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Italian Pages 243 Year 2014
Una ricerca - materiale, tecnica, linguistica, antropologica: la prima per ampiezza e com pletezza - sulla coltivazione tradizionale del frumento (anteriormente, cioè, all’impiego delle macchine) nel particolare contesto dei latifondi siciliani dell’Alta Valle del Platani, accompa gnata dalla più compiuta e rara documentazione fotografica che sia possibile oggi reperire. In queste terre di attardato feudalesimo si sono potuti perpetuare nel tempo arcaici rapporti sociali di produzione e tecniche colturali estremamente regredite, il cui quadro è stato scon volto soltanto in tempi recenti dalle lotte contadine del dopoguerra, dalla sia pur lenta e ritardata diffusione dei mezzi meccanici, e soprattutto da un inarrestabile flusso migratorio verso il Nord. Ma a dare un’idea della tenacia spaziale e temporale di queste forme del lavoro, e a sancir ne la immutata presenza nell’intera area mediterranea, basta la documentazione emergente dalle pitture egiziane di lll-ll millennio a.C., qui utilizzate e riprodotte a riscontro: quella che qui si indaga non è che la fase terminale di una lunghissima storia che attraversa i millenni, e segna l’attività, la fatica, la subordinazione e la dannazione di innumerevoli esseri umani.
Salvatore Nicosia è professore emerito nell’Università di Palermo, dove ha insegnato perquarant’anni Lingua e letteratura greca. Ha pubblicato, fra l’altro: Elio Aristide, Discorsi sacri, Adelphi, Milano 1984, Il segno e la memoria. Iscrizioni funebri della Grecia antica, Sellerio, Palermo 1992, Ulisse nel tempo. La metafora infinita, Marsilio, Venezia 2003, Ephemeris. Scritti efimeri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, e un’opera di narrativa (Peppe Radar, Sellerio, Palermo 1999). Con questa indagine sulla coltivazione del frumento nei latifondi della Sicilia interna l’autore ha voluto scioglie re un debito nei confronti di luoghi, uomini, animali, piante, atti, parole, gesti, che hanno riempito la sua infanzia e accompagnato la vita intera.
In copertina: Mietitori nella piazza di Villalba (CL) in attesa di ingaggio, anni Cinquanta.
€ 16,00 ISBN 978-88-98865-13-0
W l 9 788898
865130
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© Navarra Editore - Sicilia M arsala - Via Calogero Isgrò 6 - Tel/Fax + 3 9 .0 9 2 3 .7 1 9 7 9 6 www.navarraeditore.it info@ navarraeditore.it Impaginazione e copertina: Stefania Bonura progetto grafico per le immagini: René Vingon Stampa: Global Print, Milano Finito di stampare nel m ese di novembre Edizione 2014 ISBN 9 7 8 -8 8 -9 8 8 6 5 -1 3 -0 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o utilizzata sotto altre forme, elettroniche o m eccaniche, inclusa la fotocopia o la ricerca, senza il perm esso scritto dell'editore
In copertina: Mietitori nella piazza di Villalba, anni Cinquanta (vedi TAV. 57)
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Gramsciana. Il presente la memoria, collana dell’Istituto Gram sci Siciliano diretta da Salvatore Nicosìa
Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato regionale dei Beni culturali e dell’identità siciliana
Salvatore Nicosia
PANE AMARO La coltivazione del frumento nei latifondi della Sicilia interna
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Navarra Editore
Indice
Premessa
9
Introduzione
11
1rapporti sociali di produzione
13
Il tempo della semina (//' simìanti)
25
Lavurari Siminari
25 29
Dalla semina alla raccolta
35
Il tempo della raccolta (la stasciuni)
41
Mètiri Pisari
41 48
Glossario
67
Documentazione fotografica
77
Lambiente, l’uomo e il lavoro Appendice 1: Strade e abitazioni contadine in paesi agricoli negli anni Cinquanta e oltre Appendice II: «Occupazione delle terre» in undici tempi Appendice III: Ciclo del frumento nella Toscana del XIV sec. Appendice IV: Ciclo del frumento in Egitto (lll-ll millennio a.C.) in nove tempi Crediti fotografici Bibliografia delle foto
81 215 229 243 247 257 261
a mio padre e a tutti i contadini del «Vallone» i pochi rimasti, i molti fuggiti
Premessa
Questo libro costituisce, con poche e non sostanziali modifiche, la riedizione del saggio La coltivazione tradizionale del frumento nei latifondi del «Vallone», pubblicato nel volume miscellaneo La cultura materiale in Sicilia, Atti del I Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo 12-15 gennaio 1978), Palermo 1980 (Quaderni del Circolo semiologico siciliano, 12-13), pp. 205-273. Al tempo della composizione (fine degli anni Settanta) conti nuano perciò a riferirsi tutte le indicazioni temporali in esso contenute. A parte raggiunta di qualche nota, le modifiche riguardano sostanzialmente i testi in siciliano (quasi sempre re gistrati a suo tempo dalla viva voce di contadini) che ora sono accompagnati dalla traduzione italiana, e Vampliata documentazione fotografica, che ha portato le 14 immagini originarie alle attuali 166. Forme di vita e di lavoro che già negli anni Settanta rappresentavano una realtà residuale, hanno intanto avuto tempo e modo di scomparire del tutto: senza suscitare rimpianti., se non ipocriti e mistificatori. La distanza - anche linguistica - ormai incolmabile da quel mondo ha suggerito di conservare l'efficacia espressiva della parlata siciliana, ma anche di facilitarne la comprensione attraverso la resa italiana. Sul tema di cui ci occupiamo, la documentazione fotografica che è possibile racimolare qua e là è frammentaria, occasionale, desultoria. Processi lavorativi mantenutisi inalterati per millenni non hanno avuto l'onore di una com pleta documentazione visiva con nessun mezzo e in nessuna epoca, nemmeno quando l'impiego di un procedimento semplice, diffuso e accessibile come la fotografia lo rendeva ormai possibile. Tanto più isolato e meritorio appare perciò lo straordinario Ciclo del pane di Gianbecchina, il grande pittore di Sambuca di Sicilia (1909-2001) che volle, in numerose tele (dal 1955 al 1981), «testimoniare quanta fatica, nel corso delle stagioni, costi il pane quotidiano agli uomini della terra». Dall'interno di quel mondo non cera naturalmente da aspettarsi nulla in materia di autodocumentazione: e non tanto per l'estraneità della fotografia a quel contesto sociale, o per l'atavica avversione contadina nei confronti dell'im magine devitalizzata, quanto piuttosto per l'assenza di una qualsiasi consapevolezza di svolgere un lavoro che valesse lapena di essere 'immortalato': come se si potesse mai voler conservare la memoria di atti che si compiono ogni giorno, e che rinserrano, nella loro ripetitività, la normalità stessa dell'esistenza. Quel poco che abbiamo si deve a interventi esterni: grandi fotografi artisti come Nicola Scafidi da Palermo, André Martin venuto qui in Sicilia dalla Normandia, Melo Minnella da Mussomeli, Enzo Brai da Palermo, il quasi ignoto Salvatore Trajna da Cammarata, cui si aggiunge in fase ormai terminale Gaetano Pagano da Palermo, hanno fissato, con acuta sensibilità antropologica e sociologica, momenti importanti di queWattività lavorativa, e qualche sindacalista 'colto ha lasciato qualche immagine delle lotte contadine per la terra. Ma si tratta pur sempre di una documentazione parziale, limitata ad alcuni momenti appariscenti (l'aratura, la pisataj e mai sistematicamente perseguita, che lascia
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Pane amaro
fuori aspetti importanti di quei processi lavorativi e della vita ad essi connessa: non mi è mai capitato di vedere, per esempio, una foto della spigolatura,, che pure era segmento isolato di un imponente fenomeno sociale; o della fila di ottodieci muli guidati dal vurdunaru per il trasporto nei magazzini padronali del grano raccolto; o del mucchio di grano al centro dell'aia (e dei contadini in contemplazione, come 'm iracolati) nel momento conclusivo delVarmuale fatica. Abbiamo perciò pensato di stampare un buon numero di fotografie, raccolte di qua e di là, aWoccorrenza sopperendo a ll indisponibilità di immagini di quel tempo (dagli anni Quaranta alla fine dei Sessanta) e di quello spazio (la Sicilia del latifondo) con altre di poco anteriori o posteriori, o provenienti dalla Sardegna e daWltalia meridionale, e persino dalla Grecia moderna: a condizione che lefasi lavorative fossero, pur in contesti spazialmente o temporalmente distanti, esattamente identiche. Del resto, tanto per dire un'idea della tenacia spaziale e temporale di queste forme del lavoro, abbiamo stampato in Appendice e talvolta accanto alle foto, a riscontro, immagini fratte da pitture egiziane del uni millennio a.C., e dal Buon Governo (1338-1339), il grande affresco civico e laico di Ambrogio Lorenzetti a Siena. D i tutte questefotografiey alcune inedite e casualmente reperite, altre invece notissime, abbiamo spesso subordinato la cattiva qualità alla forza documentaria: purchéfossero autentiche testimonianze di verità. Se non altro, per mostrare quanto l'im magine dellagricoltura siciliana, e in generale meridionale, ricavabile dalla documentazione dell’«Istituto Luce» e della «Settimana Incom», e confluita per esempio in «Europeana», sia propagandisticamente 'progressiva\ mistificante efalsa, non soltanto per i decenni del Fascismo, ma anche per quelli successivi. E per mettere in guardia da un alfro fenomeno: a metà degli anni Settanta, quando quella realtà contadina della Sicilia era ormai —fortunatamente —in via di estinzione, emarginata dall'impiego ancorché tardivo delle macchine agricole e dal trentennale dispiegamento del fenomeno migrato rio, attardati e zelanti fotoantropologi si sparsero per le campagne a cogliere le residuali manifestazioni dì quel millenario processo lavorativo; e quando gli accadde di non trovarle più in atto, non esitarono a riprodurle artificialmente, inducendo i contadini residuali a gesti che dettagli della stessa foto rivelavano palesemente falsi e costruiti. Per non dire del revival degli ultimi decenni: associazioni culturali e proloco paesane e gruppi giovanili alla ricerca di una ormai sva?iita 'identità, dopo aver fatto seminare e mietere a tempo debito un piccolo campo di frumento, organizzano spettacolarmente la fase culminante della pisata, affidando a qualche vecchio contadino sopravvissuto, o reduce da trentanni di Belgio, Germania o Svizzera, il compito di far girare per qualche ora un disorientato mulo lanciandogli cantilene di incitamento, e poi, con l'aiuto di qualche volenteroso, procedere ad annittari il grano: il tutto sotto gli occhi divertiti dei compaesani in cerchio attorno all'aia, e l'occhio attento di una cinepresa affidata al più \tecnico della nuova generazione: casomai, trasferendo l'esauriente video su internet, magari accompagnato da improbabili 'canti della mietitura e dell'aia' direttamente attinti e ‘arrangiati' dalle opere ormai centenarie di Giuseppe Pitrè, si potesse riuscire a persuadere qualche turista a raggiungere quel borgo l'anno successivo, e prender parte a quella 'saga', divenuta ormai appuntamento fisso dell'estate. E proprio all'orrore della manipolazione che si deve la scelta di presentare qui una documentazionefotografica certo incompleta, carente, disegnale, ma almeno garante di assoluta autenticità; e se il testo del 1980, che rispetto a ciò che sull'argomento era stato scritto si caratterizzava per una attenzione minuta ai procedimenti tecnici, quasi del tutto trascurati da Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino a favore del dominante interesse per i canti contadini, i proverbi etc., venga oggi riproposto in tutta la sua filologica seabrezza. Palermo, marzo 2014
Introduzione
Sembra che la sopporrabilità umana nell’essere contadini... sia giunta al suo limite estremo Elio Vittorini, Luomo è stato contadino, «Il Menabò» 7, 1961
Lo spazio geografico dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro qui descritti è costituito dalla parte settentrionale del cosiddetto «Vallone» (Alta valle del Platani), un’area economicamente e culturalmente omogenea comprendente, fra gli altri, i comuni di Mussomeli, Villalba, Vallelunga; il tempo è rappresentato grosso modo dal periodo che va dall'ultima guerra fino agli anni Sessanta inoltrati. Si tratta di una delle tante zone della Sicilia caratterizzate dalla schiacciante egemonia della dimensione di latifondo, come realtà ambienta le oltre che sociale, e dalla coltivazione estensiva e pressoché esclusiva del frumento. AlPinterno di questa strut tura si sono potuti perpetuare nel tempo arcaici rapporti sociali di produzione e tecniche colturali estremamente regredite, il cui quadro è stato sconvolto soltanto in tempi recenti dalle lotte contadine del dopoguerra, dalla sia pur lenta e ritardata diffusione dei mezzi meccanici, ma soprattutto da un continuo flusso migratorio che ha fatto del «Vallone» una delle più cospicue “aree di fuga'. Un vero e reale processo di trasformazione non si è però avuto. Stretti dalPantica fame insoddisfatta e dalle difficoltà economiche i contadini hanno abbandonato la terra cercando altrove più sopportabili condizioni di esistenza, i pochi rimasti conducono una vita misera e incerta, la grande proprietà ha resistito, sia pure ridimensionandosi, alla pressione espropriatrice esercitata dalle masse contadine, e resta incolta, o continua a praticare con l’aiuto delle macchine le colture di sempre. Per tutti questi motivi i sistemi tradizionali di coltivazione qui analizzati sono oggi circoscritti ad alcuni settori della proprietà polverizzata, a zone refrattarie alPintroduzione delle macchine, a realtà contadine precarie: nel complesso un fenomeno, se non proprio sporadico, almeno marginale e in via di estinzione, si spera totale e definitiva. Tecniche e linguaggio sono stati puntualmente verificati nel territorio dei tre comuni citati, e anche in quello di Cammarata, parzialmente gravitante nella stessa area. Le motivazioni degli atti e dei fenomeni sono quelle fornite dagli stessi protagonisti, e un confronto con i dati della scienza agronomica può dare la misura dello scarto esistente fra due culture diverse. Il quadro che ne emerge può, con poche e irrilevanti varianti, considerarsi emblematico e rappresentativo di un tipo di coltivazione, fondamentale nelPeconomia e nella cultura siciliane, nella fase terminale della sua lunghissima storia; ma il particolare contesto in cui esso viene qui delineato - il feudo - mostra fino a che punto la struttura sociale possa condizionare il lavoro contadino, sempre impigliato nella rete delle subordinazioni naturali, ambientali, meteorologiche, e determinare le forme della tecnica e della cultura materiale. Palermo, gennaio 1979
I rapporti sociali di produzione
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Il termine con cui viene designato il latifondo, lufìau “feudo'1, non fa riferimento soltanto alla grande esten sione della proprietà, ma anche alle condizioni ambientali e territoriali che la caratterizzano: l’assenza quasi as soluta di fabbricati e di piantagioni legnose, la deficiente o inesistente viabilità, la scarsezza d’acqua, la mancanza di popolazione residente, i modi peculiari di produzione e di organizzazione del lavoro che ne fanno un mondo remoto regolato da leggi proprie (t a w . 1 -3 ). Nel periodo a cui ci riferiamo il dato fondamentale e determinante di tutto l’assetto sociale è rappresentato dalla concentrazione della proprietà nelle mani di pochissimi “feudatari”2 e dall’esistenza di una enorme massa di contadini (znddrani) per i quali l’agricoltura rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza. La piccola pro prietà coltivatrice, quasi sempre limitata alla fascia che circonda i singoli paesi, e assai frazionata, basta a fornire i mezzi di sussistenza a una parte soltanto del ceto rurale: tutti gli altri gravitano attorno al feudo cercandovi una qualche collocazione, ed è inevitabile che per essi la legge della domanda e dell’offerta determini condizioni di assoluto sfruttamento. Il grande proprietario terriero (lu fiudatàriu o fiatàriu, lupatruni), quasi sempre membro di una nobile famiglia da tempo inurbata, assai di rado si occupa direttamente della gestione dell’azienda agri cola3; più spesso, per l’antica vocazione degli agrari meridionali verso forme speculative di rendita parassitaria, concede l’intero feudo in affitto (ngabbella) a un gabellotto (lu gabbillùatu) il quale gli assicura una rendita annua e assume in proprio ogni potere decisionale nella conduzione dell’azienda (arbìtriu, donde arbitrianti “gabelloto”, “affittuario”). Talvolta il gabellotto si trasforma da intermediario in imprenditore (fari massaria fari In massariùatu) realizzando, limitatamente ai terreni più fertili e più accessibili, una conduzione capitalistica di 1C = Cammarata, M = Mussomeli, Va = Villalba, VI = Valici unga; b. = bburgisi, br. = bracciante, c. = campiere, g. = gabelloto, p. = proprietario, s. = supmstanti. I nessi ddr, tr; ttr , str, hanno nel dialetto di queste comunità un’articolazione cacuminale, h iniziale (o nel corpo della parola, tra due vocali) è una fricativa laringale, hi iniziale è una fricativa palatale; seguito da occlusiva ha un’articolazione prepalatale; g seguito da a, o, «, r, e gh seguito da /, non sono occlusive ma fricative. 2 NelTimmediato dopoguerra la proprietà di estensione superiore ai 200 ettari costituisce il 49% di tutto il territorio di Mussomeli ed è nelle mani dello 0,2% dei proprietari; il 42,6% (0,1%) a Villalba; il 34% (0,5%) a Cammarata; Fi 1,3% (0,01%) a Vallelunga; il 38% nell’intera provincia di Caltanissetta. Considerando la proprietà superiore ai 50 ettari, i dati sono i seguenti: 60,8% (0,6%) a Mussomeli, 52,6% (0,4%) a Villalba, 58,9% (2,2%) a Cammarata, 32,7% (0,2%) a Vallelunga: cfr. F. Pollastri, Sicilia. Notizie e commenti ecologici di agricoltura siciliana, voi. I, La terra, Industrie riunite editoriali siciliane, Palermo 1948, e A. Di Blasi, La proprietà fondiaria nella Sicilia centro-orientale, Edigraf, Catania 1968. 3 «Ccèrami patruna ca la terra manca sapìanu unni si truvava e ccomu si stimpuniava» (s. di VI) “C ’erano proprietari che la terra non sapevano neanche dov’era e come si zappettava”.
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Pane amaro
coltivazioni e allevamento in proprio {a ccuntupròpiu, nconomui) con manodopera salariata, e concedendo a va rio titolo a piccoli coltivatori le parti più periferiche e improduttive del feudo; nella maggior parte dei casi svolge un ruolo di intermediazione parassitaria, limitandosi, senza alcun impiego di capitali, a dividere la proprietà in tanti piccoli appezzamenti {li tinuti) di una o due salme4 ( tav . 4), da subaffittare o concedere a mmi tatari a “a mezzadria”, e lucrando la differenza fra canone di affitto pagato al proprietario e prodotto ricavato in forza dei patti iniqui che riesce a imporre ai contadini (.Lu pidùacchiu mància ncapn la testay lu gabbillìiatu ncapu lu viddranu [b. di VI] “Il pidocchio mangia sopra la testa, il gabelloto sopra il contadino”). Si perpetuano così, malgrado l’intermediazione del gabellotto, le forme arretrate di gestione che sono peculiari del feudo, e la refrat tarietà a qualsiasi processo innovativo nella conduzione della proprietà. Il patto quasi esclusivamente praticato è la mitatarìa, una forma di mezzadria impropria che si risolve in una vera e propria rapina nei confronti del mitatìari. Esso non è regolato da alcun contratto scritto, ma si fonda soltanto sul consenso verbale (mparola:) del proprietario o del gabellotto al quale il contadino si è rivolto per ottenere una tinuta da coltivare {siminarif. Schematicamente, il concedente apporta il fondo e mantiene la fun zione direttiva, il mezzadro fornisce la prestazione di lavoro con mezzi propri, i prodotti vengono divisi a metà; ma una serie di condizioni che affondano le loro radici nell’assetto sociale complessivo, e vengono praticate per lunghissima consuetudine, fanno della mitatarìa un rapporto angarico e vessatorio. La durata del patto viene convenzionalmente commisurata alla durata degli avvicendamenti praticati, ed è quindi, nel caso del frumento, di almeno due anni: il mezzadro riceve il fondo a rristùcciafatta, cioè già coltivato a grano, e si impegna perciò a iniziare la conduzione con la coltura a più bassa resa economica, seminando il primo anno fave o altra leguminosa (fari la favata o la culonna), il secondo frumento; esaurito il breve ciclo, ciascuna delle due parti ha il diritto di rescindere l’accordo, Tuna togliendo, l’altra abbandonando il podere (rispettivamen te livari la tinuta, lassari la tinuta)*3\ ma l’interruzione del rapporto, o la sostituzione dell’appezzamento con un altro peggiore, è una facoltà di cui il proprietario si avvale pretestuosamente per l’insufficienza delle coltivazioni apportate, in realtà a seconda del grado di subordinazione al quale il contadino è disposto a soggiacere: Picchi In bburgisi mi lassava la tinuta? Si nni iava a VAmerica, o li fìiarzi un ci abbastàvanu, o unnavìa muli; cci la livavapi minala coltivazioni, o picchi avìa vìastii scarsi e un ci facìa duri produzioni, o era troppu pnvurìaddru e un putìa fari fruttari la terra, o era macabondo e u Ila lavorava comu è ddi gghiustu, o picchi era malazionàriu e ymnarrubbava (p. di VI). 4 Una salma {sarma) si compone di 16 tunioli. Come misura di superficie il tumolo (tumminu ) varia da una zona all’altra della Sicilia: equivale a m2 1.675 a Cammarata, 1.394 a Vallelunga e Villalba, 2.125 a Mussomeli; come misura di capacità equivale, nel caso del frumento, a 14 kg. ' Siminari è usato assolutamente nel significato di “coltivare la terra”, “realizzare un intero ciclo produttivo”, con riferimento esclu sivo al frumento; per es.: «Siminàiu ottanni aWArmerita» (VI) “Ho seminato per otto anni all’Annerita”; «M ’arritravu e auannu un siminu cchiù» (C) “Mi sono ritirato, quest’anno non semino più”. 6 Ciò deve avvenire entro il 1 5 agosto; ma anche nel caso in cui il rapporto continua, da quella data fino alFinizio dei lavori per il nuovo anno (circa il 15 settembre), il mezzadro non ha alcun diritto sulla tenuta, e il pascolo secco è di esclusivo godimento del proprietario (t a v v . 5- 6 ).
I rapporti sociali di produzione
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“Perché il borgese mi lasciava la tenura? Se ne andava in America, o le forze non gli bastavano, o era troppo povero e non era in grado di far fruttare il terreno, o era vagabondo e non lo lavorava come si deve, o perché era malfattore e mi rubava il prodotto”.
Avia chi bburgisi ca un ni li putìa vìdiri picchi èranu comunista, e UatrU c ttinti di cortivari; lu patri era bhuanu , avia statu tantanni uni mia, li figli mmeci arriniscìaru comunista, maliculti vatura, lagnusi, indiami spàrtiri Vària cu li quinti e min quinti; nzumma , tantu fici, tantu dissi, ca li ittàiu fora (g. di VI).
“Avevo due borgesi che non li potevo vedere perché erano comunisti, e ladri, e scarsi come coltivatori; il padre era persona per bene, era stato tanti anni nella mia proprietà, i figli invece riuscirono comunisti, malicoltivatori, sfaticati, volevano dividere l’aia con i quinti [secondo i decreti Gullo del 1944, cioè 3/5 al coltivatore e 2/5 al proprietario]: insomma, tanto feci, tanto dissi, che alla fine riuscii a cacciarli fuori dalle tenute”.
Il proprietario anticipa la semente nella misura convenzionale, e insufficiente, di un tumolo per ogni tumolo di terreno (tùmminupi ttùmminu), e ne ottiene in estate la restituzione dall’aia nella misura intera, o al 50%, a secon da dei casi e degli accordi (rispettivamente cu tutta la simenta, e cu la menza simenta)1\ grava invece esclusivamente sul mezzadro, anche se va a beneficio comune, e talvolta viene restituita con gli interessi, la quantità di semente che egli ha dovuto utilizzare in più (la simenta supìarchiu) per l’insufficienza dei rapporto convenzionale e forfettario fra superficie e semente, e per l’abituale approssimazione per eccesso dell’estensione dichiarata rispetto all’estensione reale della tenuta. Rientra nella consuetudine di tutti i feudi la possibilità per il mezzadro di far ricorso in tutti i pe riodi dell’anno ai magazzini padronali e ottenerne prestiti in frumento {lu succursu) per avviare il ciclo produttivo, per le spese di gestione e spesso anche per le necessità della propria sussistenza; queste somministrazioni di sussidi vengono restituite, sempre nell’aia, con un interesse {la valuta, lu tràsitn, lu trasùrhi) di quattru tùmmina a ssarma (25%), anche nei casi in cui il prestito abbia avuto luogo poche settimane prima della restituzione. Il circolo vizioso “soccorso-restituzione con gli interessi-nuovo soccorso” si risolve in una perpetuazione dello stato di soggezione: Lu succursu ni rrovinava, picchi lu patruni misurava cu ddru tumminiaddru ni cu, e nnaWària si lu pigliava cu ddru tùmminu granni, e ccu ll’interessi, e a lu bburgisi un ci arristava nenti; appena accuminciava natra annata , ad aùstu èramu ggià tutti muarti di fami, e gghiàvamu arrìapi ssuccursu (b. di Va). “Il soccorso ci rovinava, perché il padrone ce lo misurava con quel piccolo tumolo, ma nel l’aia se lo riprendeva con quel tumolo grande, e con gli interessi, e al borgese non gli restava niente; appena cominciava un’altra annata, ad agosto eravamo già tutti morti di fame, e andavamo di nuovo a chiedere soccorso”.
In conformità ad alcune direttive della politica agraria autarchica del Fascismo (la cosiddetta «battaglia del grano», dal 1925), il proprietario impone di seminare a ssurcu e non a spàgliu (vedi pp. 29-30); quest’obbligo comporta l’assunzione di un sistema a più alta resa produttiva ma anche di più complessa e laboriosa realizzazio ne; ma poiché la manodopera viene a cadere interamente sul mezzadro, mentre il proprietario ne ricava soltanto i vantaggi, si comprende bene come le direttive impartite dal Fascismo siano state imposte anche nei decenni successivi alla sua caduta. Gravano ancora sul mezzadro il pagamento dei contributi unificati {li contribbuti) che ' E rarissimo che la semente sia a tutto carico del padrone {a ssimentapersa); i concimi chimici {la chimica) sono di solito anticipati dal proprietario e per metà pagati dal mezzadro (la menza chimica).
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il proprietario versa assai di rado8, la ricompensa per la Vigilanza prestata dal campiere {la camperìa) in ragione di uno o due tumoli per ogni salma di terreno, e talvolta anche la cannila* e la missa, cioè due-quattro tumoli per il prete che la domenica viene a celebrare la messa nella cappella della masseria, versati indipendentemente dalle convinzioni religiose del mezzadro. Ma al di là di questi rapporti giuridici o convenzionali10, la subordinazione economica comporta spesso altre forme, più violente, di sopraffazione: Pui vulìvami li fìm m ini vide mputiri; pp un si fari livari lu tirrenu, unu cci avìa ddari la figlia o la muglieri; nnapprufittàvanu puru li campera, e a ura di la spartenza di Pària quarchi ccosa cci la facìanu arranciari. Chiddri ca tirammu drittu, ca un ci niscìa nenti di corna, nenti narristava, Li sula tradenta. ìaramupèggiu di li schiavi (b. di C )u .
“Poi volevano avere pure le donne in loro potere; per non farsi togliere il terreno, uno gli doveva dare la figlia o la moglie; ne ap profittavano pure i campieri, e al momento della divisione deH’aia un po' di prodotto in più glielo lasciavano. Quelli che tiravamo dritto, che non ci usciva niente in fatto di corna, niente ci restava, il solo tridente. Eravamo peggio degli schiavi”.
Assai più raro è il rapporto di tirraggerìa, una forma di affittanza coltivatrice nella quale il proprietario conce8 «Li contrihbuti lipaàmmu ntiWàriaf ma li cumuli, cu ttuttu ca era liggi, u Ili virsàvanu mai» (b. di C) “I contributi noi li pagavamo nell’aia, ma i cornuti, con tutto che c’era la legge, non li versavano mai”.
«Cinquanta mitatìari paamu pi ttrentanni li contribbuti pi la vicchiàia; lu propietàriu si paava la funnuàriay e quannu ìamu pi la vicchiàia, aWufficiu un ci rrisurtava nenti» (b. di Va) “Cinquanta mezzadri pagammo per trentanni i contributi per la vecchiaia; il
proprietario con quei soldi si pagava le tasse fondiarie, e quando noi andammo per la pensione di vecchiaia, all’ufficio non gli risultava nessun pagamento”. 9 In molti feudi i contadini hanno la possibilità, in certi periodi di intensa attività agricola, di pernottare tutti insieme con i propri muli in un grande fondaco della masseria, e di sottrarsi così al disagio del trasferimento quotidiano dal centro abitato al podere. Cia scuno dispone di un posto di mangiatoia ( nanìaddru “un anello”) per il mulo, e di un giaciglio improvvisato per trascorrervi la notte: «Cinquanta-sissanta mizzatri scuràvanu nsèmmula a li muli mia ddru gran ni funnacu; li puvurìaddri si manciàvanu un pìazzu di pani , senza pasta ne nnenti, e ddurmìanu mmìanzu lu friddu ncapu ria gghittèna, o ncapu li petri cun pugnu di pàglia » (s. di VI) “Cinquantasessanta mezzadri pernottavano insieme ai muli in quel grande fondaco; i poveretti si mangiavano un pezzo di pane, senza pasta né niente, e dormivano con tutto quel freddo sopra un sedile di pietra, o sopra le pietre con un po’ di paglia”. All'illuminazione del fondaco provvede il proprietario con una lucerna di zinco (la cannila), ricevendo in estate come ricompensa per il gasolio {l’arsòliu) fornito un tumolo di frumento da ogni mezzadro {lu tùm m inupi la cannila). Il fenomeno del pernottamento collettivo, assai comune in passato, è divenuto via via sempre più raro fino a scomparire del tutto neirimmediaro dopoguerra. 10 Come si vede, questo rapporto ha poco o nulla a che fare con il patto di mezzadria classica, secondo il quale il concedente deve affidare il fondo dotato di una casa idonea all’abitazione, conferire le scorre e le macchine agricole, anticipare senza interessi le spese di gestione, annotare i debiti e i crediti nelle due copie del libretto colonico, ere., mentre da parte sua il mezzadro deve risiedere stabil mente nel podere. Ma la differenza fondamentale consiste nel fatto che la mezzadria vera e propria prevede una distribuzione del lavoro il più possibile uniforme durante l’anno, e cioè una consociazione della coltura erbacea con quella arborea; nella mitatarìa invece la monocultura toglie al rapporto ogni carattere sia pur vagamente imprenditoriale. M «La sira quannu narricampammu a la massarìa cci purtammu la virdura e Wova, cci avìdimu còciri la pasta, lavàricci la pignata , dàricci la pàglia a la iumenta, limpiàricci la staddrat comu tanti garzuna» (b. di C) “La sera, quando ci ritiravamo alla masseria, gli portavamo la verdura e le uova, gli dovevamo cuocere la pasta, lavargli la pentola, dare la paglia alla giumenta, pulirgli la stalla, come tanti servi”.
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de al contadino (lu tirraggìari), dietro deposito di una cauzione, uno spezzone di terra in cambio di un canone annuo in frumento (lu tirràggiu) variabile secondo i patti e la qualità del terreno, ed espresso dalla formula a ttri, a quattru tirraggi (cioè tre o quattro salme di frumento per ogni salma di terreno coltivato). Le potenzialità di piccola imprenditoria presenti in questo tipo di rapporto vengono di fatto vanificate dalla tirannia del frumento, e dalFimpossibilità di coltivare altri prodotti nelle zone concesse a terratico. Pur con questi limiti, il contadino conserva in questo caso una maggiore libertà di gestione, e si sottrae a tutti i condizionamenti e le angherie implicite nel rapporto continuo con il proprietario; ma la feroce avversione della proprietà latifondistica12 e la precarietà economica della condizione contadina, propensa piuttosto a dividere i rischi della coltivazione che non ad assumerli in proprio, sono alForigine della limitata diffusione di questo tipo di patto: Si mmi piglili um piazza di tirrenu a ttirràggiu, e bbeni na malnnnnta , mi cunzumu; mmeci a mmitatarìa, si nni fa ni lu spartìammu, sun ni fa, nenti (b. di C).
\Se prendo un pezzo di terreno a terratico, e viene una malannata, sono rovinato; se invece lo prendo a mezzadria, se ne produce ci dividiamo il prodotto, e se no, niente”.
Lu bburgisìaddru dicìa: “M i ptgliu na tinuteddra nni don Turiddru , ca armenu cci priamu tutti dui a lu Signuri ca ni fa arricampavi quarchi cosa”. Ess'accuntintava (p. di VI). “Il piccolo borgese diceva: ‘M i piglio una piccola tenuta da don Turiddru, così alm eno siamo in due a pregare il Signore che ci faccia raccogliere qualcosa. E si accontentava”.
Si l’a nnata vinta bbona, viva lu tirraggìari! pagava lu tirràggiu e la produzioni si la purtava intra; ma siddru un ni facìa, lu tirràggiu avìa affacciari, lu patruni cci facìa vìnniri li muli , cci livava la casa e ssi nni putìa iri a ddimannari (c. di VI).
“Se l’annata veniva buona, viva il terraggiere: pagava il terratico, e il resto della produzione se la portava a casa; ma se la terra non produceva, il terratico da qualche parte doveva spuntare, il padrone lo costringeva a vendere i m uli, gli toglieva la casa, e poteva andarsene a chiedere l'elemosina”.
11 coltivatore deve possedere, o procurarsi, tutti i mezzi e gli strumenti della produzione - «lu patruni mittìa sulu lu tùmminu» (b. di VI) “il padrone ci metteva solo il tum ulo” - e la sua posizione varia in rapporto alla con sistenza di questi, e alla disponibilità di forza-lavoro. Chi possiede un certo numero di armali (vacche e buoi) e vìastii (muli, cavalli, asini)13, e dispone di una notevole quantità di manodopera nell’ambito della famiglia, è in grado di organizzare in tutte le sue fasi, e di condurre a termine, tutti i cicli produttivi compatibili con una note vole estensione di terreno; questo bburgisi abita stabilmente in campagna con tutta la famiglia, o almeno con i figli maschi, e pur dedicandosi principalmente airattività fondamentale della coltivazione del grano, pratica su scala 12 Significativo è Patteggiamento di Lucio Tasca, grosso proprietario della zona: «La pietosa forma di locazione che è detta terraggio [...] ha avuto come conseguenza il polverizzamento delle aziende, e ha affidato l'agricoltura a una classe inesperta e ignorante, misera e misoneista» (L. Tasca Bordonaro, Elogio del latifondo siciliano, Ires, Palermo 1943, p. 11). 13 II termine vìastii designa nel dialetto della zona esclusivamente gli equini, mentre armali, pur conservando il significato generico, si applica in particolare ai bovini e agli ovini. Insomma, muli cavalli e asini sono “bestie”, buoi ovini e caprini sono “animali”. Per l’assoluta prevalenza dei muli nello svolgimento dei lavori agricoli, ci capiterà spesso di far riferimento a “muli” intendendo “equini” in generale.
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ridotta l’allevamento degli animali da latte e da cortile, e ha quindi con il proprietario rapporti economici più vari e articolati14. Ma nel panorama complessivo dei rapporti di produzione che vengono a instaurarsi nella struttura latifondistica, più comune è la figura del contadino che possiede una coppia di muli, o anche uno solo, e coltiva a mezzadria una piccola tenuta risiedendo stabilmente in paese. L’insufficienza dei mezzi di cui dispone questo tinutaru e la necessità della collaborazione fra due persone in certe fondamentali attività agricole (seminare, treb biare), sono airorigine della costituzione di “società” (nzimmulati) che si realizzano fra due tinutara neU’ambito del parentato o della cumparanza “comparatico”, e sono limitate al solo scambio reciproco della manodopera senza comportare quasi mai la divisione dei prodotti. Profonde ragioni di ordine sociale, economico, ambientale (assetto della proprietà, insicurezza nelle campagne, presenza o meno di pascoli, etc.) sono alForigine della netta prevalenza, in determinate zone, dell’uno o dell’altro rapporto15. Bburgisi e tinutara instaurano nel feudo, in forma più o meno precaria, un rapporto di produzione. Ma la gran de massa dei senzaterra non riesce a trovarvi una collocazione stabile: sono i contadini più diseredati, quelli che dispongono soltanto della forza della loro braccia, e sono privi persino dei più elementari strumenti della produ zione. Alcuni, pur non potendo contare sull’aiuto degli animali per la lavorazione della terra, riescono in qualche caso a ottenere una tenuta nel feudo, e arrischiano la conduzione di un ciclo agrario realizzandolo con la sola forza delle loro spalle e della zappa {li spaddralùarì)Hì\ tutti gli altri costituiscono una massa enorme che esercita una co stante pressione sul mercato del lavoro, alla ricerca continua di un inserimento come salariati annuali {annalùari o addrn(v)ati ad amili), stagionali (misalùari), e più spesso giornalieri (iumatara), talvolta anche come personale di fatica addetto alle più varie mansioni [garzuna)\ condannati a lunghi mesi di disoccupazione dalla uniformità della coltura che concentra in tre soli periodi dell’anno tutte le attività agricole, vittime della più spaventosa emargina zione sociale17, i braccianti realizzano nel complesso un’offerta pressante che li pone alla mercé dello sfruttamento e 14 La denominazione di bburgisi implica questo complesso di condizioni ma prescinde dalla proprietà o meno della terra coltivata. L’ambito del suo significato si è progressivamente dilatato fino a includere anche il piccolo proprietario o mezzadro o affittuario a qual siasi livello; ciò che lo caratterizza è piuttosto la capacità di organizzare il ciclo produttivo del frumento, sia pure con mezzi modesti, e in questo senso si contrappone alla bruta prestazione di manodopera del bracciante agricolo, escludendo nel contempo il piccolo proprietario che coltiva un appezzamento a coltura specializzata. ]m>La stanzialità del bburgisi in campagna è comunissima a Cammarata e Mussomeli, praticamente inesistente a Vallelunga e Vil lalba. 16 Lu spaddralùaru stipula di solito un accordo detto a la rrafjadalisa\ riceve il campo già seminato, e si impegna a svolgervi tutte le coltivazioni in cambio di una parte del prodotto, che va da 1/5 a 1/7, secondo i casi. 17 «Nni la chiazza di Villalba li bbraccianti passiàvamu cu li bbraccianti a la parti di slitta, li bburgisi (tutti curuna, chiasa ogni ninnitina, cuminioni) mia lu niìanzu , li proprietari cu li mafiusi ncapu lu marciapedi; unu di nuatri un si putiva fari zzitu cu na figlia duri bburgisi: “A mina figlia cce ddari ssu mortudifamuni, ssu scavusunazzu, ssu iurnatarazzu tintili”» (br. di Va) “Nella piazza di Villalba noi braccianti passeggiavamo con i braccianti nella parte inferiore, i borgesi (tutti corona, chiesa ogni mattina, comunione) nella parte centrale, i proprietari con i mafiosi sopra il marciapiede; uno di noi non poteva farsi fidanzato con una figlia di borgese: ‘Io debbo dare mia figlia a questo gran mortodifame, a questo pezzente, a questo giornaliero da tre soldi!’, diceva il padre”. Il bracciante che così chiaramente coglie l’assetto sociale della piazza di Villalba riesce assai più efficace di Carlo Levi: «Questa piaz za è dunque come il palcoscenico di un teatro di tragedia dove dall’alba alla notte si mostrano i protagonisti: il popolo, i re, i tiranni,
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del ricatto. Per tutti18, la concentrazione della proprietà e la struttura sociale creano condizioni di miseria estrema: Trnvngliàiu sissant amii contu riarmali; mi mitìa lu lauri sulu , mi hi zzappava suiti, un catiuscia ne jfesta ne ssimarni, cci pirdìa Vèssiri, ma mi ittàiu sutta l'interessi, e llustru un mi nni putìa vìdiri mai; na manciata di pani sana un mi la potti fari mai (b. di VI).
“Ho lavorato sessant anni come una bestia; mi mietevo il grano da solo, me lo zappavo da solo, non distinguevo né feste né giorni feriali, ci ho perduto l’essere mio, ma mi misi sotto gli interessi, e luce non ne ho potuto vedere mai; una mangiata di pane com pleta non me la sono potuta fare mai”.
Si travagliava fina ottantanni, e ssempri muarti difam i èramu; ccera la gnoranza, ogni famìglia avi va novi-deci figli, e ddi nichi-nichi si nni ìvanu a ggarzuna, scola unnavìvamu, stàvamu riti li staddri, vìastii, gaddrini, crapi, piiarci e coristiani; ora ca pìgliu vinticinquinila Uri dipinzioni mi sìantu un prìncipi (b. di Va). “Si lavorava fino a ottantanni, e sempre morti di fame eravamo; c’era l’ignoranza, ogni famiglia aveva nove-dieci figli, e già eia bam bini se ne andavano a garzone in campagna, scuola non ne avevamo, e abitavamo nelle stalle, muli, galline, capre, porci e cristiani; ora che prendo venticinquemila lire di pensione, mi sento un principe”.
L’ordinamento colturale prevalente si impernia su una rotazione triennale detta tirzirìa. Il feudo viene diviso in tre parti e coltivato secondo questo sistema di avvicendamento: I anno Il anno III anno
I parte
II parte
III parte
frumento pascolo fave
pascolo fave frumento
fa v e V) frum ento pascolo
Poiché il terreno incolto (tirrùazzu) adibito a pascolo rimane sempre di esclusivo godimento del padrone (a ccuntu di lu patruni), ne consegue che il contadino coltiva ogni anno, per l’intero ciclo triennale, due tenute su tre diverse e distanti fra loro. Alla precarietà del rapporto convenzionale si aggiunge così una precarietà inerente al sistema di rotazione comunemente praticato20: questa instabilità, del rapporto e del lavoro, che costringe il contadino a cambiare perpetuamente la terra che coltiva, Tuniformità della coltura che richiede la sua presenza gli uccisori e il coro, i servi e gli dèi, e tutte le possibili vicende vi si consumano nei passi e nei gesti e nei simboli della vita quotidiana» (Carlo Levi, Introduzione a [Michele Pantaleone, Mafia e politica , Einaudi, Torino 1962). 18 Le distinzioni fra le varie categorie spesso non sono rigorose, per il cumulo di più funzioni nella stessa persona: piccoli proprietari coltivano anche una tenuta a mezzadria, piccoli bburgisi e tinutara all’occasione prestano la loro opera come salariati giornalieri (in a gghiurnata), e cosi via. 10 Li coltivazione delle fave (o di altra leguminosa da granella) ha sostituito quasi dovunque, nel dopoguerra, il maggese vuoto (la maìsa nuda o netta), consistente in una preparazione del terreno per mezzo di successive arature in tutti i periodi dell’anno (tirzirìa di maìsa). 20 Più rara è la quarterìa, una rotazione quadriennale che si distingue dalla tirzirìa soltanto per la coltivazione del frumento in due annate consecutive (rringranu o ncapu ristùccia); il contadino coltiva in questo caso ogni anno tre tenute (due a grano e una a fave), mentre la quarta a pascolo rimane sempre al proprietario.
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in campagna soltanto in determinati periodi dell’anno, e, dall’altro lato, il tradizionale assenteismo dei grandi latifondisti, hanno di fatto impedito la creazione di quel tanto di infrastrutture (abitazioni, pozzi, piantagioni arboree)21 capaci di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori22. Il rapporto di produzione ferma così nel tempo quell’aspetto ambientale di distesa sconfinata priva di case, di alberi, di acqua, che è peculiare del feudo ( tavv . 7 -8 ) e che incide pesantemente sul lavoro contadino23. Per tutte queste carenze, e per le condizioni di insicurezza determinate dall’alta miseria e mafiosità della zona, i contadini, fossero mezzadri o piccoli proprietari, hanno sempre preferito ammassarsi nei grossi e poveri centri abitati (tav . 9), spesso in case malsane e in totale simbiosi con animali domestici di ogni tipo (vedi Appendice fotografica I: Strade e abitazioni), e recarsi quotidianamente a dorso di mulo nella tenuta, affrontando il disagio di un incredibile prolungamento improduttivo della giornata lavorativa, e limitando il rapporto con la masseria padronale a qualche rapida visita per prelevare la semente e il soccorso. E se i modi della produzione hanno reso indispensabile la residenza stabile e permanente in campagna per via dell’impiego di bovini nella lavorazione della terra, i contadini sono stati costretti a rifugiarsi, con tutte le conseguenze che ne derivano, ai margini della casa padronale24. In molti feudi, soprattutto in territorio di Cammarata e Mussomeli, tutti i bburgisi abitano stabil mente (fari rressa) in grandi capanne coniche di paglia {lipagliara) costruite tutt’attorno al caseggiato padronale. Il pagliaru, alla cui costruzione da parte del contadino è subordinata l’assegnazione della tenuta, non è in questo caso un rifugio provvisorio (tav . 13), ma un’opera complessa che serve all’abitazione degli uomini e degli animali, e ha perciò dimensioni insolitamente grandi; sorge su una base rettangolare (più raramente circolare) costituita da un muro a secco {hi zzàccami), è provvisto di porta, ed è talvolta diviso in due ambienti; in esso il contadino trascorre l’intero anno, spesso con tutta la famiglia, in uno stato di isolamento e di passività culturale23; lì tiene le 21 La coltivazione di alberi e ortaggi è impedita dalla periodica (e annuale) destinazione a pascolo di ogni zona del feudo. 22 «Tu ca cci ivi affari la tinuta conni ppi ddeci anni comu pp’un annu , un ci putivi fari li casi» (b. di C) “Tu che prendevi una tenuta per un periodo che poteva essere di dieci anni o di uno solo, non potevi costruirci la casa”. « Unu un putìa diri: “Cce luacchiu di l'acqua, cci scavu puzzu, o puru cbiantu àrvuli, o ccifazzu na stanzia , picchi Vamiu chi vvinìa cci avìanu a gghiri lipìacuri, epua bhasta ca cci dicìanu: “ Viditi ca la tinuta um mi lapiiazzu dari cchiu \ dittu effattu cci la livàvanu» (p. di VI) “Uno non poteva dire: ‘C ’è una vena d’acqua, ci scavo un pozzo, oppure pianto alberi, o ci costruisco una casupola, perché l’anno successivo ci dovevano pascolare le pecore, e poi, basta che i padroni gli dicevano: ‘Guardate che la tenuta non ve la posso dare più, detto fatto gliela toglievano”. 23 La desolazione del feudo è dovuta precisamente a questa rotazione delle colture. Goethe la attribuiva invece alla volontà di non sottrarre al frumento nessuna porzione, benché minima, di terreno: «Il terreno dedicato al grano e all’orzo è così intensamente sfrut tato e risparmiato che non si vede mai un albero; perfino i piccoli agglomerati di case e i casolari si trovano tutti sul dorso delle colline dove una sequenza di rocce calcaree rende comunque il terreno incoltivabile» {Viaggio in Italia , Caltanisetta 28 aprile 1787). In realtà gli stessi “agglomerati di case”, cioè le masserie (vedi oltre, pp. 21.-22), sono collocati sulle alture per esigenze di controllo e dominio del territorio; e “i casolari”, avendo l’aia vicina, debbono di necessità collocarsi sulle alture. 24 La residenza stabile in campagna, in case indipendenti dalla masseria, è in Sicilia fenomeno assai raro (tavv. 10-12). 25 «Cci stamynu armati sani. Partìammu lu Inni matina, ni purtàmmu ognunu ùattu pani, la pasticeddra, luagliu, lu sali, Tarsòliu, la sira im i
cucìammu e mmanciammuy ccu ddra cannila di lanna li naschi naddivintàvanu comu un fumalùaru di tremi; cu sì cu no cci ia lu sàbbatu a lu paìsi ppi ppigliari lu pani e la miitanna ppi ttutti, ca macari unu ci avìa na casa bbona e era priva di dòrmicci pirchì avìa ccircari lu pani
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galline e altro animale m inuto26, gli attrezzi di lavoro, l ’a rmali e li vìastii durante Pinverno (taw . 14-18); nelle sue vicinanze, in estate, spiana Paia e batte il frumento, e alla fine innalza il tipico bbùrgiu per preservare dalla pioggia la paglia e il fieno destinato agli animali. Cinquanta-centopagliara sorgono perciò tutt’attorno alla masseria, cia scuno con il suo bbùrgiu11 (taw . 19-20), e tutti gli atti della vita del bburgisi si svolgono così sotto Pocchio vigile del padrone o dei suoi rappresentanti. Quel tanto di vantaggio conseguito con la creazione di questa elementare forma di vita associata (il non isolamento, la vicinanza alle scorte e all’acqua, la possibilità di lasciare gli attrezzi, la difesa reciproca, la solidarietà degli altri bburgisi in caso di sopravvenuta necessità), viene pagato con la soggezione a una forma facilitata ed emblematica di controllo, e col disagio di dover raggiungere ogni mattina, con attrezzi e animali, la tenuta che può distare, se periferica, diversi chilometri dalla rressa2H. Il centro coordinatore di tutta questa complessa organizzazione è la masseria (la rnassarìa, li casi, li casi gratini), unica forma di insediamento rurale qui conosciuta29, ed espressione emblematica della struttura economica pre dominante. Collocata su una altura in posizione di solito centrale e dominante rispetto alla estensione del feudo, è costituita da una serie irregolare di costruzioni gravitanti attorno a un atrio quadrangolare (lu bbàgliu) dotato di una sola grande apertura (taw. 23-26); vi si distinguono le stanze (perlopiù al piano superiore) riservate al proprie tario, sempre chiuse in sua assenza, altri vani per l’abitazione dei dipendenti, i magazzini per le scorte (// magasi), le stalle per gli animali, la nibbatterìa o rrubbitterìa (vedi oltre), il forno per il pane, e nelle vicinanze i grandi bburgi di paglia e di fieno. Questo tipico prodotto del regime fondiario latifondistico non è mai nucleo di attività produttiva, ma piuttosto deposito di scorte, dormitorio e centro di irradiazione del controllo su tutto il territorio circostante. Vi abitano saltuariamente il proprietario e il gabelloto, stabilmente i vari dipendenti: l’amministratore dirigente (lu suprastanti), i campieri (li camperò), lu curàtulu di l'arata, responsabile tecnico delle coltivazioni fatte in pro prio dal proprietario, lu curàtulu dì la mànnira, responsabile dell’allevamento e della produzione dei latticini (lu cumpanàggiu), lu rribbattìari (o rrubbittìari o rribbuttìari) addetto all’amministrazione minuta, come la fornitura a lafamìglia; quannu mi chiamarti surdatu e gghìvu a Ccammarata, mancu sapìa beddru pulitu unii è cchi abbitava ma mairi-» (b. di C) “Ci
stavamo annate intere. Partivamo il lunedì mattina, ci portavamo ognuno otto pani, un po’ di pasta, Folio, il gasolio, la sera cucinavamo e mangiavamo, con quella lucerna di latta il naso ci diventava nero come un fumaiolo di treno; sì e no si andava al paese il sabato, a prendere il pane e la biancheria pulita per tutti, che magari uno aveva una casa buona ma non poteva dormirci perché doveva cercare il pane per la famiglia; quando mi chiamarono militare e andai in paese a Cammarata, quasi quasi non sapevo neanche dove abitava mia madre”. 2(1La possibilità di questo piccolo allevamento si traduce, per il padrone, in offerte settimanali di polli, uova, formaggio, etc. (rrigalìi). 2 Le tracce evidentissime di questa forma di insediamento sono visibili ancora oggi in molti feudi, per es. Turrumè, Hàrcia, Tùdia, Verbuncàudu. 28 Tra queste due forme abitative (il “paese” e la masseria circondata da pagliari), entrambe motivate dalla struttura sociale e dall’assetto proprietario, non potevano avere - e di fatto non hanno avuto - alcuna incidenza e fortuna i “borghi rurali” costruiti, a partire dal 1939, dall’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano: con piazza, chiesa, ufficio postale, stazione dei carabinieri, dispensario me dico, alloggi per i contadini, casa del Fascio e persino monumento al seminatore. Quelli costruiti nell’area alla quale ci riferiamo (Man ganato, Pasquale, Raharmici detto Regaimigi, Tumarrano, Vicarietto) sono oggi ridotti a ruderi, o recuperati in tutt’altra funzione. 29 Nella piccola proprietà è diffusa la stànzia , una bassa casetta di mattoni o pietre che serve esclusivamente da riparo per le persone (t a w . 21 - 22 ).
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degli attrezzi, del pane, del formaggio a tutti coloro che lavorano nella masseria, e i salariati fissi o stagionali addetti alle più varie mansioni (garzund). Con il padrone, o con il gabellotto, il contadino, sia esso bburgisi o tinutaru, ha scarsissimi rapporti; li ha invece, e frequenti, con il campìari, tipica figura del feudo che svolge le funzioni di sor veglianza e di difesa della proprietà: è lui che assegna i poderi (spàrtiri li tinuti), vigila sulle case e le coltivazioni30, gira armato a cavallo per i campi (da qui il nome), divide i prodotti nell’aia, frena le rivendicazioni, impersona tangibilmente insomma un rapporto di sfruttamento e di sopraffazione (t a w . 27-28): Li proprietaria avìvanu li campìari ca cci guardavanu li nteressi, ggenti ca si la fidàvanu ammazzare camurristusi, mafiusi e ffigli di mafiusi (b. di Va). “I proprietari avevano i campieri che gli guardavano gli interessi, gente capace di ammazzare, camorristi, mafiosi e figli di mafiosi”.
A Mmiccichè ccèranu du bbòia pi ccampìari, e unu era Caluzzu Faccigranni, ancora vivu , ca tinìvanu li contadini nsuggizioni; e ccinquanta bburgisi ciuchi, schiavi e scecchi ccifìciru pi ttantanni ligarzuna a la principissa di Trabbia (b. di Va). "A Miccichè c’erano come campieri due boia, e uno era Caluzzu Faccigranni, ancora vivo, che tenevano i contadini in soggezione; e cinquanta borgesi ciechi, schiavi e asini per tant’anni fecero i servi alla principessa di Trabia”.
Lu campìari avìa a èsseri na persona molto ragionata,, rispettosa, giudiziosa, pulita , brava, avìa aviri mici ricapitala, ca riè ca arrivava cu è gghiè, e ccifacìa mali! Si anchi passava unu di chissi ca iàvanu rrantiannu, pigliava fnim m ìantu e ccàciu e cci lu dava , abbasta ca un tuccava li mitatera (g. di VI). “Il campiere doveva essere una persona molto ragionevole, rispettosa, giudiziosa, educata, brava, doveva avere voce in capitolo, non è che arrivava uno qualsiasi, e poteva fargli del male! Se anche passava uno di quelli che girovagavano per i campi [qualche bandito], lui prendeva frumento e formaggio, e glielo dava, purché lasciasse tranquilli i mezzadri”.
Ccèranu ssi spartenzi cu la leggi Cullo, e ia continuava a spàrtiri a mmità , ma a lu bburgisi ca sapìafari rrènniri la terra cci lassava lu funnu di l ’ària; lu puvurìaddru ca si vidìa arrigalata na sarma di frummìantu un si nni chiamava quinti. A lu proprietàriu cci dicìa: «Avanti ca la ggenti vanii pi ssindacatuy mìagliufàricci tastari quarchi cosa». E cchiddru dicìa: uMinnali, alVatri bbanni spàrtinu cu li quintiy e ssulu cu don Tanu nentiV\ Ed era filici (g. di VI). “C ’erano le spartizioni del prodotto secondo la legge Cullo [2/5 al proprietario e 3/5 al mezzadro], e io invece continuavo a divi dere a metà, ma al borgese che sapeva far rendere bene la terra, gli lasciavo il fondo dell’aia; il poveretto che si vedeva regalata una salma di frumento, non ne reclamava quinti. Al proprietario io dicevo: ‘Prima che la gente va dal sindacato, meglio fargli assaggiare qualcosa. E quello diceva: ‘Cavolo, nelle altre aie si divide con i quinti, e solo da don Tano niente’. Ed era felice”.
Vultanu spàrtiri cu li quinti; cci dicìa: “Carùy picchi afa mmèttiri stu rnalabbusu, lassamu stari lu munnu pi cco?riè”. “La liggi cè...!n. La ca cci lavi a cu iddri picchi... no picchi eranu comunista, ggenti di nuddru , ma picchi èranu maladucati, avìanu lagnusìa e ccircàvanu 30 «Si a unu un cipiacìa la tinuta cavia , sallammicava cu lu campìari e ssi la facìa canciari» (b. di VI) “Se a uno non gli piaceva la tenuta che aveva, piativa un poco con il campiere, e se la faceva cambiare”. «A Rrahaliali ccera lu campìari Passarellu ca iava fiirriannu tutti li siminati, vidìa tutti li tinuti comèranu curtivati, e nni minia lu puntu nna lu libbrettuy comu si èramu a la scola, e all’a nnu chi vviriìa, quannu spartìa li tinuti, cci dava chiddri bbùani a cchiddri ca vulìa iddru » (b. di VI) “A Ragaliali c’era il campiere Passarello che si aggirava per tutti i seminati, vedeva tutte le tenute com’erano coltivate, e ci metteva i punti sul libretto, come se eravamo a scuola, e l'anno successivo, quando assegnava le tenute, dava quelle buone a chi diceva lui”.
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rripartizioni, na vot'a ca li ncagliàiu ca avìanu ammucciatu na pùacu di frummìantu nna la pàglia, fici finta ca jìci mari e mmunti , però la mità sua cci la detti>e li ittàiu fora, friscu comu na rrosa (c. di VI).
“Volevano dividere con i «quinti; io gli dicevo: ‘Picciotti miei, ma perché dovete dare questo cattivo esempio, lasciamo stare il mondo per come e . ‘Ma c’è la legge...!’. Jo che con loro ce l’avevo perché... non perché erano comunisti, gente di nessuno, ma perché erano maleducati, sfaticati, e andavano cercando ripartizioni secondo legge, una volta che li beccai che avevano nascosto un po’ di frumento sotto la paglia, feci finta di minacciare mare e monti, e però la loro metà gliela diedi, e li gettai fuori dal feudo, fresco come una rosa”.
Nuddru spartiva cu li quinti pi ssuggizioni. “Si pparra di quinti mancu lafavata cci fazzu siminari, e stu turrenu un ni lavi a ttruppiddrari cchiù, mancu di passata!” La leggi Gullu la fichu murivi accussì. Li contadini gnoranti nun faci vanii unioni, min èranu compatti, e ssi cuntintaru emigrari (b. di Va).
“Nessuno divideva con i quinti per soggezione. ‘Se parla di quinti non ci faccio seminare neanche la favata, e in questo terreno non ci deve più mettere piede, neanche di passaggio’. La legge Cullo la fecero morire così”.
Na vota sula ca vosi spàrtiri cu li quinti , mi ittaru fora di lu fìau , mi scrìssiru a llibbru nìuru e un ci trasìu cchiù (b. di VI).
“Una volta sola che volli dividere con i quinti, mi gettarono fuori dal feudo, mi scrissero a libro nero, e non potei mai più entrarci”.
Gabellotti e campieri sono di solito personaggi autorevoli’ del luogo. L’amministrazione di grandi patrimoni fondiari con enormi possibilità di lucro, e la volontà di mantenere in vita, anche contro provvedimenti legi slativi che tendevano a modificarla, la struttura feudale di arcaici rapporti di produzione, l’esigenza di frenare le tensioni sociali che da questi rapporti inevitabilmente scaturivano, hanno costituito il terreno più fecondo per lo sviluppo della mafia. E fra gabellotti e campieri la mafia storica ha avuto proprio nel «Vallone» i suoi più famigerati rappresentanti31. La coltivazione del frumento {furrriìantu, frummìantu) costituisce l’attività economica fondamentale delle po polazioni gravitanti nel l’area dei grandi latifondi, e in quanto tale ne permea tutta la vita e le espressioni culturali. In essa si esauriscono tutte le possibilità di sussistenza non soltanto di coloro che in varie forme vi si dedicano direttamente, ma anche di queU’artigianato di servizio (fabbri ferrai, cordai, bastai, commercianti di prodotti agricoli e di bestiame, etc.) la cui attività è strettamente connessa alla principale risorsa agricola: da qui l’attenzio ne collettiva alle vicende meteorologiche e stagionali, perché una buona annata si ripercuote positivamente sulla vita di tutta la comunità, e «la malannata veni p i ttatti» (VI). Il tum ulo (tùmminu) di frumento viene assunto a fondamentale unità di misura di tutta l’economia: su di esso si calcola il valore dei prodotti e degli oggetti, la resa 31 Gabelloti furono in vari periodi e a più riprese Calò Vizzini a Villalba e Peppe Genco Russo a Mussomeli. Le lotte contadine volte a ottenere la spartizione dei prodotti della mezzadria secondo i “decreti Cullo”, l’applicazione di più giusti contratti di conduzione agraria, e poi l’assegnazione delle terre incolte o malcoltivate, costarono la vita in Sicilia, tra il 1944 e il 1955, a 34 tra sindacalisti e capilega, oltre alle 16 vittime di Portei la della Ginestra ( 1 maggio 1947). Attuate spesso con le modalità della “occupazione delle terre”, queste lotte, ponendo fine alle residuali forme di feudalesimo legate al latifondo e a una condizione semischiavile del lavoro contadino, costituiscono una delle manifestazioni più straordinarie del movimento democratico nel Meridione (vedi Appendice fotografica 11: «Occupazione delle terre»).
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dei terreni, il pagamento degli affitti, dei barbieri e dei fabbri ferrai, esso rappresenta il solo parametro della storia economica. Al patrimonio culturale ed espressivo di queste comunità la travagliata e varia vicenda del grano forni sce infinite immagini, proverbi, metafore32, emblematiche di ogni situazione umana, anche per il suo immediato valore di conquista del pane, e cioè della sopravvivenza33: mància è la quantità di grano sufficiente per il consumo annuale di pane e pasta da parte di tutta la famiglia, mandan pani è la rassegnata espressione di una sicurezza faticosamente raggiunta e continuamente insidiata34.
32 Le segnaleremo di volta in volta, man mano che se ne presenterà l’occasione. 33 Perciò il pane è “grazia di D io”: prima di iniziare ad affettarlo (parliamo del grande pane rotondo, tipico della cultura contadina), si segna col coltello una grande croce nella parte posteriore; se ne cade un pezzetto a terra, dopo averlo raccolto lo si avvicina alle labbra baciandolo, etc. 31 Le condizioni di vita e di lavoro, qui sommariamente descritte, valgono, con qualche specifica variante territoriale, per tutta la Sicilia interna e per le zone più arretrate dell'Italia meridionale. Esse sono sufficienti a motivare il rivolgimento demografico verificatosi nel dopoguerra in tutte queste regioni. Per limitarci alla sola Sicilia: negli anni 1945-1975 si registra un saldo migratorio negativo di 578.801 unità per migrazione interna (soprattutto verso il “triangolo industriale” Torino, Milano, Genova), e di 383.458 per mi grazione estera (soprattutto Germania, Svizzera, Belgio, Francia); nel decennio 1951-1961 la provincia di Enna perde il 20,5% della popolazione, quella di Caltanissetta il 15,9, quella di Agrigento il 12,9. Dei quattro comuni di cui specificamente ci occupiamo, queste sono le variazioni della popolazione tra il 1951 e il 1971: Cammarata da 8.981 a 6.950, Mussomeli da 15.872 a 11.762, Villalba da 4932 a 2.408, Vallelunga da 7289 a 4.947. L’ulteriore calo demografico che si registra oggi 2013 (rispettivamente, 6.453, 11.145, 1.752, 3.687) è dovuto prevalentemente alTemigrazione “intellettuale” di laureati e diplomati verso le città del Nord. Per questi dati si vedano gli annuari dell’Istat; per un importante saggio sul fenomeno migratorio, Francesco Renda, L'emigrazione il Sicilia 1.952-1961, con un aggiornamento di Eugenio Greco, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1989.
Il tempo della semina (li simìanti)
La(v)urari
Arare è l’atto primo e fondamentale del lungo processo di produzione del frumento e in quanto tale esaurisce, nell’universo socio-economico siciliano, tutta la potenzialità semantica di un verbo (la(v)urari) che in ambito più vasto indica ogni forma di attività lavorativa (cfr. l’italiano “lavorare”)1, con una specializzazione di significato che si riscontra in altre società di identica struttura economica2, e che è ancora più palese nella denominazione di la(v)uri attribuita al prodotto di questa fatica, cioè ai seminati in erba dal momento della nascita fino alla mietitura e alla loro trasformazione in frumento« Il tempo di mpaiari, cioè di dare inizio alla stagione dell’aratura e della semina (li simìanti)3, è segnato dalla nascita dell’erba dopo le prime piogge autunnali. Durante questo periodo la forza degli animali da tiro e da soma, buoi (mia), vacche (varchi), muli (muli), cavalli (cavaddri) e anche asini (scecchi), è l’indispensabile com plemento della fatica dell’uomo, l’aratro (l’aratu) lo strumento fondamentale dell’attività lavorativa (ta v . 29). Il tipo di aratro più antico, più diffuso e mai del tutto soppiantato, è costituito dall'aratu di lignu o aratu a cchiùavu, che viene trainato da una coppia (parìcchia) di muli o di buoi ( t a w . 30-31). Nella sua forma più comune esso si presenta come un complesso strumento formato da tre parti principali, tutte in legno di vuscìgliu (quercia), o di leccio, o altro albero resistente: iuvu (o iuvi), pèrda e aratu vero e proprio4. Lu iuvu (giogo) è una grossa trave di forma cilindrica le cui estremità si collocano sul dorso o sul collo degli animali. In una scanalatura praticata al centro si trova inserita una striscia circolare di cuoio o di ferro (la currìdy alla quale è sospeso, tra mite un gancio, un anello di ferro leggermente ellittico (lu maniunì). \laratu è costituito da un unico blocco di legno massiccio ricurvo a forma di gomito, squadrato nella parte centrale ma progressivamente assottigliato alla 1La designazione generica di ogni forma di atrivirà lavorativa è affidata in siciliano al verbo travagliavi (sostantivo lu travàgliu). 2 Gir. i termini francesi labourer “arare” e labour “aratura” (al plur. “campo arato”); il catalano llaurar “arare”; il neogreco orgono “arare” derivato, attraverso *orgoo, dal greco antico ergon “lavoro, opera”. 3 Mpaiari indica propriamente l’atto di aggiogare gli animali alParatro, ma in senso traslato Pinizio dei lavori del ciclo agrario del fru mento; allo stesso modo il suo contrario, spaiavi, ha, oltre al significato proprio, anche quello di “cessare da ogni attività lavorativa” (non solamente agricola) per cambiamento di mestiere, emigrazione, vecchiaia o altri motivi: «Sugnu vìacchiu oramai, spaiàiiv» (VI) “Sono vec chio ormai, ho smesso di lavorare”; «Auannu spàiu, e mmi nni vàiu nGermània» (C) “Quest’anno smetto, e me ne vado in Germania”. 4 II termine aratu indica genericamente l’aratro nel suo complesso (giogo, bure, ceppo e stegola), e specificamente quella che ne è la parte fondamentale, cioè ceppo + stegola, che nell’aratro siciliano costituiscono un blocco unico. ' La striscia di cuoio è stata sostituita progressivamente da un anello di ferro appiattito che conserva la denominazione originaria.
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due estremità: quella inferiore {lu dintali) è saldamente inguainata in uno stretto vomere di ferro {la (v)òmmara, la (v)òmmira), quella superiore funge da impugnatura {la manuzzd). La pèrda (pertica, bure), una trave lunga e sottile, rozzamente squadrata, collega Varatu al giogo correndo in direzione longitudinale tra i due animali aggiogati; l’estremità inferiore, con la parte terminale assottigliata {la cudìcchia> la cudiddra), va a incastrarsi, rinsaldata per mezzo di un cuneo di legno {lu cugnu), in un’ampia apertura rettangolare che si trova al centro della curvatura del Varatu; l’altra invece viene inserita dentro il maniuni del giogo e ad esso fissata «comu na cruci» conficcando un grosso cavicchio di ferro {la chiavi) in uno dei buchi verticali che da quel lato la attraversano a distanza regolare da parte a parte6. Perno di questo complesso sistema di distribuzione di forze è la ti(n)nìglia “profime”, una striscia di ferro appiattita e ricurva che muovendo dal ceppo nel quale si trova infissa, un po’ al di sopra del vomere, attraversa un foro appositamente praticato nella pèrda e ne fuoriesce dal lato opposto; qui, previo inserimento di una tavoletta rettangolare {la chianotta, la tavuletta) che ha la funzione di impedire il gioco, viene fissata inserendo un’asticella di ferro {la chiavuzza)7 in uno dei buchi di cui essa è provvista nella parte superiore, a seconda dell’inclinazione che si vuol dare al vomere8. Il sistema di aggiogamento {la mpaiatd) varia in relazione agli animali di cui si dispone. Con muli o cavalli si usa comunemente lu siddruni, un basto con scheletro esterno di ferro9 che per la funzionalità dei suoi elementi (un grosso chiodo verticale, detto chiùavu, pumu, pistuni, e una sporgenza, lapuppa, nella parte anteriore, due ganci in quella posteriore, vari anelli), è un attrezzo indispensabile in molte attività agricole. Durante l’aratura esso viene assicurato sul dorso dell’animale con due cinghie di cuoio, una sotto la pancia {la cigno), l’altra davanti al petto {lu pitturali o puttrali o bhuttralì)\ le estremità del giogo vengono poggiate da entrambi i lati sulla puppa e agganciate al chiùavu tramite l’anello di ferro {Vanìaddriì) di cui esse sono in questo caso provviste (ta v v . 3 3 -3 5 ). Questo sistema ha soppiantato progressivamente l’altro, assai diffuso nei tempi passati, caratterizzato dall’im piego del vardunìaddru. Si tratta di un piccolo basto, adibito esclusivamente a quest’uso, che viene posto sul collo dei muli e tenuto fermo dal congiungimento nella parte inferiore di due pezzi di legno flessibili {li vrazzuddnì) in esso incorporati (ta v. 36-37); il giogo, in questo caso assai più leggero, presenta una modellatura a curva dolce nella parte inferiore, ed è provvisto alle due estremità di un foro verticale dal quale pende una larga striscia intessuta di erba secca o di cordicella {lupàiii)\ esso viene inserito dentro la profonda scanalatura che si trova alla sommità del basto10, e il pàiuy stretto sotto il collo degli animali, rinserra contemporaneamente «iuvu vardunìaddru e ccuaddru di mulu» (C) ‘giogo, piccolo basto e collo di mulo”. Questo tipo di mpaiata è particolarmente adatto a terreni acci 6 La serie di buchi consente di regolare secondo le esigenze la dimensione longitudinale dell’aratro. 7 Per evitare che si perdano, chiavi e chiavuzzi sono di solito legate rispettivamente al giogo e alla tinìglia per mezzo diuna cordicella o fil di ferro. 8 Per la complessità della loro connessione, aratu e pèrda costituiscono di solito un pezzo unico, e vengono smontati soltanto nel caso che ci sia la necessità di modificare l’inclinazione del vomere. Quello con scheletro di legno, lu siddruni di lignu (vedi tav. 98), se adibito all’aratura, dev'essere particolarmente rinforzato (tav. 32). 10 L’arcione {lu maniuni , lu muntimi) si trova in questo caso nella parte posteriore, che è quella dove il giogo esercita la massima pressione durante l’aratura.
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dentati e alberati in quanto consente una maggiore mobilità - «li muli su mmenu ncatinatu e ssipùannu calavi slitta larvuli» (b. di C) “i muli sono meno incatenati, e sotto gli alberi possono abbassarsi” - ma realizza una minore forza di trazione «pirchì li muli tiranu ccu lu cùaddru e imo ccn lupìattu» (C) “perché i muli tirano con il collo e non con il petto”. Tutto diventa assai più semplice con i buoi; le estremità del giogo, modellate anche in questo caso nella parte inferiore, poggiano direttamente sul collo e ilpàiu le tiene strette passando sotto la gola degli animali (ta v. 38). Per mettere in moto e dirigere questo complesso apparato basta una sola persona. Lu la(v)uraturi si colloca lateralmente, e mentre guida gli animali segue l’aratro appoggiando con forza una mano sulla stegola11; giunto all’estremità del campo lo solleva e, invertita la direzione di marcia, procede in senso opposto. Con la mano libera regge un’asta di legno (la ugliata) che reca da un lato una paletta di ferro (la varvùscia o varbùscia, vedi t a w . 36 e 39), «ppi a ogni punta limpiari l'aratu di la crita» (C) “per ripulire a ogni tornata l’aratro dal fango”, dall’altro una corta fune (lu capti) per frustare i muli, oppure un pungolo (lupuntarìaddru o puntalùaru) per stimolare i buoi, a seconda che l’aratro sia trainato dagli uni o dagli altri. Due lunghe corde adattate a forma di cavezza alla testa dei muli (la cuddraneddrà)'2, o attorcigliate alle corna dei buoi (lu curnali)r\ corrono al di sopra del giogo lungo la direzione della pèrda fino a raggiungere la manuzza alla quale vengono legate (vedi ta v . 36); la sollecitazione inviata a uno solo dei due animali tirando la corda che gli appartiene, viene immediatamente trasmessa all’altro che ne segue con docilità gli spostamenti. L’aratro a chiodo viene prodotto nelle zone ricche di boschi e acquistato dai contadini allo stato grezzo (bbastardu), nei suoi soli elementi strutturali, durante le fiere di paese (li feri) che nei centri della zona si svolgono sempre alla fine dell’estate. Il fabbro ferraio (lu firraru) prepara le parti in ferro (maniuniy tinìglia, vòmmara, etc.), il falegname (lu mastru d'àscia) le colloca al posto giusto, rifinisce le parti in legno (lu sbarra) y vi pratica i buchi, mette a posto insomma lo strumento nel suo complesso (adarmari o ammarruggiari l'aratu); al vomere, logorato dall’uso, il fabbro rifa ogni tanto la punta acciaiandola (fàricci lu puntali, azzariarì la vòmmara). Questo aratro, signore incontrastato del feudo, ha risposto per millenni alle esigenze della coltivazione estensiva del frumento all’interno di strutture economico-sociali refrattarie all’accoglimento di ogni processo innovativo1', e si può dire che sia stato soppiantato soltanto dalla diffusione dei mezzi meccanici. La più non Chi ara sta sempre al livello più basso del terreno, e perciò la mano che preme sulla stegola cambia a ogni tornata. 12 Le normali redini (//' rìatini) della cavezza abituale {la cuddrana) sono troppo corte per servire alla bisogna; esse vengono perciò legate in croce (ncruci e rinvici) al giogo per costringere gli animali a tenere la testa alta. 13 Nel caso di buoi particolarmente indocili, lu ciirnali impiglia anche un orecchio {faricci Vauricchiali o Varicchineddra o Variechina). 14 Cfr. L. Tasca Bordonaro, Elogio del latifondo cit., p. 19: «Purtroppo però molto si lavora, con la compiacenza di tecnici e di auto rità, per lanciare sul mercato aratri e trattori pesanti»; p. 16: «molto si è sparlato di questo classico e benemerito attrezzo deiragricoltura siciliana, ma tuttavia, per quanto si sia fatto dalla propaganda, l’aratro chiodo resta virtualmente il signore delle campagne siciliane». Si spiega così la sopravvivenza, fin quasi ai nostri giorni, di un attrezzo che a qualcun altro appariva, già nel 1885, «istrumento [...] antichissimo, rozzo [...], da confinare in uno dei nostri musei» (M. Argento, Lavori e strumenti agrari, Tip. Dolcemascolo, Palermo 1885, p. 18). In realtà «Varatu a cchiuavu arriminava sulu lu pruvulazzu. Quannu lavurava, mi firriava darria, e mmancu vidiva lu surcu: “Unni è la surcata!si vveni na vintuliata si la tirai”» (b. di Va) Taratro a chiodo smuoveva appena la polvere. Quando aravo, mi voltavo indietro, e il solco neanche lo vedevo: ‘Ma dovè il solco! se viene un colpo di vento se lo porta via!’, dicevo”.
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tevole innovazione apportata alla sua antichissima struttura è rappresentata dalla sostituzione àt\X aratu vero e proprio con un unico pezzo di ferro massiccio {aratu di fiarru o catanisi) alla cui estremità vengono fissati, per mezzo di bulloni, il vomere e una pala di ferro (lapala, l’aletti) che ha la funzione di allargare il solco; un sistema di chiavuzzi lo collega alla vecchia pèrda, provvista in questo caso di una parte terminale in ferro, consentendo anche di regolare rinclinazione del vomere ed eleminando così la tinìglia. Questo aratro, comparso alla fine degli anni Trenta, consegue una migliore dissodatura del terreno, ma presenta gravi inconvenienti nei terreni bagnati perché la pala si carica di fango e Taratura risulta pesante e difficoltosa. Pressappoco negli stessi anni si incomincia a vedere qualche esemplare di vortorècchìu (aratro voltorecchio), un aratro di ferro nel quale il corpo lavorante è costituito da due vomeri inclinati lateralmente e in posizione simmetrica rispetto a un asse mediano; per ottenere che la terra sia rivoltata sempre dallo stesso lato sia proce dendo in un senso che in quello contrario, basta azionare al momento delPinversione un semplice meccanismo che fa ruotare il vomere spingendolo dal lato opposto rispetto all’asse e m ettendo in funzione l’altro. Offre un’aratura in profondità, e perciò può essere utilizzato soltanto per il primo scasso del terreno, o per maisari “lavorare a maggese” li terri, non nella fase della semina; per questo motivo, e per l’eccessiva pesantezza che crea difficoltà agli animali e allunga enormemente i tempi della lavorazione, trova una diffusione assai limitata. La possibilità di impiegare un solo mulo al posto di due si realizza con Xaratu a ssulu di cui si conoscono due tipi fondamentali, Xaratu a scocca e Xaratu a vvalanzola o a bblilanàarL II primo, comparso alla fine degli anni Trenta, è caratterizzato dalla scocca, cioè da due aste di ferro che, fissate agli anelli posteriori del siddruni, si chiu dono dietro le gambe dell’animale collegandosi all’aratro di ferro per mezzo di un bullone. Il secondo, diffusosi nel dopoguerra, ha una struttura semplicissima: il corpo lavorante viene semplicemente agganciato al centro di un’asta di ferro orizzontale (la valanzola, lu bbilancìari, lu bbilancinu), le cui estremità vengono collegate al pit turali del mulo tramite due corde (li tirelli) o due catene (li catini) (ta v . 3 9 ); eliminato così lu siddruni, sostituito da un piccolissimo basto, o addirittura da un panno qualsiasi, l’animale procede assai più leggero impiegando una forza minore rispetto al precedente. Anche se la funzionalità ottimale si consegue in terreni asciutti e pia neggianti (latini), l’estrema maneggevolezza e semplicità di questa struttura fanno sì che Xaratu a vvalanzola sia oggi il più diffuso nelle zone in cui si pratica l’agricoltura tradizionale, anche in relazione alla frantumazione della proprietà contadina e alla costante diminuzione degli animali da soma. In condizioni normali, sia dal punto di vista del decorso climatico che della disponibilità dell’uomo, la la(v)urata si svolge in tre tempi. Subito dopo le prime piogge autunnali si apre la terra con l’aratro una prima volta (mmirgaru mmri(g)ari, vri(g)ari, bbri(g)ari, hiaccari), si ripassa dopo 10-15 giorni ((a)mdubbulari, (a)mtibbulari, (a)rrifìinniri), si torna ad arare una terza volta, se ce n’è il tempo, e lo stato del terreno lo richiede (rrityizzari o rritirzari). L’orienta mento delle tre arature è rigidamente determinato da quello, successivo, della semina: poiché questa assume sempre, rispetto alla configurazione del terreno, un andamento orizzontale (pi cchianu) che rende più agevole l’esplicazione di tutte le operazioni successive fino alla mietitura, la direzione della mmirgata (e della nitrizzata che con essa coincide) è obliqua, quella della nidubbulata perpendicolare a quest’ultima1^. Le tre operazioni insomma tracciano sul terreno IS Qualunque sia Foperazione in via di svolgimento, si incomincia ad arare sempre dal basso. Fin dall’inizio vengono tracciati, e
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una rete di solchi i cui punti di intersezione si collocano sempre su una linea retta (ta v . 40). Con la successione di tre arature che smuovono la terra in ogni senso, e con Pesposizione al sole e alla pioggia, lu tirrenu coriza (C), e a otto giorni dall’ultima, cioè verso San Martino, si può incominciare a siminari. Siminari
In condizioni ottimali il terreno dev’essere cunzatu (ben preparato), dòcili (soffice), timpiratu (né troppo molle né troppo duro), nnamuri (in amore, pronto ad accogliere il seme). Sono sostanzialmente due i sistemi di semina, a seconda che il seme venga depositato nel solco (.siminari a ssurcu o a rrigd) oppure sparso uniformemente su tutta la superficie del campo (siminari a spàgliu o appagliùalu o a ppruvidinu ). Quella del primo tipo si attua in maniera differenziata in relazione alla distanza che si vuole mantenere tra i futuri filari di spighe. Si ha la semina surcu pi ssurcu quando Paratro precede aprendo il solco e il seminatore lo segue costantemente gettandovi la se mente; il solco di ritorno prepara la traccia per la nuova semente e nello stesso tempo copre quella del precedente (tav. 41). Se si vuole invece seminare a solchi alterni {a ssurcu vacanti, un surcu sì e un surcu no, a ssurcu di favi), aratro e seminatore partono insieme nella maniera descritta; giunti all’altra estremità, il seminatore si ferma ai bordi del campo e attende che l’aratro faccia due tornate tracciando il secondo e il terzo solco; a quel punto inco mincia a gettare la semente nel terzo precedendo Paratro il quale la ricopre mentre apre il quarto solco che a sua volta rimarrà vuoto ( t a w . 42-43). In queste condizioni il seminatore m a torna spenni e na torna sarriposa» (C) “una tornata semina e una tornata si riposa”; se invece gli aratri sono due, egli segue costantemente quello davanti mentre il secondo, a distanza di qualche metro, è adibito esclusivamente a coprire (cummigliarì)](\ Nella semina a spaglio il rapporto fra aratro e seminatore è invertito. Si incomincia col delimitare alcune strisce di terreno tracciando una serie di solchi paralleli a distanza di 4-5 metri (tirari lisprighi o li bbrosci, bbrusciari lu tirreniì)\ procedendo lungo una linea vicina al margine destro della prima porca (spri(g)a o bbròscia), che è sempre quella più bassa, e in ogni caso regolando la propria posizione a seconda del vento, il seminatore lancia a ogni passo un pugno di semente spandendola a semicerchio per tutta la larghezza delimitata [ittari la spri(g)a o la bbròscia)1 ( t a w . 44-46); dopo averla attraversata in un senso, quasi sempre ci ritorna in senso inverso e dal lato opposto, gettando questa volta la semente a mmìanzu pugnu, per coprire soprattutto la linea sulla quale si è mosso all’andata, e ottenere una più uniforme distribuzione su tutta la superficie; subito dopo, mentre il seminatore passa alla seconda, l’aratro ricopre il seme nella prima tracciando una serie di solchi paralleli per tutta l’estensione della porca (ta v . 47). portati avanti man mano che il lavoro procede, un paio di solchi (pacchianati) lungo le linee di confine della tenuta. Ciò consente di ar restare gli animali un po’ prima del confine {lu lh?imitu) e di non invadere con l’aratro, al momento dell’inversione, il campo altrui. 16Al termine di ogni solco si ha uno scambio di posizione fra i due aratri: il primo infatti deve necessariamente aspettare che anche l'al tro completi il proprio solco e dia inizio a quello immediatamente contiguo, prima di collocarsi al suo fianco facendo la curva più larga. 17 Se questa è abbastanza ampia, e un pugno solo è insufficiente, il seminatore spande a ogni passo due pugni, o anche tre {siminari a ddu pugna, a tiri ppugna).
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La scelta del tipo di semina dipende da una serie di fattori (natura del terreno, andam ento meteorologico, disponibilità di manodopera, etc.), e condiziona le modalità e le forme delle operazioni successive fino alla mie titura. Con la semina a ssurcu, lu lauri assume una disposizione regolare che permette una zappatura uniforme nei mesi successivi; in particolare, seminando a ssurcu vacanti un campo che per difetto di arature sia partico larmente infestato dalle erbe (lùardu, “sporco”), è possibile a marzo passarvi tra un filare e l’altro con un aratro a vomere stretto e ripulirlo rapidamente; queste cure, se prestate, si concretizzano anche in una maggiore resa produttiva. Con la semina a spàgliu invece le piantine, distribuendosi uniformemente sul terreno, non consen tono una zappatura sistematica, né tanto meno la coltivazione con l’aratro; il minore impiego di manodopera è così controbilanciato da una minore produzione. Nelle argille {li criti), nella zona di gran lunga predominanti, il secondo sistema risulta preferibile, per la difficoltà di coltivare terreni carichi d’acqua, e per l’impossibilità di praticarvi, se seminati a solchi alterni, l’aratura invernale, dalla quale verrebbero pestati eccessivamente (piddriati), con grave danno per la coltura: l’imposizione ai mezzadri della semina a righe in terreni che «di ncapu nnurìscinu comu napetra ma di sutta su ccomu lu saponi» (C) “in superficie diventano duri come pietra ma sotto sono come il sapone”, crea perciò le premesse per un lavoro duro senza adeguata ricompensa. Durante tutto il periodo dell’aratura e della semina (dal 20 settembre al 20 dicembre circa) il lavoro contadino è rigidamente condizionato dal regime delle piogge. Per ammorbidire terreni argillosi che alla fine dell’estate sono talmente asciutti da essere percorsi in lungo e in largo da una fitta rete di crepe18, e poter realizzare una prima ara tura che vada al di là della semplice traccia che l’aratro produce quando rompe terreni asciutti, occorrono piogge abbondanti all’inizio dell’autunno19; dopo la mmirgata, l’andamento ideale è determinato da piogge frequenti ma non eccessive, alternate a giornate di sole capaci di stagionare terreni crudi {«sazzi d'acqua e ddi fiiddu»). Non sempre tutto ciò si realizza. Spesso ci si ritrova in autunno inoltrato senza che sia caduta una sola goccia d’acqua, e si è costretti a laurari a lu scùattu o cu lu siccu, cioè col terreno asciutto, o peggio ancora a seminare direttamente, senza alcuna preparazione preventiva del terreno {siminari a l ’affucciu), con conseguenze negative sulla qualità della lavorazione e della coltura, e sulla fatica degli uomini e degli animali: l’aratro scalfisce appena la terra senza penetrarvi - «fa na surcateddra misaràbbili, ca pari ca cci leva sidu lu pruvulazzu» (b. di Va) “fa un piccolo solco miserabile, come se ci togliesse solo un po’ di polvere” - il seme non è interrato alla giusta profondità, né nelle migliori condizioni di umidità, e si salva parzialmente soltanto se la pioggia interviene subito dopo, il campo sarà invaso dalle erbacce perché non è ancora scumatu (non ha cioè fatto germogliare le erbe in precedenza). Una con dizione di siccità prolungata dopo la prima aratura, com unque realizzata, e fino al cuore dell’inverno, impedisce le due successive ponendo le premesse per un raccolto scarso, o, quel che è assai peggio, mette a repentaglio la stessa possibiltà di seminare; perché a volere siminari cu l ’asciuttu si corre il rischio che non tutto il grano spunti per difetto di umidità, e che buona parte se lo portino via le formiche, non disturbate dalla pioggia e dal terreno 18 Queste crepe (cripazzi) rappresentano in estate un continuo pericolo per i muli che attraversando i campi possono infilarvi un piede e romperselo, e cioè andare incontro a morte certa. 10 Se le piogge arrivano presto, e la semina avviene a inizio di stagione, si ha il grano primaticcio (lu prummintì(u) o purmintì(u) o pirmintì ), in caso contrario quello tardivo (tardi(u)).
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bagnato, o gli uccelli, pronti a beccare i chicchi rimasti all’aria aperta e non ricoperti da qualche acquazzone. Anche la pioggia continua apporta gravi sconvolgimenti al ritmo normale dei lavori, già per il fatto stesso che non consente di arare o di seminare nel m om ento in cui cade; e se è eccessiva, non è possibile seminare perché gli animali sprofondano, l’aratro si infanga e si appesantisce, il terreno, calpestato da dodici piedi, di animali e di uomini, si trasforma in una fanghiglia impraticabile (tirrenu assintinatu o ammintinatu)2{). Il difficile equili brio della pioggia si realizza ancora più raramente nel terreno argilloso che per sua natura «si cci va lu mùaddru mpatàcchiay si cci va lu siccu ncutìcchia» (C) “se è molle si impantana, se è asciutto impietra”. L’aratura può essere svolta, con qualsiasi tipo di aratro, da una sola persona; non così la semina, specialmente quella a ssurcu, che richiede lo sforzo coordinato e congiunto di due persone21. Perciò il contadino che non ha collaboratori nell’ambito familiare, o possiede una sola vìastia, trova facilmente un altro nelle sue stesse condi zioni (un cumpagnu), con il quale realizzare uno scambio di manodopera per tutto il periodo delle sementi; e se almeno possiede una coppia di muli, «chiama cumpagnu la muglieri ppi spènniri» (C) “fa società con la moglie adibendola alla semina”. L’attività lavorativa impegna quasi quotidianamente, e per un lungo periodo; ma un soggiorno continuato nella tenuta è reso impossibile dalle condizioni atmosferiche e dall’assenza di ripari; dai paesi, o dai pagliari accanto alle masserie, dove risiedono stabilmente, i bburgisi si trasferiscono perciò ogni mattina nel campo con gli animali e l’aratro. Nella fase dell’aratura la divisione del lavoro si articola in due attività: mentre una persona guida l’aratro, l’altra si dedica a struffari, cioè a estirpare con la zappa i più grossi cespi di erbe (li troffi, li truf fano) davanti o dietro l’aratro, che del resto di alcune più resistenti (canneddri, scùaddri, mastacùagni, fanusu, sangunari, carcatizzì) non riesce neppure a scalfire le radici («piglia di lìsciu»)22. All’alba di ogni giorno di semina i bburgisi debbono affrontare il disagio di ritirare dal magazzino della masseria la simenta, che gli viene consegnata nella misura sufficiente per ogni singola giornata di lavoro - cioè quattro tumoli per ogni coppia di animali - già ncilistrata, cioè trattata con il ggilìastru o cilìastru> soluzione di acqua e solfato di rame (petra cilest(r)i)lò\ di essa il campiere o il curatolo prendono nota in un taccuino, o an che facendo dei tagli (ntacchi) su un legno di ferula (feria)2*. Giunti sul posto di lavoro (a la virsura, a la tornay 20 Se per difetto o per eccesso di pioggia la semina è impedita, l’ultima risorsa è costituita dalla possibilità di seminare la tiimmìnìa , una qualità di frumento scuro e minuto, che ha un ciclo vegetativo assai più breve {«a ottanta iorna èppani ») e può essere seminato a febbraio-marzo. 21 In teoria una sola persona può seminare a spaglio, alternando la semina di una o più porche con la copertura per mezzo dell’ara tro. Ma un simile procedimento, costringendo gli animali a lunghe pause di inattività, allunga enormemente i tempi di lavoro e com porta il rischio che «avanti ca unu cummòglia la bbròscia li frummìculi si nnipòrtanu na mità » (C) “prima che uno ricopra la porca le formiche si portano via la metà dei semi”. 22 In terreni particolarmente infestati dalle erbacce la struffata si rende necessaria già a settembre, prima ancora dell’aratura, utiliz zando talvolta il piccone (lupicuy lu sciamarru) per le più profonde, per es. mastacùagni, enerva ca oi la scippi e ddumani spunta » (b. di VI) ‘un’erba che oggi la sradichi e domani rispunta”; i cespi sradicati vengono sistemati a mucchi e bruciati appena asciutti. 23 Per una salma di frumento basta 1 kg di solfato di rame diluito in 8 litri d’acqua. 24 Ingegnoso sistema di contabilità reciproca, buono per illetterati e analfabeti, usato in vari ambiti, soprattutto in agricoltura. Da
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aWantu)2^si procede alla mp aiata, e mentre lu lauraturi guida l’aratro, lu siminaturi o spinnituri o simintalìiaru sparge la semente (ittari sirnenta, spenniri)1(’ attingendola a pugni dalla coffa, una sporta intessuta di foglie di ggiummara (palma nana), di cui sorregge con la sinistra il manico esterno, mentre l’altro è sospeso per mezzo di una corda alla spalla (vedi t a w . 44-46); quando la coffa si svuota, ricorre ai grandi sacchi disseminati in vari punti ai margini del campo27. Una terza persona, se c’è, funge da stimpuniaturr8 rompendo con la zappa o altro strumento (vedi ta v . 38) le zolle (li timpuna) più grosse (li fassi) prodotte dall’aratro (.stimpuniari), oppure si dedica a fari li sani, cioè a ricoprire con la zappa il seme sparso nelle strisce di terreno attorno ai mucchi di pietra (li munziddrara), o agli alberi, dove l’aratro non può arrivare. L’attività è continua («di la matina a la sira»; ma in compenso le giornate sono molto brevi), non ritmata da alcun canto, e interrotta soltanto al mattino e a mezzogiorno per un ‘frugale’ pasto nel quale il pane è accom pagnato dagli ultimi frutti autunnali (olive nere, cotogne, melograni, ma anche fichi secchi e cipolle). Al freddo intenso si cerca di porre rimedio con il movimento incessante soprattutto, ma anche con una vampata all’ora dei pasti, nel caso che vi sia disponibilità di legna o sterpaglia asciutta. All’ora del rientro (a tira di livari manti) l’aratro si lascia sul campo, ricoperto da un mucchio di frasche, oppure si riporta a casa caricando sul dorso di un mulo il giogo da un lato, la pèrda e l’aratu uniti dall’altro ( t a w . 48-49); con i buoi, basta agganciare il vomere al giogo, e gli animali procedono appaiati fino alla rressa. Il lavoro dell’aratura e della semina è reso pesante dalle condizioni atmosferiche (pioggia, freddo, vento) e dal continuo andirivieni2^ in terreni fangosi30; le difficoltà aumentano, per uomini e animali, se il terreno non è regolare e pianeggiante (latinu), ma vario e accidentato (di malu manìu). La guida dell’aratro non è un fatto un corto bastone di ferula, legno notoriamente docile, viene staccato uno spicchio longitudinale e triangolare che può essere in ogni momento reinserito nella posizione originaria. Ognuno dei due contraenti detiene una delle due parti, che al momento di prendere nota di qualcosa vengono ricomposte: un taglio praticato orizzontalmente ( ntacca) con un coltello lascia in entrambe le parti il segno evidente di una contabilità che nessuno dei due potrà mai manipolare. ^ I termini virsura, torna e aititi indicano propriamente la linea lungo la quale procede il lavoro dei campi, e più in generale il posto di lavoro, e la stessa attività lavorativa, come si desume dalle espressioni agghiurnari all’a ntu (VI), mèntisi a vvirsura (C), livari di l'antu (VI). I primi due sono in tutto equivalenti e vengono usati prevalentemente per l’aratura - per es. addrizzari la virsura (C); purtari la simenta a la virsura (C) - il terzo di preferenza per la zappatura, tutti e tre indistintamente per la mietitura. 261 due termini designano l’atto di spargere la semente, e spènniri in particolare si usa soltanto per la semina a righe; siminari indica invece l’attività della semina nel suo complesso, e più in generale, “lavorare la terra” (cfr. p. 14, n. 5). 27 La coffa è talvolta sostituita da un piccolo sacco di olona (lu succimi o la sacchina). 2HPer la marginalità di questa funzione, stimpuniari ha assunto il significato di “vivacchiare, condurre una vita grama, tirare avanti alla meno peggio”. 2MUn canto popolare dice: «Sunfussippi lu iri e lu viniri, /fussi na santità lu lavurari» (C) “Se non fosse per il continuo andare e venire, l’aratura sarebbe una santità”. >u Chi ara calpesta costantemente il terreno già arato perché si colloca al livello più basso, che è proprio quello dal quale si inizia ad arare; è costretto perciò a difendersi dal fango avvolgendo le gambe con due pezzi di olona o di panno ruvido (li gamma la: cfr. ta v .
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3 ).
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meccanico: il lavuraturi regola e indirizza la prestazione di forza da parte degli animali31 facendo sprofondare il vomere quanto più è possibile con la pressione della mano sulla stegola —«si laùra junnutu quantu trasi» (b. di VI) “si ara profondo quanto penetra l’aratro” - ma anche sollevandolo quando si imbatte in grosse pietre sotter rate (petri ùarvi) capaci di spezzarlo, o quando l’andamento accidentato del terreno lo fa sprofondare eccessiva mente col rischio di sfiancare inutilmente gli animali. A un elementare codice di comunicazione questi sono, per lunga assuefazione, sensibilissimi: la chiamata per nome, o il pungolo, o la sferza, secondo i casi, costituiscono un incitamento ad accelerare il ritmo, la sollecitazione della corda, accompagnata dalla voce (lu cumannu), li costringe a spostarsi a destra o a sinistra, in maniera da tracciare solchi sempre dritti (addrizzari la virsura), o a invertire, giunti al termine del campo, il senso di marcia32. Ittari sementa o spenniri è lavoro impegnativo e di grande precisione. La “maestà sacerdotale” del gesto si riduce a ben poca cosa: nella semina a spaglio il seminatore procede a passi misurati con una andatura continua e un po’ meccanica, in maniera da lanciare, ogni volta che poggia a terra il piede destro, un pugno di semente a semicerchio, e con forza, per evitare che il frumento si depositi a mucchietti e cresca fitto e stentato; in quella a righe imprime invece al braccio un movimento longitudinale determinato dalla direzione del solco, facendo uscire il seme da una fessura fra l’indice e il pollice, aperta in maniera da regolare la quantità, e un po’ di vento basta a costringerlo a curvarsi fin quasi a terra per depositare lentamente il seme nel solco, «masannò lu vìantu cci l ’arrobba di mmanm (C) “altrimenti il vento gli ruba la semente dalla mano”. In entrambi i casi l’abilità consiste nel dosare la quantità di seme da spargere in modo da ottenere una distribuzione uniforme su tutta la superficie; un difetto in questo senso provoca una rarefazione delle spighe (lauri spanu), un eccesso invece un infittimento dannoso allo sviluppo della pianta (lauri assimintattì)sò\ ma la relativa leggerezza del lavoro e la struttura dell’azienda agricola precaria nella quale l’esigenza del lavoro convergente e complementare di due persone viene spesso soddisfatta nell’ambito della famiglia, hanno fatto sì che in questa attività si siano specializzati soprattutto donne e bambini34 (t a w . 50-51). «Ma lu nfiarnu èppuru ppi l'armali» (C) “Ma l’inferno è pure per gli animali”, che durante questo periodo sopportano un peso non paragonabile a quello di qualsiasi altra attività agricola; l’aratro è duro da trascinare ininterrottamente per una giornata intera, soprattutto nei terreni in pendio (,appuiati), e non consente neppure una liberazione provvisoria con la fuga3^; i muli si imbizzarriscono (sappàgnanu) facilmente, il basto, se non è 31 Ci sono animali che hanno la costante tendenza a spostarsi lateralmente (spaddrini), costringendo il lavuraturi a un continuo sforzo per mantenerli sempre nella stessa virsura. 32 Le voci che accompagnano questi tre spostamenti sono rispettivamente: esa cca!; vàsciu cca!; a la vo cca! 33 Un campo mal seminato mostra questa sua qualità non appena il grano germoglia: rinfittirsi delle piantine nei punti in cui sono caduti i pugni di semente {lu lauripugnìa:), o al confine fra due porche contigue {lu lauri bbruscìa), denunzia palesemente i limiti del seminatore. 34 «Picciuttìaddri di ott'anni ncuminciàmmu a spènnirh (b. di C) ‘'Bambini di otto anni incominciavamo a gettare semente”. «Simenta nni ittàiu apprìassu a mma maritu quantu capiddri àiu ntesta» (contadina di Va) ‘‘Semente appresso a mio marito ne ho gettata quanti capelli ho in testa'. 35 Capita spesso che gli animali riescano a girarsi verso la parte interna dell’aratro facendo scivolare il giogo sotto il collo (straiuvari), ma senza riuscire a liberarsene.
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ben stretto dalla cinghia, e im bottito di paglia nella misura giusta, muovendosi sotto la pressione deiraratro provoca delle piaghe (custani) sul garrese (lu garresi) e sulla groppa (la gruppo) o sul collo, di lenta e difficile gua rigione (li vìastii si guàstanu). La resistenza passiva attuata spesso dai buoi, che si gettano a terra aggiogati come sono, e non accennano più a rialzarsi, viene fiaccata dal contadino con vari espedienti: una vampata di paglia sotto la pancia, o una otturazione delle narici con terra umida, o una assaiatina “aizzamento” di cani, li costringe a rialzarsi e a riprendere con maggiore docilità la pesante fatica. Una coppia di buoi o di muli ara in media quattro tumoli di terra al giorno. La quantità di semente varia in relazione al sistema usato: per una salma di terreno bastano 12-14 tumoli di frumento se la semina è a solchi alterni, 16-20 se a solchi continui oppure a spaglio36. Le varietà di frumento più diffuse sono la rrussuliddra (o lu rrussladdru), lu rrealafforti, lu bbidì, la sammartinara.
30 Nella semina a righe le variazioni della quantità dipendono dalla distanza tra i solchi. In quella a spaglio la quantità di seme è sempre piuttosto elevata perché viene distribuita su tutta la superficie; è inevitabile inoltre che molti chicchi rimangano, a differenza che neiraltro sistema, scoperti, e soltanto una buona pioggia che intervenga subito dopo riesce a sotterrarli, cioè a salvarli. Ma se il tempo si mantiene asciutto dopo la semina, le formiche li raccolgono ammassandoli nelle loro tane; quando si accorgono che la pioggia li ha inumiditi, li riportano in superficie per farli asciugare al sole, ripetendo più volte l’operazione in rapporto all’alternanza della pioggia e del bel tempo: una fatica sprecata, perché i chicchi risparmiati dagli uccelli finiranno comunque col germogliare a ciuffi molto fitti (li furmiculam) che d’altra parte non si trasformeranno mai, per l’eccessiva densità, in spighe («unn arrivami a ffaripani » [b. di C] “non arrivano a fare pane”).
Dalla semina alla raccolta
Il chicco di frumento» ricoperto di terra, dopo alcuni giorni emette la radice primaria (etta la granfa), quindi germoglia (aggìglia) sviluppando in senso opposto la piumella embrionale (lu ggìgliu), e a quindici giorni dalla semina il germoglio giunge al livello del terreno (lu lauri spunta o affaccia). La prima fase della crescita è molto lenta, e quando la piantina ha già tre-quattro foglie, si ingrossa alla base emettendo l’apparato radicale secon dario e nuovi germogli accanto a quello principale (mprucchiari o ?npurchiari, fari lu mprùacchiu o mpòrchiu). Trascorrono così un paio di mesi durante i quali lu lauri non necessita di alcuna cura, e soltanto a febbraio1 il contadino svolge la prima coltivazione che consiste nel cardiari. L’erpice (lu cardn) è uno strum ento costituito da una intelaiatura di ferro pesante e di forma variabile, munita nella parte inferiore di grossi denti dritti o ricurvi. Collegato per mezzo di due corde o catene ai fianchi di un mulo con siddruni, o direttamente al maniuni del giogo sostenuto da due animali, esso viene trascinato sistema ticamente per tutta l’estensione del campo. La cardiata risponde alla necessità di smuovere il terreno in superficie e di rompere la crosta formatasi in segui to alle piogge, favorendo la crescita delle piante2. L’altra esigenza, anch’essa fondamentale, è quella di coltivare il campo liberandolo da tutte le erbe estranee (lu strània) cresciute dalla semina in poi, e da quei cespi che, sfuggiti all’aratro, si sono nel frattempo ingrossati e sviluppati (tivffì simintint). A ciò si provvede a marzo in maniera dif ferenziata a seconda del tipo di semina. Se il grano è stato seminato a ssurcu vacanti, si può passare con l’aratro tra i filari ottenendo una coltivazione in profondità che sostituisce o rende assai più agevole la zappatura successiva; se invece è surcupi ssurcu, il campo viene smosso con la zappa in superficie (perciò si dice, oltre che zzappari, rascari), e ripulito quindi da tutte le erbe infestanti. La fitta e irregolare distribuzione delle piantine rende impossibile, nel caso di semina a spaglio, una zappatura sistematica, e ci si limita a sradicare con una zappetta a lama stretta e sottile (la zzappuddra) i più grossi ciuffi di erbe, e a smuovere il terreno negli spazi liberi (zzappuliart). La disposizione del grano a filari condiziona rigidamente lo svolgimento della zz>appata, così come quello di altri lavori. La squadra di uomini (la chiurma) si dispone ad antu partendo dall’angolo più basso del cam5 Questa determinazione temporale, e le successive, sono piuttosto approssimative perché tutto dipende dalFandamento climatico dell’annata. 2 Nel caso che non si sia fatto al momento della semina, cade in questo periodo anche la concimazione chimica (ittari lu nitratu ). Il concime viene sparso lungo i filari se la semina è a righe; se invece è a spaglio, si delimitano delle strisce (sprighi o bbrosci anche in questo caso) per mezzo di canne piantate sul terreno, in maniera da avere Fesatta cognizione di come procede il lavoro e ottenere una distribuzione uniforme.
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po. Chi guida il complesso delle operazioni, cioè il bburgisi che abbia ingaggiato dei braccianti, o il più valido degli uomini, incomincia a zappare risalendo i due filari a suo tempo seminati verticalmente lungo il confine della tenuta, mentre gli uomini vanno entrando a uno a uno, a distanza di qualche metro, nei filari orizzontali; quando tutti sono dentro e hanno già cominciato a zappare la superficie compresa fra tre filari, stando a cavallo di quello centrale, si sposta ad angolo retto ed entra anch’egli in coda alla fila; giunti all’altra estremità, chi è in testa perche è partito per primo ripete a sua volta lo stesso procedimento ritrovandosi in ultima posizione. Lantu, rappresentato in questo caso da una linea obliqua, procede così con regolarità assoluta (ta v v . 52-54), e a nessuno è consentito di rompere l’ethos della “solidarietà” e competitività rimanendo staccato dagli altri; ed è per questo motivo che, mentre gli uomini 4portano” ognuno due filari3, se c’è qualche ragazzo porta un filarvi sulu per non perdere il contatto con gli altri4. Il ritmo, più o meno veloce, è regolato sempre dal capuchiurma, che per la posizione assunta m a vota ammutta darrìa, natra vota tira davanti» (VI) “una volta spinge da dietro, e un’altra volta tira la cordata”. Un momento di sosta è consentito soltanto per ripulire la zappa dalla terra con la rrasola (o rrasula), una paletta di ferro che ogni zappatore porta appesa con una cordicella alla parte posteriore della cintura, da dove pendendo non può intralciare i movimenti, e che una sommaria associazione analogica fa denominare rròggiu di lu viddranu “orologio del villano”. La zappa (lu zzappuni) è costituita da una tozza lama di ferro rettangolare provvista all’estremità di un occhio (luacchiu:) bordato nel quale si inserisce il manico di legno (lu marrùggiu)\ la lama forma con esso un angolo acuto e perciò lu zzappaturi è costretto a piegarsi in due a ogni colpo, facendo forza con le braccia e con tutto il peso del corpo (ta v . 55). E strumento pesante e di faticoso maneggio, e il suo uso per una intera iurnata di zzappari rompe le braccia e la schiena. La zzappata è ddura picchi lu cristianu sta tutta la iurnata cu lì corna riterrà a ddri fanghi-fanghi. Atru ca cantari! mancu vòglia di parrari vinìa! Quannu mammattìa quarchi gghiurnata, la sira rnarricampava intra sdrirrinatu (br. di VI). “La zappata è dura perché il cristiano sta tutta la giornata con le corna verso terra, e in mezzo a tutto quel fango. Altro che cantare! neanche di parlare veniva voglia. Quando mi capitava di fare qualche giornata di zappare, la sera rientravo a casa direnato” \
la quannu avìa a ppàrtiri pi la Ggermània, lu iìiarnu prima hi di fora cu la scupetta e cci sparàiu a lu zappimi (br. di VI). “Io quando dovevo partire per la Germania, il giorno prima andai in campagna con il fucile e gli sparai allo zappone”. 3 Nella zappettatura invece ogni contadino procede muovendosi con una certa libertà alPinterno di una striscia di terreno. 1 «Zzappàvamu a Vvicarìattu cu Ppippinu Ognimmè, ca era carimi., e nnuatri gratini ni lu furriàvamu. La ggenti ca passava, ca èramu a bhanna di sfratimi, ni gridàvanu: “Tirativillu cu na corda!”, e cchiddru, lu carusu, pi ttravagliari esattu, arristava sempre di darrìa. Si
truvà appassari sa zzi, e cci accumincià a ggridari: uLassala Verva, abbasta ca un t avviasti di darrìa! la ggenti un ni la vidimi ca lassi l'erva! ma si Ravviasti di darrìa, lu vidimi, eccomu/ ”» (br. di VI) “Zappavamo a Vicarietto con Peppino Ognibene, che era un ragazzo, e noi
grandi lo sopravanzavamo. Le persone che passavano - eravamo ai bordi di una strada - ci gridavano: ‘Tiratevelo con una corda!’, e lui, il ragazzo, volendo lavorare come si deve, rimaneva sempre dietro. Si trovò a passare suo zio, e cominciò a gridargli: 'Lasciala pure l’erba, basta che non rimani indietro! la gente non lo vede che hai lasciato l’erba, ma se resti indietro, lo vedono, eccome!’”. 5 A questo ripiegamento dell’uomo sulla terra ha dato la più folgorante espressione, nella sua dimensione reale e simbolica, il poeta (dialettale) Giuseppe Battaglia da Aliminusa: «La tevra è vàscia, vàscia Signuri>/ e si zzappa calatu: suduri e suduri ì ca è megghiu la morti» “La terra è bassa, bassa Signore, / e si zappa curvati: / sudore e sudore / che è meglio la morte”.
Dalla semina alla raccolta
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Dopo le due operazioni fondamentali dell’erpicatura e della zappatura, la prestazione di altri lavori dipende esclusivamente dallo stato della coltura e dalla disponibilità di tempo. Si può, se nel frattempo vi sono cresciute altre erbe, struffari ancora una volta, o zappare di nuovo in superficie, ma quasi sempre ci si limita a scorrere il campo sradicando le erbe con le mani (.scùrriri) nel mese di aprile, quando l’uso della zappa non è più consentito perché i cespi di grano si sono infittiti e allargati ingombrando tutta la superficie. Le piante infatti, dopo l’accestimento, hanno avuto uno sviluppo notevole soprattutto nel mese di marzo (perciò Marzu coriza e ¡¿guasta e Nna marzu, ogni ttrojfa un gghiazzii)(\ in concomitanza con l’innalzamento della temperatura all’inizio della primavera. I vari germogli sviluppatisi dall’unico chicco di frumento, crescendo, presentano a un certo punto un rigonfiamento agli apici (lu lauri ùnchia) che prelude alla formazione delle spighe7. I nodi della canna (li gruppo), rawicinatissimi e inguainati dalle foglie, si vanno distanziando progressivamente a partire dal più basso e alla fine di questa fase l’infiorescenza della spiga, già abbastanza sviluppata, è avvolta soltanto dalla guaina dell’ultima foglia; a quel punto essa viene fuori rapidamente (lu lauri spica) spinta in alto dall’ultimo internodo (lu lauri scoddra, fa la scuddraturdf, dando luogo a un unico filo compatto (la vusa o bbusa). Si forma quindi la cariosside (la spica ngrana) che ingrossa fino a raggiungere un peso superiore a quello della granella matura (lu lauri è ntiniri o mputirif. Man mano che la temperatura va aumentando e ci si avvicina al mese di giugno, i chicchi, asciugandosi, diminuiscono di volume, e la pianta ingiallisce progressivamente (lu lauri è bbrusciarìaddru)lu; quando è completamente gialla, e il grano è giunto alla piena maturazione, è tempo di mietere11 . 6 “Marzo aggiusta e guasta’ e “A marzo ogni pianta è un letto”. 7Ogni seme produce quindi più di una spiga, e cioè, in condizioni assolutamente normali, 200-400 chicchi. A questa straordinaria resa del grano allude la storia, assai diffusa tra i contadini, di quel feudatario che concede a un mortodifame il permesso di seminare tre chicchi di grano nei suoi terreni, per tre anni consecutivi: «Lu primu annu , siminati unu cca e unii ddra, e ccurtivati bbeni, ficiru mprùacchi terrìbbili, egghittaru un quarticìaddru di firummìantu; la secunna annata na sarma, e la terza mancu ci abbastava tuttu lu fiau » (b. di VI) “Il primo anno, seminati alla giusta distanza, e ben coltivati, diventarono dei cespi rigogliosi, e produssero un quartino di frumento; la seconda annata una salma, e la terza non bastava tutto il feudo per potere seminare il grano prodotto”. 8 La rapidità della spigatura motiva l’uso metaforico del verbo spicari, detto della rapida crescita di una persona: «Lu carimi spicà tutt’a na vota» (VI) “Il ragazzo è spigato tutto d’un colpo”. 9 La pianta del frumento è costituita dalla canna (culmo) con tre o quattro nodi (ligruppo) nella parte inferiore e la vusa (o bbusa o bbiihia) in quella superiore, quindi dalla spiga {la spica) con carri (spighette), còccia (chicchi) e capiddruzzi (reste). 10 Bbrusciarìaddru è in generale il grano non ancora maturo, e in particolare un mazzo di spighe che si usa bruciacchiare alla fiamma perestrarne i chicchi ancora verdi e mangiarli. n In vista della imminente mietitura bisogna pensare a procurarsi la liama (o liama), cioè i legacci di ddìsa (ampelodesmo) indispen sabili per legare i covoni. Ciascuna liama è costituita da due fascerti di 8-10 foglie filiformi di ddisa annodate nella parte superiore e più sottile. La ddìsa nel «Vallone» cresce un po’ dovunque (ciuffi di questa pianta, a determinati intervalli, segnano nel feudo il confine tra le varie tenute e proprietà), ma non in quantità sufficiente per il fabbisogno; la liama viene perciò acquistata già pronta nelle piazze dei paesi, dove arriva da zone sabbiose che la producono in abbondanza. I contadini di Cammarata se la procurano direttamente mietendo la ddisa che cresce in grandi quantità sulla montagna. Trasportata in paese la massa di foglie filiformi recise alla radice, la dividono a grandi fasci (ìnannuna-mannuna) eliminando i fili più piccoli (cutulari la ddisa)\ quindi, stando seduti, annodano le sottili estremità di due fascetti e stringono uno speciale nodo facendo passare i fili dietro le spalle e tirandone con forza le due estremità nelle opposte direzioni.
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Pane amaro
I fattori nocivi allo sviluppo fisiologico della pianta del grano dalla sua nascita fino alla mietitura sono così numerosi e interferenti da rendere assai raro il caso che un seminato giunga alla completa maturazione senza aver subito gli effetti disastrosi di uno di essi, o di molti in concomitanza. Le erbe che solitamente vegetano nei campi di grano (ina, rnazztilina, trifuagliii, ggigliulina, (a)trè> ggiùagliu, etc.) sottraggono sostanze nutritive alla pianta e, se non sono costantemente eliminate, prendono il sopravvento impedendone lo sviluppo. Di esse la più tremenda è senza dubbio la lupa di lu lauri, il cui nome dà un’idea dell’azione divoratrice che essa ha sulle piante di grano («In lauri si lu mància e un ci fa ccògliri suspiru» [b. di VI] tcil campo di grano se lo mangia, e non lo fa respirare”)12. II giusto equilibrio della pioggia e del sole è, durante tutto il corso dell’annata, una condizione fondamentale per il normale sviluppo della coltura; condizioni meteorologiche avverse hanno invece effetti disastrosi, soprat tutto neU’ultima fase del ciclo vegetativo, dal m om ento della spigatura fino alla completa maturazione, quando si decide spesso la sorte di un intero anno di lavoro. Nei terreni margigni («unni l'acqua cci dormi») o guttusi, cioè scarsamente permeabili in superficie, le piogge eccessive provocano il ristagno dell’acqua in determinate pozze (zzotti); già in inverno lu lauri appare stentato, giallognolo, più tardi «spica senza fari la scuddraturay abbianchìa ed è mmùartu» (VI) “si leva senza fare l’ultimo sviluppo, diventa bianco, ed è m orto” (lauri ammargiatu o azziddratu). Non meno dannosa è la mancanza d’ac qua e di sostanze nutritive che rallenta il ciclo vegetativo, facendo crescere spighe appuntite con chicchi diradati e minuti (lauri sbirdunatu o abbirdunatu). Il sopraggiungere del vento caldo di scirocco durante la spigatura «l'ammazza nna lu hiuri e lu fa quagliari» (VI) “lo uccide mentre è in fiore, e lo fa avvizzire” (lauri ammagliata); una burrasca o un vento forte a spigatura già avvenuta provocano, tanto più facilmente quanto più i culmi sono robusti, l’allettamento, cioè rincurvatura della base dello stelo fin quasi a terra (lauri ittatu)vl; il vento mutevole lo fa deviare dal filare in tutte le direzioni (lauri strafilatu); l’alternanza brusca di pioggia e di sole, di tramontana fredda e di scirocco caldo durante la granigione, determina un improvviso ingiallimento della pianta e un arresto dello sviluppo (lauri squadatu)13; l’um idità notturna (la muddrura) provoca la ìrisina o sirina, una sorta di rug gine rossastra che attacca tutta la pianta, rovinando persino la paglia che risulta indigesta agli animali; al difetto del trattamento preventivo della semente con petra cilesti si deve la comparsa del fumu o mascarò o mascareddra, una polvere nera che colpisce i chicchi di frumento (lauri ajfumatu o ammascariddratu o ammascarunatu)XA* Non sempre dunque biondeggiano le messi, né la cura assidua e costante basta a stornare la malannata. Tutti Le liame, lasciate cadere alle spalle, vengono alla fine legate a gruppi di venti {un mazzu, ogni 50 mazzi costituiscono un migliarli) e messe ad asciugare al sole per una quindicina di giorni. 12 L’avvento dei trattori l’ha completamente debellata. Soltanto la voracità la accomuna a un’altra pianta che prospera attaccandosi alla radice delle fave, detta anch’essa lupa. 12 II fenomeno si verifica soprattutto se il grano è seminato a righe, ed è meno frequente nella semina a spaglio perché le spighe, essendo più vicine, si sorreggono reciprocamente. 15 Se è, come spesso succede, squadatu o ammargiatu in alcune zone soltanto, si dice che lu lauri è gariuna-gariuna, e se è rado lu lauri garìa, cioè prende aria, manca di compattezza. 14 Fra i parassiti animali il più tremendo è la cìmici che attacca le coriossidi già nella spiga e le svuota {lauri accimiciatu).
Dalla semina alla raccolta
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questi fenomeni, variamente intrecciandosi e componendosi in un decorso stagionale sfavorevole {«si lu tìampu cantina tintu» ‘se il tempo cammina avverso”), provocano un diradamento della coltura, e se intervengono nel momento della granigione (quannu «hi lauri è nni la grana») hanno conseguenze disastrose sulla quantità e qua lità del prodotto: la spiga abortisce totalmente - «certigregni siputìanu isari curi ghitm (b. di C) “certe gregne1'’ si potevano sollevare con un dito” - o produce solo radi e minuti chicchi (veni sgranatu), la granella non conse gue il normale ingrossamento (arresta a mmìanzu cùacciu), ed essendo di qualità inferiore «unu l'ava sbriugnari pi qquattru sordi» (VI) “uno è costretto a svenderlo per quattro soldi”. Spesso un campo di grano è colpito così uniformemente e gravemente da uno di questi mali da far apparire la stessa mietitura come una inutile fatica: Ccèranu annati ca lu mitìavamu sulu pi ppulizziari la terra, o pi la vriogna di la ggenti ca passàvanu; e un ci appizzàvamu un pòsparu p’unrìabbrusciaripuru cbiddru di lu vicinu (b. di VI). “C’erano annate che lo mietevamo solo per ripulire il terreno, o per la vergogna della gente che passava; e non ci accendevamo un fiammifero solo per non bruciare pure quello del vicino”.
Il tempo della raccolta (la stasciuni)
Mètiri
Il periodo ottimale per la mietitura di un determinato campo di grano ha una durata brevissima, sei-otto giorni al massimo; non appena lu lauri è giunco alla maturazione piena, ogni giorno che passa aumenta il rischio che un improvviso scirocco lo faccia strasiccarn e in un normale andamento stagionale, dopo una settimana è già strasiccu: le spighe si sgranano e si staccano facilmente dai gambi1, e questi perdono la flessibilità indispensabile all atto della mietitura. Si determina così, per il grande proprietario come per il piccolo bburgisi, la necessità di far ricorso alla manodopera salariata per concentrare in pochi giorni un’attività che, a differenza di tutte le altre, non può essere diluita nel tem po2. La pressione esercitata dalla grande massa dei braccianti disoccupati sul mer cato locale del lavoro non riesce una volta tanto a soddisfare l’improvvisa richiesta di manodopera determinata dalla contemporanea maturazione di distese sconfinate di frumento; e ad integrarla abbondantemente intervie ne una migrazione stagionale interna che ha le dimensioni di un imponente fenomeno sociale almeno fino al 1965 \ e si esaurisce totalmente con la trasformazione dei processi produttivi in agricoltura, ma soprattutto con l’ondata migratoria verso la Germania, toccasana di questo ed altri malesseri sociali. Dalla fascia costiera meridionale che va da Palma di M ontechiaro a Modica, ricca soltanto di terreni sabbiosi e di carrubi, e non ancora toccata dalla ‘redenzione’ degli insediamenti industriali e delle colture specializzate, migliaia di braccianti già a metà maggio premono sull’area del latifondo cerealicolo. Dopo aver esaurito il poco che si produce nei loro paesi (Palma, Licata, Gela, Ragusa, Modica), cominciano a risalire l’isola secondo una progressione altimetrica {acchianari-acchianari) spostandosi prima verso le zone collinari a ridosso del litorale, quindi verso l’altopiano dei grandi feudi, per chiudere finalmente la stagione sui più alti paesi delle M adonie a luglio ormai inoltrato. Così una campagna che nella sedentarietà dell’uomo non supera i dodici-quindici giorni, si dilata fino a durarne cinquanta di seguito; e l’eccezionale durezza delle condizioni di lavoro, estesa nel tempo, si trasforma in una costante insidia alla vita. Mancano naturalmente dati precisi o approssimativi, ma non c’è 1E qui che si creano le premesse per la furura attività degli spicalora (vedi oltre, pp. 62-64). 2 L’urgenza della mietitura è cristallizzata nell’espressione: Chi è lauri ca strasicca.r e ccaminà na stasciuni pericolosa, a Ppasquali nni murìaru quarchi ccinqu o sei; mentri attaccàvanu li gregni cadìvanu màarti di cent’a nni picchi la timpiratura era troppu scarmazzusa (br. di Va).
"Un’annata che ci fu una calura potente, e andò avanti una stagione pericolosa, a Pasquali ne morirono cinque o sei; mentre lega vano le gregne cadevano morti di cent’anni, perché la temperatura era troppo sciroccosa”4.
Nei paesi collocati nell’area di cui ci occupiamo li mititura giungono ai primi di giugno, talvolta già costituiti in una squadra completa (otto mietitori e un li(g)aturt) detta opra d'ùamini oppure opra di fauci (ta v . 56), più spesso a piccoli gruppi, o alla spicciolata. S’agghiàzzanu sul nudo terreno nella piazza principale del paese, o sugli scalini della chiesa, ognuno con una falce, una coperta, un saccuni per il pane e le piccole cose personali, in attesa dei proprietari che arrivano la sera piffari (o addruvari) l'uammi. Il mercato delle braccia dura qualche ora, con la contrattazione sul prezzo, determinato dal solo meccanismo della dom anda e dell’offerta, la selezione operata in base all’età e all’aspetto più o meno valido, le piccole intermediazioni di chi ha già sperimentato l’efficienza di determinate oprP, la richiesta di informazioni sulla natura del terreno e la distanza dal paese. Quelli che vengono ingaggiati vanno a dormire davanti la porta di casa del padrone, sopra quattro marini di fieno, o nella paglialora, per essere pronti ad incamminarsi a piedi, ancora a notte fonda, verso il lontano posto di lavoro; i molti rimasti inoccupati si acconciano a dormire sul selciato recuperando per tutta la giornata successiva le molte ore di sonno perdute ( t a w . 5 7 -5 9 ); e dopo due-tre giorni di forzata inattività, si spostano a piedi verso il paese successivo. Quando i contadini ripetono che «tri unzi di fauci sifidanu un cristianu purtallu a la fossa» (VI) “tre once di falce sono capaci, un cristiano, di portarlo alla fossa”, non fanno altro che trasferire sullo strumento tutte le potenzialità mortali della mietitura, sproporzionate rispetto all’inconsistenza ponderale della falce. La verità è che in una strut tura sociale nella quale la giornata lavorativa è scandita dai ritmi astronomici, la mietitura viene a cadere nel periodo di massima estensione della luce e del calore. All’interminabile giornata lavorativa —«iurnati ca u scura mai; Voràriu era stiddri e stiddrh (b. di VI) “giornate che non annotta mai; l’orario era dalle stelle alle stelle”, cioè 15-16 ore - e 4 II canto popolare ha registrato puntualmente la letalità potenziale della mietitura: «Ma patri pi lu mètiri scattati / si lu va mineti cu lu siminau » “Mio padre per il mietere è schiattato / se lo vada a mietere chi l’ha seminato”; e una donna che vorrebbe disfarsi del marito, invoca: «Càudu, san Pàulu, ca ma marini meti, saccanna e mmori» (VI) “Caldo, san Paolo, che mio marito miete, si affatica, e muore”. s Succedeva talvolta che uri opra conosciuta e apprezzata scrivesse una cartolina al bburgisi preannunziando il periodo approssima tivo del suo arrivo in un determinato paese.
Il tempo della raccolta
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al grande caldo, acuito dall’insopportabile riverbero delle messi - ; ^ v -0 :3 :^ -'/-i^4. -f-A '--: ' ?Y^ -ÿ ^ 109. Cernilrici, Sclaiani Bagni (PA) 1972. Qui due donne cernono con due crìvi contemporaneamente. Alle spalle V imponente mtnargunata della paglia espulsa.
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110. Sommatino (CL) anni Trenta (?). Cernitura professionale nell’aia di un ricco proprietario, come dimostra anche la presenza dei carretti pronti al trasporto.
111. Cirnituri di mestiere al lavoro nei magazzini padronali, Comiso (RG) 1895.
1 12. M isurazione del grano con tùmminu e rasa , e nsaccata M adonie, inizio anni Ottanta.
1 13. Muli con basto (v arde (idra) idoneo al trasporto del grano e delle persone. Caltavuturo (FA) 1973.
114. Viirdiaumt con i suoi muli durante una sosta all’abbeveratoio (bbrivatura o ggèbbia\ sotto il castello di Mussonieli (CL). anni Sessanta
115. Nsaccata, Raffilali (AG) 1978. Al momento di insaccare il grano, i muli sono già pronti per il trasporto.
117. Ventilazione a mano, Grottole (Lucania) anni Sessanta (?).
119. Moiiacu di cerca, Sicilia interna, inizio anni Cinquanta.
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120. Monaco di cerca nell’aia, Montedoro (CL), inizi del Novecento. La strana fotografia è autentica, ma fortemente manipolata.
121. Famiglie di Mudicani in viaggio da un feudo all’altro, 1957.
123. Trasporto dei ritmici sul mulo, Marianopoli (GL) anni Settanta.
124. Reioni per la paglia gestiti da donile greche, Aràehova.
125. Trasporto di retoni sul carretto, Sicilia interna, luglio 1943.
126. Bburgi di paglia nei pressi di una masseria (vedi anche TAVV. 19 e 20), Cammarata (AG) 1975.
127. Contadino che controlla Yavruscata.
128. Un’immagine della grande fiera di Lercara (PA). 1968.
130. Ancora la liera di Lereara (PA), 1968.
131. Venditore di nei rati (“incerate”) alla Fiera del Castello a Mussomeli (CL).
132. Tenute a Villalba (CL). Il raccolto è finito: alcuni contadini hanno lasciato le stoppie (in alto a destra), altri le hanno già bruciate (in basso a destra e in alto a sinistra), i più solerti (al centro) hanno già arato la prima volta, dando inizio alla nuova annata
Appendice I: Strade e abitazioni contadine in paesi agricoli negli anni Cinquanta e oltre
1. Una via di Villalba (CL) negli anni Cinquanta.
2. Una via, tra le tante, di uno dei tanti paesi agricoli siciliani, Bisacquino (PA), nel 1950.
3. Una via di Palma di M ontechiaro (AG ) nel 1957.
. Una via di R iesi (CL), anni Cinquanta.
5. Una piazza di Ricsi (CL), anni Cinquanta.
6. Un cortile di Roccapalumba (PA) negli anni Cinquanta, con galline, tacchini e persino un porcellino in libertà.
7. Famiglia contadina della Sicilia interna, anni Cinquanta (?).
10. Interno di una casa di contadini poveri. Alia (PA) 1951.
11. Interno di casa contadina in campagna, Alia 1951
12. Pecore davanti a una chiesa a Pelraiia Sopnma (PA). fine anni Gnquant
13. Capre in una strada di Vallelunga (CL), anni Settanta.
Appendice II: «Occupazione delle terre» in undici tempi
I contadini onesti o gab^lloti mafiosi, pregiudicati, latitanti, confinati? m §\
'
CHE FARÀ É GOVERNO? E CO ] THRMINI DELLA RSIA NELLE CAMPAGNE:
aera ri t . ::~~VIA / CONTADINI DALLE TERRE Conici 'or; -ics: FUmi DAI FEUDI
I CONTA_ »NI r^ N N C SEMINATO l
ELLO I MAFIOSI !
1. La m ob ilitazion e della Confederterra. M anifesto della line degli anni Quaranta. A rchivio Istituto Gramsci S icilian o.
2. A dunata a ll’ alba, n ella p iazza del p aese, di co n ta d in i e b ra ccia n ti arm ati di band iere ro sse e a ttrezzi da lavoro Nei rapporti di p olizia e nelle sentenze della m agistratura l ’adunata era invariabilm ente “sed izio sa ”. M azzarino (CL) 1947
3. In marcia verso il feudo: a cavallo ...
Occupazione del feudo Galassi, Sommatino (CL) anni Cinquanta.
5. Si prende possesso del territorio.
Imprecisata località d ell’agrigentino, 194
6. lina sosta per il comizio del compagno dirigente. Epifanio La Porla all"occupazione del feudo Castelluccio, tra Mineo e Palagonia (CT), 1952.
7. In alto le zappe.
Mazzarino (CL) anni Cinquanta.
8. Si procede a zappare la terra altrui
Ragiano Gravina (Calabria), 1955.
10. Il popolo dei senzaterra.
Feudo S. Villa, nei pressi di Ernia, 1954.
11.11 mesto rientro
Mineo (CT) 1952.
Appendice III: Ciclo del frumento nella Toscana del X IV see.
Questo "disegno etnografico*' di Francesco Miizzi concentra, in un’unica tavola, i momenti essenziali della coltivazione del grano raffigurati tra gli effetti del Buon Governo nel grandioso affresco di Ambrogio Lorenzelti (1338-39), Palazzo Pubblico di Siena.
Appendice IV: Ciclo del frumento in Egitto (lll-ll millennio a.C .) in nove tempi
1. Modellino di aratro “a chiodo”, intorno al 2000 a.C. Coll. Musée de l’Agriculture ancienne du Caire - Inv. n° 1457, cliché Arnaud du Boistesselin.
2. Sennedjem dirige l’aratro “a chiodo” e la moglie semina “a solco” attingendo la semente da una “coffa”. Pittura dalla Tomba di Sennedjem a Deir el-Medineh, necropoli di Tebe (Valle del Nilo), intorno al 1250 a.C.
3. Anìu di zappatori. Bassorilievo dalla Tomba di Khaemhat a Sheikh ‘Abd el-Goumah, necropoli di Tebe, intomo al 1400 a.C.
4. Antu di m ietitori. Pittura dalla Tomba di M enna a Sheikh Abd el-Gournah, necropoli di Tebe, intorno al 1400 a.C.
5. Trasporto delle “gregne” nell’aia. Pittura dalla Tomba di Panehsi a Teli el-Amama, necropoli di Tebe, intorno al 1250 a.C.
6. Due uomini, sotto lo sguardo di un terzo, rivoltano l’aia a forza di tridenti prima della pisata. Malgrado l’apparenza, l’aia è piatta e rotonda. Pittura dalla Tomba di Menna (vd. sopra).
7. Pisata con i buoi, cf. TAV. 87; ai lati, due indispensabili arrunchiaturi. Pittura dalla Tomba di Menna (vd. sopra).
8. Ripulitura del grano dalla paglia con l’aiuto del vento. Il ragazzo di destra, con due scuparini, raccoglie i gruppa. Pittura dalla Tomba di Nakht a Sheikh ‘Abd el-Gournah, necropoli di Tebe, intorno al 1400. Copy: Nadine Guilhou.
. Divisione del prodotto nelTaia. Mentre alcuni uomini riempiono i turnoli, una squadra di scrivani prende ccurata nota d elle quantità. Si può stare certi, com e osserva il grande eg itto lo g o Pierre M ontet, he “i contadini conserveranno una piccola parte del raccolto”. Pittura dalla Tomba di Menna (vd. sopra).
Crediti fotografici
L’ambiente, l'uomo e il lavoro 1. ©Melo Minnella (< Archivio L’ORA), 2. ©Rudolf Pestalozzi n. 29. 3. ©Pepi Merisio n. 32. 4. ©S.N. 5. ©Melo Minnella. 6. ©Melo Minnella. 7. ©Melo Minnella, L’isola p. 55. 8. ©Enzo Sellerio (in Paesaggio p. 102). 9. ©Nicola Scafidi n. 40. 10. ©Eugenio Bronzetti. 11. ©Eugenio Bronzetti. 12. ©Eugenio Bronzetti. 13. ©S.N. 14. ©AIS 3352 (Gerhard Rohlfs in P. Scheuermeier II n. 36). 15. ©Bernard Aury (in P. Sébilleau n. 116). 16. ©Publifoto Palermo (in A. 1. Lima n. 99). 17. ©Publifoto Palermo (in A. I. Lima n. 100). 18. ©A. I. Lima n. 110. 19. ©Gigi Petyx (< Archivio L’ORA). 20. ©Ettore Martínez p. 72. 21. ©S.N. 22. ©Melo Minnella. 23. ©Salvatore Trajna n. 17. 24. ©S.N. 25. ©Ettore Martínez p. 72. 26. ©Melo Minnella. 27. ©? (< Vii lai ba). 28. ©Pino Vicari p. 17. 29. ©Salvatore Trajna n. 13. 30. ©Pino Maggio. 31. ©Rudolf Pestalozzi n. 22. 32. ©Bernard Aury (in P. Sébilleau n. 7). 33. ©Melo Minnella. 34. ©Melo Minnella. 35. ©Melo Minnella (in Lavoro n. 2). 36. ©AIS 3285 (Gerhard Rohlfs in P. Scheuermeier I n. 161). 37. ©Enzo Brai p. 65.
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C re diti fo to g ra fic i
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C re d iti fo to g ra fic i
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