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Italian Pages 153 Year 1996
SILVIO LANARO
Patria
Circumnavigazione di uriidea controversa
© 1996 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VF.NEZIA
ISBN 88-317-6382-2
ms.
BIBLIOTECA COM. S. MARTINO B. A.
INDICE
13 Premessa PATRIA
19 Pensieri a capitolo 59 Tutte le patrie possibili. La Francia in guerra 59 Traslazioni e metafore 75 La voce di Marianna 92 Una guerra parallela 101 «Sombre connerie»? 117 Storia e geografia 123 La propaganda 130 Postilla Fine del periplo 153 Indice dei nomi
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Non ho mai pensato che amare la patria impedisca di amare i propri figli; né rie sco a vedere come l’internazionalismo spirituale o di classe sia inconciliabile col culto della patria. [...] È un cuore ben povero quello a cui è vietato rac chiudere più di un affetto. m arc b lo c h ,
La strana disfatta (1940)
PREMESSA
Nel 1988, quando pubblicai un volumetto intitolato L ’Italia nuova. Identità e sviluppo, non incontrai un’accoglienza molto benevola. Alcuni recensori trovarono il libro curioso e interes sante, altri usarono espressioni gentili più con l’autore che con il testo, ma nel complesso i lettori di professione mostrarono di considerare l’opera un esercizio di virtuosismo e di retorica sto riografica. Un eccellente ricercatore, amico mio, giunse persino ad affermare che le nazioni sono residui ottocenteschi, e che dunque occuparsi di storia - adoperando appunto la categoria di «nazione» - significa non capire nulla della modernizzazione, dello sviluppo economico, della sociabilità, della cultura di mas sa e di quant’altro. Oggi, dopo il crollo dell’impero sovietico, gli scritti sulla «vendetta», sulla «gloria», sull’«esplosione» delle nazioni - oltre che sulla loro «identità», va da sé - letteralmente si sprecano nei cataloghi delle case editrici e negli scaffali delle librerie. Come sempre molti sono libri importanti e documentati, sia chiaro, mentre altri appaiono inutilmente loquaci e pretenziosi, ma in somma il «genere» tira che è un piacere. Personalmente mi sarei potuto accontentare di questa infla zione cartacea: in fondo avevo colto nel segno, fiutando l’ap prossimarsi di una nuova stagione, e non avrei peccato di narci sismo concedendomi un’innocua civetteria da battistrada. Se in vece ritorno sull’argomento con questo saggio - non più dedica to al «caso» italiano - è perché la maggior parte degli studi in 13
PREM ESSA
circolazione mi sembra soffrire di due limiti: la concentrazione dell’analisi su questioni affatto particolari - in primo luogo bal caniche - e il tarlo filosofeggiante che spesso rode le scienze so ciali indebolendone la forza esplicativa. Quando si legge, per esempio, L ’esplosione delle nazioni di Nicole Janigro (Milano 1993), si assiste soltanto a un’accurata esplorazione del rebus iu goslavo; e quando ci si cimenta con le dense pagine di Franco Goio (Teorie della nazione, in «Quaderni di scienza politica», i, 2, agosto 1994, pp. 181-255) ci si accorge che il dialogo serrato con una legione di autori mira esclusivamente a definire la quin tessenza della nazione al di là di ogni soggettività storica e isti tuzionale. Mosso dal disagio e dall’insoddisfazione, mi sono ripromesso così di circumnavigare il problema, cioè di affrontarlo da molte plici punti di vista cercando di dimostrare con il ricorso alle co muni tecniche d’indagine: a) che non solo le nazioni nascono da processi centripeti nei quali il ruolo delle componenti etniche è assolutamente irrilevan te, ma anche che in età contemporanea nazioni ed etnie tendono sempre più spesso a entrare in conflitto fra loro; b) che in un’epoca di economia informatizzata e transpaziale le ipotesi di destrutturazione o di «superamento» dello stato-nazione obbediscono a inclinazioni larvatamente autoritarie; c) che la formazione di una «coscienza» nazionale segue percor si tormentosi, accidentati, labirintici e dipende in misura minima dal cosiddetto «nazionalismo»; d) che le nazioni sono l’alveo delle costituzioni moderne e che sono esse a fornire alla democrazia - a parte le regole e le pro cedure della rappresentanza - un’autentica capacità di integra zione sociale; e) che lo stato-nazione non è condannato a estinguersi tanto ra pidamente, perché nell’attuale situazione di intensa mobilità de mografica solo esso dispone degli strumenti necessari al drenag gio delle ondate migratorie. Fino a qui ho parlato di nazione, e tuttavia il libro si intitola Patria. Vuol forse dire che i due concetti sono perfettamente equipollenti, e che se ne è scelto uno per la sua maggiore attrat tiva? Evidentemente no. «Nazione» è la comunità politica che 14
P REM ESSA
tramite apposite istituzioni organizza una popolazione insediata su un determinato territorio, tutelandola all’esterno e rappresen tandone la proiezione «identitaria» in senso forte. «Patria» inve ce è qualcosa che le sta dietro, che la precede logicamente e an che cronologicamente: è il luogo fisico dove l’ambiente e il pae saggio - costruiti o modificati dalla vita activa delle generazioni - svolgono una funzione primaria di protezione e rassicurazione esistenziale, e dove una cultura non semplicemente verbale pro duce affinità, consonanze, parentele ideali e morali; non solo, è anche un luogo principe dell’immaginario, dove simboli e miti garantiscono quell’autorappresentazione senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di vivere e di sopravvivere. Mi rendo conto che la distinzione non è intangibile, e che sono possibili accavallamenti o sovrapposizioni: eppure una differenza esiste, se già la segnalava - com’era possibile ai suoi tempi - Brunetto Latini intorno al 1290. In linea di massima, quindi, non si dà nazione senza patria. Per questo il capitolo sulle sfaccettature della psicologia lealista nella Francia del 1914-18 costituisce il cuore dell’intero libro. Attraverso il vaglio di una letteratura memorialistica che non è mai stata - a quanto mi risulta - utilizzata organicamente o co munque interrogata a questo scopo, mi sono sforzato di illustra re come una qualche idea di patria - magari con l’ausilio di sen timenti di solidarietà transitori e occasionali - permei di sé tutte le vicende del vissuto collettivo. Certo, il 1914-18 è il periodo della grande guerra, vale a dire di un evento eccezionale: ma gli storici sanno fin troppo bene che gli eventi eccezionali - epide mie, rivoluzioni, scoperte scientifiche, pestilenze, catastrofi natu rali, trapassi di regime e ovviamente guerre - accelerano trasfor mazioni sociali incubate anteriormente e destinate a durare più a lungo delle circostanze materiali da cui sono scaturite. Il libro è dedicato alla memoria di mia moglie, compagna dolcissima e fiera, nel decimo anniversario della sua scomparsa. Padova, dicembre 1995
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Tutte le traduzioni sono mie, eccettuate quelle da Céline, Barbusse e Cendrars. Com’è consuetudine, talvolta ho ripreso alcune pagine di miei lavori precedenti. Ho ritenuto di indicare la casa editrice, contrariamente a quanto si usa nelle normali citazioni bibliografiche, per i libri in lingua francese: stam pati quasi tutti a Parigi, infatti, essi sarebbero altrimenti difficilissimi da rintracciare.
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PENSIERI A CAPITOLO
A voler semplificare (ma neanche eccessivamente), il semina rio internazionale su Nation et nationalisme hier et aujourd’hui - svoltosi a Parigi, presso la Maison des sciences de l’homme, il 30-31 maggio 1991 - è ruotato attorno ad alcuni concetti-guida condivisi dalla maggioranza dei convenuti, al di là di ovvie sfu mature, perplessità e differenze nell’interpretazione di singole questioni. I risultati, sempre approssimativamente, si possono riassumere così: i. Le nazioni non sono il prodotto della storia culturale, lingui stica e religiosa dei singoli popoli, ma la creazione di gruppi di potere che valendosi della mediazione degli intellettuali pre dispongono apparati ideologici a titolo di giustificazione di un’istanza di unità politica. Non è l’appartenenza a legittimare la sovranità, in altre parole, ma viceversa: niente nazione senza sta to come nullum crimen sine lege (Ernest Gellner). ii. A dispetto di resistenze anche tenaci, le nazioni sono entità residuali, minate da una crisi irreversibile e destinate a tramontare per l’impulso di potenti fattori di omologazione che spingono verso una società cosmopolita e multietnica: i grandi flussi migratori, la fin des paysans, la crescente rilevanza demografica di strati intel lettuali non più avviliti o disgregati, le esigenze dell’informazio ne tecnologica, l’uso generalizzato della lingua inglese (Eric J. Hobsbawm), il carattere prettamente transnazionale delle culture giovanili, l’avvento della polarità urbano-metropolitana con relati vo passaggio dallo stato-nazione alla città-regione (René Gallissot). 19
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ih. Quelli che sembrano ribollimenti «nazionali», e che oggi scuo tono soprattutto l’Europa dell’Est, sono in realtà manifestazioni in consulte ed epilettiche di separatismo regionalista, in parte eredità dell’«arcaico e nefasto» progetto di divisione del continente di ascendenza leninista-wilsoniana (Hobsbawm), in parte frutto di febbri congiunturali e temporanee votate a scomparire con il tra scorrere del tempo. Nelle sue varianti «di destra» e «di sinistra» dall’antisemitismo del Pamjat alla straordinaria popolarità del pen siero di Nikolaj Berdjaev - perfino il nazionalismo russo esprime la risulta di un decesso piuttosto che un vigoroso programma di rico struzione: tutto ciò che è russo al momento appare «buono» perché non è sovietico, ma occorrerà ancora molto tempo perché si possa no fare i conti del dare e dell’avere (Jutta Scherrer). iv. L ’endiadi rappresentata dalla regionalizzazione e dalla mondia lizzazione dell’economia, del costume, dei codici comunicativi e de gli stili di vita può essere dominata solo tramite un rafforzamento delle istituzioni sovranazionali', che del resto è implicito negli stessi fenomeni in atto; se i governi non freneranno un processo «natura le», nei prossimi decenni si assisterà a una pacifica diffusione del modello statunitense di convivenza e coabitazione fra «diversi» (Hobsbawm). Ripeto che si è effettivamente registrato un accordo di mas sima intorno a queste proposizioni serenamente assiomatiche. Tuttavia alcune dissonanze, alcune stonature hanno ingigantito i dubbi - almeno di chi scrive - sulla fondatezza di un approccio materialistico-razionalista all’intera problematica. Si è subito no tata, per esempio, la mancanza di ogni accenno al subbuglio del le repubbliche in u r s s , dove in genere le petizioni separatiste non coronano campagne lungamente e segretamente organizzate dagli agitatori di un’idea nazionale (salvo forse nella Lituania di Vitautas Landsbergis e nella Georgia del Partito nazionaldemocratico), dove i leader dell’indipendentismo sono molto spesso 1 Normalmente, l’ottimismo internazionalistico pone l’accento sul primato del l’economia all’interno di ogni sistema di relazioni sociali: cfr. L. Thurow, Testa a testa. Usa, Europa, Giappone: la battaglia per la supremazia economica nel mondo, trad. it., Mi lano 1992, pp. 124-126 e passim-, S. Cassese, Oltre lo Stato: i limiti dei governi nazionali nel controllo dell’economia, in a a . w ., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Bologna 1993, pp. 36-48.
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ex custodi dell’ortodossia marxista-leninista (come Leonid Kravciuk in Ucraina), dove il senso dell’identità è cementato dalla ri pulsa di una politica di snazionalizzazione (Kazakhstan), o dalla memoria dei pogrom e delle persecuzioni etniche (Armenia), o dalla dispersione di un unico popolo in due stati diversi (Ossezia). Dov’è finita, qui, la sovranità che crea l’appartenenza? E dov’è finita nelle repubbliche dell’Asia centrale, dall’Uzbekistan al Turkmenistan, che si aggrappano al patriottismo musulmano per arginare uno smarrimento - documentato dall’aumento ver tiginoso dei suicidi e del tasso di alcolismo - prodotto dal crollo di un regime che aveva cercato di combinare insieme progresso e tradizione, diffondendo l’istruzione pubblica, l’uguaglianza fra i sessi, la tutela giuridica dell’infanzia, e ammettendo nel con tempo il rispetto della morale fondata sull’unità della famiglia, sull’autorità degli anziani e sulla sobrietà del comportamento2? Qualche stupore, poi, ha destato l’insensibilità per il rappor to che intercorre fra il nazionalismo - sia inteso come generico «amor di patria», sia concepito come movimento volto alla tra sformazione in totalità organica delle popolazioni insediate in un determinato territorio - e gli ordinamenti politici, le inclinazioni culturali, le «tecniche del vivere» peculiari a ciascun paese. Pio Baroja, uno dei più grandi scrittori spagnoli della «generazione del ’98», avverte in una pagina magistrale che «tutti i popoli» possiedono «una serie di formule pratiche per la vita quotidiana, che dipendono dalla razza, dalla storia, dall’ambiente fisico e morale» contribuendo «a creare un atteggiamento che aiuta a semplificare e a sintetizzare le cose»; poiché ha sperimentato sul la propria pelle il tracollo della hispanidad, egli aggiunge poi che «questo pragmatismo nazionale assolve al suo compito quando lascia libero l’accesso alla realtà, ma se questo si chiude allora la 2 Cfr. H. Carrère d’Encausse, La gioire des nations ou la fin de ¡’Empire soviétique, nuova ed. aumentata, Paris, Fayard, 1991, pp. 194-196. Occorre comunque notare che gli ex paesi satelliti dell’Unione Sovietica sono molto mutati rispetto al 1991. I comu nisti hanno riconquistato il potere agitando programmi socialdemocratici - e legitti mandosi con il voto popolare - in tutti i paesi dell’Europa centro-orientale con l’ecce zione della Repubblica Ceca: dalla Lituania di Algidar Brazauskas airUngheria di Gyula Horn, dalla Bulgaria di Jean Videnov alla Slovacchia di Peter Weiss, dalla Romania di Ion Iliescu alla Polonia di Alexander Kwasniewsi (cfr. Y.-M. Riols, La réhabilitation ambigue des communistes à l’Est, «L e Monde», 18 novembre 1995).
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normalità di un popolo si altera, l’atmosfera si dissolve, le idee e i fatti assumono false prospettive»’ . Ora, le «formule pratiche» di un «pragmatismo nazionale» sono alquanto numerose: costi tuzioni, assetti produttivi, leggi elettorali, sistemi scolastici, mo delli di relazione sociale, giù giù fino allo sport e alle «passioni comuni». Si può pensare davvero che esse si tramandino strac camente senza essere in qualche modo collegate a una coscienza collettiva? In Inghilterra, per citare un caso soltanto, è immagi nabile che non esistano legami fra un’orgogliosa soggettività bri tannica e il culto della famiglia reale, il modello didattico dei col lege, la popolarità del cricket, la guida a sinistra e il parziale ri fiuto del sistema metrico decimale4? A proposito di un tema cruciale come la capacità di mobili tazione delle ideologie, da ultimo, è affiorato più di una volta il sostantivo «mistero» con tutto il suo corteo di derivati gramma ticali, tanto ricchi di suggestioni evocative quanto poveri di ri sorse euristiche: per Gü Delannoi i nazionalismi sono spesso «misteri entusiasmanti o ripugnanti» e per Shlomo Sand - stu dioso delle origini del sionismo - una nazione scaturisce dal nul la quando un’identità culturale entra «misteriosamente» in con tatto con la sfera del potere politico. Ma se fanno capolino gli enigmi, vuol dire che da qualche parte le categorie di un sapere storiografico stanno zoppicando... Prima di passare alla discussione di ipotesi e tesi, comunque, è necessario un preambolo che faccia chiarezza su alcuni punti di metodo. Il vocabolario «nazionale» è sommamente ambiguo, cangiante, deciduo, polimorfo; e non solo per via delle differen ze semantiche causate dalla disparità dei contesti storici - la pa rola «nazione», poniamo, assume significati ben diversi in un co mizio di Francisco Franco e nella premessa alla Costituzione ’ P. Baroja, L'albero della scienza (1911), trad. it. a cura di F. Toso, Genova 1991, p. 16. 4 A queste peculiarità culturali si potrebbero aggiungere «il quotidiano scandali stico The Sun con i suoi quattro milioni di copie vendute ogni giorno», «le sale di bingo», la «proliferazione di romanziere donne», le profonde radici di «alcune forme di musica rock», un tifo calcistico affatto particolare (M. Ève, Dentro l’Inghilterra. Ragioni e miti di un'identità, Venezia 1990, pp. 47-48 e 201-240). Il libro di Ève è molto attento nel distinguere gli stereotipi dalle autentiche «differenze», e nell’individuare le origini storiche delle singolarità comportamentali (cfr. ibid., pp. 48-94).
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democratica spagnola del dicembre 19785 - ma anche per via dei sovraccarichi lessicali entrati quasi di soppiatto nel linguaggio corrente. «Patria» e «patriottico», per esempio, sono termini nor malmente circondati da un alone di emotività nettamente più te nue di quello che avvolge «nazione» e «nazionale»: tuttavia que sti ultimi possiedono anche un’accezione sociologico-denotativa che ai primi manca del tutto (nessuno si sognerebbe mai di dire che il 48 per cento della «patria» è composto da lavoratori dipen denti, o che la squadra «patriottica» di calcio ha sconfitto la Po lonia). Analogamente, il «popolo» può essere sia thè people - la gente comune - sia una compagine segnata dall’unanimità morale e spirituale, mentre «popolazione» designa solitamente una gran dezza demografico-statistica ma può anche diventare sinonimo (si pensi all’uso che ne fa Benito Mussolini nel Discorso del1’Ascensione) di numero-potenza e di forza d’urto della «massa». È sintomatico che alla stessa parola-chiave - «nazionalismo» in quanto genitore di «nazioni» - si attribuiscano significati assai diversi. Per Brian Barry il nazionalismo è quell’aspirazione al self-government che è indispensabile per mantenere in vita un’i dentità valoriale, senza che ciò comporti automaticamente la pretesa di condensazione in una forma-stato6; per Ernest Gellner, invece, esso organizza proprio la tendenza a far comba ciare un’unità culturale e una sovranità politica7; per Isaiah Ber lin, infine, se ne può parlare solo quando viene postulata la na tura organica delle relazioni che s’instaurano fra gli elementi co stitutivi di una struttura, quando il valore di ciò che è «nostro» dipende semplicemente dal fatto che «ci» appartiene e quando si afferma la supremazia della nazione ogni volta che esplode un conflitto di autorità o sorge la necessità di scegliere tra «fedeltà» contraddittorie8. È forse superfluo osservare che queste defini 5 Vedi Institut national de la langue française, «Nation» et nationalisme du fran quisme à la démocratie, Paris 1986. 6 B. Barry, Self-government Revisited, in L. Siedentop (a cura di), The Nature of Politicai Theory, Oxford 1983, pp. 121-154; Id., Nationalism, in D. Miller et al. (a cura di), The Blackwell Encyclopaedia o f Politicai Thought, Oxford 1987, pp. 352-354. 7 E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, trad. it., Roma 1985. 8 I. Berlin, Le nationalisme: dédains d ’hier, puissance d’aujourd’hui, in Id., A contre-courant. Essais sur l’histoire des idées, Paris 1988, pp. 355 ss.
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zioni detengono al massimo una validità classificatoria - e nem meno sempre, perché gli ibridismi imporrebbero alla prosa scientifica di assegnare un nome a innumerevoli figure di mutan ti - ma non contengono la fibra ermeneutica che occorre per ri costruire un tracciato storico di periodo medio-lungo: tant’è che Miroslav Hroch, studiando la curva evolutiva del nazionalismo nei paesi «piccoli» dell’Europa ha preferito ricorrere alla distin zione diacronica tra una «fase a » (segnata quasi esclusivamente dalla creatività letteraria e folclorica), una «fase b» (contraddi stinta dal pionierismo militante dei predicatori di un’«idea na zionale») e una «fase c» (caratterizzata dal connubio più o meno stretto fra ideologia e consenso sociale)9. C’è poi chi, come Jean Leca, sostiene che anche astraendo dalla «versione ultradebole» (Barry), dalla «versione standard» (Gellner) e dalla «versione forte» (Berlin) sussiste comunque una differenza di fondo tra «nazionalismo» e «patriottismo»: Quest’ultimo [...] è impregnato di senso civico, mobilita il cittadi no nella sua lealtà ma anche nella sua vigilanza intellettuale, sottopone il governo al giudizio dell’opinione pubblica; il primo invece, giocando sulla forza costrittiva del «determinismo nazionale» e isterilendo lo spi rito critico perché costituirebbe una minaccia per la comunità (da par te di chi e in nome di che cosa?), spinge verso il conformismo, la mas sificazione e la rinuncia a ogni razionalità10. Ma anche qui si può subito obiettare che ben di rado il «pa triottismo» si è connotato nel senso che gli conferisce Leca (nel l’introduzione a Le origini culturali del terzo Reich George L. Mosse suggerisce di rendere la pregnanza del termine völkisch, che di per sé vuol dire «inerente al Volk», con l’aggettivo «nazional-patriottico»), e che per indicare il tipo di disposizione etico-politica a cui egli fa riferimento oggi si è generalmente inclini a parlare di citoyenneté, di «cittadinanza». Questa babele linguistica si è ricordata per sottolineare che quando Gellner dichiara «le nazioni non esistono», e Hobsbawm 9 M. Hroch, Social Preconditions o f National Revival in Europe. A Comparative Analysis o f thè Social Composition o f Patriotic Groups among thè Smaller European Na tions, London-New York 1985, pp. 22-24 e passim. 10 J. Leca, Nationalisme et universalisme, in «Pouvoirs. Revue française d ’études constitutionnelles et politiques», n. 57, 1991, p. 39.
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scrive «non sono le nazioni a fare gli stati e a forgiare il naziona lismo, bensì il contrario»11, essi minimizzano disinvoltamente l’at titudine della «parola» - del discorso persuasivo, della retorica, della mentalità, dell’immaginario, dell’autorappresentazione, del mito - a soddisfare con tutte le sue tortuosità e i suoi trasformismi alcuni bisogni reali e collettivi organizzati embrionalmente, la sciando intendere che le nazioni nascono dalla congiunzione fra un qualsivoglia messaggio affabulato e le ambizioni di un’élite che in condizioni non «nazionali» stenta a emergere e a consolidarsi. Hobsbawm ammira molto Hroch, perché l’insistenza di costui sulle social preconditions del nazionalismo (disoccupazione intel lettuale, sfruttamento dei contadini da parte di oligarchie di ori gine straniera ecc.) gli permette di spiegare alla luce dei rapporti di produzione e di scambio l’impatto dell’ideologia - marxiana mente intesa come falsa coscienza - su gruppi e categorie di po polazione supposti in stato di inerzia virginale. L ’ideologia, la «parola», racchiude invece anche un intrinseco potere di coesio ne che deriva dalla sua aderenza alla domanda di sicurezza e di preservazione dallo smembramento che sale da ogni comunità, specialmente in situazioni storiche di pericolo. Prendiamo una congiuntura estrema. Quando sono coinvolti in una guerra, o si sentono minacciati daU’incombere di un nemico esterno, tutti i regni dell’Europa - compresi quelli minuscoli e inter stiziali - esaltano la propria origine divina per poi poter vantare la predilezione del cielo: nella sua Description de Paris sous Charles V ( 1531 ) Raoul de Presles attribuisce la fondazione della capitale del lo stato a «Francion, fils de Hector»; l’inno Rule Britannia di James Thomson (1740) celebra l’isola che si leva dalle acque per un ordine diretto di Dio, mentre John Milton illustra l’antica genesi ebraica del popolo inglese; secondo un’intera sequenza di leggende la bandiera nazionale danese, il Dannebrog, piomba dal paradiso durante la bat taglia di Revai del 15 giugno 1219 conducendo il re Valdemaro ii al la vittoria contro gli estoni12. 11 E.J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, trad. it., Torino 1990, p. 12. 12 Cfr. R. Michels, Prolegomena sul patriottismo, trad. it., Firenze s.d. (ma 1933), passim.
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Mitologie così apparentemente ingenue, si badi, non sono detriti di epoche remote: la chiamata a soccorso di un Dio non più universale - da parte di sovrani, regimi, nuclei etnici, chiese locali - è un fenomeno che si protrae per secoli e secoli. Nel vi vo della seconda guerra mondiale, il 10 maggio 1941, «Le Figa ro» pubblica un resoconto dei festeggiamenti per il quinto cen tenario della morte di Giovanna d’Arco ricorrendo a espressioni di questo tenore: «Nessun francese, celebrando l’anniversario, ha potuto fare a meno di associare con gratitudine il nome del maresciallo Pétain a quello della Santa protettrice della patria»; mentre in Svizzera il generale Guisan - che si è opposto all’ac comodamento con i nazisti tentato dal presidente della Federa zione Pilet-Golaz, suggerendo invece una resistenza a oltranza nel «ridotto nazionale» - il 3 giugno 1940 proclama che «se fino a oggi, quasi sola fra i piccoli paesi dell’Europa, la Svizzera è sfuggita agli orrori dell’invasione, lo deve prima di tutto alla pro tezione divina». Tutto il Sonderfall Schweiz - fondato sullo ste reotipo del paese perennemente accerchiato e perennemente ri sparmiato - è animato del resto dalla fiducia nei rapporti privi legiati fra stato e Provvidenza. Secondo Edgar Fasel «la menta lità nazionale è profondissimamente persuasa che il successo el vetico è una grazia concessa dalla bontà divina, e che esso [...] dipende essenzialmente dalla preghiera»; così pure per Peter Bichsel «il fatto che noi siamo stati risparmiati prova per così di re tutto ciò che vogliamo veder provato: la forza del nostro eser cito, la stabilità del sistema politico, la democrazia e la seduzione che il nostro stato esercita su D io»'\ Cauzioni soprannaturali a parte, da qualsiasi punto di vista sarebbe assurdo ignorare o svalutare l’importanza delle convin zioni religiose - anche quando si presentano in forma passiva, cioè appaiono restie a uno sfruttamento ideologico extraconfes sionale - in tutti o quasi tutti i processi di Nation Building: e ciò non solo perché la manzoniana comunanza «d ’altare» costituisce 1J Cfr. A. Reszler, Mythes et identité de la Suisse, Genève 1986, pp. 47-48. Sulla persistenza e al tempo stesso sulla stanchezza dell’isolazionismo elvetico, vedi G. Busi no, Svizzera: tra storia e sociologia, in Id., Sociologia e storia. Elementi per un dibattito, Napoli 1975, pp. 188-191.
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in se stessa un colloide potentissimo (basterebbe pensare a quan to abbia influito negativamente, sull’unificazione civile e politica dell’Italia, il cinquantennale dissidio fra lo stato e la chiesa cat tolica), ma anche e soprattutto perché uno specifico modo di mi surarsi con la trascendenza e di obbedire alle prescrizioni di un’etica di stampo mosaico modellano spesso quel «carattere» dei popoli che legioni di teorici sprovveduti hanno imputato al sangue, alla razza o più prudentemente alla natura. Con il gran de discorso su La Germania e i tedeschi, pronunciato nel giugno del 1945 presso la Biblioteca del Congresso di Washington, Thomas Mann accusa il luteranesimo - coacervo di intolleranza, «villania collerica», pietismo servile, «eruttare infuriato», avver sione per la «libertà dei cittadini», «spaventosa vigoria mischiata a delicata profondità d’animo», «massiccia credenza superstizio sa nei demoni, negli incubi e nei mostri» - di aver generato l’«impoliticità» e P«imperizia del mondo» che hanno condotto i suoi connazionali alla rovina dopo averli spinti a commettere in famie inaudite. In quanto pura arte del possibile, riflette Mann, la politica comporta «durezza», «concessione alla materia», «volgarità», «compromesso», «expediency», «tanto che forse non è mai esisti to uomo politico il quale, dopo aver raggiunto grandi fini, non abbia dovuto domandarsi poi se gli restasse il diritto di noverar si ancora fra le persone rispettabili». Essa tuttavia «non rimane circoscritta al male», né può «spogliarsi del tutto della sua com ponente ideale e spirituale», perché ha il compito di esercitare una funzione «creativa e mediatrice fra lo spirito e la vita, l’idea e la realtà, il desiderabile e il necessario, la coscienza e l’azione, la moralità e la potenza»: Simili soluzioni della vita basate sul compromesso appaiono al te desco ipocrisia. Egli non è nato per venirne a capo, e dimostra la sua inettitudine alla politica fraintendendola con goffa onestà. Non è per nulla perfido di indole, è anzi incline alle cose intellettuali ed ideali, ma considera la politica null’altro che menzogna e delitto, inganno e violenza, qualcosa insomma di pienamente e assolutamente lurido, e, quando vi si dedica per ambizione internazionale, la esercita in base a tale filosofia. Il tedesco come uomo politico si crede obbligato a com portarsi in modo da lasciare l’umanità inebetita: in questo egli crede 27
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consista la politica. Essa è per lui il male: ritiene quindi di dovere per essa trasformarsi in un vero demonio14.
Accolta da Karl Lowith e da Talcott Parsons, questa spiega zione del «peccato originale» tedesco è stata recentemente di scussa per la sua unilateralità. La Germania, si è osservato, non è un paese tutto protestante: anzi, essendo divisa anche territo rialmente fra cattolici e luterani, e scontando inoltre un’infelice posizione geografica e una permanente incertezza di confini, ri mane immersa per centinaia d’anni in una doppiezza e in una contraddittorietà che ne fanno il terreno elettivo di tutte le guer re civili europee: La «occidentalizzazione» della Germania rappresenta, in realtà, una sorta di rivincita postuma del cattolicesimo. Una rivolta contro la riforma protestante. La Germania democratica e occidentale di [Konrad] Adenauer, ecco la conferma, grosso modo coincide con i territori storicamente cattolici. E proprio per questo ha potuto rappresentare l’alternativa a quella protestante e prussiana del Reich di Bismarck1’ .
Come si può vedere, anche secondo questa interpretazione al le radici di una duplicità «nazionale» fermentano sempre i succhi della fede religiosa: il luteranesimo ispirerebbe la Germania bar bara e militarista, il cattolicesimo la Germania mite e laboriosa. Passando ad altro, non sempre l’esaltazione di un sentimento di appartenenza pretende di sfociare in una rivendicazione di in dipendenza o di rafforzare gli apparati di una compagine statua le: in alcune circostanze, addirittura, essa è inversamente pro porzionale alla pienezza di una sovranità e alla forza dei vincoli di un’obbligazione politica. È il caso della Svezia primo nove centesca, dove il movimento «attivista» stretto intorno alla rivi sta «Svensk Lòsen» - e alimentato dai richiami alla tradizione nazionale di storici-vati come Harald Hjarne, di professori-gior nalisti come Rudolf Kjellén, di esploratori-geografi come Sven Hedin - approda a una variante del pangermanesimo che culmi na durante la prima guerra mondiale nella politica filotedesca 14 Th. Mann, La Germania e i tedeschi (1945), in Moniti all’Europa, trad. it., Mi lano 1947, pp. 371-372. 15 A. Bolaffi, Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coscienza europea, Roma 1993, p. 70.
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del gabinetto Hammarskjòld, con i suoi trattati ineguali e la sua mortificante dipendenza economica dal governo del Reich: In maniera sempre più potente - esclama nel 1916 uno scrittore ano nimo, forse il figlio di Hjàrne - la memoria di Gustavo Adolfo ci rammen ta la parentela etnica e l’antica fraternità d’armi fra i popoli germanici, e in sieme il loro sforzo comune per realizzare un ordine occidentale e diffon dere la libertà protestante. La lotta contro la barbarie slava si ravviva, e l’ombra guerriera di Carlo x i i ci addita il dovere al quale egli e la Svezia del suo tempo sacrificarono invano tutte le loro energie16.
Un nazionalismo «a stato debole» - o anche «a stato zero» non esclude peraltro processi di radicalizzazione dell’ideologia che producono fanatismo etnico e religioso: l’ascesa del movi mento panarabo, sotto questo profilo, è il più classico degli esem pi. Che gli arabi siano una nazione, estesa dal mar Rosso alle pen dici maghrebine, è cosa abbastanza pacifica fin dagli anni sessanta del secolo scorso, quando il siriano Boutros el Bustani - che tra scorre buona parte della sua vita fra i beduini irakeni - incomin cia a pubblicare dizionari ed enciclopedie per promuovere l’uni ficazione culturale del suo popolo; successivamente - fra la nahda islamista ed europeizzante di Jamal el Afghani, la nascita dei par titi baath e l’esplosione dell’integralismo musulmano anche fra i sunniti - l’elaborazione dell’idea di un’unica qaurmiyya può sop portare il fallimento degli esperimenti di unità politica (come quello della r a u , voluto dai militari siriani e subito da Nasser sen za entusiasmo) e irrigidire contemporaneamente l’alterità della umma, della «comunità» di fedeli che ammette al proprio interno la presenza dei non credenti solo a patto che siano ridotti alla condizione di «protetti», di meteci, di ospiti17. In alcuni paesi del Terzo mondo, troppo arretrati per poter procedere oltre una parvenza di unificazione etnica e culturale, il Nation Building prescinde deliberatamente dalla volontà di edificare uno stato. Tipica, sotto questo profilo, è la parabola del 16 Cit. in L. Maury, Les problèmes scandinaves. Le nationalisme suédois et la guerre 1914-1918, Paris, Perrin, 1918, p. 143. 17 Cfr. P. Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico 1789-1992, Milano 1992 (con ampi ragguagli bibliografici). Per un’analisi specifica del contrasto fra umma e principio di nazionalità, vedi P. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, trad. it. con una presentazione di G. Calchi Novati, Milano 1993, pp. 53-127.
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pensiero e dell’azione di Jean-Marie Tjibaou, il primo teorico dell’esistenza di una nazione neocaledoniana. Tjibaou - come rammentava proprio a Parigi Alban Bensa - è un prete spretato che studia antropologia in Europa e agli inizi della sua attività (negli anni sessanta, quando i kanaks sono segregati nelle riser ve) cerca di rendere accetta agli occidentali una cultura locale che in realtà non esiste ancora, provvedendo a inventarsi la sto ria nazionale di un popolo estremamente frammentato e appic cicandogli addosso una tradizione di umanesimo rural-cattolico incentrata sul parallelismo fra le genealogie indigene e le genea logie della Bibbia. Un’innata propensione al gradualismo, però, e la consapevolezza che i kanaks non possiedono gli strumenti necessari a dotarsi di strutture amministrative proprie, lo induce ad accettare il progetto francese di decentramento realizzato do po il 1987 - quando un referendum ribadisce lo statuto di «ter ritorio d’oltremare» della Nuova Caledonia - candidandosi così all’assassinio che lo eliminerà dalla scena nel 1989, anno in cui il vessillo dell’emancipazione è ormai saldamente in pugno al Front de libération kanake socialiste ( f l k s ) , che surroga appunto con il richiamo al socialismo l’assenza di un humus nazionale18. La scorciatoia socialista, d’altronde, è quella più frequente mente imboccata dalle élites dei paesi ex coloniali che ambisco no a trasformare in stati-nazione vecchie ripartizioni cartografiche ritagliate a esclusivo beneficio delle potenze europee. Nel 1969, quando a nove anni dall’indipendenza l’uccisione del pre sidente Sharmarke apre la strada all’insediamento del Consiglio supremo della rivoluzione, la Somalia è ancora priva di una qual siasi lingua scritta e suddivisa in una miriade di tribù reciproca mente ostili (darod, ishaak, dirhawiya, sab, rahanwein): la solu zione che viene subito adottata è naturalmente il socialismo, cioè una raffica di nazionalizzazioni - scuole, banche, energia elettri ca, proprietà fondiaria, con il supplemento di un dialetto elevato 18 Cfr. A. Bensa, La pensée de Jean-Marie Tjibaou (1936-1989): aspects du nationalisme kanak, paper di prossima pubblicazione a cura dell’Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi. Si noti che ancora nel 1863 - quando vengono visitati dal geologo Jules Garnier, che pure ne annota i costumi con occhio benevolo e compren sivo - i kanaks praticano comunemente il cannibalismo (cfr. J. Garnier, Voyage à la Nouvelle-Calédonie, Paris, Cadeilhan, 1991).
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a lingua ufficiale - che non approdano ad alcun risultato e ser vono solo a consegnare il potere a Mohammed Siad Barre, nelle cui mani esso degenera rapidamente fino a trasformarsi in un’au tocrazia nepotista, corrotta e sanguinaria19. L ’appello al socialismo, s’intende, è spesso obbligatorio per i movimenti antimperialisti. Fino all’insurrezione vittoriosa del gennaio 1959, Fidel Castro è un nazionalista liberal di progenie gallega - maturato nelle file delle associazioni studentesche e del «partito ortodosso» - che si comporta come un tribuno popola re secondo lo stile di José Marti e di Eduardo Chibàs: nel famo so discorso La storia mi assolverà, tenuto nel settembre del 1953 dopo l’assalto alla caserma Moncada, egli reclama la riforma agraria e il ripristino della Costituzione cubana del 1940 impe gnandosi a combattere per la repubblica «con la stessa energia, onestà e patriottismo che avevano i liberatori quando la crearo no». Dopo la presa del potere, avvenuta senza il concorso del Partito comunista - opportunisticamente diviso fra la presen za nel simulacro di parlamento di Fulgencio Batista e un’intesa sotterranea con il Movimento del 26 luglio - l’adesione al marxi smo-leninismo si presenta come una scelta senza alternative, sia perché la reazione americana provoca quasi automaticamente una richiesta di protezione all’Unione Sovietica, sia e soprattutto perché la mancanza di una «borghesia nazionale» e la natura delle forze sociali risvegliate dalYejercito rebelde vanificano in partenza ogni programma democratico-radicale20. Le conseguenze di tutto ciò - l’inabissamento delle liliali bu gie di Tjibaou, il caos della Somalia dopo la caduta di Siad Bar re, l’attuale pessima salute del regime castrista - dovrebbero in durre Gellner a una maggiore cautela nel postulare la tesi della sovranità che crea l’appartenenza: può ben accadere che i nazio nalismi procedano all’inverso, e anche che adeguandosi alle leggi bronzee coniate dagli storici falliscano miseramente o smentisca no se stessi in modo clamoroso. Immagino già la risposta: la na 19 Cfr. I.M. Lewis, Nationalism and Self-determination in thè Horn o f Africa, Lon don 1983; A. Samatar, Socialist Somalia. Rhetoric and Reality, London 1988. 20 Cfr. M. Sabbatini, Il crollo dell'ordine neocoloniale a Cuba, in «Ideologie. Qua derni di storia contemporanea», n. 5-6, 1968, pp. 7-99.
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zione, cioè lo stato-nazione, esiste solo nelle moderne società in dustriali. Il che non è del tutto vero per almeno tre buone ragio ni: perché esistono concezioni schiettamente antistataliste della nazione - basate sulla difesa di «peculiarità» tradizionali e sulla resistenza contro l’accentramento -, perché anche in epoca mo derna si formano e sopravvivono stati-nazione in aperto conflitto con l’arsenale ideologico della modernità e perché lo sviluppo capitalistico-industriale - con tutto il suo corredo di suppellettili - può avvenire in ambiti «regionali» iscritti a propria volta entro cornici «nazionali» economicamente sfasate e culturalmente dif formi. È possibile ignorare che il Sonderfall Schweiz - particolar mente interessante perché la Confederazione Elvetica non dispo ne di uniformità etnica, linguistica e religiosa - si nutre di umori profondamente «reazionari», agitando il mito di una Gegenläufig keit che rende la Svizzera diversa dall’Europa se non altro per ché è una federazione che storicamente non conosce la suprema zia di un federatore? È possibile immaginare un qualche com mercio con la modernizzazione per un regime ultra-nazionalista come quello di James Barry Hertzog, durato in Sudafrica dal 1924 al 1939, che gioca tutte le sue carte sulla pastorizia e sul saccheggio dei giacimenti d’oro e di diamanti? È possibile con testare l’eccezionale rigoglio ottocentesco della Catalogna indu striale, formalmente soggetta alla monarchia castigliana, con la fioritura intellettuale legata all’eclettismo filosofico dell’Ateneu barcelonès, all’avanguardismo urbanistico di Ildefons Cerdà e al modernismo visionario dell’architettura di Antoni Gaudi21? In generale - lo aveva già intuito Ernest Renan - il richiamo alla solidarietà etnica blocca o rallenta i processi di innovazione, perché è incompatibile con gli apporti culturali estranei alle «ra dici» di un popolo. In alcuni casi, tuttavia, proprio l’appello alla diversità etnica rappresenta paradossalmente uno strumento di corrosione dei comportamenti ascrittivi. In Turchia, ad esempio, 21 Vedi rispettivamente T.R. Davenport, South Africa. A Modem History, London 1977; M. Lipton, Capitalism and Apartheid. South Africa 1910-1984, Aldershot 1985; J. Casassas Y Imbert, L'Ateneu barcelonès dels seus origens als nostres dies, con un pream bolo di J. Andreu i Abelló e una postfazione di J. Maragall i Noble, Barcelona 1986; Id., Entre Escil la i Caribdis. El catalanisme i la Catalunya conservadora de la segona meitat del segle XIX, Barcelona 1990, pp. 108-230.
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fra il 1922 e il 1938 Mustafà Kemal promuove la laicizzazione e l’occidentalizzazione lottando contro lo snaturamento - perpe trato dall’islamismo arabo - della fisionomia nazionale di un po polo uralo-altaico: le misure di liberalizzazione del costume, in fatti, sono accompagnate da pesanti sanzioni a carico dei nativi maschi che contraggono matrimonio con donne straniere (divie to di accedere al grado di ufficiale dell’esercito o di ricoprire in carichi nella pubblica amministrazione). Dopo la seconda guerra mondiale, «è il piano Marshall che rilancia il kemalismo»22, e più ancora la collocazione strategica di antemurale della n a t o ai confini meridionali deU’Unione Sovietica; basta però che cessi il pericolo comunista perché la cultura musulmana si prenda la sua rivincita, dimostrando che per quanto riguarda l’intensità dei sentimenti di appartenenza non esistono gerarchie fisse e univer salmente valide: nel 1994 il partito religioso Refah ottiene un brillantissimo successo alle elezioni amministrative, mentre ria prono le scuole coraniche, ricompaiono le preghiere in lingua araba, cade il divieto di pellegrinaggio alla Mecca e insomma ri nasce una cultura che diffonde la «concezione islamica del mon do» (Ismet Ozel, Tarik Bugra, Cahif Zariflogu)23. Gellner e Hobsbawm tengono in scarsissimo conto la vitalità e la gagliardia dei sentimenti di appartenenza, che invece sono spesso superiori a quelle del lealismo istituzionale: è sufficiente meditare su quanto sia difficile scrollarsi di dosso un’anagrafe sgradita perché giudicata dannosa, o disonorevole, o umiliante, a quanto pesi e bruci e assilli e marchi nonostante il rifiuto sog gettivo, come dimostra la recentissima vicenda dell’esodo alba nese e come si ricava dalle splendide pagine della Guerra inver nale nel Tibet di Friedrich Durrenmatt (ma un po’ da tutta l’opera di questo scrittore). Ancora più interessante, in ogni mo do, è esaminare il caso in cui due sovranità aspirano al monopo lio di un’unica appartenenza, e capita che a prevalere sia quella che sa meglio interpretare l’appartenenza come capacità di pro 22 J.H . Duteuil, Loin dans la Turquie, Paris, La table ronde, 1958, p. 242. 23 Sull’ostilità dei neomusulmani verso l’industrializzazione e la modernizzazione, vedi B. Toprak, Les intellectuels islamistes, in a a . w ., La Turquie au seuil de l’Europe, a cura di P. Dumont e F. Georgeon, Paris, L ’Harmattan, 1991, pp. 167-179.
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durre tradizione politica. Il 18 giugno 1940, quando lancia dai mi crofoni della b b c il suo famoso appello alla resistenza, Charles de Gaulle non rappresenta nulla e nessuno, non possiede alcuna ri sorsa materiale, è alla disperata ricerca di alleati; per converso il maresciallo Pétain, capo di un governo formalmente legale, di spone di un territorio, di un esercito e di una pubblica ammini strazione, oltre che della benevolenza della Germania con la qua le ha appena stipulato l’armistizio. Entrambi nazionalisti, sia pure di diverse famiglie spirituali, negli anni successivi i due uomini si contendono il diritto di parlare a nome di tutta la Francia, senza limitarsi a sostenere la giustezza delle rispettive scelte - «collaborazione di stato» con la Germania e lotta outrée contro il nazismo - bensì inalberando due idee della nazione che più lontane non potrebbero essere. La patria di cui Pétain invoca il salut, dichia rando di volerla riparare dietro il suo bouclier, è una plumbea Francia neoassolutista («ogni comunità ha bisogno di un capo»), ultrareazionaria («i cittadini hanno l’obbligo di donare alla patria il loro lavoro, i loro beni e la loro stessa vita»), clericale («la scuo la deve insegnare il rispetto delle credenze morali e religiose, in particolare di quelle che il paese professa fin dalle origini della sua esistenza»)24. La patria di cui De Gaulle difende Xhonneur e la dignité, al contrario, è il popolo di uomini liberi ai quali la for ma repubblicana dello stato permette sempre di riconquistare una solidarietà d’intenti al di là di ogni e qualsiasi conflitto. Questo francese che mette ordine nella sua mente ma non nelle sue azioni, questo logicien che dubita di tutto, questo lavoratore tanto operoso quanto trascurato, questo sedentario che si trasforma in colo nizzatore, questo cultore dei versi alessandrini, dell’abito da sera, dei giardini reali che contemporaneamente canta a squarciagola, si sbraca indecorosamente e riempie i prati di sporcizia, questo Colbert collega di Louvois, questo giacobino che grida «Viva l’imperatore!», questo politicante che realizza Xunion sacrée, questo sconfitto di Charleroi che parte all’assalto sulla Marna...25.
24 P. Pétain, La France nouvelle. Principes de la communauté suivis des appels et messages 17 juin 1940 - 17 juin 1941, Paris, FasqueUe, 1941, pp. 9-10. 25 Ch. de Gaulle, Vers l’armée de métier, Paris, Berger-Levrault, 1934, p. 19.
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Bene, colui che trionfa è l’uomo del 18 giugno, l’ufficiale condannato a morte dal tribunale militare di Vichy, il leader del la France libre che risponde a Winston Churchill - quando co stui, esasperato, gli domanda se non potrebbe mostrarsi un po’ meno ostinato e intransigente - di essere troppo povero per po terselo permettere. De Gaulle, si capisce, ha il sopravvento per ché insieme con la Germania gli Alleati spazzano via il regime di Pétain e di Lavai, ma nella sua leale quanto subalterna collaborazione con inglesi e americani non è scritto in anticipo che egli rientrerà a Parigi da capo del governo, che riuscirà a far consi derare il suo paese vincitore della guerra, che guadagnerà per la Francia un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: questi risultati, assai più che dall’abilità con cui sa accattivarsi i reparti delle truppe coloniali dando vita a una piccola armée, dipendono dal fatto che il suo programma politi co - confortato dalle dimensioni della resistenza interna e dal l’ampiezza del consenso popolare - viene riconosciuto interna zionalmente come fonte di legittimazione di una sovranità che nasce dal nulla, ma incarna la vocazione più autentica della Francia prebellica restaurandola dov’era stata manomessa o tra dita dagli ultimi governi della terza repubblica. E l’impresa, si badi, non è né rapida né agevole. Il temperamento dell’uomo, la sua storia personale, lo staff di cui si circonda inducono gli Al leati a sospettare che coltivi mire dittatoriali, tant’è vero che gli americani - i quali lo detestano - cercano ripetutamente di insi diarne la leadership giocandogli contro l’ammiraglio Darlan e i generali De La Laurencie, Weygand, Giraud. Ma De Gaulle non si perde d’animo, e senza impazienze né forzature - proprio lui, raffigurato spesso come un personaggio attratto dalle decisioni brusche - tesse la sua tela di rinnovamento nella continuità to gliendo ossigeno ai vichyssois e ai loro protettori occulti e palesi: il 27 ottobre 1940 proclama da Brazzaville di voler «rendere conto dei propri atti ai rappresentanti del popolo francese»; il 24 settembre 1941, dopo aver constatato che leggi della repubblica sono sistematicamente violate nelle province dell’impero come «in tutto il territorio metropolitano», dispone che le sue stesse ordinanze «appena possibile siano obbligatoriamente sottoposte alla ratifica della rappresentanza nazionale»; il 15 novembre 35
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1941, in un discorso ai francesi rifugiati in Gran Bretagna, riaf ferma la sua fede nel trinomio liberté-égalité-fratemité «perché la nostra volontà è di rimanere ligi ai principi democratici che i no stri antenati hanno estratto dal genio della stirpe e che costitui scono la posta in gioco in questa guerra per la vita e per la mor te»; il 23 giugno 1942, infine, opta con chiarezza per la repub blica avvertendo in modo implicito che essa non potrà risolversi in una copia conforme di quella ignominiosamente liquefatta dai battaglioni tedeschi: «Io stesso e l’enorme maggioranza dei Fran cesi, di cui conosco bene l’opinione, siamo decisi con assoluta fermezza a ripristinare integralmente le sovranità nazionali e la forma repubblicana del governo»26. Il problema del nazionalismo al plurale, dei molti nazionali smi possibili in una singola nazione, dev’essere approfondito se riamente. Inchiodando i movimenti che si fregiano con questo nome al ruolo di artefici esclusivi di un Nation Building o di me dici spediti al capezzale di stati indeboliti, decrepiti, vacillanti, gli storici anglosassoni faticano non poco a rendere conto della loro molteplicità all’interno dei confini di uno stesso paese, e così pure a cogliere le differenze che passano fra il «comune senso della nazione» - non necessariamente imbevuto di ideologia - e quello che Pierre-André Taguieff chiama oggi le nationalisme des nationalistes21: soprattutto in età contemporanea, infatti, la qualificazione «nazionale» di partiti e associazioni serve quasi sempre a rinforzare - con il richiamo a una fratellanza tenden zialmente «ultima» e onnicomprensiva - l’appetibilità di pro grammi politici particolari che provvedono a fornire una base di 26 Cit. in J. Fauvet, La IVe République, Paris, Fayard, 1959, pp. 22-24. 27 La distinzione fra un nazionalismo consapevole ideologicamente e un naziona lismo «vissuto» sentimentalmente risale in realtà a uno studio di Jean Touchard (Ten dances politiques dans la vie française depuis 1789, Paris, Hachette, 1960, p. 135), ripre so più tardi da Pierre Andreu e da Raoul Girardet. Oggi ne viene sottolineato, contro i rischi di distorsione metodologica, il carattere di criterio «lessicale», «pragmatico» e «assiologicamente neutro», che permette di analizzare le opinioni di quanti si autoqualificano e si autodesignano «nazionalisti» come corpo dottrinario separato da ogni altra percezione dell’appartenenza nazionale (P.-A. Taguieff, Le «nationalisme des nationali stes». Un problème pour l'histoire des idées politiques en Trance, in a a .w ., Théories du nationalisme. Nation, nationalité, ethnicité, a cura di G. Delannoi e P.-A. Taguieff, Pa ris, Editions Kimé, 1991, pp. 49-50).
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massa a regimi oligarchici e conservatori, o a corroborare una strategia di controllo dei flussi di modernizzazione (che può es sere di sostegno come di rifiuto, perché esistono nazionalismi industrialisti e nazionalismi ruralisti), o di contrastare tramite l’or ganizzazione sindacal-corporativa l’avanzata di un socialismo che le élites liberali non sono più in grado di combattere. Nella Spa gna repubblicana dei primi anni trenta si può dire che solo i gruppi monarchici raccolti intorno a José Calvo Sotelo - e al concetto di patria come valore supremo che gli fa ripetere lo slo gan «meglio roja che rota», «meglio comunista che divisa» - si preoccupino in tutti i sensi dell’integrità del mondo iberico: per il resto pullulano e si affastellano movimenti - sempre «naziona li», va da sé - che perseguono scopi distinti e non sempre com possibili. Si va dagli affiliati a Ramiro Ledesma Ramos, sugge stionati dal nazismo e dal Führerprinzip, alla Falange di José An tonio Primo de Rivera, antiborghese e antidemocratica a propria volta ma attenta piuttosto alle esperienze del fascismo italiano; dal sindacalismo piccolo-proprietario di Onésimo Redondo, che canalizza la protesta anticapitalistica dei coltivatori di barbabie tole della Castiglia in nome «del cattolicesimo tradizionale spa gnolo, dello spirito dell’inquisizione, dell’intolleranza medievale e dell’ascetismo», al Partido Nacionalista Español di José Maria Albiñana, che a dispetto di qualche acción callejera e delle sue sparute squadre di energumeni e di legionarios si batte alla fin fi ne solo contro i progetti di europeizzazione della Spagna; dai manipoli del redivivo carlismo - capeggiati dall’andaluso Ma nuel Fai Conde ma radicati principalmente in Navarra e alleati con gli autonomisti baschi - che miscelano l’antisemitismo e l’ideale di una monarchia assolutista e accentratrice, ad Acción española di Eduardo Aunós e Ramiro de Maeztu, che si riallac cia ecletticamente al pensiero di Balmes, Menéndez y Pelayo e Vázquez de Mella insistendo prevalentemente sulla struttura corporativa dell 'estado nuevo2*. I tentativi di fusione naturalmente non mancano (per esem pio Redondo e Ledesma Ramos danno vita insieme alle j o n s , 28 Cfr. R. Morodo, Los orígenes ideológicos del franquismo: «Acción española», Ma drid 1985, pp. 139-221.
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Juntas de Ofensiva Nacionál Sindicalista, e successivamente si collegano con la Falange di Primo de Rivera), ma a conti fatti si rivelano superficiali, o affrettati, o pretestuosi: prova ne sia il naufragio dello sforzo più intenso e sincero - compiuto da Gar cía Valdescas, un allievo di Ortega y Gasset - di allestire per davvero una «centrale» nazionalista capace di assoggettare e di coordinare tutti i partiti29. Quando scoppia la guerra civile, dopo Yalzamiento del luglio 1936, Francisco Franco sa benissimo che questo pulviscolo di si gle vale poco più di nulla (salvo forse i requetés carlisti, dotati di una discreta attrezzatura militare): pertanto lo ignora compuntamente, lasciando intuire che l’unica forza nazionale è l’esercito e che il suo obiettivo è un accordo con la chiesa e con la grande possidenza fondiaria. In vista della vittoria, nel momento in cui gli occorre adornare i labari del potere con l’immagine di qual che santo precursore, il generalissimo non sta troppo a sottiliz zare: istituendo nel 1937 il partito unico - per mano di Ramón Serrano Súñer - lo denomina ecumenicamente Falange Españo la Tradicionalista y de las j o n s e con un omaggio postumo ac contenta tutti senza dover ricompensare nessuno; tuttavia gli or dinamenti a cui informa la sua dittatura mantengono e continue ranno a mantenere una distanza stellare dalla comune percezio ne della hispanidad che trova eco nella grande letteratura postnovantottesca, dal casticismo di Azorin - con la sua esaltazione della limpidezza e della rettitudine di vita nei borghi della mese ta o delle sierras - fino al quijotismo di Unamuno, con il suo di sgusto per la bassura dei tempi e i suoi tormentati sogni di gran dezza, di eroismo, di immortalità. Dove cessa il disaccordo, a ogni buon conto, e si deve con venire con Gellner e Hobsbawm, è nel considerare inaccettabili oggi le condizioni di comunanza linguistica, etnica e religiosa presenti insieme o separatamente - come soglia di liceità di un’autoaffermazione nazional-statuale. Anche se lo si fa valere in virtù della decadenza dell’idea giacobina di «nazioni une e indi
29 Cfr. H. Thomas, L ’eroe nella stanza vuota. José Antonio e il fascismo spagnolo, in «Dialoghi del xx. Rassegna di storia contemporanea», i, n. 1, 1967, pp. 206-208.
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visibili», infatti, un criterio siffatto rende spesso insolubili i pro blemi delle minoranze (sia insulari e circondate da elementi al logeni, sia staccate da un ceppo originario territorialmente con tiguo e a propria volta costituito in stato). Ciò è particolarmente evidente nell’area balcanica, dove il principio dell’«autodeterminazione dei popoli» appare inapplicabile se non al prezzo di un’atomizzazione progressiva, di un disordine permanente e di una grave alterazione degli equilibri internazionali (anche per la presenza in tutta la zona di cospicue enclaves tedesche e ungheresi)’0. Non è da credere, infatti, che la fine ufficiale del contenzioso serbo-croato-bosniaco - e la nascita degli stati di Ucraina e di Slovacchia -, abbia risolto definitivamente la questione delle na zionalità nello scacchiere centro-meridionale dell’Europa. Le nu bi che si addensano sulla Macedonia, per esempio, sono diven tate ben visibili dopo le affermazioni del ministro greco per gli affari europei contenute in un’intervista a un quotidiano italia no: «C ’erano due province, una provincia macedone in Grecia e una provincia macedone in Iugoslavia. Io non contesto che Skopje sia una parte della Macedonia geografica. Ma ora che so no uno Stato sembra che siano loro i veri macedoni. E questo pone un problema. Se il Ticino si dichiarasse autonomo e si chiamasse Stato di Lombardia questo creerebbe un problema ai milanesi o n o?»’1. Sempre nello stesso testo, Theodoros Pangalos sottolinea vigorosamente l’esistenza in Macedonia di una nu trita minoranza albanese, e denuncia interferenze bulgare nel l’organizzazione interna dei partiti politici. Ora, se si tien conto che esiste appunto anche una Macedonia bulgara - coincidente con il distretto amministrativo di Blagoevgrad, raggruppato con altri tre nelle vicinanze di Sofia, e che non gode di alcun tratta mento speciale - c’è francamente poco di buono da aspettarsi. Ancora più pericoloso - se riesumato a fini «identitari» - sa rebbe comunque il criterio del «diritto» garantito da una statualità pregressa. Più di una nazione o pseudonazione balcanica, co i0 Cfr. P. Béhar, L ’Autriche-Hongrie idée d’avenir. Permanences géopolitiques de l'Europe centrale et balkanique, Paris 1991, p. 163. ” «la Repubblica», 30 aprile 1994.
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me è noto, ha sperimentato la piena sovranità per un periodo brevissimo di tempo, sotto forma di stato-fantoccio - creato in funzione delle necessità strategiche e geopolitiche di qualche «grande» - e nel quadro di regimi illiberali o addirittura totali tari. Sarebbe assai inquietante se la Slovacchia rispolverasse le memorie della repubblica di monsignor Josef Tiso, satellite della Germania nazista, o se la Croazia cancellasse il suo secolare pas sato di sudditanza agli Asburgo per riabilitare la dittatura del poglavnik Ante Pavelic, creatura tra le più nefande del fascismo italiano. Nel suo ottimismo internazionalistico, suppongo, Hobsbawm reputerà che la spirale dello sgretolamento - a parte la Iugoslavia, ormai compromessa per sempre - si può arrestare at traverso la concessione di larghe autonomie da parte dei governi centrali e mediante una serie di cooptazioni in una c e e politicamente tonificata (oppure con l’istituzione di un organismo ana logo per l’Europa sud-orientale). Personalmente ne dubito mol to. Anzitutto perché nei Balcani il brassage etnico è talmente vorticoso che una situazione di questo genere rischierebbe di moltiplicare - in Vojvodina, per esempio, o in Transilvania - le «minoranze dominanti» simili alla componente tedesca del Sud Tirolo italiano, sapientemente radiografata da Sebastiano Vassal li e attentamente studiata da Flavia Pristinger32; in secondo luo go perché la corsa a uno status di privilegio si estenderebbe a macchia d ’olio, e non si può dimenticare che in Europa - ma an che nel Québec canadese - sono stati proprio i separatismi più insani e immotivati, come quello occitanico nella Francia degli anni settanta, a scendere sul terreno del terrorismo farneticando di «genocidio culturale»*5; da ultimo perché si dà una stretta correlazione fra il potenziamento delle strutture sovranazionali e il gioco al rialzo delle arroganze regionaliste (già ora quasi tutte le regioni costituzionalmente riconosciute mantengono uffici ’2 S. Vassalli, Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti, Torino 1985; F. Pristinger, La minoranza dominante nel Sudtirolo. Divisione etnica del lavoro e processi di modernizzazione dall’annessione agli anni Settanta, Bologna-Padova 1978. ” Vedi a a .w ., Deux pays pour vivre. Un plaidoyer, Louiseville-Montréal 1980; A. Touraine, F. Dubet, Z. Hegedus, M. Wiewiorka, Le pays contre l’Etat. Luttes occitanes, Paris, Maspero, 1981.
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propri a Bruxelles, e si tratta di uffici che in alcuni casi - come quello della Baviera - sono sostanzialmente vere e proprie am basciate). Vediamo di chiarire. Nella realizzazione di un ipotetico pro getto europeista, che si ripromettesse di dar vita a una confede razione di stati-regione, sarebbe misura preliminare quanto ne cessaria un’abdicazione a tutti i poteri sovrani da parte degli sta ti-nazione, con relativo vantaggio per soggetti che invece incon trerebbero difficoltà assai maggiori a negoziare con i rispettivi governi un assetto federale affidato alla cessione di funzioni am ministrative connesse con l’uso ufficiale della lingua, con il pre lievo fiscale, con la politica di spesa, con i programmi scolastici, con l’assistenza sociale, con il sistema di comunicazioni pubbli che. Di fronte allo scenario di un’«Europa delle regioni» è dun que lecito nutrire sospetto e scetticismo, perché è probabile che l’invocazione di crescenti franchigie mascheri la rinascita di una mai spenta xenofobia dei «piccoli». Il populismo degli «irreden ti», se ne fossero soddisfatte le velleità secessioniste, approdereb be inevitabilmente a esiti ultraconservatori54 (o peggio): un auto nomismo a base esclusivamente identitaire, infatti, non può non puntare sul protezionismo etnico e sull’impermeabilità delle ge rarchie sociali autoctone, per tacere della sua scarsa o nulla di mestichezza con alcuni cardini dell’ordinamento giuridico - plu ralismo, tolleranza, larga titolarità di diritti per gli immigrati che spesso sono prerogative proprio degli stati che avrebbero annesso e sottomesso le patrie «naturali». Indipendentisti o me 54 I trascorsi del micronazionalismo sono spesso eloquenti a questo proposito. Il movimento autonomista bretone, per esempio, fin dal congresso celtico del 1867 è do minato dalla chiesa e dalla destra parlamentare, e si ispira a un ruralismo schiettamente tradizionalista; in seguito - dopo il 1932, quando è passato attraverso le esperienze del raggruppamento Bleun Brug, della rivista «Gwallarn» e dell’associazione Breiz Atao per opera di Célestin Laìné esso approda all’alleanza con il fascismo che dilaga in Eu ropa e durante la seconda guerra mondiale arruola addirittura una sua brigata nelle Waffen ss. Durante gli anni sessanta e settanta, dopo il tramonto delle speranze riposte in De Gaulle (cfr. M. Nicolas, Histoire du mouvement breton, Paris, Syros, 1982, p. 286), nasce il Front de libération de la Bretagne, socialista e rivoluzionario, che dà vita a un esercito repubblicano e si dedica ad attentati terroristici di grande risonanza par ticolarmente nel 1968 e nel 1971 (vedi R. Lafont, La nation, l’Etat, les régions. Réflexions pour une fin de siècle et un commencement d’Europe, Paris, Berg international, 1993, pp. 62-67).
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no, i patriottismi locali hanno generato quasi sempre movimenti politici estranei alla cultura democratico-liberale: da un lato ver sioni leggermente differenziate della Sammelpartei, del «partito di raccolta» interessato soltanto alla salvaguardia del patrimonio demo-genetico - come la s v p in Sud Tirolo, o Convergència i unió in Catalogna -, dall’altro gruppi rivoluzionari, clandestini ma in genere provvisti di un braccio legale, per i quali l’estremi smo ideologico serve a garantire la compattezza militare e a pre figurare società olistiche in grado di sventare ogni attentato con tro la purezza gentilizia (come il Front national de libération in Corsica, o Euskadi Ta Akatasuna nel Paese basco). Oggi, d ’altronde, non è più in dubbio la «deriva» fascista e nazista - messasi in moto durante la seconda guerra mondiale dei più accesi movimenti secessionisti che allora si ergevano a tu tori delle etnie ridotte in servitù. In un libro assai documentato - e dedicato in gran parte alle biografie del Kreisleiter alsaziano Hermann Bickler, del giornalista corso Petru Rocca, direttore di «A Muvra», e del fondatore del Consiglio nazionale bretone Olier MordreP5 - Francis Arzalier delinea un panorama abba stanza impressionante dei calcoli scellerati che indussero i leader di molte «nazionalità oppresse» a sperare in una sistemazione privilegiata entro l’ordine nuovo promesso dalla Germania, ora indossando l’uniforme della Wehrmacht e delle ss, ora dedican dosi ai bassi servizi del collaborazionismo: le centinaia di mi gliaia di giovani ucraini arruolati sotto le bandiere del generale Vlassov per combattere accanto ai tedeschi; le gerarchie ecclesia stiche croate - con in testa il primate Aloizii Stepinac - incorpo rate dagli ustascia nel «parlamento» di Zagabria per appoggiare il genocidio dei serbi ortodossi e dei bosniaci musulmani; l’eser cito lettone capitanato dall’ex ministro filo-occidentale Rudofis Bangerkis, schierato in guerra a fianco dei nazisti allo scopo di cancellare anche l’ultima traccia della presenza sovietica; la sim patia per l’Asse diffusa in tutto il mondo arabo e culminata nel reclutamento della divisione Handschar, guidata dal muftì di G e rusalemme Amin al-Husseini, forte di ventimila uomini e spedita 55 Cfr. F. Arzalier, Les perdants. La dérive fasciste des mouvements autonomistes et indépendantistes au XXe siècle, Paris, La découverte, 1990.
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in Iugoslavia a rastrellare i partigiani titoisti; il Vlaams Nationaal Verbond di Staf de Clercq, deciso a creare con il sostegno di Himmler uno stato fiammingo separato dalla Vallonia36. Non di rado, si noti, le stimmate originarie rimangono im presse tuttora sul programma politico delle fazioni autonomiste: proprio in Belgio, nonostante una riforma dello stato in senso fe derale, un Blok di estrema destra ha vinto ad Anversa le elezioni locali dell’8 ottobre 1994 - e con ventotto consiglieri municipali è diventato il primo partito della città - battendosi per l’indipen denza delle Fiandre e il rimpatrio forzato di tutti gli immigrati non europei; negli stessi giorni il pluridecennale bipolarismo au striaco è entrato in crisi a causa del travolgente successo della f p ò di Jòrg Haider, un partito sedicente «liberale» ma in realtà xenofobo, populista e isolazionista, che a poche settimane dal referendum sull’adesione all’Unione europea ha privato socialisti e democristiani della maggioranza qualificata - due terzi del par lamento - indispensabile per adeguare la Costituzione alle diret tive dell’assemblea di Strasburgo. In definitiva, la vocazione comunitaria delle regioni sembra ancora più tiepida e calcolatrice di quella degli stati, e potrebbe rivelarsi poco più di un grimaldello buono per scassinare obbe dienze avvertite come onerose oltre che per assicurare - alle aree potenzialmente più ricche - lauti privilegi in campo economico. Si tratterebbe, in altre parole, di ottenere tramite un simulacro di integrazione la tutela delle diversità che alcuni «piccoli» sono riusciti a conseguire abbinando l’isolazionismo politico e il per missivismo finanziario: com’è accaduto all’Austria monoetnica, scheggia tedesca dell’antica Pannonia con qualche decina di mi gliaia di sloveni disseminati intorno a Klagenfurt, che nel 1986 ha sprezzantemente ignorato le pressioni dell’opinione pubblica internazionale quando essa le chiedeva di non eleggere presiden te della repubblica Kurt Waldheim, presunto autore di crimini di guerra, e nel contempo ha lucrato benefici trasformandosi in un caveau - con cinque milioni di abitanti e oltre nove milioni di conti correnti bancari - per capitali imboscati o temporanea mente quiescenti. 16 Ib id , pp. 161-200.
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In Europa la promozione al rango di nazioni di sacche etni che affette dal «mal d’identità» cozza inoltre contro l’esistenza consolidata di macroregioni a elevato sviluppo «tecnopolitano», per riprendere la terminologia del geografo Roger Brunet: la «dorsale lotaringia», che si estende da nord a sud lungo un arco che prende avvio nel Lancashire e si spinge fino alla valle pada na passando per l’Olanda, la Renania, l’Alsazia, la Svizzera nordorientale, il Baden-Württenberg, la Baviera e la Lombardia’7; oppure l’«interfaccia mediterranea», di formazione più recente, che copre la fascia costiera da Valencia a Pisa attraversando la Catalogna con Barcellona, il midi francese con Marsiglia e la Li guria italiana con Genova. Va notato peraltro che non esiste al cun accordo sui confini interni dell’«Éuropa delle regioni». Un brillante giornalista di «Euromoney», Darrell Delamaide, ne di segna per esempio un tracciato tutto suo, traendo spunto dai processi di concentrazione degli insediamenti produttivi, delle tecnologie e dei capitali, ma tenendo anche conto - sia pure in subordine - delle prossimità geografiche e dei giacimenti storici: ne risulta una «Costa atlantica» che parte dalla Norvegia, investe le isole britanniche, scende lungo la Francia occidentale con Brest e Bordeaux giungendo a includere la Galizia spagnola e il nord del Portogallo; una «Mezzaluna mediterranea» che si sno da da Lisbona a Palermo, attraversando la Castiglia, la Catalo gna e la Provenza; una «Mitteleuropa» che intorno al grosso del la Germania e della Francia raccoglie la Repubblica Ceca e la Polonia fino a Varsavia; un «Arco alpino» forte della contiguità svizzero-bavarese-austro-slovena; un «Bacino danubiano» com57 «Si tratta di uno spazio ad alta densità di popolazione e a forte concentrazione economica, che va dall’Inghilterra all’Italia - almeno dal Lancashire alla Lombardia espandendosi per 1500 chilometri di lunghezza e 100-300 di larghezza. Vi si trovano raccolti più di 80 milioni di abitanti, su appena un sesto della superficie della Comu nità [...]. Vi si produce il 50 per cento delle ricchezze dell’Europa occidentale, il che rappresenta tre volte l’india e la Cina messe insieme. Il valore aggiunto per chilometro quadrato è valutabile in circa 36 milioni di Ecu, contro una cifra variabile fra i 6 e i 12 milioni nel resto dell’Europa occidentale [...]. E insomma una delle tre autentiche me galopoli del mondo, conforme in tutto e per tutto a ciò che intendeva il creatore del concetto, Jean Gottman, quando studiava quella statunitense. È anche la più grande delle tre: l’americana annovera 1000 chilometri di lunghezza e 45 milioni di abitanti, la giapponese 1200 chilometri di lunghezza e 55 milioni di abitanti» (R. Brunet, Le terri'oire dans les turbulences, Montpellier, Gip Reclus, 1990, pp. 170-171).
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posto da Croazia, Slovacchia, Ungheria e Romania; una «Lega baltica» formata dalla Finlandia, dalla Svezia, dalle tre repubbli che anseatiche e da uno scampolo di territorio russo gravitante su Pietroburgo; una «Penisola balcanica» fondata sull’unione di Serbia, Albania, Macedonia, Grecia e Bulgaria; una «Federazio ne slava» costituita essenzialmente dalla Russia con l’aggiunta della Polonia orientale38. Per capire come procede Delamaide, basterà soffermarsi sul le motivazioni che adduce quando afferma (ma il campione è scelto a caso) che la Mitteleuropa è una macroregione: la rende rebbero tale le partecipazioni finanziarie incrociate franco tedesche, l’altissima densità industriale del triangolo renano Dunkerque-Munster-Metz - storicamente nato intorno alle mi niere di carbone -, un’ubicazione protetta dal corso della Senna, della Vistola, del Reno, dell’Elba, e le grandi tradizioni di tolle ranza e buongoverno del ducato di Borgogna39. Per parte sua il Forecasting and Assessment in Service and Technology, cioè l’ufficio-studi della Commissione europea di Bruxelles, annuncia gioiosamente un avvenire «anseatico», pro nosticando la libera associazione fra le principali «europoli» major islands di un arcipelago continentale - che già ora stanno sperimentando interconnessioni telematiche, accordi di coopera zione, scambi di beni, servizi, manager e conoscenze: la Grande Londra, l’Ile-de-France, la Ruhr, l’entroterra di Stoccarda, Mo naco, Milano-Torino, il Rhòne-Alpes con Lione e Grenoble. Ora, che cos’hanno da spartire siffatte polarizzazioni con le zone depresse, marginali, sottoposte a colonizzazione interna, come la Corsica costretta ad accogliere i pieds noirs fuggiti dal l’Algeria o l’Ulster popolato a viva forza da una borghesia angli cana di origine inglese? Nulla, evidentemente. Anzi, la nuova Hansa - ammesso che non sia una chimera, e che come ritengo no i futurologi di Bruxelles sia destinata a svuotare progressiva mente gli stati-nazione di ogni competenza - ne aggraverà sol,8 Cfr. D. Delamaide, Le nouveau puzzle europèen, Paris, Calmann-Lévy, 1994. ,9 ìbtd., pp. 179-218. Vedi anche, su scala ridotta, H. de Jouvenel-M.A. Roque, Catalogne à l’horizon 2010, con una prefazione di R. Barre e un preambolo di B. Porcel, Paris, Economica, 1994, pp. 41-79.
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tanto la povertà e la condizione subalterna; così come declasserà a periferia venerande culle di civiltà, dalla Normandia alla Castiglia, dalla Prussia alla Vallonia. Se ha ragione l’urbanista e filo sofo francese Paul Virilio - il quale crede fermamente che lo scorcio del secondo millennio preluda a una rifeudalizzazione dell’Europa, con sindaci e borgomastri drappeggiati da signori, vassalli e condottieri - l’attrito fra riscoperta delle «radici» ed economia transpaziale darà sicuramente adito a tensioni incon trollabili. A meno che... A meno che gli stati-nazione non oppongano un argine in nome dei princìpi di cui sono rimasti gli ultimi depositari, stante che la loro legittimità non trae origine né dall’etnocentrismo né dal produttivismo «mediático»: la cittadinanza come fondamen to dell’identità (e non viceversa), la memoria storica, la delimita zione concreta del lealismo istituzionale, il rispetto delle diffe renze linguistiche e religiose che è possibile solo dove esiste un’unità civile, morale e politica. In tutto l’Occidente, con l’eccezione della Svizzera e della Germania, il diritto di cittadinanza è regolato dallo ius soli e non dallo ius sanguinis, e ciò sta a significare che la composizione de mografica delle nazioni è programmaticamente interetnica: Nel primo caso la cittadinanza è un diritto che spetta a chiunque sia nato e viva su un determinato territorio organizzato nella forma giuridi ca di stato. Nell’altro si tratta di un diritto ereditario che si tramanda col sangue e che può al massimo essere in qualche caso concesso, ma mai rivendicato e comunque vincolato a condizioni assai restrittive e sempre all’obbligo di rinunciare alla nazionalità di origine. «Lo ius soli afferma» - secondo David Schònbaum - «che il bambino algerino nato in Fran cia è francese. Lo ius sanguinis sostiene al contrario che un bambino turco nato a Berlino, che parla tedesco e frequenta scuole tedesche, è uno straniero e tale probabilmente resterà. Mentre lo Aussiedler, un im migrato dalla Polonia o dal Kazakhstan, che non parla tedesco e non ha mai messo piede in Germania ma ha lontane ascendenze tedesche, ot tiene la cittadinanza non appena ne faccia richiesta»40.
In Germania, a dire il vero, l’art. 116 della Costituzione 40 D. Schònbaum, Wirtschaftswunder oder Kuweit, «Frankfurter AUgemeine Zeitung», 7 dicembre 1992.
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che codifica appunto il criterio dello ius sanguinis - nel secondo dopoguerra non ha mai incoraggiato il mito della Kulturnation e dell’intangibilità razziale, anche se la sua formulazione non sem brava affatto rassicurante: è servito piuttosto nella r f t - ed egre giamente - a risolvere in via breve i problemi di assimilazione e di status degli oltre 14 milioni di tedeschi cacciati fra il 1944 e il 1947 dai bacini polacchi, ungheresi, ucraini e romeni. Certo og gi, percossa com’è da possenti ondate di immigrazione, la Ger mania unificata non può illudersi di bilanciare la severità dell’art. 116 con la generosità dell’art. 16 della legge fondamentale dello stato, che proprio perché nega loro la nazionalità accorda agli Asylanten benefici assicurativi e previdenziali mediante con tribuzioni a carico dei cittadini pieno iure\ almeno una parte del la classe politica, comunque, è consapevole della gravità della questione, e al Bundestag giace un disegno di legge - presentato da socialdemocratici e liberali - che prevede l’omologazione del la normativa in materia a quella degli altri paesi democratici. La memoria storica - che ovviamente può essere di famiglia, di classe, di mestiere, di generazione, di clan - si amplifica mol to quando include nel proprio orizzonte la territorialità, sia in terpretata come paesaggio fisico «costruito» secondo particolari moduli culturali, sia considerata come perimetro geografico del luogo entro cui si dipanano i destini collettivi. Che cosa sarebbe l’Olanda senza i polders, cioè senza un assetto idrogeologico ar tificiale che rende possibile l’agricoltura nelle terre basse? Esiste rebbe la Francia senza il sistema del pays - gravitazione progres siva della fattoria sul villaggio, del villaggio sul borgo, del borgo sulla città - e senza la rete viaria che ha collegato per secoli que sti grumi abitati di un immenso esagono rurale41? Si può revoca re in dubbio il legame che stringe l’identità americana a un siste ma politico - il cui postulato fondamentale non è la sovranità popolare ma il primato della legge - nato due secoli fa quando le vessazioni e gli arbitri della corona britannica spinsero tredici colonie a ingaggiare una guerra per l’indipendenza? È possibile contestare il fatto che la straordinaria solidità della Polonia di 41 Vedi le pagine memorabili di F. Braudel, L ’identità della Francia. Spazio e sto ria, trad. it., Milano 1986, pp. 117-251.
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pende da una tradizione di resistenza inaugurata all’epoca delle spartizioni settecentesche, e che durante l’occupazione nazista - subito, già nell’autunno del 1939 - permette la formazione di un apparato amministrativo sotterraneo con agenti sparsi in tutte le regioni, la ricostituzione di una milizia regolare, l’ero gazione di servizi corrispondenti a quelli forniti dai ministeri e addirittura la creazione di una rete di scuole che dopo la chiu sura degli istituti secondari e superiori da parte dei tedeschi as sicura la continuità dell’insegnamento organizzando esami e ri lasciando diplomi42? Spesso le protesi applicate al paesaggio rappresentano an che la proiezione simbolica di una svolta spirituale nella storia di un popolo: l’architettura barocca - da Torino a Lecce, da Milano a Noto, da Genova ad Acireale, da Venezia a Roma travasa in monumenti la cui solennità è pari alla mondana ci vetteria lo spirito del cattolicesimo controriformistico, che è una delle grandi tappe del making culturale dell’Italia moder na. Altre volte una prova asprissima e tragica - un’invasione, una battaglia condotta senza esclusione di colpi - determina spostamenti nella collocazione internazionale di un paese: al l’ambiguo europeismo degli inglesi, divisi tra la diffidenza verso i partner continentali e un disincantato apprezzamento dei rap porti di forza, non è certo estraneo il ricordo dei terribili mesi del 1940, nel corso dei quali la Gran Bretagna rimane sola a fronteggiare Hitler rischiando l’integrale «coventrizzazione» per opera della Luftwaffe. La delimitazione concreta del lealismo istituzionale coincide con il patto sociale che trasforma una nazione in uno stato, fa cendo scaturire obbligazioni politiche dal desiderio di «stare in sieme» di cui discorrevano già Ernest Renan e Numa Fustel de Coulanges, cioè dalle «tecniche del vivere», dai loisirs, dalle tra dizioni, dai modelli di scansione temporale dell’esistenza affetti va e lavorativa che accomunano gli individui al di là dell’appar tenenza etnica. Anche se il realismo insegna che le fedeltà di ti po imperiale - proprio perché reclamate da un potere «lontano» 42 p. 323.
Cfr. M. Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, trad. it., Firenze 19742,
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- sono sostanzialmente inesigibili, qui si tratta di uno snodo de licato dei processi di Nation Building, forse del più delicato di tutti perché implica inevitabilmente un progetto di mantenimen to delle diversità che negli ultimi secoli è degenerato in troppe circostanze. Ma l’adozione di ordinamenti democratico-liberali immunizza contro il pericolo di scambiare una constatazione di diversità con una presunzione di superiorità antropologica; il che è semplicemente provvidenziale perché a dispetto del rock, della Coca-Cola e dei mezzi di comunicazione che hanno rimpic ciolito il pianeta le alterità sono destinate a sopravvivere ancora per molto. Si pensi solo alle differenze linguistiche: non è certo difficile imparare - anche in fretta, anche con scioltezza - a esprimersi in una lingua straniera, ma non si riesce ancora a smetter di parlare e soprattutto di pensare nel proprio idioma materno (il bilinguismo perfetto non esiste, come ben sanno gli studiosi) perché non si è disposti ad accettare l’impoverimento spirituale che deriva dalla rinuncia a una cultura strutturata in un unico sistema di segni. Che solo gli stati-nazione provvisti di unità civile, morale e politica, infine, siano in grado di esaudire la domanda di autogo verno di alcuni settori di popolazione, è cosa intuitiva e autoevi dente: nel loro ambito, infatti, la stabilità delle istituzioni è garan tita dalla spontaneità e dalla generalità del consenso, mentre nei regimi autoritari - che di norma nascono da una lacerazione pro fonda del patto di convivenza, e dunque devono necessariamente imbavagliare gli oppositori - l’esercizio del potere è assicurato so lo dall’indivisibilità delle funzioni di comando. Nella Spagna di Franco, uscita da una guerra civile cruenta quant’altre mai e da una feroce repressione del dissenso durata fino alla metà degli an ni cinquanta, i catalani erano stati privati di tutte le loro tradizio nali autonomie a cominciare dall’inclusione della lingua nei pro grammi scolastici; ora, dopo lo smantellamento della dittatura nel 1975-78, anche nella grande Università della Galizia - Santiago de Compostela - si adopera la lingua locale e di conseguenza si pubblicano testi scientifici redatti in gallego. Dopo che il fasci smo, sorto a propria volta da una gravissima spaccatura del paese, aveva maltrattato le ventidue minoranze presenti in Italia - fortu natamente poco numerose -, persino una democrazia fragile e 49
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malferma è riuscita a onorare gli accordi De Gasperi-Gruber sul Sud Tirolo e a istituire le regioni a statuto speciale, dalla Sicilia nel 1946 al Friuli-Venezia Giulia nel 1963. In materia di autonomia e di autonomismo, sarebbe bene non dimenticarsene, si rischia spesso di sopravvalutare l’impul so separatista che anima le minoranze più chiassose. Anche do ve le richieste di autodeterminazione sono vivaci, persistenti e magari violente, quasi sempre i partiti «nazionali» rimangono i più forti o subiscono solo la preminenza delle correnti regionaliste moderate: in Euskadi, alle elezioni amministrative del 1990, il Partito nazionale basco ha ottenuto il 28,9 per cento dei voti e il Partito socialista di Felipe González il 20,8 per cento, mentre Herri Batasuna - il galleggiante politico dell e t à - non è riuscito a spingersi oltre il 17,3 per cento; in Corsica, analogamente, alle elezioni legislative del 1993 i tre spezzoni del movimento Corsica nazione - la Cunculta nazionalista, il f n l c e I verdi - hanno superato i socialisti ma sono stati net tamente sconfitti dal raggruppamento r p r - u d f . Molte esagera zioni, su questo argomento, vanno imputate ai fautori dell’«Europa delle regioni», che nel loro cieco settarismo deducono astrattamente l’esistenza di una «volontà generale» dalla mera datità di una prevalenza etnica: così Robert Lafont, per esem pio, che pure è un saggista informato e perspicace immagina che in Italia debba covare per forza una «questione sarda», e ignora che la Sardegna ha dato alla repubblica due presidenti su otto, che il Partidu sardu indipendentista è un innocuo fan tasma e che dai capoluoghi dell’isola sono sbarcati sul conti nente - toutes proportions gardées - leader politici italianissimi come Enrico Berlinguer e Mario Segni. Ciò che si è osservato fino ad ora non vuol dire che gli statinazione siano tutti e per loro indole democratici: a dim ostrare il contrario sarebbe sufficiente la dissoluzione dell’im pero sovieti co, con l’erompere di tribalismi, fondamentalismi, populism i e con l’insano smembramento - che ogni ragionevolezza avrebbe im posto di evitare - dello stesso blocco geopolitico com posto da Russia, Ucraina e Bielorussia. Semmai si è sottintesa l’urgenza di un’esportazione della dem ocrazia - attuabile magari attraverso alleanze regionali che sopperiscano alla paralisi dell’oNU - da 50
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parte di quelle che lo stesso Hobsbawm definisce «vere nazio ni», e che potrebbero utilmente ricuperare - in chiave meno utopica e sognatrice - l’idea universalistica di «missione» che nel secolo scorso ha sempre accompagnato il nazionalitarismo liberal-romantico. La fiducia di Jules Michelet nella «risurrezio ne» di una Francia che deve «vivere per la salvezza del mon do» pecca al massimo di un eccesso d’amore; ciò che Vincenzo Gioberti chiama «sacerdozio» dell’Italia - vale a dire lo sforzo di ridestare i valori della cultura europea, che essa custodisce compiutamente perché altrove appaiono frantumati e divisi - è affetto solo da un’innocua presunzione; il miraggio saintsimoniano di una nazione «apostola» dell’industria e della tec nica risente tutt’al più di una foga modernizzatrice che rasenta l’estasi contemplativa. Per una curiosa slogatura dell’intelletto, si è ritenuto che la se conda guerra mondiale segni il tramonto degli stati-nazione insieme con quello dei nazionalismi imperialisti, razzisti e totalitari che l’hanno scatenata: la costituzione di organismi internazionali prepo sti alla sicurezza e alla cooperazione economica, poi, e insieme la prolungata confrontation nucleare fra «mondo libero» e «impero del male», suggellano definitivamente una persuasione formatasi di fronte alle ceneri del fascismo e del nazionalsocialismo. In realtà, è con la prima guerra mondiale che si estingue il nazionalismo di stam po positivistico, intriso di biologismo e di darwinismo sociale oltre che armato di istinti aggressivi e dominatori. È nella straordinaria temperie della guerra di trincea - ha acuta mente notato uno studioso - che si forma quell’intreccio di nichilismo e di misticismo, di risolutezza e di sradicamento, di credulità e di cini smo, che sarà la comune essenza del tipo del fascista, del bolscevico, del nazionalsocialista, i quali daranno scacco alla civiltà liberale. [...] I tratti magici, le fantasie arcaicizzanti, le propensioni favolistiche, emer si durante la Grande Guerra non sono stati altro che lo scoppio di un’esigenza modernissima, nel senso che essa è propria a tutti i regimi politici dell’età contemporanea, i quali, come si sa, sono regimi politici di massa. E cioè l’esigenza che questi regimi - per l’ampiezza e la pro fondità della socializzazione che promuovono, per il ritmo accelerato della dinamica sociale che innescano e le caratteristiche che tali feno meni assumono nel contesto urbano-industriale - possano contare su
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modelli d’integrazione non soltanto socio-economici, bensì anche, e forse soprattutto, mitico-simbolici4i.
Ora, il nazionalismo che tiene banco nell’Europa del pro tezionismo e della prima industrializzazione è decisamente troppo avaro di suggestioni emotive per saziare la fame di im maginario propria di una generazione che è disposta ad acco starsi alla politica solo quando possiede una mistica: nonostan te le robuste iniezioni di irrazionalismo e di culto della forza efficaci in Germania e in minor misura nella Francia repubbli cana - esso intrattiene ancora rapporti con i residui di una ra zionalità scientista (o più precisamente di un’ideologia della scienza), con le tabulazioni antropometriche e fisiognomiche, con la nostalgia di ordini politici elitari, soldateschi, conservatori piuttosto che gerarchici, cavallereschi, iniziatici. Per di più, in coloro che non si sono lasciati devastare psicologicamente dalla guerra, matura a poco a poco una visione larica della pa tria come Heimat, rifugio confortevole e sicuro, ospizio delle intimità domestiche, alveo di una stanzialità da cui trae senso l’«essere nel mondo», che nulla ha da spartire con morfemi e fonemi dottrinari. I fascismi, certo, attingono ancora a piene mani al serbatoio delle parole d’ordine nazionaliste, ma solo perché l’appello alla nazione - che è quanto dire a tutti gli abitanti di un paese, nes suno escluso - può gettare le premesse elementari della mobili tazione integrale di cui hanno spesso necessità per i loro scopi politici, economici e militari: l’obiettivo più importante e ambi zioso che perseguono - previa la selezione disegnata in libri co me Mein Kampf o Der Mythus des 20. Jahrunderts di Alfred Ro senberg - è una radicale rivoluzione antropologica che culmini nell’epifania dell’«uomo nuovo». Negli scrittori lambiti dalla «tentazione fascista» - per usare la formula di Tarmo Kunnas questa aspirazione è assolutamente trasparente: fra le pagine dei loro romanzi si rincorrono il rifiuto del progresso in nome di una «barbarie» vitalista connaturata all’immutabilità della specie e alla gratuità del cosmo, il moralismo antipuritano e la religione 43 E. Galli della Loggia, Introduzione all’edizione italiana, in P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, trad. it., Bologna 1984, pp. x v i i -x v i i i .
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della hybris come unico antidoto contro la decader^ fisica e spirituale dell’uomo contemporaneo, Pantiegualitarismo mutua to dalle antiche consuetudini comunitarie, la fede nell’instaura zione di una civiltà «tragica» dove gioia e sofferenza s’immede simino senza lasciare scorie44. Per Robert Brasillach, ad esempio, il fascismo è essenzial mente una sorgente di gioventù: una promessa di quel bene fu gace, prezioso, insostituibile che profuma con struggente dolcez za la prosa di Comme le temps passe. Per Pierre Drieu La Rochelle, invece, il fascismo si risolve soprattutto nell’affermazione di una morale eroica, dell’etica dai tratti cinici, ribelli, insolenti, spietati che induce il protagonista di Gilles - sullo sfondo della Spagna dilaniata dalla guerra civile - a lasciar trucidare alcuni commilitoni al posto suo perché gli uomini superiori hanno il dovere di sopravvivere. Già qui, se ancora non si annusa aria di abbandono, s’intravede una forte trasvalutazione narcisistico-esistenziale del nazionalismo «classico»: un’insofferenza addirittura delirante, al contrario, per gli ostacoli che esso frapporrebbe a un lavacro e a una rigenerazione dell’arianesimo, prorompe dal le invettive del «medico dei poveri» Louis Destouches - in arte l’anarchico, pacifista, antisemita Céline - che nelle vicende per sonali come in quelle del Bardamu di Viaggio al termine della notte incarna al meglio la figura dello stralunato combattente riemerso nel 1918 dalla melma delle trincee. Pierre Birnbaum, che ne denuncia con nausea malcelata le responsabilità di pro pagandista, sottolinea molto energicamente questo aspetto di un soliloquio che si trasforma in discorso civile: Il paganesimo di Céline, e il suo anarchismo radicale, lo allontana no daüe destre conservatrici o estremiste: il suo razzismo funziona co me una contro-utopia, come un viaggio all’indietro rispetto alla nazio ne e al nazionalismo, all’indietro rispetto... al Trattato di Verdun, al l’anno 843: «Sabotaggio dell’Europa! - esclama - Affastellamento del l’Europa in cinquanta frontiere assurde. Creazione dell’eterno conflit to franco-tedesco, dell’eterna macelleria franco-tedesca, dell’inesau ribile massacro di Ariani francesi scagliati contro gli Ariani tedeschi. 44 Cfr. T. Kunnas, La tentazione fascista, trad. it. con una presentazione di M. Tarchi, Napoli 1981.
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L ’Apocalisse in famiglia, per gli arricchimenti, le glorie, le scostuma tezze, le buffonate e i baccanali di Israele»45.
Sarebbe un errore credere che la crisi del cosiddetto naziona lismo fascista precipiti quando i tedeschi occupano l’Europa, re legando i loro amici e simpatizzanti al ruolo di manovali impiegati nell’arredo del Grossraum nazista: anche prima del 1939 il tra guardo di un «ordine nuovo» - confezionato su misura dell’«uomo nuovo» - fa aggio sulle più scontate risacche nazionaliste. Ferenc Szâlasi, fondatore nel 1935 del Movimento ungarista delle «croci frecciate», è poco tenero fin dall’inizio con l’irredentismo transilvano, e anzi si prodiga per realizzare forme di intesa con i «fratelli» romeni della Guardia di Ferro giungendo nel novembre del 1940 a inserire nella direzione del suo partito - proprio in Transilvania, a Cluj - un esponente dei «legionari dell’Arcangelo Michele» orfani di Corneliu Codreanu: la sua convinzione, infatti, che nella futura Europa nazionalsocialista occorra principalmente evitare i trasferimenti di popolazione, gli suggerisce la proposta di un «co-nazionalismo» (per quanto riguarda i suoi compatrioti si tratta della «proiezione della nuova Europa nello spazio vitale del popolo ungherese»46) in grado di placare le controversie di fron tiera sfruttando l’uniformità di regime politico. In ogni caso la Germania, se le esigenze belliche lo richiedono, non esita a stra pazzare i fascismi indigeni e a ignorarne le motivazioni originarie: in Belgio il rexismo di Léon Degrelle, attivo dal 1930, viene ripu diato a prò dell’AGRA (Amis du grand Reich allemand) nonostante il suo capo abbia reclutato una Legione Vallona e combattuto personalmente in Russia, così come al fiammingo v n v (Vlaamsch Nationaal Verbond) nel 1942 viene preferito il d e v l o g (DeutschVlàmische Arbeitsgemeinschaft). Il discredito in cui cadono rapidamente i partiti filonazisti, divisi fra un servilismo pavido e un collaborazionismo turpe, giova spesso a consegnare la speranza nel riscatto nazionale alle forze della Resistenza: organizzazioni come il Nationaal Sociali45 P. Bimbaum, «La France aux Français». Histoire des haines nationalistes, Paris, Seuil, 1993, p. 215. 46 F. Szâlasi, Discorso pronunciato al Gran consiglio operaio il 18 ottobre 1942, in Kitartàs. Ferenc Szâlasi, le croci frecciate e il nazionalsocialismo ungherese, a cura e con introduzione di C. Mutti, Padova 1974, p. 21.
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P E N SIE R I A C A PITO LO
stisch Beweging di Anton Mussert in Olanda, o come il Nasjonal Samling di Vidkun Quisling in Norvegia, per un atroce scherzo della storia diventano emblemi di servitù, di tradimento, di pubblica vergogna e di connivenza con lo straniero. Anche la rissosità, la mentalità scissionistica, la spiccata tendenza al dog matismo, le piroette opportunistiche e soprattutto la frantuma zione concorrono a infrangere per sempre il dittico nazione-na zionalismo quando il nazionalismo è rappresentato da movimen ti fascisti o fascisteggianti. Chi sono i «veri» custodi del verbo patriottico nella Francia di Vichy? I tecnocrati della révolution corporative spontanée stretti intorno al maresciallo Pétain? Gli affiliati al Rassemblement national populaire di Marcel Déat, po pulisti e «socialisti»? Gli iscritti al Parti populaire français del l’ex comunista Jacques Doriot, fautori pentiti di un «fascismo di pace»? Gli uomini del p s f e della cerchia del generale François de La Rocque, tanto antinglesi quanto antitedeschi? I seguaci della destra tradizionale, dai cagoulards ai membri della Synarchie e dei Comités secrets d’action révolutionnaire47? E chi in terpreta il sentimento nazionale magiaro nell’Ungheria di Miklós Horthy? Le «croci frecciate» di Szàlasi, quinta colonna del go verno di Berlino? Il Partito del rinnovamento di Béla Imrédy, di chiaratamente nazionalsocialista ed espressione di ambienti mi nisteriali che propugnano la trasformazione dello stato in senso totalitario? Il partito pure nazionalsocialista di Lajos Baky, dif fuso tra gli ufficiali dell’esercito e scopertamente appoggiato da Himmler e dalle ss? Oppure il «movimento antitedesco di de stra» alimentato dagli scritti di Dezso Szabó, grande ammiratore di Barrès e di Maurras? O ancora le formazioni paramilitari dei Cacciatori Turanici, impregnate fino al midollo di razzismo antiariano? O infine il gruppo di nobiluomini raccoltosi intorno a Endre Bajesy-Zsilinszky, il «capo del movimento di resistenza che si sviluppò nell’autunno del 1944» ma anche il più influente tra i «leader razzisti antitedeschi di destra»48? 47 Cfr. P. Burrin, Le fascisme, in Histoire des droites en France, a cura di J.F. Sirinelli, i. Politique, Paris, Gallimard, 1992, pp. 603-652. 48 V.J. Erôs, Ungheria, in a a . w ., il Fascismo in Europa, trad. i t ., a cura di S.J. Woolf, Bari 1973, pp. 157-165.
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Da qualunque osservatorio lo si esamini, insomma, fra il 1940 e il 1945 lo sfacelo del nazionalismo si manifesta come un cumulo di eventi apocalittici e al tempo stesso ignominiosi. Lun go la fascia mediterranea, per esempio, la paura del predominio comunista consiglia agli altri movimenti di resistenza «patriotti ca» di compiere un voltafaccia e sostenere gli invasori tedeschi (con i cetnici di Draza Mihajlovic in Serbia, il Balli Kombetar in Albania, la Lega repubblicana nazionale in Grecia); parallelamente il malcontento contro gli italiani - che per «i fascisti croa ti, serbi e greci [...] erano divenuti dei nemici e degli sfruttatori» - invita vecchi clienti di Mussolini come il greco Georges Mercouris a cercare protezione presso i comandi della Wehrmacht49. Dopo la fine delle ostilità, a dire il vero, le trattative fra u s a e u r s s per la sistemazione dell’Europa non sembrano tenere in gran conto l’integrità delle nazioni. Le «democrazie popolari» imposte a est dall’Armata Rossa sono paesi a sovranità limitata, in pratica distretti o province dell’Unione Sovietica, e notevole scalpore suscita anche la decisione assunta a Potsdam di negare alla Germania una parvenza di governo proprio - trasformando la così in un’assenza legale, in un nulla istituzionale - e di farla amministrare direttamente dai vincitori della guerra. Ben presto, tuttavia, appare chiaro come nei paesi che non sono stati infet tati dal fascismo la Resistenza rafforzi il carattere nazionale e in sieme democratico degli ordinamenti in vigore. In vari luoghi so no le stesse autorità civili che sollecitano la popolazione alla lot-^ ta contro i nazisti: in Belgio si giunge a uno sciopero della Corte di Cassazione in segno di protesta contro l’arresto dei membri delle Corti d’Appello, e in Norvegia il Fronte della patria viene fondato dal più alto magistrato del regno, il presidente della Corte Suprema Paal Berg50. Anche in Italia e in Francia, dove sia pure con diversa durata e intensità il fascismo ha seminato i suoi guasti, si imbocca la strada della democrazia rappresentativa con il varo di due Costituzioni quasi gemelle: e ciò nonostante la massiccia presenza di partiti comunisti, che altrove ha suscitato 49 J.W. Boreijsza, Il fascismo e l’Europa orientale dalla propaganda all’aggressione, trad. it., Bari 1981, p. 244. 50 Vedi Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, cit., pp. 322-323. 56
PENSIERI A CAPITOLO
divisioni - in Grecia, in Iugoslavia, in Polonia - sfociate non di rado in guerre civili intrecciate con le guerre di liberazione. Ma è forse l’affrancamento dell’india dall’impero britannico - e l’in nesto nell’immenso subcontinente asiatico, dove pure la simpa tia per i giapponesi non era stata affatto flebile, di un regime a base nazional-parlamentare molto simile a quelli del libero Oc cidente - ciò che dimostra nel modo migliore come il tracollo dei nazionalismi non coinvolga in un abbraccio mortale neppure le nazioni semplicemente «possibili»: si può dire così che il 4 lu glio 1947, quando Clement Attlee dichiara alla Camera dei Co muni che Ylndian Independence Act è «l’adempimento di un grande ideale democratico»51, egli non si arrende alla retorica ma offre la sua sincera benedizione anche a quei movimenti di emancipazione che dall’Indonesia alle Filippine hanno raggiunto un primo successo. Concludendo. Se ci si è dilungati in questa rassegna è perché essa può già convalidare parzialmente il nucleo fondamentale dell’interpretazione che sarà sviluppata nelle pagine successive, e che consiste nel rifiuto di ogni equivalenza fra nazione (comples so territoriale economicamente, socialmente e culturalmente in tegrato), identità nazionale (autoriconoscimento collettivo e ade sione volontaria a una comunità), stato (organo detentore del monopolio della forza legittima entro i confini di uno spazio de terminato), Nation Building (elaborazione dei contenuti, delle prerogative, dei valori, delle regole di un rapporto di cittadinan za), nazionalismo (ideologia che può fungere da elemento fonda tivo di un «patto» nazionale come prendere a pretesto l’interesse nazionale per la realizzazione di progetti politici di parte). La congiunzione fra due o più di questi ingredienti - specialmente quando gli esclusivismi etnici intervengono a complicare il quadro - è sempre un processo impervio e delicato52, di cui oc corre rendere conto con paragoni e raffronti. Pertanto un lavo ro di ripulitura concettuale, che restituisca al loro genuino signi 51 Cfr. R. von Albertini, La decolonizzazione. II dibattito sull’amministrazione e sul l’avvenire delle colonie tra il 1919 e il I960, trad. it., Torino 1971, pp. 348-349. 52 Sul nesso problematico che intercorre fra patria, nazione e stato cfr. le osserva zioni di J.-Y. Guiomar, La nation entre l’histoire et la raison, Paris, La découverte, 1990, pp. 194-196. 57
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ficato categorie storico-politiche indebitamente mescolate per convenienza o per ignavia, può forse contrastare le menzogne, gli inganni, gli avventurismi che oggi fanno temere una «vendetta» delle nazioni sotto forma di proliferazione degli atolli impazziti che con eccessiva longanimità si definiscono «etnodemocrazie». Mentre scrivo queste pagine, la guerra in Bosnia ha appena smesso di mietere vittime innocenti, l’intera regione caucasica è incendiata da faide feroci e incomprensibili e in Italia spira una sorta di «vento dell’est» sotto le cui folate può anche accadere parafrasando Marx - che l’ancien saisit le moderne. Storici, co stituzionalisti, scienziati della politica, economisti, governanti, pubblici amministratori hanno davanti a sé un compito immane se vogliono consolidare un anticiclone democratico senza il quale la comunità internazionale può solo patire offese sempre più gra vi. E allora, nonostante parli di cose passate ma non inattuali (al meno mi auguro), questo libro vuol recare anche un contributo alla riscossa contro l’inerzia, l’indulgenza, i balbettii con cui spes so si affronta un impressionante fenomeno di regressione civile e culturale che ci minaccia da vicino, senza che si possano invocare a difesa i caschi blu dell’oNU o gli azzimati eurocrati dell’uE.
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I. TRASLAZIONI E METAFORE
Una delle principali caratteristiche della guerra - osserva Ga ston Bouthoul, il fondatore della polemologia - consiste nella trasformazione istantanea del modo di pensare di tutti gli attori sociali, così come nel cambiamento repentino delle prescrizioni e delle interdizioni etiche1. Ora, un poeta francese caduto a Ver dun nel 1917, Raymond Jubert, riesce a definire con straordina ria precisione i vincoli psicologici imposti agli uomini dalla dit tatura della tecnologia, e dall’anonimato di massa, che rendono il conflitto del 1914-18 diverso da tutti i precedenti: Dopo venti mesi di lotta in cui ho rischiato venti volte di morire, non ho ancora visto la guerra come la si immagina. No, niente vasti af freschi tragici, dagli scorci ampi, dai colori vivaci, dove la morte sareb be una carezza; solo piccole scene di dolore, e in qualche angolo oscu1 G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia, trad. it., Milano 1982, pp. 343348. Molto tempo prima, nel vivo degli avvenimenti, considerazioni analoghe erano sta te espresse dal primo grande indagatore della psicologia collettiva: «Una guerra prolun gata come quella che sconvolge l’Europa costituisce uno dei fattori fondamentali capaci di modificare l’equilibrio degli elementi della nostra vita mentale. [...] L’individuo si trasforma a tal punto che la sua condotta sorprende coloro che lo hanno conosciuto in precedenza. Più tardi se ne stupisce egli stesso, quando - ricollocato nel vecchio am biente - riprende la sua personalità primitiva. [...] La guerra attuale, dunque, giustifica una volta di più la teoria, esposta nei miei libri, secondo cui l’apparente costanza della personalità dipende semplicemente dalla stabilità del contesto sociale» (G. Le Bon, En seignements psychologiques de la guerre européenne, Paris, Flammarion, 1916, pp. 225, 226). 59
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ro mucchietti rossicci in cui non si riesce a capire se il fango sia carne umana o se la carne umana sia fango. [...] La cosa più triste di questa guerra è che non parla all’immaginazione; ci imprigiona nei fremiti del corpo. Oggigiorno l’onore si riduce a fare il proprio dovere; non esiste larghezza di orizzonti. Il nostro ruolo è limitato, è uno sforzo meschi no, regolare, continuo, che costringe all’umiltà, che sfrutta solo le no stre virtù mediocri. Oltrepassarle è diventato una colpa militare. La guerra, attualmente, è uno sforzo proiettato nel tempo, non nello spa zio: guadagnare terreno è meno importante che tenere a lungo una po sizione. [...] Per quanto grandioso sia lo scopo la malinconia di questo cimento è tutta nella banalità dei gesti che richiede. È necessario com battere con mani plebee, non con mani nobili; si è schiavi di un uten sile, non padroni di una spada2. Spunti non dissimili - sull’eclissi di un’intera civiltà delle ar mi - sviluppa nell’ultima lettera alla madre il visconte Maxime d’André, colonnello di cavalleria e studioso di questioni militari ucciso il 2 novembre 1914 nei paraggi di Ypres: «Noi avevamo preparato una guerra, e anche un po’ alla buona; i tedeschi ave vano preparato con cura questa guerra. Noi sognavamo azioni avvolgenti, ardimentose, inebrianti, e ci siamo ridotti a compiere gesti rattrappiti, crudeli, senza bellezza. Credevamo a una guerra di gentiluomini, e ci siamo trovati a combattere una guerra di apaches»\ Ultimi guizzi di spirito aristocratico e signorile? Insensibilità per il «fermento democratico» che secondo Marc Bloch contrad- ^ distingue il clima dei paesi a servizio militare obbligatorio, dove nei periodi di mobilitazione esistono solo due classi, quella com posta da «coloro che partono» e quella composta da coloro che li vezzeggiano e li confortano? In parte sì, probabilmente. Ma in parte assai modesta, perché l’effettiva, terribile «banalità» di quella guerra rende ancora più insopportabile la scoperta - co mune a tutti gli eserciti - che la legge dei grandi numeri ha espulso l’ordine dal mondo e cacciato la provvidenza dalla sto2 Cit. in R. Dorgelès, Introduction a Anthologie des écrivains morts à la guerre 1914-1918 publiée par l’Association des écrivains combattants, in, Amiens, Malfère, 1925, p. vili. 5 Lettera alla madre, ivi, p. 12. Autore di studi sull’impiego della cavalleria nelle guerre moderne, egli aveva pubblicato anche un opuscolo di propaganda: Les forces morales, Paris, Berger-Levrault, 1914. 60
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ria; che nella no man’s land la vita dei singoli è appesa solo al fi lo della casualità, dell’accidente, dell’evento imponderabile; che nessuna logica, come nessuna precauzione razionale, può neutra lizzare il capriccio di un cecchino annoiato o il morso improvvi so di una bomba inesplosa. Nella Rivolta dei santi maledetti Cur zio Malaparte racconta di «quel capitano Busa da Schio, alpino duro e buono, religiosissimo, che in piedi pel contrattacco, col pito alla testa, rimase un attimo ancora dritto e gigantesco e dis se, non urlò, crollando: “Porco Dio!”»4. La sommessa bestem mia proferita in punto di morte, qui, riflette naturalmente la constatazione - maturata in un baleno - che la mano del Signore non offre scampo nemmeno agli ubbidienti, agli onesti, ai saggi, ai devoti. Dio è scomparso, insieme con la carità e la giustizia. Lo scenario folle del nuovo affrontement può essere vissuto come un inferno o come un carnevale, più raramente come un campo di esperienze dove valgono le regole e i valori che ante riormente si reputavano universali: anzi, il vilipendio di ciò che è comunque «sacro» funge talvolta da rito esoreistico che procu ra amuleti immateriali. Il ventenne Giovanni Comisso, dopo aver trascorso in golosa letizia i giorni convulsi e variopinti della bat taglia, raggiunge la casa paterna saccheggiata dagli austriaci: ben lungi dal compiangersi per la profanazione, chiama a raccolta i compagni, arruola un manipolo di prostitute e imbastisce lì per lì una gozzoviglia colossale, stappando le bottiglie di vino a colpi di baionetta e imbrattando e deturpando ancora di più la dimo ra della sua infanzia5. È abbastanza inconsueto, peraltro, che lo strazio e lo sbara glio siano sublimati dalla spavalderia, o dalla festevolezza ludica, o dalla disperazione, o dall’impassibilità: molto più frequenti so no l’eruzione della pazzia - spesso simulata, ma con il rischio che le stesse tecniche di simulazione finiscano per cancellare il confine che separa la salute dalla malattia mentale - e l’assogget tamento della psiche a un dualismo irresolubile: 4 C. Malaparte, La rivolta dei santi maledetti (1921), in L’Europa vivente e altri sag gi politici (1921-1931), Firenze 1961, p. 47. Il testo consta di un’edizione espurgata del l’opera pubblicata nel 1919 sotto il titolo Viva Caporetto!. ’ G. Comisso, Giorni di guerra (1930), Milano 1987, pp. 178-179. 61
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Il potere inesorabile di meccanismi e apparati impersonali (lo sta to, la guerra, le varie forme di mobilitazione e inquadramento) invade il privato, mentre grandi eventi sovradeterminano a tal punto la vita del singolo da provocare la coscienza di esistere su due piani: quello appunto del privato, sempre più esile e assediato, e quello del mondo esterno, in cui non si è più se stessi, si agisce come comparse, non si è e non si conta più nulla, ma che tuttavia si dilata e si fa più vincolan te6. Gli intellettuali sono coloro che si difendono meglio dallo sdoppiamento della personalità. Anzitutto, in Germania come in Francia come in Italia, essi la guerra l’hanno spesso voluta, o me glio l’hanno desiderata fino allo spasimo; e non solo per ottenere vantaggi politici precisi, ma anche e soprattutto per alleviare i turbamenti, le angosce, lo spleen di un «io» dubbioso e spiritualmente isterilito. Di conseguenza hanno invocato appunto questa guerra, confortevole e protettiva proprio perché affollata e sper sonalizzante: quella deU’«essere insieme» di Renato Serra, quella a cui si duole di non poter partecipare il tubercolotico Guido Gozzano, che nel 1907 - colloquiando con un vecchio fattore in fatuato di nostalgie per la campagna di Crimea - si proclama «cittadino della terra» e grida il proprio «orrore» per gli uomini che si uccidono fra loro (L’analfabeta), mentre nel 1915 annota amaramente che «nessuna sorte è triste / in questi giorni rossi di battaglia / fuorché la sorte di colui che assiste» (La bella preda)1. Certo l’aspirazione a confermare la giustezza di una scelta può non bastare per resistere allo smarrimento, al panico, alla perdi ta di senno; interviene allora - come ha dimostrato Paul Fussell studiando il comportamento dei soldati britannici - l’idealizza zione elegiaca e neoarcadica, che in una sorta di sonno-veglia consente anche la trasfigurazione di un ambiente sconvolto dai 6 A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mon do mentale, Torino 1991, p. 208. 7 G. Gozzano, La via del rifugio (1907), in Opere, a cura di G. Baldissone, Torino 1983, p. 84; Poesie sparse (1915), ivi, p. 335. La «conversione» di Gozzano al patriot tismo, tuttavia, matura al riparo di toni sussurrati e smorzati: «Non si crede in nulla, non si sente nulla. E un bel giorno si crede e si sente. È giunta l’ora. Alcuni trovano in fondo al loro scetticismo la donna, altri Dio, altri l’arte, altri il guadagno; infiniti ideali opposti per sopportare la vita fino alla morte. Io ho trovato la Patria, una cosa come un’altra, alla quale voler bene» (Id., L’ultima traccia. Novelle, Milano 1919, p. 702). 62
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proiettili, dal filo spinato, dalle rovine, dal sangue. In molti casi la fantasia «colta» - magari abbellita dall’ele ganza della scrittura - non prelude tuttavia a una rimozione se dativa della realtà, ma funziona come un consapevole esercizio di igiene mentale che tende a imbrigliare la sofferenza insistendo sulla temporaneità del ciclo distruttivo. Pierre-Maurice Masson, un critico letterario di formazione cattolica e nazionalista, per mantenersi vigile ricorre appositamente al fraseggio in corto cir cuito: Mattinata radiosa, oggi. Il cielo è così azzurro, e il sole così chiaro, che posso scriverti senza candela. Seduto sul grosso tronco che limita il nostro dormitorio di sinistra, vedo davanti a me la china del burrone tutta illuminata. Le ultime foglie del cespuglio tremano leggermente sotto la brina, e ancora umide di pioggia brillano qua e là come picco le frecce: un soffio fresco eppure tiepido arriva fino a me, un uccello canta... ma c’è anche una granata che fischia. Quando ritroveremo la «vera» primavera, la primavera pacifica?8. Altrove la sequenza è invertita, e i toni idillici cedono il po sto a un truce realismo, ma gli effetti di suggestione (e di autosuggestione) rimangono gli stessi, come inalterato rimane il mes saggio: nulla può essere realmente annientato, perché le forze della natura e della vita s’incuneano prepotenti anche fra le ma cerie più desolate. La trincea di prima linea che è stata strappata ai boches e che ha visto scontri accaniti, corpo a corpo continuamente ripresi, è solo un antico carnaio in cui le muraglie, i parapetti, le feritoie sono tagliati in pasta umana. Qua e là si vede ancora un piede che sporge penosamen te, o un dorso che s’inarca a gobba come uno spigolo di contrafforte. A poco a poco si tenta di dissimulare tutta questa miseria stendendo 8 P.-M. Masson, Lettres de guerre août 1914-avril 1916, con una prefazione di V. Giraud e una nota biografica di J. Zeiller, Paris, Hachette, 1917, p. 51. Per accurati rag guagli sulla vita e l’opera di Masson, cfr. il monumentale repertorio di J. Norton Cru, Témoins. Essai d’analyse et de critique des souvenirs de combattants édités en français de 1915 à 1928, Nancy, Presses universitaires, 1993 (ristampa anastatica dell’edizione del 1929), pp. 535-538. L’importanza dell’opera di Norton Cru è soltanto bibliografica e documentaria: il pacifismo dell’autore, infatti, non sempre gli consente di capire appie no il «vissuto» bellico degli scrittori, e la sua rigida formazione positivistica lo induce a preoccuparsi quasi esclusivamente della precisione cronistica dei «ricordi». 63
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per terra uno strato di sacchi, ma si tratta di uno schermo insufficien te: la puzza acre e spaventevole che vi afferra alla gola, l’incessante ronzio delle grosse mosche verdi che si accalcano sui resti, bastano e avanzano a ricordarvi dove vi trovate. E dire che ci sono uomini che vivono qui dentro, in questa terra cadaverica, in questo cimitero mal sano di cui il sole moltiplica e fa sfavillare la putredine. Attraverso gli stretti budelli si vedono passare soldati con il piccolo zaino in rame dei contadini che vanno a solforare le vigne: innaffiano con cloro e disin fettanti queste vigne della morte. E tuttavia la vera vigna di Toul qui cresce ancora. In questi campi, ingrassati dal sangue e bruciati dal so le, tutto germoglia brutalmente. Dentro le fessure, tra i sacchi sdruciti e i fardelli da equipaggiamento precipitosamente abbandonati, in mez zo al marciume e ai rifiuti, nel caos sollevato dalle cannonate, si vedo no spuntare piedi di vigna o meglio gemme di uno splendore verdeg giante. Più lontano si notano enormi polloni di patate, e soprattutto di stese di papaveri di un rosso magnifico, scintillante, che sembrano sbocciati dal sangue che ha irrorato la terra9. Ma gli intellettuali, specie se interventisti, non possono ac contentarsi di medicare se stessi per conservare l’equilibrio e la lucidità. Investiti, come si sentono, da una missione pedagogica, hanno anche l’obbligo di aiutare i più deboli; e non solo perché il vaneggiamento, o il crollo nervoso, o l’incapacità di intendere e di volere, rischiano di rendere inservibili molti soldati, ma an che perché la «catastrofe del soggetto» non deve trascinare con sé quel sentimento di appartenenza nazionale che garantisce te nuta al «morale» delle truppe. Quando i rapporti dell’individuo col privato si assottigliano o si affievoliscono, infatti, diventa difficile far combaciare le sembianze concrete di una «casa comune» con le figure astratte che ne rendono possibile la rappresentazione: la bandiera, la coccarda, la medaglia, la madrina di guerra, la parens frugum biancovestita, la Marianna seminatrice... Ecco allora che le offi cine dell’imagerie affilano i loro strumenti, allo scopo di elabo rare una o più leggende - necessariamente collegate a qualche luogo-simbolo - che congiungendo spirito pubblico e affetti individuali impediscano una frattura fra le retrovie e la prima linea. 9 Masson, Lettres de guerre, cit., p. 109. 64
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Verdun, la località in cui - nell’843 - era stato deciso l’asset to dell’impero carolingio, diventa ben presto il sacrario della Francia in armi, così come accadrà al Piave in Italia. Varie cir costanze confluiscono sino a farne un potentissimo centro d’ir radiazione dei timori e delle speranze di un popolo intero: dal l’inverosimile violenza dello scontro - solo tra il febbraio e il lu glio del 1916 vi perdono la vita almeno 270 mila soldati della re pubblica - alla connotazione tutta tricolore della battaglia che vi si scatena, alla quale non prendono parte contingenti alleati e che dunque può essere interpretata come un regolamento di conti fra due eterni rivali, l’uno barbaro e predatore, l’altro pro gredito e casartier. Ma soprattutto per un motivo si deve celebra re proprio in quel segmento di fronte il rito votivo dell’unità na zionale dei francesi: perché l’immane voracità dei piani di ope razione, l’inesauribile fame di uomini dei disegni predisposti da gli alti comandi, induce subito il generale Pétain a ordinare av vicendamenti frequentissimi, con il risultato che tutte le grandi unità dell'armée versano il loro torrente di sangue sulle rive della Mosa. Non c’è quasi fantassin che non sia passato da Verdun, insomma, e il monumentale ossario di Douaumont - eretto fra il 1923 e il 1932 - attesta in modo spettacolare e commovente l’onnivora imparzialità del massacro di quegli anni. Nonostante si presti, però, alla fioritura della mutualità e del la devozione, talvolta l’epopoea delle Argonne viene utilizzata fin troppo disinvoltamente dagli addetti alla propaganda. Senza sentirsi paghi dell’immediatezza simbolica di una realtà già atro ce in sé e per sé, oratori e giornalisti si affannano spesso a inven tare aneddoti nei quali il tocco del sublime soffonde i dettagli penosi e orripilanti: tristemente celebre rimane il récit della «trincea delle baionette» - racconto della scomparsa di un bat taglione di uomini sepolti vivi sotto il terriccio smosso dagli shrapnels, e di cui si ritrovano in bell’ordine solo le baionette in procinto di essere inastate per l’assalto - che irrita non poco mi gliaia di combattenti, consci della palese assurdità dell’episodio e risentiti perché le autentiche manifestazioni del loro valore non paiono bastare agli imbonitori di professione. Eppure la falsifi cazione non è maldestra come sembra. Dopo la firma dell’armi stizio, infatti, il gioco della memoria si fa serrato e altalenante, 65
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riesumando due visioni della guerra (e della nazione) che erano sempre state inconciliabili e che solo il pericolo aveva potuto momentaneamente affiancare: Un monumento, [...] realizzato molto in fretta e inaugurato l’8 di cembre 1920 alla presenza del Presidente della repubblica, proponeva un’interpretazione della battaglia inamidata in un eroismo di maniera, del tipo che poteva essere immaginato in retrovia. Si trattava del mo numento alla Tranchée des baïonnettes. [...] Tramite la commemorazio ne di una simile leggenda, la memoria dei civili sconfessava quella dei combattenti. Troppo dispersi, persino troppo felici di essere restituiti alla vita normale, gli ex soldati non avevano alcuna voce in capitolo. Verdun diventava un luogo privilegiato dell’identità nazionale, ma non era affatto chiaro di quale nazione si trattasse: se di una patria di eroici semidei o di un paese di cittadini coscienziosi. La scelta non contrap poneva solo due rappresentazioni della battaglia (Nivelle e Pétain, all’incirca), e nemmeno due concezioni del valor militare: i modi di com battere rimandavano alle ragioni del combattimento e alla natura stes sa degli impulsi per cui si era combattuto. Alla fin fine, comunque, la memoria dei soldati la spuntò, perché all’indomani della guerra lo stato del campo di battaglia imponeva a tutti la loro lettura, senza che avessero bisogno di organizzarsi per far la prevalere: Douaumont, Vaux o il Mort-Homme erano solo un am masso di ferraglia e di cadaveri10. Altre volte, come nelle cronache della «città martire» di Reims, le interpretazioni multiple sono impossibili, se non altro ^ perché alcune circostanze offrono un repertorio di materiali tal mente ghiotto che ogni manipolazione proditoria riuscirebbe soltanto a immiserirne l’esemplarità. Il capoluogo della Champa gne - dove per secoli, non lo si scordi, sono stati incoronati i re di Francia - fra il settembre del 1914 e il marzo del 1918 viene sottoposto a 1051 giorni di bombardamento: occupato dai tede schi e liberato durante la prima battaglia della Marna, bersaglia to quotidianamente dalle vecchie fortezze del 1870 di cui gli in vasori si sono impossessati, perduto di nuovo nel 1918 e di nuo vo ripreso nel corso della seconda battaglia della Marna, esso ve de la propria popolazione scemare dai 26 mila residenti del 1915 10 A. Prost, Verdun, in Les lieux de mémoire, sotto la direzione di P. Nora, n.3, La Nation, Paris, Gallimard, 1986, pp. 111-141. La citazione alle pp. 120 e 122.
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ai 1800 del 1918, ma per tre anni e mezzo sopporta il fuoco del le artiglierie senza mai chiedere di essere evacuato. Questa situa zione eccezionale, innanzitutto, consente di sperimentare una tecnica sofisticata di amplificazione dell’evento. Niente retorica, niente vittimismo, niente lacrime sul tempio violato, niente tur gide orazioni su Giovanna d’Arco e Carlo v i i : solo nude cifre statistiche - periodicamente aggiornate da una pubblicazione uf ficiale, «Le martyre de Reims» - sul numero dei morti e dei fe riti, sulle scuole e gli ospedali rasi al suolo, sull’entità dei danni arrecati alla cattedrale. In secondo luogo, la tenace resistenza della città - nella quale gli eroi sono i civili - rassicura i soldati sulla saldezza del fronte interno e concorre ad abbassare la tem peratura delle recriminazioni contro gli imboscati: gli invitti con dottieri di Reims - il cui nome risuona usualmente sulle labbra dei francesi insieme con quelli di Joffre o di Foch - sono il sin daco Langlet e l’arcivescovo Luçon, che con la loro fermezza danno l’esempio agli infermieri e ai maestri, ai religiosi e ai com mercianti, ai pompieri e agli impiegati delle poste. Infine, il fatto che i rémois trascorrano buona parte della loro giornata in gal lerie dalle pareti di gesso che si diramano sotto le strade e gli edifici - e dove si trasferiscono gli asili d’infanzia e i funzionari comunali" - rafforza il mito della trincea che attraversa tutto il conflitto del 1914-18, tranquillizzando la fanteria sul carattere tutt’altro che degradante delle condizioni in cui versa. In una guerra dove il rapporto con la configurazione del suo lo - cioè con le sue increspature, la sua consistenza, i suoi an fratti - diventa determinante quant’altri mai, un altro mezzo usa to abitualmente per rianimare il patriottismo è infatti la traspo sizione tellurica dell’odio verso il nemico. Ai fanti acquattati nel fango, o riparati da camminamenti scavati fra le rocce, viene spiegato che il cuore della patria vibra dentro la postazione che presidiano - e che è insieme abitazione, mescita, chiesa, astante ria -, oppure nel lembo di terreno antistante che è stato ripetu tamente conquistato e sgomberato, oppure nella città prigionie ra che non si riesce ancora a espugnare («I tedeschi stanno sem 11 M. Crubellier, La mémoire des français. Recherches d’histoire culturelle, Paris, Veyrier, 1991, pp. 237-278. 67
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pre a Noyon» è lo slogan scandito da Georges Clemenceau pri ma di assurgere alla presidenza del Consiglio). Un singolare per sonaggio come Abel Ferry - figlio di Jules Ferry e politicosoldato che fa la spola tra il fronte e le riunioni di gabinetto sunteggia assai efficacemente questo transfert un po’ lemurico: «Com’è bella la Francia delle trincee e delle fosse! Il meglio del suo cuore pulsa in una terra umida e caldiccia, ora ostile ora amica, ma che si ama perché la si difende»12. La guerra di posi zione, gravosa e logorante, finisce così per garantire rifugio, ac casamento e immedesimazione con le viscere profonde dell’habitat terrestre: cosa che annota giulivo un anonimo prete quando invita i superiori a ispezionare la sua «tana», magnificandone il brulicare di attività, la separazione funzionale dei locali, l’auste ro quanto pratico décorl>. Figlio di una gentildonna polacca e di un presunto padre ita liano, anche il francese d’elezione Guillaume Apollinaire - natu ralmente volontario - canta l’aspra bellezza dei trafori sotterranei: Mi sono immerso nella dolcezza di questa guera con Tutta la mia compagnia lungo interminabili budelli. [...] Ho scavato il letto in cui mi calo ramificandomi In mille piccoli fiumi che vanno dappertutto. Sono nella trincea di prima linea e tuttavia Sono dovunque o piuttosto incomincio a essere dovunque. 12 Cit. in H.A. Ferry, Introduction a Les carnets secrets d’A bel Ferry 1914-1918, Pa ris, Grasset, 1957, p. 12. Nei primi mesi di ostilità, a dire il vero, si insiste soprattutto sul valore emblematico di Parigi, anche in ragione della minaccia rawicinatissima delle divisioni tedesche: Gaspard di René Benjamin (1915), il primo «romanzo di guerra» che raggiunge un largo successo di pubblico, narra le peripezie di un parigot, popolano del la capitale tanto sbruffone quanto geniale nell’arte di sopravvivere e di risolvere con l’intuito i problemi più ardui (Gaspard è una manifesta reincarnazione del soldato Ni colas Chauvin, la cui leggenda era fiorita nell’età della Restaurazione: cfr. G. de Plumyège, Chauvin, le soldat laboureur. Contributions à l’étude des nationalismes, Paris, Gallimard, 1993). Successivamente, assumeranno un ruolo di spicco gli edifici-simbolo del potere repubblicano: «Com’era bella, quella sottoprefettura francese! Anche se sbrecciata e semidistrutta, come manteneva un aspetto maestoso con la sua torre da chiesa laica in pietre rossastre, fatte per i crepuscoli!» (R. Benjamin, La guerre sous le ciel de France, Paris, Fayard, 1916, p. 316). 1J Cfr. Lettres de prêtres aux armées recueillies par VictorBucaille vice-président de l'Assodation catholique de la jeunesse française, con una prefazione di M. Denys Cochin dell’Académie française, Paris, Payot, 1918, p. 96; J. Béai, Les poètes de la Grande Guerre. An thologie, con una postafazione di H. Hairy, Paris, Le Cherche-midi, 1992, pp. 69-72.
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Questi versi adombrano già un’altra variante, quella del pre sidio di un estremo confine e dell’avamposto che difende la pa tria retrostante (Jean-Pierre Calloch): Io sono il grande Custode che veglia in piedi sulla trincea. 50 ciò che sono e so che cosa faccio: Questa notte proteggo l’anima delTOccidente, le sue figlie, I suoi fiori, tutta la bellezza del mondo. Per Gaston Chantrieux il rempart del sottosuolo diventa qua si una cittadella turrita, seminascosta e inespugnabile: Guardate il solco mentre forma le sue linee parallele, 51 allarga in blockaus, torrette minacciose, Si dilegua nei camminamenti, E sul fondo, alzando barriere invincibili, Diventa un fortino con le sue feritoie Dove vigilano i cannoni fumanti. È il nuovo bastione dei nostri figli, la trincea. Non tutti abboccano ingenuamente, tuttavia, né mostrano di apprezzare la quiete e il tepore delle attese catacombali. Il ca pitano Robert Dubarle, che comanda un battaglione di caccia tori alpini sui monti dell’Alsazia, liquida seccamente con l’appel lativo di «imbecille» una strategia innamorata «di cunicoli e di cantine, dove non si vede mai il nemico»; «sarebbe piacevole combattere sul serio - soggiunge - anziché intrufolarsi come topi nei boyaux e dover temere il freddo ai piedi più del fuoco dei tedeschi»14. Gli fa eco Marcel Etévé, che agogna «il sonno in una camera vera e in un letto su misura, senza pulci e senza lumache», ma che riesce anche a scherzare sui ratti che gli ruba no il cioccolato dalla tavola - scegliendo quello di migliore qua lità - o sui tracciati di settore che sembrano riprodurre la rete della metropolitana di Parigi, motivo per cui i bivi e i punti di ramificazione vengono battezzati con i nomi delle stazioni 14 Lettres de guerre de Robert Dubarle capitaine au 68" Bataillon de chasseurs alpins mort au champ d'honneur, con una prefazione di L. Barthou dell’Académie française, Paris, Perrin, 1918, p. 153. 69
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più importanti (Châtelet, Saint Michel, Jeanne d’Arc)15. Solo nelle fasi statiche dello scontro, inoltre, il sottosuolo può essere percepito come un grembo. Durante le azioni mano vrate - soprattutto di pianura - in cui occorre coricarsi di con tinuo, impastarsi di mota, magari sdraiarsi per giorni interi den tro una pozzanghera infetta o accanto a un cadavere spiaccicato «di cui non si saprebbe ritrovare neppure un bottone», scattano riflessi psicologici terribilmente ansiogeni. Nel suo On se bat sur terre, un non meglio identificato Terrier-Santans ritrae con pun tuale scrupolo diaristico il terrore dell’avanzata e Possessione del buco» che paralizzano i soldati al minimo accenno di sposta mento16, nel corso di una guerra sommersa dove nulla sembra mai muoversi sulla superficie del terreno: si teme di spingersi troppo oltre, di interrompere i collegamenti, di schierarsi invo lontariamente a fianco di un avamposto nemico, di lasciarsi alle spalle nidi di mitragliatrici nascosti da qualche cavità. Come gli ufficiali sanno perfettamente, in simili circostanze solo lo spirito di corpo può allora accogliere una traslazione del patriottismo, un richiamo né retorico né melenso alla fraternità; commentan do così una citazione d’onore - sempre in On se bat sur terre - il comandante Morand apostrofa i suoi con parole eloquenti e po co bisognose di allusioni: Oggi il battaglione si è infoltito. Annovera ragazzi del Nord, per esempio di Cambrai che è ancora in mano tedesca; conta ragazzi del Massiccio Centrale, del vecchio cuore della Gallia che Vercingetorige ha spronato alla lotta; [...] comprende ragazzi delle rive del Mediterra neo e ragazzi delle Antille, la nostra diletta Francia d’oltremare. Che il nostro battaglione, immagine stessa della patria, ascolti la voce dei suoi morti che gridano: «Siamo con voi, vendicateci, salvate il nostro Pae se»17. Anche per i molti emuli di Barrés, quando blandiscono i lo ro sottoposti, è istintivo assimilare la Francia al singolo reparto divisione, brigata o battaglione che sia - dove la comunione dei n Lieutenant Marcel Etévé. Lettres d’un combattant août 1914-juillet 1916, con una prefazione di P. Dupuy, Paris, Hachette, 1917, pp. 77, 104 e 94. 16 Terrier-Santans, On se bat sur terre, Paris, Les éditions de France, 1930, passim. 17 Ibid., p. 206. 70
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vivi e dei morti certifica facilmente la continuità della stirpe, co me si può leggere nelle strofe un po’ didattiche dell 'Ode au régiment di Jean Fontaine-Vive: Sono caduti là: osserva, soldatino in questo campo bruno il fiore insanguinato di un képi. Sono caduti là. In questo angolo di trincea il capitano Aulois è morto come Orlando. Qui è caduto Felce: poco oltre hanno stroncato l’anima fiera di Hervé che si è spento sorridendo. Sono caduti là, come erano caduti altri, felici di vivere, ansiosi di amare e morti in piedi nel supremo orgoglio di essere stati dei nostri e di sapere che anche morti rimangono con noi18. Per il conte Pierre de Mazenod, in seguito animatore della resistenza antinazista a Le Mans, gli uomini che compongono la batteria di artiglieri al suo comando formano addirittura una «falange celeste» rinsaldata dal cameratismo che «continua ol tre la morte»; ciò che costituisce motivo di vanto, per i subal terni come per il loro capitano, è infatti l’aver impedito per mesi che un solo servente ai pezzi finisse prigioniero, intaccan do sia pure parzialmente una compatta «comunità di vivi e di defunti». E va da sé che un’autentica «famiglia» come l ’escouade o Yescadrille, raccolta intorno alla memoria delle «cose gran di», può allignare solo nella «razza dei Galli, che donano la vi ta con un sorriso»19. La camaraderie, l’amicizia virile, in una generazione di ven tenni trova anche i suoi filosofi e i suoi cantori, che la esaltano come un traguardo da raggiungere tramite l’ascesi più caparbia. Già invaghito di una muscolarità plastica, armoniosa, ellenizzan te - da coltivare in maniera metodica - nel Chant funèbre pour les morts de Verdun (1924) Henry de Montherlant confessa di 18 Cit. in Anlhologie des écrivains morts à la guerre, cit., p. 285. 19 Capitarne de Mazenod, Dans les ehamps de la Meuse. Souvenirs d’un commandant de batterie (1914), Paris, Plon, 1921, pp. xii e 270. Anche se risente di uno stile un po’ troppo liturgico e sostenuto, il libro di Mazenod è uno dei pochi diari di ufficiali che non mirino banalmente all’autoincensazione, magari affidando una nota introdutti va a qualche ex sottoposto non privo di notorietà (cfr., per un esempio caratteristico, Colonel Campagne, Le chemin des croix 1914-1918, con una prefazione di G. Girard, Paris, Tallandier, 1930). 71
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avere amato «sportivamente» la guerra: perché misurava le ener gie di avversari in condizioni di relativa parità, perché infrange va le consuetudini filistee ma soprattutto perché invitava ciascu no a stringere il suo maschio pacte de camaraderie. Nel poema in prosa che inneggia al sodalizio spirituale fra due giovani - inse rito nel «romanzo di guerra» Le songe, del 1922 - la natura di quel pacte è poi ampiamente illustrata ed esemplificata dagli at teggiamenti del protagonista Alban de Bricoule: amato da Domi nique Soubrier - un’infermiera atletica, avvenente e apparente mente frigida - costui ne scopre la sensualità repressa ma nono stante l’attrazione che lo scuote respinge la donna per salvare il proprio rapporto con il compagno Prinet. Passi la pulsione ero tica, che non si può tacitare; ma l’affetto, la tenerezza, la compli cità, questo mai potrà essere concesso a una femmina... Lo stereotipo della patrouille come riproduzione in scala del la madrepatria contagia anche i marinai. Il sottotenente di va scello Bernard Frank - che vive il suo momento di notorietà quando in servizio di perlustrazione nell’Egeo, il 7 novembre 1915, con soli otto uomini muove all’arrembaggio di una tartana sospetta catturando cinquantaquattro turchi attoniti e costernati - naviga su una piccola imbarcazione noleggiata da un armatore privato: le scomodità, i disagi, la modestia del compito, i lunghi mesi trascorsi con notizie saltuarie sul tremendo crogiolo della guerra «vera», non lo abbattono né gli infliggono una sensazione di isolamento. Il Nord-Caper - il battello postale di cui è coman dante in seconda e che si è inopinatamente trasformato in nave corsara - appare ai suoi occhi come un altare viaggiante che tra sporta lungo le coste del Mediterraneo il tabernacolo dell’anima francese. Il padre, un mugnaio normanno, lo crede demoralizza to e gli spedisce lettere che traboccano di odori e sapori dome stici; una volta, addirittura, compone per lui una Ballade du marin che si chiude con un malinconico envoi\ «La luna che scivola via in silenzio / emana la sua pallida luce / e io credo d’intrave dere la Francia / fra il cielo e l’acqua». Ma il giovane Frank non soffre la lontananza, non è malato di ricordi: ha arredato la sua cabina con l’aiuto della moglie, trasformandola come poteva nel frammento galleggiante di una Francia in miniatura, e solca il mare come se si trascinasse appresso l’intero hexagone. S’intristi 72
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sce solo quando, a Malta, deve trasferirsi su un altro bastimento e separarsi dai compagni d’avventura: Mio piccolo battello, io ti volevo bene... Il mio cuore batteva al l’unisono con le tue giunture... Tu non eri forse il mio corpo e io non ero forse la tua anima? Non abbiamo forse vissuto la stessa esistenza? E voi, camerati, nobili e dolci amici della patrouille... Che cosa posso fare di meglio, se non dedicare al vostro ricordo questo umile taccuino di un «pirata» che fu vostro luogotenente di vascello?20. Spesso la patrouille - regina della vicendevolezza micro-pa triottica - non nasce casualmente, per effetto degli automati smi del reclutamento, ma viene costruita dalla mano di un ac corto regista. L’ex sottosegretario alla Guerra André Maginot, quando il Io agosto 1914 si arruola come «soldato di seconda classe» nel 44° reggimento della milizia territoriale, ha fisso in capo un piano ben preciso: dar vita a plotoni di esploratori che varchino le linee avversarie a scopo di ricognizione - qualcosa di simile agli arditi italiani o alle Sturmtruppen austriache, che però vedranno la luce molto più tardi - mescolando insieme leader politici di fama, semplici «rappresentanti della nazione» e abi tanti delle località in cui infuriano i combattimenti; le finalità dell’operazione, discussa nella sottoprefettura di Verdun con il viceministro degli Affari esteri Abel Ferry e con il futuro presi dente della repubblica Albert Lebrun - anch’essi in divisa e am bedue ufficiali di complemento -, sono l’ostensione di una su premazia «civile» delle gerarchie militari, l’esemplificazione pra tica dell’egualitarismo repubblicano e la riaffermazione del ca rattere materialmente, palpabilmente nazionale di tutte le cellule dell’esercito. Maginot viene dunque autorizzato a selezionare una patrouille di una ventina di uomini, formata da lui, da altri due deputati (Chevillon di Marsiglia e Abrami del Pas-deCalais) e da un gruppo di meusiens tutt’altro che «irreprensibi li», in genere bracconieri e casse-cou interessati solo all’esenzione dalle corvées. Il distaccamento si fa ripetutamente onore per la 20 B. Frank, Le carnet d'un enseigne de vaisseau. Souvenirs de la vie de patrouille août-novembre 1915, Paris, Flammarion, 1924, pp. 109 e 247-248. Episodio topico del la gloria marinara francese, l’avventura del Nord-Caper è rievocata anche in un volume che raggiunge le trecentodieci edizioni: P. Chack, On se bat sur mer, Paris, Les éditions de France, 1926, pp. 3-52. 73
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sua audacia, ma il successo più gratificante che riesce a cogliere è forse l’esclamazione imprevista di un contadino che non pas sava certo per un fanatico del regime: «Però, la repubblica è una gran bella cosa»21. Eppure lo spirito di corpo, spinto all’eccesso, è anche all’ori gine di quello spaesamento morale che attraverso le impennate e le frustrazioni del reducismo sbriciola a poco a poco l’unità del senso di appartenenza, contrapponendo il militare congedato e curvo sotto le sue memorie listate a lutto - al civile smanioso soltanto di ricostruire e di dimenticare. Un giovane discepolo di Maurras, poi attivo fino agli anni cinquanta come giornalista e presidente dell’Association Marius Plateau che raccoglie gli An ciens combattants d’Action Française, nel 1923 ritorna nel vil laggio di Saconin - vicino a Soissons - dove cinque anni prima i suoi compagni del 57° reggimento di fanteria sono caduti a cen tinaia in un generoso quanto vano tentativo di resistenza. Geor ges Gaudy fa parte di coloro che non avrebbero mai voluto che la guerra finisse: coriaceo e passionale al tempo stesso, già al mo mento della consegna del foglio di via ha pianto come un bam bino fiutando attorno a sé un air du temps che lo costringeva a «mettersi in salvo come un ladro». Ora, il sindaco di Saconin lo riceve con giovialità, ma non ha la più pallida idea di quali for mazioni si siano battute nei dintorni del suo comune: «Eh sì, si è sparato molto da queste parti», sospira prudente accompagnan do alla porta il visitatore. Il paesino è irriconoscibile: le trincee sono state colmate, e se ne intuisce l’infossatura solo da qualche leggero avvallamento dei prati; i tunnel non esistono più, e in compenso migliaia di croci - ordinatamente disposte - compon gono uno sterminato cimitero che i muratori costeggiano gui dando con noncuranza le loro carriole; le automobili corrono lungo la strada sopra l’argine, senza che nessuno si curi di ral lentare o di fermarsi; del 57°, rastrellando le scarpate a palmo a palmo, si rinvengono solo pochi fucili spaccati e alcune cas sette da pronto soccorso oramai arrugginite. Gaudy, commosso ugualmente, entra nel cimitero per scoprire che vi sono sepolti i 21 A. Maginot, Carnets de patrouille, presentati da M.me R. Joseph Maginot, Paris, Grasset, 1940, pp. 25, 55 e passim. 74
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tedeschi, i boches, insieme con i caduti dei reparti francesi reim padronitisi di Saconin nelle ultime settimane di guerra: pare che i corpi dei fanti del 57° - gli viene spiegato con sommarietà di particolari - siano stati bruciati dal nemico subito dopo la ritira ta. «Non mi recherò mai più su un campo di battaglia», è la con clusione laconica22. Che cosa si attendesse il pellegrino non è dato sapere. Un mausoleo consacrato, solenne e imperituro? Un’amorevole re cinzione del teatro dei combattimenti, tenuto al riparo dal gri giore delle opere borghesi? Più probabilmente egli cercava un semplice elemento di raccordo fra i gloriosi reperti del sacrificio e le umili incombenze del lavoro quotidiano. Non lo ha trovato, e qualcosa gli si è spezzato dentro: per lui, come per molti altri, gli assiomi benignamente distici di tutto il nazionalismo classico - secondo il quale, scrive Raymond Aron, «una comunità di cul tura e un ordine militare si congiungono al fine di dar vita a un’unità politica, conforme alle leggi di natura perché tutti gli individui godono della cittadinanza»2’ - non sono più all’ordine del giorno da quando la minoranza dei sopravvissuti e degli eroi, segregata in una capsula di storia misconosciuta dalle masse, si scopre inesorabilmente estranea alla «casa comune». II. LA VOCE DI MARIANNA
Almeno durante il periodo delXunion sacrée, prima e dopo le mutineries del 1917, alla Francia non occorrono supplenze mo narchiche e clerico-tradizionaliste, anche se i contributi di que sto tenore - come attesta la ricchissima Anthologie des écrivains morts à la guerre, di vistosa impronta maurrasiana - sono densi di significato e a dir poco imponenti. Il paese possiede un saldo retroterra di cultura democratica, viene da una nazionalizzazio ne recente e capillare, si ispira a ideali umanitari che se gli atti rano gli strali di Thomas Mann gli valgono anche la gratitudine 22 G. Gaudy, Le drame à Saconin et l’épopée sur l’ingon. Souvenirs d’un poilu du 57" régiment d’infanterie mai-septembre 1918, Paris, Pion, 1930, pp. 72-74. 21 R. Aron, Paix et guerre entre les nations, Paris, Calmann-Lévy, 1962, p. 296. 75
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di mezza Europa. Unico fra i belligeranti, lo stato che è culla della civilisation diventa la patria elettiva di chiunque detesti la sopraffazione, l’autoritarismo, la boria di razza, la iattanza im periale, e riesce a immatricolare nei suoi registri di leva volon tari stranieri della più disparata provenienza. Nelle poche let tere che spedisce dal fronte - scarne e dimesse quanto il suo dettato è solitamente frondoso e ridondante - Charles Péguy menziona un unico camerata: «un cappuccino giovane e magro, accorso dall’Italia alla prima notizia di mobilitazione», che egli si affretta a nominare «cappellano della compagnia» e proprio «confessore personale»24, il 29 luglio 1914, due giorni prima della dichiarazione di guerra, il poeta Blaise Cendrars e il po ligrafo Ricciotto Canudo redigono un Appello che invita a mar ciare sotto le insegne francesi tutti gli amici della libertà, del progresso, dell’arte di avanguardia e dei caffè della rive gauche: alla fine dell’anno, nonostante le prime sconfitte, i volontari so no già 88 mila25 e l’irrequieto Cendrars - figlio di padre sviz zero e di madre scozzese, ma già cittadino della repubblica decide di condividerne le sorti fingendosi inglese per poter en trare nella Legione straniera. In Francia, beninteso, esiste anche un forte patriottismo in digeno, diffuso con la strenua opera di educazione popolare por tata a compimento dai governi nel ventennio precedente. Non di rado, in guerra, esso assume forme di schiva compostezza, di tranquilla dedizione, di preghiera silenziosa, di pacata fiducia nei capi come nei compagni. Il giovane tenente Marcel Etévé - che pure sogna assalti e sfondamenti, accettando a malincuore l’«immobilità del fronte» di cui disserta per lettera un suo amico co lonnello - non ha alcun bisogno di eccitare il proprio ardore guerriero con bagni propiziatori; anzi, prova un leggero fastidio di fronte al clima esaltato, pittoresco, un po’ volgare delle parate e delle feste. Il 14 luglio 1915 scrive alla madre, senza che gli uf fici di censura si preoccupino di depennare: «Un po’ scialba la 24 Lettera a M.me }. Garnier-Maritain, in V. Boudon, Avec Charles Péguy de la Lor raine à la Marne août-septembre 1914, con una prefazione di M. Barrès, Paris, Hachet te, 1916, p. 171. 25 Cfr. B. Cendrars, La mano mozza (1946), trad. it., Milano 1993, p. 93. 76
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festa nazionale, ma tutto sommato assai più sopportabile che a Parigi in tempo di pace: niente trombette, niente lampioni, nien te bistros e niente discorsi tricolori»26. Ma in circolazione c’è ben altro. C’è Blaise Cendrars, per esempio: un caporale discolo, temerario, rissoso, indisciplinato, ribaldo, linguacciuto, collerico. Un ubriacone in lite perenne con i superiori che disprezza, un bravaccio velenoso che descrive il presidente Poincaré - in visita alla prima linea - come «l’uomo che ride nei cimiteri» vestito «in livrea d’autista», o che sbeffeg gia Clemenceau quando lo scorge da lontano mentre «compie una passeggiatina col suo famoso cappellino incincignato»27. A dispetto delle pose da lanzichenecco, Cendrars è un soldato esperto e valoroso, come si può desumere dagli episodi rielabo rati - con molta ritrosia, senza alcun compiacimento - nelle pa gine della Mano mozza-, ma anche i mercenari (che si battono per il soldo) o i malfattori sottratti al carcere (che si battono per un indulto o per una riduzione di pena) sono spesso abili e corag giosi, nonostante rimangano apolidi per vocazione prima ancora che per passaporto. Cendrars, invece, apolide non è affatto. Dal la sua bocca escono solo motteggi e impertinenze, ma dietro la corazza apparente del nichilismo egli si tiene ben stretto un amore per la Francia tanto burbero quanto fervoroso. Quando gli sembra che la burocrazia militare sottovaluti l’importanza del volontariato straniero, persino la crosta dell’irrisione anarcoide sparisce in lui quasi d’incanto: Fra noi si trovavano degli stranieri che s’erano arruolati per amor della Francia molto più che per odio verso la Germania, e non soltan to intellettuali e artisti, ma anche commercianti e negozianti; i quali non soltanto avevano lasciato la loro bottega, il loro commercio e U lo ro tenore di vita a Parigi o in provincia per meritarsi la cittadinanza francese, o per aver modo di regolare la loro posizione politica o fami liare, ma molti erano venuti dall’estero, perfino d’oltremare, avevano lasciato moglie e figli, dato che non tutti erano giovani, ed erano giunti in Francia non certo per spirito d’avventura, ma per sottoscrivere una ferma della durata della guerra e tornarsene poi al loro paese d’origi 26 Etévé, Lettres d'un combattant, cit., p. 68. 27 Cendrars, La mano mozza, cit., pp. 173-174. 77
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ne. Non tutti dunque avevano obbedito a sordidi interessi d’ordine ali mentare, o di meschino contratto28. La Francia per cui Cendrars indossa l’uniforme è essenzial mente Parigi, la Parigi dei teatri, delle bettole di Montmartre, delle case editrici, degli abbaini di Montparnasse, delle plaquettes semiclandestine, dei primi cenacoli cubisti o futuristi, delle caves affumicate dove s’intrecciano le discussioni fra artisti pio vuti da tutte le contrade del globo: è insomma la grande città co smopolita, il crocevia della cultura internazionale che al giovane scrittore ha fatto conoscere Apollinaire, Picasso, Modigliani, Braque, Duchamp, Picabia, Archipenko29. Non è la zolla patri locale in cui affondano le radici, è semplicemente un paesaggio dell’anima e il luogo che si è scelto per vivere: abbastanza per ché diventi una patria, se si è disposti a mettere a repentaglio l’esistenza perché continui a essere ciò che è e non venga som mersa dalla Kultur dei sergenti prussiani. Attorno al tema della libertà, che affascina intellettuali spes so fuggiti dalla Russia o dalla Spagna, ruota il patriottismo di guerra dei radical-repubblicani: ne fa fede il Journal d’un simple soldat di Gaston Riou, l’opera dall’astuta architettura e dal montaggio sapiente - presentata con un caloroso viatico di Edouard Herriot - che nel 1916 inaugura presso Hachette una collana di Mémoires et récits de guerre e che rimarrà fino alla conclusione del conflitto il testo più diffuso dell’apologetica di regime (nel 1919 lo sostituirà la famosa oleografia di Roland Dorgelès, Les croix de bois, con i suoi bozzetti lacrimogeni e soignés). Riou, superfluo dirlo, anche se pilota un’autoambulanza tut to è fuorché un soldato «semplice»: è un giovane filosofo, allievo di Henri Bergson e di Guglielmo Ferrerò (al quale dedica il Jour28 «Dei desperados, superstiti« di Dio sa quali epopee coloniali, ma uomini, tutti. E valeva pur la pena di risicare la morte per conoscerli, quei dannati che sapevano di ciurma con tutti i loro tatuaggi. Non uno di essi ci lasciò, mai, e tutti furono pronti a pagar di persona, per niente, per la gloria, per ubriachezza, per sfida, per fare una mat ta risata, per darci una bella botta dentro, perdio, ma soda, ma tosta, giacché ognuno aveva passato le sue, un colpo gobbo di rimbalzo, qualche pazzia, o già era stato retro cesso una o due volte sotto l’influsso della droga, dell’alcool, del magone o dell’amore, nauseati ormai, tutti quanti, di tutto» (ibid., p. 106). 29 Ibid., p. 92. 78
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nal), e si è già segnalato per una brillante polemica contro le dot trine razziste di Arthur de Gobineau e di Houston S. Chamberlain che ha affidato a un capitoletto dell’opuscolo Aux écoutes de la France qui vieti t, con il suo elogio del métissage, la sua confu tazione del principio di linearità nello sviluppo dei gruppi etnici, la sua rivendicazione del ruolo positivo delle crisi che costringo no i popoli ad «aprirsi» all’immigrazione. Il suo libro è un diario di prigionia, e ha inizio con un flash-back. Mentre attraversa la Baviera e il Baden-Wùrttenberg per raggiungere il campo d’in ternamento, e due ali di folla urlante minacciano di linciaggio gli ambulanciers «che uccidono i feriti», l’autore ripercorre con la memoria le intense esperienze di un soggiorno in Germania risa lente ad appena un anno prima. In quell’occasione egli aveva in contrato personaggi della più varia estrazione - professori, gior nalisti, imprenditori, generali, direttori di museo - ed era rima sto perplesso se non proprio sconcertato. Gli intellettuali liberali - da Max Weber a Wilhelm Windelband, da Karl Vossler a Friedrich Naumann - gli avevano intonato tutti la medesima canzone: la Germania non vuole la guerra perché i vantaggi del la pace la candidano a un’egemonia sull’Europa che nessuno può contrastare, meno che mai una Francia spossata dal mate rialismo, dal ripudio della storia e dalla denigrazione costante del proprio sistema politico. I tedeschi «illuminati», infatti, sem bravano unanimemente ritenere che la gioventù francese «fosse reazionaria» e vituperasse i princìpi dell’89 idolatrando «il me dioevo, il diciassettesimo secolo e gli scritti di De Maistre». Un deputato socialista di Lipsia, risoluto «a raccogliere e a far trion fare in Europa la bandiera della democrazia che la Francia aveva lasciato cadere», non aveva lesinato espressioni particolarmente crude: Qui leggiamo i vostri Maurras. Ci si racconta che da voi riescono a stregare la gioventù. Questo ci sbalordisce. Ci sembra un delirio, que sto baldanzoso atteggiamento da rinnegatori della tradizione che vi ha reso illustri, che vi fa ancora adorare da quanto esiste di più generoso al mondo... È strano! Nel momento in cui vi manca la forza materiale, proprio voi, la nazione nobile per eccellenza, diventate gli apologisti forsennati del colpo di ariete, della «coda di tigre»; vi prendete per 79
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maestro Machiavelli, vi augurate un Bismarck francese, vi proclamate realisti, imperialisti, assolutisti...50. A sua volta il direttore del museo di Mannheim, un modera to felicissimo di avere spogliato gli antiquari parigini dei migliori Cézanne e Daumier ancora sul mercato, era stato più cortese so lo esteriormente: Qui l’alta borghesia è irritata, scontenta: essendo naturalmente progressista vorrebbe un autentico parlamento che le assicurasse la su premazia sui resti della nobiltà. La vostra borghesia, per contro, ha già vinto da un pezzo, e non avendo più nulla da desiderare è ovvio che diffidi di tutte le novità artistiche, filosofiche e politiche... So di ferire le vostre speranze, ma voi non siete in grado di cambiar nulla: la Fran cia è ormai entrata in una fase conservatrice; siamo noi, ora, i creatori; siamo noi i veri successori dei vostri maestri51. Tutt’altro linguaggio - anche se non ne era rimasto stupito adoperavano gli ufficiali con cui gli capitava di conversare: so prattutto quando criticavano lo «sviluppo dell’iniziativa persona le», scioccamente promosso nelle caserme francesi, e che essi «temevano come la peste» perché stavano apprestando una mac china bellica nella quale lo spirito di disciplina «confondeva, stancava, addormentava, distruggeva, annichiliva il pensiero ri ducendo gli individui ad automi». Nonostante l’abissale distanza delle argomentazioni, comunque, a Riou non era affatto sfuggito che ad accomunare sotterraneamente il complesso di superiorità dei progressisti e dei conservatori era la soddisfazione per il de perimento demografico della Francia. Il deputato di Lipsia, sia pure con una grevità ideologica probabilmente esagerata dall’in terlocutore, in proposito era stato chiarissimo: Voi fate troppo pochi figli per essere socialisti. La germinazione della nostra idea esige folle incupite, che si spingono, si pestano i pie di, mancano di spazio e di aria respirabile, si accrescono senza tregua 50 G. Riou, Journal d’un simple soldat. Guerre-captivité 1914-1915, con una prefa zione di H. Herriot e disegni di J. Hélès, Paris, Hachette, 1916, p. 10. 51 Ibid., p. 17. 80
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perché non hanno nulla da perdere. Il vostro Einzweikindersystem vi condanna a restare borghesi, e per di più borghesi sconfitti!...32. Non meno esplicito si era mostrato il generale che lo aveva introdotto negli acquartieramenti di Dòberitz e di Potsdam: In battaglia, l’obbedienza automatica e il timore del capo fanno le veci del coraggio. Questa dottrina ha un inconveniente: noi dovremo sacrificare all’attacco più uomini di voi. Ma non importa: noi abbiamo meno motivi della Francia per risparmiare i nostri figli. La Germania è feconda”. Ora, nei giorni di cattività, 1'ambulancier rammenta quei giu dizi con un piglio di bonaria sufficienza. Dopo mesi di familiarità con le sue sentinelle, che hanno spartito la fame con lui, incomin cia a raccoglierne le confidenze: sono contadini poveri e ignoran ti, privi di ogni motivazione ideale, un po’ tirchi e grossolani, at tanagliati dalla paura dei superiori. Odiano la guerra e disertereb bero volentieri - se non fossero trattenuti da un terrore quasi su perstizioso - perché sono perennemente in ansia per le loro volu minose famiglie: infatti hanno tutti sei o sette figli, e temono che in assenza del padre i disgraziati non riescano a procurarsi alcun mezzo di sostentamento. ìnsomma sono soldati torpidi e riottosi, che non muovono un dito se non hanno ricevuto ordini perento ri, che simpatizzano senza ritegno per nemici ai quali dovrebbero ^riservare una sorveglianza occhiuta e inflessibile. I nemici, da parte loro, non si accontentano di sopravvivere. Marziali e contegnosi - perché non intendono rinunciare alla di gnità personale - accudiscono al loro misero abbigliamento in maniera quasi maniacale, puliscono con scrupolo le baracche sconnesse, raccattano denaro con espedienti genialmente truffal dini, trasformano in cucine degne di questo nome gli ammassi di fornelli malconci e di pentole ingrommate: non trascurano nem meno i piccoli piaceri, e dai locali di tre metri quadrati delle ca tapecchie ricavano vestiboli lindi e accoglienti, salottini graziosi e un po’ cocasses, addirittura stanzette da gioco provviste di tut to l’occorrente. ,2 Ibid., p. 11. ” Ibid., p. 20. 81
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Riou s’infiamma e impettisce: Non si verrà mai a capo di gente simile. Non si potranno mai ri durre in schiavitù uomini del genere. Senza violenza, con il semplice ricorso alle loro virtù naturali, essi inciviliranno anche il più tanghero degli oppressori. [...] È chiaro che nascono, per privilegio speciale, «uomini liberi». [...] Sono prigionieri: tuttavia li si direbbe a casa propria, padroni, proprietari. Prigionieri? Hanno tutta l’aria di esser loro a proteggere i guardiani. Si spingono fino a redarguirli se eseguono male le loro in combenze...54. Il giovane filosofo si rende conto di aver ceduto per un atti mo alla fanfaronnade, e subito imbocca la strada della riflessio ne. Incivilire sta bene, ragiona fra sé, ma ora è in corso una guer ra senza quartiere, e per vincerla sono necessarie doti diverse da quelle eminentemente pacifiche del civilisateur. E allora come fa ranno, a prevalere sulle quadrate legioni prussiane, questi fran cesi «anarchici», «ingovernabili», «brontoloni», «sempre pronti a litigare su tutto», talmente affezionati alle loro idee - ne hanno una su ogni argomento - da gridare talvolta «periscano le patrie purché l’umanità sia unita»” ? La risposta, in fondo, non è diffi cile: perché «ai loro occhi la Francia è la giustizia», e nulla come l’aspirazione alla giustizia - e come l’attaccamento alla libertà produce coraggio generando una disciplina interiorizzata, volon taria, consapevole di sé: I banditori della giustizia e della libertà, che spaventarono gli uo mini d’ordine in tempo di pace, oggi sono i più disciplinati del mon do, mentre i sostenitori della passività, i musicisti deH’unanimismo, i mistici della forza, gli adoratori della potente Germania si mettono a protestare, a rinnegare, a ragionare da cattivi individualisti. Che pessimo affare possedere soltanto la forza! Quando la si per de non si ha più nulla! Che pessimo affare costruire tutto sull’egoi smo e sulla nullità politica delle masse! Quando giunge l’ora di fare 54 Ibid., p . 194. ” Ibid., p . 243. 82
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appello al loro eroismo, si ottiene soltanto la loro triste e fiacca rasse gnazione...56. «La Francia è la libertà e la giustizia»: può sembrare una pa rola d’ordine scontata, magari un po’ vacua, dal mediocre sapo re pubblicitario. E invece, perché l’equivalenza contenuta in questa formula potesse diventare senso comune, era occorso un lavoro paziente e durissimo: nell’iconografia della terza repub blica - studiata da Maurice Agulhon, che giustamente vi ravvisa un condensato antropomorfo delle subculture politiche - ancora qualche anno prima il capo di Marianna era coperto ora da un elmo, ora da un berretto frigio, ora da una corona d’alloro, e il suo busto si presentava ora ignudo, ora catafratto in una coraz za, ora fasciato dai panneggi di una tunica, ora avvolto in una svolazzante camicia rossa. La Francia, in altri termini, era di vol ta in volta la patria dei princìpi dell’89, dei re cristianissimi, del l’impero populisteggiante e deU’internazionalismo proletario57. Solo l’alleanza radical-socialista, e quella sequenza di cerimonie civiche che Joseph Paul-Boncour - nella sua autobiografia - at tribuisce al dispiegamento della mystique républicaine, avevano dato luogo a un «campo egemone» che nel 1914 si estendeva fi no al centro-destra di Louis Barthou permettendo alla maggio ranza parlamentare di tenere a bada le intemperanze dell’Action française58. La prova più solida e sicura di questo rapporto di forze (me glio di un libro come il Journal di Gaston Riou, che in fondo è un’emanazione appena velata di quelli che Althusser chiamava apparati ideologici di stato) balza fuori dai taccuini e dagli epi stolari di persone che scrivono per se stesse e per i loro familiari - con uno stile conversevole, rilassato, non di rado trepido e in timista - e che approdano alla stampa solo in virtù della pietas di qualche amico intenzionato a onorare una morte prematura. Laico, normalien, nato da una coppia di maestri elementari, Marcel Etévé è un tipico «figlio della repubblica» se mai ne so*6 lbid., pp. 244-245. 57 Cfr. M. Agulhon, Marianne au pouvoir. L'imagerie et la symbolique républicaine de 1880 à 1914, Paris, Flammarion, 1989. î8 J. Paul-Boncour, Entre deux guerres: souvenirs sur la troisième république. Les luttes républicaines 1877-1918, Paris, Pion, 1945, pp. 125-140. 83
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no esistiti: molto probabilmente è anche socialista, se nella pre fazione al suo carteggio - mutilata dalla censura - Paul Dupuy può rilevare che egli concentrava in se stesso, a causa dell’eredità ricevuta e della prima educazione, tutte le energie che si riassumono nell’abitudine alla cor rettezza, nel rispetto delle regole, nel senso del dovere sociale, nella co noscenza delle realtà della vita, nella familiarità con il popolo e nella simpatia per le sue sofferenze, il suo coraggio, le sue aspirazioni, i suoi bisogni e i suoi diritti’9. Etévé si nutre di un patriottismo geloso e pudico: non gli piace esibirlo, e tratta con fastidio opere come L’appel des armes di Ernest Psichari - che segna la conversione al militarismo più sfrenato del genero di Renan - giudicandole buone solo per gli spiriti pigri o tremebondi, che non riescono a trovare in se stessi le ragioni di un impegno coerente. Un amico insegnante, dopo aver ricevuto da lui un biglietto che gli sembra eccessivamente chauvin, un giorno lo rimprovera con delicatezza: Io mi domando se il nostro ruolo non consista, più ancora che nell’attizzare l’odio per il nemico, nel suscitare l’odio per la guerra. È pos sibile che su questo punto tu non sia d’accordo con me, ma è su que sta idea della «guerra alla guerra» - una parola, forse, ma una bella parola - che io conto maggiormente di attirare l’attenzione dei miei alunni. La replica è netta e inequivocabile, e non elude il problema del «valore pedagogico» della guerra nemmeno quando la bolla come «la peggiore delle catastrofi» e la circoscrive a un’esperien za in cui ciascuno deve solo «impiegare normalmente le proprie attitudini»: Se devo essere sincero fino in fondo, può darsi che con te io sia in corso in un equivoco. Per qualche tempo, in effetti, ho tentato quasi inconsciamente di forgiarmi in qualche misura una mentalità ad usum militis. Ma non si trattava di una cosa seria, e non ho mai avuto gran fiducia in questo espediente: decisamente, non riesco a odiare come pretendono qui. Allora ho stabilito di non inquietarmene, ben sapen 39 Dupuy, Préface a Etévé, Lettres d'un combattimi, cit., p. x v i i i . 84
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do che non ho bisogno di droghe del genere. Per cominciare dal bas so, ogni volta che occorrerà picchiar duro e senza pietà conoscerò si curamente l’ebbrezza cieca della battaglia; il che è molto. Ma risalendo un attimo la scala delle motivazioni, saprò anche ricorrere all’amor proprio e all’indispensabile autocontrollo; ed è già una buona base per agire. Infine, da un punto di vista più intellettuale, avrò la consa pevolezza di assolvere un compito necessario e di partecipare da questo istante in poi alla «guerra alla guerra». Così, le cose potranno funzionare40. A differenza di quanto avviene in altri paesi, dove è preroga tiva solo delle organizzazioni pacifiste, in Francia lo slogan della «guerra alla guerra» sale dai precordi del catechismo democratico-repubblicano, e quindi si combina senza difficoltà con un at teggiamento patriottico privo di inflessioni etnocentriche e di forfanterie nazionalista: «Tutti i poilus, senza eccezioni, amano profondamente la loro patria - sentenzia Gustave Doussain - e il loro amore consiste nel desiderio di sbarazzarla della guerra, che è una mostruosità, e del militarismo, che è un flagello»41. Non si deve credere che un simile modo di pensare sia pallido e inerte, o incapace di strutturarsi culturalmente opponendosi al l’egoismo di razza e alle ambizioni espansioniste. L’«umanista» Paul Cazin, per esempio, è pienamente cosciente dell’esistenza di tropi incompatibili fra loro: Francia, che mi hai insegnato a parlare questa antica lingua, che sei impregnata dalla polvere delle ossa dei miei padri, patria, io ti amo. Ma non ti amo a colpi di sillogismi, come vorrebbero costringermi a fare i retori di mestiere che predicano l’amore con la collera. [...] Non c’è nulla di più dolce della patria. Questo è vero, sta scritto già in Omero. Ma che morire per la patria sia il destino più bello, questo non è vero affatto. Il destino più bello è vivere a lungo ed essere felici42. Qua e là affiorano anche abbozzi di analisi politica, raramen te rozzi o trionfalistici, a riprova che la speranza nell’«ultima guerra» non è sempre affidata a un candido idealismo ma si ap 40 Ibid, pp. 102-103. 41 G. Doussain, Castel-Pépère, con una prefazione di H. Clouzot, Paris, Albin Mi chel, 1918, p. 251. 42 P. Cazin, L’humaniste à la guerre. Hauts de Meuse (1915), Paris, Plon, 1920, p. 168. 85
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poggia spesso al vaglio critico dei possibili scenari di pace. Il capitano di fanteria Charles Delvert, che passa attraverso le tueries della Marna e di Verdun, trascrive nei suoi appunti una rabbia e un’apprensione comunissime fra le truppe schierate nelle zone più calde del fronte: s’indigna regolarmente contro gli strateghi da caffè, «rosei e panciuti», che pontificano da ca sa su offensive e ritirate43; si spazientisce alla lettura degli arti coli di Alphonse Aulard, uno storico famoso che ricorre al pa ragone con le campagne napoleoniche per spiegare come la vit toria si raggiungerebbe facilmente se esistesse un miglior coor dinamento fra gli eserciti della coalizione (quando il vero problema consiste nell’owiare a una palese inferiorità del par co di artiglieria degli alleati); s’inferocisce con i comandi, per non parlare dei giornali che ne ripetono le bugie, a causa della totale mancanza di corridoi e di sentieri interrati che consen tano l’accesso alla prima linea senza spreco di vite umane44. La sua ira per l’impreparazione dei capi, la loro disorganizzazione, la loro goffaggine, acquista un po’ per volta una coloritura francamente antimilitarista: Si fucilerà un povero diavolo che si sarà addormentato dentro la sua postazione, anche se avrà dalla sua ogni specie di attenuante, a co minciare dalla mancanza di sonno e di cibo. Che cosa si farà del gene rale Herr, che ha un’infinità di morti sulla coscienza?45. Tutto questo, però, non vieta a Delvert - del resto soldato dalla correttezza ineccepibile, che «protesta ma marcia sempre» - di ragionare sugli esiti del conflitto con acume e con calma. Ciò che lo colpisce maggiormente è l’awentatezza dell’attacco tedesco. La «brutale egemonia teutonica sull’Europa», osserva, poteva durare ancora a lungo: sarebbe bastata un po’ di mode razione in Alsazia, in Poznania e nello Schleswig perché il gover no del Kaiser restasse saldo in sella offrendo uno scudo al prin cipio di autorità, al conservatorismo e agli ordini oligarchici. E invece no, la Germania ha imboccato una strada che può solo tramutarla - comunque vadano le cose - in una democrazia par 43 C. Delvert, Carnets d’un fantassin, Paris, Albin Michel, 1935, p. 183. 44 Ibid., p. 230. 45 lbid., p. 231.
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lamentare simile a quelle affermatesi in tutte le nazioni dell’Occidente. Neanche in Francia, d’altronde, la pace procurerà vantaggi ai militari e ai loro simpatizzanti, perché ritoccherà la carta del l’Europa rimuovendo chirurgicamente i focolai di infezione che avvelenavano i rapporti fra gli stati: È grottesco, addirittura tragico veder combattere gli ufficiali di carriera in questa lotta il cui risultato più o meno lontano sarà la limi tazione degli armamenti e la pace universale, vale a dire - quali che sia no gli elementi compensativi - la loro stessa cancellazione46. Un tale grumo di sentimenti - a metà fra l’attaccamento al foyer 47 e il consenso a una missione di giustizia - è anche all’ori gine del lealismo attivo e operante del clero cattolico. Gli ultimi governi della repubblica non erano stati indulgenti con gli eccle siastici: se una legge del 1872 li esentava dal servizio di leva, in fatti, e una successiva del 1889 li assegnava ai corpi di sanità48, la normativa organica adottata nel 1905 li trasformava in soldati ad ogni effetto e li assoggettava a tutte le obbligazioni e le presta zioni militari. Eppure - unico in Europa - il 13 marzo 1916 il vescovo di Gap, Gabriel de Llobet, decide di arruolarsi come 46 Ibid., p. 27. 47 Classico, a questo riguardo, è l’epicedio per il fantaccino claudicante, che sca glia lontano il bastone e si lancia correndo contro il nemico: «Povero piccolo zoppo, conserveremo sempre il tuo ricordo. Io e i miei amici parliamo spesso di te, quando ci ricongiunge l’occasione di un acquartieramento o di un bivacco. Se Dio vuole, ne ri parleremo spesso, più tardi, a lungo, quando la guerra sarà finita. E ti citeremo come esempio ai nostri nipotini, quando - vecchi pensionati dai capelli bianchi - raccontere mo loro i nostri ricordi di guerra, la sera, accanto al fuoco» (M. Dupont, En campagne 1914-1915. Impressioni d’un officier de légère, Paris, Plon, 1916, p. 62). 48 Contro la legge, il cui progetto si era trascinato per molti anni nelle aule parla mentari, la protesta del clero fu vivacissima. Fra tutti si distinse il vescovo di Tours, monsignor Freppel: «Io vi chiedo, signori, se in una situazione come l’attuale, cioè da vanti a un’eccedenza annua - non voglio esagerare - che sarà di almeno dodici o tre dicimila uomini, [...] è ragionevole incorporare nell’esercito i nostri seminaristi, quando è attestato dalle rimostranze unanimi dell’episcopato (esperto più di altri, si ritiene, in materia di vocazioni ecclesiastiche) che una misura simile frapporrebbe un ostacolo pressoché insormontabile al reclutamento dei sacerdoti» (cit. in E. Lecanuet, L’église de France sous la troisième république, ii. Pontificai de Léon XIII 1878-1894, Paris, Pousselguie-Gigord, 19102, p. 369). Sulle reazioni locali alle leggi di laicizzazione, cfr. anche N.-J. Chaline, Des catholiques normands sous la troisième république. Crises, combats, renouveaux, con un’introduzione di R. Rémond, Roanne-Le Coteau, Horvath, 1985, pp. 76-84. 87
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semplice aumônier*3, mentre dalle missive dei preti al fronte che talora recano in calce la. clausola «La Francia innanzitut to!»50 - traspare spesso l’euforia di chi si prodiga «per il diritto e per la libertà»51. Il laicato imita i suoi pastori, convinto che l’esperienza delPunion sacrée - interpretata come un valore, non come una co strizione occasionale - possa chiudere definitivamente il capitolo dell’anticlericalismo. Pierre-Maurice Masson, che ha insegnato per dieci anni a Friburgo da autentico ambasciatore della cultu ra francese, è un cattolico con qualche venatura giansenista, un seguace dello «stoicismo cristiano» che si spende in un’accesa vi ta di pietà; contemporaneamente - a dispetto di qualche traspor to per scrittori di destra come Barrès, De Man e Psichari - è un 49 La prima istanza di Llobet non ebbe seguito, perché il governo francese - che da dieci anni aveva rotto i rapporti con la chiesa - si rifiutò di attribuirgli una qualsiasi giurisdizione; soltanto nell’aprile del 1918, dopo ripetute sollecitazioni, il prelato otten ne di poter prestare servizio presso una divisione (cfr. J. Fontana, Les catholiques fran çais pendant la Grande Guerre, Paris, Editions du Cerf, 1990, p. 293). 50 Lettres de prêtres aux armées, cit., p. 199. 51 Ihid., p. 13. Accanto alle manifestazioni di sobrio lealismo dell’episcopato (cfr. Les carnets du cardinal Alfred Baudrillart Io août 1914-31 décembre 1918, presentati e annotati da P. Cristophe, Paris, Editions du Cerf, 1994), anche la Francia conosce un patriottismo cattolico ardentemente guerriero: cfr. Abbé Blain des Cormiers, «Sur le champ de bataille». Recueil de traits d’héroisme, de lettres de soldats, de récits de batail les de la guerre de 1914, Paris, Beauchesne, 1914; Gén. Cherfils, Pages de sang et de gioire, Paris, Lethielleux, 1916, pp. 165-168. L’episodio forse più significativo è la dif fusione del culto del Sacro Cuore di Gesù. Di origine schiettamente francese e antigian senista (la sua fondatrice, fra 1673 e 1675, è Marguerite-Marie Alacoque), questa devo zione riceve un impulso particolarissimo - dopo la guerra franco-prussiana e la repres sione dei moti della Comune - con l’erezione del grande tempio che domina la collina di Montmartre; durante la grande guerra, poi, sono migliaia e migliaia le medaglie, gli scapolari, i gagliardetti, gli stendardi che ne recano impressa l’insegna e che affiancano il tricolore repubblicano sui campi di battaglia; spesso, anzi, la scritta «Coeur sacré de Jésus, espoir et salut de la France» - accompagnata dalla rossa immagine del cuore san guinante - campeggia ricamata in oro sulla stessa bandiera nazionale (alcuni esemplari sono conservati al Musée des Invalides e al Musée du Régiment). L’aspetto più singo lare di questa ritualità propiziatoria è il suo plurilinguismo: compaiono infatti cuori di Gesù anche sui vessilli della massoneria, dove la corona di palme - che sostituisce la corona di spine - sta a simboleggiare la gloria della scienza, e non sempre si assiste al l’intreccio fin troppo ovvio con le ideologie nazionaliste (in una lettera dell’8 luglio 1918, con la quale supplica il generalissimo Foch di consacrare al «Roi de France» tut to l’esercito, venendone accontentato, l’abate Paul Noyer si augura che il suo paese «trionfi per i suoi Trattati più che per i suoi gloriosi successi»). Cfr. A. Denizot, Le Sacré-coeur et la Grande guerre, Paris, Nouvelles éditions latines, 1994, partie, pp. 134138.
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fedele servitore dello stato, che non coltiva rancori né medita ri vincite, non si reputa perseguitato né si rifugia dietro schermi nicodemitici. In una lettera all’amico Jules Chevalier, dove mostra di accettare consapevolmente - come molti altri, del resto - l’im plosione e il restringimento della soglia esistenziale generati da una provvidenziale psicologia dell’adattamento, egli scarnifica fi no all’osso il suo credo religioso e civile: «Non occorre pensare, occorre eseguire giorno per giorno il compito prescritto, conser vando tuttavia la fede nella giustizia della causa francese, la fede nella vittoria, la fede nella vita al di sopra della morte, la fede nella vita al di là della morte»52. Ma nei momenti di minore sconforto - durante qualche ra pido incontro, nel corso di uno scambio epistolare particolar mente vivace, magari dopo la lettura del Vangelo sul messale ab bandonato di una chiesa deserta - Masson non manca di ribadi re le sue aspettative fondamentali: la vittoria della giustizia e l’av vento della pace religiosa. Con qualche variante sinonimica, nel suo vocabolario Fran cia e giustizia sono sempre accoppiate: «Non mi dispiacerebbe versare un po’ del mio sangue per il trionfo della giustizia fran cese» (al cognato Francis Pellanne)53; «in certe ore ci si chiede come l’anima francese potrà sopravvivere a tanta tristezza, man tenere lo slancio, ritrovare la fiducia nella sua missione di giusti zia» (alla moglie)54; «speriamo di essere sempre degni della spe ranza che è stata riposta in noi, e di realizzare ovunque passere mo l’ideale che oggi rappresentiamo: la libertà per mezzo del di ritto» (a Philippe Godet)55; «i morti non sono inutili, perché ten gono viva nella nazione la pura fiamma dell’onore e dell’aspirazione alla giustizia» (a Gustave Lanson). Parimenti, in lui è vivissima la soddisfazione per i numerosi segnali di concordia fra chiesa e potere temporale: quando si sparge la notizia che il primate del Belgio, Désiré Mercier, ha in vitato il suo popolo alla resistenza; quando gli articoli di Barrès 52 Masson, Lettres de guerre, cit., p. 147. ” ìb id , pp. 9-10. M Ibid., pp. 20-21. ” Ibid, p. 28.
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incitano «a rifare non dico una Francia cattolica ma almeno una Francia rispettosa della fede e ansiosa di ritrovarla»; quando il «Bulletin des armées» - «Chi avrebbe mai sospettato, sei mesi fa, che si potessero stampare cose simili sotto un ministero Viviani?» - pubblica un articolo sui sacrilegi commessi dai tede schi in Polonia e riporta uno stralcio di corrispondenza del car dinale Lufon; soprattutto quando un contadino, «il quale si ren de conto esattamente degli effetti della guerra attuale», arguisce che «dopo tutto ciò non ci si potrà più divorare tra francesi, non si potrà più gridare al pericolo clericale»56. La diversità delle opinioni politiche, naturalmente, non può non ripercuotersi sul timbro della corda patriottica toccata dai memorialisti; tuttavia la cultura repubblicana è assai eclettica, e permette sfumature, itinerari eccentrici, percorsi liminali che non obbediscono meccanicamente alle logiche di fazione. Ro bert Dubarle è contraddittorio persino nell’albero genealogico: avvocato, discendente da una famiglia di magistrati ligi all’ordi ne costituito, è anche figlio del procuratore di Troyes che nel 1880 si è dimesso dalla carica per protesta contro la legge sulle congregazioni religiose. Eletto deputato nel 1910 - in una circoscrizione radical-socialista - come «repubblicano indipendente», negli anni successivi si pronuncia per lo scrutinio proporzionale, per l’imposta progressiva sui redditi, per il riconoscimento dei diritti sindacali, per la supremazia della scuola pubblica sugli istituti privati confessionali e contemporaneamente per una po litica di riarmo accelerato in nome della «grandezza della pa tria». Il 26 aprile 1914, di conseguenza, subisce uno scacco cla moroso, quando il suo collegio lo boccia a causa del voto favo revole accordato alla legge Barthou sui tre anni di servizio mili tare obbligatorio. Al campo, è ciò che si suol dire un fegataccio Rincorre de liberatamente il pericolo, si espone senza cautela alcuna, sembra quasi cercare la morte per riscattarsi da un senso di colpa che lo schiaccia. Nelle lettere sermoneggia implacabilmente, imparten do lezioni di buona condotta o invitando le mogli ad affettare sempre allegria per non deprimere l’umore dei mariti: 56 Ibid., pp. 27, 25 e 2. 90
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Attualmente - ammonisce un figlioccio - occorre che in Francia milioni e milioni di ragazzi, prossimi a diventare uomini, s’impegnino ad esaltare la loro anima, ad amare la patria sempre meglio e a servirla con fedeltà e abnegazione costanti”. I parenti gli muoiono accanto uno dopo l’altro - un cugino, un cognato, il fratello prediletto - ed egli consola i familiari so pravvissuti con parole come «grande esempio», «nobile ricor do», «eroica virtù», «destino glorioso». Eppure non vive in una realtà ipotetica, Dubarle, in un mondo di aggettivi consunti e usurati: è piuttosto un uomo perseguitato da un incubo, dal so spetto di aver tradito - per insipienza o per incuria - una patria che ama in modo lancinante e che non ha saputo proteggere dal le offese più subdole. L’inno in prosa A la patrie, specie di pre ghiera laica riscaldata da un lirismo febbrile, è a questo propo sito un documento di singolare chiarezza. La Francia che gli si accosta, in una notte di meditazione, è una creatura dell’imma ginario che non corrisponde ad alcuna delle incarnazioni con suete: si materializza come una vecchia madre curva, stanca, tre mante, con «il viso sfinito», «le guance sudicie», «il corpo insan guinato». La tua voce ci implora. «Mi conoscete e mi amate ancora? Io non ho più niente da offrirvi. I miei tesori sono stati saccheggiati, la mia eredità dispersa; io non posso offrirvi né la pace che è cara al popolo, né la ricchezza che rende facile la vita, né la gloria che addolcisce il cuore dei giovani. Io sono la Povertà, la Solitudine e la Morte»58. Di fronte a questa sommessa disperazione, il figlio reagisce accusando se stesso e i suoi fratelli, rei di aver «dormito nella pa ce» e di «aver dimenticato la legge inesorabile che costruisce sul sacrificio le fortune di un popolo». Ma ora hanno compreso i lo ro errori, gli spensierati scialacquatori di ieri, e supplicano solo di poter espiare e rimediare: Prendi, patria, prendi senza contare. Accumula i nostri corpi, riem pi i solchi e le trincee di feriti e di agonizzanti. Colma con i nostri cada veri il baratro che si è aperto d’improvviso e davanti al quale i tuoi passi 57 Lettres de guerre de Robert Dubarle, cit., p. 106. 58 Ibid., pp. 266-267. 91
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si fanno esitanti. Noi ti invochiamo, ti benediciamo, moriamo per te59. Sarebbe fin troppo agevole, in questo delirante atto di dolo re recitato al cospetto della mère bien-aimée, rintracciare gli ste reotipi di un’ideologia della revanche. Essi sono presenti, non c’è dubbio, ma nei forsennati accenti penitenziali del testo si avver te anche qualcosa di più sedimentato e lontano: un mito della grandeur, e il culto di un’individuazione soprannaturale, che da secoli perforano le dispute franco-françaises e che ora risucchia no frammenti di tutte le correnti politiche insinuandosi a ogni latitudine nel patrimonio ideale della terza repubblica. Com’era capitato spesso nella storia di questo paese, la Francia si stacca dai francesi e si libra verso l’alto perdendo ogni concreto linea mento storico-sociale: non è più la comunità éclairée degli illu ministi, o la catena delle generazioni di Tocqueville, ma la «ma donna affrescata» e la «fata delle fiabe» di De Gaulle. III. UNA GUERRA PARALLELA
In un colloquio con Jean Jaurès - svoltosi il 12 luglio 1914 il socialista indipendente ed ex ministro del Lavoro Joseph PaulBoncour promette che entrerà nella s p io quando i suoi deputati voteranno i crediti di guerra. Nel 1916, puntualmente, egli si iscrive alla sezione di Saint-Agnan perché il partito fa molto più che votare. S’impegna a fondo nella difesa na zionale. La incita. Non si limita a donarle la sua gioventù, come tutti, ma insedia i propri capi nei governi di guerra, spingendo sino al fana tismo lo spirito bellico in seno al gruppo parlamentare e alle organiz zazioni di partito. In nome della Cgt, sulla tomba di Jaurès, Jouhaux ha risposto «Presente!» all’ordine di mobilitazione. Nei consigli di go verno Guesde è fra i più intransigenti. Vaillant, alla Camera, ritrova gli ardori patriottici della sua giovinezza comunarda. Nei giorni di settem bre del 1914 è stato visto transitare nei corridoi del Palais-Bourbon al la testa di una delegazione di veterani della Comune venuta a ingiun gere al governo di darsi maggiormente da fare per la difesa di Parigi60. ” Ibid, pp. 272-273. 60 Paul-Boncour, Entre deux guerres, cit., p. 262. 92
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Sempre Paul-Boncour, nell’intento di illustrare lo stato d’ani mo di «migliaia di socialisti che al governo, in Parlamento, nelle fabbriche, al fronte [...] ricevono il battesimo della patria», rico pia i versi di un giovane instituteur rimasto ucciso in un assalto: Francia, se io ti dò tutto sarai capace di realizzare fino in fondo la tua grande opera di luce? Io mi avvio a morire per te, Francia, ma tu vivrai per l’umanità61. La foga patriottica non suscita problemi di coscienza nei mi litanti del movimento operaio, perché essi finiscono addirittura per considerarne depositarie proprio le classi più sane e laborio se, le stesse che in Un tel de l’armée française di Gabriel-Tristan Franconi - pur non possedendo assolutamente nulla - si lascia no scannare pur di difendere un modo"cli vita, un quartiere, un povero alloggio affacciato su cortili promiscui. Nella società, os serva Emile-François Julia, si verifica uno stupefacente rovescia mento di ruoli: «gli zelatori della guerra, i militaristi, i fanfaroni, i rodomonti, gli energumeni» se ne stanno tranquillamente à l’ar rière a commentare e a contare i colpi, mentre «sul campo di battaglia sono le persone umili e pacifiche che offrono materia quotidiana alla strage»62. In un clima pressoché unanimistico sembra dunque difficile che trovino spazio i reazionari e i nazionalisti ultras. Invece alza no la voce anche loro, i fautori di una guerra parallela che spe 61 Ibid., p. 263. Disponiamo ora, finalmente, di un’indagine accurata sugli atteg giamenti della classe operaia parigina e sui suoi rapporti - complessi e sfumati - con le scelte politiche dei leader socialisti: secondo l’autore a un primitivo nazionalismo, con nesso al fatto che «una successione di comunità di appartenenza assicura all’operaio pa rigino che egli è il principale sostegno del paese», si aggiunge un senso molto acuto «della patria-suolo, della patria-territorio, della patria-frontiera» e un modello di pa triottismo pacifista su cui si avrà modo di intrattenersi oltre (J.-L. Robert, Les ouvriers, la patrie et la révolution. Paris 1914-1919, Besançon, Annales littéraires de l’Université, 1995, p. 409). 62 E.F. Julia, La mort du soldat, Paris, Perrin, 1918, pp. 246-247; Id., La fatalité de la guerre. Scènes et propos du front, Paris, Perrin, 1917. 93
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rano segretamente - ma nemmeno troppo - di veder soccombe re le istituzioni della repubblica sotto la logica ineluttabile della militarizzazione. Il capitano Antoine Redier - romanziere di mo deste qualità e autore di un florilegio di Méditations dans la tranchée che si colloca agli antipodi del Journal di Gaston Riou - è forse il più rude e smaliziato di tutti. La sua fiducia nella bassa forza, verso la quale mantiene sempre una distanza glaciale, è minima per non dire nulla. Contadini, artigiani, operai, a suo av viso, sono stati afferrati per la gola e letteralmente strappati alle comode nicchie in cui rivendicavano i loro «diritti»; e cercano di rifugiarvisi ancora, i miserabili, rispondendo per esempio «quan do sarà il mio turno» agli ufficiali che cercano volontari per qualche missione rischiosa. Diritti, sempre diritti: non hanno in mente altro che «il diritto di vivere la propria vita, di godere, di poltrire, di sabotare tutto, se stessi, il loro lavoro, i loro parenti e il loro paese»63. Basta poco, però, perché smettano di protestare e scoprano che «in campagna» l’unica eguaglianza che esiste è «la comune miseria davanti alla morte, pronta a colpire senza guardare in faccia nessuno»; e che per il resto tutto è rango, me rito, distinzione, gerarchia. «Disuguaglianza e rispetto: ecco due nozioni nuove per la nostra gente. Ci si abitueranno»64. Le necessità belliche, comunque interpretate, assicurano ai fanatici del campo d’onore una rivincita lungamente covata sui miti nefasti che hanno trasformato le classes travailleuses in classes dangereuses: i popolani sovversivi, arroganti e sornioni si ac corgono di poter aspirare alla salvezza solo riscoprendo il senso del dovere e una concezione della libertà come obbedienza a norme positive, perché di fronte a sé hanno solo «la scelta fra la disciplina francese e il dispostismo tedesco»: Noi amavamo iscrivere la libertà nelle nostre istituzioni. Nulla di più vano. Non si tratta di instaurare la libertà, ma l’ordine. Noi parla vamo dei nostri diritti di uomini liberi. In materia di libertà non ab biamo alcun diritto ma soltanto due doveri: obbedire alle vere leggi e staccarci dagli altri. Che ciascuno eserciti su queste formule la sua intelligenza e il suo 65 A. Redier, Méditations dans la tranchée, Paris, Payot, 1918, p. 17. 64 Ibid., p. 21. 94
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cuore; allora vedremo sorgere una generazione di uomini saggi e pieni di fierezza. La grande legge presente consiste nel salvare la patria65. Al ravvedimento sono costretti anche i politicanti chiacchie roni, i mestatori che «tributavano a parole reboanti il culto do vuto alla Francia»: Il nemico, ravvivando odi secolari, ha unito i nostri vivi e i nostri morti; e la tradizione, che si usava schernire, ha assunto sotto tutti gli aspetti una nuova bellezza e una nuova maestà. Ministri della repub blica, per i quali la Francia datava dal 1793, hanno evocato solenne mente i nomi di San Luigi, di Duguesclin, di Giovanna d’Arco. Si schernivano anche l’ordine, l’autorità, la disciplina; ora, i nostri stolidi concittadini vedono che con tutte queste vecchie cose la Germania è stata sul punto di distruggerci66. Per un branco di bestioni refrattari, naturalmente, le aspre lezioni della realtà non sono sufficienti. È indispensabile inse gnar loro ciò che non sannopo che hanno dimenticato per colpa di governanti imbelli e di cattivi maestri: innanzitutto un’idea della Francia, perché sembrano ignorare tutto della loro terra natale. Le reclute del Nord, attraversando la valle della Vienne fra Limoges e Angouleme, oscillano infatti fra lo stupore e l’ila rità davanti a una distesa di cespugli e di alberi dove non cresce il frumento, mentre gli abitanti del Centro - avvezzi all’alternan za di praterie e castagneti - si sentono quasi stranieri nelle mo notone pianure della Piccardia e dell’Artois. Non conviene, in ogni modo, stordire le anime semplici con discorsi troppo spirituali ed elevati, perché non li capirebbero; è più opportuno stimolare in loro un pragmatico «patriottismo provinciale»: Un contadino che conservasse intatti i suoi costumi senza riflettere ulteriormente, sarebbe patriota con i suoi padri se non con i suoi tren tanove milioni di fratelli viventi. Amerebbe la Francia nella sua durata, se non nella sua estensione e nella sua forza attuale; non conoscendo granché, ma qualcosa più di storia che di geografia, sarebbe insomma 65 Ibid., pp. 58 e 59-60. 66 Ibid., p. 23.
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ancora capace di morire su un campo di battaglia sapendo perché67. Ma solo la guerra può risvegliare questo municipalismo tra dizionalista, perché i demagoghi della repubblica - oltre a mil lantare la fratellanza universale e l’abolizione delle frontiere hanno ammutolito gli antichi custodi delle memorie sostituendo li con i loro sindaci, i loro alfabetizzatori, i loro telegrafi, le loro ferrovie: le vecchie nonne tacciono, e non raccontano più nelle aie le favolose prodezze degli antenati, mentre i curati non radu nano più il proprio gregge nelle chiese perché canti il Te Deum dopo la vittoria di un re. Redier teorizza apertamente l’esistenza di due patrie: una ruralista e aggrappata alla stanzialità, per coloro che non compren dono come «l’istinto patriottico renda un omaggio palpitante al la perennità della razza», l’altra trascendente e aureolata di glo ria per chi ascolta «la voce di cento generazioni» e vuol «ritro vare il gusto di essere forte senza occuparsi dell’umanità ma pen sando solo alla Francia». Ora, l’originalità di una dottrina siffatta non risiede nella ricercatezza ornamentale delle sue ragioni «al te» (in quegli anni i trasalimenti eucaristici si misurano a spanne larghe, come gli elogi della bella morte e la visione arturiana di una moderna tenzone alla ricerca del santo Graal, da L’équipage di Joseph Kessel a En escadrille di Jacques Boulenger), bensì nel puntiglio prosaico con cui un arcigno educatore di «plebi» esco gita espedienti per addomesticare uomini traviati dalla viltà indi viduale, dall’egoismo di classe, dal familismo piagnone, dalla predicazione democratica: e si tratta sempre di rimbrotti minac ciosi, di pesanti sanzioni disciplinari, di punizioni sproporziona te, di degradazioni scenografiche, di deferimenti sbrigativi ai tri bunali di guerra. A guadagnarsi qualche staffilata venatoria o re pressiva sono il veilleur di trincea, in turno di guardia, che viene coperto di improperi perché alla domanda di un ufficiale - il quale gli chiede che cosa veda dietro di sé - risponde «un cam po di barbabietole» e non «la Francia»; il phraseur, l’«awocato contadino» che subisce una gragnuola di pugni perché sostiene che i tedeschi valgono almeno quanto i francesi; il roublard, l’im broglione che torna dopo due settimane da una licenza di sei 67 Ibid., p. 235. 96
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giorni architettando scaltre menzogne sui ritardi dei treni e fi nendo difilato sotto processo. Non di rado Redier travasa la sua cattiveria - «i reazionari sono sempre malvagi», aveva scritto Anatole France - nei pupazzi che conduce alla ribalta per sco pi di deterrenza. Ecco allora il ritratto di un adjudant incaricato di togliere le mostrine a un fuggiasco, condannato a dieci anni di reclusione per aver «abbandonato il fronte andando a bere e a far baldoria mentre i suoi camerati sgobbavano, soffrivano e morivano»: Il sottufficiale convocato si stacca dai ranghi. Corre velocemente, e si pianta in mezzo alla piazza con la sciabola sguainata. Io lo osservo, mentre si prolunga la triste lettura della sentenza. I suoi connotati si sono alterati: prima è arrossito, poi impallidito, e ora serra i denti. Ep pure i suoi occhi brillano. La missione di boia che gli è stata affidata lo turba violentemente. In molti altri, più che turbamento, provochereb be disgusto. Ma questo riservista, che noi amiamo per il suo cuore d’oro, ha preso sul serio il mestiere di soldato. Capisce che per un istante la Francia stessa si sta incarnando in lui. Con le sue mani egli castigherà un delinquente; tutti i compagni assisteranno al suo gesto, e ne tireranno le debite conclusioni. Occorre che soffochi la compassio ne e compia il sacro rito con fermezza e nobiltà68. L’insensibilità, l’avversione per il paternalismo, l’uso della sferza morale e materiale, negli adepti dell’Action française ob bediscono a una precisa strategia, dovuta allo sforzo di preserva re una soggettività politica senza sconfessare Xunion sacrée e più in generale di convivere con l’odiata democrazia ritorcendole contro le sue stesse armi. Il conte Léon de Montesquiou, uno dei leader del movimento, aveva suggerito fin dal 1908 il comporta mento che avrebbe poi adottato in guerra insieme con i suoi di scepoli e i suoi amici: poiché una folla che è eminentemente vo lubile, aveva avvisato con astuzia, dispone di un formidabile strumento di potere come il suffragio universale, quando è in ballo la «difesa sociale» si è costretti a ricorrere a ciò che può colpirla e farla agire, a prenderla dal lato delle emozioni e perciò a eccitare i suoi sentimenti, talvolta no68 lbid., pp. 196-197. 97
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bili come l’amor di patria - certo - ma più spesso egoistici, di conser vazione personale o addirittura di odio e di terrore. Sicuramente non è molto gradevole puntare su sentimenti di tal fatta. Ma è in gioco la no stra patria. Noi non possiamo scegliere i mezzi per difenderla. Siamo obbligati a proteggerla con i pessimi arnesi che il sistema democratico ha lasciato a nostra disposizione: l’appello alle passioni individuali69. L’influsso della droite sulla guerra parallela, beninteso, non si riduce allo sfruttamento delle iniezioni di autoritarismo - inevi tabili in un contesto bellico - o all’esaltazione del rito oblativo di restituzione della vita alla patria; esso è ben visibile - penso per esempio a uno scrittore come Maurice Beslay - anche nella volontà di restaurare un codice cortese che separi la figura delYhostis da quella deìY inimicus (in Vermelles l’autore si rallegra quando due ufficiali tedeschi, all’accorrere dei barellieri che ten tano di caricare un soldato francese sbranato da una mina, fan no tacere i fucili ed escono dalla trincea per salutare militarmen te con le armi al piede) o di genuflettersi collettivamente in una sorta di crociata cattolica contro i protestanti «distruttori di chiese» (nella stessa opera una schiera di soldati, credenti e non credenti, assiste a una messa pasquale chinando il capo davanti all’ostia consacrata e ascoltando pieusement un sacerdote che in voca «tutti i santi protettori del paese» perché lo salvino dalle «orde teutoniche»)70. Inoltre Charles Maurras e l’Action française, paradossalmen te, rinfrancano anziché fiaccare il blocco nazionale assumendosi la rappresentanza delle forze autonomiste - adeguatamente con siderate, lungo un altro versante, solo da qualche esponente del la s f io - che rivendicano la décentralisation contro il roccioso unitarismo dei partiti repubblicani. Maurras è un federalista convinto almeno dal 1903, e la coerenza del suo pensiero in ma teria risalta in modo particolarmente evidente da una discussio ne con il socialista Eugène Fournière. A costui, che vorrebbe sancire l’autogoverno di tutti i gruppi sociali senza indulgere alle istanze della «patria» o di ciò che è comunque «opera della na 69 L. de Montesquiou, Un résultat de la démocratie: la crainte et la haine comme leviers, «L’action française», i, 5 dicembre 1908. 70 M. Beslay, Vermelles. Sur le front, Paris, La nouvelle revue française, 1915, pp. 84 e 119.
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tura» e non «volontà dei cittadini», egli obietta che proprio un regime fondato sulla natura - in primo luogo sulYhéritage, paro la-chiave del suo lessico teorico - è in grado invece di riconosce re la prossimità degli interessi, sia sul piano culturale e territo riale sia su quello delle affinità professionali e lavorative. La de mocrazia, incalza Maurras, è sempre «in stato d’assedio ammini strativo» perché «tutte le funzioni pubbliche sono elettive» e lo stato è costretto «a centralizzare, cioè a conservare nelle proprie mani la maggior quantità possibile di poteri e di servizi»; «sosti tuite l’elettività con l’eredità in una quota notevole dell’organiz zazione politica - cosa di cui «è capace solo un re» - «e otterre te un movimento inverso, una reazione igienica verso il decen tramento». «Ecco perché sono diventato monarchico», aggiun ge: perché una dinastia è garante inamovibile della sovranità, e dunque può elargire tranquillamente franchigie e concessioni, mentre se «l’esistenza di un paese dipende da coloro che deten gono il potere ogni partito vive nel desiderio o nel timore per petuo di conquistarlo o di vederselo sottrarre tutto intero»71. Sa ziati da questo nutrimento concettuale, che evoca un neofeuda lesimo tanto esigente nel pretendere fedeltà ai valori ultimi e pri mi quanto rispettoso delle genealogie e delle usanze locali, lotta no dunque «per cancellare i quarantaquattro anni di vergogna sopportati dalla Francia» anche personaggi come Emile Arné, contemporaneamente camelot du roi e félibre che compone versi d’amore in lingua provenzale72. Nonostante l’elevato quoziente di dottrinarismo, nel com plesso, i maurrasiani sembrano tuttavia più fragili e indifesi degli altri, più esposti agli scacchi di una guerra totale che non si la scia addomesticare dai colori a smalto deU’immaginario tradizio nalista: per questo sono costretti, non di rado, ad acrobazie che cercano di salvare la sostanza dei princìpi senza oscurare una realtà che tende irresistibilmente a smentirli. Georges Valois im puta alla democrazia, cioè alla mobilitazione generale e alla co 71 J. de Fabrègues, Charles Maurras et son Action française. Un drame spirituel, Paris, Perrin, 1966, pp. 92-93. Cfr. anche E. Weber, L’Action française, trad. fr., Paris, Fayard, 19852, pp. 62-86. 72 Cfr. E. Arné, Cansoun tristo, in Anthologie des écrivains morts à la guerre, cit., pp. 23-24.
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scrizione obbligatoria, l’irrigidimento del fronte lungo le linee di trincea: solo la sovrabbondanza di effettivi, osserva, ha permesso di apprestare e piantonare un vallo ininterrotto dalla Svizzera fi no al mare, a scapito dell’agilità con cui un esercito di mestiere esiguo ma altamente professionale - avrebbe potuto muoversi in campo aperto. Come uscire, allora, da una situazione di stallo senza sguarnire il paese rinunciando alla costosa barriera che si è comunque voluta erigere? Scagliando a raffica contro i tedeschi squadriglie di tanks - non a caso il libro che contiene questa proposta, pubblicato nel gennaio del 1918, s’intitola Le chevai de Troie - comodamente in grado di arrivare a Berlino nel giro di pochi mesi: una macchina, partorita dall’ingegno dell’uomo e guidata dalla sua risolutezza, porrebbe così fine a un lento dis sanguamento ristabilendo le leggi millenarie della guerra, le qua li prevedono che solo le élites della mano e della mente possano imporsi nella tenzone delle armi7'. Ma la collisione fra realtà e ideologia non sempre si placa in curiose fantasticherie tecnologiche: spesso provoca disagi, tor menti e abiure morali ben altrimenti drammatici e destinati a ri manere irrisolti. Marc Boas-Boasson, un giovane storico dell’arte di famiglia israelita, fra il 1906 e il 1910 si converte al cattolice simo e diventa uno scalpitante ro-yaliste: quando parte per il fron te, di conseguenza, inalbera le sue opinioni «nazionaliste, guer rafondaie, ferocemente antirepubblicane e anti-sorbonnardes», convinto di poterle devolvere a beneficio dei commilitoni e della patria. Invece nei tre anni che trascorrono fra l’inquadra mento e la morte in Fiandra - avvenuta nell’aprile del 1918 - la sua indole «impulsiva e nervosa» gli fa capovolgere molte delle idee di cui si era alimentato: «Quando dice ciò che pensa della guerra, dell’esercito, dei capi, degli stati maggiori - annota Nor ton Cru -, lo fa con una violenza verbale e un’inclemenza di giu dizio che devono aver suscitato molto scalpore». Nelle lettere alla moglie, la sua afflizione e il suo disgusto ap paiono sempre smisurati: Vedendo queste statue di fango, questi occhi dilatati, queste spos75 G. Valois, Le chevai de Troie. Réflexions sur la philosophie et sur la conduite de la guerre, Paris, Nouvelle librairie nationale, 1918. 100
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satezze mortali, queste agonie che camminano, la collera assale anche i più tranquilli. Ecco dunque in che cosa si possono trasformare gli uo mini, in macchine per soffrire. Niente, non si è visto mai niente di tan to abominevole. Non è eroismo, questo. È ignominia74. Durante la battaglia di Verdun si affacciano in lui perfino i propositi disfattisti: Il pensiero più orribile, e che tuttavia si fa largo, è quello della va nità stessa di una vittoria. [...] Si giunge a chiedersi dove stia, la vitto ria, e se non consista in una pace qualsiasi che almeno salvi la razza75. Queste ultime parole sono rivelatrici, anche lasciando da parte il patetico cruccio dell’ebreo abbarbicato alla «razza» con cui si è voluto mescolare. Boasson, che continua a leggere l’«Action française» pur parlando di «società militarizzata» e di «bru ti illetterati che comandano», non è un transfuga del nazionali smo né un neofita della rivoluzione: è solo un giornalista frastor nato e confuso - sicuramente depresso perché «i militari stessi distruggono con le proprie mani il tempio che era stato loro de dicato» - il quale approfitta in modo inconscio della saldezza democratica di un paese in cui neppure l’antimilitarismo più ra dicale è incompatibile con un amor di patria politicamente par tigiano. IV. «SOMBRE CONNERIE»?
Il pacifismo, fra ’14 e ’18, è essenzialmente un affare per scrittori dotati di particolari requisiti: o autorevolezza indiscus sa, o prudente riserbo, o spregiudicato anticonformismo. Lo spazio disponibile per un rifiuto integrale della guerra, infatti, è assai ridotto perché è stato in gran parte riassorbito dalla cultura democratico-repubblicana (Georges Valois ha ragione quando sostiene che gli slogan sulla «guerra che ucciderà le guerre» ap partengono a un «discorso ufficiale») e dall’idea di una cruenta 74 M. Boas-Boasson, Au soir du monde. Lettres de guerre 16 avril 1915-27 avril 1918, con una prefazione di G. Marcel, Paris, Plon, 1926, pp. 127 e 128. 75 Ibid., p. 111. 101
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ma definitiva redenzione degli uomini dalla violenza e dall’ag gressività: rimane posto solo per la denuncia di un orrore cosmi co o indicibile, per le accuse razionaliste contro il trionfo dell’in sensatezza, per la ripulsa aristocratica di una carneficina «bor ghese», per la dissacrazione grottesca e allucinata, per le forme più elementari e istintive di populismo, vale a dire per gli unici atteggiamenti che non appaiono mediati dalle ideologie domi nanti - almeno in teoria - e per gli unici sguardi che non pro vengono dall’interno delle istituzioni sociali. Già noto come autore di teatro, il cattolico Georges Duha mel presta servizio di medico in un ospedale militare. Sotto i suoi occhi, e sotto le sue mani che spalmano tintura di iodio su piaghe purulente e arti amputati, passano feriti di ogni età, tem peramento e condizione: il contadino macilento e sdentato, or gogliosissimo, che canta per non gridare durante le medicazioni; il giovane dall’aria persa, che ha smesso di parlare e scruta sol tanto il soffitto fumando sigarette in continuazione; il caporale con le gambe maciullate, che teme di non ricevere la medaglia al valore essendo stato rimproverato perché non si era accorto che a un uomo del suo plotone mancava un bottone dalla giubba; il mauvais blessé che si lagna di tutto e di tutti, impreca con gli in fermieri, urla e geme appena gli toccano le bende, e «patisce più degli altri» perché non è riuscito a «imparare il mestiere del do lore»; il padre di famiglia quarantenne, precocemente incanuti to, che piange molte ore dopo la morte, quando il suo cadavere è già stato lavato e ricomposto76. Secondo Henri Clouard «in nessuna opera di nessuna epoca l’abominio della carneficina bellica ha mai suscitato visioni pro testatarie paragonabili a quelle di Vie des martyrs»11. È un’esage razione, e non piccola. Certo Duhamel si ribella davanti allo spettacolo tremendo a cui deve assistere ogni giorno, e leggendo le sue pagine sembra talvolta che nelle pene di tanta carne af franta si concentrino tutte le sofferenze del creato; dalle sue rea zioni, tuttavia, cola sempre un umanesimo dolciastro e con il ci 76 G. Duhamel, Vie des martyrs 1914-1916 (1917), Paris, Mercure de France, 1945. 77 H. Clouard, Histoire de la littérature française du symbolisme à nos jours, n. De 1915 à 1940, Paris, Albin Michel, 1949, p. 254. 102
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glio umido, lo stesso che ambisce - in Possession du monde del 1919 - a instaurare il «regno del cuore» in politica, in morale e in filosofia. Insomma questo prosatore per molti versi simile a De Amicis (la visita del generale «buono» sembra un calco in tenzionale dal Tamburino sardo) è sicuramente un pacifista sin cero e rispettabile; ma appartenendo alla categoria dei «lamen tosi» - secondo la classificazione di Gaston Bouthoul -, cioè di quanti pensano che per far rinsavire gli animi basti descrivere la crudeltà della guerra, professa un pacifismo che esclude ogni connotazione internazionalista e libertaria. Anzi, è ancora perva so dalla fede nella missione riparatrice della Francia, chiamata dall’ora storica che scocca a ricostituire un’«unione dei puri di cuore» e a ridiventare un faro di civiltà per le genti: Uomini del mio paese, io imparo ogni giorno a conoscervi, ed è per aver contemplato il vostro viso al culmine della sofferenza che ho concepito una speranza quasi religiosa nell’awenire della nostra razza. [...] Uomini di Francia, la vostra ingenua grandezza d’animo discolpa tutta l’umanità del suo delitto più grande e la risolleva dalla sua più profonda decadenza78. Colui che sembra spezzare davvero l’involucro del patriotti smo è Henri Barbusse, futuro comunista e biografo di Stalin. Le feu, datato 31 dicembre 1915, è un romanzo-verità teratologico e magniloquente, che viene insignito del premio Goncourt e in pochi mesi raggiunge una tiratura strepitosa; è anche un libro ancipite, però, a doppia faccia, con il quale l’autore istiga il pub blico più vasto possibile a un generico ribrezzo di fronte al carnage - allineando episodi macabri e raccapriccianti - e contem 78 Duhamel, Vie des martyrs, cit. pp. 242-243. In un’altra e successiva raccolta di memorie, Duhamel ribadisce il medesimo patriottismo umanitario: «Mi sono chinato volta per volta sul passato e sul futuro di questi francesi, miei fratelli, che in numero così elevato hanno accettato di morire senza rinunciare a ciò che stava loro a cuore, di questi francesi di cui il mondo conosce troppo male la grandezza d’animo, l’intelligenza indomita e la commovente semplicità. E come potrei non pensare a loro, mentre si con suma il lungo tormento di un popolo ammirevole che cerca da solo, annaspando in una notte senza fondo, l’approdo che gli restituirà l’ordine e la salvezza? [...]. Io rifletto spesso sulla civiltà, su quella vera. Dal mio punto di vista è come un coro di voci ar moniose che cantano un inno, è una statua di marmo su una collina arida e brulla, è un uomo che direbbe: “Amatevi gli uni con gli altri!”, oppure: “Rispondete al male con il bene!”» (Id., Civilisation 1914-1917 [1918], Paris, Mercure de France, 192564, pp. 9 e 271). 103
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poraneamente allude fra le righe a un’ipotesi di sciopero militare dai toni vagamente zimmerwaldiani. Fino alle soglie dell’ultimo capitolo protagonisti in assoluto sono i cadaveri, ritratti con una morbosità che rasenta il sadismo: il tedesco di cui si vede solo la testa che sporge dalla polvere; la sentinella segata in due all’al tezza del bacino, con il tronco delicatamente appoggiato a una parete di terra; l’ufficiale che sembra sghignazzare perché la ma scella sfracellata gli scopre la dentatura; il fante che rimane in piedi perché è imprigionato da un cumulo di salme; il soldato che brucia, ormai carbonizzato, mentre un ruscello di sangue gli sfrigola addosso; il macchab insepolto a cui si cerca di sfilare gli stivali staccandogli anche le ginocchia, ed estraendo poi dalle calzature tutti i frammenti dei piedi e delle gambe; la giovane Eudoxie, fidanzata di un poilu, che l’innamorato ritrova quando è morta da un mese e si disfa sotto il suo abbraccio affloscian dosi come un fagotto deforme; il manipolo di negri che viene usato da esca per costringere una mitragliatrice a rivelare la pro pria posizione; il fantoccio immobile che sembra seduto, con le gambe distese, e il cui viso si presenta nerissimo perché in realtà è la nuca di un fuciliere «piegato e rotto al rovescio». Nel xxiv capitolo - intitolato L’aube - irrompe invece di pre potenza l’io narrante, che s’incarica di rettificare, correggere, emendare i punti di vista dei compagni, praticamente maturi per la rivolta - qualcosa come un disarmo unilaterale e simultaneo delle masse belligeranti di ogni nazionalità - ma ancora trattenu ti dall’abitudine all’obbedienza, o dalla paura delle rappresaglie, o dalla colpevolizzazione del nemico, o dalla ricerca di una via d’uscita individuale. Prima e più di ogni altra cosa, in ogni mo do, Barbusse teme che i princìpi della grande Rivoluzione pos sano ancora incantare i «proletari in divisa» attenuandone la vo lontà di insubordinazione, e dunque si premura di demolirli me ticolosamente: Dico loro che la fraternità è un sogno, un sentimento nebuloso e inconsistente; che è contro la natura umana odiare uno sconosciuto, ma che amarlo è ugualmente contro natura. Sulla fraternità non si può fondar nulla. E nemmeno sulla libertà, che è troppo relativa in una so cietà nella quale tutte le presenze si smembrano forzatamente l’una con l’altra. Ma l’eguaglianza è sempre eguale. La libertà e la fraternità 104
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sono parole, mentre l’eguaglianza è una cosa. L’eguaglianza (sociale, perché gli individui hanno ciascuno più o meno valore, ma tutti deb bono partecipare alla società nella stessa misura, come è giusto, perché la vita di un uomo è grande quanto la vita di un altro uomo), l’egua glianza è la grande formula degli uomini; una formula di importanza prodigiosa. IÌ principio dell’eguaglianza dei diritti di ogni creatura e della sacra volontà della maggioranza è impeccabile, e deve essere in vincibile ché esso apporterà tutti i progressi, tutti, con forza veramente divina. Ed anzitutto apporterà la grande via maestra di tutti i progres si: la regolazione dei conflitti per via di giustizia, che corrisponde esattamente - all’interesse generale79. Anche l’amor di patria, naturalmente, frena l’avvento del l’eguaglianza, ma su questo terreno - pur bollando il nazionali smo con parole roventi - lo scrittore si fa molto circospetto. Il suo messaggio, solitamente apodittico e frontale, incomincia ad ammettere qualche subordinata: Del patriottismo, che è rispettabile pur che rimanga nel dominio sentimentale ed artistico, precisamente come i non meno sacri senti menti della famiglia e della comunità, [i governanti] hanno una conce zione utopistica e non vitale, squilibrata nel mondo; una specie di can cro che assorbe tutte le forze vive, si prende tutto il posto ed opprime la vita, e che, contagioso, mette capo vuoi alla crisi della guerra vuoi all’esaurimento ed all’asfissia della pace armata80. Nelle lettere alla moglie, pubblicate due anni dopo la morte, Barbusse ribadisce in via confidenziale - nel momento stesso in cui ammette che con Le feu egli svolge opera di «propaganda», e «in conversazione» alle volte gli capita «di citare alcune frasi òcYYAube salitegli spontaneamente alla bocca»81 - che quando si è alle prese con la patria e i suoi corollari occorre stare attenti a non commettere gaffe: È indubbio che nelYEnfer io attacco l’idea di patria rudemente e brutalmente, senza darmi pena di precisare a sufficienza che si tratta dell’idea offensiva di patria, dell’idea di una patria «più forte delle al 79 H. Barbusse, II fuoco (1917), trad. it., Milano 19264, p. 349. 80 Ibid., p. 354. 81 Lettres de Henri Barbusse à sa femme 1914-1917, Paris, Flammarion, 1937, p. 235, 105
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tre», dell’idea nazionalista di patria, quella stessa che definisco ed espongo molto nettamente in Le feu e in Pomqoui te bas-tu?*2. Fatto è che tutto il carteggio di guerra, nella sua freschezza, lascia intravedere un personaggio diverso dall’intemerato quaresimalista di Le feu\ un uomo tranquillo, provvisto di uno spicca to senso dell’umorismo, avido di successo, in qualche occasione un po’ opportunista. La guerra che emerge dalle Lettres, pertan to, somiglia poco a quella sceneggiata nel romanzo, anche se l’autore - nella prefazione del 1919 a Clarté - insiste fino alla noia sull’obiettivo di «verità» e sul carattere autobiografico del suo racconto: c’è più cantonnement e meno tranchée, la protesta viene formulata con una stringatezza assai più efficace degli ulu lati iperrealisti, le morti truculente sono spesso sostituite dalle normali asperità della vita al fronte (freddo, marce estenuanti, scarpe sfondate, debito di sonno). Non sempre, certo, lo scritto re riesce ad abdicare al suo gusto e alla sua cifra stilistica meglio collaudata (quando compaiono i cadaveri, per esempio, come quello del soldato simile a un clown che s’inchina danzando, con la bocca tutta smorfie e le gambe a pezzi curiosamente incrocia te), ma non mancano schizzi ingentiliti da un’ironia sorridente: la caccia alle scatole di cibo sotto una catasta di stoviglie sbrec ciate, il concerto improvvisato dal musicomane che ha miracolo samente ricuperato un violino, le reclute che si divertono a far caracollare gli asini, il protagonista che si felicita con se stesso per essere riuscito a far trasportare il suo sacco da un’automobi le e poi deve issare sulle spalle quello di un compagno esausto mentre la macchina accelera e si allontana... Anche a proposito dell’evoluzione ideologica del loro autore le lettere riservano qualche sorpresa: ancora ai primi di maggio del 1915 - mentre presumibilmente sta redigendo Le feu - egli si attende una pace a breve scadenza solo dalla forza d’urto del l’intervento inglese e dalla rapidità dell’ingresso in guerra del l’Italia83, e solo nell’aprile del 1916 - almeno in privato - prende ad auspicare che «i popoli adottino la semplice e logica risolu zione di tendersi reciprocamente la mano, scavalcando i pregiu 82 lbid., p. 258. 85 lbid, p. 111.
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dizi della tradizione e della razza e ignorando i desideri dei loro governanti»84. Dopo l’uscita da Flammarion del romanzo «maledetto», con relativi anatemi e scomuniche, Barbusse cede a una stizza quasi infantile e mostra di non aver calcolato bene i contraccolpi della sua declamazione sovversiva: vorrebbe rispondere per le rime a tutti i critici, accusa di malafede i giornalisti dell’«Action fran çaise» - come se da quel versante potesse ricevere elogi -, insul ta i democratici «rinnegati» (nella fattispecie Ernest Lavisse) perché invece di difenderlo gridano allo scandalo gettandolo in pasto ai reazionari. Nonostante la fortuna commerciale e l’acco glienza favorevole degli ambienti letterari, sembra preoccupato di un ostracismo politico che si è andato a cercare con tutti i mezzi: quando scorre una lettera ipocrita di Gustave Hervé, il quale gli assicura che «nessuno mette in dubbio il suo repubbli canesimo e il suo patriottismo», confida infatti alla moglie che le lusinghe epistolari non servono a nulla e sarebbe necessaria «un’attestazione pubblica di questi buoni sentimenti»85. A conti fatti, il pacifismo e l’antipatriottismo di Barbusse so no superficiali, confusionari, evanescenti, viziati da un precon cetto della ragione che la penna asseconda supina. Ben più inci sivi appaiono i giudizi dei diaristi inizialmente scettici, che cata logano con freddezza le loro impressioni per poi confrontarle e ricavarne una condanna senza appello della sombre connerie. Per costoro è fondamentale la natura dell’osservatorio e l’ampiezza del raggio visivo: un’esperienza limitata, per quanto umanamente ricca, non autorizza a conclusioni drastiche su quel congegno gigantesco e pluriverso che è una guerra moderna. Co me Georges Duhamel, nel suo ospedale, colleziona le testimo nianze dei ricoverati di ogni arma, grado e settore del fronte, 84 Ibid., p . 2 0 2 . 85 Ibid., pp. 256-257. Dopo la fine dello stalinismo, su Barbusse è calato un silen zio salutare: gli unici studi di qualche consistenza, anche se di intonazione fastidiosa mente elogiativa, sono infatti A. Vidal, Henri Barbusse soldat de la paix, Paris, Perrin, 1953, e V. Brett, Henri Barbusse. Sa marche vers la clarté, son mouvement Clarté, Pra gue 1963. Di recente, contestualmente all’interesse per la Grande Guerra, l’attenzione si è risvegliata: cfr. P. Baudorre, Barbusse. Le pourfendeur de la Grande Guerre, Paris, Flammarion, 1995, partie, pp. 105-174. 107
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così il maresciallo dei servizi logistici Roger Martin du Gard con i suoi viaggi in autocarro che riforniscono truppe dislocate quasi ovunque - può entrare in contatto con le persone più di verse e con le situazioni più estreme. Certo, a guidarlo sono sem pre un’originaria scelta neutralista e il culto del libero pensiero che nel 1913 gli ha dettato Jean Barois (quando viene proposto per la nomina a sottotenente fa sapere seccamente che le sue opinioni sono «opposte» a quelle del «corpo degli ufficiali», e quando riceve la croce di guerra scongiura la moglie di non dir lo a nessuno86 rammentandole che se fosse stato un patriota avrebbe chiesto subito di essere spedito in prima linea), ma l’onestà intellettuale e lo spirito d’inchiesta gli proibiscono di sciogliere con espedienti sillogistici le contraddizioni che affron ta, prima fra tutte quella fra desiderio di pace e ostinazione nella lotta. Il 22 dicembre 1915, dunque, Martin du Gard indirizza a Marcel de Coppet una lettera che per dichiarazione esplicita è un piccolo saggio sulla guerra e sui suoi sviluppi. I francesi, esordisce, hanno esaurito tutte le riserve di energia perché so no state loro inflitte sofferenze «sovrumane», che ora essi sop portano «senza alcun coraggio» solo perché «non possono fare altrimenti», come «un naufrago in mare» nuota in modo mec canico anche se sa che finirà per colare a picco. Rimuginano «i propositi più violentemente antimilitaristi», promettono di «re golare i conti con gli ufficiali di carriera», offendono e scher niscono i superiori, odiano la guerra «con un risentimento che fa tremare»; eppure non pensano affatto a reclamare la cessa zione delle ostilità, anzi «tengono duro» senza indietreggiare di un pollice: Hanno l’odio a fior di labbra, non ne possono più, hanno dato fondo alla pazienza, e tuttavia non credono alla possibilità di una pace senza che sia finita una volta per tutte. Non sperano di conseguire una vittoria, e non faranno nulla a questo scopo. [...] Ritengono che sia suf ficiente tener duro. Aspettano che il tempo lavori. Sono consapevoli di logorarsi, ma sanno che il tedesco si logora molto di più e che finirà 86 R. Martin du Gard, Journal, i. Textes autobiographiques 1892-1919, presentati e annotati da C. Sicard, Paris, Gallimard, 1992, p. 701. 108
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per crepare nella sua tana affumicata, prima che la loro feroce sorve glianza lo abbia stancato fino a morire. Sentono che quando la Germa nia sarà stata soffocata, asfissiata, essi saranno malati ma ancora vivi, e vivi davanti a un cadavere. Il cadavere è la Germania militarista, o me glio ancora puramente e semplicemente il militarismo, ovunque sia e sotto qualunque spoglia si presenti, ivi compreso naturalmente il no stro. È una guerra civile. Sono tutti i civili, armati, radunati, che la fan no finita una buona volta con i militari, che li faranno scoppiare su se stessi liberandone il mondo per sempre87. Questa diagnosi di un tracollo psicologico, e del suo singola re significato, è sottoscritta anche da altri testimoni: Louis-Jean Mairet, per esempio, conferma che «il soldato del 1916 non si batte per l’Alsazia, né per la pace, né per distruggere la Germa nia; si batte per onestà, per abitudine e per forza; si batte perché non può fare nient’altro»88. Ma Martin du Gard, insistendo sugli aspetti costruttivi - per così dire - dell’attendismo e della dispe razione, ribalta originalmente lo slogan della «guerra alla guer ra»: ridotto alla nudità antropologica di un’attesa di normalizza zione, cioè depurato da ogni parentela con i miti repubblicani dell’amicizia fra i popoli e del giusto ordine internazionale, il sintagma non allude più alla lotta necessaria per creare le condi zioni di un negoziato che ripristini i confini naturali e imponga la democrazia alle società aristocratico-feudali, bensì allo sforzo indispensabile proprio per neutralizzare ogni ipotesi di negozia to esautorando le classi dirigenti che hanno scatenato il conflit to. Consci che qualsiasi trattato di pace, influenzato dai militari, porterebbe con sé l’ennesimo strascico di malumori e cupidigie, i francesi combattono per interposti tedeschi una «guerra civile» contro le élites politiche del loro paese: e le guerre civili, come è noto, terminano con l’annichilimento di uno dei contendenti, non con un accordo diplomatico. Se per l’antipatriota Martin du Gard, che agogna «l’alba di una qualche forma di Stati uniti d’Europa», i legami con il senso di appartenenza nazionale devono essere recisi, resta improbabi le che il suo punto di vista sia condiviso dalle masse in uniforme 87 Ibid., pp. 675-676. 88 L.J. Mairet, Carnet d’un combattant, con una prefazione di G. Geffroy e un’in troduzione di Ch. H.B[runet], Paris, Crès, 1919, p. 174. 1 09
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di cui registra gli umori con tanta accuratezza: la presenza in lo ro di un’idea «civile» della guerra, infatti, a dispetto di ogni pre sunta nudità antropologica rimanda alle nozioni di libertà e di virtù pubblica che in Francia si sono affermate di pari passo con il moderno concetto di nazione. D’altro canto internazionalismo, umanitarismo, antimilitarismo e pacifismo non sono affatto gran dezze equipollenti e intercambiabili: si presentavano così negli anni dell’anteguerra, ma poi non hanno resistito all’urto fra le parole e le cose. Affiora qua e là, per esempio, anche un pacifismo droitier, di cui il massimo campione è Pierre Drieu La Rochelle che lo for malizza retrospettivamente nei racconti della Comédie de Charleroi, usciti nel 1934 a ridosso di Socialisme fasciste. Rilevandone l’ambiguità, e situandola per intero nella temperie degli anni trenta, Tarmo Kunnas addebita questa emulsione ideologica a un rifiuto della guerra tecnologica, negatrice di ogni bellezza e nobiltà dell’impulso agonistico: Drieu può dar libero corso alla sua adorazione della forza, della volontà di potenza, della lotta e nello stesso tempo spiegare che la guerra moderna non è che una degenerazione, perché è la forma de cadente del combattimento classico; quando in Drieu si rafforza il sentimento della decadenza, egli sottolinea anche la decadenza della lotta89. Buon conoscitore di Interrogation e di altri poemetti giovani li, nei quali lo scrittore manifesta opinioni antibelliciste, lo stu dioso suppone che al di là delle razionalizzazioni posteriori co stui rimanga sempre condizionato da un trauma originario: «Ha per un istante provato l’orrore della guerra a Verdun, e forse ha [...] messo in discussione la legittimità della guerra in genera le»90. Le cose non stanno precisamente così. Anzitutto l’idea di decadenza domina fin dall’inizio - cioè fin dal 1914-18 - il rap porto di Drieu con la «guerra moderna», e inoltre già allora la decadenza non è per lui una nebulosa caduta metafisica ma una concretissima catastrofe comportamentale e sociale (come si ve drà presto in Mesure de la France, il libro del 1922 che lancia 89 Kunnas, La tentazione fascista, cit., p. 102. 90 lbid 110
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l’allarme contro il declino demografico alternando sapientemen te spunti lirici e documentazione statistica). Tre lettere del 1914 al socialista Raymond Lefebvre - ora in cluse in un’edizione del carteggio con André e Colette Jéramec - permettono di gettar luce sul viluppo di sentimenti contrastan ti che ben prima di Verdun si accalcano nell’animo di un intel lettuale «reazionario» per propria stessa ammissione. In linea di principio, Drieu accetta il «punto di vista filosofico e scientifico che definisce la guerra come una necessità naturale, [...] una leg ge universale che sottomette tutti gli esseri viventi»; ciò non si gnifica, peraltro, che da «uomo d’azione letteraria e politica» egli si accosti con simpatia partecipante a una conflagrazione in cui «il servizio militare obbligatorio sciupa le eleganze professio nali che ancora affascinavano uno Stendhal». La «decadenza dell’esercito», con «l’energia che diminuisce dappertutto» mor tificando l’«aspirazione invincibile a una morale di orgoglio e di potenza», prelude a «una decadenza complessiva della Francia» appunto perché la coscrizione di massa riflette e quasi fotografa l’inadeguatezza della popolazione di fronte a ogni cimento impe gnativo: Quando sono partito, nel mio petto ribollivano i sentimenti più an tipatriottici. Credevo profondamente a una nostra disfatta in tempi brevi. Vedevo i soldati deboli, avvinazzati, pusillanimi, disobbedienti, senza fiducia nei capi; capi che non osavano nemmeno pensare a chi marciava dietro di loro, e che a causa di ciò restavano paralizzati nel loro slancio, quando non erano atrofizzati dalla lunga pace e da un am biente sociale refrattario a ogni forma di virilità. [...] Temevo che la mobilitazione materiale fosse un disastro. Tutto sommato, invece, fu un bel successo. In un primo momento ne sono rimasto stupito. Poi ho riflettuto e ho compreso che noi eravamo troppo inciviliti (sempre sul piano materiale) per non avere le necessarie accumulazioni di armi e di viveri, oltre che una circolazione ferroviaria all’altezza. [...] Ma presto mi sono ricreduto, anche perché gli avvenimenti mi costringevano. Ve devo gli uomini senza resistenza fisica (gli uni perché le loro occupa zioni li hanno rammolliti, gli altri - la manovalanza - perché sono abi tuati a sostenersi con l’alcool), senza fibra morale, lamentosi, pronti a inveire contro i comandanti al primo accenno di fatica, incapaci non dico di concepire (il che sarebbe troppo) ma anche semplicemente di percepire le necessità collettive. Ho contratto un’avversione violentis 111
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sima per il popolo, e mi abbandono al mio odio: per me è un conforto indispensabile91. Dunque gli uomini temprati - segnatamente gli intellettuali non devono privare gli altri del loro talento rischiando la vita in una mischia sordida e animalesca: Per secoli i cristiani hanno cercato di sradicare l’Amore. Uomini che possedevano immense energie e l’anima ardente dei dominatori, che erano ferocemente avidi di passione e di voluttà, hanno magnifica mente riempito la propria esistenza con questa lotta radicale contro l’Amore. Perché noi non dovremmo impiegare il nostro temperamento combattivo, capace di grandi odii e di forti entusiasmi, per scatenare la guerra alla Guerra? Raymond Lefebvre, tu sei un guerriero, come Francesco d’Assisi è un innamorato, un amante, un Don Giovanni e un Faust. Ma non andare in trincea: scambieresti in modo meschino la tua penna con un fucile. Gli intellettuali, secondo la mia morale, han no il diritto di sottrarsi alla servitù militare. Barrès ha scritto all’inizio dell'Ennemi des lois qualcosa che si può riassumere così: «Occorre essere al caldo per pensare bene». Se io avessi fiducia in me stesso, cercherei di non tornare al fronte. Ma ciò che in altri è presidio della dignità delle Lettere davanti all’insultante capriccio della guerra, in un mediocre è soltanto vigliaccheria. Se me la caverò, quindi, rimpiangerò sempre di non avere doti sufficienti per unirmi ai tuoi sforzi in favore della pace92. In verità, è nelle more lunghissime di una vita fitta di dispen se e raccomandazioni - in oltre quattro anni non trascorre al fronte più di cinque mesi - che Drieu viene colto dalla smania del ritorno «sotto il fuoco»; e a spingerlo non è tanto la consa pevolezza della propria mediocrità, come vorrebbe far credere a Lefebvre, quanto il terrore di essere confuso con la feccia dei re calcitranti e dei rinunciatari («Mi vergogno di restare insieme con gente che ha paura di partire, e che lo confessa cinicamen te»9*). Comunque sia, le variazioni sul tema della guerra intesa come squallida boucherie, come sterminio di omuncoli atterriti, non prevede alcun risarcimento espiatorio o tirannico: anche se 91 P. Drieu La Rochelle, Conespondance avec André et Colette Jéramee, presentata da G. Tchernia e J. Hervier, Paris, Gallimard, 1993, p. 209 e passim. 92 Ibid, p. 215. 9> lbid, p. 49. 112
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all’occorrenza procura di dimostrarsi brave, Drieu non si offre malinconicamente alla morte (come Raymond Jubert) né infieri sce sui suoi sottoposti con spirito correzionale (come Antoine Redier), perché ritiene che la gara per una nuova civiltà si stia ormai disputando fuori dai campi di battaglia. Anche il primitivo «patriottismo alla Barrès» si estingue in lui a poco a poco: troppo acre è il suo disprezzo per il popolo perché gli sembri meritevole di destino una nazione composta da uomini senza nerbo, e troppo forte è il suo attaccamento alla materia, alla corporeità, alla physis perché la Francia possa subli marsi ai suoi occhi in una «fata delle fiabe». L’unico residuo del la vecchia fede, nell’apostata, è la nostalgia per il passato («i ge ni nazionali non funzionano più») e la delusione per un amore mal riposto («il nazionalismo è l’aspetto più ignobile dello spi rito moderno»): il futuro arride soltanto all’Europa, che se saprà destarsi dal letargo potrà conoscere i fasti di un nuovo razzi smo spirituale, essere «unificata dalla forza e dal lavoro», spar gere «il suo sangue come una semenza perché rinascano uomini liberi»94. Drieu non è l’unico, fra gli scrittori poi sedotti dal fascismo, a scrollarsi di dosso una bardatura patriottica divenuta oppri mente proprio con la guerra, epifania della regressione, dell’in decenza e del disordine in cui culmina l’età borghese degli statinazione. Céline, nelle pagine iniziali del Viaggio, chiarisce il suo punto di vista sulla Francia addirittura prima di aver satireggiato i militari con una pravità e un’impudenza senza paragoni (si ri cordi solo la storia del soldato che frequenta una madre in lutto per carpirle denaro raccontando falsità sulla morte del figlio): «La razza [...] è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inse guiti da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quat tro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c’era il mare. È questo la Francia, questo sono i francesi»95. 94 Id., Le déserteur, in La comédie de Charleroi (1934), Paris, Gallimard, 1974, p. 219; Id., Dróle de voyage, Paris, Gallimard, 1933, p. 157. 95 L.F. Céline, Viaggio al termine della notte (1933), trad. it., Milano 1992, p. 14. Per l’episodio della madre del soldato, cfr. pp. 122-123.
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Céline non condivide l’alterigia antipopolare di Drieu, e non muove alcun rimprovero agli anonimi soldatini che fuggono e piangono: tutti gli individui sono impastati di sostanza escre mentizia, e una grassa atmosfera di odio, di paura e di egoismo avvolge l’umanità in alto come in basso. Di più, l’indifferentismo morale degli umili può anche essere perdonato, perché costitui sce un mezzo di autodifesa; ma altrettanto non si può fare con il patriottismo criminale di personaggi à la Bestombes, che in virtù delle loro fantasie hanno il potere di produrre morte a fiotto continuo. La guerra, per questo perfido spettatore, non riveste alcun carattere di eccezionalità, perché anche nelle colonie afri cane o nella grande metropoli errano i vinti e gli offesi che ba dano esclusivamente «alle proprie trippe»: la guerra, di speciale, ha solo l’infame petulanza dei nazionalisti, genia di cui il roman ziere non si stanca di denunciare le malefatte giù giù fino al 1938, quando nell'Ecole des cadavres - il libello che annuncia la disfatta imminente - Maurras, Pétain e lo stesso Doriot diventa no «ingordi mattacchioni» e «sciacalli provocatori». Come aveva intuito fra i primi Georges Bernanos, tuttavia, Céline non si rassegna ad abitare in un mondo trasformato in le tamaio e sovrastato dalle leggi del cocuage: un desiderio di puli zia e di riscatto, insieme con la ricerca di «ciò che dà profumo alla vita», sottende le sue pagine ispirando nel contempo la sua attività di filantropo. Ma proprio l’ansia di chi vuol curare le in fermità della coscienza, sconfiggere quello che Emmanuel Mou nier chiama «disordine stabilito», sottrarre i sentimenti alla lor dura di un’esistenza asociale, favorisce in una mente paranoica la caccia ai «colpevoli» che inquinano la terra con lozioni malefi che. Ora, come si sa, per Céline i colpevoli sono gli ebrei: non più razza inferiore o comunque separata, ma untori che si insi nuano in ogni ganglio delle etnie dell’Europa provocandone la corruzione materiale e spirituale. Colui che scrive Bagatelles pour un massacre non approda all’antisemitismo perché è fascista, ap proda al fascismo - e al fascismo «universale» - perché è antise mita: nelle sue farneticazioni le procedure di consolidamento dello stato-nazione sono infatti i migliori veicoli di enjuivement perché facilitano l’integrazione attraverso la comoda via di un lealismo apparente, e quindi la bonifica razziale può avvenire so 1 14
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lo in uno spazio ariano dal quale siano stati cancellati i confini e dove siano state abbattute le istituzioni giuridiche, economiche e finanziarie che offrono riparo ai giudei. Le vie del pacifismo - come si può vedere - sono numerose se non proprio infinite, e possono anche condurre a un’eclissi del senso di identità nazionale che si accompagna a un torvo to talitarismo geopolitico. Ciò non toglie che le manifestazioni più comuni di questa subideologia siano da ascrivere alle culture po polari, come quella cristiano-socialista che detta al bottaio Louis Barthas diciannove quaderni - rinvenuti e pubblicati solo nel 1978 - ai quali è affidata una vivida testimonianza dal basso del «calvario» delle classi subalterne. Annotandone l’edizione, Rémy Cazals attribuisce a questi taccuini un valore essenzialmente documentario e un carattere di veridicità che avrebbe riempito di gioia Norton Cru: i ricordi del tonnelier di Peyriac-Minervois, poi caporale di fanteria, servireb bero a suo parere per convalidare con una narrazione in presa diretta tutto ciò che già si sapeva sugli attacchi suicidi, sugli am mutinamenti, sulle defezioni in massa. Il fraintendimento è sin golare, perché Barthas si preoccupa sempre - nel corso del rac conto - di chiosare e commentare gli eventi alla luce di convin zioni etico-politiche che riecheggiano sincréticamente i motivi più eterogenei. Drastico con i governanti che ingannano il popo lo e con i graduati che lo maltrattano - sergenti, capitani e co lonnelli, sotto la sua penna, formano una galleria esópica di ma nigoldi e di canaglie - egli canta Ylnternazionale per sfida o per dileggio ma si richiama anche al patriottismo romantico di Victor Hugo, di cui certo non gli sfuggono i risvolti religiosi: Questo cimitero assai ben tenuto era circondato da una palizzata. All’ingresso, sul frontespizio di un arco di trionfo eretto con arte in mezzo ai rami di abete, si poteva leggere questa iscrizione dei versi del grande poeta Victor Hugo: Ceux qui pieusement sont morts pour la patrie Ont droit qu’à leur cercueil la joule vietine et prie... Victor Hugo aveva composto questi versi sublimi e immortali sen za dubbio per gli eroi della grande Rivoluzione, che affrancavano i po poli, che diffondevano nel mondo le idee di libertà. Egli non poteva pensare che i rappresentanti dei popoli, presi ogni giorno da mostruo 115
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sa follia, avrebbero intrapreso questo massacro in cui le vittime non sa pevano nemmeno perché erano coinvolte, perché dovevano immolarsi. Se Victor Hugo fosse vivo, protesterebbe sicuramente contro l’abuso che si è fatto durante la guerra del suo inno sublime. Troverebbe altre parole per biasimare gli autori della guerra e coloro che non hanno compiuto gli sforzi necessari per evitarla96. Nei riguardi dei tedeschi, a parte le invettive contro il «mili tarismo prussiano», che però cessano di colpo quando Gugliel mo ii rende pubbliche le sue offerte di pace - prova una bene volenza che è strettamente limitata alla commiserazione «uma na» dei loro patimenti, in tutto e per tutto simili a quelli sommi nistrati ai francesi, ma non si spinge mai fino alla negazione del la diversità e perfino dell’inimicizia reciproca. Valga per tutti l’episodio della fraternizzazione davanti alle trincee inondate di Neuville Saint-Vaast: L’indomani, 10 dicembre, in molte località del fronte i soldati do vettero uscire dalle trincee per non annegarvi: i tedeschi furono costret ti a fare altrettanto e allora si assistè a questo singolare spettacolo: due eserciti nemici che si fronteggiavano senza sparare un colpo di fucile. La condivisione delle sofferenze fa avvicinare i cuori, svanire gli odi, nascere la simpatia fra popoli che si sono indifferenti e che si sen tono anche ostili. Chi nega questo riflesso istintivo non capisce niente della psicologia umana. Francesi e tedeschi si guardarono, e videro che erano uguali gli uni agli altri. Comparvero i sorrisi, gli scambi di gentilezze, le strette di mano, la spartizione del tabacco, del sugo, del vino. Ah! se si fosse parlata la stessa lingua! Un giorno un diavolaccio di tedesco salì su una montagnola e tenne un discorso del quale solo i suoi connazionali afferrarono le parole, ma di cui tutti compresero il senso perché in un gesto di collera egli spezzò in due il suo fucile sopra un tronco d’albero. Ah! se foste stati là, sovrani dementi, generali sanguinari, ministri jusquau-boutistes, giornalisti becchini, patrioti imboscati, a contempla re quel sublime spettacolo!97. Il bisogno di rassicurazione è fortissimo, in questi uomini 96 Les carnets de guerre de Louis Barthas, tonnelier (1914-1918), con un’introduzio ne di R. Cazals, Paris, Maspero, 1978, p. 500. 97 Ibid., p. 215. 116
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che violano spericolatamente le regole per dare un volto ai tira tori che li decimano, per ritrovare i segni della propria stessa sof ferenza nei gesti e nelle parole degli invisibili boches. Così lo sfortunato Gontran - il capro espiatorio minacciato di fucilazio ne per intelligenza col nemico - diserta e si tuffa nelle trincee av versarie gridando in occitanico Bèni mé querré! («Vieni a cercar mi!»)98 al capitano che tenta di catturarlo, perché quando la «grande» madre francese abbandona e tradisce soccorre la me moria della «piccola» patria parentale e vicinale. D’altronde in ogni circostanza ì'escouade minervoise di Barthas «parla e pensa in occitanico»99: e nel momento in cui lo scriba-caporale viene smobilitato, proclama di volersi impegnare «fino all’ultimo respi ro» per divulgare «le idee di pace e fratellanza» gustando con temporaneamente con un piacere dimenticato da troppo tempo le delizie del «focolare», dell’«aria ventosa» e dei «grandi plata ni» del suo midi '00. Anche se patria e nazione sono diventati quasi sinonimi già dalla metà del Settecento, qui rispunta una perdurante differen za semantica fra i due termini: la patria è il «paese» a cui indivi dui e gruppi si sentono legati per motivi essenzialmente genea logici e di costume, la nazione è la comunità politica formata da uomini consapevoli di un comune patrimonio di interessi, storia, lingua e civiltà. Quando i due concetti subiscono una divarica zione, per un motivo o per l’altro, s’incunea nello spazio vuoto un cosmopolitismo tanto iroso quanto posticcio: si canta l'Inter nazionale in attesa che la patria torni a essere nazione, o parte di una nazione nuovamente provvida e materna. V. STORIA E GEOGRAFIA
Anche indipendentemente dalle motivazioni etiche e civili, Marc Bloch è sempre stato incuriosito dalle guerre, e non tanto dall’aspetto tecnico-militare dei conflitti quanto dalla loro attitu 98 Ibid., p. 217. 99 Cazals, Introduction a Les carnets de guerre, cit., p. 10. 100 Ibid., p. 552. 117
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dine a esplicitare - semplificandoli - i meccanismi elementari che permettono a una società di funzionare: il comando, la di stribuzione dei ruoli, il gregariato, l’efficienza dei servizi, lo spi rito organizzativo, l’impianto gerarchico, la solidarietà di classe, di generazione, di residenza... I suoi Souvenirs del 1915, da que sto punto di vista, sono un’opera esemplare101. Scritti per uso personale da un trentenne che non vuol dimenticare una stagio ne cruciale della propria esistenza - rimarranno inediti, infatti, fino al 1969 - tutto contengono fuorché giudizi sugli eventi bel lici in quanto tali: seguono uno schema rigorosamente cronistico, e a una prima lettura rivelano soprattutto i pregi letterari di uno stile assorto e trasognato, come di chi stenti a credere che certe cose sono veramente accadute. Eppure, nel 1914, Bloch è già uno studioso maturo, un ricercatore che ha pubblicato alme no tre saggi che anticipano la novità del suo modo di intendere la storia insieme con gli interessi - per i grandi movimenti col lettivi, per la servitù nel Medioevo, per la natura delle obbliga zioni feudali, per i rapporti fra ambiente fisico e mutamento del la società - che poi lo accompagneranno per tutto il resto della vita: Bianche de Castille et les serfs du chapitre de Paris (1911), Les formes de la rupture de l’hommage dans l'ancien droit féodal (1912), LTle-de-France: les pays autour de Paris (1913). Se appe na si rileggono le memorie, allora, tenendo presente il contesto rappresentato dalla cultura del loro autore - con le sue predile zioni, le sue impazienze, le sue certezze interiori - si può scopri re il diario di guerra forse più affascinante che la Francia abbia lasciato in eredità ai contemporanei. Quelle cinquantasei pagine - una sequenza narrativa che si arresta al luglio del 1915 - sono innanzitutto qualcosa di profon damente diverso da una testimonianza, o da ciò che s’intende di norma quando si adopera una parola simile: sono la storia di un’autoeducazione, di una svolta esistenziale, di un programma 101 Cfr. M. Bloch, Souvenirs de guerre (1915), Paris, Colin, 1969. In questo para grafo ho ripreso alcuni passi della mia Introduzione a M. Bloch, La strana disfatta (1940), Torino 1995, pp. v i i - x x x . Come tutte le altre, la traduzione dei Souvenirs è mia (esiste anche una versione italiana - M. Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi 19141915 e Riflessioni 1921, con un’introduzione di M. Aymard, Roma 1994, pp. 3-69 - del la quale non ho ritenuto utile servirmi). 1 18
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di lavoro per il futuro e di una verifica sul campo di categorie ermeneutiche già acquisite dall’atelier di uno che esercita il métier d’historien. Certo anche altri memorialisti - penso soprattut to a Boas-Boasson - raccontano le tappe di una trasformazione e restituiscono alla fine un «ego» irriconoscibile o addirittura sfi gurato: ma Bloch non cambia idea sull’indole della guerra e sul comportamento dei generali, analizza la morfologia e l’evoluzio ne di un paese-nazione-stato - attraverso l’affinamento del suo modo di percepirle - nel vivo di una contingenza eccezionale che accelera i processi di mutamento e al tempo stesso «svela» l’intima struttura delle istituzioni sociali. Nelle prime settimane di campagna il giovane sergente - pur sospinto com’è da un fiero spirito patriottico - sembra scarsa mente interessato alla vita dei poilus del proprio battaglione, ai loro comportamenti quotidiani, alle loro vicende individuali e fa miliari, al loro stesso «morale» di soldati: i sentimenti che lo toc cano - relativamente all’elemento umano del paesaggio, per così dire - sono l’irritazione per le marce interminabili che non pre ludono mai a una battaglia o a un incontro col nemico, e paral lelamente la compassione per le colonne di contadini - «spaesa ti, storditi, spintonati dai gendarmi, importuni, penosi» - in fuga davanti a un invasore dal quale nessuno è in grado di protegger li. Puntiglioso e indagatore, intanto, è lo sguardo che egli con centra sul territorio e sulla struttura degli insediamenti rurali. Anche se dichiara di possedere una memoria sfocata e poco prensile, non dimentica un solo toponimo e descrive accurata mente la fisionomia di tutti i villaggi per cui gli capita di transi tare: Velosnes è costruita intorno a una piazzetta in mezzo alla quale troneggia un lavatoio; Montmédy «alza le sue mura costel late di bastioni sopra alcuni scoscendimenti erbosi»; a Larzicourt, tutta foderata di pietra bianca, «i frutteti producono pru gne squisite»; Hauzy, un bosco ceduo «dove gli alberi di alto fu sto sono rari e anche i cespugli sono poco folti, occupa la parte più alta della gobba di terreno che separa l’Aisne e la Tourbe». Florent è un luogo delizioso. Alcuni grandi alberi, il cui fogliame quando li vidi per la prima volta - si tingeva già di giallo e di rosso, riparano con la loro ombra la vasta piazza della chiesa. Prati tenuti a melo circondano il villaggio. Dietro questa cintura di frutteti comincia 1 19
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no i boschi, fitti soprattutto verso nord. A sud s’infossa una vallata in cisa fra due scarpate, dove fontane d’acqua limpida zampillano nell’er ba ai piedi dei cespugli102. Quest’uomo, in breve, che ricorda persino il nome di una fattoria intravista di sfuggita, ripercorre con procedure itineranti la Francia che ha imparato sui libri. Naturalmente, le scoperte più preziose sono quelle in cui la geografia si allaccia alla storia, perché il paesaggio entra in simbiosi con il manufatto architetto nico e con il lavoro, la fede, la sofferenza degli uomini. La-Neuville-au-Pont, così, diventa un piccolo traslato della patria: Si tratta di una grossa borgata dove il secondo corpo, durante il suo soggiorno nelle Argonne, ha stabilito il quartier generale. È attra versata dall’Aisne. La stazione ferroviaria, a cui si giunge percorrendo un viale alberato, si trova sulla riva sinistra, ma la maggior parte del l’abitato occupa i pendii ripidissimi della riva destra. Dalla viuzza in cui alloggiavamo sempre, si scendeva fino ai bordi dell’acqua attraver so un piccolo sentiero. Noi lo prendevamo per andare a sbarbarci, quando ne avevamo il tempo e la possibilità. Qualche volta ho seguito il fiume lungo il tratto a valle, che scorre fra i ceppi, talvolta quasi sec co e talvolta gonfio fino a inondare gli argini a seconda che le chiuse a monte sono sbarrate o spalancate. La chiesa s’innalza in mezzo alla piazza centrale. E antica. Nelle parti fondamentali risale al periodo go tico. La sua planimetria è semplice, e non ha transetto. La navata cen trale, sormontata da due campanili quadrati, si appoggia saldamente su due corpi laterali. Alcuni contrafforti, che i maestri muratori del luogo preferiscono agli archi a spinta, più leggeri ma più difficili da installa re, sorreggono dall’esterno lo slancio delle volte. Sobria, robusta, un po’ tozza, è palesemente una chiesa rustica, e tuttavia non difetta di tocchi eleganti: il portale a ovest, decisamente gotico, i portali a nord e a sud, dove si affaccia il Rinascimento, tutti e tre ricchi di decorazione ma privi di eccessi ornamentali, sono un incanto di finezza e di levità vigorosa. Io ricordo sempre con emozione la chiesa di La-Neuville. Più di una volta, di ritorno dalle trincee, vi ho assistito alle cerimonie reli giose in suffragio degli uomini del 272° che erano caduti davanti al ne mico. La rivedo bene, la modesta navata, con le sue volte imbiancate a calce, i massicci banchi di legno dove si assiepavano i soldati, l’espres sione seria dei miei vicini, i loro gesti esausti e un po’ sonnolenti, per ché era mattina e noi avevamo un gran bisogno di sonno, avendo ve 102 Bloch, Souvenirs, cit., p. 2. 120
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gliato le notti precedenti in prima linea. Ho sempre creduto di adem piere a un dovere di pietà, commemorando i nostri morti. Che m’im portava dei riti?103. Il riserbo e persino l’antipatia con cui Bloch, inizialmente, tratta i commilitoni, dipendono dalla sua avversione per l’irragionevolezza, il disordine, l’approssimazione, la noncuranza dei dettagli, la superficialità. Non gli garba che lo scarto di un caval lo provochi un pandemonio, con i soldati terrorizzati che devo no essere costretti a montare le baionette perché la paura di un pericolo inesistente non li induca a spararsi addosso reciproca mente; non gli piace sciupare munizioni con raffiche di fucileria solo perché una sentinella tedesca, evidentemente distratta, ha tirato qualche colpo a casaccio; non trova formule di compren sione per il fante che in trincea, durante un attacco nemico, vor rebbe che egli spostasse il ventre che poggia sulle sue gambe rattrappite dai crampi - a costo di esporsi alle pallottole e alle granate. A mano a mano che la truppa si dota di un sistema di regole, però, e magari sopperisce con l’ingegno o con il coraggio alla mancanza di mezzi materiali, l’atteggiamento muta fino a rove sciarsi in affetto e in sincero spirito di fraternità. Quando due soldati del suo plotone riescono a costruire una rete di filo spi nato, pur essendo privi delle pinze necessarie, egli non riesce a nascondere il proprio compiacimento. Quando cade G., un mi natore del Pas-de-Calais che si è scelto come vicino di boyau perché conversa in modo colorito e soprattutto compensa con la sua vista acutissima la miopia del superiore, può esclamare che «per la prima volta in questa campagna» il suo cuore è in lutto «per un autentico amico»104. Da allora in poi i ritratti - ora pungenti, ora affettuosi, ora commossi - sostituiscono sempre più spesso i palinsesti della stratigrafia rurale: ecco dunque il tarchiato M., marciatore infa ticabile ma poco in familiarità con le scarpe, che scorrazza a pie di nudi per tutte le strade della Lorena e della Champagne; il piccardo D., fermamente convinto che chiunque si getti il pa 101 Ibtd., p. 23. 1(MIbid., p. 33. 121
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strano sulle spalle senza infilare le braccia nelle maniche nascon da l’amputazione degli arti superiori; il pigolante V., che si di verte assai poco sotto le armi - come peraltro i suoi compagni e parla di se stesso solo in terza persona definendosi «il povero martire»; F., vinaio alla Bastiglia, che è di fatto analfabeta ma an che straordinariamente comunicativo e carismatico. Bloch incomincia a misurare la robustezza dei vincoli, pattizi o no, che creano un tessuto sociale e comunitario: la complicità, innanzitutto, e poi il prestigio, l’altruismo, l’orgoglio municipale, la pietas per i morti, il rispetto cosciente dell’autorità105. Capisce come si deve esercitare il comando, in primo luogo: quando si ordina ai sottoposti di compiere un’azione rischiosa, osserva, per ottenere che sia eseguita correttamente occorre saper dare l’esempio. Beninteso, egli rimane sempre uno che non ragiona «a buon mercato»: quando deve ricomporre il cadavere di L. che ha il cranio fracassato, e ne raffigura l’aspetto con stilemi che sembrano tratti da Le feu di Henri Barbusse, si affretta ad aggiungere con scrupolo - non essendo appunto Barbusse - di 105 Maurice Aymard ha ragione (nella sua Introduzione a Bloch, La guerra e le false notizie, cit., p. xn) quando osserva che «l’intellettuale Marc Bloch, pur mantenendo una distanza culturale e sociale nei confronti del “popolo”, rivendica, nell’accettazione dei sacrifici, la solidarietà verso di esso, e l’uguaglianza con gli ufficiali di mestiere, dei qua li contesta la pretesa al monopolio delle virtù militari». Lascia un po’ perplessi, invece, la sua affermazione secondo cui «questo atteggiamento degli alti ufficiali va reinserito all’interno delle contraddizioni della terza Repubblica, che vive quel tramonto dell’a«cien regime analizzato da Amo Mayer: una casta militare reclutata per larga parte nelle file dell’aristocrazia e di stampo conservatore si è a poco a poco ricostituita, nel corso dell’Ottocento, dopo la caduta di Napoleone, e cerca fino alla fine di conservare e di rafforzare il proprio potere, tenendosi, in una sorta di arca santa al di fuori e talvolta al di sopra delle istituzioni e rivendicando un’autorità assoluta, in tempo di pace sui mi litari di leva, in tempo di guerra su tutta la nazione in armi» (ibid.). Secondo William Serman, uno dei più autorevoli esperti di cose militari transalpine, fra Otto e Novecen to l’ufficialità francese sarebbe stata invece notevolmente democratizzata: con la crea zione delle scuole di Saint-Maxent, Saumur e Versailles, riservate ai sottufficiali deside rosi di far carriera, con la legge André del 1905 che obbligava gli allievi ufficiali a «un anno di servizio in un corpo di truppa» da effettuarsi «in condizioni ordinarie» prima dell’ammissione ai corsi, ma soprattutto con la generalizzazione del sistema dei pubbli ci concorsi: «L’esercito è all’avanguardia, nell’Ottocento, rispetto all’amministrazione civile. Agli inizi del Novecento, gli uffici dei ministeri, delle prefetture e dei servizi pe riferici sono ancora ben lungi dal reclutare per concorso tutti i loro funzionari. Per en trarvi, spesso vale possedere relazioni influenti piuttosto che avere il baccalaureato» (W. Serman, Les officiers français dans la nation 1848-1914, Paris, Montaigne, 1982, p. 11).
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aver provato «un’emozione assai minore nel vedere la sua pove ra testa che nel trovare più tardi dentro un portamonete la foto grafia dei suoi bambini»106. Quando viene congedato per la prima volta, il 5 gennaio 1915, ormai lo storico alsaziano conosce la Francia per davvero: fango, erba, alberi, fiumi, alture, foreste, agglomerati urbani, e insieme dialetti, costumi, mentalità, timori, speranze, illusioni, umori politici e culture regionali. Non è esagerato supporre che i Caractères originaux de l’histoire rurale française nascano anche da questa esperienza terragna e vagabonda, come è lecito ritene re che la «rabbia» da cui sgorga il «processo verbale» deWEtran ge défaite (1940) sia imparentato con lo scempio di quell’«idea della Francia» che l’autore si era formato nel 1915. VI. LA PROPAGANDA
Fin dai primi giorni di agosto del 1914 l’industria della pro paganda - di cui si è fatto cenno a proposito del «martirio di Reims» - in Francia funziona a pieno regime assecondando uno sforzo imponente degli apparati politico-amministrativi per tene re sotto controllo sia i poilus sia il fronte interno. I feuilles bleu horizon, studiati nel 1935 da Alexandre Char pentier, si diffondono subito con una straordinaria rapidità: al l’inizio del 1915 la Librairie militaire Berger-Levrault può già pubblicare, sotto il titolo Tous les journaux du front, un’«antologia dei migliori articoli», una «selezione delle migliori poesie» e una «riproduzione in facsimile delle illustrazioni», mentre pres so la Maison de la presse diretta dall’accademico di Francia Marcel Prévost un Service des journaux du front - affidato al cri tico letterario Paul Reboux, fondatore dell’«Echo des tran chées» - smista ai quotidiani nazionali i testi che meglio possono trasmettere euforia, aspettative di vittoria e fiducia nell’esercito. Politici influenti e scrittori di fama sono arruolati in forze, al punto che sulle pagine di un unico periodico - come l’«Echo» di Reboux - si possono incontrare le firme di Alexandre Mille106 Bloch, Souvenirs, cit., p. 39. 123
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rand, Raymond Poincaré, Roland Dorgelès, Georges Duhamel, Edmond Rostand, Henri de Régnier107. Mobilitati anch’essi con straordinaria solerzia, i comiques troupiers inscenano nelle caserme o nei cantonnements spettacoli di varietà che hanno il compito di intrattenere i soldati con il ri corso alla vanteria, al frizzo, alla spacconata, alla battuta autoi ronica: fra le innumerevoli canzoni che scherzano sul fango o in neggiano al pinard (il vino scadente ammannito alla truppa), un successo senza pari arride a La Madelon - composta da Louis Bousquet e lanciata in palcoscenico da due tra i più affermati at tori del cabaret militare, Charles Pasquier «Bach» e Pierre-Paul Marsalès «Polin» - dove la servetta di osteria che versa da bere a tutti, si lascia corteggiare e accarezzare, raccoglie le confidenze di migliaia di persone, ama imparzialmente interi reggimenti e accende la fantasia di caporali e colonnelli, è una trasparente al legoria della Francia, un’estroversa Marianna popolana scesa dal piedestallo nell’ora del pericolo108. L’aggressività del linguaggio di guerra non risparmia nemme no i bambini. Valendosi della supervisione di pedagogisti e scrit tori per l’infanzia, opuscoli illustrati e Livres roses pour la jeunes se offrono una versione stilizzata del messaggio rivolto agli adul ti109: poiché la Francia incarna la civiltà, e senza civiltà è impos sibile per chiunque un’esistenza dignitosa, non avrebbe senso so pravvivere se si dovesse rimanere sconfitti. Ma perché prendere 107 Cfr. N. e A. Lacombe, Les chants de bataille. La chanson patriotique de 1900 à 1918, Paris, Belfond, 1992, p. 209. 108 Ecco il ritornello: «Quando Madelon viene a servirci da bere / Sotto il pergo lato accarezziamo la sua gonna / E ciascuno le racconta una storia, / Una storia a modo suo. / La Madelon non è severa con noi / Quando la afferriamo per la vita o per il men to. / Ride, ed è tutto il male che sa fare. / Madelon, Madelon, Madelon» (ibid., p. 273). 109 Cfr. Lisbeth e Nett, Histoire de deux petits alsaciens pendant la guerre, Paris, Berger-Levrault, 1916, e C. Schaller, Histoire d'un brave petit soldat, Paris, Berger-Levrault, 1915; la collana più importante è comunque la Petite bibliothèque de la grande guerre, dove compaiono P. Forthuny e M. Neumont, 1914-1915, s.d.; P. Forthuny e F. Fabiano, Graine de héros, s.d.; G. Le Rouge, Nos gosses et la guerre, Paris, (Maison de l’édition, s.d.). La gamma degli strumenti di propaganda per l’infanzia è peraltro molto più vasta: fogli volanti con racconti a vignette, giochi dell’oca intitolati Jusqu’au bout, teatrini di marionette, periodici in policromia come L’épatant pour les familles o Les trois couleurs. Episodes, contes et romans de la grande guerre, stampe di Epinal raffigu ranti il dio Thor che calpesta le rovine di Reims ecc. 124
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di mira i preadolescenti, che non vanno a combattere e non for mano correnti di opinione pubblica? Perché in un clima di con flitto totale i fanciulli sono una posta segreta della guerra. Per chi sa vedere, essi sono dovunque. Nella corrispondenza dei soldati, per i quali costitui scono una ragione esplicita di «tenuta»; nel loro portafogli, dove ritratti e fotografie possono fungere da ultimo espediente con cui chiedere gra zia, nel corso di un assalto, quando non si è potuti fuggire in tempo; nelle retrovie, dove occupano un posto centrale e multiforme all’in terno della trama propagandistica; dopo la guerra, infine, quando saran no chiamati a sopportare gli innumerevoli monumenti ai caduti...110. Abbondano i libelli apocrifi, e i falsi non sempre compilati con perizia. Nel 1915 l’editore Payot fa circolare un anonimo J’accuse! - che sarebbe stato scritto in febbraio da un anonimo «patriota» d’oltre Reno per puro amore di verità e poi deposita to a Losanna in aprile nelle mani del giurista svizzero Anton Suter - e per rendere il testo più credibile lo infarcisce di omissis imposti dalla censura a una fantomatica edizione tedesca. La tesi del libro si può sintetizzare in tre postulati: la responsablità del lo scoppio della guerra è da attribuire esclusivamente alla Ger mania; l’obiettivo ultimo di Guglielmo n e del cancelliere Bethmann-Hollweg è il dominio del mondo; gli strumenti usati per raggiungere lo scopo sono veri e propri atti criminali. Rivelando con chiarezza il marchio d’origine delle sue denunce - qualche circolo democratico-repubblicano di osservanza ministeriale l’improbabile Cassandra teutonica accorda alla Francia un credi to e un’indulgenza che nemmeno i francesi (non tutti, almeno) si sentirebbero di sottoscrivere: Fino al 1895 circa la ferita causata dalla perdita dell’Alsazia e della Lorena era ancora dolorosa, poi si è cicatrizzata a poco a poco e alla fine del secolo non ne restava quasi più traccia. La fine del boulangismo segnò il tramonto dell’idea di revanche. I nazionalisti più perico losi, in particolare Déroulède, furono condannati o banditi. La vittoria del partito della giustizia, che pose termine all’affare Dreyfus, assestò il colpo di grazia alla reazione politica e clericale che predicava una con 110 S. Audoin-Rouzeau, La guerre des enfants 1914-1918. Essai d’histoire culturelle, Paris, Colin, 1993, p. 12. 125
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dotta bellicista, come sta facendo oggi in Germania. L’influenza dei pacifisti sinceri - Frédéric Passy, Jules Simon, d’Estournelles de Con stant, soprattutto Jaurès - aumentò considerevolmente, e i guerrieri fanfaroni da boulevard furono confinati nel retrobottega. Le relazioni intellettuali tra la Francia e la Germania diventarono più strette"1. Oltre a promuovere la compattezza dell 'artière e ad angelica re la causa nazionale, la propaganda di stato si ripromette anche di incanalare un’eruzione di fausses nouvelles che rischia di ge nerare il panico e che non sempre scaturisce da qualche polla di un immaginario sovreccitato. La voce secondo cui l’incolpevole chimico Eugène Turpin, già inventore della melinite, avrebbe messo a punto nei suoi laboratori un onnipotente «raggio della morte», è di provenienza schiettamente popolare, e combinan dosi con le preghiere a Sainte-Geneviève s’inserisce nel circuito delle superstizioni di massa; l’attacco di una folla inferocita alle latterie Maggi e ai negozi di brodo Kub, invece, si collega agli striduli allarmi di Léon Daudet, il quale «ripete ogni giorno che quelle due ditte sono in realtà centri di spionaggio» e che «i loro gerenti sarebbero in realtà ufficiali prussiani naturalizzati che lo stato maggiore nemico ha infiltrato in Francia ben prima della guerra»112. Talvolta gli intellettuali più noti vengono impiegati per spe ciali missioni all’estero, dove la catechesi in partibus s’interseca con compiti diplomatici di carattere riservato. Nel marzo 1917, servendosi della mediazione dello storico Ernest Lavisse, il capo del governo Aristide Briand riesce a convincere Henri Bergson a recarsi negli Stati Uniti per tenere una serie di conferenze ma so prattutto per incontrarvi Woodrow Wilson. Vari sono i compiti di questo nunzio inconsueto: comunicare al presidente che se il suo paese non entrerà subito in guerra egli non potrà sedere al tavolo della pace, e dunque contribuire alla creazione di quella 111 Un aUemand, ¡ ’accuse!, Paris, Payot, 1915, p. 85. «L’aquila prussiana deve di spiegare le sue ali su tutti gli oceani; deve incominciare una nuova epoca storica; l’ege monia tedesca deve succedere alle egemonie romana, spagnola e britannica. La senten za di Virgilio è adattata alle brame tedesche: Tu regere imperio populos Germane me mento» (ibid., pp. 283-284). 112 Cfr. F. Kupferman, Rumeurs, bobards et propagande, in a a .w ., 14-18: mourir pour la patrie, con un’introduzione di A. Prost, Paris, Seuil, 1992, pp. 211-221. 126
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Società delle Nazioni che gli sta notoriamente a cuore; avviare trattative con le banche per sbloccare il flusso dei prestiti e de gli aiuti finanziari; informare il pubblico americano che non esiste contraddizione fra la sua parola d’ordine «pace senza vit toria» e l’intento francese di aller jusqu’au bout, perché la «pa ce senza vittoria» - vale a dire senza annessioni e indennità non può essere raggiunta senza che la Germania sia definitiva mente battuta. Il grande pensatore, che oltretutto ottiene un successo lusinghiero, è stato scelto per due motivi: perché con la sua autorevolezza culturale può soddisfare più di altri le am bizioni da re filosofo del presidente Wilson, e perché la sua parola di uomo di verità può rappresentare gli indirizzi della «coscienza» francese meglio dei prodighi giuramenti di politici e giornalisti"5. Per quanto riguarda i contenuti, la propaganda di guerra è sostanzialmente univoca: finisce sempre per insistere sulla «bar barie» tedesca"4, inventariandone i reperti con precisione archi vistica, e affidandosi spesso alla fideiussione degli osservatori stranieri, presso i quali i francesi ostentano abilmente una tran quillità e un sangue freddo che derivano dalla loro lunga dime stichezza con il boche. Rudyard Kipling, accompagnato in auto mobile a visitare la prima linea e le sue immediate adiacenze, si sente ripetere da tutti ciò che una donna gli sussurra con umile franchezza: «Noi sapevamo fin dal 1870 che cos’è un boche, voi lo ignoravate. Noi combattiamo contro una bestia feroce, e non è possibile scendere a patti con le bestie»"5. Lo scrittore raccoglie immediatamente l’invito all’iperbole e alla preterizione allusiva: Ecco la questione vitale che l’Inghilterra deve prendere in conside razione. Noi abbiamo a che fare con un animale che si è posto scienCfr. P. Soulez, Les missions de Bergson ou le paradoxe du philosophe véridique et trompeur, in aa .w ., Les philosophes et la guerre de 14, a cura d i P. Soulez, Saint-Denis, Presses universitaires de Vincennes, 1988, pp. 65-81. 114 Un po’ fuori le righe, perché dedicato all’eroismo misconosciuto dei doganieri, ma contemporaneamente molto allineato, perché pronto a raccogliere tutte le storie di spionaggio, tradimento ed efferatezza nemica circolanti durante la guerra, è J. Mortane, Au poteau! Histoires vécues, Paris, Baudinière, 1932, pp. 57-117. R. Kipling, La Trance en guerre, trad. fr., Paris, Berger-Levrault, 1915, p. 40. 127
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tificamente e filosoficamente fuori della civiltà. Quando avrete visto qualcuna - solo qualcuna - delle sue più nobili imprese, comincerete a capire. Quando vedrete Reims, capirete ancora meglio. Quando avrete guardato bene i visi femminili, sarete indotti a pensare che le donne avranno il diritto di parlare all’ora della resa dei conti. Se lo sono gua dagnato mille volte116. . Anglocentrico e poco attratto dalla Francia - è sufficiente riandare alle pagine di Five Nations - dopo la sua personale di scesa agli inferi il poeta dell’imperialismo conclude che alla Gran Bretagna occorre un supplemento di sforzo se aspira a un’attiva cooperazione con l’alleato e se vuole schiacciare davve ro il «Nemico del Mondo»: [I Francesi] non cadono in preda a un attacco di nervi all’idea del le atrocità «che non si saprebbero descrivere», come le definiscono i giornali inglesi. Essi le descrivono nei minimi particolari, invece, e le conteggiano in una partita di dare e di avere per il regolamento finale. Essi non discutono, non commentano, non si scompongono per nulla di ciò che la Germania inventa, dice, urla o ripete nella sua collera paz za: menzogne e intrighi li lasciano indifferenti. Hanno la calma, la pace interiore che viene dalla certezza che si sacrificano per la patria, e che il pesante fardello è equamente distribuito sulle spalle di tutti. [...] An che se la Francia oggi si trovasse sola davanti al Nemico del Mondo, non si potrebbe immaginarla sconfitta; non si potrebbe, in ogni caso, immaginare da parte sua alcun cedimento. La guerra continuerà fino all’estinzione totale del nemico. I Francesi non pretendono di conosce re l’ora della fine; ne parlano poco; non si divertono a sognare trionfi e ingiunzioni draconiane117. L’efficacia persuasiva del vittimismo, quasi sempre confessa to con ritrosia, dipende dalla possibilità di manipolare con leg gerezza di tocco episodi realmente accaduti e facilmente docu mentabili: se in Italia, per esempio, nel 1918 la disumanità del nemico - vandalo, stupratore, miscredente - dev’essere desunta da una fosca rappresentazione dei tratti somatici del «chiodo», in Francia basta far riferimento ai massacri e alle rappresaglie constatati dai corrispondenti di guerra dei paesi neutrali - spe 116 Ibid., pp. 40-41. 117 lbid., pp. 120-121. 128
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cialmente dagli svizzeri - oppure alle incaute notizie diffuse dal la stessa stampa nemica. Una collezione di mattinali del calvario alsaziano e lorenese, così, può essere raccolta da André Fribourg semplicemente pubblicando le sentenze dei consigli di guerra o le liste dei disertori, quasi tutti di cognome tedesco - e consul tando giornali come la «Tàglische Rundschau» o la «Strassburger Post» (perché «in barba all’occupante si può organizzare un continuo andirivieni fra l’Alsazia e la Francia, spendendovi teso ri di ingegnosità»)118. La popolazione, inoltre, è tenuta costantemente in stato di allarme - soprattutto nei primi mesi dell’inva sione - dal timore delle spie, delle quinte colonne, dei sabotatori che varcano le linee applicando una tecnica ben riassunta dal ge nerale Charles-Marie Mangin, che del resto altro non fa se non integrare gli stralci del diario di un ufficiale sassone comparsi sul «Temps»: Nell’esodo delle popolazioni i tedeschi vedevano un buon mezzo per intasare le nostre strade e per introdurre spie nelle nostre linee. In mezzo ai profughi sconvolti, provenienti da tutti i villaggi e spesso sco nosciuti gli uni agli altri, circolavano liberamente agenti tedeschi; si so no persino scoperte apparecchiature fotografiche nei veicoli, che erano poi povere carriole da contadini contenenti qualche mobile sfuggito agli incendi... Tutto ciò che si è raccontato sulla loro perfezione nello spionaggio sfiora appena una realtà che oltrepassa l’immaginazione più sfrenata"9. Per quanto monotona possa sembrare - ed effettivamente sia - la perenne ricerca di un’alterità che giustifichi la lotta a oltran za produce alla lunga risultati imprevedibili. Secondo una stu diosa, muovendo da un assoluto lealismo alcuni intellettuali co me Emile Durkheim e lo stesso Bergson (o lungo un altro ver sante il pacifista Julien Benda) sarebbero sospinti dal loro innato spirito critico e dall’abitudine tipicamente ebraica di scrutare in 118 «Gli alsaziani e i lorenesi, sospettati, spiati, perseguitati, arrestati, imprigionati, messi a morte, testimoniarono pubblicamente la loro fede e s’innalzarono fino alle vette del martirio; non solo, ma con una strana evoluzione l’atteggiamento di coloro che ave vano optato nel 1871 non ci apparve più soltanto utile e ammirevole, e comprendem mo la gloria dolorosa e feconda di coloro che erano rimasti» (A. Fribourg, Les martyrs d’Alsace et de Lorraine d’après les débats des eonseils de guerre allemands, Paris, Plon, 1918’, p. 172). 119 [C.M.] Mangin, Lettres de guerre 1914-1918, Paris, Fayard, 1950, p. 30. 129
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limine la realtà a uno studio delle istituzioni della barbarie, del loro codice genetico, del loro funzionamento interno, dei loro alibi giuridici. Rispettivamente in opere come Signification de la guerre e L’A llemagne au-dessus de tout, essi coglierebbero la na tura totalitaria di uno stato che legittima da sé la propria sovra nità e una visione della «razza eletta» che concepisce lo stato di pace come tolleranza temporanea dell’esistenza di razze inferio ri: Il passaggio dalla guerra esterna del 1914-18 alla guerra intestina di Auschwitz: ecco il punto a cui ha condotto l’analisi del filosofo e dell’ebreo. Tutti hanno avuto accenti profetici, e forse più di tutti Bergson, il cui apparente fanatismo nazionalista lascia presto il passo a un’intuizione realistica dell’antisemitismo nazista: «Se la razza germa nica è la razza eletta, essa sarà la sola che abbia il diritto assoluto di vivere»120. Oggi noi sappiamo che non sarebbero bastati Treitschke e l’eredità del prussianesimo per approdare ad Auschwitz e alla shoah: sarebbero occorsi anche la rabbia dei tedeschi baltici o austriaci che si sentivano esiliati, la frustrazione dei caporali e dei sergenti che si ritenevano puniti senza essere stati sconfitti, l’anima abbrunata degli avventurieri che con la fine della guerra avevano smarrito il senso dell’esistenza e il filo della storia. Sa rebbero occorsi anche un trattato di pace dissennato, un’infla zione catastrofica e molto d’altro ancora. Eppure una sonda ver so l’inquietante aldilà, da parte dei «filosofi di guerra» francesi, era stata calata. VII. POSTILLA
La guerra - occorre dirlo? - è la sventura peggiore che possa abbattersi su una società, e in via di principio non esistono con flitti che si possano risolvere solo con il ricorso alle armi. Quan do una popolazione, tuttavia, deve combattere per anni sul pro prio suolo e difendere case, chiese, strade, ponti, ferrovie, ogget 120 I. Starkier, Les philosophes juifs et la guerre de 14. Philosophes, juifs ou fran çais?, in Les philosophes et la guerre, cit., p. 229. 130
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ti d’arte, civili inermi, è inevitabilmente costretta a riflettere sulla propria condotta perché si trova suo malgrado all’imboccatura di un bivio: o sceglie di piegarsi a una pace purchessia - la non guerra, la cessazione del fuoco senza condizioni - o prosegue nello sforzo in nome dell’idea di patria, trasvalutazione di un co stume e contemporaneamente di un insieme di masserizie socia li. Se un tessuto civile è debole - o «gelatinoso», secondo la ce lebre definizione di Antonio Gramsci - la prima alternativa è quasi obbligatoria: la Rivoluzione d’Ottobre sta a dimostrarlo con un’imponenza probatoria che non richiede commenti; se in vece si sviluppa un’efficace educazione nazionale - sia quel che sia il suo segno o il suo colore - tende di regola a prevalere la seconda. In Francia, e credo che le pagine precedenti lo abbiano chia rito a sufficienza, la guerra ispessisce il sentimento nazional-patriottico nutrendolo con una pluralità di motivazioni che riman dano peraltro a tre assi archetipici. Il primo è rappresentato dal legame psicologico, etico e culturale con il territorio, non inteso come caduca «natura» ma come solida «realtà» - secondo l’in segnamento di Hannah Arendt in Homo faber -, cioè come com plesso di manufatti, di opere, di «cose»: di res, da cui appunto realtà. La patria è la chiesetta di Marc Bloch, la fertile Provenza di Louis Barthas, i rifugi del sottosuolo di Reims, i paesaggi cam pestri attraversati dai soldati di Antoine Redier, la perduta Saconin di Georges Gaudy, le trincee trasformate in abitacoli da Guillaume Apollinaire, la sottoprefettura diroccata che esibisce impavida i propri ruderi. Il secondo è costituito dall’attitudine a rinsaldare i vincoli di sociabilità, siano essi interpersonali, inte retnici o interclassisti: la camaraderie di Henry de Montherlant, la patrouille di André Maginot, Yescouade di Pierre de Mazenod preludono a una vita di relazione - talora effettiva, talora sem plicemente possibile - che è tendenzialmente paritaria e che di strugge le barriere municipali costringendo i cittadini ad amplia re soggettivamente la sfera del «noi». Il terzo consiste nell’idea di una comunità (appunto lo stato-nazione) che non si differen zia dalle altre per il profilo dell’ordinamento politico ma per l’accumulo di usanze e peculiarità comportamentali, e soprattut to per la diversa priorità accordata di volta in volta ai rapporti 131
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economici, linguistici, religiosi121: nonostante alcuni residui otto centeschi - l’umanitarismo esperantista, il mito delP«ultima guerra» - i nazional-repubblicani credono infatti fermamente nella necessità di esportare dovunque un modello di democrazia che sentono figlio dello spirito francese. Se tutto ciò è anche in parte attendibile, la nota definizione di Benedict Anderson - secondo il quale la nazione è una «co munità politica immaginaria, e immaginata come limitata e so vrana al tempo stesso» - deve essere opportunamente emendata: la nazione vive sì nell’immaginario, perché la sua quidditas non scaturisce da alcuna pattuizione, ma solo nel senso che essa uni fica proiettivamente fattori materiali di aggregazione, molto spesso antecedenti - fra l’altro - a ogni regolamentazione da parte dello stato. Si faccia caso all’iconografia di Marianna, o alla metafora della «fata» di De Gaulle, o alla litote della mère bien-aimée di Robert Dubarle: non è quasi mai la repubblica, magari insigni ta dei suoi paramenti, ma è quasi sempre una variante simbo lica della maternità ad assumere le fattezze di una seminatrice giovane e flessuosa, o la sagoma eterea di una creatura sopran naturale, o l’aspetto decrepito e smunto di una genitrice ab bandonata. Naturalmente l’egemonia del nazionalitarismo democratico, maturata durante la prima guerra mondiale, non immunizza la Francia dalle infiltrazioni fasciste, dalla sommossa del febbraio 1934, dalla vergognosa abdicazione di Pétain e dei suoi accoliti. Il punto è che l’amor di patria può sempre degenerare seguendo tre linee di devianza: la convinzione anacronistica che una terra può essere abitata da un solo popolo, il souhaiter la grandeur de sa patrie che comporta il souhaiter du mal à ses voisins, la frene sia totalitaria che pretende di sopprimere in nome dell’identità nazionale tutte le forme di identità «altra» (di sesso, di status, di ruolo professionale, di affiliazione politica, di generazione, di clan). Si è visto, d’altronde, che anche fra il 1914 e il 1918 molti germi di corrompimento minano il patriottismo dei francesi: dal 121 B. Anderson, Imagined Communities. Reflections on thè Origin and Spread of Nationahsm, London 19912. 132
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la tracotanza militarista all’illusione che un paese si possa regge re solo sulle proprie élites, dai fremiti di razzismo pagano alla nostalgia per le istituzioni di ancien régime. Ma tutte le organiz zazioni sociali - insieme coi princìpi che le ispirano - sono espo ste ai rischi della degenerazione, e assai più delle nazioni i regi mi politici imperniati su dottrine che si sforzano di sostituire la concreta «realtà» con un’astratta «ragione». In alcune righe pe netranti François Furet ha scolpito un epitaffio terribile sulla tomba del «socialismo reale»: Al momento della disgregazione l’impero sovietico si rivela nella veste senza precedenti d’una ex superpotenza che non è riuscita a rap presentare una civiltà. È vero che ha raggruppato attorno a sé accoliti, clienti e colonie, s’è costruita un arsenale militare, ha perseguito una politica estera su scala mondiale; ha avuto insomma tutti gli attributi della potenza internazionale, che hanno imposto il rispetto agli avver sari, senza parlare del messianismo ideologico che ha spinto i sosteni tori all’adorazione. Ma la rapida dissoluzione di quell’impero non la scia in piedi alcunché: né princìpi, né codici, né istituzioni, nemmeno una storia. [...] Dalle rovine dell’Unione sovietica non nascono né lea der pronti a prendere il cambio, né veri partiti, né una nuova società, né una nuova economia. Si scopre solo un’umanità atomizzata e uni forme, tanto che la scomparsa delle classi sociali appare sin troppo ve ra: lo stato, per lo meno in u r ss , ha distrutto persino i contadini. I po poli dell’Unione sovietica non hanno conservato nemmeno le forze ne cessarie per scacciare una nomenklatura divisa o per avere un certo pe so sul corso degli eventi. Il comuniSmo dunque finisce in una specie di nulla122. Davanti a un simile deserto, come non pensare al fatto che I’u r s s si è sempre sforzata di sterilizzare le nazionalità da cui era composta? Uno stato-nazione non si sarebbe mai inabissato così, perché non avrebbe potuto nascondere - sotto il manto di una burocrazia tirannica - una società completamente denervata e resa anaffettiva dalla parodia dell’egualitarismo. Uno statonazione può cambiare pelle, affidarsi a governanti imbelli o te merari, correre avventure disastrose, sovraesporre scioccamente il «genio della stirpe», lasciarsi schiavizzare da oligarchie sangui 122 F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, trad. it., Mi lano 1995, pp. 4-5. 133
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narie o sposare insane ideologie sopraffattrici: però al fondo di ogni cultura nazionale - proprio perché la nazione, a dispetto di tutte le forzature, è una sorta di pegno di sopravvivenza dei le gami societari - rimangono ben vive vocazioni e «qualità» che ne consentono la rinascita. Se mai fossimo inclini a dimenticarlo, prowederebbe a ricordarcelo ogni giorno la vicenda della Ger mania e del Giappone: due paesi prostrati da una guerra rovino sa e che oggi sono diventati - restando debitamente democratici - due colossi dell’economia internazionale. Ma il fascismo?, si obietterà. E il nazionalsocialismo? Non hanno cercato anch’essi di cancellare la «realtà» a prò della «ra gione», e per di più di una «ragione» sommamente aberrante? Non si vorrà sostenere che sono stati privi di un consenso di massa, o addirittura che l’attuale prosperità della Germania e del Giappone dipende da qualche loro lascito ereditario? Anzitutto - si può replicare - il Giappone degli anni trenta e quaranta non è propriamente «fascista»: è uno stato autoritario, militarista e imperialista, che è interessato a espandersi in Asia per accapar rarsene i mercati, viene toccato solo di striscio dai deliri dell’uto pia e non intacca mai seriamente gli equilibri sociali inaugurati nel 1868 dalla rivoluzione Meiji. Insomma è un paese che rinsa visce in fretta dopo aver perduto la guerra. Per quanto riguarda la Germania, invece, è forse il caso di osservare che la sua nazio nalizzazione delle masse soffre di sovrabbondanza mistica - cioè difetta di materia morale e sociale -, e che il suo totalitarismo è caratterizzato da un’impalcatura giuridica estremamente fragile: dietro il Fiihrerprinzip esistono solo i feudi di potere personale (di Gòring, di Himmler, di Sauckel, di Speer), nei quali ci si contendono quegli «ordini» di Hitler che sostituiscono a tutti gli effetti la legge e che non sempre riescono a impedire - anzi, ta lora rafforzano a causa dei loro «vuoti» e della loro occasionalità - l’autodifesa di una parte della società, sottoposta ad arbitrii quotidiani ma non soffocata da un’asfissiante pressione normati va. Chi leggesse un bel libro di Helga Schneider, Il rogo di Ber lino, scoprirebbe che accanto agli zeloti più invasati del regime nel 1945 - vive e coopera in Germania un’umanità stordita e do lente, eppure dignitosa, civile, colta, volitiva, intellettualmente li bera e tutt’altro che spogliata dei sentimenti di generosità e di 134
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solidarietà. È essa, evidentemente, che sgombera il paese dalle macerie avviando in pochi anni una ricostruzione spettacolare. I fascismi, infine, sono stati sconfitti sui campi di battaglia, non sono morti per autocombustione; ciò vuol dire che non sap piamo come sarebbero finiti se una pace di compromesso li avesse costretti a cinquant’anni di confronto politico ed econo mico con le democrazie occidentali. Probabilmente - sia conces sa, per una volta, una supposizione - sarebbero andati incontro a un’estinzione graduale analoga a quella della dittatura corpo rativa di Francisco Franco: che è stata certo più «dolce» del crollo dell’uRSS, meno traumatica e distruttiva, in buona misura preparata e programmata, ma proprio per questo - in fin dei conti - adatta a dimostrare che le nazioni sono molto più forti dei nazionalismi.
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Scrivendo dopo il crollo del muro di Berlino, ma prima della riunificazione tedesca, Jiirgen Habermas paventava una sostan ziale annessione della d d r giustificata dagli animai spirits della «coscienza nazionale», e scorgeva l’unico possibile antidoto a un’operazione torbida e ambigua nella democratizzazione dell’Est ex comunista affidata a una sorta di «patriottismo della Co stituzione», cioè alla fedeltà verso i principi ispiratori di un re pubblicanesimo che anche a Ovest si era affrancato piuttosto tardi dall’occidentalismo coatto dell’immediato dopoguerra1. Se si considera nell’insieme la storia delle Germanie, l’opinione di Habermas può senz’altro apparire ragionevole: se invece la si giudica valida in assoluto, rischia di tendere tranelli assai insidio si e di capovolgere il rapporto che normalmente intercorre fra stato-nazione, democrazia e regime costituzionale. Le Costituzio ni, infatti, traggono alimento da una tradizione - quod est traditum, in termini di costume, usi amministrativi e «tecniche del vi vere» - che non può non essere patrimonio di una cultura na zionale. Per questo motivo è impresa difficilissima la redazione di una «carta dei diritti» a scala europea o comunque sovranazionale, come dimostra del resto il fallimento di molti trapianti ten tati negli ultimi due secoli. Prendiamo il caso della Costituzione 1 J. Habermas, La rivoluzione in corso, trad. it. a cura di M. Protti, Milano 1950, pp. 147-174. 137
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di Weimar, promulgata P ii agosto 1919. Per quanto essa sia ri volta «alla formazione morale, al sentimento civico, alla valentia personale e professionale secondo lo spirito del popolo tedesco» \im Geist des deutschen Volkstums, art. 148), la sua modernità e la sua apertura democratica fanno sì che sia subito imitata da molti paesi - la Cecoslovacchia, la Spagna, la Polonia, la Iugo slavia, la Città libera di Danzica - soprattutto nelle parti in cui tutela i diritti del cittadino non soltanto come uomo libero in astratto ma anche come membro di una famiglia, o lavoratore, o fedele, o soggetto morale e intellettuale di qualsiasi specie. Il di ritto all’istruzione, proclamato solennemente, comporta una se rie di doveri che si riallacciano alla storia del sistema scolastico prussiano e che Part. 145 formula così: «L’obbligo scolastico è generale; il suo adempimento ha luogo, in linea di principio, a mezzo della scuola primaria con almeno otto anni di corso e a mezzo della scuola di perfezionamento a quella annessa fino al compimento del diciottesimo anno di età». Ora, com’è possibile che disposizioni siffatte siano riprese, e soprattutto diventino concretamente applicabili, in stati-nazione che non possiedono precedenti in materia o la cui struttura eco nomica e sociale non permette agli individui una drastica ridu zione del periodo di vita lavorativa? Lo stesso potrebbe dirsi della prefigurazione di uno stato sociale esteso ed efficiente, par ticolarmente bisognoso di risorse fiscali e parafiscali - in primo luogo un adeguato reddito prò capite - nella configurazione che assume con Part. 161: «Il Reich, con la congrua cooperazione degli assicurati, organizzerà un vasto sistema di assicurazioni, al lo scopo di conservare la salute e l’idoneità fisica dei lavoratori, di proteggere la maternità e di tutelare contro le conseguenze economiche dell’età, dell’invalidità e delle vicissitudini della vita {Versickerungswesen des Lebens)»2. Nessuno si può stupire, quindi, se nei paesi più arretrati le costituzioni di impianto weimariano rimangono lettera morta o 2 Le carte dei diritti. Dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco, a cura di F. Battaglia, Firenze 1946, pp. 239 e 247. Sulla possibilità di «padroneggiare i nazionali smi» indirizzandoli verso il «ruolo benefico» di «forze d’integrazione nelle società ete rogenee e divise», buone osservazioni in B. Michel, Nations et nationalismes en Europe centrale. XIX-XX siècle, Paris, Aubier, 1995. 1 38
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vengono rapidamente revocate, come accade a quella iugoslava il 6 gennaio 1929. Né è solo questione di arretratezza, economi ca o etico-politica che sia, perché quando la legge fondamentale di uno stato è imposta dall’esterno, o elaborata a tavolino, o co piata frettolosamente per comodità - cioè quando non esercita un impatto duraturo sull’insieme delle istituzioni e dei compor tamenti pubblici, non riuscendo a diventare Ver/assung o «costi tuzione in senso materiale», come avrebbe detto Costantino Mortati - è condannata a restare inoperante o addirittura a of frire il pretesto per silenziose rifeudalizzazioni del potere. All’epoca della rivoluzione Meiji, che segna la modernizza zione dell’arcipelago, in Giappone si introducono Yhinamuri, la bandiera bianca con il tondo rosso (1870), e l’inno nazionale de nominato kimigayo (1880). Questi due segnacoli rimangono in auge sia durante la cosiddetta «democrazia di Taishó» (19121926), sia durante il regime militarista degli anni trenta, ma do po il 1945 vengono percepiti in molti ambienti come insegne di un imperialismo sciagurato e suicida. Di conseguenza la Costitu zione del 1947 - emanata prima della firma del trattato di pace, mentre è ancora in atto l’occupazione militare americana - non riconosce come simboli nazionali né l’una né l’altro, astenendosi tuttavia dal sostituirli con qualcosa di diverso: il risultato è che entrambi continuano a essere adoperati tranquillamente - specie nelle manifestazioni sportive - e nel 1989 una direttiva ministe riale ne dispone anche il reingresso nelle scuole, senza peraltro suggerire una modifica costituzionale e guadagnandosi così un fin de non recevoir da parte dell’estrema destra*. Poco più tardi, nel 1993, la fine della guerra fredda provoca la prima sconfitta elettorale del partito liberaldemocratico - conservatore e filoa mericano - che governa il paese da oltre quarant’anni, e subito si accende una disputa vivacissima sulla soppressione dell’art. 9 della Costituzione, il quale prevede la rinuncia alla guerra anche per scopi di difesa. Il punto è che la democrazia non si regge soltanto sulla ga ranzia dei diritti, sulla prescrizione dei doveri e su un ricorso al 5 Cfr. K. Postel-Vinay, La révolution silencieuse du Japon, Paris, Calmann-Lévy, 1994, pp. 110-111. 139
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suffragio universale che consente di disegnare forme corrette di rappresentanza: deve anche saper produrre integrazione sociale, perché solo in questo modo - oltre al resto - può attrezzare un ce to politico «leale» promuovendo la libera formazione delle élites. Ora, ordinamenti e apparati amministrativi detengono una capa cità limitata di produrre integrazione sociale: anzi, in genere la presuppongono, e allora attingono a istituzioni ricalcate sui linea menti di una cultura nazionale, oppure la ignorano del tutto, e al lora diventano gelide geometrie prive di ogni vitalità e di ogni po tere d’indirizzo. Le Costituzioni infatti, quando non corrispondo no a un sistema politico-sociale che funzioni effettivamente secon do le loro prescrizioni, non di rado sono anche paraventi che servono a uno stato per accreditare un’immagine di se stesso pres so la comunità internazionale o presso l’opinione pubblica degli altri paesi. Per esempio nelle cosiddette «democrazie popolari», che dopo il 1945 si dotano di assetti interni che sembrano usciti da un processo di clonazione, la tutela dei diritti civili e politici è pre vista nelle forme ben riassunte con il preambolo della Carta della libertà e dei diritti del cittadino approvata dal parlamento polacco il 22 febbraio 1947; «diritti primordiali» sono considerati: l’uguaglianza davanti alla legge senza pregiudizi di razza, di religione, di condizione sociale, di funzioni o di capacità; l’immunità della per sona, della vita e degli averi dei cittadini; la libertà di coscienza e di re ligione; la libertà di accesso all’istruzione, la libertà di ricerca scientifi ca e di pubblicazione dei relativi risultati, così come la libertà di crea zione artistica; la libertà di stampa, di parola, di associazione, di riu nione, di assembramento e di manifestazione; il diritto di voto e di candidatura alle elezioni; l’inviolabilità del domicilio; il segreto della corrispondenza e degli altri mezzi di comunicazione; il diritto al lavoro e al riposo; il diritto di presentare querele, petizioni o istanze agli or ganismi competenti su scala nazionale o municipale; il diritto al bene ficio delle assicurazioni sociali; la protezione della famiglia, delle madri e dei bambini; la protezione della salute e delle attitudini professionali. Ovunque viene affermato il principio del governo parlamen tare (niente democrazia diretta o «consiliare», pertanto) e delle elezioni a suffragio universale maschile e femminile. Dei partiti politici, e segnatamente dei partiti comunisti, non si trova men zione in alcun testo. La proprietà privata è sempre garantita, in 140
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sieme con la facoltà di trasmissione ereditaria dei beni (talvolta, come nella Costituzione romena del 17 aprile 1948, addirittura «la proprietà privata acquisita con il lavoro e con il risparmio gode di una protezione speciale»); si assiste a qualche discrepan za normativa solo per ciò che riguarda le industrie, le banche e le compagnie di assicurazione, la cui statizzazione è ora decreta ta d’emblée, ora subordinata alle circostanze in cui «l’interesse generale lo esige». Un esame comparato sarebbe in ogni modo troppo laborio so, e dunque conviene limitarsi - per render conto di un’ampia gamma di intenzioni virtuose - all’analisi della Costituzione del la repubblica popolare di Albania entrata in vigore il 15 marzo 1946, vale a dire della «carta» di un regime che forse più di ogni altro in Europa affiancherà il totalitarismo politico alla dittatura personale. Nella piccola nazione adriatica la legge delle leggi contempla la possibilità di revoca del mandato da parte degli elettori (art. 3); «sostiene in modo particolare il piccolo e medio ceto contadino» (art. 10); accorda il diritto di voto ai diciottenni (art. 14); stabilisce l’uguaglianza salariale fra uomini e donne (art. 15); promette di «aiutare materialmente» le diverse confes sioni religiose (art. 16); introduce l’istruzione elementare obbli gatoria e gratuita (art. 28); affida ai tribunali ordinari il giudizio sugli abusi della pubblica amministrazione (art. 30); protegge tutte le minoranze nazionali assicurando il «libero uso della loro lingua» e occupandosi del loro «sviluppo culturale» (art. 35). A parte qualche avvisaglia sinistra - la nomina politica del Procu ratore generale della repubblica, l’insediamento alla testa dell’Assemblea popolare di un presidium investito di poteri vastissi mi - anche l’impalcatura istituzionale collima alla fin fine con quella di uno stato di diritto: non mancano la sfiduciabilità del presidium o dei suoi singoli membri, un decentramento ammini strativo con larghe autonomie locali, l’indipendenza della magi stratura, l’insediamento di una corte suprema deputata a dirime re i conflitti di competenza tra le varie giurisdizioni. Meno ansiose di meritarsi elogi, le Costituzioni parafasciste o comunque sindacal-corporative sono di conseguenza anche me no ingannatrici. Il Fuero franchista del 17 luglio 1945 esordisce al primo titolo con franca brutalità - «Gli spagnoli hanno il do 141
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vere di servire fedelmente la patria, di essere leali verso il capo dello stato e di obbedire alle leggi» - e neppure successivamente lesina le regole illiberali e restrizioniste: dichiara la religione cat tolica «religione dello stato spagnolo» e la provvede di «prote zione ufficiale» (art. 6); vieta qualsiasi estrinsecazione pubblica di altri culti (id.)\ impone non meglio precisate «prestazioni per sonali richieste dall’interesse della nazione» (art. 8); ammette la libertà di pensiero solo se «non attenta ai principi fondamentali dello stato» (art. 12); condiziona il diritto di associazione al per seguimento di «fini leciti» (art. 16); proclama che il matrimonio è «uno e indissolubile» (art. 22); specifica che l’«esercizio dei di ritti riconosciuti [...] non deve minacciare l’unità spirituale, na zionale e sociale della Spagna» (art. 33); avverte che ogni dispo sizione garantista «potrà essere sospesa temporaneamente, in tutto o in parte, da un decreto legge del governo» (art. 35). La Costituzione salazarista del Portogallo - promulgata il 19 marzo 1943 e in seguito ripetutamente emendata fino al 1945 - è senza dubbio più soffice e permissiva del Fuero spagnolo, oltre che molto più dettagliata nell’articolato: vi si intravede una mag giore sensibilità - almeno in apparenza - per le libertà individua li, e un atteggiamento meno intollerante in materia religiosa (è consentita, per esempio, la professione pubblica dei culti non cat tolici). Tuttavia il potere è concentrato quasi esclusivamente nelle mani di due organi, il Consiglio di stato e la Camera corporativa: il primo che coadiuva il capo dello stato ed è composto dal presi dente del Consiglio dei ministri, dal presidente deU’Assemblea nazionale, dal presidente della Camera corporativa, dal presiden te della Corte suprema di giustizia, dal procuratore generale della repubblica e da cinque uomini politici nominati a vita dal capo dello stato; la seconda, eletta dai rappresentanti degli interessi or ganizzati, passa al setaccio ed eventualmente respinge tutti i dise gni di legge prima che siano discussi dall’Assemblea nazionale. La «sincerità», se così vogliamo chiamarla, delle costituzioni autoritarie di destra, dipende naturalmente dal fatto che chi le redige non si ripromette affatto di realizzare la democrazia, men tre i paesi comunisti devono poter dimostrare la propria volontà di inverarla compiutamente e nel contempo di «superarla» cam minando verso il traguardo del socialismo. A ben vedere, però, 142
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la codificazione dei «fratelli» dell’uRSS non rivela soltanto dop piezza e ipocrisia: dagli omaggi alle libertà «formali» e dall’oc cultamento della natura dispotica del potere traspare anche un evidente complesso d’inferiorità nei confronti della tradizione li berale, oltre che uno sforzo di gareggiare con l’Occidente - sia pure adoperando carte truccate - sul terreno della promozione di benessere e felicità sociale. Talvolta affiora, qua e là, persino la consapevolezza dell’inanità di ogni statuizione giuridica che non si colleghi a qualche gloria patriottica diventata da tempo retaggio comune: così la legge costituzionale cecoslovacca del 9 maggio 1948 si apre con una «dichiarazione» secondo cui i cechi e gli slovacchi, due nazioni sorelle appartenenti alla grande fa miglia slava, sono vissuti per mille anni in comune dentro un solo e medesimo Stato, e hanno ricevuto in comune dall’Oriente la creazione suprema della civiltà dell’epoca, il cristianesimo. Per primi in Europa, essi hanno inciso sulle loro bandiere - all’epoca della rivoluzione hussita - le idee di libertà di pensiero, di governo popolare e di giustizia sociale4. Un altro esempio classico di vacuità delle costituzioni, quan do non sono sostenute da una cultura diffusa e da un sistema politico coerente con i loro enunciati, è rappresentato dalle vi cende della repubblica argentina. Munita fin dal 1813 di una Costituzione repubblicana, questa ex colonia spagnola è afflitta da un debolissimo sentire di sé: vuoi perché non dispone di una lingua locale, vuoi perché è sottoposta a una formidabile pres sione immigratoria, vuoi perché fino all’episodio delle Falkland non deve affrontare crisi internazionali, vuoi perché il suo svi luppo economico resta per lungo tempo in balia della finanza in glese. I movimenti nazionalisti di destra, qui, non rivendicano mai una specifica «qualità» delle genti creole: strettamente legati agli ambienti cattolici integristi - dal 1916, quando Manuel Gàlvez pubblica El solar de la raza, al quinquennio 1938-43, quando esce la rivista «Sol y luna» - tentano piuttosto di rinverdire il mi4 Tutte le citazioni in B. Mirkine-Guetzévich, Les Constitutions européennes. i. Es sai synthétique et textes des Constitutions. 11. Textes des Constitutions, Paris, Presses universitaires de France, 1951, rispettivamente alle pp. 606-607, 645, 157-169, 381-384, 612-643 e 741. 143
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to della hispanidad, che ammansisce l’oligarchia terriera dei pelucones, consente di affermare una continuità storica di lunga durata e rafforza le spinte sub-imperialiste tendenti a ricostituire l’antico viceregno della Piata, che comprendeva anche l’Uru guay, la Bolivia e il Paraguay5. Questa condizione ancipite - essere uno stato fondato su una Costituzione, ma non essere propriamente una nazione - traspa re assai bene dall’imbarazzata vaghezza con cui in La historia fal sificada (1939) lo storico Ernesto Palacio delinea i tratti dell’«argentinità»: Per ciò che riguarda la Spagna, il fatto di considerarci come un prolungamento in America della sua razza e della sua storia esclude la subordinazione e il complesso d’inferiorità a cui ci condannava l’ispa nismo tradizionale. Noi continuiamo qui in America la storia della Spagna vantando gli stessi titoli degli abitanti della penisola che prov vedono a continuare la loro: essa ci è comune fino a quando si divide per trasmigrazione. Pelayo si situa alla stessa distanza dagli uni e dagli altri, e la lingua, il «romancero», i grandi condottieri della Conquista sono tanto nostri quanto loro. Noi coltiviamo un modo particolare di essere spagnoli, che ha cambiato nome e si chiama essere argentini. Noi formiamo una branca autonoma e non subalterna della hispani dad, secondo la parola ispirata ed evocatrice di Ramiro de Maeztu6. Le dipendenze multiple e il meticciato culturalmente appros simativo, come l’insufficiente saldatura fra classi e gruppi che poco o nulla hanno in comune fra loro, danno luogo a un con flitto sociale permanente, ma soprattutto irregolare, primitivo, pandemico: dove non esistono canali di comunicazione fra il vecchio ceto fondiario, la nuova borghesia compradora e una classe operaia urbana esposta al contagio - come in genere acca de nelle città costiere - delle più disparate suggestioni ribelliste, è quasi impossibile che si formi una classe dirigente fornita di un’intrinseca autorevolezza e immune dallo spirito di sopraffa zione di una parte sulle altre. Per questo fra il 1930 e il 1982, sal vo brevi intermezzi democratici, l’Argentina è governata da dit5 F. Lafage, L’Argentine des dictatures 1930-1982. Pouvoir militane et idéologie contre-révolutionnaire, con una prefazione di E. Poulat, Paris, L’Harmattan, 1991, pp. 42-44. 6 Ibid., p. 46. 144
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tature militari tanto spietate quanto inette: dove la popolazione non appare in grado di attuare modelli di convivenza comunitari o societari, le forze armate costituiscono l’unica élite perché si fondano sulla solidarietà di corpo, sul principio della subordina zione gerarchica, sull’esercizio irrelato del potere e su regole ac cettate di riproduzione dei ruoli. L’esercito argentino, infatti, presenta caratteri vistosamente autistici, per così dire: simpatizza svogliatamente, o non simpatizza affatto, con i partiti reazionari, e se se ne avvale per normali operazioni di maquillage lascia in tendere sempre di non nutrire né la vocazione né l’intenzione di fungere da braccio secolare di una corrente politica. Sembra fare eccezione, in un simile panorama, il primo pe riodo di presidenza del colonnello Juan Domingo Perón (19461955), contrassegnato da una progressiva personalizzazione del potere anche se avallato dal successo elettorale e da una nuova Costituzione, redatta nel 1949 da una Convención Reformadora in vista della creazione di una «nazione socialmente giusta, eco nomicamente libera e politicamente sovrana». Perón ha studiato economia in Italia, è un fervido ammiratore del corporativismo mussoliniano e quando si insedia alla Casa Rosada progetta di fondare un regime nazional-sindacalista: ma in Argentina l’im missione delle masse nello stato - sia pure con la sola funzione di collettori di un consenso retribuito da donazioni demagogi che - è aspramente avversata dalle lobby più influenti, determi na fatalmente una deriva totalitaria e un’accentuazione dei con tenuti populisti del Partito unico della rivoluzione nazionale e si conclude con il rovesciamento di Perón nel corso di un putsch organizzato dai militari in preda al malcontento per la loro per dita di status7. Sarebbe assurdo sostenere, a fil di logica, che esiste una cor rispondenza biunivoca fra nazione e democrazia costituzionale; si vuol solo affermare che la democrazia costituzionale attecchi sce in modo tendenzialmente permanente dove può contare su un solido substrato di cultura nazionale («senza patria, niente cittadini», soleva ripetere Jean-Jacques Rousseau), mentre è esposta a pericoli e ad attentati dove l’identità di un popolo è 7 Ibid., pp. 57-74. 145
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traballante, artificiosa, condizionata dal peso delle pluralità etni che, dall’oppressione dei poteri di fatto e da un presunto moni smo razziale o spirituale: le tristi parabole di molti stati dell’America Latina, dell’Africa subsahariana e del Medio Oriente - dalla Colombia al Burundi alla Siria - sono strettamente connesse alla casualità dei confini, alla sopravvivenza del tribalismo o alla tra cotanza di una religione universalista e temporalista insieme. Resta inteso che può anche accadere - specialmente nei pae si di giovane indipendenza - che per quanto appaiano imperfet te o sbilanciate siano proprio le procedure della democrazia a presidiare l’unità politica. Nell’India contemporanea, che si è da ta un ordinamento federale (ventisette stati e cinque «territori dell’Unione») perché la fine di una condizione tra imperiale e coloniale era stata accompagnata da forti spinte centrifughe, la concordia e la solidarietà interna sono tutelate dalla Costituzio ne del 1950, e periodicamente rafforzate - in occasione delle ele zioni del parlamento centrale - dalla mobilitazione di partiti ege moni a raggio nazionale, prima il solo Partito del Congresso, poi e sempre più spesso anche il b jp induista (Bharatya Janata Par ty). Insomma l’adozione di un assetto moderno e liberale (indi vidualismo, laicità dello stato, repubblica parlamentare) si so vrappone all’incivilimento promosso dagli inglesi (rete stradale, ferrovie, poste, amministrazione della giustizia), e promette di agevolare l’uscita dal sottosviluppo compensando il ridimensio namento dei confini del vecchio ra j britannico8. I confini, ecco. Nell’epoca della mondializzazione e del «vil laggio globale» spesso si deplora la perpetuazione delle frontiere classiche, se non altro perché l’addensamento dei flussi finanzia ri e delle economie virtuali starebbe disegnando nuove franchi gie e nuovi steccati, poco visibili ma non per questo meno reali; di fronte al veloce rimescolamento di quelle che potremmo chia mare orbite gravitazionali della vita associata, sarebbe dunque inevitabile assecondare politicamente i processi di integrazione macroregionale, o continentale, o addirittura planetaria. Questo atteggiamento intellettuale, fondato com’è sulla cancellazione di 8 J.A. Bernard, L’inde est-elle une nation?, in La nation («La pensée politique», 3), Paris, Hautes études, 1995, pp. 107-123. 1 46
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una memoria storica convenientemente prensile - vale a dire sul la dimenticanza delle modalità di nascita degli stati-nazione, che in genere sono frutto di un saggio senso del limite applicato alle cose della politica -, risente di una delle eredità meno esaltanti del secolo che si chiude: il gigantismo, la smisuratezza dei pro positi, l’eccedenza sistematica delle azioni e delle opere rispetto a ogni vincolo di «normalità». Gli stati-nazione nascono dalla coscienza - che altrimenti ac quistano in fretta - della necessità di perimetri commisurati alla densità di un’area popolata e all’estensione spaziale di una cul tura, che spesso incontra freni alla propria diffusione nelle bar riere marittime, orografiche o idrografiche; essi inoltre, essendo gli uomini fondamentalmente stanziali, raramente possono fare a meno della continuità fisica di un territorio (come nel caso dei sistemi insulari fortemente integrati, dalle Filippine all’Indone sia) in virtù della quale è possibile la «riconoscibilità» reciproca degli abitanti. In alcune circostanze, si noti, gli ostacoli naturali si rivelano persino più robusti delle affinità linguistiche e religio se: i celti dell’Irlanda e della Bretagna, per esempio, vivono per più di dieci secoli quasi in stato di simbiosi - hanno in comune il folclore, i moduli architettonici del Medioevo, i santi come Gildas, Brendan e Malo, mentre l’influenza dell’isola sulla sua re gione dirimpettaia ma continentale passa attraverso le migrazio ni dei secoli xvn-xvui insieme con un’esportazione di artisti e di correnti letterarie che dura fino agli inizi del Novecento9 - ma non progettano mai un’unificazione politica palesemente vietata da fratture di indole geografica. Il territorio, inoltre, oggi è un bene preziosissimo. Lo svilup po delle comunicazioni, l’informatica, la multimedialità tendono irresistibilmente a saltare le frontiere - se ne è già parlato nel primo capitolo - e a invadere gli spazi chiusi tramite canali che insieme con informazioni non fittizie trasportano il gergo apoli de della cultura standardizzata, della simultaneità audiovisiva, 9 Cfr. i saggi raccolti in blande et Bretagne, vingt siècles d'histoire. Actes du colloque de Rennes (29-31 mars 1993) organisé par les archives municipales de Rennes et l’Université-college de Cork, a cura di C. Laurent e H. Davis, Rennes, Terre de Brume, 1994. 147
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del consumo effimero, dell’istantaneità dissipatrice, e anche de gli investimenti speculativi, dell’aggiotaggio elettronico, degli scambi di ricchezza ipotetica. Ma l’ineliminabile ancoraggio alla territorialità10 fa sì che le patrie possano rallentare e per alcuni versi anche bloccare i processi livellatori, distruttivi e neutraliz zanti - incontrollabili se lasciati a se stessi - che l’universo me diático innesca in continuazione: favorendo con dispositivi di legge una più razionale collocazione dei capitali, ed evitando che la risposta allo scolorimento delle singolarità linguistiche e me moriali sia consegnata alle clausure etnocentriche con il loro consueto corredo di «invenzioni della tradizione». Del resto, sa rebbe appena grottesco se si lavorasse al cantiere di una terra senza patrie subito dopo aver dedicato sforzi costanti - mi rife risco soprattutto alla conclusione del cinquantennale conflitto israeliano-palestinese - alla soluzione dei problemi delle patrie senza terra, in omaggio alla giusta considerazione che i popoli privati di una dimora sono perennemente inclini a cader vittime dell’estremismo e dei virus integristi. Esistono bensì anche popoli che sono condannati all’emigra zione: anzi, l’arrivo di una crescente massa di diseredati prove nienti dall’Africa e dai paesi dell’ex «socialismo reale» - almeno per quanto riguarda l’Europa occidentale e meridionale - rischia in prospettiva di sconvolgere equilibri demografici, occupaziona li e urbanistici magari assestatisi da poco tempo. Certo chi ab bandona il Maghreb o l’Albania sceglie la propria destinazione in base ai criteri di una più o meno plausibile opportunità di la voro; tuttavia l’immigrazione-emigrazione - per non rimanere eternamente precaria - deve preludere a un’integrazione resi denziale e sociale che non può essere assicurata da un generico «multiculturalismo». «Per gli immigrati - è stato scritto autore volmente - l’Europa è uno spazio esclusivamente economico, non uno spazio d’integrazione. Costoro diventeranno francesi o tedeschi, oppure resteranno per sempre figure di mutanti, mano10 Un esempio pertinente è l’impossibilità, ripetutamente constatata, di tutelare culturalmente la comunità kurda senza contemporaneamente assicurarle un territorio di congrue dimensioni: cfr. B. Badie, La fin des lerritoires. Essai sur le désordre international et sur l’utilité sociale du respect, Paris, Fayard, 1995, pp. 96-97. 148
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dopera volatile che può essere spostata a seconda della direzione in cui soffiano i venti sociali della c e e » 11. L’immigrazione chiama in causa le nazioni perché comporta intrecci di identità, di cultura e di cittadinanza. Ma un’identità europea non esiste, se non in forma di aspirazione indeterminata e sempre frustrata dalla paura di nuove egemonie (l’asse franco tedesco, la potenza di una Germania rafforzata dai suoi tributari meridionali), anche perché i singoli stati restano ancora tenace mente avvinti a schemi di relazioni extracomunitari. Di una cul tura europea, poi, non si può onestamente parlare (Spagna e Da nimarca, Grecia e Inghilterra potrebbero trovare un denomina tore comune solo in qualcosa che somigliasse all’anonimato lus semburghese), e in ogni caso un’opera di sutura tutta concepita «per sottrazione» - cioè basata sul depauperamento delle cultu re nazionali - sarebbe puramente e semplicemente una catastro fe. La cittadinanza europea è infine di là da venire, e oggi l’Unione fornisce agli individui che ne fanno parte poco più della pro tezione diplomatica già garantita dai rispettivi governi. Quest’ultimo punto è il più delicato, almeno in prima istan za: quando si trasferiscono quote più o meno consistenti di po polazione allogena, le questioni immediate da affrontare sono in fatti di carattere giuridico. Occorre procedere alla naturalizza zione o ci si può accontentare dei permessi temporanei di sog giorno, rinnovabili periodicamente? Per la concessione della na zionalità è sufficiente il domicilio legale - magari dopo un certo numero di anni -, è necessario dimostrare la discendenza da un genitore già provvisto di cittadinanza, si deve restringere l’attri buzione solo a chi è nato nella nuova patria o infine conviene esigere una domanda volontaria? E poi. Come si possono bloc care gli ingressi clandestini e il lavoro nero che li incoraggia? È opportuno disporre misure di vigilanza sui cosiddetti «matrimo ni bianchi»? Entro quali limiti si può consentire agli stranieri, la cui posizione non sia stata ancora regolarizzata, di partecipare alla difesa militare? È giusto ammetterli al voto per l’elezione delle amministrazioni locali? 11 J.-C. Barreau, De l’immigration en général et de la nation française en particulier, Paris, Le pré aux clercs, 1992, p. 189. 1 49
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Nel paese che forse vanta le tradizioni più collaudate in ma teria - la Francia, demograficamente poco feconda e perciò me ta preferenziale di percorsi migratori - fino a qualche tempo fa non circolavano dubbi sul fatto che integrazione significasse fu sione progressiva, vale a dire «coesistenza tranquilla [...] tramite assimilazione lenta e accettata da parte degli interessati di un modello di riferimento non incompatibile con il senso di appar tenenza a una cultura diversa». Da alcuni anni invece, ed è un sintomo allarmante, proprio questo sistema che valorizzava al massimo lo ius soli ha incominciato a scricchiolare: l’intensifica zione degli afflussi e l’arrivo massiccio di musulmani fondamen talisti - cioè restii a ogni accomodamento sul piano del costume pubblico e privato - si sono aggiunti a una disoccupazione strut turale che moltiplica le frizioni nel mercato del lavoro, suscitan do ora ripensamenti, ora rigidità correttive, ora reazioni xenofo be. Paradossalmente, l’estrema destra rappresentata dal Front national di Jean-Marie Le Pen e un’organizzazione di sinistra co me sos racisme, per motivi opposti sono pervenute alle stesse conclusioni: gli uni timorosi della contaminazione etnica, gli altri preoccupati di un possibile disfacimento dell’identità originaria degli immigrati, hanno energicamente protestato contro la poli tica dell’assimilazione obbligando le forze moderate a un subita neo arretramento. I giuristi francesi ragionano con grande concretezza, «a partire dai vincoli obiettivi, predeterminati, che esistono fra un individuo e la Francia». Per esempio la nascita o la residenza, considerate fin dal 1889 come un fattore di congiungimento sufficiente, tale da escludere per chi ne beneficia la necessità di testimoniare il proprio desiderio di essere francese. Perché allora chiedere ai figli di immigrati nati in Francia, allevati a stretto contatto con i giovani di ceppo francese ed educati nelle scuole della Repubblica, ciò che non si pretende da co loro che hanno un solo genitore francese e sono stati cresciuti lontano dall’esagono dal genitore straniero? Ecco dunque un testo inutile [il Code de la nationalité], pericoloso nel senso che rischia di destabilizzare ancor più una popolazione di giovani che la disoccupazione, l’isolamento nei ghetti periurbani e tut ta una serie di fenomeni di rigetto tendono già a tagliar fuori dal resto della società. Certo, il testo adottato dall’Assemblea nazionale nel mag gio 1993 è lontano dalle proposte massimaliste avanzate nel 1986 da 150
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Pierre Mazeaud, le quali miravano nientemeno che a introdurre senza restrizioni nel codice di nazionalità il principio dello ius sanguinis. Re sta comunque il fatto che noi collochiamo ottocentomila bambini e ra gazzi, fino a oggi considerati francesi a tutti gli effetti, in una posizione estremamente fragile, di parziale esclusione dal loro ambiente quoti diano e di dipendenza dai genitori stranieri per quanto riguarda il pas saporto. Si può essere così sprovveduti o disonesti da proclamare che il nuovo codice della nazionalità finirà per accelerare l’integrazione dei giovani usciti dall’immigrazione? Occorre proprio che la manipolazio ne dei concetti abbia ottenuto il sopravvento sul semplice buon senso perché gli uni e gli altri facciano assegnamento su una concezione elet tiva della nazionalità, che ha indubbiamente la sua grandezza ma che non entra con armi e bagagli nella testa di un adolescente di sedici an ni che si è svegliato alla vita frequentando i Minguettes o la Cité des 4000n. Vicende come questa costituiscono la riprova che gli statinazione, e solo essi, sono in grado di fungere da filtro di un no madismo e di una mobilità demografica ogni giorno crescenti, e contemporaneamente che solo se sapranno resistere alle tenta zioni proibizioniste - illudersi di sbarrare le frontiere, come è noto, significa trasformare tutti gli immigranti in clandestini sen za influire apprezzabilmente sulla loro quantità - riusciranno ad arginare una corrente tanto tumultuosa quanto inarrestabile sen za provocare sradicamenti, fomentare violenze e causare infeli cità di massa. Jean-Claude Barreau, che in Francia ha diretto l’Office national de l’immigration ed è presidente dell’Institut national d’études démographiques, crede appassionatamente nella possibilità di un controllo dei flussi in entrata che associ il «rigore» all’«apertura». Quella che egli ha battezzato «politica Giano» muove dalla sostituzione della categoria di «soglia di tolleranza» - a suo giudizio priva di attendibilità scientifica, oltre che intimamente classista - con quella di «ritmo di tolleranza»: se il contingente annuo di arrivi fosse di 160 mila unità, dopo quattro generazioni (compresa la prima) l’inserimento dei nuovi residenti sarebbe completato senza alcuno sconvolgimento sociale, sempre a patto 12 P. Milza, Voyage en Ritalie, Paris, Plon, 1993, p. 464. 151
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che il modello storico di assimilazione continuasse a funzionare. Perché ciò accadesse sarebbe indispensabile una «politica della popolazione» che fosse anche una «politica della natalità»: con trariamente ai fautori delle pratiche malthusiane, infatti, Barreau ritiene che una strategia di bilanciamento deH’immigrazione e della procreazione autoctona favorisca enormemente l’integra zione, perché la comunanza delle esperienze scolastiche produce con facilità lo spirito di fraternizzazione, e inoltre perché le fa miglie con prole sono più inclini delle altre a stabilire contatti e ad allacciare rapporti con tutti i membri di una comunità. Giunti alla fine di questo periplo - che ha richiesto anche lo sbarco in un’isola - non sembrano necessarie considerazioni riassuntive. Vale soltanto la pena, forse, di sottolineare che le pa trie e le nazioni hanno ancora un lungo cammino davanti a sé: non sono certo eterne, come non sono stati eterni i grandi impe ri del passato, ma avranno esaurito il loro compito solo quando altre forme di organizzazione politica sapranno rispondere ai bi sogni che attualmente sono esse a soddisfare. Nemmeno si può trascurare che entro la loro cornice istitu zionale si è sviluppata la sociabilità moderna, e che l’occhio sor vegliato di chi non ama i futuribili troppo arditi ne vede il «su peramento» solo sotto specie di estensione, diffusione, generaliz zazione dei legami che hanno saputo stringere e dei valori che sono riuscite a esprimere. «La patria - ha scritto Piero Calamandrei - [è] senso di cor dialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria [è] qesto senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e professione diverse, e che pure si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro»13. Una rinuncia a tutto questo non sembra davvero un buon af fare. 15 P. Calamandrei, Diario 1939-1945, 11, a cura di G. Agosti, Firenze 1982, p. 154. 152
INDICE DEI NOMI
Abrami, deputato, 73 Adenauer, Konrad, 28 Agosti, G., 152n Agulhon, Maurice, 83n Alacoque, Marguerite-Marie, 88n Albertini, R. von, 57n Albiñana, José Maria, 37 Al-Husseini, Amin, 42 Althusser, Louis, 83 Anderson, Benedict, 132 e n Andreu, Pierre, 36n Andreu i Abelló, J., 32n Apollinaire, Guillaume, 78, 131 Archipenko, Aleksandr, 78 Arendt, Hannah, 131 Amé, Emile, 99n Aron, Raymond, 75 e n Arzalier, Francis, 42 e n Attlee, Clement, 57 Audoin-Rouzeau, S., 125n Aulard, Alphonse, 86 Aulois, capitano, 71 Aunós, Eduardo, 37 Aymard, Maurice, 118n, 122n Azorín [José Martínez Ruiz], 38
Baroja, Pio, 21, 22n Barre, R., 45n Barre, Siad, 31 Barreau, Jean-Claude, 149n, 151, 152 Barrés, Maurice, 55, 70, 76n, 88, 89, 112, 113 Barry, Brian, 23 e n, 24 Barry Hertzog, James, 32 Barthas, Louis, 115, 117, 131 Barthou, Louis, 69n, 83, 90 Batista, Fulgencio, 31 Battaglia, F., 138n Baudorre, P., 107n Béhar, P., 39n Benda, Julien, 129 Benjamin, René, 68n Bensa, Alban, 30 e n Berdjaev, Nikolaj, 20 Berg, Paal, 56 Bergson, Henri, 78, 126, 129, 130 Berlin, Isaiah, 23 e n, 24 Berlinguer, Enrico, 50 Bernanos, Georges, 114 Bernard, J.A., 146n Beslay, Maurice, 98 e n Bethmann-Hollweg, Theobald von, 125 Bichsel, Peter, 26 Bickler, Hermann, 42 Birnbaum, Pierre, 53, 54n Bismarck, Otto von, 28, 80 Bloch, Marc, 60, 117, 118 e n, 119, 120, 121, 122, 123, 131 Boas-Boasson, Marc, 100, 101 e n , 119 Bolaffi, A., 28n
Badie, B., 148n Bajes-Zsilinszky, Endre, 55 Baky, Lajos, 55 Baldissone, G., 62n Balmes, Jaime, 37 Bangerkis, Rudofis, 42 Barbusse, Henri, 103, 104, 105 e n, 107, 122 153
INDICE DEI NOMI
Bonaparte, Napoleone, 122n Boreijsza, J.W., 56n Boudon, V., 76n Boulenger, Jacques, 96 Bousquet, Louis, 124 Bouthoul, Gaston, 59 e n, 103 Braque, Georges, 78 Brasillach, Robert, 53 Braudel, F., 47n Brazauskas, Algidar, 2 In Brett, V., 107n Briand, Aristide, 126 Brunet, Roger, 44 e n Bugra, Tank, 33 Burrin, P., 55n Busa, capitano, 61 Busino, G., 26n Calamandrei, Piero, 152 e n Calchi Novati, G., 29n Calvo Sotelo, José, 37 Campagne, Colonel, 7 In Canudo, Ricciotto, 76 Carlo v ii , re di Francia, 67 Carlo xii, re di Svezia, 29 Carrère d’Encausse, H., 21ri Casassas Y Imbert, ]., 32n Cassese, S., 20n Castro, Fidel, 31 Cazals, Rémy, 115, 116n, 117n Cazin, Paul, 85 e n Celine, Louis-Ferdinand [Louis Destouches], 53, 113 e n , 114 Cendrars, Blaise, 76 e n, 77, 78 Cerda, Ildefons, 32 Cézanne, Paul, 80 Chack, P., 73n Chaline, N.-J., 87n Chamberlain, S. Houston, 79 Charpentier, Alexandre, 123 Cherfils, generale, 88n Chevalier, Jules, 89 Chevillon, deputato, 73 Chibas, Eduardo, 31 Churchill, Winston, 35 Clemenceau, Georges, 68, 77 Clouard, Henri, 102 e n Clouzot, H., 85n Codreanu, Corneliu, 54 Colbert, Jean-Baptiste, 34 Comisso, Giovanni, 61 e n Cristophe, P., 88n
Crouzet, M., 48n, 56n Cru, Jean Norton, 63n, 100, 115 Crubellier, M., 67n D ’André, Maxime, 60 D’Arco, Giovanna, 26, 67, 95 Darían, François, 35 D ’Assisi, Francesco, 112 Daudet, Léon, 126 Daumier, Honoré, 80 Davenport, T.R., 32n Davis, H., 147n De Amicis, Edmondo, 103 Déat, Marcel, 55 De Constant d’Estournelles, 126 De Coppet, Marcel, 108 De Coulanges, Numa Fustel, 48 De Fabrègues, J., 99n De Gasperi, Alcide, 50 De Gaulle, Charles, 34 e n, 35, 41n, 92, 132 De Gobineau, Arthur, 79 Degrelle, Léon, 54 De Jouvenel, H., 45n De La Laurencie, 35 Delamaide, Darrell, 44, 45 e n Delannoi, Gii, 22, 36n De La Rocque, François, 55 De Llobet, Gabriel, 87, 88n Delvert, Charles, 86 e n De Maeztu, Ramiro, 37, 144 De Maistre, Joseph, 79 De Man, 88 De Mazenod, Pierre, 71 e n , 131 De Mella, Vázquez, Juan, 37 De Montesquiou, Léon, 97, 98n De Montherlant, Henry, 71, 131 Denizot, A., 88n Denys Cochin, M., 68n De Presles, Raoul, 25 De Régnier, Henri, 124 Déroufède, Paul, 125 Des Cormiers, Abbé Blain, 88n De Unamuno, Miguel, 38 Dorgelès, Roland, 60n, 78, 124 Doriot, Jacques, 55, 1Í4 Doussain, Gustave, 85 e n Dreyfus, Alfred, 125 Drieu La Rochelle, Pierre, 53, 110, 111, 112 e n, 113, 114 Dubarle, Robert, 69, 90, 91 Dubet, F., 40n 154
INDICE DEI NOMI
Girard, G., 7ln Duchamp, Marcel, 78 Du Gara, Roger Martin, 108 e n, 109 Girardet, Raoul, 36n Giraud, Henri, 35 Duguesclin, 95 Dunamel, Georges, 102 e n, 103, 107, Giraud, V., 63n Godet, Philippe, 89 124 Goio, Franco, 14 Dumont, P., 33n Gontran, soldato, 117 Dupont, M., 87n Gonzales, Felipe, 50 Dupuy, Paul, 7On, 84 e n Göring, Hermann, 134 Durkheim, Emile, 129 Gottman, Jean, 44n Dürrenmatt, Friedrich, 33 Gozzano, Guido, 62 e n Duteuil, J.H., 33n Gramsci, Antonio, 131 Guesde, Jules, 92 El Afghani, Jamal, 29 Guglielmo ii, 116, 125 El Bustani, Boutros, 29 Guiomar, J.-Y., 57n Erös, VJ., 55n Guisan, Henri, 26 Etévé, Marcel, 69, 76, lin , 83, 84n Eve, M., 22n Habermas, Jürgen, 137 e n Haider, Jörg, 43 Fabiano, F., 124n Hammarskjöld, 29 Fal Conde, Manuel, 37 Hedin, Sven, 28 Fasel, Edgar, 26 Hegedus, Z., 40n Fauvet, J., 36n Hélès J., 80n Felce, soldato, 71 Herr, generale, 86 Ferrero, Guglielmo, 78 Herriot, Edouard, 78 Ferry, Abel, 68, 73 Herriot, H., 80n Ferry, H.A., 68n Hervé Gustave, 71, 107 Ferry, Jules, 68 Hervier, J., 112n Focn, Ferdinand, 88n Himmler, Heinrich, 43, 55, 134 Fontaine-Vive, Jean, 71 Hitler, Adolf, 48, 134 Fontana, J., 88n Hjärne, Harald, 28, 29 Forthuny, P., 124n Hobsbawm, Eric, 19, 20, 24, 25 e n, 33, Fournière, Eugène, 98 38, 40, 51 France, Anatole, 97 Horn, Gyula, 2 ln Francisco, Franco, 22, 38, 49, 135 Horthy, Miklós, 55 Franconi, Gabriel-Tristan, 93 Hroch, Miroslav, 24 e n, 25 Frank, Bernard, 72, 73n Hugo, Victor, 115, 116 Freppel, vescovo di Tours, 87n Fribourg, André, 111, 129 e n Iliescu, Ion, 2 ln Furet, François, 133 e n Fussell, Paul, 52n, 62 Imrédy, Béla, 55 Galli délia Loggia, E., 52n Janigro, Nicole, 14 Jaurès, Jean, 92, 126 Gallissot, René, 19 Gâlvez, Manuel, 143 Jéramec, Colette, 111 Jouhaux, Léon, 92 Garnier, Jules, 30n Jubert, Raymond, 59, 113 Gaudi, Antoni, 32 Julia, Emile-Franfois, 93 e n Gaudy, Georges, 74, 75n, 131 Gellner, Ernest, 19, 23 e n, 24, 31, 33, Kemal, Mustafà, 33 38 Kessel, Joseph, 96 Georgeon, F., 33n Kipling, Rudyard, 127 e n Gibelli, A., 62n Kjellén, Rudolf, 28 Gioberti, Vincenzo, 51 155
INDICE DEI NOMI
Kravciuk, Leonid, 21 Kunnas, Tarmo, 52, 53n, 110 e n Kupferman, F., 126n Kwasniewsi, Alexander, 2 In Lacombe, A., 124n Lafage, F., 144n Lafont, Robert, 4 In, 50 Laîné, Célestin, 4 In Landsbergis, Vitautas, 20 Langlet, sindaco di Reims, 67 Lanson, Gustave, 89 Latini, Brunetto, 15 Laurent, C., 147n Lavai, Pierre, 35 Lavisse, Ernest, 107, 126 Le Bon, G., 59n Lebrun, Albert, 73 Leca, Jean, 24 e n Lecanuet, E., 87n Ledesma Ramos, Ramiro, 37 Lefebvre, Raymond, 111, 112 Le Pen, Jean-Marie, 150 Le Rouge, G., 124n Lewis, I.M., 3 In Lipton, M., 32n Lisbeth, 124n Louvois, François Michel Le Tellier, 34 Lowith, Karl, 28 Luçon, arcivescovo di Reims, 67, 90 Machiavelli, Niccolò, 80 Maginot, André, 73, 74n, 131 Maginot, R. Joseph, 74n Mairet, Louis-Jean, 109 Malaparte, Curzio, 61 e n Maltese, P., 29n Mangin, Charles-Marie, 129 e n Mann, Thomas, 27, 28n, 75 Maragall i Noble, J., 32n Marcel, G., lOln Marsalès «Polin», Pierre-Paul, 124 Marti, José, 31 Marx, Karl, 58 Masson, Pierre-Maurice, 63 e n, 64n, 88 89n Maurras, Charles, 55, 74, 79, 98, 99, 114 Maury, L., 29n Mayer, Arno, 122n Mazeaud, Pierre, 151 Menéndez y Pelayo, Marcelino, 37, 144
Mercier, Désiré, 89 Mercouris, Georges, 56 Michel, B., 138n Michelet, Jules, 51 Michels, R., 25n Mihajlovic, Draza, 56 Miller, D., 23n Millerand, Alexandre, 123 Milton, John, 25 Milza, P., 15In Mirkine-Guetzévich, B., 143n Modigliani, Amedeo, 78 Montane, J., 127n Morand, comandante, 70 Mordrel, Olier [Olivier Mordrelle], 42 Morodo, R., 37n Mortati, Costantino, 139 Mosse, George L., 24 Mounier, Emmanuel, 114 Mussert, Anton, 55 Mussolini, Benito, 23, 56 Mutti, C., 54n Nasser, Abdel Gamal, 29 Naumann, Friedrich, 79 Nett, 124n Neumont, N., 124n Nicolas, M., 41n Nivelle, Robert, 66 Nora, P., 66n Noyer, Paul, 88n Omero, 85 Ortega y Gasset, José, 38 Ozel, Ismet, 33 Palacio, Ernesto, 144 Pangalos, Theodoros, 39 Parsons, Talcott, 28 Pasquier «Bach», Charles, 124 Passy, Frédéric, 126 Paul-Boncour, Joseph, 83 e n, 92 e n, 93 Pavelic, Ante, 40 Péguy, Charles, 76 Pellanne, Francis, 89 Perón, Juan Domingo, 145 Pétain, Philippe, 26, 34 e n, 35, 55, 65, 66, 114, 132 Picabia, Francis, 78 Picasso, Pablo, 78 Pilet-Golaz, 26 156
INDICE DEI NOMI
Poincaré, Raymond, 77, 124 Stendhal [Henry Beyle], 111 Porcel, B., 45n Stepinac, Aloizii, 42 Postel-Vinay, K., H9n Suter, Anton, 125 Poulat, E., 144n Szabó, Dezso, 55 Prévost, Marcel, 12) Szälasi, Ferenc, 54 e n, 55 Primo de Rivera, Jose Antonio, 37, 38 Pristinger, Flavia, 40 e n Taguieff, Pierre-André, 36 e n Prost, A., 66n, 126n Tarchi, M., 53n Proni, M., 137n Tchernia, G., 112n Psichari, Ernest, 84, 88 Terrier-Santans, 70 Thomas, H., 38n Quisling, Vidkun, 55 Thomson, James, 25 Thurow, L., 20n Reboux, Paul, 123 Tiso, Josef, 40 Redier, Antoine, 94 e n, 96, 97, 113, Tjibaou, Jean-Marie, 30, 31, 32 131 Tocqueville, Alexis de, 92 Redondo, Onésimo, 37 Toprak, B., 33n Rémond, R., 87n Touchard, Jean, 36n Renan, Ernest, 32, 48, 84 Touraine, Ä., 40n Reszler, A., 26n Treitschke, Heinrich von, 130 Riols, Y.-M., 2 In Turpin, Eugène, 126 Riou, Gaston, 78, 80 e n, 83, 94 Rocca, Petru, 42 Vaillant, Edouard-Marie, 92 Roque, M.A., 45n Valdemaro li, re di Danimarca, 25 Rosenberg, Alfred, 52 Valdescas, García, 38 Rostand, Edmond, 124 Valois, Georges, 99, lOOn, 101 Rousseau, Jean-Jacques, 145 Vassalli, Sebastiano, 40 e n Vatikiotis, P., 29n Sabbatini, M., 3In Vercingetorige, 70 Samatar, A., 3In Vidal, A., 107n Sand, Shlomo, 2 Videnov, Jean, 21n Sauckel, Fritz, 134 Virgilio, 126n Schaller, C., 124n Virilio, Paul, 46 Scherrer, Jutta, 20 Viviani, René, 90 Schneider, Helga, 134 Vlassov, Andrej A., 42 Schönbaum, David, 46 e n Vossler, Karl, 79 Segni, Mario, 50 Serman, William, 122n Waldheim, Kurt, 43 Serra, Renato, 62 Wasa, Gustavo Adolfo, re di Svezia, 29 Serrano Sûner, Ramón, 38 Weber, E., 99n Siad Barre, Mohammed, 31 Weber, Max, 79 Sicard, C., 108n Weiss, Peter, 21n Siedentop, L., 23n Weygand, Maxime, 35 Simon, Jules, 126 Wiewiorka, M., 40n Sirinelli, J.F., 55n Wilson, Woodrow, 126, 127 Soulez, P., 127n Windelband, Wilhelm, 79 Speer, Albert, 134 Woolf, S.J., 55n Staf de Clercq, 43 Stalin [Iosif Vissarionovic Dzugasvili], 103 Zariflogu, Cahif, 33 Starkier, I., 13 On Zeiller, J., 63n 157