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PARMENIDE SULLA NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello
PREMESSA
Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’ἳmicὁΝδivio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed ἷὅἷmὂiὁ,ΝἷΝἳllἳΝcuiΝvivἳcitὡΝἷΝiὀtἷlligἷὀὐἳΝἶ’ἳὂὂὄὁcciὁΝἳllἳΝcultuὄἳΝ preplatonica sono debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della Sapienza greca ὅtἳvἳὀὁΝvἷἶἷὀἶὁΝlἳΝlucἷΝὂὄἷὅὅὁΝl’ἷἶitὁὄἷΝχἶἷlὂhiμΝilΝὂὄimὁΝ impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e ἳll’ὁὄigiὀἷΝἶἷllἳΝfilὁὅὁfiἳ,ΝὀὁὀchὧΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝlἳΝlἷttuὄἳΝἶἷlΝ Parmenide platonico, proprio in occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e recenti ἷἶitὁὄiΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳΝ del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di Giuseppe. ἢὄimἳΝἶἷll’imὂἷgὀἳtivὁΝlἳvὁὄὁΝἶiΝἷὅἷgἷὅiΝchἷΝhἳΝὄichiἷὅtὁΝuὀἳΝ paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica (la fatica di chi non ha ricevuto uὀ’ἷἶucἳὐiὁὀἷΝfilὁlὁgicἳ)ΝὅiΝèΝcὁὀcἷὀtὄἳtἳΝὅullἳΝὄἷὅtituὐiὁὀἷΝἶiΝuὀΝ testo greco che tenesse conto dei contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo parmeniἶἷὁμΝ ἷὅὅὁΝ hἳΝ ὂuὀtἳtὁΝ ὂiuttὁὅtὁ,Ν ὅiὀΝ ἶἳll’iὀiὐiὁ,Ν ἳΝ ὄicὁὅtὄuiὄἷΝ lἳΝ fi-
ὅiὁὀὁmiἳΝἶiΝuὀ’ὁὂἷὄἳΝcὁmὂlἷὅὅἳ,ΝcἷὄcἳὀἶὁΝἶiΝὅtὄἳὂὂἳὄlἳΝἳllἷΝiὂoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la , in Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝgἷὀἷὄἳlἷΝuὀ’ἳmὂiἳΝἶifἷὅἳΝἶἷllἳΝlἷttuὄἳΝ“cὁὅmὁlὁgicἳ“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo ἶ’iὀἶἳgiὀἷΝ chἷΝ ὄitἷὀgὁΝ ἳὀcὁὄἳΝ ἶἷlΝ tuttὁΝ ἳὂἷὄtὁΝ ἳΝ ὀuὁvἷΝ suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello Como, febbraio 2014
INTRODUZIONE
IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica opera: κ [sc. εα Ϋζδπκθ] θ θ τΰΰλαηηα· ΜΫζδ κμ, Π., Ἀθαιαΰσλαμ altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13),
un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di Π λ φτ πμ: δ Π λ φτ πμ πΫΰλαφκθ υΰΰλΪηηα α εα ΜΫζδ κμ εα Π. ... εα ηΫθ κδ κ π λ θ π λ φτ δθ ησθκθ, ζζ εα π λ θ φυ δε θ θ α κῖμ κῖμ υΰΰλΪηηα δ δ ζΫΰκθ κ εα δ κ κ πμ κ παλβδ κ θ κ Π λ φτ πμ πδΰλΪφ δθ Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura .... E certo in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14).
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L'indagine πε ὶ φύ εω Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1, sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Π λ κ η θ κμ π λ φτ πμ, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto)2. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa π λ φτ πμ almeno ai testi della metà del V secolo a.C.: ηπ κεζ μ ζζκδ κ π λ φτ δκμ ΰ ΰλΪφα δθ Empedocle e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20).
È opinione ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è possibile che, in particolare, la υθαΰπΰά di Ippia abbia contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di φτ δμ, la denominazione Π λ φτ πμ, il termine generico φυ δσζκΰκμ3. Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi "dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele) intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1
W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 2
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in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee di continuità5. In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo di autori π λ φτ πμ, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura (φυ δκζκΰέα), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate6.
L'espressione A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta π λ φτ πμ? Quale significato è da attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con κλέα π λ φτ πμ si doveva intendere una storia dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φτ δμ: nella forma attiva-transitiva φτπ, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φτκηαδ, invece, «crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φτ δμ, nel libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φΪληαεκθ 5
Balaudé, op. cit., p. 291. W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 6
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γζσθ) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φΪληαεα ζτΰλα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra ( ε ΰαέβμ λτ αμ) una pianta medicamentosa (η ζυ), ne illustrasse la «natura» (εαέ ηκδ φτ δθ α κ δι ). Per un verso, in quel contesto, φτ δμ può apparire immediatamente sinonimo di κμ, ηκλφά, φτβ, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è
per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine φτ δμ occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: ·
μ ,
μ μ
,
. , Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) ῖ
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la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123).
Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione εα φτ δθ sia per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φτ δμ come «natura, essenza», incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno 8. In questa accezione la φτ δμ – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato, invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso "tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe: la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita in φτ δμ: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10.
Il modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come π λ φτ δκμ, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: ΛΫΰκυ δ Ϋ υθα θ β λδε θγλππκμ· ζζ λγ μ γ λαπ τ ζσΰκμ μ φδζκ
δθ μ εα β λκ εα κφδ α μ κ ε θδ θ Ϋθαδ δμ η κ θ έ δθ κ κ ῖ εα αηαγ ῖθ θ ηΫζζκθ α δθ κ μ θγλυπκυμ. Σ έθ δ α Ϋκδ δθ κφέβθ, εαγΪπ λ ηπ κεζ μ ζζκδ κ
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M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15.
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π λ φτ δκμ ΰ ΰλΪφα δθ ι λξ μ έ δθ θγλππκμ, εα ππμ ιυθ πΪΰβ. ΰ ππμ ΰΫθ κ πλ κθ εα κυ Ϋπθ η θ α δθ λβ αδ κφδ β λ , ΰΫΰλαπ αδ π λ φτ δκμ, κθ θκηέαπ β λδε Ϋξθ πλκ άε δθ ΰλαφδε . Νκηέαπ π λ φτ δκμ ΰθ θαέ δ αφ μ κ αησγ θ ζζκγ θ θαδ ι β λδε μ. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20).
L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica e indagine π λ φτ δκμ: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi ( πκγΫη θκδ) – cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (π λ θ η υλπθ θ π ΰ θ), il principio e il metodo ( λξ εα μ) della medicina, in altre parole le «scoperte» ( λβηΫθα) avvenute nel corso del tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise ( εκδθ δ ΰθυη δ): Π λ θ η υλπθ κ Ϋκηαδ ζΫΰ δθ, θ η κ κ κθ μ θγλππκθ πκ έιπ εα ζζα α α, εσ α φυ εα ΰΫθ κ, εα δ ουξά δθ, εα δ ΰδαέθ δθ,
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Naddaf, op. cit., pp. 24-25.
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εα δ εΪηθ δθ, εα δ θ θγλυπ εαε θ εα ΰαγ θ, εα γ θ πκγθά ε δ. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1).
Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le πκγΫ δμ contro cui polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della κλέα π λ φτ πμ: lo schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φβη ῖθ θ ηΫζζκθ α λγ μ ιυΰΰλΪφ δθ π λ δαέ βμ θγλππέθβμ πλ κθ η θ ΰθ θαδ εα δαΰθ θαδ· ΰθ θαδ η θ π έθπθ υθΫ βε θ ι λξ μ, δαΰθ θαδ π έθπθ η λ θ ε ελΪ β αδ· ΰ λ θ ι λξ μ τ α δθ η ΰθυ αδ, τθα κμ αδ π’ ε έθπθ ΰδΰθση θα ΰθ θαδ· η ΰθυ αδ πδελα Ϋκθ θ υηα δ, κ ξ εαθ μ αδ ιυηφΫλκθ α θγλυπ πλκ θ ΰε ῖθ Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2)
Conoscere «la natura di tutto l'uomo» (παθ μ φτ δθ θγλυπκυ) è condizione del corretto intervento medico: ciò implica eviden10
temente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo ( π έθπθ υθΫ βε θ ι λξ μ), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti ( π’ ε έθπθ ΰδΰθση θα), e (ii) le componenti che lo governano ( π έθπθ η λ θ ε ελΪ β αδ). Conoscere la natura comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυθέ α αδ η θ κ θ α α Ϊ ζζα πΪθ α εα θγλππκμ π υκῖθ, δαφσλκδθ η θ θ τθαηδθ, υηφσλκδθ θ ξλ δθ, πυλ μ ζΫΰπ εα α κμ I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3)
L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 : l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia.
Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della π λ φτ πμ κλέα e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico:
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Naddaf, op. cit., pp. 22-23.
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ΰ ΰΪλ, φβ, ΚΫίβμ, θΫκμ θ γαυηα μ μ π γτηβ α ατ βμ μ κφέαμ θ εαζκ δ π λ φτ πμ κλέαθ· π λάφαθκμ ΰΪλ ηκδ σε δ θαδ, Ϋθαδ μ α έαμ εΪ κυ, δ έ ΰέΰθ αδ εα κθ εα δ έ πσζζυ αδ εα δ έ δ Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a).
Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», θ εαζκ δ) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» ( τ λκμ πζκ μ): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare 13. Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione π λ φτ πμ κλέα ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte:
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M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344.
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κ μ πυπκ πελΪ κυμ κ θ ί μ κ θσ δκθ κ πλΪ κθ κμ θ κ ζΫΰκθ κμ εκυ θ. κ ΰ λ π λ μ θ πΪθ πθ φτ πμ, ᾗπ λ θ ζζπθ κ πζ ῖ κδ, δ ζΫΰ κ εκπ θ ππμ εαζκτη θκμ π θ κφδ θ εσ ηκμ ξ δ εα έ δθ θΪΰεαδμ εα α ΰέΰθ αδ θ κ λαθέπθ Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11).
Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (π λ μ θ πΪθ πθ φτ πμ), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia ( ππμ [...] εσ ηκμ ξ δ), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici ( ππμ [...] έ δθ θΪΰεαδμ εα α ΰέΰθ αδ θ κ λαθέπθ). Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ζίδκμ δμ μ κλέαμ ξ ηΪγβ δθ, ηά πκζδ θ π πβηκ τθβθ ηά ’ μ έεκυμ πλΪι δμ λη ζζ’ γαθΪ κυ εαγκλ θ φτ εσ ηκθ ΰάλπθ, π υθΫ εα π εα ππμ. κῖμ κδκτ κδμ κ Ϋπκ ’ α λΰπθ η ζΫ βηα πλκ έα δ 14
θ, πμ β ξλ θ
A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20.
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Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi.
In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (εαγκλᾶθ) dell'«ordine che non invecchia» (εσ ηκθ ΰάλπθ) della «natura immortale» ( γαθΪ κυ φτ πμ) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - γΪθα κμ e ΰάλπμ (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il εσ ηκμ oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione ( π υθΫ β εα π εα ππμ), e il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe.
Il modello peripatetico Della π λ φτ πμ κλέα la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» ( θ πλυ πθ φδζκ κφβ Ϊθ πθ κ πζ ῖ κδ) la convinzione che «principi di tutte le cose» ( λξ μ πΪθ πθ) fossero «solo quelli nella forma di materia» ( μ θ ζβμ δ ησθαμ), così argomentando: ι κ ΰ λ δθ παθ α θ α εα ι κ ΰέΰθ αδ πλυ κυ εα μ φγ έλ αδ ζ υ αῖκθ, μ η θ κ έαμ πκη θκτ βμ κῖμ πΪγ δ η αίαζζκτ βμ, κ κ κδξ ῖκθ εα ατ βθ λξάθ φα δθ θαδ θ θ πθ, εα δ κ κκ ΰέΰθ γαδ κ γ θ κ κθ αδ κ πσζζυ γαδ, μ μ κδατ βμ φτ πμ πακηΫθβμ
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ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13)
Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti ( παθ α θ α) soggetti a divenire alla stabilità della φτ δμ soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: π λ φα θ κ ηέαθ δθ φτ δθ θαδ ζΫΰκθ μ πᾶθ, κ κθ πλ π λ η αι κτ πθ come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2),
all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» ( κδξ ῖκθ) e «principio» ( λξά) delle cose ( θ θ πθ). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] λξάθ εα κδξ ῖκθ λβε θ θ πθ π δλκθ, πλ κμ κ κ κ θκηα εκηέ αμ μ λξ μ. ζΫΰ δ ’ α θ ηά πλ ηά ζζκ δ θ εαζκυηΫθπθ θαδ κδξ έπθ, ζζ’ Ϋλαθ δθ φτ δθ π δλκθ, ι μ παθ αμ ΰέθ γαδ κ μ κ λαθκ μ εα κ μ θ α κῖμ εσ ηκυμ· ι θ ΰ θ μ δ κῖμ κ δ͵ εα θ φγκλ θ μ α α ΰ θ γαδ εα ξλ θ· δ θαδ ΰ λ α εβθ εα δθ ζζ ζκδμ μ δε αμ εα θ κ ξλ θκυ ιδθ [B 1], πκδβ δεπ Ϋλκδμ κ πμ θσηα δθ α ζΫΰπθ. ζκθ δ θ μ ζζβζα η αίκζ θ θ Ϊλπθ κδξ έπθ κ κμ γ α Ϊη θκμ κ ε ιέπ θ θ δ κτ πθ πκε έη θκθ πκδ αδ, ζζΪ δ ζζκ παλ α α· κ κμ κ ε ζζκδκυηΫθκυ κ κδξ έκυ θ ΰΫθ δθ πκδ ῖ, ζζ’
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πκελδθκηΫθπθ θ θαθ έπθ δ μ δ έκυ εδθά πμ. [...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9).
Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un principio-origine delle cose ( λξά θ θ πθ) sottoposte a generazione (ΰΫθ δμ) e corruzione (φγκλΪ); (ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» ( κδξ έα), costitutivi materiali da cui ( ι θ, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione, e verso cui ( μ α α, «verso quelle stesse cose») si produce (ΰ θ γαδ) la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (εα ξλ θ), seθ κ ξλ θκυ ιδθ); condo l’ordine del tempo» (εα (iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari ( δ θαδ ΰ λ α εβθ εα δθ ζζ ζκδμ μ δε αμ). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine π λ φτ πμ, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 16
di Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φτ δμ e ΰΫθ δμ 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico: κ η θ κ θ λξαῖκδ εα πλ κδ φδζκ κφά αθ μ π λ φτ πμ π λ μ ζδε μ λξ μ εα μ κδατ βμ α έαμ εσπκυθ, έμ εα πκέα δμ, εα π μ ε ατ βμ ΰέθ αδ ζκθ, εα έθκμ εδθκ θ κμ, κ κθ θ έεκυμ φδζέαμ θκ κ α κηΪ κυ, μ ’ πκε δηΫθβμ ζβμ κδΪθ δθ φτ δθ ξκτ βμ ι θΪΰεβμ, κ κθ κ η θ πυλ μ γ ληάθ, μ ΰ μ ουξλΪθ, εα κ η θ εκτφβθ, μ ίαλ ῖαθ. Ο πμ ΰ λ εα θ εσ ηκθ ΰ θθ δθ. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).
La ricerca π λ φτ πμ degli «antichi primi filosofi» ( λξαῖκδ κδ φδζκ κφά αθ μ) sarebbe stata variamente modulata intorno a: εα πλ
15 16
J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203, pp. 11-12. W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32.
17
(i) natura e proprietà del «principio materiale» (π λ
λξ μ);
μ ζδε μ
(ii) individuazione della causa del movimento (εα
εδθκ θ κμ);
έθκμ
(iii) modalità di generazione dell'«intero» (π μ ε ατ βμ ΰέθ αδ ζκθ) ovvero del «cosmo» ( θ εσ ηκθ ΰ θθ δθ).
Parmenide e la φύ Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Π λ φτ πμ. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio ( δ Π λ φτ πμ πΫΰλαφκθ υΰΰλΪηηα α εα ΜΫζδ κμ εα Π.), in linea con quelle di Sesto: ΰθυλδηκμ α κ Παλη θέ βμ [...] θαλξση θκμ ΰκ θ κ Π λ φτ πμ ΰλΪφ δ κ κθ θ λσπκθ «Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111).
Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione π λ φτ πμ.
Parmenide nella πε ὶ φύ εω ἱ ο ία Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 18
dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: εσζπμ ηκδ κε ῖ Παλη θέ βμ ηῖθ δ δζΫξγαδ εα πᾶμ δμ πυπκ π ελέ δθ ληβ κ θ α δθ δκλέ α γαδ πσ α εα πκῖΪ Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano (242 c4-6).
L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (ΰδΰαθ κηαξέα) tra coloro che riducono «tutto a corpo» ( μ ηα πΪθ α) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (κ έα) «nelle idee» ( θ δθ), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πσ α εα πκῖΪ δθ, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine π λ φτ πμ, e, in particolare, l'equivalenza tra θ α e λξαέ17: Μ γσθ δθα εα κμ φαέθ αέ ηκδ δβΰ ῖ γαδ παδ θ μ κ δθ ηῖθ, η θ μ λέα θ α, πκζ η ῖ ζζάζκδμ θέκ α θ α π , κ εα φέζα ΰδΰθση θα ΰΪηκυμ εα σεκυμ εα λκφ μ θ εΰσθπθ παλΫξ αδ· τκ λκμ πυθ, ΰλ θ εα ιβλ θ γ λη θ εα ουξλσθ, υθκδεέα δ α εα ε έ π δ Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17
Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190.
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e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4).
È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» ( ζ α δε θ γθκμ)18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: παλ’ ηῖθ ζ α δε θ γθκμ, π Ξ θκφΪθκυμ εα δ πλσ γ θ λιΪη θκθ, μ θ μ θ κμ θ πΪθ πθ εαζκυηΫθπθ κ π δ ιΫλξ αδ κῖμ ητγκδμ da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista 242 d5-6).
Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito 19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi ( θ α δκλέ α γαδ). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: η θ ΰ λ θ κῖμ πκδάηα δθ θ φ μ θαδ πᾶθ, εα κτ πθ εηάλδα παλΫξ εαζ μ εα · α κ πκζζΪ φβ δθ θαδ, εηάλδα εα α μ πΪηπκζζα εα παηη ΰΫγβ παλΫξ αδ. κ θ θ η θ θ φΪθαδ, θ η È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico ( π Ξ θκφΪθκυμ εα δ πλσ γ θ λιΪη θκθ) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192.
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πκζζΪ, εα κ πμ εΪ λκθ ζΫΰ δθ ηβ θ θ α θ λβεΫθαδ κε ῖθ ξ σθ δ ζΫΰκθ αμ α Ϊ Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose,
mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: εα ζζα α ΜΫζδ κέ εα Παλη θέ αδ θαθ δκτη θκδ πᾶ δ κτ κδμ δδ ξυλέακθ αδ, μ θ πΪθ α εα βε θ α θ α κ ε ξκθ ξυλαθ θ ᾗ εδθ ῖ αδ e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi.
Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula θ πᾶθ (ovvero θ πΪθ α), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): κέθυθ ζκθ
έθ,
π λ εα Παλη θέ βμ ζΫΰ δ, ,
μ
·
μ ῖ Ν Ν ,
20 Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit..
21
κδκ σθ ΰ θ θ ηΫ κθ εα ξα α ξ δ, α α ξκθ πᾶ α θΪΰεβ ηΫλβ ξ δθ Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o ἶἳll’ἳltὄἳ», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti,
e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: ξ ηα πε θ α πλΫπκθ εα υΰΰ θΫμ. πΪθ α θ α α α π λδΫξ δθ ηΫζζκθ δ α πλΫπκθ θ β ξ ηα π λδ δζβφ μ θ α πΪθ α πσ α ξάηα α· δ εα φαδλκ δ Ϋμ, ε ηΫ κυ πΪθ πλ μ μ ζ υ μ κθ πΫξκθ, ευεζκ λ μ α κλθ τ α κ, πΪθ πθ ζ υ α κθ ηκδσ α σθ α αυ ξβηΪ πθ, θκηέ αμ ηυλέ εΪζζδκθ ηκδκθ θκηκέκυ. ζ ῖκθ ετεζ πᾶθ ιπγ θ α πβελδίκ κ πκζζ θ ξΪλδθ. ηηΪ πθ ΰ λ π ῖ κ κ Ϋθ, λα θ ΰ λ κ θ π ζ έπ κ ιπγ θ, κ ’ εκ μ, κ ΰ λ εκυ σθ· πθ ηΪ κ ε θ π λδ μ ση θκθ θαπθκ μ, κ ’ α δθκμ πδ μ θ λΰΪθκυ ξ ῖθ ᾧ θ η θ μ αυ λκφ θ Ϋικδ κ, θ πλσ λκθ ιδεηα ηΫθβθ πκπΫηοκδ πΪζδθ. π δ ΰ λ κ θ κ πλκ δθ α πκγ θ - κ ΰ λ θ-α ΰ λ αυ λκφ θ θ αυ κ φγέ δθ παλΫξκθ εα πΪθ α θ αυ εα φ’ αυ κ πΪ ξκθ εα λ θ ε Ϋξθβμ ΰΫΰκθ θ E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21
Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo.
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tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22.
Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica ( θ θαδ πᾶθ) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (κ πκζζΪ θαδ) - secondo quanto argomentato da Zenone;
22
Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua , Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21.
23
(b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti elementari26.
Eccentricità di φύ εω ἱ ο ία
Parmenide
nella
πε ὶ
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il sostrato» (κ [...] θ φΪ εκθ μ θαδ πκε έη θκθ) a «coloro che ammettono più principi» ( κῖμ πζ έπ πκδκ δ), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: θ η θ κ θ παζαδ θ εα πζ έπ ζ ΰσθ πθ κδξ ῖα μ φτ πμ ε κτ πθ εαθσθ δ γ πλ αδ θ δΪθκδαθ· Ϋ δθ μ κ π λ κ παθ μ μ ηδᾶμ κ βμ φτ πμ π φάθαθ κ, λσπκθ κ θ α θ πΪθ μ κ κ εαζ μ κ κ εα θ φτ δθ. Da queste cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12).
Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: μ η θ κ θ θ θ θ εΫοδθ θ α έπθ κ αη μ υθαλησ δ π λ α θ ζσΰκμ (κ ΰ λ π λ θδκδ θ φυ δκζσΰπθ θ πκγΫη θκδ θ ηπμ ΰ θθ δθ μ ι ζβμ κ θσμ, ζζ’ λκθ λσπκθ κ κδ ζΫΰκυ δθ· ε ῖθκδ η θ ΰ λ πλκ δγΫα δ εέθβ δθ, ΰ θθ θ Ϋμ ΰ 26
Ivi, p. 21.
24
πᾶθ, κ κδ εέθβ κθ θαέ φα δθ)· κ η θ ζζ κ κ σθ ΰ κ ε ῖσθ δ θ θ εΫο δ. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18).
Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» ( θδκδ θ φυ δκζσΰπθ). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (π λ κ παθ μ μ ηδᾶμ κ βμ φτ πμ), «immobile» ( εέθβ κθ) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27. In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Ο η θ κ θ πλσ λκθ φδζκ κφά αθ μ π λ μ ζβγ έαμ εα πλ μ κ μ θ θ ζΫΰκη θ η ῖμ ζσΰκυμ εα πλ μ ζζάζκυμ δβθΫξγβ αθ. Ο η θΰ λα θ ζπμ θ ῖζκθ ΰΫθ δθ εα φγκλΪθ· κ γ θ ΰ λ κ ΰέΰθ γαέ φα δθ κ φγ έλ γαδ θ θ πθ, ζζ ησθκθ κε ῖθ ηῖθ, κ κθ κ π λ ΜΫζδ σθ εα Παλη θέ βθ, κ μ, εα ζζα ζΫΰκυ δ εαζ μ, ζζ’ κ φυ δε μ ΰ ῖ θκηέ αδ ζΫΰ δθ· ΰ λ θαδ α θ θ πθ ΰΫθβ α εα ζπμ εέθβ α ηᾶζζσθ δθ Ϋλαμ εα πλκ Ϋλαμ μ φυ δε μ εΫο πμ. ε ῖθκδ δ ηβγ θ η θ ζζκ παλ θ θ α γβ θ κ έαθ πκζαηίΪθ δθ θαδ, κδατ αμ Ϋ δθαμ θκ αδ πλ κδ φτ δμ, π λ αδ δμ ΰθ δμ φλσθβ δμ, κ π η άθ ΰεαθ π α α κ μ ε ῖγ θ ζσΰκυμ 27
Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3).
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Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24).
Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (ΰΫθ δμ εα φγκλΪ): considerare gli enti «ingenerati» ( ΰΫθβ α) e «completamente immobili» ( ζπμ εέθβ α) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (ηᾶζζσθ δθ Ϋλαμ εα πλκ Ϋλαμ μ φυ δε μ εΫο πμ). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura» (π λ μ φτ πμ σια) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (π λ μ πλυ βμ α έαμ) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i28
J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni.
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niziatore», λξβΰ μ) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento ( μ η αίκζ μ α δκθ): κ η θ κ θ πΪηπαθ ι λξ μ οΪη θκδ μ η γσ κυ μ κδατ βμ εα θ φΪ εκθ μ θαδ πκε έη θκθ κ γ θ υ ξΫλαθαθ αυ κῖμ, ζζ’ θδκέ ΰ θ θ ζ ΰσθ πθ, π λ βγΫθ μ π ατ βμ μ αβ ά πμ, θ εέθβ σθ φα δθ θαδ εα θ φτ δθ ζβθ κ ησθκθ εα εα ΰΫθ δθ εα φγκλΪθ ( κ κ η θ ΰ λ λξαῖσθ πΪθ μ ηκζσΰβ αθ) ζζ εα εα θ ζζβθ η α ίκζ θ πᾶ αθ· εα κ κ α θ δσθ δθ. θ η θ κ θ θ φα εσθ πθ θαδ πᾶθ κ γ θ υθΫίβ θ κδατ βθ υθδ ῖθ α έαθ πζ θ λα Παλη θέ , εα κτ εα κ κ κθ κθ κ ησθκθ θ ζζ εα τκ ππμ έγβ δθ α έαμ θαδ· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due.
È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto: κτ πδ πδΰ θση θκμ Π. Πτλβ κμ ζ Ϊ βμ (ζΫΰ δ [εα ] Ξ θκφΪθβθ) π’ ηφκ Ϋλαμ ζγ μ κτμ. εα ΰ λ μ έ δσθ δ πᾶθ πκφαέθ αδ εα ΰΫθ δθ πκ δ σθαδ π δλᾶ αδ θ θ πθ, κ ξ ηκέπμ π λ
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πᾶθ ηφκ Ϋλπθ κιΪαπθ, ζζ εα ’ ζάγ δαθ η θ θ εα ΰΫθβ κθ εα φαδλκ δ μ πκζαηίΪθπθ, εα σιαθ θ πκζζ θ μ ΰΫθ δθ πκ κ θαδ θ φαδθκηΫθπθ τκ πκδ θ μ λξΪμ, π λ εα ΰ θ, η θ μ ζβθ μ α δκθ εα πκδκ θ. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7).
Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della π λ φτ πμ κλέα: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» ( θ φτ δθ ζβθ), al «tutto uno» ( θ πᾶθ), ma soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» ( θ Ϋλαθ λξ θ αβ ῖθ), cioè del «principio del movimento» ( λξ μ εδθά πμ), per «spiegare la produzione dei fenomeni» ( μ ΰΫθ δθ πκ κ θαδ θ φαδθκηΫθπθ). In questo senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla natura» ( θ π λ φτ πμ κλέαθ κῖμ Ἕζζβ δθ εφ θαδ)29 agli atomisti30.
29
G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle «ammiratore» (αβζπ άμ) e «imitatore» (ηδηβ άμ) di Parmenide (DK 28 A9) e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (εκδθπθά αμ Παλη θέ βδ μ φδζκ κφέαμ, DK 28 A8).
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Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche) 32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi diversi 33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (π λ κ παθ μ μ ηδᾶμ κ βμ φτ πμ), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» ( μ θ θ θ εΫοδθ θ α έπθ). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (εα θ ζσΰκθ), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (εα θ ζβθ), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πλ κμ κτ πθ θέ αμ) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo 30
L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327.
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insieme» ( μ θαέ φβ δ
θ ζκθ κ λαθ θ), ad affermarne la divinità ( θ γ σθ).
θ
Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (ηδελ θ ΰλκδεσ λκδ), egli infatti sottolinea: Παλη θέ βμ ηᾶζζκθ ίζΫππθ κδεΫ πκυ ζΫΰ δθ· παλ ΰ λ θ η θ κ γ θ ιδ θ θαδ, ι θΪΰεβμ θ κ αδ θαδ, θ, εα ζζκ κ γΫθ (π λ κ αφΫ λκθ θ κῖμ π λ φτ πμ λάεαη θ), θαΰεααση θκμ ’ εκζκυγ ῖθ κῖμ φαδθκηΫθκδμ, εα θ η θ εα θ ζσΰκθ πζ έπ εα θ α γβ δθ πκζαηίΪθπθ θαδ, τκ μ α έαμ εα τκ μ λξ μ πΪζδθ έγβ δ, γ λη θ εα ουξλσθ, κ κθ π λ εα ΰ θ ζΫΰπθ· κτ πθ εα η θ θ γ λη θ Ϊ δ γΪ λκθ εα η θ. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1).
Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere ( θ κ αδ θαδ) - da un punto di vista razionale (εα θ ζσΰκθ) necessaria ( ι θΪΰεβμ), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παλ ΰ λ θ η θ κ γ θ θαδ); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca θαΰεααση θκμ εκζκυγ ῖθ κῖμ 30
φαδθκηΫθκδμ (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenome-
ni [cose che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πζ έπ εα θ α γβ δθ) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» ( τκ μ α έαμ εα τκ μ λξ μ), ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ’ θαδλ ῖ η θ κ Ϋλαθ φτ δθ, εα Ϋλᾳ ’ πκ δ κ μ πλκ εκθ μ η θ θ κ θ μ εα θ κμ Ϋαθ έγ αδ θκβ σθ, θ η θ μ έ δκθ εα φγαλ κθ θ ’ ηκδσ β δ πλ μ α εα η Ϋξ γαδ δαφκλ θ πλκ αΰκλ τ αμ, μ θ αε κθ εα φ λκηΫθβθ α γβ σθ. θ εα ελδ άλδκθ ῖθ δθ, ‘ η θ Ἀζβγ έβμ π δγΫκμ λ ε < μ κλ >’, κ θκβ κ εα εα α ξκθ κμ ατ πμ π ση θκθ, ‘ ίλκ θ σιαμ α μ κ ε θδ πέ δμ ζβγάμ’ (Parmen. B 1, 29. 30) δ παθ κ απ μ η αίκζ μ εα πΪγβ εα θκηκδσ β αμ ξκηΫθκδμ ηδζ ῖθ πλΪΰηα δ. εαέ κδ π μ θ πΫζδπ θ α γβ δθ εα σιαθ, α γβ θ η πκζδπ θ ηβ κια σθ; κ ε δθ π ῖθ. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e
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l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e).
Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πΪθ ’ θαδλ ῖθ θ θ πκ έγ γαδ θ Παλη θέ βθ): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» ( θκβ σθ) e «sensibile» ( α γβ σθ), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» ( δΪεκ ηκθ), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» ( μ θ λ λξαῖκμ θ φυ δκζκΰέαδ): μ ΰ εα δΪεκ ηκθ π πκέβ αδ εα κδξ ῖα ηδΰθ μ ζαηπλ θ εα εκ δθ θ ε κτ πθ φαδθση θα πΪθ α εα δ κτ πθ πκ ζ ῖ· εα ΰ λ π λ ΰ μ λβε πκζζ εα π λ κ λαθκ εα ζέκυ εα ζάθβμ εα ΰΫθ δθ θγλυππθ φάΰβ αδ· εα κ θ λλβ κθ μ θ λ λξαῖκμ θ φυ δκζκΰέαδ εα υθγ μ ΰλαφ θ έαθ, κ ε ζζκ λέαμ δαφγκλΪθ, θ ευλέπθ παλ ε θ Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10).
Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φτ δμ (nel senso sopra sommariamente ricostruito), seb-
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bene se ne registrasse la "eccentricità"34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della π λ φτ πμ κλέα.
Tra ricerca πε ὶ φύ εω e ricerca πε ὶ ῆ ἀλ εία Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (π λ θ ᾗ θ), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ θ α πΪλξ δ πᾶ δ), la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla π λ φτ πμ κλέα, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: π μ λξ μ εα μ ελκ Ϊ αμ α έαμ αβ κ η θ, ζκθ μ φτ υμ δθκμ α μ θαΰεαῖκθ θαδ εαγ’ α άθ. κ θ εα κ κδξ ῖα θ θ πθ αβ κ θ μ ατ αμ μ λξ μ αά κυθ, θΪΰεβ εα κδξ ῖα κ θ κμ θαδ η εα υηί ίβε μ ζζ’ ᾗ θ· δ εα ηῖθ κ θ κμ ᾗ θ μ πλυ αμ α έαμ ζβπ Ϋκθ Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32).
«Gli elementi costitutivi delle cose che sono» ( κδξ ῖα θ θ πθ) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34
Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178.
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risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» ( κδξ ῖα κ θ κμ ᾗ θ), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» ( πδ άηβ γ πλ ῖ θ ᾗ θ) e all'indagine dei φυ δεκέ è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» ( μ λξ μ εα μ ελκ Ϊ αμ α έαμ αβ ῖθ) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» ( θ φυ δε θ θδκδ) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (π λέ μ ζβμ φτ πμ εκπ ῖθ εα π λ κ θ κμ, Metafisica IV, 3 1005 a3233), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φτ δμ e θ coincidessero, che la φτ δμ cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» ( ιδυηα α), i principi più generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» ( πα δ πΪλξ δ κῖμ κ δθ), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» ( μ κ φδζκ σφκυ [ εΫο πμ]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» ( άηα α), delle proprietà che manifestano σθ, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere.
Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo:
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ηπμ παλαζΪίπη θ εα κ μ πλσ λκθ η θ μ πέ ε οδθ θ θ πθ ζγσθ αμ εα φδζκ κφά αθ αμ π λ μ ζβγ έαμ consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1),
Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (κ η θ κ θ πλσ λκθ φδζκ κφά αθ μ π λ μ ζβγ έαμ, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità intorno agli enti» (π λ θ θ πθ η θ θ ζάγ δαθ εσπκυθ, Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» ( μ πέ ε οδθ θ θ πθ): in quanto convinti che la natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua interezza» (π λέ μ ζβμ φτ πμ) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (π λ κ θ κμ): αβ κ θ μ ΰ λ κ εα φδζκ κφέαθ πλ κδ θ ζάγ δαθ εα θ φτ δθ θ θ πθ ι λΪπβ αθ κ κθ σθ δθα ζζβθ ππ γΫθ μ π π δλέαμ, εαέ φα δθ κ ΰέΰθ γαδ θ θ πθ κ θ κ φγ έλ γαδ δ θαΰεαῖκθ η θ θαδ ΰέΰθ γαδ ΰδΰθση θκθ ι θ κμ ε η θ κμ, ε κτ πθ ηφκ Ϋλπθ τθα κθ θαδ· η θ κμ κ ΰ λ θ ΰέΰθ γαδ ( θαδ ΰ λ β) ε κ θ θ ΰ θΫ γαδ· πκε ῖ γαδ ΰΪλ δ ῖθ. εα κ π φ ι μ υηίαῖθκθ α ικθ μ κ ’ θαδ πκζζΪ φα δθ ζζ ησθκθ α θ. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35
W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16.
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impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25 ss.).
Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Π λ λξ θ), Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (κ εα φδζκ κφέαθ πλ κδ) come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (αβ κ θ μ θ ζάγ δαθ εα θ φτ δθ θ θ πθ), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia ( π π δλέαμ). Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di θ α)36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Π λ φτ πμ, con la proposta di Π λ φτ πμ π λ κ θ κμ, nel primo caso, e Π λ κ η θ κμ π λ φτ πμ nel secondo; e che in ambi36
Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234).
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to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Π λ μ ζβγ έαμ e Ἀζάγ δα sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et corruptione: ε η θ κ θ κτ πθ θ ζσΰπθ, π λίΪθ μ θ α γβ δθ εα παλδ σθ μ α θ μ ζσΰ Ϋκθ εκζκυγ ῖθ, θ εα εέθβ κθ πᾶθ θαέ φα δ εα π δλκθ θδκδ· ΰ λ πΫλαμ π λαέθ δθ θ πλ μ ε θσθ. Ο η θ κ θ κ πμ εα δ ατ αμ μ α έαμ π φάθαθ κ π λ μ ζβγ έαμ· π π η θ θ ζσΰπθ κε ῖ α α υηίαέθ δθ, π θ πλαΰηΪ πθ ηαθέᾳ παλαπζά δκθ θαδ κιΪα δθ κ πμ A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325 a13ss.).
Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico»39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38
Leszl, op. cit., p. 17. Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
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ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme ( πᾶθ). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione π η θ θ ζσΰπθ π θ πλαΰηΪ πθ). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che l'espressione σθ («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» ( ΰΫθβ κθ) «senza morte» ( θυζ γλκθ), «tutto intero» (κ ζκθ), «uniforme» (ηκυθκΰ θΫμ), «saldo» ( λ ηΫμ) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come πᾶθ, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale 42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione π λ μ ζβγ έαμ44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op. cit., p. 19.
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Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» ( δΪεκ ηκθ κδεσ α πΪθ α, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Π δγκ μ εΫζ υγκμ - Ἀζβγ έ ΰ λ πβ ῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del δΪεκ ηκμ, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia 45: ΄ α γ λέαθ φτ δθ Ϊ ΄ θ α γΫλδ πΪθ α άηα α εα εαγαλᾶμ αΰΫκμ ζέκδκ ζαηπΪ κμ λΰ΄ έ βζα εα ππσγ θ ι ΰΫθκθ κ, λΰα ετεζππκμ π τ π λέφκδ α ζάθβμ [5] εα φτ δθ, ά δμ εα κ λαθ θ ηφ μ ξκθ α θγ θ φυ εα μ ηδθ ΰκυ ΄ πΫ β θ ἈθΪΰεβ π έλα ΄ ξ δθ λπθ. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri.
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L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore.
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Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come π λ φτ πμ κλέα sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀζβγ έβ quanto ai κεκ θ α: ξλ Ϋ πΪθ α πυγΫ γαδ ηΫθ Ἀζβγ έβμ ευεζΫκμ λ η μ κλ ίλκ θ σιαμ, αῖμ κ ε θδ πέ δμ ζβγάμ. ζζ΄ ηπβμ εα α α ηαγά αδ, μ κεκ θ α ξλ θ κεέηπμ θαδ δ παθ μ πΪθ α π λ θ α Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (B1.28b-32).
La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀζβγ έβ), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πέ δμ ζβγάμ) «opinioni dei mortali» (ίλκ θ σιαμ), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: κ θ εΪ κδ λΫπ, τθγ κ εαέ η υ εκυ κθ· κ θ εδ θσ λκθ ΰαῖα λΫφ δ θγλυπκδκ [πΪθ πθ, α ΰαῖαθ πδ πθ έ δ εα λπ δ.] κ η θ ΰΪλ πκ Ϋ φβ δ εαε θ π έ γαδ πέ π, φλ’ λ θ παλΫξπ δ γ κ εα ΰκτθα ’ λυλ · ζζ’ εα ζυΰλ γ κ ηΪεαλ μ ζΫπ δ,
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εα φΫλ δ εααση θκμ ζβσ δ γυη . κῖκμ ΰ λ θσκμ θ πδξγκθέπθ θγλυππθ, κ κθ π’ ηαλ ΰ δ πα λ θ λ θ γ θ . Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137) γθα ξλ θ γθα σθ, κ ε γΪθα α θ γθα θ φλκθ ῖθ il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) λα γ μ η θ κ θ ζάγ δαθ σεκμ ’ π πᾶ δ Ϋ υε αδ soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24).
Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente «cuore che non trema» ( λ η μ κλ) di «Verità ben rotonda» (Ἀζβγ έβμ ευεζΫκμ ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», π δγΫκμ) - è certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (εκ λκμ) l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile ( κεέηπμ), del mondo dell'esperienza ( κεκ θ α): 41
a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti B9-B1246, ovvero della κλέα π λ φτ πμ tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: α λ π δ πΪθ α φΪκμ εα θ ι θσηα αδ εα εα φ Ϋλαμ υθΪη δμ π κῖ έ εα κῖμ, πᾶθ πζΫκθ θ ηκ φΪ κμ εα θυε μ φΪθ κυ πθ ηφκ Ϋλπθ, π κ Ϋλ ηΫ α ηβ Ϋθ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9).
Discorso verosimile
affidabile
e
ordinamento
Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: θ κδ πατπ πδ θ ζσΰκθ θσβηα ηφ μ Ἀζβγ έβμ· σιαμ ΄ π κ ίλκ έαμ ηΪθγαθ εσ ηκθ η θ πΫπθ πα βζ θ εκτπθ A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46
Lesher, op. cit., p. 240.
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In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ΰΫθβ κθ θ εα θυζ γλσθ δθ, κ ζκθ ηκυθκΰ θΫμ εα λ η μ ΄ Ϋζ κθ· κ Ϋ πκ ΄ θ κ ΄ αδ, π θ θ δθ ηκ πᾶθ, θ, υθ ξΫμ senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a),
(ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: σθ κδ ΰ δΪεκ ηκθ κδεσ α πΪθ α φα έαπ, μ κ ηά πκ Ϋ έμ ίλκ θ ΰθυηβ παλ ζΪ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti.
Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» ( σθ), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi:
43
(a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ζζ η θ εα θ κ λαθ θ πλ κθ θκηΪ αδ εσ ηκθ εα θ ΰ θ λκΰΰτζβθ, μ Θ σφλα κμ [Phys. Opin. 17] Παλη θέ βθ, μ άθπθ έκ κθ [in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo,
e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK 28 A40a): Π. πλ κθ η θ Ϊ δ θ δκθ, θ α θ θκηδαση θκθ π’ α κ εα Ἕ π λκθ, θ δ α γΫλδ· η γ’ θ θ ζδκθ, φ’ δ κ μ θ δ πυλυ δ Ϋλαμ, π λ κ λαθ θ εαζ ῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri,
e sulla natura solare della luce della Luna: Π. βθ δ ζέπδ [sc. θαδ α κ φπ έα αδ
47
θ
ζάθβθ]· εα ΰ λ π’
Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138.
44
Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42);
(b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: κ μ πΫζ δθ εα κ ε θαδ α θ θ θσηδ αδ εκ α σθ, πΪθ πθ παζέθ λκπσμ δ εΫζ υγκμ per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) κ ΰ λ ηάπκ κ κ αη θαδ η σθ α Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1),
ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): ηκλφ μ ΰ λ εα Ϋγ θ κ τκ ΰθυηαμ θκηΪα δθ· θ ηέαθ κ ξλ υθ δθ - θ ᾧ π πζαθβηΫθκδ έθ Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4),
e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il δΪεκ ηκμ κδευμ: α λ π δ πΪθ α φΪκμ εα θ ι θσηα αδ εα εα φ Ϋλαμ υθΪη δμ π κῖ έ εα κῖμ, πᾶθ πζΫκθ θ ηκ φΪ κμ εα θυε μ φΪθ κυ πθ ηφκ Ϋλπθ, π κ Ϋλ ηΫ α ηβ Ϋθ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9).
45
La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di θκ ῖθ (comprendere, concepire, pensare) e θσκμ (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come ελῖθαδ ζσΰ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» ( σθ, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49. In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto 50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza σθ – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica:
49 50
Lesher, op. cit., p. 241. Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide.
46
ελέ δμ κτ πθ θ ΄ δθ· δθ κ ε δθ· εΫελδ αδ ΄ κ θ, π λ θΪΰεβ, θ η θ ᾶθ θσβ κθ θυθυηκθ - κ ΰ λ ζβγάμ δθ σμ - θ ΄ πΫζ δθ εα ά υηκθ θαδ Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18),
sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: ζ ΄ ηπμ π σθ α θσ παλ σθ α ί ϐαέπμ· κ ΰ λ πκ ηάι δ θ κ σθ κμ ξ γαδ κ εδ θΪη θκθ πΪθ πΪθ πμ εα εσ ηκθ κ υθδ Ϊη θκθ Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4).
In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: κ Ϋ πκ ΄ θ κ ΄ αδ, π θ θ δθ ηκ πᾶθ, θ, υθ ξΫμ né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a)
e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri: κ π κδ εα
σιαθ φυ Ϊ
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εαέ θυθ α δ
εα η Ϋπ δ ΄ π κ ζ υ ά κυ δ λαφΫθ α Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2).
Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire ( Ϊ ’ σθ α Ϊ ’ ση θα πλσ ’ σθ α, «le cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino ( γ κ α θ σθ μ, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51. La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πέ δκμ ξτμ) che scaturisce dal giudizio razionale su θ: ξλ ζΫΰ δθ ά θκ ῖθ ΄ θ ηη θαδ· δ ΰ λ θαδ, ηβ θ ΄ κ ε δθ Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a);
(ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: σθ κδ ΰ δΪεκ ηκθ κδεσ α πΪθ α φα έαπ, μ κ ηά πκ Ϋ έμ ίλκ θ ΰθυηβ παλ ζΪ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1)
si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: ΄ α γ λέαθ 51
φτ δθ Ϊ ΄ θ α γΫλδ πΪθ α
Ivi, p. 102.
48
άηα α εα εαγαλᾶμ αΰΫκμ ζέκδκ ζαηπΪ κμ λΰ΄ έ βζα εα ππσγ θ ι ΰΫθκθ κ, λΰα ετεζππκμ π τ π λέφκδ α ζάθβμ εα φτ δθ Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a),
e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): ά δμ εα κ λαθ θ ηφ μ ξκθ α θγ θ φυ εα μ ηδθ ΰκυ ΄ πΫ β θ ἈθΪΰεβ π έλα ΄ ξ δθ λπθ conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7).
La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Π δγκ μ εΫζ υγκμ) associato a Verità (Ἀζβγ έβ) ed essere ( θ): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del δΪεκ ηκμ κδευμ riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come εα σιαθ, «secondo opinione».
Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 49
Παλη θέ βμ ηᾶζζκθ ίζΫππθ κδεΫ πκυ ζΫΰ δθ· παλ ΰ λ θ η θ κ γ θ ιδ θ θαδ, ι θΪΰεβμ θ κ αδ θαδ, θ, εα ζζκ κ γΫθ (π λ κ αφΫ λκθ θ κῖμ π λ φτ πμ λάεαη θ), θαΰεααση θκμ ’ εκζκυγ ῖθ κῖμ φαδθκηΫθκδμ, εα θ η θ εα θ ζσΰκθ πζ έπ εα θ α γβ δθ πκζαηίΪθπθ θαδ, τκ μ α έαμ εα τκ μ λξ μ πΪζδθ έγβ δ, γ λη θ εα ουξλσθ, κ κθ π λ εα ΰ θ ζΫΰπθ· κτ πθ εα η θ θ γ λη θ Ϊ δ γΪ λκθ εα η θ. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere.
La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (εα θ ζσΰκθ) e «secondo sensazione» (εα θ α γβ δθ). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di θ: θ έα ΄ ελέθαθ κ Ϋηαμ εα άηα ΄ γ θ κ ξπλ μ π΄ ζζάζπθ, η θ φζκΰ μ α γΫλδκθ π λ, πδκθ θ, ηΫΰ΄ ζαφλσθ, πυ πΪθ κ π σθ,
50
΄ Ϋλ η π σθ· λ ε ε ῖθκ εα ΄ α σ Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) θ έα θτε ΄ α , πυεδθ θ Ϋηαμ ηϐλδγΫμ α λ π δ πΪθ α φΪκμ εα θ ι θσηα αδ εα εα φ Ϋλαμ υθΪη δμ π κῖ έ εα κῖμ, πᾶθ πζΫκθ θ ηκ φΪ κμ εα θυε μ φΪθ κυ πθ ηφκ Ϋλπθ, π κ Ϋλ ηΫ α ηβ Ϋθ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9).
Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52,Ν ὅἷὀὅiἴili,Ν tὄἳΝ l'ἳltὄὁ,Ν ἳiΝ ὄiliἷviΝ “ὁὀtὁlὁgici”Ν ἶiΝ
52
In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..
51
Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17).
53
D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit..
52
IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54.
Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa 56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua , Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem.
53
a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59 , dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio, Olimpiodoro60): εα πδ η κε ΰζέ ξλκμ, Ϋπμ θ π λ κ θ μ θ κμ πβ κ Παλη θέ κυ ηβ πκζζ θ α κῖ 57
Cordero, op. cit., pp. 4-5. Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 58
54
κῖμ πκηθάηα δ παλαΰλΪοαδηδ δΪ θ πέ δθ θ π’ ηκ ζ ΰκηΫθπθ εα δ θ πΪθδθ κ Παλη θδ έκυ υΰΰλΪηηα κμ anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21).
Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide 61 . Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62.
Le fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo.
61
Cordero, op. cit., p. 5. Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 62
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Fonti attiche
Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo Passa 64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua υθαΰπΰά aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos64
Ivi, p. 25. J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 65
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seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni 70. 68
Passa, op. cit., p. 26. Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυ δεα σιαδ (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 69
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Fonti ellenistico-romane
Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti ( πκηθάηα α), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili 71. È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73. Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon 74 , mostrerebbe nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ΰΫθβ κθ (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta Ϋζ κθ - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di
in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
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versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa 76, secondo cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica 77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche
La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76
Passa, op. cit., p. 32. Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 77
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B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.4345, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica 84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi 87 , esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa 88, secondo il quale è difficile credere
82
Coxon, op. cit., pp. 2-3. Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 2001 2, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 83
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che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima 89. Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a πκηθάηα α e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91, a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de caelo)92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89
Ivi, p. 36. Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 90
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εα εα εα αζκΰΪ βθ η αι θ π θ ηφΫλ αέ β έ δκθ μ α κ Παλη θέ κυ ξκθ κ πμ· π δ Ϋ δ λαδ θ εα γ λη θ εα φΪκμ εα η α ζ γ α ε θ εα εκ φκθ, π δ πυεθ δ θσηα αδ ουξλ θ εα α σ φ κ μ εα εζβλ θ εα ίαλτ· α α ΰ λ π ελέγβ εα Ϋλπμ εΪ λα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. δ
Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di εα αζκΰΪ βθ δ β έ δκθ, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide ( μ α κ Παλη θέ κυ)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a):
94
J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' π λ φτ πμ", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3.
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Σ σζηβε θ ζσΰκμ κ κμ πκγΫ γαδ η θ θαδ· ο κμ ΰ λ κ ε θ ζζπμ ΰέΰθ κ θ. Παλη θέ βμ ηΫΰαμ, παῖ, παδ θ ηῖθ κ δθ λξση θσμ εα δ Ϋζκυμ κ κ π ηαλ τλα κ, π α εΪ κ ζΫΰπθ εα η ηΫ λπθ Ν μ μ , , μ Ν · Ν Ν Ν μ μ [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».
Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico 97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παλη θέ βμ Πτλβ κμ ζ Ϊ βμ φδζσ κφκμ, ηαγβ μ ΰ ΰκθ μ Ξ θκφΪθκυμ κ Κκζκφπθέκυ, μ Θ σφλα κμ ἈθαιδηΪθ λκυ κ Μδζβ έκυ. [...] ΰλαο φυ δκζκΰέαθ δ’ π θ εα ζζα δθ εα αζκΰΪ βθ, θ ηΫηθβ αδ ΠζΪ πθ
96 97
Passa, op. cit., p. 25. Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto.
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Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2).
Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo possesso.
Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99. Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φδζσ κφκμ κλέα era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima,
98 99
Passa, op. cit., p. 145. Ivi, pp. 35 ss..
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e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera platonica 101 ) rispetto all'interpretazione porfiriana 102 era la valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione 104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione 105 ), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile "normalizzazione" 107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante.
100
Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem.
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BIBLIOGRAFIA
Edizioni del testo consultate Per il testo greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 66
iὀtἷgὄἳὄἷΝcὁὀΝl’ὁὂἷὄἳΝiὀtἷὄὂὄἷtἳtivἳΝἳggiὁὄὀἳtἳΝ- dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di ἡ’ἐὄiἷὀέΝδἳΝiὀἶichἷὄἷmὁΝcὁmἷΝἑὁxὁὀ] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. ἡ’ἐὄiἷὀ,ΝἨὄiὀ,ΝἢἳὄiὅΝ1λἆἅΝ[ὅtὄumἷὀtὁΝmὁltὁΝutilἷΝὂἷὄΝlἳΝἶiὅcuὅὅione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quantὁΝ ὂἷὄΝ l’ἳmὂiὁΝ cὁmmἷὀtἳὄiὁΝ filὁὅὁficὁΝ ἶiΝ cὁὄὄἷἶὁέΝ Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’êtreς, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 67
Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 2003 2 (edizione originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione ἶἷll’ἳmἴiἷὀtἷΝcultuὄἳlἷΝἷΝiΝmὁtiviΝἶἷlΝὂὁἷmἳέΝδἳΝiὀἶicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’τrdinamento della σatura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 68
Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’ἳggiὁὄὀἳmἷὀtὁ,ΝἳΝcuὄἳΝἶiΝἕέΝἤἷἳlἷ,ΝἶiΝἓέΝZἷllἷὄΝ – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di ἤέΝ εcKiὄἳhἳὀ,Ν “ἥigὀὅΝ ἳὀἶΝ χὄgumἷὀtὅΝ iὀΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷὅΝ ἐἆ”,Ν iὀΝ The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua , Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa].
Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 69
W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19702 (edizione originale 1934) M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971 M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974 G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (edizione originale 1932) G. Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori, Napoli 1978 E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik, Auer, Donauwörth 1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung: Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte die griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19854 (edizione originale 1916) S. Austin, Parmenides. Being, Bounds, and Logic, Yale University Press, New Haven and London 1986 L. Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986 La scuola eleatica, «La Parola del Passato», volume XLIII, Macchiaroli, Napoli 1988 G. Colli, La natura ama nascondersi. FYSIS KRUPTE-
SQAI FILEI, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988 (edizione originale 1948) P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997 P. Thanassas, Die erste "zweite Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen der Welt bei Parmenides, Fink, Munich 1997 70
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PARMENIDE SULLA NATURA
Frammenti testo greco e traduzione italiana 1
1
Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione.
DK B1 μ , ΄ μ μ , μ΄ μ 1 μ , † ἡἡἡ †2 · μ · μ [5] μ , ΄ μ ΄ < ἱ3 μ ῖ ῖ μ -, μ , μ N 5 [10] , μ μ 6 μ ΄ μ 7 ῖ μ ϐ [1Ἠὔ μ μ ῖ
,
.
4
. , · · .
1
Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo μ nel nominativo μ , di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come (N), (L), (E), (codices deteriores). Diels legge: < ἱ (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: ; Cordero: ; Coxon suggerisce < > < >. Per la traduzione si veda nota relativa. 3 < ἱ è correzione di Diels (1897) a ῖ del codice N, (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo μ . 5 Il genitivo dei codici è stato emendato in da Karsten e il da Diels. 6 La forma pronominale greca è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica ( ) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100). 7 La forma è degli editori moderni: nei codici .
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ῖ
, 8
μ΄
· μ
΄
9
΄ μ
μ
11
, ΄
, ΄ [25]
μ
μ ϐ
μ
[20]
·
ῖ
.
μ 12
13
10
, μ
,
8
La forma del genitivo trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale dei codici NE e deteriores. 10 Il genitivo in , accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano . Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per , come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum 237) nella formula : rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota a del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente , il cui vocalismo appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato , preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon ( ). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare ), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea.
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ῖ ΄, ΄ μ
Ἀ
μ
15 18
ῖ ΄
14
16
.
μ -, 17 19
μ
20
13
I codici LE riportano ; N riproduce ; i codices deteriores . Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale (nella scriptio continua dei codici) al della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, sia stato reso come . È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte ( ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale sarebbe stato copiato appunto come . Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse , da rendere come , senza aspirazione: sarebbe forma normalizzata di (congiunzione seguita dal pronome relativo senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di ΄ μ del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata ΄ μ , da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare ῖ nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: forma epica da . L'epica conosce anche la forma più antica (Passa, p. 77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀ , evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12).
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, ῖ μ
[30] ΄ μ
μ
22
. ,
21 23
.
19
Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione , si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono («non torto»). Sulla lezione ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa μ un «predicato caratteristico dell' parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione , è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che (come anche in B6.6) sia lezione autentica. La lezione sarebbe stata sostituita a o . 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere μ come μ ( ) . Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe,
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[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114]
Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è , che accogliamo, mentre il solo codice A riporta («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma (da ) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione , si debba comunque correggere la forma attica del participio di μ in quella ionica : in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto».
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Le cavalle 1 che mi portano 2 fin dove il [mio] desiderio 3 potrebbe giungere4, 1
Il testo greco riporta , con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel ὂὄὁἷmiὁΝ ἳll’imὂἷὄfἷttὁΝ (chἷΝ iὀἶicἳΝ ἳἴituἳlmἷὀtἷΝ ἳὐiὁὀiΝ cὁὀtiὀuἳtἷ)Ν ἷΝ ἳll’ἳὁὄiὅtὁΝ(imὂiἷgato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 1ἂ)Νl’uὅὁΝἶἷlΝὂὄἷὅἷὀtἷΝὅὁttὁliὀἷἷὄἷἴἴἷΝcὁmἷΝilΝὂὁἷtἳΝὅiἳΝἳὀcὁὄἳΝὅulΝcἳὄὄὁ,ΝcὁὀΝ un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della via poetica ( μ , «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto μ che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo μ come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che μ si riferisca non alle cavalle ( ) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di μ ὀἷll’ἳὂἷὄtuὄἳΝ ἶἷlΝ ὂὁἷmἳΝ ὅuggἷὄiὄἷἴἴἷΝ cὁmἷΝ lἳΝ guiἶἳΝ ὂὁὅὅἳΝ ἶiὄigἷὄἷΝ ἳll’ὁἴiἷttivὁΝ ὅὁlὁΝ ὅἷΝ ὅiΝ èΝ giὡΝ motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4 δ’ὁttativo è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè uὀ’iὀἶἷfiὀitἳΝ fὄἷὃuἷὀὐἳΝ (ἶuὀὃuἷμΝ «giuὀgἷ»),Ν mἳΝ ὀἷllἳΝ ὂὁἷὅiἳΝ ὁmἷὄicἳΝ èΝ attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella : Robbiano, op. cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London
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mi guidavano5, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato 6 sulla via7 ricca di canti8
1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto ὄἳἶicἳtἳΝὀἷll’immἳgiὀἳὄiὁΝgὄἷcὁΝἳὄcἳicὁέ 5 Il verbo greco èΝ ἳll’imὂἷὄfἷttὁΝ ( μ ): l'uso di imperfetto durativo e participio presente ( μ v. 4, v.5, μ v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo ( v. 2, v. 9), secondo uno schema ὄicὁὄὄἷὀtἷΝiὀΝἡmἷὄὁΝ(ἡ’ἐὄien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta μ cὁmἷΝ “imὂἷὄfἷttὁΝ ὅtὁὄicὁ”,Ν ὁὂtἳὀἶὁΝ dunque per una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici,Ν χὄἳcὀἷ,Ν ἤὁmἳΝ ἀί1ί,Ν ὂέΝ1ἄἀ),Ν hἳΝ ὅὁttὁliὀἷἳtὁΝ cὁmἷΝ l’iὀtὄἷcciὁΝ ἶἷiΝ vἷὄἴiΝ ἳlΝ ὂὄἷὅἷὀtἷΝ ἷΝ ἳll’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il ὂὄἷὅἷὀtἷΝἷΝilΝὄitὁὄὀὁΝἶἳll’ὁltὄἷtὁmἴἳέ 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio uὀ’ἷcὁΝ ἶἷll'iὀiὐiἳὐiὁὀἷΝ ὂὁἷticἳΝ ἶiΝ ἓὅiὁἶὁμΝ ciάΝ chἷΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ iὀtἷὀἶἷὄἷἴἴἷΝ suggerire è che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo μ lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come μ , «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ὄicἷvutἳΝ ὀἷll’χἶἷέΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ὂὁὄὄἷἴἴἷΝ iὀΝ primo piano il risultato ἶἷll’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝlἳΝἶiviὀitὡΝiὀiὐiἳtὄicἷέ 7 La μ μ , † ἡἡἡ † è contrapposta – secondo Cerri (p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: μ («non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come o . Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di μ come μ .
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della divinità9 che10 ὂὁὄtἳΝόΝέέέΝό11 l’uὁmὁΝὅἳὂiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di μ ). O ancora, come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il termine μ èΝ ὃuiΝ ὄἷὅὁΝ iὀΝ ὅἷὀὅὁΝ ἳttivὁ,Ν ἳΝ iὀἶicἳὄἷΝ l’ἳἴἴὁὀἶἳὀὐἳΝ ἶiΝ canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine μ (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) : alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝdaimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce μ come «strada divina»), né con Dike, né con la del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità fἷmmiὀilἷ,Ν chἷΝ guiἶἳΝ ὅuΝ uὀΝ cἳὄὄὁΝ cὁὀἶὁttὁΝ ἶἳllἷΝ figliἷΝ ἶἷlΝ ἥὁlἷΝ «l’uὁmὁΝ sapiente», sia da identificare con μ , la figlia di Notte, ovvero υμ, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’ἓtἷὄἷΝ ἶἳiΝ cἳvἳlliΝ «chἷΝ ὂὁὄtἳὀὁΝ lucἷΝ ἳiΝ mὁὄtἳli»,Ν uὀΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ mὁἶἷllὁΝ ὂἷὄΝ Parmenide. Il genitivo è da considerare pὁὅὅἷὅὅivὁέΝ ἧὀ’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - èΝὃuἷllἳΝὅἷcὁὀἶὁΝcuiΝl’ἳlluὅiὁὀἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝἳlΝἥὁlἷ,ΝὅulΝ cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10 εἳὀtἷὀgὁΝl’ἳmἴiguità di riferimento del relativo : alla Dea o alla via ( ): l’ἳὀἳliὅiΝ cὁὀviὀcἷὀtἷΝ ἶiΝ ἔἷὄὄἳὄiΝ ὅὂiὀgἷΝ ὀἷllἳΝ ὂὄimἳΝ ἶiὄἷὐiὁὀἷ,Ν mἳΝ lἳΝ ὀὁὅtὄἳΝ soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: < ἱ ἙDiels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; (Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile, riferito a ; < > < > (Coxon), «through every stage straight onwards»;
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Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano 15 molto avvedute16 cavalle,
(Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit.,Ν ὀὁtἳΝ ὂέΝ 11ἂ)Ν hἳΝ ὅὁὅtἷὀutὁΝ ἳΝ ὂiὶΝ ὄiὂὄἷὅἷΝ l’ὁὂὂὁὄtuὀitὡΝ ἶiΝ recuperare la lettura < ἱ , «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la μ μ dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ΄ («lontana dalla pista degli uomini»). 12 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ gὄἷcἳ si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, ἐuὄkἷὄt),Ν ἳllἳΝ figuὄἳΝ ἶἷll’«iὀiὐiἳtὁ»,Ν ὅἷcὁὀἶὁΝ lἳΝ tἷὄmiὀὁlὁgiἳΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ ἶἷllἳΝ tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri (ἔὄäὀkἷl,Ν ἦἳὄὠὀ),Ν iὀvἷcἷ,Ν ἳll’uὁmὁΝ chἷΝ giὡΝ cὁὀὁὅcἷΝ lἳΝ viἳΝ ὂἷὄΝ ἳvἷὄlἳΝ percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come abbia un valore legato ἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝviὅivἳ,ΝchἷΝὅiΝcὁὀὅἷὄvἷὄἷἴἴἷΝiὀΝἢἳὄmἷὀiἶἷμΝlἳΝcὁὀὁὅcἷὀὐἳΝchἷΝ il poeta rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine ἶὁvὄἷἴἴἷΝ ὄἷὀἶἷὄὅiΝ ἳllὁὄἳΝ cὁmἷΝ «[l’uὁmὁ]Ν chἷΝ hἳΝ viὅtὁ»Ν ὁvvἷὄὁΝ «chἷΝ ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai ὅuὂἷὄἳtὁΝlἳΝὂὄὁvἳΝἶἷll’iὀiὐiἳὐiὁὀἷέΝδ’immἳgiὀἷΝἶἷlΝὅἳὂiἷὀtἷΝchἷΝὂἷὄΝilΝmὁὀἶὁΝ diffonde con la paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo ἳll’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝlἳΝ . 13 Intendo la forma avverbiale ( ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo ( ) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'inciἶἷὀὐἳΝὀἷll’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝcὁmὂlἷὅὅivἳέΝχἴἴiἳmὁΝὅcἷltὁΝuὀἳΝὂἷὄifὄἳὅi,Ν cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via»
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[5] trainando il carro 17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’ἳὅὅἷ, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del verso – μ e – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 ἥiΝ tὄἳttἳΝ ἶἷll’ἷὀὀἷὅimἳΝ ὄipetizione di una forma del verbo nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, ὂέΝ 1ἁη),Ν iὀvἷcἷ,Ν cὁmἷΝ mἷὐὐὁΝ ὂἷὄΝ iὀciἶἷὄἷΝ ὅull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebἴἷΝ l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 δ’ἳggἷttivὁ , riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guiἶἳtὁΝ ἶἳllἷΝ εuὅἷΝ èΝ ἳvviἳtὁΝ ἳll’itiὀἷὄἳὄiὁΝ ἷὅὂὄἷὅὅivὁΝ ὂiὶΝ ἳἶἷguἳtὁΝ ἳll’ὁccἳὅiὁὀἷέΝ D’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷΝ ἳὀchἷΝ lὁΝ ὅciἳmἳὀὁΝ mἷἶiἳtὁὄἷΝ tὄἳΝ uὁmiὀiΝ ἷΝ ἶἷi,Ν come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il ὂὄὁὂὄiὁΝcὁὄὂὁΝἷΝviἳggiἳὄἷΝiὀΝciἷlὁΝὁΝὀἷll’ὁltὄἷtὁmἴἳ,ΝὂἷὄΝἳccὁmὂἳgὀἳὄἷΝἳltὄἷΝ anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - ὀἳὄὄἳΝiὀΝὂὄimἳΝὂἷὄὅὁὀἳΝlἷΝὅuἷΝἷὅὂἷὄiἷὀὐἷΝcἷlἷὅtiέΝδ’ἳὅὅὁciἳὐiὁὀἷΝcὁὀΝ le (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte» ( μ ) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» ( μ ) suggeriscono un nesso tra il carro ( μ ) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo , letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’ἳὅὅἷΝὀἷllἳΝὅuἳΝὄὁtἳὐiὁὀἷΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἷΝὅἷἶiΝ( ῖ ) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, ἢlutἳὄcὁ,Ν ἕiἳmἴlicὁ)Ν cὁllἷgἳὀὁΝ l’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷlΝ ὅuὁὀὁΝ ἶἷllἳΝ a
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incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23 , avendo abbandonato 24 la dimora 25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della . 20 δ’ἳggἷttivὁΝ μ letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 δ’ὁttἳtivo avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come , vέΝ1)έΝἡ’ἐὄiἷὀΝ(ὂέΝ1ί),Νiὀvἷcἷ,ΝὀἷΝὄilἷvἳΝ– sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uὅὁΝ ὂἷὄΝ ἶἷὅigὀἳὄἷΝ ὅἷmὂlicἷΝ concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che μ si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di μ - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca determina il precedente (v. 5) uso indefinito di Ἥ si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta ( , appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole ἶἷlΝ ἥὁlἷΝ èΝ cὁὀὀὁtἳtἳΝ ὀἷll’uὀiverso mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine μ è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le ἶimἷὀὅiὁὀiΝ ἶἷllἳΝ cἳὅἳΝ ἶἷllἳΝ ἠὁttἷέΝ δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ N richiama l’ἳὀἳlὁgἳΝN esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una cὁllὁcἳὐiὁὀἷΝ ὀἷll’ἳἴiὅὅὁΝ ἶἷlΝ mὁὀἶὁΝ iὀfἷὄὁΝ (chἷΝ iὀΝ ἓὅiὁἶὁΝ ἶὁmiὀἳΝ ὅullἳΝ
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[10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27.
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prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel μ sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» ( μ ). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione ὅὁttἷὄὄἳὀἷἳ,Ν vἷὄὅὁΝ lἷΝ ὄἷgiὁὀiΝ ἶἷlΝ ἦἳὄtἳὄὁΝ ἷΝ ἶἷll’χἶἷΝ (ἑἷὄὄi,Ν ὂέΝ 1ἅἁ)έΝ ἠἷllἳΝ letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ῖ («sulla porta dell'antro della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e ἠὁmὁὅέΝD’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Νle porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ può essere riferita a μ (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di , forzando il suo riferimento a μ . δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ èΝ ὄiccἳΝ ἶiΝ imὂlicitἷΝ ὂὁὅὅiἴilitὡΝ simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; mἳΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ὄichiἳmἳὄἷΝ ilΝ fἳttὁΝ chἷΝ ilΝ ὂὁἷtἳΝ ἳccἷἶἷΝ ἳll’ , alla estrema ὄἷgiὁὀἷΝ ἶiΝ fuὁcὁΝ ἶἷll’uὀivἷὄὅὁΝ fiὅicὁ,Ν ἶiΝ cuiΝ lἳΝ ἶἷἳΝ iὀὀὁminata successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un , di un periglioso viaggio di ritorno ἶἳlΝ mὁὀἶὁΝ ἶἷll’χἶἷ,Ν ἶὁvἷΝ il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-ἁ)έΝ ἑἷὄὄiΝ (ὂέΝ 1ἅἁ)Ν ὅἷgὀἳlἳΝ cὁmἷΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ὄicὁὄὄἳΝ iὀΝ ἳltὄiΝ tἷὅtiΝ ἳὄcἳici,Ν ὂἷὄΝ iὀἶicἳὄἷΝ l’«ἳὐiὁὀἷΝ ὂὁὄtἷὀtὁὅἳΝ ἶἷlΝ ὄiἷmἷὄgἷὄἷΝ ἶἳll’χἶἷ»έΝ ἔἷὄὄἳὄiΝ (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel
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Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione μ N rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: μ
μμ E di Notte oscura la casa terribile ὅ’iὀὀἳlὐἳΝἶiΝὀuvὁlἷΝliviἶἷΝἳvvὁltἳΝ(Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: μ μμ ῖ Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 ἑἷὄὄiΝ(ὂέΝ1ἅἂ)ΝὅἷgὀἳlἳΝ cὁmἷΝl’ἳvvἷὄἴiὁΝ lὁcἳtivὁΝ ricorra nella tradizione epico-tἷὁgὁὀicἳΝ iὀΝ ὄἷlἳὐiὁὀἷΝ ἳll’χἶἷΝ cὁmἷΝ cὁὀὀὁtἳὐiὁὀἷΝ ἳggiuὀtivἳέΝ ἠἷllἳΝ lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resocὁὀtὁΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale , letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano lἷΝ ὁὅὅἷὄvἳὐiὁὀiΝἶiΝἡ’ἐὄiἷὀ,ΝὂέΝ11,ΝἷΝἑὁὀchἷ,ΝὂέΝἂ9). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in fἳcciἳΝ ἳll’ἳltὄἳμΝ ἑὁxὁὀ,Ν ὂἷὄΝ ἷὅἷmὂiὁ,Ν ὅeguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione Ἀ (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄ ) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che
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architrave e soglia31 di pietra li incornicia32;
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emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine può indicare, secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno ( μ )e Notte ( ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora della Notte». δ’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia ( ),Ν ἳΝ iὀἶicἳὄἷΝ l’ἷὅὁὄἶiὁΝ ἶἷlΝ cἳὀtὁέΝ ἙὀΝ ὄἷlἳὐiὁὀἷΝ ἳllἳΝ ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ è probabile che sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751: […ὔ
μ
Ἕ
·
μ
μ μ
μ
μ
Ἕ μ
μ Ἕ
ῖ Ἕ μ μμ Ἕ […]ΝlὡΝἶὁvἷΝἠὁttἷΝἷΝἕiὁὄὀὁΝiὀcὁὀtὄἳὀἶὁὅi si salutano, al momento di varcare la grande soglia ἶiΝἴὄὁὀὐὁ,Νl’uὀὁΝὂἷὄΝὅcἷὀἶἷὄἷΝἶἷὀtὄὁ,Νl’ἳltὄἳΝὂἷὄΝlἳΝὂὁὄtἳ se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, mἳΝὅἷmὂὄἷΝl’uὀὁ,ΝfuὁὄiΝἶἷllἳΝcἳὅἳ, lἳΝtἷὄὄἳΝὂἷὄcὁὄὄἷ,Νl’ἳltὄἳ,ΝἶἷὀtὄὁΝcἳὅἳ, attende la propria ora di viaggio, finché non giunga.
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ἷὅὅi,ΝἳltiΝὀἷll’ἳὄiἳ33, sono agganciati34 a grande telaio35.
Nel poema di Parmenide troviamo invece di , come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la cὁὄὄἷὐiὁὀἷΝ ὀἷll’uὅὁΝ ἶἷll’ἳggἷttivὁΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ἷὅὅἷὄἷΝ ἶἷttἳtἳΝ ἶἳllἳΝ fiὀἳlitὡΝ ἶἷlΝ poἷmἳΝ fiὅicὁΝ ἶἷll’ἓlἷἳtἷμΝ lἳΝ cὁllὁcἳὐiὁὀἷΝ ὀἷllἷΝ viὅcἷὄἷΝ ἶἷllἳΝ tἷὄὄἳΝ ἳvὄἷἴἴἷΝ consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo μ come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte. 33 δ’ἳggἷttivὁΝ si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarὠὀ,Ν ἡ’ἐὄiἷὀ)Ν ὂὄivilἷgiἳὀὁΝ ilΝ vἳlὁὄἷΝ mἳtἷὄiἳlἷΝἶἷll’ἳggἷttivὁ,ΝἶuὀὃuἷΝlἳΝὀἳtuὄἳΝἷtἷὄἷἳΝἶἷllἳΝὂὁὄtἳμΝèΝvἷὄὁΝὂἷὄάΝchἷΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ mἳὄcἳΝ chἷΝ ἷὅὅἳΝ èΝ ἶiΝ ὂiἷtὄἳέΝ ἢὄὁὂὄiὁΝ cὁὀΝ l’iὀcὄὁciὁΝ lἷὅὅicἳlἷΝ ἶiΝ pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene che l'espressione potrebbe essere ripresa sintetica del verso esiodeo: ῖ Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di («soglia di pietra») in relazione a , quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a μ μ («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a μ («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio ( μ ). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto.
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Dike36, che molto castiga37, ne38 ἶἷtiἷὀἷΝ lἷΝ chiἳviΝ ἶἳll’uὅὁΝ ἳlterno39. [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35
Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine , che è plurale tantum usato anche come variante di («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni ἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶiΝὀἳtuὄἳΝἷΝὅὁciἷtὡΝ(ἶἷiΝcὁὀfiὀiΝtὄἳΝὂἳὄtiΝἷΝgὄuὂὂi)μΝiὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁΝ sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa cὁὄὄἷttἳmἷὀtἷΝὅἷgὀἳlἳΝ(ὂέΝ1ηἆ),Νl’ὁὄἶiὀἷΝcuiΝὅὁvὄiὀtἷὀἶἷΝla Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ Díkh è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di , che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale riferito (come il pronome , nella stessa posizione del verso precedente) a . 39 δ’ἳggἷttivὁΝ μ ϐ – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe ὄifἷὄiὄὅiΝ ἳlΝ fἳttὁΝ chἷΝ lἷΝ chiἳviΝ cὁὀὅἷὀtὁὀὁΝ l’ἳὂἷὄtuὄἳΝ ἳltἷὄὀἳtἳΝ ἶἷllἳΝ ὂὁὄtἳΝ (ἑὁxὁὀ,Ν ὂέΝ 1ἄἂ)Ν ὁvvἷὄὁΝ ἳlΝ lὁὄὁΝ uὅὁΝ cὁmὂlἷmἷὀtἳὄἷΝ (ἡ’ἐὄien, p. 11). Nel cὁὀtἷὅtὁΝèΝὂὄὁἴἳἴilἷΝ chἷΝilΝὄifἷὄimἷὀtὁΝὅiἳΝἳll’ἳltἷὄὀἳὀὐἳΝἶiΝἠὁttἷΝ ἷΝἕiὁὄὀὁμΝ Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo μ ( μ ) ha un valore simile al successivo , ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse
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[la] persuasero 41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai battenti 42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la scelta del complemento μ ῖ , per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale ἳlΝ vέΝ 11,Ν hἳΝ ὃuiΝ ilΝ ὅuὁΝ ἷffἷttivὁΝ iὀiὐiὁ,Ν ὅἷgὀἳlἳtὁΝ ἶἳll’uὅὁΝ ἶἷlΝ ὂὄimὁΝ ἳὁὄiὅtὁΝ ( al v. 2 era stato utilizὐἳtὁΝ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶiΝ uὀἳΝ ὅuἴὁὄἶiὀἳtἳ),Ν cuiΝ seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione ἶἷlΝ“ὄitὁὄὀὁ”,ΝcuiΝὅὁὀὁΝὅtἳtiΝἶἷἶicἳtiΝiΝvἷὄὅiΝiὀiὐiἳliΝἶἷl proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome si riferisce a . 44 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ΄ sembra evocare il μ μ esiodeo (in entrambi i casi μ è in relazione con il genitivo ), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si abbia l’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝchἷΝlἳΝὂὁὄtἳΝἶiΝcuiΝὂἳὄlἳΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὅiἳΝlἳΝὂὁὄtἳΝἶiΝἳccἷὅὅὁΝἳllἳΝ casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammaticἳΝ ἶἷll’immἳgiὀἷ,Ν chἷΝ ὅiΝ fὄἳὂὂὁὀἷ,Ν cὁὀΝ lἳΝ ὅὁgliἳΝ ὂἷtὄigὀἳ,Ν tὄἳΝ lἳΝ ὃuὁtiἶiἳὀἳΝἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝmὁὄtἳlἷΝἶἷlΝviἳggiἳtὁὄἷΝἷΝl’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝlἳΝἶiviὀitὡέΝχΝ rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine μ non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 χΝ ὅtὄuttuὄἳΝ ἷΝ ἶiὀἳmicἳΝ ἶἷllἳΝ “ὂὁὄtἳ”Ν ἶἷἶicἳὀὁΝ ὅὂἳὐiὁΝ iΝ cὁmmἷὀtiΝ ἶiΝ DiἷlὅΝ ἷΝ Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca ΄ , costruita con la particella avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]».
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dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano L'aggettivo (qui in forma sostantivata) μ , comunemente associato a , indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guiἶἳ,Ν ὅὁllἷcitἳ,Ν ἷὅὂὁὀἷ,Ν ὂὄὁiἴiὅcἷΝ ἷccέέΝ ἢἷὄΝ l'iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳὀὁὀimἳΝ ἶiviὀitὡ,Ν tὄἳΝ lἷΝ ὂὄὁὂὁὅtἷΝ ἶἷgliΝ ultimiΝ ἶἷcἷὀὀiΝ èΝ iὀtἷὄἷὅὅἳὀtἷΝ l’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la alluderebbe a (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“δἳΝ di Parmenide”,Ν«La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a μ , ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella tradizione epicἳ,Νl’uὅὁΝἶiΝ senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana ἶἷlΝὂὁὄtἳlἷ,Νl’uὀicἳΝἶiviὀitὡΝὀὁmiὀἳtἳΝèΝἳὂὂuὀtὁΝ . Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su , giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan-
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destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea μ (il Giorno), da Parmenide evocata come μ . A , invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine all'interno del proemio di un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come ; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa μ subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da «custodi» ( ) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo greco èΝἳll’imὂἷὄfἷttὁ,Ν cὁmἷΝ ilΝὅuccἷὅὅivὁΝ μ (v. ἀἄμΝ«ὅὂiὀgἷvἳ»)μΝiΝvἷὄἴiΝchἷΝἷὅὂὄimὁὀὁΝl’iἶἷἳΝἶiΝuὀΝὁὄἶiὀἷΝὁΝἶiΝuὀἳΝmiὅὅiὁὀἷΝ ὅὁὀὁΝ imὂiἷgἳtiΝ ἳll’imὂἷὄfἷttὁΝ ὂἷὄchὧΝ imὂlicἳὀὁΝ uὀὁΝ ὅfὁὄὐὁΝ ἷΝ iὀἶicἳὀὁΝ ilΝ punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (ἡ’ἐὄiἷὀ,ΝὂέΝἆ)μΝlἳΝfὁὄmἳΝἷὂicἳΝ , in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine vocativo non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli interlocutori. Il termine (forma epica e ionica di ), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto ἳll’ἳὀὐiἳὀὁ,Ν ὅiἳΝ ilΝ figliὁ,Ν ὅiἳΝ ilΝ ὄἳgἳὐὐὁΝ cὁὀtὄἳὂὂὁὅtὁΝ ἳllἳΝ ὄἳgἳὐὐἳέΝ ἓὅὅὁΝ ὂuά implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che o erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fἳΝ ὀὁtἳὄἷΝ cὁmἷΝ l’ἳὂὂἷllἳtivὁΝ ὅiἳΝ cὁἷὄἷὀtἷΝ cὁὀΝ ilΝ cὁὀtἷὅtὁΝ ἷἶucἳtivὁ,Ν giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo a , come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il termine non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio
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[25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini57), ma Temi 58 e Dike 59 . Ora 60 è necessario 61 che tutto 62 tu 63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del in questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come . Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – - e del poeta . 53 Il sostantivo maschile designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione μ («la nostra casa») richiamerebbe μ N («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da identificare appunto con . 55 In ἓὅiὁἶὁΝ ἳἴἴiἳmὁΝ tὄἷΝ εὁiὄἷ,Ν figliἷΝ ἶiΝ ZἷuὅΝ ἷΝ ἦἷmiέΝ δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ ῖ ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, ἷὅὅἳΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ἳlluἶἷὄἷΝ ἳΝ uὀΝ luὁgὁΝ ὂὄἷciὅὁΝ ἶἷll’iὀcὁὀtὄὁΝ cὁὀΝ lἳΝ ἶiviὀitὡμΝ l’ὁltὄἷtὁmἴἳέΝ ἙὀΝ ὃuἷὅtὁΝ ὅἷὀὅὁΝ ἑἷὄὄiΝ e Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione ΄ sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del : a partire dalla prima evocazione (vv. 2-3) della μ μ , il tema della strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio uὀ’ἷcὁΝἶἷlΝὂὄἷcἷttὁΝὂitἳgὁὄicὁΝcὁὀὅἷὄvἳtὁΝἶἳΝἢὁὄfiὄiὁΝ(ἷΝὅὁὂὄἳΝcitἳtὁΝὂὄὁὂὄiὁΝ in relazione alla μ μ dei vv. 2-3): μ («non percorrere le strade popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» ( μ ). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere ὂὄὁὂὁὅtὁΝἳΝgἳὄἳὀὐiἳΝ ἶἷllἳΝ ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝἶἷll’ἷvἷὀtὁΝὄivἷlἳtivὁέΝ ἙlΝὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳΝ ἦἷmiΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ giuὅtificἳὄἷΝ l’iὀtἷὄvἷὀtὁΝ ἶἷllἷΝ ἓliἳἶiΝ ὂὄἷὅὅὁΝ DikἷΝ ὂἷὄΝ persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere
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sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento ὂὄὁiἷttἳΝἷΝimὂὁὀἷΝὅullἳΝὅuccἷὅὅivἳΝ“ὄivἷlἳὐiὁὀἷ”ΝuὀἳΝfὁὄtἷΝimὂὄὁὀtἳΝἶ’ὁὄἶiὀἷΝ e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella . Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine è associato nell'epica a , che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente , che, preso il posto di , finì per diventare un sinonimo di (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere ἳὀchἷΝ cὁὀΝ «èΝ giuὅtὁ»,Ν «èΝ ὁὂὂὁὄtuὀὁ»έΝ ἙὀΝ ὁgὀiΝ mὁἶὁ,Ν l’uὅὁΝ ἶiΝ tἳlἷΝ fὁὄmula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come ). 62 La scelta del pronome neutro plurale («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo μ ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἷΝ l’ἳggἷttivὁΝ non significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come
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etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ῖ verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero e compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani (" in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di sarebbe infatti il riferimento a chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva sottolineare:
μ
Ἕ
μ
la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio:
Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente indicazione , rispettivamente le formule e μ (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀ , in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica.
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È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di , se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» ( ) non vi sia «vera credibilità» ( ): con una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» ( ) «persuasiva [credibile]» ( ) a una «vera» ( ) «credibilità» ( ). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» ( ) sia «sentiero di Persuasione» ( ), in quanto «a Verità si accompagna» ( ῖ). In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): μ μ Ἀ A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra e , che in B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione è che il significato antico dell'aggettivo – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il sostantivo era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di μ , ὂἷὄΝ vἷicὁlἳὄἷΝ l’iἶἷἳΝ ἶiΝ uὀ’ἳttivitὡΝ iὀtἷllἷttuἳlἷΝ ἷmὁtivἳmἷὀtἷΝ tὁὀἳliὐὐἳtἳέΝ ἙὀΝ Omero il termine (insieme a ), come μ , sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di correlare Ἀ a , lἳΝ vἷὄitὡΝ ἳll’uὁmὁΝ chἷΝ lἳΝ ἶἷvἷΝ conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica è piuttosto
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[30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibilità . 70
connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da ἢἳὄmἷὀiἶἷ,Ν mἳΝ ἳὀchἷΝ lἳΝ ὂἳὄtἷΝ ἷὅὅἷὀὐiἳlἷΝ ἶἷll’uὁmὁμΝ iὀΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳlΝ ἦuttὁ,Ν lἳΝ «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo μ (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula μ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato tra i μ in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, ὅiἳΝὅullἳΝ ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝtὄἳΝ «l’uὁmὁΝ chἷΝὅἳ»Ν( , v. 3) e «i mortali che nulla sanno» ( B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – – che, a differenza del mero manifestarsi ( ) e di una passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. ἥigὀificἳtivὁΝl’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝἳΝἓὄἳclitὁμ μ
Ἕ
μ
ῖ
non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di : indicherebbe a un tempo l’ὁὂiὀiὁὀἷΝchἷΝἳἴἴiἳmὁΝ circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o
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Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle , ma alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ΄ μ - composta da congiunzione avversativa ( ) e avverbio ( μ ) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di μ (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ΄ μ sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il pronome (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ). La prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μ ) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come ὀὁtἳΝἑἷὄὄi,Νὀἷll’uὅὁΝcὁὄὄἷttὁΝgὄἷcὁ,ΝὂἷὄΝἳὀticiὂἳὄἷΝὃuἳὀtὁΝὅἷguἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝὅtἳtὁΝ più naturale ; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» ( ), i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», ) intende riscattare: , quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel chἷΝ ὂὄἷcἷἶἷ,Ν ὂὄἷciὅἳὀἶὁὀἷΝ ilΝ ὅἷὀὅὁ,Ν ἷΝ iὀtὄὁἶucἷΝ l’ultimὁΝ ὂuὀtὁΝ ἶἷlΝ programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μ μ ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a μ ), ma anche di «comprendere, discernere».
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Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente μ : μ suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μ suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per , cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di , di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice dok-*,ΝmἳὄcἳΝl’ἳmἴiguitὡΝἶἷlΝvἳlὁὄἷΝἶiΝ : «le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose cὁὅtituiὅcὁὀὁΝ l'iἶἷὀtitὡΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ ἶἷll’ὁggἷttὁΝ ἶἷllἳΝ ἳccἷttἳὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ mὁὄtἳli. Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula ,Ν «l’ἷὅὅἷὄἷΝ apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a ,Ν «l’ἷὅὅἷὄἷΝ iὀΝ ὅἷὀὅὁΝ ὂiἷὀὁ,Ν ἳὅὅὁluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di ( ) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di a e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra e μ . La specificità di rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con («considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire.
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era necessario 75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78.
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δ’imὂἷὄfἷttὁΝ ὅἷguitὁΝ ἶἳll’iὀfiὀitὁΝ ὂuάΝ iὀἶicἳὄἷΝ uὀΝ tἷmὂὁΝ ὄἷἳlἷΝ ἶἷlΝ ὂἳὅὅἳtὁΝ (ὂἷὀὅἳὀἶὁΝ ὅὁὂὄἳttuttὁΝ ἳll’ὁὄigiὀἷΝ ἶἷllἷΝ ἷὄὄὁὀἷἷΝ ὁὂiὀiὁὀiΝ mὁὄtἳliΝ ἷΝ all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di μ rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». δ’ἳvvἷὄἴiὁΝ μ èΝ ὃuiΝ uὅἳtὁΝ cὁmἷΝ cὁmὂlἷmἷὀtὁΝ ἶἷll’iὀfiὀitὁΝ : il predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così ἳὅὅumἷὄἷΝἳlΝvἷὄἴὁΝ«ἷὅὅἷὄἷ»ΝilΝὅuὁΝvἳlὁὄἷΝὂiἷὀὁΝἶiΝἷὅiὅtἷὀὐἳέΝδ’ἳvvἷὄἴiὁΝὂuάΝ tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), ὅiἳΝ cὁὀΝ «ὄἷἳlmἷὀtἷ,Ν gἷὀuiὀἳmἷὀtἷ»Ν (ὅἷcὁὀἶὁΝ l’uὅὁΝ ἷὅchilἷὁ)έΝ ἤἷὀἶἷὀἶὁΝ l’imὂἷὄfἷttὁΝ ( ) come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco ἷὅὂὄἷὅὅivὁ,ΝἶἷlΝtiὂὁΝὄiὀtὄἳcciἳἴilἷΝὀἷiΝfὄἳmmἷὀtiΝἶiΝἓὄἳclitὁΝ(ἡ’ἐὄiἷὀ,ΝὂὂέΝ1ἁ4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: μ Ἕ ἡἡἡ (anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni].
Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra e μ comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. μ deriva da μ («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo μ conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels ( μ ( ) ), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di
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μ ( ) sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them together),Ν ὁvvἷὄὁΝ «tuttἷΝ [lἷΝ cὁὅἷ]Ν cὁὀtiὀuἳmἷὀtἷ»έΝ ἥullἳΝ ὅcὁὄtἳΝ ἶἷll’uὅὁΝ platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni ( e ) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo come participio e non come sostantivo (mἳὀcἳ,Ν iὀΝ ἷffἷtti,Ν l’ἳὄticὁlὁΝ ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi iὁὀiciΝ l’ὁggἷttὁΝ ἶἷllἳΝ ὄicἷὄcἳ,Ν lἳΝ ὄἷἳltὡΝ ὂἷὄmἳnente del mondo (Brague, pp. 61-2).
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DK B2 ΄
΄
,
μ
μ
μ
μ ΄
,
μ
2 3
[5]
1
-Ἀ
4 5 6
μ
·
μμ -
μ
, ῖ -, , ·
7
8
-
Coxon, invece di ΄ (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici ΄ , («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal ὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝὂἳlἷὁgὄἳficὁ,ΝmἳΝvἳlὁὄiὐὐἳΝἳὀchἷΝl’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝ - , che nel testo pare significativa. La forma riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il di supplisce il digamma iniziale di . 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva . Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare . Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di con efelcistico davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano : è proposta degli editori. 5 La formula è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo , nel senso di (Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano e ; quelli di Simplicio , forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma ionica dell'attico (da ). 8 I codici di Proclo riportano («che si può raggiungere», da μ ), quelli di Simplicio . La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua
1
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·
[vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5]
plausibilità, ma la forma («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di è prossimo a quello di : «risultato che non si può raggiungere».
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Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata 5
La formula ΄ per «orsù» è ampiameὀtἷΝ ἳttἷὅtἳtἳΝ ὀἷll’ἷὂicἳ,Ν ἳὀchἷΝ iὀΝ relazione al pronome (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale «tu» ( ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imὂἷὄἳtivὁΝἳὁὄiὅtὁΝ μ è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4 Il termine greco è μ , che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo ὂὄὁgὄἷὅὅivἳmἷὀtἷ,Ν ὀἷll’uὅὁΝ ὂὁὅt-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-1ἆ)Ν ἶiὅtiὀguἷΝ tὄἳΝ l’uὅὁΝ ἶiΝ per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μ , che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129:
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quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9: Ἕ μ Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. Il valore di μ è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μ dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa uὀ’iὀἶἳgiὀἷΝ ὂἷὄΝ giuὀgἷὄἷΝ ἳllἳΝ vἷὄitὡμΝ ἷὅὅὁΝ ὂuάΝ ὅuggἷὄiὄἷΝ ἳὀchἷΝ l’iἶἷἳΝ ἶiΝ «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1)Ν uὀἳΝ cὁὀvἷὄgἷὀὐἳΝ tὄἳΝ l’illuὅtὄἳὐiὁὀἷΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷἳΝ ἶἷlΝ mἷtὁἶὁΝ ὂἷὄΝ giuὀgἷὄἷΝ ἳllἳΝ cὁὀὁὅcἷὀὐἳΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ – inteso come via che cὁὀἶucἷΝ ὁltὄἷΝ l’ἳmἴitὁΝ ὅἷὀὅiἴilἷΝ iὀΝ uὀΝ ἳmἴitὁΝ mἷtἳfiὅicὁΝ - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 ἑὁxὁὀΝ (ὂέΝ 1ἅἁ)Ν ὁὅὅἷὄvἳΝ cὁmἷΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-ἐἆ)Νl’ἷὅὅἷὄἷΝ( ), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà ( ): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo μ , corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa chἷΝ ὀὁὀΝèΝmἳὀifἷὅtὁΝὁΝἳccἷὅὅiἴilἷΝfiὀΝἶἳll’iὀiὐiὁέΝἥἷcὁὀἶὁΝἑhiἳὄἳΝἤὁἴἴiἳὀὁΝ (op. cit.,ΝὂέΝ1ἀη)ΝilΝtἷὄmiὀἷΝὅuggἷὄiὅcἷΝἳὀchἷΝl’ἳttivἳΝὂἳὄtἷciὂἳὐiὁὀἷΝὄichiἷὅtἳΝ ὂἷὄΝl’iὀἶἳgiὀἷΝὅtἷὅὅἳέ 9 ἑὁmἷΝὂuὀtuἳlmἷὀtἷΝὄilἷvἳΝἑὁὄἶἷὄὁΝ(ὂέΝἂί),Νl’iὀfiὀitὁΝἳὁὄiὅtὁΝ ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo 6
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l’uὀἳ10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative ( , ), che possono corrispondere alla attività ἶiΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝ («l’uὀἳΝ ὂἷὄΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝ chἷΝ …»,Ν «l’ἳltὄἳΝ ὂἷὄΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝ chἷΝ …»)έΝ ῄΝ possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: («ἶὁvἷΝ ciΝ ὅiἳΝ ὂἳὅὅἳggiὁΝ ὂἷὄΝ cὁὀὁὅcἷὄἷ»)έΝ ἡ’ἐὄiἷὀΝ (ὂὂέΝ 153-4) fa dipendere invece da μ ὁvvἷὄὁΝ ἶἳll’uὀitὡΝ ὅiὀtἳtticἳΝ μ + : «Je dirai quἷllἷὅΝὅὁὀtΝlἷὅΝvὁiἷὅΝἶἷΝὄἷcἷὄchἷ,ΝlἷὅΝὅἷulὅΝξὃu’ὁὀΝ ait> à concevoir». La Robbiano (op. cit.,Ν ὂέΝ ἆἀ)Ν vἳlὁὄiὐὐἳΝ l’ἳmἴiguitὡΝ ὀἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷ,Ν ἷΝ ὂὄὁὂὁὀἷ,Ν ἶiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἳ,Ν ἶiΝ ἳccἷttἳὄἷΝ contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa dellἷΝviἷΝl’ὁggἷttὁΝ del ῖ (da pensare) e quella che fa del ῖ la meta delle vie (per ὂἷὀὅἳὄἷ)έΝἑὁὀtὄὁΝlἳΝὄἷὅἳΝἳttivἳΝἷΝfiὀἳlἷΝἶἷll’iὀfiὀitὁΝlἷΝὁὅὅἷὄvἳὐiὁὀiΝἶiΝἥἷllmἷὄΝ (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-1ἀ),ΝiὀΝὂἳὄticὁlἳὄἷΝilΝὂὄὁἴlἷmἳΝἶἷll’imὂὄἳticἳἴilitὡΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳΝὂἷὄΝilΝ pensiero. Contro la lettura potenziale di Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso ῖ genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a ( , B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di ῖ e derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10 δ’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝἶἷllἷΝ«uὀichἷΝviἷ»ΝèΝiὀtὄὁἶὁttἳΝ(vέΝἁΝἷΝvέΝη)ΝἶἳllἳΝfὁὄmulἳΝ μ : si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto e il successivo congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso, suggeriamo la possibilità di
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di Persuasione 15 è il percorso16 (a Verità 17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’uὀἳμΝèΝἷΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ»Ν(ἳὀἳlὁgἳmἷὀtἷΝ ilΝvέΝημΝ«l’ἳltὄἳμΝὀὁὀΝèΝἷἶΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ»)έ δ’uὅὁΝἶiΝ e per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: sarebbe, infatti, preferito a quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, \ , con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – - del presente di , «essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán ὅcἷgliἷΝἶiΝὄἷὀἶἷὄlἳΝcὁὀΝ«ἷxiὅtὅ»,ΝἑὁὀchἷΝcὁὀΝ«ilΝyΝἳ»,ΝὂἷὄΝὅὁttὁliὀἷἳὄἷΝl’iἶἷἳΝ di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. ἑὁxὁὀΝ ὄicὁὄἶἳΝ chἷΝ l’ὁmiὅὅiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ὂὄὁὀὁmἷΝ iὀἶἷfiὀitὁΝ cὁmἷΝ ὅὁggἷttὁΝ ὅiἳΝ ἳmὂiἳmἷὀtἷΝἶiffuὅἳΝὀἷll’ἷὂicἳΝἷΝὀἷlΝgὄἷcὁΝὂὁὅtἷὄiὁὄἷΝ(ὂέΝ1ἅη)έ 13 Letteralmente μ si potrebbe rendere come «che non [c’]èήἷὅiὅtἷΝ ὀὁὀΝ ἷὅὅἷὄἷ»,Ν ὁvvἷὄὁ,Ν ὅὁὅtἳὀtivἳὀἶὁ il μ finale, «che il non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente μ : «che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’ἷmiὅtichiὁΝηἴΝ(ἶὁvἷΝlἳΝtὄἳἶuὐiὁὀἷΝ«èΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝchἷ…ΝἳὂὂἳὄἷΝὂiὶΝὀἳtuὄἳlἷ),Ν optiamo per attribuire a valore potenziale e considerare μ come infinitiva: «che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioὀiΝlὁgichἷ,ΝὂἷὄΝlἷΝὃuἳliΝèΝmὁltὁΝluciἶἳΝl’ἳὀἳliὅiΝἶiΝ Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di ἘἷitὅchμΝ«DἷὄΝἷiὀἷ,Ν(ἶἷὄΝἶἳΝlἳutἷt)Ν“ἷὅΝ iὅt,Ν uὀἶΝ ἥἷiὀΝ iὅtΝ ὀὁtwἷὀἶig”»έΝ ἔὄèὄἷΝ (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le ὂὄἷmiἷὄΝchἷmiὀΝὧὀὁὀὦἳὀtμΝἷὅt,ΝἷtΝἳuὅὅiμΝilΝὀ’ἷὅtΝὂἳὅΝὂὁὅὅiἴlἷΝἶἷΝὀἷΝὂἳὅΝêtὄἷ»έ 15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra eἈ : nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica
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[η]Νl’ἳltὄἳμΝ[chἷ]ΝὀὁὀΝèΝἷΝ[chἷ]ΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁ18 non essere19. Proprio20 questa ti dichiaro 21 essere sentiero 22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine viene da Coxon distinto da come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μ , e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema (e μ ) significhino «reale» e «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μ (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di non sarà il falso, indicato da o , ma l'assenza di , la mancata manifestazione della realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 ἑὁllἷghiἳmὁ,ΝcὁmἷΝἳὂὂἳὄἷΝὀἳtuὄἳlἷ,Νl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝgὄἷcἳΝ al verbo , traducendo con «è necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), può stare da solo, inteso come un participio ( ), che, preceduto da , assume valore avverbiale: potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come (Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione [ ] con il significato di («è necessario»). 19 Considerato μ come infinito sostantivato e interpretato avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «DἷὄΝἳὀἶἷὄἷ,Ν(ἶἷὄΝἶἳΝlἳutἷt)Ν“ἷὅΝiὅtΝὀicht,ΝuὀἶΝἠicht-Sein ist ὀὁtwἷὀἶig”»νΝἔὄèὄἷΝ(J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «δ’ἳutὄἷΝ chἷmiὀΝ ὧὀὁὀὦἳὀtμΝ ὀ’ἷὅtΝ ὂἳὅ,Ν ἷtΝ ἳuὅὅiμΝ ilΝ ἷὅtΝ ὀὧcἷὅὅἳiὄἷΝ ἶἷΝ ὀἷΝ ὂἳὅΝ être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella , che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una
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poiché non potresti conoscere ciò che non è 24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo 26. transizione nel discorso della Dea. In effetti, è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo , che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine è contrapposto a e , impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava ΄ μ «lungo la via maestra», in questo passaggio, ἳccἷὀὀἳὀἶὁΝἳllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳ,ΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὄicὁὄὄἷΝἳΝuὀ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝchἷΝvἷicὁlἳΝ l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 δ’ἳggἷttivὁΝ può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un , come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta «inventata» da coloro che sono apostrofati come ); di essa si afferma che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «ὀὁὀΝ è»,Ν cὁmἷΝ mἳὀifἷὅtἳtὁΝ iὀΝ ἐἄέἀΝ ἶἳll’uὅὁΝ ἶἷlΝ ὂὄὁὀὁmἷΝ iὀἶἷfiὀitὁΝ μ (nulla). In effetti l'espressione μ è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25 δ’ἳggἷttivὁΝ vἷὄἴἳlἷΝ è attestato in Simplicio: con la precedente negazione ( ), il valore – da («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di sia prossimo a quello del termine μ : esprime una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione di con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i μ ἶἷll’ in B8.
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Mourelatos (p. 76) segnala che èΝimὂiἷgἳtὁΝὀἷll’Odissea ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere , restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne».
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DK B3 ...
ῖ
1
.
[Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1
Il codice di Clemente riporta ; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, e . è correzione degli editori.
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La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1
Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da (non ) con valore potenziale (analogamente a B2.3: ), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing cἳὀΝἴἷΝthὁughtΝἳὀἶΝcἳὀΝἷxiὅt»έΝχὀchἷΝὂἷὄΝἡ’ἐὄiἷὀΝ(ὂὂέΝ1λ-20) i due infiniti sono complementi del pronome ( ) ὁΝ ἶἷll’uὀitὡΝ ὅiὀtἳtticἳΝ ὂὄὁὀὁmἷvἷὄἴὁέΝ ἣuἷὅt’uὅὁΝ cὁmὂlἷtivὁΝ ἶἷll’iὀfiὀitὁΝ ( ῖ ) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti ( ) diventi oggetto ἶἷll’ἳltὄὁΝ ( ῖ ), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto ῖ e non ῖ . D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝὅἷguἷὀἶὁΝ Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con predicato, ῖ e ὅὁggἷttiΝἶἷllἳΝfὄἳὅἷέΝἧὀ’ἳltἷὄὀἳtivἳΝὅἷὀὅἳtἳ,ΝchἷΝtiἷὀἷΝ conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ΄
ῖ
[35]
, ῖ
ᾧ
μ
μ . ,
è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta ῖ assumerebbe il significato specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a ῖ (e ) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, vὁὀΝ ἔὄitὐΝ (KέΝ vὁὀΝ ἔὄitὐ,Ν “ , ῖ and Their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the ἐἷgiὀὀiὀgὅΝ tὁΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷὅ”,Ν «ἑlἳὅὅicἳlΝ ἢhilὁlὁgy»Ν ἂί,Ν 1λἂη,Ν ὂὂέΝ ἀἀἁ-242) osserva come ῖ in Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda ῖ come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che
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«attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: μ · [B2.7-8]
-
ῖ
< ῖ >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!.
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DK B4 ΄ μ μ μ μ
ϐ
1
·
2
μ .
[vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano μ («ugualmente») in vece di μ . Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano μ , quelli di Damascio μ : μ sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano μ in μ , la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio ( μ ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico.
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Considera 1 come cose assenti 2 siano comunque 3 al pensiero 4 saldamente5 presenti6; 1
Il verbo è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per cὁmὂὄἷὀἶἷὄἷΝilΝὂὄἷὅἷὀtἷμΝcἳὂἳcitὡΝἳὅὅὁciἳtἳΝἳllἳΝmἳtuὄitὡΝἶἷll’ἳὀὐiἳὀὁ,ΝἳlΝὅuὁΝ discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guἳὄἶἳ»έΝ ἓtimὁlὁgicἳmἷὀtἷ,Ν ἶ’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷ,Ν ilΝ vἷὄἴὁΝ ἶἷὄivἳΝ ἶἳll’ἳggἷttivὁΝ , che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunquἷ,Ν l’iἶἷἳΝ ἶiΝ chiἳὄἷὐὐἳ,Ν lumiὀὁὅitὡ,Ν tὄἳὅὂἳὄἷὀὐἳ,Ν cὁmἷΝ ὀἷll’itἳliἳὀὁΝ «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo μ , come il successivo μ , ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza ( μ la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione μ : nelle varie versioni, il suo valore ὁὅcillἳΝtὄἳΝl’ἳvvἷὄὅἳtivὁΝἷΝilΝcὁὀcἷὅὅivὁ,ΝὅἷcὁὀἶὁΝiΝcὁὀtἷὅtiέΝDἳlΝmὁmἷὀtὁΝchἷΝ è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a , Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a l ῦ , nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a , sottolineando come il nesso dipenda dalla viὅiὁὀἷΝ ἶἷll’iὀtἷlligἷὀὐἳμΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ῖ avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 δ’ἳvvἷὄἴiὁΝ ϐ (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, cὁmἷΝ ὅuggἷὄiὅcἷΝ ἑὁxὁὀΝ (ὂέΝ 1ἆἆ)μΝ «gἳὐἷΝ ὅtἷἳἶilyΝ withΝ yὁuὄΝ miὀἶ…»έΝ δὁΝ studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: Ἕμ μμ Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. δἳΝ cὁllὁcἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳvvἷὄἴiὁΝ fἳΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝ tuttἳviἳΝ ἳΝ uὀΝ ὄἳὂὂὁὄtὁΝ ὅtὄἷttὁΝ cὁὀ , di cuiΝἷὅὂὄimἷὄἷἴἴἷΝilΝmὁἶὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷ,ΝlἳΝὅὁliἶitὡ,ΝlἳΝὂἷὄmἳὀἷὀὐἳέΝ δ’ἳvvἷὄἴiὁΝ vἷicὁlἳΝ iὀfἳttiΝ l’iἶἷἳΝ ἶiΝ ὅtἳἴilitὡ,Ν mἳΝ ἳὀchἷΝ ὃuἷllἳΝ ἶiΝ cὁὅtἳὀὐἳΝ ἷΝ lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con μ
117
non impedirai7, infatti,ΝchἷΝl’ἷὅὅἷὄἷ8 ὅiἳΝcὁὀὀἷὅὅὁΝἳll’ἷὅὅἷὄἷ, (B1.29): ϐ ἷὅὂὄimἷὄἷἴἴἷΝ l’ἳttituἶiὀἷΝ ἶἷll’uὁmὁΝ chἷΝ ὄicἷὄcἳΝ ὅullἳΝ viἳΝ ἶἷllἳΝvἷὄitὡνΝuὀΝmὁἶὁΝἶiΝguἳὄἶἳὄἷ,ΝmἳΝἳὀchἷΝuὀΝmὁἶὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷέ 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (ὧ ΄ μ ϐ )Ν hἳΝ ὄichiἳmἳtὁΝ ἶiΝ ὄἷcἷὀtἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ἕὄἳhἳmΝ (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μ
μ
μ
μ
destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. La forma verbale μ può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della ὅἷcὁὀἶἳΝ ὂἷὄὅὁὀἳΝ ὅiὀgὁlἳὄἷΝ ἶἷll’iὀἶicἳtivὁΝ futuὄὁΝ mἷἶiὁμΝ «tuΝ ὀὁὀΝ imὂἷἶiὄἳi…»έΝ ἥἷcὁὀἶὁΝ ἢἳὅὅἳΝ (ὂὂέΝ ἁἂ-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema ( , «allontana» B7.2b; μ , «impara» B8.52; , «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ὂὄἷcἷἶutὁΝἶἳll’ἳὄticὁlὁ Ἑ )Ν cὁmἷΝ «l’ἷὅὅἷὄἷ»,Ν senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ mὁltὁΝ ὄἳὄἳmἷὀtἷΝ uὅἳΝ l’ἳὄticὁlὁΝ ο davanti al participio ; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata da : «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) ὄichiἳmάΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὅulΝ ἶuὂlicἷΝ valore di questo participio: nominale (ciò chἷΝ è)Ν ἷΝ vἷὄἴἳlἷΝ (l’ἓὅὅἷὄἷΝ ἶiΝ ciάΝ chἷΝ è),Ν ὂἷὄΝ ὅὁὅtἷὀἷὄἷΝ lἳΝ tἷὅiΝ chἷΝ giὡΝ cὁὀΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ lἳΝ filὁὅὁfiἳΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ὅcivὁlἳtἳΝ ὀἷll’ὁἴliὁΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ,Ν ὀὁὀΝ riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di . Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di riconosceὄὀἷΝ imὂlicitἳmἷὀtἷΝ l’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ cὁmἷΝ uὀicὁΝ ἷὀtἷ,Ν ὀἷgἳὀἶὁΝἶuὀὃuἷΝlἳΝὂluὄἳlitὡΝἶἷlΝmὁὀἶὁέΝἙlΝchἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝcὁὀtὄἳἶἶἷttὁΝἶἳll’uὅὁΝ frequente di plurali ( ) nella sezione sulla Ἀ (B4.1-2, B8.25, B8.47-ἆ)έΝδ’iἶἷὀtitὡΝὅἷmἳὀticἳΝ ἷΝ lἳΝὅiὀὁὀimiἳΝtὄἳΝ e sarebbe inoltre
7
118
né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che possa identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio μ Ἕ come il successivo μ , si riferisce a . 10 δἳΝ fuὀὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳvvἷὄἴiὁΝ (interamente, completamente) sarebbe, in cὁὀgiuὀὐiὁὀἷΝ cὁὀΝ l’ἳltὄὁΝ ἳvvἷὄἴiὁΝ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine μ assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non ἳltἷὄἳὄἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ «ὅἷcὁὀἶὁΝ l’ὁὄἶiὀἷΝ ἶἷllἷΝ cὁὅἷ»,Ν ἳttὄiἴuἷὀἶὁΝ ὃuindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando μ insieme alla forma avverbiale precedente ( ).
119
DK B5 μ 1
, μ ·
μ
.
[Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1
La forma
è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ἡ
120
Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1
ἐickὀἷllΝ (“ἢἳὄmἷὀiἶἷὅ,Ν DKΝ ἀἆΝ ἐη”,Ν «χὂἷiὄὁὀ»,Ν 1ἁ,Ν 1λἅλ,Ν ὂὂέΝ λ-11) ha proposto di tradurre come «a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per .
121
DK B6 ο1 μ
΄ ΄4
ῖ · ΄
΄ ΄
2
μμ
·
,
3
. 5 † ... † ,
1
I codici di Simplicio riportano unanimente ; nel 1835 Karsten congetturò invece ῖ , ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano , il codice F : ΄ è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è ΄ , secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): ΄ . Il codice E riporta: ; il codice F: . 4 Il codice D di Simplicio riporta ΄ (così come E e F); B e C, invece, ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 ( ΄ ΄ μ - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura Mourelatos: («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: («comincerai»). Congettura Nehamas: («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: μ
Ἀ
·
΄
μ
μ μ μ A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳ,Ν ἳὅcὁltἳὀἶὁΝ l’ὁὄἶiὀἷΝ ἶἷllἷΝ miἷΝ ὂἳὄὁlἷΝ chἷΝ ὂuάΝ ingannare. δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ«ὂὁὀgὁΝtἷὄmiὀἷ»ΝcὁὄὄiὅὂὁὀἶἷὄἷἴἴἷΝἳΝ«cὁmiὀcἷὄάΝ per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla
122
΄
, >6,
[5]
΄
. ;
μ
.
14
μ ΄ μ ·
.
μ ῖ · , . .
mentre sarebbe atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta μ («ἶἳΝciάΝchἷΝὀὁὀΝè»)μΝl’ἷmἷὀἶἳὐiὁὀἷΝ proposta da Karsten consente di concludere la dimostrazione cὁmἷΝὅiΝtὄἳttἳὅὅἷΝἶiΝἶilἷmmἳμΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὀὁὀΝὂuάΝἳvἷὄἷΝ ὁὄigiὀἷ dal non-essere (vέΝ ἅ),Ν ὀὧΝ ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ἶuὀὃuἷΝ èΝ ὅἷὀὐἳΝ ὁὄigiὀἷΝ ( ). La necessità ἶἷll’ἷmἷὀἶἳὐiὁὀἷΝ èΝ ἳὀἳliticἳmἷὀtἷΝ ὅὁὅtἷὀutἳΝ ἶἳΝ ἦἳὄὠὀΝ (ὂὂέΝ λη-102), ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione ΄ . 12 I codici DE di Simplicio riportano , generalmente accettato; il codice F rende («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come («potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi abbandonata. 13 La forma [ ] ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ΄ (EF) e ΄ (D). 14 Qui, in vece di (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) («incredibile»), in Fisica DE il testo corrotto .
138
μ 15
μ
μ , ,
΄ ΄
[30]
μ
μ μ ῖ
΄ [35]
ῖ
·μ
. 16
μ ,
· μ
΄
17
΄
,
ᾧ18
μ μ
ῖ Ἀ , · ῖ . μ . 19 μ
,
15
Cordero ha restituito sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano ( Ea). 16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ΄ μ ; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) μμ («identico, resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ·μ (30, 10, 40, 6 EaF) ovvero ·μ ἙἦἣἝ ἤἣἡ 40, 6 DE); ·μ (146, 6 EF) o ·μ ἙἤἧἩἝ Ἡ ἷ). Da un punto di vista metrico, ·μ non regge; d'altra parte non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve – ὂἷὄΝl’ἳἶὁὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝὅὁluὐiὁὀἷΝ , accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μ , conservando la forma epica . Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all' ῖ parlato la sinizesi , «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ·μ . 18 I manoscritti di Simplicio riportano ᾧ, quelli di Proclo ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano μ , privilegiato dagli editori; altri manoscritti di
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ῖ ·
ῖ ΄ ΄ μ΄
, 21
΄ μ
20
·
22
23
,
, [40]
,
,
Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece μ («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta («nemmeno se il tempo esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk («né esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: < > [+ ]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno ὅfὁὄὐὁΝἶiΝἳttἷὀtἳΝtὄἳὅcὄiὐiὁὀἷΝἶἷll’ὁὄigiὀἳlἷ,ΝmἷὀtὄἷΝl’ἳltὄἳΝlἷὐiὁὀἷΝ(Phys. 86, ἁ1)Ν hἳΝ ὂiὶΝ l’ἳὄiἳΝ ἶiΝ uὀἳΝ liἴἷὄἳΝ ὂἳὄἳfὄἳὅiέΝ δἷΝ ἶifficὁltὡΝ ἶiΝ ὃuἷὅtὁΝ ὂἳὅὅἳggiὁΝ potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano (D ); l'Anonimo (In Theaet.) («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto («come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano ΄ μ (Phys. 146, 11) ovvero ΄ μμ (Phys. 87, 1 EF; D ΄ μμ ); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) ; l'Anonimo . 23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) ΄ μ΄ (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) ΄ μ (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: μ ( ) . Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione.
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μ ϐ ῖ
μ
,
,
,
μ [45]
·
μ , 29
μ ῖ 24
25
μ
.
μ
΄
,
27
΄
μ
. ῖ
26
28
, , μ
· 30
.
[Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24
Si veda l'annotazione a , v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma , sia la forma (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di . Manteniamo dunque la forma , consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula ... , ricorrendo ora a ora a . 25 La lezione dei codici di Simplicio è (ovvero )μΝl’ἷἶiὐiὁὀἷΝ aldina emendò in , per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ (= ),ΝfὁὄmἳΝὄἳὄἳΝἶἷll’iὀἶἷfiὀitὁέ 26 La forma ῖ è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece ῖ . 27 Il testo dei codici di Simplicio è , emendato da Karsten in ΄ . 28 La forma è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano ; l'edizione aldina . 29 La lettura (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso ἶἷll’ultimὁΝὅἷcὁlὁ,ΝἳΝὂἳὄtiὄἷΝ ἶἳllἳΝὂὄὁὂὁὅtἳΝἶiΝDiἷls, il quale però intendeva come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano (articolo determinativo ovvero dimostrativo),Ν ἷmἷὀἶἳtὁΝ ὀἷll’ἷἶiὐiὁὀἷΝ aldina come (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti ῖ (EF), ovvero ῖ (D): è emendazione degli editori.
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Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1
Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μ ΄ μ ῖ accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, έΝ ἥἷἴἴἷὀἷΝ chiἳὄἳmἷὀtἷΝ l’ἳggἷttivὁΝ
mónoj si riferisca a μ , molti traduttori di fatto lo applicano a ῖ Ἥ «One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μ ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-1ἆ)ΝὅὁttὁliὀἷἳΝὀἷll’uὅὁΝ ἶiΝmythos il valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ῖ è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μ , di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende uὀἳΝ ὅuἳΝ iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝ “ὂἳὄtitivἳ”Ν («ἶiΝ viἳ,Ν ὄἷὅtἳΝ ὅὁltἳὀtὁΝ uὀἳΝ ὂἳὄὁlἳ»),Ν riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra μ ΄ e il successivo (v. 55) μ ΄ («posero segni»): alla convenzionalità ἶἷll’imὂὁὅiὐiὁὀἷΝumἳὀἳΝèΝὁὂὂὁὅtἳΝl'ὁggἷttivitὡΝἶἷllἷΝἷviἶἷὀὐἷΝἶἷll’ἓὅὅἷὄἷέ 6 Il greco μ può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i μ sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i μ – rigorosamente parlando – ὀὁὀΝὅiἳὀὁΝἶἳΝiὀtἷὀἶἷὄἷΝcὁmἷΝὅἷgὀiΝἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ,ΝmἳΝἶἷllἳΝὅuἳΝviἳ,Ν con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷμΝ ilΝ cὁὀcἷttὁΝ ἶiΝ assicurerebbe alla via la determinazione
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specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via ἶἷll’ἓὅὅἷὄe, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di fὁὀἶὁΝὅἷcὁὀἶὁΝcuiΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὀὁὀΝpuò sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) μ è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. δ’ἷcὁΝ ὄἷligiὁὅἳΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ essere deliberatamente evocatἳΝ ἶἳll’ἳutὁὄἷΝ ἳὀchἷΝ ὂἷὄΝ ὂὄἷἶiὅὂὁὄὄἷΝ lἳΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come μ sia sinonimo poetico di μ ῖ , termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ μ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷlΝ mὁtivὁΝ ἶἷllἳΝ quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciάΝ èΝ ὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝ tἷὀἷὄἷΝ ἶ’ὁcchiὁΝ iΝ «ὅἷgὀἳviἳ»έΝ ἤimἳὀἷὀἶὁΝ fἷἶἷlἷΝ ἳll’immἳgiὀἳὄiὁΝ ἷὂicὁ,Ν εὁuὄἷlatos propone di leggere i segnavia come imὂἷὄἳtiviΝ ἶἷlΝ tiὂὁμΝ «cἷὄcἳΝ ὅἷmὂὄἷΝ ciάΝ chἷΝ èΝ …έ»έΝ DiΝ ὄἷcἷὀtἷΝ ἑhiἳὄἳΝ Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra e μ : essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos)Ν l’iἶἷὀtitὡΝ ἶiΝ uὀἳΝ ὂἷὄὅὁὀἳέΝ ἤὁἴἴiἳὀὁΝὅiΝὄifἷὄiὅcἷΝἳll’ἷὂiὅὁἶiὁΝἶἷlΝὄicὁὀὁὅcimἷὀtὁΝἶiΝἡἶiὅὅἷὁΝἶἳΝὂἳὄtἷΝἶiΝ Penelope, dove il termine μ è messo in relazione alla verifica ἶἷll’iἶἷὀtitὡΝ ἶἷlΝ mἷὀἶicἳὀtἷμΝ èΝ ὁffrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra μ e loro interpretazione. La dea guida attraverso μ , chἷΝ l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: Ἕ
μ ῖ ῖ Ἕ μ Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente
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molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte , 10
fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che μ non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei μ ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fἳttὁΝ cὁὀΝ gliΝ ἳttὄiἴutiΝ fὁὀἶἳmἷὀtἳliΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷέΝ ἓὅὅiΝ ὅἳὄἷἴἴἷὄὁΝ iὀΝ ὂἳὄtἷΝ dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ( ) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (ἕuthὄiἷΝὂέΝἀἄ)νΝ«ὧtἳὀtΝiὀἷὀgἷὀἶὄὧ,ΝξilρΝἷὅtΝἳuὅὅiΝimὂὧὄiὅὅἳἴlἷ»Ν(ἡ’ἐὄiἷὀ,ΝὂέΝ 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione μ a …Ν può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del come (ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ)Ν iὀΝ ὅἷὀὅὁΝ ἶἷὅcὄittivὁ,Ν ὅiἳΝ ilΝ che (ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ)ΝiὀΝὅἷὀὅὁΝἶichiἳὄἳtivὁέΝἙΝὅἷgὀiΝἶἷvὁὀὁΝὄivἷlἳὄἷΝl’ e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione. 8 Il greco ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): έΝη θΝκ θΝφβ δθΝ θαδΝ πᾶθΝ δαδλ θΝ δαέλ κθ, ΰ θβ θ ΰΫθβ κθ, γθβ θ γΪθα κθ, ζσΰκθ α θα, πα Ϋλα υ σθ, γ θ έεαδκθ· ‘κ ε ηκ , ζζ κ ζσΰκυ εκτ αθ αμΝ ηκζκΰ ῖθΝ κφσθΝ δθΝ θΝπΪθ αΝ θαδ’ . ἡ Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): : ῖ ἡ μ ῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle.
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L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» ( Ἕ μ ). Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: in Parmenide escluderebbe ogni forma di ὂὄὁcἷὅὅὁΝiὀΝcuiΝὃuἳlcὁὅἳΝvἷὀgἳΝἳll’ἷὅὅἷὄἷέΝἢὁὅὅiἳmὁΝὃuiΝὀὁtἳὄἷΝἶiΝὂἳὅὅἳggiὁΝ che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante ἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷlΝliὀguἳggiὁΝἷΝἶἷllἳΝἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶἷiΝmὁὄtἳliΝ(ἤuggiuΝὂέΝἀἅἅ)έ 9 Come già segnalato, traduciamo come «ciò che è», segnalando invece cὁmἷΝ«l’ἷὅὅἷὄἷ»μΝὂἷὄΝὀὁiΝὅiΝtὄἳttἳΝἶiΝἷὅὂὄἷὅὅiὁὀiΝὅiὀὁὀimἷ,ΝmἳΝlἳΝὅἷcὁὀἶἳ,Ν cὁὀΝ l’ἳὄticὁlὁ,Ν èΝ lἳΝ fὁὄmulἳΝ ὂiὶΝ ἳὅtὄἳttἳέΝ ἠἷlΝ cὁὀtἷὅtὁΝ , come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di uὀἳΝ ὀἷttἳΝ cὁὄὄἷὐiὁὀἷΝ ὀἷllἳΝ ἶiὄἷὐiὁὀἷΝ ἶἷll'ἳὅtὄἳὐiὁὀἷ,Ν cὁὀΝ cuiΝ ἶἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ , come la precedente - fὁὄmἳtἳΝcὁὀΝl’ἳlfἳΝ privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] ( )». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: ῖ · [B Ἀ μ ῖ E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura.
3]Ἕ
ἑiάΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ὅigὀificἳὄἷΝ chἷΝ l’ἳggἷttivὁΝ ἷὄἳΝ ὅtἳtὁΝ ἷffἷttivἳmἷὀtἷΝ imὂiἷgἳtὁ dai pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali.
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tutto intero 11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11
Il termine (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea: Ἕ ῖἝ Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24).
12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μ dopo (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare ilΝ vἳlὁὄἷΝ ἶἷὄivἳtὁΝ ἶἷll’ἳggἷttivὁ,Ν chἷΝ ἳὀchἷΝ iὀΝ ἓὅchilὁΝ (Agamennone 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221), collegando μ ἳll’ἷὂitἷtὁΝ ὅἳcὄἳlἷΝ ἶiΝ ἓcἳtἷΝ (ὅἷcὁὀἶὁΝ ἓὅiὁἶὁ,Ν Teogonia 426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad . In realtà la radice * esprime sia la noὐiὁὀἷΝ ἶiΝ “ὀἳὅcἷὄἷ”,Ν “ἶivἷὀiὄἷ”,Ν ὅiἳΝ ὃuἷllἳΝ ἶiΝ “ἷὅὅἷὄἷ”,Ν “ἷὅiὅtἷὄἷ”έΝ ἙlΝ termine μ potrebbe alludere a piuttosto che a e ἶuὀὃuἷΝ vἷicὁlἳὄἷΝ l’iἶἷἳΝ ἶiΝ uὀicitὡέΝ εὁuὄἷlἳtὁὅΝ (ὂὂέΝ 11ἁ-4) suppone che Parmenide usi μ in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: μ
Ἕ
ῖ
ἠὁὀΝc’ἷὄἳΝἶuὀὃuἷΝuὀΝὅὁlὁΝgἷὀἷὄἷΝἶiΝἓὄiὅνΝὅullἳΝ erra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). δ’ἳggἷttivὁΝμ si contrapporrebbe a μ (B8.53): dietro μ ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μ a μ : "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a , sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme». 13 δ’ἳggἷttivὁΝ μ esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) viΝcὁgliἷΝlἳΝ«cἳlmἳ»Νἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ,ΝiὀΝcὁὀtὄἳὅtὁΝcὁὀΝl’«iὀὃuiἷtuἶiὀἷ»ΝἶἷgliΝἷὀtiέΝ ἑὁxὁὀΝ(ὂέΝ1λη)ΝἳὅὅὁciἳΝl’ἳggettivo alle successive espressioni (vv. 26 e 38: «immobile»), ΄ μ (v. 29: «identico e ὀἷll’iἶἷὀticἳΝ cὁὀἶiὐiὁὀἷΝ ὂἷὄἶuὄἳὀἶὁ») e μ μ (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R. εcKiὄἳhἳὀ,Ν “ἥigὀὅΝ ἳὀἶΝ χὄgumἷὀtὅΝ iὀΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷὅΝ ἐἆ”,Ν iὀΝ The Oxford
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[5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’ἳggἷttivὁΝὅiἳΝiὀtἷὅὁΝἳΝesprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come μ μ , lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: μ μ μ μ μ integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove («integralmente perfette») corrisponderebbe a μ , indicando la completezza di struttura fisica, mentre μ ritorna identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀ μ B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ΄ – cὁὀΝDK,Νἑὁxὁὀ,Νἡ’ἐὄiἷὀ,Νἑὁὀchἷ,Νἤἷἳlἷ,ΝἘἷitὅchΝ ἷΝ altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri (pp. 222ἁ)ΝiὀtἷὄὂὄἷtἳΝl’ἳggἷttivὁΝlἷttἷὄἳlmἷὀtἷΝcὁmἷΝ«iὀcὁmὂiutὁ»,Νὄifἷὄἷὀἶὁlὁ,ΝὅἷὀὐἳΝ interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30, 4), vὁlἷὀἶὁΝἳccὁὅtἳὄἷΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝἳΝεἷliὅὅὁ,ΝἳὅὅἷὄiὅcἷΝchἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝ è , con ciò intendendo probabilmente (Tarán, p. 93). 15
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Intendendo
e come formula avverbiale, avremmo «non mai,
giammai». Abbiamo preferito conservare e come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a sia a ἡ Ruggiu (p. 283) interpreta come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide cὁὀtὄἳὂὂὁὄὄἷἴἴἷΝ l’ rafforzato dal , a esprimere il presente atemporale. ἙὀΝ ὃuἷὅtὁΝ vἷὄὅὁ,Ν cὁmἷΝ hἳΝ fἳttὁΝ giuὅtἳmἷὀtἷΝ ὁὅὅἷὄvἳὄἷΝ ἡ’ἐὄiἷὀΝ (“δ’ÊtὄἷΝ ἷtΝ l’Étἷὄὀitὧ”,Ν iὀΝ Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation, p. 149), gli avverbi ( , ) sono fondamentali come le tre forme verbali di ( , , ).
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Non è chiaro se si riferisca immediatamente solo a o anche a μ , , , cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: ΄ ΄ : appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è» ( ) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207). 18 δ’ἳvvἷὄἴiὁΝ , come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’ἷὅὅἷὄἷΝ è,Ν “ὁὄἳ”»,Ν iὄὄiἶuciἴilἷΝ ἳΝ uὀΝ iὅtἳὀtἷΝ ὅἷὀὐἳΝ ἶuὄἳtἳ,Ν ὁΝ ἳΝ uὀἳΝ ἶuὄἳtἳΝ tἷmὂὁὄἳlἷ,Ν chἷΝ imὂlichiΝ ὅuccἷὅὅiὁὀἷΝ ἶiΝ ὂὄimἳΝ ἷΝ ὂὁiέΝ ἑὁὅìΝ l’«ὁὄἳ»Ν indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» ὅἷcὁὀἶὁΝ ἦὁmmἳὅὁ)έΝ ἡ’ἐὄiἷὀΝ (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con e : la Dea intenderebbe escludere generazione e cὁὄὄuὐiὁὀἷΝ ἷΝ ἶuὀὃuἷ,Ν iὀΝ ὃuἳὀtὁΝ iὀgἷὀἷὄἳἴilἷΝ ἷΝ iὀἶiὅtὄuttiἴilἷ,Ν l’ἓὅὅἷὄἷΝ sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ὂἷὄΝ mἳὄcἳὄἷΝ lἳΝ ὂὄἷὅἷὀὐἳΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ ἶἷll’«ὁὄἳ»Ν ( ), ciὁèΝilΝὂἷὄmἳὀἷὀtἷΝὂὄἷὅἷὀtἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷμΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὀὁὀΝἳvὄἷἴἴἷΝὀullἳΝἳΝchἷΝfἳὄἷΝ con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si cὁὀtὄἳὂὂὁὀgὁὀὁΝ tὄἳἶiὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝ ὃuἷllἷΝ chἷ,Ν ὀἷlΝ ὄiliἷvὁΝ ἶἷll’ἳvvἷὄἴiὁΝ temporale e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la ὂὄἷὅἷὀὐἳΝ ἶiΝ uὀἳΝ cὁὀcἷὐiὁὀἷΝ ἳὄἶitἳΝ ἷΝ ὂὄὁfὁὀἶἳμΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ὂὄἷὅἷὀtἷΝ eterno, fuori dal tempo. Privilegiano ὃuἷὅtἳΝἶimἷὀὅiὁὀἷΝἶἷllἳΝ“ἳtἷmὂὁὄἳlitὡ”Ν ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷὁ,Ν tὄἳΝ gliΝ ἳltὄi,Ν ἑἳlὁgἷὄὁ,Ν εὁὀἶὁlfὁ,Ν ἕigὁὀ,Ν Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ὄitὄὁvἳΝὀἷll’uὅὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝἶἷll’ il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. ἙὀΝ ἐἆέηΝ l’ἷὀfἳὅiΝ èΝ ἳὀcὁὄa su , che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è»έΝἙὀΝἶiὄἷὐiὁὀἷΝἳὀἳlὁgἳΝὅiΝmuὁvἷΝἦhἳὀἳὅὅἳὅΝ(ὂέΝἂἅ),ΝὂἷὄΝilΝὃuἳlἷΝl’iὀtἷnzione ἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝ iὀΝἐἆέηΝὅἳὄἷἴἴἷΝὃuἷllἳΝἶiΝ mἳὄcἳὄἷΝl’iὄὄilἷvἳὀὐἳΝἶἷllὁΝὅviluὂὂὁΝ del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’ἓὅὅἷὄἷΝὀὁὀΝèΝὀἷlΝtἷmὂὁ,ΝὀὁὀΝhἳΝὅtὁὄiἳΝὀὧΝfutuὄὁ,ΝὄiὅultἳὀἶὁΝἷὅtὄἳὀἷὁΝἳΝὁgὀiΝ mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di , che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile ἳll’ἷὅὅἷὀὐiἳlἷΝὂiἷὀἷὐὐἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝciά-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura
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uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso?
originale: in forza degli attributi che possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-ἆ),ΝchἷΝvἳlὁὄiὐὐἳΝilΝὀἷὅὅὁΝcὁὀΝl’ἳvvἷὄἴiὁΝὂὄἷcἷἶἷὀtἷ,ΝtὄἳἶucἷΝ μ come «tout entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui BoeziὁΝ(ἷΝὂὁiΝἦὁmmἳὅὁ)ΝcἳὄἳttἷὄiὐὐἳvἳΝl’ἷtἷὄὀitὡέ 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è ὅἷὀὐ’ἳltὄὁΝilΝὂiὶΝimὂὁὄtἳὀtἷέΝ ἠἷlΝ cὁὀtἷὅtὁ,Νtuttἳviἳ,Ν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - μ , , – iὀΝ cuiΝ l’ἳutὁὄἷΝ ὅἷmἴὄἳΝ iὀὅiὅtἷὄἷΝὅullἳΝ cὁmὂiutἷὐὐἳ,ΝiὀtἷgὄitὡΝ ἷΝὁmὁgἷὀἷitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝὂiuttὁὅtὁΝchἷΝ sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che μ e fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi , μ , , la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente ὄilἷvἳΝ ἑὁὀchἷΝ (ὂέΝ 1ἁἆ),Ν l’ἷὅὅἷὄἷΝ èΝ «uὀὁ»,Ν ὀὁὀΝ l’ἧὀὁΝ ἶἷllἳΝ ὂὁὅtἷὄiὁὄἷΝ tradizione platonica-neoplatonica. Alla lezione , di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di Asclepio: , «un tutto ὀἳtuὄἳlἷ»έΝἑὁxὁὀΝὁὅὅἷὄvἳΝ(ὂέΝ1λἄ)ΝchἷΝὃuἷὅtὁΝèΝl’uὀicὁΝluὁgὁΝiὀΝcuiΝὅiἳΝuὅἳtὁΝ da Parmenide il termine , il cui posto sarà poi preso da o (v. 22), con cui – qui e in v. 25 – è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco μ , interpretando cὁmἷΝὂὄἷἶicἳtὁΝ mὁἶificἳtὁΝἶἳll’ἳvvἷὄἴiὁΝ μ e dal pronome : il senso complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), ἢἳὄmἷὀiἶἷΝiὀtἷὀἶἷὄἷἴἴἷΝmἳὄcἳὄἷΝcὁmἷΝilΝ«fἳttὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷ»ΝὅiἳΝ denominatore comune a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tuttἷΝlἷΝcὁὅἷΝὅὁὀὁΝuὀὁΝὁvvἷὄὁΝchἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝèΝl’ἧὀὁέΝἤuggiu (p. 286), pur non accettando la variante ,Ν ὄitiἷὀἷΝ chἷΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ vἳlgἳΝ cὁmἷΝ intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 δ’ἳggἷttivὁΝ , in relazione con il precedente , sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni cἳὅὁ,ΝὃuiΝtἷὄmiὀἳΝl’ἷlἷὀcὁΝἶei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì
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Come23 e donde cresciuto 24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare 26 che «non è» 27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto 30, [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immὁὄtἳli,Ν mἳΝ ὀὁὀΝ ὅἷὀὐἳΝ ὀἳὅcitἳ)Ν lἳΝ ὅuἳΝ cὁὀcἷὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ἳὂὂuὀtὁΝ «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa ὂὁtὄἷἴἴἷΝὄἷὀἶἷὄὅiΝ(cὁὀΝἡ’ἐὄiἷὀΝἷΝἑἳὅὅiὀ)μΝ «verso dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a . 24 Il passaggio dal sostantivo ( ) al participio aoristo ( ), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento ἳll’iὀfiὀitὁΝ ἳὁὄiὅtὁΝ (essere cresciuto) in relazione agli infiniti e ῖ , evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che ὄichiἷἶἷΝuὀ’ὁὄigiὀἷΝ(«ἶὁὀἶἷ»)έ 25 La formula ΄… (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione introdotta da come soggettiva. I due aggettivi e – hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 77) suggerisce come soggetto implicito di «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula Ἦ èΝ cὁὄὄiὅὂἷttivὁΝ ὂὁἷticὁΝ ἶἷll’ὁὄἶiὀἳὄiὁΝ iὀtἷὄὄὁgἳtivὁΝ μ ; «quale circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di in questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 ἤἷὀἶiἳmὁΝ iὀΝ ὃuἷὅtὁΝ mὁἶὁΝ lἳΝ fὁὄmἳΝ «iὄὄἷἳlἷ»Ν ἶἷll’iὀtἷὄὄὁgἳtivὁΝ (chἷΝ suggerisce una risposta negativa) veicolata da +Νl’ἳὁὄiὅtὁέ 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo μ , che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa dall'infinito : altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli).
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Così35 è necessario 36 sia per intero o non sia per nulla37. 32
L'infinito aoristo può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco letteralmente . Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later ὁὄΝ ἴἷfὁὄἷ»Ν (ἑὁxὁὀ),Ν «ὂluὅΝ tἳὄἶ,Ν ὂlutὲtΝ ὃu’Ν […]Ν ἳuὂἳὄἳvἳὀt»Ν (ἡ’ἐὄiἷὀ). In effetti èΝ cὁmὂἳὄἳtivὁΝ ἶἷll’ἳvvἷὄἴiὁ,Ν mἳΝ no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiἷὄὁΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ»Ν ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷέΝ ἧὀἳΝ ὁὂiὀiὁὀἷΝ ἶivἷὄὅἳΝ iὀΝ proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’ἳὅὅἷὀὐἳΝἶiΝuὀἳΝὄἳgiὁὀἷΝ(cἳuὅἳ)ΝὂἷὄchὧΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὅiΝgἷὀἷὄiΝ in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di , «più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato ἷΝ cὁiὀvὁlgἷὀἶὁΝ ilΝ “ὂὄiὀciὂiὁΝ ἶiΝ iὀἶiffἷὄἷὀὐἳ”,Ν ὅὁttὁliὀἷἷὄἷἴἴἷΝ cὁmἷΝ ὀὁὀΝ ciΝ sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in uὀΝ ἳltὄὁ»έΝ ἥἷmὂὄἷΝ εcKiὄἳhἳὀΝ ὁὅὅἷὄvἳΝ cὁmἷΝ l’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ ὅiἳΝ fὁὄmulἳtὁΝ iὀΝ termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: μ è più naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente ὂὄἷcἷἶἷέΝ δἳΝ ὅuἳΝ ὂὄὁὂὁὅtἳΝ èΝ ἶuὀὃuἷΝ ὃuἷllἳΝ ἶiΝ tὄἳἶuὄὄἷΝ l’ἳvvἷὄἴiὁΝ collegandolo alla alternativa μ : il suo valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune.
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ἠὧΝmἳiΝξἶἳll’ἷὅὅἷὄἷρ38 concederà forza di convinzione 39 36
McKirahan (p. 194) traduce come «è giusto»: il suo significato ὀἷlΝ cὁὀtἷὅtὁΝ ἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳ μ - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula sta per μ «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la cὁὀtὄἳἶἶiὐiὁὀἷΝἷΝl’ἷὅcluὅiὁὀἷΝἶiΝuὀἳΝterza via (adottando di fatto il principio ἶἷlΝtἷὄὐὁΝ ἷὅcluὅὁ)μΝ lἳΝviἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ἷὅcluἶἷΝ ὀὁὀΝὅὁlὁΝlἳΝviἳΝ ἶἷlΝ ὀὁὀ-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: μ
μ
( )μ μ Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 129133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅ μ
μ
μ
, . ,
ῖ
μ
μ ( ῖ
· μ
ῖ
ἡ
μ
μ
,
· ) ῖ .
μ μ
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che nasca qualcosa40 accanto41 a esso 42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 1λλ)Ν ὄilἷvἳΝ cὁmἷΝ l’ἓlἷἳtἷΝ ὅcἷlgἳΝ ἶiΝ ἷὅὂὄimἷὄὅiΝ cὁmἷΝ ὅἷΝ lἳΝ cἷὄtἷὐὐἳΝ ( , appunto) avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel ἑὁὀchἷΝ (ὂέΝ 1ἂη)Ν cὁgliἷΝ uὀΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳll’ἷὀtἷμΝ ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷΝ ὀὁὀΝ ὂuάΝ ἷὅὅἷὄἷΝ gἷὀἷὄἳtὁΝ ὀὧΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὀὧΝ uὀΝ ἷὀtἷΝ ὃuἳluὀὃuἷΝ (ἷὅὅὁΝ ὀὁὀΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ chἷΝ essere generato da un altro ente). 41 Attribuiamo a valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva ΄ sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten . Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici μ – è più naturale cogliere in un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è: nella sua lettura l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto a esso» - interpretata come equivalente a (accrual, accretion) - ὅuggἷὄiὅcἷΝ l’iἶἷἳΝ di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente. 43 La preposizione , con il dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «lἷggἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ»έΝ DikἷΝ ὅvὁlgἷΝ in questo contesto quel tradizionale ruolo
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[15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità 49, ἶiΝ lἳὅciἳὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ]Ν iὀἷὅὂὄimiἴilἷ 50 (poiché non è una via genuina51),ΝἷΝchἷΝl’ἳltὄἳΝiὀvἷcἷΝἷὅiὅtἳΝἷΝὅiἳΝὄἷἳlἷ52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito ῖ μ ,Ν «limitἷΝ ἷὅtὄἷmὁ»,Ν ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷlΝ ὃuἳlἷΝ ὄiὂὁὅἳΝ ὅicuὄἳΝl’iὀtἷὄἳΝὄἷἳltὡέΝδ’ἷffἷttὁΝèΝἳllὁὄἳΝὃuἷllὁΝἶiΝfuὀgἷὄἷ,ΝiὀΝὃuἳὀtὁΝὄigὁὄὁὅἳΝ garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante ἶἷll’iὀtἷὄἷὐὐἳΝἷΝiὀtἷgὄitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷέ 45 I termini impiegati da Parmenide ( , , nella riga successiva ) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutἳἴilἷΝiἶἷὀtitὡΝἶiΝciάΝchἷΝèΝἷΝl’iὀἷὅὁὄἳἴilitὡΝἶἷllἳΝviἳέ 46 Intendiamo come oggetto sottinteso di , per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di . 47 Il termine greco – così come il successivo verbo – veicola ἳὀcὁὄἳ,ΝiὀὅiἷmἷΝἳllἳΝfὁὄmἳlitὡΝἶἷlΝgiuἶiὐiὁ,Νl’ἳutὁὄἷvὁlἷὐὐἳΝἶἷllἳΝἶἷciὅiὁὀἷμΝἳΝ marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: . In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo (preceduto da ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di aggettivi μ (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione ἶἷll’imὂἳlὂἳἴilitὡΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳΝ( μ ). 51 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ si riferisce al fatto che la via «che non è ( )» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del verso troviamo, invἷcἷ,Ν l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ ΄ μ ,Ν chἷΝ ὅὁttὁliὀἷἳΝ cὁmἷΝ «l’ἳltὄἳΝ [viἳ]Ν iὀvἷcἷΝ esista e sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, (B1.29) e (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al
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E come potrebbe esistere 53 in futuro l’ἷὅὅἷὄἷ 54 ? E come potrebbe essere nato 55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: - Ἀ ῖ («di Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [ μ ὔ μ Ἀ («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parmenides and ἦὁΝἓὁὀ…,Νcitέ,Νpp. 87 ss.) impropriameὀtἷΝuὀἳΝ“viἳ”ΝὂuάΝἶἷfiὀiὄὅiΝ «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, , che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è». 52 Il valore di μ (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di : i due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: ΄ o , e, rilevando in ΄ formula ricorrente (tre volte) in ἡmἷὄὁ,Ν iὀΝ cuiΝ l’ἳvvἷὄἴiὁΝ si riferisce alle asserzioni che seguono, ὄἷὀἶἷΝ ἶivἷὄὅἳmἷὀtἷΝ l’iὀtἷὄὁΝ vἷὄὅὁμΝ «χὀἶΝ hὁwΝ cὁulἶΝ whἳtΝ ἴἷcὁmἷὅΝ hἳvἷΝ being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten ΄ («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 ἣuiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝuὅἳΝἷccἷὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ . 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiἷὀἷΝ chἷΝ ilΝ ὅἷὀὅὁΝ ἶἷll’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ ὅiΝ cὁlgἳΝ ὀἷllἳΝ contrapposizione tra il passato ipotetico di aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il presente di : dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-ἁ)ΝὄichiἳmἳΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὅullἳΝὅcἷltἳΝἶἷiΝmὁἶiΝἷΝἶἷiΝtἷmὂiΝvἷὄἴἳliΝ di questo passaggio: , ottativo, non porta riferimento al tempo; o,
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Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; , presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso cὁὀtiὀuὁΝ ἷΝ ἳὅὅὁlutὁέΝ ἡ’ἐrien (“δ’ÊtὄἷΝ ἷtΝ l’Étἷὄὀitὧ”,Ν iὀΝ Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μ seguito da infinito futuro ( ) può rendersi come «essere ὅulΝὂuὀtὁΝἶi,ΝἳvἷὄἷΝl’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝἶi»έΝἥiΝὅuὂὂὁὀἷΝchἷΝl’ἳὐiὁὀἷΝὁΝlἳΝcὁὀἶiὐiὁὀἷΝ iὀἶicἳtἳΝ ἶἳll’iὀfiὀitὁΝ ἶἷἴἴἳΝ ἳὀcὁὄἳΝ ἳvvἷὀiὄἷέΝ δἳΝ ὂὄἷὅἷὀὐἳΝ ἶἷll’ἳvvἷὄἴiὁΝ ( )ΝὄἳffὁὄὐἳΝὃuἷὅtὁΝἳὅὂἷttὁΝtἷmὂὁὄἳlἷΝ ἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ(ἡ’ἐὄiἷὀ,Ν “δ’ÊtὄἷΝ et l’Étἷὄὀitὧ”,ΝiὀΝÉtudes sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuὄὁ,ΝἳΝcὁmὂlἷtἳmἷὀtὁΝἶἷll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝἶiΝἐἆέη-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 ἡ’ἐὄiἷὀΝἷΝἑἷὄὄiΝὂὁὀgὁὀὁ ϐ («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di (genesi, nascita) sia di (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo ThanἳὅὅἳὅΝ (ὂέΝ ἂἄ),Ν l’ἳὀἳliὅiΝ ἶἷlΝ ὂὄimὁΝ segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra e il verbo («imparare, investigare, cercare»), da cui anche (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21
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Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; ὀὧΝc’èΝὃuiΝὃuἳlcὁὅἳΝἶiΝὂiὶ64 che possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, ὄuἴὄicἳὀἶὁlἳΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἳΝviἳΝὀἷgἳtivἳμΝciάΝὅὂiἷghἷὄἷἴἴἷΝἳὂὂuὀtὁΝl’uὅὁΝἶiΝ aggettivi come e , riferiti alla via negativa e a . 61 L'espressione può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento chἷΝl’ὁὂἷὄἳὐiὁὀἷΝiὀtἷllἷttuἳlἷΝἶἷllἳΝἶiviὅiὁὀἷΝὀὁὀΝfἳΝchἷΝὄivἷlἳὄἷΝἶiviὅiὁὀiΝgiὡΝ oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione iὀtἷὄὀἳΝ ἶἷll’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni ἶἷtἷὄmiὀἳtἷὐὐἳΝὅvἳὀiὄἷἴἴἷΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἳΝuὀifὁὄmἷΝὂὄὁὅὂἷttivἳΝἶἷll’ἓὅὅἷὄἷέ 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 ἦὄἳἶuciἳmὁΝ cὁὅìΝ l’ἳggἷttivὁΝ μ ῖ , che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità ( ). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di μ ῖ , da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia sὤa μ ῖ con valore avverbiale: ciò-che-èΝὀὁὀΝἳvὄἷἴἴἷΝἶuὀὃuἷΝl’ἳttὄiἴutὁΝἶiΝἷὅὅἷὄἷΝtuttὁΝuguἳlἷΝ(ὁΝ omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente» (v. 11: μ )έΝ ῄΝ l’ὁmὁgἷὀἷitὡΝ che rende impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente μ ῖ con μ . In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 ἦὄἳἶuciἳmὁΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi insieme, e accosta il significato
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né [lì] qualcosa di meno66, ma è67 tutto pieno 68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo 70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. ἶἷlΝvἷὄἴὁΝἳΝὃuἷllὁΝἶἷll’ἳttὄiἴutὁΝ μ (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come possa riferirsi a uὀiὁὀiΝ ὅtὄἷttἷμΝ l’uὀiὁὀἷΝ ὅἷὅὅuἳlἷΝ ἶiΝ iὀἶiviἶuiΝ ὁΝ lἷΝ ἷὅtὄἷmitὡΝ ἳὀὀὁἶἳtἷΝ ἶiΝ uὀἳΝ cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo μ . Coxon (p. 204) sottolinea ancora il vἳlὁὄἷΝ iὀtἷὀὅivὁΝ ἶἷll’ἳggἷttivὁμΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ iὀΝ ὃuἷὅtὁΝ ὅἷὀὅὁΝ ἳvὄἷἴἴἷΝ uὅἳtὁΝ (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo come soggetto sottinteso; altri intendono come soggetto («but all is full of Being», Tarán). 68 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ vuol marcare come ciò che esiste è solo l’ἷὅὅἷὄἷ,ΝὃuiὀἶiΝἷὅὅὁΝèΝcὁὀtiὀuὁ,Νὁmὁgἷὀἷὁ,Ν“ἶἷὀὅὁ”Νἶ’ἷὅὅἷὄἷΝ(uguἳlἷΝiὀΝtuttὁΝ e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being», chἷΝimὂlicἳΝl’ἳὅὅἷὀὐἳΝἶiΝὃuἳlὅiἳὅiΝcὁὅἳΝἶiΝἶivἷὄὅὁΝἶἳll’ἓὅὅἷὄἷέΝεcKiὄἳhἳὀΝ(ὂέΝ 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un “ὅἷgὀὁ”Ν fὁὀἶἳmἷὀtἳlἷ,Ν chἷΝ ὄifὁὄmulἷὄἷἴἴἷΝ μ del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia quello ἶiΝ uὀ’ἳὀἳliὅiΝ fiὅicἳ,Ν mἳΝ ἶiΝ uὀἳΝ cὁὀὅiἶἷὄἳὐiὁὀἷΝ ὁὀtὁlὁgicἳΝ (cὁὀἶὁttἳΝ alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste ὀἷll’iὀtἷὀἶἷὄἷΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ ΄ μ come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra ΄ μ e μ ῖ (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi avverbialmente (come nel successivo v. 25 ), così che μ risulterebbe equivalente a μ ῖ . 70 ἡvvἷὄὁΝ «cὁἷὅὁ»έΝ ἤifὁὄmulἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’iὀὐiἳlἷΝ iὀἶiviὅiἴilitὡμΝ ἑὁxὁὀΝ (ὂέΝ ἀίἂ)Ν osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di nel v. 6, èΝ l’uὀicὁΝ tἷὄmiὀἷΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝ ὂἷὄΝ «uὀὁ»έΝ εcKiὄἳhἳὀΝ tὄἳἶucἷΝ diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per la formula, di difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo ὅuggἷὄiὅcἷΝl’iἶἷἳΝἶiΝἳvviciὀἳmἷὀto. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre
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Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine lἳΝ ὅuggἷὅtiὁὀἷΝ ἶἷll’ultimὁΝ ὂἳὅὅὁΝ ἶiΝ uὀΝ viἳggiὁΝchἷΝὅiΝἳvviciὀἳΝἳllἳΝὅuἳΝmἷtἳμΝl’ἓὅὅἷὄἷέ 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di , la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò chἷΝ è»Ν cὁὀΝ «ciάΝ chἷΝ è»μΝ l’uὀitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅἷmἴὄἷὄἷἴἴἷΝ ὀὁὀΝ ἷὅcluἶἷὄἷΝ uὀἳΝ sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷμΝ una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 δ’ἳggἷttivὁΝ vἷὄἴἳlἷΝ può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di : nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra e μ (vέΝ ἂ)έΝ δ’ἳggἷttivὁΝ si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ultἷὄiὁὄiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ iὀgἷὀἷὄἳtὁΝ ἷΝ iὀcὁὄὄuttiἴilἷ,Ν ciὁèΝ ὅἷὀὐἳΝ inizio o fine, di «ciò-che-è» ( ). Attributi che non hanno in alcun modo a chἷΝ vἷἶἷὄἷΝ cὁὀΝ l’ἳὅὅἷὀὐἳΝ ἶiΝ mὁtὁέΝ ἠἷlΝ cὁὀtἷὅtὁΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ «immὁἴilἷ»Ν cὁiὀvὁlgἷὄἷἴἴἷΝl’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) ὂὄivilἷgiἳΝ ὀἷllἳΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ lἷttuὄἳΝ uὀ’immὁἴilitὡΝ fὁὀἶἳtἳΝ ὀἷll’ἳὅὅἷὀὐἳΝ ἶiΝ relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» ( ). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica di ῖ fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente
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è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano 79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di ῖ è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere ὁggἷttὁΝἶiΝἳttἳccὁΝὀἷlΝὂἳὄἳἶὁὅὅὁΝἶἷllἳΝfὄἷcciἳΝἶiΝZἷὀὁὀἷέΝἥiΝἷὅὂὄimἷΝl’iἶἷἳΝ– arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra e escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo ἶἷll’ἳutὁὄἷ,Ν ilΝ cuiΝ liὀguἳggiὁΝ «tὁὄὀἳΝ ἳllἷΝ mὁvἷὀὐἷΝ ἷὂichἷΝ ἶἷlΝ ὂὄὁἷmiὁ»έΝ Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema ἶἷll’iὀcἳtἷὀἳmἷὀtὁΝ ἷΝ ἶἷllἳΝ cὁὀὅἷguἷὀtἷΝ immobilità, a un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttἳviἳ,Ν ilΝ ὅἷὀὅὁΝ ὂὄἷciὅὁΝ ἶἷll’ἳggἷttivὁΝ «miticὁ-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che cὁὅtituiὄἷἴἴἷΝἴuὁὀΝὂἳὄἳllἷlὁΝὂἷὄΝl’immἳgiὀἳὄiὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁμ μ
μ
Ἕ μ ῖ e tutto intorno le catene iὀgἷgὀὁὅἷΝchiuὅἷ,Νἶἷll’ἳὅtutὁΝἓfἷὅtὁ, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77
Gli aggettivi marcano la peculiare immutabilità ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ,Ν ἶivἷὄὅἳΝ ἶἳllἳΝ immὁἴilitὡΝ ἶiΝ ciάΝ chἷΝ ὅiΝ gἷὀἷὄἳΝ ἷΝ cὁὄὄὁmὂἷέΝ ἢἷὄΝ questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ΄ del vέΝἂέΝἑὁxὁὀΝ(ὂέΝἀίἄ)ΝviΝcὁgliἷΝuὀ’ἷcὁΝἶἷllἷΝἳffἷὄmἳὐiὁὀiΝ di Anassimandro (DK 12 A15): Ἕ
[ἡἡἡὔ
di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile.
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ἙἶἷὀticὁΝ ἷΝ ὀἷll’iἶἷὀticἳΝ cὁὀἶiὐiὁὀἷ81 perdurando82, in se stesso riposa84, 83
χll’ἳὁὄiὅtὁΝ è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-ἥcὁtt)μΝcὁmἷΝὅuggἷὄiὅcἷΝἡ’ἐὄiἷὀΝ (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ μ a occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide ὂὁtὄἷἴἴἷΝ uὅἳὄlἳΝ ὂἷὄΝ mἳὄcἳὄἷΝ ἳὀἳlὁgἳΝ ἶiὅtἳὀὐἳΝ ἶἳll’ἓὅὅἷὄἷΝ ἶiΝ gἷὀἷὄἳὐiὁὀἷΝ ἷΝ corruzione. 80 Traduco non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di , intesa come convinzione, cὁὀviὀcimἷὀtὁΝchἷΝὅcἳtuὄiὅcἷΝἶἳll’ἷὅἳmἷΝcὁὀἶὁttὁΝcὁὄὄἷttἳmἷὀtἷέΝἙὀΝἷffetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), iὀΝ cuiΝ ἶἷὅigὀἳΝ l’ἷviἶἷὀὐἳΝ ὁΝ lἳΝ ὂὄὁvἳΝ ἳἶἶὁttἳΝ iὀΝ tὄiἴuὀἳlἷέΝ ἙlΝ lἷgἳmἷΝ cὁὀΝ lἳΝ Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione. 81 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ gὄἷcἳΝ μ è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, ἑὁxὁὀΝ ἷὅcluἶἷὀἶὁΝ ilΝ ὅigὀificἳtὁΝ lὁcἳlἷΝ (cὁmἷΝ cὁὀfἷὄmἷὄἷἴἴἷΝ l’uὅὁΝ ἳὀἳlὁgὁΝ dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai fenomeni del mutἳmἷὀtὁΝ chἷΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ iὀtἷὀἶἷΝ ἷὅcluἶἷὄἷΝ ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷέΝ McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «iἶἷὀticὁΝἷΝὀἷll’iἶἷὀticὁ»ΝὅἳὄἷἴἴἷὄὁΝimὂlicἳὐiὁὀiΝἶiΝ«èΝὂiἷὀἳmἷὀtἷ»έΝχὀchἷΝ le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: 78
μμ μ μ μ Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83
McKirahan (p. 201) rileva come ΄ possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una
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[30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89
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espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di ἓὄἳclitὁΝἷ,Νὅὁὂὄἳttuttὁ,Νὀἷll’ἳccἷὀtuἳὐiὁὀἷΝἶἷllὁΝὅὂiὄitὁΝἷὄἳclitἷὁ,ΝἶiΝἓὂicἳὄmὁΝ DK 23 B2.9: μ μ ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto.
I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la formula ΄ ῖ manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, ὄiὅultἳὀἶὁΝ cὁmὂlἷmἷὀtἳὄἷΝ ἳll’ἳttὄiἴutὁΝ . Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra e identità: la saldἷὐὐἳΝ ἶἷll’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness)Ν ἶἷll’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente μ , che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86 Traduciamo in questo modo per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che ὂὄὁὂὄiὁΝ tἳlἷΝ immἷἶiἳtἷὐὐἳΝ fὁὅὅἷΝ ὄicἷὄcἳtἳΝ ἶἳll’ἳutὁὄἷ)έΝ ἑὁὀchἷΝ (ὂέΝ 1ηἄ),Ν invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con che è un «ora» non temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, μ μ è formula epica, che ὄichiἳmἳΝ ilΝ cἷlἷἴὄἷΝ ἷὂiὅὁἶiὁΝ iὀΝ cuiΝ ἡἶiὅὅἷὁΝ ὅiΝ fἳΝ lἷgἳὄἷΝ ἳll’ἳlἴἷὄὁΝ mἳἷὅtὄὁΝ della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII, 160-2): μ
μ Ἕ
Ἕ
μ
μμ
Ἕ
ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile, ὄittὁΝἳllἳΝἴἳὅἷΝἶἷll’ἳlἴἷὄὁΝ– ad esso siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto tἷmὂὁὄἳlἷμΝὅἷgὀἳlἳΝl’ἷὅἷὀὐiὁὀἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝἶἳΝὃuἳlὅiἳὅiΝvἳὄiἳὐiὁὀἷΝtἷmὂὁὄἳlἷΝ (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di μ μ Ἥ «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o
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nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra . 91
tἷmὂὁὄἳlἷ,Ν mἳΝ l’ἷὅcluὅiὁὀἷΝ ἶiΝ ὁgὀiΝ ἳltἷὄitὡΝ ἷΝ ilΝ ὄἳἶicἳmἷὀtὁΝ ἶἷll’iἶἷὀtitὡέΝ Come già segnalato in relazione a μ , McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀ come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immἳgiὀἷΝἶἷllἳΝἑὁὅtὄiὐiὁὀἷΝchἷΝtiἷὀἷΝciά-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀ nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. ἥchὄἷckἷὀἴἷὄgΝ “χὀἳὀkἷέΝ ἧὀtἷὄὅuchuὀgἷὀΝ ὐuὄΝ ἕἷὅchichtἷΝ ἶἷὅΝ Ἡὁtgἷἴὄἳuchὅ“,Ν «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, cἳtἷὀἷ,Ν cὁὄἶἷ,Ν cὁὀΝ l’iἶἷἳΝ ἶiΝ lἷgἳmἷ,Ν imὂὄigiὁὀἳmἷὀtὁ,Ν ὅchiἳvitὶ,Ν ὄilἷvἳὀἶὁΝ così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. δ’immἳgiὀἷΝ ὂlἳtὁὀicἳΝ ἶiΝ μ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – ῖ μ - e collegandola alla nozione pitagorica di μ («limite del cὁὅmὁ»)ΝἷΝἳll’ἳἴἴὄἳcciὁΝcὁὅmicὁΝἶiΝχὀἳὀkἷέΝἙὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁΝἷὅὅἳΝἳvὄἷἴἴἷΝlἳΝ fuὀὐiὁὀἷΝἶiΝ“ἶἷὅtiὀὁ”ΝὁΝ“lἷggἷΝἶiΝὀἳtuὄἳ”μΝὃuἳlcὁὅἳΝchἷΝὅiΝὂuάΝἷὅὂὄimἷὄἷΝiὀΝ tἷὄmiὀiΝἶiΝlἷgἳmiΝchἷΝviὀcὁlἳὀὁ,Νl’uὁmὁΝὁΝl’uὀivἷὄὅὁΝ(ὂὂέΝ75-6). 89 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ Ἀ ὄichiἳmἳΝ l’ἷὅiὁἶἷἳΝ (Teogonia 517 ss.) ,Ν ὀἷllἳΝ ἶἷὅcὄiὐiὁὀἷΝ ἶiΝ χtlἳὀtἷΝ chἷΝ «ὅὁὅtiἷὀἷΝ l’ἳmὂiὁΝ cielo per una potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene del limite» ( μ ῖ ). Ancora l’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝὅuiΝviὀcὁli,ΝἳὀcὁὄἳΝἶἳΝiὀtἷὀἶἷὄἷΝὅὁὅtἳὀὐiἳlmἷὀtἷΝiὀΝὅἷὀὅὁΝlὁgicὁ,Ν nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti ὅὂἳὐiἳliέΝδ’ἳὅὅὁciἳὐiὁὀἷΝἶiΝἕiuὅtiὐiἳΝ(vέΝ1ἂ)Νe Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. ἠἷlΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳiΝ viὀcὁliΝ ἷΝ ἳllἷΝ cἳtἷὀἷΝ ἐἳὄἴἳὄἳΝ ἑἳὅὅiὀΝ (“δἷΝ chἳὀtΝ ἶἷὅΝ ἥirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in
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Per questo 92 non incompiuto93 l’ἷὅὅἷὄἷΝ[è]ΝlἷcitὁΝchἷΝὅiἳ94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-1ἄλ)Ν hἳΝ cὁltὁΝ uὀ’ἷcὁΝ ἶiΝ Odissea XII, 158-162: μ μ
μ μ · μ
μ
μ
. μ μμ
Ἕ Ἕ Ἕ Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ὄittὁΝἳllἳΝἴἳὅἷΝἶἷll’ἳlἴἷὄὁΝ– ad esso siano fissate le funi. 91
Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione ha etimologicamente ( ) il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ giuὅtificἳtἳΝ iὀΝ ὃuἷlΝ chἷΝ ὂὄἷcἷἶἷ,Ν ἳὀcὁὄchὧΝ cὁὀΝ ilΝ ὄicὁὄὅὁΝ ἳΝ uὀ’immἳgiὀἷΝ(lἳΝ cὁὅtὄiὐiὁὀἷΝ ἶἷllἷΝ cἳtἷὀἷΝἶiΝ ἠἷcἷὅὅitὡ)ΝἶiΝὂὄὁἴἳἴilἷΝ mἳtὄice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imὂἷὄfἷttὁ»έΝ εἳὀὅfἷlἶΝ (ὂέΝ 1ίί)Ν ὅὁttὁliὀἷἳΝ ilΝ ὀἷὅὅὁΝ tὄἳΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ viὀcὁlἳtὁΝ ἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝcὁmὂiutὁΝἷΝὂἷὄfἷttὁ,Νὄἷcuperando come implicito nel greco anche il vἳlὁὄἷΝ ἶiΝ «ὄἷἳliὐὐἳὐiὁὀἷ»Ν ἷ,Ν ἶiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἳ,Ν l’iἶἷἳΝ ἶiΝ uὀΝ viὀcὁlὁΝ chἷΝ legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo (consumare) e fὁὄὅἷΝ cὁὀΝl’iἶἷἳΝ ἶiΝ ῖ , come legamἷΝ ciὄcὁlἳὄἷέΝἠἷll’ἷὂicἳΝiὀΝgἷὀἷὄἳlἷΝ ilΝ verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana.
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non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere 95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: Intendiamo l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ μ come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente : quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere ( ) e non-essere (μ )μΝὀὁὀΝèΝ lἷcitὁΝ chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝὅiἳΝ iὀcὁmὂiutὁμΝiὀΝ ἷffἷttiΝὀὁὀΝ manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μ può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «ὅἷΝ[l’ἷὅὅἷὄἷ]ΝὀὁὀΝfὁὅὅἷΝ[ὀὁὀ-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti cὁὀὁὅcἷὄἷΝ ciάΝ chἷΝ ὀὁὀΝ èΝ […]Ν ὀὧΝ iὀἶicἳὄlὁ»έΝ ἥἷΝ ὃuἳlcὁὅἳΝ èΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come cὁὀὅἷguἷὀὐἳΝ ἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳ)Ν ἶiΝ ciά-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ῖ letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). εcKiὄἳhἳὀΝ (ὂέΝ ἀίἁ)ΝtὄἳἶucἷΝ «iὅΝ tὁΝ ἴἷΝ thὁughtΝ ὁf»Ν iὀtἷὀἶἷὀἶὁΝ l’ἷὅὂὄἷssione 95
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[ἁη]ΝgiἳcchὧΝὀὁὀΝὅἷὀὐἳΝl’ἷὅὅἷὄἷ,ΝiὀΝcui 100 [il pensiero] è espresso , 101
cὁmἷΝuὀΝὄichiἳmὁΝἶiΝἐἀέἀμΝciάΝchἷΝèΝἶiὅὂὁὀiἴilἷΝὂἷὄΝilΝὂἷὀὅiἷὄὁΝ(ὁvvἷὄὁΝ“ὂἷὄΝ ἷὅὅἷὄἷΝὂἷὀὅἳtὁ”)έ 98 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua vὁltἳΝcὁὀcluὅiὁὀἷΝἶiΝἐἀ)μΝciάΝchἷΝèΝèΝl’uὀicὁΝὄἷἳlἷΝὁggἷttὁΝἶἷlΝὂἷὀὅiἷὄὁέΝἥὁlὁ ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare ἳὀchἷΝl’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝἶiΝἐημ «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo , in questo caso, come congiunzione equivalente a («che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the thὁughtΝ thἳtΝ “itΝ iὅ”Ν ἳὄἷΝ thἷΝ ὅἳmἷ»),Ν ἦἳὄὠὀΝ («ἙtΝ iὅΝ thἷΝ ὅἳmἷΝ tὁΝ thiὀkΝ ἳὀἶΝ thἷΝ thὁughtΝ thἳtΝ [thἷΝ ὁἴjἷctΝ ὁfΝ thὁught]Ν ἷxiὅtὅ»),Ν ἡ’ἐὄiἷὀΝ («ἑ’ἷὅtΝ uὀἷΝ mêmἷΝ chὁὅἷΝὃuἷΝὂἷὀὅἷὄ,ΝἷtΝlἳΝὂἷὀὅἷἷΝξἳffiὄmἳὀtρμΝ“ἷὅt”»),ΝἑὁὀchἷΝ(«ἑ’ἷὅtΝlἷΝmêmἷΝ ὂἷὀὅἷὄΝ ἷtΝ lἳΝ ὂἷὀὅὧἷΝ ὃu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée que "est"»). L'alternativa è rendere come formula pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». δὁΝ hἳΝ ὅἷguitὁΝ ἐἷἳufὄἷtΝ («ἡὄΝ c’ἷὅtΝ lἷΝ mêmἷ,Ν penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di ,Ν mἳΝ hἳΝ ἳvἳὀὐἳtὁΝ l’iὂὁtἷὅiΝ ὅuggἷὅtivἳΝ chἷΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἳἴἴiἳΝ contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’ἷὅὅἷὄἷ»,ΝὅὁὀὁΝὅtἳtἷΝὂὄὁὂὁὅtἷΝvἳὄiἷΝἳltἷὄὀἳtivἷέΝ Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ᾧ come equivalente a ᾧ, proponendo ῖ come soggetto di μ . Il passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where understanding
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troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 ἳll’ἷὅὅἷὄἷ104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has been given expression». In questo caso ᾧ non si riferirebbe a , ma a una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare ῖ in ciò che esprime ῖ ,ΝὅἷΝὀὁὀΝὅiΝtὄὁvἳΝl’ἓὅὅἷὄἷΝ( ): per raggiungere la comprensione non èΝ ὅufficiἷὀtἷΝ ἳὅcὁltἳὄἷΝ lἷΝ ὂἳὄὁlἷΝ ἶἷllἳΝ ἶἷἳ,Ν mἳΝ ὅiΝ ἶἷvἷΝ tὄὁvἳὄἷΝ l’ἓὅὅἷὄἷέΝ Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), μ indicherebbe non solo che il ὂἷὀὅiἷὄὁΝ èΝ mἳὀifἷὅtἳtivὁΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ,Ν mἳΝ chἷΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ èΝ tἳlἷΝ iὀΝ ὃuἳὀtὁΝ fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, μ sarebbe equivalente a e (B8.8) e μ (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < >... precedute da cὁmἷΝ«ὀὧ…ὀὧ»έ 103 La formula è adattamento di analoga formula epica ( ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’iἶἷὀtitὡΝ ἶiΝ ὂἷὀὅiἷὄὁΝ ἷΝ ἷὅὅἷὄἷ,Ν imὂlicἳὀἶὁΝ chἷΝ ilΝ pensiero non possa essere ὃuἳlcὁὅἳΝἶiΝἳltὄὁ,Νiὀἶiὂἷὀἶἷὀtἷ,ΝcὁὀtὄἳὂὂὁὅtὁΝἳll’ἷὅὅἷὄἷΝὁΝcὁmuὀὃuἷΝἷὅtὄἳὀἷὁΝ a esso. 105 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giuὅtificἳὄἷΝcὁmὂiutἷὐὐἳΝἷΝuὀicitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁέ 106 Si ripete, con ,ΝlἳΝὅuggἷὅtiὁὀἷΝἶἷll’iὀcἳtἷὀἳmἷὀtὁ,ΝἶἷllἳΝcὁὅtὄiὐiὁὀἷΝ (da intendere, fuor di metafora, in senso logico). La formula μ ῖ ΄ è epica. 107 Le due connotazioni – mἳὄcἳὀὁΝl’iὀtἷgὄitὡΝἷΝimmutἳἴilitὡ,Ν reiteratamente richiamate nel frammento. Per , tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. ἑὁὅì,Νl’iὀtἷgὄitὡΝἶiΝciάΝchἷΝèΝ(ἷὅὂὄἷὅὅἳΝἶἳΝ )ΝèΝὅὁὅtἷὀutἳΝἶἳll’immἳgiὀἷΝ della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere come pronome relativo (riferito a ): dal momento che egli accoglie la lettura ΄ μ del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: ῖ
μ
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quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo 112 e mutare luminoso colore113. natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: ΄ Per esso [
μ΄ ] tutte le cose saranno nome.
Per lo più gli editori hanno reso con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco μ èΝὅiὀgὁlἳὄἷ,ΝὂἷὄΝmἳὄcἳὄἷΝl’iἶἷὀtitὡΝὀὁmiὀἳlἷΝἶἷiΝὀἷutὄiΝὂluὄἳliΝ e : genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio ΄ μ - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop), attribuendo a valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo come un dimostrativo riferentesi a , ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente ἳΝ Diἷlὅ,Ν hἳΝ tὄἳἶὁttὁΝ l’ἷmiὅtichiὁΝ iὀtὄὁἶucἷὀἶὁΝ uὀΝ imὂlicitὁΝ aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è . McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-ἁἆΝἳὄgὁmἷὀtἳὀὁΝchἷΝl’uὀicὁΝὂὁὅὅiἴilἷΝ oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-èΝèΝl’ὁggἷttὁΝἶἷiΝlὁὄὁΝὂἷὀὅiἷὄi,ΝἳὀchἷΝἶiΝ quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione , il sostantivo molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei
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Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115 estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti 118, simile 119 a massa 120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il secondo emistichio μ ϐ – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle tὄἳἶuὐiὁὀiΝ ἶiὂἷὀἶὁὀὁΝ ὅὁὂὄἳttuttὁΝ ἶἳll’iὀtἷὀἶἷὄἷΝ – accusativo di , «colore» - come ovvero ,Ν«ὅuὂἷὄficiἷ»έΝἡ’ἐὄiἷὀΝ(ὂέΝηἄ)ΝὅὁttὁliὀἷἳΝ come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da può omettere : la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9) nota cὁmἷΝl’immἳgiὀἷΝἶἷiΝlἷgἳmiΝἷΝἶἷiΝlimitiΝὅiΝfἳcciἳΝ progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 δ’ἳggἷttivὁΝ μ significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’èΝὂiὶΝὅcuἶὁΝ(ἑὁὀchἷΝὂέΝ1ἅἄ)έ 117 δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di μ . Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di , le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’iὀtἷὄἷὐὐἳΝἶἷlΝὄἷἳlἷΝ(ὂὄἷὅἷὄvἳὀἶὁlἳΝἶἳlΝ ἠὁὀ-Essere), consente da un lato di ὄicὁὀὁὅcἷὄἷΝ l’eon «cὁmὂlἷtὁΝ ἶἳΝ ὁgὀiΝ lἳtὁ»,Ν ἶἳll’ἳltὄὁΝ ἶiΝ iὀtἷὀἶἷὄἷΝ tuttἷΝ lἷΝ apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ cὁὀcluὅiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: , «tutte insieme davvero esistenti». 118 δ’ἳvvἷὄἴiὁΝ , sia che lo si intenda riferito a μ (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a , sembra esprimere comunque un punto di vista, una ὂὄὁὅὂἷttivἳΝ “ἷὅtἷὄὀἳ”Ν (εὁuὄἷlἳtὁὅΝ ὂέΝ 1ἀἄ)έΝ ἑὁmἷ,Ν ἶ’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷ,Ν ὂἷὄΝ lὁΝ ὂiὶΝ
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suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno). 119 δ’ἳggἷttivὁΝ introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a ῖ (palla, sfera), ma a (massa, estensione). 120 Il termine può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie. δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ἳὂὂὄὁὅὅimἳtivἳmἷὀtἷΝ tὄἳἶuὄὅiΝ cὁmἷΝ «ἷὅtἷnsione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto che è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo riferito a ,Νl’ἳggἷttivὁΝ definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha sottolineato il nesso tra - riferito a – e μ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre ῖ come «palla», analogamente ἳll’ὁmἷὄicὁΝ (giocare a palla). Ciò rende più efficace l’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁμΝ δἷὅὐlΝ ὁὅὅἷὄvἳΝ chἷΝ «ὅἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ fὁὅὅἷΝ ἶἷttὁΝ «ὅimilἷΝ ἳΝ uὀἳΝ ὅfἷὄἳ»,Ν l’imὂlicἳὐiὁὀἷΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ἷὅὅἷὄἷΝ chἷΝ ἷὅὅὁΝ ὀὁὀΝ èΝ vἷὄἳmἷὀtἷΝ uὀἳΝ ὅfἷὄἳ,Ν mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per ὃuἷὅt’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝὂuάΝἷὅὅἷὄἷΝὂὄἷciὅἳmἷὀtἷΝchἷΝèΝuὀἳΝὅfἷὄἳ». δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera ( ῖ ),ΝlἳΝcuiΝὂἷὄfἷttἳΝὄὁtὁὀἶitὡΝèΝὅὁttὁliὀἷἳtἳΝἶἳll’ἷὂitἷtὁΝ . In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di ciò-che-èΝ ἷΝ l’ἷὅὂἳὀὅiὁὀἷ-estensione di una palla perfetta, ben-ὄὁtὁὀἶἳέΝ δ’ἳὀἳlὁgiἳΝ ὅiΝ ὄifἷὄiὄἷἴἴἷΝ ἳlla curvatura esterna della sfera.
170
a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, DiἷlὅΝἷΝἐὄἷhiἷὄΝhἳὀὀὁΝvὁlutὁΝcὁgliἷὄἷΝἶiἷtὄὁΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝl’iὀfluἷὀὐἳΝὂitἳgὁὄicἳμΝ essa alluderebbe, quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso precisare . δ’immἳgiὀἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝiὀvἷcἷΝ«fiὅicἳ»έΝἙlΝὅὁὅtἷὀitὁὄἷΝὂiὶΝcὁἷὄἷὀtἷΝἶἷllἳΝὀἳtuὄἳΝ geometrico-ὅὂἳὐiἳlἷΝἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝèΝDἷΝἥἳὀtillἳὀἳΝ(Le origini del pensiero scientifico,Ν ἥἳὀὅὁὀi,Ν ἔiὄἷὀὐἷΝ 1λἄἄ)μΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ilΝ ὄiὅultἳtὁΝ ἶiΝ un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio ἶἷlΝ mἳtἷmἳticὁΝ ἷΝ ὅὂἳὐiὁΝ ἶἷlΝ fiὅicὁέΝ δ’ἓὅὅἷὄἷΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ἶuὀὃuἷΝ uὀΝ plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che l’immἳgiὀἷΝἶἷllἳΝὅfἷὄἳ,ΝciὁèΝἶἷllἳΝὂiὶΝὂἷὄfἷttἳΝἶiΝtuttἷΝlἷΝfὁὄmἷ,ΝἳttἷὅtiΝchἷΝlἳΝ cὁὀὁὅcἷὀὐἳΝἶἷll’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros,Ν ὀἷlΝ mὁmἷὀtὁΝ ἶἷllἳΝ cὁὀὁὅcἷὀὐἳΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν èΝ completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire ὂἳὄtiΝἳll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝilΝtἷὄmiὀἷΝμ è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei cὁmἷΝ iὀΝ ὁgὀiΝ ὂἳὄtἷΝ ἶἷll’uὀivἷὄὅὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ lὁΝ ὅtἷὅὅὁέΝ ἑὁxὁὀ (p. 217), iὀvἷcἷ,Ν ὅὁttὁliὀἷἳΝ cὁmἷΝ l’ἷὃuiliἴὄiὁΝ cuiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἳlluἶἷΝ cὁὀΝ μ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 ἙὀtἷὀἶiἳmὁΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ come un rilievo della cὁmὂἳttἷὐὐἳΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷμΝ concorda con il neutro \ , non con il maschile (o il femminile ῖ ), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), ὄiὂὄἷὀἶἷΝ(ἶἳΝἑἳlὁgἷὄὁ,ΝἨlἳὅtὁὅ,ΝεὁuὄἷlἳtὁὅΝἷΝἕuthὄiἷ)Νl’iἶἷἳΝchἷΝl’immἳgiὀἷΝ ἶἷllἳΝὅfἷὄἳΝἷὅὂὄimἳΝuὀἳΝ«uguἳgliἳὀὐἳΝἶiὀἳmicἳ»μΝfὁὄὐἳΝἷΝὂὁtἷὀὐἳΝἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al cἷὀtὄὁ,ΝὅἷὀὐἳΝὂὁὅὅiἴilitὡΝἶiΝἶiffἷὄἷὀὐἳΝἳlcuὀἳΝiὀΝiὀtἷὀὅitὡΝὁΝὂὁtἷὀὐἳΝἶ’ἷὅὅἷὄἷέΝ ἡ’ἐὄiἷὀΝ ἷΝ ἑὁὀchἷΝ ὂὄἷfἷὄiὅcὁὀὁΝ ὄἷὀἶἷὄἷΝ cὁmἷΝ «uguἳlἷΝ ἳΝ ὅἷΝ ὅtἷὅὅὁ»,Ν ὂὄivilἷgiἳὀἶὁΝl’ἳὅὂἷttὁΝἶἷllἳΝὁmὁgἷὀἷitὡΝἳΝὃuἷllὁΝἶiὀἳmicὁΝἶἷll’ἳggἷttivὁμΝèΝ in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ὅiΝ ὄifἷὄiὅcἷΝ ἳll’ἓὅὅἷὄἷΝ ἷΝ ὀὁὀΝ alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione
171
[45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte o ἶἳll’ἳltὄἳ126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che 129 è qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132.
di equidistanza: ἷὅὂὄimἷὄἷἴἴἷΝl’iἶἷἳΝἶiΝἷὅὂἳὀὅiὁὀἷΝ uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo μ ῖ , per sottolineare l’ὁmὁgἷὀἷitὡΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ iὀΝ ὅἷὀὅὁΝ iὀtἷὀὅivὁμΝ ὀὁὀΝ c’èΝ uὀΝ ὂiὶΝ ὁΝ uὀΝ mἷὀὁΝ ἶ’ἷὅὅἷὄἷέΝἥiΝvἷἶἳὀὁΝἳὀchἷΝiΝὅuccἷὅὅiviΝ μ ΄ (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come ὂἷὄfἷὐiὁὀἷΝ ἷΝ ὅtἳἴilitὡΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ ὀὁὀΝ dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze iὀtἷὄὀἷΝἷΝἶἳll’ἳὅὅὁlutἳΝuguἳgliἳὀὐἳΝchἷΝὅuὅὅiὅtἷΝtὄἳΝlἷΝὂἳὄtiέ 127 Traduciamo letteralmente ἡ Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, «ὅigὀificἳΝ ὀὧΝ ὂiὶΝ ὀὧΝ mἷὀὁΝ chἷΝ “vuὁtὁ”,Ν “ὅὂἳὐiὁΝ vuὁtὁ”,Ν“ἳὅὅἷὀὐἳΝἶiΝἷὅὅἷὄἷ\mἳtἷὄiἳ”»έ 128 ἦὄἳἶuciἳmὁΝcὁὅìΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ : il non-essere potrebbe teoricamente iὀtἷὄὄὁmὂἷὄἷΝ ἷΝ ἶiὅcὄimiὀἳὄἷΝ l’iἶἷὀtitὡΝ ἷΝ l’uguἳglianza con se stesso di ciò chἷΝ èέΝ ἙὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ἶiὄἷὐiὁὀἷΝ ἳὀchἷΝ lἷΝ tὄἳἶuὐiὁὀiΝ ἶiΝ ἡ’ἐὄiἷὀΝ («ὡΝ lἳΝ ὅimilituἶἷΝ
μ
< ,
>
μ
Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con eἈ . In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a e Ἀ . Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di μ , intende la dea come collocata al centro dell'universo: ῖ μ
μ
μ μ
Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la μ parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: μ Ἕ Ἕ μ ῖ la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9
L'espressione μ ϐ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242)
201
Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e ἳll’uὀiὁὀἷ12, [η]ΝὅὂiὀgἷὀἶὁΝl’ἷlἷmἷὀtὁΝfἷmmiὀilἷΝἳΝuὀiὄὅiΝἳlΝmἳὅchilἷ 13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di , in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto governa» ( μ ϐ ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di (da , «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo , traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖ è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate (il maschile) e (il femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte.
202
DK B13 μ
μ
…
[v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23]
203
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 2
La μ ϐ di B12. Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μ : il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella μ di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μ è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243).
204
DK B14 1
ῖ
μ
…
[Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1
La forma
è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta .
205
di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1
Il composto greco significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo - il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto : «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: , in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: , «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione ῖ μ riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula («le opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): μ
ῖ questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3
L'espressione , da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a , «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): ῖ in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera).
206
B14a [...
, ...
]
[Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31]
207
[... il Sole, ... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto 1 1
Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine in analogia con Parmenide ( ).
208
DK B15 .
[Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B]
209
sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1
Il participio dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini, maschile ( ) e femminile ( ): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ῖμ contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore.
2
Come osserva Cerri (p. 276),
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi».
210
DK B15a [ ἡ
ὔ
[
ὔ
[Scolio a Basilio di Cesarea]
211
[Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1
Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra.
212
DK B16 1
2
3
μ
4
,
5
μ ·
· 6
μ .
[vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5] 1
lcuni codici aristotelici riportano («ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri o . Il codice di Asclepio . Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica: (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a (per lo più accolta dagli editori) o : come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a o ). Estienne modificò in , ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica . Passa (p. 120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano μ («dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto , preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente , accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ; quello di Alessandro .
213
Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra molto vaganti4, così il pensiero5 si presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 3
1
Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ἡἡἡ ), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, , o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: 8.61). Altri, emendando in , hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine ha un valore più forte di μῖ : quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖ , semplice mescolanza). La trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di era associata a quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine μ non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». ἡmἷὄὁΝ ὀὁὀΝ ὄἳὂὂὄἷὅἷὀtἳΝ ilΝ cὁὄὂὁΝ ἶἷll’uὁmὁΝ cὁmἷΝ uὀitὡΝ ἶiΝ uὀἳΝ mὁltἷὂlicitὡμΝ impiega infatti termini per lo più al plurale, come μ (o ) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μ non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. ἠἳὄcy,Ν “ἢἳὄmὧὀiἶἷΝ ἥὁὂhiὅtἷ”,Ν iὀ Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione μ come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
214
ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: ῖ
Ἕ μ tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6
È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come ma a : il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» ( ). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa ( ) la natura del corpo (μ ) negli uomini, in tutti e in ciascuno ( )». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche Marcinkowska-ἤὁὅὰł) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo come soggetto (sottinteso) di : sarebbe complemento oggetto e soggetto del verbo ( ): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di a un tempo il soggetto di e : «la natura delle membra è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di μ il soggetto di Ἕ di un accusativo, e di il soggetto di : «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega a , marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto come «natura, costituzione» (μ : «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende come «essenza»: il , come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μ come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra.
215
in tutti e in ciascuno: ciò che prevale 10, infatti, è il pensiero11. 10
In questo caso intendiamo come comparativo di («molto»): non vale dunque «il pieno» ( aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» ( ). Tra coloro che interpretano come «il pieno», interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti ( μμ ). Così, quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-ἤὁὅὰł,Ν iὀΝ Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere come pronome dimostrativo (= ) in funzione prolettica, come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui μ è decisamente il risultato dell'atto di pensare.
216
DK B17 ῖ
1
μ
,
ῖ
2
…
[Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] ῖ è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta ῖ . 2 Il testo di Galeno riporta : per ragioni metriche è stato emendato in (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 1
La forma
217
a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1
Le due forme dative ῖ e ῖ sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero: μ
μ
μ
ἡ ἡ Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... μ
Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero.
218
DK B18 Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum.
[Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1
Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam.
219
Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3, che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme 6. 1
Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco μ («potenza, forza, qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255).
220
DK B19 1
ῖ
μ
΄
΄ μ΄
2
΄
μ
· .
[Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 2
I codici DE di Simplicio, in vece di I codici di Simplicio riportano
·
, riportano . è correzione degli editori.
221
Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1
La formula è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 , appare legittimo tradurre come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in , traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di μ ), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo ( ): nascita ( ), sviluppo ( ), morte (t ). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di μ ma anche di . Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: ΄ ΄ , μ . 3 Il pronome dimostrativo è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione ( μ nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro regge sia la terza persona singolare , sia la terza plurale e : il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula , come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a : i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi ( ,μ ), le scelte verbali ( , , ) contrastano la determinazione dell'essere come ΄ ΄ , μ di B8.5.
222
e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8. A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. La formula avverbiale μ ΄ (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di . Leggiamo collegato al participio . 8 La costruzione greca – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore avversativo di , seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per : la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva . Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione μ΄ richiama puntualmente B8.38b-39a:
7
΄
μ΄
,
e B8.53: μ
μ
μ
secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo μ si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a μ ) di distinguere, contraddistinguere ( - μ ). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome.
223
COMMENTO
224
IL VIAGGIO [B1]
Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: μ
Ἕ
μ
μ
Ἕ
μ
μ , .
,
ῖ
,
μ
Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrivἷΝiὀΝὃuἷὅtὁΝmὁἶὁΝ… (Adv. Math. VII, 111).
Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio filosofico ( ), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazioὀἷΝmἷtἳfὁὄicἳΝἳll’iὅtὄuὐiὁὀἷΝfilὁὅὁficἳ del poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): μ
μ μ μ
[1]Ἕ μ ῖ
μ
μ
Ἕ
[2. 3]Ἕ [5]Ἕ
μ
225
ῖ ἡἡἡ
[7. 8]Ἕ
Ἕ [9]
ῖ
μ
ἡ
[22] μ ἡἡἡ
μ
μ
μ
μ
μ
μ
ἡ ῖ
ῖ
[14]Ἕ μ
ῖ Ἕ
μ
μ
[29]Ἕ μ Ἕ
[30]Ἕ μ Ἕ ἡ In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo.
In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili 226
ὅuggἷὅtiὁὀiΝcultuὄἳli,ΝchἷΝhἳὀὀὁΝiὀΝcὁmuὀἷΝl’ἷffἷttὁΝἶiΝὄἷὀἶἷὄὀἷΝlἳΝ relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’iὀὃuἳἶὄἳmἷὀtὁΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἳll’iὀtἷrno di uὀ’ἳὄticὁlἳtἳΝ cὁὄὀicἷΝ ἶiΝ ὂlἳuὅiἴiliΝ ὂὄἷcἷἶἷὀtiΝ (ἷΝ mὁtivi)Ν ὂὁἷtici,Ν chἷΝἳὂὂἳiὁὀὁΝὄilἷvἳὀtiΝὂἷὄΝἳὂὂὄἷὐὐἳὄὀἷΝl’ὁὄigiὀἳlitὡέΝἠἷllἳΝcὁὀὅapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1: (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del , ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: μ μ μ ῖ Ἕ μ μ sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare,
iὀὅiἷmἷΝ ἳlΝ mὁtivὁΝ ἶἷllἳΝ “ἶὁὂὂiἳΝ viἳ”Ν (vἷὄitὡΝ ἷἶΝ ἷὄὄὁὄἷ),Ν chἷΝ ἷvὁchἷὄἷἴἴἷΝ l’ἳὀἳlὁgἳΝ ἳltἷὄὀἳtivἳΝ tὄἳΝ miseria morale ( )e valore morale ( ) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggeὄἷἴἴἷὄὁΝ tἷὄmiὀiΝ ἷΝ immἳgiὀiμΝ ὀἷlΝ ὄicὁὀὁὅcἷὄὀἷΝ l’imὂὁὄtἳὀὐἳ,Ν lἷΝ connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ἳmὂiἳΝ iὀciἶἷὀὐἳΝ ὀἷllἳΝ cultuὄἳΝ gὄἷcἳΝ iὀΝ gἷὀἷὄἷ,Ν ὄilἷvἳὀἶὁΝ tὄἳccἷΝ del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica.
1
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss.
227
ἙὀΝ tἳlἷΝ ὂὄὁὅὂἷttivἳ,Ν DiἷlὅΝ ὄichiἳmἳvἳΝ l’ἳttenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei μ di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona» (Icherzählung)ΝἶiΝuὀ’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶiΝIncubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: Ἀ
μ ῖ
ῖ Ἕ μ
μ
μ
μ μ
Ἕ Ἀ
>
Ἀ
ἡ
· ῖ μ
ἡ· μ
μ ἡ μ · < μ μ
ῖ
ῖ ῖ Ἀ ἡ Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale).
228
Proprio Epimenide (nei suoi μ , in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione,ΝἶἷciὅivὁΝἶivἷὀtἳΝilΝmὁtivὁΝἶἷlΝ“viἳggiὁ”Νultὄἳtἷὄὄἷὀὁ,ΝἶἷlΝ contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia gἷὀἷὄicἳmἷὀtἷΝὁὄficἳΝἳvὄἷἴἴἷΝiὀcὄὁciἳtὁΝl’ἷlἷmἷὀtὁΝ“ἷὅtἳticὁ”,ΝἶiΝ cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. χll’iὀtἷὄὀὁΝἶiΝtἳlἷΝὁὄiὐὐὁὀtἷΝcultuὄἳlἷ,ΝilΝ si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintenἶimἷὀtὁΝὂὄὁὂὁὀἷὀἶὁlὁΝcὁmἷΝmἷὄἳΝiὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝἶ’ὁccἳὅiὁὀἷΝὁΝtὄibuto formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità (asὅumἷὀἶὁΝ l’imὂlἳuὅiἴilἷΝ vἷὅtἷΝ ἶἷlΝ ὂὁἷtἳΞ)μΝ èΝ ὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝ iὀvἷcἷΝ cὁὀὅἷὄvἳὄἷΝ ἳlΝ tἷὅtὁΝ lἳΝ ὅuἳΝ ὂὁliὅἷmiἳΝ ἷΝ ἳlΝ cὁmὂlἷὅὅὁΝ ἶἷll’imὂὄἷὅἳΝ teorica di Parmenide uno spessore originale 2. 2
Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anchἷΝl’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝ (“ἢἳὄmἷὀiἶἷὅΝ Ν ἳὀἶΝ ἘiὅΝ ἢὄἷἶἷcἷὅὅὁὄὅ”)Ν ἶiΝ εέJέΝ ἘἷὀὀΝ ἳlΝ ὅuὁΝ Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione ὅulΝ tἷmἳΝ “ἦhἷΝ ἢoet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric ἥtylἷ”,Ν ἶἷἶicἳὀἶὁΝ mὁltὁΝ ὅὂἳὐiὁΝ ἳll’ἳὀἳliὅiΝ ἶἷllἳΝ ὅtὄuttuὄἳΝ ἶἷll’ἷὅἳmἷtὄὁΝ parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. ἧὀ’ἳmὂiἳΝἷΝὅὁὅtἷὀutἳΝlἷttuὄἳΝἶἷlΝὂὄὁἷmiὁΝcὁmἷΝchiἳvἷΝὂἷὄΝl’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝ del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011.
229
Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano 3, il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religiὁὅὁΝ iὀΝ cuiΝ ὅiΝ muὁvἷvἳΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷ,Ν cἳὀtἳὄἷΝ uὀ’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iὀiὐiἳticὁΝἷΝὂἷὄfὁὄmἳtivὁ,ΝἷὄἳΝcὁὅἳΝἴἷὀΝἶivἷὄὅἳΝἶἳll’ἷὄuἶitἳΝἷὅἷὄcitἳὐiὁὀἷΝchἷΝl’ἳllἷgὁὄἷὅiΝἶiΝἥἷὅtὁΝὂὄἷὅuὂὂὁὀἷμΝilΝὂὁeta Parmenide si ὄivὁlgἷvἳΝ ἳΝ uὀ’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le ὂἳὄὁlἷΝἶiΝuὀἳΝἶἷἳΝἷΝὂἳὄtἷciὂἳὄἷΝἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἷvὁcἳtἳΝiὀΝvἷὄὅiέΝῄΝ significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva.
Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in ὂἳὄticὁlἳὄἷΝ ἳll’iὀtimὁΝ ὀἷὅὅὁΝ tὄἳΝ ὂὁἷὅiἳ,Ν ὄivἷlἳὐiὁὀἷΝ ἷΝ mitὁ,Ν cἷὄtamἷὀtἷΝ uὀἳΝ chiἳvἷΝ ὂἷὄΝ ἶἷcifὄἳὄἷΝ l’imὂiἳὀtὁΝ cὄἷἳtivὁΝ ἶἷlΝ , in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μ ) e «verità» (Ἀ ).
Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12.
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Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per «celἷἴὄἳὄἷΝcὁὀΝὂἳὄὁlἷΝἷΝmuὅicἳΝὃuἷllἷΝgὄἳὀἶiΝὁὂἷὄἷΝἷΝl’iὀtἷὄὁΝὅuὁΝὁrdinamento»4έΝ χΝ tἳlἷΝ ὅcὁὂὁ,Ν ὂἷὄΝ ὁὀὁὄἳὄἷΝ lἳΝ ἴἷllἷὐὐἳΝ ἶἷll’ἷἶificiὁΝ cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ὀἷΝ ὄivἷlἳὀὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷέΝ ἢἷὄΝ ilΝ gὄἳὀἶἷΝ filὁlὁgὁΝ tἷἶἷὅcὁΝ ἩἳltἷὄΝ ἔὄiedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’ἷὅὅἷὄἷΝἶἷllἷΝcὁὅἷΝὅiΝ riveli nella parola con la sua divinità 5: ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. ἙὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ὂὄὁὅὂἷttivἳ,Ν l’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷlΝ mitὁΝ èΝ iὀtἷὅἳ come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝἳὄcἳicἳΝchἷΝilΝὂὁἷtἳΝὂὁὅὅἳΝἳvviciὀἳὄἷ,ΝὂiὶΝἶἷgliΝἳltὄiΝ uὁmiὀi,Νl’ἷὅὅἷὄἷΝἶἷllἷΝcὁὅἷνΝchἷΝlἳΝὅuἳΝὂἳὄὁlἳΝὂὁὅὅἳΝἳffἷὄὄἳὄἷΝlἳΝὄeἳltὡΝ iὀΝὂὄὁfὁὀἶitὡΝiὀΝfὁὄὐἳΝἶἷllἳΝ ὅuἳΝ“iὅὂiὄἳὐiὁὀἷ”έΝδ’invocazione allἷΝεuὅἷΝἶἷll’ἳὀticἳΝὂὁἷὅiἳΝgὄἷcἳ palesa la recettività del poeta: l’Ν – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo ὅἷὀὅὁΝlἳΝὂὁἷὅiἳΝèΝuὀ’ὁmἴὄἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὀὐἳΝἶἷlΝmitὁέ Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua è la voce 4
Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60.
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attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella deiΝ “mὁὄtἳli”έΝDὁὀἶἷΝ il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6.
Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, ὅὁὂὄἳttuttὁΝ ὀἷlΝ ὂlἳὅmἳὄἷΝ l’ἳttἷggiἳmἷὀtὁΝ ἶἷlΝ ἶἷὅtiὀἳtἳὄiὁΝ ἶἷllἳΝ comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel , che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il divino ( ῖ ). Significativamente, la introdurrà (B2) l’ἳὅὅiὁmἳticἳ della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» ( μ μ ): il «giovane» ( ) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» ( μ ) del μ divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μ (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di «ragione»)7, della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il a valutare razionalmente ( ῖ , «giudica cὁὀΝilΝὄἳgiὁὀἳmἷὀtὁ»)Νl’ἳὄgὁmἷὀtὁΝὂὄὁὂὁὅtὁέ
6 7
L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32.
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ἕiὡΝ ὀἷlΝ ὄἷgiὅtὄὁΝ vἷὄἴἳlἷΝ èΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ iὀtὄἳvἷἶἷὄἷΝ l’iὀtἷὄvἷὀtὁΝ creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μ : il cὁὀtἷὀutὁΝ ἶἷll’ἷὂicἳΝ èΝ cὁὅtituitὁ,Ν iὀὅiἷmἷ,Ν ἶἳΝ «lἷΝ cὁὅἷΝ chἷΝ ὅὁὀὁ,Ν quelle che sono state e quelle che saranno» ( μ , Calcante in Iliade I, 70) e (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), ἳttὄiἴuiὄἷΝἳΝuὀἳΝἶiviὀitὡΝlἳΝὄivἷlἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝcὁὀtἷὀutὁΝἶἷll’ὁὂἷὄἳΝὅarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso 9. È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca lἳΝὂὁὅὅiἴilitὡΝἶiΝuὀἳΝ“cὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝvἷὄἳ”,ΝἶiΝun «autentico contatto» (Vernant) con il divino 10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’iὀὀὁΝ ἳllἳΝ ἶiviὀitὡΝ iὀΝ fuὀὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ὂὄὁἷmiὁΝ ὄἳὂὅὁἶicὁΝ (ὀἷlΝ cἳmὂὁΝ dellἳΝὂὁἷὅiἳΝἷὂicἳ),ΝὁvvἷὄὁΝl’iὀvὁcἳὐiὁὀἷΝἳllἷΝεuὅἷΝiὀΝfuὀὐiὁὀἷΝἶiΝ protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (ὀἷlΝcἳmὂὁΝἶἷllἳΝὂὁἷὅiἳΝcὁὅmὁgὁὀicἳ),ΝchἷΝcἷlἷἴὄἳὀὁΝl’iὀvἷὅtituὄἳΝ poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium ἶἷllἳΝὄivἷlἳὐiὁὀἷ,Νl’ἳἶὁὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝfὁrmἳΝ ὂὁἷticἳΝ fὁὅὅἷΝ ὅcὁὀtἳtἳΝ ἷΝ ilΝ mἷtὄὁΝ ἶἷll’ἷὂicἳΝ tὄἳἶiὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝ
8
Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110.
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fuὀὐiὁὀἳlἷΝ ἳll’iὅtὄuὐiὁὀἷ 12 ; ma è anche vero che la scelta ἶἷll’ἷὂicἳΝἳvὄἷἴἴἷΝἳΝὅuὁΝmὁἶὁΝὀἳtuὄἳlmἷὀtἷΝcὁmὂὁὄtἳtὁΝὃuἷlΝmedium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’ὁὄiὐὐὁὀtἷΝἶἷllἳΝ vἷὄitὡΝiὀΝ cuiΝὅiΝ iὅcὄivὁὀὁΝiΝcὁὀtἷὀutiΝἶἷlΝὂὁἷmἳ, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13.
Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona (il istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà fuὀὐiὁὀἳlἷΝ ἳΝ uὀἳΝ mὁἶificἳὐiὁὀἷΝ ὄἳἶicἳlἷΝ ἶἷll’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ ἶiΝ cὁluiΝ che è destinato a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mitὁΝἶἷll’ἳuὄigἳ)έ Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiὁὅἳνΝ(ii)ΝlἳΝmἷtἳΝἶἷlΝviἳggiὁμΝl’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝlἳΝἶiviὀitὡνΝ(iii)ΝlἳΝ ὅcἷὀὁgὄἳfiἳΝ cὁὅmicἳΝ ἶἷll’iὀcὁὀtὄὁνΝ (iv)Ν lἷΝ mὁἶἳlitὡΝ ἶἷllἳΝ ὄivἷlazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nellἳΝ ὅcἷltἳΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷἳΝ ἶἷlΝ mἷtὄὁΝ (ἷὅἳmἷtὄὁ)Ν ἶἷll’ἷὂicἳΝ 12
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008).
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uὀ’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝἶiἶἳὅcἳlicἳ,Νl’iὀtἷὄἷὅὅἷΝἳlΝὄἷcuὂἷὄὁΝἶiΝuὀὁΝὅtὄumἷnto culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di comportamento 15 . A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così ἶἷὀuὀciἳὀἶὁΝl’iὀciἶἷὀὐἳΝ(ἷΝl’ἷfficἳciἳ)Νἶἷll’ἷὂicἳΝἳὄcἳicἳΝὅuΝmἷntalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato l’imὂἳttὁΝ“ἶiἶἳtticὁ”ΝἶἷllἳΝperformance poetica, la forza comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16.
C. Robbiano, Becoming Being. τn Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 14
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Della poesia greca arcaica17, il , nel suo proemio, cὁὀὅἷὄvἳΝ ὅἷὀὐ’ἳltὄὁΝ ilΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ὂἳὄἳἶigmἳticὁΝ ἳlΝ mitὁΝ cὁmἷΝ memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo ἶἷll’iὅὂiὄἳὐiὁὀἷ divina (ἶὁὀἶἷΝl’iὅtitutὁΝὅtἷὅὅὁΝἶἷl ὂὄὁἷmiὁ,ΝciὁèΝl’ἳἴituἶiὀἷΝἶiΝfἳὄΝ cominciare il canto - epico o lirico - cὁὀΝl’iὀvὁcἳὐiὁὀἷΝἳllἷΝεuὅἷΝ o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni intἷὄὀἷΝἳllἳΝὅtἷὅὅἳΝtὄἳἶiὐiὁὀἷΝὁmἷὄicἳΝ(l’ἳἷἶὁΝ DἷmὁἶὁcὁΝὀἷll’ὁttἳvὁΝliἴὄὁΝἶἷll’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il ὂὄimὁΝ ἳΝ «ὄἷcitἳὄἷ»Ν ἡmἷὄὁΝ ἳΝ ἥiὄἳcuὅἳΝ (iὀΝ uὀ’ἳὄἷἳΝ gἷὁgὄἳficἳΝ ὀὁὀΝ remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia 19 ),Ν iὀὅἷὄἷὀἶὁΝ ὀἷll’ὁὄἶitὁΝ ἶἷiΝ ὂὁἷmiΝ omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fὁὀἶἳtὁΝ ὃuἳὅiΝ ἷὅcluὅivἳmἷὀtἷΝ ὅull’ὁὄἳlitὡΝ della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse ἶἷὅtiὀἳtὁΝἳΝtὄἳὅmἷttἷὄἷ,ΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝlἳΝὀἳὄὄἳὐiὁὀἷ,Νl’ἷὀciclὁὂἷἶiἳΝἶἷlΝ sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso ἶἷll’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica 20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'origiὀἳlitὡΝἶἷll’imὂiἳὀtὁΝἷΝl’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17
Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69.
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Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturἳlἷ,Ν lἳΝ ἶimἷὀὅiὁὀἷΝ “ὅὂἷttἳcὁlἳὄἷ”Ν (ὄἷcitἳὐiὁὀἷΝ ἷΝ canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a cὁmὂὄἷὀἶἷὄἷΝ lἳΝ ὅὁlἷὀὀitὡΝ ἶἷll’ἷὅὁὄἶiὁΝ ὂὁἷticὁΝ ἶἷlΝ e l’iὀὅiἷmἷΝ ἶὄἳmmἳticὁΝ ἶἷlΝ ὂὄὁἷmiὁΝ (viἳggiὁ,Ν ἶifficὁltὡ,Ν iὀcὁὀtὄὁΝ con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche ἷmὁὐiὁὀἳlἷ,Ν iὀcὁὄἳggiἳὀἶὁlὁΝ ἳΝ ὅἷguiὄἷΝ l’ἷὅὂἷὄiἷὀza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità 22. In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina»23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale ( ῖ ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: μ
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21
Ivi, p. 49. Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua , Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 22
237
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μ μ [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».
Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico» 25: la memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26.
Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»:
25 26
Cerri, op. cit., p. 94. Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy? , ἢὄἷὅὅἷὅΝ ἧὀivἷὄὅitἳiὄἷὅΝ ἶuΝ ἥἷὂtἷὀtὄiὁὀ,Ν ἨillἷὀἷuvἷΝ ἶ’χὅcὃΝ (ἠὁὄἶ)Ν ἀίίἀ,Ν ὂὂέΝ 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito.
238
ῖ Ἕ Ἕ
μῖ
μ μ Ἦ Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b),
a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, maὀifἷὅtἳtὁΝuὀΝcἷὄtὁΝἶiὅἳὂὂuὀtὁΝἶiΝfὄὁὀtἷΝἳiΝvἷὄὅiΝἶἷll’ἓlἷἳtἷμ μ
μ
μ
μ
μ μ Ἕ ἡ I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco; DK 28 A15) μ μ Ἀ μ Ἕ μ [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ilΝ mὁἶὁΝ ἶiΝ fἳὄἷΝ vἷὄὅiΝ […]Ν (ἢlutἳὄcὁνΝ DKΝ ἀἆΝ A16) ἡ
μ μ Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17).
La forza del pensiero sarebbe stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un duὂlicἷΝ ἷffἷttὁΝ ὀἷgἳtivὁμΝ l’ὁὅcuὄitὡΝ ἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἷΝ lἳΝ ὅcἳἶἷὀtἷΝ qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 239
medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momἷὀtὁ,ΝvἳlutἳὀἶὁὀἷΝl’imὂἳttὁΝcὁmuὀicἳtivὁμΝἶὁὀἶἷΝiΝcὁmὂὄὁmἷssi e le incongruenze cui accenna Proclo: ἡ
· μ
μ
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ῖ ἡ
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ῖ
44. 45]
·
μ
[ἵ 8Ἕ ἥἨἡ Ἠἡ
ῖ < ἱ ἡ Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma ἶ’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
ἥἷmἴὄἳΝ ὄivἷὀἶicἳὄἷΝ iὀvἷcἷΝ l’ὁὄigiὀἳὄiἳΝ ἷΝ ὁriginale intenzione ὂὁἷticἳΝἶἷll’ὁὂἷὄἳΝὂἳὄmἷὀiἶἷἳΝἕἷὀἷtliὁμ [scἡ μ
μ Ἕ
μ ·
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Ἀ
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] [vgl. 31 A 23]. […ὔ μ Ἕ
μ ἡἡἡ
ἡ μ
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ἡ μ
μ Ἕ μμ ἡ Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaciΝ […]Ν ἓὅὅiΝ ὅὁὀὁΝtἳliΝ ὃuἳὀἶὁ,Ν levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’ἳὄiἳ,Ν ἶiΝ ZἷuὅΝ chἷΝ èΝ ilΝ cἳlὁὄἷμΝ iὀὀiΝ ἶiΝ ὃuἷὅtὁΝ tiὂὁΝ iὀfἳttiΝ ὄiguἳὄἶἳὀὁΝ l’iὀἶἳgiὀἷΝ ὅullἳΝ ὀἳtuὄἳέΝ ἥiΝ ὅἷὄvὁὀὁΝ ἶiΝ ὃuἷὅtἳΝ fὁὄmἳΝ ἶ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἷἶΝ ἓmὂἷἶὁclἷΝ iὀΝ mὁἶὁΝ ὄigὁὄὁὅὁΝ […]Ν ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἷἶΝ ἓmὂἷἶὁclἷΝ iὀfἳttiΝ fἳὀὀὁΝ ἶἳΝ
240
guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20).
Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» ( μ ), vere e proprie «indagini sulla natura» ( ),Ν ὄicὁὀὁὅciutὁΝ ὀἷll’ἳὀtichitὡΝ (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: ‘ [ 8, 43], μ μ
ῖ
μ
·
μ ἡ [fr. 70, 2 Kern]
; ἥἷΝ [ἢἳὄmἷὀiἶἷ]Ν ἳffἷὄmἳΝ chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ uὀὁΝ èΝ «ὅimilἷΝ ἳΝ massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre ἳὀchἷΝ ἳΝ ὃuἳlchἷΝ fiὀὐiὁὀἷΝ miticἳέΝ ἑhἷΝ ἶiffἷὄἷὀὐἳΝ c’èΝ dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uὁvὁΝἶ’ἳὄgἷὀtὁ»ςΝ(ἥimὂliciὁνΝDKΝἀἆΝχἀί)έ
La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica ὂὄἳticἳmἷὀtἷΝἶἷll’iὀtἷὄὁΝlἷὅὅicὁΝἶἷlΝὂὁἷmἳΝ(ἑὁxὁὀ27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimenὅiὁὀἷΝὂὁἷticἳΝἶἷll’ὁὂἷὄἳΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝἷΝὅὁὂὄἳttuttὁΝlἳΝὅuἳΝfὁὄmazione di rapsodo (Schwabl 28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29), impegnato a compoὄὄἷΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἳΝ tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27
A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 ἘέΝ ἥchwἳἴl,Ν “ἘἷὅiὁἶΝ uὀἶΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷὅ,Ν ZuὄΝ ἔὁὄmuὀgΝ ἶἷὅΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷiὅchἷὀΝ ἢὄὁὁimiὁὀὅΝ(ἀἆΝἐ1)”,Ν«ἤἷiὀiὅchἷὅΝεuὅἷum»,Ν1ίἄΝ(1λἄἁ),ΝὂὂέΝ1ἁἂ-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5.
241
ἶἷlΝ vἷὄὅὁΝ ὀἷlΝ cἳmὂὁΝ ἶ’iὀἶἳgiὀἷΝ ἶἷllἳΝ ὀἳtuὄἳμΝ iΝ mὁἶἷlliΝ ἷὂiciΝ ὂotrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica 30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito 31.
La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo 32: ὅἷΝ l’ἷὅitὁΝ ἶἷllἳΝ ὄicἷὄcἳΝ fὁὅὅἷΝ ὅtἳtὁΝ ἳvἳὀὐἳtὁΝ ὅἷmὂlicἷmἷὀtἷΝ cὁmἷΝ la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’ὁὂiὀiὁὀἷΝἶiΝuὀΝmὁὄtἳlἷΝiὀΝcὁὀcὁὄὄἷὀὐἳΝcὁὀΝlἷΝὁὂiὀiὁὀiΝἶἷgliΝἳltὄiΝ (mortali) 33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: μ
,
μ
ῖ
non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50),
così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a uὀΝὅὁggἷttὁ,ΝmἳΝἳllἳΝἶiviὀitὡ,ΝὂἷὄΝgἳὄἳὀtiὄὀἷΝl’ἳὅὅὁlutἷὐὐἳ 34.
30
Sull’ὁὄfiὅmὁΝiὀΝgἷὀἷὄἳlἷΝὅiΝvἷἶἳὀὁΝὁὄἳΝiΝὀumἷὄὁὅiΝἷΝὂὄἷὐiὁὅiΝὅἳggiΝcὁὀtἷὀutiΝiὀΝ A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65.
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Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» ( μ μ Ἀ B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come (disamina, prova), invitando il a giudicare razionalmente ( ῖ ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’uὄgἷὀὐἳΝἶiΝuὀΝὂἷgὀὁΝἶiviὀὁΝὂἷὄΝilΝlogos proferito.
Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41): , μ
μ
μ μ
· ἡ
·
Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35.
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i trattiΝ cὁὀΝ cui,Ν iὀΝ ἐἄΝ ἷΝ ἐἅ,Ν cἳὄἳttἷὄiὐὐἷὄὡΝ l’impotenza dei «mortali» ( ): essi sono apostrofati come («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35
W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162.
243
come μ («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e nἷll’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva liquidata come («mente errante», con paralleli in Archiloco fr. 58)36. χΝἶiὅὂἷttὁΝἶiΝὃuἷὅtὁΝὃuἳἶὄὁ,ΝἶἷlΝfἳttὁΝchἷΝl’uὁmὁ,ΝcὁὀΝlἷΝὅὁlἷΝ sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, ilΝὂὄὁἷmiὁΝὀἳὄὄἳΝcὁmἷΝl’iὀtἷὄvἷὀtὁΝἷΝlἳΝἴἷὀἷvὁlἷὀὐἳΝἶἷllἷΝἶiviὀitὡΝ consentano – almeno al poeta – di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente ( ῖ ) con il proprio oggetto ( )38. δἳΝ ὅὂἷcificἳΝ cὁὄὀicἷΝ lἷttἷὄἳὄiἳΝ ἷΝ l’imὂlicitὁΝ mὁtivὁΝ ἶἷllἳΝ comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei ὂὄiὀciὂiΝ ἶἷll’ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷμΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷ,Ν iὀὅὁmmἳ,Ν ἳvὄἷἴἴἷΝ ἳttὄiἴuitὁΝiΝfὁὀἶἳmἷὀtiΝἶἷllἳΝὂὄὁὂὄiἳΝἷὀciclὁὂἷἶiἳΝἳΝuὀ’ἳὀὁὀimἳΝἶocenza divina, per assicurarne incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta avrebbe conservato, ὀἷllἳΝfiὀὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝDἷἳ,Νl’iἶἷἳΝtὄἳἶiὐiὁὀἳlἷΝἶἷll’ὁὀὀiὅciἷὀὐἳΝἶivina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme: avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità religiosa ma filosofica39.
36
Ivi, pp. 163-4. Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 37
244
Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42μΝl’iὀtἷὄὁΝcἳmὂὁΝἶἷlΝὅἳὂἷὄἷΝèΝἷὅὂlicitἳmἷὀtἷΝὄicὁndotto ἳllἳΝ lἷὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ Dἷἳ,Ν tἳὀtὁΝ lἷΝ tἷὅiΝ iὀtὁὄὀὁΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ὃuἳὀtὁΝ l’ἷὀciclὁὂἷἶiἳΝ ἶἷlΝ «ὅiὅtἷmἳΝ cὁὅmicὁ»Ν ( μ ), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri-
40
Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): μ μ
Ἀ
·
΄
μ […ὔ A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳΝ[…] le due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione.
245
tà43. Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo ἳll’ὁὄigiὀἷΝἶἷlΝcὁὅmὁ,ΝcὁὅìΝἳὅὅicuὄἳὀἶὁ,ΝiὀΝfὁὄὐἳΝἶἷllἳΝὄivἷlazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45. Quando le Muse di Esiodo dichiarano: μ μ μ ῖ Ἕ μ μ sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28),
l’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝ ὀὁὀΝ èΝ ἶiΝ mἷttere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: ῖ
Ὅμ
Ἕ
Ἕ
μ ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, Su questὁΝ ὂuὀtὁΝ ἕέΝ ἕἷὄmἳὀi,Ν Ο Λ Θ Ι Ν iὀΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΟ,Ν iὀΝ «δἳΝ ἢἳὄὁlἳΝ ἶἷlΝ Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.).
43
246
quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμ μ Ἕ ῖ ( ) μ Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12).
Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di recupero» 48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione concettuale 49. Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: ῖ
Ἕ μ non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18)
48 49
L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit..
247
μ μ
μ
μ
·
Ἕ μ · davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34).
Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀ
μ ·
Ἕ
μ Ἕ μ Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi 51 (DK 24 B1).
La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50
J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio ( Ἕ ) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19).
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«la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità» 52. Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei contἷὀutiΝἶἷll’ὁὂἷὄἳέ
Motivi poetici e suggestioni ἙὀΝuὀὁΝὅtuἶiὁΝmὁltὁΝiὀὀὁvἳtivὁΝὂἷὄΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝἳllἳΝfὁὄmἳΝὂὁetica del , Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 ἶἷll’ἷὂicἳΝchiἳὄἳmἷὀtἷΝὂὄἷὅἷὀtiΝὀἷlΝὂὁἷmἳέΝἦὄἳΝὃuἷὅtiΝἳὂὂἳiὁὀὁΝἶiΝ particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello ἶἷll’istruzione, marcata ἶἳll’uὅὁΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝὂἷὄὅὁὀἳΝὀἷllἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶiviὀἳ,ΝἷΝἶἳlΝ ricorso a formule programmatiche ( ; μ ; μ μ ; ; ), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero.
Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati 55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52
Germani, op. cit., p. 187. A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18.
53
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primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa ( ), per cui esiste una specifica impresa di ricerca ( μ ): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centὄἳliΝὄiὅultἷὄἷἴἴἷὄὁ,Νὀἷll’ἷcὁὀὁmiἳΝἶἷlΝὂὁἷmἳ,ΝlἳΝcὁnduzione ( μ ) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’ἷὄὄἳmἷὀtὁΝ( ) dei «mortali»: analogamente, l’ἷὄὁἷΝὁmἷὄicὁΝ- accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, ἶ’ὁὅtἳcὁlὁΝἳlΝviἳggiὁΝἶiΝὄitὁὄὀὁ56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», μ ) della via corretta (B8.1-2: μ ῖ ), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: ), connotati come «uomini a due teste» ( ). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai μ del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie 58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo).
56
Ivi, pp. 18-21. ἧὅὁΝ l’ἳggἷttivὁΝ – come Diels – nel suo significato etimologico da (scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 57
250
Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo (con cui la μ apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni 60. Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema» 61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: ΄ μ , v. 5) di un "iniziato" ( ) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba ( 59
Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386.
251
, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la μ e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza» 63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: μ
μ
μμ ῖ Ἀ μ Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade 64,
dove, presso la palude di Mnemosine ( μ μ ), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai «custodi» ( ): μ Ἄ che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso 65.
[h]
Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da
62
La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di μ che le conducano come μ . 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp. 390-1.
252
Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): < >
,
[...] [ h ]
μ
· μ
μ c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) Ἀ
μ ῖ
μ Ἕ
μ
μ
ἡ μ
E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) Ἀ
μ μ
ῖ μ
Ἕ
μ
ἡ
< > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre
253
dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67.
Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del : ΄ ΄ , μ μ Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (B2.1),
evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate: (i) μ (ii) ΄
μ μ
(B2.3); (B2.5);
per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno» ( , B6.4)68. Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti 69. Più prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67
Colli, op. cit., pp. 172-7. Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6. 68
254
importanti e complesse» 70. In ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare» 71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della persona» 72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la μ innominata di Parmenide.
Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - ilΝcuiΝὄiliἷvὁΝὀἷll’ἳmἴitὁΝἶἷllἳΝcultuὄἳΝἳὄcἳicἳΝἷὄἳΝ stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca 73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o ὀἷll’ὁltὄἷtὁmἴἳ,Ν ὂἷὄΝ ἳccὁmὂἳgὀἳὄἷΝ ἳltὄἷΝ ἳὀimἷΝ ὁΝ ὄicἷvἷὄἷΝ iὅtὄuzioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la divinità.
70
Ivi, p. 119. Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 71
255
Anche Mourelatos 74 ὄicὁὀὁὅcἷΝ lἷΝ ὅὁmigliἳὀὐἷΝ tὄἳΝ l’itiὀἷὄἳὄiὁΝ del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare, ὀἷll’immἳgiὀἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ uὀΝ ἳὅcὁltἳtὁὄἷΝ ΟiὀiὐiἳtὁΟΝ ἳΝ tἳliΝ ὂὄἳtichἷ,Ν iΝ segὀiΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ὅciἳmἳὀicἳέΝ ἙὀΝ ὃuἷὅtὁΝ ὅἷὀὅὁΝ ἳὂὂἳὄἷΝ ἳὀcὁὄΝ ὂiὶΝὅigὀificἳtivὁΝl’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝἳΝἡἶiὅὅἷὁέΝἙὀΝὂἳὄticὁlἳὄἷ,Νεὁuὄelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabilἷ,Νtuttἳviἳ,ΝchἷΝl’imὂὁὄtἳὀὐἳΝἶiΝὃuἷὅtὁΝὄἷtὄὁtἷὄὄἳΝἶiὂenda in larga miὅuὄἳΝἶἳΝmὁtiviΝἷΝtἷmiΝcὁὀἶiviὅiΝἶἳll’ἷὂicἳΝὂὄἷcἷἶἷὀtἷ,ΝὅἷἴἴἷὀἷΝ impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. ἠὁὀὁὅtἳὀtἷΝ l’ἳὅὅἷὀὐἳΝ ἶiΝ ἷviἶἷὀὐἷΝ tἷὅtuἳliΝ chἷΝ ἳutὁὄiὐὐiὀὁΝ ἳΝ ὂἳὄlἳὄἷΝἶiΝuὀΝ“mὁtivὁ”Νlἷttἷὄἳὄiὁ,ΝἳlluὅiὁὀiΝἳlΝὂἳὄἳἶigmἳΝἶἷll'ἷὅὂerienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», ) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico ὂἷὄΝ iὀἶicἳὄἷΝ l’«iὀiὐiἳtὁ»76, colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino 77: l’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷὅcὄittἳ,Ν iὀfἳtti, ὅἳὄἷἴἴἷΝ ὃuἷllἳΝ ἶiΝ uὀ’ἷccἷὐiὁὀἳlἷΝ 74
Op. cit., pp. 44-5. P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 75
256
, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero ). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa ὀἷll’χἶἷΝiὀΝὃuἳὀtὁΝluὁgὁΝ della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, cὁmἷΝl’ἷὄὁἷΝἓὄἳclἷ79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su traἶiὐiὁὀiΝὂὁὅtἷὄiὁὄi),ΝKiὀgὅlἷyΝὂὁὄtἳΝtἷὅtimὁὀiἳὀὐἷΝὄicἳvἳtἷΝἶἳll’ἳὄtἷΝ vἳὅcὁlἳὄἷΝ ἶἷll’ἷὂὁcἳΝ ἷΝ ἶἷllἳΝ ὄἷgiὁὀἷΝ ἶiΝ ἓlἷἳ,Ν chἷΝ ὄitὄἳggὁὀὁΝ l’iὀcὁὀtὄὁΝἶiΝἓὄἳclἷΝ cὁὀΝἢἷὄὅἷfὁὀἷΝὅἷcὁὀἶὁΝlὁΝὅchἷmἳΝ ὄiὂὄeso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della : non una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uὁmiὀi,ΝmἳΝuὀΝἶἷὅtiὀὁΝἶiΝcὁὀὁὅcἷὀὐἳΝὅὁttὁΝl’ἷgiἶἳΝἶἷllἳΝgiustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝèΝἳὅὅἳiΝὂὄὁἴἳἴilἷΝchἷΝilΝὂὁἷtἳΝὅiΝἳttἷὀἷὅὅἷΝἳΝὀὁrme compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tolleὄἳἴilἷ,Ν ἶἳΝ uὀΝ ὂuὀtὁΝ ἶiΝ viὅtἳΝ ὂὁἷticὁ,Ν ὅἷΝ ὀὁὀΝ ὂἷὄΝ l’ἷffἷttὁΝ “ὂἷὄfὁrmἳtivὁ”Ν(immἳgiὀἳὀἶὁΝlἳΝὄἷcitἳὐiὁὀἷ),ΝἶiΝiὀcἳὀtἳmἷὀtὁΝἷΝtὄἳὅὂὁrtὁέΝδ’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὂἷὄΝἳlcuὀiΝἶἷttἳgliΝfἳΝiὀὁltὄἷΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝchἷΝἢarmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78
78
Ivi, pp. 62-3. Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 79
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propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», ) emἷὅὅὁΝ ἶἳll’«ἳὅὅἷΝ ἶἷlΝ cἳὄὄὁΝ ὀἷiΝ mὁὐὐiΝ […]Ν iὀcἳὀἶἷὅcἷὀtἷ»,Ν ἶἳlΝ momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano 84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e ὅull’ἳcὄiἴiἳΝcὁὀΝcuiΝὀἷΝviἷὀἷΝὄἷὅἳΝl'ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝὅἷὀὅὁὄiἳlἷΝ(ἳcuὅticἳΝ e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando 85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» ῖ dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a ἨἷliἳΝ (l’ἳὀticἳΝ ἓlἷἳ)Ν uὀ'iὅcὄiὐiὁὀἷΝ ὅuΝ ἴlὁccὁΝ mἳὄmὁὄἷὁΝ chἷΝ ὄἷcita87: [ ὔμ . Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (vἷὀἷὄἳtὁΝὀἷll’ἳὄἷἳΝἳὀἳtὁlicἳ,ΝἶἳΝcuiΝὂὄὁvἷὀivἳὀὁΝiΝὂὄὁfughiΝfὁcἷὅiΝ che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (ἶiΝcuiΝl’ἳὄchἷὁlὁgiἳΝcὁὀfἷὄmἳΝlἳΝὂὄἳticἳΝiὀΝἨἷliἳ),ΝὀἷlΝὅὁlcὁΝἶἷllὁΝ sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. ἠἷllἳΝὅtἷὅὅἳΝἶiὄἷὐiὁὀἷΝὂuὀtἳΝuὀ’ἳltὄἳΝἷviἶἷὀὐἳΝἶὁὅὅὁgὄἳficἳμ
83
Ivi, pp. 129-130. Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 84
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, . Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1).
Il termine - qui tradotto come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio, immὁἴilitὡ»έΝ δ’ἳὅcἷticὁΝ χmiὀiἳΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ὅtἳtὁΝ mἳἷὅtὄὁΝ ἶiΝ «iὀcuἴazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici 88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di ἷlἷmἷὀtiΝὂὁtἷὅὅἷΝcὁὅtituiὄἷΝuὀΝ“mὁtivὁ”Νlἷttἷὄἳὄiὁ,ΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝiὂotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 89
Kingsley, op. cit., pp. 179-181. Op. cit., II, p. 45-6.
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caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla ὂἳtὄiἳΝἶiΝὁὄigiὀἷ,Νἔὁcἷἳ,ΝὅullἷΝcὁὅtἷΝἶἷll’χὅiἳΝεiὀὁὄἷ)έ
La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶiΝ uὀὁΝ ὅfὁὀἶὁΝ cὁὅmicὁΝ (ὂἳὄὐiἳlmἷὀtἷΝ ἶἷlineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande moἶἷllὁΝ ὂὁἷticὁ,Ν ὂὄὁἴἳἴilmἷὀtἷΝ ἶἷciὅivὁΝ ὀἷll’ἷlἳἴὁὄἳὐiὁὀἷΝ lἷttἷὄἳὄiἳΝ di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90 , privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i)Ν lἷΝ ἳὀἳlὁgiἷΝ tὄἳΝ ilΝ ὂὄὁἷmiὁΝ ἶἷlΝ ὂὁἷmἳΝ ἷΝ l’iὀὀὁΝ ἳllἷΝ εuὅἷ91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: μ μ μ ῖ Ἕ μ μ sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -,
rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 91
Op. cit., p. 33. Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974.
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Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muovἷΝiὀΝἷffἷttiΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἷΝὀὁvitὡΝἶἳΝὃuἷὅtiΝiὀtὄὁἶὁttἷΝὀἷllἳΝtὄaἶiὐiὁὀἷΝ ἳἷἶicἳμΝ ilΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἶἷll’ἳutὁὄἷΝ ἳΝ ὅἷΝ ὅtἷὅὅὁΝ ὀἷll’ἷὅὁὄἶiὁΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳΝἷΝlἳΝfuὀὐiὁὀἳlitὡΝἶἷlΝὂὄὁἷmiὁΝὄiὅὂἷttὁΝἳlΝὂὁἷmἳέΝἙὀΝὄἷlazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92 : l’iὀvἷὅtituὄἳΝὂὁἷticἳΝἷΝilΝἶὁὀὁΝἶiviὀὁΝἶἷllἳΝvἷὄitὡ,ΝcὁmἷΝὂὄὁὂὁὅtiΝiὀΝ apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla trἳἶiὐiὁὀἳlἷ,Ν iὀΝ cuiΝ l’ἳutὁὄἷΝ fὁὀἶἳtἳmἷὀtἷΝ ὄivἷὀἶicἳΝ una visione unitaria del cosmo. D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝἳὀchἷΝlἳΝὄiὅὁὄὅἳΝὂὄὁἷmiἳlἷΝèΝἶἳΝἓὅiὁἶὁΝὅfὄuttἳtἳΝ in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza comὂlἷὅὅivἳΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳμΝ «ilΝ ὂὄὁἷmiὁ,Ν cὁὀΝ ilΝ ὄἳccὁὀtὁΝ ἶἷllἳΝ ἷὂifἳὀiἳΝ delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A richiἳmἳὄἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ἶἷll'iὀtἷὄὂὄἷtἷΝ ὅulΝ ὂὄἷcἷἶἷὀtἷΝ ἷὅiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» ( μ΄ ), eco delle «porte» ( ) chἷΝchiuἶὁὀὁΝ(ἷΝἶiὅchiuἶὁὀὁ)Νl’ὁὅcuὄὁΝἦἳὄtἳὄὁΝἷὅiὁἶἷὁμ 92 93
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. Ivi, pp. 129-130.
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· ῖ Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte,
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ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali. 94 (vv. 736-766).
Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 95
Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464.
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tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro 97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali 98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99 , si prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche:
96
Ivi, p. 449. Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 97
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Ἕ ῖ ἡ Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814).
In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet100 101
Teogonia, cit., p. 115. Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II.
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tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» ( μ N ). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: μ
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Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a)
Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la 102 103
Ivi, p. 38. Teogonia, cit., p. 113.
266
ἶiὄἷὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ὁltὄἷtὁmἴἳ,Ν iὀΝ ἳltὄἷΝ ὂἳὄὁlἷΝ ἶἷlΝ luὁgὁΝ tὄἳἶizionalmente privilegiato per le rivelazioni.
Parmenide provvisorie
e
la
poesia:
conclusioni
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei. Questo non imὂlicἳΝchἷΝἷgliΝἳἴἴiἳΝὅἷmὂlicἷmἷὀtἷΝὂuὀtἳtὁΝἳll’ἷffἷttὁΝcὁmuὀicἳtivὁ,Ν cuὄἳὀἶὁὅiΝ ἷὅὅἷὀὐiἳlmἷὀtἷΝ ἶἷll’imὂἳttὁΝ ὂἷὄὅuἳὅivὁΝ ἶἷll’immἳgiὀἳὄiὁΝcὁὅìΝὂlἳὅmἳtὁέ Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della GemelliΝ εἳὄciἳὀὁ)Ν ciὄcἳΝ ilΝ ὄἳἶicἳmἷὀtὁΝ ἶἷlΝ ὂἷὀὅἳtὁὄἷΝ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶiΝ uὀΝ sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo ὂὁὂὁlὁ,ΝὂὁtὄἷmmὁΝiὂὁtiὐὐἳὄἷΝchἷΝl’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝfὁὅὅἷΝ quella di veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia ἷὂicἳ,Ν ἳὄὄicchitἷΝ ἶἷll’ἷcὁΝ ὅuggἷὅtivἳΝ (ὅuὁὀi,Ν mὁvimἷὀtiΝ ἷccέ)Ν ἶiΝ una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettivἳΝ iὀtἷὄὂὄἷtἳtivἳΝchἷ,ΝἳΝὂἳὄtiὄἷΝἶἳllἳΝcἷὀtὄἳlitὡΝἶἷll’ἷlἳἴὁὄἳὐiὁὀἷΝ poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del . Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevἳὄἷΝcὁmἷΝlἳΝἶifficὁltὡΝἶἷll’iὀtἷὄὂὄἷtἷ,ΝὀἷlΝcἳὅὁΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷ,Νὄisieda proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiὁὅἷ,Ν ilΝ cuiΝ ὄἷtὄὁtἷὄὄἳΝ ἷmἷὄgἷΝ ὀἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ὂὁἷticἳ,Ν ἷΝ ὄazionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo ἳll’ὁὄigiὀἳlἷΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝὂἳὄmἷὀiἶἷἳ,ΝὁvvἷὄὁΝὃuἷllἷΝ(miὀὁὄita267
ὄiἷ)ΝchἷΝuὀilἳtἷὄἳlmἷὀtἷΝiὀὅiὅtὁὀὁΝὅull’ἷvἷὀtὁΝὄivἷlἳtivὁΝ(ἷΝὅuiΝὅuὁiΝ contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’ὁggἷttὁΝ ἶiΝ ἳὀἳliὅiΝ (ἳὀchἷΝ ἶἷttἳgliἳtἳ)Ν ὀἷll’ὁὂἷὄἳ,Ν cὁmἷΝ ἳttἷὅtἳtὁΝ dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel poema essenzialmente uno “ὅtilἷΝ ἶiΝ vitἳ”,Ν ὂὄἷfiguὄἳὀtἷΝ l’ἳccἷὐiὁὀἷΝἶiΝfilὁὅὁfiἳΝὂὁiΝἳffἷὄmἳtἳὅiΝ(ὅἷcὁὀἶὁΝlἳΝlἷὐiὁὀἷΝἶiΝἘadot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’ἳttivitὡΝ ἶiΝ tiὂὁΝ cὁgὀitivὁ,Ν ὀὁὀΝ ἳlΝ bios o al prattein105. D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandoviΝὂiuttὁὅtὁΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝἶiΝuὀ’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝviὅὅutἳέΝχὂὂἳὄἷΝfὁὀἶatἳΝ l’ὁὅὅervazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fἳttὁΝ chἷΝ lἳΝ ὂὄἳticἳΝ ἶἷll’ἳllἷgὁὄἷὅiΝ ἷὄἳ,Ν ἳlΝ tἷmὂὁΝ (fiὀἷΝ ἨἙΝ ὅἷcὁlὁΝ a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmeniἶἷ,ΝlἷgἳtὁΝἳll’ἳmἴiἷὀtἷΝὂitἳgὁὄicἳ107. Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co104
P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 χllἷgὁὄiὅtiΝ ἶἷll’ἷtὡΝ clἳὅὅicἳ,Ν Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156.
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involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per lἷΝὃuἳliΝἷgliΝὂὁtἷvἳΝἳttiὀgἷὄἷΝἳll’immἳgiὀἳὄiὁΝἶἷll’ἷὂicἳΝἷ,Νὂὄὁἴabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effettiΝcὁὀcἷὀtὄἳtὁΝὅull’ἷffἷttὁΝ(ilΝmutἳmἷὀtὁΝἶἷllἳΝὂὄὁὅὂἷttivἳΝcὁgὀitivἳΝ ἷΝ lἳΝ cὁὄὄἷlἳtἳΝ tὄἳὅfὁὄmἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳttituἶiὀἷΝ ὂἷὄὅὁὀἳlἷ)Ν ἶἷll’imὂἳttὁΝcὁὀΝlἳΝvἷὄitὡ,ΝἶἷllἳΝὅcὁὂἷὄtἳΝἶἷlΝὄἷἳlἷΝἳὅὅἷttὁΝἶἷlΝtuttὁΝ cosmico.
Il viaggio e la sua esperienza δ’ἷὅplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale ἶἷll’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre ἶἷll’ἷὅὁὄἶiὁΝὀἷllἳΝὅuἳΝὁὄigiὀἳlἷΝiὀtἷὄἷὐὐἳΝὁffὄἷΝl’ὁὂὂὁὄtuὀitὡΝἶiΝvalutarne costruzione, impronta e ufficio ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷll’imὂὄἷὅἳΝ complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta iὀtἷὀἶἳΝmἳὄcἳὄἷΝl’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝἶἷll'ἷὅὂἷὄiἷnza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizὐὁ,Ν ὅἷἴἴἷὀἷ,Ν ὂὄἷὀἶἷὀἶὁΝ iὀΝ cὁὀὅiἶἷὄἳὐiὁὀἷΝ iΝ cὁὀtἷὀutiΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳΝ cὁὀὅἷὄvἳtiΝὀἷiΝfὄἳmmἷὀtiΝὅuccἷὅὅivi,Νl’ἳuὄἳΝἶἷlΝmitὁΝὂὁὅὅἳΝὅuὂἷrficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva.
109
Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve ἶ’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90.
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σel segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione ἶ’iὀὅiἷmἷΝ- dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i)Νl’iὀtἷὄvἷὀtὁΝἶἷllἷΝἓliἳἶiΝ( ) presso Dike, austera ( , «che molto punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μ ῖ ) e «sapientemente» ( ) convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» ( ῖ , destino infausto) a spingere il giovane ( ) al suo cospetto; (b) la via ( ) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» ( ΄ ). ἙὀcὄὁciἳὀἶὁΝiΝὄiliἷvi,ΝὅiΝἷviὀcἷΝchἷΝl’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶiΝcuiΝèΝὂὄὁtagὁὀiὅtἳΝ ilΝ ὂὁἷtἳΝ ἷccἷἶἷΝ iΝ limitiΝ ἶἷll’umἳὀὁΝ ἷΝ chἷΝ ciάΝ ἳccἳἶἷΝ ὅecondo un disegno cui concorrono le aspirazioni ( μ ) del filosofo (v. 1): μ , ΄ μ Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere,
e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): μ mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110
Leszl, op. cit., p. 141.
270
δ’ἷccἷὐiὁὀἷΝ cὁiὀvὁlgἷΝ iὀΝ ὂἳὄticὁlἳὄἷΝ ἶuἷΝ ἳὅὂἷttiέΝ ἙlΝ ὂὁἷtἳΝ hἳΝ chiἳὄἳmἷὀtἷΝ l’ὁὂὂὁὄtuὀitὡμΝ (i)Ν ἶiΝ ὅὂiὀgἷὄὅiΝ ὁltὄἷΝ iΝ cὁὀfiὀiΝ ὅtἳἴilitiΝ per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): μ Ἀ μ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo,
(b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): , ῖ sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità,
(c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ΄ μ
μ , μ Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti.
A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti;
271
(iii) la comunicazione della senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene fiὀἳliὐὐἳtἳΝl’ἳὅὂiὄἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝὂὁἷtἳ\filosofo. ἙlΝ ὃuἳἶὄὁΝ è,Ν ὀἷll’iὀὅiἷmἷ,Ν uὀἳΝ mὁἶulἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ὃuἷllὁΝ ἳὄcἳicὁΝ tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, ἶἷll’iὀἶiὅcutiἴilἷΝὂὄimἳto del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a μ N , ἳll’ἳἴiὅὅὁΝ del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la , iὀὀὁmiὀἳtἳΝ iὀΝ ὃuἳὀtὁΝ ὅcὁὀtἳtὁΝ ὄἷfἷὄἷὀtἷέΝ D’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷΝ ilΝ viἳggiὁΝ nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di - l’ἳggἷttivὁΝ ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca
111
Leszl, op. cit., p. 167. Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che ἳccὁgliἷΝ ὀἷll’χἶἷΝ ἓὄἳclἷΝ ἷΝ ἡὄfἷὁ,Ν ὅtὄiὀgendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 112
272
ZἷuὅΝὀἷll’ἳttὁΝἶiΝὄἷlἷgἳὄἷΝiΝἦitἳὀiΝὀἷlΝἦἳὄtἳὄὁ 115 - troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: ὀἷll’χἶἷΝiΝmὁὄtiΝὅuἴiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in ὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁ,ΝὀἷlΝcἳὅὁΝἶἷll’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117. La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immἳgiὀἷΝἶἷlΝcἳὄὄὁΝἶἷlΝἥὁlἷΝἷΝilΝmitὁΝἶiΝἔἷtὁὀtἷ 118. In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» ( μ , v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano inὅiὅtἷὄἷΝὅulΝὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝὂὄivilἷgiἳtὁΝgἳὄἳὀtitὁΝἳlΝὂὁἷtἳ,Νἶἳll’ἳltὄὁ,Ν iὀἶiὄἷttἳmἷὀtἷ,ΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝl’imὂlicitἳΝὄiἷvὁcἳὐiὁὀἷΝἶiΝFetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di ὀἳὅcὁὅtὁΝ ἳlΝ ὂἳἶὄἷΝ ἥὁlἷ,Ν ὄichiἷὅἷΝ l’iὀtἷὄvἷὀtὁΝ ὄiὂἳὄἳtὁὄἷΝ ἶiΝ Zἷuὅ),Ν ὅuggἷὄiὅcὁὀὁΝἳὀchἷΝl’iἶἷἳΝἶἷllἳΝὄἷgὁlἳὄitὡΝἷΝἶἷllἳΝmiὅuὄἳΝcὁὅmicἳ,Ν rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’ἳltἷὄὀἳὀὐἳΝἶiΝὀὁttἷΝἷΝgiὁὄὀὁΝἳiΝcὁὀfini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore
115
Cerri, op. cit., pp. 104-5. Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 ἐἷὀchὧΝ iὀΝ gἷὀἷὄἷΝ l’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝ ὀὁὀΝ ὅiἳΝ ὅfuggitὁΝ ἳiΝ cὁmmἷὀtἳtὁὄi,Ν miΝ ὂἳὄἷΝ particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 116
273
di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’iὀtἷὄἳΝὄἷἳltὡΝcὁὅmicἳΝἷΝἳccἷἶἷὀἶὁΝἳiΝmiὅtἷὄiΝἶἷll’ὁltὄἷmὁὀἶὁέ
Al di là dell'esperienza quotidiana δ’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝ ἶἷll'ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷlΝ ὂὁἷtἳ,Ν ὅottolineata nel suo indirizzo dalla , non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa ( ) agli inferi, ovvero a una ascesa ( ) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» ( ΄ , v. 27). La ὂὁὄtἳΝἶἷlΝἥὁlἷ,ΝiἶἷὀtificἳtἳΝcὁὀΝlἳΝἢὁὄtἳΝἶἷll’χἶἷΝ(Iliade VIII, 1316; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-ἆ1ἂ),Νè,ΝiὀΝἷffἷtti,ΝmiticἳmἷὀtἷΝὅituἳtἳΝὀἷll’ὁcciἶἷὀtἷΝἷὅtὄἷmὁ,Ν lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’ἳἴiὅὅὁ,ΝilΝmὁὀἶὁΝἶἷiΝmὁὄti,ΝilΝὄἷgὀὁΝἶiΝχἶἷΝἷΝἢἷὄὅἷfὁὀἷ 120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti 121. Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo ὀὁὀΝèΝl’ἳllὁὀtἳὀamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e iὀcὁὀtὄἳὄἷ,Νὀἷll’ἷtἷὄἷΝcἷlἷὅtἷ,ΝlἳΝ dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio ὀἷll’ὁltὄἷtὁmἴἳΝ(ἐuὄkἷὄt)ΝὁvvἷὄὁΝvἷὄὅὁΝilΝcἷὀtὄὁΝἶἷlΝcὁὅmὁΝ(ἢἷllikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è ἳccἷὅὅὁ,ΝἳΝuὀΝtἷmὂὁ,Νἳll’χἶἷΝἷΝἳlΝ cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ὁgὀiΝcἳὅὁ,ΝlἳΝtὄἳἶiὐiὁὀἳlἷΝὁὅcuὄitὡΝἶἷll’χἶἷΝἳὂὂἳὄἷ, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce
120 121
Cerri, op. cit., p. 98. Ivi, p. 99.
274
celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumiἴilmἷὀtἷΝ ἳll’ἳlἴἳ),Ν ἳΝ cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare l’ὁltὄἷὂἳὅὅἳmmἷὀtὁΝ ἶἷll'ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ὃuὁtiἶiἳὀἳΝ ἷΝ lἳΝ ἶiὅtἳὀὐἳΝ ἶἷll’ἳccἷὅὅὁΝἳllἳΝἨἷὄitὡΝὄiὅὂἷttὁΝἳll’ὁὄἶiὀἳὄiὁΝὅὂἳὐiὁΝἶἷllἷΝὄἷlἳὐioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. χlΝ ὀὁἶὁΝ ἶἷllἳΝ “ἶiὄἷὐiὁὀἷ”Ν ἶἷlΝ viἳggiὁΝ èΝ ὂὁiΝlἷgἳtὁΝ ὃuἷllὁΝ ἶἷiΝ suoi tempi. Il poema si apre con il presente: μ , ΄ μ Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1),
ὃuἳὅiΝἳΝmἳὄcἳὄἷΝuὀ’ἳἴituἶiὀἷ123 ὁvvἷὄὁ,Νἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷllἳΝὀἳὄὄazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «ὅtὄἳἶἳΝ[…]ΝἶἷllἳΝἶiviὀitὡ»μ ό ... ό che porta ό ... ό l’uὁmὁΝὅἳὂiἷὀtἷΝ(vέΝἁ),
ὅullἳΝὅtὄuttuὄἳΝἶἷllἳΝ“ὂὁὄtἳΝcὁὅmicἳ”ΝἷΝὅulΝὄuὁlὁΝἶiΝDikἷμ μ ΄
μ
μ
·
, ·
Díkh ῖ μ ϐ . Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 123
Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. Guthrie, op. cit., p. 7.
275
ἷὅὅi,ΝἳltiΝὀἷll’ἳὄiἳ,ΝὅὁὀὁΝἳggἳὀciἳtiΝἳΝgὄἳὀἶἷΝtἷlἳiὁέ Dikἷ,Ν chἷΝ mὁltὁΝ cἳὅtigἳ,Ν ὀἷΝ ἶἷtiἷὀἷΝ lἷΝ chiἳviΝ ἶἳll’uὅὁΝ alterno (vv. 11-14).
Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione ( μ , desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazioὀἷΝ ἶἷllἳΝ DἷἳέΝ ἙὀΝ ὁgὀiΝ cἳὅὁ,Ν l’uὅὁΝ ἶἷlΝ ὂὄἷὅἷὀtἷΝ cὁmὂὁὄtἳΝ chἷ le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a opeὄἳὄἷΝὀἷllἳΝcὁὀtἷmὂὁὄἳὀἷitὡ,ΝὅiἳὀὁΝὂἳὄtἷΝἶiΝuὀ’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶiΝvἷὄitὡΝ che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza ( μ ) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝἶiΝὄἳccὁὀtἳὄἷ,ΝὀἷllἷΝὅuἷΝὅἷὃuἷὀὐἷ,ΝlἳΝvicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: μ , μ ,
μ΄
ό ... ό
μ ·
124
Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà tὄὁvἳὄἷΝl’iὀὅὂἷὄἳἴilἷ,ΝὂἷὄchὧΝἷὅὅὁΝèΝἶifficilἷΝἶἳΝtὄὁvἳὄἷΝἷΝimὂἷὄviὁ»έ 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-ἂί)Ν iὀtἷὄὂὄἷtἳΝ l’iὀtἷὄἳΝ ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷlΝ ὂὄὁἷmiὁμΝ sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14.
276
μ · μ μ , ΄ μ [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta ό ... ό l’uὁmὁΝὅἳὂiἷὀtἷέ Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 25).
δ’uὅὁΝἶἷiΝtἷmὂiΝverbali impone sia la prospettiva dello svilupὂὁΝἷΝἶἷllἳΝcὁὀtiὀuitὡΝἶἷll’ἳὐiὁὀἷΝὀἷlΝὂἳὅὅἳtὁΝ(imὂἷὄfἷttὁ,Νchἷ,Νcomunque, qualcuno 127 iὀtἷὄὂὄἷtἳΝ cὁmἷΝ “imὂἷὄfἷttὁΝ ὅtὁὄicὁ”Ν tὄἳἶucendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione («ἶὁὂὁΝchἷ»)έΝδ’iὀtἷὄὁΝὂὄὁἷmiὁΝèΝcostruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ὂὄἷὅἷὀtἷ-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld 128 e Ferrari 129 - al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della performance ὄἷcitἳtivἳΝ ilΝ ὂὁἷtἳΝ ἷvὁcἳΝ l’ἳvvἷὀtuὄἳΝ ἶἷllἳΝ cὁὀoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente,Νl’uὁmὁΝche sa ( ), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità» (il genitivo μ ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e127
Conche, op. cit., p. 44.. J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 128
277
sperienza ( imὂlicἳΝ ἷtimὁlὁgicἳmἷὀtἷΝ l’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ viὅivἳ)Ν narrata in quelli successivi 130 , può essere messa in discussione pἳὄtἷὀἶὁΝἶἳll’uὅὁΝchἷ,Νἶἷll'ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ , si sarebbe fatto, ὀἷllἳΝ ὄituἳlitὡΝ miὅtἷὄicἳ,Ν ὂἷὄΝ iὀἶicἳὄἷΝ l’«iὀiὐiἳtὁ»Ν (ἳὀἳlὁgἳmἷὀtἷ,Ν come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità 131. Il termine si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di ParmἷὀiἶἷμΝiὀΝὄἷlἳὐiὁὀἷΝἳll’ὁἴiἷttivὁΝἶἳΝὄἳggiuὀgἷὄἷ,ΝciάΝgἳὄἳὀtiὄἷἴἴἷΝ un senso anche a μ (v. 1), allo slanciὁΝ ἶἷll’ἳὀimὁΝ ἶἷlΝ ὂὁἷtἳΝ verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato cὁὀΝilΝὂἳὄἳἶigmἳΝiὀiὐiἳticὁΝἶἷll’ – dalla piena cognizione di essa, disponibile – ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷlΝ tὄἳἶiὐiὁὀἳlἷΝ mὁἶἷllὁΝ ὁppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù ἶἷll’ἷccἷὐiὁὀἳlἷΝὂὄἷὄὁgἳtivἳΝἶiΝuὀἳΝὄivἷlἳὐiὁὀἷΝἶiviὀἳέΝἙὀΝtἳlΝcἳὅὁΝ la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del vἷὄὅὁΝl’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶἷllἳΝὄivἷlazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della realtà.
Ancora sul nodo delle divinità χἴἴiἳmὁΝ giὡΝ ἳvutὁΝ mὁἶὁΝ ἶiΝ ὂὁὄtἳὄἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ – ὀἷll’ἷcὁὀὁmiἳΝ cὁmὂlἷὅὅivἳΝ ἶἷlΝ fὄἳmmἷὀtὁΝ ἐ1Ν ἷΝ ὀἷllὁΝ ὅὂἷcificὁΝ 130 131
Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. Cerri, op. cit., pp. 169-170.
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rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i)Νl’iὀcἳὄicὁΝἶiΝἶiὄἷὐiὁὀἷ,ΝguiἶἳΝἷΝtutἷlἳΝἶἷllἷΝἓliἳἶiν (ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii)Ν l’ufficiὁΝὄivἷlἳtivὁΝἶἷllἳΝ anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali 132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere ἳll’ἷccἷὐiὁὀἷ,ΝὂὄὁὂὄiὁΝὂἷὄΝcὁὀὅentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis»133, che vincola elementi ἷΝ fἷὀὁmἷὀiΝ ὀἷll’ἷὃuiliἴὄiὁΝ ἶἷlΝ tuttὁέΝ ῄΝ ὅigὀificἳtivὁΝ chἷΝ ἳὀchἷΝ iὀΝ Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): μ
·
μ Ἕ
μ le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94).
ἙὀcὄὁciἳὀἶὁΝὀἷll’uὀivἷὄὅὁΝmiticὁΝlἳΝὅuἳΝfiguὄἳΝcὁὀΝὃuἷllἳΝἶἷllἷΝ Eliadi (divinità solari dell'illuminazione) 134, Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato 135) ἳiutἳὄὁὀὁΝ ὀἷll’imὂὄἷὅἳΝ ἶiΝ guiἶἳὄἷΝ ilΝ cἳὄὄὁΝ ἶἷlΝ ἥὁlἷέΝ χllἳΝ lucἷΝ ἶiΝ ἥἷΝὅἷΝὀἷΝἳccἷttἳΝlἳΝὂἷὄὅὁὀificἳὐiὁὀἷ,ΝgiuὅtificἳtἳΝἶἳll’iὀὅiἷmἷΝἶἷll’iὀἶiὄiὐὐὁΝἷΝ del tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 132
279
ὃuἷὅtἳΝ ciὄcὁὅtἳὀὐἳ,Ν chἷΝ iΝ vἷὄὅiΝ ἶἷll’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. εἳΝ l’ἳὅὅὁciἳὐiὁὀἷΝ tὄἳΝ ἓliἳἶiΝ ἷΝ DikἷΝ èΝ ἷvὁcἳtὄicἷΝ ἳὀchἷΝ iὀΝ uὀ’ἳltὄἳΝἶiὄἷὐiὁὀἷμΝἳἴἴiἳmὁΝὄicὁὄἶἳtὁΝcὁmἷ,ΝὀἷllἳΝcὁὅmὁlὁgiἳΝmitica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e occidentἳli),Ν ὂὄἷlἷvἳὀὁΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ (ἳll’ἳlἴἳμΝ si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al ἶiΝlὡΝc’èΝilΝmὁὀἶὁΝiὀfἷὄὁμΝilΝὅuὁΝvἷὅtiἴὁlὁΝèΝἳΝlivἷllὁΝἶἷllἳΝὅuὂἷὄficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, ) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini) 138. Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝ ἶἷll’imὂὄἷὅἳΝ cἳὀtἳtἳ coincida con il massimo pri136
Leszl, op. cit., p. 146. Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 137
280
vilἷgiὁΝὂὄἷviὅtὁΝὂἷὄΝuὀΝmὁὄtἳlἷΝὀἷll’uὀivἷὄὅὁΝmiticὁμΝcὁmἷΝἡἶisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse ὂὄὁὂὄiἳmἷὀtἷΝ“ἶiὅcἷὀἶἷὄἷ”)Νἳll’χἶἷ,ΝὂἷὄΝiὀcὁὀtὄἳὄἷΝlἳΝἶiviὀitὡΝchἷΝ vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide iὀὅiὅtἷΝiὀiὐiἳlmἷὀtἷΝὅull’uὅὁΝἶἷlΝὂὄἷὅἷὀtἷΝcὁὀtὄἳὅtἳtὁΝἶἳΝὃuἷllὁΝἶἷlΝ passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovἷvἳὀὁΝ giὡΝ ἳvἷὄἷΝ ἳὅὅuὀtὁΝ ὀἷllἳΝ ἳttivitὡΝ ὂὁἷticἳΝ ἳll’ἷὂὁcἳΝ ἶiΝ ἢἳrmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento maὀifἷὅtἳmἷὀtἷΝmἷtἳfὁὄicὁ,ΝὅἷἴἴἷὀἷΝl’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝἳΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὄisulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In ὁgὀiΝcἳὅὁ,ΝèΝfὁὄὅἷΝlἳΝὀἳtuὄἳΝὅtἷὅὅἳΝἶἷll’ἷccἷὐiὁὀἷΝἷvὁcἳtἳΝἳΝὄἷὀἶeὄἷΝ ὂlἳuὅiἴilἷΝ uὀ’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝ ὅimἴὁlicἳΝ ἶἷlΝ ὂὄὁἷmiὁμΝ l'ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fὄuiὄἷέΝ ἑὁὅì,Ν ὅfὄuttἳὀἶὁΝ ἳlΝ mἳὅὅimὁΝ l’iὀciἶἷὀὐἳΝ ἶἷiΝ ἶἷttἳgliΝ cὁncreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea", delineato un modellὁΝ ὂἷὄΝ lἷΝ ἳvvἷὀtuὄἷΝ ἶἷll’ἳὀimἳΝ ὀἷlΝ grande mito del Fedro platonico 140.
139 140
Coxon, op. cit., p. 14. Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti.
281
La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. δ’ἳutὁὄἷ,Νiὀvἷcἷ,ΝὂὄὁὂὄiὁΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝlἳΝὀἳὄὄἳὐiὁὀἷΝiὀΝὂὄimἳΝὂἷὄὅona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiἷἶἷΝl’iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝcὁὀΝilΝὂὄὁtἳgὁὀiὅtἳΝ(ἶὁὀἶἷΝl’ἳἶὁὐiὁὀἷΝἶἷlla prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sa142 rebbe rappresentazione di una forma di . Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamaὀicἳ),Ν fὁὄὅἷΝ ὄἳἶicἳtὁΝ ὀἷll’ἳmἴiἷὀtἷΝ ἷlἷἳticὁ 143, Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono evidentἷmἷὀtἷΝuὀἳΝὄicἷὄcἳΝἶἷὅtiὀἳtἳΝἳΝmὁἶificἳὄἷΝl’iὀtἷὄἳΝὂἷὄὅὁὀἳlitὡμΝiὀΝ un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini ὅimἴὁlici,Νἳll'ἷfficἳciἳΝcὁiὀvὁlgἷὀtἷΝ(ἶἳΝcuiΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὂἷὄΝἳlcuὀiΝ
141
La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando ἶuἷΝ ἷlἷmἷὀtiΝ chἷ,Ν ἶἳΝ uὀΝ lἳtὁ,Ν fἳvὁὄiὅcὁὀὁΝ l’iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝ tὄἳΝ ὂuἴἴlicὁΝ ἷΝ viἳggiἳtὁὄἷ,Νἶἳll’ἳltὄὁΝcὁὀtὄiἴuiὅcὁὀὁΝἳllἳΝcὁὅtὄuὐiὁὀἷΝἶiΝuὀa nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione ἷΝl’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano.
282
dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa.
La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guaἶἳgὀἳtἳΝ ὂὄὁὂὄiὁΝ gὄἳὐiἷΝ ἳll’iὀtἷὄvἷὀtὁΝ ὂἷὄὅuἳὅivὁΝ ἶἷllἷΝ figliἷΝ ἶἷlΝ Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa accoglie e rincuora («rallἷgὄἳtiΞ»)Ν l’ἳttὁὀitὁΝ viὅitἳtὁὄἷέΝ ἓὅὅἷΝ ὄivἷlἳὀὁΝ cὁmἷΝ viἳggiὁΝ ἷΝ ἳccompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ῖ ΄
-
μ ΄
-, Qémij Díkh Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike (vv. 26-28).
Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è stato piuttosto spinto da εὁiὄἳ)ΝὃuἳὀtὁΝἳll’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝἶἷllἳΝὅcὁὄtἳέ La «via» ( ) che gli consente di raggiungere la residenza divina ( μ «la nostra casa») – probabilmente la stessa μ μ («via ricca di canti della divinità» vv. 2ἁ),ΝluὀgὁΝlἳΝὃuἳlἷΝlἷΝ cἳvἳllἷΝcὁὀἶucἷvἳὀὁΝilΝ ὂὁἷtἳΝἳll’ἷὅὁὄἶiὁμΝiὀΝ 283
ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione ΄ μ («lungo la via maestra») – èΝὂἷὄcὁὄὅἳΝὅὁttὁΝl’ἷgiἶἳΝἶἷllἳΝ giustizia, in compagnia di «immortali guide » ( ). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo («giovane») e il nominativo in funzione vocativa («compagno») – apparentemente descrittive della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, ἳllἳΝ ὅuἳΝἶἷἶiὐiὁὀἷΝὄἷligiὁὅἳ,ΝὅὁttὁliὀἷἳὄὀἷΝl’iὀiὐiἳὐiὁὀἷ,ΝἷΝἶuὀὃuἷΝ legittimarne il privilegio.
Imparare tutto δ’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝἶἷllἳΝὅituἳὐiὁὀἷΝὅiΝὄiflἷttἷΝἳὀchἷΝὀἷllἳΝcὁmὂlἷtἳΝ ἶiὅὂὁὀiἴilitὡΝἶἷllἳΝDἷἳ,ΝὀἷllἳΝὅuἳΝἳccὁgliἷὀὐἳΝἷΝὀἷll’iὀfὁὄmἳὐiὁὀἷΝ successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’ὁὂὂὁὄtuὀitὡΝ ὂἷὄΝ ilΝ «giὁvἳὀἷ»Ν ἶiΝ «tuttὁΝ ἳὂὂὄἷὀἶἷὄἷ»Ν ( ), ella propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni μ …έΝ («ὅiἳΝ …Ν ὅiἳ»), in conclusione ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ΄ μ (congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche cὁὅì»έΝδ’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝἶiΝὃuἷὅtὁΝὂἳὅὅἳggiὁΝèΝmὁltὁΝcὁὀtὄὁvἷὄὅἳ,Ν ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: μ 144
Ἀ
μ
ἥἷcὁὀἶὁΝ ἑἷὄὄiΝ (ὂέΝ 1ἆἀ)Ν lἳΝ fὄἳὅἷὁlὁgiἳΝ ἶἷll’iὀcὁὀtὄὁΝ tὄἳΝ ilΝ ὂὁἷtἳΝ ἷΝ lἳΝ ἶἷἳΝ riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero.
284
, ῖ sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30).
ἥiΝtὄἳttἳΝἶἷll’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝfὁὀἶἳmἷὀtἳlἷ,ΝchἷΝgἷὀἷὄἳΝtuttiΝi contenuti del poema: il nucleo essenziale ( , «cuore») di Verità (Ἀ ), di ogni verità ( , «ben rotonda»), la sua necessità immanente ( μ , letteralmente «cuore che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» ( ), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: μ μ μ ῖ Ἕ μ μ sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare,
sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne ( ), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali ( ) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofἳlὅὁμΝcὁὅìΝl’ὁὅcillἳὐiὁὀἷΝἷὅiὁἶἷἳΝtὄἳΝ«cὁὅἷΝfἳlὅἷ»Ν( ) e «cose vere» ( ) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 285
΄ μ
μ , μ Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
ἠἷll’imὂἷgὀὁΝἳΝtuttὁΝiὀὅἷgὀἳὄἷ,ΝlἳΝDἷἳΝὀὁὀΝὅiΝlimitἳΝ– attraverso l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’iὀἳttἷὀἶiἴilitὡΝἶἷllἷΝcὁὀviὀὐiὁὀiΝumἳὀἷΝ(cὁmἷΝvἷἶὄἷmὁ,Νὄiὀtὄἳcciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione affidabile ( μ ) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a μ suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili , così da fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i)Ν l’ἷὅὂlicitἳὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ ὀὁὄmἳΝ immἳὀἷὀtἷΝ (lἷΝ «viἷΝ ἶiΝ ὄicἷὄcἳΝ per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii)Ν lἳΝ ἶἷὀuὀciἳΝ ἶἷll’ἷὄὄὁὄἷΝ ἶiΝ ἴἳὅἷΝ ἶἷlle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmἷὀtἷΝ cὁmἷΝ “Ἠἷὄitὡ”Ν (Ἀ ) dalla formula: μ μ («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»;
145
Ruggiu, op. cit., p. 196.
286
(b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente ὂiὶΝ cὁὀὅiὅtἷὀtἷ),Ν cὁὀvἷὀὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝ ὀὁtἳΝ cὁmἷΝ “ἡὂiὀiὁὀἷ”Ν ( ) e nel poema denotata per i suoi contenuti: («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: μ μ
· μ
Ἕ μ · davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀ
μ
μ
·
Ἕ
μ Ἕ μ Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi 147 (DK 24 B1). 146 147
Op. cit., p. 169. Dal passo iniziale del frammento vero e proprio ( Ἕ ) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mὁὄtἳli»Ν(ΟδiὄἷΝἶuΝἶὧἴut…", cit., p. 19).
287
Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado ἶiΝmἳὀifἷὅtἳὄἷΝilΝὄἷἳlἷ,Νl’ἳltὄἳΝ opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo ὄicὁὀὁὅcἷὀἶὁΝ l’iὀὅufficiἷὀὐἳΝ ἶἷll'ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ὁὄἶiὀἳὄiἳ,Ν gliΝ uὁmiὀiΝ hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della vἷὄitὡΝ (i),Ν ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ cὁὀtὄἳὂὂὁὄὄἷἴἴἷΝ l’iὀcἷὄtἷὐὐἳΝ (ἷmὂiὄicἳ)Ν ἶἷll’ὁὂiὀἳὄἷΝ umἳὀὁΝ (ii),Ν ἶiΝ cuiΝ ὁffὄiὄἷἴἴἷΝ cὁmuὀὃuἷ,Ν ἳΝ ὅcὁὂὁΝ esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo ἶἷll’ἳmἴitὁΝἶἷl vἷὄὁΝἷΝἶiΝὃuἷllὁΝἶἷll’iὀgἳὀὀἷvὁlἷΝ(ἶἳΝἓὅiὁἶὁΝcὁnsiderato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone ἳὀchἷΝciάΝchἷΝὀὁὀΝèΝvἷὄὁ,Νὀἷll’iὀtἷὀtὁΝἶiΝcὁὂὄiὄἷΝ«tuttὁ»,ΝἶiΝὁffὄiὄἷΝ un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. δὁΝὅtἷὅὅὁΝὂἳὄἳllἷliὅmὁΝcὁὀΝl’iὀὀὁΝἳllἷΝεuὅἷΝ ἶἷllἳΝ Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto ὂὄὁὅὂἷttἳtὁΝἶἳllἳΝDἷἳ,Νl’ἳὀἳlὁgἳΝὂὄἷtἷὅἳΝἶἷllἷΝεuὅἷΝἶiΝἶiὄἷΝvἷὄitὡΝἷΝ menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferiὅcἷΝ ἳll’ἳmἴitὁΝἶἷllἳΝ doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 149
Op. cit., pp. 153-4. Op. cit., p. 33.
288
esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di , delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μ ) nel lἷὅὅicὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝ(ἐἆέηἁ)νΝmἳΝchἷΝl’ἷlἷmἷὀtὁΝἶiΝὁὄigiὀἳlitὡΝ(ἶἳΝ cuiΝ l’ἳttἷὀὐiὁne tra gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151.
150 151
Ivi, p. 210. Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa , Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184).
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Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introduttivἳmἷὀtἷ,ΝilΝcὁὀtἷὀutὁΝἶἷlΝὅuὁΝ«cὁὄὅὁΝἶiΝfilὁὅὁfiἳ»Νὀἷll’ἳmἴiὐiὁso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa ὂὄὁὂὁὅtἳΝἶiΝlἷttuὄἳΝèΝὅὁὂὄἳttuttὁΝl’ἷὅtἷὀὅiὁὀἷΝἷΝl’ἳὄticὁlἳὐiὁὀἷΝchἷΝ supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155. Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: μ
μ μ Ἕ
μ
μ μ
,
Ἕ
, μ
· μ
·
Ἕ ῖ
ῖ
[ἡἡἡὔ
μ
,
, μ
μ
152
N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos".
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Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista ἳffἳttὁ,Ν ὁltὄἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ilΝ ὀὁὀ-essere, egli crede che, di ὀἷcἷὅὅitὡ,Ν l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ uὀὁΝ ἷΝ ὀiἷὀt’ἳltὄὁέΝ […]Ν ἑὁὅtὄἷttὁΝ tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uὀὁΝ ὅiἳΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ ὄἳgiὁὀἷ,Ν iΝ mὁltiΝ iὀvἷcἷΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi ἶiὅὂὁὀἷΝilΝcἳlἶὁΝὅὁttὁΝl’ἷὅὅἷὄἷ,ΝilΝfὄἷἶἶὁΝὅὁttὁΝilΝὀὁὀ-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24).
A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: μ
. .
μ μ
, μ
, μ
,
μ
, , . ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ figliὁΝ ἶiΝ ἢyὄἷὅ,Ν ἶἳΝ ἓlἷἳΝ […]Ν ὂἷὄcὁὄὅἷΝ entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e iὀgἷὀἷὄἳtὁΝ ἷΝ ἶiΝ ἳὅὂἷttὁΝ ὅfἷὄicὁνΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). μ
Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima
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parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori ἶἷll’iὀἶἳgiὀἷ156. Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità cὁmὂὁὄtἳΝ ὀἷcἷὅὅἳὄiἳmἷὀtἷΝ ἶἷὀuὀciἳὄἷΝ l’ὁὄigiὀἷΝ ἶiΝ ἷὄὄὁὀἷἷΝ cὁnviὀὐiὁὀiΝ ciὄcἳΝ ilΝ mὁὀἶὁΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,Ν ὅἷὀὐἳΝ ἷὅcluἶἷὄἷΝ tuttἳviἳΝ la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ΄ μ : tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione ἶἷiΝfἷὀὁmἷὀiέΝἐἷὀchὧΝl’iὀtἷὄvἷὀtὁΝἶiviὀὁΝὅiἳΝtἷὅὁΝἳΝlἷgittimἳὄἷΝlἳΝ norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’imὂiἳὀtὁΝἷἶucἳtivὁΝἶἷlΝὂὁἷmἳ,ΝlἳΝὅcἷltἳΝἶἷlΝ kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. ἑiάΝ chἷΝ cὁlὂiὅcἷ,Ν ὀἷll’ἳὄticὁlἳὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ lἷὐiὁὀἷΝ ἶiviὀἳ,Ν è,Ν iὀΝ ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’ἷὅitὁΝvἷὄitἳtivὁ,Νl’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝtὄἳΝilΝὅἳὂἷὄἷΝchἷΝlἳΝDἷἳΝὂuάΝmἳὀifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta ( , «ben rotonda» 157 ), salda consistenza ( μ , «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole ( , «non reale 156
Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro ὀἷll’ὁὄgἳὀiὐὐἳὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ὂὁἷmἳΝ Sulla natura di Empedocle, nei cui fὄἳmmἷὀtiΝ (DKΝ ἁ1Ν ἐἆ,Ν λ,Ν 11)Ν tὄὁviἳmὁΝ l’ἷcὁΝ ἶἷllἳΝ ὁὀtὁlὁgiἳΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco.
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[genuina]») «credibilità» ( ) riconosciuta alle : «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà, ἶἳll’iὅtὄuὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝDἷἳ,ΝἳὀchἷΝcὁmἷΝ«lἷΝcὁὅἷΝἳccὁltἷΝ ὀἷllἷΝὁὂinioni» ( : il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente» ( μ : realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» ( ), in altre parole riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula ( ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della realtà 158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne l’ἷὅὅἷὀὐἳΝἷΝἶunque prendere coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i cὁὀtἷὀutiΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ umἳὀἳέΝ ἠὁὀΝ ὂἳὄἷΝ – come invece molti sostengono 159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, èΝl’ἳὄἶitἳΝcὁmἴiὀἳὐiὁὀἷΝἶiΝὄigὁὄὁὅἳΝἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ(ἐ2, B8) di una ὄἷἳltὡΝὀὁὀΝimmἷἶiἳtἳmἷὀtἷΝmἳὀifἷὅtἳΝἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝumἳὀἳ,ΝἷΝἳrticolata esposizione di un accettabile «ordinamento» ( μ , ἐἆέἄί)ΝἶἷiΝfἷὀὁmἷὀiΝὀἳtuὄἳliέΝδἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶἷll’ἳὀὁὀimἳΝἶivinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’ὁggἷttὁΝ ἶἷllἳΝ cὁὀtἷmὂὁὄἳὀἷἳΝ ὄicἷὄcἳΝ ( ): in questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 159
Robbiano, op. cit., p. 77. Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2.
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Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livellὁΝ ἷὅὂὄἷὅὅivὁ,Ν l’ἳὄticὁlἳὐiὁὀἷΝ ὅuΝ cuiΝ ἳἴἴiἳmὁΝ iὀὅiὅtitὁΝ ἷmἷὄgἳΝ chiaramente nelle scelte verbali: μ
Ἀ , ΄ μ
μ
μ
ῖ
. μ
, .
Intanto risultano essenziali due verbi eμ – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, ἶuὀὃuἷ,ΝὅiἳΝl’iἶἷἳΝἶiΝὄicἷttivitὡ,ΝὅiἳΝὃuἷllἳΝἶiΝὄicἷὄcἳ,ΝὂἷὄfἷttἳmἷὀtἷΝ in contesto laddove la docenza (divina: ) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀ ; ; ) e l’uὄgἷὀὐἳΝἶiΝcὁmὂὄἷὀὅiὁὀἷΝἶἳΝὂἳὄtἷΝἶἷll’ἳlliἷvὁΝ( ). δἳΝὂὄimἳΝfὁὄmulἳΝἶiἶἳtticἳΝὅὁttὁliὀἷἳΝl’ὁὂὂὁὄtuὀitὡΝ chἷΝ«tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del nesso implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta294
li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice ( κε) di , e μ . 161 Come Mourelatos ha chiarito nella sua ricerca, il verbo può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre e μ sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al termine rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da lo renda irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di μ ). In (opinione-convinzione) e μ (rendendὁΝ l’ἳvvἷὄἴiὁΝ comἷΝ«ὂlἳuὅiἴilmἷὀtἷ»)ΝtὄὁvἷὄἷmmὁΝἳllὁὄἳΝcὁiὀvὁltἳΝl’iἶἷἳΝἶiΝvἳlutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in (o , come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’ἳvvἷὄἴiὁΝ μ è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare ἳll’ἳccἷὐiὁὀἷΝ ὁggἷttivἳ,Ν ἳΝ uὀἳΝ ὅituἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ fἳttὁ,Ν ἳΝ cὁmἷΝ ὅtἳὀὀὁΝ effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine ma : non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A collega la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale , che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare , non , che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
160
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ὃuἷllἳΝἶiΝὄicὁὅtὄuiὄἷΝlἳΝgἷὀἷὅiΝἶἷll’ἷὄὄὁὄἷΝἶἷiΝmὁὄtἳli,ΝὁvvἷὄὁΝὃuἷlla di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come (esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali ( , ), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; (ii)ΝlἳΝὂὄὁὅὂἷttivἳΝ(ἷὅὂὄἷὅὅἳΝἶἳll’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝὅullἷΝfὁὄmἷΝiὀΝ κε), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverὅὁΝl’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,ΝmἳΝchἷ,ΝὀὁὀΝὂἷὄΝὃuἷὅtὁ,ΝἶἷvἷΝἷὅὅἷὄἷΝgiuἶicἳtὁΝ inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della fὁὄmἳΝ(lὁgicἳ)ΝἶiΝὃuἷllἷΝὂὄἷmἷὅὅἷΝ(ὀἷcἷὅὅitὡΝἶἷll’ἷὅὅere e impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» ( μ ), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata applicazione al cἳmὂὁΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝumἳὀἳέΝἢἳὄmἷὀide si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la meditazione della «parola» (μ ) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀ , 296
assicurerà al la consapevolezza degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali ἶἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳέ La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra e , ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolgἷΝ imὂἳὅὅiἴilἷΝ (lὁgicἳmἷὀtἷΝ cὁἷὄἷὀtἷΝ ἷΝ iὀἳttἳccἳἴilἷ)Ν ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo ὂiὶΝὅviἳtὁ)ΝἶἳlΝfiltὄὁΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳέΝἑὁmὂitὁΝἶἷlΝὂὁἷmἳΝcὁὀἶἳnnare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione.
Per via ἢὄimἳΝἶiΝcὁὀcluἶἷὄἷΝl’ἷὅἳmἷΝἶἷlΝὂὄὁἷmiὁΝἷΝἶὁὂὁΝἳvἷὄὀἷΝcὁὀὅiderato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particὁlἳὄἷΝ ilΝ tἷmἳΝ ἶἷlΝ viἳggiὁ,Ν cἷὀtὄἳlἷΝ ὀὁὀΝ ὅὁlὁΝ ὂἷὄΝ l’epica omerica mἳΝἳὀchἷ,ΝiὀΝgἷὀἷὄἳlἷ,ΝὂἷὄΝl’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝcultuὄἳlἷΝἷΝὄἷligiὁὅἳ arcaica (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste ὅull’ἷccἷὐiὁὀἳlitὡΝἶἷllἳΝὂὄὁὂὄiἳΝἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,ΝὅiἳΝὂἷὄΝgliΝἳuὅὂiciΝchἷΝ ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia, iὀfiὀἷ,ΝὂἷὄΝl’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝlἳΝἶἷἳΝὄivἷlἳtὄicἷμΝciάΝcὁmὂὁὄtἳ,ΝἶἳΝὂἳὄtἷΝ sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag297
gio, la «via» ( μ μ ) che la dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca DikἷΝἷΝἦἷmi,ΝgiuὅtiὐiἳΝἷΝὀὁὄmἳΝἶiviὀἳμΝl’ἳccἷὅὅὁΝἳllἳΝvἷὄitὡ,Νἶuὀὃuἷ,Ν non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, μ ), fὁὄὅἷΝ ἶiΝ uὀἳΝ iὀiὐiἳὐiὁὀἷΝ (cὁmἷΝ ὄivἷlἷὄἷἴἴἷ,Ν iὀΝ ὂἳὄticὁlἳὄἷ,Ν l’uὅὁΝ della espressione ). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mὁὀἶὁΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,Ν ἶἷllἷΝ «cὁὀviὀὐiὁὀi» umane, sia per deὀuὀciἳὄὀἷΝgliΝὅtὄἳvὁlgimἷὀti,ΝὅiἳΝὂἷὄΝὁffὄiὄὀἷΝuὀ’illuὅtὄἳὐiὁὀἷΝἳἶeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti diὅὂὁὀiἴili,ΝὀὁὀΝfὁὅὅἷΝfiὀἷΝἳΝὅἷΝὅtἷὅὅἳ,ΝmἳΝcὁὅtituiὅὅἷΝl’ἷlἷmἷὀtὁΝintorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8) 162 . La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163.
162
Analizzando il valore di nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la ὂὄὁὅὂἷttivἳΝ ὁggἷttivἳΝ (chἷΝ iὀὅiὅtἷΝ ὅulΝ ὄἷfἷὄἷὀtἷ,Ν ὅull’ἷὀtitὡΝ ἶἳtἳΝ ἳlΝ ἶiΝ fuὁὄiΝ ἶἷll’iὀἶiviἶuὁ)Ν ἶἳΝ ὃuἷllἳΝ ὅὁggἷttivἳΝ (cὁmἷΝ ὀἷllἷΝ ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀiΝ dire vero, fare vero,Ν iὀΝ cuiΝ èΝ ὅὁttὁliὀἷἳtἳΝ lἳΝ ὄἷlἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’uὁmὁΝ ἳlla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ὁvvἷὄὁΝὅullἳΝcὁὀἶiὐiὁὀἷΝchἷΝcὁὀὅἷὀtἷΝἳll’uὁmὁΝἶiΝὅuὂἷὄἳὄἷΝilΝὅἷὀὅὁΝcὁmuὀἷΝ quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit.,Ν ὂέΝηἄ)Ν ἳἴἴiἳΝ ὄichiἳmἳtὁΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὅuΝ ὃuἷὅtὁΝ ὂuὀtὁμΝ lἳΝ rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esὅὁΝὅvἷlἳΝl’ἷὅὅἷὀὐἳΝἶἷllἳΝὄἷἳltὡ,ΝἳllὁΝὅtἷὅὅὁΝ tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione
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Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce ἳllἳΝὂὁὄtἳΝcὁὅmicἳ,ΝchiἳvἷΝἶiΝvὁltἳΝὀὁὀΝὅὁlὁΝ ἶἷll’ἳltἷὄὀἳὀὐἳΝgiὁrno-ὀὁttἷΝ mἳΝ ἳὀchἷΝ ἶἷll’ἳccἷὅὅiἴilitὡΝ ἳlΝ mὁὀἶὁΝ iὀfἷὄὁ,Ν ὁvvἷὄὁΝ ἶiΝ itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tὄἳἶiὐiὁὀἷέΝδ’ἷvἷὀtὁΝèΝἶecisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per cὁmἷΝ cὁὀὅἷὀtiὄὡΝ ἶiΝ cὁὀἶuὄὅiΝ ὀἷll’ἷὅiὅtἷὀὐἳμΝ ὃuἷὅtἳΝ èΝ fὁὄὅἷΝ lἳΝ ὄagione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti allo μ ,Ν ἳll’ , alla accortezza delle cavalle di ὅcὁὄtἳ,Ν ἷΝ ἳll’ἷgiἶἳΝ ἶiviὀἳΝ ἶiΝ ἦἷmi e Dike, per procedere ἳll’iὀcὁὀtὄὁΝcὁὀΝuὀἳΝἶἷἳΝ(chἷΝὂὁtὄἷἴἴἷΝἷὅὅἷὄἷΝἢἷὄὅἷfὁὀἷ)ΝlἳΝὃuἳlἷΝ iὀtὄὁἶuὄὄὡΝ lἳΝ ὂὄὁὂὄiἳΝ ὄivἷlἳὐiὁὀἷΝ (ἐἀ)Ν cὁὀΝ l’ἷvὁcἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’immἳgiὀἷΝἶiΝuὀΝἴiviὁ,ΝἶiΝfὄὁὀtἷΝἳlΝὃuἳlἷΝilΝkouros è chiamato a scegliere.
ἶἷlΝὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝtἳlἷΝἶἳΝiὀvἷὅtiὄἷΝὀὁὀΝὅὁlὁΝl’ὁggἷttὁΝἶἷllἳΝcὁmὂὄἷὀὅiὁὀἷ,ΝmἳΝ anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37).
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LE VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel cἳὅὁΝἶἷlΝὂὄἷcἷἶἷὀtἷΝἐ1,ΝlἳΝcὁllὁcἳὐiὁὀἷμΝἳll’iὀiὐiὁΝἶἷllἳΝὂὄimἳΝὅezione del poema 1 , a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72, uὀΝἴlὁccὁΝἳὄgὁmἷὀtἳtivὁΝcὁὀtiὀuὁμΝl’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝἶἷiΝὂὄἷὅuὂὂὁὅti per manifestare (B8) i segni ( μ ), le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀ μ («di Verità ben rotonda il cuore fermo»). χll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶiΝ uὀὁΝ ὅchἷmἳΝ ἷὅὂὁὅitivὁΝ chἷΝ ἷὅὂlicitἳmἷὀtἷΝ ὄichiἳmἳΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὅulΝὄiliἷvὁΝfὁὀἶἳtivὁΝἶἷiΝvἷὄὅiΝἐἀέἀ-8 (la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μ , sollecitando l’iὀtἷὄlὁcutὁὄἷΝἳΝὂὄἷὀἶἷὄὀἷΝὀὁtἳΝἷΝἳvἷὄὀἷΝcuὄἳ),ΝἳlcuὀiΝhἳὀὀὁΝvὁluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3, altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4.
Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea ( , «io dirò») e la ricezione (l’ἳὅcὁltὁΝἳttἷὀto) del poeta ( μ μ , «e tu abbi cura 1
Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come μ μ Ἀ Ἦ B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione . 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa ἶἳΝὃuἷllἳΝὄicὁὅtὄuitἳΝἶἳll’ἳutὁὄἷ),Νἐἀ,Νἐἁ,Νἐἄ,Νἐἂ,Νἐἅέ 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85.
300
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto 6. Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» ( ). ἑὁmἷΝ ὅἳὄὡΝ ὅὁttὁliὀἷἳtὁΝ iὀΝ ἳltὄὁΝ luὁgὁΝ (ἐἅέη),Ν l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ μ («e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio (μ ), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μ , la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale ἶἳll’immὁὄtἳlἷ,Ν mἳΝ ἳὀchἷΝ l’ἷccἷὐiὁὀἳlἷΝ ὄiliἷvὁΝ ἶἷlΝ ὂὁἷtἳ,Ν lἳΝ ὅuἳΝ 7 peculiare posizione sociale, la sua . 5
L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: 6
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μ
ἡ Ἕ
μ Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza:
301
Io, tu La polarità comunicativa introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, ὅὁttὁliὀἷἳΝl’uὄgἷὀὐἳΝἶiΝillustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: -Ἀ ῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente discussione ( ) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In queὅtἳΝ ὂὄὁὅὂἷttivἳ,Ν lἳΝ ἶiἳlἷtticἳΝ cὁmuὀicἳtivἳΝ ἷὅὂὄimἷΝ l’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝ ἷἶucἳtivἳΝ ἳὀchἷΝ ὀἷllἳΝ fὁὄmἳΝ ἶiΝ uὀἳΝ lἷὐiὁὀἷΝ ὅull’uὅὁΝ ἶἷgliΝ ὅtὄumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8,ΝὀἷgliΝἳὅὅἷὄtiΝimὂὁὅtiΝἶἳll’ἳutὁὄitὡΝἶiΝ («io»): ΄ ΄ […] Orsù, io dirò (B2.1a)
μ μ ῖ μ μ ῖ bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ῖ Ἕ μ μ μ da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2.
302
Proprio questa ti dichiaro (B2.6a).
ἙlΝ ὂὄimὁΝ mὁmἷὀtὁΝ cὁiὀciἶἷὄἷἴἴἷΝ cὁὀΝ l’ἷὀuὀciἳὐiὁὀἷΝ (ἐἀέἀ)Ν delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini (letterali): μ μ l’uὀἳΝchἷΝèΝἷΝchἷΝὀὁὀΝèΝ[possibile] non essere (B2.3) […] ΄ μ l’ἳltὄἳΝchἷΝὀὁὀΝèΝἷΝchἷΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷΝ(ἐἀέη)έ
ἙlΝὅἷcὁὀἶὁΝcὁὀΝl’ἳὅὅἷὄὐiὁὀἷΝἶἷll'imὂἷὄcὁὄὄiἴilitὡΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝ via: μμ Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6).
Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative incompatibili e che (ii) σΝη θ non sia effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito ἳll’ἳὅcὁltὁ 9 : il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque iὀἶiὅcutiἴilἷΝ l’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἶiΝ ὅfὄuttἳὄἷ la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece, ὄicὁὀὁὅcἷὀἶὁΝl’uὅὁΝἶiἶἳὅcἳlicὁΝἶἷlΝmitὁ,ΝviΝhἳὀὀὁΝcὁltὁΝlἳΝὄivἷndicazione di una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10 ,Ν ὁvvἷὄὁΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ mἳtuὄἳΝ cὁὀὅἳὂἷvolezza ἶἷll’ὁggἷttὁΝἷΝἶἷiΝmἷὐὐi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9
Ivi, p. 86. Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente
10
303
più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina 12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea.
Uniche vie di ricerca per pensare All'esortaziὁὀἷΝἶiΝἳὂἷὄtuὄἳΝchἷΝl’«iὁ»ΝἶἷllἳΝDἷἳΝὄivὁlgἷΝἳlΝ«tu»Ν del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» ( μ ) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto ἶἳll’imὂegnativa espressione omerica («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della rivelazione: μ
che abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare.
Il verso presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ? Quale a μ ? Come rendere ? Come ? La Dea, riferendosi a , ritorna (dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo omerico del viaggio 13. Il termine parmeniil proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67.
304
deo è infatti di derivazione epica, essendo μ utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’ὁggἷttὁΝ ὄicἷὄcἳtὁΝ (lἳΝ cuiΝ ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ ὃuiὀἶiΝ ὀὁὀΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ iὀΝ discussione). La formula alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano ἳll’ὁggἷttὁΝἶἷὅiἶἷὄἳtὁέ È significativo che il contemporaneo Eraclito usi μ nel senso di ricercare in profondità: μ Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22),
mἳὄcἳὀἶὁΝlἳΝὂὄὁὂὄiἳΝἶiὄἷὐiὁὀἷΝἶ’iὀἶἳgiὀἷΝvἷὄὅὁΝὃuἳὀtὁΝὀἳὅcosto e inaccessibile ai più: la ricerca della , in contrapposizione alla μ di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, ὅὁttὁὂὁὀἷΝilΝvἷὄἴὁΝἳΝuὀ’ultἷὄiὁὄἷ,Νὁὄigiὀἳlἷ,Νtὁὄὅiὁὀἷμ μ μ ho indagato me stesso (DK 22 B101),
che Mourelatos14 legge in relazione a: Ἕ μ · iΝlimitiΝἶἷll’ἳὀimἳ non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45).
δ’uὅὁΝἳὄcἳicὁΝἶiΝ μ sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin ἶἳll’iὀiὐiὁέΝ ἙὀΝ ὃuesto senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima eἈ : 14
Mourelatos, op. cit., p. 68.
305
-Ἀ ῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna.
È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come , Ἕ sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque solennemente: μ (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare).
La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie ( in senso potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finalecὁὀὅἷcutivὁΝἶἷll’iὀfiὀitὁ, (b) sul suo nesso con μ , e (c) sulla successiva determinazione delle con formule introdotte da e , esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno 16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando ὅull’ἳmἴiguitὡΝ(iὀΝἳὀἳlὁgiἳΝcὁὀΝlἷΝmὁἶἳlitὡΝἶiΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝ contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo.
15 16
Leszl, op. cit., p. 124. Robbiano, op. cit., pp. 81-2.
306
Ma il testo pone anche il problema della resa di : geneὄicὁΝ «ὂἷὀὅἳὄἷ»,Ν ὁ,Ν ὅἷcὁὀἶὁΝ l’uὅὁΝ ἳὄcἳicὁ,Ν «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie ἶἷll’iὄὄἳὐiὁὀἳlἷ»Ν(illumiὀἳὐiὁὀi,Νὄivἷlἳὐiὁὀi,ΝiὅὂiὄἳὐiὁὀiΝἷccέ),Νillegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝὅiΝὂὁtὄἷἴἴἷΝὁἴiἷttἳὄἷΝchἷ,ΝὄἷὀἶἷὀἶὁΝiὀΝὅἷὀὅὁΝfὁὄtἷΝ ῖ con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): μ che non è e che è necessario non essere.
Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare: μ
μμ -
· Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8);
sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: μ
-
17
Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn,Ν“ἦhἷΝἦhἷὅiὅΝὁfΝἢἳὄmἷὀiἶἷὅ”,ΝiὀΝἙἶέ,ΝEssays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147.
307
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina).
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» ( μ ): solo la nozione di ῖ come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare l'alternativa ( μ ἡἡἡ ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo ῖ come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» ( ) e, addirittura, come «impensabile e inesprimibile ( μ ), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di ῖ secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con l'oggetto 20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca ( ), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo : «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca ( μ ) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» ( ),
20 21
Germani, op. cit., p. 189. Op. cit., pp. 72-3.
308
in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀ B6 preciserà (letteralmente):
ῖ). L'apertura di
ο ῖ ΄ μμ è necessario il dire e il pensare che ciò che è è,
fissando quindi in quanto espresso da l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» ( μ ) in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: μ μ l’uὀἳΝchἷΝèΝἷΝchἷΝὀὁὀΝèΝ[possibile] non essere (B2.3) […] ΄ μ l’ἳltὄἳΝchἷΝὀὁὀΝèΝἷΝchἷΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝὀὁὀ essere (B2.5).
Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» ( ), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» ( ), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: μ
μμ -
· -
Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
309
Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle imὂlicἳὐiὁὀiΝἶἷll’ἳὀὀuὀciὁΝἶἷllἳΝDἷἳμ ΄
΄
[ἡἡἡὔ μ
.
Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva del ῖ : si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza 22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le ). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la , accogliendo il , rilevasse (B1.27): ΄
[ἡἡἡὔ
΄
.
ἙlΝfilὁΝchἷΝlἷgἳΝl’ἷὅὁὄἶiὁΝἶἷllἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝ (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della : la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie ἳll’iὀtἷὄvἷὀtὁΝ ἶiΝ ἷccἷὐiὁὀἳliΝ cὁἳἶiutὄici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» ( ΄ ); in B2 ella ne rievoca il tema nelle μ , precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la VἷὄitὡμΝ (i)Ν ὀἷllἳΝ ὅuἳΝ “ἷὅὅἷὀὐἳ”Ν (Ἀ μ ); (ii) nella sua manifestazione 22
Come ricordato in nota al testo, Kahn (ἑhέἘέΝKἳhὀ,Ν“ἦhἷΝἦhἷὅiὅΝὁfΝἢἳὄmἷὀiἶἷὅ”,Ν citέ,Ν ὂέΝ 1ἂἅ) ha sostenuto che costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico («ricerca scientifica»).
310
ἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝumἳὀἳΝ( ); (iii) nella sua diffusa distorsione ( ). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a proposito della espressione e della sua derivazione ἶἳll’ὁmἷὄicὁΝ μ , alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» ( μ ) che conduce «l’uὁmὁΝ chἷΝ ὅἳ»μΝ ἷllἳΝ ὄivἷlἳΝ ἶiΝ ὀὁὀΝ ἷὅὅἷὄἷΝ lἳΝ fὁὀtἷΝ ἶiὄἷttἳΝ ἶἳΝ cuiΝ attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla 23. È questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa. ἙὀΝ ὁgὀiΝ cἳὅὁ,Ν ὀἷll’ἷcὁὀὁmiἳΝ cὁmὂlἷὅὅivἳΝ ἶἷlΝ tἷὅtὁ,Ν ilΝ ὄifἷὄimento al ῖ – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale ὂἷὄΝ cὁgliἷὄὀἷΝ l’iὀtἷὀzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla centralità della relazione tra ῖ e : tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parὐiἳlmἷὀtἷΝ ἐἄ)Ν ἷΝ l’ adottato dalla divina interlocutrice per istruire il ; (ii) contribuendo ἶἳll’ἳltὄὁΝ ἳΝ ἶἷtἷὄmiὀἳὄἷΝ l’ὁggἷttὁΝiὀtὁὄὀὁΝἳΝcuiΝvἷὄtἷΝilΝἶiὅcὁὄὅὁ,ΝiὀἶicἳtὁΝἶἳllὁΝὅtἷὅὅὁΝἢἳrmenide (nella formula più astratta) come .
Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come:
23
Ruggiu, op. cit., p. 211.
311
μ μ l’uὀἳΝchἷΝèΝἷΝchἷΝὀὁὀΝèΝ[ὂὁὅὅiἴilἷ]ΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷΝ(ἐἀέἁ) ΄ μ l’ἳltὄἳΝchἷΝὀὁὀΝèΝἷΝchἷΝèΝὀἷcἷὅὅario non essere (B2.5)
ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale): l’uὀἳΝchἷΝèΝἷΝchἷΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝchἷΝὀὁὀΝὅiἳ l’ἳltὄἳΝchἷΝὀὁὀΝèΝἷΝchἷΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝchἷΝὀὁὀΝὅiἳέ
La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. ἙὀΝ ἳὂὂἳὄἷὀὐἳ,Ν l’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ ( μ ἡἡἡ ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al l’ἷὅigἷὀὐἳΝἶiΝ«tuttὁ»Νἳὂὂὄἷὀἶἷὄἷ: μ
μ , ῖ sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30).
L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’uὄgἷὀὐἳΝ ἶiΝ νΝ ὀἷlΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ l’iὀtἷὄὄὁgἳtivὁ implicito in μ ), appaiono evidentemente collegate,
312
anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. ἠἷlΝ cἳὅὁΝ ἶiΝ ἐἀ,Ν l’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ἷmἷὄgἷΝ ὀὁὀΝ ὅὁlὁ,Ν ὅulΝ ὂiἳὀὁΝ espressivo, nella scelta della costruzione ( μ ἡἡἡ ΄ ), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: μ ΄
[…]Ν(ἐἀέἁἳ) […]Ν(ἐἀέηἳ) μ μ
(B2.3b) (B2.5b).
Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a e il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’uὀἳΝ[chἷΝὂἷὀὅἳ]ΝchἷΝ«è»25 […]Ν(B2.3a) l’ἳltὄἳΝ[chἷΝὂἷὀὅἳ]ΝchἷΝ«ὀὁὀΝè»Ν[…]Ν(B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b).
L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos 26: l’uὀἳΝcὁmἷΝèΝἷΝcὁmἷΝὀὁὀΝὅiἳΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ l’ἳltὄἳΝcὁmἷΝὀon è e come sia necessario non essere,
24
In modo coerente per esempio Cordero. Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 25
313
quanto quella proposta da Ferrari 27, almeno per quel che concerne la resa di e con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b ( μ ) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b).
In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare μ - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ; non-A = ;B= μ ; non-B = μ . Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’ἳltὄὁΝὀἷcἷὅὅἳὄiἳmἷὀtἷΝfἳlὅὁέ 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 28
314
Ἐἷitὅch)Νl’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝἶi Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31. In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’uὀἳμΝèΝἷΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ l’ἳltὄἳμΝὀὁὀΝèΝἷἶΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ,
ὃuἳὅiΝlἳΝDἷἳΝὂuὀtἳὅὅἷΝἳἶΝἳὅὅὁciἳὄἷΝἳll’immἷἶiἳtὁΝὄiliἷvὁΝἶἷllo ὅtἳtὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷΝ( ) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): , , μ . Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie ἶ’iὀἶἳgiὀἷ,ΝἶuἷΝὃuἷὅtiὁὀi delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»?
È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per : dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31 32
Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da lautet) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig».
33
Tipicamente Calogero. Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 34
315
(it, es, on),ΝὅὁὅtἳὀtiviΝ(l’ἷὅὅἷὄἷ36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into» 42. DἳΝuὀΝὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝfilὁlὁgicὁΝl’iὂὁtἷὅiΝἶiΝuὀἳΝlἳcuὀἳΝὄἷlἳtivἳΝ al soggetto - azzardata per esempio da Cornford 43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente (l'essere) e (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico testo 45 ἷΝ l’ὁὂἷὄἳὐiὁὀἷΝ ὅulΝ vἷὄὅὁΝ ὄisponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una novità46. D’ἳltὄἳ ὂἳὄtἷ,Ν l’ἷὅἳmἷΝ ἶἷlΝ fὄἳmmἷὀtὁΝ cὁὀὅἷὀtἷΝ ἶiΝ iὀἶiviἶuἳὄἷΝ un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36
Tipicamente Cornford. Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 37
316
…
μ
-
-
non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8),
conoscibilità ed esprimibilità – negate a essere riferite a un ancora implicito [ ] B6.1-2a (letteralmente): ῖ
΄
μμ
μ
- debbano , come chiarito in
47
·
, μ ΄ è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è.
Se è vero, come segnala Coxon48,ΝchἷΝl’ὁmiὅὅiὁὀἷΝἶἷlΝὂὄὁὀὁmἷΝ indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è amὂiἳmἷὀtἷΝ ἶiffuὅἳΝ ὀἷll’ἷὂicἳΝ ἷΝ ὀἷlΝ gὄἷcὁΝ ὂὁὅtἷὄiὁὄἷ,Ν ὀἷlΝ cὁὀtἷὅtὁΝ ἶἷll’ἳttuἳlἷΝἐἀ,ΝiὀΝἳltὄἷΝὂἳὄὁlἷΝἳll’ἷὅὁὄἶiὁΝἶἷllἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶivina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibilἷΝἷΝὃuiὀἶiΝἶifficilἷΝἶἳΝὅὁttiὀtἷὀἶἷὄἷΝὂἷὄΝl’ἳὅcὁltἳtὁὄἷ),Νiὀὅiὅtἷὀἶὁ ὂiuttὁὅtὁΝ ὅull’imὂἳttὁΝ ἷὅὂὄἷὅὅivὁΝ ἶἷll’iὀtὄἷcciὁΝ ὁὂὂὁὅitivὁΝ (con relative formule modali), per (i) catturare progresὅivἳmἷὀtἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳὅcὁltἳtὁὄἷΝ ἷΝ (ii)Ν cὁiὀvὁlgἷὄὀἷΝ l’imὂἷgὀὁΝ iὀtἷllἷttuἳlἷ,Ν luὀgὁΝ lἷΝ ἶuἷΝ viἷΝ ἶἷliὀἷἳtἷ,Ν ὀἷll’ἷὀuclἷἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝvἷὄitὡέΝἥἳὄἷmmὁ,ΝiὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁ,ΝiὀΝὂὄesenza diΝuὀ’ἳmἴiguitὡΝὄicἷὄcἳtἳΝἳΝὅcὁὂὁΝὂἷἶἳgὁgicὁέ ἥἷ,ΝcὁmἷΝὂἷὄΝlὁΝὂiὶΝὅiΝcὁὀviἷὀἷ,Νl’ὁὄἶiὀἳmἷὀtὁΝDKΝἶἷiΝfὄἳmmenti della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del ἣuἷὅtὁΝὄiliἷvὁΝ iὀΝἤέΝεὁὀἶὁlfὁ,Ν“DiὅcuὅὅiὁὀiΝὅuΝuὀΝtἷὅtὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝ(fὄέΝἆέηἄ)”,Ν «ἤiviὅtἳΝ cὄiticἳΝ ἶiΝ ὅtὁὄiἳΝ ἶἷllἳΝ filὁὅὁfiἳ»,Ν 1λΝ (1λἄἂ),Ν ὂέΝ ἁ11έΝ ἥiΝ vἷἶἳΝ anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 47
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soggetto sottinteso 49 in B2.3: dalla pura affermazione « » si passerebbe, in B6.1, a un soggetto ( ) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo , determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione ( ), con relative proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - hἳΝl’ἷffἷttὁΝἶiΝὂὁὄὄἷΝiὀΝὄiὅἳltὁ nei versi (ὂἷὄΝ ilΝ lἷttὁὄἷ),Ν ὁvvἷὄὁΝ ὀἷllἳΝ ὄἷcitἳὐiὁὀἷΝ (ὂἷὄΝ l’ἳὅcὁltἳtore) l’ἳὅὅὁlutἷὐὐἳΝ ἶiΝ ( )52, una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide 54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta ἳll’ἳmἴiguitὡ,Ν ὂἷὄΝ lἳΝ ὄὁttuὄἳΝ ἶἷllὁΝ ὅchἷmἳΝ ὅiὀtἳtticὁΝ ὅὁggἷttὁpὄἷἶicἳtὁΝ vἷὄἴἳlἷ,Ν ἷΝ l’uὅὁΝ (ἶiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἳΝ iὀcὁὀἶiὐiὁὀἳtὁ)Ν ἶἷllἳΝ terza persona singolare indicativa ( )έΝἑὁὀΝl’ἷffἷttὁΝἶiΝὄichiamἳὄἷΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷ ὅull’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶἷlΝὄἷἳlἷ55 implicita nel linguaggiὁΝὁὄἶiὀἳὄiὁμΝl'ἷviἶἷὀὐἳΝἶἷlΝὂuὄὁΝfἳttὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷ56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49
Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 ἡ’ἐὄiἷὀ,Νop. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali μ e μ . 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’ἷὀfἳὅiΝὅull’«è»ΝὅὁὄgἷὄἷἴἴἷΝ ἶἳΝ uὀἳΝ cἷὄtἳΝ awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uὅὁΝ ὂὄἷ-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo « » con la formula « μ », che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (cὁὀΝl’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝἶiΝ o ). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93.
318
presupposto in ogni affermazione 58έΝ ἢἷὄΝ ὃuἷὅtὁΝ l’ἳggiuὀtἳΝ ἶiΝ uὀΝ pronome indefinito (qualcosa, in greco) tradirebbe (attenuandolἳ)ΝlἳΝὄἳἶicἳlitὡΝἶἷll’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝDἷἳ,ΝchἷΝὂὁtὄἷἴἴἷΝὂiuttὁὅtὁΝ ἷὅὅἷὄἷΝ iὀtἷὅἳΝ cὁmἷΝ vἷicὁlὁΝ ἶἷll’ὁὄigiὀἳὄiὁΝ ὅtuὂὁὄἷΝ per, della primitiva attenzione al «fἳttὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷ»έΝἠἷllἳΝlἷttuὄἳΝ chἷΝὂὄὁὂὁὀiamὁ,Ν iὀfἳtti,Ν ἳll’immἷἶiἳtἳΝ ὄilἷvἳὀὐἳΝ ἶἷll’ la Dea farebbe se59 guire, con una sequenza verbale ad effetto , μ , ciὁèΝl’ἷὅtὄἳὐiὁὀἷΝἷΝl’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ(ἳttὄἳvἷὄὅὁΝlἳΝἶὁὂὂiἳΝὀἷgἳὐiὁὀἷ)Ν di . Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): ῖ ΄ μμ · è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a),
emerge come espressione concettuale, consapevole svilupὂὁΝ ἳὅtὄἳttὁ,Ν ἶἷll’immἷἶiἳtὁΝ cὁὀtἷὀutὁΝ ἶi , denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58
In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772, pp. 20-2). 59 δ’ἷffetto musicale in greco della sequenza verbale in μ μ non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di ἡ 60 ἤiflἷὅὅiὁὀἷΝ iὀtὁὄὀὁΝ ἳll’uὅὁΝ ἶἷllἳΝ cὁὂulἳΝ (ἦhἳὀἳὅὅἳὅ,Ν op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come (Cordero, op. cit., p. 60.).
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che è», / ),ΝmἳΝὄichiἳmἳΝἳὀchἷΝlἳΝἳttἷὀὐiὁὀἷΝὅull’ἷὅὅἷὄἷΝ( ) di quegli enti61.
,
[Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie ἶiΝ ὄicἷὄcἳΝ […]Ν ὂἷὄΝ ὂἷὀὅἳre» è relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: μ μ l’uὀἳΝchἷΝèΝἷΝchἷΝὀὁὀΝèΝ[ὂὁὅὅiἴilἷ]ΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷΝ(ἐἀέἁ) ΄ μ l’ἳltὄἳΝchἷΝὀὁὀΝèΝἷΝchἷΝèΝὀἷcἷὅὅἳrio non essere (B2.5).
δ'iὀὅiὅtἷὀὐἳΝ ὅull’iὀcὄὁciὁΝ ὁὂὂὁὅitivὁΝ ἶiΝ e risalta sia iὀΝ lἷttuὄἳΝ ὅiἳΝ ἳll’ἳὅcὁltὁμΝ «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. ἠἷllἳΝcὁὀcluὅiὁὀἷΝἶἷll’ἷὅἳmἷΝὂὄἷcἷἶἷὀtἷΝἳἴἴiἳmὁΝὂὁὅtὁΝiὀΝὄelἳὐiὁὀἷΝl’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝἶiΝἐἀέἁΝcὁὀΝilΝὂὄimὁΝἷmiὅtichiὁΝἶiΝἐἄέ1μ ῖ
΄
μμ
.
All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica μμ ) è riferito a un esplicito soggetto, il participio , con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62 , senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi:
Thanassas, op. cit.,Ν ὂέΝ ἂηέΝ ἙὀtἷὄἷὅὅἳὀtἷΝ ilΝ ὄiliἷvὁΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ cuiΝ l’ di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla espressione aristotelica ᾗ . 62 ἥἷguἷὀἶὁΝl’ἷὅἷmὂiὁΝἶiΝἡ’ἐὄiἷὀ,Νop. cit., pp. 170 ss.. 61
320
[…]Ν che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), μ ὂἷὄΝ ὃuἷὅtὁΝ ὀὁὀΝ iὀcὁmὂiutὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ èΝ lἷcitὁΝ chἷΝ ὅiἳΝ (B8.32).
In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio (B8.3) e nel participio sostantivato 63 (B8.32), mentre e sono impiegati con valore copulativo 64. Più complessa la situazione di B8.5-6: ΄ ΄ , μ , , · né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6),
dove soggetto sottinteso è di cui sopra (B8.3), e ha uὀΝἶuὂlicἷΝὄuὁlὁμΝἳΝuὀΝtἷmὂὁΝvἳlὁὄἷΝἷὅiὅtἷὀὐiἳlἷΝ(cὁὀΝl’ἳvvἷὄἴiὁμΝ «è ora») e funzione copulativa 65. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse ἶἷll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝἶἷllἳΝDἷἳΝ(ἐἆ-15-18), dove Parmenide rievoca la (ἶἷciὅiὁὀἷ)ΝiὀtὁὄὀὁΝἳΝ«èΝὁΝὀὁὀΝè»,ΝilΝὅἷὀὅὁΝἶἷll’ in B2 si approfondisce: · μ
΄
·
΄ μ
,
,
-
΄ μ […]ΝἙlΝgiuἶiὐiὁΝiὀΝὂὄὁὂὁὅitὁΝἶiὂἷὀἶἷΝἶἳΝciάμ è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità,
.
63
Che certamente comporta valore esistenziale. In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerἳtὁ,Νl’ἷὅὅἷὄἷΝèΝἳὀchἷΝiὀἶiὅtὄuttiἴilἷ»έ 65 ἡ’ἐὄiἷὀ,Νop. cit., p. 177.
64
321
ἶiΝ lἳὅciἳὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ] inesprimibile (poiché non è via gἷὀuiὀἳ),Ν ἷΝ chἷΝ l’ἳltὄἳΝ iὀvἷcἷΝ ἷὅiὅtἳΝ ἷΝ ὅiἳΝ ὄἷἳlἷΝ (B8.15-18).
La via ( ) che pensa che «non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» ( ). In B2.6-7 si parla di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovveὄὁΝ«iὀἶicἳὄlὁ»Ν«ὀὁὀΝèΝiὀΝἷffἷttiΝcὁὅἳΝfἳttiἴilἷ»έΝδ’ἳltὄἳΝὅiΝèΝiὀvἷcἷΝ «deciso» ( ) «sia\esista» ( ) e «sia reale\genuina\vera» ( μ ). Se iὀΝ ἐἀ,Ν ὀἷll’ἷcὁὀὁmiἳΝ ἶἷllἳΝ lἷὐiὁὀἷΝἶiviὀἳ,ΝèΝἷὅὅἷὀὐiἳlἷΝὅὁὂὄἳttuttὁΝfὁcἳliὐὐἳὄἷΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὅulΝ valore decisivo della espressione verbale , preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ; la seconda lo nega ( ). La prima via completa e assolutizza l’ἳffermazione con la negazione del non-essere ( μ ), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del non-essere ( μ )έΝἑὁὀΝlἳΝὂὄimἳΝviἳ,ΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝl’ἷὅὂlicitὁΝ(ἷΝincondizionato) rilievo di ἷΝἶἷll’imὂὁὅὅiἴilitὡΝἶiΝ μ , vieὀἷΝ imὂlicitἳmἷὀtἷΝ imὂὁὅtὁΝ l’ὁggἷttὁΝ ὂiἷὀἳmἷὀtἷΝ ὂὁὅitivὁΝ ἶἷllἳΝ ricerca ( , ); con la seconda, che nega quanto la prima affἷὄmἳ,Ν viἷὀἷ,Ν ἶiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἳ,Ν ἶἷliὀἷἳtὁΝ l’ὁggἷttὁΝ ἳltἷὄὀἳtivo, radicalmente negativo, indicato come μ , dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: ῖ
΄
μμ
·
, μ
΄
322
è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è.
con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione ( ) e della pura negazione ( ) - sostenute dalle relative formule modali, possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ) «è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che «essere» ( ) «è possibile» ( ); (ii) che il «nulla» (μ ) «non è» ( ). ἙlΝcὁmuὀἷΝἷὄὄὁὄἷΝἶἷll’ὁὂiὀἳὄἷΝumἳὀὁΝὅiΝἳccompagna proprio al fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contradἶiὐiὁὀἷΝ gἷὀἷὄἳtἳΝ ἶἳll’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ iὀcὄὁciἳtἳΝ (ἳὀcὁὄchὧΝ ὅὁlὁΝ implicita) di essere e non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali ( ), nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il tentativo di attribuire come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale ( , appunto, «l’ἷὅὅἷὄἷ»),Νl’ἳltὄὁΝfittiὐiὁ,ΝὂuὄἳΝἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝvἷὄἴἳlἷΝ e funzione logica ( μ , «il non-essere», μ il «nulla»), segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀ ) di «ciò che è (necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 323
Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld 66 έΝ δ’iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ ὅἷcὁὀἶἳΝ viἳΝ cὁὀΝ ὃuἷllἳΝ ἶἷlΝ mὁὀἶὁΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝèΝἷὄὄἳtἳμΝὄicὁὄἶiἳmὁΝcὁmἷΝlἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳ è ancora connotata in B8.17-18: μ
μ ΄ μ . [ἥiΝ èΝ ἶἷciὅὁ]Ν ἶiΝ lἳὅciἳὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ]Ν inesprimibile (poiché non è via genuina).
Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa è allora , ma anche μ (letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): ΄
μ΄
, , ,
, μ ϐ
Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come μ . Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi ( , ) per i quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al coerente ri66
Op. cit., p. 55.
324
ὅὂἷttὁΝ ἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ cὁὀcἷttuἳlἷΝ ὂὄὁἶὁttἳὅi,Ν lἳΝ cὁὀὅiὅtἷὀὐἳΝ ἶἷiΝ punti di vista umani. D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝilΝmὁtivὁΝἶἷll’iὀtὄἳὀὅitἳἴilitὡΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳΝèΝ non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel caὅὁΝ ἶἷllἳΝ “ὂὄἷὅuὀtἳ”Ν viἳΝ (ἐἄέη-9) che i «mortali che nulla sanno» ( , «uomini a due teste» ), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la negazione ) come alternativa a , la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso» ( ) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato come μ έΝδ’uὀicἳΝviἳ,ΝὂἷὄΝlἳΝὂiἷὀἳΝcὁὀὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷiΝὅuὁiΝcὁntenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come (B6.1) ovvero (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a μ . 67 Si è detto chἷΝl’uὀicὁΝmὁἶὁΝὂἷὄΝὄiὅὂἷttἳὄἷΝilΝvἳlὁὄἷΝὁὂὂὁὅitivὁΝ delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di ἢἳὄmἷὀiἶἷΝὅiἳΝὅtἳtἳΝiὀΝὄἷἳltὡΝuὀ’ἳltὄἳ,ΝchἷΝiὀΝἐἀΝὅiΝlἳὅcia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» ( ), pura eὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἶἷll’immἷἶiἳtἳΝ ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἶἷllἳΝ ὄἷἳltὡ,Ν coniugata con lἳΝ cὁὀtἷὅtuἳlἷΝ ὀἷgἳὐiὁὀἷΝ mὁἶἳlἷΝ ἶἷll’ἳὀtitἷὅiΝ («ὀὁὀΝ èΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ non essere», μ ), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di , che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» ( ). Nei versi 5-8, invece, dall’ἳltὄἷttἳὀtὁΝ ὂuὄἳΝ ὀἷgἳὐiὁὀἷΝ ( )Ν ἶiΝ ὃuἷll’ὁὄigiὀἳὄiἳΝ ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,Ν cὁὀiugἳtἳΝ cὁὀΝ lἳΝ ὄἷlἳtivἳΝ formula modale («è necessario non essere», μ ), ella ricava la nozione di μ , marcandone subito l'in67
Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221).
325
ἶiὅὂὁὀiἴilitὡΝ fἳcἷὀἶὁΝ lἷvἳΝ ὅuΝ uὀ’ultἷὄiὁὄἷ,Ν immἷἶiἳtἳΝ ἷviἶἷὀὐἳμΝ non è «cosa fattibile» ( θυ σθ) conoscere e indicare «il nonessere» ( μ ).
Il percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: -Ἀ ῖdi Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀ ): essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso» ( ) lungo la ἳὀticiὂἳΝἷffἷttivἳmἷὀtἷΝl’iἶἷἳΝ 68 della μ che Platone introduce , prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio 69. 68
In Fedone 79e:
μ
μ μ
ῖἝ ,
Ἕ μ
Ἕ
Ἕ
,
μ μ Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ μ ], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che non lo è. 69
Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente:
326
δ’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝὅulΝὂὄὁcἷὅὅὁΝ(lἳΝviἳ,ΝilΝὂἷὄcὁὄὅὁ)ΝèΝimὂὁὄtἳὀtἷΝὂἷrchὧΝ ὅὁttὁliὀἷἳΝ cὁmἷΝ lἳΝ DἷἳΝ ὂὄὁὅὂἷtti,Ν ὀἷll’immἷἶiἳtὁ,Ν ἷὅὅἷὀὐiἳlmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del . In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da uὀΝlἳtὁΝcὁὀfἷὄmἳΝl’ἳὅὅὁciἳὐiὁὀἷΝ(hἷiἶἷggἷὄiἳὀἳ)ΝtὄἳΝ e disvelamento (non-ὀἳὅcὁὀἶimἷὀtὁ),Νἶἳll’ἳltὄὁΝἳccἷὀtuἳΝgliΝἳὅὂἷtti di ἳttivὁΝ cὁὀἶiὐiὁὀἳmἷὀtὁΝ ἶἷlΝ ὄicἷὄcἳὄἷ,Ν ἶὁὀἶἷΝ ilΝ ὄiliἷvὁΝ ἶἷllἳΝ “cogὀiὐiὁὀἷΝcὄiticἳ”Ν(ἐἅέημΝ«giuἶicἳΝcὁὀΝilΝὄἳgiὁὀἳmἷὀtὁ», ῖ ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a e ῖ . La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro», ῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8):
Ἦ ῖ Ἦ Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: μ
ῖ ,
, ,
,
· ,
μ
Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70
Mourelatos, op. cit., p. 66.
327
μ
μμ -
· -
Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autoὄἷvὁlἷὐὐἳΝἶἷlΝὂὄὁὂὄiὁΝ“iὁ”Ν( , «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è necessario non essere», che essa è un «sentiero» ( , tracciato secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo informazioni.
Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la formula μ (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio 71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe propriamente incontrare, né «indicare» ( ) qualcosa. Pensare «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: μ poiché non potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71
Mourelatos, op. cit., p. 76.
328
ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre ἶἳll’«è»Ν iὀἶicἳὐiὁὀiΝ ὂὁὅitivἷΝ ἷΝ ultimἳtivἷΝ ὄiguἳὄἶὁΝ ἳllἳ realtà (donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di e ). I dati fondamentali su cui il è invitato a riflettere sono dunque: (i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse sono appunto designate come μ : l'infinito «per pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra breve); (iii)Νl’imὂἷὄcὁὄὄiἴilitὡΝἶἷllἳΝὅἷcὁὀἶἳΝviἳμΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝcὁὀoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato μ per «nonἷὅὅἷὄἷ»,ΝὂὄὁἴἳἴilmἷὀtἷΝἶἳὀἶὁὀἷΝὂἷὄΝὅcὁὀtἳtἳΝl’immἷἶiἳtἳΝἷviἶἷnza per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte ( e ). In questo ὅἷὀὅὁ,Ν l’ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἳὂὂare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra («essere») e μ («non-essere»)74, marcando (a) la loro reciὂὄὁcἳΝiὀcὁmὂἳtiἴilitὡ,Ν(ἴ)Νl’iὀtὄἳὀὅitἳἴilitὡΝἶἷlΝὀὁὀ-essere, così da 72
Ivi., p. 78. Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105.
73
329
concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito con formula Ἕ μ ΄ : «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è cὁὅìΝὂὄὁὂὁὅtὁΝcὁὀtἷὅtuἳlmἷὀtἷΝἳll’uὀicὁ,ΝfὁὀἶἳmἷὀtἳlἷΝὄiliἷvὁΝὅulΝ non-essere: «non è [possibile] non essere».
Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: μ μ l’uὀἳμΝèΝἷΝὀὁὀΝèΝ[ὂὁὅὅiἴilἷ]ΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷΝ(ἐἀέἁ) ΄ μ l’ἳltὄἳμΝὀὁὀΝèΝἷἶΝèΝὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷ»(ἐἀέη)έ
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere» 76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): μ l’uὀἳΝ[chἷΝὂἷὀὅἳ]ΝchἷΝè, ΄ l’ἳltὄἳΝ[chἷΝὂἷὀὅἳ]ΝchἷΝὀὁὀΝèν 75 76
Op. cit., pp. 64-5. ἡ’ἐὄiἷὀ, op. cit., p. 182.
330
la seconda coppia (b): μ e che non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], μ e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia].
La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di e da («le uniche per pensaὄἷμΝl’uὀἳΝchἷΝὂἷὀὅἳΝchἷΝ…,Νl’ἳltὄἳΝchἷΝὂἷὀὅἳΝchἷ…»)ΝὁvvἷὄὁΝ(come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’uὀἳΝ chἷΝ ἶicἷΝ chἷ…,Ν l’ἳltὄἳΝchἷΝἶicἷΝchἷ…»),ΝὀὁὀΝὂὄἷὅἷὀtἳΝὂἳὄticὁlἳὄiΝὂὄὁἴlἷmiΝἶiΝὄἷὅἳΝ – a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco può ἷὅὅἷὄἷΝὂὄἷἶicἳtὁΝvἷὄἴἳlἷΝ(«ὀὁὀΝἷὅiὅtἷ»,Ν«ὀὁὀΝc’è»),Νὁvvἷὄὁ, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μ ), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale come sinonima di (imὂὁὅὅiἴilἷ),ΝtὄἳὅὂἳὄἷΝἳllὁὄἳΝl’iὀtἷὀὐiὁὀἷΝὂἳὄmἷὀiἶἷἳΝἶiΝ ὂὄὁὂὁὄὄἷΝl’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ iὀΝtἷὄmiὀiΝ ὀἷttiμΝ ὀἷll’ἷὀuὀciἳὄἷΝlἳΝtἷὅiΝἶἷllἳΝ ὂὄimἳΝviἳΝ(l’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ«è»),ΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝmἳὄcἳ, indirettamente, lἳΝὅuἳΝὀἷcἷὅὅitὡΝὅὁttὁliὀἷἳὀἶὁΝl’imὂὁὅὅiἴilitὡΝἶἷllἳΝἳὀtitἷὅi (la negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione dellἳΝDἷἳ,Νl’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝèΝcὁllἷgἳtἳΝὅtὄἷttἳmἷὀtἷΝἳllἳΝὂὁὅiὐiὁὀἷΝἶἷlla necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana in ἢέΝχuἴἷὀὃuἷ,ΝΟἥyὀtἳxἷΝἷtΝἥὧmἳὀtiὃuἷΝἶἷΝl’ÊtὄἷΝἶἳὀὅΝlἷΝἢὁèmἷΝἶἷΝἢἳὄménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op. cit., p. 218.
77
331
questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, («non è»), vἷἶἷΝἳccἷὀtuἳtἳΝlἳΝὂὄὁὂὄiἳΝfὁὄὐἳΝἶiΝὀἷgἳὐiὁὀἷΝἶἳΝuὀ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ – chἷΝὄiἴἳἶiὅcἷΝl’iὀtἷὀὅitὡΝἶἷllἳΝἳὀtitἷὅiΝ(«èΝὀecessario che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione μ , stigmatizzando l’imὂὁὅὅiἴilitὡΝ ἶiΝ ἳffἷὄὄἳὄὀἷΝ ἷΝ ἶἷtἷὄmiὀἳὄὀἷΝ lἳΝ ὀἷgἳtivitὡΝ ( , «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico μ - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche.
79
Ivi., p. 220.
332
PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto ὀἷlΝcὁὄὅὁΝἶἷiΝὅἷcὁliΝilΝvἳlὁὄἷΝἶiΝὅiὀtἷticἳΝἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὀὐἳΝ della filosofia di Parmenide1: esito paradosὅἳlἷΝ ἶἷll’ἷlἳἴὁὄἳὐiὁὀἷΝ della tradizione, dal momento che, oggettivamente, esistono difficὁltὡΝὂἷὄΝlἳΝὅuἳΝcὁὀtἷὅtuἳliὐὐἳὐiὁὀἷΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷlΝὂὁἷmἳ,ΝἷΝἶunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente 2 e Plotino3, che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che appare la traduzione più naturale è stata spes1 2
Tarán, op. cit., p. 41. Il contesto di Clemente riporta: Ἀ
·
μ
ἱ
·
ῖ
ῖ Ἕ
[B6.3-9] μ μ μ μ
Ἕ ῖ
ῖ μ
[ἵἩἡἤb-2] < μ
[B6.8-9] [B7.2],
[B8.1
ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2).
È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uὅὁΝcὁὀἶiὐiὁὀἳὀtἷΝἶἷlΝὂὄiὀciὂiὁΝ di contraddizione 3 (ἶὁὀἶἷΝ l’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝ ἳΝ ἐἀ)Ν cὁmἷΝ ὂὄἷmἷὅὅἳΝ
1
By Being, It Is, cit., p. 90. Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 ἙὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁΝἥimὂliciὁΝὀἷΝ cὁὀfἷὄmἳvἳΝl’imὂlicitἳΝἳttὄiἴuὐiὁὀἷΝἳΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝ da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35):
2
364
chἷΝ lὁΝ ὅtἷὅὅὁΝ ἥimὂliciὁΝ ὅἳlἶἳΝ ἷὅὂlicitἳmἷὀtἷΝ ἳll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ ὁὀtologico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: μ
[ἵἩἡἤ-2a]. Ἕ
Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30).
Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a μ ᾗ
ῖ
( ᾗ
)Ἕ
μ
ῖ
ἡ
μ · μ
μ ,
,
μ , ,
ᾤ ῖ Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere.
365
(Simplicio: μ ), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea. ἑὁmἷΝὄivἷlἳΝl’ἳmὂiὁΝἶiἴἳttitὁΝiὀtὁὄὀὁΝἳllἳΝtὄἳἶuὐiὁὀἷΝἶἷlΝtἷὅtὁΝ greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero di tali vie; (iii)Νl’ὁἴiἷttivὁΝἶἷllἳΝὂὁlἷmicἳΝὂἳὄmἷὀiἶἷἳέ ἙὀΝὂἳὄticὁlἳὄἷ,ΝὄἷlἳtivἳmἷὀtἷΝἳll’ultimὁΝὂuὀtὁ,ΝèΝἶἳll’ἡttὁcἷὀtὁΝ ὁggἷttὁΝ ἶiΝ cὁὀtἷὅἳΝ l’ἳttὄiἴuὐiὁὀἷΝ ἷὅἳttἳΝ ἶἷiΝ ὄifἷὄimἷὀtiΝ ἳΝ («mortali che nulla sanno»), («uomini a due teste»), e («schiere scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota): μ Ἕ per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9).
La natura delle vie Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fὁὄὀiὄἷΝὀἷll’iὀὅiἷmἷΝuὀΝἳὅὅἷὄtὁΝἷΝlἷΝcὁὀἶiὐiὁὀiΝchἷΝlὁΝgiuὅtificἳὀὁΝ (cὁmἷΝἷviἶἷὀὐiἳtὁΝἶἳlΝὄicὁὄὅὁΝἳll’iὀἶicἳtὁὄἷΝἶiΝὂὄἷmἷὅὅἳΝ ), introducono il primo problema interpretativo: ο
ῖ
΄
μμ
·
, μ
΄
che può rendersi letteralmente come: 366
È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile infatti essere], il nulla, invece, non è».
La nostra traduzione4 ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: μμ
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μ (letteralmente: «ni-ente non è»).
L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali: (i)Νl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ verbale , che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore ); (ii) le due fὁὄmἷΝvἷὄἴἳliΝἳll’iὀfiὀitὁΝ– e ῖ – precedute da , con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: …έ»)νΝiὀ ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: ῖ richiama immediatamente B3 e B2.2 ( ), mentre può collegarsi a (B2.6-8); (iii)Ν l’iὀὅiἷmἷΝvἷὄἴἳlἷΝ μμ , formato dal participio presente del verbo «essere» ( , forma ionica di : «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e ἶἳll’iὀfiὀitὁΝ ἶἷllὁΝ ὅtἷὅὅὁΝ vἷὄἴὁΝ ( μμ nella forma epica), che 4
Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento.
367
abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da e ῖ : si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μ non fa che esprimerla in negativo: da uὀἳΝlἳtὁΝl’«ἷὀtἷ»ΝἶiΝcui ὅiΝἳffἷὄmἳΝl’ἷὅὅἷὄἷ,Νἶἳll’ἳltὄὁΝilΝ«ὀi-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed eviἶἷὀὐiἳΝlἳΝἶifficὁltὡΝἶiΝiὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝἶἷll’ultimὁΝἴlὁccὁμΝlἳΝὅcἷltἳΝ di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcἳὄἷΝl’iἶἷὀtitὡΝἶiΝὅὁggἷttὁΝἷΝvἷὄἴὁέΝδ’ἷffἷttὁΝὄicἷὄcἳtὁΝὂὁtὄἷἴἴἷΝἷssere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamaὄἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὅull’ ( μμ ) ἶἷll’ , ὅull’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝciάΝchἷΝè; ovvero, più semplicemἷὀtἷ,Ν ὅulΝ fἳttὁΝ ἶ’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ὅull'ἷviἶἷὀὐἳΝ ἶἷll'ἷὅiὅtἷὀὐἳέΝ ῄΝ ἶἳΝ tἷὀἷὄΝ presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: μ · poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
ἐἄΝ ὅiΝ ἳὂὄἷΝ ἳὂὂuὀtὁΝ ὅὁὅtituἷὀἶὁΝ ἳll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷ negativa μ di B2.7 il positivo νΝἳlΝὄiliἷvὁΝἶἷll’imὂὁὅὅiἴilitὡΝἶiΝcὁὀὁὅcere e indicare (esprimere) «ciò che non è», quello della necessità di ἶiὄἷΝ ἷΝ ὂἷὀὅἳὄἷΝ l’«ἷὅὅἷὄἷ»Ν ἶἷll’ . Nel passaggio interviene l’imὂὁὄtἳὀtἷΝ ὀὁvitὡΝ ἶἷll’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ὅὁggἷttὁΝ ἶiΝ ( μμ ), appuntoμΝ l’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ «èΝ ἷΝ ὀὁὀΝ èΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ ὀὁὀΝ essere» (B2.3: μ ) che caratterizzava il , «percorso di Persuasione», trova in B6.1a come proprio naturale soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere come formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 6
Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. Op. cit., p. 102.
368
ricerca per pensare7μΝfὁὄmulἳΝchἷΝmἳὀifἷὅtἳΝl’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝciάΝἶiΝcuiΝὅiΝ afferma , ovvero come formula sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8,ΝèΝfὄἷὃuἷὀtἷΝl’uὅὁΝἶἷlΝὂluὄἳlἷΝ nella sezione sulla Alētheia) di cui fὁcἳliὐὐἳΝilΝfἳttὁΝἶ’ἷὅὅἷὄἷμΝciάΝchἷΝè,Νl’ἷὀtἷ,Ν lἳΝ “cὁὅἳ”,Ν «è»,Ν ἷὅiὅtἷέΝ ἥiἳmὁΝ ὂὁὄtἳtiΝ decisamente a credere che, nel contesto, il valore di μμ sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». δ’uὅὁΝ ἶἷll’iὀiὐiἳlἷΝ – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a μ , integrata dal rilievo di B3: ῖ La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere.
Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra ῖ e , tra il pensiero che svela ( ῖ )ΝἷΝl’uὀicὁΝὅuὁΝὄἷἳlἷΝὁggἷttὁΝ possibile ( )Ν ἳllἳΝ lucἷΝ ἶἷll’iὀiὐiἳlἷΝ ἳltἷὄὀἳtivἳΝ tὄἳΝ lἷΝ viἷέΝ ἠἷll’ἳὂἷὄtuὄἳΝ ἶiΝ ἐἄ,Ν ἳiΝ due infiniti ( e ῖ ) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa μμ («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla 9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: , μ ΄ essere, infatti, è possibile, 7
Thanassas, op. cit. p. 45. Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a . 8
369
il nulla, invece, non è.
La formula può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: μ
L'espressione μ tezza della seconda via:
.
, a sua volta, ribadisce l'assoluμ
,
attribuendo coerentemente a un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse. Essere, non-essere
Traducendo letteralmente: , μ
΄
abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente come soggetto del primo emistichio e μ del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è;
(ii) intendere cato (come ):
come soggetto di entrambi, con μ
predi-
poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla;
370
(iii) intendere μ del secondo:
come soggetto del primo emistichio e
poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è.
Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione \ , accompagnata dai due soggetti logici (il primo , il secondo μ ) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragiὁὀἷΝἶἷll’uὅὁΝἶiΝ . Seguendo una affermazione ( ο ῖ ΄ μμ ), esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta ἶἷll’ἳὅὂἷttὁΝ chἷΝ ὄἷὀἶἷΝ ὂiὶΝ ὂἷὄὂlessi) sembra semplicemente riformulare la dichiarativa ( funge da soggetto in sostituzione di ),ΝὀἷgἳὀἶὁΝl’ἷὅὅἷὄἷΝἳlΝὅὁggἷttὁΝcὁὀtὄἳὄiὁΝ(«[il]Νὀi-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che ἷὅὅἷὄἷΝ«ciάΝchἷΝè»,ΝὂἷὄchὧΝὅὁlὁΝ«ciάΝchἷΝèΝ[l’ἷὅὅἷὄἷ]Ν è [esiste]». Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione \ è riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare 11, una delle quali (sviluὂὂἳὄἷΝcὁἷὄἷὀtἷmἷὀtἷΝlἳΝὂὄἷmἷὅὅἳΝ«chἷΝè»)Νfἷcὁὀἶἳ,Νl’ἳltὄἳΝ(ὅviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio
10
Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano ο . 11 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191.
371
Colli 12 , la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che è» ( ), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla».
È necessario, è possibile, non è possibile ἧὀ’iὀtἷὄἷὅὅἳὀtἷΝὅὁluὐiὁὀἷΝἳltἷὄὀἳtivἳΝἳllἳΝtὄἳἶuὐiὁὀἷΝlἷttἷὄἳlἷΝèΝ ὃuἷllἳΝὂὄὁὂὁὅtἳΝἶἳΝἡ’ἐὄiἷὀμΝἷὅὅἳ,ΝὄἷὀἶἷὀἶὁΝ \ con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni modali: necessità ( ), possibilità ( ), impossibilità ( ): ἙlΝfἳutΝἶiὄἷΝcἷciΝἷtΝὂἷὀὅἷὄΝcἷciμΝl’êtὄἷ est; car il est posὅiἴlἷΝἶ’êtὄἷ, ilΝὀ’ἷὅtΝὂἳὅΝὂὁὅὅiἴlἷΝὃuἷΝξὅὁitρΝcἷΝὃuiΝὀ’ἷὅtΝὄiἷὀέ
Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ἷὀtἷέΝἑὁmἷΝὄicὁὄἶἳΝl’ἳutὁὄἷ 13, infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono eμ : il primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12
Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 ἡ’ἐὄiἷὀ,ΝÉtudes sur Parménide, cit., vol. I, p. 214.
372
ὀὁὀΝἳΝcἳὅὁ,Νἡ’ἐὄiἷὀΝὅὁttiὀtἷὀἶἷΝuὀΝiὀfiὀitὁΝ(μ ΄ < 14 15 >). Anche Mansfeld opta per una (diversa ) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque ἳvἷὄΝἶἷὄivἳtὁ,Νἶἳll’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝὂὁὅὅiἴilitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝἷΝἶἳlla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia 16. Resta comuὀὃuἷΝ vἳliἶἳΝ l’ὁἴiἷὐiὁὀἷ,Ν ἳvἳὀὐἳtἳΝ ἶἳΝ δἷὅὐl 17 , per cui, attribuendo alle due ricorrenze di valori diversi, verrebbe meno la ὅimmἷtὄiἳΝἷΝὅὁὂὄἳttuttὁΝl'uὀifὁὄmitὡΝὀἷll’imὂiἷgὁΝἶἷlΝvἷὄἴὁέ
Le due vie di B2 in B6 ἙὀΝἳὂἷὄtuὄἳΝἶiΝἐἄ,Νiὀὅὁmmἳ,ΝlἳΝDἷἳΝὄitὁὄὀἳΝὅull’ἳltἷὄὀἳtivἳΝἶelineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) delΝὄicὁὀὁὅcimἷὀtὁΝἶἷll’ come oggetto di e ῖ , escludendo che μ ( μ di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva \ si sostituiscono le espressioni tautologiche – μμ , ,eμ ,Ν cὁὀΝ l’ἷὅὂlicitἳὐiὁὀἷ, dunque, di adeguati soggetti logici. 14
Op. cit., p. 90. Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 ( μμ ) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione ἶἷllἷΝἶuἷΝviἷέΝἦὄἳΝlἳΝὂὁὅὅiἴilitὡΝchἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὅia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 15
373
In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava pensando μ , in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di ῖ (come un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; (ii)Νl’ἳltὄὁ,ΝἳlΝcὁὀtὄἳὄiὁ,ΝtἷὀtἳvἳΝlἳΝὄicἷὄcἳΝimἴὁccἳὀἶὁΝlἳΝἶiὄezione opposta, pensando cioè μ , nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente» (μ ) da vedere e riferire. La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile ῖ , nel senso originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente connotato la prima via come , in quanto capace di condurre alla vera realtà (Ἀ ῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che μ èΝiὀἶiὅὂὁὀiἴilἷΝ ἳll’ἷffἷttivἳΝcὁὀὁὅcἷὀza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: ο
ῖ
΄
μμ
e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'intἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝἶἷll’iὀtἷὄὁΝfὄἳmmἷὀtὁΝ- si contrappone in particolare 374
quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 ( μ «che esistano cose che non sono»). La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere (dire e pensare) μμ – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e μ : essa era «sentiero del tutto privo di informazioni» ( ) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μ , come elemento dimostrativo per richiamare l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὅullἳΝ ὀἷcἷὅὅitὡΝ ἶἷll'ὁὂὂὁὅtὁ μμ . Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica (argomentativa) del («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: .
Il numero delle vie È indicativa la formula utiliὐὐἳtἳΝ ὂἷὄΝ vἳlὁὄiὐὐἳὄἷΝ l’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione carattἷὄiὅticἳΝἶἷll’ἷὂicἳΝὁmἷὄicἳΝἷἶΝἷὅiὁἶἷἳ,Νiὀὅiὅtἷμ 18
By Being, It Is, cit., p. 99. Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 19
375
΄ Queste cose io ti esorto a considerare,
chἷΝὅἷmἴὄἳΝὄichiἳmἳὄἷΝl’iὀvitὁΝiὀiὐiale di B2: ΄ ΄ , μ μ Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata.
ἑὁmἷΝiὀΝὃuἷlΝcἳὅὁ,ΝlἳΝDἷἳΝὅὁttὁliὀἷἳΝilΝὄiliἷvὁΝἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il fraintenἶimἷὀtὁΝἶἷllἳΝlὁὄὁΝὀἳtuὄἳ,ΝiὀΝἷffἷtti,ΝèΝἳll’ὁὄigiὀἷΝἶἷllἳΝcὁὀfuὅiὁὀἷΝ dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di osservare (B2.6): μμ Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni;
in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»): ΄ ΄ < > Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >.
ἣuἷὅtἳΝvἷὄὅiὁὀἷΝἶἷlΝtἷὅtὁΝgὄἷcὁ,ΝcὁὀΝl’iὀtἷgὄἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝlἳcuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas 21 (e dalla Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo μ (forma media), «cominciare»:
χέΝἠἷhἳmἳὅ,Ν“ἡὀΝἢἳὄmἷὀiἶἷὅ’ΝἦhὄἷἷΝἩἳyὅΝὁfΝἙὀὃuiὄy”,Ν«Dἷucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco. 21
376
΄ ΄ < ἱ since you < will begin > with this first way of investigation, ΄ ΄
For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry.
δ’ἷὅigἷὀὐἳΝ ἶiΝ mἷttἷὄἷΝ iὀΝ ἶiὅcuὅὅiὁὀἷΝ lἳΝ lἷὐiὁὀἷΝ tὄἳἶiὐiὁὀἳlἷ,Ν sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla oggettiva cὁὄὄuὐiὁὀἷΝἶἷlΝtἷὅtὁΝἶἷiΝmἳὀὁὅcὄittiΝ(cὁὀΝl’ultἷὄiὁὄἷΝὂὁὅὅiἴilitὡΝchἷΝ la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come possibilità. δ’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝchἷΝὂὄὁὂὁὀiἳmὁΝ è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo alla formula μ ΄ . Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che μμ . In questo 23
Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione dei codici BC a quella (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il ὂἷὄὅὁὀἳlἷΝ«ti»,Νl’iὀtἷgὄἳὐiὁὀἷΝὂὄὁὂὁὅtἳΝὄiὅultἷὄἷἴἴἷΝimὂὄἳticἳἴilἷΝὀἷlΝcἳὅὁΝἶiΝ Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione + è caratteristica nella letteratura greca arcaica.
377
senso, la secὁὀἶἳΝviἳΝὂὄὁὅὂἷttἳΝἶivἷὀtἳΝ«ὂὄimἳ»Νὀἷll’ὁὄἶiὀἷΝἷὅὂositivo.
Da questa prima via di ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza ὀἷll’ἷὅὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ DἷἳέΝ χἶὁttἳὀἶὁΝ lἳΝ cὁὀgἷttuὄἳΝ ἶiΝ ἑὁὄἶἷὄὁΝ avremmo: ΄
΄
΄
,
< > con questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno ὅ’iὀvἷὀtἳὀὁ.
Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa: μ μ
Ἀ
·
΄
μ μ μ A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳ,Ν l’ὁὄἶiὀἷ delle mie parole ascoltando, che può ingannare.
378
Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal confὄὁὀtὁΝtὄἳΝἐἀΝἷΝἐἄ,ΝὄicἳvάΝl’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝἶiΝtὄἷΝviἷμΝ (i)ΝὃuἷllἳΝchἷΝ affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di ἐἄέἁ)Ν ὅἳὄἷἴἴἷΝ lἳΝ ὅἷcὁὀἶἳΝ viἳΝ ἶiΝ ἐἀνΝ l’ἳltὄa via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mὁὄtἳli,Ν ἤἷiὀhἳὄἶtΝ cὁὀcluἶἷvἳΝ chἷΝ ἶὁvἷὅὅἷΝ cὁὀcἷὄὀἷὄἷΝ l’ἳmἴitὁΝ dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa ( μ ... ΄ ),Ν mἳὄcἳὀἶὁΝ l’ἷὅἳuὅtivitὡΝ («lἷΝ uὀichἷ per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (ἳ)Ν lἳΝ ὂὄimἳΝ muὁvἷΝ ἶἳll’immἷἶiἳtἳΝ ἷviἶἷὀὐἳμ «è» ( ), estraendone «essere» ( ) e respingendo la possibilità della sua antitesi ( μ ); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» ( ), marcando la necessità del non-essere ( μ ); (iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25
Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1.
379
parole («io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per ilΝἶiὅcἷὂὁlὁ,Νl’ἳὅcὁltἳtὁὄἷΝἷΝilΝlἷttὁὄἷ)ν (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come («via non genuina»), percorso di indagine che non può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i μ di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero 29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo escluso: μ μ μ Ἕ μ μ dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27).
B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» ( μμ ), attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (
By Being, It Is…, cit., p. 73. Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 27 28
380
),ΝἷΝἶἷll’inesistenza del nulla (μ il passaggio sarà richiamato: · μ
΄
)30. In B8.15-18 ·
΄ μ
,
,
-
΄ μ Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, ἶiΝ lἳὅciἳὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ]Ν iὀἷὅὂὄimiἴilἷΝ (poiché non è uὀἳΝviἳΝgἷὀuiὀἳ),ΝἷΝchἷΝl’ἳltὄἳΝiὀvἷcἷΝἷὅiὅtἳΝἷΝὅiἳΝὄἷἳlἷέ
Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto e μ (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoὅcimἷὀtὁΝἶἷll’uὀicἳΝviἳΝὂὄἳticἳἴilἷΝὂἷὄΝlἳΝὄicἷὄcἳμΝἷὅὅἳΝἷὅiὅtἷΝè vera\reale ( μ ),Ν mἷὀtὄἷΝ l’ἳltὄἳΝ ὀὁὀΝ lὁΝ èΝ (ὀὁὀΝ èΝ «gἷὀuiὀἳ»,Ν ), non può costituirsi, per sua natura, come effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via μ in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima ἳὀcὁὄἳΝ ἶiΝ ἶἷἶicἳὄὅiΝ ἳlΝ ὅὁὀἶἳggiὁΝ ἶἷll’uὀicἳΝ viἳΝ gἷὀuiὀἳΝ ( μ ),ΝlἳΝDἷἳΝὅiΝὅὁffἷὄmἳΝὅull’ἷὄὄὁὀἷἳΝ «invenzione» dei «mortali che nulla sanno» ( ), effetto del colpevole misconoscimento delle implicazioni ὀἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ . Ancorché prospettata come , la strada imboccata dai è chiara-
30
δ’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ ὅἳὄἷἴἴἷ quindi: (i) μμ ἡ
, (ii) μ
381
mente caratteὄiὐὐἳtἳ,Ν ὀἷllἷΝ ὅcἷltἷΝ ἷὅὂὄἷὅὅivἷΝ ἶἷll’ἳutὁὄἷ,Ν cὁmἷΝ illusione31.
L’impotenza dei mortali ἙlΝὄἷgiὅtὄὁΝliὀguiὅticὁΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷiΝfὄἳmmἷὀtiΝἶἷlΝὂὁἷmἳΝmuta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione: ΄
,
e poi da quella che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante (B6.4-6).
Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea, ὄicἳvἳtἳΝἶἳΝfὁὄmulἷΝcὁὀὅὁliἶἳtἷΝἶἷll’ἷὂicἳΝἷΝ ἶἷllἳΝliὄicἳΝgὄἷcἳΝἳrcaica, veicὁliΝuὀΝὅἷὀὅὁΝtὄἳgicὁΝἶἷll’ἷὅiὅtἷὀὐἳέΝἠὁὀΝἳΝcἳὅὁΝJἳἷgἷὄ 32 richiama i versi del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla natura): μ μ
Ἕ μ μ
μ μ
ῖ
Ἕ
·
Ἕ
μ
Soprattutto se intendiamo il verbo retto da come forma di μ , «mi invento» e non di «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci,Νcitέ,ΝὂέΝ1ηηέΝδ’ἳutὁὄἷΝὁὅὅἷὄvἳμΝ «ὂἳὄΝἶiΝὅἷὀtiὄἷΝl’ἷcὁΝἶiΝuὀ’ἷὅὁὄtἳὐiὁὀἷΝὄἷligiὁὅἳ»έ 31
382
Parlerò senza disprezzo per gli uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 445-50).
Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La μ segna la costituzione dei (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un consolidato stereotipo già imὂiἷgἳtὁΝἶἳlΝὂὁἷtἳΝὀἷlΝὂὄὁἷmiὁ)μΝl’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, ParmἷὀiἶἷΝ ὂὁὀἷΝ l’ἳccἷὀtὁΝ ὅull'iὀcἳὂἳcitὡΝ ἶiΝ ἶiὅcὄimiὀἳὄἷΝ tὄἳΝ lἷΝ ἶuἷΝ vie, e dunque su un intreccio perverso di essere e non-essere: l’ὁbiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione del mὁὀἶὁΝ ὄἷἳlἷ,Ν ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ,Ν ἶiΝ cuiΝ ὅiΝ ὅὁttὁliὀἷἷὄὡΝ l’iὀcὁὀὅἳὂἷvὁlἷΝcὁὀὅὁliἶἳmἷὀtὁΝὀἷlΝliὀguἳggiὁΝἶἷlΝὅἷὀtiὄἷΝcὁmuὀἷ,ΝiὀΝuὀἳΝvἷὄἳΝἷΝὂὄὁὂὄiἳΝ“ὅἷcὁὀἶἳΝὀἳtuὄἳ”Ν( di B7.3)33. La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come , «che nulla sanno», una fὁὄmulἳΝfὄἷὃuἷὀtἷmἷὀtἷΝimὂiἷgἳtἳΝὀἷll’ἷὂicἳΝἷΝὀἷllἳΝliὄicἳΝὂἷὄΝinἶicἳὄἷΝ lἳΝ limitἳtἷὐὐἳΝ ἶἷll’ὁὄiὐὐὁὀtἷΝ umἳὀὁ 34 (concentrato sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro) 35. Li connota come , «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. χttὄiἴuiὅcἷΝlὁὄὁΝlἳΝ“fiὀὐio33
Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. Ivi, p. 259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 ( ). 34
383
ὀἷ”Ν ( , «si inventano») di una via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la loro μ , la debolezza per cui la loro mente ( )ΝcἷἶἷΝἳll’ἳttὄἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝὀὁὀ-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche 36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiἳvἷΝ ἶἷll’ἷὄὄἳὀὐἳΝ ἶἷiΝ mὁὄtἳliμΝ , «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello μ che consenta di differenziarne la funzione rispetto al . Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del disorientamento: . μ , , Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7).
I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di ὅἷὀὅὁΝ ἶἷὂutἳtiΝ (lἳΝ viὅtἳΝ ἷΝ l’uἶitὁ)Ν ὂὄὁἶucὁὀὁΝ – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento ( , ῖ ), con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» ( ) dei , cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà. 36
Op. cit., p. 108. Con formula omerica ( ): in Omero (Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo μ e localizzato «nel petto» ( ). 38 ἥiΝ tὄἳttἳ,Ν ἳΝ ὀὁὅtὄὁΝ ἳvviὅὁ,Ν ἶἷll’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝ ὂiὶΝ imὂὁὄtἳὀtἷΝ ὀἷll’iὀὅiἷmἷΝ ἶἷlΝ frammento.
37
384
Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale: così nel poeta-ὅἳὂiἷὀtἷΝ ὀὁὀΝ tὄὁviἳmὁΝ ἳlcuὀἳΝ cὁὀἶἳὀὀἳΝ ἶἷll’uὁmὁΝ iὀΝ quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito:
·
μ
Ἕ
Ἕ
μ μ
ἡ Ἕ
Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) μ
μ Ἕ Ἕ μ Ἕ ῖ proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco Aurelio; DK 22 B72) ῖ
μ
ῖ
ῖ
ῖ
·
385
ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK 22 B34) ἡ
ῖ μ
Ἕ
μ μ
E. dice che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) Ἕ ·
μ ῖ
Ἕ
ἡ μ
ῖ
Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, iὀfἳtti,Ν ὅiΝ ἳlimἷὀtἳὀὁΝ ἶἷll’uὀicἳΝ lἷggἷΝ ἶiviὀἳμΝ ὂὁichὧΝ quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114).
ἥἷὀὐἳΝ vὁlἷὄΝ ἷὀtὄἳὄἷΝ ὀἷlΝ ἶἷttἳgliὁΝ ἶἷll’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ὂἷnsiero di Eraclito, è sufficiente osservare come nelle citazioni sia marcato l’iὅὁlἳmἷὀtὁΝἶἷlΝsapiente rispetto alle opinioni condivise dai più: il suo discorso consapevole ( ) che annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura ὅtἳἴilἷΝ ἶἷlΝ mutἳmἷὀtὁ)Ν èΝ cὁὀtὄἳὂὂὁὅtὁΝ ἳll’iὀcὁmὂὄἷὀὅiὁὀἷΝ (mἳncanza di intelligenza della realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di μ come ordine del mondo) che li circonda, gli «uomini» ( ) ne ignorano la normatività; essi vivono così non da «desti» ( ) in una condizione di torpore, stordimento: una sorta di sonnambulismo. δ’ἳἶἷὅiὁὀἷΝal logos è adesione a «ciò che è comune» ( )e ὃuiὀἶiΝ ὅἷὀὅἳtὁ,Ν ὁggἷttivὁ,Ν ἶivἷὄὅἳmἷὀtἷΝ ἶἳll’ὁttuὅitὡΝ ἶἷllἳΝ iὀcὁn386
sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema ἶἷll’ἷὅtὄἳὀἷitὡ)έ δ’«iὁ»Ν ἶἷllἳΝ DἷἳΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ ἷΝ l’«iὁ»Ν ὂἷὄὅὁὀἳlἷΝ ἶiΝ ἓὄἳclitὁΝ sono – come correttamente segnalato da Conche 39 - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»νΝ ἶἳll’ἳltὄἳΝ ciΝ ὅὁὀὁΝ cὁlὁὄὁΝ chἷΝ ὀὁὀΝ giuἶicἳὀὁΝ cὁὀΝ lἳΝ ὄἳgiὁὀἷμΝ ilΝ ὅἷgὄἷtὁΝ ἶἷll’ἷὄὄἳὀὐἳΝ ἶἷiΝ «mortali» è nel loro stesso pensiero 40. A noi pare che lo studioso fὄἳὀcἷὅἷΝ ἳἴἴiἳΝ cὁltὁΝ ὀἷlΝ ὅἷgὀὁΝ ὅὁttὁliὀἷἳὀἶὁΝ cὁmἷΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἷvὁchiΝl’«uὁmὁΝcὁllἷttivὁ»,ΝiὀcἳὂἳcἷΝἶiΝἳὅὅumἷὄἷΝlἳΝ decisione ( ) riguardo alle due vie: in questo senso, analogἳmἷὀtἷΝἳΝὃuἳὀtὁΝὄἷgiὅtὄiἳmὁΝὀἷiΝfὄἳmmἷὀtiΝἶἷll’ἓfἷὅiὁ,ΝgiuἶicaὄἷΝ cὁὀΝ iὀtἷlligἷὀὐἳΝ èΝ ὂὁὅὅiἴilἷΝ ὅὁlὁΝ ἳll’iὀἶiviἶuὁΝ chἷΝ ὅiΝ ἶiὅtἳcchi intellettualmente dalle credenze collettive 41.
Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento, l’ἳltἷὄὀἳtivἳΝἶiΝἐἀ,ΝiὀtὄὁἶucἷὀἶὁΝὂὁi,ΝiὀΝὄἷlἳὐiὁὀἷΝἳΝἷὅὅἳ,ΝilΝtema ὅὂἷcificὁΝἶἷll’ἷὄὄὁὄἷΝἶiΝfὁὀἶὁΝἶἷiΝ«mὁὄtἳli»έΝἙlΝὂἳὅὅἳggiὁΝἳllἳΝcὁnfusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupeὄὁΝἶἷlΝmὁtivὁΝtὄἳἶiὐiὁὀἳlἷΝἶἷll’imὂὁtἷὀὐἳΝumἳὀἳΝ(tἳὀtὁΝὂiὶΝὅigὀificativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viἷὀἷΝtuttἳviἳΝ“cuὄvἳtὁ”ΝὂἷὄΝcὁὄὄiὅὂὁὀἶἷὄἷΝἳllἷΝὂἷculiἳὄiΝἷὅigἷὀὐἷΝ ὂὁlἷmichἷΝἶἷll’ἳutὁὄἷέΝἙlΝliὀguἳggiὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁΝὅἷmἴὄἳΝiὀὅiὅtἷὄἷΝ soprattutto sulla natura illusoria di una («via di ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva ἶἷiΝ«mὁὄtἳli»έΝἙὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁΝἷὅὅὁΝὀὁὀΝἳvἳllἳΝἳlcuὀἳΝ“tἷὄὐἳΝviἳ”,Ν non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni della alternativa 39
Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 40
387
fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, ὃuἷὅtἳΝ ὂὄἷὅuὀtἳΝ “tἷὄὐἳΝ viἳ”Ν èΝ ὅtigmἳtiὐὐἳtἳΝ cὁmἷΝ“iὀvἷὀὐiὁὀἷ”ΝἶiΝ«cὁlὁὄὁΝchἷΝὀullἳΝὅἳὀὀὁ»,ΝἶuὀὃuἷΝcὁmἷΝlogicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: μμ eμ ; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale ( μ , ovvero μ ). Dei - che nel loro scorὄἷttὁΝ ἳὄgὁmἷὀtἳὄἷΝ ἷΝ cὁὀfuὅὁΝ ὂἳὄlἳὄἷΝ “ὅiΝ fiὀgὁὀὁ”Ν uὀΝ cὁmmἷὄciὁΝ delle due vie alternative - si rileva invece: μ per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9).
È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tὄἳlἳὅciἳὀἶὁΝl’ἷὅὁὄἶiὁΝἶἷlΝὀὁὅtὄὁΝfὄἳmmἷὀtὁΝἷΝcὁὀcἷὀtὄἳὀἶὁὅiΝὅulla disgiunzione essere-non essere: μ μ
Ἕ ῖ
μ Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117, 2).
Precisa inoltre: μ μ μ ῖ μ μ DὁὂὁΝ ἳvἷὄΝ ἴiἳὅimἳtὁΝ cὁlὁὄὁΝ chἷΝ cὁὀgiuὀgὁὀὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ e il non-ἷὅὅἷὄἷΝ ὀἷll’iὀtἷlligiἴilἷΝ (ἥimὂliciὁ,Ν Phys. 78, 2; DK 28 B6).
388
ἢuὄΝὀὁὀΝcὁὀcὁὄἶἳὀἶὁΝcὁὀΝl’ἳὀἳliὅiΝὅὂἷcificἳΝἶiΝδἷὅὐlΝ(viciὀἳΝἳΝ quella di Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenὐiἳlmἷὀtἷΝl’iὀcἳὂἳcitὡΝἶiΝἶiὅcὄimiὀἳὄἷΝ («essere e non essere»), («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a . Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’ἳccἳὀimἷὀtὁΝvἷὄἴἳlἷΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶe.
L’obiettivo della polemica εἳΝchiΝὅὁὀὁΝiΝ«mὁὄtἳli»ΝcuiΝὅiΝὄivὁlgἷΝl’ἳttἳccὁΝὂἳὄmἷὀiἶἷὁςΝῄΝ possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito interpretativo. 389
Quella che mortali che nulla s’inventano
sanno
ἥἷΝ ἶἳΝ uὀΝ lἳtὁΝ èΝ cὁὄὄἷttἳΝ l’ὁὅὅἷὄvἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ἑὁxὁὀ,Ν ὂἷὄΝ cuiΝ iὀΝ B6.4 il complemento pronominale ( ) si riferisce alla del verso precedente,Ν ἷΝ ἶuὀὃuἷΝ ἳΝ “ὄicἷὄcἳtὁὄi”,Ν èΝ ἶἳll’ἳltὄὁΝὂὁὅὅiἴilἷΝchἷΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝἳἴἴiἳΝcὁltὁΝl’ὁccἳὅiὁὀἷΝὂἷὄΝὂolemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente , «mortali») che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», ) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. δ’ἷὄὄὁὄἷΝἳὅcὄitto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - ὂὁtὄἷἴἴἷΝgἷὀἷὄicἳmἷὀtἷΝὄifἷὄiὄὅiΝἳll’iὀcἳὂἳcitὡΝἶiΝὁffὄiὄἷΝuὀἳΝ coerente (con le «uniche vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (ilΝcἳὅὁΝἶiΝἡmἷὄὁ)ΝὁΝlἳΝcὁmὂἷtἷὀὐἳΝ(ἓὅiὁἶὁ),Νἶἳll’ἳltὄὁΝἳΝcὁntἷὅtἳὄἷΝl’enciclopedismo dei contemporanei: Ὅμ Ἀ μ Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) · ῖ
Ἕ μ · Maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57)
390
μ
·
ῖ l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK 22 B40) μ
μ ,
μ , ἡ Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
δ’ὁἴiἷttivὁ,Ν ὀἷlΝ cἳὅὁΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷ, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non siΝὂuὀtἳΝἳΝ ὄiὅcἳttἳὄἷΝl’iὀὅtἳἴilitὡΝἶἷlΝ divenire nella permanenza della : nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticἳἴilitὡ,Νἳll’ἷὂὁcἳ,ΝἶiΝcὁὀfὄὁὀtiΝἶἷlΝgἷὀἷὄἷ)έΝδ’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝèΝchἷΝ essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valἷὄἷΝl’ἳὀἳlὁgiἳΝcὁὀΝἓὄἳclitὁέ 391
Uomini a due teste χll’iὀiὐiὁΝἶἷlΝὅἷcὁlὁΝὅcὁὄὅὁΝDέὄiὀg42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva rilanciata ἶἳll’ἳἶἷὅiὁὀἷΝ ἶiΝ uὀἳΝ ὃuὁtἳΝ miὀὁὄitἳὄiἳΝ ἶἷgliΝ ὅὂἷciἳliὅtiΝ (tὄἳΝ iΝ ὂiὶΝ autorevoli certamente Raven 43). Tra gli assunti di Döring 44 , soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷlΝvuὁtὁ,ΝcὁὀὅiἶἷὄἳtὁΝiἶἷὀticὁΝἳlΝὀὁὀ-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua tendenza a retroiettare verso l’ὁὄigiὀἷΝcὁὀquiste teoriche maturate nel tempo. ῄΝvἷὄὁ,Νἶ’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝchἷΝὂὄὁὂὄiὁΝὃuἷὅtἷΝἶifficὁltὡΝὀὁὀΝcὁὀὅἷntono di escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico 45, in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria opposizione di limite ( ) e illimite ( ), cooperanti nella generazione di tutti gli enti 46. 42
A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. DἷllὁΝὅtἷὅὅὁΝἳutὁὄἷΝ“DἳὅΝἩἷltὅyὅtἷmΝἶἷὅΝἢἳὄmἷὀiἶἷὅ”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: μ
μ
ῖ μ
, ,
392
In questo senso, gli uomini «a due teste» ( ) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i ὂitἳgὁὄiciΝὄἷὅὂὁὀὅἳἴiliΝἶἷll’ἷlἳἴὁὄἳὐiὁὀἷΝἶiΝὃuἷlΝmὁdello dualisticὁμΝlἳΝtἷὅtimὁὀiἳὀὐἳΝἳὄiὅtὁtἷlicἳ,Νiὀfἳtti,ΝἳΝἶiὅὂἷttὁΝἶἷll’ἳccἷὀὀὁΝἳΝ uὀΝcὁὀtὄiἴutὁΝὅὂἷcificὁΝἶἷἶicἳtὁΝἳll’ἳὄgὁmἷὀtὁ,Νὄivἷlἳ,Ν(cὁmἷΝὀἷl ὄicὁὄὅὁΝ ἳll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ «i cosiddetti pitagorici», μ ), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di contrari: Ἀ
μ
ῖ ,
ῖ · ] Ἀ [ ]
μ
[ ᾳ,]
[ · ,
μ [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). μ
( μ
,
μ
,
), ,
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; ἶiΝ ὃuἷὅti,Ν ilΝ ὂὄimὁΝ èΝ illimitἳtὁ,Ν l'ἳltὄὁΝ limitἳtὁέΝ δ’ἧὀὁΝ ἶἷὄivἳΝ ἶἳΝ entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dἳll’ἧὀὁ,Ν ὂὁi,Ν ἶἷὄivἳΝ ilΝ ὀumἷὄὁνΝ ἷΝ iΝ ὀumἷὄi,Ν cὁmἷΝ ὅ’èΝ ἶἷttὁ,Ν cὁὅtituiὄἷἴἴἷὄὁΝl’iὀtἷὄὁΝuὀivἷὄὅὁέ
393
Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica ( ), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locἳlἷμΝiὀΝuὀ’ἷὂὁcἳΝὂἷὄΝlἳΝὃuἳlἷΝèΝἶifficilἷΝvἳlutἳὄἷΝl’iὀciἶἷὀὐἳΝἶἷllἳ distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8.
Il percorso torna all'indietro ἥiὀΝἶἳll’ἡttὁcἷὀtὁΝ(ἐἷὄὀἳyὅ)ΝèΝmaturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie 48), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: μ
μ
μ
·
47
Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134135. 48 Op. cit., p. 23.
394
non capiscono che ciò che è differente concorda con se mἷἶἷὅimὁμΝ ἳὄmὁὀiἳΝ ἶiΝ cὁὀtὄἳὄi,Ν cὁmἷΝ l’ἳὄmὁὀiἳΝ ἶἷll’ἳὄcὁΝ e della lira (Ippolito; DK 22 B51) Ἕ μ
Ἕ
μ
μ
Ἕ
congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armὁὀicὁΝ ἶiὅἳὄmὁὀicὁ,Ν ἶἳΝ tuttἷΝ lἷΝ cὁὅἷΝ l’uὀὁΝ ἷΝ ἶἳll’uὀὁΝtuttἷΝlἷΝcὁὅἷ (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) μ ῖ ῖ ῖ μ μ μ μ Ἕ μ μ Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22 B49a) μ μ non si può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a).
Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti diversamente49): μ , per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro.
49
La resa italiana più frequente è la seguente: ὂἷὄΝiΝὃuἳliΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ἷΝilΝὀὁὀΝ ἷὅὅἷὄἷΝὅὁὀὁΝ cὁὀὅiἶἷὄἳtiΝlἳΝὅtἷὅὅἳΝ cosa ἷΝὀὁὀΝlἳΝὅtἷὅὅἳΝcὁὅἳμΝἶiΝtuttἷΝlἷΝcὁὅἷΝc’èΝuὀΝὂἷὄcὁὄὅὁΝchἷΝtὁὄὀἳΝ indietro.
395
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DKΝ ἀἀΝ ἐ1ί)Ν l’iἶἷὀtitὡΝ ἶἷiΝ cὁὀtὄἳὄiΝ cὁmἷΝ iἶἷὀtitὡ-nellaἶiffἷὄἷὀὐἳ,ΝὅἷcὁὀἶὁΝuὀΝmὁἶἷllὁΝἶἷlΝ“ὅìΝἷΝὀὁ” 50,ΝchἷΝl’ἓlἷἳtἷΝὄicὁndurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui ἳὂὂuὀtὁΝ«l’ἷssere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’ἳttἳccὁΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝὄivὁltὁΝἳΝuὀἳΝimὂὁὅtἳὐiὁὀἷΝ(ὃuἷllἳΝ eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalἷὀὐἳ,ΝὅὁὂὄἳttuttὁΝὂἷὄΝl’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝἶiΝuὀ’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝὂiὶΝiὀglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito 52. Ancora di recente, Graham53 hἳΝὂὄὁὂὁὅtὁΝἶiΝlἷggἷὄἷΝl’ὁὀtὁlὁgiἳΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷἳΝcὁmἷΝὄἷἳὐiὁὀἷΝὂὄὁἶὁttἳΝἶἳll’imὂἳttὁΝἶἷll’ὁὂἷὄἳΝἶiΝ Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione ἶἷllἳΝ ὂὁlἳὄitὡΝ ὂὄἷὅἷὀtἷΝ ὀἷlΝ mὁἶἷllὁΝ iὁὀicὁ,Ν cὁὀΝ l’ἳἴἴἳὀἶὁὀὁΝ ἶἷll’iἶἷἳΝἶiΝὂὄimἳtὁΝἶiΝuὀἳΝ«ὅὁὅtἳὀὐἳΝgἷὀἷὄἳtὄicἷ»ΝἳΝvἳὀtἳggiὁΝἶiΝ quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il ὄiὅcὁὀtὄὁΝ ἶiΝ uὀ’ἷcὁΝ ἷὅὂὄἷὅὅivἳΝ ἷὄἳclitἷἳ,Ν ὃuἳὅiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ iὀtἷndesse colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo , metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50
Tarán, op. cit., p. 71. Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertoὄiΝἶἷll’iἶἷὀtitὡΝἶἷiΝcὁὀtὄἳὄiΝ(ὂέΝἅἀ)έ 51
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trova conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56 . Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (preὅuὀtἳ)Ν“tἷὄὐἳΝviἳ”ΝἶἷὀuὀciἳtἳΝἶἳll’ἓlἷἳtἷ 57. Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che lἳΝ(ὂὄἷὅuὀtἳ)Ν“tἷὄὐἳΝviἳ”ΝἶἷlΝfὄἳmmἷὀtὁΝὀὁὀΝὅiΝὄifἷὄiὅὅἷΝἳΝuὀΝiὀgenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea 58. Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'iἶἷὀtificἳὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ὄἷfἷὄἷὀtἷΝ ἶἷll’ἳttἳccὁΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷμΝ tὄἳΝ gliΝ specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotἷlicἳΝὂὄὁὂὁὀgἳὀὁΝuὀ’ἳὀὁmἳliἳΝἶiΝfὁὀἶὁ,ΝchἷΝὅiΝὄitiἷὀἷΝἷffἷttὁΝἶἷiΝ peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia 59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55
Cerri, op. cit., p. 208. Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 JέΝ εἳὀὅfἷlἶ,Ν “χὄiὅtὁtlἷ,Ν ἢlἳtὁΝ ἳὀἶΝ thἷΝ ἢὄἷὂlἳtὁὀicΝ ἶὁxὁgὄἳὂhyΝ ἳὀἶΝ chὄὁὀὁgὄἳὂhy”,Ν iὀΝ ἕέΝ ἑἳmἴiἳὀὁΝ (ἷἶέ),Ν Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 56
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Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi 60. Mansfeld 61 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secὁὀἶὁΝilΝmὁtivὁΝἶἷll’ἧὀὁΝἷΝἶἷll’immὁἴilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. δ’ἓfἷὅiὁ,ΝiὀΝἷffἷtti,ΝὂὄὁὂὄiὁΝὀἷllἷΝcitἳὐiὁὀiΝὅὁὂὄἳΝ riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. ἥigὀificἳtivἳΝ ἳὀchἷΝ l’ἳltὄἳΝ cὁὀvἷὄgἷὀὐἳΝ giὡΝ ὅἷgὀἳlἳtἳμΝ ἓὄἳclitὁΝ esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini - iὀἶicἳtἳΝὅὂὄἷgiἳtivἳmἷὀtἷΝcὁὀΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ«i molti» ( ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60
Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e ἓuἶἷmὁ)ΝἳvἷὅὅἷὄὁΝἳccἷὅὅὁΝἳΝuὀΝmἳὀὁὅcὄittὁΝἶἷll’iὀtἷὄὁΝὂὁἷmἳέ 61 F. Mansfeld,Ν “ἥὁuὄcἷὅ”,Ν iὀΝ χέχέΝ δὁὀgΝ (ἷἶέ),Ν The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27.
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al fondo delle cose afferrandone la natura e la semplice, superfiμ ciale erudizione ( ) o la percezione parziale e distorta μ che impronta le credenze degli uomini ( ). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica, ἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶiΝἶuἷΝlimitiΝἷὅὅἷὀὐiἳliμΝi)ΝilΝ«logos che è sempre» ( ); ii) la totalità degli enti che «sempre μ divengono secondo questo logos» ( ). Eraclito sottolinea il valore di norma del rispetto a ogni ἳccἳἶἷὄἷ,ΝcὁὀΝἳlluὅiὁὀiΝἳll’uὀitὡΝἶἷllἳΝlἷggἷ civile ( μ ) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione struttuὄἳὀtἷΝ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷiΝ ὅiὀgὁliΝ ἷὀtiέΝ ἑὁὅì,Ν cὁὀΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳlΝ , «tutto è uno»63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il è la legge che regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione 64 ) che la supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella ricostruzione dellἳΝ ἶὁttὄiὀἳΝ ἶἷll’«ἷὅὅἷὄἷ»,Ν giuὅtificἳΝ l’ἳttἳccὁΝ ἶiΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ cὁmἷΝ ἷffἷttὁΝ ἶἷll’iὄὄitἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ fὄὁὀtἷΝ ἳΝ uὀ’iὀcὁὀgὄuἷὀὐἳΝ (lἳΝ cὁmἴiὀa-
63
DK 22 B50: μ
,
μ
ῖ
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64
Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).
399
zione diΝ«è»ΝἷΝ«ὀὁὀΝè»),ΝchἷΝὄiὅchiἳvἳΝἶiΝvἳὀificἳὄὀἷΝl’iὀtuiὐiὁὀἷΝ scientifica65. In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente Maria Laura Gemelli Marciano 66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto «concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cuiΝ l’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝ ὅull’ὁttuὀἶimἷὀtὁΝ ἶἷgliΝ ὁὄgἳὀiΝ ὂἷὄcἷttiviμΝ cἷcitὡ,Ν sordità); (ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avἷvἳὀὁΝ ἷvitἳtὁΝ uὀ’ἳmἴiguitὡΝ ἶiΝ fὁὀἶὁ, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’ἷὅὅἷὄἷ iὀΝuὀ’ἳὄἷἳΝἶἷllἳΝὄἷἳltὡ,ΝὂiuttὁὅtὁΝchἷΝiὀΝuὀ’ἳltὄἳνΝ(iv)ΝἳlΝlimite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati. χlΝcἷὀtὄὁΝἶἷll’ἳttἳccὁΝἶἷll’ἓlἷἳtἷΝ– come confermerà B7 – soὀὁΝgliΝ“uὁmiὀiΝἶἷllἳΝcὁὀtὄἳἶἶiὐiὁὀἷ”,Νcoloro che implicano – consapevolmente o meno67 – l’ἳὅὅuὄἶὁμΝ «chἷΝ ὅiἳὀὁΝ cὁὅἷΝ chἷΝ ὀὁὀΝ ὅono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflἷὅὅiΝἶἷll’ἳἴituἶiὀἷ,ΝἳvἳὀὐἳὀὁΝuὀa inaccettabile terza via. 65
Cerri, op. cit., p. 209. M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy? , Presses UniversitἳiὄἷὅΝἶuΝἥἷὂtἷὀtὄiὁὀ,ΝἨillἷὀἷuvἷΝἶ’χὅcὃΝ(ἠὁὄἶ)Νἀίίἀ,ΝὂὂέΝἆἁ-114. 67 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardὁΝ ἳΝ ὂluὄἳlitὡΝ ἷΝ ἶivἷὀiὄἷΝ l’«ἳὅὅuὄἶἳΝ implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 66
400
Come osserva Coxon68, la formulazione μ è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: ῖ ΄ μμ : il verbo μ , con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) e ῖ . Conche giustamἷὀtἷΝὂuάΝmἳὄcἳὄἷΝcὁmἷΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ«mὁrtali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la parola della Verità 69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: μ ἷvὁchἷὄἷἴἴἷΝὀὁὀΝl’ὁὂiὀiὁὀἷΝἶiΝuὀΝuomo o di qualche individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica.
68
Op. cit., p. 185. Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36. 69
401
ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del ὂὄimὁΝvἷὄὅὁΝἷΝl’iὀtἷὄὁΝὅἷcὁὀἶὁΝvἷὄὅὁν (ii) Aristotele (Metafisica XἙἨ,Ν ἀΝ 1ίἆλΝ ἳ)Ν ὄiὂὄὁἶucἷΝ l’iὀtἷὄὁΝ primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità ἶἷll’ἳttuἳlἷΝὄicὁὅtὄuὐiὁὀἷΝἷΝlἳΝὄἳgiὁὀἷvὁlἷΝuὀitἳὄiἷtὡΝἶἷlΝfὄἳmmἷnto1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione ἶἷlΝfἳttὁΝchἷΝilΝὅἷcὁὀἶὁΝἷmiὅtichiὁΝἶἷll’ultimὁΝvἷὄὅὁΝἶiΝἐἅΝcitἳtὁΝ ἶἳΝἥἷὅtὁΝcὁὄὄiὅὂὁὀἶἷΝἳlΝὂὄimὁΝvἷὄὅὁΝἶἷllἳΝcitἳὐiὁὀἷΝἶἷll’ἳttἳccὁΝἶiΝ B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a cἳuὅἳΝ ἶἷll’uὅὁΝ iὀiὐiἳlἷΝ ἶἷlΝ ὂluὄἳlἷΝ μ che richiamerebbe 4 (B4.1). Mansfeld - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema 5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di
1
Tarán, op. cit., p. 76. Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana.
2
402
B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8. Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del proἴlἷmἳΝἶἷllἷΝ“viἷ”έ
Una via che è impossibile addomesticare δ’ἳttἳccὁΝἶἷlΝfὄἳmmἷὀtὁ,Νiὀfἳtti,ΝciΝὂὄὁiἷttἳΝἳὀcὁὄἳΝὅullἳΝ krisis ἶiΝἐἀ,ΝὄiἴἳἶitἳΝἳll’iὀiὐiὁΝἶiΝἐἄμ
6
Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a ( μ ). Ma la forma tràdita - μ ΄ μ ῖ - è improbabile in epica, dove si troverebbe μ (in vece di μ ); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua , Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30.
403
μ
μ μ · ΄ ΄ μ · Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2).
Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive ( ΄ , ma anche μ ,Ν ὅἷΝ ἳccἷttiἳmὁΝ l’iὀtἷgὄἳὐiὁὀἷΝ DiἷlὅΝ ὂἷὄΝ lἳΝ lἳcuὀἳΝ ἶiΝ ἐἄέἀ)Ν che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» ( ), uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» ( μ […ὔ ἐἀέἀ),Νl’ἳὅὅuὄἶitὡέ
Un pensare “selvaggio” DuἷΝ ἷlἷmἷὀtiΝ ὅὂiὀgὁὀὁΝ iὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ἶiὄἷὐiὁὀἷμΝ (i)Ν l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ introduttiva (o μ μ ) secondo cui è inammissibile che «cose che non sono» (μ ) «sono [esitono]» ( ); (ii) il sostantivo μ , che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula ῖ , («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con , l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la ὅuἳΝὅἷὀὅἳtἷὐὐἳέΝDἳΝἡ’ἐὄiἷὀΝἷΝἑὁὀchἷΝὀἷΝèΝὅtἳtἳΝὂὄὁὂὁὅtἳΝuὀἳΝvἷrsione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il vἳlὁὄἷΝ ἶἷll’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ μ : «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never ὅhἳllΝthiὅΝ[wilἶΝὅἳyiὀg]ΝἴἷΝtἳmἷἶ»Ν(ἡ’ἐὄiἷὀ)νΝ«ἑἳὄΝjἳmἳiὅΝcἷciΝὅe404
ra mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è l’iὀὅὁὅtἷὀiἴilitὡ,Ν l’illἷgittimitὡΝ ἶἷllἳΝ tἷὅiΝ chἷΝ ὂuò ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoὄiἳΝ cὁmmiὅtiὁὀἷΝ ἶἷllἷΝ «ἶuἷΝ viἷ»Ν (chἷΝ ὅiΝ fὁὀἶἳὀὁΝ ὅull’immἷἶiἳtἳΝ evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento ἶἷllἳΝlὁὄὁΝἶiὅgiuὀὐiὁὀἷ,ΝὅiΝtὄἳἶucὁὀὁΝiὀΝuὀἳΝ“ὅἷlvἳggiἳ” (bestiale) cὁὀtἳmiὀἳὐiὁὀἷ,ΝchἷΝèΝimὂὁὅὅiἴilἷΝ“ἶὁmἳὄἷ”,Ν“ἳggiὁgἳὄἷ”,Νὄicὁndurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della “ὅἷcὁὀἶἳΝviἳ”Ν( ), il cui statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili 10: μ
μμ -
·
· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8).
Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque imὂlicἳὀὁΝ l’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ del non-essere.
10
Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8.
405
Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale μ (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile 11,Ν ἶiΝ uὀἳΝ “viἳ”Ν ἶἷiΝ sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salἶἷὄἷἴἴἷΝgliΝultimiΝvἷὄὅiΝἶiΝἐἄΝἳll’iὀtἷὄὁΝἐἅ,ΝiὀΝuὀΝcὁmὂlἷὅὅivὁΝἳttacco al ἶἷiΝ mὁὄtἳliέΝ Ἑὀὅὁmmἳ,Ν l’iὀfiὀitivἳ iniziale ( μ ), riassumendo B6.8-λ,ΝἶἷὀuὀcἷὄἷἴἴἷΝl’ἷὅitὁΝἶiΝuὀΝ modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» ( ) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μ ) e non il singolare (μ ) perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana ἶἳllἳΝὅtὄἳἶἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝèΝἷὅἷὄcitἳtὁΝἳΝὂἳὄtiὄἷΝἶἳllἷΝcὁὅἷΝchἷΝὅiΝὂὄeὅἷὀtἳὀὁΝ ὀἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via 15, ma a rilevare la contraddizione iὀἶὁttἳΝἶἳlΝfὄἳiὀtἷὀἶimἷὀtὁΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳ 16έΝδ’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝὅuΝὃuesto punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga ἳὀἳliὅiΝἶἷllἳΝ“ὂὄimἳΝviἳ”ΝiὀΝἐἆέ1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema.
11
Tarán, op. cit., p. 77. By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 12
406
Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo ἳΝfἳvὁὄἷΝὁΝcὁὀtὄὁΝl’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷllὁΝὅὂἳὐiὁΝvuὁtὁμ Ἕ μ non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere.
Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui sarebbero evocati appunto da μ ), e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a ἷὅὅἷὄἷΝcὁiὀvὁltἳΝὀἷll’ἳttἳccὁΝὅἳὄἷἴἴἷΝἳὂὂuὀtὁΝlἳΝsupposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discrimiὀἳὄἷΝl’ἓὅὅἷὄἷΝiὀΝ . In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva esseὀὐiἳlἷΝ l’ἷὀfἳὅiΝ ὅulΝ «tu»Ν ὂἷὄὅὁὀἳlἷ)Ν ἶἳllἳΝ tἷὀtἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ὅἷguiὄἷΝ cὁlὁὄὁΝ chἷΝ ἳὅὅἷὄiὅcὁὀὁΝ l’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝ ἶἷlΝ non-essere (vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» ( μ ), il vuoto ( ) fosse penetrato nell'universo ( ) come «respiro» ( μ ), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17
Op. cit., p. 189. Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 18
407
Ἕ μ ,
, [ ] μ ῖ ·
μ ῖ
·
Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27).
ἑὁmἷΝ ἳἴἴiἳmὁΝ ὁὅὅἷὄvἳtὁΝ cὁmmἷὀtἳὀἶὁΝ ἐἄ,Ν l’iὂὁtἷὅiΝ ἶiΝ uὀΝ confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per l’ἳmbiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicἳὐiὁὀiΝἶiΝἑὁxὁὀ,ΝiὀΝἷffἷtti,ΝὅὁὀὁΝὅuὂὂὁὄtἳtἷΝἶἳll’uὅὁΝἶiΝἳggἷttiviΝ come μ (B8.24) – riferito a - ovvero (B9.3) per «pieno»: , μ ῖ · , μ , , ΄ μ Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; ὀὧΝ c’èΝ ὃuiΝ ὃuἳlcὁὅἳΝ ἶiΝ ὂiὶΝ chἷΝ ὂὁὅὅἳΝ imὂἷἶiὄgliΝ ἶiΝ essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). μ
μ ῖ ,
μ
ῖ
μ μ , μ μ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate,
408
e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9).
Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a e omogeneità e pienezza, evidenziando, nel seconἶὁΝcἳὅὁ,Νl’ἳὅὅἷὀὐἳΝἶἷlΝὀullἳέΝἑiάΝfἳὄἷἴἴἷΝὅuὂὂὁὄὄἷΝimὂlicitὁΝilΝὄifiuto del «vuoto» ( ) e la sua identificazione con il nonessere (μ , «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: · · μ Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7).
Coxon 20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuitὁΝἳlΝvuὁtὁΝuὀἳΝfuὀὐiὁὀἷΝἶiὅcὄimiὀἳὀtἷ,Νἳll’ὁὄigiὀἷΝἶella pluralità (in primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μ per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i ὅuὂὂὁὅtiΝ ἷὀtiΝ mὁltἷὂlici,Ν ἷffἷttὁΝ ἶἷll’ἳὅὅuὀὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ vuὁtὁ-nulla, l’uὅὁΝ ἶἷlΝ ὂluὄἳlἷΝ – come conferma anche il lessico di Melisso sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. χὂὂἳὄἷΝἶuὀὃuἷΝὂiὶΝὂὄὁἴἳἴilἷΝchἷΝl’ἳὂἷὄtuὄἳΝἶἷll’ἳttuἳlἷΝἐἅΝὄiprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova20
Coxon, op. cit., pp. 189-190.
409
re, nella formula contraddittoria μ , la possibilità di ὅtigmἳtiὐὐἳὄἷΝ cὁὀΝ ὄigὁὄἷΝ l’ἳὅὅuὄἶitὡΝ imὂlicitἳΝ ὀἷllἷΝ ἳὅὅuὀὐiὁὀiΝ ἶiΝ . Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta ὀἷll’ἳὅὅumἷὄἷΝlἳΝvἳliἶitὡΝἶἷll’iὀtἷgὄἳὐiὁὀἷΝ di Diels per B6.3, ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6; ἙB7.2) richiamerebbe (B6.3), completandone il senso con un chiaro esempio di compoὅiὐiὁὀἷΝἳἶΝἳὀἷllὁέΝδ’ἳttἳcco ai «mortali che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale (B6.1-2: Ἕ μ ΄ )Ν ἷΝ l’iὀvitὁΝ ἳΝ «giudicare con il ragionamento» ( ῖ ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano 22.
Che siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kourosμΝ ἳΝ ἶiὅὂἷttὁΝ ἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta ἶiΝfἳὄΝἳccἷttἳὄἷΝl’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝἶiΝcose che non sono. In gioco è la preὅuὀtἳΝὂluὄἳlitὡΝἶiΝ“ὀὁὀ-ἷὀti”Ν(μ ) in qualche modo associata, nei versi successivi a , «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: ΄ μ ϐ · μ Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non imὂἷἶiὄἳi,Ν iὀfἳtti,Ν chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ cὁὀὀἷὅὅὁΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷέ
21 22
Op. cit., p. 91. Ibidem.
410
Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razioὀἳlmἷὀtἷΝὄἳccὁltὁΝὀἷll’«ἷὅὅἷὄἷ»Ν( ), perché il impedisce ἶiΝ cὁὀὅiἶἷὄἳὄἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ἳΝ “iὀtἷὄmittἷὀὐἳ”,Ν ὃuἳὅiΝ fὁὅὅἷΝ ἳltἷὄὀἳtὁΝ ἳlΝ non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediatἷΝἶἷgliΝἷὀtiνΝèΝl’ἳἴituἶiὀἷΝἳΝtἳlἷΝὁὅcillἳὀtἷΝἳttestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali 24.
Ma tu … δἷggiἳmὁΝἳὀcὁὄἳΝuὀἳΝvὁltἳΝl’ἳttἳccὁΝἶiΝἐἅμ μ
μ μ · ΄ ΄ μ Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2).
La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero ( μ ) dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono ( μ ). Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» ( ΄ ΄ ), che richiama B6.4-5: […ὔ
23 24
[
ὔ,
Op. cit., p. 266. Conche, op. cit., p. 122.
411
< >, […ὔ da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno ξΝὅ’iὀvἷὀtἳὀὁΝρ,ΝuὁmiὀiΝἳΝἶuἷΝtἷὅtἷΝ[…]
Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il lὁὄὁ,ΝiὀΝfὁὀἶὁ,ΝἷὄἳΝὅὁlὁΝuὀΝ“ὂὄἷtἷὅὁ”ΝὂἷὄcὁὄὅὁΝἶ’iὀἶἳgiὀἷ,ΝiὀΝὄἷἳltὡΝ forgiato indebitamente ( ,Ν«ὅ’iὀvἷὀtἳὀὁ»)έ In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione ( μ μ ) rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (ἴ)Νl’ἳὂὂἷllὁΝὂἷὄὅὁὀἳlἷΝ( ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli , alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue: (i)Νl’iὀiὐiἳlἷΝἳllὁcuὐiὁὀἷΝἶiΝὅἳlutὁΝἶἷllἳΝἶἷἳΝἳlΝ kouros (B1.24ἀἆ)ΝcὁὀΝl’illuὅtὄἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝὅuὁΝὂὄὁgὄἳmmἳΝἶiΝiὅtὄuὐiὁὀἷΝ(ἐ1έἀἆἴμΝ ); (ii)Νl’iὀvitὁΝἳἶΝἳvἷὄΝcuὄἳΝἶἷllἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝiὀtὄὁἶuttivἳΝὅullἷΝ due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: ΄ ΄ , μ μ ); (iii)Νl’ἷὅὁὄtἳὐiὁὀἷΝἳἶΝἳttἷggiἳὄἷ coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: ΄ μ ϐ ; ΄ ); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: ΄25 ΄ < ἱἝ ΄ ...). In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto ἳll’«imὂὁtἷὀὐἳ»ΝἶἷiΝ«mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta "terza via" è delineata es25
Il codice D di Simplicio riporta ΄ (così come E e F); B e C, invece, ΄.
412
senzialmente per distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativἳΝ l’ἷfficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo ὅὂἷcificὁΝἷffἷttὁΝiἶἷὀtificἳtivὁΝὅull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’ἷgiἶἳΝἶiΝἦhemiὅΝἷΝDikēΝ(ἐ1έἀἆ)έΝχll’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla manifestazione ἶἷiΝ «ὅἷgὀi»Ν ἶἷllἳΝ ὄἷἳltὡΝ gἷὀuiὀἳ,Ν ἷΝ l’ἳltὄἳ,Ν ἶἳΝ cuiΝ ἷllἳΝ mἷttἷΝ iὀΝ guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: μ
-
-
.
Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea metterebbe ὅull’ἳvviὅὁ la propria audience contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della ἤὁἴἴiἳὀὁΝἳllὁΝὅchἷmἳΝἶiὅὅuἳὅivὁΝἶἷll’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata impliche-
26
Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 27
413
rebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29.
Da questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 ( ), diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μ μ μ
μ
ῖ μ
μ [B6.8-9] [B7.2],
[B8.1
ss.] Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2).
ἑἷὄtἳmἷὀtἷΝlἳΝ“ὅἷcὁὀἶἳΝviἳ”ΝèΝcὁiὀvὁltἳΝὀἷlΝὄiliἷvὁΝἶἷllἳΝDἷἳ,Ν ma non nel senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: μ , dove, come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata sarebbe quella che illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29 30
Robbiano, op. cit., pp. 103-4. Op. cit., p. 120.
414
terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea).
Il pensiero e l’abitudine ἙΝ vἷὄὅiΝ chἷΝ ὅἷguὁὀὁΝ l’ἳvviὅὁΝ ἶἷllἳΝ DἷἳΝ cὁὀtὄiἴuiὅcὁὀὁΝ ὂὄὁἴaἴilmἷὀtἷΝἳΝchiἳὄiὄἷΝl’ὁὄigiὀἷΝἶἷllὁΝὅviἳmἷὀtὁΝἶἷiΝ«mὁὄtἳliΝchἷΝὀulla sanno»: μ
μ
΄
, μμ
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, ἳΝἶiὄigἷὄἷΝl’ὁcchiὁΝchἷΝὀὁὀΝvἷἶἷΝἷΝl’ὁὄἷcchiὁΝὄiὅὁὀἳὀtἷ e la lingua (B7.3-5).
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero ( μ ) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi)Ν «mὁὄtἳli»,Ν ilΝ ὀumἷΝ ὄichiἳmἳΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὅullἷΝ iὀὅiἶiἷΝ ἶἷll’«ἳἴituἶiὀἷ»Ν( ), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, cὁὀΝ l’ἷffἷttὁΝ ἶiΝ ὅtὄἳvὁlgἷὄὀἷΝ ilΝ ὃuἳἶὄὁμΝ iΝ tἷὄmiὀiΝ iὀΝ gioco sono appunto (i) , che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) μ . Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli (ἐἄέἅ)μΝ l’«ἳἴituἶiὀἷ»Ν èΝ contrastata con la valutazione intellettuale implicita in μ , che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche.
Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come ,Ν ὂὄὁἴἳἴilmἷὀtἷΝ ὂἷὄΝ mἳὄcἳὄὀἷΝ l’origine dalle frequenti 415
ἷὅὂἷὄiἷὀὐἷ,ΝἷΝὀἷΝὄilἷvἳΝl’ἳὐiὁὀἷΝἳΝuὀΝtἷmὂὁΝἶiὅὂὁticἳΝἷΝiὀὅiἶiὁὅἳμΝ evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla ragione 31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uὅὁΝἶἷiΝὅἷὀὅiΝὂἷὄΝἷffἷttὁΝἶἷll’ἳἴituἶiὀἷΝἷΝὀὁὀΝἳiΝὅἷὀὅiΝὅtἷὅὅiμΝèΝinfἳttiΝ mἳὄcἳtὁΝ ὀἷlΝ tἷὅtὁΝ cὁmἷΝ ὅiἳΝ l’ ἳΝ “fὁὄὐἳὄἷ”Ν ( )ΝlἳΝὂἷὄcἷὐiὁὀἷέΝD’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Νse la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è imὂiἷgἳtἳ,ΝὅὁttὁΝl’ἷffἷttὁΝἳὂὂuὀtὁΝἶἷll’ἳἴituἶiὀἷ 32. Costantemente sottoposti a input sensibili che richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista: μ
μ
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107).
δ’ἓfἷὅiὁΝ ὄicὁὀὁὅcἷΝ ἳll’ἳὀimἳ una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettivἳΝὂἳὄmἷὀiἶἷἳ,Νl’uὅὁΝἶἷll’ἳggἷttivὁΝ«barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 32
Ruggiu, op. cit., p. 267. Conche, op. cit., p. 121.
416
infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il linguἳggiὁέΝχΝὅὁttὁliὀἷἳὄἷΝl’ἷὅὅἷὀὐiἳlἷΝὄuὁlὁΝἶἷll’ἳὀimἳΝcὁmἷΝfἳcὁltὡΝ di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano 33 . δ’ἷὄὄἳmἷὀtὁΝ ἶἷiΝ «mὁὄtἳli»Ν èΝ mἳὄcἳtὁΝ ἶἳllἳΝ DἷἳΝ (cὁmἷΝ iὀΝ B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» ( ΄ B1.27), l’ἳἴituἶiὀἷ,Ν ἳlΝ cὁὀtὄἳὄiὁ,Ν ὂἳὄἷΝ ὂὄὁὂὄiὁΝ tὄἳttἷὀἷὄἷΝ ἷΝ iὀtὄἳttἷὀἷὄἷΝ ὅuΝ quel percorso 34έΝἙὀΝὃuἷὅtἳΝὂὄὁὅὂἷttivἳΝl’ἷὅὁὄtἳὐiὁὀἷΝὄivὁltἳΝἳlΝkouros in B7.2 ( ΄ ΄ μ ) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6): l’iὅὁlἳmἷὀtὁΝ ἶἷlΝ sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» ( ) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’iὀcὁmὂὄἷὀὅiὁὀἷΝ ἶἷgli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono ὀἷll’ἳmἴitὁΝἶiΝὃuἷllἳΝlegge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per questo, ἶuὀὃuἷ,Νl’ἳὂὂἷllὁΝὂἷὄὅὁὀἳlἷΝἶἷllἳΝDἷἳΝἳlΝἶiὅcἷὂὁlὁΝἳffiὀchὧΝvἳlutiΝ 33
Ivi, p. 122. Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p. 121. 34
417
ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’ἳἴituἶiὀἷΝἷὅἷὄcitἳΝilΝὅuὁΝὂὁtἷὄἷΝiὀΝmὁἶὁΝiὀὅiἶioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio perὅὁὀἳlἷΝὀἷlΝgiuἶiὐiὁΝcὁllἷttivὁέΝδἳΝviἳΝὁὄἶiὀἳὄiἳΝèΝlἳΝviἳΝ“cὁllἷttivἳ”Ν ἶἷiΝmὁὄtἳliνΝlἳΝviἳΝἶἷllἳΝDἷἳ,ΝlἳΝviἳΝἶἷllἳΝἨἷὄitὡ,ΝèΝlἳΝviἳΝ“ὅiὀgὁlaὄἷ”ΝἶἷlΝkouros37. Sempre in relἳὐiὁὀἷΝἳΝἓὄἳclitὁ,ΝmἳΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷlΝὂiὶΝgἷὀἷὄἳlἷΝ quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ , il «vezzo di molto sapere». I termini e (in greco sinonimo di μ e ) indichἷὄἷἴἴἷὄὁΝl’ἳttituἶiὀἷΝἳllἷΝmὁltἷΝἷὅὂἷὄiἷὀὐἷ,ΝἳΝcὁllezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura ὀὁὐiὁὀiὅticἳ,Ν ὀἷll’ἳὀtichitὡΝ ἳttὄiἴuitἳΝ ὂἷὄΝ ἷὅἷmὂiὁΝ ἳΝ ἥὁlὁὀἷ39, impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come e μ ), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla μ come sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41.
36
Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. Conche, op. cit., p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40 εέδέΝἕἷmἷlliΝεἳὄciἳὀὁ,Ν“δἷΝcὁὀtἷxtἷΝculturel des Présocratiques: adversaires ἷtΝἶἷὅtiὀἳtἳiὄἷὅ”,Νcitέ,ΝὂὂέΝἆἁ-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 37
418
Occhio, orecchio e lingua δἳΝ“fὁὄὐἳ”ΝἶἷllἳΝcὁὀὅuἷtuἶiὀἷΝèΝἶuὀὃuἷΝcὁὀtὄἳὅtἳtἳΝἶἳllἳΝ“ὂἷrὅuἳὅivitὡ”Ν (ἐἀέἂ)Ν chἷΝ cἳὄἳttἷὄiὐὐἳΝ ilΝ viἳggiὁΝ luὀgὁΝ lἳΝ viἳΝ ἳutἷὀtica42: il logos ἶἷvἷΝὄἷttificἳὄἷΝl’ἷcὁΝcὁὀfuὅἳΝἶἷllἳΝcὁmuὀἷΝὄicezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μ
μ
΄
, μμ
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, ἳΝἶiὄigἷὄἷΝl’ὁcchiὁΝchἷΝὀὁὀΝvἷἶἷΝἷΝl’ὁὄἷcchiὁΝὄiὅὁὀἳὀtἷ e la lingua (B7.3-5).
Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: μ μ
μ ῖ
Ἕ
Ἕ
μ
Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50).
Couloubaritsis ritiene che i μ (analogamente a )ΝὅἳὄἷἴἴἷὄὁΝἶἳΝiἶἷὀtificἳὄἷΝcὁὀΝlἷΝ“cὁὅἷ”,ΝcuiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝ 42 43
Coxon, op. cit., p. 191. Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (ὀὁὀΝ l’uὅὁΝ chἷΝ ὅἷΝ ὀἷΝ fἳ ) dell’iὀtἷὄὁΝvἷὄὅὁΝἂέ
419
negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, ἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ multiὂlἳ,Ν ὃuἷllἳΝ viὁlἷὀὐἳΝ ὅulΝ ὂἷnsiero che si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» ( μ ): svuotate di ogni consistἷὀὐἳΝὁὀtὁlὁgicἳ,ΝlἷΝ“coὅἷ”ΝὅὁὀὁΝcὁὅìΝἶἷὅtiὀἳtἷΝἳΝὅὂἳὄiὄἷέΝἥἷcὁὀἶὁΝl’ἳutὁὄἷΝἴἷlgἳ,Νἶuὀὃuἷ,Ν ὃuἷὅtἳΝὂὄimἳΝfὁὄmἳΝἶiΝ“ὀὁmiὀἳliὅmὁ”ΝcὁὀἶἳὀὀἷὄἷἴἴἷΝὁgὀiΝtἷὀtativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano 46 , la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48.
Logos e elenchos Il frammento si chiude con una esortazione notevole: ῖ μ Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6).
δ’iὀtἷὄἷὅὅἷΝἶἷlΝὂἳὅὅὁΝèΝlἷgἳtὁΝἳllἳΝcὁὀὀἷὅὅiὁὀἷΝtὄἳΝvὁcἳἴὁliΝἶestinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori e Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit., p. 105. 48 ἓὀfἳὅiΝἶἷll’ἳutὄicἷέ 44 45
420
: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (cὁὀΝ ilΝ ἶiὅcὁὄὅὁ,Ν cὁὀΝ l'ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷ)Ν l’elenchos (qualificato come Ἕ «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio aoristo si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e divino) è così annullata sul terreno ἶἷll’ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷμΝilΝὂὁtἷὄἷΝἶἷlΝlogos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una contraddizione. Il termine iὀἶicἳvἳΝὁὄigiὀἳὄiἳmἷὀtἷΝl’ἳttivitὡΝἷΝilΝὄiὅultἳtὁΝ del «raccogliere» ( ), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro contesto, e nella associazione con , è espressione di operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al ) consente di penetrare il senso profondo delle cose. χΝ ἶἷtἷὄmiὀἳὄὀἷΝ l’ἳccἷὐiὁὀἷΝ èΝ ὂὄὁὂὄiὁΝ l’ἳὅὅὁciἳὐiὁὀἷΝ cὁὀΝ : il valore etimologico originario del verbo (da cui discende il sostantivo ) è «provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49
Op. cit., p. 267.
421
modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa». δ’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) ὂὄὁὂὁὀἷΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝἶiὄἷttἳΝ della semplice e immediata esperienza della realtà, , contrapponendole la negazione ( ): da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare μ (B2.7) e (B42; B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici ( μμ ;μ ΄ ) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero ( ) dei «mortali» dalla loro contraddizione 50, cioè ἶἳll’iὀcἳutἳΝ cὁὀtὄἳvvenzione delle norme: μ (B2.3b); μ (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una «confutazione» ( ), deduzione di una contraddizione ( ), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51.
50 51
Heitsch, op. cit., p. 161. Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004.
422
PERCORSI NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. δ’ἳcὄiἴiἳΝὀἷllἳΝἶiὅcuὅὅiὁὀἷΝcὄiticἳΝὅiΝgiuὅtificἳΝὂἷὄΝilΝὄiliἷvὁΝἶἷlΝ lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole dellἳΝὄἳὄitὡΝἶἷll’ὁὂἷὄἳ)Νl’iὀtἷὄἳΝcὁmuὀicἳὐiὁὀἷΝἶiΝvἷὄitὡΝἶἷlΝὂὁἷmἳΝ - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) iὀὅiἷmἷΝ cὁὀΝ l’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝ ἶἷllἳΝ ὅἷὐiὁὀἷΝ cὁὀvἷὀὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝ ἶesignata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 ἶἷll’ὁὂἷὄἳ)μ μ ῖ
ῖ μ
Ἕ
μ μ μ μ
μμ
μ
μ μ
ἡ
μ
μ anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29).
Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altὄἷΝ ὂἳὄὁlἷΝ ὂὄἷfἷὄitὁΝ cὁὀcἷὀtὄἳὄἷΝ l’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝ ὂὄimἳΝ 423
sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi della natura.
La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: Ἕ μ Ἕ DiὅὅἷΝ chἷΝ lἳΝ filὁὅὁfiἳΝ ὅiΝ ἶiviἶἷΝ iὀΝ ἶuἷΝ ὂἳὄti,Ν l’uὀἳΝ ὅἷcὁὀἶὁΝvἷὄitὡ,Νl’ἳltὄἳΝὅἷcὁὀἶὁΝὁὂiὀiὁὀἷέ
Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: μ ,
ῖ
μ .
΄ μ
μ , μ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti.
Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità 1, ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 l’iὀὅἷgὀἳmἷὀtὁΝ( , anche «imparare») del «cuore fermo di 1
E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come «percorso di Persuasione».
-
424
Verità ben rotonda» ( μ ), correlato ἳllἳΝἶἷὀuὀciἳΝ(ἐἄ,ΝἐἅΝἷΝἳὀcὁὄἳΝἐἆ)Νἶἷll’ἷὄὄὁὄἷΝiὀὅitὁΝὀἷllἷΝ«ὁὂinioni dei mortali» ( ). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da mettere invece in ὄἷlἳὐiὁὀἷΝ ἳll’ultimὁΝ ὂuὀtὁΝ ἶἷlΝ ὂὄὁgὄἳmmἳμΝ cὁὀtἷὄὄἷἴἴἷΝ ciὁèΝ uὀἳΝ lezione (μ , «apprenderai») adeguata su , sui cὁὀtἷὀutiΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳέ È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’ἳὂἷὄtuὄἳΝὂὄoἷmiἳlἷ,ΝchἷΝὅiΝὂὄἷὅtἳvἳΝἳll’ἳllἷgὁὄἷὅi,ΝἶὁvἷttἷΝὄiὅcuὁtἷὄἷΝὂἳὄticolare attenzione in età ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse da fonte non attica 2). In genere, però, già la produzione del ἨΝὅἷcὁlὁΝἳέἑέΝἳttἷὅtἳΝl’iὀciἶἷὀὐἳΝἶἷlΝmὁἶἷllὁΝἳὄgὁmἷὀtἳtivὁΝἷΝἶἷlla concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo subordinatamente (so2
Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso, invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema.
425
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante osservare come, anche da un punto di viὅtἳΝ“muὅicἳlἷ”,Νἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝἶiΝἳὅcὁltὁΝἶἷll’iὀtἷὄὁΝὂὁἷmἳ, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio4. La reiterazione di (senza soggetto)ΝὂὄὁἶucἷΝ(i)Νuὀ’iὀtἷὄὄuὐione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato 5, come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, iὀΝἐἀΝἷΝἐἆΝ“è”Ν(ὅἷὀὐἳΝsoggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due terzi finali del discorso della dea6.
La via che è δ’ἳttἳccὁΝἶἷlΝfὄἳmmἷὀtὁΝ(vvέΝ1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μ
΄
μ
ῖ
· ΄ μ ΄ μ ΄, … Unica parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi: che...
Esplicito il richiamo a B2 (μ ; ) e ai suoi esiti: rimane uὀ’uὀica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’imὂὄἳticἳἴilitὡΝἶiΝἳltἷὄὀἳtivἷέΝῄΝgiunto dunque il momento di in-
4
L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 5
426
camminarsi lungo la via che appartiene a e Ἀ questo Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: · μ
΄
·
΄ μ
. Su
,
,
-
΄ μ . Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciaὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ]Ν iὀἷὅὂὄimiἴilἷΝ (poiché non è uὀἳΝviἳΝgἷὀuiὀἳ),ΝἷΝchἷΝl’ἳltὄἳΝiὀvἷcἷΝἷὅiὅtἳΝἷΝὅiἳΝὄἷἳlἷέ
Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui μ ΄ μ […] («uὀicἳΝ ὂἳὄὁlἳΝ ἳὀcὁὄἳΝ […]Ν ὄimἳὀἷ»Ν ἐἆέ1-2), evocando l’ἳltἷὄὀἳtivἳΝἶilἷmmἳticἳΝ(espressione sincopata delle μ […ὔ di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» ( ) conoscere ( ) e indicare ( ) «ciò che non è» ( μ ). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» ( ) e «indicibile» («senza nome», μ ): la via ( μ ) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni» ( ). La «decisione» (il «giudizio», ) è conseguente: come destino («necessità», ), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non si tratta di via «genuina» ( ), lungo la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. χll’iὀiὐiὁΝἶiΝἐἆ,ΝἶἷllἷΝ«uὀichἷΝviἷΝἶiΝὄicἷὄcἳΝ[…]ΝὂἷὄΝὂἷὀὅἳὄἷ»,Ν non rimane quindi che imboccare quella «reale» ( μ ), quella, appunto, ( μ ): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare
427
consistenza a «non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della realtà 7.
Una sola parola δ’ἷcὁΝiὀὐiἳlἷΝἶἷlΝ μ che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): ΄
μ΄
,
Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali,
ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: μ μ
Ἀ
·
΄
μ μ μ . A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳ,Ν l’ὁὄἶiὀἷΝ delle mie parole ascoltando, che può ingannare (B8.50-52).
La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contὁὄὀiΝ ἶἷllἳΝ ὄἷἳltὡΝ ἳttὄἳvἷὄὅὁΝ l’ἷὅcluὅiὁὀἷΝ ὅiὅtἷmἳticἳΝ ἶiΝ ciάΝ chἷ,Ν nella propria inconsistenza ( μ ), si rivela μ . Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7
ἥulΝὄἳὂὂὁὄtὁΝtὄἳΝilΝtἷmἳΝἶἷllἳΝ“viἳ”ΝἷΝl’uὀicitὡΝἶἷlΝἶiὅcὁὄὅὁΝiὀΝἳὂἷὄtuὄἳΝἶiΝἐἆΝὅiΝ veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30.
428
μ μ l’uὀἳμΝèΝἷΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴilἷΝὀὁὀΝἷὅὅἷὄἷέ
In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente ( ῖ ) la «prova polemica» ( ) fornita: donde forse – ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’ἳὂἷὄtuὄἳΝ cὁὀΝ l’ἷspressione μ ΄ μ […] .
Tale μ μ è relativo alla «via: è» ( la Dea informa (vv. 2b-3a):
), di cui
΄ μ ΄ μ ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi.
Il discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i «segni» ( μ ) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra ,μ μ e μ . Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos)Νl’iἶἷὀtitὡΝἶiΝuὀἳΝὂἷὄὅὁὀἳ9. Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di e duὀὃuἷΝ ἳΝ mὁὅtὄἳὄἷΝ l’ἳltἷὄitὡΝ tὄἳΝ il μ della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la moltἷὂlicitὡΝ ἶiΝ ἷὀti,Ν ὅἷὀὐἳΝ ὄicὁὀἶuὄlἳΝ ἳll’iἶἷὀtitὡΝ ἶἷll’«ἷὅὅἷὄἷ»έΝ Ἑl μ μ che la articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come («percorso di Persuasione») in quanto Ἀ ῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 9
Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. Ibidem
429
«via: è e non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’ἳutὁὄἷvὁlἷὐὐἳΝ ἶἷll'iὀἶicἳὐiὁὀἷΝ ἶiviὀἳ,Ν mἳΝ ὂἷὄΝ l’iὀtὄiὀὅἷcἳΝ costruzione razionale – quella (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» ( ῖ , «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare ( μ ) (B8.27-28): μ ΄ , poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare.
Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in guardia il kouros: , > […ὔ
(v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): μ Ἕ
ἡ · [ἡἡἡὔ
μ
μ
ἡ
·[ἡἡἡὔ
E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato;
28
Leszl, op. cit., p. 177.
444
e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅ
μ μ
,
μ
.
, ῖ μ
μ μ ( ·
μ ,
· ) ῖ
μ ῖ .
μ ῖ μ ἡ Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi 30. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso.
Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo senso:
29
Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra.
445
μ μ ( )μ μ Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11).
Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: [...] ;) iὀtὄὁἶucὁὀὁΝl’iὂὁtἷὅiΝcὁὀtὄἳἶἶittὁὄiἳΝἳllἳΝtἷὅiΝchἷΝl’ἳutὁὄἷΝiὀtἷὀἶἷΝ dimostrare (nella forma gorgiana: ), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» ( ) - «ciò che è è generato» (Gorgia: ); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano ὀἷcἷὅὅἳὄiἳmἷὀtἷΝuὀ’ὁὄigiὀἷ o (a) μ o (b) < > (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmἷὀtἷΝiὀὅὁὅtἷὀiἴili,Νl’iὂὁtἷὅiΝ(ὀἳὅcitἳΝἷΝcὄἷὅcitἳΝἶiΝciάΝchἷΝè)Νsi rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» ( … ). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31
ἑὁὀtὄὁΝ ὃuἷὅtἳΝ ὄicὁὅtὄuὐiὁὀἷ,Ν chἷΝ ὂὄἷὅumἷΝ l’iὀtὄὁἶuὐiὁὀἷΝ (cὁὀὅἳὂἷvὁlἷ)Ν ἶiΝ uὀΝ mὁἶἷllὁΝ ἳὄgὁmἷὀtἳtivὁΝ ἶilἷmmἳticὁΝ ἶἳΝ ὂἳὄtἷΝ ἶἷll’ἳutὁὄἷ,Ν ὂuάΝ vἳlἷὄἷΝ l’ὁὅὅἷὄvἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ δἷὅὐlΝ (ὂέΝ 1ἅἆ)Ν ὅἷcὁὀἶὁΝ cuiΝ lἳΝ ὅἷὃuἷὀὐἳΝ ἶiΝ tὄἷΝ ἳrgomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica.
446
convinzione» ( ), «giudizio» ( ), necessità ( ). Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: ΄
μ ΄
ῖ ·
Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è
il riferimento a B2.7-8 e B6.1: μ
-
-
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo ο ῖ ΄ μμ È necessario il dire e il pensare che ciò che è è.
Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μ di B2. Il modello ἶἷllἷΝ«uὀichἷΝviἷΝἶiΝὄicἷὄcἳΝὂἷὄΝὂἷὀὅἳὄἷ»ΝὄicἳvἳtἷΝἶἳll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ «è»-«non-è», il rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), iὀὅiἷmἷΝ ἳllἳΝ cὁὀὅἷguἷὀtἷΝ ἷὅcluὅiὁὀἷΝ ἶiΝ uὀἳΝ ἷffἷttivἳΝ “tἷὄὐἳΝ viἳ”Ν (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: ἶὁὀἶἷΝl’imὂὁὅὅiἴilitὡΝἶiΝὅὁὅtἷὀἷὄἷΝchἷΝ«ciάΝchἷΝè»ΝὀὁὀΝὅiἳ,ΝὁvvἷὄὁΝ
32
Conche, op. cit., p. 142.
447
ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33. D’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷΝ lἳΝ ὂἷὄvἳὅivἳΝ ὂὄἷὅἷὀὐἳΝ ἶἷllἳΝ DἷἳΝ - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: ; ;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: ΄ἡἡἡ ;) e richiama le condizioni (v. 15b: ΄ ἡἡἡ), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: ΄ , ἡἡἡ) e ne conferma i risultἳtiΝ cὁὀΝ ilΝ ὂὄὁὂὄiὁΝ cὁmmἷὀtὁΝ (l’iὀciὅὁΝ ἳiΝ vvέΝ 1ἅἴ-18a: ) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld 34 , i «segni» sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μ della Dea. Questo potrebbe anche spiegaὄἷΝlἳΝὅcἷltἳΝἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ , il mezzo di comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835. EllἳΝὅὁllἷcitἳΝl’ἳutὁὀὁmiἳΝἶἷlΝἶiὅcἷὂὁlὁ,ΝmἳΝlὁΝiὀvitἳΝἳΝ registrare e ad aver cura di un μ contrapposto a quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “ἷccἷἶἷ”Ν lὁΝ ὅtἷὅὅὁΝ ἷὅἷὄciὐiὁΝ ὄἳὐiὁὀἳlἷ,Ν ἳὅὅicuὄἳὀἶὁὀἷΝ iΝ ὂὄiὀciὂi,Ν così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, εὁiὄἳ)Ν “tὄἳὅcἷὀἶὁὀὁ”Ν (gἳὄἳὀtἷὀἶὁlὁ)Ν , ciò che, secondo l’iὅtὄuὐiὁὀἷΝὄἳὐiὁὀἳlἷ,Νὂὄἷtἷὀἶἷ di dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36.
33
McKirahan, op. cit., p. 192. Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 ἥuΝ ὃuἷὅtὁΝ iὀΝ ὂἳὄticὁlἳὄἷΝ lἳΝ tἷὄὐἳΝ ἷἶiὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ὁὂἷὄἳ di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 34
448
Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si ἳὂὄἳΝ cὁὀΝ tὄἷΝ iὀtἷὄὄὁgἳtivi,Ν chἷΝ ὁffὄὁὀὁΝ ἳllἳΝ DἷἳΝ l’ὁὂὂὁὄtuὀitὡΝ ἶiΝ dimostrare ; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): ; ; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?
È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: μ
΄
ῖ ·
Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è;
(ii) vv. 9b-10: ΄
μ
, μ μ , ; Quale necessità lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
(iii) vv. 12-13a: ΄
΄ ἠὧΝmἳiΝξἶἳll’ἷὅὅἷὄἷρΝcὁὀcἷἶἷὄὡΝfὁὄὐἳΝἶiΝcὁὀviὀὐiὁὀἷ che nasca qualcosa accanto a esso.
449
Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: ΄
, ΄ Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene.
Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione ἶilἷmmἳticἳΝ ὅἷmἴὄἳὀὁΝ ἷvὁcἳὄἷΝ l’iὀcἳlὐἳὄἷΝ ἶiἳlἷtticὁΝ ἶiΝ uὀΝ cὁnfronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo («nascita», «generazione») e il participio («cresciuto», da , «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema ἶἷll’ὁὄigiὀἷ,ΝcὁmἷΝἷὅὂlicitἳmἷὀtἷΝὄivἷlἳtὁΝἶἳll’uὅὁΝἶiΝἶuἷΝἷὅὂὄἷssioni verbali indicative: μ (da , «iniziare, cominciare, dare origine», da cui , «principio») e (da , «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere», da cui , «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive ( , , ) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo ὅὂiἷgἳΝ ilΝ «cὁmἷς»)Ν chἷΝ ὄichiἷἶἷΝ uὀ’ὁὄigiὀἷΝ («ἶὁὀἶἷς»)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della stessa progὄἷὅὅiὁὀἷΝ ὀἷgἳtivἳΝ cὁὀtὄὁΝ l’iὂὁtἷὅiΝ ἶiΝ di : le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità.
37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112.
450
Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra e (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di , scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di fἳttὁΝ ἳttἳccἳὀἶὁΝ lἳΝ ὄiἶuὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ ἳΝ . Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la ricerca della )39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di Anassimandro: n ... ῖ
... ͵ ·
. ὂὄiὀciὂiὁΝἶἷllἷΝ cὁὅἷΝchἷΝ ὅὁὀὁΝèΝ l’iὀfiὀitὁΝέέέΝèΝὅἷcὁὀἶὁΝ necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ὁὄἶiὀἳmἷὀtὁ del tempo (Simplicio; DK 12 B1) (scἡ
)
chἷΝἷὅὅἳΝ[uὀἳΝcἷὄtἳΝὀἳtuὄἳΝἶἷll’iὀfiὀitὁ]ΝèΝἷtἷὄὀἳΝἷΝὀὁὀΝ invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) γΪθα κθ .. εα θυζ γλκθ ( π δ λ κ θ = γ ῖκθ) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12 B3).
38 39
Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. Ivi, p. 290.
451
Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a disporre ὂὄὁἴἳἴilmἷὀtἷΝἶἷll’ὁὂἷὄἳΝἶἷlΝεilἷὅiὁ)ΝὀἷllἷΝὅuἷΝOpinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata 40, è inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] Ἕ μ
Ἕ
ῖ μ
μ
μ
ἡ
Ἕ ῖ
μ μ
μ
μ
μ μ μ
Ἕ
· μ
ἡἡἡ
[B 1], ἡ
· ῖἝ
. [...] dichiaὄάΝl’apeiron principio e elemento delle cose che ὅὁὀὁ,Ν ἳἶὁttἳὀἶὁΝ ὂἷὄΝ ὂὄimὁΝ ὃuἷὅtὁΝ ὀὁmἷΝ ἶiΝ “ὂὄiὀciὂiὁ”έΝ Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [ B1] , parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione ἶἷll’ἷlἷmἷὀtὁ,Ν mἳΝ ἶἳllἳΝ ὅἷὂἳὄἳὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ cὁὀtὄἳὄi,Ν ἳΝ cἳuὅἳΝ del movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40
ἢἷὄΝ l’ἳὀἳliὅiΝ ὄἷlἳtivἳΝ ὅiΝ ὄiὀviἳΝ ἳlΝ fὁὀἶἳmἷὀtἳlἷΝ cὁὀtὄiἴutὁΝ ἶiΝ ἑhέΝ Kἳhὀ,Ν Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte, dedicata alla documentazione dossografica.
452
Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i)Ν l’ come «principio delle cose che sono» ( ); (ii) «le cose che sono» ( ), la totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione ( )e corruzione ( ); (iii) «le cose dalle quali» ( ) le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» ( ) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» ( ) da cui esse si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: μ
μ
μ ῖ
[Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato ἶἳll’ἷtἷὄὀὁ,ΝèΝὂὄὁἶuttivὁΝἶiΝcἳlἶὁΝἷΝfὄἷἶἶὁΝfuΝὅἷὂἳὄἳtὁΝἳllἳΝ generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10);
(iv) «le cose verso cui» ( ) si produce ( ) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» ),Ν ὅἷcὁὀἶὁΝ l’ὁὄἶiὀἷΝ ἶἷlΝ tἷmὂὁ» ( ( )42;
41
Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile.
453
(vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari ( ). Da un punto di vista filologico, Kahn 43 ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – ἶἷll’uὅὁΝ omerico di nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a («crescita») - la possibilità di («morte»), presente, con forme verbali derivate ( ), in Senofane ( B27) e appunto in Parmenide ( B19). Secondo quanto attesta Ippolito: ῖ μ ἡ
Ἕ
[B 2]Ἕ μ
ἡ
μ [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11),
42
Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss..
454
di ὃuἷllἳΝ «cἷὄtἳΝ ὀἳtuὄἳΝ ἶἷll’iὀfiὀitὁ»Ν ( ) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è «eterna» ( ) e (ii) «non invecchia» ( ). Predicati analoghi a quelli - «senza morte» ( , immortale) e «senza distruzione» ( ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere come principio: non a caso marcandone il nesso con ἶἷll’ «il divino» ( ῖ ). Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» ( μ ) qualcosa possa «essere cresciuto» ( ) – ovvero che qualcosa possa «nascere» ( ) «originando dal nulla» ( μ μ ); appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come e (cui si deve aggiungere )ΝἷΝἶἷll’iἶἷἳΝὅtἷὅὅἳΝ che (ii) «da ciò che è» ( < > ) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» ( ΄ ). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla , senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supportὁΝ ἶἷll’iὀcὁὄὄuttiἴilitὡΝ ( ): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere 44 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di sufficienti anche per (cὁὀὅiἶἷὄἳὀἶὁΝ l’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’iὀἶiὅtὄuttiἴilitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝimὂlicitἳΝὀἷll’ἷὅcluὅiὁὀἷΝἶἷllἳΝὅuἳΝ generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli connota («morte», distruzione) come («oscura», oggetto di oblio) come aveva fat-
44 45
Con McKirahan, op. cit., p. 193. Tarán, op. cit., p. 106.
455
to per la via negativa con («del tutto privo di infor46 mazioni» B2.6) . D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Νl’iἶἷἳΝἶiΝfὁὄὐἷΝἷlἷmἷὀtἳὄiΝἳΝuὀΝtἷmὂὁΝ«immὁὄtali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» , pensato eterno e stabile, in contὄἳὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝἳll’iὀὅtἳἴilitὡΝἶἷgliΝἷlἷmἷὀtiΝ( ); (ii) «contrari» ( : di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» ( μ ), «a causa del movimento eterno» ( ), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» ( ) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione di altro essere.
Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» ( ῖ ), secondo cui «principi di tutte le co-
46
Mourelatos, op. cit., p. 97. Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 47
456
se» ( (
) sarebbero «solo quelli nella forma di materia» ), Aristotele osserva:
μ
ῖ Ἕ μ
ῖ
ῖ
μ
μ
Ἕ
Ἕ
Ἕ μ ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b813).
Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del diveniὄἷΝ ἶἷgliΝ ἷὀti,Ν l’ἳὂὂlicἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ uὀΝ ὂὄiὀciὂiὁμΝ ὀullἳΝ ὅiΝ gἷὀἷὄἳΝ (ἶἳlΝ nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè verso «quella natura che si conserva sempre» ( μ ), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che riconosce μ «unico il sostrato» ( ), Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: Ἕ
( 49
μ
ῖ
μ
Ἕ μ
)
Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 48 ss..
457
μ
·
mἳΝ ἳlcuὀiΝ ἶiΝ ὃuἷlliΝ chἷΝ ὅὁὅtἷὀgὁὀὁΝ l’uὀitὡ,Ν cὁmἷΝ sopraffattiΝ ἶἳΝ uὀἳΝ tἳlἷΝ ὄicἷὄcἳ,Ν ἳffἷὄmἳὀὁΝ chἷΝ l’uὀὁΝ èΝ immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1).
δ’iὀciὅὁΝὀἷlΝὂἳὅὅὁΝὄἷὀἶἷΝἳὀcὁὄἳΝὂiὶΝἷviἶἷὀtἷΝl’ἳὅὅuὀtὁΝἳὄiὅtὁtelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultἳtὁΝἶἷllἳΝ“ἷὅtὄἷmiὐὐἳὐiὁὀἷ”ΝἶἷllἳΝὅtἷὅὅἳΝdoxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del ὂὄiὀciὂiὁΝἷὅὂlicἳtivὁΝἶiΝfὁὀἶὁ,Νἶἳll’ἳltὄὁΝὄilἷvἳΝlὁΝὅcἳὄtὁΝἳllἳΝἴἳὅἷΝ della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella radicaliὐὐἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἳὂὂlicἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ὃuἷlΝ ὂὄiὀciὂiὁ,Ν chἷΝ ἳvὄἷἴἴἷΝ cὁndotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori ἶἷll’ἳmἴitὁΝἶἷllἳΝfilὁὅὁfiἳΝἶἷllἳΝὀἳtuὄἳέ Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come origine ( ) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50
Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto iὀtἷὄἷὅὅἳὀtiΝlἷΝὁὅὅἷὄvἳὐiὁὀiΝἶiΝδἷὅὐlΝiὀΝἩέΝδἷὅὐl,Ν“χὄiὅtὁtἷlἷὅΝὁὀΝthἷΝἧὀityΝὁfΝ Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early RetrospectivἷΝ ἨiἷwΝ ὁfΝ ἢὄἷὅὁcὄἳticΝ ἢhilὁὅὁὂhy”,Ν iὀΝ La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss..
458
ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo 51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre?
Da ciò che non è... ἦὁὄὀἳὀἶὁΝὁὄἳΝἳlΝtἷὅtὁ,ΝὂἷὄΝmὁὅtὄἳὄἷΝl’iὀὅἷὀὅἳtἷὐὐἳΝἶἷgliΝiὀtἷrὄὁgἳtiviΝὅull’ὁὄigiὀἷΝἶiΝ«ciάΝchἷΝè»ΝἷὅὂὄἷὅὅiΝἳll’iὀiὐiὁΝἶἷllἳΝὅἷὐione: ; ; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?,
la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che sia scaturito (nato e cresciuto) μ . Tale possibilità è scartata sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: μ ΄
ῖ ·
Da ciò che non è non permetterò 51
Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. ἓlἳἴὁὄἳΝ uὀΝ mὁἶἷllὁΝ ἳὀἳlὁgὁΝ ἥέχέΝ Ἡhitἷ,Ν “εilἷὅiἳὀΝ εἷἳὅuὄἷὅμΝ ἦimἷ,Ν ἥὂἳcἷ,Ν ἳὀἶΝ εἳttἷὄ”,Ν iὀΝ The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..
459
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a).
Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «uὀἳμΝè»Ν(ἐἀέἁ),Ν«l’ἳltὄἳμΝὀὁὀΝè»Ν(ἐἀέη)νΝ(iii)ΝlἳΝὅἷcὁὀἶἳΝèΝἶiΝfἳttὁΝ impercorribile, in quanto («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia (c ο ῖ ΄ μμ B6.1). ἙlΝὂὄimὁΝἳὄgὁmἷὀtὁΝἶiὂἷὀἶἷΝἶiὄἷttἳmἷὀtἷΝἶἳll’ἳutὁὄἷvὁlἷὐὐἳΝ(ἷΝ ἶἳll’ἳutὁὄitὡ)Ν ἶἷlΝ μ divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula , con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): ΄
μ
, μ μ , ; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - ὀὁὀΝc’èΝ ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. ἙὀΝἷὀtὄἳmἴiΝiΝcἳὅiΝciΝtὄὁviἳmὁΝiὀΝὂὄἷὅἷὀὐἳΝἶἷll’ἳὂὂlicἳὐiὁὀἷΝἶἷlΝ principio di ragione, per cui un evento determinato è necessario 460
che abbia la propria «ragione», cioè la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica): μ μ
Ἕ
nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2).
In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi ὅull’ὁὄigiὀἷΝἶiΝ«ciάΝchἷΝè»ΝèΝὀἷttἳμΝὀἷlΝ«ὀullἳ»ΝὀὁὀΝèΝὂὁὅὅiἴile rintὄἳcciἳὄἷΝtἳlἷΝcἳuὅἳνΝὀὁὀΝc’èΝὄἳgiὁὀἷΝὂἷὄΝcuiΝ«ciάΝchἷΝè»ΝἶἷἴἴἳΝὀascere ( ) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappreὅἷὀtἳtὁΝἶἳlΝὂὄiὀciὂiὁΝἶiΝὄἳgiὁὀἷΝὅiΝἳggiuὀgἷὄἷἴἴἷΝuὀ’ultἷὄiὁὄἷΝimplicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) mἳ,Ν ἶἷὄivἳὀἶὁΝ ἶἳlΝ ὀullἳ,Ν ὀὁὀΝ c’èΝ ὄἳgiὁὀἷΝ ὂἷὄΝ cuiΝ ὅiΝ gἷὀἷὄiΝ iὀΝ uὀΝ momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora uὀ’ἷcὁΝἶiΝχὀἳὅὅimἳὀἶὄὁ,ΝὀἷlΝcuiΝὅcὄittὁΝὅἳὄἷἴἴἷΝὅtἳtἳΝὂὄἷὅἷὀtἷΝuὀἳΝ particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificaὄἷΝ l’immὁἴilitὡΝ ἷΝ lἳΝ cἷὀtὄἳlitὡΝ ἶἷllἳΝ ἦἷὄὄἳΝ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶἷllἳΝ ὅfἷὄἳΝ celeste:
52 53
Leszl, op. cit., p. 183. Conche, op, cit., p. 140.
461
μ μ
μ
Ἕ μ
μ
La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μ ῖ la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) μ
Ἕ
Ἀ
μ
μ
·μ
μ
μ μ μ μ ῖ · μ vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si ὂὁὄtiΝ vἷὄὅὁΝ l’ἳltὁ piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). ·
ἠἷlΝcἳὅὁΝἶἷlΝεilἷὅiὁΝl’iὀἶiffἷὄἷὀὐἳΝ(ἷΝὃuiὀἶiΝl’ἳὅὅἷὀὐἳΝἶiΝ“ὄagiὁὀἷ”ΝὂἷὄΝilΝmὁvimἷὀtὁΝiὀΝuὀἳΝἶiὄἷὐiὁὀἷΝὁΝὀἷll’ἳltὄἳ)ΝèΝἷὅὂὄἷὅὅἳΝ in relazione ἳiΝ limitiΝ cἷlἷὅtiνΝ ἢἳὄmἷὀiἶἷΝ l’ἳvὄἷἴἴἷΝ ἳὂὂlicἳtἳΝ ἳlΝ tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragioὀἷΝ ὂἷὄΝ fἳὄἷΝ ἶiffἷὄἷὀὐἳ,Ν ἳiΝ fiὀiΝ ἶiΝ uὀ’iὂὁtἷticἳΝ gἷὀἷὄἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝtὄἳΝuὀΝmὁmἷὀtὁΝἷΝl’ἳltὄὁέ Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può tro-
462
varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua generazione 54. Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: μ Così è necessario sia per intero o non sia per nulla.
Insistendo sul valore avverbiale di , qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’ἳltἷὄὀἳtivἳΝ fὁὀἶἳmἷὀtἳlἷΝ ἶἷllἳΝ ὂὄὁὂὄia rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, μ appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» ( μ ῖ ),Ν «tuttὁΝ ὂiἷὀὁΝ ἶ’ἷὅὅἷὄἷ»Ν ( μ ) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in ὂὄὁὂὁὅitὁΝ ἶiὂἷὀἶἷΝ ἶἳΝ ciάμΝ ΟèΟΝ ὁΝ ΟὀὁὀΝ èΟ»),Ν ὄiἴἳἶἷὀἶὁΝ l’ἳὅὅὁlutἳΝ incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-ἷὅὅἷὄἷΝἳll’ἷὅὅἷὄἷΝ(ἷΝvicἷvἷὄὅἳ): nel contesto questo significa bandire definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero chἷΝ ciΝ ὂὁὅὅἳΝ ἷὅὅἷὄἷΝ uὀἳΝ ἶivἷὄὅitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ nel tempo56. Leszl, in particolaὄἷ,ΝcὁὀviὀtὁΝchἷΝl’uὅὁΝἶἷgliΝἳvvἷὄἴiΝ sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’ἷὅὅἷὄἷΝc’èΝ tuttὁΝ ὁΝ ὀὁὀΝ c’èΝ ὂἷὄΝ ὀullἳ»57. In questo senso la conclusione – e54
Leszl, op. cit., p. 185. Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p. 185. 55
463
scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità.
σé mai dall’essere... χccἷttἳὀἶὁΝl’ἷmἷὀἶἳὐiὁὀἷΝἶiΝKἳὄὅtἷὀ,ΝiΝvvέΝ1ἀ-13a risultano: ΄
΄ ἠὧΝmἳiΝξἶἳll’ἷὅὅἷὄἷρΝcὁὀcἷἶἷὄὡΝfὁὄὐἳΝἶiΝcὁὀviὀὐiὁὀἷ che nasca qualcosa accanto a esso.
In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti, «qualcosa» ( ) potrebbe «generarsi» ( )Ν«ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷ»Ν( < > )? Parmenide assume che la nozione di < > introduca implicitamente la ὂὄὁὅὂἷttivἳΝ ἶiΝ ὃuἳlcὁὅἳΝ ἶiΝ ἶivἷὄὅὁΝ ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ciὁèΝ chἷΝ «accanto [o oltre] a esso» ( ΄ ) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflἷὅὅiὁὀἷΝ ὅull’ : nella misura in cui si riconosca l’ come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»? ἙὀΝὂὄἳticἳΝἳmmἷttἷὄἷΝlἳΝgἷὀἷὄἳὐiὁὀἷΝἶἳll’ἷὅὅἷὄἷΝcὁmὂὁὄtἷὄἷἴἴἷΝ riconoscere che: μ siano cose che non sono (B7.1).
La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto divἷὄὅἳΝἶἳΝὃuἷllἳΝ“ὂἷὄὅὁὀἳlἷ”ΝutiliὐὐἳtἳΝiὀΝἐἆέἅΝ( ἡἡἡ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale ( ΄ ἡἡἡ 464
«Né mai concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. ἧὀἳΝvἷὄὅiὁὀἷΝἳltἷὄὀἳtivἳΝἶἷll’ultimὁΝἳὄgὁmἷὀtὁΝèΝὃuἷllἳΝtὄἳἶiὐiὁὀἳlmἷὀtἷΝ ἳccὁltἳΝ ὅullἳΝ ὅcὁὄtἳΝ ἶἷll’ἳutὁὄἷvὁlἷὐὐἳΝ ἶἷlΝ cὁἶicἷΝ ἶiΝ Simplicio: ΄
μ
΄ Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3)
Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia uὀἳΝ ἶifficὁltὡμΝ ilΝ ὄifἷὄimἷὀtὁ,Ν ὀἷlΝ cὁὀtἷὅtὁ,Ν ἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ΄ . Coxon58, per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from Not-being,
riconoscendo a ΄ valore locativo e riferendolo ἳll’ἷὅὅἷὄἷ. In modo analogo intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibilἷΝ(ilΝὀullἳΝèΝl’ἳὅὅὁlutὁΝnihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura lἳΝ ἶimὁὅtὄἳὐiὁὀἷΝ chἷΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ è μ e , . 61 Altri, come Leszl esplicitamente, riferiscono aμ ,e colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche 62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicheὄἷἴἴἷΝl’ἷὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷlΝἠὁὀ-essere. 58
Op. cit., p. 197. Op. cit., p. 95. 60 Op. cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 59
465
Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica ἳll’ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷἳ,Ν ὄilἷvἳὀἶὁviΝ ὂiuttὁὅtὁΝ tὄἷΝ ὅuccἷssive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e ἶἷll’ἳccὄἷὅcimἷὀtὁΝ ἶἳlΝ non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: Ἕ μ , μ ῖ
·
, [ ] μ ῖ ·
Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che ἷὅὅὁΝ ὂἷὀἷtὄἳὅὅἷ,Ν ἶἳll’iὀfiὀitὁΝ ὅὁffiὁ,Ν ὀἷlΝ ciἷlὁΝ [uὀivἷὄὅὁ]Ν come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) μ
ῖ μ
· Ἕ
ῖ Ἕ Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una vὁltἳΝcὁὅtituitὁΝl’uὀὁΝ– sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – ὅuἴitὁΝ lἳΝ ὂἳὄtἷΝ ὂὄὁὅὅimἳΝ ἶἷll’iὀfiὀitὁΝ fuΝ ἳttiὄἳtἳΝ ἷΝ delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63
Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio.
466
Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.521 non coglie semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogὁὀicὁΝἷΝtἷὁgὁὀicὁ,ΝmἳΝl’ἳttἳccὁΝἳΝuὀἳΝcὁὀcἷὐiὁὀἷΝἶἷtἷὄmiὀἳtἳ,ΝἶiΝ cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione con la diὅcὁὀtiὀuitὡνΝchἷΝiὀtὄὁἶucἷvἳΝlἳΝgἷὀἷὄἳὐiὁὀἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝὅἷὀὐἳΝὂὄecisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema ἶἷll’iὀiὐiὁ,Ν ὅuὅcἷttiἴilἷΝ ἶiΝ ἳccὄἷὅcimἷὀtὁΝ iὀΝ ὄἷlἳὐiὁὀἷΝ ἳlΝ ὀὁὀessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si saὄἷἴἴἷΝtὄἳttἳtὁΝἶἷllἳΝcὁὅmὁlὁgiἳΝὂitἳgὁὄicἳ,Νl’ἷvὁcἳὐiὁὀἷΝἶἷllἳΝὃuale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei μ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝἶἳΝὂἳὄtἷΝ di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei cὁἶiciΝἶiΝἥimὂliciὁΝὅiἳΝὃuἷllἳΝcὁὄὄἷttἳΝἷΝ(ii)ΝchἷΝl’ἳlluὅiὁὀἷΝὅiἳΝἷffἷttivἳmἷὀtἷΝἳllἳΝ“ὄἷὅὂiὄἳὐiὁὀἷΝcὁὅmicἳ”,ΝchἷΝἳvὄἷἴἴἷΝlἳὅciἳtὁΝἳnche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝèΝ chἷΝiὀΝ ὄἷἳltὡΝl’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷlΝὂὁἷtἳΝὅiἳΝἷssenzialmente su e ἷΝchἷΝl’ἷvἷὀtuἳlἷΝὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἶὁttὄiὀἳlἷΝ ὅiἳΝ ἶἳΝ iὀἶiviἶuἳὄἷΝ ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ ἶiΝ uὀἳΝ ἶiὅcuὅὅiὁὀἷΝ ὂiὶΝ ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano e . ἙὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ὂὄὁὅὂἷttivἳ,Ν l’ἷmἷὀἶἳὐiὁὀἷΝ chἷΝ ἳἴἴiἳmὁΝ ἳccὁltὁΝ ἷΝ lἳΝ connessa ricostruzione argomentativa (in cui al v. 12 richiama al v. 7) appaiono più convincenti. ἥἳὄἷἴἴἷΝfὁὄὅἷΝὂὄἳticἳἴilἷΝuὀ’ἳltὄἳΝὅtὄἳἶἳ 66 ὂἷὄΝl’iὀtἷὄὂὄἷtἳὐiὁὀἷΝ di μ , tuttavia più complessa e meno plausibile: ammettἷὄἷΝ chἷΝ l’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ἳἴἴiἳΝ uὀΝ ὅἷὀὅὁ,Ν ὀἷllἳΝ lἷttuὄἳΝ ὂἳὄmἷὀiἶἷἳ,Ν proprio in relazione alle nozioni di , e , quasi E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4.
64
467
che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: Ἕ
μ Ἕ ῖ
Ἕ
per questo diciamo che di esso [riferimento ἳll’ ]ΝὀὁὀΝc’èΝὂὄiὀciὂiὁ,ΝmἳΝchἷΝἷὅὅὁΝὅtἷὅὅὁΝὅἷmἴὄἳΝ essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15).
εἳὄcἳὀἶὁΝ l’ὁὄigiὀἷ degli enti nel loro complesso da un che è anche (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ὀἷΝ ἳvὄἷἴἴἷΝ fἳttὁΝ uὀΝ “ὀὁὀ-ἷὀtἷ”,Ν qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiἳὄὁ,Ν cὁmuὀὃuἷ,Ν chἷΝ iὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ἳccἷὐiὁὀἷΝ l’ difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente.
Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di sia dal non-ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷΝ ἷΝ ὄiἴἳἶitὁΝ che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): ΄ , ΄ Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene.
468
δ’iὀtἷὄἷὅὅἷΝἶἷlΝὄiliἷvὁΝèΝlἷgἳtὁΝἳlΝfἳttὁΝchἷΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὅcἷgliἷ,Ν nel contesto dellἳΝ ὀἳὄὄἳὐiὁὀἷΝ ἳvviἳtἳΝ cὁὀΝ ilΝ ὂὄὁἷmiὁ,Ν ἳll’iὀtἷὄὀὁΝ del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «iὀἷluttἳἴilἷΝ lἷggἷΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷ» 68 μΝ iὀΝ ἳltὄἷΝ ὂἳὄὁlἷ,Ν cὁmἷΝ l’ἓὅὅἷὄἷΝ debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è ἳὀchἷΝ ὂἳὄtἷΝ ἶἷll’ἳὐiὁὀἷμΝ persuasa ἶἳll’iὀtἷὄvἷὀtὁΝἶἷllἷΝἓliἳἶi,ΝἕiuὅtiὐiἳΝviἷὀΝmἷὀὁΝἳlΝὂὄoprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’ἳccἷὅὅὁΝἳΝuὀΝmὁὄtἳlἷν (iii) μ e sono espressamente evocate dall'anonima diviὀitὡΝἳll’ἷὅὁὄἶiὁΝἶἷlΝὅuὁΝἶiὅcὁὄὅὁμΝilΝviἳggiὁΝ del poeta si compie ὀὁὀΝὅὁttὁΝl’imὂulὅὁΝἶiΝ ῖ ,ΝmἳΝὅὁttὁΝl’ἷgiἶἳΝἶἷllἳΝἕiuὅtizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» ( ) - ovvero «pista» ( ) o «via» ( ), costituiscono la struttura portante nell'architettura ἶἷll’ὁὂἷὄἳ69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue cὁὀἶiὐiὁὀiΝ“tὄἳὅcἷὀἶἷὀtἳli”μΝilΝcὁὀtἷὅtὁΝἷὀtὄὁΝcuiΝlἷΝὅὂἷcifichἷΝtὄἳttazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67
Ivi, p. 146. Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua ὁὂἷὄἳΝἷΝἳccἷὀtuἳtὁΝὀἷll’ultimἳΝἷἶiὐiὁὀἷ,ΝLa pensée de Parménide, cit.. 68
469
gἳὄἳὀὐiἳΝ “tὄἳὅcἷὀἶἷὀἶὁ”Ν «ciάΝ chἷΝ è»Ν ( ), ovvero danno l’imὂὄἷὅὅiὁὀἷ,ΝὀἷllἷΝὂἳὄὁlἷΝἶἷllἳΝDἷἳ,ΝἶiΝὅὁvὄiὀtἷὀἶἷὄἷ (problematicἳmἷὀtἷ)Νἳll’ἓὅὅἷὄἷ ἶἳll’ἷὅtἷὄὀὁ 70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge da e avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservanἶὁὀἷΝilΝὂἷὄfἷttὁΝἷὃuiliἴὄiὁΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝl’ἷὅcluὅiὁὀἷΝἶἷllἳΝcὁὂὂiἳΝὁppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzaὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅtἷὅὅὁμΝ ὁltὄἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὀὁὀΝ ὅiΝ ἶὡΝ uὀΝ mὁὀἶὁΝ ἳltὄὁέΝ Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: ΄ , ΄ né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) Ἀ
μ ῖ Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) ῖ ΄ Moira [lo] ha costretto... (B8.37).
La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 71
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. Ivi, pp. 174-5.
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forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio ἶἷll’uὀivἷὄὅὁ,ΝchἷΝ ὀullἳΝὂuάΝgiuὀgἷὄἷΝ ἳΝ tuὄἴἳὄἷΝἶἳll’ἷὅtἷὄὀὁέΝ Mentre l’ , tuttavia, appare come ipostatizzazione della cἳuὅἳΝἶἷll’ἷὃuiliἴὄiὁ,ΝDikἷ,Ν χὀἳὀkἷ e Moira, pur sovrintendendo ἳll’ἓὅὅἷὄἷΝ ἶἳll’ἷὅtἷὄὀὁΝ (cὁmἷ l’ ), non hanno consistenza ὁὀtὁlὁgicἳ,ΝmἳΝὅὁlὁΝl’ufficiὁΝἶiΝὁὄiἷὀtἳὄἷ,ΝguiἶἳὄἷΝlἳΝcὁmὂὄἷὀὅioὀἷΝἶἷll’audience cui il poema si rivolgeva72. ἙὀΝ ὄἷἳltὡ,Ν ilΝ ὄἷcuὂἷὄὁΝ ἶἷlΝ mitὁΝ ὀἷlΝ cὁὀtἷὅtὁ,Ν cὁὀΝ lἳΝ ὅuἳΝ “ἷcceἶἷὀὐἳ”ΝὄiὅὂἷttὁΝἳlΝἶἳtὁΝἳὄgὁmἷὀtἳtivὁ,ΝἷΝlἳΝcὁὀὅἷguἷὀtἷΝ(ἳὂὂἳὄἷnte) «mἷὅὅἳΝ iὀΝ ὃuἷὅtiὁὀἷ»Ν ἶἷll’ἳὅὅὁlutἷὐὐἳΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: ὀἷll’ἳὄgὁmἷὀtἳὐiὁὀἷΝὅviluὂὂἳtἳ,Νiὀfἳtti,ΝὀullἳΝ ἳutὁὄiὐὐἷὄἷἴἴἷΝἳΝὄicavare non-miticἳmἷὀtἷΝ lἳΝ limitἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷέΝ ἙlΝ mitὁ,Ν ἳttὄavἷὄὅὁΝl’uὅὁΝchἷΝὀἷΝfἳΝlἳΝἶἷἳ, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significἳὄἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝcὁmἷΝὅἷΝlὁΝtὄἳὅcἷὀἶἷὅὅἷὄὁ,Νle figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno ἶiΝuὀ'iὀtἷgὄἳὐiὁὀἷ,Νἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷlΝὂὁἷmἳ,Ν tra discorso significante e discorso mitico 74.
Giudizio ed essere D’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,ΝchἷΝlἳΝtutἷlἳΝἶiΝἕiuὅtiὐiἳΝὅiἳΝἷὅὅἷὀὐiἳlmἷὀtἷΝlὁgica si mostra nei vv. 15b-18: · μ
΄
·
΄ μ
,
,
-
72
Ivi, pp. 166-8. Mythe et philosophie…,Νcitέ,ΝὂέΝἀ1ἅέ 74 Ivi, p. 250. 73
471
΄ μ Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, ἶiΝ lἳὅciἳὄἷΝ l’uὀἳΝ [viἳ]Ν imὂἷὀὅἳἴilἷΝ [ἷ]Ν iὀἷὅὂὄimiἴilἷΝ (poiché non è uὀἳΝviἳΝgἷὀuiὀἳ),ΝἷΝchἷΝl’ἳltὄἳΝiὀvἷcἷΝἷὅiὅtἳΝἷΝὅiἳΝὄἷἳlἷέ
Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» ( v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μ μ v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» ( μ ῖ v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, ἶἳll’ἳltὄὁΝ ἳllἳΝ cὁὀὅἷguἷὀtἷΝ ὄἷὅtὄiὐiὁὀἷΝ ἶiΝ liἴἷὄtὡμ il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» ( ). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della sceltἳΝἶἷll’ : (i)ΝὄiὂὄἷὅἳΝἶἷll’ἳltἷὄὀἳtivἳΝtὄἳΝlἷΝformule contraddittorie ; (ii) esclusione della via : in quanto «non genuina» ( ), essa è anche μ ; (iii) conseguente concentrazione su μΝ«chἷΝl’ἳltὄἳΝἷὅista e sia reale» ( ΄ μ ). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato ilΝ ὄiliἷvὁ,Ν lἳΝ DἷἳΝ ὂuάΝ ὄiἴἳἶiὄἷΝ l’imὂὄἳticἳἴilitὡΝ ἶἷlΝ ὀὁὀ-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto e . Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, , in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via non è «genuina», è via ὅὁlὁΝiὀΝtἷὁὄiἳ,ΝiὀΝὃuἳὀtὁΝcὁὅtὄuitἳΝὅullἳΝcὁὀtὄἳἶἶiὐiὁὀἷΝcὁὀΝl’uὀicἳΝ realtà: . È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 472
Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: ΄
;
΄ μ
; .
΄, , ΄ μ ϐ E come potrebbe esistere in futuro l’ἷὅὅἷὄἷςΝ ἓΝ cὁmἷΝ potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura.
Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro ὀἷll’uὅὁΝἶἷiΝ tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e . Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» ( : , , , ma anche ) e forme di «venire a essere» ( : , o, ). La convinzione da veicolare cὁὀΝtἳlἷΝcὁὅtὄuὐiὁὀἷΝvἷὄἴἳlἷΝèΝchἷΝὅἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝ( ) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così cὁὀtὄἳἶἶicἷὀἶὁΝl’immἷἶiἳtἳΝἷviἶἷὀὐἳΝἶἷllἳΝ «via: è» - chἷΝ cὁmὂὁὄtἳvἳΝ l’ἳltὄἷttἳὀtὁΝ immἷἶiἳtἳΝ ἳmmiὅὅiὁὀἷμΝ «non è possibile non essere» ( μ ). Ciò che è propriamente ( ) è sempre uguale a se stesso, come suggeὄiὅcἷΝl’uὅὁΝ(ἶuὄἳtivὁ) di ; ciò che diviene ( può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75
Leszl, op. cit., p. 190.
473
Se è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà 76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la ὀἳtuὄἳΝ ἶἷll’ἓὅὅἷὄἷΝ (iὀgἷὀἷὄἳtὁΝ ἷΝ immὁὄtale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche 77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝcuiΝlἳΝDἷἳΝtὄἳcciἳΝiΝcὁὀtὁὄὀiμΝl’ἷὅὅἷὄἷΝèΝ«ὁὄἳ»,ΝὀἷlΝὅἷὀὅὁΝ che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» ( ΄, ), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: oμ ) - una non-esistenza ( ). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso ἶἷll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝὀἷlΝὅuὁΝcὁmὂlἷὅὅὁΝcὁὀΝiΝvvέΝη-6: ΄ ΄ , μ , , né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo.
Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ὁvvἷὄὁΝ l’ἷvἷὀtuἳlitὡΝ ἶiΝ uὀΝ mutἳmἷὀtὁΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’ἷὅὅἷὄἷΝ c’èΝ tuttὁΝ ὁΝ ὀὁὀΝ c’èΝ ὂἷὄ nulla»78 ( μ v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere e ἳlΝ ὄiliἷvὁΝ ἶἷll’iἶἷὀtitὡΝ ἶiΝ ciάΝ chἷΝ èΝ cὁὀΝ ὅἷΝ stesso e alla problematica caratterizzazione di rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76
Tarán, op. cit., p. 105. Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 77
474
ἡ
Ἕ μ · μ Ἕ μ μ Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) ῖ
[…ὔ Ἕ
Ἕ
μ
μ ῖ
Ἕ
ἡ μ μ ῖ Ἕ ῖ [...] ὅἷΝἶivἷὀtἳΝἳltὄὁ,Ν iὀfἳtti,Ν èΝ ὀἷcἷὅὅἳὄiὁΝ chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2)
δἳΝὅtἷὅὅἳΝὂὄἷὁccuὂἳὐiὁὀἷ,ΝἶiΝmἳὄcἳὄἷΝl’iὀἶiffἷὄἷὀὐἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo ὂὁὅὅἳΝcὁmὂὁὄtἳὄἷΝuὀἳΝἶiffἷὄἷὀὐἳΝὂἷὄΝl’ἷὅὅἷὄἷ,ΝèΝἷὅὂὄἷὅὅἳΝchiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattuttὁΝlἳΝἶuὄἷvὁlἷΝiἶἷὀtitὡΝtἷmὂὁὄἳlἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷέΝἙὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁ,ΝlἳΝ sintetica connotazione melissiana di - «è eterno, infinito, μ uno, tutto uguale» ( , DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutμ , , to insieme, uno, continuo» ( ), in cui è necessario considerare l’ἳvvἷὄἴiὁΝ uὀitἳmἷὀtἷΝ ἳgliΝ ἳttὄiἴuti,Ν ὂἷὄΝ ΄ intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: ΄ . Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificἳtἷΝἶἳll’ἳvvἷὄἴiὁΝ («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 475
verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» ( ΄ ) e «né [un tempo] sarà» ( ΄ ),Νἶἳll’ἳltὄὁ «è ora» ( ). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» ( ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità ( μ , , ) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruziὁὀἷΝὅiΝὄiflἷttἷὄἷἴἴἷΝἳὀchἷΝὀἷll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝcὁmplessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra ὅull’ἷvἷὀtuἳlitὡΝ chἷΝ «ciάΝ chἷΝ è»Ν ὅiἳΝ ἶivἷὀutὁΝ (ὀἳtὁΝ ἷΝ cὄἷὅciutὁ),Ν quindi (v. 19) considera interrogativamente che possa esistere in futuro: ΄
; ΄ ; ΄, , ΄ μ E come potrebbe esistere iὀΝ futuὄὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷςΝ ἓΝ cὁmἷΝ potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro.
Se riscontriamo i vv. 5 e 20: ΄
΄ ΄,
μ
, ,
΄
μ
possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano ) e quella condizione presente ( ) chἷΝὅiΝἷὅὂὄimἷΝὀἷll’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79
Ma come insegna Palmer, è forma riassuntiva di μ ; o, come preferiamo, esprime immediatamente l’ἷviἶἷὀὐἳ,ΝἶiΝcuiΝ μ è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009.
476
Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali ( , Ἕ , ,μ ), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista arditὁμΝl’iἶἷἳΝἶἷll’ἷtἷὄὀitὡΝcὁmἷΝἳtἷmὂὁὄἳlitὡ,Ν tὁtἳlἷΝ ἷὅtὄἳὀἷitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ἳlΝ tἷmὂὁέΝ Ἠἳlὁὄiὐὐἳὀἶὁ,Ν invece, le funzioni avverbiali ( , ), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – ὂuὄΝὅἷmὂὄἷΝἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶiΝuὀἳΝὂὄὁὅὂἷttivἳΝ temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a , la validità (sensatezza) del riferimento ἳllἷΝἶimἷὀὅiὁὀiΝtἷmὂὁὄἳliΝἶἷlΝὂἳὅὅἳtὁΝἷΝἶἷlΝfutuὄὁέΝδ’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝè rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: ΄ , ΄ · né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) Ἀ μ ῖ Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31),
cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ΄ μ ΄ ῖ μ μ ἙἶἷὀticὁΝ ἷΝ ὀἷll’iἶἷὀticἳΝ cὁὀἶiὐiὁὀἷΝ ὂἷὄἶuὄἳὀἶὁ,Ν iὀΝ ὅἷΝ stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30),
dove la costruzione verbale (μ , ῖ , μ ) e avverbiale (μ ma anche le espressioni , ΄ ) segnala nuὁvἳmἷὀtἷΝlἳΝὂὄἷὁccuὂἳὐiὁὀἷΝἶiΝfὁὀἶὁΝἶἷll’ἳutὁὄἷΝciὄcἳΝiἶἷὀtitὡΝ 477
e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. χlΝvέΝἀ1ΝὅiΝcὁὀcluἶἷΝilΝluὀgὁΝἳὄgὁmἷὀtὁ,ΝcὁὀΝl’ἷὅὂlicitἳΝἷὅclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): μ ϐ Così è estinta nascita e morte oscura.
ἙὀΝἷὀtὄἳmἴiΝiΝcἳὅi,Νl’ἳccἷttἳὐiὁὀἷΝἶiΝuὀΝ«vἷὀiὄἷΝἳΝἷὅὅἷὄἷ»ΝὁvveὄὁΝ ἶiΝ uὀἳΝ «ἶiὅtὄuὐiὁὀἷ»Ν ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ cὁmὂὁὄtἷὄἷἴἴἷΝ l’imὂlicitἳΝ ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3).
δ’ἷὅtiὀὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ ὂὄὁcἷὅὅiΝ vἷicὁlἳtiΝ ἶἳiΝ tἷὄmiὀiΝ e passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’iὀἳccἷttἳἴilitὡΝ ἶἷllἳΝ lὁὄὁΝ cὁmmiὅtiὁὀἷ,Ν (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come , «inaudita», «inconcepibile».
Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei μ : (intero), μ (uniforme), μ Ἑtutto insieme), (continuo): , μ
μ
, , ·
μ ῖ · , .
΄ μ .
478
Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; ὀὧΝ c’èΝ ὃuiΝ ὃuἳlcὁὅἳΝ ἶiΝ ὂiὶΝ chἷΝ ὂὁὅὅἳΝ imὂἷἶiὄgliΝ ἶiΝ essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è.
Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» ( μ ῖ letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (μ ), «continuo» ( ): in altre parole, è «tutto» ( , termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di μ , il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ΄ μ ΄ ῖ μ μ ἙἶἷὀticὁΝ ἷΝ ὀἷll’iἶἷὀticἳΝ cὁὀdizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30).
δ’iὀἶiviὅiἴilitὡ,Ν l’iὄὄiἶuciἴilitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅἷguὁὀὁΝ ἳllἳΝ ὅuἳΝ omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀiμΝ (i)Ν «ὀὁὀΝ c’èΝ ἳluὀchὧΝ chἷΝ ὂὁὅὅἳΝ imὂἷἶiὄgliΝ ἶiΝ ἷὅὅἷὄἷΝ continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): ΄ μ ; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 ( [ἡἡἡὔ μ ), esplicitata in B6.1-2a: ο
ῖ
΄
μμ
·
, μ
΄
.
479
DἳlΝὄicὁὀὁὅcimἷὀtὁΝἶἷll’iἶἷὀtitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝcὁὀΝὅἷΝὅtἷὅὅὁΝ( μμ · ), e dal contestuale bando del nulla ( μ ΄ ), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è».
Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: μ ῖ , , μ , , . Le implicazioni materiali e psicologiche della pieὀἷὐὐἳΝἷΝἶἷiΝviὀcὁliΝἷvὁcἳtiΝὅὁὀὁΝὅtἳtἷΝmἷὅὅἷΝiὀΝvἳlὁὄἷΝὀἷll’ἳὀἳliὅiΝ di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in ὃuἷὅtiὁὀἷΝcὁὀΝl’iὀiὐiἳlἷΝὄiliἷvὁΝ(vέΝἂ)Νἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ«tuttὁΝiὀtero, uniforme» ( μ ), che, sempre secondo Mourelatos82, anticipeὄἷἴἴἷΝl’ἳὄgὁmἷὀtὁΝἳΝὅὁὅtἷgὀὁΝἶἷll'iὀἶiviὅiἴilitὡ,ΝἳnchἷΝgὄἳὐiἷΝἳll’ἳmὂlificἳὐiὁὀἷΝἶiΝἐἆέηἴ-6a: μ Ἕ , . Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μ lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: μ
Ἕ
ῖ
· μ Ἕ μ μ · μ Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra cἷΝ ὀἷΝ ὅὁὀὁΝ ἶuἷμΝ l’uὀἳ potrebbe onorare chi la comprenda; 81 82
Op. cit., pp. 111-2. Ivi, p. 95.
480
l’ἳltὄἳΝ èΝ ἶἳΝ ὄiὂὄὁvἳὄἷνΝ hἳὀὀὁΝ ἳὀimὁΝ ἶivἷὄὅὁΝ ἷΝ ὁὂὂὁὅtὁΝ (Le opere e i giorni 11-13).
Il segnavia μ indicherebbe dunque un'identità di genἷὄἷ,ΝἶiΝὀἳtuὄἳ,Νuὀ’uὀifὁὄmitὡΝtἳlἷΝἶἳΝἷὅcluἶἷὄἷΝὃuἳlὅiἳὅiΝfὁὄmἳΝἶiΝ potenziale discriminazione ἳll’iὀtἷὄὀὁΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷμΝiὀΝὃuἷὅtὁΝὅἷὀὅὁΝ sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» ( v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μ v. 53) distinte oppositivamente ( ΄ v. 55), e reciprocamente separate ( μ ΄ ΄ vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della richiamata al v. 16: . ῄΝὅullἳΝὅcὁὄtἳΝἶiΝἷὅὅἳ,Νiὀfἳtti,ΝchἷΝlἳΝDἷἳΝὂuάΝmἳὄcἳὄἷΝl’iὀἷὅὁὄἳἴilἷΝ “uὀi-gἷὀἷὄicitὡ”Ν(ὁΝmἷgliὁΝuὀifὁὄmitὡ)ΝἶiΝ«ciάΝchἷΝè»,ΝἷὅcluἶἷὄὀἷΝ differenziazioni, proporlo comἷΝ uὀΝ ἴlὁccὁΝ cὁmὂἳttὁΝ ὀἷll’ἷὅὅἷὄἷέΝ Concentrandosi su ed escludendo , è possibile affermare (di ): μ ῖ . Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: μ
μ
.
È possibilἷΝ chἷΝ l’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝ ὅuΝ cὁἷὅiὁὀἷΝ ἷΝ ὁmὁgἷὀἷitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝὄivἷliΝἳὀcὁὄἳΝuὀ'iὀtἷὀὐiὁὀἷΝὂὁlἷmicἳΝὀἷiΝcὁὀfὄὁὀtiΝἶἷlΝ modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di basἷ,ΝὂἷὄΝcuiΝl’ὁὄigiὀἷΝἶἷlΝὂὄὁcἷὅὅὁΝἶiΝfὁrmazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: μ
μ
μ
[Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato ἶἳll’ἷtἷὄὀὁ,ΝèΝὂὄὁἶuttivὁΝἶiΝcἳlἶὁΝἷΝfὄἷἶἶὁΝfuΝὅἷὂἳὄἳtὁΝἳllἳΝ
481
generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ
Ἀ.
ῖ
, μ
Ἕ μ
μ
ῖ Ἕ μ μ μ Ἕ
μ Ἕ Ἕ
μ
Ἕ
ῖ
Ἕ μ
μ
Ἕ
μ Ἕ
ἡ
· ἡ Ἕ
ῖἝ μ Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il ὄἷὅtὁΝ ἶἷὄivἳΝ ἶἳΝ ὃuἷὅtἷΝ cὁὅἷέΝ χὀch’ἷgliΝ ὂὁὀἷΝ ἷtἷὄὀὁΝ ilΝ movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀἡ
Ἕ
Ἕ
μ
Ἕ
ἡ (2)
·
Ἕ μ μ
μ μ
μ
μ
ἡ , μ
μ
ῖ μ
,
ῖ
ῖ
, ,
482
μ
. , μ [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’ἳὅὂἷttὁΝ ἶἷll’ἳὄiἳΝèΝὃuἷὅtὁμΝὃuἳὀἶὁΝèΝἶἷlΝtuttὁΝuὀifὁὄmἷ,ΝἷὅὅἳΝὄiὅultἳΝ invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umiἶitὡΝ ἷΝ ilΝ mὁvimἷὀtὁέΝ ἥiΝ muὁvἷΝ ὅἷmὂὄἷμΝ lἷΝ cὁὅἷΝ chἷΝ mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, ὅὁὀὁΝ ἳὄiἳΝ cὁὀἶἷὀὅἳtἳνΝ ἶἳll’ἳὄiἳΝ ὂὁi,Ν ὂἷὄΝ cὁmὂὄἷὅὅiὁὀἷ,Ν ὅiΝ formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’ἳcὃuἳ,Ν ἷ,Ν cὄἷὅcἷὀἶὁΝ ἶiΝ ὂiὶ,Ν lἳΝ tἷὄὄἳ,Ν ἷ,Ν cὄἷὅcἷὀἶὁΝ ἳlΝ massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7).
La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una -è l’iἶἷἳ che: (i)Ν fὁὀἶἳmἷὀtἳlἷΝ ὂἷὄΝ lἳΝ cὁὅmὁgὁὀiἳΝ ὅiἳΝ l’ἳὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ cὁὀtὄἳὄiΝ (Ippolito lo afferma chiaramente: ): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» ( μ ) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti ( μ ), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata ὅull’ἳὄiἳ,ΝὀἷlΝὅἷcὁὀἶὁ,Νὅἳὄἷἴἴἷro a loro volta effetto di un «movimento eterno» ( ) nella , da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μ ). 483
Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» ( μ ) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» ( μ ), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» μ μ ; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» μ μ ) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta 83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio ὀἷlΝciclὁΝἶiΝtὄἳὅfὁὄmἳὐiὁὀἷΝἶἷll’uὀicὁΝὂὄiὀciὂiὁΝmἳtἷὄiἳlἷέΝἑὁὀὅeguἷὀtἷmἷὀtἷ,Ν iὀΝ ὃuἷὅtἳΝ ὂὄὁὅὂἷttivἳΝ “mὁὀiὅticἳ”,Ν tuttἷΝ lἷΝ cὁὅἷΝ ὅiΝ ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] ῖἝ
μ μ
[...] Egli poi non fa discendere la generazione ἶἳll'ἳltἷὄἳὐiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷlἷmἷὀtὁ,Ν mἳΝ ἶἳllἳΝ ὅἷὂἳὄἳὐiὁὀἷΝ ἶἷiΝ contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), ἑhἷΝ hἳΝl’ἳὄiἳΝ ἶiΝ ἷὅὅἷὄἷΝ citἳὐiὁὀἷΝἶἳll’ὁὄigiὀἳlἷΝtἷὁfὄἳὅtἷὁμΝ iὀΝὃuἷὅtὁΝ cἳὅὁΝὀὁὀΝ ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 83
484
ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale ( ) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: μ
Ἕ
Ἕ
Ἕ
Ἕ μ μ μ μ Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) μ μ μ Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con ὁὄὁΝἷΝl’ὁὄὁΝὅcἳmἴiὁΝcὁὀΝἴἷὀiΝ(ἢlutἳὄcὁνΝDKΝἀἀΝἐλί) Ἕ Ἕ
Ἕ
ὂἷὄΝ lἷΝ ἳὀimἷΝ èΝ mὁὄtἷΝ ἶivἷὀtἳὄἷΝ ἳcὃuἳ,Ν ὂἷὄΝ l’ἳcὃuἳ,Ν invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’ἳcὃuἳ,Ν ἶἳll’ἳcὃuἳΝ ἳΝ ὅuἳΝ vὁltἳΝ [ὅiΝ gἷὀἷὄἳ]Ν l’ἳὀimἳΝ (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) Ἕ
Ἕ
485
ἙlΝfuὁcὁΝvivἷΝlἳΝmὁὄtἷΝἶἷllἳΝtἷὄὄἳΝἷΝl’ἳὄiἳΝvivἷΝlἳΝmὁὄtἷΝ ἶἷlΝfuὁcὁ,Νl’ἳcὃuἳΝvivἷΝlἳΝmὁὄtἷΝἶἷll’ἳὄiἳ,ΝlἳΝtἷὄὄἳΝlἳΝmὁὄtἷΝ ἶἷll’ἳcὃuἳΝ(εἳὅὅimὁΝἶiΝἦiὄὁνΝDKΝἀἀΝἐἅἄ)έ
Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝchἷΝἓὄἳclitὁΝὄiἶucἳΝὁgὀiΝcὁὅἳΝἳΝfuὁcὁ,ΝlἳΝὀἳtuὄἳΝὁὄigiὀἳὄiἳΝchἷΝὅiΝcἷlἳΝἶiἷtὄὁΝὁgὀiΝtὄἳὅfὁὄmἳὐiὁὀἷνΝἶἳll’ἳltὄὁΝilΝlἷὅὅicὁΝ ( , , , )ΝἶiΝἐἁἄΝἷΝἐἅἄΝὅuggἷὄiὅcἷΝl’iἶἷἳΝἶiΝ un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base 85. I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitἷi)ΝἷΝilΝlἷὅὅicὁΝἷΝl’imὂὁὅtἳὐiὁὀἷ peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto ἳll’imὂἷgὀὁΝἳὄgὁmἷὀtἳtivὁΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷ,ΝἷὅὅiΝὂὁtὄἷἴἴἷὄὁΝ far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, ὀἷll’iὀὅiὅtἷὀὐἳ parmenidea sul nesso ἷΝὀἷll’ἷcὁΝἴiὁlὁgicἳΝἶiΝmὁltiΝtἷrmini ed espressioni ricorrenti nel poema ( , , , , μ , ), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. ἧὀΝ lἷὅὅicὁΝ “ἴiὁlὁgicὁ”Ν èΝ ἳttὄiἴuitὁΝ chiἳὄἳmἷὀtἷ, nelle testimoὀiἳὀὐἷ,Ν iὀΝ ὂἳὄticὁlἳὄἷΝ ἳἶΝ χὀἳὅὅimἳὀἶὄὁ,Ν cὁmἷΝ ὄivἷlἳὀὁΝ l’uὅὁΝ ἶἷlΝ termine μ per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo (da ) – che evoca attività di secrezione. δ’ stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, fecὁὀἶἳΝmἳtὄicἷ,ΝuὀἳΝὅὁὄtἳΝἶiΝ“gἷὀitὁὄἷ”Ν(iὀΝὅἷὀὅὁΝlἷttἷὄἳlἷ),Νcui imὂutἳὄἷΝiὀΝultimἳΝἳὀἳliὅiΝl’ὁὄigiὀἷέ In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle imὂlicἳὐiὁὀiΝ“ὁὀtὁlὁgichἷ”ΝἶἷiΝἶuἷΝὂὁὅὅiἴiliΝὂἳὄἳἶigmiΝἷὅὂlicἳtiviΝ che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» ( μ 85
Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss..
486
), «unica e infinita» (μ ), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» ( ), (iii) si produce «il mutamento» ( μ ), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» ( ), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» ( ). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (ἳ)Ν lἳΝ ἶifficὁltὡΝ ἶiΝ cὁὀiugἳὄἷΝ lἳΝ cὁὀὅiὅtἷὀὐἳΝ ἶ’ἷὅὅἷὄἷΝ ἶἷllἳΝ μ , la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (ἴ)Ν ilΝ fἳttὁΝ chἷΝ l’ἳttivitὡΝ ἶiὅcὄimiὀἳὀtἷΝ («ἶiffἷὄἷὀὐiἳὄἷ»,Ν ) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8.
Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: μ
μ ,
μ
΄ ΄ μ
, μ μ
. ΄
ῖ
· Ἀ μ ῖ , μ μ , Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. ἙἶἷὀticὁΝ ἷΝ ὀἷll’iἶἷὀticἳΝ cὁὀἶiὐiὁὀἷΝ ὂἷὄἶuὄἳὀἶὁ,Ν iὀΝ ὅἷΝ stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente
487
nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra.
δ’uὅὁΝ ἶἷlΝ tἷὄmiὀἷΝ non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra e altri due aggettivi – «senza inizio» ( ) e «senza fine» ( ) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di e ; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di ; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione.
σell’identica condizione Ἑὀὅὁmmἳ,ΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝἳὂὂἳὄἷΝiὀtἷὄἷὅὅἳtὁΝἳΝἷὅcluἶἷὄἷΝἶἳll’ἷὅὅἷὄἷΝ la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla milesia) - donἶἷΝ fὁὄὅἷΝ l’ἳggἷttivὁΝ μ del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μ ): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» μ μ ) e staticità («in se stesso riposa» ΄ ῖ ), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μ μ ),ΝἷΝἶἷlΝὄiὀὅἷὄὄἳmἷὀtὁΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ( μ μ ) a opera di «Necessità potente» ( Ἀ ). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: μ ῖ
ἡ
Ἕ
488
μ
ἡ
Ἦμ
μ
ἡ
μ
μ
-
Ἦ
μ
μ μ Ἕ A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. ἐέΝ ἓὂὂuὄἷΝ ὅiΝ ἶicἷΝ chἷΝ ἑἳὁὅΝ ὂὄimὁΝ vἷὀὀἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷΝ degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] ·
Ἕ μ μ
Ἕ
μ
Ἕ
μ ἡ
μ [...]
[...] Così ora considera anche gli uomiὀiμΝ l’uὀὁΝ cὄἷὅcἷ,Ν l’ἳltὄὁ,Ν iὀvἷcἷ,Ν deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) μ
μμ μ
μ
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sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26).
Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umἳὀὁΝ ἷΝ ilΝ ἶiviὀὁΝ (ἓὂicἳὄmὁ),Ν ἷὅὅἷΝ cὁmὂlἷὅὅivἳmἷὀtἷΝ cὁὀtὄaὅtἳὀὁΝiΝὂὄὁcἷὅὅiΝἶiΝcὄἷὅcitἳΝἷΝἶἷὂἷὄimἷὀtὁ,Νl’iὀὅtἳἴilitὡΝὅostanziale ἶἷgliΝἷὅὅἷὄiΝumἳὀi,ΝcὁὀΝl’immὁtἳΝiἶἷὀtitὡΝἶἷllἷΝὄἷἳltὡΝἶiviὀἷΝ(«uguali e sempre per sé stesse» μ ῖ ), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», μ μ )86. Significativamente, nel suo breve frammento SeὀὁfἳὀἷΝὅἷmἴὄἳΝgiuὅtificἳὄἷΝl’immὁἴilitὡΝἶiviὀἳΝcὁὀΝuὀἳΝcὁὀὅiἶἷὄazione di opportunità: «né gli si addice [ ] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenaὄiὁΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ cὁὀΝ ἳὄgὁmἷὀtὁΝ cὁὀcluὅivὁΝ («cὁὀviὀὐiὁὀἷΝ gἷὀuiὀἳΝ [le] fece arretrare» ): è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e contiὀuitὡΝ (ὅὁttὁliὀἷἳtἷΝ ὀἷiΝ vἷὄὅiΝ ὂὄἷcἷἶἷὀti)Ν ὂὁὀgὁὀὁΝ l’ἳccἷὀtὁΝ ὅull’iἶἷὀtitὡΝἶiΝ con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86
ῄΝἶἳΝὁὅὅἷὄvἳὄἷ,ΝiὀΝὂἳὄticὁlἳὄἷ,Νl’uὅὁΝiὀΝἷὀtὄἳmἴiΝgliΝἳutὁὄiΝἶἷll’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ μ (iὀΝ ἥἷὀὁfἳὀἷΝ l’ἷὃuivἳlἷὀte poetico μ μ ), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide.
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limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀ (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)Νl’immὁἴilitὡΝèΝcὁllἷgἳtἳ,ΝἳttὄἳvἷὄὅὁΝlἳΝὅὁttὄἳὐiὁὀἷΝἶἷiΝὂὄocessi di generazione e corruzione e il riliἷvὁΝἶἷll’iἶἷὀtitὡΝἶiΝὅtἳtὁ,Ν ἳll’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ cὁmὂlἷὅὅivὁμΝ ilΝ mὁvimἷὀtὁΝ viἷὀἷΝ ἳὅὅimilἳtὁΝ ἳΝ uὀΝ mutἳmἷὀtὁΝἶiΝcὁὀἶiὐiὁὀἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝἷΝὃuiὀἶiΝἷὅcluὅὁ 87.
Non incompiuto... χὀchἷΝl’ἳὄgὁmἷὀtὁΝἳΝὅὁὅtἷgὀὁΝἶἷll’immutἳἴilitὡΝἶiΝ«ciάΝchἷΝè»Ν dipende dunque, in ultima analisi, dalla dei vv. 15-16: . Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la chἷΝ ἷὅcluἶἷ,Ν ἶἳll’ὁὄiὐὐὁὀtἷΝ ἶἷllἳΝ ὄiflἷὅὅiὁὀἷΝ ὅull’ἷὅὅἷὄἷ,Ν e . Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di 88 : μ · ·μ ΄ ῖ . ἓΝὂἷὄΝὃuἷὅtὁΝὀὁὀΝiὀcὁmὂiutὁΝl’ἷὅὅἷὄἷΝ[è]ΝlἷcitὁΝchἷΝὅiἳμ non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto.
Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione ( ,Ν«ὂἷὄΝὃuἷὅtὁ»)ΝchἷΝὄifἷὄiὅcἷΝl’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ ὅuccἷὅὅivἳΝ ἳΝ ὃuἷlΝ chἷΝ immἷἶiἳtἳmἷὀtἷΝ ὂὄἷcἷἶἷμΝ l’ἳὄgὁmἷὀtὁΝ ὅiΝ sostiene quindi sia sulla e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀ opera a garanzia della comὂiutἷὐὐἳΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ὅὁὄvἷgliἳὀἶὁὀἷΝ ἷΝ ὅἳlvἳguἳὄἶἳὀἶὁὀἷΝ lἳΝ ὂienezza ( μ ῖ ; ΄ μ ). 87 88
Leszl, op. cit., p. 209. Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18.
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La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: – come μ (intero, uniforme), μ Ἑtutto insieme), (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via , e rivela dunque un carattἷὄἷΝἷὅὅἷὀὐiἳlἷΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷέΝδ’ἳltἷὄὀἳtivἳΝὄἳἶicἳlἷΝ , cὁὀΝ l’iὀvitὁΝ ἳΝ vἳlutἳὄἷΝ ἶiὅcὁὄὅivἳmἷὀtἷΝ lἳΝ ὄὁἴuὅtἷὐὐἳΝ ἶἷgliΝ ἳὄgomenti (B7.5) e a concentrarsi su e sui suoi «segnali» (B8.12), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività chἷΝ ὂὁtὄἷἴἴἷΝ ἳttἷὀtἳὄἷΝ ἳll’iὀtἷgὄitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν cὁmἷΝ mἳὀifἷὅtὁΝ nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὀὁὀΝ ὂuάΝ ἷὅὅἷὄἷΝ iὀΝ ἶifἷttὁΝ iὀΝ ἳlcuὀΝ mὁἶὁΝ (ὂὁichὧΝ «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ·μ ΄ ῖ non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33);
ὅἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ fὁὅὅἷΝ iὀΝ ὃuἳlchἷΝ miὅuὄἳΝ ὁΝ ὂἷὄΝ ὃuἳlchἷΝ ἳὅὂἷttὁΝ carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: μ deve essere per intero o non essere per nulla.
Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli entiΝὀἷllἳΝlὁὄὁΝtὁtἳlitὡνΝὂὄὁtἷifὁὄmἷΝ(l’ἳὄiἳΝ di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione.
492
Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ΄
ῖ
ᾧ
,
μ
μ . ,
ῖ · o;udèn < > , ῖ ΄ ΄ μ La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giἳcchὧΝ ὀὁὀΝ ὅἷὀὐἳΝ l’ἷὅὅἷὄἷ,Ν iὀΝ cuiΝ [ilΝ ὂἷὀὅiἷὄὁ]Ν èΝ espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà ἳltὄὁΝὁltὄἷΝἳll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝὂὁichὧΝεὁiὄἳΝlὁΝhἳΝcὁὅtὄἷttὁ a essere intero e immobile.
Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: ῖ La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) ο ῖ ΄ μμ Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a).
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’ἷὅὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ἶiviὀἳ,Ν tὄἳΝ ῖ e - e dunque anche l’imὂὁὅὅiἴilitὡΝchἷΝ«ciάΝchἷΝὀὁὀΝè»Ν(μ ) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: μ
89
-
-
Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19.
493
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo -
l’ὁἴiἷttivὁΝ ὅἳὄἷἴἴἷΝ ὃuἷllὁΝ ἶiΝ ἷὅcluἶἷὄἷΝ chἷΝ ὂὁὅὅἳΝ ἶἳὄὅiΝ ὂἷὄΝ l’iὀtἷlligἷὀὐἳΝ ἶἷllἳΝ ὄἷἳltὡΝ ὁggἷttὁΝ ἶivἷὄὅὁΝ ἶἳll’«ἷὅὅἷὄἷ»Ν ( ), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): ΄
μ΄
,
, , μ ϐ Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. ,
Gli eventi che i «mortali» ( ) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi ( ) della loro genuina consistenza ( ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadeὄἷΝἷΝmutἳὄἷέΝδ’uὀicὁΝgἷὀuiὀὁΝ(vἷὄὁ)ΝὁggἷttὁΝἶiΝiὀtἷlligἷὀὐἳΝἷΝlinguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi re90 almente pensano e possono pensare è .
90
McKirahan, op. cit., p. 202.
494
Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il ὀὁἶὁΝ cὄuciἳlἷΝ ἶἷll’immὁἴilitὡ,Ν immutἳἴilità e compiutezza ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ– lἳΝDἷἳΝἶiΝἢἳὄmἷὀiἶἷΝὄichiἳmἳΝl’ἳttἷὀὐiὁὀἷΝὅuΝὃuἳὀtὁΝ implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che , dal momento che «ciò che non è» (μ ) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ΄
ῖ
μ . ,
ᾧ
μ
,
ῖ La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giἳcchὧΝ ὀὁὀΝ ὅἷὀὐἳΝ l’ἷὅὅἷὄἷ,Ν iὀΝ cuiΝ [ilΝ ὂἷὀὅiἷὄὁ]Ν èΝ espresso, troverai il pensare.
Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non ὅiΝ tὄἳttἳΝ ὅἷmὂlicἷmἷὀtἷΝ ἶiΝ uὀ’ἳffἷὄmἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ iἶἷὀtitὡΝ (gἷὀἷὄicἳ)Ν tra ὂἷὀὅἳὄἷΝἷἶΝἷὅὅἷὄἷΝ(ἐἁ)ΝὁvvἷὄὁΝἶiΝuὀἳΝὂὄἷὅἳΝἶ’ἳttὁΝἶἷllἳΝὀἷcἷssità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità ( ) e di dipendenza (espressa da , che traducia91 mo come equivalente a «che» ) - i cui membri risultato da un lato ῖ ,Νἶἳll’ἳltὄὁΝappunto «il pensiero» ( μ ) «che "è"». Non c’èΝ ἳltὄὁΝ ὁltὄἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ὃuiὀἶiΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὀὁὀΝ ὂuάΝ chἷΝ ἷὅὅἷre l’ὁggἷttὁΝἶἷlΝὂἷὀὅiἷὄὁμΝlἳΝDἷἳΝὅὁttὁliὀἷἳ,Νiὀfἳtti,ΝcὁmἷΝl’ἷὅὅἷὄἷΝὅiἳΝ propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è92. ἑ’èΝ tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 92
Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». McKirahan, op. cit., p. 205.
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quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli,Ν ὁgὀiΝ ὀὁmἷΝ ἳffἷὄmἳΝ l’ἷὅὅἷὄἷέΝ χll’ὁὄiὐὐὁὀtἷΝ (tὄἳὅcἷὀἶἷὀtἳlἷ)Ν ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝὀὁὀΝὂuάΝὅὁttὄἳὄὅiΝilΝὀὁmiὀἳὄἷΝἶἷiΝmὁὄtἳli 93. Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una paὄἷὀtἷὅiΝ ὂἷὄΝ ἶiὅcutἷὄἷΝ ἶἷll'iὀἳttἷὀἶiἴilitὡΝ ἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ umἳὀἳ,Ν ὃuἳὀtὁΝὄilἷvἳὄἷΝl’illuὅiὁὀἷΝchἷΝἳltὄὁΝ(ἶἳll’ἷὅὅἷὄἷΝἷΝἶἳiΝὅuὁiΝ«ὅἷgὀali»)ΝὂὁὅὅἳΝἷὅὅἷὄἷΝl’ἳmἴitὁΝἶἷlΝὂἷὀὅἳὄἷέΝἙὀΝὃuἷὅtiὁὀἷΝὅἳὄἷἴἴἷΝἳllὁὄἳΝ la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logicὁ,Νὀἷll'uὀitἳὄiἳΝcὁὄὀicἷΝἶ’ἷὅὅἷὄἷ,ΝἷΝἶuὀὃuἷΝfὄἳiὀtἷὅὁέΝIn quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguἳggiὁΝἶἷllἳΝvἷὄitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ94. A chi si riferisce il termine ? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide ( , , μ ϐ ), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtὡΝ(cἳmἴiἳmἷὀtὁΝἶiΝluὁgὁ,ΝmutἳmἷὀtὁΝὃuἳlitἳtivὁ),Ν ὅiἳΝl’ἳccἷὀὀὁΝ a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emἷὄgἷὄἷΝ uὀΝ ἳὅὂἷttὁΝ ὂἷculiἳὄἷΝ ἶἷll’ἳὂὂὄὁcciὁΝ ἶiΝ ἢἳrmenide, una ὀuὁvἳΝ ἶimἷὀὅiὁὀἷΝ ὅὂἷculἳtivἳέΝ ἙὂὁtiὐὐἳὀἶὁΝ chἷΝ l’ἓlἷἳtἷΝ ἳἴἴiἳΝ ὂὄἷὅὁΝlἷΝmὁὅὅἷΝἶἳll’ἳὀἳliὅiΝἶἷllἷΝimὂlicἳὐiὁὀiΝ(ὁὀtὁlὁgichἷ) di affermazioni relative alla o all' , denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 94
Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. Ibidem.
496
possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di ῖ ): 95 questione di «secondo livello» (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝἳὀchἷΝ ἶἷiΝὂὄἷὅuὂὂὁὅtiΝἶἷlΝὂἷὀὅἳὄἷέΝδ’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione ( ῖ ) esige determinate condizioni fὁὄmἳliΝ(ὂὄὁὂὄiἷtὡ)ΝὂἷὄΝl’iὀtἷlligiἴilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96.
Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragiὁὀἳmἷὀtὁΝὄicὁὄὄἷὀἶὁΝἳΝuὀ’immἳgiὀἷΝmiticἳΝ(ἷΝἳΝuὀἳΝfὁὄmulἳΝ epica): Moira «ha costretto» ( ) «a essere intero e immobile» ( ΄ μ )έΝ ῄΝ iὀΝ fὁὄὐἳΝ ἶiΝ tἳlἷΝ “ἶἷὅtiὀὁ”Ν che nulla «esiste o esisterà» ( ) «ὁltὄἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ»Ν ( ): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutaἴilitὡΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷΝ (ἷΝ ἶuὀὃuἷΝ ὂἷὄΝ ὅὁὅtἷὀἷὄἷΝ cὁmἷΝ iΝ «ὀὁmi»Ν ἶἷiΝ «mὁὄtἳli»Ν ὅiΝ ὄifἷὄiὅcἳὀὁΝ iὀΝ vἷὄὁΝ ὅἷmὂὄἷΝ ἷΝ ὅὁlὁΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ)έΝ εἳ la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’iἶἷὀtitὡΝἶiΝἷὅὅἷὄἷΝἷΝὂἷὀὅiἷὄὁ,ΝὀἷlΝmὁmἷὀtὁΝiὀΝcuiΝmἳὄcἳ,Νἳὂὂunto, come non possa esistere («altro oltre ἳll’ἷὅὅἷὄἷ»)έ In questo senso, rispetto a ῖ e , essa riveste una funzioὀἷΝ“tὄἳὅcἷὀἶἷὀtἳlἷ”μΝὄichiἳmἳὀἶὁΝimὂlicitἳmἷὀtἷΝlἷΝimmἳgiὀiΝἶἷiΝ legami ( ) e delle catene ( μ ) ed esplicitamente la fissiἕέἓέἤέΝδlὁyἶΝuὅἳΝl’ἷὅὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ«ὅἷcὁὀἶ’ὁὄἶiὀἷ»,ΝὂἷὄΝἷὅἷmὂiὁΝὀἷlΝὅuὁΝ Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166.
95
497
tà ( - μ ) dei ceppi ( ), con la figura di Moira la Dἷἳ,ΝἶἳΝuὀΝlἳtὁ,ΝὄiἴἳἶiὅcἷΝlἳΝὅtἳἴilitὡΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Νἶἳll’ἳltὄὁΝiὀἶicἳΝ in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del μ che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: ΄ μ ϐ · μ Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; ὀὁὀΝ imὂἷἶiὄἳi,Ν iὀfἳtti,Ν chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅia connesso ἳll’ἷὅὅἷὄἷέ
La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» μ΄ ) di quanto ( ΄ [ἡἡἡὔ ) «i mortali stabilirono» ( ), lasciandosi poi traviare ( ).
Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riasὅumὁὀὁΝl’ὁὀtὁlὁgiἳ,ΝiὀὅiὅtἷὀἶὁΝὂἳὄticὁlἳὄmἷὀtἷΝὅuΝcὁmὂiutἷὐὐἳΝἷΝ omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “ὅὂἳὐiἳli”μ ῖ
μ
,
μ
,
,
μ
· , μ
μ ,
΄
μ
μ ῖ . ῖ
΄
, · , μ . Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla,
498
a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, ὁΝiὀΝὃuἳlchἷΝmiὅuὄἳΝἶiΝmἷὀὁ,ΝἶἳΝuὀἳΝὂἳὄtἷΝὁΝἶἳll’ἳltὄἳέ Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane.
I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’ἳccὁὅtἳmἷὀtὁΝ ἳllἳΝ «massa di ben rotonda palla» ( )ΝὂὄἷὅuὂὂὁὀἷΝiὀfἳttiΝuὀΝὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝ“eὅtἷὄὀὁ”,Ν ὂἷὄΝ cὁmuὀicἳὄἷΝ uὀ’imὂὄἷὅὅiὁὀἷΝ ὁtticἳΝ (“ἶἳΝ fuὁὄi”)Ν ἶἷllἳΝ cὁmὂἳttἳΝ ἷὅtἷὀὅiὁὀἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ἶἷllἳΝ ὅuἳΝ cὁmὂiutἳΝ iὀtἷgὄitὡνΝ ἶ’ἳltὄἳΝ ὂἳὄtἷ,Ν lἳΝ ὅὁttὁliὀἷἳtuὄἳΝ ἶἷll’ἷὃuἳΝ ἶiὅtὄiἴuὐiὁὀe ( ) «a partire dal centro» (μ ), manifesta piuttosto un ὂuὀtὁΝ ἶiΝ viὅtἳΝ “iὀtἷὄὀὁ”Ν (ἶἳlΝ cἷὀtὄὁΝ ἳllἳΝ ὅuὂἷὄficiἷΝ ὂἷὄimἷtὄἳlἷ)έΝ Complessivamente il testo vuol riproporre come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» ( ῖ μ ), di un confine che rende plasticamente l’ἳὅὅὁlutὁΝ ἶiὅcὄimiὀἷΝ tὄἳΝ e μ , logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea.
C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – apὂἳὄἷΝἷviἶἷὀtἷΝilΝἶἷἴitὁΝὀἷiΝcὁὀfὄὁὀtiΝἶἷll’immἳgiὀἳὄiὁΝἷὂicὁμ
Ἕ μ μ
Ἕ
·
Ἕ
499
Ἕ
Ἕ
· [
ῖ ἡ] ·
μ
μμ Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile ὅ’iὀἳlὐἳ,Ν ἶἳΝ ὀuvὁlἷΝ liviἶἷΝ ἳvvὁltἳΝ (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti).
Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose ( ) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» ( μ ), probabile prototipo della «dimora della Notte» ( μ N ) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto infὁὄmἳὄἷ»Ν (ἐ1έἀἆ)μΝ ἳlmἷὀὁΝ ἶiἶἳὅcἳlicἳmἷὀtἷ,Ν l’ὁtticἳΝ ἶἷllἳΝ ὅuἳΝ comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ)έ Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite ( ῖ )ΝviὀcὁlἳὀtἷΝὂἷὄΝl’ἷὅὅἷὄἷμ ΄ , ΄ Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a)
500
μ μ immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ῖ ΄
΄ μ poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) Ἀ μ ῖ , μ μ dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ῖ μ , μ dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42).
ἥὁὀὁΝiΝlἷgἳmiΝvἳὄiἳmἷὀtἷΝἷvὁcἳtiΝἳΝimὂἷἶiὄἷΝἳll’ἷὅὅἷὄἷΝἶiΝἷὅὅere esposto a generazione e corruzione ( o ), ovvero al mutamento ( ), e a garantirne integrità (o%ulon μ ) e perfezione ( , μ ). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustiὐiἳ,Νἠἷcἷὅὅitὡ,ΝεὁiὄἳέΝδ’iἶἷἳΝèΝὃuἷllἳΝdi costrizione come destino ὁvvἷὄὁΝ lἷggἷΝ ἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» ( ῖ μ ), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» ( ) e alle altre formule spaziali ( ,μ ) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius:
97
H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140.
501
ῖ μ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo 99,
e confermerebbe la nozione pitagorica di μ («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: . μ μ Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21)
Ricordiamo, inoltre, come il tema ἶἷll’ἷὃuilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cuiΝὂὄiὀciὂiὁΝ(l’apeiron) Aristotele afferma: [ἡἡἡὔ
μ Ἕ ῖ
Ἕ
[...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15).
A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutaἴilitὡΝἷΝἶἷllἳΝὅtἳἴilitὡΝἶἷll’uὀivἷὄὅὁ,ΝἷὅὂὄἷὅὅὁΝὅὁὂὄἳttuttὁΝὀἷll'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: , μ A se stesso, infatti, da ogni parte uniformemente entro i [suoi] limiti rimane.
uguale,
Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es99
H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4.
502
sere ( ), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: ΄ μ ), coeso (v. 25: ), compiuto (v. 27: μ ): , μ ῖ μ Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a).
La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» ( ῖ μ ) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: μ ; v. 5: μ ), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» ( ). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: μ [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a)
100
Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8.
503
, μ a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49).
La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: ΄ μ ΄ né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è qui più, lì meno (vv. 47b-48a).
Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità ( μ ῖ μ ): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità ( ).
Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): , μ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a).
Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è (con cui concorda ); (ii) («simile») si riferisce non a «palla» ( ῖ ) ma a «massa» ( κμ); 504
(iii) («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale ( , come suggerisce Furley 101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» ( , Ἕ ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata ἶἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 ( ΄ ). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», ῖ ), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra e ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di : nella sua identità logicamente garantita ἶἳll’ἷffἷttivἳΝ iὀἶiὅὂὁὀiἴilitὡΝ ἶiΝ μ , ogni divenire e ogni diὅcὄimiὀἳὐiὁὀἷΝ tἷmὂὁὄἳlἷΝ ὅὁὀὁΝ ὅὁὅὂἷὅi,Ν ὀἷll’ἷtἷὄὀἳ,Ν cὁὀtiὀuἳΝ gia101
D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54.
505
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto , espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato 102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere 103. Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ῖ
μ
,
μ
dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102
103
Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…,Ν citέ,Ν ὂέΝ ἂη)Ν ὅὁttὁliὀἷἳΝ iὀΝ proposito come l' di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) ὅull’ἓὅὅἷὄἷΝἶiΝὃuἷgliΝἷὀtiέ
506
Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il rifἷὄimἷὀtὁΝἳlΝcἳὄἳttἷὄἷΝultimὁΝἶἷll’ἷὅtὄἷmitὡΝἷὀtὄὁΝcuiΝl’ἷὅὅἷὄἷΝ«uniformemente nei limiti rimane» ( μ )104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato ( , μ ), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice ( ), in Parmenide oltre ilΝ cὁὀfiὀἷΝ ὀὁὀΝ c’èΝ ὀullἳ,Ν ἳlΝ ἶiΝ ὃuἳΝ tuttὁΝ l’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ἶiΝ cὁὀὅἷguἷὀὐἳΝ perfetto, compiuto ( μ ) da ogni parte ( )105. La ὅimilituἶiὀἷΝiὀὅiὅtἷΝὅull’ἷὅtἷὀὅiὁὀἷΝcὁmὂἳttἳΝἷΝὅullἳΝtἷὀὅiὁὀἷΝuὀifὁὄmἷμΝὅull’uguἳlἷΝcὁὀὅiὅtἷὀὐἳ,ΝἶἳlΝcἷὀtὄὁΝἳlΝὂἷὄimἷtὄὁΝἶἷllἳΝὅfἷὄἳέΝ Mourelatos ha osservato 106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone uὀ’imὂὄἷὅὅiὁὀἳὀtἷΝ cὁὀcἷὀtὄἳὐiὁὀἷΝ ἶiΝ ἳlluὅiὁὀiΝ (ἷΝ ὂἳὄὁlἷ)Ν ὂἳὄmenidee: μ
. μ
μ μ
·
,
μ
, , μ
μ
.
, ῖ
μ
μ
μ
μ
. μμ ,
ῖ ,
104
Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 105
507
, μ ῖ ᾧ
μ
· , μ μ μ
, μ
.
[...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108.
108
Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003.
508
DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: Ἕ
μ
Ἕ DiὅὅἷΝ chἷΝ lἳΝ filὁὅὁfiἳΝ ὅiΝ ἶiviἶἷΝ iὀΝ ἶuἷΝ ὂἳὄti,Ν l’uὀἳΝ ὅἷcὁὀἶὁΝvἷὄitὡ,Νl’ἳltὄἳΝὅἷcὁὀἶὁΝὁὂiὀiὁὀἷέΝΝ(DKΝἀἆΝχ1)έ
È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secὁὀἶὁΝlἷΝὅtimἷΝtὄἳἶiὐiὁὀἳli,Νἶἷll’iὀtἷὄἳΝὅἷὐiὁὀἷ,ΝchἷΝἶὁvἷvἳΝcὁὂὄire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti.
Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: μ
ἡ [vv. 50-61]
μ
Ἕ
ῖ
1
ἡ
Ἕ
[vv. 50-52], μ
Ἕ
L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104.
509
Ἕ
ῖ
μ [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13).
Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: μ
μ μ Ἕ
μ μ
μ Ἕ
Ἕ
Ἕ μ
·
Ἕ
μ
ῖ
ῖ
μ
Ἕ
[ἡἡἡὔ,
Ἕ
μ μ ἡ Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo chἷ,Ν ὁltὄἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ilΝ ὀὁὀ-essere non esista affatto, egli cὄἷἶἷΝ chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ ἶiΝ ὀἷcἷὅὅitὡΝ uὀὁΝ ἷΝ ὀiἷὀt’ἳltὄὁέΝ […]Ν Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uὀὁΝ ὅiἳΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ ὄἳgiὁὀἷ,Ν iΝ mὁltiΝ iὀvἷcἷΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi
510
ἶiὅὂὁὀἷΝilΝcἳlἶὁΝὅὁttὁΝl’ἷὅὅἷὄἷ,ΝilΝfὄἷἶἶὁΝὅὁttὁΝilΝὀὁὀ-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2).
Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: μ μ
Ἀ
·
΄
μ μ μ . A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳ,Ν l’ὁὄἶiὀἷ delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52).
Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» ( ) e della «riflessione sulla verità» ( μ μ ) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» ( ), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale ( μ μ ) potrà risultare fuorviante ( ). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μ ), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 511
(che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): μ
μ
ῖ μ
μ
ῖ· ·
ῖ
, , Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro.
È significativo il fatto che di questo μ così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: μ ῖ
ῖ
μ
Ἕ
μ
μ μ μ μ μ μ μμ anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
512
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21).
La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione.
«...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: μ μ
Ἀ
·
΄
μ μ μ . A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali imὂἳὄἳ,Ν l’ὁὄἶiὀἷ delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52).
Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» ( ), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutἳmἷὀtὁ,Νè,ΝἶἳlΝὂuὀtὁΝἶiΝviὅtἳΝἶἷll’ἷὅὅἷὄἷ,ΝἳὂὂἳὄἷὀὐἳέΝDἳlΝmὁmἷnto che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 513
Dea insiste perché il kouros apprenda (μ ) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): μ , μ μ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti.
Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al μ μ del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione μ . Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di μ , costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali ( , , ) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri514
chiamo a ), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μ ), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale ( μ ) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza.
Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: ΄ μ ϐ · μ μ μ μ . Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; ὀὁὀΝ imὂἷἶiὄἳi,Ν iὀfἳtti,Ν chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ cὁὀὀἷὅὅὁΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi.
Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il la molteplicità dispersa degli enti ( ) «nel cosmo» ( μ ) si riconducesse alla identità di , alla sua inscindibile connessione ( 515
), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illuὅtὄἳtὁΝ ὃuἷll’iἶἷὀtitὡΝ iὀΝ cuiΝ tuttἷΝ lἷΝ cὁὅἷΝ ὅiΝ ὄiἳὅὅumὁὀὁΝ ἷΝ ἳvἷὄὀἷΝ analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione , «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» ( ). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» ( ) all'unità di una «sostanza soggiacente» ( μ ), a un tempo «principio» ( ), «elemento» ( ῖ ) e «natura» ( ) delle cose ( ):
μ
ῖ ῖ
μ
ῖ ,
μ , ,
, μ ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
516
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13).
Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza ( ) in un sistema esplicativo ( μ ) adeguato ( ) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» ( μ ) della via «che è» ( ), come evidenzia ancora B9: μ ῖ ,
μ
ῖ
μ
μ , μ μ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla,
impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: ΄
΄
μ μ
΄
,
, μ
΄
μ
Ἀ
΄
517
Conoscerai la natura etereα ἷΝὀἷll’ἷtἷὄἷΝtutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna ἶἳll’ὁcchiὁΝὄὁtὁὀἶὁ, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri.
Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» ( μ μ Ἀ ) alle «opinioni mortali» ( ) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» ( ο ῖ ΄ μμ , B6.1) ἳll'ἳὅcὁltὁΝ ἶἷll’«ὁὄἶiὀἷΝ ἶἷllἷΝ miἷΝ ὂἳὄὁlἷΝ chἷΝ ὂuάΝ iὀgἳὀὀἳὄἷ»Ν ( μ μ , B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μ ·
μ
-
ᾧ
μ
μ
μ
· -
Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, ἶἷllἷΝ ὃuἳliΝ l’uὀitὡ non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4).
Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 518
(dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee.
Due forme e la loro unità L'errore fuorviante ( ᾧ μ : «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μ μ μ Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) μ ἶἷllἷΝ ὃuἳliΝ l’uὀitὡ non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a).
I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se519
condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: μ si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9).
Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione ( ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [ἡἡἡὔ
μ
μ , μ μ [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2
Op. cit., pp. 228-9.
520
di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: μ ..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» ( ᾧ μ ): essa esprimerebbe l’ἷὄὄὁὄἷΝ delle ingannevoli , preparando la correzione della «appropriata» ( ) Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ΄
μ μ ΄ ΄ , μ , Ἕμ ΄ , , ΄ μ · ῖ ΄ ΄ , μ μϐ Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, ὄiὅὂἷttὁΝἳll’ἳltὄὁ,Νiὀvἷcἷ,ΝὀὁὀΝ iἶἷὀticὁνΝἶἳll’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Ν anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59).
Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la richiamata ai versi B6.4-9:
3
Op. cit., p. 65.
521
΄ , μ
, · μ ,
· ,
. ,
μ , poi da quella [via] che mortali che nulla sanno ὅ’iὀvἷὀtἳὀὁ,ΝuὁmiὀiΝἳΝἶuἷΝtἷὅtἷμΝimὂὁtἷὀὐἳΝἶἳvvἷὄὁΝὀἷiΝ loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro.
Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la (decisione, scelta) tra μ , imponendo così di fatto l'identità ( ) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: μ si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9).
In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti522
colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ΄
μ [...]
΄
μ
΄
,
[...] ΄
μ
·
ῖ ΄ [ἡἡἡὔ Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, ὄiὅὂἷttὁΝἳll’ἳltὄὁ,Νiὀvἷcἷ,ΝὀὁὀΝ iἶἷὀticὁνΝἶἳll’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Ν anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...].
Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: μ
,
μ μ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti,
la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9).
4
Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239.
523
Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: μ
ἡ [vv. 50-61]
μ
ἡ Ἕ
Ἕ
[vv. 50-52], μ ῖ
Ἕ
Ἕ
ῖ
μ [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13).
La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due sono selezionate come «opposti nel corpo» ( ΄ μ ) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte ( μ ΄ ΄ ): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: μ
μ
,
524
Ἕμ ΄ , [...] [ἡἡἡὔ ΄ , μ μϐ da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [έέέ]Νἶἳll’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷΝ[έέέ] le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). [...]
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide:
[
]
, [
[
] μ
] , μ ῖ
[ , ,
, [
[ [
·
] μ
]
]
]
,
ῖ ,
μ , [ ] , μ , [ [ Ἀ μ
, ] ]
· [
] Ἀ
μ
[
ᾳ,] [ ] · Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31).
Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un 525
sia un ) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield 5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. ἓὅὅἷὀἶὁΝ imὂlἳuὅiἴilἷΝ (ἳΝ cἳuὅἳΝ ἶἷll’ἷὅὂliitὁΝ ὄifἷὄimἷὀtὁΝ ἳΝ uὀἳΝ «decisione»: μ ) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): μ
μ
( Ἀ
μ
μ
Ἕ
)ἡ μ Ἀμ
ἡ Ἕ
μ Ἕ μ
ἡ
Ἕ
5
Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6.
526
Ἀμ
,
Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) μ
·
Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4),
può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia ( ῖ ) e Urano ( ) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: Ἕ
μ
Ἕ
·
Ἕ Ἕ μ Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8
Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…,Νcitέ,ΝὂέΝ11ἅ)έ
527
che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti),
e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) ῖ μ sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia) 9.
ἧὀ’ὁὂὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ὄicὁὄὄἷὀtἷΝ ὀἷllἳΝ cultuὄἳΝ ἳὄcἳicἳ,Ν iὀtὄἷcciἳtἳΝ ἳΝ quella tra regione celeste ( ), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn 10, avrebbe poi sostituito , e assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica , «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare uὀ’ἷὅtὄἷmἳΝ ἷὅὅἷὀὐiἳliὐὐἳὐiὁὀἷΝ ἷΝ cὁὀcἷὀtὄἳὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ lἷὅὅicὁΝ ἶἷllἷΝ teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà ( μ ) fondamentali: (i) («etereo»), [ ] 11 («rarefatto»), («mite»), μ ΄ («molto leggero») sono riferiti a («fuoco di fiamma»); (ii) («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre («denso»), μϐ («pesante») concordano con μ («corpo»), a sua volta in apposizione a . 9
Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio.
528
Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità \ i poteri ( μ ) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in e . È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: Ἕ
μ
Ἕ
μ μ
μ μ
μ
Ἕ Ἕ
Ἕ
·
μ ἡ Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6).
In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ΄
μ [...]
΄
μ
΄
,
[...] ΄
μ
·
ῖ
΄
[ἡἡἡὔ
529
Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, ὄiὅὂἷttὁΝἳll’ἳltὄὁ,Νiὀvἷcἷ,ΝὀὁὀΝ iἶἷὀticὁνΝἶἳll’ἳltὄἳΝὂἳὄtἷ,Ν anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a),
emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: μ
-
ᾧ
μ
-
·
ἶἷllἷΝ ὃuἳliΝ l’uὀitὡ non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas 12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro.
Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse ( ) e reciproca 12
χέΝ ἠἷhἳmἳὅ,Ν “ἢἳὄmἷὀiἶἷἳὀΝ ἐἷiὀgήἘἷὄἳclitἷἳὀΝ ἔiὄἷ”,Ν iὀΝ Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62.
530
non-identità ( ΄ μ ), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare , avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: «conoscerai», «apprenderai», «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: μ Ἕ
μ μ
· Ἕ
μ
μ
Ἕ ῖ
μ ,
, μ
ῖ
μ
[ἡἡἡὔἝ ,
,
μ μ ἡ Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo chἷ,Ν ὁltὄἷΝ ἳll’ἷὅὅἷὄἷ,Ν ilΝ ὀὁὀ-essere non esista affatto, egli cὄἷἶἷΝ chἷΝ l’ἷὅὅἷὄἷΝ ὅiἳΝ ἶiΝ ὀἷcἷὅὅitὡΝ uὀὁΝ ἷΝ ὀiἷὀt’ἳltὄὁέΝ […]Ν ·
μ
13
In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62.
531
Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uὀὁΝ ὅiἳΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ ὄἳgiὁὀἷ,Ν iΝ mὁltiΝ iὀvἷcἷΝ ὅἷcὁὀἶὁΝ sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi ἶiὅὂὁὀἷΝilΝcἳlἶὁΝὅὁttὁΝl’ἷὅὅἷὄἷ,ΝilΝfὄἷἶἶὁΝὅὁttὁΝilΝὀὁὀ-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1).
Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: μ
μ μ
[...] "
"μ μ
e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti.
Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo ὀἷll’ἷὅὂlicitἳὐiὁὀἷΝ ἶἷlΝ ἶuὂlicἷΝ ἳὅὂἷttὁΝ ἶiΝ e : per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da . Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione.
Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» ( μ μ Ἀ )·e «opinioni mortali» ( ): come già 15
Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139.
532
indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: ΄
μ΄
,
, , μ ϐ Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. ,
Alla necessità («unica parola ancora rimane», μ ΄ ) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» ( ῖ ) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che ἡἡἡ»Ἕ ΄ μ ΄ μ ΄, ἡἡἡ), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» ( μ ), ovvero la scelta di «opposti» ( μ ) e l'imposizione di «segni» ( μ ΄ ). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane ( μ μ ). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno ἶἷll’ἷὅὂὁὅiὐiὁὀἷΝ ἶiviὀἳέΝ DἳΝ uὀἳΝ cὁὀὅiἶἷὄἳὐiὁὀἷΝ ὂuὄἳmente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.35a: 533 μ
μ
μ
΄
, μμ
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, ἳΝἶiὄigἷὄἷΝl’ὁcchiὁΝchἷΝὀὁὀΝvἷἶἷΝἷΝl’ὁὄἷcchiὁΝὄiὅὁὀἳὀtἷ e la lingua.
L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico ( ), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza ( ). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione ( , ) e disposizione ( ) è infatti associata al rilievo del «nominare» ( μ ). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come e . La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa
16
χέΝἠἷhἳmἳὅ,Ν“ἢἳὄmἷὀiἶἷἳὀΝἐἷiὀgήἘἷὄἳclitἷἳὀΝἔiὄἷ”,Νcitέ,ΝὂέΝἄἁέ
534
come alternativa alle cosmologie ioniche 17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: μ
,
μ μ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61).
D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come μ (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della . Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: μ μ
·
μ μ Ἕ μ · Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà
17
Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…,Ν citέ,Ν ὂέΝ 1ἆἂ),Ν èΝ fὁὄὅἷΝ possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo.
535
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) μ ῖ μ Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ῖ Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) ῖ
Ἕ μ Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18).
Graham 18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: Ἕ μ Ἕ μ Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 19
Explaining the Cosmos…,Νcitέ,ΝὂέΝ1ἅἄέ Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una vἷὄὅiὁὀἷΝὂὄὁὂὁὅtἳΝἶἳΝεέδέΝἕἷmἷlliΝεἳὄciἳὀὁΝ(“δiὄἷΝἶuΝἶὧἴut…,Νcitέ,ΝὂὂέΝἅ37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso:
536
Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μ ἡἡἡ ) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme».
μ Ἕ μ sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi.
537
LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): μ
μ
μ
μ
[cὤtaήὤonὠ ἵἬὔ
μ
e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti.
Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri 1). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa.
Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli μ e all'attività di μ , che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μ : μ 1
μ ῖ
ῖ
Op. cit., p. 255.
538
Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2).
Nella dimensione plurale delle cose ( ) attestate ἶἳll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝ ἷΝ chἷΝ l'iὀtἷlligἷὀὐἳΝ hἳΝ ὄiἳὅὅuὀtὁΝ ὀἷll’ὁmὁgἷὀἷitὡΝ dell'essere, il compito di è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» ( μ , «potenze»), i μ che accompagnano le due μ , così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di ο , comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della : ), Parmenide delinea una strategia cὁὀὅἷguἷὀtἷΝἶiΝὄἷcuὂἷὄὁΝἶἷlΝcὁὅmὁΝἶἷll’ἷὅὂἷὄiἷὀὐἳΝumἳὀἳμΝLuce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla 2. Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): ΄ μ ma tutto pieno è di ciò che è,
dopo aver ricordato (ii): μ
,
μ
,
ὀὧΝ c’èΝ ὃuiΝ ὃuἳlcὁὅἳΝ ἶiΝ ὂiὶΝ chἷΝ ὂὁὅὅἳΝ imὂἷἶiὄgliΝ ἶiΝ essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a),
e soprattutto (iii): 2
Ruggiu, op.cit., p. 326.
539
, μ ῖ Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22).
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: μ μ tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a),
dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza ( ΄ ) è declinato al duale ( ), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come μ (B8.5), μ ῖ ἙB8.22), oltre che da (B8.6) e (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula μ e dalla precisazione incidentale μ . μ
Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il μ proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: μ μ perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4).
Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che ῖ (il pensare) ovvero il (l'intelligenza) o ancora il (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di ο , la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica ) di μ (proprietà) riba540
disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μ ). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il μ μ Ἀ , quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli μ , ne costituisse la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai μ di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: μ , μ μ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti.
L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μ
μ
΄
, μμ
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, ἳΝἶiὄigἷὄἷΝl’ὁcchiὁΝchἷΝὀὁὀΝvἷἶἷΝἷΝl’ὁὄἷcchiὁΝὄiὅὁὀἳὀtἷ e la lingua (B7.3-5a).
Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin3
Ibidem.
541
guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): μ
μ
ῖ μ
μ
ῖ· ·
ῖ
, , Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro,
può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica.
Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: μ [...] μ
542
Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile.
La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli μ delle due μ – e i relativi μ -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: μ μ
μ
· μ
μ
μ Ἕ
· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza».
Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione μ , al v. 3 la Dea conclude che .
543
Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo 4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza ( )5. La funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μ parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo.
4
Conche, op. cit., p. 201. Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 5
544
UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-1213] I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, uὀ’iὀἶicἳὐiὁὀἷΝἳὂὂὄὁὅὅimἳtivἳΝciὄcἳΝla collocazione relativa: μ
ῖ [ἡἡἡὔ poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...]
Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: μ μ
μ μ
μ
μ ἡἡἡ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri».
Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che:
545
ἡ ·[cὤtaήὤonὠ ἵἤἤὔ μ μ μ μ . Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: μ
μ
ῖ μ
μ
ῖ·
ῖ
·
, , Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro.
Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: μ sottoli546
nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» ( , ); (ii) poi che la scelta degli elementi ( ῖ ) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica ( μ ) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» ( ῖ μ μ ), egli produce il suo μ . Da e per mezzo di quegli elementi ( [ἡἡἡὔ ) ricava ( ῖ) «tutti i fenomeni» ( μ ); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» ( ): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie ( , , ) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B9 2. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo"
1 2
Cerri, op. cit., p. 263. Ruggiu, op. cit., p. 332.
547
proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» ( μ ) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien 4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della μ che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio.
Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: μ μ
΄
΄ ΄
,
, ΄
μ .
΄
μ
Ἀ
3
Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33).
548
Conoscerai la natura eteὄἷἳΝἷΝὀἷll’ἷtἷὄἷΝtutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna ἶἳll’ὁcchiὁΝὄὁtὁὀἶὁ, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri.
La promessa è quella di: (i) far «conoscere» ( ) «la natura eterea» ( ) e «tutti i segni» ( μ ) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» ( ΄ ) del Sole e «ciò da cui» ( ) esse si generarono ( ); (iii) far «apprendere» ( ) «le opere» ( ) della Luna e «la [sua] natura» ( ); (iv) far «conoscere» ( ) «il cielo» ( ) «che tiene tutto intorno» ( μ ) e «da che cosa» ( ) «scaturì» ( ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀ ) «incatenò» ( ) il cielo a «mantenere nei loro limiti» ( ΄ ) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: ἡ ·[cὤtaήὤonὠ ἵἤἤὔ μ
μ
μ ἡ Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. μ
549
Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): ό ῖ
ό, μ
μ
Ἕ
ἡ Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose.
L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema6.
Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra e , e (b) l'uso di espressioni come (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente . Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di e : nel contesto il primo termine 5 6
Op. cit., pp. 210-11. Cerri, op. cit., p. 259.
550
– che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine ( , «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in . Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine ( , ) nei «segni» ( μ ), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con ἳΝuὀ’immὁtἳΝiἶἷὀtitὡ,ΝἳΝuὀ'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» ( ) riprende e rilancia la ricerca milesia 8 dell' . Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai μ , dagli , dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; 9 (ii) quella che dalla discende ai relativi . Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: ῖ
΄ ΄
μ μ
μ
μ
. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi.
In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di μ e è indicativa della sua nozione di : essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem.
551
μ
che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: μ μ ῖ ῖ Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [ μ ], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2),
potremmo concordare con Ruggiu 10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come μ nella di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose.
Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla , nella centralità del tema della , ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di al presente di in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: , ΄ ῖ Ἕμ Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco.
10 11
Ibidem. Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio ( ), proposta in alternativa.
552
È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» ( μ ϐ ) e della sua funzione "copulatrice": μ μ
΄
ῖ
μ μ
μ ΄
ϐ
·
in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e ἳll’uὀiὁὀἷ, ὅὂiὀgἷὀἶὁΝ l’ἷlἷmἷὀtὁΝ fἷmmiὀilἷΝ ἳΝ uὀiὄὅiΝ ἳlΝ mἳὅchilἷ,Ν e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6).
Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μ ) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici.
553
Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» ( ) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» ( μ ), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μ
ῖ [ἡἡἡὔ poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3].
Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali ( ); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» ( ) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: , Ἕμ · μ μ ϐ · Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. ΄
ῖ
Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati554
vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» ( μ ) e di come esso sia stato vincolato da Necessità ( ΄ Ἀ ) «a tenere i confini degli astri» ( ΄ ); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» ( μ ) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo ( ), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» ( ) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: ἡ μ
μ Ἕ
Ἕ
Ἕ ·μ .
μ
, μ [sc.
μ
.
μμ
μ
μ ῖ
, ,
.
12
Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104.
555
μ , . Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea 13 . Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37).
Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di , da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da concentriche, anelli alternativamente di «rado» ( )e Il testo greco μ , sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), è infatti una integrazione, e un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: μ < > , «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels – è emendazione del testo dei manoscritti: , «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: μ μ μ Ἕ , «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto».
13
556
di «denso» ( ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μ ) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μ ), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἢ , ἢ . Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida ( ), secondo quanto indicato in B10.5: μ , altrimenti evocato (B11.2-3) come μ . L'espressione conclusiva suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): μ ῖ questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] ἡἝ [
μ ]μ
μ ῖ · μ ,μ ῖ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. μ
La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico ( [ἡἡἡὔ μ ῖ ) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna ( ) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» ( ). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 557
consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i μ associati alle due μ – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» ( ). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra (A37), μ (B10) e μ (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città ( ) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su risulti fraintendimento di μ : l' di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone:
15
Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 16
558
μ , . L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37)
nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit ( appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama ), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37).
L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l' di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse ( )19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri 21: nel complesso delle – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata .
19
Ivi, p. 227. Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 20
559
Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) μ , quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» ( ΄ Ἀ ΄ ). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle , con 22 i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere ( ) . In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ·e di Aëtius A40a: ἡ μ
μ
μ μ
Ἕ
Ἕ Ἕ
· Ἕ
ῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo.
Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra ( μ A37) - e la volta esterna ( μ ), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele:
22 23
Ruggiu, op. cit., p. 336. Conche, op. cit., p. 213.
560
μ Ἕ
μ
μ μῖ
μ
. μ
μ ,
μ ·
μ
μ ᾧ
, Ἄ
ῖ
μ
ᾧ
μ
ἡ μ
μ .
μ ἡ μ
μ
μ
μ
μ
Ἕ
·
ῖ
· Ἕ
μ
μ μ . Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, μ
561
né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25).
È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» ( μ ) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 μ ) sia l'«Olimpo estremo» (B11.23 μ ), anche per la sua associazione al «divino» ( ᾧ ῖ μ ). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» ( Ἕ ῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» ( μ Ἕ ᾧ ). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di : «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero ( ) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia ( , ovvero μ , «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida ( ); 562
(ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi).
μ
La
e il cosmo
Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della μ che lì viene evocata: μ
ῖ ἡ [ἡἡἡὔ
μ
ἡἡἡ μ
μ
μ
.
· μ
... μ
ῖ
. [...] μ
μ . poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione μ
ῖ
μ
μ
ϐ
·
563
μ
΄
μ
΄
in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e ἳll’uὀiὁὀἷ, ὅὂiὀgἷὀἶὁΝ l’ἷlἷmἷὀtὁΝ fἷmmiὀilἷΝ ἳΝ uὀiὄὅiΝ ἳlΝ mἳὅchilἷ,Ν e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) μμ >
μ
,
μ .
, ,
,
μ μ
μ
, μ
, ῖ, μ
μ , μ
,
μ
, , μ
,
565
.
μ
μ ,
μ μ
, μ . Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16).
È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse μ «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – μ e – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettἷὄὅiΝὀἷll’iὀὅiὅtἷὀὐἳΝἶἷllἷΝtἷὅtimὁὀiἳὀὐἷΝὅulΝmὁἶἷllὁ arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien566
te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): ἡἝ [
μ ]μ
μ ῖ · Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44).
L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della μ parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» ( ): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di e alla terra (Notte) quello di : ῖ
μ
μ
μ μ Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: μ μ ϐ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa,
24
Op. cit., p. 234.
567
e Aëtius sottolinea come: μμ >
μ
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama ), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio;
incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: μ , . L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37),
si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l' di Aëtius, che avvolge . Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ·
Ἕ
ἡ ·
29
Op. cit., pp.239 ss..
571
μ
ῖ , μ , ῖ
.
, μ
,
. ῖ ·
, Ἀ μ ῖ Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀἡ
· ἡ Ἐ
μ
ῖ
μ
Ἕ
Ἕ
Ἕ
μ
μ Ἐ ( μ μ ). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) Ἕ
μ Ἕ
572
esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [
μ ] ,
,
μ [ ] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). .
Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio ( ῖ ), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: ), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: μ ), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali ( ῖ μ ). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo , che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ). È tuttavia possibile che la parmenidea μ ϐ , da Plutarco identificata come Ἀ , sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so30 31
Ivi, p. 242. Ferrari, op. cit., p. 106 nota.
573
prattutto Ruggiu32, per il quale la μ sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 μ ). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane.
μ
La funzione cosmo-teogonica della
B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo ( ϐ , ) della μ , la quale «spinge all'unione» ( μ μ )·di «femminile» ( ) e «maschile» ( ): μ μ
μ ΄
ῖ
μ
ϐ
·
μ ΄
in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e ἳll’uὀiὁὀἷ, ὅὂiὀgἷὀἶὁΝ l’ἷlἷmἷὀtὁΝ fἷmmiὀilἷΝ ἳΝ uὀiὄὅiΝ ἳlΝ mἳὅchilἷ,Ν e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6).
Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12):
32
Op. cit., p. 344.
574
μ
ῖ ἡ [ἡἡἡὔ
μ
μ
ἡἡἡ
μ
μ
.
· μ
ῖ
... μ
. [...] μ
μ . poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione,
e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica:
μ
μ
ἡἡἡ
μ
ἡ
Ἕ ἡ sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13).
L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: μ μ Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore,
…
confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13):
575
ἡμ
Ἀ μ
... perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13].
Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): Ἕ
ἡ·
μ
ῖ
μ
, … [B13] Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13].
Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit ( appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m , qui D i s c o r d i a m , qui C u p i d i t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama ), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si
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può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo.
Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della μ in relazione diretta con i «due elementi» ( ῖ ) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» ( ) «una e comune» ( ), origine di ogni generazione ( ); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza ( μ μ ) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle μ di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» ( μ μ μ Ἕ ); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: ῖ μ di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione.
Conche (tra gli altri) si è soffermato 34 sull'uso di (da , «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 34
Ivi, p. 340. Op. cit., pp. 225 ss..
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suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖ ) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la μ è anche «causa degli dei» ( ), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», ); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della μ : evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama μ , è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» ( μ ), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata μ (o forse Ἀ ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 36
Op. cit., p. 340. Coxon, op. cit., p. 242.
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(vi) la
μ
, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico ( ϐ : pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μ : meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37.
37
Cerri, op. cit., p. 273.
579
NOTTE DI LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore) 1: μ [ἵἤἧἭ
Ἕ ῖ
μ
μ μ
ὔ
ῖ . nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. μ μ
.
ἡ Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre rivolta verso i raggi del sole.
Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 2
Coxon, op. cit., pp. 244-5. Cerri, op. cit., p. 274.
580
Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», ῖ μ ); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare ( ). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: ἡ
Ἕ μ Ἕ
μ μ
μ
. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) μμ
μ
ῖ
Ἕ
La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) ἡ
ὔἡ
[scἡ [scἡ ἡ
ἡ
]·
ἡ Ἕ μἡ ἡἡἡ μ Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide ......
È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 581
rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente 3.
3
Conche, op. cit., pp. 235-6.
582
IL CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera.
Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele
Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita
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fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): μ la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) μ Ἕ μ causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3).
Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione ( ): essa è intesa come (i) pensiero ( ), ovvero (ii) processo di alterazione fisica ( ). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: μ
Ἕ
μ
Ἕ
μ
·
μ ῖ
μ
. μ
μ
μ
· > ῖ
ῖ
. μ
μ
< , ῖ
' . ·[ἵἤἩὔ
| μ
584
Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16].
È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, condizione (μ (μ
infatti,
afferma
che, mutando la ), muti il pensiero
),
prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere e , come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: μ anche Parmenide si esprime nello stesso modo.
In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione .... : μ
1
, 2
come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1
È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione dei codici di Teofrasto.
585
così il pensiero si presenta agli uomini,
così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente ( ): si è spinti, insomma a leggere l'espressione μ come corrispettivo di , e come corrispettivo di . A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: > ῖ μ , ' ῖ ῖ per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse,