in un mondo in cui «invece di punire i colpevoli degli orrori si premia chi li fotografa», e questo sempre e dappertutto, tant'è vero che includeva nella carrellata storica anche piazzale Loreto. Ma il fatto che partisse da Grenada e la ricollegasse al Vietnam suscitò un putiferio di proteste, capitanato dal futuro direttore del «Corriere», Piero Ostellino. S'infrangeva il tabù, ormai parte integrante dello spirito di «unità nazionale» (o internazionale) da destra a sinistra, per cui certe cose accadono solo in Afghanistan. Sorry, ma accadono anche dove gli Usa sono ridotti a fare dell'imperialismo formato cartolina. Il che non significa affatto che non accadano in Afghanistan. Dove ci si bea nell'unità nazionale, Fortini semina zizzania. Dopo la morte di Dio e di Marx, è Nietzsche che ci unisce e che serve a tutti gli scopi: feroce e benigno, matto e savio, con un baffo rivolto a destra e l'altro a sinistra, nichilista ma anche il contrario di nichilista, ottimo per distruggere e rifondare valori, per sguazzare nell'anarchia o per invocare la tirannia dei migliori, per lamentare il deserto della tecnica o aspettarne la salvezza, per plaudere all'aristocrazia dello spirito o immergersi nei mass media, Nietzsche è il filosofo ideale in una situazione in cui chi tutela gli operai è lo stesso che li defenestra. Poiché l'essenziale non è questo bensì la fine della metafisica occidentale e dell'aspirazione all'unità di pensiero e di essere, che determinano il nichilismo. Nietzsche non è riuscito a farli fuori, Heidegger nemmeno, ma tutti ci si riprovano e cosi se non ammazzano la metafisica ammazzano il tempo suo figliuolo. E tutti i partecipanti a questo gioco si trovano prima o dopo a battere alla porta della Legge, possibilmente ebraica, con Rosenkranz e Jabès. Un buon rifugio sicuro contro il nichilismo che non so quanto sarebbe piaciuto a Nietzsche (ma in lui si trova di tutto, in odio al Cristo gli sfugge anche qualche elogio del sacerdozio ebraico). Fortini non ama «il Nietzsche di tutti», come si intitola un suo articolo. Provocatoriamente contrappone al giovane Nietzsche il suo maestro Ritschl e la severa lettera che gli scrisse dopo l'uscita della Nascita della tragedia. Ma siccome senza Nietzsche,
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tutto e di tutti, non c'è modernità né postmodernità, ecco che Fortini viene punito con l'accusa di essere buono solo per noi antichi romani. Certo egli confessa «senza pentimento di aver passato lo scorso trentennio a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno» (si veda tutto l'ottimo articolo Quindici anni da ripensare). Questo non significa che non si sia sorbito coraggiosamente molti teorici alla moda e che non abbia trovato un rapporto con i giovani, soprattutto con quelli che chiama i «Fratelli Amorosi» contrapponendoli ai «neognostici». I quali ultimi hanno molti discepoli, ma pochi fratelli. Finisco con un piccolo dissenso. Riguarda l'articolo sul Doppio diario di Giaime Pintor, che provocò la rottura dell'autore con «il manifesto». E un articolo assai acuto e appassionato che affronta il problema della continuità della classe dirigente intellettuale italiana e della differenza tra piccola borghesia e borghesia medioalta, la quale ultima attraversa imperterrita i rivolgimenti storici. Fortini ha ragione di dire in nota che il problema è questo e che Pintor è solo l'occasione. Ma per quanto, a differenza di Luigi, non sia sospetto di avere rapporti di parentela con Giaime Pintor, l'articolo continua a lasciarmi un gusto d'amaro come la prima volta che lo lessi. La sacrosanta polemica fortiniana contro i detentori del sapere sembra anzitutto limitarsi a quelli italiani selezionati attraverso il reddito agrario e le grandi famiglie che ne godono, come se ci fosse molta differenza, nel risultato umano se non nell'efficienza, con i prodotti del reclutamento inglese dei civil servants o di quello della gerarchia ecclesiastica. Non credo che i rentiers della cultura siano molto peggio dei parvenus. Inoltre, se Fortini stesso parla del suo «risentimento» scheleriano nei confronti del grande borghese che era sempre «in» e sapeva sempre quel che succedeva, a differenza di lui, in questi casi è forse meglio reprimere il risentimento per non dare ragione a Scheler e attraverso di lui a Nietzsche, inventore dell'espressione. Serbiamoci per i neognostici, non prendiamocela con un neognostico avanti lettera, ammiratore di Cari Schmitt, di cui non sappiamo come avrebbe potuto evolvere. All'interno della bor-
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ghesia ognuno è il figlio di papà dell'altro. A Fortini Pintor sembra tale. Ma a me, che ho passato l'adolescenza alla periferia di Milano, Fortini, che a Firenze incontrava un monumento ogni dieci passi e un poeta ermetico ogni venti, appare un beniamino degli dèi. La verità è che siamo tutti privilegiati in partenza e che il privilegio culturale si è modificato e allargato, ma continua ad esserci. Se vogliamo combatterlo in noi e negli altri, mettiamo una croce sul risentimento. Altrimenti si dirà che è per vincere il risentimento, e non per fratellanza morale e politica, che ho detto a Fortini questo mio « Si figuri! » (1985)-
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Mi stupisce la disinvoltura con cui i critici identificano unanimemente l'autore di questo libro 1 con il noto editore. Che elementi hanno? Il risvolto ci dice soltanto che, «milanese, ha pubblicato nel 1979 il romanzo L'amore freddo». Punto e basta. Almeno l'attribuzione di certe sculture a Modigliani si fondava su testimonianze di chi l'aveva visto buttare qualcosa nei fossi di Livorno, ma qui chi ha visto l'editore portare nottetempo un dattiloscritto a Longanesi? Nessuno, ch'io sappia. Invece gli elementi in contrario sono numerosi. Ne elenco alcuni. 1) Perché mai il risvolto non menzionerebbe la professione abituale dello scrittore? Ci è mai stato taciuto che Primo Levi ha fatto il chimico e Tobino lo psichiatra? Forse perché in questo caso Longanesi farebbe pubblicità a un concorrente? Ipotesi ridicola. 2) Karl Kraus diceva che un poeta che legge è uno spettacolo indecente come un cuoco che mangia. Un editore che scrive è uno spettacolo non indecente, ma socialmente inconcepibile. Il fabbricante non fabbrica. Agnelli non fa l'operaio. Altrimenti si cadrebbe nella fantasia apologetica di quel giornale illustrato francese del secolo scorso in cui si vedeva un capitalista, con bastone e cilindro, che passava la domenica a provare un cannone davanti ad alti ufficiali, mentre in riquadri più piccoli i suoi operai si davano al bel tempo all'osteria o pescando. Dunque l'editore Garzanti sacrificherebbe la domenica a far chiacchierare la sua macchinetta (come si esprime l'autore di questo libro) mentre Francesco Alberoni sgavazza all'osteria e Mario Luzi pesca sulle spallette di Ponte Vecchio? An1
L. GARZANTI, Una città come Bisanzio, Longanesi, Milano 1985.
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diamo! Si sa benissimo che gli editori scrivono solo autobiografie (lecite a tutti, anche agli industriali), da cui il mestiere risulta senza bisogno del risvolto. 3) Di questi tempi, poi, gli editori non possono scrivere neanche autobiografie, visto che non fanno altro che lamentarsi di essere assediati dagli scrittori che vogliono essere pubblicati, invano respinti dai gorilla. E allora non vorranno aggravare la crisi contribuendo essi stessi all'inflazione della produzione. Meglio assoldare dei gorilla anche contro loro stessi, che li picchino se si mettono alla macchinetta, al contrario di quel che faceva il servo Elia con Vittorio Alfieri. A meno che non facciano apposta a scriver libri per mandare a picco i colleghi che li stampano (altra ipotesi assurda). Dimostrato cosi inoppugnabilmente che l'editore Garzanti non è l'autore di questo libro, occupiamoci del suo omonimo. Non ho letto il romanzo, ma da questi racconti risulta che è uno che sa scrivere, certo meglio di molti scrittori pubblicati dall'altro Garzanti. I racconti non sono scopertamente autobiografici, però si riferiscono sempre a esperienze reali che gravitano intorno a uno stesso soggetto di una certa età, appartenente all'alta borghesia milanese, impietoso osservatore soprattutto di fatti privati propri o altrui: di figli, mogli, antenati, parenti, amici, personaggi del suo ambiente. Nell'impietosità sta la sua forza. «Il loro amore fini con l'essere solo virtù», si dice di una coppia, e cosi s'ha da scrivere. Oppure della gente che affolla le docce dopo lo sport: «Un sedere piatto che intenerisce, o protuberante ed esuberante, un membro minuto o robusto, gambette magre e grossi polpacci, dicono più del volto di un uomo, sono disarmati, sinceri. La sincerità totale forse non può essere che squallida». Non forse: certamente. Il guaio è proprio che il Garzanti non ci crede del tutto, teme di vedere le cose cosi perché è cattivo lui. «Ma il mio pensiero negativo e perverso - scrive in uno dei migliori racconti, Oreste - vede il male anche in una favorevole disposizione della natura. Questo racconto ne è la prova; altrimenti perché lo avrei scritto?» Per questo, perbacco, solo che è il mondo, non lui a trasformare in male una favorevole disposizione della natura. Se la gente che ha il potere ha la faccia dei personaggi di Dallas, niente
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di più naturale che quel po' di anima che le resta si concentri dalla parte opposta, nel sedere e dintorni. Invece il Garzanti si meraviglia. I milanesi sono realisti, per ovvie ragioni, più di ogni altra popolazione italiana. Ma in ogni milanese c'è dentro un cattolico come il baco nella mela, e il cattolico fa marcire il realista, riabilitando la famiglia, la virtù ecc. che quello aveva scrutato nella loro vera essenza. Gli ùnici genitori milanesi plausibili, visti in modo non cattolico, sono quelli di Gertrude, ma il Manzoni ha tanto strombazzato il proprio cattolicesimo che nessuno se ne accorge. Degli altri scrittori, a cominciare da Emilio De Marchi, non c'è da fidarsi; la ragione per cui non ci sono coccodrilli allo zoo dei Giardini pubblici è che sono tutti mobilitati a inondare di lacrime i loro dattiloscritti, e un po' ne va a finire anche sulla macchinetta del Garzanti. Nel racconto Tennis c'è tutta la difficoltà del rapporto tra padre e figlio, perché «i padri per essere padri devono maledire sempre». Cosi è, però il Garzanti trova «divina» la parola padre, «come se arrivasse lontanissima dall'autorità dei patriarchi», tant'è vero che al narratore alla fine «sembrava di cominciare a sentire per suo figlio un affetto profondo». Ma insomma, il Garzanti è un cinico realista o è un patriarca affettuoso? Intendiamoci, siamo cosi malridotti che anche il Garzanti ideologo del patriarcato ha i suoi pregi di milanese di vecchio stampo. Dove la trovate ancora, anche a Milano, l'idea che le prove che i padri impongono ai figli o a se stessi nel tempo libero - la caccia, il tennis, il mare, i viaggi nel deserto ecc. - siano davvero prove iniziatiche, che lasciano cicatrici, educano allo stoicismo e insomma giustificano agli occhi dei ricchi la propria ricchezza e il diritto dei figli alla successione? Da nessuna parte, e invece qui c'è. «Nostro figlio si è comportato molto bene» dice alla moglie un padre reduce dalla caccia - «è stato molto bravo, non si è lamentato mai». Tanta virtù spartana è una ragione in più, se ce ne fosse bisogno, per escludere che si tratti dell'editore delle opere di Gianni Vattimo. Questo Garzanti scrittore non è certo un post-moderno.
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La virtù può ancora investire di blanda luce i tormentosi rapporti tra padri e figli, che risalgono purtroppo ai patriarchi, ma con l'amore (non paterno) e il sesso, che non sono mai stati la sua specialità, non ce la fa più e si trasforma in kitsch. «Gli occhi profondi di lei e quelli trascoloranti inquisitori di lui lasciavano filtrare appena l'immagine di un desiderio, la mano di lui era passata due o tre volte, a segnare le pause del dialogo, aperta sul viso arreso di lei e aveva raccolto il bisbiglio di un bacio ». Si vede che D'Annunzio era arrivato fino a Milano. Oppure lo si rilegge adesso? Si ha l'impressione che l'autore ostenti troppo la vecchiaia, la saggezza, l'esperienza e il conseguente cinismo dei suoi alter ego. Non sarebbe la prima volta che un giovane si mimetizza da vecchio. Dopo tutto ha scritto solo due libri, un traguardo che i più cauti tra gli scrittori italiani raggiungono verso la trentina. Se questo sospetto è vero, con le sue doti e il vantaggio di essere scambiato per l'editore è facile profetargli una brillante carriera in un momento in cui le vocazioni sono rare. Io lo preferirei meno moralista e più contento di essere malvagio, sicuro in questo di avere la solidarietà di Vattimo, ma forse noi siamo troppo vecchi per capire un esponente della tendenza neospartana che si sta profilando e che scalzerà il postmoderno. (1985)-
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Calvino e il «pathos della distanza»
Si sapeva che Calvino ha caro quello che Nietzsche chiamava il «pathos della distanza». Il sentiero dei nidi di ragno si chiude sulla constatazione di Pin che le lucciole « a vederle da vicino sono bestie schifose anche loro», cui il Cugino replica: «Si, ma viste cosi sono belle». Questo pathos della distanza, se è segno di elezione, è anche causa d'infelicità, incapacità di adattarsi alla realtà immediata, a quelle bestie immonde che sono per Pin le donne come sua sorella, la Nera del carrugio, o all'esaltazione bordelliera degli avanguardisti a Mentone. In questa tensione tra la solitudine nella distanza e la comunità necessaria, ma disgustosamente vicina e infida, vive l'opera di Calvino. In entrambe le situazioni estreme l'uomo è mutilato, e si tratta di ricomporlo, ciò che non può avvenire che nella favola. Ed ecco quella del Visconte dimezzato, che però staccava l'esperienza della mutilazione dalle sue premesse reali e ne faceva un'astratta separazione tra bene e male, un simbolo che le belle pagine e i miracoli stilistici non potevano redimere dal suo carattere di luogo comune stevensoniano. Col Barone rampante Calvino ha invece trovato la soluzione: ha insediato il suo eroe sulle piante, a una distanza tale da poter essere in rapporto con gli uomini e giovar loro senza essere offeso dalla sana, ma un po' maleodorante natura del popolo e da quella arida e crudele dei suoi nobili familiari. Ne è uscito il suo libro più lungo e persuasivo, accusato di «fantasia meccanica», mentre c'è da meravigliarsi piuttosto di come la fantasia abbia tenuto anche in quasi tutte le invenzioni secondarie, confermando la bontà della principale. Poiché c'era da vincere l'ostacolo della staticità della situa-
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zione. Calvino si è divertito, si sa, a fare un pastiche del Nievo: la villa d'Ombrosa è una specie di castello di Fratta, Viola una specie di Pisana e quel mezzo turco del Cavalier Avvocato una nuova edizione del padre Altoviti. Tuttavia le analogie non devono trarre in inganno, servono anzi a ribadire la differenza. Le Confessioni sono, specie nella prima parte, il solo vero Entwicklungsroman della nostra letteratura. La ripresa di certi loro motivi e personaggi nel Barone non può altro che sottolineare il fatto che qui di Entwicklungsroman non si tratta. E come potrebbe esserci evoluzione? Dal 15 giugno 1767 fino alla morte l'essenza di Cosimo Piovasco di Rondò è una costante inalterabile: è il vivere sugli alberi. Evolvere significa essere educati: Entwicklungsroman è lo stesso che Erziehungsroman. E Cosimo viene tanto poco educato che finisce con l'educare lui perfino l'aio di famiglia, l'abate Fauchefleur. Superati i primi problemi robinsoniani di adattamento all'ambiente è sempre lui che dispone, organizza, sorveglia: lui, doppiamente atto al comando, per natura e per posizione. Quindi nessuna educazione, nessuna esperienza che lo trasformi sostanzialmente. Anche Viola non è in fondo che l'immagine femminilmente esasperata di lui stesso: la donna arborea per l'uomo arboreo. Ma se il Barone non è un Entwicklungsroman, è dubbio anche che si tratti puramente e semplicemente di un romanzo, poiché non c'è un nodo fondamentale, un avvenimento o una serie di avvenimenti decisivi che mettano alla prova il carattere dei personaggi. Si sono ricordati i contes di Voltaire, e certo, a parte l'atmosfera settecentesca, c'è la stessa mescolanza di fantasia e .Moralità. E chiaro però che altro è la fantasia rigorosamente narrativa e funzionale di Voltaire e altro quella naturalistica di Calvino, rampante nei campi della zoologia e della botanica con intima partecipazione e sapienza quasi mai esornativa. Piuttosto, già a proposito del Sentiero, Pavese aveva fatto un altro nome più significativo: quello - nientemeno - dell'Ariosto. Richiamo valido anche qui, non certo per la pazzia amorosa di Cosimo, innocua anch'essa, anch'essa incapace di modificare il personaggio, bensì per il pathos della distanza. Se l'Ariosto riesce a superare le dis12
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sonanze del mondo guardandolo, come dice Croce, «con gli occhi di Dio», Calvino, più modernamente e modestamente, ci riesce guardandolo con gli occhi di un arboricolo. Poiché mentre lo scrittore di romanzi accetta sempre come dato certo problematico, ma ineliminabile, la disarmonia tra individuo e società, tra uomo e mondo, Calvino, poeta epico sperdutosi in tempi avversi all'epos, non vi si rassegna, e aspira a priori (e non, caso mai, come risultato di un lungo processo) a un'integrazione totale. E l'innocenza omerica appariva come alternativa ai problemi dei suoi personaggi: era il sentiero dei nidi di ragno, era la valle solitaria che si apre improvvisamente agli occhi di un adolescente uscito dalla paura e dall'eccitazione. Innocenza vera, non artificiale, arcadicoidillica, Erminia tra i pastori. Il modo calviniano di affrontare la « crisi del romanzo », anziché essere il ripiegamento sugli sconnessi balbettamenti «neorealistici», è stato la ricerca di una salda scrittura epico-lirica che gli permettesse di esprimere questa intrinseca unità tra individuo e cosmo; scrittura che egli ha efficacemente definito nella chiusa del Barone paragonandola all'intrico vegetale di Ombrosa, aereo, capriccioso e nervoso. Poiché il paesaggio di Calvino, sede inquieta di gente inquieta, non è quello riposato dell'Ariosto, «eulte pianure e delicati colli», né l'unità uomo-natura si effettua sulla base di uno statico idillio, bensì su quella di una profonda concordanza nel ritmo dinamico, di un accordo tra le pulsazioni del cuore e lo svettare e il frusciare delle piante, il filar via degli animali. Anzi, se si mette a descrivere, per reazione, personaggi oblomoviani, Calvino riesce subito meno persuasivo: nel Sentiero c'era Zena il Lungo, che leggeva il Supergiallo in mezzo alla battaglia tra tedeschi e partigiani; qui c'è Gian dei Brughi, brigante paralizzato dalla lettura di Clarissa e quindi arrestato e giustiziato, quasi simbolo della brutta fine che attende gli anarchici di Calvino quando rinunciano al moto perpetuo. Il quale è ciò che rimedia alla stasi della situazione, ciò che rende accettabile, e nientaffatto meccanica, la «fantasia meccanica» del libro. Cosimo non evolve mai, la sua essenza rimane tale e quale, ma la sua essenza essendo il movimento (e il movimento a mezz'aria), la varietà deriverà dai diversi modi in cui questa
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straordinaria essenza si ribadisce e si verifica, assorbendo tutto ciò che le è estraneo, succhiando a sé il mondo dei terricoli e lasciandosi indietro gli spagnoli di Olivabassa, arboricoli per necessità e non per elezione. L'unità epica del soggetto e dell'oggetto nell'essere-nel-mondo-degli-alberi deve continuamente affermare la propria autonomia, e siccome questa autonomia è, in ultima istanza, impossibile, si crea una continua tensione tra il pericolo di distruggerla e la possibilità di ribadirla. Anche l'irrequietezza culturale e linguistica, la glossolalia delle canzoni di Cosimo in fregola, le sue esibizioni nell'uso delle lingue straniere, la sua corrispondenza con gli illuministi e la sua attività di scrittore e giornalista vanno viste anzitutto nella prospettiva di questa autofondazione: la glossolalia sarà il linguaggio dell'uomo-uccello, dell'editore del Monitore dei Bipedi, dell'apolide che riassume tutte le esperienze della polis. Col che non si vuol dire che tutto ciò non sia, contemporaneamente, colorito storico settecentesco, e il lettore si divertirà assai al variopinto armamentario di riferimenti che Calvino sa trarre dalle letture sue e di Cosimo. Ma si tratta di due aspetti della stessa intuizione fondamentale. L'arboricolo poteva prosperare particolarmente bene al tempo della cultura cosmopolitica dei lumi, al tempo del mito dello stato di natura e del buon selvaggio, del barone di Lahontan e del viaggio di Bougainville. «La religion et le gouvernement - scriveva Diderot nell'introduzione alla Promenade du sceptique - sont des sujets sacrés auxquels il n'est pas permis de toucher... le plus sûr est d'obéir et de se t a i r ^ à moins qu'on n'ait trouvé dans les airs quelque point fixe horUle la portée de leurs traits d'où l'on puisse leur annoncer la vérité». Diderot aveva dunque previsto Calvino, cioè Vhomme sauvage d'Ombreuse aleggiava già nel '700 illuministico prima che Calvino ce lo ambientasse. Però Diderot, sia pure dopo essere stato in prigione, aveva finito per trovare qualche point fixe negli stessi salotti borghesi frequentati dai rappresentanti della religione e del governo, e forse per questo rinunciò a scrivere II barone rampante. La scomoda posizione del quale si attagliava assai meglio a uno di quegli aristocratici savoiardi alla Radicati di Passerano che, non
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avendo dietro di sé una borghesia cui appoggiarsi e con cui fare i conti, passavano direttamente ai sogni di palingenesi egualitaria. Abbiamo citato il giovane Diderot e Radicati di Passerano: se aggiungiamo quel russo decabristeggiante dal nome tolstoiano che appare alla fine del libro inseguendo le truppe napoleoniche non sarà difficile prevedere che tra cent'anni si farà qualche tesi di laurea con titoli di questo genere: Italo Calvino e Franco Venturi: contributo alla storia del socialismo anarchico nei suoi riflessi letterari. Sia lecito anticipare alcune delle conclusioni cui perverrà l'autore di una di queste tesi di laurea. «Emerge da quanto precede - egli scriverà - che il divertissement di Calvino è in qualche modo il punto d'approdo di tutta una tradizione italiana e più particolarmente subalpina per cui il soggetto aristocratico, sollevandosi con eroica volontà alfieriana al di sopra della sua classe, muove guerra ai tiranni che l'hanno generato. Calvino ha felicemente inteso alla lettera questo "al di sopra", inerpicando sugli alberi il suo ligure-allobrogo feroce, e creandosi cosi il distacco necessario a realizzare per quanto possibile la sua vena epica all'interno del romanzo. Vero è che la sussunzione della società nel soggetto non basta ad eliminarne il carattere trascendentale (in senso kantiano). Se anche si ripete dappertutto che Cosimo era più vicino agli uomini sugli alberi che sulla terra, resta il fatto che gli uomini devono guardare per aria onde ritrovare quella loro più verace immagine, e che gli interventi di Cosimo nel loro destino non possono andare più in là di progettazioni di opere idrauliche e fondazioni di massonerie sui generis-, progettazioni e fondazioni altrettanto allegre quanto la calata del barone in fregola sull'albero di cuccagna, da cui molto non differisce l'albero della libertà». «Ma ciò non autorizza in alcun modo certi marxisti settari, anche se acuti, quali il Pappafava (cfr. Su alcune tendenze antirealìstiche nella nostra letteratura dello scorso secolo: a proposito dell'articolo del compagno JosifVissarionovic Bielinskij sulla nozione di realismo, in "Rinascita", evi, n. 2, Roma 2049) a collocare Calvino nel novero degli antirealisti. Ché se non si può che sottoscrivere quanto afferma il Pappafava (p. 73), essere "la concezione di
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Cosimo una concezione sostanzialmente populista, che a un 'popolo' astrattamente concepito contrappone un'individualità rivoluzionaria senza tener conto della reale struttura delle classi e delle capacità rivoluzionarie del popolo stesso", ciò non significa che Calvino "sia al di fuori della realtà del suo tempo e ne evada in un Settecento mistificato in cui può rendere plausibili le sue nostalgie anarcoidi". Il Pappafava continua ricordando le pagine sulla rivoluzione francese e citando le note parole conclusive: "Insomma, c'erano anche da noi tutte le cause della rivoluzione francese. Solo che non eravamo in Francia, e la rivoluzione non ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti". Poi commenta malignamente: "Calvino avrebbe voluto che gli effetti di quelle cause si limitassero sempre alla redazione di Quaderni della doglianza e della contentezza in cui alle piaghe sociali si propone come alternativa l'appagamento di meschini desideri individuali, quali la focaccia e il minestrone, le bionde e le brune: insomma, quella specie di 'politica sociale' allora rappresentata da Achille Lauro. Nonché, beninteso, l'arrampicarsi sugli alberi". Il Pappafava dimentica puramente e semplicemente che il punto di vista di un'opera non è quello dei suoi personaggi, e nemmeno (spesso) quello del suo autore. Ammettiamo pure, per semplificare, che l'ideologia di Cosimo sia quella di Calvino (ciò che in questa forma è certo erroneo; cfr. in proposito il Knight, The Life and Thinking ofl. C., Princeton 2015, pp. 237 sgg.). Il "realismo" di quest'ultimo consiste appunto nell'aver trasformato (non intenzionalmente, accettando l'ipotesi precedente) la fantastica vicenda del barone in un giudizio storico sulla tradizione anarchico-aristocratica che questi rappresenta. Dicevamo dianzi che il libro del Nostro è, di quella tradizione, il punto d'approdo. Possiamo ora aggiungere: e anche l'autodissoluzione. Poiché Calvino l'ha sconsacrata togliendo all'eroe i coturni della tragedia, ironizzando le sue pose di tribuno, avvolgendo Bruto e Buonarroti nei fuochi pirotecnici del suo umorismo. Né si dimentichi che la storia è narrata da un fratello compiacente, ma non privo di scetticismo, sicché restiamo sempre in dubbio sulla veridicità delle imprese, sia amorose che militari, di cui si vantava un ba-
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rone che la vecchiaia aveva reso alquanto simile a quello di Münchhausen. Lo stesso rabesco che simpaticamente risuscita l'eroe anarchico, ne proclama la decadenza, poiché non sapremmo trasfigurare mitologicamente una figura storica senza sentirla, appunto, come storica, come non più operante nel presente, pur conservando essa una esemplarità fantastica simile a quella degli ariosteschi cavalieri antiqui. Il libro di Calvino, piaccia o non piaccia al Pappafava, è proprio la miglior prova che le "nostalgie anarcoidi", indipendentemente dalle intenzioni dell'autore, si appagano solo nella sfera del mito e dell'ironia e non hanno più nessun mordente ideologico. Lungi dall'evadere al di fuori della realtà del suo tempo, Calvino vi aveva ben fermi i piedi quando si slanciava sul grande elee di Ombrosa». «D'altra parte non ci sentiamo di accedere all'autorevole opinione del Kleinvogel, che nella sua fondamentale Geschichte der phantastischen Erzählung imxx. Jahrhundert (Stuttgart 2038, vol. II, pp. 695 sgg.) vede il culmine della cosiddetta "serie nobiliare" di Calvino in opere tarde quali il Duchino natante e il Marchese pneumatico. A noi sembra che nell'invenzione del Barone il Nostro abbia esaurito il meglio della sua vena fantastica, e del resto è noto come gli splendidi frutti della maturità e della vecchiaia cui è oggi soprattutto legato il suo nome riprendano, approfondendola e variandola, la problematica giovanile del Sentiero, del Corvo e dell 'Entrata in guerra, cerchino cioè di sanare, restando sul piano realistico, il conflitto tra anima solitaria e comunità sbagliata o imperfetta. Col che non vogliamo certo negare che il Duchino e altri racconti fantastici elogiati dal Kleinvogel (il quale ha peraltro trascurato quello Scabino daltonico su cui attirò giustamente l'attenzione, in un non dimenticato articolo della "Rassegna storica" del 2024, il Lomonaco) non contengano pagine divertentissime che spiegano a sufficienza l'ammirazione dell'illustre maestro di Marburgo». Dove si vede che, quanto a sfoggio di citazioni e all'arte di menare il can per l'aia, le tesi di laurea del 2057 non saranno da meno delle attuali. (1958).
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Marco Polo e Kublai Kan, sdraiati su amache, attingevano frutti squisiti da una coppa d'alabastro. «Messer Calvino - diceva Marco - si trova in grave distretta per aver riferito i nostri conversari sulle città invisibili1. A Populonia, città dove gli scrittori sono usi per legge a fare inchieste sociologiche sulla condizione dei contadini inurbati e no, Fra Gottifredi ha emanato un bando contro di lui2 dove riconosce che le sue città fantastiche diventano nel corso del libro vieppiù concrete, e alla fine "non ci sono più soltanto le città dei mercanti di lapislazzuli, ma anche quelle di periferie allucinanti e di ingorghi pestiferi di macchine... c'è l'oggi inabitabile", senonché questo oggi è a sua volta eterno e inafferrabile, onde l'autore è accusato di proporre soltanto "letteratura, arida e nevrotica (e infine volgare) letteratura". Calvino sperava di trovar ricetto in Adornia, che come sai è sita esattamente agli antipodi di Populonia, ma il Mago Perlino, che colà regge, gli ha proibito l'ingresso temendo che egli porti lo spirito della sovversione nelle cloache in cui albergano gli scrittori adorniti, i quali giammai possono vedere la luce, poiché ritengono che le cloache offrano la più verace immagine del mondo esterno. Ma Calvino già da giovane spediva Marcovaldo in cerca di erbe e uccellini sui tetti delle città, e ora chiude Le città invisibili invitando a "cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno". Questo è un palese affronto alla dottrina adornita per cui esiste soltanto l'inferno, e il non-inferno si può soltanto ricavare da esso con la dialettica negativa. Perciò il Mago Perlino 1 2
I. CALVINO, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972. G. FOFI, Troppo e troppo poco, in «quaderni piacentini», n. 48-49, gennaio 1973.
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ha cacciato via il prevaricatore, esortandolo a tornare a Populonia poiché solo li s'immagina che si sia preservato il non-inferno. Mogio mogio, Calvino tornò a Populonia e questa volta Fra Gottifredi, pur confermando il bando, l'accompagnò personalmente in quella città di Cabala donde egli era venuto e dove Gottifredi intendeva confinarlo. Or tu sai che Cabala è città bellissima, aerea, costruita di frasche, a centoventi giornate per terra e per aria da ogni altro luogo, ed è detta anche la città delle Cento Nazioni, perché i due re Borges e Cortazar sono argentini ma comandano a mille cuochi francesi che di giorno preparano manicaretti di parole crude e cotte, aiutati da diecimila sguatteri di altri paesi (tra cui molti italiani), e di notte studiano il linguaggio dei tarocchi o quello delle stelle. A Cabala Calvino annovera molti amici: secondo alcuni egli sarebbe addirittura uno dei fondatori della città, quel che è certo è che vi aveva scritto gli ultimi suoi due libri prima di questo. Egli fu quindi accolto con tutti gli onori, e subito uno stuolo di cento librimensori si impadronì del suo volume squadernandolo da ogni parte e constatando con soddisfazione che adempie alle regole più severe: è diviso in nove sezioni di cui sette di cinque capitoletti ciascuna e due di dieci, senza contare le cornici con i nostri colloqui; inoltre le città sono divise in undici rubriche, ognuna delle quali ne contiene cinque, e ogni sezione di cinque capitoletti comprende cinque città di cinque rubriche diverse; in ogni sezione manca una rubrica che figurava in quella precedente e ce n'è una nuova, mentre i resti confluiscono nelle due sezioni da dieci capitoletti, che a loro volta sono specularmente simmetriche. I librimensori si estasiavano sulla sapienza numerica qui depositata, ritrovandovi Dante e Raimondo Lullo, 10 Zohar e gli anagrammi di Saussure, la cabala del lotto e Lucia Alberti. Insomma, essi erano convinti di essere di fronte al Libro per il Libro, al Libro in sé, e avevano cominciato a contare anche le parole e le sillabe, per vedere se per avventura anche li regnasse 11 misticismo dei numeri, nel qual caso avrebbero proclamato Messer Calvino terzo re di Cabala, col consenso degli altri due, quando un librimensore noto per la sua maligna pedanteria mise il dito sull'affermazione che "la menzogna non è nel discorso
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è nelle cose". Apriti cielo! Invano Fra Gottifredi usci in una gran risata assicurando che si trattava di uno scherzo, i cabalitani non la intendevano cosi: chi sostiene questo, dissero, con ciò stesso sostiene che le cose vengono prima del discorso e sussistono senza di esso, mentre il primo articolo della costituzione cabalitana suona notoriamente "II discorso è tutto". In un attimo Calvino passò dal Campidoglio alla Rupe Tarpea: non solo fu ignominiosamente cacciato dalla città, ma gli tirarono dietro anche i manoscritti autografi delle Costnicomiche e di Ti con zero, fino allora vanto del Museo Nazionale Cabalitano delle Strutture Superflue. Fra Gottifredi, deprecando la cabalitana stoltezza, se n'è tornato a casa sottobraccio a uno scrittore populonico di punta, Saverio Strati, mentre Calvino erra solo per le campagne, e le tue guardie non lo lasciano varcare i confini del Cataio poiché lo accusano di aver captato i nostri colloqui con metodi alla Tom Ponzi». «In verità, - rispose Kublai Kan - le disavventure di Messer Calvino mi stanno molto a cuore. Anch'io ho letto il bando di Fra Gottifredi da Populonia e lo trovo pieno di acute osservazioni, da cui però si potrebbero trarre argomenti opposti ai suoi. "Troppo e troppo poco", ci dà Calvino al dire di Gottifredi, ma ciò non vale forse per ogni opera di letteratura ai giorni nostri? Poiché essa è di troppo in quanto la dissoluzione dell'impero e l'orrore delle città possono essere detti in una sola riga - argomento capitale contro le dottrine di Adornia - , ed è troppo poco in quanto il dirlo, in una o in diecimila righe, non cambia nulla, anche se lo scrittore vuole additarci quel che non è inferno. Deve egli allora abbandonare la letteratura per dedicarsi a trasformare l'inferno? Tale sembra essere il monito di Gottifredi, ma poi anch'egli contrappone letteratura a letteratura, e ti vanta gli scrittori di Populonia. Io sono invece dell'avviso che torni ad onore di Calvino l'esser stato cacciato dalle tre città letterarie, e in particolare da Cabala, dove troppo a lungo aveva soggiornato, si che a ragione si poteva temere per la salvezza dell'anima sua, mentre questa volta ha dimostrato di saper percorrere tutti i gironi di quella città per ottenere scopi opposti a quelli che in essa si perseguono.
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Onde a ragione i cabalitani si lamentano dell'inganno, che per il lettore non prevenuto è una lieta sorpresa. Certo, una sorpresa faticosamente conquistata, poiché egli deve a lungo aggirarsi e sperdersi in raffinate fantasie geometriche prima di trarne il succo reale; indugiare tra i mercanti di lapislazzuli prima di giungere alle nostre città. Fatica aggravata dalla suprema eleganza del linguaggio, che non irrita solo Gottifredi, ma che non è irritante perché è l'eleganza del vuoto, come crede costui, sibbene perché mantenendosi costantemente librata in esso ammicca a un senso che si dipana solo insensibilmente e non vuol mai interamente dischiudersi come tale. Cosi Calvino ha adempiuto al difficile compito di salvare la parola senza abbandonarla al puro gioco. Forse aveva ragione Benjamin di dire che la parola può salvarsi solo rinascendo dalla sua estrema prostituzione. Certo, meglio la prostituzione del gioco. Ma poiché finora dalla prostituzione la parola non accenna a rinascere, perché non riconoscere a Calvino il merito di aver tenuto legati alla terra, con sottili trame di cordicelle, quei palloncini della parola nobile che anche in lui minacciavano di esiliarsi nei cieli del gratuito? Non c'è una via regia perché lo scrittore non si vergogni di essere tale in tempi inclementi, e invano le tre città letterarie pretendono di averla indicata nei loro statuti. Perciò darò ordine alle mie guardie che non solo accolgano onorevolmente Calvino nel mio impero, ma gli lascino costruire la sua città, ancorché egli debba esserne l'unico abitante e non ricevere alcun premio letterario. Io comunque gli conferirò l'Ordine del Leone Solitario e della Lince Vigile, che riservo a coloro che, su uno spalto anche minimo della Grande Muraglia, hanno ruggito contro il nemico e affisato senza paura l'inferno delle città». «Non sarei cosi precipitoso, - replicò Marco. - Calvino ha appena ricevuto dal Presidente Leone un premio dei Lincei, sicché il tuo Ordine del Leone e della Lince apparirebbe copia o parodia anche se concepito come antidoto. Né io oso sperare che questo libro resti senza premi letterari. Temo anzi che, sopite le prime tempeste, ne riceva quattro in una volta: uno a Populonia,
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nonostante le proteste di Gottifredi, uno a Adornia e due a Cabala. Anche le città letterarie sanno da gran pezza qual è il modo migliore per domare i leoni e accecare le linci ». (1973)-
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Non si può parlare di un amico appena morto come per fare una voce di enciclopedia, né d'altra parte si può abborracciare qualsiasi cosa con la scusante della commozione. Il meglio, per la commozione, è star zitta. Si può invece provare a rispondere alla sola domanda che ci si è già posti tante volte in vita: che cosa amavi o ammiravi o invidiavi di più in lui? Per Calvino non avrei dubbi: il fatto che non era mai un dilettante. Anche prima che gli intellettuali fossero presi nella bufera infernale che li spinge a fare di tutto e da cui Calvino si difendeva abbastanza bene, ma che non sarà forse estranea, in ultima istanza, alla sua morte inattesa e precoce, egli aveva molte corde al suo arco e nessuna mandava un suono improvvisato. La sua straordinaria capacità di lavoro gli faceva trovare e assimilare subito gli strumenti di cui aveva bisogno. In questo c'entrava indubbiamente l'eredità dei genitori, entrambi scienziati. Portava un certo abito mentale scientifico in campi in cui esso non è di casa e in cui siamo tutti più o meno dilettanti. Non era un dilettante, ovviamente, come scrittore, anzi l'estrema perizia tecnica fu usata talvolta contro di lui come capo d'accusa. Di Se una notte d'inverno un viaggiatore si disse contemporaneamente che era stato scritto per uso di Maria Corti e come bestseller sofisticato. Ma egli stesso, in un famoso saggio, aveva distinto gli scrittori «loici» dai «viscerali» ed egli era certamente un «loico» (per Céline, il più viscerale di tutti, non ebbe mai la minima simpatia anche quando era diventata d'obbligo). L'essere loico lo avvicinò talvolta alla letteratura come gioco, che a molti non piace, ma gli permise di uscire dal realismo dei suoi primi li-
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bri, che restano forse i suoi capolavori, quando fu passata l'ora storica che l'aveva reso possibile. L'ultimo scritto di questo tipo, La giornata di uno scrutatore, aveva poco mordente. L'esperienza non serviva più, i registi cinematografici cominciavano a coprire la natura di vernice. Calvino, che nella trilogia aveva già usato l'irreale per fare del realismo, si servi sempre più della parola per rendere attraverso di essa l'esperienza della distruzione dell'esperienza. Linguisticamente raggiunse la perfezione. Che piacesse sia a Maria Corti che al lettore comune, non meraviglia. Non era un dilettante nel lavoro editoriale, che per anni fu la sua occupazione principale, cui accudiva con impegno e puntualità e con cui non perse mai il contatto. Conosceva tutti gli aspetti del mestiere, ma era soprattutto un lettore incomparabile di libri stranieri e di dattiloscritti italiani, su cui, quando poteva, riferiva personalmente nelle riunioni editoriali einaudiane. Cominciava, come Hegel secondo i ricordi di Hotho, a fatica, con molta lentezza, con balbettamenti e borborigmi, muovendo un po' le braccia come per aiutarsi; poi prendeva l'aire, si ricomponeva, parlava in tono assorto per lo più col pugno sotto il mento, guardando davanti a sé quando diceva le cose meno importanti e abbassando la testa e atteggiando la bocca in espressione grave o beffarda quando arrivava al dunque e il libro veniva ora lodato, ora dannato, ora ammesso con la voce e negato con le labbra, dopo di che la testa si risollevava e il tutto si suggellava con un assenso definitivo 0 con una risata strozzata che esplodeva in quella degli ascoltatori. Era uno spettacolo eccezionale, ma non era uno show, era anche questa una tecnica seria in cui gli alti e i bassi, le pause, i soprassalti, l'uso della sordina e degli pitoni trasmettevano le fasi e 1 ripensamenti di un processo di lettura tanto impegnativo quanto fruttuoso. Non era un dilettante come critico e come autore di interventi politici, finché valeva la pena di farne. Ci mise Una pietra sopra, ma sotto quella pietra ci sono molti saggi che occorre sempre rileggere. E non era un dilettante come studioso di fiabe e di folklore, emulo di Pitrè e di Serafino Amabile Guastella. In questo campo sapeva benissimo che, se avesse voluto, i titoli per una
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cattedra non gli mancavano. Quando temeva di non poter uscire dal dilettantismo, non esitava a far marcia indietro. Verso il i960, dopo un viaggio negli Stati Uniti seguito a un altro in Unione Sovietica - caso allora assai raro, non essendo ancora cominciata la grande ridda degli scrittori giramondo - scrisse un libro sull'esperienza americana in cui tra l'altro metteva a confronto le due civiltà, insistendo (mi disse qualcuno che l'aveva letto e apprezzato) sull'importanza della geografia e rispettivamente della storia nella loro formazione. O che questa chiave gli sembrasse troppo frivola, o che qualche specialista gli avesse sconsigliato la pubblicazione, fatto sta che il libro - di cui mi pare che fosse già apparsa qualche anticipazione in una rivista - fu ritirato quando era già in bozze, e l'inesorabile Calvino fece distruggere i flani perché nessuno potesse ristamparlo. Quella volta ci mise davvero una pietra sopra. Non so se avesse ragione o torto, so che nessun altro l'avrebbe fatto. Poi andò, chissà, forse in Tanzania o in Indonesia: gli scrittori come i professori non si possono più seguire nei loro spostamenti. Ma ch'io sappia non tentò mai di persuaderci che aveva capito la Tanzania in due giorni. Non era un dilettante, e quindi parlava e scriveva poco o nulla della morte, che non conosciamo per la semplice ragione che quando c'è lei, diceva Seneca, non ci siamo più noi. Ma anche sulle malattie e sulle traversie, di cui si può parlare con competenza, taceva. Ciò che gli piaceva e che regalava ai suoi personaggi era l'avventura, l'imprevisto anche se modesto, come lo spuntare dell'erba nelle crepe dei casermoni delle città, per non parlare di quello che mobilitava tutte le risorse della sua fantasia. Invece non sentiva il pathos della sofferenza quotidiana. Uno dei suoi capi d'accusa contro Céline era l'autocommiserazione. «A me diceva - non piacciono quelli che si lamentano». Solo una volta mi parlò di quel suo lunghissimo intestino che per anni gli diede seri disturbi. Ma non si può dire che se ne lamentasse. Accennava con le mani all'atto di sgomitolarlo per mostrare quanto fosse complicato e interminabile, con un certo rassegnato disgusto come se si fosse trattato di un pessimo romanzo, altrettanto complicato e interminabile, con cui doveva fare i conti. Si capisce che
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non rientrasse nella categoria degli scrittori «viscerali». È di li, per quei visceri insidiosi e rinnegati, che la morte avrebbe dovuto passare per colpirlo, tra molti anni, forse anzi senza riuscirci mai perché si sarebbe persa nel labirinto. Invece l'ha colpito nell'organo dei «loici», in uno dei migliori cervelli della nostra generazione, mentre era dedito a quell'operazione che compiva e faceva compiere cosi bene: la lettura. La malizia della morte è infinita e di fronte ad essa, purtroppo, siamo tutti dilettanti. (1985)-
Un illuminista irrazionalista
I devastati paesaggi e i minacciosi orizzonti della civiltà attuale hanno creato un personaggio finora inconcepibile, una specie di triangolo quadrato: l'illuminista irrazionalista. I vecchi avversari reazionari della ragione la odiavano perché metteva in dubbio i privilegi dei «migliori» e il loro diritto alla «vita», e di questo c'è molto anche in Nietzsche, sebbene i suoi ammiratori se ne dimentichino spesso. Invece i nuovi irrazionalisti attribuiscono la razionalità ai potenti ed esortano le masse a ribellarsi in nome della vita da essa negata. Di illuministi irrazionalisti ce n'è ormai dappertutto, ma spesso non si capiscono o sono troppo accademici, quindi illuministi per modo di dire. Noi possiamo vantarci di aver dato i natali a un esemplare genuino della specie, Franco Ferrucci, già noto come saggista e romanziere. Questa Lettera a un ragazzo sulla felicita , scritta limpidamente in ottimo italiano, riprende in tutta la sua vivacità un genere settecentesco, compresa un'appendice meno simpatica: la figura del precettore. Ferrucci non molla mai il suo ipotetico ragazzo, lo attira a Fregene con il pretesto di fare il bagno ma in realtà per mostrargli un ragno che si pappa una farfalla, perfino in viaggio non lo lascia vivere e gli scrive da Colmar, sulla via di Parigi e poi da New York, per spiegargli come li ci sia un bellissimo incrocio di varie civiltà. Il ragazzo, immaginario com'è, non può reagire, altrimenti penso che risponderebbe pressappoco: «O Ferrucci mio, queste cose non potevi scrivermele anche da Zagarolo? O vuoi mostrarmi che tu sei di casa in tutte 1
Bompiani, Milano 1972.
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queste città che io magari non vedrò mai, cioè insomma che sei un cittadino di prima classe, di quelli che ostenti di disprezzare? » Il precettore è un personaggio che già nella sua epoca mostra i limiti dell'illuminismo, ed è difficile mettere d'accordo il sistema educativo dell'Emilio con la democrazia integrale del Contratto sociale. Ma, a pensarci bene, Ferrucci non poteva fare a meno di risuscitarlo. Parlando da questo pulpito, e a un ragazzo sprovveduto, egli può parlare in tono insieme conversevole e apodittico, usando metafore, trinciando giudizi che non resisterebbero a un esame approfondito. Per esempio: Schiller, uno dei pochi autori raccomandati da Ferrucci, è di moda, si sa, per aver equiparato l'arte al gioco, ma non aveva ragione Adorno di obiettargli che questo è coazione a ripetere e che l'arte è proprio il suo contrario? Oppure: c'è una bella tirata contro la smania dell'originalità, da raccomandare caldamente al Ministero della Pubblica Istruzione, che esige «contributi originali» da tutti, maestri d'asilo o professori universitari, invece di preoccuparsi che costoro sappiano davvero le cose importanti. Ma quando Ferrucci tuona contro «Mussolini, Hitler, Lenin, Trockij, Stalin, Mao» come «intellettuali dominati dal bisogno ossessivo di "originalità" a tutti i costi » ci si chiede se a furia di disprezzare la politica non se ne sia persa la nozione. Naturalmente i signori predetti, buoni o cattivi che fossero, non si consideravano affatto «originali», anzi intendevano sempre esprimere la cosa stessa, la necessità imprescindibile, la voce del popolo. Né più né meno come Ferrucci. In particolare Mao, che esortava gli scolari a copiare dal compagno di banco, avrebbe diritto di sporgere querela per calunnia. Ma passiamo alle tesi fondamentali del libro, che sono poi molto semplici. C'è una sola sostanza, la vita, che è contraddittoria (dato che il ragno di Fregene mangia la farfalla, che è vita anch'essa), ma aspira a un'autocoscienza, possibile nell'uomo, che può sciogliere questa contraddizione. La tendenza irrazionalista sta nell'abolizione della tensione tra natura e cultura (di qui forse l'antipatia per Freud, che è il moderno teorico che più vi ha insistito): la seconda dovrebbe essere una semplice prosecuzione del13
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la prima. Se non lo è, è in buona parte per colpa degli «intellettuali» e dei «filosofi», che non capiscono ciò che è accessibile ai ragazzini e contro cui l'autore spara molte cartucce, a costo di rendersi impopolare tra loro (Emanuele Severino, fattosi più realista del re, si è indignato sulla « Stampa» perché le librerie cattoliche di Brescia espongono un libro in cui si elogia la masturbazione). Come abbiamo visto, anche Hitler è bollato come intellettuale «originale», benché quanto a vitalismo non fosse da meno di Ferrucci. In generale il treno della storia è guidato da macchinisti intellettuali che lo portano a perdizione. Questa vecchia metafora benjaminiana del treno è sfruttata egregiamente nell'ultima parte, dove le semplificazioni ferrucciane diventano terribilmente convincenti. Nessuno come lui sa descrivere la follia di questi viaggiatori che si disputano i posti di prima classe anziché domandarsi dove va il treno e se non sarebbe meglio espellere i macchinisti e mettersi loro stessi alla guida per approdare in quel reame della felicità che per lui è (un po' troppo, se vogliamo) a portata di mano. I ragazzi di oggi hanno bisogno proprio di queste verità. Perciò non date retta alle obiezioni di Tizio e Caio, di Severino e del sottoscritto o di altri pedanti, e regalate questo libro ai vostri figli. E più breve perfino della loro bibbia, il Siddharta di Hesse, ed è molto meglio sia come idee che come stile. (1982).
Indice dei nomi
Adorno, Theodor Wiesengrund, 96, 1 1 5 n, 124.J77Agnelli, Giovanni, 156. Alberoni, Francesco, 156. Alberti, Lucia, 168. Alciato, Andrea, 7. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond d', 22. Alfieri, Vittorio, 9, 27, 157. Aretino, Pietro, 20. Améry, Jean, pseudonimo di Hans Mayer, i44> 145. 147Ariosto, Ludovico, 4, 6, 7, 1 6 1 , 162. Aristofane, 18. Ascoli, Graziadio Isaia, 9, 12, 1 3 , 15. Asor Rosa, Alberto, xiv. Auerbach, Erich, 3. Balestrini, Nanni, 107, 1 2 5 n. Balzac, Honoré de, 39. Banfi, Antonio, 43. Barbier, Henri-Auguste, 10. Baretti, Giuseppe, 9. Bargagli, Girolamo, 17. Bassani, Giorgio, 89, 96. Badilo, 1 5 1 . Battisti, Cesare, 53. Beccaria, Cesare, 9. Beccaria, Gian Luigi, 1 2 , 1 3 , 16. Beckett, Samuel, 8, 1 1 6 e n, 147. Beethoven, Ludwig van, 1 4 1 . Benda, Julien, 42. Benjamin, Walter, 1 1 6 e n, 170, 178. Berchet, Giovanni, 9. Bernanos, George, 55. Bertinetto, Pier Marco, 15. Bertolucci, Bernardo, 105 n. Bettelheim, Bruno, 146. ^ Bismarck-Schònhausen, Otto, principe di, 73-
Boccaccio, Giovanni, 4, 5, 7. Boileau-Despréaus, Nicolas, 6. Boll, Heinrich, 124 e n. Bongiorno, Mike, 1 3 , 16. Borboni, dinastia, 37. Borchardt, Rudolf, 8. Borges, Jorge Luis, 168. Borsellino, Nino, 18. Bougainville, Louis-Antoine, barone di, 163. Braker, Ulrich, 127. Bradbury, Ray, 138. Brancati, Vitaliano, 75. Brecht, Bertold, 106, 122. Bruckner, Ferdinand, pseudonimo di Theodor Tagger, 99. Bruni, Francesco, 1 3 , 14. Bruno, Giordano, 6. Bruto, Marco Giunio, 165. Buonarroti, Michelangelo, 165. Burckhardt, Jakob, 72. Biirger, Gottfried August, 9. Calvino, Italo, xn, 160-70, 1 7 2 , 1 7 3 . CamSes, Luis de, 6. Camus, Albert, 129. Capuana, Luigi, 37. Cartland, Barbara, 39. Carducci, Giosuè, 10. Cases, Cesare, XIII. Cassola, Carlo, 89, 96. Castelvetro, Ludovico, 6. Castiglione, Baldassarre, 5. Caterina II, imperatrice di Russia (17621796), 21. Cattaneo, Carlo, 44. Cavour, Camillo Benso, conte di, 1 3 . Céline, Louis-Ferdinand, 107, 1 4 1 , 142, i 7 2 . T 74-
18 2
Indice dei nomi
Ceronetti, Guido, 1 3 , 146. Cervantes Saavedra, Miguel de, 8. Cesare, Caio Giulio, 55, 68. Cesarotti, Melchiorre, 8, 9. Chaucher, Geoffrey, 4. Choiseul, duchessa di, 28. Chiabrera, Gabriello, 8. Cigala, Lanfranco, 3. Cioran, E. M., 146. Citati, Pietro, 90, 91, 96. Claudel, Paul, 8. Cortàzar, Julio, 168. Corti, Maria, 14, 15, 172, 173. Crashaw, Richard, 7. Croce, Benedetto, 50, 162. D'Annunzio, Gabriele, 8, 10, 53, 74, Dante Alighieri, 3-5, 7, 8, 137, 142, 168. Debenedetti, Giacomo, 102. De Giorgi Bertola, Aurelio, 9. Del Buono, Oreste, 1 1 3 n. Della Casa, Giovanni, 5, 7. Del Vecchio, Felice, xi, xn, 126-36. De Marchi, Emilio, 43, 158. De Martino Ernesto, 99. De Mauro, Tullio, 1 3 . Denina, Carlo, 9. De Roberto, Federico, 37-40. De Sanctis, Francesco, 30-32, 35. Descartes, René, 42. Devoto, Giacomo, 1 2 , 50 e n, 64. Diderot, Denis, 21-23, 26> 27, 33, 92, 164. Donne, John, 5. Dossi, Carlo, 43, 48. Dostoevskij, Fédor Michajlovic, 39, 113,121. Douglas, Norman, 56. Duse, Eleonora, 95. Dylan, Bob, 1 4 1 , 142.
159. 145,
163,
104,
Eco, Umberto, 1 3 , 95. Eliot, Thomas Stearns, 8. Engels, Friedrich, 86. Enzensberger, H. M., 1 1 5 n. Epinay, Louise-Florence-Petronille Tardieu d'Esclavelles, detta Madame d', 24, 26. Etiemble, 13. Faurisson, Robert, 147. Fenoaltea, Giorgio, 74.
Ferrucci, Franco, 176-78. Flaubert, Gustave, 1 1 3 n. Florio, Giovanni, 5. Fofi, Goffredo, xrv, 120 n, 138, 167170. Folengo, Teofilo, 6, 68. Fontenelle, Bernard Le Bovier de, 34. Fortini, Franco, pseudonimo di Franco Lattes, 78, 138, 1 4 1 , 151-55Fortunato, Giustino, 133. Foscolo, Ugo, 9. Francesco I di Valois, re di Francia (1515i547)..5Freud, Sigmund, 19, 1 1 4 , 128, 177. Frisch, Max, 92. Frizzoni, Teodoro, 30. Frutterò, Carlo, xn, 13. Gadda, Carlo Emilio, XI-XIII, 41-69, 1 1 6 n. Galiani, Ferdinando, xi, xiv, 9, 21-28. García Márquez, Gabriel, 106. Garcilaso de la Vega el Inca, 5. Garzanti, Livio, 156-58. Geoffrin, Marie-Thérèse Rodet, 21. George, Stefan, 8, 55. Gessner, Salomon, 8. Giannone, Pietro, 27. Gide, André, 73. Giraldi Cintio, Giambattista, 6. Giuliano, Salvatore, 72. Goethe, Johann Wolfgang von, 7, 8, 32, 90, 9 1 , 96, n o , 1 3 3 , 1 4 1 , r42. Goldoni, Carlo, 9. Gozzano, Guido, 98. Gor'kij, Maksim, pseudonimo di Aleksej Maksimovic Peskov, 76, 86. Gramatica, Irma, 95. Gramsci, Antonio, XI-XIII, 28, 3 1 , 32, 34, 43. 67, 1 2 3 , r33, 154. Grandville, pseudonimo di Jean-IgnaceIsidore Gérard, 19. Greene, Graham, 72. Grimm, Jacob, 2 1 , 25, 28. Grimmelshausen, Hans Jacob Christoffel von, 7. Garzoni, Tommaso, 7. Gryphius, Andreas, 5. Guastella, Serafino Amabile, 173. Gueglio, Vincenzo, 1 1 3 n. Guglielmi, Angelo, r09, n o . Guglielmi, Guido, 15. Guicciardini, Francesco, 74.
Indice dei nomi Hamann, Johannes Georg, 27. Harding, Peter, 124 n. Hauser, Gayelord, 39. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 27, 30, 33,48, 49 n, 86, 1 4 1 , 154, 173. Heidegger, Martin, 47, 153. Heine, Heinrich, 10. Heinsius, Daniël, 5. Helvétius, Claude-Adrien, 22. Hesse, Hermann, 178. Hitchcock, Alfred, 37. Hitler, Adolf, 177, 178. Hoffmann, Ernst T. A., 48. Holbach, Paul Henri Dietrich, barone d', 22, 28. Honoré d'Urfé, 6. Hooft, Pieter Corneliszoon, 5. Hotho, Heinrich Gustav, 173. Hugo, Victor-Marie, 10. Humboldt, Wilhelm von, 12. Ibsen, Henrik, 10. Jabès, Edmond, 153. Jean Paul, pseudonimo di Jean Paul Friedrich Richter, 48-50. Johannes von Neumarkt, 4. Johannes von Tepl, 4. Jorge de Montemayor, 6. Jovine, Francesco, 81. Joyce, James, XII, 65, 107, 1 1 0 . Jünger, Ernst, 23. Kafka, Franz, xn, 96, 1 1 0 , i n , 1 1 6 , 129, 137Kant, Immanuel, 35, 47, 56. Kierkegaard, Sören Oabye, 47. Kleist, Heinrich von, 92. Klemperer, Victor, 148. Kraus, Karl, xin, xiv, 8 2 , 1 2 4 , 1 4 5 , r j 6 . Krauss, Werner, 148. Kugelmann, Ludwig, 1 1 5 n. Lahontan, Louis-Armand, 163 La Fontaine, Jean de, 7. Latini, Brunetto, 3. Laurenzi, Carlo, 95. Lauro, Achille, 165. Lawrence, David Herbert, 8, 56, 72. Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Jl'ic Ul'janov, 86, 154, 177. Leonardo da Vinci, 42. Leone, Giovanni, 170.
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Leopardi, Giacomo, 9, 27, 35, 39, 58, 7 1 , 145Lepschy, Giulio, 1 3 , 14. Levi, Carlo, xn, 98-103, 126, 128, 129 n, Levi, Primo, 137-49, I 56Liala, pseudonimo di Liana Negretti, 104. Lucentini, Franco, XII, 13. Luigi X V I di Borbone, re di Francia (17741792), 33Lukàcs, Gyòrgy, XH, XIII, 70, 77, 1 4 1 , 154. Lullo, Raimondo, r68. Lussu, Emilio, 54. Luzi, Mario, 156. Luzzati, Luigi, 52. Machiavelli, Niccolò, 6, 24. Madrignani, Carlo A., 37-38. Maffei, Scipione, 9. Malabaila, Damiano, vedi Levi, Primo. Malaparte, Curzio, 74, 120. Malerba, Luigi, r3. Mallarmé Stéphane, 42. Manganelli, Giorgio, 109 n, n o . Mann, Thomas, 10, 65, 73, 76, 106. Manzoni, Alessandro, xi, XII, xiv, 7, 9, 10, 12-15, 30-35, 44, 65, 106, 1 1 4 , 145, 1 5 1 , 158. MaoTse-tung, 154, 177. Marcuse, Herbert, 1 1 5 . Margherita di Valois-Angoulème, regina di Navarra (1527-49), 5, 6. Marino, Giambattista, 7. Marlowe, Christopher, 6. Martinetti, Pietro, 43. Marnilo, Michele, 5. Marx, Karl, 33, 34, 73, 86, 1 1 5 n, 153, 154. Maupassant, Guy de, 37. Mayeul, 27. Mazzini, Giuseppe, 9. Meister, 28. Melchiorri, Enzo, 95. Mencetic, Sisko, 5. Mérimée, Prosper, 71. Metastasio, Pietro Trapassi, detto, 27. Mills, Charles Wright, 94. Milton, John, 7. Mirabeau, Victor de Riqueti, marchese di, 23, 33Modigliani, Amedeo, 156. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 85. Momigliano, Arnaldo, 30.
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Indice dei nomi
Montale, Eugenio, 47. Montefoschi, G., 1 1 2 n. Montesquieu, Charles-Louis de Secondar, barone di La Brède e di, 56. Monti, Vincenzo, 9. Morante, Elsa, 104-25. Moravia, Alberto, pseudonimo di Alberto Pincherle, 59, 75, 122. Muscetta, Carlo, xn, 30-32, 35, 70, 78-84, 86, 87. Musil, Robert, xn, 8, 41. Mussolini, Benito, 54, 55, 63, 72, 74, 178. Negri, Gaetano, 49. Nestroy, Johann, 107. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 10, 147, 153, 154, 160, 176. Nievo, Ippolito, 1 6 1 . Nordau, Max, 45. Omero, 145. Opitz, Martin, 5. Ortese, Anna Maria, 84. Ostellino, Pietro, 153. Paoli, Roberto, 125 n. Parini, Giuseppe, 9. Pascal, Blaise, 149. Pascoli, Giovanni, 63. Pasolini, Pier Paolo, 1 1 4 , r2o, 122, 123 e n. Patti, Ercole, 95. Pavese, Cesare, 10, 1 6 1 . Petrarca, Francesco, 4, 5, 7. Petrucci, Fabio, 18, 19. Peverelli, Luciana, 86. Pianciola, Cesare, 1 4 1 . Pinochet, Augusto, r52. Pintor, Giaime, 155. Pintor, Luigi, 154. Pirandello, Luigi, 10. Pitrè, Giuseppe, 173. Platone, r8. Polo, Marco, 3. Porta, Carlo, 43, 44, 97. Pound, Ezra Loomis, 8. Prati, Giovanni, 63. Pratolini, Vasco, xi, 70, 75, 77, 78, 83-87. Pregliasco, Marinella, 14. Proust, Marcel, xn, 88, 130. Puccini, Dario, 30. Pulci, Luigi, 6.
Pupino, A. R., 105 n, 1 1 2 n. Pyritz, Hans, 5. Quevedóy Villegas, Francisco Gómez de, 48. Rabelais, François, 6. Radicati, Alberto, conte di Passerano e Cocconato, 163, 164. Ritschl, Friedrich Wilhelm, 153. Robertson, William, 25. Rosenkranz, Johann Karl Friedrich, 153. Rossanda, Rossana, 104, 105, 1 1 6 . Rousseau, Jean-Jacques, 7, 28. Rustichello da Pisa, 3. Saba, Umberto, 83. Sabatini, Francesco, 13. Sade, Donatien-Alphonse-François, conte, detto marchese de, 8 1 , 1 4 t . Sainte-Beuve, Charles-Augustin de, 25, 28. Sannazaro, Jacopo, 6. Sartre, Paul, 154. Sartine, Antoine-Raymond de, 22. Saussure, Ferdinand de, 168. Saviane, Sergio, 106. Scaligero, Giulio Cesare, 5, 6. Scève, Maurice, 5. Scheler, Max, 154. Schiller, Friedrich, 9, 32, 177. Schlegel, August Wilhelm von, 7. Schmitt, Cari, 154. Schopenhauer, Arthur, 39, 1 r5 e n. Scotellaro, Rocco, 127, 136. Scott, Walter, 9, 3 1 . Segre, Cesare, 14. Seneca, Lucio Anneo, 6, 174. Serafino Aquilano, Serafino de' Ciminelli, detto, 5. Severino, Emanuele, 178. Shakespeare, William, 5, 6, 127. Sheckley, Robert, 1 4 1 , 142. Siciliano, E., 105 n. Sidney, Philip, 6. Soldati, Mario, 88-97,139. Sordello da Goito, 3. Spenser, Edmund, 6. Spinoza, Baruch, 41. Sponde, Jean de, 5. Staël, Anne-Louise-Germaine Necker, detta madame de, 9, 2 1 , 24, 28.
Indice dei nomi Stalin, Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto, 149, 1 1 1 Stefani, L., 105 n, 1 1 2 n, 1 1 9 n, 120 n. Stekel, Wilhelm, 19, 20. Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, 4 1 , 71,76. Stoppelli, Pasquale, 1 7 n, 19. Strati, Saverio, 169. Suarès, André, pseudonimo dì Félix-AndréIves Scantrel, 74. Surrey, Henry Howard, conte di, 5. Svevo, Italo, pseudonimo di Ettore Schmitz, 39. Sweezy, Paul M., 94. Swift, Jonathan, 48. Tacito, Publio Cornelio, 74, 99. Tasso, Torquato, 6, 7, 34, 58. Tessa, Delio, 43. Tobino, Mario, 74, 156. Tolomei, Pia dei, 108, 1 1 9 . Tolstoj, Lev Nikolaevic, 3 1 , 86, 104, 106, in. Trockij, Lev Davidovic, pseudonimo di Lejba Bronstejn, 154, 177. Valéry, Paul, 42. Vallejo, César, 107, 124, 125 e n. Vatinio, Publio, 1 5 1 . Vattimo, Gianni, 158, 159. Vega Carpio, Lope Félix de (Lope de Vega),
6.
Verga, Giovanni, 8, 37. Vergniaud, Pierre-Victurnien, 33. Verri, Pietro, 33. Vico, Giambattista, 22, 128. Vignali, Antonio (Arsiccio Intronato), 17-20. Virgilio Marone, Publio, 37. Vittorini, Elio, 10. Voltaire, François-Marie Arouet, detto, 6, 33.161. Wagner, Wilhelm Richard, ro, 74. Weckherlin, Georg Rudolf, 5. Weiss, Peter, 8. Wells, Herbert George, 15. Wieland, Christoph Martin, 7. Wittgenstein, Ludwig, 147. Wright, Richard, 1 3 5 . Wyatt, Sir Thomas, 5.
Young, Edward, 9. Zacconi, Ermete, 95. Zola, Emile, 39.
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