Opere filosofiche [Vol. 3]
 9788841893838 [PDF]

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Zitiervorschau

CLASSICI DELLA FILOSOFIA COLLEZIONE FONDATA DA

N I C O L A A B B AG N A N O DIRETTA DA TULLIO GREGORY

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Aristotele

OPERE FILOSOFICHE VOL.III A cura di

MARCELLO ZANATTA, LUCIA CAIANI

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

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© De Agostini Libri S.p.A. — Novara 2013 U TET www.utetlibri.it www.deagostini.it

ISBN: 978-88-418-9383-8 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1999 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28-10125 Torino.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

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INDICE DEL VOLUME

Introduzione Nota bibliografica FISICA Libro primo Libro secondo Libro terzo Libro quarto Libro quinto Libro sesto Libro settimo Libro ottavo SOMMARI Libro primo Libro secondo Libro terzo Libro quarto Libro quinto Libro sesto Libro settimo Libro ottavo Indice dei nomi di persona presenti nell’Introduzione e nelle note Indice dei nomi di persona e dei filosofi presenti nella Fisica Indice delle citazioni fatte da Aristotele Indice dei nomi di luoghi Indice dei termini e delle espressioni Indice delle equivalenze greco-italiano 6

Indice delle tavole Introduzione Nota storica Nota bibliografica ETICA EUDEMEA Libro primo Libro secondo Libro terzo Libro settimo Libro ottavo ETICA NICOMACHEA Libro primo Libro secondo Libro terzo Libro quarto Libro quinto Libro sesto Libro settimo Libro ottavo Libro nono Libro decimo GRANDE ETICA Libro primo Libro secondo Premessa RETORICA Introduzione Nota bibliografica RETORICA Libro primo Libro secondo 7

Libro terzo SOMMARI Libro primo Libro secondo Libro terzo POETICA Introduzione Nota bibliografica POETICA Appendice A Appendice B Appendice C Appendice D SOMMARI INDICI Retorica Indice dei nomi di persona, di divinità e di popoli Indice dei nomi geografici Indice delle opere espressamente citate nella Retorica Indice delle equivalenze greco-italiano Poetica Indice dei nomi di persona, di divinità e di popoli Indice dei nomi geografici Indice delle opere espressamente citate nella Poetica Indice delle equivalenze greco-italiano Indice delle tavole

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INTRODUZIONE

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1 LA NATURA, OGGETTO DELLA FISICA I. Natura e automovimento È noto che nella classificazione aristotelica del sapere la fisica fa parte delle scienze teoretiche, di quelle scienze, cioè, il cui fine è la stessa conoscenza1. Entro tale collocazione occorre cogliere, in prima istanza, il posto di questa disciplina. Il che può scorgersi considerandone, da un lato, l’oggetto proprio e il rapporto con le altre scienze teoretiche, la matematica innanzitutto, dall’altro il metodo d’indagine. Con tali chiarimenti viene altresì in luce lo statuto epistemologico della fisica. Quale ne sia l’oggetto proprio, è indicato dallo Stagirita in Phys., II, 1: si tratta degli enti di natura (τὰ φύσει ὄντα), la cui caratteristica essenziale è di avere in se stessi la causa o il principio del movimento e della quiete, in rapporto a tutte le specie di movimento e di quiete, vale a dire o secondo il luogo, o secondo l’aumento e la diminuzione, o secondo l’alterazione2. Tale prerogativa distingue questo genere di enti dai prodotti dell’arte (τὰ τέχνη ὄντα), che invece sono posti in essere esclusivamente da una causa esterna, mentre da se stessi né sono capaci di generare, né hanno alcuna innata inclinazione per qualche specie di mutamento, se non per accidente, in quanto cioè si trovano a essere costituiti da qualcosa (come il legno o la pietra) che li riporta alla natura3. Secondo l’esegesi tradizionale, questa essenziale puntualizzazione è da intendersi nel senso che gli enti di natura hanno esclusivamente e unicamente in se stessi il principio suddetto, ossia che il loro movimento o la loro quiete sono causati soltanto da se medesimi e per questo sono diversi da quegli enti il cui movimento o la cui quiete sono invece causati soltanto da fattori esterni, com’è proprio dei prodotti delle arti. Questi ultimi, infatti, sono tali che il principio della loro esistenza non risiede in loro stessi, bensì in chi li produce4. Ma contro questa interpretazione, nel quadro di un rinnovamento esegetico della filosofia aristotelica che ha i suoi cardini teorici nella preminenza data al linguaggio e, di conseguenza, al metodo della discussione dialettica, si sono rivolti gli studi più recenti sulla fisica aristotelica, in particolare quelli di W. Wieland5. Sulla base di fini analisi, 10

questo studioso ha mostrato: 1) che caratteristica propria e costitutiva del movimento naturale è che «una origine di esso si trova, tra altre, nella cosa stessa in movimento»6, non che tutte le sue cause gli sono immanenti. A sostegno di questa tesi egli adduce — tra le altre ragioni — anche il rilievo secondo cui il testo in questione, ossia Phys., 192 b 14, non reca τὴν αρχὴν κινήσεως καὶ στάσεως, bensì, semplicemente, αρχήν κινήσεως και ςτάσεως e la medesima espressione, senza l’articolo, ricorre in parecchi altri luoghi dello Stagirita nei quali si tratta del movimento naturale. 2) Questo, dunque, «non è un puro automovimento», ma vi intervengono essenzialmente anche cause esterne, che coagiscono con quella immanente e creano, per così dire, le circostanze per l’attivarsi di quest’ultima (per esempio, per i corpi inanimati, l’esser trasportati in un luogo diverso da quello naturale; per le piante e gli animali, gli elementi delle sostanze di cui si nutrono, l’ambiente, il clima, le stagioni e così via). 3) La natura, pertanto, non è una realtà ulteriore rispetto ai costitutivi ontologici degli enti, né una realtà universale, ossia un elemento comune a tutti gli enti di natura, ma coincide con l’essenza, o — più precisamente — con la «determinazione specifica dell’essenza di una cosa». 4) La sua funzione di causa interna si delinea allora nei seguenti termini: «a ogni cosa della natura spettano forme di movimento interamente determinate, che seguono soltanto dalla definizione della sua essenza, ossia dalla sua natura e che non possono essere spiegate con semplici impulsi. Ma ciò non significa ancora che l’efficacia di questa cosa risieda nell’esercizio di questi movimenti e che sia possibile dare loro inizio "da soli". All’opposto, la cosa può compiere quei movimenti che rientrano nella sua essenza, ossia i suoi movimenti naturali, soltanto quando si sono presentate le condizioni esterne a ciò necessarie»7. Insomma, le cause esterne del movimento naturale, che intervengono in esso come in quello degli artefatti e sono indispensabili perché si attui, creano le condizioni in seguito alle quali l’ente esegua il movimento che la sua natura, ossia la sua essenza, comporta — laddove l’essenza dei prodotti delle arti non comporta che l’oggetto compia alcun movimento al darsi di certe condizioni e di certi fattori esterni, ma ogni suo movimento è interamente determinato da questi fattori. La nozione di «natura» che viene così delineandosi e che respinge l’idea dell’automovimento, si istituisce in contrapposizione alla fisica platonica. Il piano secondo cui questa si sviluppa è rintracciabile in Fedone, 96 Β sgg., che costituisce come l’annuncio del programma della fisica successivamente svolto nel Timeo. Nel predetto passo del Fedone, il personaggio Socrate critica Anassagora per non avere assegnato una funzione idonea alla Mente 11

(νoῦς) nella spiegazione dei fenomeni, facendola agire come una qualunque causa materiale e meccanica; donde la tesi secondo cui i fatti non si esplicano con altri fatti, ma portandosi sul piano dei λόγoι e, su di esso, postulando cause paradigmatiche8. Ora, nella critica di Anassagora è implicitamente posto che un’adeguata spiegazione della natura si ha soltanto con il ricorso a un principio intelligente. Tale principio è l’anima, che nel Fedro, con riferimento all’anima individuale, Platone dichiara essere una realtà semovente (αὐτoκίνητoν) e alla quale, posta come principio cosmico, nel decimo libro delle Leggi egli assegna una funzione ordinatrice della natura. Quest’ultima — fa osservare il Wieland9 — in se stessa non ha capacità progettuale, ma confina quasi col caso; capacità progettuale compete invece all’arte, che è distinta dalla natura. L’operazione platonica che sta alla base dell’istituzione dell’anima a principio intelligente e produttivo della natura consiste nello stabilire che «l’origine di ogni oggetto artificiale non è a sua volta qualcosa di artificiale, bensì di esistente per natura; ma essa, d’altro canto, è superiore a tutte le cose naturali», giacché possiede, e in sommo grado, in quanto origine di cose derivate da un produrre intelligente e finalisticamente orientato, capacità produttiva e intelligenza finalistica. Nell’anima si coniugano così ordine e autonomia, vale a dire esistenza per sé, derivandole questi attributi dalla fusione, rispettivamente, del piano dell’arte e di quello delle cose naturali. Essa è «l’origine dell’ordine così come il principio di ogni produrre progettuale, senza essere tuttavia essa stessa alcunché di prodotto»10. Per converso, poiché «soltanto l’anima esiste per natura», Platone riconosce «come natura soltanto ciò che ha la struttura dell’anima», ossia che è dotato di automovimento11. Col rifiuto di quest’ultimo quale carattere peculiare della φύσις, per una concezione del movimento naturale secondo cui esso non può prescindere da condizioni esterne, anche se non è riconducibile soltanto a esse, ma chiama in causa l’essenza, ossia la «natura», di una cosa (quella concezione che il Wieland denomina del «muoversi mosso» e qualifica come «speculativa», di contro alla nozione ancor pregna di aspetti mitici del movimento stesso12), Aristotele si opponeva, dunque, all’idea platonica di una natura esplicabile esclusivamente a partire dall’anima. Con ciò, in pari tempo, egli prospettava anche la distinzione tra l’ordine naturale e l’ordine tecnico in un modo del tutto nuovo, che ha — vorremmo a nostra volta osservare, proseguendo sulla linea dei ricchi spunti offerti dallo studioso tedesco — come correlato primo l’individuazione in essi di due diverse forme di razionalità poietica, relazionate tra loro secondo il nesso 12

dell’ὁμωνυμία πρὸς ἓν (e non come differenti specificazioni di un medesimo genere di razionalità); nesso mediante il quale viene conseguentemente a precisarsi la nozione stessa di «razionalità poietica». Che anche l’attività della natura sia una πoίησις, può evincersi dalla sua corrispondenza con alcuni tratti distintivi del produrre, indicati in Eth. Nic., VI, 4. In effetti, come la produzione è un fare eterotelico, così anche quell’attività ha per fine la realizzazione di qualcosa di distinto dal fare stesso. Inoltre, come il principio della produzione è nel soggetto che fa, così, nei termini e con le precisazioni che si sono date, anche taluni princìpi di ciò che è per natura, riconducendosi alla sua essenza, sono interni alla natura stessa. Che poi nella natura si dispieghi una razionalità, si ricava dal confronto stesso con l’arte, confronto che anche a tale riguardo risulta decisivo. L’arte, si è visto, è causa o principio dei manufatti. Ma per Aristotele tra la natura e l’arte esiste un rapporto di continuità, sancito dal fatto che la seconda non soltanto imita la prima, ma parzialmente ne completa l’opera, realizzando ciò che la natura non può portare a compimento13. E poiché l’arte (τέχνη) — assieme alla scienza (ἐπιστήμη), all’intelletto (νoῦς) e alla sapienza (σoφία) — è uno stato di eccellenza o virtù della parte scientifica dell’anima razionale (τὸ ἐπιστημoνικόν), ossia un’espressione della razionalità teoretica14, anche la natura opera secondo ragione e anzi è essa stessa espressione di razionalità15. Per altro verso, però, la produzione che realizza la natura non è la stessa di quella che si attua nell’arte, giacché la prima ha per oggetto fenomeni che non possono essere diversamente da come sono, ossia fenomeni necessari, o, quanto meno, tali che il loro verificasi è per lo più, mentre la seconda pone in essere realtà che possono essere diversamente da come sono, e cioè contingenti. L’attività dell’una e dell’altra, insomma, è una produzione, ma parimenti il produrre non si dice nello stesso senso della natura e dell’arte — come invece dovrebbe essere se costituisse il genere, di cui la produzione naturale e quella tecnica fossero due partizioni specifiche. Lo stesso vale anche a proposito del tipo di razionalità che in esse si dispiega: nei processi di entrambe si attua una ragione finalistica che presiede un fare poietico, ma i princìpi da cui procedono la razionalità della natura e quella dell’arte non sono i medesimi, dal momento che, come s’è detto, i corrispondenti generi di realtà sono diversi, e realtà diverse hanno princìpi diversi. Ciò non toglie che anche i princìpi dell’arte siano necessari (ancorché gli oggetti per la cui produzione essi si applicano siano realtà contingenti), ma tale necessità è unicamente ipotetica, laddove questo tipo 13

di necessità nella natura si affianca a quella assoluta. Tutto questo significa che natura e arte si riconducono entrambe al produrre come a un ambito di riferimento unitario, ma si scandiscono secondo modalità differenti ed esplicano modelli differenti di ragione produttiva, ai quali questa qualifica compete in senso analogico. Queste considerazioni delineano — mi pare — un quadro epistemologico confacente a dare una più adeguata sistemazione teorica alla nozione di natura che viene configurandosi, permettendo per altro di coglierne la novità concettuale anche sul piano della collocazione della scienza che la indaga. Si tratta del fatto che, a seguito del rifiuto suddetto, lo Stagirita respinge, da un lato, l’idea di una natura come contesto che tutto abbraccia, dall’altro la sottomissione della natura stessa a un principio spirituale, quale per l’appunto è inevitabilmente l’anima, eliminando così, in modo definitivo, se non anche la dipendenza dell’ordine cosmologico da un ordine trascendente (si tratterà di valutare la funzione del motore immobile nella struttura del movimento complessivo dell’universo), certamente la dipendenza della ragione fisica da quella metafisica e teologica (ma non per questo anche da quella ontologica) e affidando invece la prima a un esame strutturale dei nessi predicativi secondo cui i corrispondenti tipi di enti sono dicibili. Tutto questo comporta — e il Wieland ben lo pone in chiaro — l’avviarsi dell’indagine fisica lungo una linea che la allontana dal costruire «una teoria della natura nel suo complesso». Essa per Aristotele non esiste e, se anche esistesse, non avrebbe titolo per porsi come oggetto di «scienza», dal momento che i diversi generi di realtà naturali hanno princìpi propri, ossia diversi gli uni dagli altri, e nelle dimostrazioni della scienza entrano costitutivamente, con funzione di premessa minore, i princìpi propri, con la conseguente esclusione della possibilità di un sapere che al tempo stesso abbia dignità di scienza e si estenda a più generi. Al contrario, la fisica aristotelica si orienta verso l’indagine delle singole cose del mondo naturale, per studiarne le strutture che ne consentono la predicabilità e la dicibilità, ossia la descrizione secondo un quadro razionale. Essa si delinea così, a partire dal suddetto rifiuto, nei termini di una teoria delle cose naturali (dei φύσει ὄντα). Ne consegue il massimo avvaloramento delle differenze, che lo Stagirita legge in un’ottica che predispone ad hoc i suoi strumenti d’indagine e costruisce appositamente i modelli di ragione più adeguati. Parallelamente, il mondo naturale viene concepito come «una struttura di corrispondenze», secondo «una concezione che dà conto tanto della cosa singola quanto dell’insieme del mondo naturale» stesso. Non si tratta — precisa il Wieland, con un giudizio che appare ampiamente condivisibile — di «un’interpretazione funzionale come quella della 14

moderna scienza della natura», ma neppure di «un’ontologia sostanziale delle forme essenziali quale quella affermata innanzitutto dalla tradizione medioevale che ad Aristotele, non sempre a buon diritto, si richiamava». Inoltre, non si ha a che fare tanto con «una teoria che cerchi di comprendere la natura a partire dallo schema di un ordine astratto», quanto piuttosto con «un tentativo di descrizione fenomenologica delle strutture fondamentali dell’esperienza che l’uomo fa di quelle cose che non ha egli stesso prodotte»16. 2. La natura come forma In questo quadro anche le ulteriori precisazioni di Aristotele sulla natura assumono un risalto diverso da quello che avevano nell’esegesi tradizionale. Lo Stagirita dichiara innanzitutto che sarebbe ridicolo voler dimostrare l’esistenza della natura, dal momento che gli enti naturali sono molti e sono sotto gli occhi di tutti17. Indi chiarisce che, in un senso, la natura è «la materia che per prima funge da sostrato» in ciascuno degli enti naturali18; in un altro, è «la forma e la specie che è conforme alla definizione»19. Le due accezioni hanno in comune il fatto di esprimere note distintive della sostanza, e — afferma lo Stagirita — gli enti naturali, ossia quegli enti che «possiedono una natura (φύσιν ἔχει)», hanno cioè intrinseco a sé il principio del movimento e della quiete (τoιαύτη ἀρχή), sono sostanze. Essi infatti «sono un certo sostrato, e la natura è sempre in un sostrato (ἐν ὑπoκειμένα) ἐστί,)»20. La natura, dunque, essendo presente in un sostrato, lo rende atto a muoversi da sé. Il sostrato cui Aristotele fa riferimento (e in rapporto al quale anche la presenza della natura si calibra secondo un significato differente) è, innanzitutto, l’ente naturale (come il fuoco o la terra, o il vivente), vale a dire il composto di materia e forma. In quanto tale, esso è sostanza. Quest’ente viene indicato come «sostrato» in relazione a certi suoi attributi essenziali (come il portarsi in alto per il fuoco), i quali, pur non essendo natura (φύσις oὐκ ἔστιν), né possedendo una natura (oὐδ’ ἔχει φύσιν)21, sono tuttavia, al pari degli enti di cui rappresentano proprietà per sé, essi stessi «per natura» (φύσει) e «conformi a natura» (κατὰ φύσιν)22, ossia naturali. Tali attributi sono in realtà dei «propri», vale a dire delle determinazioni che appartengono per sé agli enti naturali, ossia universalmente, senza però entrare nella loro definizione (non costituendone né il genere prossimo, né la differenza specifica). In quanto tali, vi «ineriscono». Così il portarsi verso l’alto è un proprio del fuoco, dal momento che costituisce un suo attributo essenziale, non potendo esistere il 15

fuoco senza dirigersi verso l’alto, ma non entra nella sua definizione e per questo gli inerisce, sì che il fuoco è sostrato della proprietà suddetta. Con la precisazione, dunque, che gli enti che sono natura e possiedono una natura costituiscono «un certo sostrato», Aristotele distingue, entro l’ambito complessivo del «naturale», qualificato con le espressioni «per natura» e «conforme a natura», da un lato le sostanze naturali (che sono tali perché fungono, per l’appunto, da sostrati di inerenza di certe proprietà), dall’altro gli attributi per natura. Già da questo primo livello si può pertanto constatare come «natura» assuma sensi differenti e non unificabili sotto un medesimo genere, predicandosi in modo diverso delle sostanze naturali e delle proprietà naturali: rispettivamente, come «essere natura» e «possedere una natura» e come semplice «per natura» e «conformità alla natura». Detta differenza appare poi ancor più marcata se si considera che il secondo senso non esprime in se stesso l’essere «principio e causa del movimento e della quiete», che è la determinazione in rapporto alla quale si è definita la natura, ma tuttavia essa gli conviene indirettamente, in riferimento cioè alla sostanza della quale si dice ciò che è naturale in questo secondo significato, mentre alla sostanza naturale (ossia, a ciò che è naturale nel primo senso) quella determinazione conviene direttamente e di per sé. Proprio una siffatta multivocità e, al tempo stesso, una tale unità di riferimento (e non di genere) con cui si predica «natura», testimoniano il carattere analogico, ossia di ὁμωνυμία πρὸς ἓν, della relativa nozione. Esattamente in rapporto a questa determinazione di sostrato (ὑπoκείμενoν), ossia all’ente naturale stesso, come tutt’uno di materia e forma, il quale soggiace (ὑπoκεῖται) alle sue proprietà, anch’esse naturali, la natura si precisa nel significato di forma (μoρφή). La natura infatti, abbiamo ascoltato, «è sempre in un sostrato», e ciò che inerisce a un sostrato, per la determinazione della cosa, è per l’appunto la forma. Essa costituisce l’ente in modo che abbia «nel suo interno» la suddetta capacità di movimento e di quiete, e quest’ente è «naturale» per il fatto di avere la natura come sua forma. Oltre che come forma (μoρφή), è natura in questo medesimo senso anche la specie (εἶδoς). Essa, infatti, denota l’universale, ossia la determinazione comune a una molteplicità di enti che verificano la medesima definizione; in quanto tale, è conforme a questa stessa (τὸ κατὰ τoν λόγoν)23, la quale è «il discorso che significa l’essenza (τo τί, ἦν εἶναι)» della cosa24, determinata dalla forma o coincidente con essa. E come la forma non è separabile (χωριoτή), non sussistendo che nel sinolo, ossia in unione strutturale con la materia, così — sia pur a diverso titolo e senza per questo identificarsi con la forma medesima — non lo è neppure la specie (essa che, 16

in quanto universale, è un «uno nei molti» [ἓν ἐπι τῶν πoλλῶν], non «un uno oltre i molti» [ἓν παρὰ τῶν πoλλῶν]), se non con un atto d’astrazione puramente concettuale (oὐ χωριστὸν ὄν ἀλλ’ ἤ κατὰ τὸν λόγoν)25. Il che la distingue dall’εἶδoς platonico26. Aristotele afferma, inoltre, che la forma è «natura in misura maggiore della materia»27 e che il composto di materia e forma, come per esempio un uomo, «non è natura, ma è per natura»28. Mentre la prima asserzione non solleva alcun particolare problema se non quello di comprendere perché e in che senso la natura sia anche materia (cosa che verrà in chiaro subito appresso), la seconda parrebbe invece a tutta prima in contrasto con quella, incontrata all’inizio, secondo cui tutti gli enti naturali, come per l’appunto è l’uomo, «sono sostanza»29. Ma, a ben vedere, non è così. I sinoli come l’uomo sono natura in senso assoluto, dal momento che i loro costituenti, ossia la materia e la forma, individuano due significati di natura, sia pur di grado diverso; ma non sono natura in rapporto alla determinazione formale, che specifica il senso primario e forte di natura. In rapporto a tale determinazione essi appaiono essere piuttosto «per natura»: ché, il loro stesso essere natura significa, propriamente, «avere una natura» — secondo l’espressione anzi usata dallo Stagirita30 —, e la natura che «hanno», e che determina il loro carattere complessivo di enti naturali, è, per l’appunto, la forma. In ogni caso, questa oscillazione tra un senso assoluto e un senso relativo di natura pone in luce che la nozione stessa di natura si calibra in parallelo a quella di sostanza, della cui dottrina essa ripropone, con singolare simmetria, tanto le istanze basilari affermate da Aristotele nella fase iniziale del suo pensiero quanto quelle da lui raggiunte in un successivo approfondimento, reso possibile dall’elaborazione di ulteriori acquisizioni teoriche31. Ci si riferisce a quello sviluppo per il quale Aristotele, che inizialmente aveva posto come sostanza «detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente» l’individuo32 (in chiara opposizione alla teoria platonica dell’universale quale vero e autentico essere), in seguito alla successiva scoperta della materia e della forma e alla conseguente teoria che l’individuo è sinolo di entrambe, poteva indagare quale di queste due componenti fosse maggiormente causa del suo carattere sostanziale e rispondere che, essendo la forma, a questa spetta la qualifica di sostanza prima33. Ebbene, le nozioni di natura come individuo naturale e come forma procedono di pari passo con le suddette determinazioni della sostanza prima, conservandole e utilizzandole entrambe, in un armonico svolgimento. 17

Da qui anche la considerazione che il secondo libro della Fisica, dove è sviluppata la dottrina della natura, conoscendo già la teoria della materia e della forma, è posteriore al libro primo, in cui questa teoria viene stabilita. Su questa base, ferma restando la datazione antica di Phys., II, la sua composizione non sembra tuttavia potersi collocare nel tempo in cui Aristotele era membro dell’Accademia, se a esso risale Phys., I, come ha sostenuto Ross34. Più credibile, invece, che Phys., II, posteriore a Phys., I, sia stato scritto nei primi tempi del soggiorno di Aristotele ad Asso (347-344 a. C) e che sia contemporaneo o di poco anteriore alla composizione delle parti più antiche della Metafisica, che lo presuppongono, secondo una condivisibile ipotesi di W. Jaeger. 3. La natura come materia Per altro verso, il sostrato è la materia e «natura», in un secondo significato, indica esattamente la materia35. Questa, infatti, fungendo «da sostrato a ciascuna delle cose che hanno in se stesse il principio del movimento e del mutamento»36, è una componente imprescindibile degli enti (ossia dei sinoli) naturali e, come tale, è anch’essa natura, sia pur a titolo e in grado inferiore della forma. Quest’ultima precisazione, assieme al riscontro che in Phys., 193 a 9-10 la natura nel significato di materia è affiancata anche nell’espressione al termine «sostanza» (ἡ φύσις καὶ ἡ oὐσία), riconferma i rilievi testé svolti circa il calibrarsi della teoria della natura su quella usiologica. Nell’analisi di questa seconda accezione di «natura», cioè della natura come materia, Aristotele prende in considerazione l’ipotesi degli antichi Fisiologi, come in altri luoghi egli stesso li denomina, ossia di quei pensatori, agli inizi della filosofia, per i quali l’intero esistente è φύσις, giacché essi ritennero che tutte le cose derivano dai mutamenti del principio-elemento (indicato come ἀρχή), se ne ammisero uno, o dei princìpi-elementi (ἀρχαί), se ne posero più d’uno, e così non riconobbero altro genere di realtà che quella in movimento, né altri princìpi oltre quelli di ordine materiale, facendo, per l’appunto, della (ρύσις l’ambito complessivo del reale, interamente ascritto a essa. Nella sua disamina lo Stagirita intreccia l’idea di φύσις di questi primi filosofi (essi, infatti, furono tali per aver indagato la totalità dell’ente) con la riflessione sul significato materiale della φύσις, secondo un movimento di pensiero che è bene seguire. Per quei filosofi la φύσις è la sostanza originaria, la quale, essendo perennemente soggetta a trasformazioni, ma al tempo stesso permanendo 18

salda in se stessa, ossia non scadendo nel nulla lungo il corso dei cambiamenti e dunque essendo eterna, origina con il suo mutare tutte le cose, che coincidono così con un modo d’essere della stessa sostanza, cioè con una sua affezione, un suo stato o una sua disposizione. La sostanza è ciò che di volta in volta viene individuato come il principio-elemento (l’ἀρχή) o come i princìpielementi (le ἀρχαί), per cui lo Stagirita può scrivere che : quello di essi che si è supposto di tal genere, sia uno solo sia più di uno, questo e questo numero di (elementi) si afferma essere tutta quanta la sostanza, mentre tutte le altre cose sono loro affezioni (πάϑη) e stati (ἓξεις) e disposizioni (διαθέσεις). E ognuno di questi (elementi), qualunque sia, è eterno (giacché essi non hanno mutamento [μεταβoλήν] da se medesimi); invece le altre cose si generano e si corrompono un numero infinito di volte37. Nel passo Aristotele parla delle cose come di «affezioni» (πάθη) della sostanza archetipica, nonché di suoi «stati» (ἓξεις) e «disposizioni» (διαθέσεις) giacché, traducendo il pensiero di quei Presocratici nelle proprie determinazioni dottrinali, legge il mutare della sostanza (che, come s’è detto, trasformandosi, permane) come quei cambiamenti nei quali, secondo quanto egli stesso ha teorizzato, il sostrato resta identico, ma muta nelle sue affezioni qualitative o quantitative: quei cambiamenti, cioè, che lo Stagirita determina, rispettivamente, come alterazione (ἀλλoίωσις) e come aumento e diminuzione (αὔξησις καὶ μείωσις). Proprio sotto il genere categoriale della qualità si iscrivono gli stati e le disposizioni38, richiamandosi ai quali il filosofo fa riferimento all’alterarsi della sostanza, sì che le cose, nel loro nascere e perire, sono alterazioni di questa; parlando invece di «affezioni», in generale, egli mostra di interpretare il suo trasformarsi non soltanto come alterazione, ma anche come aumento e diminuzione: la generazione e la distruzione delle cose si attuano anche per questo tipo di mutamento del principio originario (o dei princìpi originari). Non soltanto, ma lo stesso principio, o gli stessi princìpi, inquadrati in tale teoria del divenire, vengono intesi come sostrato (πoκείμενoν), essendo, per l’appunto, il sostrato ciò che permane nelle alterazioni, negli aumenti e nelle diminuzioni, e quel principio-elemento o quei princìpi-elementi, insomma l’ἀρχή o le ἀρχαί, non vengono meno nel corso delle loro mutazioni. In quanto poi «sostrato», essi sono «sostanza» (oυσία), costituendo precisamente il sostrato uno dei significati e, al tempo stesso, una delle note costitutive della sostanza. A questa lettura della φύσις dei Presocratici si deve la sua assimilazione a oὐσία, come in modo eclatante testimonia l’abbinamento dei due termini 19

già sottolineato. Ancora in questa chiave si comprende perché Aristotele, nel passo anzi citato, a illustrazione dell’eternità della φύσις-sostanza dica che essa o — più esattamente — l’ἀρχή o le ἀρχαί in cui consiste «non hanno mutamento da se medesime (oὐ γὰρ εἶναι μεταβoλὴν αὐτoῖς ἐξ αὑτῶν)». Preso alla lettera, il rilievo non è soltanto incomprensibile nella logica della teoria presocratica che lo Stagirita stesso va delineando, ma è addirittura in contraddizione con quanto immediatamente precede. A conclusione della prova addotta da Antifonte per dimostrare che la φύσις è materia: il fatto cioè che, se si sotterrasse un letto e questo potesse germogliare, ne nascerebbe un legno, non un letto, egli rileva che, in effetti, l’una cosa sussiste per accidente: la disposizione conforme a convenzione e l’arte, mentre la sostanza è quella che anche permane (διαμένει), pur avendo continuamente queste affezioni (ταῦτα πάσχoυσα συνεχῶς)39. Ora, il subire affezioni è un mutamento, come abbiamo visto: o di tipo qualitativo (alterazione), o di tipo quantitativo (aumento e diminuzione). Dunque, secondo Aristotele, la stessa φύσις-sostanza dei Presocratici intenzionata da Antifonte muta. Ma, soprattutto, si assisterebbe a una flagrante contraddizione rispetto a ciò che lo Stagirita asserisce in Metaph., I, 3, un testo che presuppone questo secondo libro della Fisica, come gli studiosi hanno rilevato, e che sviluppa il tema di cui ci stiamo occupando. Ebbene, neh’imputare ai Naturalisti presocratici d’aver fatto uso unicamente della causa materiale, egli afferma che ciò da cui tutti gli enti provengono e in cui si risolvono, distruggendosi, è l’elemento-principio, essendo una sostanza che permane, pur mutando nelle sue affezioni (τῆς δὲ σὐσίας ὑπoμενoύης τoῖς δὲ πάϑεσι μεταβαλλoύσης)40. E più oltre dichiara che per quei filosofi deve esserci una qualche natura (τίνα φύσιν) — o una sola o più d’una — dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa resta salva (σωζόμένης)41. Come dunque si vede, Aristotele non manca di attribuire espressamente e dichiaratamente il mutamento alla ψύσις-sostanza dei Presocratici, e il fatto che nel passo di Phys., 1 che abbiamo letto egli neghi che essa sia soggetta a cambiamenti, può giustificarsi col motivo che, in quel contesto 20

ove si confrontano, da un lato, l’eternità del principioelemento, dall’altro, il nascere e il perire all’infinito degli enti, il mutamento viene pensato come generazione e corruzione, ossia come cambiamento nel quale ne va dello stesso sostrato. E, anche a tale proposito, si assiste a un ripensamento della φύσις dei Presocratici secondo le determinazioni della dottrina del divenire propria di Aristotele. 4. Natura e finalità La natura è regno della finalità. Essa, infatti, «è fine (τέλoς) e "ciò in vista di cui (oὖ ἓνεκα)"»42, ossia causa finale. Queste prerogative le convengono essenzialmente, per il fatto di essere, nel suo significato primo e fondamentale, forma, e la forma costituisce di per se stessa il fine, in quanto è il termine verso cui il mutamento procede e nel quale, una volta raggiunto, esso si compie, cioè il suo «termine ultimo (τo εσχατoν»43. Come tale, la forma rappresenta altresì una causa del mutamento stesso, giacché, indicando ciò a cui esso tende, lo esplica e ne dà ragione, e il dar ragione è proprio della causa. Ne consegue che la natura, poiché, come abbiamo visto, è principio e causa del mutamento di un genere di enti (gli enti, per l’appunto, naturali), è per questo stesso fine e causa finale. Tuttavia Aristotele, come usa fare in più luoghi, raggiunge questa conclusione anche attraverso il confronto tra la natura e le arti, sul presupposto che le seconde imitano e completano la prima, come s’è detto44, cosicché, se in esse si rinviene un procedere finalistico, altrettanto si deve dire della natura. Il confronto però — qui come nelle molte altre circostanze in cui viene adoperato —, oltre che sul rilievo testé detto, si fonda anche sull’analogia tra la causalità delle arti e quella della natura. In effetti, nelle une e nell’altra interviene il medesimo «tipo» di cause, specificate, come vedremo, in quella materiale, formale, efficiente e finale. Certo, le cause delle arti e della natura non sono le stesse, non cadono cioè sotto un medesimo genere: le realtà di cui tali discipline sono cause appartengono a generi diversi, e generi diversi di realtà hanno cause e princìpi diversi. Pertanto, anche le relative discipline (le scienze, innanzitutto, ma anche le arti, per le quali vige la stessa situazione epistemologica), avendo ognuna a oggetto un determinato genere di enti, e nessuna potendo estendere il proprio dominio alla totalità del reale (pena, il realizzarsi di quel «passaggio a un altro genere» [μετάβασις εἰς ἄλλo γένoς] che non è ammissibile), si valgono, ciascuna, di «princìpi propri», differenti da quelli delle altre discipline. Pur tuttavia, le cause delle arti e 21

della natura sono analogicamente identiche, secondo i quattro «tipi» suddetti; e quest’unità di relazione basta per argomentare, dalla finalità dei procedimenti causali di quelle, la finalità della causazione di questa. La finalità delle arti è comprovata dal fatto che esse non soltanto comandano sulla materia, acquisendone conoscenza per piegarla ai loro scopi, ma addirittura la producono in vista di questi; e le une, come l’arte del costruttore di timoni, presiedendo semplicemente alla produzione dell’oggetto, si limitano a conoscerne la materia, altre invece, come quella del timoniere, poiché usano il manufatto e hanno perciò carattere architettonico, ne conoscono la forma. Nell’uno come nell’altro caso, il dominio sulla materia testimonia la teleologicità dei procedimenti tecnici. Parallelamente, anche la natura usa la materia per i suoi fini e gli esseri naturali di rango più elevato, ossia gli uomini, si servono delle cose come se esistessero in funzione loro e per loro. Anche la natura, dunque, come le arti, opera finalisticamente (infatti, il «ciò a vantaggio di cui», ossia il soggetto al quale una certa cosa è finalizzata, specifica uno dei due sensi dell’«in vista di cui», mentre l’altro senso è espresso dal «ciò di cui», vale a dire dallo scopo45), e la differenza rispetto a esse — quella differenza per la quale si deve parlare di «analogia» e non di «identità» — riguarda solamente il fatto che le seconde, come s’è detto, producono la materia in vista dell’oggetto, mentre la materia delle cose naturali preesiste alle cose stesse46. Ora, poiché la φύσις, in quanto finalità, è una causa razionale e la ragione, se correttamente impiegata, come nel caso della natura, raggiunge risultati ottimi e opera in vista del bene, il fine (τέλoς) della causazione naturale non è semplicemente il termine ultimo (τὸ ἔσχατoν) del processo, ma il termine ultimo «migliore» (τὸ βέλτιστoν)47, e tale è la realizzazione della forma dell’ente naturale, nel raggiungere la quale esso perviene al proprio compimento, ossia alla perfezione di quel tipo di ente che è48. Una terza prova della finalità della natura si ricava, infine, dalla confutazione che Aristotele conduce della spiegazione meccanicistica dell’universo avanzata dai Naturalisti e, in particolare, da Empedocle e Anassagora49. Una prova, dunque, di ordine dialettico. Tale critica s’inserisce in un contesto più vasto, nel quale è a tema il rapporto tra la finalità e la necessità nella φύσις. Entrambe queste dimensioni le competono: la finalità, per le ragioni su esposte; la necessità, in quanto la natura è oggetto di scienza (della Fisica, innanzitutto, che funge da introduzione generale allo studio di essa, ma poi anche delle opere biologiche e cosmologiche, che sono trattazioni di specifici generi di enti 22

naturali e costituiscono in tal senso altrettanti capitoli della scienza della natura), e gli asserti della scienza sono necessari, sì che anche i rispettivi oggetti — stante il carattere oggettivistico della scienza stessa — debbono presentare questa condizione. Si tratta allora di chiarire come, nella natura, finalità e necessità possano coesistere. Sul piano del sapere fisico, questo chiarimento spiana altresì il campo a una decisiva precisazione di ordine epistemologico, indicando quale tipo di spiegazione la fisica deve impiegare nell’indagine dei suoi oggetti. Ora, alcuni filosofi naturalisti, come per l’appunto Empedocle e Anassagora, intravidero la causa finale, ma, avvistata che l’ebbero, subito la trascurarono, mantenendo le loro spiegazioni della φύσις su di un piano assolutamente meccanicistico, ossia esplicandone i processi in base alla sola necessità. Sotto questo profilo, poiché è già stato mostrato che la natura è regno dei fini, le loro spiegazioni sono errate e di per se stesse non costituiscono neppure un’obbiezione della tesi finalistica. Non è dunque sotto questo profilo che esse vengono prese in esame, ma per un possibile risvolto che in esse s’affaccia. Se quei filosofi non avessero fatto alcun cenno, nemmeno iniziale, alla finalità, ma si fossero limitati a parlare unicamente della necessità come condizione cui per intero è soggetta la φύσις, le loro dottrine non interesserebbero affatto in questo contesto, come effettivamente non interessa la spiegazione atomistica, che non a caso Aristotele qui non menziona neppure. Egli fa riferimento, invece, a Empedocle e ad Anassagora perché, avendo essi inizialmente chiamato in gioco la causa finale, il non averne poi fatto uso, ma nondimeno l’aver dato corso a una spiegazione della natura, fondata esclusivamente su processi meccanici, lascia insorgere il dubbio che la finalità stessa possa risolversi nella necessità meccanicistica. Ossia: che quelli che vengono intesi come fini di un operare teleologico siano, in realtà, soltanto esiti accidentali di processi meccanici. Così, l’attitudine a lacerare dei denti incisivi e quella a tritare, propria dei molari, non sarebbe la ragione per la quale (il «ciò in vista di cui») essi sono sorti, ma, unicamente e semplicemente, l’effetto casuale della loro forma: aguzzi e penetranti i primi, larghi e piatti i secondi50 — al modo in cui la crescita dei raccolti irrorati dalla pioggia non è il fine, benevolmente concesso da Zeus, in vista del quale è esplicabile il fenomeno delle precipitazioni, ma soltanto l’effetto accidentale e casuale del fatto che l’aria, portandosi in alto, si raffredda, così si trasforma in acqua e questa cade sulla terra51. Aristotele confuta questa tesi con una serie di argomenti intesi a mostrare come a tutti i livelli, da quello infimo dei corpi inanimati a quello più elevato dell’uomo, attraverso il regno vegetale e poi quello animale, 23

essa comporti assurdità inesplicabili, mentre la soluzione finalistica, da un lato le rimuove, dall’altro offre una spiegazione confacente e adeguata dei fenomeni della natura52. Nel giro di questi argomenti alcuni temi meritano in particolare d’essere posti in rilievo. Innanzitutto l’estensione dell’analogia tra l’operare finalistico della natura e dell’arte anche all’operare pratico, ossia all’azione. Scrive infatti Aristotele: ogni cosa, come è compiuta (πράττεται), così è per natura e come è per natura, così è compiuta, se alcunché non l’impedisca. Ma è compiuta in vista di qualcosa. Quindi, per natura è anche in vista di qualcosa53. Tale analogia, in virtù della quale anche l’operare dell’arte risulta — di conseguenza — connesso all’operare della prassi, si costruisce su un’unità relazionale specificata dal carattere intelligente di tutte e tre le attività (ancorché, a sua volta, non sia la stessa ragione a intervenire nei processi della natura, dell’arte e dell’azione, ma siano in campo forme analogiche di razionalità, connesse tra loro secondo la struttura dell’ὁμωνυμία πρὸς ἓν); un carattere, questo dell’operare intelligente, cui consegue di per sé l’essere mirato a un fine, dunque la teleologicità. In secondo luogo, è da rilevare che la finalità appartiene alla natura in virtù del suo essere forma. In effetti, poiché la natura è duplice: da un lato, come materia, dall’altro, come forma, e questa è fine, e in vista del fine sono le altre cose, questa sarà la causa finale54. E ben lo si comprende, dal momento che la forma determina l’ente naturale nella realtà che deve avere e per raggiungere la quale esso è soggetto a mutamento. Ora, poiché la forma muta da specie a specie, si ha qui la giustificazione formale del fatto — peraltro evidente — che il fine degli enti naturali non è il medesimo per tutti, ma muta, per l’appunto, da specie a specie. In terzo luogo, si deve fissare l’attenzione sul fatto che proprio il carattere finalistico dei processi naturali dà conto di certe anomalie e di certe mostruosità nello sviluppo degli enti di natura; anomalie e mostruosità che, invece, se quei processi fossero regolati da necessità, non sarebbero comprensibili: infatti, in quanto necessitati, essi non potrebbero dare un esito diverso. Al contrario, in un quadro finalistico, tali anomalie e mostruosità sono spiegabili come errori della natura, possibili per il fatto che il fine, risultando da un’azione intelligente, coincidente per molti aspetti 24

con una sorta di abilità, può anche essere mancato: esattamente come avviene nelle arti55. Per altro verso, anche la costanza con cui ogni specie di cose naturali, sviluppandosi da certi princìpi propri, differenti per ciascuna specie, si muove verso il medesimo fine, iscritto nell’essenza di quelle cose e dunque tutt’altro che casuale, viene compromessa dalla spiegazione meccanicistica. Essa, infatti, invocando gli stessi, diversi princìpi per tutte le specie di fenomeni, stante che da princìpi diversi non possono che derivare esiti diversi, dà luogo a una situazione per la quale lo sviluppo delle cose di una certa specie dovrebbe pervenire a risultati diversi (rarefazione e condensazione, per esempio, sono princìpi diversi che i fautori della tesi meccanicistica applicano per spiegare fenomeni naturali di genere diverso. Ma gli effetti che derivano dalla condensazione sono differenti da quelli che derivano dalla rarefazione. Per cui, ogni genere di cose naturali, procedendo da princìpi diversi, identicamente applicati a tutti i generi, dovrebbe svilupparsi verso risultati diversi)56. Da tutto questo segue una definizione di «cose naturali (φύσει)» nella quale la finalità e l’immanenza del principio del movimento si rapportano esplicitamente in modo strutturale: sono naturali — si precisa, infatti — «tutte le cose che, mosse continuamente da un qualche principio interno a se stesse, giungono a un qualche fine»57. 5. Natura e necessità L’aver escluso che la necessità sia l’unico principio della natura, risolvente in sé e dissolvente ogni fine, non significa che nella natura non esista necessità; anzi, come prima s’è detto, la necessità è una dimensione imprescindibile della natura, o, più esattamente, un principio indispensabile per la comprensione dei suoi processi. Si tratta allora di vedere come si concili con la finalità. Aristotele risolve questo problema affermando che la necessità che vige nell’ordine naturale è di tipo ipotetico (ἀνάγκη ἐξ ὑπoθέσεως), distinta da quella assoluta (ἀνάγκη ἁπλῶς)58. In Metaph., V, 5 egli distingue quattro sensi di «necessario» (ἁναγκαῖoν): esso significa (1) «ciò senza di cui non è possibile vivere», come la respirazione e il nutrimento per l’animale59, o anche «ciò senza di cui il bene né può esistere né può prodursi»60; (2) «ciò che costringe e la costrizione»61; (3) «ciò che non può essere diversamente (da come è) (τὸ μὴ ἐνδεχόμενoν ἄλλως ἔχειν)»62; (4) «la dimostrazione»63. 25

La necessità assoluta (ἁπλῶς) è espressa dal terzo significato, come peraltro testimonia il rilievo con cui lo Stagirita precisa che esso indica «il necessario puro e semplice (τὸ ἁπλoῦν)», ossia senza alcuna condizione64. Egli precisa, inoltre, che per questo la necessità assoluta definisce il senso primo e fondamentale della necessità (τὸ πρώτoν καὶ κυρίως ἀναγκαῖoν)65. Tale necessità specifica il modo d’essere degli enti eterni, ossia dei motori immobili, degli astri e dei fenomeni costanti (quali il levarsi e il tramontare delle stelle, le maree, il ciclo delle stagioni, i solstizi, gli equinozi e così via)66. Ma ciò che in questo momento interessa maggiormente è che — come si evince dal rilievo di Phys., II, 9 con il quale alla necessità assoluta viene contrapposta la necessità ipotetica, che, lo vedremo subito appresso, si determina secondo un’implicazione univoca — sotto il profilo formale la necessità assoluta fa conseguire tanto il risultato alle condizioni quanto queste a quello, secondo un rapporto di implicazione biunivoca: se A allora Β e se Β allora A, dove A sono, per l’appunto, le condizioni e Β il risultato. E ben lo si comprende, perché in tal modo — non essendo possibile che, se si danno certe condizioni, non si dia un certo effetto e che, se si dà un certo effetto, non si abbiano quelle condizioni — il rapporto tra la causa e l’effetto si salda in maniera da escludere l’intervento di altre dimensioni oltre quella dell’automatico conseguire e, in particolare, la possibilità della causa finale. Per questo la necessità assoluta costituisce la struttura portante della spiegazione meccanicistica, la quale — vista nel suo schema formale — si costruisce su due sillogismi, ciascuno dei quali assume come premessa maggiore uno dei due rapporti d’implicazione sui quali si struttura la necessità assoluta e come premessa minore, in uno, l’esistenza della condizione (ossia della causa), nell’altro, quella del condizionato (ossia dell’effetto); le conclusioni sono, nel primo sillogismo, l’esistenza necessaria dell’effetto, nel secondo, quella della causa: se A allora B, ma A, dunque Β e se Β allora A, ma B, dunque A. Se ci si limitasse a dedurre dalla causa la necessità dell’effetto (se A allora B, ma A, dunque B), non essendo allora garantito che esso derivi soltanto da quella causa (perché non si può rendere reciproco il rapporto e dire se A allora B, ma B, dunque A), non sarebbe, conseguentemente, escluso che possa derivare anche da un’altra, di tipo finale. E con ciò la spiegazione meccanicistica verrebbe meno nella sua stessa essenza. Così, dovendo dar ragione dell’esistenza di un muro, questa spiegazione direbbe che esso è il risultato inevitabile del fatto che i suoi costituenti — pietre, terra e legno —, a motivo della loro maggiore o minore gravità, per la quale una cosa si porta vero il basso, si sono disposti in modo che le prime, più pesanti, stiano alla base, la seconda, più leggera, si collochi 26

più in alto e alla superficie si abbiano i legni, più leggeri della terra67. Ma per far valere questo non basta asserire che, se ci sono pietre, terra e legni, poiché le cose pesanti tendono verso il basso e la pietra è più pesante della terra, a sua volta più pesante del legno, al di sotto si dispongono le pietre, sopra la terra e in alto i legni; e questo è il muro. Bisogna altresì escludere che il muro non può che derivare dal modo suddetto di collocarsi di quei materiali in virtù della loro pesantezza, ossia che non può darsi altra causa di esso che quella testé indicata, e tale esclusione si ottiene provando che, inoltre, posta l’esistenza del muro, segue la necessaria esistenza di quei materiali e del loro diverso peso. Solo così esplicato, si può escludere che il muro sia (anche) il fine di un processo razionale e mirato, quale è quello tecnico e, complessivamente, si può affermare che un certo stato di cose è unicamente l’effetto necessario di certe condizioni. Pure Platone, come s’è accennato, aveva combattuto la spiegazione meccanicistica dei fenomeni naturali, e proprio in riferimento a quell’Anassagora guardando al quale, assieme a Empedocle, lo Stagirita delinea tale spiegazione e la rigetta68. A essa Platone aveva obiettato di mantenersi sul piano dei fatti, ossia delle cose materiali, e per questo di mancare nel suo intento, perché i fatti non si spiegano con altri fatti e così non se ne reperisce la causa, che quella spiegazione pretendeva invece di dare: se si vuol spiegare la ragione per cui Socrate si trova in carcere, non serve invocare «il fatto» che i suoi nervi si sono tesi e le ossa sono mobili nelle giunture, perché questo potrebbe addursi anche per «spiegare» la sua fuga a Megara o in Beozia69. In Platone la critica del meccanicismo si risolve nel trascendimento dei fatti nei λόγoι e, su questo nuovo piano, nella postulazione delle Idee come vere ragioni delle cose empiriche (la causa del «fatto» che Socrate resta in carcere è la ragione ideale della sua fedeltà alla propria missione educatrice e la sua radicata convinzione che è «più giusto e più bello pagare alla città qualsiasi pena» essa abbia per questo voluto infliggergli70). Tale critica si traduceva, così, in motivo per raggiungere un altro piano o livello di realtà — quello «invisibile» delle Idee rispetto a quello «visibile» delle cose —, ritenuto superiore al primo perché, per l’appunto, in grado di renderne ragione. In quest’ottica, l’invenzione aristotelica della necessità ipotetica, nella quale confluisce la critica dello Stagirita alla tesi meccanicistica e trova adeguata soluzione il problema concernente il rapporto tra finalità e necessità nella natura, va letta come uno dei risvolti della critica, a sua volta, mossa da Aristotele alla teoria platonica delle Idee. Quel risvolto per il quale detta teoria finiva, in ultima analisi, per svalutare la materia, relegando i fatti, e dunque la materia 27

stessa, al piano di semplice «concausa»71. Ora, proprio una tale svalutazione è ciò che nella soluzione aristotelica viene decisamente eliminato — in uno con l’eliminazione della trascendenza della causa rispetto al fenomeno naturale. Al contrario, se questo è — come effettivamente è — sinolo di materia e forma ed entrambe concorrono, sia pure in grado e a livelli diversi, a definire il suo carattere di ente naturale; ancora, se causa di tali enti è «la natura», specificata come forma, in primis, e come materia, e la natura dev’essere, al tempo stesso, finalità e necessità, allora queste dimensioni della sua causalità dovranno individuarsi tra i significati della natura stessa, non oltre essa. Ma occorre precisare a livello epistemologico — ossia, in termini scientificamente formulati — come materia e forma assolvono le due funzioni suddette. È questo il piano che, in polemica con Platone, sorregge la trattazione aristotelica della necessità ipotetica. In linea generale, il senso ipotetico della necessità è riscontrabile nel primo dei predetti quattro modi in cui si dice il necessario72. Si tratta della necessità non del risultato in rapporto alle condizioni, bensì delle condizioni in rapporto al conseguimento del risultato, che in tal modo si precisa essere — ed effettivamente è — un fine. Quest’ultimo, senza certe condizioni, di natura materiale, non potrebbe raggiungersi (una casa non potrebbe costruirsi senza pietre e mattoni), e pertanto quelle condizioni sono «necessarie» in rapporto al fine. Ma il fine non è causato da quelle condizioni, se non nel senso testé detto; non è, cioè, necessario che si dia al darsi di esse, ma, al contrario, è il fine a determinare in rapporto a sé la necessità delle condizioni. La necessità che ne risulta è pertanto ipotetica in quanto è subordinata al darsi del fine73, il quale, dunque, nel rapporto d’implicazione non funge da conseguente, bensì da antecedente e da causa, mentre in funzione di conseguente, ossia di necessitato, si pongono le condizioni. Aristotele precisa la struttura formale di questo tipo di necessità confrontandola con la necessità delle dimostrazioni geometriche74. L’una e l’altra sono «in un certo modo simili (τρόπoν τινά παραπληoίως)»75, e la somiglianza è data dal fatto che in entrambe vige un’implicazione in senso univoco76 (mentre l’implicazione della necessità assoluta è biunivoca, come abbiamo visto). La differenza consiste nel fatto che in geometria dalle premesse (la causa o il principio) si deduce la conseguenza: per esempio, dalla nozione di «retto» si deduce che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti; invece per la necessità ipotetica è l’inverso e dal darsi del fine si deduce il darsi delle condizioni: per esempio, l’esistenza di una casa implica l’esistenza di mattoni e pietre. Il fine, infatti, 28

che sul piano dell’esecuzione non è il principio, inteso come termine di partenza, bensì il termine di arrivo, sul piano del ragionamento che guida l’esecuzione è principio (esattamente come in campo matematico, dove l’esecuzione non ha luogo, le premesse costituiscono il principio nel senso precisato)77. Il fine, pertanto, costituisce l’antecedente nel ragionamento che da esso inferisce le condizioni e queste costituiscono il conseguente, laddove in matematica le premesse, ossia il principio, sono l’antecedente e ciò che se ne deduce è il conseguente. E poiché in un sillogismo ipotetico: 1) dal conseguente non segue l’antecedente, 2) dalla negazione del conseguente segue la negazione dell’antecedente e 3) dalla negazione dell’antecedente non segue la negazione del conseguente, si ha pertanto che, in matematica, dalla conseguenza non si può inferire il principio, mentre la negazione della conseguenza implica la negazione del principio; parimenti, nel campo della necessità ipotetica al non darsi delle condizioni segue il non darsi del fine78. Da queste relazioni è chiaro che il fine, da un lato non derivando dalle condizioni materiali con cui si attua, dall’altro implicandole necessariamente per il fatto stesso di attuarsi, quali mezzi indispensabili a questo, non soltanto può coesistere con la necessità di tal tipo, senza contraddizione alcuna, ma — ben di più — la comporta e la esige. E poiché le condizioni idonee all’attuarsi del fine sono, per l’appunto, di tipo materiale e a esse si lega la dimensione del necessario, ciò significa che la necessità è presente nella natura in quanto materia. Per altro verso, il fine coincide con la forma della cosa, dal momento che i processi naturali, al pari di quelli dell’arte, tendono alla realizzazione di essa. Più precisamente, la forma, ossia l’essenza, è espressa dalla definizione e questa guida finalisticamente tanto l’operare tecnico quanto quello della natura, che è imitata e completata dall’arte. Per questo, dice Aristotele, il punto di partenza dell’operare è dato dalla definizione79: giacché l’artigiano deve già possedere la nozione dell’oggetto nello stato di piena realizzazione della sua essenza o forma, prima di mettere mano alla produzione di esso, per adeguarne i mezzi e plasmare la materia; e così è anche nella natura. Ma se il fine coincide con la forma e questa definisce uno dei significati della natura, allora la natura è finalità in quanto è forma. Finalità e necessità, dunque, non debbono più ricercarsi al di fuori della natura, ma entro di essa, anzi coincidono con altrettanti aspetti della natura stessa. E poiché indicare il fine (ossia la causa formale) e i mezzi necessari a realizzarlo (ossia la causa materiale) non è null’altro che fornire la spiegazione, la natura contiene in sé gli elementi per la sua spiegazione, vale a dire le condizioni della sua razionalità, senza bisogno di postulare enti 29

di tipo ideale che la trascendano. E il fisico dovrà ricercare, per l’appunto, entrambe le cause, sia quella finale che quella materiale, ma principalmente e soprattutto la prima, giacché «l’in vista di qualcosa è causa della materia, ma questa non è (causa) del fine»80.

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II IL METODO E LO STATUTO EPISTEMOLOGICO I. La fisica nel suo statuto sistematico ed espositivo Una prima indicazione sul metodo usato dalla fisica è data subito in apertura dell’opera, nel capitolo iniziale del primo trattato. Qui si dice: Poiché il sapere (τo εἰδέναι) e il conoscere scientificamente (τo ἐπί,στασθαι), nell’ambito di tutte le ricerche (μέθoδoι) di cui vi sono princìpi (ἀρχαί) o cause (αἰτί,αι) o elementi (στoιχεῖα), derivano dall’acquisire cognizione di questi (infatti, pensiamo di conoscere ciascuna delle cose nel momento in cui abbiamo acquisito cognizione delle cause prime e dei princìpi primi e fino agli elementi), è evidente che anche della conoscenza scientifica relativa alla fìsica bisogna cercare di definire le 〈questioni〉 concernenti i princìpi81. La fisica, dunque, come tutte le forme di sapere che si fondano sulla conoscenza delle cause o dei princìpi, ossia degli enunciati primi (gli «elementi») del sapere stesso, si costituisce quando si possiedono tali enunciati. Organizzazioni siffatte del conoscere sono «scienze» (έπιστήμαι), e le scienze sono per loro stessa costituzione sapere causale. Nell’affermare quanto sopra, Aristotele rivendica dunque, innanzitutto, il carattere di scienza della fisica. Ci si attenderebbe allora che anche per essa vigessero lo statuto epistemologico e il metodo descritti negli Analitici secondi, l’opera dedicata espressamente a questi argomenti82. In tale trattato, in particolare, si afferma che le scienze assumono i princìpi, derivandoli dall’esperienza mediante quella ricerca (ζήτεσις)83 che è l’induzione (ἐπαγωγή)84, e dai princìpi, mediante dimostrazioni (ἀπoδείξεις)85, deducono tutte le loro conoscenze. Le dimostrazioni sono sillogismi che muovono da premesse costituite da proposizioni «vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione»86, vale a dire da princìpi o da asserti derivanti dai princìpi. I princìpi sono enunciati in sé evidenti e necessari, e possono essere o propri (ἀρχαὶ ίδίαί) o comuni (ἀρχαὶ κoιναί). Ι princìpi propri comprendono quelle proposizioni prime e indimostrabili il cui predicato conviene per sé al solo genere di determinazioni studiate da una data scienza, ossia al suo γένoς ὑπoκείμενo ν87. Essi sono costituiti dalle definizioni (ὀρισμoί) e dalle ipotesi (ὑπoθέσεις), ossia da proposizioni che 31

enunciano, rispettivamente, l’essenza o il che cos’è della cosa88 e l’esistenza o la non esistenza di essa89. Le scienze non possono farne a meno perché ognuna è relativa a un determinato genere di realtà90 e tali princìpi, fungendo da premesse minori nelle dimostrazioni, pongono il soggetto della conclusione91, che risulta perciò specifico di ciascuna scienza. Oltre che da princìpi propri, le dimostrazioni procedono anche da princìpi comuni, ossia da proposizioni prime, o derivati da enunciati primi, che si applicano a determinazioni costituenti il soggetto primo92, o comunque ai γένη ὑπoκείμενα di più scienze, come l’enunciato «sottraendo cose uguali da cose uguali, si ottengono cose uguali»: esso si applica, infatti, sia all’aritmetica («sottraendo numeri uguali da numeri uguali, si ottengono numeri uguali») che alla geometria («sottraendo angoli uguali da angoli uguali, si ottengono angoli uguali»)93. Tali enunciati fungono da premessa maggiore nelle dimostrazioni, in virtù della loro più ampia universalità, sotto la quale va assunto il genere di enti studiati da ciascuna scienza94 (anche se finiscono per coincidere con un principio proprio nel caso in cui, nelle dimostrazioni del «perché», il termine medio costituisca la definizione dell’estremo minore)95. Anche la fisica, dunque, come ogni altra scienza, stando alla dottrina degli Analitici secondi, non dovrebbe trattare dei princìpi, ma, avendoli assunti, posta cioè l’esistenza di certe realtà e poste le loro definizioni, dovrebbe dedurne le proprietà che vi convengono per sé. Questa condizione epistemologica, da un lato è ribadita anche in Metaph., VI, 1, in cui si precisa che le scienze non si occupano dell’essenza, ma muovono da essa, le une avendola resa chiara con la sensazione, le altre avendola assunta come ipotesi96; da un altro trova conferma pure in Metaph., II, 3, dove, in un contesto in cui è a tema proprio lo statuto della fisica, Aristotele dichiara espressamente che è assurdo ricercare al tempo stesso una scienza e il metodo di questa scienza97. Ebbene, a fronte di queste indicazioni, non soltanto nel passo iniziale della Fisica, che abbiamo letto, lo Stagirita afferma che, come a ogni altra scienza, anche alla fisica spetta d’indagare intorno ai princìpi98 e di fatto il 32

compito qui annunciato viene puntualmente eseguito nel corso della trattazione, anzi, l’esame dei princìpi — come risulterà anche dall’esposizione delle pagine seguenti — occupa la maggior parte della materia; ma quest’esame si estende perfino a determinare quanti e di che tipo sono i princìpi che ogni scienza deve usare. Si tratta della famosissima dottrina delle quattro cause, che Aristotele formula per la prima volta nei cap. 3-4 del secondo libro della Fisica"99. A questo problema si riconduce, per ampia parte e in ultima analisi, anche un secondo, certamente distinto da esso ma in esso convergente in quanto si apre su un campo che in realtà è coperto dall’ampiezza del primo. Ci si riferisce al fatto che, in luogo di dedurre apoditticamente, le argomentazioni della Fisica pongono per lo più in atto i metodi propri della dialettica, teorizzati nei Topici e nelle Confutazioni sofistiche, come l’esame peirastico delle teorie degli altri filosofi, quelle di Platone in primis, le confutazioni e le distinzioni dei diversi sensi di un termine o di un’espressione100. Si tratta, come si diceva, di un problema che finisce in gran misura per confluire nel primo, dal momento che ampia parte della materia trattata nella Fisica riguarda l’istituzione e la fondazione dei princìpi, e questo compito non può, costitutivamente, essere eseguito per via apodittica, ma per via elenchica, e viene ascritto alla dialettica come esecuzione di uno dei suoi due usi in campo filosofico101. Resta così decisivo il primo problema. Il quale trova soluzione considerando che lo statuto delle scienze teorizzato negli Analitici secondi concerne le scienze nella condizione di saperi già costituiti che devono insegnarsi e che, pertanto, abbisognano di una sistemazione organica per poter essere più facilmente apprese. Questo carattere didascalico della condizione epistemologica definita nel predetto trattato è confermata dal fatto che i procedimenti conoscitivi a essa più adeguati e più confacenti, e cioè le dimostrazioni, vengono qualificati da Aristotele come «discorsi didascalici (λόγoι διδασκαλικoί)» nella classificazione dei tipi di sillogismi compiuta in Soph. EL, 2: Dei discorsi che hanno luogo nel discutere — si dice, infatti — vi sono quattro generi: (discorsi) didascalici, dialettici, esaminativi ed eristici. Didascalici sono quelli che argomentano a partire dai princìpi propri di ciascuna disciplina e non dall’opinione di chi risponde102. Una seconda conferma si rinviene in Anal. Post., II, 13, dove altre premesse dei procedimenti apodittici, costituite, questa volta, da enunciati 33

in sé non evidenti e non necessari, sono chiamate αἰτήματα, cioè «postulati»103, perché corrispondono alle «richieste» che il maestro fa ai discepoli di concedergli certe proposizioni, per poter procedere alle dimostrazioni104. 2. L’uso del metodo dialettico e la sua legittimazione Se l’impianto apodittico conviene alla fisica (come a ogni altra scienza) in quanto sapere in sé già sistemato, a essa, considerata nella sua fase euristica, ossia nel suo momento costruttivo e di ricerca, conviene invece l’uso del metodo dialettico. Questa risultanza, che — come si accennava — salta agli occhi in tutta la trattazione e che nel corso dell’esposizione avremo di volta in volta cura di porre in rilievo, non corrisponde a un semplice dato di fatto, ma si giustifica teoricamente considerando che la dialettica — accanto a un uso privato, per il quale essa è utile come esercizio mentale (πρὸς γυμνασίαν) e a uno pubblico, che la vede essere un formidabile strumento per i dibattiti politici e i dibattimenti giudiziari (πρὸς ἐντεύξεις) — riveste un’utilità determinante anche «in rapporto alle scienze filosofiche (πρὸς τὰς κατὰ φιλoσoφιαν ἐπιστήμας)»105. Quest’uso filosofico precisa due funzioni della dialettica, che da un lato entra in causa là dove si tratta di giustificare i princìpi, come sopra si è detto, dall’altro interviene a determinare la verità o la falsità di un asserto deducendo le conseguenze derivanti da esso e dal suo opposto e accertando se alcune confliggono con se stesse o con la proposizione da cui discendono, di modo che questa risulta falsa e, di conseguenza, la sua opposta vera106. Si tratta espressamente del metodo diaporematico (πρὸς ἀμφότερα διαπoρῆσαι), che lo Stagirita presenta come proprio «della conoscenza e della saggezza che è conforme alla filosofia», giacché in rapporto a esse non è di poco conto l’essere in grado di abbracciare e d’aver abbracciato con lo sguardo le conseguenze nel caso di ciascuna ipotesi: resta, infatti, (soltanto) da scegliere correttamente l’ima o l’altra di queste107. Ebbene, proprio questo procedimento per il quale la dialettica, come disciplina che lo attua, ha una portata anche conoscitiva, chiara dal fatto di permettere l’accertamento del vero e del falso indipendentemente dall’effettuare dimostrazioni in senso vero e proprio, in virtù del suo stesso essere «inquisitiva» (ἐξεταστική), trova un ampio impiego nella Fisica, che perciò ne legittima l’uso. Un esempio eloquente è offerto dalla via che lo 34

Stagirita indica doversi seguire nella ricerca della definizione del luogo, in un passo la cui importanza metodologica è data anche dal fatto di attestare l’idoneità del metodo in oggetto in ordine al reperimento dell’essenza: proprio quel compito in relazione al quale si è osservata una distanza tra il metodo dell’esposizione e della sistemazione della scienza e il metodo della sua invenzione. Ebbene, per raggiungere la definizione del luogo bisogna sforzarsi di effettuare la ricerca così che siano risolti gli aspetti che facevano difficoltà (τὰ ἀπoρoύμενα): anche quelle 〈proprietà〉 che secondo le opinioni correnti appartengono al luogo saranno (proprietà) che gli appartengono e, inoltre, sarà chiara la causa del malcontento e delle difficoltà in merito a esso (τῶν περί αὑτὸν ἀπoρεμάτων). Così infatti si può mostrare ciascuna cosa nella maniera più valida108. Si tratta, per l’appunto, di esaminare le opinioni espresse dai filosofi su che cosa sia il luogo e quali proprietà gli appartengono per sé, attraverso un’indagine che accerta quali aspetti di esse sono esatti e quali costituiscono delle difficoltà (o perché contraddicono l’opinione di cui sono conseguenze, o perché confliggono con un ἔνδoξoν). La conferma dei primi e la risoluzione dei secondi fanno raggiungere lo scopo e consentono di pervenire alla definizione ricercata. Al tempo stesso, aggiunge lo Stagirita, viene in luce la causa per cui i secondi aspetti non possono entrare a costituire l’essenza del luogo e proprio per questo, per la capacità non soltanto di conseguire un esito favorevole, ma di indicarne la causa, ossia di motivare «scientificamente», la ricerca così condotta, è condotta nel modo migliore. Così, in Phys., III, 2, l’esame dialettico e diaporematico delle dottrine sul movimento conferisce alla definizione di questa realtà, presentata nel capitolo precedente, la convalida necessaria per considerarsi definitiva. Ma v’è di più, l’uso della dialettica da parte della fisica si giustifica per il fatto che la prima, se da un lato non opera dimostrazioni nel senso tecnico definito negli Analitici posteriori, dall’altro, proprio con l’esame diaporematico dei φαινόμενα, assunti qui nel significato di opinioni professate da persone degne d’essere prese in considerazione (in sostanza, i filosofi precedenti) e con la risoluzione delle relative difficoltà, consistenti nel contrasto di certi loro aspetti con gli ἔνδoξα, attua un procedimento che tiene il luogo delle dimostrazioni e costituisce esso medesimo una sorta di dimostrazione. Sul valore dimostrativo di questo procedimento Aristotele si esprime con inequivocabile chiarezza alla fine di Eth. Nic., VII, i, dove, preliminarmente alla trattazione dell’intemperanza (ἐγκράτεια), egli precisa 35

il metodo d’indagine e afferma che, come nel caso degli altri 〈argomenti〉, dopo aver esposto i punti di vista (τὰ φαινόμενα) e aver in primo luogo sviluppato le difficoltà (διαπoρέσαντας), si devono così mostrare, in via principale, tutte le opinioni notevoli (πάντα τὰ ἔνδoξα) relative a queste affezioni e se non 〈tutte〉, la massima parte e le più importanti. Infatti, se si sciolgano le difficoltà e si lascino in piedi le opinioni notevoli, si sarà data una sufficiente dimostrazione (δεδειγμένoν ἄν εἴη ἱκανῶς)109. Nelle ricerche di fisica, questo tipo di dimostrazioni percorre la trattazione delle fondamentali dottrine, come risulterà dall’esame delle stesse. Si tratta di dimostrazioni di genere certamente diverso da quelle apodittiche, ma non per questo meno valide e praticabili da parte delle scienze. Per altro verso, la possibilità della dialettica di fornire dimostrazioni attraverso l’esame diaporematico dei φαινόμενα si esprime nell’attuazione di una diversa strategia applicativa del metodo in oggetto, della quale è data eloquente testimonianza in De Coelo, I, 9. Qui, dovendosi stabilire quale via deve battere l’indagine volta a determinare la natura del cielo, si precisa che essa perverrà a stabilirne il carattere generabile o ingenerabile, corruttibile o incorruttibile, percorrendo innanzitutto le opinioni degli altri (filosofi). Infatti, quando si ha a che fare con tesi opposte, le dimostrazioni (ἀπoδείξεις) dell’una sono costituite dalle aporie110. La situazione cui si fa riferimento vede fronteggiarsi due coppie di tesi contraddittorie, in ciascuna delle quali, per la legge dell’opposizione antifatica, una tesi è necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa111. Ebbene, se il relativo esame dialettico porta a riconoscere che una di esse non è sostenibile (perché vi derivano conseguenze inaccettabili, in quanto o contraddicono l’enunciato di partenza, o confliggono con un ενδoξoν), quest’esito vale di per sé come «dimostrazione» (il testo reca espressamente il termine ἀπόδειξις) dell’altra tesi. Significative applicazioni di questo procedimento si trovano, per esempio, in Phys., III, 5, dove l’inesistenza dell’infinito in atto viene raggiunta anche tramite la reiezione della tesi eraclitea di un corpo — per l’appunto, attualmente infinito — sussistente al di là dei quattro elementi e della conseguente possibilità che un infinito siffatto sia una realtà semplice. 36

Analogamente, l’insostenibilità dell’ipotesi naturalistica per la quale si dà un elemento infinito — come l’aria, l’acqua, ecc. —, esterno al mondo, o di quella platonica che chiama in causa due infiniti potenziali, quali il Grande e il Piccolo, concorrono a dimostrare che l’infinito in atto non esiste neppure come possibilità. Da questi rilievi è chiara, pertanto, la completa rispondenza del metodo diaporematico — che per un verso consente di effettuare dimostrazioni e, per un altro, permette di accertare il vero e il falso — ad assolvere le finalità euristiche ed inventive delle scienze: in particolare, quelle della fisica, che ben comprensibilmente se ne serve, perciò, con abbondanza. Un’altra importante strategia del metodo dialettico posta in atto dalla fisica è poi l’analisi linguistica, intesa per un verso a distinguere i diversi sensi in cui si dicono termini ed espressioni, per un altro a dividere le nozioni complesse, che si presentano come interi indistinti, nelle nozioni elementari di cui si compongono. Proprio a un’operazione di analisi linguistica di questo secondo tipo, infatti, Aristotele sembra soprattutto riferirsi nel descrivere, in Phys., I, 1, il procedimento di successiva divisione del composto, globale e indifferenziato (τὰ συγκεχυμένα, τὸ ὄλoν, τὸ καθόλoυ), nei suoi costituenti semplici o elementi (τά στoιχεῖα)112: in essa, quanto meno, egli individua il modello di tale divisione, che, almeno sotto questo profilo, si presenta con i tratti di un processo fondamentalmente e innanzitutto linguistico, come attesta il riferimento alla nozione generica espressa dal nome, a partire dalla quale, per progressive differenziazioni, si giunge a distinguere le proprietà essenziali della cosa113. Ma con ciò si tocca un aspetto del metodo d’indagine che chiama direttamente in causa il differente modo in cui fisica e matematica reperiscono i princìpi e per questo merita di essere trattato a parte. 3. Il rapporto della fisica con la matematica Sotto un altro profilo, l’impiego da parte della fisica di un metodo diverso da quello strettamente apodittico si giustifica tenendo conto del tipo di sapere che essa esprime, in rapporto all’oggetto che indaga. Una prima, significativa indicazione a riguardo viene dallo stesso passo di Metaph., VI, 1 che in precedenza abbiamo parzialmente letto. Già nella parte esaminata, il rilievo per cui alcune scienze rendono chiara l’essenza con la sensazione (αἰσθήσει), mentre altre l’assumono come ipotesi, allude alla differenza epistemologica tra la fisica e la matematica. Tale differenza si completa con l’osservazione che, per questo diverso modo di porre 37

l’essenza, le due scienze suddette dimostrano o in modo più necessario, o in modo più duttile (μαλακότερoν) le cose che appartengono per sé al genere su cui vertono114. Si tratta pertanto di comprendere in che modo, mediante il ricorso alla sensazione, la fisica perviene alla conoscenza dei princìpi e perché le dimostrazioni che da essi conduce hanno un carattere meno rigoroso di quelle della matematica. Proprio il riferimento alla sensazione consente di riportare il luogo di Metaph., VI, 1 anzi richiamato a Phys., I, 1. In quest’ultimo, infatti, premesso che la via naturale del conoscere «muove dalle cose più note e più chiare per noi a quelle più chiare e più note per natura» (per cui si deve procedere «dalle cose più oscure per natura, ma più chiare per noi a quelle più chiare e più note per natura»), Aristotele precisa che più chiare per noi, ossia a noi note per prime (τὸ πρῶτoν δῆλα καί σαφῆ), sono le cose nella loro globalità (τὰ καθόλoυ), e cioè nell’indistinzione dei loro aspetti particolari (τὰ καθ’ ἓκαστα), ancora mescolati assieme (τὰ συγκεχυμένα): cose che, in queste fattezze e in questo preciso senso, costituiscono un intero (τὸ ὅλoν)115. Donde la conseguenza che bisogna procedere dall’intero indifferenziato alla divisione delle sue singole determinazioni, le quali sono comprese in esso come parti (ὡς μέρη)116 e costituiscono i termini ultimi della scomposizione, quei termini, cioè, che non sono a loro volta passibili di analisi e per questo hanno funzione di elementi (τὰ στoιχεῖα)117. Tale divisione, che conclude nella definizione (λόγoς, ὁρισμός), la quale «divide nelle (determinazioni) individuali (διαιρεῖ εἰς τὰ καϑ’ ἓκαστα)»118, ossia enuncia una per una le determinazioni essenziali della cosa, richiede l’impiego di princìpi e si compie a partire da essi (αἱ ἀρχαὶ διαιρoῦσι ταῦτα, e cioè τὰ στoιχεῖα)119; il che le conferisce il carattere di una vera e propria ricerca. Ebbene, l’intero dal quale si deve muovere nel processo di differenziazione è «più noto secondo la sensazione (κατὰ την αΐσθησιν γνωριμώτερoν»120), ed esattamente con la sensazione (αἰσθήσει) — com’è detto in Metaph., VI, 1 — la fisica perviene all’essenza, raggiunge cioè uno dei suoi princìpi propri. Il confronto dei due luoghi e le considerazioni or ora svolte consentono di chiarire il significato di quest’ultima affermazione e precisare che, riferendosi alla αἴσθησις, Aristotele non intenziona lo strumento «con cui» questa disciplina raggiunge un suo principio, quasi che l’acquisizione di esso abbia carattere d’immediatezza, quale per l’appunto 38

possiede ciò che è conosciuto per sensazione, e che il principio stesso si presenti già nella nozione di un dato sensibilmente appreso come alcunché di evidente. Al contrario, la αἴσΦησις ha certamente funzione di strumento, ma nel senso di «dato a partire da cui» la fisica, effettuando una ricerca, raggiunge il principio. Tale dato — sensibilmente acquisito — è la cosa nella sua globalità o, più esattamente, la nozione complessiva e indistinta della cosa. Questa nozione ha il carattere dell’immediatezza, non il principio che ne viene ricavato, separando e dividendo gli aspetti in essa mescolati assieme. Non soltanto, ma il fatto che l’essenza e la definizione vengano reperite dalla fisica per via di analisi a partire da una nozione complessiva, conosciuta per sensazione, e come parti elementari dell’idea della cosa nella sua globalità, fa comprendere anche sul piano formale, qui specificato sottp il profilo metodologico e procedurale, la ragione per cui le essenze ricercate da questa disciplina non sono separabili dalla materia, ma, al contrario, sono costitutivamente congiunte a essa, al modo in cui lo è il camuso. Questo, infatti, si distingue dal concavo perché viene concepito insieme con la materia (dal momento che il camuso è un naso curvo), mentre il concavo prescinde dalla materia sensibile121. E poiché questo tipo di essenze deve ricercare il fisico e questo genere di definizioni egli deve formulare, è suo compito, precisa Aristotele, estendere l’indagine anche su certi aspetti dell’anima che non siano concepibili come indipendenti dalla materia122, dal momento che l’anima è la forma dei viventi, i quali sono esseri naturali; per cui anche la biologia (vale a dire lo studio delle piante e degli animali) rientra nella fisica. Proprio perché la forma degli enti che costituiscono l’oggetto della fisica non è separabile dalla materia, se si tien conto del fatto che la forma, in quanto essenza, è principio di determinazione, mentre la materia esprime indeterminatezza, si comprende perché tali enti siano, sì, determinati secondo una data forma, ma non «sempre», bensì «per lo più (ὡς ἐπί τὸ πoλὺ)»123, ammettano, cioè, non soltanto di fatto, ma anche di diritto certe eccezioni. Ebbene, il modo «più duttile» in cui la fisica procede nelle sue dimostrazioni dipende da quello in cui il suo oggetto risulta determinato dalla forma, ossia, in ultima istanza, dalla inseparabilità di questa dalla materia. Peraltro, questa strutturale connessione tra il grado di rigore delle 39

argomentazioni della fisica e il tipo di realtà che essa indaga, trova, da un lato, perfetto riscontro nella relazione tra la fisica stessa e la matematica e, da un altro, costituisce il terreno sul quale va specificata la relazione tra le due discipline. Già abbiamo sentito che la matematica assume l’essenza come ipotesi124. Ciò in quanto i suoi oggetti sono essenze del tipo del concavo, ossia separate dalla materia125. Esse, infatti, non esistono separatamente e sono come presenti in una materia126, ma sono logicamente separabili da questa. In Phys., II, 2 Aristotele interviene ancor più determinatamente sul punto, chiarendo quale rapporto intercorre tra la fisica e la matematica, e fa presente che entrambe studiano superfici, contorni solidi, lunghezze, punti, in generale, enti di questa natura: anche la fisica e non soltanto la geometria, giacché tali determinazioni sono attributi per sé delle realtà naturali ed è assurdo che la fisica studi queste realtà prescindendo da quegli attributi. Ma, per l’appunto, li studia «in quanto ciascuno è limite di un corpo fisico», ossia congiuntamente con la materia, mentre la matematica li separa (χωρίζει). Infatti, per il pensiero sono separabili (χωριστά) dal movimento; e non ha alcun’importanza, né si produce falsità, se essi sono separati127. In quanto tali, gli oggetti della matematica sono formalmente determinati «sempre», non «per lo più». Ebbene, in rapporto a questo tipo di enti, la matematica si presenta come «scienza razionale (διανoητική)» — laddove la fisica, che studia essenze quali il camuso128 e le rende chiare con la sensazione, «partecipa in qualche misura della razionalità (διάνoια)»129; perciò «verte su cause e princìpi più rigorosi» — mentre i princìpi della fisica sono «più semplici», ossia meno rigorosi130; di conseguenza, anche le sue dimostrazioni, procedendo da princìpi siffatti e applicandosi a enti che sono «sempre» così come sono (non ammettono, cioè, nessun margine di variabilità né alcuna eccezione), esibiscono un grado di cogenza superiore a quelle della fisica, cosicché la matematica dimostra «in modo più necessario»131. Per questo l’uso del metodo dialettico non s’addice a questa disciplina, mentre è del tutto conveniente alla fisica: infatti,

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il discorso rigoroso della matematica non deve essere richiesto in tutte le cose, ma soltanto in quelle che non hanno materia. Perciò, questo modo non è fisico, in quanto l’intera natura ha certamente materia132.

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III LA DOTTRINA DELLE CAUSE, DELLA FORTUNA E DEL CASO I. I quattro tipi di causa S’è detto che alla fisica non compete soltanto di trattare dei princìpi o cause, ma che essa istituisce a riguardo anche un’indagine volta a determinare quali e quanti sono i tipi di princìpi che tutte le scienze devono usare. E la famosissima dottrina delle quattro cause, che Aristotele formula per la prima volta in Phys., II, 3 e che ripropone nel primo trattato della Metafisica, di datazione assai antica, ma in ogni caso più recente del secondo libro della Fisica. Nell’ottica di questa ricerca interessa in modo particolare porre in luce il metodo col quale Aristotele giunge alla formulazione di detta dottrina. Un metodo chiaramente dialettico, consistente nella distinzione dei sensi in cui qualcosa «è detto» causa di qualcos’altro. In effetti, lungo tutto il corso dell’analisi la distinzione delle cause è costantemente presentata come differenza di modi di dire e s’appoggia all’esame del linguaggio. Così, in un modo si dice «causa» ciò da cui qualcosa viene all’essere e che sussiste in esso: per esempio, il bronzo 〈si dice causa〉 della statua, l’argento della coppa e i loro generi; in un altro, 〈si dicono causa〉 la forma e il paradigma, cioè la definizione della quiddità e i generi di questa133 (per esempio, del diapason, il rapporto del due all’uno e, in generale, il numero) e le parti comprese nella definizione. Inoltre, 〈si dice causa〉 da dove è il principio primo del mutamento o della quiete: per esempio, 〈si dicono〉 causa colui che delibera e il padre del figlio e, in generale, ciò che fa di ciò che è fatto e ciò che produce il mutamento di ciò che muta. Inoltre, 〈causa si dice〉 come il fine, e questo è il ciò in vista di cui: per esempio, la salute del passeggiare. Infatti, perché passeggia? Diciamo: «per stare bene», e dicendo così crediamo di aver mostrato la causa. E 〈si dice causa〉 anche tutto ciò che, un’altra cosa fungendo da motore, è a mezzo tra 〈essa e〉 il fine: per esempio, della salute, il dimagrimento o la purificazione o i farmaci o gli strumenti. In effetti, tutte queste cose sono in vista del fine, ma differiscono tra loro in quanto le une sono opere, le altre strumenti134. Interessa, inoltre, porre in rilievo come, in strutturale unità e in piena coerenza con la ricerca dei diversi significati assunti dal termine «causa» nei 42

differenti contesti e del loro riportarsi a quattro significati complessivi, questi né costituiscano, da un lato, quattro articolazioni specifiche di un medesimo genere, presuntivamente identificabile nel concetto universale di causa, né, da un altro, rappresentino a loro volta quattro generi di cause, secondo una situazione per la quale ciascuno di essi esprimerebbe un significato universale e primo di causa. Essi non rappresentano quattro specie di un medesimo genere (quello, per l’appunto, di «causa»), perché il genere si predica sinonimamente delle specie, mentre «causa» non si dice nello stesso senso della causa materiale, formale, efficiente e finale, giacché nel primo caso significa il «ciò da cui (τὸ ἐξ oὖ)», nel secondo la forma e il paradigma (τὸ εἶδoς καὶ τὸ παράδειγμα), nel terzo il «ciò in vista di cui (τὸ oὖ ἓνεκα)», nel quarto «da dove è il principio primo del mutamento o della quiete» (ὄoΦεν ἡ ἀρχή τῆς μεταβoλῆς ἡ πρὡτη ἤ τῆς ἠρεμήσεως). Tuttavia, poiché tra queste differenze di senso, per le quali «causa» si applica omonimamente alle determinazioni che significano o la materia o la forma o il principio del movimento o il fine, si verifica un’unità di rapporto in ordine all’esprimere tutte una causa (ossia, una determinazione che significa materia è causa in modo uguale a come lo sono un’altra che significa forma, o una terza che significa principio del mutamento, o una quarta che significa un fine), l’omonimia non è assoluta, ma πρὸς ἓν. Questa struttura di «omonimia in relazione all’uno», realizzando al massimo grado la diversità di senso in cui si dicono le cause (πoλλαχῶς λεγoμένων τῶν αἰτίων)135, conferisce il massimo risalto alle conseguenze che Aristotele deriva dalla multivocità del termine. Una di esse è che della medesima cosa possono ben esserci più cause, e non per accidente: giacché, per l’appunto, ciascuna è causa in un significato differente dalle altre136. Una seconda conseguenza è che alcune cose sono l’una causa dell’altra137: il motivo è lo stesso; una terza, che la medesima cosa può essere causa di contrari138. Parimenti, ciascuno dei suddetti quattro tipi di causa non definisce un genere di cause, non esprime, cioè, il medesimo significato con cui si dicono tutte le cause materiali, formali, efficienti e finali. Una prima indicazione di ciò viene dal fatto che Aristotele non li nomina i «quattro generi», bensì i «quattro modi più evidenti (τέτταρας τρόπoι, oἱ φανερὡτατoι)» delle cause139. Ed è ben vero che ne parla anche come di «specie»140; se però si tien conto della circostanza che — subito appresso, nel medesimo luogo — egli dice che i loro «modi (τρόπoι)» sono molti, ma, se ricapitolati, essi risultano di meno141, riconducendosi tutti a sei, ciascuno dei quali esprime un senso della causa o in atto o in potenza, invece di un’obiezione si trova 43

un’ulteriore conferma dell’istanza, perché viene in luce che quelle «specie» non sono altro che i «modi più evidenti» — e, di conseguenza, di numero ancor più limitato — di tutti quelli in cui si dicono le cause: quei modi, cioè, nei quali prendono risalto anche i sei predetti. Questi in ogni caso vengono precisati nella causa «o come l’individuo, o come il genere, o come l’accidente, o come il genere dell’accidente, o come queste cose dette in connessione o in modo semplice. E tutte o essendo in atto o secondo la potenza»142. In secondo luogo, il punto è chiaro dagli stessi esempi che adduce lo Stagirita. Il caso della causa materiale è il più evidente. Il filosofo precisa che sono cause come il ciò da cui le lettere delle sillabe, la materia delle cose fabbricate, il fuoco e gli 〈elementi〉 di questo genere dei corpi, le parti del tutto, le ipotesi della conclusione143. Ebbene, le lettere non sono causa materiale delle sillabe nello stesso senso in cui la materia lo è di un manufatto (per esempio, il legno di un letto) o, nel sillogismo, le premesse sono causa materiale della conclusione. Che, le lettere sono materia nel senso di componenti primi, il legno è materia nel senso di sostrato, le premesse in una valenza ancora diversa da queste due. Pertanto, anche la causa materiale si dice omonimamente delle determinazioni in oggetto, ancorché la loro omonimia in ordine alla causalità materiale non sia assoluta, ma ammetta — essa medesima — un’unità di relazione. E queste stesse considerazioni valgono anche per gli altri «modi» delle cause. In tutti e quattro i tipi di cause, la fisica deve ricercare la causa «più elevata (τὸ ἀκρότατoν)», cioè la causa prima144. E in ciò essa, relativamente alla investigazione delle cause del divenire e nell’ordine degli enti naturali, realizza la medesima ricerca che la filosofia prima attua sull’essere in totalità: giacché anche quest’ultima, studiando l’essere in quanto essere, ne indaga le cause e i princìpi primi. 2. Il caso e la fortuna Un’indagine, come quella fisica, che verte sulle cause operanti nell’ambito della natura, non può evitare di prendere in considerazione il caso (τo αὐύτόματoν) e la fortuna (τύχη), dal momento che anch’essi, realmente o presuntivamente, sono cause e paiono riguardare entrambi, 44

indistintamente, gli enti naturali. Anche su quest’argomento, l’esame di Aristotele segue le procedure del metodo dialettico. Lo si evince subito dall’impostazione del problema: anziché determinare apoditticamente l’esistenza del caso, egli perviene a questa conclusione attraverso l’esame delle opinioni dei filosofi precedenti: discutendole e accogliendo ciò che di esse al vaglio critico risulta accettabile, mentre viene rifiutato ciò che non può ammettersi. Cosi, per quanto riguarda la tesi di quei pensatori che hanno negato l’esistenza della fortuna e del caso, sul presupposto che in rapporto a ogni accadimento presuntivamente attribuibile a essi è sempre possibile indicare una causa che l’ha determinato145, Aristotele accoglie l’istanza che gli ambiti nei quali intervengono la fortuna e il caso sono oggetto di una causalità determinata, ma ne rifiuta l’arbitraria assolutezza, perché contrasta con un ἔνδoξoν: tutti, infatti, pur ben sapendo che molte cose possono esser prodotte da precisi fattori, ne attribuiscono però l’accadere anche a ragioni fortuite, e ciò che tutti (πάντες) ritengono, specifica il primo e più generale caso di sussistenza di un’opinione notevole146. L’altro motivo addotto o adducibile da costoro a sostegno della tesi predetta, e cioè che, se veramente la fortuna e il caso si dessero, si annoverassero cioè tra le cause, non avrebbero mancato di parlarne gli antichi sapienti (ἀρχαίoι σoφoί), che per l’appunto andarono alla ricerca delle cause o princìpi della natura147, trova un’implicita risposta nel corso dell’intera trattazione: su questo punto particolare essi sbagliarono. In realtà, anch’essi avrebbero dovuto riconoscerli, cosicché cadono in un assurdo sia non supponendone l’esistenza, sia supponendola, ma non facendone menzione alcuna148. Più drastico, invece, il giudizio dello Stagirita sull’opinione degli Atomisti, ossia di coloro che non soltanto hanno affermato l’esistenza del caso, ma con esso, ed esattamente con la tecnica dei vortici, hanno spiegato la formazione e l’ordinamento dei mondi. Aristotele la respinge per quell’aspetto per il quale essa fa del caso la causa fondamentale, se non l’unica. La ragione del rigetto è, infatti, che costoro, non ritenendo i mutamenti delle realtà sublunari regolati dal caso, bensì dall’intelligenza e dalla natura (non da qualunque seme, a caso, nasce qualunque albero, ma da uno determinato), e ritenendo invece dovuti al caso i processi dei corpi celesti, cadono nell’assurdo di sottrarre a un’azione causale le realtà più perfette e più divine per assegnarla invece alle realtà meno perfette149. Tuttavia, la maggior negatività del giudizio non è tale da non indurre Aristotele a concordare con la tesi atomistica sull’esistenza del caso e della 45

fortuna. Il disaccordo, anche in questo caso, è col carattere assoluto della tesi. Viene menzionata anche una terza opinione, secondo la quale la fortuna è qualcosa di divino e, in quanto tale, pur esistendo e annoverandosi tra le cause, resta però nascosta alla ragione umana150. Una tale opinione, facendo appello a una dimensione che oltrepassa l’ordine razionale umano, non può interessare alla fisica, che, essendo una «scienza», si occupa invece di quanto nella natura è determinabile sul piano della ragione. Ciò non toglie che Aristotele discuta anche questa δόξα, non per l’aspetto che dichiara il carattere divino della fortuna, perché proprio questo non interessa al presente discorso né è argomento che riguardi la fisica, ma per quello che ne sottolinea il carattere inconoscibile. Lo Stagirita dà ragione di questo carattere riportandolo all’indeterminatezza della fortuna151 e, in questi termini, ossia per l’aspetto precisato ed entro i limiti dell’esplicazione suddetta, accoglie l’opinione in oggetto. Cosi argomentata l’esistenza di caso e fortuna, Aristotele prima ne determina la natura, indi procede a chiarirne la differenza, perfezionanclo in pari tempo l’opinione di chi, ritenendoli esistenti, ne parla tuttavia come se fossero la stessa realtà. Chiaro il carattere dialettico della seconda istanza. La dimostrazione della prima valorizza invece, nel suo punto di partenza, entrambi gli aspetti dei φαινόμενα, e cioè i dati d’esperienza e le opinioni. Poiché infatti, dice Aristotele, noi vediamo (ὁρῶμεν, ecco il dato d’esperienza) che alcune cose divengono sempre nello stesso modo o per lo più (hanno cioè come modalità d’essere la necessità o una costanza che, dal punto di vista della presente trattazione, può essere assimilata alla necessità), è chiaro che fortuna e caso non possono albergare tra questi due generi di enti. Ma, d’altro canto, poiché tutti riconoscono (πάντες φασίν, ecco il riferimento all’ἔvδoξov) che a lato di questi enti (παρὰ ταῦτα) ve ne sono altri non soggetti alla necessità né a essere per lo più, tra essi debbono risiedere le due determinazioni in oggetto, e proprio guardando a questi enti i sostenitori di quell’opinione ritengono giustamente esistenti le due determinazioni suddette. Si tratta di enti che sussistono in vista di qualcosa, ossia che divengono in senso finalistico: alcuni perché procedono da una scelta deliberata, altri perché sono naturali e la natura — lo sappiamo — è regno della finalità. Ebbene, quando per tali enti, che di norma sono determinati da una precisa causa finale, ma che, in quanto non soggetti né a necessità né al per lo più, ammettono di esser prodotti anche per accidente, si verifica quest’ultima circostanza, allora si parla di caso e di fortuna. In effetti, precisa Aristotele: 46

come l’essere è per un verso per sé, per un altro per accidente, così è possibile che sia anche la causa: per esempio, di una casa, causa per sé è il costruttore di case, per accidente il bianco o il musico. Ora, la causa per sé è determinata, quella per accidente indefinita, giacché di un’unica cosa possono esserci infiniti accidenti152. Questo permette di raggiungere la definizione del caso e della fortuna. Essi sono la causa accidentale di ciò che è in vista di un fine: ossia, o di un’azione, o di una produzione, o di un accadimento naturale153. Dunque, due sono le condizioni richieste per poter parlare di caso e fortuna: l’ordine finalistico e l’assenza di necessità, sia in senso vero e proprio, definito dal non poter essere diversamente da come si è, sia in quel senso largo che comprende anche il per lo più. Se la prima condizione riporta caso e fortuna all’ordine delle cause, giacché il fine è manifestazione di razionalità, e la ragione in sede scientifica si esprime innanzitutto nella possibilità di indicare la causa, la seconda li riporta nell’ordine opposto dell’accidentalità e dell’indeterminazione. Fortuna e caso costituiscono, per così dire, il punto d’intersezione di questi due ordini, in virtù del loro essere «causa accidentale (αίτιoν ώς συμβεβηκός)». In quanto accidenti, infatti, essi in senso assoluto non sono causa di nulla (ὡς ἁπλῶς oὑδενός)154, ma, in quanto accidenti della causa, sono pur sempre in qualche modo una causa (l’architetto è causa della casa, l’essere suonatore di flauto è un accidente dell’architetto, dunque il suonatore di flauto è causa accidentale della casa). Ancora, per il fatto di essere accidenti, essi sono contrari a ragione (παράλoγα), giacché la ragione è propria o delle cose che sono sempre o di quelle che sono per lo più, mentre la fortuna si annovera tra le cose che si producono al di là di queste155; ma in quanto partecipi, sia pur in modo accidentale, dell’ordine causale, essi ammettono quella soglia minimale di razionalità che consiste nell’esclusione dell’indeterminatezza totale e assoluta: almeno sotto il profilo di un problema; infatti, in certi casi si potrebbe sollevare il problema se le cose accidentali non potrebbero essere cause della fortuna: per esempio, se della salute lo siano o un vento o un riscaldamento, ma non l’essersi tagliati i capelli. Che, tra le cause per accidente alcune sono più prossime di altre156. 47

La determinazione della differenza tra il caso (ταύτόματoν) e la fortuna (τύχη) si articola sull’analisi linguistica di ciò che il comune modo di pensare (δoκεῖ) intende per «prosperità» (εὐτυχία), una nozione che nel suo stesso etimo fa riferimento alla fortuna. Si tratta, dunque, di un esame dialettico, sia perché viene condotto a partire da un ἔνδoξoν, sia perché si struttura su un’operazione, quale è l’analisi linguistica, che rientra tra le strategie dell’indagine dialettica. Ad avviso unanime, la prosperità è qualcosa di assai prossimo, se non addirittura di identico, alla felicità, la quale, com’è detto nei trattati di etica, è relativa alla prassi, anzi, costituisce il supremo bene pratico. Anche la fortuna riguarda, pertanto, ciò che è oggetto d’azione e di scelta deliberata. Di conseguenza il suo dominio, essendo limitato a questo solo ambito di cose, è più ristretto di quello del caso, che abbraccia invece, oltreché gli accadimenti che costituiscono l’oggetto della fortuna in senso specifico, anche gli eventi naturali157. Il caso è, insomma, il genere (genere delle cause accidentali di ciò che si produce in vista di un fine), di cui la fortuna è una specie (quella specie di cause accidentali relative a ciò che è prodotto in vista di un fine nell’ambito dell’operare umano. Tale, per l’appunto, è la prassi)158. Se il caso, in quanto genere delle cause accidentali, si estende a ogni causa di tal fatta, esso ha però il suo ambito proprio nella natura. Anche la sfera dell’umano cade, infatti, sotto il caso, come s’è or ora detto, ma in senso generale. Per cui, in senso proprio esso abbraccia le sole realtà naturali, tra le quali deve esser fatto rientrare anche l’uomo, ma non in quanto soggetto di deliberazione e d’azione, ossia per quei soli aspetti che concernono la sua dimensione animale. E poiché le realtà naturali sono determinate dall’avere intrinseca a sé la causa del movimento e della quiete, come già ci è noto, il caso può definirsi anche come causa «esterna» (ἔξω) di questo tipo di enti159. Da quanto s’è detto segue che non soltanto per gli esseri inanimati e per gli animali non è possibile parlare di fortuna, ma neppure per i bambini, se non in senso traslato, giacché nemmeno essi hanno capacità di scelta deliberata e, quindi, di agire in modo vero e proprio160. La realtà di tutti costoro cade invece nel dominio del caso161. Una seconda, importante conseguenza è che caso e fortuna, in quanto cause accidentali, sono successivi all’intelligenza e alla natura, ossia alle cause non accidentali delle realtà finalisticamente determinate: per il fatto stesso che l’accidente è posteriore a ciò che è per sé162.

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IV I CAPISALDI TEORICI DELLA DOTTRINA FISICA I. I princìpi del divenire Poiché gli enti di natura, che costituiscono l’oggetto della fisica, sono soggetti a mutamento, e per l’esattezza a un mutamento dovuto essenzialmente a una causa immanente, la prima indagine di Aristotele nel campo della fisica concerne la determinazione dei princìpi del mutamento. Con ciò anche la nozione di natura risulta ulteriormente chiarita: ché, se essa è, come effettivamente è, secondo la sua stessa definizione, causa e principio di mutamento, il porre in luce quali e quanti sono i princìpi del mutamento degli enti il cui divenire è dovuto alla natura, arreca in pari tempo e di per se stesso un chiarimento sulla realtà di quest’ultima. Anche su questo basilare tema, l’analisi di Aristotele si declina secondo il metodo dialettico, consistente in questo caso nella discussione e nella valutazione critica delle tesi dei filosofi. Tale discussione viene tuttavia inquadrata dallo Stagirita in uno schema logico per il quale 1) o il principio è uno solo e in tal caso (a) o è immobile (b) oppure è in movimento; 2) oppure i princìpi sono più d’uno e in questo caso essi sono (c) o di numero finito, ed esattamente (c1) o due, (c2) o tre, o quattro, o qualunque altro numero, purché finito; (d) o di numero infinito, e in tal caso (d1) o appartengono tutti a un unico genere e differiscono tra loro per forma, (d2) oppure sono differenti per specie o anche contrari163. Entro questo schema vengono inquadrate e disposte le tesi dei filosofi precedenti, che assumono così la forma logica, massimamente adatta alla presente discussione, che deriva loro dall’accentuazione dell’unità o della pluralità, della finitezza o della infinitezza del numero dei princìpi asseriti da ciascuna, giacché è questo ciò che ora soprattutto interessa. Va inoltre tenuto in conto che la posizione di un filosofo circa il numero dei princìpi, per un aspetto può rientrare in una posizione, per un altro in un’altra. In ogni caso, le posizioni (1a) e (1b) esprimono, rispettivamente, la tesi eleatica e la tesi dei monisti naturalisti, quali certamente sono Talete e Anassimene; 49

le tesi di Empedocle e di Anassagora sono indicate, per l’unicità dello sfero e della mescolanza iniziale, dalla posizione (1b), per il numero dei princìpi che pongono, rispettivamente dalla posizione (c2) e (d2); la tesi atomistica, di Democrito, campeggia nella posizione (d1). L’analisi di tutte le tesi ha per fine di mostrare che, a eccezione di quella eleatica, la quale, come subito vedremo, non ha significato fisico, in esse sono comunque assunti con valore di princìpi i contrari. E poiché questi sono due, la posizione (c1) rispecchia l’opinione che Aristotele intende far emergere dall’esame in oggetto. Va infine richiamato, in queste considerazioni preliminari, che, secondo Aristotele, la ricerca del numero dei princìpi negli Eleati (secondo l’interpretazione di Simplicio) o nei Fisici, ossia nei Naturalisti presocratici in genere (secondo quella di Alessandro d’Afrodisia), procede parallelamente a quella del numero degli enti164. Cosicché la riflessione può senza alcun impedimento appuntarsi di volta in volta sull’uno o sull’altro oggetto. Alla tesi eleatica lo Stagirita dedica un’ampia e accurata trattazione (Phys., I, 2 e 3), a seguito della quale essa viene radicalmente rigettata, sia nella versione di Parmenide, per la quale l’essere, uno e immobile, è finito, sia in quella di Melisso, per la quale l’essere è infinito. Di per sé, entrambe le posizioni non meriterebbero neppure di essere prese in considerazione da un’indagine fisica, dal momento che non è compito di nessuna scienza discutere con coloro che eliminano i suoi princìpi (le scienze, abbiamo visto, procedono dall’assunzione dei princìpi, se le si considera nella loro fase sistematica e didascalica, oppure li ricercano, se le si guarda nell’ottica del loro momento euristico, ma nessuna s’impegna a dire se i princìpi esistano o no) e l’affermazione che tutto l’essere è uno e immobile, o come finito o come infinito, contraddice la nozione stessa di natura: quella natura la cui esistenza, oltre a essere evidente, viene, sotto il profilo strettamente metodologico ed epistemologico, postulata dalla fisica quale suo principio165. Tuttavia, benché la tesi eleatica non abbia valore fisico e, di conseguenza, non competa a questa scienza il discuterla, ma semmai alla dialettica, essa viene stroncata dallo Stagirita, per sgombrare definitivamente il campo dalle difficoltà di ordine fisico che essa eventualmente può comportare e integrare così in modo totale la disciplina nella sua condizione di possibilità. Aristotele si oppone sia alla tesi parmenidea secondo cui l’essere, uno e immobile, è finito, sia a quella melissiana, che pone l’essere, uno e immobile, come infinito. Questa seconda viene ritenuta «più rozza» (μᾶλλoν δ’ὁ Μέλίσσoυ (λόγoς) τρoρτικός)166, perché l’infinitezza significa 50

incompiutezza e imperfezione, e queste prerogative sono impensabili per l’essere, ossia per la totalità dell’esistente. Gli argomenti addotti dallo Stagirita sia contro Melisso che contro Parmenide trovano nella dottrina dell’originaria multivocità dell’essere e della sua divisione nei generi categoriali il loro asse portante e la loro struttura fondamentale. Tale dottrina è come l’anima che muove dall’interno le critiche, le quali, in alcuni casi la presuppongono come base su cui costruire l’obiezione167, in altri argomentano l’assurdità delle conseguenze comportate dalla sua negazione, espressa per l’appunto dalla tesi eleatica168, o mostrano come soltanto con essa queste assurdità si risolvano169. Le altre tesi hanno invece valore fisico e sotto questo profilo interessano direttamente la nostra disciplina. Tuttavia lo Stagirita non le discute subito una per una, a eccezione di quella di Anassagora, espressa da (d2), sulla quale fissa immediatamente e in modo diretto l’attenzione (con ogni probabilità perché proprio su di essa, come abbiamo visto, si era soffermato Platone) e che rigetta con una serie di obiezioni al fondo delle quali campeggia il motivo che un’infinita divisione non può dar conto della determinatezza delle cose. Una discussione separata di ogni singola posizione sarebbe in questo momento del tutto superflua ai fini della presente ricerca, giacché l’accertamento che tutti considerano princìpi i contrari170, posto che i contrari sono due, rende eo ipso insoddisfacenti le altre ipotesi per gli aspetti che eccedono l’istanza suddetta. Egli prova invece questa istanza, che fa propria, mostrando come essa corrisponda a un ἔνδoξoν, dal momento che l’hanno sostenuta sia coloro che affermano che il tutto è uno e non in movimento (infatti anche Parmenide considera princìpi il caldo e il freddo, e li chiama fuoco e terra), sia coloro che sostengono il rado e il denso, sia Democrito: il pieno e il vuoto, uno dei quali (egli) dice che è come essere, l’altro come non-essere; inoltre (determina il primo) per posizione, figura e ordine, e questi sono generi di contrari: della posizione, in su (e) in giù, davanti (e) dietro; della figura, angolato e privo di angoli, retto e circolare171. Per cui — rileva ancora Aristotele —, sotto il profilo dell’aver posto come princìpi i contrari, tutti hanno asserito la stessa cosa, mentre le differenze delle loro posizioni riguardano il tipo di contrari prescelti per la funzione suddetta. Una relazione così configurata, nella quale qualcosa è identico e 51

qualcosa è diverso, comporta una analogia172, consistente nel fatto che tutti hanno tratto i princìpi dagli elementi di due serie parallele di contrari (la cosiddetta συστoιχία), ma gli uni li hanno derivati da elementi più elevati nella colonna, altri da elementi più bassi, ossia, gli uni da cose più note secondo ragione, e cioè universali (come per esempio Platone, che ha posto come princìpi il Grande e il Piccolo), altri da cose note secondo la sensazione, vale a dire individuali, come il rado e il denso173. Questa istanza — derivata dialetticamente dall’esame delle dottrine dei predecessori — che princìpi del divenire sono i contrari, viene poi confermata da Aristotele con due ordini di ragioni: una logica, per la quale si prova che le caratteristiche dei contrari primi corrispondono a quelle che debbono avere i principi. Questi, infatti, non debbono derivare da altri enunciati, né gli uni dagli altri; ebbene, i contrari primi soddisfano entrambi i requisiti: in quanto primi, non derivano da altro e, in quanto contrari, non derivano gli uni dagli altri174. La seconda ragione è tratta dall’esperienza, la quale attesta che ogni cosa non si genera da qualunque cosa, né si corrompe in qualunque cosa, se non per accidente, ma, per l’appunto, nasce dalla sua contraria o da una intermedia (là dove i contrari ammettono intermedi175) e si corrompe nella sua contraria o in una intermedia (il bianco, per esempio, non sorge dal musico, se non per accidente, bensì dal nero, che è il contrario del bianco, o da un colore intermedio e si corrompe nel nero o in un colore intermedio). Ma poiché gli intermedi derivano dai contrari, ogni cosa si genera e si corrompe dai contrari e nei contrari176. Poiché dunque i princìpi sono i contrari, i princìpi non possono essere né uno solo, né infiniti, venendo così escluse le ipotesi (1), in blocco, e (d), in blocco. La conferma della prima esclusione era già stata raggiunta attraverso la confutazione della posizione eleatica: dunque, una prova apodittica si è ora aggiunta a una prova dialettica. Quanto alla seconda esclusione, essa — guadagnata dialetticamente attraverso il suddetto accertamento che tutti i pensatori hanno posto come princìpi i contrari, i quali, essendo due, sono di numero finito, e che i contrari primi possiedono tutte le caratteristiche che devono avere i princìpi — viene confermata con altri quattro motivi, il primo dei quali (se i princìpi fossero di numero infinito, l’essere non sarebbe conoscibile, cosicché i princìpi stessi contraddirebbero la loro specifica funzione di termini primi della conoscenza177), avendo chiaramente carattere di reductio ad absurdum, è essa medesima di ordine dialettico. Gli altri tre sono che vi è una sola coppia di contrari in ogni genere unico, quale la sostanza178, che la spiegazione è possibile e migliore da un numero finito di princìpi179 (istanza 52

che consente ad Aristotele di confrontare la tesi di Empedocle con quella di Anassagora e dichiarare più confacente la prima180) e che i contrari sono gli uni anteriori agli altri e derivano gli uni dagli altri181. Ma la sola posizione dei contrari non basta, giacché nel divenire non è un contrario a diventare l’altro contrario (non è, per esempio, il denso a diventare rado, né il rado a diventare denso182), ma essi operano su un terzo elemento, diverso da entrambi e avente esso medesimo funzione di principio, il quale viene affetto prima dall’uno e poi dall’altro. Se questo terzo principio non fosse di natura diversa dai contrari, ma si identificasse con uno di essi, si verificherebbe una serie di assurdità quali quella che un contrario, essendo ciò di cui si dice l’altro contrario, sarebbe sostanza, mentre nessuna sostanza è costituita da contrari. Inoltre, poiché i contrari sono qualità e come tali si predicano di un sostrato, che è loro anteriore e, quindi, è principio nella predicazione, se un contrario si dicesse dell’altro contrario, fungerebbe da sostrato e quindi sarebbe principio; ma poiché esso a sua volta si dice di un sostrato, che gli è principio, si avrebbe allora un principio del principio. Infine, poiché il contrario del quale l’altro si predica funge da sostanza, come s’è detto, una sostanza avrebbe, dunque, un contrario, mentre non può averne nessuno183. Un tale terzo elemento, la cui esistenza può vedersi ipotizzata già da quei Fisici che, secondo una concezione chiaramente monistica, posero il tutto come costituito da un’unica natura184, è più adeguatamente espresso da qualcosa che sta a mezzo (τὸ μεταξύ) tra gli elementi185, giacché in tal modo si distingue nettamente dai contrari. Si tratta allora di determinarne la natura. Attraverso un’analisi della generazione, considerata sia in senso assoluto, sia come generazione di qualcosa di determinato, Aristotele giunge a riconoscere, innanzitutto, la necessità del sostrato in qualunque tipo di generazione, ossia in quella per trasformazione, per aggiunzione, per toglimento, per unione e per alterazione186. Il carattere dialettico di tale analisi si evince dal fatto che essa è fondamentalmente condotta sul linguaggio e si compie attraverso la ricerca dei significati in cui si dice «divenire», riferito sia a una cosa che nel mutamento permane, sia una cosa che nel mutamento non permane. Infatti, anche il divenire, al pari dell’essere, si dice in molti sensi187. Così, quando la cosa non permane, è corretto dire «diventare qualcosa da qualcosa», ancorché quest’espressione possa usarsi anche se la determinazione permane. Invece, se la determinazione si genera dall’opposto e non permane, si dice sia «da questo 53

è divenuto questo», sia «questo è divenuto questo»188. Inoltre, precisa lo Stagirita, poiché soltanto la sostanza significa di per se stessa sostrato e non si dice di un soggettosostrato, soltanto a proposito della sostanza è proprio parlare di divenire in senso assoluto, mentre per le determinazioni non sostanziali è più appropriato dire «diventare qualcosa»189. La necessaria presenza del sostrato nella struttura del divenire garantisce l’unità del divenire stesso, dal momento che è il sostrato a essere affetto prima da un contrario e poi dall’altro; e poiché il sostrato permane, mentre i contrari non permangono, ne consegue che è la stessa cosa ad assumere determinazioni diverse (è, per esempio, la stessa cosa a essere prima bianca e poi nera, giacché queste determinazioni ne affettano, in tempi diversi, il sostrato). Essa, pertanto, è una di numero, anche se, avendo determinazioni diverse prima e dopo il mutamento, per forma, ossia per nozione, non è una190. I contrari costituiscono le determinazioni che la cosa ha, rispettivamente, prima del mutamento e al termine di esso. Lo stesso sostrato, precisa lo Stagirita, in quanto permane ed è affetto da determinazioni contrarie, è uno per numero ma due per forma191. Tutto questo comporta che ciò che diviene sia una realtà composta, giacché è costituito, da un lato, dalla cosa diveniente, da un altro, dal sostrato e, da un altro ancora, dal contrario che esso diviene, mutando dall’altro contrario192. Il sostrato non è unico per tutte le realtà divenienti: proprio in ciò si verifica uno dei momenti in cui questa figura della teoria aristotelica del divenire si distingue dalla platonica diade del Grande e del Piccolo, la quale, costituendo il principio materiale degli enti ideali, funge invece da principio materiale ultimo, o primo, dell’intera realtà193. Al contrario, il sostrato aristotelico non denota un’unica realtà, né la sua natura è univocamente determinabile, ma può conoscersi soltanto per analogia (ἐπιστητὴ κατ’ ἀναλoγίαν), e precisamente secondo una relazione per la quale esso, nella sua assenza di forma — quell’assenza di forma che lo rende identico alla materia e assimilabile a essa —, sta alle cose formalmente determinate come il bronzo sta alla statua o il legno al letto. Per cui, come il bronzo e il legno, che fungono da sostrato della statua e del letto, perché ne costituiscono la materia, non sono lo stesso sostrato, così il sostrato di ciascuna realtà soggetta a mutamento è diverso e significa una medesima determinazione solo analogicamente. Soltanto in questo senso il sostrato è un principio unitario, cosicché la sua unità non è identica a quella della sostanza individuale, che è sostrato degli attributi, né esso esiste al modo di questa194. Dei due contrari che affettano il sostrato, uno è la forma, ossia quel 54

principio che è propriamente l’oggetto della definizione. L’altro è invece la privazione (στέρησις)195. Si tratta di quella che in Metaph., X, 4 Aristotele denomina «privazione perfetta», consistente nella privazione della forma, e alla quale egli espressamente riconduce la contrarietà196. In effetti, la forma e la privazione della forma rappresentano i termini più distanti, o entro un medesimo genere, o nel sostrato che li accoglie, e ambedue le circostanze specificano altrettanti modi della contrarietà197. Tuttavia la privazione — che in Cat., io è indicata come uno dei quattro tipi di opposizione e così in Metaph., V, 10, dove tuttavia i tipi di opposizione sono complessivamente sei, ma, come gli interpreti hanno messo in luce, gli ultimi due si riconducono, sia pur a diverso titolo, agli altri quattro198 — si dice in molti sensi199 e ha un’estensione più ampia di quella della contrarietà, che coincide invece con un senso di essa, ed esattamente con la privazione perfetta200. Proprio in quanto assenza di forma, la privazione è in un certo senso vicina alla materia, ma se ne distingue, innanzitutto, perché esprime nonessere per sé, mentre la materia è non-essere per accidente; in secondo luogo, perché la materia individua uno dei significati della sostanza, ancorché si tratti del più debole, mentre la privazione non è affatto sostanza201; infine, perché la privazione, quando subentra la forma, si distrugge, mentre la materia è per sé corruttibile in quanto considerata come ciò che contiene la privazione, mentre nel significato di potenza essa è necessariamente incorruttibile e ingenerabile, dal momento che ogni generazione e corruzione, comportando la presenza del sostrato, comporta eo ipso la materia, cosicché questa, se si generasse, esisterebbe prima della sua generazione e, se si corrompesse, si distruggerebbe prima della sua distruzione202. La determinazione dei princìpi del divenire in quelli testé detti, consente ad Aristotele di cogliere il motivo per cui i primi filosofi si trovarono in una difficoltà insormontabile nel dar conto del divenire stesso: ignorando il sostrato, ossia ciò che, ancora informe, ma non per questo inesistente in senso assoluto, nel mutamento riceve una forma, essi ignorarono la distinzione tra divenire dal non-essere in senso assoluto e divenire da un certo non-essere, e così furono quasi costretti a negare che qualcosa si genera, sul presupposto che si genera o dal non-essere o dall’essere ed entrambe le alternative, intesi l’essere e il non-essere unicamente in senso assoluto, sono impossibili. Con i predetti princìpi l’aporia si risolve, potendosi precisare che ciò che si genera, si genera da un certo non-essere, vale a dire dal non-essere in senso relativo; e, parallelamente, che anche ciò 55

che è si genera, ma in senso accidentale203. Questa spiegazione del divenire trova poi ulteriore conferma sulla base della dottrina della potenza e dell’atto, della quale lo Stagirita fa qui soltanto menzione204, senza servirsene, perché l’oggetto del discorso non la implica. 2. Il movimento e il mutamento a. Definizione e specie Così determinati i princìpi del divenire, nei primi tre capitoli del terzo libro della Fisica Aristotele procede a definire la natura del divenire stesso. Egli incomincia col rilevare che alcune cose sono soltanto in atto, altre invece sono sia in potenza che in atto e questa condizione riguarda tutte le categorie dell’essere, ancorché per la relazione si parli propriamente di eccesso e di difetto, di attività e di passività, in generale di motore e di mobile. Quindi fa presente che il movimento non sussiste al di fuori delle cose mosse, di modo che in tanto se ne può dire in quanto vi sia la cosa che muta. Ed essa può mutare o per la sostanza o per la quantità o per la qualità o per il luogo. D’altro canto, ciascuno di questi significati categoriali si dà in due modi: negli ultimi tre significati si raccolgono o l’uno o l’altro dei contrari, giacché sia l’intero che il non-intero (inteso come contrario e non come contraddittorio del primo, ossia come parte) sono quantità, sia il bianco che il nero sono qualità, sia il basso che l’alto, il pesante e il leggero sono luoghi; quanto poi alla sostanza, la duplicità dei modi in cui riguardo a essa si determina la contrarietà e secondo i quali la sostanza stessa può porsi, è espressa dalla forma e dalla privazione. Ora, se tutti i significati categoriali, sotto cui si iscrive la totalità degli enti, nei quali soltanto esiste il movimento, ammettono due modi d’essere, dicendosi sia secondo la potenza che secondo l’atto, e nel passaggio dalla determinazione categoriale in potenza a quella in atto si determina il divenire, allora tale passaggio, ossia il divenire stesso, sarà passaggio da ciò che ciascun ente nel suo significato categoriale proprio è in potenza a ciò che è in atto. Il movimento è pertanto «l’atto di ciò che è in potenza in quanto tale»205, ossia l’attuazione o il raggiungimento del fine, vale a dire Ventelechia (ἐντελέχεια = ἐν τέλει ἔχειν, essere nel compimento) della cosa che è quel fine in potenza, per l’aspetto in cui è in potenza. Ché, una medesima cosa può ben essere sia in potenza che in atto, ma non simultaneamente e non per il medesimo rispetto: può essere, per esempio, calda in atto e fredda in potenza, di modo che il mutamento secondo cui da calda diventa fredda 56

consiste nel raggiungere quella entelechia del freddo che aveva in potenza proprio perché, essendo calda in atto, in potenza era fredda. Il movimento è così «l’entelechia di ciò che è in potenza, ma solo in quanto è in potenza»206. Le categorie nelle quali un tale passaggio dalla potenza all’atto — che pure, come s’è detto, s’estende a tutti i generi dell’essere — è rimarchevole, sono le quattro sopraddette: la sostanza, la quantità, la qualità e il luogo207. Il passaggio dalla potenza all’atto secondo la sostanza definisce la generazione e la corruzione (γένεσις και φθoρά), caratterizzate dal fatto che, assumendo il sostrato il possesso di una forma, dalla condizione di relativa privazione in cui prima versava (generazione), o venendo privato della forma che precedentemente possedeva (corruzione), la cosa muta in ciò che essa è (per esempio, l’uomo, morendo, ossia venendo privato della forma di uomo, cessa di essere tale. Il cadavere, infatti, non è un uomo). Il passaggio dalla potenza all’atto secondo la quantità definisce l’accrescimento e la diminuzione (αὔξησις και μείωσις); quello secondo la qualità, l’alterazione (ἀλλoίωσις); quello secondo il luogo, la traslazione (φoρά), la quale può essere o rettilinea o circolare: la prima come movimento imperfetto perché finito, la seconda invece come movimento perfetto perché unico e continuo208 e quindi pienamente compiuto. In più, il movimento circolare è primo rispetto agli altri movimenti, vale a dire rispetto sia a quello rettilineo che a quello misto209. Attraverso una minuta analisi lo Stagirita dimostra poi che contrario al movimento procedente da un contrario verso l’altro contrario è soltanto quello che da questo secondo procede verso il primo210. Chiarisce inoltre che, se in senso assoluto contrario di un movimento è soltanto un movimento, in altro senso gli è contraria anche la quiete, giacché essa è privazione, e la privazione è una certa contrarietà: esattamente, al movimento da un certo luogo è contraria la quiete in quel luogo211. Una quiete, poi, è contraria alla quiete nel contrario (per esempio, la quiete nella salute a quella nella malattia)212. Quanto all’alterazione, essa è prodotta dalle cose sensibili e ha luogo unicamente in queste. Aristotele lo prova con una minuta analisi intesa a mostrare come quelle specie di qualità che nella loro definizione prescindono dalla sensazione, ossia le forme e le figure, da un lato, e gli abiti, dall’altro213, non siano né possano essere soggette ad alterazione214. Secondo questa dottrina, dunque, generazione e corruzione, alterazione, aumento e diminuzione e traslazione sono quattro specie del movimento (κίνησις). Ma nel libro quinto compare una sistemazione alquanto diversa, che ha dato luogo al duplice problema esegetico di definire, per un verso, il 57

rapporto teorico tra le due prospettive e, per l’altro, di stabilire l’ordine cronologico delle relative formulazioni. Un problema, questo secondo, sul quale si sono cimentati soprattutto gli interpreti del primo Novecento. In effetti, nei primi due capitoli del libro suddetto Aristotele divide il mutamento (μεταβoλή), da un lato in generazione e corruzione (γένεσις καὶ φΦoρά), dall’altro nel movimento (κίνησις), distinto a sua volta nell’alterazione, nell’aumento e nella diminuzione e nella traslazione. In Phys., V, 1, in particolare, egli giustifica l’impossibilità di ascrivere la generazione e la corruzione — che sono mutamenti (μεταβoλαί) — al movimento (κίνησις) con la ragione per cui esse comportano non-essere (si genera ciò che non è e si corrompe ciò che cessa di essere), e il non-essere non è soggetto a movimento, così come all’essere in quiete, in nessuno dei sensi in cui il non-essere si dice: né secondo sintesi e diairesi, né secondo la potenza, né come nonsostanza individuale. Movimenti (κινήσεις) sono, invece, soltanto i mutamenti da un sostrato a un sostrato (laddove generazione e corruzione sono mutamenti da un non-sostrato a un sostrato e da un sostrato a un non-sostrato, ossia mutamenti secondo la contraddizione), e sono sostrati o i contrari o gli intermedi215. Stanti allora i sensi categoriali in cui è possibile il movimento, i movimenti sono i tre anzidetti: secondo la qualità, secondo la quantità e secondo il luogo, ossia l’alterazione, l’aumento e la diminuzione e la traslazione. A rincalzo, in Phys. V, 2 lo Stagirita precisa che non soltanto non vi è movimento secondo la relazione (perché, mutando uno dei due relativi, l’altro non è più tale, a meno che non si muova a sua volta, per cui il loro movimento è per accidente)216, né di un agente e di un paziente, o di un motore e di un mosso (perché ciò comporterebbe o movimento di movimento, o generazione di generazione, o mutamento di mutamento)217, ma neppure secondo la sostanza, perché la sostanza non ha contrario218. Ora, sotto il profilo strettamente dottrinale non vi è dubbio che la sistemazione del libro quinto, presentando una maggiore articolazione linguistica e concettuale, scandisce la materia in maniera più dettagliata e precisa del libro terzo, dove mutamento e movimento sono considerati equivalenti, così come, per converso, è testuale che nel libro terzo Aristotele ritenga una tale assenza di distinzione valida soltanto «nella situazione presente (ἐν τῷ παρόντι)»219. A riguardo non è mancato chi abbia scorto in quest’ultimo rilievo la prova definitiva dell’anteriorità di questa trattazione220, la quale, secondo un’indicazione metodologica stabilita dallo stesso Stagirita, delineerebbe dapprima la materia per partizioni ampie e ancora sommarie, onde procedere successivamente a più accurate 58

divisioni221. Da qui, di conseguenza, è stata inferita anche l’anteriorità cronologica del libro terzo al libro quinto della Fisica, secondo un’ipotesi che tra gli studiosi ha trovato un’accoglienza pressoché unanime, dopo che Ross l’ha autorevolmente giudicata «the more likely»222. Ma, forse, non può considerarsi «precisazione» di un’istanza asserita in senso generale la smentita di essa, com’è esattamente la negazione che il mutamento costituisce un movimento, rispetto alla sostanziale assunzione dell’identità dei due termini. In realtà, «ἐν τῷ παρόντι» può essere inteso anche in un significato diverso da quello per cui l’espressione indicherebbe una prima (e provvisoria) indicazione di massima — atteso anche il carattere assolutamente rigoroso dell’analisi in corso nel terzo libro, il cui esito è, per l’appunto, la definizione del movimento. Pare invece più confacente ritenere che con quell’espressione Aristotele abbia inteso riferirsi non allo «stato» attuale della ricerca, bensì al suo «presente» oggetto, e cioè al divenire, problematizzato, «al presente», sotto il profilo della ricerca della sua definizione, dunque in tutte le specie e in tutte le forme in cui esso si determina. Ora, sotto questo profilo (ossia: in rapporto a questo oggetto o tema dell’indagine sul divenire), la distinzione tra movimento e mutamento è qualcosa che non ha nessuna rilevanza (μηδὲν διoκρερέτω λέγειν), in quanto attiene a un’analisi che non è quella attuale e che, semmai, le è successiva. Ciò è ben altro dal sostenere che la non distinzione tra mutamento e movimento rappresenta un’approssimazione iniziale, in vista di una successiva e più scientifica precisazione223 ma corrisponde al prendere consapevolezza che la stessa precisione metodologica dell’indagine svolta in Phys., III, 1 esige di non operare alcuna distinzione, giacché essa ai fini della ricerca qui in corso risulterebbe, da un lato inutile, perché non interessante in rapporto a quanto si intende raggiungere, da un altro persino dannosa, perché farebbe deviare l’indagine dal suo percorso diretto224. Del resto, nel corso della stessa indagine di Phys., V, 1 «movimento» compare anche in un’accezione per cui è equivalente a «mutamento». È esattamente il caso in cui Aristotele, dopo aver distinto cinque elementi del movimento: 1) il motore, 2) il mosso, 3) ciò in cui avviene il movimento, ossia il tempo, 4) il termine iniziale e 5) il termine finale, precisa che si applica il nome «mutamento» (μεταβoλή) più a ciò verso cui avviene il movimento che a ciò da cui avviene (εἰς ὅ ἣ ἐξ oὗ κινεῖται)225. Ora, nella misura in cui si riconosca quanto sopra si deve 59

conseguentemente riconoscere anche che per Aristotele non soltanto il mutamento, ma pure il movimento si dice in più sensi, uno dei quali (e cioè il movimento in senso proprio, di cui sono specie l’alterazione, l’aumento e la diminuzione e la traslazione) costituisce una specificazione dell’altro. Per cui l’analisi del libro quinto, intesa com’è a distinguere il senso proprio, ossia specifico, di questo termine da quello generico, si configura come un’indagine di tipo dialettico. Un’importante dottrina della disamina aristotelica sul movimento riguarda il rapporto tra il mobile e il motore. Da un lato si pone in chiaro che ogni mobile per raggiungere la sua entelechia richiede un motore e questo, poiché muove per contatto col mobile, non agisce soltanto su di esso, ma patisce anche a opera di esso; dall’altro si precisa che, nel movimento, l’atto del motore si esercita sul mobile (giacché il movimento è l’entelechia del mobile in quanto mobile) e per parte propria il motore, che è tale in atto, raggiunge la sua entelechia nel muovere il mobile. Ebbene, Aristotele prova che uno e medesimo è l’atto per entrambi, prova cioè che l’atto col quale il motore in potenza raggiunge la sua entelechia di motore è lo stesso atto per il quale il mobile perviene alla propria entelechia226. E lo argomenta dialetticamente, sciogliendo le difficoltà concettuali che paiono ostare a questa tesi. Una riguarda il fatto che, verificandosi due movimenti, quello del mobile e quello del motore, se si dice che, essendo identico l’atto, entrambi risiedono nel paziente e nel mosso si ha l’assurdo che l’atto di una cosa non risiede in essa, e inoltre che la medesima cosa è mossa da due movimenti; se invece si ammette che l’azione, ossia l’atto dell’agente, è nell’agente e la passione, ossia l’atto del paziente, è nel paziente, allora il movimento è nel motore, di modo che questo, oltre che movente, è anche mosso; oppure, se se lo si nega, si è costretti a contraddirsi dicendo che, pur avendo il movimento, non si muove. Una seconda difficoltà rileva l’incongruenza per la quale due cose differenti per forma abbiano un solo e medesimo atto. Aristotele la scioglie mostrando come non sia assurdo che l’atto dell’una si eserciti sull’altra. Insomma, l’identità non è tra l’azione e la passione, ma nel movimento al quale esse ineriscono227. b. La comparazione dei mutamenti Un’altra interessante dottrina, sviluppata nelle sottili analisi dei capitoli quarto e quinto del settimo libro della Fisica, riguarda la comparazione dei movimenti. Innanzitutto si esclude che la velocità possa costituire il termine di confronto tra i movimenti. Se lo fosse, si avrebbe che una linea circolare è confrontabile in lunghezza con una linea retta e — definito «equiveloce» 60

ciò che si muove per una distanza uguale in un tempo uguale — che un’alterazione e una traslazione prodottesi in un tempo uguale sono uguali, con la conseguenza che un’affezione sarebbe uguale a una lunghezza228. In secondo luogo, non è possibile il confronto tra il movimento sulla circonferenza e sulla retta, giacché essi non sono equiveloci, né varrebbe pretendere che possono essere tali, sul presupposto che, se in un dato tempo un oggetto percorre una linea circolare e un altro una linea retta, ovviamente con velocità inferiore, in una parte di quel tempo il primo oggetto percorre una parte della linea circolare pari alla retta percorsa dal secondo nell’intero tempo. Sennonché, se le due linee fossero confrontabili, si avrebbe, nuovamente, che la retta è uguale alla curva229. Si precisa poi che sono confrontabili le cose che non sono omonime e in pari tempo si nega che «molto» e «doppio» si dicano con lo stesso senso dell’aria e dell’acqua, benché queste non siano confrontabili: in realtà, anche «molto» è detto omonimamente dell’aria e dell’acqua, come «uguale», «uno» (quindi anche «due») e altre nozioni si dicono omonimamente di realtà differenti230. Si potrebbe credere che per potersi confrontare le cose debbano essere in uno stesso ricettacolo primo, ma la tesi va rigettata perché, in primo luogo, ne conseguirebbe che tutte le determinazioni costituiscono una sola determinazione, salvo trovarsi ciascuna in un ricettacolo diverso (l’uguale, presente in cose diverse, costituirebbe un’unica e medesima nozione, mentre si tratta dinozioni diverse, a seconda della diversa cosa cui appartengono, e così il dolce, il bianco, ecc.)231; inoltre, il ricettacolo proprio di una determinazione non è qualunque cosa, ma uno solo, e coincide con ciò in cui essa direttamente risiede232. Invece, per essere confrontabili, non basta che le cose non siano omonime, ma né i loro attributi, né il loro ricettacolo devono avere differenze. In rapporto al movimento, ciò comporta che certamente due cose che nello stesso tempo si spostano per un uguale tragitto sono equiveloci, ma, essendo molte le specie di movimento, ciascuna con peculiari differenze (relative non soltanto alle traiettorie, ma anche ad altri fattori, come i mezzi con cui i moti si attuano), se nello stesso tempo e su due lunghezze uguali hanno luogo un’alterazione e una traslazione, non può dirsi che l’alterazione e la traslazione sono di uguale velocità. Si tratta pertanto di individuare la differenza di un movimento e, in particolare, stante che la pura unità generica di un suo attributo non sussiste, giacché si danno, anche nascostamente, molte differenze di esso, di accertare se la determinazione che distingue il movimento è specificamente diversa perché è in un ricettacolo diverso, oppure perché è totalmente diversa233. 61

Quanto poi alle alterazioni, posto in linea generale che esse sono di uguale velocità se in un tempo uguale si attua il medesimo mutamento (qualitativo), Aristotele precisa che il confronto tra questi tipi di mutamento va effettuato considerando le affezioni, se esse sono le medesime (ossia, se si tratta della stessa alterazione), oppure ciò cui le affezioni ineriscono, cioè i soggetti o i ricettacoli, se le affezioni sono diverse (ossia, se si tratta di alterazioni diverse). Nel caso, poi, che le alterazioni siano di uguale velocità, la comparazione va condotta guardando sia alle affezioni che ai relativi soggetti. Si dirà che le alterazioni sono identiche o diverse a seconda che le affezioni siano identiche o non identiche; che sono uguali o disuguali a seconda che siano uguali o disuguali i soggetti delle affezioni234. Quanto infine alla generazione e alla corruzione, il mutamento è di uguale velocità se in un tempo uguale si generano cose specificamente identiche e indivisibili; è invece più veloce se in un tempo uguale si generano cose specificamente diverse, oppure, nel caso che la sostanza s’identifichi col numero, se in un tempo uguale si generano un numero maggiore e uno minore235. Lo Stagirita studia quindi il rapporto tra i mutamenti in riferimento alla forza, al tempo e alla lunghezza. Premesso che ciò che muove, muove qualcosa, in qualcosa, ossia nel tempo, e fino a qualcosa, perché muove per una lunghezza di una certa quantità236, egli stabilisce le seguenti relazioni: se una forza muove un certo oggetto in un certo tempo per una certa lunghezza, allora l’uguale forza muove: (a) metà dell’oggetto in un tempo uguale per una lunghezza doppia, (b) metà dell’oggetto per una lunghezza uguale nella metà del tempo237, (c) lo stesso oggetto per la metà della lunghezza nella metà del tempo238; la metà della forza muove la metà dell’oggetto per la lunghezza uguale nel tempo uguale239. Invece non vige (1) che necessariamente metà della forza muove nel tempo uguale l’oggetto per metà della lunghezza, (2) né che metà della forza muove l’oggetto per l’uguale lunghezza nel tempo uguale, (3) né che metà della forza muove l’oggetto in una parte del tempo per una parte della lunghezza che stia alla lunghezza intera così come l’intera forza sta alla metà di essa. Se così non fosse (se valesse cioè che una forza che sia la metà di quella che muove un oggetto in un certo tempo per una certa lunghezza, muove lo stesso oggetto per una lunghezza minore in un tempo qualsiasi), si avrebbe l’assurdo che un solo uomo, parte di un gruppo di persone le quali, unendo le loro forze, in certo tempo muovono una nave per una certa distanza, con la sua sola forza potrebbe muovere anch’egli la nave, ancorché per un tragitto minore e in un qualche tempo240. 62

Le relazioni sopra stabilite valgono anche per l’alterazione e per l’aumento. A riguardo lo Stagirita mostra che, se qualcosa si altera in un dato tempo per una certa quantità, (1) in un tempo doppio la stessa cosa si altera del doppio, (2) il doppio della cosa si altera in un tempo doppio, (3) la metà di essa si altera nella metà del tempo, (4) il doppio della metà della cosa si altera nel tempo uguale; ma non necessariamente la metà della forza che altera o che aumenta, (1) altera e aumenta nella metà del tempo, (2) né nella metà del tempo altera o aumenta della metà241. Aristotele mostra infine che, se si hanno due motori, ciascuno dei quali muove un oggetto per una certa lunghezza in un certo tempo, i due motori insieme muovono l’insieme dei due pesi per la stessa lunghezza nello stesso tempo242. c. L’eternità del movimento Intorno all’eternità del movimento ruota ampia parte della fisica di Aristotele. Da un lato, infatti, a questa dottrina si connette quella dell’eternità del mondo e del tipo di sistema astronomico elaborato dallo Stagirita; da un altro, su di essa s’appoggia la teoria dell’esistenza del motore immobile, che segna uno dei punti di confine — e forse il maggiore — della fisica con la filosofia prima. Si tratta, peraltro, di un problema che coinvolge direttamente e primariamente l’analisi sulla natura, come prova anche il fatto che tutti i pensatori che si sono espressi riguardo a questa seconda non hanno potuto esimersi dal prendere posizione in merito al primo243. E proprio dall’esame critico delle tesi dei predecessori Aristotele avvia la sua indagine, a partire da quelle di Empedocle e di Anassagora, entrambi asserenti la non-eternità del movimento o perché, secondo quanto sostenne il primo, ciclicamente vi sono periodi in cui esso non si dà, non sussistendo né quando, col prevalere di Amicizia, tutte le cose sono riunite assieme, né quando, col prevalere di Odio, le cose sono assolutamente separate, mentre vi è movimento nei periodi di passaggio dal predominio dell’uno a quello dell’altra; oppure perché, secondo quanto affermò Anassagora, all’origine vi fu quiete e non movimento, che iniziò a essere da che la Mente lo impresse alla primordiale mescolanza di tutte le cose. Quest’ultima tesi viene decisamente respinta perché, lasciando indeterminato in quale momento dell’infinita quiete iniziale sia nato il movimento, come se non ci fosse alcuna differenza tra il prima e il poi dell’origine, contrasta col principio che la natura è ordine e che l’ordine ò razionalità244. Migliore, perciò, la teoria di Empedocle, la quale, parlando di 63

esistenza ciclica del movimento, lascia sussistere un certo ordine nella natura. Tuttavia è anch’essa da respingere, perché asserisce soltanto e non porta alcuna prova, né induttiva né dimostrativa, che le cose stiano come dice e, in quanto tale, non può fungere da esplicazione, né può essere un’ipotesi corretta245. Identica obiezione di asserire soltanto, ma di non dimostrare — e dunque di non essere una teoria soddisfacente — viene rivolta da Aristotele anche alla tesi di Democrito, il quale, con l’affermare l’impossibilità che tutte le cose siano state generate, dedotta dal carattere ingenerato del tempo (quel carattere che tutti i filosofi hanno sostenuto, ad eccezione di Platone, per il quale il tempo ha avuto inizio con la generazione del cielo), ha conseguentemente affermato l’eternità degli atomi e del loro movimento246. Il carattere dialettico della prova dell’eternità del movimento si riconferma e si accentua nelle analisi successive, dove Aristotele prospetta tre obiezioni alla tesi suddetta e le risolve. Le prove consistono espressamente in tali risoluzioni e hanno carattere dialettico perché coincidono con la confutazione di altrettante negazioni. Secondo la prima obiezione, nessun mutamento è eterno, giacché procede da qualcosa a qualcosa e i contrari ne segnano il limite247. Lo Stagirita rileva che è ben vero che il movimento tra gli opposti (ossia il movimento rettilineo) non è sempre identico e numericamente uno (cioè eterno), come peraltro comprova il fatto che l’identità del mosso non garantisce l’identità del movimento (anche se si può discutere se il suono di una corda sia sempre diverso o unitario), ma ciò non esclude la possibilità di un movimento la cui unità non dipenda da quella della cosa mossa, ma dalla continuità e dall’eternità del movimento stesso248. La seconda obiezione fa presente che anche nelle cose inanimate, ma soprattutto in quelle animate, si vede che può essere mosso ciò di cui né alcuna parte, né l’intero sono mossi249. Aristotele risponde che ciò dipende dal fatto che un’altra cosa, esterna a esse, talvolta le muove e talvolta no, ed è questo il problema sul quale si deve appuntare l’indagine: come una stessa cosa, dalla stessa cosa in un tempo possa essere mossa e in un altro no; il che equivale a chiedersi perché alcuni enti sono sempre in quiete e altri sempre in movimento250. La terza obiezione fa valere che negli esseri viventi, come attesta l’esperienza personale, il movimento si origina (a) spontaneamente e (b) dal loro interno, ossia (a) senza che in loro vi siano già altri movimenti, ma essendo in quiete e (b) senza derivare dall’esterno. E se questo avviene per i viventi, può avvenire anche per il tutto e anche per l’infinito, nel caso in cui possa essere in moto o in quiete251. La controdeduzione dello Stagirita è che è 64

falso che nei viventi il movimento si generi spontaneamente, ma alcune parti dei loro corpi sono sempre in movimento, perché mosse dall’ambiente esterno; dal moto di esse niente impedisce che siano mossi il pensiero e il desiderio, dai quali a loro volta sono mossi i viventi nella loro totalità252. A queste prove di ordine dialettico, Aristotele ne aggiunge poi altre tre di ordine apodittico. In esse, com’è agevole scorgere, le acquisizioni già raggiunte nel corso dell’indagine vengono sistemate in funzione dimostrativa dell’ingenerabilità del movimento, senza aggiungere alcuna novità dottrinale. Donde è chiara la loro funzione «didascalica», in rapporto a una materia che è già stata reperita. La prima dimostrazione si struttura intorno a un dilemma e mostra come da entrambi i corni segua la tesi che si deve provare: le cose possono essere o generate o eterne; nel primo caso è necessario un movimento sempre anteriore, dal quale siano stati generati ciò che ha la potenza di muovere e ciò che ha la potenza di essere mosso; nel secondo, ipotizzandosi una condizione di quiete, poiché la quiete è assenza di movimento, è necessario che vi sia stato un movimento anteriore253. Il dilemma di partenza corrisponde a una contraddizione; nel primo corno entra chiaramente in causa la dottrina della potenza e dell’atto in riferimento al motore e al mosso: dunque, nulla di nuovo rispetto a quanto era già noto; nel secondo compare la dottrina, già esposta, dell’anteriorità del movimento alla quiete. La seconda dimostrazione fa uso, oltre che, nuovamente, della dottrina della potenza e dell’atto in rapporto al motore e al mosso, di quella dei relativi, elaborata nella πραγματεῖα di Cat., 7, senz’altro anteriore a questo scritto254, nonché di quella, già ampiamente esposta in Phys., VII, del contatto tra il motore e il mobile: ogni cosa si muove in un solo modo, potendosi ricondurre a questa condizione anche ciò che, come la scienza, si muove rispetto ai contrari. Ora, le cose che hanno la capacità di muovere e di essere mosse, muovono e sono mosse quando vengono in contatto, e se si verifica questa condizione esse attuano la loro potenza, rispettivamente, di motori e di mossi. Ma se, venute a contatto, le prime non muovessero o le seconde non fossero mosse, il mutamento prodottosi nelle une determinerebbe un mutamento anche delle altre, ed esse, che non appartengono ai relativi, verserebbero in una situazione che è propria di questi enti255. Si apre pertanto il problema di sapere perché alcuni enti talvolta si muovono, talvolta sono in quiete. Aristotele prospetta tre possibilità: (A) tutti gli enti sono sempre in quiete, (B) tutti sono sempre in movimento, (C) alcuni sono in movimento, altri in quiete e di essi (a) i primi sono sempre in movimento, i secondi sempre in quiete, (b) oppure 65

tutti sono talvolta in movimento, talvolta in quiete; (c) oppure alcuni sono sempre in quiete, alcuni sempre in movimento, alcuni talvolta in quiete, talvolta in movimento. E con una minuziosa analisi mostra che quest’ultima è la tesi che la ricerca si propone di sostenere, giacché con essa vengono risolte tute le difficoltà256. La terza dimostrazione si costruisce sulla teoria del tempo e dell’istante: l’esistenza del prima e del poi implica quella del tempo, e l’esistenza del tempo implica quella del movimento, essendo il tempo o numero del movimento o un certo movimento, come sarà chiarito nell’analisi di questa realtà. Ma poiché non è possibile l’esistenza del tempo senza quella dell’istante e questo è il limite tra due tempi, l’inizio del tempo, segnato da un istante, è congiunto con un altro tempo, sicché il tempo stesso risulta eterno e con esso il movimento257. Il medesimo ragionamento ne prova anche l’incorruttibilità: poiché una cosa non cessa contemporaneamente di essere mossa e di essere mobile, né di muovere e di essere capace di muovere, dopo la fine del movimento dovrà darsi un movimento per il quale il mobile e ciò che è capace di muoverlo passino allo stato di quiete. Se il mutamento è una corruzione, dopo che essa sia cessata, ciò che può produrla dovrà essere corrotto in questa sua capacità, e a sua volta dovrà essere corrotto ciò che può corrompere quest’elemento, e così all’infinito, di modo che, posta la fine della corruzione, ciò che può corrompere dovrà essere già stato distrutto nell’atto in cui è corrotto258. d. Il rapporto tra il motore e il mosso e l’esistenza di un primo motore immobile Una prima, basilare istanza circa il rapporto tra il motore e il mosso è già risultata là dove si è accertato che l’atto di entrambi è il medesimo259. Tuttavia questo è soltanto il punto d’avvio per successive analisi, il cui esito è la dimostrazione, innanzitutto, della necessaria esistenza di un primo motore, indi della sua immobilità. La dimostrazione dell’esistenza di un primo motore è data da Aristotele all’inizio del libro settimo della Fisica. Qui innanzitutto si stabilisce che ogni cosa mossa, lo è necessariamente da qualcosa, precisando che, se il principio del movimento risiede fuori della cosa, l’asserto è subito evidente, se invece è insidente in essa, la sua negazione dipende dall’incapacità di distinguere il motore dal mosso260. La tesi viene poi ribadita e più dettagliatamente argomentata in Phys., VIII, 4, dove Aristotele, premesso che i motori e le 66

cose mosse muovono e sono mosse o per accidente (il che si verifica quando ineriscono a ciò che muove o è mosso, o quando sono relativi a una parte del motore o del mosso), o per sé (se non ineriscono a ciò che muove o è mosso, né costituiscono una parte di questi), e che ciò che muove e ciò che è mosso per sé possono, rispettivamente, muovere ed essere mosso o da sé o da altro, o per natura o contro natura, mostra che l’istanza suddetta si ritrova al fondo della struttura sia di ciò che è mosso da sé, sia di ciò che è mosso da altro contro natura, sia di ciò che è mosso da altro secondo natura, dunque in tutti i tipi di movimento risultanti dalla classificazione predetta. Le cose che si muovono da sé specificano gli animali, i quali, come già sappiamo, avendo in se medesimi il principio del movimento, rendono evidente che il loro moto è causato da qualcosa, anche se in essi — ribadisce il filosofo — non è facile distinguere il motore dal mosso. È facile distinguerlo, invece, nelle cose che sono mosse da altro contro natura, individuate o negli elementi portati in un luogo diverso dal proprio, o nelle parti degli animali distorte dalle loro posizioni naturali o dai loro modi naturali di muoversi. In questi casi è immediatamente evidente che il movimento è prodotto da qualcosa, così come è chiaro quale sia il motore e quale il mosso. Quanto infine alle cose che sono mosse da altro secondo natura, in esse non è agevole distinguere il motore dal mosso, ma in ogni caso è certo che sono mosse da qualcosa. Ché, se si muovessero da sé, dovrebbero essere animate; inoltre, potrebbero anche arrestarsi da sé, contro ogni evidenza e, in terzo luogo, non si comprenderebbe perché mai si muovano secondo un solo movimento; in più, essendo esse continue per natura, ossia unitarie e non due con un confine in comune, non è possibile che una loro parte agisca e un’altra patisca, ossia che verifichino la condizione propria di ciò che è mosso da se medesimo261. Peraltro, sempre nello stesso capitolo Aristotele dà ragione della difficoltà di scorgere, in questo terzo tipo di cose in movimento, il motore dal mosso. Dopo aver chiarito che sono mobili per natura le cose che hanno la potenza di essere di una certa qualità, o di una certa quantità, o di portarsi in un certo luogo262, egli spiega che la difficoltà suddetta è dovuta al fatto che l’essere in potenza si dice in molti sensi, significando, per esempio, la capacità di conoscere sia nella condizione in cui non si possiede ancora la conoscenza, sia in quella in cui già la si possiede, ma non la si esercita. In ogni caso, quando ciò che può agire e ciò che può patire siano assieme, la cosa che è in potenza una certa determinazione passa all’atto e così si determina il movimento263. Questo vale in ogni caso e, in 67

particolare, per gli enti naturali. Tra essi, le cose fredde, in potenza sono calde e quelle pesanti, in potenza sono leggere; e poiché l’atto del leggero è l’alto, le cose che in potenza sono leggere, quando attuano questa loro potenzialità si muovono verso l’alto. Pertanto, ciò che le muove è la natura, che ha posto l’essenza del leggero nell’alto e, in generale, l’essenza delle cose naturali in un certo luogo, e questa è la risposta alla domanda che chiedeva quale ne è il motore. Ma al tempo stesso, poiché una cosa è potenzialmente leggera in molti sensi, e tutti rientrano nella sfera della natura, non è sempre agevole scorgere il motore che in modo specificamente determinato ne causa lo spostamento verso l’alto. Inoltre, ha funzione di motore rispetto a questi enti, ancorché in senso puramente accidentale, anche ciò che, quando essi trovino un ostacolo a muoversi verso il loro luogo naturale, lo rimuove264. Posto, dunque, che ciò che è mosso, lo è da qualcosa, con una serie di argomenti Aristotele prova l’impossibilità di procedere all’infinito nell’ordine dei motori, con la conseguente necessità che esista un motore primo265. La dimostrazione che la serie dei motori non può essere infinita pone in luce la primalità del movimento secondo il luogo266, al quale, unitamente al movimento corporeo, viene espressamente attribuito di fungere da condizione per gli altri movimenti, che non potrebbero sussistere senza di esso. Si comprende allora perché proprio in riferimento a tali movimenti venga riformulata e precisata un’anteriore prova che, prescindendo da essi, era risultata non soddisfacente. Ebbene, nella sua formulazione corretta, l’argomento parte dall’assunzione, nota dall’esperienza, che nel moto locale e in quello corporeo il primo motore e il mosso sono contigui. Da qui inferisce che in questi movimenti i motori e le cose mosse sono contigui o continui e che costituiscono un’unità, non importa se finita o infinita. Ma quest’unico movimento (ossia il movimento di quest’unica cosa), da un lato risulta essere infinito, poiché si è ipotizzato che i motori sono infiniti e i singoli movimenti, di cui esso si compone, debbono essere o uguali o gli uni maggiori degli altri; dall’altro, esso può avere luogo in un tempo finito. Per cui, in un tempo finito, un movimento infinito percorrerebbe una cosa finita o infinita: situazioni che sono risultate entrambe impossibili267. La validità dell’istanza che esige il darsi di un primo motore, qui provata a partire dal movimento locale, si estende per qualunque altro movimento, giacché l’essere il primo motore — come inizio del moto, non come causa finale di esso — assieme alla cosa mossa (dove per «essere assieme» è da intendere l’assenza di intermedi, dunque l’essere in rapporto di contiguità o 68

di continuità268) costituisce una proprietà comune a ogni tipo di movimento e a ogni cosa mossa, per cui, se non fosse così, a proposito di tutti si verificherebbe quella condizione impossibile anzi incontrata. I movimenti — precisa infatti lo Stagirita in Phys., VII, 2 — sono tre: o secondo il luogo, ossia la traslazione, o secondo la qualità, ossia l’alterazione, o secondo la quantità, ossia l’aumento e la diminuzione. A essi corrispondono tre tipi di motori, che producono, rispettivamente, traslazione, alterazione, aumento e diminuzione269. Ebbene, attraverso una minuziosa analisi lo Stagirita mostra che ogni traslazione verifica la proprietà anzidetta, sia nel caso in cui la cosa che trasla si muove da sé (caso in cui la proprietà in oggetto è immediatamente evidente), sia in quello in cui la cosa è mossa da altro: riconducendo, innanzitutto, le traslazioni di questo tipo alla trazione, alla spinta, al trasporto e alla rotazione, riportando poi la terza e la quarta alle prime due e facendo vedere che in esse effettivamente il motore e il mosso sono assieme. La spinta, infatti, è il movimento che parte dalla cosa stessa o da un’altra verso un’altra cosa; la trazione, quello che parte da un’altra cosa verso la cosa stessa o verso un’altra, ed è impossibile che una cosa muova o da se stessa verso un’altra, o da un’altra verso se stessa senza essere in contatto con ciò che muove270. Parimenti è per l’alterazione: l’assenza d’intermedio, ossia il contatto tra l’estremo di ciò che produce l’alterazione stessa e la parte prima di ciò che si altera risulta dall’induzione, effettuata a partire da cose sia inanimate che animate e dalle stesse sensazioni, dal momento che in un certo senso si alterano anche queste. Così, l’aria e il corpo sono continui, il colore è continuo alla luce e questa alla vista, e lo stesso vale anche per l’udito, l’odorato e il gusto271. Quanto infine all’aumento e alla diminuzione, la proprietà in oggetto risulta evidente dal fatto che ciò che produce questi mutamenti opera come parte che, rispettivamente, s’aggiunge alla cosa o vi si sottrae, e tra la parte aggiunta o sottratta e la cosa non vi è alcun intervallo272. Il secondo momento della dimostrazione, ossia la prova della necessità che il primo motore sia immobile, è introdotta dalla precisazione che l’esser mosso da qualcosa si specifica o nella circostanza per cui ciò che è mosso lo è da un motore che non muove a causa di se stesso, ma di altro, ossia che è a sua volta mosso, o da un motore che muove a causa di se stesso, e questo può essere costituito o dal motore primo, se muove direttamente la parte estrema del mosso, oppure da una serie di motori, costituiti dal primo e dagli intermedi tra questo e la cosa mossa. In tal caso, il motore primo — la necessità della cui esistenza è già stata provata e ora viene nuovamente ribadita - muove in misura maggiore dell’ultimo273. Ciò chiarito, Aristotele 69

prova innanzitutto che un tale motore primo non può essere mosso che da se stesso, con cinque argomenti, la cui linea di svolgimento pone complessivamente in luce l’impiego, in essi, sia del momento apodittico, particolarmente marcato nel quinto argomento, che di quello dialettico, evidente là dove le prove assumono l’andamento di una reductio ad absurdum della tesi opposta. Peraltro, la presenza di questi due momenti rafforza l’idea, indotta dal carattere obiettivamente elaborato e perfino macchinoso del discorso — come salta immediatamente agli occhi, in particolare, nella comparazione con quello, di gran lunga più essenziale ed incisivo, di Metaph., XII, 7 —, che le dimostrazioni in oggetto possano anche rappresentare elaborazioni cronologicamente differenziate e rispondenti a finalità diverse. Comunque, nel primo argomento si rileva che, se tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa, questo a sua volta o sarà mosso da altro o no; ma nella prima ipotesi è necessario che ci sia un motore primo non mosso da altro, nella seconda non è necessario un altro motore, giacché non si può procedere all’infinito nella serie dei motori mossi, in quanto nell’infinito non esiste il primo. Pertanto, se ciò che è mosso deve essere mosso da qualcosa e il motore primo non può essere mosso da altro, esso è necessariamente mosso da sé274. La seconda dimostrazione procede dall’istanza per cui, muovendo il motore con qualcosa, questo può essere o il motore stesso, o qualcos’altro. Nel primo caso non c’è bisogno di un’altra cosa con cui il motore muova l’oggetto; nel secondo, la cosa con cui il motore muove l’oggetto non può non essere mossa dal motore con se stesso, pena un inammissibile processo all’infinito. Pertanto, la serie delle cose con cui il motore muove l’oggetto è una serie di motori mossi lungo la quale è necessario arrestarsi e giungere a un motore che muova con se stesso la prima cosa intermedia. Tale motore, poiché anch’esso è mosso da qualcosa (dal momento che tutto ciò che è mosso, è mosso da alcunché), ma non lo è da altro, è necessariamente mosso da se stesso275. La terza dimostrazione è più articolata. Essa procede dall’ipotesi che il motore che muove una cosa sia a sua volta mosso e rileva che esso appartiene alla cosa o per accidente, per cui la muove, ma non per il fatto di essere mosso, o per sé. Nel primo caso il motore potrebbe non essere mosso e, di conseguenza, potrebbe non essere mosso nessun ente, giacché ciò che è accidentale può anche non essere: il che, stante la necessità del movimento, è falso. Una tale conclusione — rileva lo Stagirita — è pienamente congruente, dal momento che delle tre cose richieste per il movimento, ossia il mosso, il motore e il mezzo, la prima è necessario che sia mossa, ma non che muova, la terza è necessario che sia mossa e che muova, la seconda, 70

se non s’identifica con la cosa con cui muove, è eterna; e poiché vediamo il motore ultimo, che non ha in sé il principio del movimento, e quello che è mosso da se stesso, è logico che vi sia anche un motore che muove restando immobile. Sotto questo profilo è esatta l’ipotesi anassagorea di una Mente impassiva e non mescolata. Invece, se il motore è mosso, necessariamente lo sarà o secondo la stessa specie di movimento del mosso, o secondo un’altra. Ma entrambe le alternative sono impossibili: la prima, perché comporterebbe, per esempio, che chi insegna una nozione di geometria sia identico a chi l’apprende o che il lanciare sia identico all’esser lanciati; né varrebbe dire che un genere di movimento deriva da un altro: poiché, infatti, i movimenti sono finiti, occorre arrestarsi nella serie delle derivazioni, cosicché si ricade nel medesimo assurdo. La seconda, perché è esposta alle difficoltà connesse alla limitazione delle specie di movimento276. La quarta dimostrazione si costruisce sulla considerazione che, se ciò che è mosso, lo è da una cosa a sua volta mossa, si ha allora l’assurdo che ciò che ha la capacità di muovere, è mobile, o direttamente, o attraverso intermedi. Ora, la prima ipotesi è impossibile, la seconda è fittizia. Di conseguenza, non necessariamente ciò che è mosso, è mosso da un motore mosso a sua volta, ma, essendo necessario arrestarsi, o il primo motore è mosso da una cosa che è in quiete, o è mosso da se stesso277. Infine, nella quinta dimostrazione si fa presente che le cause ricercate dalla scienza sono quelle prime (ed esse, in quanto oggetto di un sapere vero, non possono non sussistere); ma ciò che muove se stesso riveste questa prerogativa, in quanto è causa per sé ed è anteriore a ciò che muove essendo mosso da altro. Di conseguenza, la causa e il principio del movimento ricercati dalla fisica coincidono con ciò che muove se stesso278. L’ultimo passo di questo elaborato discorso è la dimostrazione che il primo motore, muovendo se stesso, è immobile. Aristotele lo dimostra ponendo per prima cosa che tutto ciò che è mosso, dal momento che è continuo, è divisibile all’infinito. Ora, il motore non può muovere interamente se stesso: innanzitutto perché, essendo uno e indivisibile per specie, interamente sposterebbe e sarebbe spostato, altererebbe e sarebbe alterato, e così via; in secondo luogo perché ciò che si muove è ancora in potenza, mentre il motore è già in atto, per cui esso sarebbe sotto il medesimo rispetto in potenza e in atto. Ne consegue che nel motore che muove se stesso vanno distinte due parti, una che muove e un’altra che è mossa. Ma è impossibile che ciascuna delle due parti sia mossa dall’altra: infatti, 71

dal momento che ciascuna muoverebbe (indirettamente) se stessa, non vi sarebbe un primo motore (stante che tra due motori è maggiormente causa di movimento, muove cioè di più, quello anteriore; inoltre, se muovono sia il motore mosso da altro, sia quello mosso da sé, tuttavia il motore più lontano dal mosso è più vicino al principio del movimento che l’intermedio). La suddetta impossibilità risulta anche da altre circostanze, ed innanzitutto dal fatto che, essendo mosso il motore in modo necessario soltanto da se stesso, l’altra parte muove (in senso contrario) soltanto per accidente e pertanto può anche non muovere. Di conseguenza, dovrà esserci una parte che è mossa e una che muove restando immobile. Ma poi non è necessario che il motore sia mosso in senso contrario, ma, stante che il movimento è necessariamente eterno, quanto è necessario è soltanto che esso sia prodotto o da un motore immobile, o da un motore mosso da se stesso. Di più, se ciascuna delle due parti fosse mossa dall’altra, il motore risulterebbe mosso secondo lo stesso movimento con cui muove. D’altro canto, non può neppure essere che una o più parti del motore che muove se stesso, muovano singolarmente se stesse. Infatti, l’intero motore è mosso da se stesso o perché è mosso da una sua parte, o perché è mosso tutto intero dalla totalità di sé; ma nel primo caso sarebbe quella parte a muovere se stessa e non più l’intero (mentre si è ipotizzato che l’intero muove se stesso); nel secondo, essendo l’intero a muovere se stesso, le parti muoverebbero se stesse soltanto per accidente. Si deve assumere, quindi, che esse non si muovono da sé, per cui nell’intero, in quanto capace di muovere se stesso, una parte muoverà restando immobile e un’altra sarà mossa. Inoltre, dovendoci essere una parte dell’intero che muove e un’altra che è mossa, quella che muove, muovendo l’intero, il quale muove se stesso, lo muoverà in quanto muove se stessa; ma allora l’intero risulta mosso dalla totalità di sé e da una parte, e con ciò i due termini dell’ipotesi (l’intero muove se stesso — una parte muove se stessa) confliggono tra loro279. e. La perpetuità del movimento e del mondo e la natura del motore immobile Le considerazioni con cui Aristotele presenta la natura del motore immobile mettono in luce che la preoccupazione del filosofo è fondamentalmente rivolta a garantire la perpetuazione del sistema cosmologico, tanto nella sua configurazione quanto nel suo interno movimento, la cui eternità quel principio è innanzitutto chiamato ad assicurare, e con essa la 72

φύσις, con il suo intrinseco finalismo. Non che il motore immobile, qual è delineato in Phys., VIII, si ponga in se stesso, almeno esplicitamente, come causa finale, non essendo questo asserito da nessuna espressione, né si connoti come pensiero di pensiero (νόησις νoήσεως): quell’attributo che in Metaph., XII, 9 concorre primariamente a definire la natura finalistica dell’azione causale che esso esercita, stante che il motore immobile «muove come oggetto d’amore (ὡς ἐρώμενoν κινεῖ)»280, ossia nel modo in cui l’amante, pur restando fermo, attrae a sé l’amato, in quanto è assoluta perfezione in se stesso e il pensiero che pensa se medesimo costituisce l’essenza di tale perfezione281. Il pensiero, infatti, agli occhi di Aristotele rappresenta l’attività più perfetta, e il pensiero del perfetto, ossia del pensiero medesimo, segna l’essenza della realtà che massimamente è degna d’essere finalisticamente intenzionata come la più piacevole e la più eccellente282. Pur tuttavia, poiché la φύσις esprime di per sé finalità ed è causa del movimento di un certo tipo di enti, anche il motore immobile, come principio primo del movimento naturale, ha in qualche modo parte, anche se indirettamente e non in quanto tale, nella finalità di questo. L’assenza di questo basilare attributo, che in Metaph., XII, 9 concorre in modo eminente a esplicare perché il primo motore, esercitando la causazione del movimento, resta immobile (in effetti, l’esercizio di un pensiero già in atto non comporta movimento), nonché l’assenza di quello per cui il motore immobile è atto puro, ossia assolutamente scevro da potenzialità e dunque non passibile di mutamento (che, come sappiamo, è passaggio dalla potenza all’atto), riconduce la spiegazione della stessa immobilità di quest’ente a un semplice rapporto tra la parte immobile e quella mossa. Con ciò anche la natura di tale principio, che nell’immobilità trova la sua caratteristica essenziale, resta fondamentalmente ancorata ai tratti fisici del movimento. Tale principio — dice infatti Aristotele — è costituito da una parte immobile, la quale causa il movimento, e da una mossa, la quale non necessariamente causa il movimento283. Esso muove se stesso non perché una sua parte muove se medesima, ma nella sua totalità: di mosso e motore (infatti, ciò che è mosso e ciò che muove sono sue parti, non muovendo né essendo mosso interamente)284. Se si togliesse una parte dalla sua parte motrice o una dalla sua parte mossa, quel che resta di esse né muoverebbe né sarebbe mosso, anche se la parte mossa, pur essendo indivisibile in atto, in potenza è però divisibile285. Per altro verso, l’immobilità del primo motore è legata al fatto di muovere sempre nello stesso modo, non mutando se stesso in relazione al mosso (mentre i motori mossi da altri motori, mossi a loro volta dal motore 73

immobile, trovandosi sempre in stati diversi in rapporto alle cose, non causano un solo movimento, ma, poiché sono di volta in volta in luoghi contrari e hanno forme contrarie, anche il movimento che producono avviene secondo i contrari e si alterna con la quiete)286. Quanto invece alle cose che talora sono in moto, talora in quiete, ciò è dovuto al loro esser mosse, in parte da un motore immobile eterno (sì che per quest’aspetto sono mosse sempre), in parte da motori mossi e soggetti a mutamento (sì che anche il loro movimento muta)287. Per contro, il motore immobile permane nello stesso modo e nello stesso luogo e il movimento che causa è unico e assoluto288. Lo spessore fondamentalmente fisico della realtà del motore immobile si riconferma anche dai termini in cui lo Stagirita articola le prove della sua eternità, così come da esse risulta ben evidente che l’esigenza che muove il filosofo nell’attribuire al principio tale caratteristica è la garanzia della perpetuità del movimento. In una prima dimostrazione egli ipotizza l’esistenza di enti che talvolta sono e talvolta non sono, ma senza generarsi né corrompersi, nonché di alcuni motori immobili che, anch’essi senza generarsi né corrompersi, talvolta sono e talvolta non sono. Questo è possibile perché non hanno parti (infatti, ciò che muove se stesso dev’essere una grandezza, dev’essere cioè divisibile, ossia avere parti, ma ciò che muove soltanto non è necessario che ne abbia), dunque non sono soggetti a mutamento e, pertanto, neppure a generazione e corruzione; di conseguenza possono soltanto passare temporaneamentedall’essere al non essere e viceversa. Sennonché, con la loro alternanza nell’essere e nel non essere tali motori non possono causare, per quanto sia elevata la frequenza della successione, la continuità del movimento, che è invece un carattere necessario di quest’ultimo, assieme alla sua eternità: né ciascuno di essi, singolarmente, né tutti. La necessità del movimento è garantita, invece, dall’esistenza di uno o più motori immobili eterni, al di là di quelli predetti289. Aristotele aggiunge che, pur potendo essere anche molti i motori immobili, è tuttavia più adeguato che il motore immobile ed eterno sia uno (il primo dei motori immobili), giacché anche uno solo è sufficiente e nell’ordine della natura è da preferirsi il finito all’infinito290. In una seconda dimostrazione Aristotele rileva che il movimento è eterno, continuo e uno (tale essendo quello che deriva da un unico motore e si attua in un unico mosso), e se muovesse qualcosa di sempre diverso, il movimento non sarebbe continuo, ma consecutivo. Quindi richiama l’esistenza di enti talvolta in movimento, talvolta in quiete, la necessità che tutto ciò che è mosso lo sia da qualcosa, il quale è o immobile o mosso e, in 74

quest’ultimo caso, o da sé o da altro, nonché la necessità di un principio che, in quanto principio delle cose mosse, muove se stesso e, in quanto principio della totalità di esse, è immobile. A questo punto il filosofo fa presente che esistono esseri, come gli animali, che sono capaci di muovere se stessi, ma non con continuità e neppure in tutti i movimenti: il loro moto, che è senz’altro uno, non è però continuo perché essi per un certo tempo sono in quiete, per un altro si muovono; non è attuato esclusivamente da loro giacché negli animali esistono alcuni movimenti (come la crescita e la diminuzione o la respirazione) il cui principio viene dall’esterno, dovuti come sono all’ambiente e all’alimentazione. Anche il loro principio motore, ossia l’anima, è mossa da sé, ma per accidente, in quanto, trovandosi nel corpo, che cambia continuamente di luogo, è come ciò che, trovandosi su una leva, muove se stesso assieme al muoversi di questa. Ma d’altro canto il movimento è continuo, e un principio motore che sia immobile ma che, come l’anima, muova se stesso solo accidentalmente, non può muovere secondo un moto continuo. Peraltro, è diverso l’esser mossi accidentalmente da sé, cosa propria dei princìpi di alcuni enti terrestri, e l’esser mossi accidentalmente da altro, che è invece proprietà dei princìpi dei corpi celesti, i quali sono mossi secondo una pluralità di traslazioni. È pertanto necessaria l’esistenza di un motore immobile che sia tale anche in rapporto all’accidentalità del muovere se stesso, che sia cioè eterno291. Ora, l’eternità del motore immobile comporta quella della cosa prima che esso muove292, ossia del primo cielo. Dall’eternità di questo dipende poi l’eternità del movimento e del mondo. 3. Il luogo L’analisi del luogo — come del resto quella del tempo e del vuoto — è richiesta dallo studio del movimento, della cui definizione è esso parte integrante, essendo il movimento, come abbiamo visto, passaggio dalla potenza all’atto secondo il luogo293. La sua stessa esistenza è resa evidente dal movimento, essendo attestata dallo spostamento reciproco delle cose, per esempio dal fatto che là dove c’era l’acqua poi c’è l’aria, accreditandosi così l’idea che esso sia una sorta di contenitore294; e dal fatto che gli elementi tendono a portarsi verso il luogo proprio: l’alto quelli leggeri: il fuoco e l’aria, il basso quelli pesanti: la terra e l’acqua295. Alto e basso, infatti, e così pure destro e sinistro, per Aristotele non soltanto non sono enti relativi296, bensì luoghi — ond’è che sono contrari, anzi l’alto e il basso definiscono il paradigma stesso della contrarietà —, ma sono innanzitutto e 75

fondamentalmente luoghi assoluti 0, come dice lo Stagirita, «per natura (φύoει)»297 e non soltanto rispetto a noi (πρoς ημάς)298. Anche l’ammissione del vuoto da parte di taluni filosofi vale ad attestare l’esistenza del luogo, dal momento che per vuoto essi intendono un luogo privo di corpi299. L’indagine aristotelica, condotta nei cap. 1-5 del quarto libro della Fisica, dopo un’esposizione dei problemi che il luogo solleva e dalla quale peraltro emergono alcuni capisaldi teorici di tutta la relativa dottrina, come quello che il luogo non è un elemento né un corpo, che è distinto dai corpi, pur avendo le stesse tre dimensioni della lunghezza, della larghezza e della profondità da cui ciascuno di essi è determinato, che non è loro causa e che ogni ente sensibile è in un luogo300, perviene a precisare che, per un verso, il luogo è quello comune (κoινός), nel quale sono tutti i corpi, per un altro è quello, particolare (ἴδιoς), in cui un corpo è immediatamente contenuto301. E da quest’ultima osservazione deriva che, se il luogo è ciò che immediatamente contiene ciascun corpo, sarà un limite302. Potrebbe allora sembrare che sia la configurazione, ossia la forma, della cosa; oppure l’intervallo da un estremo all’altro della cosa, ossia materia303. Ma nessuna delle due affermazioni è ammissibile, giacché sia la forma che la materia non sono separabili dalla cosa, mentre il luogo lo è, in quanto distinto dalla cosa stessa304. Inoltre, il luogo, in quanto esiste da qualche parte, esiste in se stesso e fuori di esso vi è qualcosa; invece materia e forma non esistono in se stesse (bensì nella cosa), né è fuori di esse che vi è qualcosa305. Anche Platone aveva fatto coincidere il luogo con la materia, identificandola con lo spazio (χώρα) e questo con la Diade di grande e piccolo, sul presupposto che così si rende possibile la partecipazione. Aristotele obietta che in tal caso anche le Idee e i numeri dovrebbero essere in un luogo306. Che questo non possa coincidere né con la forma, né con la materia è poi provato dalla considerazione secondo cui quest’ipotesi rende inesplicabile e persino impensabile il portarsi di ogni cosa nel luogo proprio307. Ancora, poiché la forma e la materia esistono nella cosa, la quale è in un luogo, il luogo sarebbe in un luogo o — il che è lo stesso — si darebbe un luogo del luogo308. Infine, se il luogo consistesse nella materia o nella forma, il subentrare di un corpo diverso (per esempio, l’acqua) nel luogo in cui prima ve n’era un altro (per esempio, l’aria), comporterebbe che il luogo stesso vada distrutto; ma non si vede di che distruzione si tratti309. Altro importante chiarimento in vista della determinazione del luogo è poi l’impossibilità che una cosa sia immediatamente dentro se stessa310, sia 76

per sé che per accidente, essendo diverso ciò in cui è una cosa e ciò che è in una cosa. Istanza dalla cui negazione risulterebbe l’assurdo, per esempio, che l’anfora è vaso e vino e che il vino è vino e anfora e la cui affermazione ribadisce la distinzione del luogo dalla forma e dalla materia311. Da tutte queste precisazioni emerge che il luogo contiene la cosa, è cioè il suo contenente o, meglio, un aspetto di questo, e che perciò è distinto dalla cosa stessa, non è cioè nulla di essa. L’indagine con la quale Aristotele perviene a queste importanti conclusioni è un’ennesima conferma del metodo chiaramente dialettico usato nelle ricerche di fisica. Lo Stagirita prende infatti le mosse da ciò che l’opinione comune attribuisce al luogo e precisa che se questo, criticamente vagliato, risulta plausibile, deve senz’altro essere assunto per vero312. Tali φαινόμενα dicono, per l’appunto, che il luogo è un contenente, che non è una parte della cosa, che il primo luogo, quello cioè in cui la cosa è immediatamente, non è né maggiore né minore di essa, che ha realtà indipendente dalla cosa, che ogni cosa si porta nel luogo proprio, consistente nell’alto e nel basso313. Parallelamente, circa quelle proprietà, attribuitegli dalla comune opinione, che sollevano problemi, bisogna risolvere le relative difficoltà e comprenderne la causa314. Rilievo, quest’ultimo, dal quale risulta la natura specificamente e propriamente scientifica dell’indagine — essendo peculiare della scienza la ricerca delle cause — e che attesta pertanto, ancora una volta, l’uso «scientifico» del metodo dialettico. Ché, precisa lo Stagirita, se si opera in questo modo si attua una dimostrazione (ἀπόδειξις), anzi si mostrerà (ἄν δεικνύoιτo) ciascuna cosa nella maniera più valida (κάλλιστα)315. La determinazione di quale aspetto del contenente sia proprio del luogo conduce alla sua definizione. Qui intervengono le nozioni di contiguo e di continuo316, la prima delle quali indica l’essere due cose in contatto in una o più parti, la seconda l’avere due cose un confine, ossia un limite, in comune317. Da Cat., 6 sappiamo poi che la continuità è proprietà essenziale di una specie di grandezze: la linea, la superficie, il solido, il tempo e, per l’appunto, il luogo318. Ora, se il luogo in quanto tale è continuo, ed è un contenente, anzi, come abbiamo visto, il limite del contenente, questo non significa che sia continuo col corpo che contiene, ovvero che il limite del contenente e quello del contenuto siano il medesimo. Anzi, questa condizione è esclusa dalla stessa distinzione tra il luogo e il corpo, dal momento che, se stessero in un rapporto di continuità, il corpo sarebbe nel 77

luogo come parte nel tutto, e dunque sarebbe una parte del luogo come tutto. Proprio quella condizione che Aristotele ha negato come assurda. Il limite del corpo e quello del luogo che lo contiene devono quindi essere due, ossia distinti. D’altro canto tra l’uno e l’altro non può sussistere un intervallo ed essere questo il luogo del corpo, giacché in tal caso, essendo l’intervallo distinto dal luogo, e dunque in un luogo, e al tempo stesso il luogo del corpo, si avrebbe, da capo, l’assurdo di un luogo del luogo; anzi, di infiniti luoghi in un luogo, giacché tutte le parti del corpo contenuto, per esempio dell’acqua, spostandosi farebbero nel tutto dell’acqua quello che questa fa nel vaso. Il limite del contenente e quello del corpo contenuto, pur essendo distinti, devono perciò essere contigui, giacché solo così il corpo è immediatamente nel limite del contenente, non è cioè né parte del contenente, né più piccolo del suo limite, sussistendo un intervallo, ma esattamente uguale a esso. Da qui la definizione del luogo: esso è «il limite del corpo contenente, (secondo il quale esso è contiguo al corpo contenuto)»319. L’assurdità che si dia un luogo del luogo è poi alla radice della proprietà di questo di essere immobile, giacché, se non lo fosse, se cioè lo stesso luogo si spostasse, poiché lo spostamento è mutazione di luogo, si cadrebbe nell’assurdo predetto. Il ricorrente esempio dell’acqua nel vaso e il paragone del luogo, in quanto contenente, con quest’ultimo, inducono lo Stagirita a precisare che il luogo è una sorta di vaso che non si può trasportare, mentre il vaso è un luogo trasportabile. Da qui il problema di sapere quale sia il luogo di una cosa che si muove dentro un’altra a sua volta in movimento, come per esempio una navicella nell’acqua di un fiume. La necessità che il luogo sia immobile comporta che esso non possa identificarsi con l’acqua in cui di volta in volta la navicella si trova, giacché questa stessa si sposta. La navicella si trova perciò in essa come in un vaso più che come in un luogo, mentre il suo luogo è l’intero fiume, giacché è immobile. Ciò permette una definizione del luogo come «il primo limite immobile del contenente»320. Essa, come si vede, al pari della prima fissa l’attenzione sul limite del contenente, ma ne articola più in dettaglio il concetto con la nota della sua immobilità, che ribadisce quella del luogo, e con la precisazione che si tratta del primo limite immobile, giacché è chiaro che i limiti immobili di ciò che contiene possono essere più d’uno, in corrispondenza con i differenti profili sotto cui più cose possono considerarsi l’«intero», stante che solo questo è immobile (nell’esempio si possono considerare come intero, sotto differenti profili, sia il fiume, sia il fiume nel quale esso affluisce, sia il mare in cui quest’ultimo si getta, e tutti e tre hanno un limite immobile, ma luogo della navicella è soltanto quello 78

del primo)321. Un’importante distinzione è poi quella tra il luogo e il dove. Se il primo, in quanto limite, è una quantità, il secondo, essendo una categoria, esprime un modo d’essere, differente da quello del primo, che non può essere definito, ma soltanto colto in qualche esempio opportuno322. In ogni caso il luogo, in quanto limite, è in un dove, ma non in un altro luogo, bensì è come il limite nel limitato. Esso infatti si lega strutturalmente al movimento, come si diceva, per cui non tutto ciò che esiste è in un luogo, ma soltanto ciò che si muove323. Parimenti Aristotele precisa che è in un luogo soltanto quel corpo al di fuori del quale ve n’è un altro che lo contenga324. Da qui il corollario che il cielo, poiché non è contenuto da niente, non è neppure in un luogo, anche se, dal momento che si muove, le sue parti sono in un luogo, essendo ciascuna contigua a un’altra325. E ancora: alcune cose sono in un luogo in potenza, come le parti di un corpo omogeneo e continuo, altre in atto, come le parti separate e contigue di un mucchio326. E alcune sono in un luogo per sé, altre per accidente327. Comunque, il luogo è insieme con la cosa, perché il limite è insieme col limitato328. 4. Il vuoto L’ultima precisazione del precedente paragrafo, unitamente a quella per cui un corpo è in un luogo se fuori di esso ve n’è un altro che lo contiene, ha come suo corollario l’inesistenza del vuoto. Per vuoto, infatti, s’intende un luogo che non contiene nessun corpo; oppure, posto che ogni corpo sia tangibile, ed è tangibile perché ha peso e leggerezza, il luogo in cui non vi è né il pesante né il leggero329. Ma entrambe le situazioni sono impossibili, giacché, se non esiste il corpo, ovvero ciò che ha peso e leggerezza, non esiste neppure il luogo, e dunque neppurequel preteso luogo che è il vuoto. Questo poi, come luogo mancante di un corpo, dovrebbe essere un puro intervallo, ma abbiamo visto che la teoria del luogo esclude quest’ipotesi330. Anche a questo riguardo occorre rilevare il carattere dialettico dell’intero argomentare di Aristotele, come chiaramente e innanzitutto si evince dall’andamento confutatorio nei confronti dei Platonici. Nell’esame della prima accezione di «vuoto» lo Stagirita si sofferma, infatti, sulla tesi di costoro secondo cui il vuoto esisterebbe perché coincide con la materia del 79

corpo: cosa inammissibile, obietta Aristotele, dal momento che la materia non è separabile dal corpo, mentre il vuoto è da loro concepito come separato331. Il suddetto carattere è confermato, inoltre, dal fatto che molti argomenti a favore dell’irrealtà del vuoto sono confutazioni dei motivi che sorreggono la convinzione che il vuoto debba esistere. Essa trae origine da quella che senza il vuoto non sarebbe possibile il movimento. Ma si tratta di una convinzione errata e Aristotele la rigetta, mostrando, innanzitutto, che la realtà del vuoto non è richiesta da nessuno di quei mutamenti che soprattutto sembrerebbero esigerla. Non dal mutamento locale, potendo ben essere che il pieno si alteri (il che è sfuggito a Melisso) e che i corpi cadano simultaneamente e reciprocamente senza che vi sia alcun intervallo separato al di fuori di essi, com’è particolarmente evidente nel caso del movimento rotatorio dell’acqua, quale esempio emblematico della rotazione dei corpi continui332. Non la condensazione, che non necessariamente va intesa come restringersi del corpo nel vuoto, ma può spiegarsi facendo ricorso all’espulsione di ciò che è all’interno di un corpo333. Non infine l’accrescimento, che non è necessario esplicare con la penetrazione di un corpo estraneo nel vuoto di quello che s’accresce, ma basta chiamare in causa l’alterarsi di quest’ultimo, com’è chiaro nel caso della produzione del vapore dall’acqua. In particolare, il ragionamento condotto sull’acqua versata nella cenere s’ingarbuglia su se stesso in quanto (a) o non aumenta ogni parte del corpo, (b) o l’aumento non è dovuto a un corpo, (c) o due corpi possono essere contemporaneamente nello stesso luogo, (d) o l’intero corpo è vuoto, se aumenta in ogni parte, a causa del vuoto334. La natura confutatoria — e dunque dialettica — dell’argomentazione si comprova, infine, là dove Aristotele fa valere che l’esistenza del vuoto non soltanto non è necessaria per dar conto del movimento, ma proprio perché esso si verifichi va negata, giacché, se si desse, lo impedirebbe. Ogni movimento naturale, infatti, tende, come s’è detto, verso l’alto o il basso, ma nel vuoto, non essendoci nulla, queste differenze non sussistono, e dunque neppure il movimento335. Neppure potrebbe darsi ragione, nel vuoto, dell’arresto di un corpo prima in movimento, non essendocene alcuna perché debba fermarsi in un punto invece che in un altro336. Ancora: se il corpo si muove nel vuoto perché questo cede, verificandosi un tale cedimento in ogni parte anche il corpo si muoverà in ogni parte337. Di più, il movimento nel vuoto violerebbe qualsiasi proporzione tra la resistenza e la divisibilità del mezzo, da un lato, e la velocità, dall’altro, con l’assurdo che 80

un qualunque corpo attraverserebbe in un tempo uguale il pieno e il vuoto338. Si considera anche il fatto che i proiettili continuano a muoversi dopo il lancio o per reazione o perché l’aria spostata imprime una spinta, non per il vuoto339. Per altro verso, si darebbe l’assurdo che in un ugual tempo un corpo percorrerebbe una medesima distanza attraverso un mezzo pieno e vuoto, dal momento che, mentre esistono certi rapporti ben definibili tra un movimento e un movimento, non esiste invece alcun rapporto tra il pieno e il vuoto340. Altro assurdo è poi che nel vuoto tutti i corpi si muoverebbero con la stessa velocità341. Un’ulteriore incongruenza riguarda il fatto che, mentre un cubo di legno, immesso nell’acqua o nell’aria, dà luogo allo spostamento di una quantità di acqua o di aria pari a quella del cubo, questo non si verificherebbe immettendo il cubo nel vuoto, ma, delimitando con tale immissione un intervallo uguale a quello che prima era nel vuoto, l’acqua o l’aria si disporrebbero nel cubo342. Non soltanto, ma il cubo occuperebbe una quantità di vuoto pari alla sua grandezza; per cui nello stesso luogo coesisterebbero cubo e (quantità di) vuoto343. Si avrebbe, in più, che nel vuoto la massa non differisce affatto dal luogo, per cui non si vede la necessità di porre questo oltre quella344. Per ultimo, bisognerebbe ammettere l’esistenza di un vuoto nei corpi mossi, ma in nessuna parte dell’universo c’è vuoto345. Parallelamente, neppure il raro si spiega mediante il vuoto, e lo Stagirita lo dimostra con una serie di argomenti intesi a provare che quello che si suppone essere il vuoto è semmai la materia del pesante e del leggero346. 5. Il tempo Anche il tempo347 si lega al movimento, com’è subito chiaro dai termini con i quali Aristotele ne introduce la trattazione e imposta la ricerca della sua essenza, dopo l’esposizione delle difficoltà che parrebbero ostare alla sua esistenza e quella delle teorie precedenti. Lo Stagirita le esamina al fine di porre in chiaro che esse non hanno affatto chiarito la natura del tempo. Questo, per un verso non è movimento, segnandone la differenza sia il fatto che quest’ultimo è nella cosa che muta e in essa soltanto, mentre il tempo è dovunque, sia la capacità del movimento di essere più lento o più veloce, di contro al costante trascorrere del tempo348; ma per altro verso la sua esistenza non è neppure possibile senza quella del mutamento, come ben attesta l’esperienza per la quale, non subendo l’animo alcun mutamento o non avvertendone alcuno, pare che il tempo non sussista349. Dunque, il 81

tempo non è movimento, ma neppure è senza movimento e mutamento. Ma non soltanto la percezione del movimento implica quella del tempo, ma vige pure il reciproco e se si percepisce il tempo si percepisce anche la presenza di un movimento. Pertanto, se tempo e movimento si implicano vicendevolmente, il tempo o è movimento, o è una proprietà del movimento. E poiché si è esclusa la prima alternativa, non resta che sia proprietà del movimento350. L’analisi che determina di quale proprietà si tratta, chiarisce che, essendo continuo il movimento, poiché è continua la grandezza, detta continuità è percepita dal prima e dal poi; questi sono presenti sia nel movimento, poiché lo sono anche nella grandezza, che nel tempo, il quale peraltro è esso stesso continuo, essendolo il movimento. Ora, la percezione nel movimento del prima e del poi, che sono tempo, anzi istanti del tempo, è assieme scansione, ossia misura, del movimento e percezione del tempo. Quando cioè nel movimento si percepiscono il prima e il poi, si ritma, ovvero si misura, il movimento e assieme si percepisce il tempo. Questo dunque si percepisce assieme al movimento e lo si percepisce come sua misura. Da qui la definizione del tempo: esso è numero (ossia misura) del movimento secondo il prima e il poi (ἀριθμὸς κινήσεως κατὰ πρότερoν καὶ ὕστερoν)351. Che sia numero prova il fatto che maggiore e minore, più e meno esprimono misura, ossia numero, e il movimento è maggiore o minore secondo il tempo352. Ma, d’altro canto, si dicono numero sia il numerato e il numerabile che il mezzo con cui si numera. E il tempo, scandito dal prima e dal poi, che sono nel movimento, non è numero nella seconda accezione, bensì nella prima. E proprio per questo, come si diceva, è un aspetto del movimento353. Se il tempo per sé è misura del movimento, per accidente lo è anche della quiete, dal momento che anch’essa è in un tempo354. E con ciò esso è misura di tutte le cose che sono e non sono, che si generano e si corrompono, che si alterano, che aumentano e diminuiscono e che mutano di luogo. Affermazione della quale vale anche la reciproca, ossia che tutte le cose delle quali il tempo misura l’esistenza, hanno la loro esistenza nel tempo e nella quiete355. Ciò ovviamente non significa che tutto l’esistente è nel tempo, ma che è nel tempo ogni esistente che muta. Il tempo contiene questo genere di realtà, tant’è che esso ne è affetto, come prova il fatto di invecchiare. Per cui, ciò che è sempre, non soggiace cioè ad alcun mutamento e invecchiamento, non può eo ipso essere soggetto al tempo. Dice infatti Aristotele: 82

Poiché l’essere nel tempo è come (l’essere) nel numero, si supporrà un qualche tempo maggiore di tutto ciò che è nel tempo. Per questo è necessario che tutte le cose che sono nel tempo siano contenute dal tempo, come anche tutte le altre che sono in qualcosa: per esempio, quelle che sono in un luogo (sono contenute) dal luogo. Ed (è necessario) anche che dal tempo sia prodotta qualche affezione, come pure siamo soliti dire che il tempo consuma, e che tutto invecchia ad opera del tempo, e che vien meno nella memoria a causa del tempo, ma non che (a causa del tempo) si è imparato, né che si è divenuti giovani né belli. Ché, il tempo per se stesso è piuttosto causa di corruzione. Infatti, è numero del movimento, e il movimento fa venir meno ciò che sussiste. Di conseguenza è evidente che le cose che esistono sempre, in quanto esistono sempre non sono nel tempo. In effetti, non sono contenute dal tempo, né il loro essere è misurato dal tempo. Prova di ciò è che non ricevono neppure alcuna affezione dal tempo, come se non esistessero nel tempo356. Un capitolo importantissimo nella trattazione aristotelica del tempo è costituito dall’analisi dell’istante. Esso, si è accennato, s’identifica col prima e col poi, ossia con i termini percependo i quali percepiamo il tempo. Per questo lo determina. E in tanto può determinarlo in quanto si percepisce come prima e poi, ossia come dualità, oppure come identità che però è fine del prima e inizio del poi, sì che effettivamente fa avvertire un trascorrere e un mutamento. Se invece lo si percepisse come unità, allora non sarebbe possibile percepire il tempo. Sotto questo profilo, come Aristotele precisa, se il tempo non fosse, neppure l’istante sarebbe e se non fosse l’istante, non sarebbe nemmeno il tempo357. L’istante per un aspetto è diverso e per un altro è identico. In quanto, infatti, è sempre in un diverso, è diverso, ma in quanto determinazione che è una sola volta, è identico. E divide il tempo, segnato dagli istanti come da una serie di prima e di poi, ma assieme è causa della sua continuità, perché collega il tempo trascorso e quello futuro. Il paragone corre allora al punto. Anche questo rende continua la lunghezza e assieme la divide, segnando la fine di un segmento e l’inizio di un altro, ma in quanto uno. Un solo punto, infatti, e non due, svolge la duplice funzione di terminare e di iniziare. Se così facesse anche l’istante, il mobile si arresterebbe. Esso invece segna il fluire continuo del tempo, nel mentre che lo scandisce e lo divide, perché non è lo stesso istante a definire il prima e il poi, ma due istanti diversi, ancorché per il fatto di accadere ciascuno una sola volta siano identici. Il movimento, infatti, è uno e continuo perché uno è l’oggetto che si sposta, cosicché anche gli istanti che ne segnano il prima e il poi possono dirsi 83

«l’istante», ma perché questo, spostandosi l’oggetto, è sempre diverso. L’istante definisce così, assieme alla continuità, anche il limite del tempo, perché è principio di un tempo e fine di un altro, ma in quanto è sempre diverso, in conformità con lo spostarsi della cosa che si muove. E con questo è anche chiaro che esso non è una parte del tempo, come neppure i punti sono parti della linea (sue parti, infatti, sono i segmenti), ma, per l’appunto, prima e poi, ossia misura358. Poiché il movimento è infinito, anche il tempo è infinito, E come il movimento è unitario ma di volta in volta diverso, così anche il tempo è uno, ma l’istante (in quanto fine del tempo passato e inizio di quello futuro) è diverso. Il rapporto tra l’identità e la diversità del tempo è analogo a quello tra la concavità e la convessità presenti in un punto del cerchio359. Altro importante aspetto della teoria aristotelica del tempo è che esso, in quanto numero, nel senso precisato, neppure sarebbe se non esistesse un numerante, e questo è l’anima360. Un’istanza che sarà ripresa e sviluppata da S. Agostino361. Va infine richiamata la tesi secondo cui il tempo e tutti gli altri mutamenti — anche la generazione, l’aumento e la diminuzione e l’alterazione, e non soltanto il movimento locale — sono misurati dal tempo della prima sfera, in virtù del fatto che la traslazione circolare, propria delle sfere celesti e in particolare della prima di esse, è il mutamento più importante, e la cosa più importante è misura delle altre. Di conseguenza, la misura di questo movimento di conversione uniforme segnerà «il» tempo e con esso si misurano gli altri tempi e tutti i movimenti362. 6. L’infinito Anche lo studio dell’infinito363 è richiesto da quello del movimento, ma non in modo così diretto e decisivo come le precedenti determinazioni del luogo, del tempo e del vuoto, le quali o entrano costitutivamente nella realtà del movimento, o sembrano entrarvi, o ne costituiscono un aspetto. L’infinito, invece, non interessa il movimento se non nella misura in cui esso, in quanto eterno, al pari del tempo, è, per l’appunto, infinito e perché i primi filosofi, avendo posto l’ἀρχή come infinita e in movimento, hanno legato i due termini; interessa dunque come oggetto di disamina e di discussione. Esso riguarda ancora il movimento — ma non la sua definizione — perché la successione delle generazioni e delle corruzioni sembra infinita, com’è infinita la successione dei numeri e come sono infiniti gli aumenti e le diminuzioni, essendo possibile, nel penultimo caso, aggiungere sempre 84

una grandezza a una grandezza e, nell’ultimo, dividere sempre e con la medesima proporzione la grandezza data. Il che per Aristotele è consentito dalla proprietà della grandezza stessa di essere continua. Lo studio dell’infinito, pertanto, se per ampia parte si svincola da quello del movimento, è invece richiesto da un’esigenza strettamente ontologica. A essa risponde in prima istanza la disamina dello Stagirita. Questa, infatti, è interamente volta ad accertare se l’infinito esiste e, in caso affermativo, in che modalità d’essere. La tesi di Aristotele, articolata in sottili dimostrazioni, è che l’infinito non esiste come realtà in atto e come sostanza e principio, ma esiste in potenza. Anzi, in questa dimensione, se lo si negasse, s’incorrerebbe in molteplici difficoltà. Non potendo in questa sede seguire l’analisi in tutti i suoi sottili passaggi, ci limiteremo a fissarne i momenti essenziali. Innanzitutto, Aristotele enuncia cinque motivi che indurrebbero a credere l’esistenza dell’infinito. Si tratta di opinioni che il filosofo vagherà adeguatamente nel corso della discussione e che in certi casi, debitamente precisate e corrette nella linea della soluzione anticipata, farà proprie. Siamo, con ciò, nuovamente in presenza di quel metodo di muovere dai φαινόμενα che definisce uno dei criteri basilari del procedimento dialettico. In primo luogo, l’esistenza dell’infinito pare attestata dal tempo, giacché esso è, per l’appunto, infinito364. Aristotele condivide quest’opinione e, a partire da essa, il suo impegno teorico si rivolge essenzialmente a stabilire certe distinzioni e ad apportare certe precisazioni con le quali verrà definito l’esatto significato dell’istanza, con la conseguenza di porre in luce il senso in cui bisogna dire che l’infinito, attestato dal tempo, esiste. Lo stesso per quanto riguarda la seconda e, in parte, la quinta opinione, ossia la divisibilità delle grandezze365 e il fatto che il numero, le medesime grandezze matematiche e lo spazio che si estende fuori del cielo sono infiniti366 (la parzialità della condivisione riguarda l’ultima parte della quinta ragione. Infatti, ciò che è fuori dell’ultima sfera celeste è il vuoto, il quale non sopporta nessuna qualificazione e, dunque, neppure quella dell’infinitezza). Non così, invece, per le altre due: ciò da cui ha origine il divenire è infinito (è una tesi presocratica e in particolare dei Milesi e di Eraclito)367 e il tendere del finito sempre a un termine, di modo che non si avrà mai un limite ultimo368. Inoltre lo Stagirita all’inizio dell’analisi compie una seconda operazione di chiara marca dialettica e distingue in quanti sensi si dice l’infinito. Ebbene, in un’accezione esso si dice come ciò che per sua natura non si può percorrere; in un’altra, come ciò che presenta sì un percorso, ma questo è 85

senza fine; in una terza, come ciò che presenta un percorso finito e che quindi sarebbe percorribile, ma poi in realtà non lo si può percorrere; infine, come ciò che è infinito per composizione e per divisione369. L’analisi esclude dapprima che l’infinito abbia un’esistenza separata dalle cose sensibili e che sia per sé stante (se è sostanza, è indivisibile, dal momento che divisibili sono soltanto la grandezza e il numero, che non sono sostanze; ma se è indivisibile, non è infinito. Se invece è un’affezione per sé, come in effetti in un certo senso può dirsi che è per il numero e per la grandezza, allora non può essere per se stante, visto che non lo è neppure ciò di cui l’infinito è affezione)370. Indi, che possa essere infinito in atto, ossia sostanza e principio (sarebbe o divisibile o indivisibile. Ma non può essere divisibile, perché anche ciascuna delle sue parti sarebbe infinita ed è impossibile che la medesima cosa sia costituita di molti infiniti. E nemmeno può essere indivisibile, perché un’entelechia indivisibile è una sostanza e un principio, ma come infinito è una quantità)371. Ancora: che sul piano logico possa esistere un corpo infinito (giacché il corpo è per definizione ciò che è limitato da una superficie)372 e, su quello fisico, che si dia un corpo infinito, o composto o semplice (composto, perché un corpo è costituito dagli elementi, che sono di numero finito; semplice, perché sarebbe ciò in cui le cose si risolvono. Ma un tale corpo né è al di là dei quattro elementi, giacché non risulta che qualcosa di siffatto sussista, né può essere uno di essi, giacché ciascuno è finito, essendo un contrario)373. Infine, che esista un corpo sensibile infinito, stante che ogni corpo sensibile, essendo dotato di peso e leggerezza, ha un luogo proprio: il centro o la periferia, ovvero il basso e l’alto (mentre nell’infinito queste differenze, come il destro e il sinistro, l’avanti e il dietro, che sono posizioni assolute, non sussistono)374. Da tutto ciò Aristotele conclude che un corpo infinito non è in atto. D’altro canto, la negazione dell’infinito comporterebbe l’assurdo che il tempo sia finito, abbia cioè un principio e una fine, e che né le grandezze siano divisibili, né il numero sia infinito375. Per non incorrere in queste difficoltà occorre ammettere che l’infinito, se in un senso, ossia in atto e come entelechia, non esiste, in un altro esiste: come infinito in potenza. Si tratta di precisare in che senso. Non come «ciò che è in potenza», giacché così passerebbe poi all’atto e si darebbe quell’infinito attuale che invece è stato escluso. Esso è invece in potenza nel senso in cui si dice che «il giorno è e la gara è», vale a dire come designante un’esistenza che, al pari del giorno e della gara, è sempre diversa e mai particolare, mentre ciò che si assume con esso (il determinato giorno e la specifica gara) è sempre finito e particolare, e un’esistenza che è sempre nel nascere e nel perire. Insomma 86

un ente delimitato, ma sempre diverso376. Ebbene, un tale infinito potenziale si dispiega nel tempo, nelle generazioni umane e nella divisione delle grandezze, definendosi in quest’ultimo caso come infinito per divisione, la cui idea è la stessa di quella dell’infinito per aggiunzione, che pur si produce in modo contrario. Come, infatti, una grandezza, che è sempre finita, può essere infinitamente divisa secondo la stessa proporzione (per esempio, sempre secondo la metà della grandezza risultante), ottenendosi sempre grandezze finite, così a ogni grandezza se ne può infinitamente aggiungere un’altra, ottenendone sempre una finita377. In entrambi i casi l’infinito è in potenza, mai in atto e come alcunché di definito. Lo stesso è nelle generazioni (finiti e determinati sono i singoli individui che si generano, mentre la generazione è infinita come continuo generare) e nel tempo, per i motivi che abbiamo visto studiando dettagliatamente l’istante. E l’infinito per aggiunzione è tale che sempre si può assumere qualcosa al di fuori di esso, ma esso non supererà mai la grandezza finita, perché da ognuna delle infinite aggiunte risulterà sempre una grandezza finita, mentre quello per divisione supera ogni grandezza finita (che è infinitamente divisibile), ma è sempre minore della grandezza superata378. Adattandosi poi, per dir così, l’infinito potenziale alla natura delle realtà che potenzialmente lo sopportano, è ovvio che non sarà lo stesso nelle grandezze, nel movimento e nel tempo, quasi si trattasse di una sola natura. In particolare, lo Stagirita sottolinea la differenza dell’infinito nella serie numerica e nelle grandezze. Nella prima esso s’incontra procedendo verso il più grande, non essendoci un numero che la chiuda, ma potendosi infinitamente aggiungere un’unità a qualunque quantità di unità, ossia a qualunque numero, mentre verso il più piccolo s’incontra un limite insuperabile, costituito dall’unità, che è indivisibile; nelle grandezze invece, che, come s’è detto, per Aristotele sono infinitamente divisibili, l’infinito s’incontra verso il più piccolo, mentre s’è già visto che procedendo verso il più grande s’incontrerà sempre una grandezza finita379. Questa situazione delle grandezze e, dunque, dei corpi permette allo Stagirita di rigettare l’opinione che l’infinito sia ciò al di fuori di cui non c’è nulla e di contrapporvi che vige proprio il contrario. L’infinito è ciò al di fuori del quale vi è sempre qualcosa, costituendosi sempre una grandezza dall’infinito aumento380. Da qui la differenza tra l’infinito e l’intero. Quest’ultimo è compiuto e, dunque, perfetto, laddove l’infinito, a causa della sua costitutiva incompiutezza, non ammette perfezione, giacché nessuna cosa che non abbia fine è perfetta381. Anzi, più che all’intero, esso 87

assomiglia alla parte, in quanto corrisponde alla materia del compimento della grandezza e la materia è parte dell’intero, non l’intero stesso. Ossia: è l’intero in potenza, non in entelechia, e dunque non contiene ma è contenuto, com’è proprio della parte382. In quanto poi materia, è anche inconoscibile, dal momento che conoscibile è soltanto ciò che ha una forma, ma la materia in quanto tale è priva di forma383.

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1. Sulla classificazione aristotelica delle scienze cfr. in particolare Metaph., VI, 1. 2.Phys., 192 b 13-15. 3.Phys., 192 b 19-20. 4. Cfr. Eth. Nic., 1140 a 13-14. La prerogativa testé detta distingue i prodotti delle arti dagli enti di natura. Quella, invece, per la quale i primi sono posti in essere da un fare eterotelico (la πoίησις o produzione, per l’appunto) li distingue dalle azioni (πράξεις), che sono invece un fare autotelico, pur gravitando, gli uni e le altre, nell’ambito delle cose che possono essere diversamente da come sono. 5. W. WWIELAND, Die aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1970; tr. it. di C. GGEN-TILI , La fìsica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei princìpi in Aristotele, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 297 sgg. 6.Ibid., p. 298. 7.Ibid., p. 304 8. Cfr. Phaed., 99 E sgg. 9. WIELANDOp. cit., pp. 306-307. 10.Ibid., p. 308. 11.Ibid. 12. Il fatto stesso che Platone abbia narrato la generazione del mondo ad opera del Demiurgo come un mito, è indicativa del carattere non-scientifico della sua teoria fisica. La quale, del resto, non avrebbe potuto, nel quadro della concezione platonica della scienza, costituirsi come sapere epistematico, relativi come sono, quest’ultimo all’intelligibile ideale, quella alla realtà empirica e diveniente. Per cui, atteso che del divenire in quanto tale non vi può essere scienza, che è invece sapere dell’immutabile, in luogo di una fisica come scienza subentra una fisica come narrazione di una «verisimile» origine del mondo. 13. Cfr. Phys., 199 a 16. 14. Cfr. Eth. Nic., 1139 b 15-17. Potrebbe sembrare un’incongruenza il fatto che le arti, che coincidono con le scienze poietiche, facciano capo alla ragione teoretica e siano espressione di essa, ma, a ben vedere, non vi è nessuna difficoltà. In effetti, anche i princìpi delle arti, almeno quelli primi, sono realtà immutabili e necessarie, o — come dice Aristotele — realtà che «non possono essere diversamente da come sono», e tale è la prerogativa degli oggetti della parte scientifica dell’anima razionale. Essi sono dunque conosciuti dalle scienze: non soltanto da quelle teoretiche, ma alcuni da queste, altri da quelle pratiche, altri ancora da quelle poietiche. Il fatto poi che queste ultime applichino la conoscenza di tali princìpi alla produzione, ossia in un ambito di cose che «possono essere diverse da come sono» — e parimenti il fatto che le scienze pratiche l’applichino nel campo dell’azione, ossia di realtà che, anch’esse, possono essere diverse —, nulla toglie a che i princìpi in causa siano immutabili e necessari, o comunque dotati di quella forma di stabilità rappresentata dal «per lo più». Cosicché per quest’aspetto le relative scienze — siano esse poietiche o pratiche, oltre che teoretiche — costituiscono modi d’eccellenza della ragione teoretica. Sul punto mi permetto di rinviare al mio Lineamenti della filosofia di Aristotele. Forme del sapere e modi della ragione, Torino 1997, p. 212. Un secondo aspetto che merita d’essere puntualizzato, perché potrebbe essere fonte di dubbi, concerne il motivo per il quale, se le arti sono «scienze» poietiche, arte e scienza vengono indicate separatamente tra gli stati d’eccellenza della ragion teoretica. Il fatto si è che le «scienze» poietiche non si rapportano alla «scienza» come specie al genere, così come le scienze teoretiche e le scienze pratiche non sono due partizioni specifiche di «scienza». Se così fosse, poiché il genere è l’unità delle specie e ciò che caratterizza la scienza è la conoscenza delle cause (cfr. Metaph., 981 a 28-30; Anal Post., 71 b 9-11), dovrebbero darsi certe cause

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ricercate da tutte le scienze, accanto e oltre a quelle ricercate da ognuna, e in rapporto alle prime tutte le scienze dovrebbero presentare la medesima condizione conoscitiva, ossia il medesimo grado di rigore nel costruirsi come scienze. Invece, né esistono, per Aristotele, cause comuni a tutte le scienze, né tutte le scienze hanno il medesimo rigore (per esempio, in geometria e in architettura non si ricerca l’angolo retto con la stessa esattezza). Anzi, lo Stagirita avverte che è proprio delle persone incolte il ricercare in tutte la medesima precisione. Da ciò si può ben inferire che «sapere causale», intenzionando cause diverse, non costituisce una nozione univoca, bensì una nozione 15. Questo nesso, per il quale il carattere razionale della natura viene inferito dalla razionalità dell’operare tecnico, è stato ben puntualizzato da M. G. EVANS, The Physical Philosophy of Aristotle, Albuquerque, The University of New Mexico Press 1964, pp. 11-12. 16. WIELAND, op. cit., p. 322. 17.Phys., 193 a 2-9. L’assurdità di una tale pretesa è innanzitutto di ordine metodologico, come si coglie tra le pieghe delle annotazioni aristoteliche. La dimostrazione, quale procedimento proprio dell’esposizione della scienza, deve procedere da ciò che è in se stesso noto verso ciò che non lo è; ora ciò che in se stesso è massimamente noto sono i princìpi, i quali devono essere più noti della conclusione; ma nel caso in oggetto, poiché gli enti naturali (ossia, la conclusione) sono evidenti, i princìpi dai quali se ne dovrebbe dedurre l’esistenza sarebbero per sé meno noti della conclusione. Il che contravviene la logica della dimostrazione scientifica. In questo senso, una tale pretesa è segno di ἀπαιδευσία τῶν ἀναλυτικῶν, ossia di quella mancanza d’educazione al ragionamento scientifico di cui espressamente si dice in Metaph., 1006 b 3 (cfr. in proposito W. D. Ross, Aristotle’s Physics. A Revised Text with Introduction and Commentary, Oxford 1966 [riproduzione della prima edizione, Oxford 1936], Commentary, p. 501). Distinta da quest’assurdità, Aristotele ne indica un’altra, di ordine più propriamente psicologico, cioè, con terminologia moderna, gnoseologico: chi pretende di dimostrare l’evidente manca della nozione di ciò che vuol dimostrare ed essa è per costui soltanto un nome (come per chi è cieco «colore» è soltanto un nome, non potendo per lui corrispondere a una conoscenza evidente. Donde l’esigenza per lui di dimostrarlo) (Phys., 193 a 4-9). 18.Phys., 193 a 29-30. 19.Phys., 193 a 30-31. 20.Phys., 192 b 32-34. 21.Phys., 192 b 36 -193 a 1. 22.Phys., 193 a 1. Sulla distinzione tra «per natura» e «conforme a natura», cfr. la nota al passo citato. 23. Cfr. Phys., 193 a 31. 24.Top., 101 b 38. 25. Cfr. Phys., 193 b 4-5. 26. Ross, Commentary, cit., p. 504 fa opportunamente notare che la precisazione aristotelica ha il preciso scopo di ribadire proprio questa distinzione. 27.Phys., 193 b 6-7. 28.Phys., 193 b 5-6. 29.Phys., 192 b 33. 30. Cfr. Phys., 192 b 32-33. 31. Per questa interpretazione dello sviluppo della teoria aristotelica della sostanza ci permettiamo di rinviare al nostro Lineamenti della filosofia di Aristotele. Forme del sapere e modi della ragione, cit., pp. 65 sgg. 32. Cfr. Cat., 2 a 11-12. 33. Cfr. Metaph., VII, passim e, in particolare, Γ029 a 5-7; 1041 b 28, dove la forma è addirittura detta «causa prima dell’essere».

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34. Cfr. Ross, Aristotle’s Physics, cit., Introduction, p. 7. 35. Aristotele parla di ἡ πρώτη ἑκάστα) ὑπoκείμένη ὕλη τῶν ἐχόντων ἐν αὑτoῖς ἀρχὴν κινήσεως καί μεταβoλῆς (193 a 29-30) e di τό πρώτoν ἐνυπάρχoν ἑκάστφ [τῶν φύσει ὄντων], «cosa prima» che è ἀρρύϑιστoν καϑ αὑτό (193 a 10-11 ). Ma, contrariamente a quanto ha ritenuto SIMPLICIO (273, 20-34), non si tratta della «materia prima» (il che comporterebbe, tra l’altro, un evidente contrasto con gli esempi addotti a illustrazione della seconda espressione, ossia del legno e del bronzo quale materia del letto e della statua), sibbene, come ha ben messo in chiaro Ross (Commentary, cit. p. 502), della «materia prossima» all’ente naturale, quella che, assieme alla forma, dà luogo al sinolo. Tale materia è qui detta «prima» in rapporto all’ente stesso e a partire da esso — laddove quella prima nel significato tecnico, indicato da Simplicio, in questa prospettiva dovrebbe considerarsi «ultima», ossia la più distante dal composto sinologico. Del resto, anche in Metaph., 1015 a 7 lo Stagirita parla di φύσις […] ἣ τε πρώτη ὕλη, precisando subito appresso che «questa si dice in due sensi (διχῶς), o come prima in rapporto alla cosa (ἡ πρὸς αὐτὸ πρώτη), o come assolutamente prima (ἡ ὅλως πρώτη)». Occorre invece chiarire quale movimento di pensiero guida Aristotele a chiamare in causa, nel trattare della «materia prima» nell’accezione or ora precisata, anche l’ἀρχή dei Presocratici, la quale, essendo il costituente materiale originario degli enti, anzi coincidendo, nei suoi mutamenti, con gli enti stessi, sembrerebbe, a uno sguardo immediato, doversi semmai assimilare alla materia prima nel senso qui scartato. 36.Phys., 193 a 29-30. 37.Phys., 193 a 23-28. 38. Cfr. Cat., 8 b 26-27. 39.Phys., 193 a 15-17. 40.Metaph., 983 b 9-10. 41.Metaph., 983 b 17-18. 42.Phys., 194 a 28-29. 43. Cfr. Phys., 194 a 30. 44. Cfr. ante, p. 13. 45. Cr. De An., 415 b 23; Melaph., 1072 b 2-3. 46. Cfr. Phys., 194 a 31-b 8. 47. Cfr. Phys. , 194 a 32-33. 48. Platone, avendo posto nell’Idea del bene la ratio essendi delle Idee (oltre che la loro ratio cognoscendi, specificata nella duplice funzione di causa della loro intelligibilità e dell’intelligenza dell’intelletto — come il sole, da un lato è ragion d’essere delle cose, dall’altro è causa della loro visibilità e della capacità di vedere dell’occhio), aveva con ciò stesso aperto la strada a quella «metafisica» del bene per la quale questo è la ragione ultima e la spiegazione finale dell’esistente. La realtà è così e non in un altro modo, perché «è bene» che sia così. Il criterio dell’ottimo, che ha sorretto la decisione del Dio leibniziano nella creazione di questo mondo, tra gli infiniti mondi possibili che avrebbe potuto porre in essere, ripropone l’istanza inaugurata da Platone — pur facendola operare in un contesto dottrinale profondamente diverso. Il bene, nei lineamenti di questa metafìsica, è, pertanto, la ragione che «dall’esterno» sovrintende la generazione delle cose. Ben diversa la posizione di Aristotele, il quale, affermando che per l’ente raggiungere la propria perfezione, ossia attuare la sua forma, è un bene, e che tale attuazione è dovuta alla natura, intesa come essenza dell’ente stesso, sgancia la nozione del bene da qualunque realtà esterna alla cosa, calibrandola — in quest’accezione, che, ben inteso, non è l’unica (in Eth. Nic., 1096 a 23-27 si chiarisce che «bene», come «essere», non è univoco, ma assume significati diversi a seconda delle categorie: nella sostanza si dice come Dio e l’intelletto, nella qualità come virtù, nella quantità come giusta misura, nella relazione come l’utile, nel tempo come momento opportuno, nel luogo come dimora, e così via; in ibid., 1098 b 12-14 i beni vengono distinti in beni dell’anima, del corpo ed esteriori; in

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ibid., 1156 a 11-12 si precisa che «bene» significa talvolta il bello, talvolta l’utile) — su di un piano che è sì ontologico, ma non più metafisico. 49. Cfr. Phys., 198 b 14 sgg. Analoga critica di non aver fatto uso della causa finale, oltreché della causa efficiente, Aristotele ha rivolto ai due Presocratici in Metaph., 985 a 10-23; 988 b 616. Relativamente alla causa finale e al solo Anassagora, simile obiezione era stata mossa anche da Platone in Fedone, 98 B. 50.Phys., 198 b 22-27. 51.Phys., 198 b 18-21. 52. Cfr. Phys., 198 b-32-199 b-33. Nei «sommari» si veda la struttura analitica di tali argomentazioni. 53.Phys., 199 a 9-12. Il ragionamento che Aristotele qui svolge si scandisce in un sillogismo dal seguente andamento: il procedere dell’azione intelligente è diretto a un fine. Ma il procedere della natura corrisponde al procedere dell’azione intelligente. Pertanto, il procedere della natura è diretto a un fine. La premessa minore è raggiunta ragionando nel modo seguente: se una casa fosse un prodotto naturale, dovrebbe essere costruita nello stesso modo in cui attualmente è costruita dall’arte. Parimenti, se i prodotti naturali fossero prodotti anche dall’arte, sarebbero prodotti nello stesso modo in cui lo sono dalla natura (Phys., 199 a 12-15). 54.Phys., 199 a 30-32. 55.Phys., 199 b 1-4: «Ora, se vi sono alcune cose secondo arte nelle quali, da un lato ciò che (si attua) correttamente è in vista di qualcosa, dall’altro negli aspetti sbagliati si mette mano in vista di qualcosa, ma lo si fallisce, similmente sarà anche nelle cose naturali e i mostri sono errori di quell’in vista di qualcosa». 56. Così mi pare di dover interpretare il diffìcile passo di Phys., 199 b 14-18 («In senso complessivo, chi fa queste affermazioni elimina le cose naturali e la natura. Infatti, sono naturali (φύσει) tutte le cose che, mosse continuamente da un qualche principio interno a se stesse, giungono a un qualche fine. Ma da ciascun (principio) non deriva il medesimo (fine) per ciascuna (di tali cose), né quello che capita, ma certamente (ciascuna si muove) sempre verso il medesimo (fine), se qualcosa non lo impedisca»). Secondo altre esegesi (per esempio, quella di Ross, Commentar)’, cit. p. 530, per il quale il passo può avere due significati: 1) o «il risultato che procede da ciascuna αρχή — ciascun tipo di seme — non è lo stesso per le diverse specie, né è un risultato casuale, ma in ogni specie tende verso il medesimo tipo»; 2) oppure «il risultato che segue da ciascuna ἀρχή non è, in realtà, il medesimo per gli individui di ciascuna specie, né è un risultato casuale, ma tende sempre verso lo stesso tipo») non mi sembra che risulti il senso dell’obiezione alla spiegazione meccanicistica, che, invece, mi pare chiaramente attestata dalle parole iniziali («chi fa queste affermazioni elimina le cose naturali e la natura»). 57.Phys., 199 b 15-17. 58. Aristotele non nomina la necessità assoluta in Phys., II, 9, dove enuncia la soluzione in oggetto e illustra la necessità ipotetica (la nomina, invece, in molti altri luoghi, tra i quali De Part. Anim., 639 b 21-30), ma non ν’è dubbio che sia quella la necessità alla quale quest’ultima viene riferita come specificazione di diverso senso del necessario. 59.Metaph., 1015 a 20-21. 60.Metaph., 1015 a 21-22. 61.Metaph., 1015 a 26. 62.Metaph., 1015 a 33-35. 63.Metaph., 1015 b 7. 64.Metaph., 1015 b 11-12. 65.Ibid. 66. Per l’attribuzione di questo modo d’essere ai motori immobili e, in particolare, al primo di essi, ossia al motore immobile del primo cielo, cfr. Metaph., 1072 b 7-8. Sulla necessità

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assoluta come modo d’essere degli astri cfr. De gen. et corr., 338 a 17-b 3. Che essa costituisca la modalità dei fenomeni costanti si evince da una serie di luoghi nei quali questi sono designati come fatti necessari. Così in Anal. Prior., 32 b 6; Anal. Post., 87 b 20; Top., 112 b 1; Phys., 196 b 12; 198 b 5; De Gen. Anim., 770 b 11; Metaph., 1025 a 15; 1026 a 1-5; Rhet., 1357 a 22; 1402 b 12-30. Sull’identifica zione, in generale, di ciò che è eterno con l’assolutamente necessario cfr. De Part. An., 639 b 23-24; De Gen. An., 731 b 24; Phys., 203 b 30. A. MANSION (Introduction à la Physique aristotélicienne, 2 ème éd., Louvain-Paris 1945, pp. 284-285) ha fatto rilevare che l’estensione della necessità assoluta anche ai due ultimi tipi di fenomeni è resa possibile dall’ambiguità τὸ ἐνδεχόμενoν, il quale designa sia ciò che è semplicemente possibile, sia ciò che è contingente, ossia che è, ma potrebbe non essere. Di conseguenza, corrispondentemente a questa oscillazione anche «ciò che non può essere diversamente da come è (τὸ μὴ ἐνδεχόμενoν ἄλλως ἔχειν)» comprende, da un lato ciò che non ha possibilità alcuna di non essere quello che è, ossia l’assolutamente necessario in senso stretto, dall’altro ciò che, pur potendolo, di fatto non esiste in modo diverso. Gli astri e i fenomeni costanti sono assolutamente necessari in questa seconda accezione. 67.Phys., 200 a 1-5. 68. Un riferimento a questi due filosofi, oltre che nei luoghi anzi citati, è anche all’inizio della trattazione della necessità ipotetica (cfr. Phys., 199 b 35: νυν oέ γαρ oΐoνται). 69.Phaed., 98 D-Ε. 70.Phaed., 99 A Va osservato che la spiegazione meccanicistica suddetta, deducendo soltanto l’effetto (la presenza di Socrate in carcere) dalla condizione (il tendersi dei nervi e le giunture delle ossa), ma non anche questa da quello, non esclude, strutturalmente, la possibilità anche di altre cause. Tant’è che — sia pur in rapporto alle ragioni ideali — le condizioni fattuali del tipo suddetto sono indicate da Platone come «concause» (cfr. ibid.: «ora, se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre parti del mio corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza»), lasciando con ciò stesso intravedere che esse non costituiscono l’unica ragione. 71. Cfr. la nota precedente. 72. «Se (le condizioni materiali) non si danno — precisa infatti Aristotele, illustrando con un esempio la necessità ipotetica — non si darà né la casa né la sega: la prima, se non si danno le pietre; la seconda, se non si dà il ferro» (Phys., 200 a 28-29). 73. Scrive infatti Aristotele: «se senza queste cose [scil., i mattoni e le pietre nella costruzione di una casa e del ferro in quella di una sega] non si ha generazione, nondimeno non (si ha) a causa di queste cose, se non nel senso di "a causa della materia", bensì in vista del nascondere talune cose e del salvarle. Similmente, anche in tutti gli altri casi, in tutti quelli in cui vi è l’in vista di questo, 〈la generazione〉 non è senza le cose che, quanto alla loro natura, sono necessarie, ma tuttavia non è tramite queste cose, se non nel senso di "tramite la materia", bensì in vista di questa cosa: per esempio, perché la sega è così? Perché questa cosa qui è in vista di questa cosa qui. Tuttavia, questo ciò in vista di cui è impossibile che si produca se 〈la sega〉 non sia di ferro. Pertanto è necessario che sia di ferro se dev’essere una sega e deve aver luogo la sua opera. Quindi, il necessario è per ipotesi, ma non come fine» (Phys., 200 a 6-14). 74. Sull’uso del metodo matematico e sulla sua determinazione in Aristotele si veda, tra gli altri, l’eccellente studio di G. APOSTLE, Aristotle’s Philosophy of Mathematics, Chicago 1952. 75.Phys., 200 a 16. 76. Cfr. Ross, Commentary, cit., p. 531. 77. Cfr. Phys., 200 a 22-24. 78. Cfr. Phys., 200 a 15-26. Le relazioni qui indicate sono riassunte in una tabella

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complessiva nella nota n. di pag. 183. 79.Phys., 200 a 34-35. 80.Phys., 200 a 33-34. 81.Phys., 184 a 10-16: 82. In proposito cfr., tra gli altri, M. MIGNUCCI , La teoria aristotelica della scienza, Firenze 1965; G. CAPOZZI , Giudizio, prova, verità. I princìpi della scienza nell’analitica di Aristotele, Napoli 1874 e M. ZANATTA, Lineamenti della teoria aristotelica della scienza, in AA. VV., La ricerca filosofica Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, a cura di L. Russo, Palermo 1996, pp. 315-334. 83. Cfr. Metaph., 1026 a 4: τo τι έoτι ζητεΐν. 84. Cfr. Anal. Post., II, 19. 85. La dimostrazione è, infatti, il procedimento conoscitivo tipico della scienza (cfr. Eth. Nic., 1139 b 31-32). 86.Anal. Post., 71 b 21-22. 87. Cfr. Anal. Post., 75 a 42-b 1. 88. Cfr. Top., 101 b 38; Anal. Post., 91 a 1; 93 b 29; 94 a 11; Metaph., 1031 a 12. 89. Cfr. Anal. Post., 72 a 14-24. 90. Cfr. Anal. Prior., 46 a 17-23; Metaph., 997 a 18-22; 28-30; 1003 a 23-26; 1025 b 7-10. 91. Cfr. Anal. Post., 76 a 4-15. 92. «Soggetto primo» di una scienza è il termine dell’estensione del soggetto considerato per sé (καϑ αὑτό) e in quanto tale ᾗ αὑτό): per esempio, il triangolo in quanto triangolo, dal momento che la proprietà di avere la somma degli angoli interni uguali a due retti si dice di quest’ente geometrico non in quanto esso sia una figura, ma per il fatto di essere triangolo (cfr. Anal. Post., 73 b 26-27). Il «soggetto primo» è, dunque, il termine primo al quale il predicato appartiene per sé, mentre agli altri soggetti esso appartiene perché sono questa determinazione prima: per esempio, al triangolo isoscele la proprietà anzidetta appartiene perché è triangolo (cfr. Anal. Post., 73 b 32-74 a 3). 93. Cfr. Metaph., 1061 b 19-25. 94. Infatti, il soggetto della premessa maggiore, ossia il termine medio, predicandosi, nella minore, del soggetto della dimostrazione, è necessariamente più universale di quest’ultimo, ovvero si estende a un numero di determinazioni più grande di quello che costituisce il γένoς ὑπoκείμενoν della specifica scienza. 95. Cfr. Anal, Post., 76 a 37-b 2. 96.Metaph., 1025 b 10-12. 97.Metaph., 995 a 13-14. 98. Ciò è ribadito, per altro, anche il Metaph., 1026 a 4-6, dove lo Stagirita afferma che «nelle realtà naturali si deve ricercare l’essenza (τὸ τί ἐστι ζητεῖν)» e che «è proprio del fisico indagare anche intorno ad alcuni tipi di anima, cioè quelli che non sono senza materia». Quest’ultima affermazione equivale a quella per cui al fisico compete d’indagare anche intorno alla forma, dal momento che l’anima è la forma dei viventi: quella vegetativa, delle piante; quella sensitiva, degli animali; quella razionale, dell’uomo. 99. È necessario tener conto del fatto che Aristotele concepisce la «causa» (αἰτία, αἴτιoν) come «spiegazione», ossia come «ragione per la quale» qualcosa è così come è, e non nell’accezione che il termine ha assunto a partire dalla filosofia moderna. Si tratta di un’istanza che gli studiosi hanno messo ben in chiaro. Cfr. in proposito M. HOCUTT, Aristotle’s four becauses, «Philosophy» 49 (1974), pp. 385399; J. ANNAS, Aristotle on inefficient causes, «Philosophical Quarterly» 32 (1982), pp. 311-326; R. K. K. SORABJI , Causation laws and necessity, in AA. VV., Doubt and dogmatism. Studies in hellenistic epistemology, by M. Schofield, Oxford 1980, pp. 250-282. Per parte sua Natali (C. NATALI , Aitia in Aristotele, Causa o spiegazione?, in AA. VV., Beiträge zur antiken Philosophie. Festschrift für Wolfgang

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Kulimann, herausgegeben von Hans Christian Günther und Antonios Rengatos, mit einer Einleitung von Ernst Vogt, Stuttgart, Franz Steiner Verlag 1997, pp. 113-124) ha precisato che non si tratta soltanto di «spiegazione», «se ciò significa che [la causa] è solo un modo soggettivo, o solo a-priori, di vedere le cose», ma che «il pensiero di un’aitia è una connessione reale» (p. 114). Così anche J. MORAVCSIK, What makes reality intelligible? Reflexions on Aristotle’s theory of aitia, in AA. VV, Aristotle Physics: a collection of essays, ed. by L. Judson, Oxford 1991, pp. 31-47. 100. L’uso del metodo dialettico nella Fisica è stato ampiamente documentato da E. BERTI nel capitolo dedicato, per l’appunto, a Il metodo della fisica del suo volume Le ragioni di Aristotele, Bari-Roma 1988, pp. 43-73 e in Les méthodes d’argumentation et de démonstration dans la Physique (apories, phénomènes, principes), in AA. VV, La physique d’Aristote et les conditions d’une science de la nature, a cura di F. de Grandt et P. Souffrin, Paris 1991, pp. 5372. 101. Cfr. Top., 101 a 36-b 4. 102.Sopii. EL, 165 a 38-b 2. 103. Cfr. A nal. Post., 97 a 21-23. 104. Cfr. BERTI , Le ragioni di Aristotele, cit, p.15. 105. Cfr. Top., 101 a 26-28. 106. Cfr. Top., 101 b 35-26. 107.Top., 163 b 9-11. 108.Phys., 211 a 7-11. 109.Eth. Nic., 11 45 b 2-7. 110.De Coelo, 729 b 5-7. 111. Cfr. De Interpr., 17 b 26-27. 112. Cfr. Phys., 184 a 21-26. 113. Cfr. Phys., 184 a 26-b 3. 114.Metaph., 1025 b 12-13 115.Phys., 184 a 16-24 116.Phys., 184 a 26. 117.Phys., 184 a 23. 118.Phys., 184 b3. 119.Phys., 184 a 23. 120.Phys., 184 a 2 4-25. 121.Metaph., 1025 b 32-33. Cfr. anche Metaph., 1030 b 8; De An., 429 b 13. In proposito si veda MANSION, Introduction à la physique aristotelieienne, cit, p. 71. 122.Metaph., 1026 a 5-6. 123. Cfr. Metaph., 1025 b 28. 124. Cfr. supra, pp. 37, 43. 125. Cfr. supra, la nota n. 121. 126.Metaph., 1026 a 15-16. 127.Phys., 193 b 33-35. 128. Cfr. Metaph., 1025 b 33-1026 a 1: «tutti i termini fisici sono usati in un’accezione simile a quella di camuso». 129.Metaph., 1025 b 6-7. 130.Metaph., 1025 b 7-8. 131.Metaph., 1025 b 12. 132.Metaph., 995 a 14-17. 133. La quiddità (τo τι ην είναι) è l’essenza, espressa dalla definizione, la quale a sua volta è data dal genere prossimo e dalla differenza specifica. I «generi» della definizione — e quindi

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della stessa quiddità — sono i «generi remoti», vale a dire quelli sotto cui cade il genere prossimo, fino a risalire, regressivamente, al genere categoriale. 134.Phys., 194 b 23-195 a 3. 135.Phys., 195 a 4. 136.Phys., 195 a 4-5. 137.Phys., 195 a 8-9. 138.Phys., 195 a 11-12. 139.Phys., 195 a 15-16. 140. Cfr. Phys., 195 a 26-27: «Le cause, dunque, sono queste e di questo numero per la specie; (τῷ εrἰδει)». 141.Phys., 19 5 a 27-29. 142.Phys., 195 1) 13-16. 143.Phys., 195 a 16-19. 144. Cfr. Phys., 195 b 21-25. 145.Phys., 1965 b 36 146. Cfr. Top., 196 a 5. 147.Phys., 196 a 7-10. 148.Phys., 196 a 19-20. 149.Phys., 196 a 28-35. 150.Phys., 196 b 5-9. 151. Cfr. Phys., 197 a 8-10: «Ora, è necessario che le cause dalle quali può prodursi ciò che è fortuito, siano indeterminate. Donde è opinione che anche la fortuna si annovera tra quel che è indeterminato ed è oscura per l’uomo». 152.Phys., 196 b 24-29. 153. Cfr. Phys., 197 a 5-6, dove la fortuna (τύχη) viene così definita: «causa per accidente, tra le cose conformi a scelta deliberata, di ciò che è in vista di qualcosa». 154.Phys., 197 a 14. 155.Phys., 197 a 19-20. 156.Phys., 197 a 21-25. 157. Cfr. Phys., 197 a 36 . b 1: «(Il caso e la fortuna) differiscono perche il caso ha maggiore estensione. In effetti, tutto ciò che proviene dalla fortuna, proviene dal caso, ma non tutto questo proviene dalla fortuna». 158. Cfr. Phys., 197 b 20-22: «"dalla fortuna" è proprio di tutte quelle cose che si producono dal caso, le quali possono essere oggetto di scelta deliberata per coloro che possiedono una scelta deliberata». 159. Cfr. Phys., 197 b 18-20: «nell’ambito delle cose che in senso assoluto vengono all’essere in vista di qualcosa, quando non si producano in vista dell’(esito) che arriva e la causa è al di fuori di esse, allora diciamo "dal caso"». 160. Cfr. Phys., 197 b 6-8. 161. Cfr. Phys., 197 b 13-18. 162. Cfr. Phys., 198 a 5 -10. 163. Cfr. Phys., 184 b 15-22. 164. Cfr. Phys., 184 b 22-25. 165. Cfr. Phys., 184 b 25-185 a 20. 166.Phys., 185 a 10-11; 186 a 7-8 167. Sull’esplicita affermazione che «l’essere si dice in molti sensi» e sulla distinzione dei significati categoriali si costruisce la prima critica, secondo la quale non è chiaro in che senso l’essere può essere uno: 〈a〉 come sostanza, o qualità, ecc., 〈b〉 oppure come una determinata sostanza, o qualità, ecc. (Phys., 185 a 21-27). Su tale distinzione si radicano tutti i rilievi anche

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della seconda critica, per la quale, poiché l’essere è multivoco, 〈a〉 se è costituito da sostanze, qualità, quantità, ecc., allora non è uno, ma molteplice; 〈b〉 se è costituito di sole qualità, o quantità, ecc., allora si ha l’assurdo di determinazioni non sostanziali separate; 〈c〉 se, come dice Melisso, è infinito, poiché «infinito» è una quantità, 〈1〉 se è sostanza e quantità, non è uno; 〈2〉 se è soltanto sostanza, non è infinito e non ha grandezza (Phys., 185 a 27-b 5). L’affermazione che non soltanto l’essere, ma anche l’uno (che si coestende con esso) si dice in molti sensi e significa (a) il continuo, (b) l’indivisibile e (c) l’identità della definizione, sta alla base del terzo ordine di critiche, per le quali, (a) se l’essere è uno come continuo, è molteplice, stante che il continuo è divisibile all’infinito; (b) se lo è come indivisibile, poiché indivisibile è soltanto il limite e non anche il limitato, non sarà né infinito, come pretende Melisso, né finito, come vuole Parmenide; (c) se lo è perché tutte le cose hanno la stessa definizione, saranno identici anche gli opposti e si finirà per dire che tutto è niente, non che tutto è uno (Phys., 185 b 5-25). Il timore che l’uno e l’essere si dicano in un solo senso viene altresì indicato come l’istanza che sorresse «gli ultimi degli Antichi» nel loro affaticarsi a trovar soluzioni quali sopprimere «è» o mutare l’espressione (da «è bianco» in «si è sbiancato», o da «è camminante» in «cammina»), al fine di evitare che per gli enti l’uno e i molti siano lo stesso (Phys., 185 b 25186 a 3). Inoltre, la prima critica di Parmenide afferma che il suo ragionamento è falso perché parla dell’essere in senso assoluto, mentre si dice in molti sensi (Phys., 186 a 24-25). 168. Così nella prima critica della posizione eleatica: non ammettendo la multivocità dell’essere, si finisce per negare l’esistenza di ciò a cui l’essere è accidentale, per cui qualcosa che è, non è (Phys., 186 a 32-b 4). 169. Così in Phys., 186 a 14-23, dove si afferma la necessità di distinguere nella definizione molti significati dell’essere in quanto essere, ciascuno dei quali è essere in quanto essere. 170.Phys., 188 a 19. 171.Phys., 188 a 19-26. 172. Di ἀνάλoγoν, infatti, parla espressamente Aristotele (cfr. Phys., 198 a 1). 173.Phys., 189 a 1-9. 174.Phys., 188 a 27 -30. 175. In Cat., 10 si precisa che ammettono intermedi quei contrari, uno o l’altro dei quali non è necessario che appartenga alla cosa (come, per esempio, il bianco e il nero), mentre non ne ammettono quelli dei quali uno o l’altro necessariamente le appartiene. 176.Phys., 188 b 21-26. 177.Phys., 189 a 13. 178.Phys., 189 a 13-14. 179.Phys., 189 a 14-15. 180.Phys., 189 a 15-17. 181.Phys., 189 a 17-20. 182.Phys., 189 a 22-23. 183.Phys., 189 a 27-33. 184. Cfr. Phys., 189 b 2-3. 185.Phys., 189 b 3 186. Cfr. Phys., 190 a 31-b 10. 187. Cfr. Phys., 190 a 31: «πoλλαχῶς Οὲ λεγoμένoυ τoῦ γίγνεσθαι». 188. Cfr. Phys., 190 a 21-31. 189.Phys., 190 a 31-33. 190. Cfr. Phys., 190 a 191.Phys., 190 b 23-24. 192.Phys., 190 b 10-13. 193. Cfr. Phys., 192 a 9 sgg. 194. Cfr. Phys., 191 a 7-13.

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195. Cfr. Phys., 191 a 13-14. 196. Cfr. Metaph., 1055 a 32-34. 197. Cfr. Metaph., 1018 a 25-31 Si tratta propriamente del secondo e del terzo significato di contrario, tra i cinque qui distinti. 198. Sul punto e, in generale, sulle questioni inerenti alla nozione di privazione, cfr. il commentario della mia edizione delle Categorie, Milano 1989, pp. 654 sgg. 199. Sul significati di privazione cfr. Metaph., V, 22. Su quella che qui viene indicata come privazione propria o secondo natura, si veda l’ampia trattazione di Cat., 12 a 26 sgg. 200. L’identificazione di uno dei contrari con la privazione della forma comporta — mi pare — il seguente problema: poiché la forma non soltanto costituisce uno dei significati della sostanza, ma rappresenta la sostanza in senso primario, com’è detto in Metaph., VII, si ha allora che la sostanza ammette contrarietà, mentre in Cat., 3 b 24-25, si precisa che essa non ha contrario (ma, restando una e identica, accoglie i contrari). Il problema, innanzitutto, va circoscritto, in quanto non ogni forma è sostanza, ma unicamente la forma delle realtà sostanziali, siano esse individuali, specifiche o generiche. Così, la forma (0 essenza) del bianco, non e una sostanza, laddove è sostanza la forma di uomo, giacché questo secondo o una sostanza, per cui anche la sua essenza è una sostanza, mentre il bianco è una qualità, e l’essenza di una qualità non è una sostanza. Questo del resto è pienamente coerente con le analisi di Metaph., VII, dove si stabilisce che la sostanza (in uno dei suoi significati) è forma, per cui la forma (o essenza) ha un’estensione maggiore della sostanza, potendo effettivamente darsi, come si è testé visto, anche una forma che non sia sostanza — anche se, sotto un altro profilo, e cioè in riferimento alla forma sostanziale, la forma è meno estesa della sostanza, la quale esprime anche altri significati. In secondo luogo va precisato che la teoria della sostanza sviluppata nelle Categorie prescinde dalla materia e dalla forma, che rappresenta un’acquisizione dottrinale più tarda. Nel quadro di queste precisazioni credo si debba riconoscere che effettivamente, nel caso della forma sostanziale, si dia una sostanza che ha contrario. Ciò tuttavia non soltanto non smentisce la trattazione di Cat., 5, giacché la sostanza qui in oggetto è, innanzitutto e primariamente, quella individuale e solo secondariamente quella universale — specifica e generica —, e nessuna di queste sostanze ha contrario, ma, a ben vedere, costituisce un approfondimento e un arricchimento di questa elaborazione, operati sulla base di un ulteriore sviluppo teorico. 201. Cfr. Phys., 192 a 3-6. 202. Cfr. Phys., 192 a 25-34. 203. Cfr. Phys., I, 8. 204. Cfr. Phys., 191 b 27-29. 205.Phys., 201 a 10-11. 206.Phys., 201 b 4-5. 207. In Phys., 226 a 23-26 Aristotele precisa che, «poiché non si dà movimento né della sostanza, né della relazione, né del fare e del patire, resta che il movimento è soltanto secondo la qualità, la quantità e il luogo. Che, in ciascuno di questi vi è contrarietà». Occorre tuttavia chiarire che in questo contesto della trattazione il movimento (κίνησις) è assunto in senso proprio, vale a dire come mutamento secondo il luogo, e dunque distinto dal mutamento (μεταβoλή). Ma là dove il movimento, assunto in senso generale e complessivo, non viene distinto dal mutamento (su ciò cfr. infra, pp. 68-70), poiché quest’ultimo in una sua specie si dice secondo la sostanza, allora anche il movimento si determina secondo questa categoria. 208. La dimostrazione che il movimento circolare è unico e continuo occupa l’intera trattazione di Phys., VIII, 8. 209. La relativa dimostrazione occupa la prima parte di Phys., VIII, 9. 210. Cfr. Phys., 229 a 7-b 10. 211. Cfr. Phys., 229 b 24-31.

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212. C fr. Phys., 229 b 31-230 a 7. 213. Si tratta, rispettivamente, della quarta e della prima specie in cui in Cat., 8 Aristotele divide il genere categoriale della qualità. Assieme agli abiti (ἓξεις), lo Staggita annovera nella prima specie anche le disposizioni (διαθέσεις). 214. Cfr. Phys., VII, 3. La dimostrazione, assai articolata, si scandisce nel modo seguente. Le prime non ammettono alterazione, dal momento che una cosa provvista di una certa forma e figura non si indica col nome della materia in cui sussistono quella forma e quella figura (per esempio, non si denomina la statua come bronzo o la piramide come cera), mentre viene indicata col nome delle affezioni e delle alterazioni (per esempio, si indica il bronzo con «umido», «caldo» e «duro»). Inoltre, l’alterazione non consiste nel generarsi delle cose, ossia nel raggiungere, esse, una data forma e figura, ma semmai la loro generazione ha luogo se si è alterato qualcosa. Quanto alla differenza dell’alterazione dagli abiti, essa è comprovata dal fatto che tra i secondi si annoverano anche le virtù e i vizi, i quali sono, rispettivamente, stati di acquisita perfezione e perdite di essa, ed è assurdo che il perfezionamento di qualcosa sia un’alterazione. In particolare, l’alterazione non consiste in abiti del corpo, giacché le virtù di questo si annoverano tra i relativi, ma né i relativi sono alterazioni, né di essi vi è alterazione, come neppure vi sono generazione e, in generale, mutamento. Né consiste in abiti dell’anima: innanzitutto perché anche questi sono relativi; inoltre, perché non può riguardare né gli abiti della parte sensitiva dell’anima, dal momento che questi, a seconda che siano virtù o vizi, la dispongono in modo buono o cattivo rispetto a specifiche passioni, e ciò che dispone in un dato modo non è un’alterazione, anche se si genera quando la suddetta parte dell’anima abbia subito un’alterazione, ad opera di qualche cosa sensibile (com’è chiaro dal fatto che le virtù etiche hanno a che fare con piaceri e dolori fisici); né può riguardare gli abiti della parte noetica (ossia della conoscenza intellettiva) o la loro presunta generazione, giacché anch’essi sono enti relativi, non si originano in seguito a un mutamento del soggetto (com’è invece per l’alterazione), l’uso e l’atto della scienza non sono una generazione, né lo è l’iniziale acquisizione di essa (dal momento che la ragione conosce e pensa restando in quiete e dell’essere in quiete non vi è generazione), infine perché, allo stesso modo in cui chi passa dall’ubriachezza alla sobrietà o dalla malattia alla salute non si è nuovamente generato, così non vi è generazione quando si acquisisce ex novo l’abito della conoscenza, la quale si istituisce col placarsi delle turbolenze dell’animo. Per questo i bambini, che sono in preda a forti turbamenti e movimenti dell’animo, non sono in grado di imparare e di giudicare le sensazioni come gli anziani. 215. Cfr. Phys., 225 a 20-32. In precedenza lo Stagirita, dopo aver posto che ciò che muta, muta o per accidente, o perché muta qualche sua parte, o per sé (parimenti, ogni motore muove o per accidente, o perché muove qualche sua parte, o per sé) e dopo aver precisato che il mutamento per accidente (che può darsi in ogni cosa) non è interessante, aveva chiarito che il mutamento per sé — la cui esistenza si conosce per induzione — ha luogo nei contrari, negli intermedi (che valgono come contrari rispetto agli estremi) e nei contraddittori. In tal modo esso può verificarsi o da un sostrato verso un sostrato, da un sostrato verso un non sostrato, o da un non sostrato verso un sostrato (nel caso di passaggio da un non sostrato verso un non sostrato non si può parlare di mutamento, giacché il mutamento è tra opposti, mentre i termini qui in causa non sono opposti). Pertanto, il mutamento per contraddi zione da un non sostrato verso un sostrato è generazione: assoluta (come la generazione di una sostanza dal non essere), o una certa generazione (come quella del bianco dal non bianco); da un sostrato verso un non sostrato è corruzione: assoluta (come la corruzione di una sostanza nel nonessere) o una certa corruzione (se perviene alla negazione dell’opposto da cui procede, come la corruzione del nero nel non-nero). 216. Cfr. Phys., 225 b 11 -13. 217. Cfr. Phys., 225 b 13-16. 218. Cfr. Phys., 225 b 10-11.

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219. Cfr. Phys., 218 a 19: μηδὲν oὲ διχχφερέτω λέγειν ἡμιν ἐν τῷ παρόντι κίνηoιν ἤ μεταβoλήν 220. Così Υ. Μ. TANNERY, Sur la composition de la Physique d’Aristote, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 7 (1894), pp. 225-229; 9 (1896), pp. 115-118. 221. Il che, del resto, è conforme a quanto Aristotele ha precisato in Phys., I, 1 (cfr. ante, pp. 43-44) e si riconduce, in ultima istanza, alla regola di procedere da ciò che è più noto per noi, ossia secondo la sensazione, la quale ha un carattere di globalità e di complessiva non distinzione, e dal nome, col quale si dice la cosa globalmente percepita, a ciò che è noto in sé, per progressive distinzioni. La sostanziale equivalenza di mutamento e movimento può infatti corrispondere, sotto un certo profilo, a un dato ancora vicino alla percezione sensibile (ancorché non s’identifichi senz’altro con essa, dal momento che chiama in causa un’analisi), nella misura in cui è proprio di quest’ultima non fare distinzione tra le due determinazioni; e per altro verso può corrispondere al momento della mera, iniziale denominazione della realtà globalmente percepita come diveniente in modo da comportare un mutamento totale, verso una distinzione che ha per corrispettivi la definizione e il concetto (λόγoς; cfr. Phys., 184 b 1). 222. Ross, Aristotle’s Physics, cit., Introduction, p. 7. 223. Ross, consentendo sul punto con Tennery, parla espressamente di «a method of approximation in which terms at first not distinguished are later disinguished from each other» (Aristotle’s Physics, cit, Introduction, p. 7). 224. Non condivisibile appare pertanto l’opinione di KODIER (Sur la compositum de la Physique d’Aristote, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 2 (189596), pp. 38-63) secondo cui l’assunzione delle generazione e della corruzione a specie del movimento corrisponde alla maturazione da parte di Aristotele di un punto di vista più scientifico. Già la motivazione che ne addusse lo studioso — ossia che tale assunzione comporta la riduzione del generarsi e del corrompersi a cambiamenti di qualità e questi a mutamenti di posizione: il che è quanto è andata acquisendo la scienza fisica del XIX secolo — risente pesantemente di un presupposto scientistico. Ma poi, come ha ben chiarito Ross {Introduction, cit., p. 8), le riduzioni in questione non rappresentano affatto una dottrina aristotelica: in Metaph., 1042 b 3 lo Stagirita afferma che generazione e corruzione comportano anche un cambiamento di qualità (non che coincidono con esso), e parimenti in Phys., 260 b 4 egli asserisce che nel mutamento qualitativo interviene anche un cambiamento di posizione. Ma tutto questo non significa affatto che l’un fenomeno si riduce all’altro. Per cui non ha senso parlare di identificazione delle tre specie di mutamento: della generazione e della corruzione con l’alterazione e di questa con la traslazione. 225.Phys., 224 b 7-8. 226. «Infatti — precisa Aristotele — (il motore) è capace di muovere per essere (motore) in potenza ed è motore per far passare all’atto; ma è capace di far passare all’atto il mobile, per cui l’atto di entrambi è unico, in modo simile a come l’uno rispetto al due e il due rispetto all’uno sono il medesimo intervallo, e quello (che si percorre) salendo e quello (che si percorre) discendendo. Queste cose, infatti, sono una, tuttavia la nozione non è una. Similmente è anche nel caso di ciò che muove e di ciò che è mosso» (Phys., 202 a 15-21). 227. Cfr. Phys., 202 a 21-202 b 5. 228. Cfr. Phys., 248 a 11-18. 229. Cfr. Phys., 248 a 18-b 12. 230. Cfr. Phys., 248 b 12-21. 231. Cfr. Phys., 248 b 21-249 a 2. 232. Cfr. Phys., 249 a 2-3. 233. Cfr. Phys., 249 a 3-29. 234. Cfr. Phys., 249 a 29-b 19. 235. Cfr. Phys., 249 b 19-26.

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236. Cfr. Phys., 249 b 27-30. 237. Cfr. Phys ., 249 b 30-250 a 3. 238. Cfr. Phys., 250 a 5. 239. Cfr. Phys., 250 a 6-7. 240. Cfr. Phys., 250 a 9-19. In base a quest’ultima acquisizione viene rigettato il paradosso con cui Zenone, per provare l’irrealtà del molteplice, sosteneva che, se un medimno di grani cadendo fa rumore, allora anche un solo grano e persino la decimillesima parte di esso cadendo lo procurano: giacché sono parte del medimno. (1 ) Tale ragionamento si fonda su ciò che si è escluso: se la forza prodotta dalla caduta di tutti i grani del medimno sposta l’aria producendo rumore, quella prodotta dalla caduta di un solo grano non sposta aria e dunque non produce rumore. (2) Inoltre, un solo grano non muove tanta aria quanta ne muoverebbe se fosse nel tutto (giacché la parte non è nulla per se stessa, ma è tale solamente in quanto in potenza è nel tutto) (cfr. Ρhys., 250 a 19-25). 241. Cfr. Phys., 250 a 28-b 7. 242. Cfr. Phys., 250 a 25-28. 243. Il che è puntualmente rilevato da Aristotele. Cfr. Phys., 250 b 15-18. 244. Cfr. Phys., 252 a 11-19. 245. Cfr. Phys., 252 a 19-32. 246. Cfr. Phys., 252 a 32-b 5. 247. Cfr. Phys., 252 b 10-12. 248. Cfr. Phys., 252 b 28-253 a 2. 249. Cfr. Phys., 252 b 12-16. 250. Cfr. Phys., 253 a 2-7. 251. Cfr. Phys., 252 b 17-28. 252. C fr. Phys. , 253 a 7-21. 253. Cfr. Phys., 251 a 16-28. 254. Sulla datazione pristina della dottrina aristotelica delle categorie, nate dalla revisione critica e dal perfezionamento della dialettica platonica, mi permetto di rinviare al saggio introduttivo della mia edizione delle Categorie (1a ed., Milano, Rizzoli, 1989). 255. Cfr. Phys., 251 a 28-b 10. 256. Cfr. Phys., VIII, 3, interamente dedicato all’analisi del problema suddetto. 257. C fr. Phys., 251 b 10-28. 258. Cfr. Phys., 251 a 28-b 5. 259. Cfr. ante, p. 70. 260. Cfr. Phys., 241 b 34-242 a 3. 261. Cfr. Phys., 254 b 7-255 a 18. 262. Cfr. Phys., 255 a 24-30. 263. Cfr. Phys., 255 a 30-b 5. 264. Cfr. Phys., 255 b 5-29. 265. Cfr. Phys., 242 a 55-68. Le argomentazioni possono essere così riassunte: se la serie dei motori fosse infinita, (1) ciascun motore, supposto come contiguo al mosso, muoverebbe e simultaneamente sarebbe mosso; (2) il movimento del motore e quello della cosa mossa sarebbero simultanei, (3) ogni termine della serie, ossia i motori e le cose mosse, sarebbe mosso da un altro termine, pur essendo il movimento di ciascuno numericamente uno. 266. Ciò, del resto, è espressamente affermato da Aristotele in Phys., 343 a 3940: la traslazione (φoρά), ossia il movimento secondo il luogo, è il «primo dei movimenti (πρώτη κινήσεων)». 267. Cfr. Phys., 242 b 59-243 a 2. 268. Cfr. Phys., 243 a 33-34.

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269. Cfr. Phys., 243 a 35-39. 270. Cfr. Phys., 243 a 41-244 a 6. 271. Cfr. Phys., 244 b 2245 a 11. 272. Cfr. Phys., 245 a 11-b 2. 273. Cfr. Phys., 256 a 4-13. 274. Cfr. Phys., 256 a 13-21. 275. Cfr. Phys., 256 a 22-b 3. 276. Cfr. Phys., 256 b 4-257 a 14. 277. Cfr. Phys., 257 a 14-27. 278. Cfr. Phys., 257 a 27-33. 279. Cfr. Phys., 257 a 33-258 a 5. 280. Cfr. Metaph., 1072 b 3. 281. Cfr. Metaph., 1073 a 5-6: «se dunque l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero». 282. Cfr. Metaph., 1072 b 18-24: «il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, per cui intelligenza e intelligibile coincidono. L’intelligenza, infatti, è ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l’intelligenza; e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente». 283. Cfr. Phys., 258 a 5-21. 284. Cfr. Phys., 258 a 21-27. 285. Cfr. Phys., 258 a 27-b 4. 286. Cfr. Phys., 260 a 5-10. 287. Cfr. Phys., 260 a 11-17. 288. Cfr. Phys., 260 a 17-19. 289. Cfr. Phys., 258 b 16-259 a 6. 290. Cfr. Phys., 259 a 6-13. 291.Cfr. Plzys., 259 a 13 -b 31. 292. Cfr. Phys., 259 b 31-260 a 10. 293. Cfr. ante, pp. 65, 67. 294. Cfr. Phys., 208 b 1-8. 295. Cfr. Phys., 208 b 8-22. 296. Tale, per esempio, per ciò che attiene alto e basso, la teoria di Epicuro. Λ riguardo cfr. N. W. DE WI TT, Epicurus and his Philosophy, Minneapolis 1964, p. 168; D. PESCE, Saggio su Epicuro, Bari 1974, p. 51; ID. , Introduzione a Epicuro, Bari 1981, p. 42. 297. Cfr. Phys., 210 b 4:-5 «ciascuno dei corpi e si porta per natura (φύσει) e permane nei luoghi propri». 298. Sulla teoria aristotelica del luogo si vedano, tra gli altri, A. SESMAT, La théorie aristotélicienne du lieu, «Revue Philosophique» 38 (1938), pp. 477-500; V. GOLDSCHMIDT, La théorie aristotélicienne du lieu, in ΛΛ. VV., Mélange de Philosophie grecque offerì à Mgr. M. Diès, Paris 1956, pp. 79-121 e G. VERBEK E, Ort und Raum nach Aristoteles und Simplicius. Eine philosophische Topologie, in ΛΑ. VV., Aristoteles als Wissenschaftstheoretiker, hrs. von J. Von Irmscher und R. Müller, Berlin 1983, pp. 113-122. 299. Cfr. Phys., 208 b 25-27. 300. Cfr. 208 b 27-209 a 2. 301. Cfr. Phys., 209 a 31-b I.

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302. Cfr. Phys., 209 b 1-2. 303. Cfr. Phys., 209 b 2-7 . 304. Cfr. Phys., 209 b 22-32. 305. Cfr. Phys., 209 1) 3 2 - 3 306. Cfr. Phys., 209 t) 33-2 10 a 2. 307. Cfr. Phys., 210 a 2-5. 308. Cfr. Phys., 210 a 5-9. 309. Cfr. Phys., 210 a 9-11 . 310. Con un’operazione di chiara marca dialettica, Aristotele distingue otto sensi in cui una cosa può dirsi in un’altra e precisa che «il (modo) principale fra tutti è "come in un vaso e in generale in un luogo" (τὸ ὡς ἐν ἀγχείω και ὅλως ἐν τόπω)» (Phys., 210 a 24). Proprio in rapporto al vaso, come subito vedremo, il filosofo determina la natura del luogo. 311. Cfr. Phys. , 210 a 25-b 22. 312. Cfr. Phys., 210 b 32-34: «Assumiamo in merito a esso (scil, al luogo) tutto ciò che comunemente si ritiene con verità (δoκεῖ ἀληθῶς) che gli appartiene per sé». 313. Cfr. Phys., 210 a 34-b 6. 314. Cfr. Phys., 210 b 6-11. 315.Phys., 210 b 11. 316. A riguardo si vedano, tra gli altri, F. BRENTANO, Philosophical Investigations on Space, Time and the Continuum, translated by B. Smith, London 1988; G. GRANGER, Le concepì de continu chez Aris tote, «Les Études Philosophiques» 21 (1969), pp. 513-523; I). FURLEY, The Greek Commentator’s Treatment of Aristotle’s Theory of the Continuous, in AA. VV., Infinity and Continuity in Ancient and Medieval Thought, ed. by N. Kretzmann, Ithaca, New York and London 1982, pp. 104-131; M. CAVEING, Quelques remarques sur le trailement du contimi dans les Élements d’Euclide et la Physique d’Aristote, in Penser les mathématiques, Paris 1982, pp. 23-37; F. D. MILLER, Aristotle against the Atomist, in AA. VV., Infinity and Continuity, cit., pp. 203-225; R. SORABJI , Time, Creation and the Continuum, London and Ithaca (New York) 1983; M. INWOOD, Aristotle on Continuity in Physics, in AA. VV., Aristotle’s Physics: a Colleclion of Essays, ed. by L. Judson, Oxford 1991, pp. 15 1-178; 1). BOSTOCK, Aristotle on Continuity in Physics VI, in AA. VV, Aristotle’s Physics: a Collection of Essays, cit., pp. 179-212; ID. , Time and Continuum, «Oxford Studies in Ancient Philosophy» 6 (1988), pp. 255-270; H. J. WASCHK IES, Mathematical Continuum and Continuity of Movement, in AA. VV, La physique d’Aristote et les conditions d’une science de la nature, cit., pp. 121-150. 317. Queste nozioni sono definite da Aristotele in Phys., V, 3, dove dapprima dà una serie di chiarimenti terminologici e concettuali, precisando che r) sono «insieme secondo il luogo» le cose che sono in un unico luogo primo; «separatamente», quelle che sono in un luogo primo diverso. 2 ) «sono in contatto» — ossia contigue — le cose i cui estremi sono insieme. 3) L’«intermedio» (che ha luogo tra i contrari, non tra i contraddittori) è il termine cui per natura giunge la cosa che muta prima di pervenire all’estremo di un mutamento naturale e continuo. 4) «Si muove con continuità» ciò che non lascia nessun intervallo nella cosa o ne lascia pochissimo. 5) E «contrario secondo il luogo» ciò che dista massimamente lungo la retta. 6) È «consecutivo» ciò che tra sé e la cosa cui è consecutivo non ha nulla di omogeneo. 7) Sono «contigue» quelle cose consecutive che sono in contatto. 8) Sono «continue» quelle cose contigue che hanno un limite in comune. Le cose continue formano alcunché di unico e di intero. Indi lo Stagirita precisa che 1) tutto ciò che è contiguo è consecutivo, mentre non tutto ciò che è consecutivo è anche contiguo; 2) tutto ciò che è continuo è contiguo, mentre non tutto ciò che è contiguo è anche continuo. Per cui la nozione prima è quella di consecutivo. 318. Cfr. Cat., 4 b 23-25. Per un chiarimento sul punto si rinvia al saggio introduttivo e al commento della mia edizione delle Categorie, Milano 1989, pp. 112 sgg. e 496 sgg.

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319. Cfr. Phys., 211 a 23-212 a 6. 320.Phys., 212 a 20. 321. Cfr. SESMAT, La Théorie aristotélìcienne du lieu, cit, p. 483. 322. Sul punto mi permetto di rinviare ancora al mio commento delle Categorie, pp. 456 sgg. 323. Cfr. Phys., 212 b 27-29. 324. Cfr. Phys., 212 a 31-32. 325. Cfr. Phys., 212 a 8-11. 326. Cfr. Phys., 212 b 3-4. 327. Cfr. Phys., 212 b 7-13. 328. Quest’istanza discende come corollario dalla proprietà del luogo di essere un limite. In quanto tale, infatti, esso deve limitare qualcosa, per cui non può esserci luogo — ossia il limite del contenente — se non sussiste la cosa limitata. 329. Cfr. Phys., 213 b 31-214 a 3. 330. Cfr. Phys., 214 a 1628. 331. Cfr. Phys., 214 a 9-11. 332. Cfr. Phys., 214 a 26-32. 333. Cfr. Phys., 214 a 32-b 1. 334. Cfr. Phys., 214 b 1-9. 335. Cfr. Phys., 214 b 28-215 a 14. 336. Cfr. Phys., 215 a 19-22. 337. Cfr. Phys., 215 a 22-24. 338. Cfr. Phys., 215 a 24-b 22. 339. Cfr. Phys., 214 b 14-19. 340. Cfr. Phys., 215 b 22-216 a 11. 341. Cfr. Phys., 216 a 11-21, 342. Cfr. Phys., 216 a 26-b 2. 343. Cfr. Phys., 216 b 2-12. 344. Cfr. Phys., 216 b 12-16. 345. Cfr. Phys., 216 b 17-21. 346. Tali argomenti sono svolti dallo Stagirita in Phys., 216 b 30 217 a 10 e possono così indicarsi: (1) se per rado s’intende ciò che ha molti vuoti separati, poiché il vuoto non esiste come separato, non esiste il rado; (2) se invece il vuoto non è separato, ma è diffuso nei corpi, allora (a) si spiega soltanto il movimento verso l’alto; (b) il vuoto ha un luogo e si muove nel vuoto; (e) non si spiega il movimento verso il basso; (d) la velocità del movimento verso l’alto è infinita. 347. Sulla teoria aristotelica del tempo si vedano, tra gli altri, R. MONDOLFO, Eternità e infinità del tempo in Aristotele, «Giornale Critico della Filosofia Italiana» 3 (1933), pp. 30-43; M. DEHN, Raum, Zeit, Zahl bei Aristoteles, vom mathematischen Standpunkts, «Scientia» 60 (1936), pp. 12-21; 69-74; P. F. CONEN, Aristotle’s Definition of Time, «New Scholasticism» 26 (1952), pp. 44T-458; F. Λ. RUCH, Space and Time. A Comparative Study of Theories of Aristotle and Einstein, Pretoria 1958; M. DE TOLLENAERE, Aristotle’s Definition of Time, «International Philosophical Quarterly» 1 (1961), pp. 453-467; P. F. CONEN, Die Zeittheorie des Aristoteles, Zetemata. Monographien zur klassischen Altertumswissenschaften, Heft 35, München 1964; J. MOREAU, Le temps et Vinstant selon Aristote, in ΛΑ. VV., Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast, hrs. von I. Düring., Heidelberg 1969, pp. 106-131 ; J. ANNAS, Aristote, Number and Time, «Philosophical Quarterly» 25 (1975), pp. 97113; D. CORISH, Aristotle’s Attempted Derivation of Temporal Order from (hat of Movement and Space, «Phronesis», 21 (1976), pp. 241-252; G. F. L. OWEN, Aristotle on Time, in AA. VV., Motion and Time, Space and Matter, ed.

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376. Cfr. Phys., 206 a 14-29. 377. Cfr. Phys., 206 b 3-12. 378. Cfr. Phys., 206 b 16-20. 379. Cfr. Phys., 207 a 33-21 . 380. Cfr. Phys., 206 b 33-207 a 7. 381. Cfr. Phys., 207 a 10-15. 382. Cfr. Plys., 207 a 26-28. 383. Cfr. Phys., 207 a 25-26.

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l’essenzialità della sua funzione peirastica, cioè critica e valutativa degli asserti, nella stessa realizzazione del sapere epistematico — oltreché, ben inteso, nell’istituzione dei principi delle scienze: tanto di quelli propri che di quelli comuni —; indi, e con esatto riferimento ai procedimenti per i quali essa è peirastica, si è trovata investita anche di quella capacità conosciti va (Berti) che certi testi aristotelici sembrerebbero a tutta prima negarle in modo assoluto e che, d’altro canto, proprio la radicata convinzione che non le appartiene aveva contribuito a farla ritenere inadatta alla filosofia. A tal punto che, quand’anche si ammise (Aubenque, Lugarini) che la filosofia ha costitutivamente rapporto con la dialettica, ma non si riconobbe a quest’ultima la possibilità di dar vita a un sapere connotato dei caratteri propri della scienza, si finì inevitabilmente per negare valore epistematico alla filosofia stessa. Né può dirsi che un tale rinnovamento negli studi aristotelici corrisponda, in essenza, a una semplice questione di chiarimento e, per così dire, di puntualizzazione metodologici: quasi che la sua rilevanza si limiti all’aspetto per cui è venuto in chiaro che non soltanto i procedimenti dell’apodittica, definiti negli Analitici secondi, segnano per Aristotele il percorso della scienza, come per lungo tempo si è creduto, ma, accanto alla via apodittica, che corrisponde al momento dell’esposizione e dell’insegnamento delle dottrine, ossia al momento propriamente didascalico, si pone anche la via dialettica, la quale ha peso e rilevanza soprattutto nel momento specificamente euristico della scienza medesima. In realtà, quel rinnovamento si presenta con i tratti sintomatici di un vero e proprio mutamento nell’interpretazione della filosofia aristotelica, per molti aspetti raffrontabile, ma secondo un rapporto inverso, a quello che, in linea cronologica, Werner Jaeger inaugurò nel 1923, introducendo il cosiddetto metodo di ricostruzione storico-genetica. Quest’ultimo, in effetti, marcò un superamento dell’approccio sistematico allo Stagirita (che da allora in poi, salvo qualche rara eccezione, inevitabilmente destinata a non avere seguito tra gli studiosi, non poté più essere riproposto) e pose l’accento sull’aspetto storico del suo pensiero, enfatizzandolo però fino a pensarlo come evoluzione, scandita da fasi relazionate tra loro in termini di superamento; per cui l’unità di quel pensiero stesso risultava dissolta in una successione di momenti — peraltro diversamente e persino antiteticamente prospettati dai sostenitori di quest’indirizzo esegetico — tra loro in rapporto di esclusione. Ora, il rinnovamento in oggetto recupera l’unità del pensiero dello Stagirita, ma non in termini di sistema, bensì di articolazione del metodo, anzi dei metodi d’indagine, giacché ne riconosce operanti più d’uno, ciascuno dei quali si attua, nei diversi ambiti in cui è impiegato, secondo analoghe 128

scansioni: mette cioè in opera procedimenti che sono identici dal punto di vista formale, ma si differenziano sia in rapporto al tipo di contenuto che pongono per così dire in campo, sia per il grado di maggiore o minore appropriatezza allo studio di un determinato genere di realtà. Così, per esempio, dal punto di vista formale un sillogismo dialettico non è per nulla differente da un sillogismo apodittico o dimostrativo, ma se ne distingue per il tipo di premesse da cui procede, ossia per il contenuto che articola, nonché per il fatto di essere più o meno adeguato a certi ambiti del sapere: pertinentissimo, per esempio, nel campo dell’etica e della politica, vale a dire di quelle scienze che vertono su realtà che non soltanto «possono essere diversamente da come sono (τὰ ενδεχόμενα ἄλλως ἔχειν)», ma «dipendono da noi (τα εφ’ ήμΐν)» e costituiscono perciò l’oggetto di una scelta deliberata e di un’azione, non è adatto alle matematiche, cui si confà, invece, in maniera esclusiva la dimostrazione. Questa stessa, che ha ampia parte anche nelle ricerche di fisica, pur essendo dal punto di vista strettamente formale tanto rigorosa in quest’ambito quanto lo è nel campo delle matematiche, non perviene però, nelle prime, a conclusioni ugualmente rigorose che nelle seconde, a motivo della diversa necessità che regge le proposizioni dell’una e dell’altra scienza (si badi: della diversa necessità non del modo in cui, nelle dimostrazioni fisiche e matematiche, dalle proposizioni viene dedotta la conclusione, ma di ciò intorno a cui enunciano le proposizioni dell’una e dell’altra disciplina, vale a dire delle proposizioni da cui procedono le dimostrazioni di entrambe), ossia, in ultima analisi, dell’oggetto cui si applica. Vige insomma, anche a proposito dei procedimenti investigativi posti in campo dalle scienze, quella stessa unità di rapporto (πρoς εν) e non di genere che costituisce la struttura portante della concezione aristotelica dell’essere. Ed è ben logico che sia così, se si pone mente al fatto che per Aristotele il sapere ha un carattere essenzialmente realistico, di modo che quella differenziazione e, al tempo stesso, quel tipo di unità (in una parola, quella stessa articolazione) che compete al reale, compete anche alla relativa conoscenza e alla sua organizzazione metodologica, ossia alle vie con cui la si raggiunge. E come l’essere è originariamente molteplice, perché originariamente articolato secondo un’irriducibile pluralità di generi, ma non senza ammettere una certa unità: di rapporto, per l’appunto, e non entro un (irreale e impossibile) genere supremo in cui si comprenda la totalità dell’esistente, così questa stessa struttura che chiama in causa la pluralità e l’articolazione, ma al tempo stesso l’unità relazionale, s’addice anche ai metodi con cui il reale viene conosciuto. Questo tipo di unità della concezione aristotelica del sapere e, in generale, del pensiero del grande 129

filosofo greco, scandita com’è sull’analogia, cioè sull’unità di rapporto, dei metodi d’investigazione e sulla rivalutazione della dialettica, è ciò che particolarmente emerge dal suddetto rinnovamento degli studi sullo Stagirita. E proprio in essa, in modo del tutto preminente e particolare, può scorgersi l’istanza secondo cui quel rinnovamento stesso ha costituito — si diceva — un mutamento nel campo dell’interpretazione di Aristotele di pari rilevanza ed entità, ma di segno contrario, a quello posto in essere dall’impiego del metodo storico-genetico. Alla rivalutazione della dialettica e alla pluralità dei metodi d’indagine, nei termini che or ora si sono precisati, si connette altresì l’idea di una pluralità dei modelli di ragione operanti in Aristotele e, anzi, da lui teorizzati: anch’essi unitariamente legati secondo un rapporto analogico, non fosse per altro se non perché ciascuno si esprime facendo uso di metodi d’indagine che si rapportano in questa modalità. Vi si connette, inoltre, l’importanza data al linguaggio nell’analisi del reale, sia nel senso che, per ampio tratto, l’investigazione di questo si compie attraverso l’indagine delle espressioni che lo dicono e dei diversi significati in cui esse si proferiscono, sia in quello per il quale è nel linguaggio che viene in luce la struttura degli enti, cosicché l’esame di questi muove dall’esame di quello. Vi si connette, infine, la necessità dell’esame e del confronto delle opinioni, onde avvalorare quegli aspetti di esse che, al vaglio della critica (ecco la dialettica nella sua funzione peirastica ed exetastica), si rivelano confacenti e adeguate, e, per contro, correggere e rimuovere quelli di cui l’indagine intesa a saggiarle mette in luce l’intrinseca insostenibilità. Ora, un tale rinnovamento nella linea esegetica della filosofia aristotelica non poteva lasciare intatta la fisica. E di fatto gli studi più recenti e accreditati (a partire da quelli del Wieland, la cui monografìa sull’argomento è ormai diventata un classico e oggigiorno costituisce un punto di riferimento obbligato, al pari di come, nel quadro dell’esegesi storico-genetica, lo è stata quella del Mansion) hanno puntualmente individuato nelle procedure anzi richiamate e in altre ancora, facenti complessivamente capo alla dialettica, l’articolazione metodica fondamentale attraverso cui si snodano le argomentazioni di questa scienza. Ne sono risultati esiti che, visti nell’ottica dell’interpretazione tradizionale, appaiono addirittura sorprendenti. Basti pensare — una tra tutte — alla diversa nozione di natura (φύσις) e di enti naturali (τὰ φύσει ὄντά) che esce da queste indagini. La presente edizione, come si diceva all’inizio, intende riproporre l’importante trattato aristotelico nel quadro di un siffatto rinnovamento 130

esegetico. A tale rinnovamento guarda innanzitutto il saggio introduttivo. In esso si sono voluti presentare i capisaldi della fisica fissando particolarmente l’attenzione sugli aspetti metodologici delle argomentazioni con le quali Aristotele li indaga. Di fatto, si è cercato di dare il massimo spazio ai movimenti di pensiero e alle strutture procedurali che si sottendono all’acquisizione delle fondamentali dottrine, nella convinzione che proprio il risalto che esse hanno in rapporto al metodo con cui vengono guadagnate ne pone innanzitutto in luce il significato. Si è trattato, in buona sostanza, di addentrarsi nei nessi che legano istanza a istanza nell’ambito dell’unità testuale chiamata di volta in volta in causa, sul presupposto che essa è pienamente intelligibile in se stessa, in quanto provvista di un’autonoma e intrinseca razionalità, tale da non esigere, per essere compresa, il ricorso ad altri testi paralleli, disposti in altri trattati. Certo, una tale indagine risulta particolarmente adatta a stabilire rapporti di successione cronologica tra i testi e, laddove i testi hanno riguardato πραγματείαι adunate negli otto libri della Fisica, non si ci è esentati dal porvi mano. Il caso della classificazione dei movimenti può servire a illustrare il punto. Ma la preoccupazione fondamentale non è mai stata quella di reperire una datazione fine a se stessa, bensì quella di accertare anche tramite il rilievo cronologico, ossia sulla base dell’accertamento istituito tra trattazioni cronologicamente succedanee, l’impiego da parte di Aristotele di certe medesime strutture argomentative e la presenza di identiche procedure logiche. Di proposito non si sono voluti istituire raffronti, invece, se non in maniera del tutto generale, tra testi paralleli appartenenti a opere diverse: per non estendere ulteriormente una materia risultata, alla fine, già ampia, ma — soprattutto — perché l’intento principe del saggio introduttivo è stato — come si accennava — quello di analizzare la Fisica «in se stessa», sulla base della convinzione predetta. Questo criterio (che sicuramente è discutibile) ha indotto il curatore, per esempio, a esimersi dal confrontare la dimostrazione dell’esistenza del motore immobile eseguita nell’ultimo libro dell’opera con quella — altrettanto e, anzi, ancor più nota — operata nella seconda parte del dodicesimo libro della Metafisica. Egli ha invece preferito seguire tutte le articolazioni di quella dimostrazione (così, almeno, è stato nei suoi intendimenti), a partire dalle complicate analisi del libro settimo e nel contesto della teoria generale del mutamento e del movimento, giacché ha ritenuto che, se la dimostrazione in oggetto costituisce una sorta di completamento di quella teoria, come con un ampio margine di sicurezza sembra esser stato per Aristotele, allora è soprattutto in questa chiave di lettura che essa può mettere a nudo il suo significato. Forse, invece, un raffronto tra la 131

dimostrazione della Fisica e quella della Metafisica avrebbe spostato l’attenzione sul momento teologico del pensiero aristotelico, con le questioni indubbiamente interessantissime che esso solleva, a iniziare da quella — ampiamente dibattuta — dell’unità o della pluralità dei motori immobili, ma non del tutto essenziali per comprendere la teoria del movimento, che indubbiamente costituisce un tema di rilevanza preminente nell’ambito delle indagini fisiche come tali. Quanto alla traduzione (condotta innanzitutto e fondamentalmente sul testo stabilito dal Ross, ma con l’occhio sempre attento all’edizione critica del Carteron), essa è stata eseguita secondo gli stessi criteri con i quali da anni il curatore si è accinto alla traduzione di altre opere dello Stagirita, in specie, e dei testi filosofici greci, in genere, sia in questa collezione della UTET che nelle edizioni BUR della Rizzoli. E come nelle altre traduzioni si è fondamentalmente mirato a mantenere — s’intende, fin dove la costruzione grammaticale e sintattica dell’italiano lo ha consentito — la stessa struttura del periodare aristotelico, così si è fatto anche in questa. Si è cercato, cioè, di restare il più possibile aderenti al modo aristotelico di organizzare la frase, anche a costo di risultare, in alcuni casi, poco eleganti e con la piena consapevolezza di questa limitazione, ma col vantaggio (ad avviso di chi scrive non piccolo) di sovrapporsi il meno possibile ad Aristotele. Non soltanto, ma anche nella scelta dei lessemi si è per lo più cercato di riprodurre, nell’italiano, la stessa struttura etimologica che essi hanno nel greco. Parimenti si è avuta la massima cura, là dove il greco ha a disposizione il sostantivo e l’aggettivo neutro sostantivato, ed usa questo secondo, di mantenere la stessa modalità espressiva anche nella versione italiana, intervenendo il più delle volte con «cosa», secondo la scansione del neutro greco. Il ricorso a «cosa», «cose» compare altresì nella versione di molte espressioni quali τὸ κινoύμενoν, τὰ κινoύμενα, e così via; altri neutri, invece, come per esempio τὸ κινoῦν, sono stati resi sia con «ciò che muove», sia con «il motore». Ovviamente, i termini tecnici del vocabolario fisico di Aristotele sono stati tradotti sempre con lo stesso corrispondente vocabolo italiano in tutti i casi. Soltanto in pochissime occasioni ci si è discostati, dando debita notizia, e giustificazione, in nota. Sempre in nota si è provveduto a giustificare, nei casi in cui il testo risulta particolarmente incerto, la lezione prescelta. Un aiuto rilevante è venuto a questo riguardo dal commento alla Fisica del Ross, che è stato costantemente tenuto presente nel lavoro. Per la scelta delle lezioni — salva fatta la plausibilità sotto il profilo paleografico — si è privilegiato il criterio della maggior scioltezza del pensiero, sia sotto il profilo della congruenza del contenuto dottrinale, sia sotto quello della maggior chiarezza e linearità 132

dell’espressione. Salvo in rari casi, non si è invece fatto uso della nota a piè di pagina per esplicare il testo, riservandone invece la funzione, oltre che a giustificare la lezione, a indicare il rinvio ai passi o agli autori chiamati in causa dallo Stagirita. In vista di un chiarimento del testo sono stati invece pensati i «Sommari», che — almeno nelle intenzioni di chi li ha redatti — non vogliono essere un semplice riassunto, ma intendono seguire il trattato nel suo movimento argomentativo, segnandone le scansioni. Il che ne giustifica altresì la lunghezza. Anche in questo, del resto, si è proseguito sulla linea intrapresa con l’edizione dell’Organon, in questa stessa collezione. Si è, infine, voluto corredare l’edizione di un apparato di indici analitici, con la specifica funzione di rendere al lettore più facile e agevole la consultazione dell’opera. Un vivo ringraziamento il curatore sente di dover esprimere a quanti, Colleghi e Amici, sono stati generosi di suggerimenti nel corso della redazione del lavoro, nonché alla Direzione delle strutture scientifiche, italiane e straniere, che gli hanno messo a disposizione gli strumenti bibliografici necessari per condurlo in porto. Un doveroso grazie egli esprime, infine, all’Editore, per l’interesse che ha immediatamente mostrato per l’iniziativa e la perizia con la quale ha curato l’edizione. 1. Contiene anche parti del commento di Alessandro d’Afrodisia.

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FISICA

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LIBRO PRIMO I, 1 ‹Il metodo della scienza fisica› Poiché il sapere e il conoscere scientificamente, nell’ambito 184a di tutte le ricerche di cui vi sono princìpi o cause o elementi, derivano dall’acquisire cognizione di questi (infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa nel momento in cui abbiamo acquisito cognizione delle cause prime e dei princìpi primi e fino agli elementi), è evidente che anche della conoscenza 15 scientifica relativa alla fisica bisogna cercare di definire le ‹questioni› concernenti i princìpi. La via naturale muove dalle cose più note e più chiare per noi a quelle più chiare e più note per natura; infatti non sono le stesse cose a essere note per noi e in senso assoluto. Perciò è necessario procedere in questo modo: dalle cose più oscure per natura, ma più chiare per noi a quelle più chiare e più 20 note per natura. Per noi dapprima sono chiare e note le cose che maggiormente sono mescolate insieme; poi, da queste, per coloro che le distinguono diventano noti gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dalle cose globali alle singole ‹determinazioni›1. Infatti, l’intero è più noto secondo la sensazione, 25 e ciò che è globale è un certo intero. Ché, ciò che è 184 bglobale contiene molte cose come parti. Si trovano in questa stessa condizione, in un certo modo, anche i nomi rispetto al discorso2; infatti significano un certo intero e in maniera indistinta: per esempio, il cerchio, mentre la sua definizione distingue nelle ‹determinazioni› individuali. E i bambini dapprima chiamano padri tutti gli uomini e madri tutte le donne, ma poi distinguono ciascuno di questi.

I, 2 ‹Le dottrine sul numero dei princìpi e la confutazione della tesi eleatica› 15 È necessario che i princìpi siano o uno solo o più d’uno e, se è uno solo, che sia o una cosa immobile, come dicono Parmenide e Melisso, 135

oppure una cosa in movimento, come ‹sostengono› i Fisici3: gli uni dicendo che il principio primo è aria4, altri che è acqua5. Se invece sono più d’uno, ‹è necessario› o che siano finiti o infiniti; e, se sono finiti, che siano più di un solo ‹principio›: o due o tre o quattro o un qualche altro 20 numero; e, se sono infiniti, o che siano così come ‹dice› Democrito: che cioè il genere è unico, ma ‹differiscono›6 per forma, o che siano differenti per specie o anche contrari7. Similmente ricercano pure coloro che ricercano quanti sono gli enti8. Ché, le cose dalle quali gli enti derivano come da cose prime, queste ricercano se siano una sola o molte; e, se sono molte, se siano finite o infinite. Per cui ricercano se il 25 principio e l’elemento siano uno solo o molti. Ebbene, il ricercare se l’esistente sia uno e immobile non è 185 a ricercare sulla natura. Come infatti anche per il geometra non vi è più un ragionamento contro chi elimina i princìpi, ma ‹esso› è proprio o di una scienza diversa, o di ‹una scienza› comune a tutte9, così neppure per chi si occupa dei princìpi. Ché, non vi è più principio, se ‹esso› è una sola, unica cosa e una sola cosa in questo modo. Infatti, il principio è di qualcosa o di alcune cose. Similmente, dunque, l’indagare se l’uno sia così, è 5 disputare anche contro qualunque altra tesi fra quelle che abbiamo enunciato al fine di un ragionamento ‹per esempio, quella eraclitea10, o se qualcuno sostenesse che l’esistente è un solo uomo), oppure è risolvere un ragionamento eristico: ‹caratteristica› che possiedono entrambi i ragionamenti, sia quello di Melisso che quello di Parmenide. Infatti, e assumono cose false e non consentono di argomentare. Però il 10 ‹ragionamento› di Melisso è maggiormente grossolano ed esente dal presentare una difficoltà, ma, concessa una sola ‹premessa› assurda, fa seguire il resto. Però non è affatto difficile ‹scioglierlo›11. Da parte nostra si ponga che le cose naturali sono in movimento, o tutte o alcune. È chiaro dall’induzione. Al tempo stesso, neppure conviene risolvere tutti ‹gli errori›, ma unicamente quanto di falso uno che dimostra dice 15 muovendo dai princìpi; invece, tutto ciò che non ‹è così›, non ‹conviene›, com’è proprio del geometra sciogliere la quadratura del cerchio ‹effettuata› mediante i segmenti, ma ‹risolvere› quella di Antifonte non è proprio del geometra12. Pur tuttavia, poiché ‹costoro› non ‹parlano› della natura, ma capita loro di enunciare delle difficoltà di ordine fisico, è senz’altro bene che si discuta un 136

poco di loro. Infatti la 20 ricerca ha rilevanza in ordine alla filosofia. L’inizio più appropriato di tutti, dal momento che l’essere si dice in molti sensi, ‹è esaminare› come asseriscono coloro che affermano che tutte le cose sono un uno: ‹1› se tutte le cose sono sostanza, o quantità, o qualità; ‹2› e, ancora, se tutte le cose sono un’unica sostanza — per esempio, un unico uomo, o un unico cavallo, o un’unica anima —, oppure se 25 questo ‹uno› è un’unica qualità — per esempio, bianco, caldo, o qualcuna delle cose siffatte. Ché, tutte queste ‹tesi› differiscono molto, ed è impossibile esporle. ‹a› Infatti, se vi saranno e sostanza e qualità e quantità, e tanto se queste ‹determinazioni› sono slegate le une dalle altre quanto se non lo sono, gli enti sono molti. ‹b› Se invece tutte le cose sono qualità o quantità, sia che 30 sussista sia che non sussista la sostanza, si ha un assurdo, se si deve chiamare assurdo l’impossibile. Ché, nessuna delle altre cose oltre la sostanza è separata. In effetti, tutte si dicono della sostanza come sostrato. ‹c› Invece Melisso sostiene che l’essere è infinito. Pertanto l'essere è una certa quantità, giacché Tinfinito rientra nella quantità; ma non è possibile che una sostanza sia infinita, o 185 b una qualità, o un patire, se non per accidente, anche se assieme «essi» siano certe quantità. Infatti, la nozione di infinito comporta la quantità, ma non ‹comporta› la sostanza o la qualità. Pertanto, se è e sostanza e quantità, l'essere è due cose e non un uno; se invece è soltanto sostanza, non è 5 infinito, né avrà alcuna grandezza: ché, ‹allora› sarà una certa quantità. Inoltre, poiché lo stesso uno si dice in molti sensi, come anche Tessere, bisogna indagare in che modo ‹essi› sostengono che il tutto è uno. Si dicono uno ‹α› o il continuo, ‹b› o l’indivisibile, ‹c› o le cose il cui discorso ‹definitorio› della quiddità è lo stesso e uno, come bevanda che ubriaca e vino. 10 ‹a› Ora, se si tratta del continuo, l’uno è molti, giacché il continuo è divisibile alTinfinito. (Si ha una difficoltà in merito alla parte e all’intero, e forse non ha rapporto con il ‹presente› discorso, ma ‹bisogna esaminarla› in sé e per sé: se la parte e l’intero siano un uno o più cose, e come un uno o più cose, e, se più cose, come più cose; e ‹le stesse questioni anche› a proposito delle parti non continue. E se ciascuna ‹parte pre 15 sa› come indivisibile sia un uno coll’intero, poiché ‹lo sono› anche esse tra loro›. ‹b› Ma se ‹l’essere è uno› come indivisibile, niente sarà quantità né qualità; pertanto l’essere non ‹sarà› né infinito, come dice Melisso, né finito, come ‹sostiene› Parmenide. Ché, sarà il limite a essere indivisibile, non ciò che è limitato. 137

‹c› Ma se tutte le cose sono un uno per il discorso ‹definitorio›, come vestito e mantello, capita di proferire per esse la 20 dottrina di Eraclito13: infatti, sarà possibile che abbiano lo stesso discorso ‹definitorio› il bene e il male, ossia il non-bene e il bene; per cui il bene e il non-bene, l’uomo e il cavallo saranno la stessa cosa, e la dottrina non riguarderà l’essere ‹tutte› le cose un uno, bensì il niente, e ‹sarà› identico l’essere 25 di questa qualità e di questa quantità. Anche gli ultimi degli Antichi si davano travaglio perché non nello stesso tempo per le cose l’uno e i molti fossero identici. Perciò gli uni eliminavano «è», come Licofrone14, gli altri15 trasformavano l’espressione: che l’uomo non «è bianco», ma «si è imbiancato», né «è camminante», ma «cammina», affinché, aggiungendo «è», non facessero che 30 l’uno sia molte cose, come se l’uno e l’essere si dicessero in un solo senso. Invece, le cose sono molteplici o per il discorso ‹definitorio› ‹per esempio, l’essere per il bianco e per il musico è altro, ma entrambi sono la stessa cosa; dunque, l’uno è molti), o per la divisione, come l’intero e le parti. E su questo punto erano già in difficoltà e convenivano che l’uno è molti, 186 a come se non fosse possibile che la stessa cosa sia una e molti, ma non le cose opposte. Ché, l’uno è sia in potenza che in atto.

I, 3 ‹Critica delle dottrine eleatiche› A coloro che procedono in questo modo risulta impossibile che le cose siano un uno, e non è difficile risolvere gli 5 ‹argomenti› dai quali ‹lo› mostrano. In effetti argomentano entrambi in maniera eristica, sia Melisso che Parmenide: infatti, e assumono cose false e i loro ragionamenti non sono argomentativi. ‹A› Soprattutto il ‹ragionamento› di Melisso è grossolano ed esente dal presentare una difficoltà, ma, concessa una sola 10 ‹premessa› assurda, fa seguire il resto. Però non è affatto difficile ‹scioglierlo›16. ‹1› Che dunque Melisso compia un paralogismo, è chiaro. Infatti ritiene che, se tutto ciò che diviene ha principio, si sia assunto anche che ciò che non diviene non ne ha17. ‹2› Inoltre, pure questo è assurdo, il ‹credere› che di ogni cosa vi sia un principio: della cosa ma non del tempo, e della 15 generazione non assoluta, ma ‹poi› anche dell’alterazione, come se non esistesse un mutamento 138

completo. ‹3› Inoltre, perché ‹l’essere› è immobile, se è uno? Infatti, come anche la parte, pur essendo una — quest’acqua qui —-, si muove in se stessa, perché non pure il tutto? ‹4› Inoltre, perché non può esserci alterazione? ‹5› Ma non è possibile che ‹l’essere› sia uno neppure per la specie, tranne che per la materia. In questo senso anche taluni dei Fisici18 affermano che è uno, ma 20 in quello no. In effetti, per la specie l’uomo è cosa diversa dal cavallo e i contrari tra loro. ‹B› Pure contro Parmenide la modalità dei rilievi è la stessa, anche se taluni altri sono propri. E la soluzione è, da una parte, che ‹il suo ragionamento› è falso, dall’altra che non giunge a conclusione. ‹1› Falso in quanto assume che l’essere 25 si dice in senso assoluto, mentre si dice in molti sensi; ‹2› non giungente poi alla conclusione perché, se si fossero assunte le sole cose bianche, pur avendo il bianco un solo significato, per nulla di meno le cose bianche sarebbero molte e non una. Infatti il bianco non sarà uno né per la continuità, né per il discorso ‹definitorio›, giacché altro sarà l’essere per il bianco e per la cosa che l’ha ricevuto; e non ci sarà nulla di separato al di là del bianco. Eppure non in quanto separato, ma per 30 l’essere il bianco è diverso dalla cosa cui appartiene. Ma questo Parmenide non l’ha visto in nessun modo. ‹1› Ebbene, è necessario non assumere soltanto che uno significa l’essere della cosa di cui si predichi, ma anche l'essere in quanto tale e l’uno in quanto tale19, giacché l’accidente si predica di qualche soggetto. Di conseguenza, la cosa a 35 cui l'essere è accidentale non sarà: infatti è diversa dall’essere. 186 b Pertanto, sarà qualcosa che non è. Quindi, l'essere in quanto tale non sarà appartenente ad altra cosa. Infatti, non sarà possibile che essa sia qualcosa che è, a meno che l'essere non abbia molti significati, così che ciascuna cosa ne sia qualcuno. Ma si è supposto che l'essere ha un solo significato. ‹2› Se dunque l'essere in quanto essere non è accidentale a niente, ma ad esso lo sono ‹le altre cose›, perché l'essere in 5 quanto essere significa l'essere piuttosto che non essere? Se infatti l'essere in quanto essere sarà la stessa cosa del bianco, l'essere per il bianco non è però essere in quanto essere (giacché neppure è possibile che l'essere gli sia accidentale: infatti, ciò che non è essere in quanto essere non è per nulla essere). Pertanto il bianco è non-essere: non così come un certo nonessere, ma ‹come› non-essere in senso assoluto. Quindi, l'essere in quanto essere è non-essere: infatti è vero dire che 10 è bianco, e questo significa non-essere. Di conseguenza, se anche il bianco significa l'essere in quanto essere, allora l'essere ha più 139

significati. ‹3› Pertanto l'essere non avrà neppure grandezza, se veramente l'essere è essere in quanto essere: giacché per ciascuna delle parti l'essere è diverso. Che l'essere in quanto essere si divida in un qualche altro essere in quanto essere, è evidente anche per il discorso 15 ‹definitorio›: per esempio, se l’uomo è un qualche essere in quanto essere, è necessario che anche il vivente e il bipede siano un qualche essere in quanto essere. Se infatti non sono un qualche essere in quanto essere, saranno accidenti. Ebbene, lo saranno forse per l’uomo o per qualche altro soggetto? Ma è impossibile. Infatti, questo si dice accidente: o ciò che è possibile 20 che sussista e non sussista, o ciò nel cui discorso ‹definitorio› è presente la cosa della quale è accidente [, o ciò in cui è presente il discorso ‹definitorio› per la cosa di cui è accidente]20: per esempio, l’esser seduti «è accidente» come separato; nel camuso, invece, è presente il discorso «definitorio» del naso del quale diciamo che il camuso è accidente. Inoltre, quanto a tutte le cose che sono presenti nel discorso definitorio e a quelle dalle quali deriva, nel loro discorso ‹definitorio› non 25 è presente 30 il discorso ‹definitorio› dell’intero: per esempio, nel bipede quello dell’uomo, o nel bianco quello dell’uomo bianco. Pertanto, se queste cose stanno in questo modo e a «uomo» «bipede» è accidentale, è necessario che esso sia separato, cosicché sarebbe possibile che l’uomo non sia bipede, oppure nel discorso ‹definitorio› di «bipede» sarà presente il discorso ‹definitorio› di «uomo». Ma è impossibile, giacché quello è presente nel discorso ‹definitorio› di questo. E se «bipede» e «vivente» sono accidenti di un’altra cosa, e ciascuno dei due non è un certo essere in quanto essere, anche l’uomo farà parte degli accidenti di un’altra cosa. Ma l’essere in quanto essere non sia accidente di nulla, e di ciò di cui ‹si predicano› entrambe cose, si predichi e ciascuna delle due e 35 ciò che deriva da queste. Pertanto il tutto sarà costituito da cose indivisibili? 187 a Ma alcuni21 hanno fatto concessioni a entrambe le dottrine: a quella che, se l’essere ha un solo significato, tutte le cose sono un uno, che esiste il non-essere; a quella derivante dalla dicotomia, creando grandezze indivisibili. Ma è evidente anche che non è vero che, se l’essere ha un solo significato e non è possibile che la contraddizione sussista nello stesso tempo, 5 non vi sarà affatto non-essere: giacché nulla impedisce che il nonessere esista non in senso assoluto, ma che esista come un certo non-essere. Ora, il dire che, se non esisterà qualcos’altro al di là dell’essere in sé, tutte le cose saranno un uno, è assurdo. Chi, infatti, apprende l’esistenza dell’essere in sé se non c’è un certo essere in quanto essere? E se ‹vale› questo, nulla peraltro impedisce che le cose siano molte, come s’è detto. 140

Che dunque sia impossibile l’unità dell’essere in questo 10 modo, è chiaro.

I, 4 ‹Critica delle dottrine dei Fisici e di Anassagora› Come sostengono i Fisici, vi sono due modi. ‹A› Alcuni22, infatti, rendendo uno il corpo che funge da sostrato — o qualcuno dei tre ‹elementi›, o altro che sia più denso del fuoco e più rado dell’aria —, fanno nascere le altre cose per condensazione e rarefazione, rendendole molteplici. 15 (Queste ‹determinazioni› sono contrarie e, in generale23, l’eccesso e il difetto, come Platone afferma ‹che sono› il grande e il piccolo24; tranne che costui sostiene che questi sono materia, mentre l’uno è la forma, quelli invece che l’uno, il quale funge da sostrato, è materia, mentre i contrari sono differenze e forme). ‹B› Altri ‹affermano› che dall’uno si separano le contrarietà 20 in ‹esso› presenti, come sostengono Anassimandro e quanti dicono che ‹le cose› sono unità e molteplicità, come Empedocle e Anassagora25. In effetti, anche costoro separano dalla mescolanza le altre cose, ma differiscono tra loro per il fatto di sostenere, l’uno, il carattere periodico di queste ‹separazioni›, l’altro ‹che esse si sono prodotte› una sola volta e 25 di porre, l’uno, cose infinite, e cioè le omeomerie e i contrari, l’altro i cosiddetti elementi soltanto. Anassagora ha tutta l’aria d’aver pensato così l’infinità dei princìpi: in forza del convincimento che la comune opinione dei Fisici sia vera, supponendo cioè che nulla nasce dal nonessere (per questo, infatti, dicono così: «tutte le cose erano assieme»; ed egli ha stabilito che il generarsi di una data 30 qua lità è alterarsi26, gli altri27 ‹parlano› invece di composizione e separazione). Inoltre ‹dice› che i contrari derivano dal generarsi l’uno dall’altro. Quindi preesistevano gli uni negli altri: ché, se tutto ciò che si genera, necessariamente si genera o dalle cose che sono o dalle cose che non sono, e tra queste ‹alternative› il generarsi dal non-essere è impossibile (su quest’opinione 35 concordano, infatti, tutti quanti coloro che si sono occupati della natura), non resta ormai che abbiano pensato che il generarsi ha luogo di necessità da esseri e da esseri che permangono, ma che per la piccolezza delle loro masse eccedono 187 b da ciò che per noi è percepibile. Per questo affermano che tutto è mescolato in tutto, giacché vedevano che 141

tutto si genera da tutto. ‹Le cose› sono evidenti nel loro differire e le une ricevono la denominazione dalle altre ad opera dell’‹elemento› che per la quantità prevale nella mescolanza 5 di infiniti ‹elementi›. Ché, allo stato puro non vi è una cosa che sia interamente bianca o nera o dolce o carne od osso, ma, quando ciascuna ‹qualità› ha il sopravvento, la natura della cosa sembra essere questa. ‹1› Ora, se l’infinito in quanto infinito è inconoscibile, ciò che è infinito secondo il numero o secondo la grandezza è una certa quantità inconoscibile, mentre ciò che è infinito secondo la specie è una certa qualità inconoscibile. E se i princìpi sono 10 infiniti sia secondo il numero che secondo la specie, è impossibile conoscere le cose che derivano da questi, giacché così comprendiamo di conoscere il composto, quando sappiamo da quali e da quante cose deriva. ‹2› Inoltre, se è necessario che ciò la cui parte può essere di qualunque quantità per grandezza e piccolezza, possa esserlo 15 anch’esso (parlo di qualcuna delle parti tali che l’intero si divide in essa, che vi è presente), e se è impossibile che un vivente o una pianta sia di qualunque quantità per grandezza e piccolezza, è necessario che ‹non possa esserlo› neppure qualsivoglia delle parti. Ché, l’intero starà in modo simile. E ‹anche› la carne e l’osso e le parti siffatte del vivente, e i frutti delle piante. È chiaro, pertanto, che è impossibile che la 20 grandezza nella variazione di quantità, o verso il più o verso il meno, sia carne od osso o qualche altra cosa. ‹3› Inoltre, se tutte le cose siffatte sono presenti le une nelle altre e non si originano, ma si separano dall’‹intero› nel quale sono presenti, e vengon dette da quella che prevale; e d’altro canto qualunque cosa nasce da qualunque cosa (per esempio, l’acqua dalla carne, separandovisi, e la carne dall’acqua), ed 25 ogni corpo finito è tolto da un corpo finito, è chiaro che non è possibile che ciascuna cosa sia presente in ciascuna cosa. Che, levata della carne dall’acqua, e di nuovo venendo a esserci per separazione altra carne dall’‹acqua› restante, anche se la ‹carne› che si separa sarà sempre più piccola, tuttavia non supererà in piccolezza una certa grandezza. Per cui, se la 30 separazione si arresterà, non tutto sarà presente in tutto (in effetti nell’acqua restante non sarà presente della carne); se invece non si arresterà, ma si avrà sempre un levar via, in una grandezza finita sarà presente un numero infinito di uguali cose finite, e questo è impossibile. ‹4› In più, se ogni corpo, tolto qualcosa, diviene 35 necessariamente più piccolo, e la quantità della carne è determinata sia in grandezza che in piccolezza, è chiaro che dalla carne più piccola non si separerà nessun corpo, giacché sarebbe più 188 a piccolo della ‹carne› più piccola. ‹5› Inoltre, negli infiniti corpi sarebbero già presenti una carne, un 142

sangue, un cervello infiniti come cose separate una dall’altra, ma per nulla meno esistenti, e ciascuna come infinita. E questo è irragionevole. 5 ‹6› Che la separazione non si verificherà mai, è ‹da lui› affermato senza saperlo, ma è affermato rettamente28: in effetti le affezioni sono inseparabili. Se dunque i colori e gli abiti sono mescolati, se siano stati separati, vi sarà un bianco o un sano che non è qualcos’altro, né è di un soggetto. ‹7› Di conseguenza la Mente, cercando le cose impossibili, è assurda, se davvero vuole separare, ma fare questo è impossibile 10 sia secondo la quantità che secondo la qualità: secondo la quantità, perché non esiste la grandezza più piccola; secondo la qualità, perché le affezioni sono inseparabili. ‹8› Non pensa correttamente neppure la generazione delle determinazioni di forma simile. In effetti è possibile che il fango si divida in fango, ed è possibile che non. E il modo in cui 15 l’acqua e l’aria e sono e divengono una dall’altra non è lo stesso di come i mattoni derivano dalla casa e la casa dai mattoni. Ma è meglio assumere ‹princìpi› di numero inferiore e finiti: cosa che fa Empedocle.

I, 5 ‹I contrari come princìpi. Esame della dottrina di Empedocle e di altri fisici› Ebbene, tutti considerano princìpi i contrari, sia coloro 20 che affermano che il tutto è uno e non in movimento (infatti anche Parmenide considera princìpi il caldo e il freddo, e li chiama fuoco e terra29), sia coloro che sostengono il rado e il denso, sia Democrito30: il pieno e il vuoto, uno dei quali ‹egli› dice che è come essere, l’altro come non-essere; inoltre ‹determina il primo› per posizione, figura e ordine31, e questi sono 25 generi di contrari: della posizione, in su ‹e› in giù, davanti ‹e› dietro; della figura, angolato ‹e› privo di angoli, retto ‹e› circolare. Che tutti, dunque, considerino in qualche modo i contrari come i princìpi, è chiaro; e questo è ben logico. In effetti, i princìpi non devono derivare né gli uni dagli altri né da altre cose, ma da questi ‹derivano› tutte le cose. E ai contrari primi appartengono queste ‹caratteristiche›, in virtù del fatto che, 30 come primi, non derivano da altre cose e, come contrari, non derivano l’uno dall’altro.

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La prima pagina di un incunabolo della Fisica con il commento di Averroè (Padova, 1472-75).

Ma come questo succeda, si deve esaminare anche in base al ragionamento. Ebbene, innanzitutto bisogna assumere che, di tutte le cose, nessuna per natura né compie né patisce ciò che capita da ciò che capita, né qualunque cosa deriva da qualunque cosa, a meno che non s’intenda per accidente. 35 In effetti, come potrebbe derivare il bianco dal musico — tranne se il musico fosse accidente di ciò che non è bianco o del nero? Ma ‹una cosa› diventa bianca da non bianca, e non da tutto questo, bensì da nera o dai ‹colori› intermedi, e ‹uno diventa› 188 b musico da non musico, tranne che non da tutto ‹ciò che non è musico›, bensì da immusico o se qualcosa è a mezzo tra essi. Ora, neppure si corrompe nella prima cosa che capita: per esempio, il bianco nel musico, se non per accidente, ma nel non 144

bianco, e non in ciò che capita, bensì nel nero o in ciò che 5 è a mezzo; allo stesso modo anche il musico ‹si corrompe› nel non musico e questo non in ciò che capita, bensì nell’immusico o si vi è qualcosa tra essi. Similmente, questo ‹avviene› pure negli altri casi, dal momento che anche quelle tra le cose che non sono semplici, bensì composte, si comportano secondo il medesimo criterio; 10 ma per il fatto che le disposizioni opposte non hanno ricevuto un nome, sfugge che avvenga questo. Infatti, tutto ciò che è armonico deriva necessariamente da ciò che non è armonico e ciò che non è armonico da ciò che è armonico, e ciò che è armonico si corrompe in una mancanza di armonia, e questa non è quella che capita, bensì quella opposta. E non differisce in nulla fare quest’asserzione nel caso dell’armonia 15 o dell’ordine o della composizione, giacché è chiaro che il ragionamento è lo stesso. Ma anche una casa e una statua e qualunque altra cosa divengono in modo simile: infatti, una casa sorge dal non essere insieme, ma dall’essere divise queste ‹pietre› da questa, e la statua e qualcuna delle cose sagomate da assenza di sagomazione. E, quanto a ciascuna di queste, le 20 une sono un certo ordine, le altre una certa composizione. Se, dunque, questo è vero, tutto ciò che diviene e tutto ciò che si corrompe diverrà e si corromperà o dai contrari o nei contrari e nelle cose che ne sono a mezzo. Ma le cose che ne sono a mezzo derivano dai contrari: per esempio, i colori dal bianco e dal nero. Di conseguenza, tutte le cose che divengono 25 per natura saranno o contrari o dai contrari. Fino a questo punto, dunque, anche la stragrande maggioranza degli altri ‹filosofi› va pressoché d’accordo, come prima abbiamo detto32. Tutti, infatti, affermano che gli elementi e quelli che da loro vengon detti princìpi, pur ponendoli anche senza un criterio razionale, sono tuttavia i contrari, come se 30 fossero costretti dalla medesima verità. Ma differiscono tra loro per il fatto di assumere gli uni cose anteriori, gli altri cose posteriori, e gli uni cose che sono più note secondo la ragione, gli altri cose che lo sono secondo la sensazione (ché, gli uni pongono come cause della generazione il caldo e il freddo33, gli altri l’umido e il secco34, altri il dispari e il pari35, altri 35 ancora Odio e Amore36. Queste cose differiscono le une dalle altre secondo il modo che abbiamo detto). Per cui, in un certo senso dicono le stesse cose e cose diverse gli uni dagli altri: cose diverse, come anche sembra alla stragrande maggioranza; 189 a le stesse cose, in quanto vi è analogia. Infatti, assumono ‹i princìpi› dalla medesima serie di termini, giacché alcuni dei contrari comprendono, altri sono compresi. In questo modo, pertanto, parlano nella stessa maniera e in maniera differente, e peggio e meglio, e 145

gli uni ‹affermano› le cose più note 5 secondo la ragione, come prima s’è detto, gli altri secondo la sensazione (in effetti, l’universale è noto secondo la ragione, mentre l’individuale secondo la sensazione: ché, la ragione è dell’universale, la sensazione dell’individuale): per esempio, il grande e il piccolo37 sono secondo la ragione, il rado e il denso secondo la sensazione. 10 Che dunque i princìpi debbano essere contrari, è chiaro.

I, 6 ‹I princìpi non possono essere che tre› Si avrebbe da dire se ‹i princìpi› sono due o tre o di più. ‹I› Uno non è possibile, dal momento che i contrari non sono uno solo; e ‹non è possibile che siano› infiniti, dal momento che ‹1› l’essere non sarà conoscibile, ‹2› vi è una sola contrarietà in ogni genere unico e la sostanza è un certo genere unico38, ‹3› e dal momento che ‹la spiegazione› è possibile da ‹princìpi› finiti, ed è meglio da ‹princìpi› finiti, come 15 ‹fa› Empedocle, che da ‹princìpi› infiniti. Egli crede, infatti, di esplicare tutto quanto ‹esplicava› Anassagora dai ‹princìpi› infiniti. ‹4› Inoltre, i contrari sono gli uni anteriori agli altri, e nella loro diversità derivano gli uni dagli altri: per esempio, il dolce e l’amaro, il bianco e il nero, e i princìpi devono permanere sempre. Che dunque ‹non possano essere› 20 né uno solo né infiniti, è chiaro da queste ‹considerazioni›. ‹II› Poiché sono finiti, il non considerarli due soltanto possiede una qualche ragionevolezza. Ché, si potrebbe porre il problema di come o la densità produca naturalmente la radezza come un qualcosa, o questa la densità. E similmente anche qualunque altra contrarietà: ché, l’Amore non conduce assieme l’Odio e ‹non› opera qualcosa a partire da esso, 35 né l’Odio a partire da quello, ma entrambi ‹operano› in rapporto a qualcosa di diverso, come terza cosa39. E alcuni assumono anche più ‹princìpi›, dai quali istituiscono la natura degli enti. ‹III› Ma inoltre, in aggiunta a queste ‹considerazioni› si potrebbe sollevare anche questa difficoltà se non si ipotizzerà una natura diversa per i contrari. ‹1› Vediamo infatti che i contrari non sono sostanza di nessuno degli enti. ‹2› E il principio non deve dirsi di un qualche sostrato, giacché vi sarà un 30 principio del principio. Infatti, il sostrato è principio, ed è comunemente ammesso che è anteriore a ciò che gli viene predicato. ‹3› Inoltre, diciamo che una sostanza non è contraria a una sostanza40. Come, 146

dunque, da non-sostanze può derivare una sostanza? Ο come una nonsostanza può essere una cosa anteriore a una sostanza? ‹IV› Perciò, se qualcuno ritenesse che il ragionamento 35 precedente e questo sono veri, è necessario ipotizzare, se li deve 189 b salvaguardare entrambi, un terzo ‹elemento›, come affermano coloro che sostengono che il tutto è una qualche natura unica: per esempio, acqua41 o fuoco42 o ciò che è a mezzo tra questi43. Ma sembra che ciò che è a mezzo sia migliore, giacché fuoco, terra, acqua e aria sono già intrecciati con delle 5 contrarietà. Perciò non operano irragionevolmente quelli che pongono il sostrato come diverso da questi e, degli altri, ‹quelli che pongono› l’aria44: giacché anche l’aria non possiede le differenze percettibili degli altri ‹elementi›; e, subito dopo ‹l’aria›, l’acqua. Ma tutti in verità delineano questo uno con i contrari, per esempio con la densità e la radezza e con il più 10 e il meno. In senso complessivo, queste cose, se si fa chiarezza, sono eccesso e difetto, come prima s’è detto45. E sembra che anche quest’opinione sia antica, che l’uno, l’eccesso e il difetto siano princìpi degli enti, tranne che non nello stesso modo, ma gli antichi46 ‹sostenevano› che due agiscono e uno 15 subisce, mentre taluni dei succedanei47, al contrario, affermano piuttosto che uno agisce e due subiscono. ‹V› L’affermare, dunque, che gli elementi sono tre, a coloro che indagano sia a partire da queste ‹considerazioni›, sia da altre siffatte sembrerà avere una qualche ragione, come sosteniamo, e l’essere in numero maggiore di tre non ‹ne avrà› più. In effetti, ‹1› in rapporto al patire ‹ne› è sufficiente uno, e se, essendo quattro, vi saranno due opposizioni per 20 contrarietà, sarà necessario che sussista una qualche altra natura intermedia, fuori di ciascuna ‹di esse›; se invece, essendo due le opposizioni per contrarietà, possono generarsi l’una dall’altra, una o l’altra sarà inutile. ‹2› Al tempo stesso è anche impossibile che le prime opposizioni per contrarietà siano in numero maggiore, giacché la sostanza costituisce un solo genere dell’essere, per cui i princìpi differiranno tra loro soltanto per il fatto di essere prima o dopo, ma non per il 25 genere. Ché, sempre in un unico genere ha luogo una sola opposizione per contrarietà, e tutte le opposizioni per contrarietà sembrano ridursi a una. Che dunque né l’elemento sia uno solo, né ve ne siano più di due o di tre, è evidente. Ma quale di questi sia anteriore, come sosteniamo, presenta una grande difficoltà.

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I, 7 ‹I contrari e il sostrato› Quanto a noi, dunque, parliamo in primo luogo in questi 30 termini, discutendo di ogni generazione. In effetti, se innanzitutto si espongono così, secondo natura, le cose comuni, è possibile vedere quelle che sono proprie in ordine a ciascuna cosa. ‹I› Diciamo infatti che una cosa viene all’essere da un’altra e una cosa diversa da una cosa diversa, parlando sia di quelle semplici che di quelle composte. Lo affermo in questo modo: in effetti, è possibile che un uomo diventi musico, ed è possibile che ciò che non è musico diventi musico, o che 35 l’uomo che non è musico diventi un uomo musico. Ora, dico 190 a «semplice» il soggetto che diviene: l’uomo e ciò che non è musico, e ‹dico› «semplice» la cosa che diviene: «il musico». ‹Abbiamo› invece un composto ‹quando diciamo› sia la cosa che diviene che il soggetto che diviene: quando diciamo che l’uomo che non è musico diventa un uomo musico, e una di 5 queste cose non soltanto vien detta divenire questa data cosa, ma anche da questa data cosa: per esempio, musico da non musico. Ma questo non si dice in tutti i casi: ché non ‹si dice› «da uomo è diventato musico», ma «l’uomo è diventato musico». E fra le cose che divengono nel modo in cui diciamo che divengono le cose semplici, l’una diviene permanendo, un’altra non permanendo. In effetti, l’uomo, diventando 10musico, permane ed è uomo, mentre il non-musico e l’immusico non permangono né semplicemente né come composto. ‹II› Definiti questi ‹punti›, da tutte quante le cose che divengono è possibile cogliere questo, se si volga lo sguardo come noi sosteniamo, ossia che ciò che diviene deve sempre 15 avere un qualche sostrato e che esso48, anche se per numero è uno, in realtà non è però uno per forma (dico infatti che «per forma» è lo stesso che «per nozione»): ché, l’‹essere› per l’uomo e l’essere per il 20 musico non sono lo stesso. E il primo permane, il secondo non permane: ciò che non è un opposto permane (infatti l’uomo permane), mentre il musico e l’immusico non permangono, né ciò che è composto da entrambi, quale l’uomo immusico. ‹III› Nel caso di ciò che non permane, si dice piuttosto «divenire alcunché da qualcosa» e non «generarsi questa data cosa»49: per esempio, «divenire musico da immusico» e non «‹divenire musico› da uomo». Ciò non toglie che anche nei casi di ciò che permane si dica talvolta nel medesimo modo. 25 Infatti, diciamo che «la statua si genera dal bronzo», non «il bronzo si 148

genera come statua». Tuttavia ciò che ‹si genera› dall’opposto e non permane si dice in entrambi i modi: sia «da questa data cosa questa data cosa», sia «questa data cosa, questa data cosa». Infatti, si dice sia «il musico si genera dall’immusico», sia «chi è immusico diviene musico». Perciò è nello stesso modo anche nel caso dei composti: in effetti, 30 si dice sia «da uomo immusico è diventato musico», sia «l’uomo immusico è diventato musico». ‹IV› Dicendosi il divenire in molti sensi, e di alcune cose non essendo proprio ‹parlare di› divenire, bensì di divenire alcunché di determinato, mentre soltanto delle sostanze è proprio ‹parlare di› divenire in senso assoluto, per le altre è chiaro che il soggetto che diviene è necessario che permanga. Infatti, sia la quantità, sia la qualità, sia la relazione, sia il 35 quando, sia il dove si generano se vi è un qualche sostrato, in virtù del fatto che la sola sostanza non si dice di nessun altro soggetto50, mentre tutte le altre cose si dicono della sostanza. 190 b Ma che tanto le sostanze quanto tutte quelle cose che sono in senso assoluto divengano da un qualche sostrato, diverrà evidente a chi indaga con attenzione. Infatti, vi è sempre e permane qualcosa dal quale si genera ciò che diviene: per esempio, le piante e gli animali dal seme. E le cose che si generano in senso assoluto si generano, le une per trasformazione, come 5 la statua dal bronzo, altre per aggiunzione, come quelle che aumentano, altre ancora per toglimento, come Ermete dalla pietra, altre poi per unione, come una casa, altre infine per alterazione, come quelle che si modificano nella loro materia. Ed è chiaro che tutte le cose che 10 si generano in questi modi si generano da sostrati. ‹V› Di conseguenza, da quel che si è detto è chiaro che tutto ciò che diviene è sempre composto, e da un lato vi è la cosa che diviene, dall’altro vi è ciò che essa diviene51, e questo è duplice: si tratta, infatti, sia del sostrato, sia dell’opposto. Intendo dire che l’immusico costituisce l’opposto, l’uomo costituisce il sostrato e che l’assenza di figura, l’assenza di forma, l’assenza di ordine sono l’opposto, il bronzo o la 15 pietra o l’oro il sostrato. ‹VI› Pertanto, se vi sono cause e princìpi delle cose che sussistono per natura, dai quali come da determinazioni prime ‹esse› sono e si sono generate non per accidente, ma ciascuna ciò che è detta secondo l’essenza, è evidente che tutto si genera dal sostrato e dalla forma. Ché, l’uomo musico è 20 composto, in un certo modo, dall’uomo e dal musico. In effetti, lo risolverai nelle nozioni52 delle ‹determinazioni› suddette. È chiaro, dunque, che le cose che si generano possono generarsi da queste. ‹VII› E il sostrato è uno per numero, due per la forma (ché, 25 l’uomo e 149

l’oro e in generale la materia sono numerabili. Infatti, sono piuttosto un certo questo, e da esso ciò che si genera non si genera per accidente. Invece la privazione e la contrarietà sono accidente). Quanto alla forma, sono un’unità, per esempio, l’ordine o la musica o qualcuna delle altre cose così predicate. ‹VIII› Perciò, per un verso bisogna dire che i princìpi sono 30 come due, per un altro che sono come tre. E per un verso sono come i contrari: per esempio, se uno dicesse il musico e l’immusico, o il caldo e il freddo, o ciò che è armonico e ciò che è privo di armonia; ma per un altro no. Infatti, è impossibile che i contrari siano affetti l’uno dall’altro. Ma anche quest’‹impossibilità› si risolve in virtù del fatto che il sostrato è un’altra cosa. Questo infatti non è un contrario. Per cui né 35 i princìpi sono in un certo modo in numero maggiore dei contrari, ma per così dire due di numero, né tuttavia sono com 191a plessivamente due, per il fatto che il loro essere sussiste come diverso, ma tre: in effetti, l’essere per l’uomo e l’essere per l’immusico sono cosa diversa, e l’essere per l’informe e per il bronzo. Quanti sono, dunque, i princìpi delle cose naturali concernenti la generazione, e come sono di questo numero, s’è detto. Ed è chiaro che sotto i contrari deve sussistere un qualche 5 sostrato e che i contrari sono due. Ma in un certo modo non è necessario, giacché è sufficiente che uno dei due contrari produca, con la sua assenza e con la sua presenza, il mutamento. ‹IX› La natura che funge da sostrato è conoscibile per analogia. Infatti, come alla statua si rapporta il bronzo, o al letto il legno, o a qualche altra delle cose che hanno forma si rapportano 10 la materia e ciò che è informe, prima di assumere la forma, così essa53 si rapporta alla sostanza, all’alcunché di determinato e all’ente. Essa è dunque un unico principio, pur non essendo una né un ente così come ‹è uno e un ente› l’al cunché di determinato; per altro verso, è un unico ‹principio› quello di cui è propria la definizione54. Inoltre, vi è il contrario di questa, ossia la privazione. ‹X› Come i princìpi siano due e come in numero maggiore, 15 s’è detto nelle ‹analisi› di sopra. Ebbene, in primo luogo s’è affermato che soltanto i contrari sono princìpi, in secondo luogo che è necessario anche che qualcos’altro funga da sostrato e che ‹i princìpi› siano tre. Dalle precisazioni attuali è evidente qual è la differenza dei contrari, e come i princìpi si rapportano tra loro, e qual è il sostrato. Se la forma o il sostrato 20 siano sostanza, non è ancora chiaro. Ma che i princìpi siano tre e come siano tre, e qual è il loro modo, è chiaro. Pertanto, quanti sono e quali sono i princìpi, si veda da queste ‹considerazioni›. 150

I, 8 ‹Soluzione delle aporie degli Antichi› Dopo queste ‹considerazioni› diciamo che anche l’aporia degli Antichi si risolve in questo solo modo. In effetti, i primi che filosofarono, nel ricercare la verità e la natura degli enti 25 furono come sviati su una qualche altra strada, sospinti dalla loro inesperienza, e sostennero che nessuno degli enti né si genera né si corrompe in virtù del fatto che, da un lato, quel che si genera è necessario che si generi o dall’essere o dal non-essere, dall’altro, che da entrambe queste ‹alternative› si ha un’impossibilità. Infatti, né si genera l’essere (infatti 30 è già), e dal non-essere nulla può generarsi, giacché qualcosa deve fungere da sostrato. E pertanto, ingigantendo in questo modo la conseguenza che immediatamente ne deriva, sosten nero che non esistono i molti, ma che esiste soltanto lo stesso essere55. ‹I› Essi assunsero, dunque, quest’opinione in forza delle ‹ragioni› che abbiamo detto. Noi invece sosteniamo che il generarsi 35 dall’essere o dal non-essere, o il fatto che l’essere o il non-essere facciano o patiscano qualcosa, o che una determinata cosa, qualunque sia, si generi, in un modo non differiscono 191 b in nulla da quello che il medico faccia o patisca qualcosa, o che qualcosa esista o si produca ad opera del medico. Per cui, poiché questo si dice in due sensi, è chiaro che anche ciò che deriva dall’essere e l’essere ‹son detti› o agire o patire ‹in due sensi›. Ebbene, il medico costruisce una casa non in quanto medico, ma in quanto costruttore di case e diventa 5 bianco non in quanto medico, ma in quanto nero; invece, guarisce e perde la facoltà di guarire in quanto medico. E poiché in via principale diciamo che il medico fa o patisce o diventa qualcosa in senso proprio se in quanto medico patisca o faccia o diventi queste cose, è chiaro che anche il generarsi dal non-essere ha questo medesimo significato, ossia il ‹generarsi dal non-essere› in quanto non-essere. 10 Ma proprio per non aver operato questa distinzione quelli si allontanarono ‹dal vero›, e a motivo di quest’ignoranza non seppero ancora di più, a così gran punto da credere che nessuna delle altre cose si genera né è, ma da sopprimere ogni generazione. Quanto a noi, invece, noi pure sosteniamo che in senso assoluto nulla si genera dal non essere; tuttavia in un certo senso vi è generazione dal non-essere: come per accidente. 15 In effetti, dalla privazione — cosa che è per sé non essere — si genera qualcosa, senza che sia presente. Questo fa meraviglia e così sembra impossibile che qualcosa si generi dal non-essere. E nello stesso modo ‹sosteniamo› che né si dà generazione dall’essere, né si genera ciò che è, tranne che per 151

accidente. Così, anche questo ‹sembra impossibile› che si generi, nello stesso modo: per esempio, se dall’animale si generi 20 l’animale e da un certo animale un certo animale: per esem pio, se un cane si generi ‹da un cane o un cavallo›56 da un cavallo. Ché, il cane può generarsi non soltanto da un certo animale, ma anche dall’animale, però non in quanto animale. Infatti, questo è già presente. E se qualche animale deve generarsi non per accidente, non deriverà dall’animale, e se ‹deve generarsi› un certo essere, non proverrà dall’essere, né dal non-essere. In effetti, da parte nostra è stato detto che cosa 25 significa «dal non-essere», ossia che ‹il non-essere viene assunto› in quanto non-essere. Ed in più non sopprimiamo l’‹affermazione› che tutto è o non è. ‹II› Questo è pertanto un modo; un altro è che è possibile affermare che le stesse cose sono secondo la potenza e l’atto. Ma questo è stato determinato con maggior esattezza in altre ‹trattazioni›57. Per cui (cosa che sostenevamo) si sciolgono le 30 difficoltà a causa delle quali, essendone costretti, ‹gli Antichi› sopprimono taluni ‹punti› tra quelli che abbiamo asserito. Ché, per questo motivo anche i precedenti ‹filosofi› deviarono così grandemente dalla via che porta alla generazione e alla corruzione e in generale al mutamento. In effetti, questa natura, una volta che fosse scorta, eliminerebbe tutta la loro ignoranza.

I, 9 ‹Critica della teoria platonica della materia› Ora, anche taluni altri58 si sono applicati a essa, ma non in 35 maniera sufficiente. Innanzitutto, convengono che in senso assoluto qualcosa si genera dal non essere e che per questo aspetto Parmenide dice esattamente. Inoltre, pare a loro che, 192 a se davvero è una di numero, anche in potenza è solamente una. Ma questo comporta una grandissima differenza. Noi, infatti, sosteniamo che materia e privazione sono cosa diversa e che, di queste, una è non-essere per accidente, ossia la materia, 5 mentre la privazione lo è per sé; e una, la materia, è vicina ‹all’essere› e in qualche modo sostanza, invece l’altra non lo è in nessun modo. Ma essi ‹posero› il non-essere parimenti come il grande e il piccolo, o uno e l’altro assieme o ciascuno dei due ‹preso› separatamente. Di conseguenza, questo e quel modo della triade59 sono completamente differenti. In effetti, fin qui sono giunti: che cioè occorre che una 10 certa natura funga da sostrato; ma 152

tuttavia la rendono unica. Ché, anche se si dà luogo a una diade, sostenendo che essa è il grande e il piccolo, per nulla di meno si dà luogo alla stessa cosa. Infatti, si trascura l’altro ‹principio›60. In effetti, il ‹principio› che permane al di sotto è concausa, con la forma, delle cose che divengono, come una madre; però l’altra parte della contrarietà spesso può apparire, a chi volge 15 la mente alla sua cattiva qualità, neppure esistere del tutto. Se c’è, infatti, qualcosa di divino, di buono e degno che vi si tenda, sosteniamo che vi è, da un lato, il contrario 20 di esso, dall’altro ciò che naturalmente vi tende e lo desidera secondo la sua natura61. Ma a quelle ‹dottrine› consegue che il contrario desideri la sua corruzione. Eppure la forma né può tendere essa stessa a se stessa, per il fatto di non avere una mancanza, né al contrario, giacché i contrari hanno disposizione a distruggersi reciprocamente. Ma questo è la materia, come se una femmina ‹desideri› un maschio e una cosa turpe una cosa bella: tranne che non per se stessa è cosa turpe, ma per accidente, né ‹per se stessa› è femmina, ma per accidente62. 25 In un senso è possibile che ‹la materia› si generi e si corrompa, in un altro non è possibile. Infatti, considerata per ciò che è in essa, si corrompe per se stessa: giacché ciò che in essa si corrompe è la privazione; ma considerata secondo la potenza, non si corrompe per se stessa, ma è necessario che essa sia incorruttibile e ingenerabile. In effetti, se si generasse, innanzitutto occorrerebbe che qualcosa funga da sostrato: quell’‹elemento› dal quale, se è presente, ‹essa si genera›. Ma questo è proprio la natura, per cui esisterà prima 30 di generarsi (infatti, chiamo materia il sostrato primo per ciascuna cosa, dal quale, se è presente, qualcosa si genera non per accidente). E se si corrompe, giungerà a quest’‹elemento› ultimo. Per cui sarà corrotta prima d’essere corrotta. Fornire determinazioni con esattezza intorno al principio formale: se sia uno o molti, e quale o quali siano, è compito della filosofia prima63. Per cui, fino a quel momento lo si lasci 35 da parte. Invece, in ciò che si mostrerà in seguito diremo delle forme naturali e atte a corrompersi. 192 b Che, dunque, vi siano dei princìpi e quali sono e quanti di numero, sia per noi così determinato. E proseguiamo il discorso, assumendo un altro punto di partenza. 1. Il senso di quest’affermazione è: bisogna procedere dall’intero (τo όλoν) e dal mescolato assieme (τὸ συγκεχυμἑνoν), nella sua complessiva globalità (τo καθόλoυ), ai singoli aspetti di esso (τὰ καθ’ ἓκαστα). 2. «Discorso (λόγoς)» qui, come in molti passi di Aristotele (cfr. BONI TZ, Index aristotelicum, 434 b 13 sgg.), significa definizione. Lo attesta l’esempio immediatamente successivo del cerchio, dove compare il termine ὁρισμός.

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3. Si tratta degli Ionici, nel loro complesso. 4. Il riferimento è ad Anassimene e a Diogene di Apollonia. 5. Il riferimento è a Talete, innanzitutto, ma anche a Ippone. 6. Con Ross, accolgo il testo fissato da Torstrik e leggo δὲ ‹διαφέρoύσας›. 7. Probabile riferimento ad Anassagora (così Temistio). 8. Si tratta degli Eleati (così Simplicio), o dei Fisici in generale ‹così Alessandro). Nella traduzione ho preferito mantenere la ripetizione del verbo, com’è nel greco: qui e nelle righe successive. 9. Si tratta della dialettica ‹cfr. Anal. Post., 75 b 12-17; Soph. EL, IX, 170 a 38-39; XI, 172 a 11-15). Nella misura in cui essa definisce il metodo proprio della filosofia prima, il riferimento è anche a questa, come vuole il Ross. 10. Ossia, che «tutto scorre». 11. Il passo «infatti… ‹scioglierlo›» compare anche in 186 a 7-10. 12. Cfr. Soph. El., 172 a 7. 13. Cfr. H. DIELS-W. K RANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker (12. unveränderte Auflage, Weidmann, Dublin-Zürich 1966), 22 Β 58-62. Da qui in poi Ι). Κ. 14. Cfr. D. K. 83 A 2. 15. Il riferimento è incerto e si sono indicati o Platone (così Temistio), o i Megarici e gli Eretriesi (così Apelt), o Menedemo di Eritrea (così Eilopono), o Stilpone (così Zeller). 16. Il passo «infatti» ‹scioglierlo›» compare identico anche in 185 a 9-12. Ross lo espunge da questo luogo. 17. Cfr. I). K. 30 Β 4. 18. Si tratta degli Ionici. 19. Ossia, l’essere in sé e l’uno in sé. 20. Con Ross espungo «, o ciò «accidente». 21. Forse Platone (così i commentatori antichi), o gli Atomisti (così Ross). 22. Il riferimento è innanzitutto ad Anassimene e forse anche a Diogene di Apollonia. 23. Si ha qui lo stesso uso di καθόλoυ che si è trovato in 184 a 23-24. 24. Cfr. Phaed., 70 e sgg.; 100 b-103 b. 25. Cfr. D. K. 59 Β 4, 10. 26. Cfr. D. K. 59 Β 17. 27. Ossia Empedocle. 28. Cfr. D. K. 59 Β 8. 29. Cfr. D. K. 28 Β 8; 53; Metaph., I, 5, 986 b 34; De gen. et corr., I, 3, 318 b 6; II, 3, 330 b 14. 30. Cfr. Metaph., I, 4, 985 b 5; IV, 5, 1009 a 28. 31. Cfr. Metaph., I, 4, 985 b 14-15. 32. Cfr. l’inizio del capitolo. 33. Si tratta di Parmenide (cfr. I). K. 28 Λ 36 a; 46; 46 b; Β 18). 34. Forse Senofane (così Porfirio). 35. Si tratta dei Pitagorici (cfr. Metaph., I, 5, 986 a 23). 36. Si tratta di Empedocle. 37. Il riferimento qui non è più ai Presocratici, ma a Platone e ai Platonici. 38. Come ha indicato Ross (Commentar)’, p. 490), qui «genere» sta per «genere supremo» o «categoria». Soltanto le categorie, infatti, sono generi in senso proprio, ossia generi che sono soltanto generi e non anche specie. 39. Il senso del ragionamento mi sembra esigere che ἓτερόν τι τρίτoν abbia valore di accusativo di relazione e non di complemento oggetto. 40. Cfr. Cat., 3 b 24-27. 41. Si tratta di Talete. 42. Si tratta di Eraclito e di Ippaso. 43. Cfr. ante, 187 a 14; De gen. et corr., 328 b 35; 332 a 21, Metaph., 988 a 30; De coelo, 303 b

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12.

44. Si tratta di Anassimene e di Diogene di Apollonia. 45. Cfr. ante, 187 a 16-17. 46. Il riferimento è ad Anassimene e a Diogene di Apollonia. 47. Il riferimento è a Platone. 48. Ossia, ciò che diviene (τὸ γι,γνόμενoν). 49. Ovvero: «divenire questa data cosa», dove però «questa data cosa» s’intenda come soggetto. 50. Traduco in questo caso ύπoκείμενoν con «soggetto» e non con «sostrato», come alla riga precedente, quantunque l’accezione del termine nelle due espressioni sia identica, per conformità all’espressione, tecnica nella terminologia aristotelica, «dirsi di un soggetto» (καϑ’ υπoκειμένoυ τινὸς λέγεσϑαι), su cui cfr. Cat., 2, 1 a 20. 51. Distaccandomi da Ross e seguendo invece la lezione originaria del codice Par. Gr. [853, che è poi quella più accreditata lungo la tradizione manoscritta, leggo τo γιγνόμενoν. Parallelamente, secondo la lezione del codice Vind. 100, avvalorata anche dal commentario di Giovanni Filopono, ometto τι e leggo ὅ τoῦτo. 52. Espungo, secondo il testo stabilito da Ross, il primo τoὺς λόγoυς. 53. Ossia, la natura che funge da sostrato. 54. Ossia, la forma. La lezione ης, proposta da Ross in luogo dell’ἧ («per altro verso, è un unico ‹principio› quello che possiede la definizione») e dell’ἣ («per altro verso, è un unico ‹principio› quello che costituisce la definizione») con cui Bekker e Torstrik hanno rispettivamente corretto un incomprensibile ηι dei manoscritti, assegna alla frase quella pienezza di senso che le altre due lezioni non sono in grado di conferirle. Anche una seconda proposta di Bekker (‹τὸ εἷδoς ἤ› ό λόγoς, ossia: «per altro verso, sono un unico ‹principio› ‹la forma› o la definizione») non migliora di molto il contenuto. Alla lezione di Ross mi sono pertanto attenuto. 55. Il riferimento è principalmente agli Eleati: sia a Parmenide (cfr. 192 a 1 ) che a Melisso. 56. I manoscritti recano oἷoν εἰ κύων ἐξ ἳππoυ γίγνoιτo («per esempio, se un cane si generi da un cavallo»), lezione che già Simplicio (239, 18) riteneva diffìcile. Mi sono perciò attenuto all’emendamento seguito da Ross, con il quale si rende il pensiero del tutto coerente e sensato. 57. Il riferimento è innanzitutto a Metaph., IX, 1-9. 58. Il riferimento è ai Platonici (cfr. Metaph., 1088 b 35-1089 a 6). 59. Ossia il modo platonico e quello proprio di Aristotele di concepire tre princìpi. 60. Vale a dire, la privazione. 61. Si tratta della materia. 62. Cfr. De Gen. Anim., 729 a 25; 732 a 8-10. 63. Cfr. Metaph., VII; XII.

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LIBRO SECONDO

II, 1 ‹La natura› ‹I› Degli enti, alcuni sono per natura, altri sono dovuti ad altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti, le pian 10 te e quelli fra i corpi che sono semplici, come la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua. Questi ‹enti›, infatti, e quelli di tal genere diciamo che sono per natura; e, con ogni evidenza, tutti questi differiscono rispetto a quelli che non sussistono per natura. Ché, ciascuno di questi ha in se stesso il principio del movimento e della quiete1: gli uni secondo il luogo, altri secondo aumento e diminuzione, altri ancora secondo alterazione. 15 Invece un letto, un mantello e, se vi è, qualche altro genere siffatto, in quanto hanno ricevuto tale e tal altra denominazione e per quanto derivano dall’arte, non possiedono nessuna inclinazione innata al mutamento, ma la possiedono in quanto è capitato loro di essere di pietra o di terra o misti di queste ‹materie›, e fino a tal punto, dal momento che 20 la natura è un certo principio e una causa dell’essere in movimento e in quiete in ciò in cui primariamente sussiste, per sé e non per accidente (dico «non per accidente» perché uno, essendo medico, potrebbe essere per se stesso causa egli medesimo di salute. Ma tuttavia non in quanto si guarisce possiede l’arte 25 medica, ma è capitato che la stessa persona sia medico e uno che viene guarito. Perciò ‹queste qualità› talvolta anche si separano l’una dall’altra). Similmente ‹si comporta› pure ciascuna delle altre cose prodotte, giacché nessuna di esse possiede in sé il principio della produzione, ma alcune ‹l’hanno› in altre cose e dal di fuori: per esempio, una casa e 30 ciascuno degli altri manufatti, altre ‹l’hanno› sì in se stesse, però non per se stesse: tutte quelle che potrebbero essere accidentalmente cause per se medesime. La natura è dunque quel che abbiamo detto2; e possiedono una natura tutte le cose che possiedono un tale principio. E tutte queste cose sono sostanza, giacché sono un certo sostrato e la natura è sempre in un sostrato. Sono conformi a natura queste cose e tutte quelle che appartengono loro per sé: per 35 esempio, al fuoco di portarsi in alto. Questo infatti non è natura, né possiede una natura, ma è per natura e conforme a 193 a 156

natura3. ‹II› Che cos’è dunque la natura, s’è detto, e che cosa ciò che è per natura e conforme a natura. Ma che esista la natura, è ridicolo cercare di dimostrare, giacché è evidente che gli enti di questo genere sono molti. E il dimostrare le cose ma nifeste 5 mediante le cose che non sono chiare è proprio di chi non è capace di giudicare ciò che è noto per sé e ciò che non lo è per sé (che possa capitare di patire questo, è chiaro. Uno, infatti, essendo cieco dalla nascita, potrebbe dare una prova sillogistica sui colori); per cui è inevitabile che per questo genere di individui la nozione concerna i nomi, ma non pensino niente. ‹1› Ad alcuni4 sembra che la natura e la sostanza degli enti 10 per natura siano ciò che, ‹essendo›5 per sé informe, è la cosa prima presente in ciascuno6: per esempio, la natura di un letto è il legno, quella di una statua il bronzo. Come prova, Antifonte7 afferma che, se si sotterrasse un letto e la putredine assumesse una capacità ‹tale› da far spuntare un germoglio, 15 non si genererebbe un letto, bensì del legno, poiché l’una cosa sussiste per accidente: la disposizione conforme a convenzione e l’arte, mentre la sostanza è quella che anche permane, pur avendo continuamente queste affezioni. E se anche ciascuna di queste cose ha avuto in rapporto a qualcos’altro questa stessa affezione, come il bronzo e l’oro in rapporto all’acqua e le ossa e i legni in rapporto alla terra, e similmente 20 una qualsiasi anche delle altre cose, è questo qualcos’altro la natura e la sostanza di quelle. Perciò, gli uni sostengono che la natura delle cose è il fuoco8, altri la terra9, altri l’aria10, altri l’acqua11, altri alcuni di questi12, altri tutti questi13. In effetti, quello di essi che si è supposto di tal genere, sia uno solo, sia più di uno, questo e questo numero di ‹elementi› si afferma essere tutta quanta la sostanza, mentre tutte le altre cose sono loro affezioni e stati e disposizioni. E ognuno di 25 questi ‹elementi›, qualunque sia, è eterno (giacché essi non hanno mutamento da se medesimi); invece le altre cose si generano e si corrompono un numero infinito di volte14. ‹2› In un modo, dunque, la natura si dice così, ossia come la materia che per prima funge da sostrato a ciascuna delle che cose hanno in se stesse il principio del movimento e del 30 mutamento; in un altro modo, come la forma e la specie che è conforme alla definizione. In effetti, come si dice «arte» ciò che è conforme all’arte e ciò che è artistico, così anche si dice «natura» ciò che è conforme alla natura e ciò che è naturale. E neppure in questo caso diremmo mai che alcuna cosa è conforme all’arte se è un letto soltanto in potenza, ma non possiede ancora la forma15 del letto, né che ‹in 157

essa› vi è arte, 35 né che vi è nelle cose che sussistono per natura: giacché la carne o l’osso in potenza non possiedono ancora la propria natura prima d’aver assunto la specie che è conforme alla 193 b definizione, con la quale, quando definiamo, enunciamo che cos’è carne o osso, né sono per natura. Per cui, in un altro modo la natura sarà la forma e la specie delle cose che hanno in se stesse il principio del movimento, senza che sia separabile se non secondo la nozione. (Ciò che deriva da queste 5 cose16 non è natura, ma è per natura: per esempio un uomo.) Ed essa17 è natura in misura maggiore della materia, giacché è allora che ciascuna cosa viene detta ‹tale›, quando sia in atto piuttosto che quando sia in potenza. Inoltre, un uomo si genera da un uomo, mentre un letto non si genera da un letto. Perciò essi sostengono anche che non la figura, ma il legno è la natura, giacché, se 10 germoglias se, non si genererebbe un letto, bensì del legno. Pertanto, se questo è natura18, anche la forma è natura. Infatti un uomo viene da un uomo. Inoltre la natura, detta nel senso di generazione, è via verso la natura: infatti non vien detta nel modo in cui lo è la guarigione: via non verso l’arte del guarire, bensì verso la 15 salute. Infatti è necessario che la guarigione, derivando dall’‹arte› medica, non abbia per scopo l’‹arte› medica. Non così, invece, la natura si rapporta alla natura, ma ciò che si genera procede da qualcosa verso qualcosa, in quanto si genera. Che cosa, dunque, si genera? Non ciò da cui ‹proviene›, ma ciò verso cui ‹tende›. Pertanto la natura è forma. ‹III› Ma in realtà la forma e la natura si dicono in due sensi. In effetti, anche la privazione in un certo senso è forma. 20 Ma se la privazione sia anche un certo contrario concernente la generazione assoluta o non lo sia, bisogna esaminare in seguito19.

II, 2 ‹L’oggetto della fisica› ‹I› Poiché si è distinto in quanti sensi si dice la natura, dopo ciò bisogna vedere per che cosa il matematico differisce dal fisico (in effetti, i corpi fisici hanno sia superfici, sia contorni 25 solidi, sia lunghezze, sia punti, e intorno a queste cose indaga il matematico); inoltre, se l’astrologia è diversa o una 158

parte della fisica: ché, se è proprio del fisico il conoscere che cos’è il sole o la luna, ma nessuno dei loro attributi20 per sé, si ha un assurdo, tanto più perché i filosofi della natura parlano, in tutta evidenza, anche della figura della luna e del sole e in più ‹indagano› se la terra e il cosmo siano di forma sferica o 30 no. Ebbene, di queste cose tratta anche il matematico, ma non in quanto ciascuna è limite di un corpo fisico; né indaga gli attributi in quanto si attribuiscono a cose che sono di tal fatta. Per questo pure le separa. Infatti, per il pensiero sono separabili dal movimento; e non ha alcuna importanza, né si produce falsità se esse sono separate. 35 ‹II› Anche ai sostenitori delle idee resta nascosto di compiere questo, giacché separano le cose fisiche, che sono meno separabili di quelle matematiche. Questo diverrebbe 194 a chiaro se si cercasse di enunciare le definizioni di ciascuno dei due tipi di cose: dei soggetti e degli accidenti. In effetti il dispari e il pari, il retto e il curvo, e inoltre il numero, la linea e la figura saranno senza movimento, ma giammai la carne, l’osso e 5 l’uomo, bensì queste cose si dicono come un naso si dice camuso, ma non come il curvo. Lo chiariscono anche le ‹parti› più fisiche delle matematiche, come l’ottica, l’armonica e l’astrologia, giacché in un certo modo stanno ‹alla fisica› in rapporto inverso alla geometria. Ché, la geometria indaga 10 intorno alla linea fisica, ma non in quanto fisica, mentre l’ottica ‹studia› la linea matematica, ma non in quanto matematica, bensì in quanto fisica. ‹III› Poiché la natura ‹si dice› in due sensi, come forma e come materia, bisogna studiarla così come se intorno alla camusità indagassimo che cos’è. Per cui le cose siffatte né sono senza materia, né ‹possono indagarsi› sotto il profilo della materia. ‹IV› Ciononostante anche intorno a questo si potrebbe 15 sollevare una difficoltà: dal momento che le nature sono due, intorno a quale delle due è proprio del fisico ‹indagare›. Ο non è forse intorno a ciò che ‹si compone› di entrambe? Ma se è intorno a ciò che si compone di entrambe, lo è anche intorno a ciascuna delle due. Dunque, è proprio della stessa ‹scienza› o di una ‹scienza› diversa render nota ciascuna delle due? ‹1› Ora, a chi guarda agli Antichi potrebbe sembrare che l’oggetto d’indagine del fisico sia la materia, giacché Empedocle e Democrito si sono tenuti aderenti per una piccola 20 parte alla forma e alla quiddità. E se l’arte imita la natura e fino a un certo punto è proprio della stessa scienza conoscere la forma e la materia (per esempio, è proprio del medico ‹conoscere› la salute e la bile e il muco, nei quali consiste la salute; e parimenti è proprio del costruttore di case ‹conoscere› la 25 e la materia della casa, poiché è mattoni e legni, e nello stesso modo è negli altri casi), anche della fisica sarà proprio il rendere note entrambe le nature. 159

‹2› Inoltre, sono propri della stessa ‹scienza› il ciò in vista di cui e il fine, e quanto è in vista di questi. E la natura è fine e ciò in vista di cui. Infatti, delle cose del cui movimento, essendo continuo, vi è un qualche fine, questo è il ‹termine› 30 ultimo e il ciò in vista di cui. Perciò il poeta fu sospinto a dire scherzosamente: «ha la fine in vista della quale è nato»21.

In effetti, non ogni ‹termine› ultimo vuol essere un fine, ma il migliore. Poiché anche le arti costruiscono la ‹loro› materia: le une in senso assoluto, le altre come cosa facile a lavorarsi, pure ‹noi ne› facciamo uso come se tutte le cose esistessero in vista 35 di noi ‹stessi› (in effetti, in un certo modo anche noi siamo un fine. Ché, il ciò in vista di cui è in due sensi, e lo si è detto nello scritto Intorno alla Filosofia22). E due sono le arti che 194 b comandano sulla materia e la rendono nota: quella che ‹ne› fa uso e quella che è architettonica della poietica. Per questo, anche l’‹arte› che ‹ne› fa uso è in un certo modo architettonica, ma vi è differenza in quanto una, ossia quella architettonica, è atta a far conoscere la forma, mentre l’altra, poiché è poietica, la materia. In effetti, il timoniere impara quale è la forma del timone e dà disposizioni ‹in proposito›, mentre il ‹costruttore del timone› da quale legno e da quali movimenti si avrà. Pertanto, nelle cose che sono secondo arte noi costruiamo la materia in vista dell’opera, mentre in quelle naturali ‹essa› è presente, sussistendo ‹già›. ‹3› Inoltre, la materia fa parte dei relativi, giacché una forma diversa ha una materia diversa. ‹V› Ebbene, fino a che punto il fisico deve conoscere la 10 forma e il che cos’è? Non forse come il medico ‹deve conoscere› il nervo o lo scultore il bronzo, ossia fino al punto in cui ciascuna ‹di queste determinazioni› è in vista di qualcosa e concerne quelle cose che sono sì separabili per la forma, ma in una materia? In effetti, un uomo lo generano un uomo e il sole. Ma quale sia il modo d’essere di ciò che è separato e del che cos’è, è compito della filosofia prima determinare2315.

II, 3 ‹Le cause› Definiti questi ‹argomenti›, bisogna compiere un’indagine sulle cause: quali sono e quante di numero. Poiché infatti la trattazione ha per fine il 160

sapere e riteniamo di non conoscere previamente ciascuna cosa, prima cioè d’aver compreso il perché riguardo a ciascuna (e questo è il comprendere la causa prima), è chiaro anche che noi dobbiamo effettuare 20 quest’‹indagine› in merito sia alla generazione e alla corruzione che a ogni altro mutamento, affinché, conoscendo i loro princìpi, cerchiamo di ricondurre a essi ciascuno degli ‹argomenti› che ricerchiamo. Ebbene, in un modo si dice «causa» ciò da cui qualcosa viene all’essere e che sussiste in esso: per esempio, il bronzo ‹si dice causa› della statua, l’argento della coppa e i loro 25 generi; in un altro, ‹si dicono causa› la forma e il paradigma, cioè la definizione della quiddità e i generi di questa24 (per esempio, del diapason, il rapporto del due all’uno e, in generale, il numero) e le parti comprese nella definizione. Inoltre, ‹si dice causa› da dove è il principio primo del mutamento o 30 della quiete: per esempio, ‹si dicono› causa colui che delibera e il padre del figlio e, in generale, ciò che fa di ciò che è fatto e ciò che produce il mutamento di ciò che muta. Inoltre, ‹causa si dice› come il fine, e questo è il ciò in vista di cui: per esempio, la salute del passeggiare. Infatti, perché passeggia? Diciamo: «per stare bene», e dicendo così crediamo di aver 35 mostrato la causa. E ‹si dice causa› anche tutto ciò che, un’altra cosa fungendo da motore, è a mezzo tra ‹essa e› il fine: per esempio, della salute, il dimagrimento o la purificazione o i 195 a farmaci o gli strumenti. In effetti, tutte queste cose sono in vista del fine, ma differiscono tra loro in quanto le une sono opere, le altre strumenti. Le cause, dunque, si dicono all’incirca in questo numero di modi. Ne consegue che, dicendosi le cause in molti sensi, della 5 medesima cosa vi siano anche molte cause, non per accidente: per esempio, della statua sia lo scultore che il bronzo, non sotto qualche diverso aspetto ma in quanto della statua; però 10 non nello stesso modo, bensì l’uno come materia, l’altro come ciò da cui ‹proviene› il movimento. E alcune cose sono pure causa l’una dell’altra: per esempio, il sopportare fatiche ‹lo è› della buona condizione e questa del sopportare fatiche; però non nello stesso modo, bensì l’una cosa come fine, l’altra come principio del movimento. Inoltre, la stessa cosa è causa dei contrari, giacché riteniamo che ciò che, essendo presente, è causa di una data cosa, anche quando è assente talvolta sia causa del contrario: per esempio, l’assenza del timoniere ‹è causa› del naufragio della nave, e la presenza di esso era causa della sua salvezza25. Tutte quante le cause che ora abbiamo esposto cadono nei 15 quattro modi più evidenti. Ché, sono cause come 20 il ciò da cui le lettere delle sillabe, la materia delle cose fabbricate, il fuoco e gli ‹elementi› di questo 161

genere dei corpi, le parti del tutto, le ipotesi della conclusione; e alcune di queste sono come il sostrato: per esempio, le parti; altre come la quiddità: l’intero, la composizione e la forma. Invece, lo sperma, il medico, colui che delibera, in generale ciò che agisce, tutte queste cose sono ciò da cui proviene il principio del mutamento o della quiete [o del movimento]26. Le cose che sono come il fine e il bene si annoverano tra le altre ‹cause›: ché, il ciò in vista di cui vuole essere la cosa migliore e ‹il› fine delle altre. E non faccia 25 alcuna differenza dire che è un bene in sé o un bene apparente27. Le cause, dunque, sono queste e di questo numero per la specie. Invece, i modi delle cause sono molti di numero, ma, se ricapitolati, anche questi sono di meno. In effetti, le cause si dicono in molti sensi e tra quelle stesse della medesima specie una viene prima e una dopo di un’altra: per esempio, 30 della salute, il medico e l’artista, del diapason, il doppio e il numero, e sempre ciò che contiene rispetto agli individui. Inoltre, alcune ‹sono cause› come ‹lo sono› l’accidente 35 e i suoi generi: per esempio, di una statua in un senso ‹è causa› Policleto, in un altro lo scultore, poiché per lo scultore è accidentale l’essere Policleto. Ancora, è causa ciò che contiene l’accidente: per esempio, se l’uomo o in generale ‹il› vivente fosse causa di una statua. E anche tra gli accidenti alcuni sono 195 b prima e più vicini di altri: per esempio, se si dicesse che l’‹uomo› bianco e l’‹uomo› musico sono causa della statua. E tutte ‹le cause›, sia quelle dette in senso proprio sia quelle per accidente, si dicono, le une, come essendo in potenza, le altre, come essendo in atto: per esempio, del costruire una casa il 5 costruttore di case o il costruttore che costruisce. Similmente si dirà anche per le cose le cui cause sono cause di quel che s’è detto: per esempio, di questa statua qui o della statua o in generale dell’immagine, e di questo bronzo qui o del bronzo o in generale della materia. E similmente è anche nel caso degli 10 degli. Inoltre, ‹le cause› saranno dette o come connesse o come queste e quelle28: per esempio, non ‹si dirà› «Policleto» né «lo scultore», bensì «lo scultore Policleto» ‹come causa della statua›. Ma comunque tutte quante queste ‹cause› sono sei di numero, dette in due sensi: in effetti, ‹sono cause› o come l’individuo, o come il genere, o come l’accidente, o 15 come il genere dell’accidente, o come queste cose dette in connessione o in modo semplice. E tutte o essendo in atto o secondo la potenza. Ma ‹esse› presentano questa così grande differenza, e cioè che quelle che sono in atto e quelle individuali sono e non sono contemporaneamente alle cose di cui sono cause: per esempio, questo medico a quest’uomo guarito e questo 20 costruttore di case a questa casa costruita; invece quelle in potenza non sempre: infatti, non si corrompono contemporaneamente la 162

casa e il costruttore di case. Sempre si deve ricercare la causa più elevata di ciascuna cosa29, come anche negli altri casi: per esempio, l’uomo costruisce una casa perché è costruttore di case, ed è costruttore di case secondo l’‹arte› del costruire case. Questa è dunque la 25 causa anteriore. E così anche negli altri casi. Inoltre, i generi ‹sono causa› dei generi, gli individui degli individui: per esempio, lo scultore della statua, questo ‹scultore› qui di questa ‹statua› qui. E le potenze ‹sono causa› di cose possibili, le cose in atto lo sono in rapporto alle cose in atto. Quante dunque sono le cause e il modo in cui sono cause, 30 sia stato da noi sufficientemente determinato.

II, 4 ‹La fortuna e il caso› Anche la fortuna e il caso si dice che sono tra le cause e che molte cose e sono e vengono all’essere ad opera della fortuna e del caso. In un certo modo la fortuna e il caso sono tra le cause anzi studiate, e bisogna esaminare se la fortuna e il caso siano la stessa cosa o una cosa diversa, e in generale che cos’è la fortuna e che cosa il caso. Alcuni pongono la questione anche se esistano o no. 35 Sostengono infatti che nulla viene all’essere dalla fortuna, ma 196 a che di tutte le cose, quante diciamo che vengono all’essere dal caso o dalla fortuna, vi è una causa determinata: per esempio, del fatto di andare fortuitamente nella piazza e di incontrare la persona che si voleva, ma che non si pensava, è causa il voler andare in piazza, essendovi andati. Similmente, anche 5 negli altri casi che si dicono provenire dalla fortuna è sempre possibile assumere alcunché come la causa, ma non la fortuna, giacché, se davvero la fortuna fosse qualcosa, parrebbe in realtà esserci un assurdo, e qualcuno potrebbe sollevare la questione perché mai nessuno degli antichi sapienti, enunciando le cause nell’ambito della generazione e della corruzione, non abbia determinato nulla intorno alla fortuna, 10 ma, come sembra, neppure essi ritenevano che alcuna cosa proviene dalla fortuna. Ma anche questo è sorprendente: infatti vengono all’essere e provengono dalla fortuna e dal caso molte cose che, pur senza ignorare che possono riportarsi, ciascuna, a qualche causa fra quelle che si verificano, come affermò l’antico discorso che elimina la fortuna, tuttavia tutti sostengono che, 15 di queste, alcune provengono dalla fortuna, altre invece non 163

provengono dalla fortuna. Per questo essi in verità avrebbero dovuto farne in qualche modo menzione, in una maniera qualsiasi. Ma in verità pensavano che la fortuna non fosse neppure una di quelle cose come l’Amore o l’Odio o la Mente o il fuoco o qualche altra fra quelle di questo genere. Vi è dunque una stranezza, sia che non abbiano supposto che esistesse, sia che, pur 20 ritenendolo, l’abbiano tralasciata; e ciò pur servendosene talvolta, come Empedocle sostiene che non sempre l’aria si separa nella regione più in alto, ma come capiti. E in effetti nella ‹sua› cosmogonia talvolta afferma che «Talora decise di estendersi così, ma spesso in altro modo»;

e sostiene che la stragrande maggioranza delle parti dei viventi si genera dalla fortuna. 25 Vi sono poi taluni30 i quali pongono il caso come causa sia di questo cielo che di tutti i mondi. Dal caso, infatti, derivano il vortice e il movimento che separa e dispone il tutto in quest’ordine. Ma proprio questo è degno che ci si meravigli assai, che dicano, cioè, che gli animali e le piante né sono né si 30 generano dalla fortuna, ma o la natura o la Mente o qualcos’altro di siffatto ne è la causa (in effetti, non ciò che capita viene all’essere da ciascun seme, ma da questo qui un ulivo, da quest’altro un uomo), mentre il cielo e le più divine fra le cose visibili si sono generate dal caso e non vi è ‹per esse› alcuna 35 causa tale quale quella degli animali e delle piante. Eppure, se è così, questa medesima circostanza è degna che vi si appunti l’attenzione ed è bene che si dica qualcosa intorno a 196 b essa. Ché, oltre a essere la tesi affermata assurda anche in altro senso, è ancora più assurdo il fare queste affermazioni pur vedendo che in cielo nulla si genera dal caso e che, invece, tra le cose che ‹a loro avviso› non provengono dalla fortuna, 5 molte derivano dalla fortuna. Eppure sarebbe logico che si verifichi il contrario. Vi sono poi alcuni31 ai quali sembra che la fortuna sia una causa, ma che sia oscura al pensiero umano, essendo alcunché di divino e di piuttosto demoniaco. Di conseguenza bisogna indagare e che cosa sono il caso e la fortuna separatamente presi, e se siano la stessa cosa o una cosa diversa, e in che modo ricadono nelle cause che abbiamo determinato.

II, 5 164

‹La natura della fortuna› Innanzitutto dunque, poiché vediamo che alcune cose 10 divengono sempre nello stesso modo, altre per lo più, è evidente che di nessuna di queste due ‹specie› si dicono causa la fortuna né ciò che deriva dalla fortuna: né di ciò che è per necessità e sempre, né di ciò che è per lo più. Ma poiché vi sono cose che vengono all’essere anche al di là di queste, e tutti dicono che esse provengono dalla fortuna, è evidente che 15 la fortuna e il caso sono alcunché. In effetti, sappiamo che le cose siffatte provengono dalla fortuna e che le cose che provengono dalla fortuna sono siffatte. Tra le cose che vengono all’essere, alcune vengono all’essere in vista di qualcosa, altre no; e, delle prime, alcune secondo scelta deliberata, altre non secondo scelta deliberata, ma entrambi i tipi di cose sono tra quelle in vista di qualcosa. Per cui è chiaro che anche tra quelle eccedenti ciò che è 20 necessario e ciò che è per lo più, ve ne sono alcune in merito alle quali è possibile che si dia ciò in vista di cui. È in vista di qualcosa sia tutto quel che può esser compiuto dal pensiero, sia tutto quel che può esserlo dalla natura. Ora, le cose di questo tipo, quando si producano per accidente, diciamo che provengono dalla fortuna. In effetti, come l’essere è per un verso per sé, per un altro per accidente, 35 così è possibile che sia anche la causa: per esempio, di una casa causa per sé è il costruttore di case, per accidente il bianco o il musico. Ora, la causa per sé è determinata, quella per accidente indennità, giacché di un’unica cosa possono esserci infiniti accidenti. Come dunque s’è detto, quando tra le cose che si producono in vista di alcunché si verifica questo, allora si 30 dice che ‹la cosa proviene› dal caso e dalla fortuna. La differenza tra queste stesse cose va determinata in seguito. Per il momento questo sia evidente, che entrambe si collocano tra ciò che è in vista di qualcosa: per esempio, ‹un uomo› sarebbe potuto andare a riscuotere il denaro, dal momento che ‹il suo debitore› riceveva una quota per una cena a pagamento, se lo 35 avesse saputo. Ma andò non per questo fine, bensì gli è capitato di andare e di farlo in vista del recuperare ‹il denaro›. 197 a E questo senza frequentare il luogo né per lo più né per necessità. Il fine, il recupero ‹del denaro›, non fa parte delle cause immanenti, bensì di quelle deliberatamente sceglibili e derivanti dal pensiero. E, in verità, allora si dice che è andato fortuitamente; se invece ‹è andato› avendo deliberatamente operato una scelta anche in vista di questo o frequentando questo ‹luogo› sempre o per lo più, non ‹è andato› fortuitamente32. 5 È chiaro, pertanto, che la sorte è causa per accidente, tra le cose 165

conformi a scelta deliberata, di ciò che è in vista di qualcosa. Per questo la sorte e il pensiero hanno per oggetto la stessa cosa. Infatti la scelta deliberata non è senza pensiero. Ora, è necessario che le cause dalle quali può prodursi ciò che è fortuito, siano indeterminate. Donde è opinione che anche la fortuna si annovera tra quel che è indeterminato ed è 10 oscura per l’uomo33, e d’altro canto è plausibile che si sia potuto credere che nulla si produce fortuitamente34. Infatti, tutte queste cose si dicono rettamente, poiché ‹si dicono› in modo ben logico35. In effetti, è possibile che si dia venuta all’essere fortuitamente, giacché si dà venuta all’essere per accidente e la fortuna è causa come un accidente; ma in senso assoluto non lo è di niente: per esempio, di una casa è causa il 15 di case, ma per accidente il suonatore di flauto, e del fatto che, essendo andati, si recuperi del denaro, senz’essere andati in vista di questo, ‹le cause› sono infinite di numero: ‹si è andati›, infatti, sia perché si vuol vedere qualcuno, sia perché lo si persegue, sia perché lo si fugge, sia perché lo si è visto. Anche il dire che la fortuna è qualcosa di contrario alla ragione36 è in modo corretto, giacché la ragione è propria o delle cose che sono sempre o di quelle che sono per lo più, mentre la fortuna si annovera tra le cose che si producono al 20 di là di queste. Di conseguenza, poiché le cause ‹che stanno› in questo modo sono indeterminate, anche la fortuna è una cosa indeterminata. Tuttavia in certi casi si potrebbe sollevare il problema se le cose accidentali non potrebbero essere cause della fortuna: per esempio, se della salute lo siano o un vento o un riscaldamento, ma non l’essersi tagliati i capelli. Ché, tra le cause per accidente, alcune sono più prossime di altre. Si parla di buona fortuna quando capiti qualcosa di buono, 25 di cattiva quando capiti qualcosa di cattivo, di prosperità e di disgrazia quando ‹capitino› queste cose provviste di grandezza. Perciò, anche il conseguire per poco un grande male o un grande bene è o avere prosperità o avere disgrazia, giacché il pensiero ne dice come di una cosa sussistente. In effetti, quel che eccede di poco è comunemente ammesso 30 che dista come di nulla. Inoltre, la prosperità è, ben logicamente, cosa insicura, giacché la fortuna è insicura. In effetti, nessuna delle cose che provengono dalla fortuna né è possibile sempre, né per lo più. Pertanto, come s’è detto, entrambe le cause per accidente, sia la fortuna che il caso, fanno parte delle cose che possono venire all’essere non in senso assoluto né per lo più e, fra 35 queste, quante possono prodursi in vista di qualcosa.

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II, 6 ‹La differenza tra fortuna e caso› ‹Il caso e la fortuna› differiscono perché il caso ha maggiore estensione. In effetti, tutto ciò che proviene dalla fortuna, proviene dal caso, ma non tutto questo proviene dalla fortuna. Che, la fortuna e ciò che proviene dalla fortuna sono 197 b propri di tutto ciò a cui potrebbero appartenere anche l’avere prosperità e, in generale, l’azione. Per questo è pure necessario che la fortuna abbia per dominio le cose che sono oggetto d’azione. Ne è prova il fatto che, a unanime avviso, la prosperità è cosa identica alla felicità o le è vicina, e la 5 felicità consiste in una certa azione, giacché è agire bene37. Di conseguenza, a tutto ciò cui non è possibile compiere azioni, neppure ‹compete› il fare alcunché che provenga dalla fortuna. E per questo né una cosa inanimata, né un animale, né un bambino entrano nella sfera della fortuna, giacché non possiedono scelta deliberata. Né prosperità né sfortuna competono a costoro, se non per somiglianza, al modo in cui Protarco disse 10 che sono ben fortunate le pietre dalle quali derivano gli altari, poiché sono onorate, mentre le loro consorelle vengono calpestate. Ma d’altro canto anche a queste cose competerà in certo qual modo il patire ad opera della fortuna, quando chi compie qualcosa nel loro ambito agisca fortuitamente. In altro modo non è possibile. Il caso, invece, ‹compete› anche agli altri viventi e a molte 15 molte le cose inanimate: per esempio, il cavallo — diciamo — è proceduto per caso38, poiché si è, sì, salvato procedendo, ma non è proceduto allo scopo di salvarsi. Anche il tripode è piombato a terra per caso: infatti, stette al fine di far sedere, ma non cadde allo scopo di far sedere. Di conseguenza, è evidente che nell’ambito delle cose che in senso assoluto vengono all’essere in vista di qualcosa, quando non si producano in vista dell’‹esito› che sopraggiunge 20 e la causa è al di fuori di esse, allora diciamo «dal caso»; ma «dalla fortuna» è proprio di tutte quelle cose che si producono dal caso, le quali possono essere oggetto di scelta deliberata per coloro che possiedono una scelta deliberata. Una prova è l’espressione «invano», la quale si pronuncia quando non si produce ciò in vista di cui ‹si compie qualcosa›39, ma ciò che è in vista di esso40: per esempio, il passeggiare è in vista dell’evacuazione; ma se per chi 25 passeggia non si produce, diciamo che ha passeggiato invano e che la passeggiata ‹è stata› vana, nella supposizione che questo sia l’«invano»: ciò che per sua natura è in vista di un’altra cosa, quando non raggiunga quella cosa in vista della quale era per sua natura. Ché, se uno dicesse d’aver fatto 167

il bagno invano perché il sole non s’è eclissato, sarebbe ridicolo. Infatti questa cosa non era in vista di quella. Ebbene, così il caso, anche in conformità del suo nome, esiste quando la cosa si produce invano. In effetti la pietra cadde giù non al fine di 30 colpire; pertanto la pietra cadde giù «per caso», poiché ‹altrimenti› sarebbe caduta ad opera di qualcuno e al fine di colpire. Si verifica la massima separazione dalla fortuna nelle cose che si producono per natura. Infatti, quando venga all’essere qualcosa contro natura, allora diciamo che è venuto all’essere non dalla fortuna, ma piuttosto dal caso. Ma anche questa è una cosa diversa: giacché la causa della prima 35 è esterna, quella della seconda interna. Che cos’è, dunque, il caso e che cosa la fortuna s’è detto, e 198 a in che cosa differiscono tra loro. Quanto al modo della causa41, ciascuno di essi si annovera tra le cose da cui proviene il principio del movimento, giacché è sempre qualcuna delle cause o naturali o provenienti dal pensiero. Ma la quantità di queste è infinita42. Poiché il caso e la fortuna sono cause delle cose di cui 5 possono essere causa o l’intelligenza o la natura, quando di queste stesse si produca per accidente una qualche causa, e poiché nulla di accidentale è prima di ciò che è per sé, è chiaro che ciò che è per accidente non è neppure anteriore a ciò 10 che è per sé. Pertanto il caso e la fortuna vengono dopo e dell’intelligenza e della natura. Per cui, se causa del cielo fosse soprattutto il caso43, sarebbe necessario che prima l’intelligenza e la natura fossero causa e di molte altre cose e di questo tutto.

II, 7 ‹La conoscenza delle quattro cause› Che dunque vi siano cause, e che siano tante di numero 15 quante sosteniamo, è chiaro. Tante di numero, infatti, abbracciano il perché. In effetti il perché ultimo riconduce, nelle cose immobili, al che cos’è, come nelle matematiche (infatti riconduce alla definizione del retto o del commensurabile o di qualcos’altro come al ‹perché› ultimo) o al motore primo (per esempio, perché fecero guerra? Perché li si depredò), o all’in 20vista di che cosa? (per comandare); oppure, nelle cose che divengono è la materia. Che dunque le cause siano queste e di questo numero, è evidente. E poiché le cause sono quattro, è compito del fisico aver conoscenza di 168

tutte, e si forniranno esplicazioni in modo fisico riconducendo il perché a tutte: alla materia, alla forma, al motore e all’in vista di cui. E sovente tre si riducono a una: 25 infatti il che cos’è e il ciò in vista di cui sono una sola cosa, e ciò da cui deriva il movimento come cosa prima è identico a queste. Infatti, l’uomo genera un uomo. E in generale tutto ciò che è in movimento muove; invece tutto ciò che non lo è, non è più oggetto della fisica. Infatti, muove senza avere in sé il movimento né il principio del movimento, ma essendo immobile. 30 Per questo le trattazioni sono tre: una, intorno a ciò che è immobile; una, intorno a ciò che è in movimento, ma incorruttibile; una, intorno a ciò che è corruttibile44. Di conseguenza, il perché viene esplicato da chi lo riconduce sia alla materia, sia al che cos’è, sia al motore primo. In effetti, intorno alla generazione si indagano le cause soprattutto in questo modo: ‹ricercando› che cosa si produce dopo che cosa, qual è la cosa prima che ha agito o quale ‹la cosa prima› che ha 35 patito, e sempre così di seguito.

Frontespizio della Fisica tradotta dal greco in italiano da Antonio Bruccioli (Venezia, Bartolomco Imperatore, 1551).

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I princìpi che muovono in modo fisico sono duplici, uno dei quali non è fisico, giacché non possiede in sé il principio 198 b del movimento. Una cosa è siffatta se muove senza essere mossa, come ciò che è completamente immobile e la prima di tutte ‹queste› cose, il che cos’è e la forma: infatti, ‹sono› anche fine e ciò in vista di cui. Di conseguenza, poiché la natura è in vista di qualcosa, si deve conoscere anche questo. E bisogna esplicare il perché in tutti i casi: per esempio, 5 che da questa data cosa deriva necessariamente quest’altra — e il da questa data cosa è o in senso assoluto o per lo più —, e se deve poi aversi questa cosa qui, come dalle proposizioni la conclusione, e che questa era la quiddità, e perché è meglio così: non in senso assoluto, ma in rapporto alla sostanza di ciascuna cosa. II, 8 ‹La critica del meccanicismo› Ebbene, innanzitutto bisogna dire perché 10 la natura fa parte delle cause finali; indi, in merito al necessario, come sussiste nelle cose naturali. Tutti45, infatti, riconducono ‹ogni ente› a questa causa, ‹sostenendo› che, dal momento che il caldo e il freddo e ciascuna delle cose siffatte è tale per natura, queste cose qui46 esistono e si producono di necessità. Ché, se nominino un’altra causa, per quanto l’abbiano raggiunta le 15 lasciano dare l’addio47: tanto colui che ‹nomina› l’Amore e l’Odio48 quanto colui che ‹nomina› la Mente49. Si presenta una difficoltà: che cosa impedisce che la natura agisca non in vista di qualcosa, né perché ‹questo› è ottimo, ma come Zeus fa piovere: non perché il grano poi aumenti, ma per necessità. Ché, ciò che si è portato in alto è necessario che si raffreddi e ciò che si è raffreddato, divenendo acqua, 20 che discenda; e se si verifica questo, consegue l’aumentare del grano. Parimenti, anche se con questo ‹fenomeno›50 il grano va in rovina sull’aia, non è piovuto in vista di questo, ossia perché andasse in rovina, ma si è avuta questa conseguenza. Per cui, che cosa impedisce che anche le parti nella natura si comportino così: per esempio, che i denti anteriori, idonei a 25 di necessità spuntino aguzzi, mentre i molari larghi e utili a tritare il cibo, giacché non si sono prodotti per questo fine, ma ‹esso› è capitato in concomitanza. E similmente anche per ciò che riguarda le altre parti, tutte quelle nelle quali sembra sussistere l’in 30 vista di questo. Là, dunque, dove tutte quante le cose siano accadute come se anche si desse un in vista di questo, queste cose si sono salvate, stando casualmente assieme in modo 170

conveniente; invece tutte quelle che non stanno così, sono andate e vanno in rovina, come Empedocle sostiene ‹che abbiano fatto› i bovini dal muso umano51. ‹1› Dunque, il discorso con il quale si possono sollevare delle difficoltà è questo e, se ne esiste qualche altro, è di questo genere. Ma è impossibile che sia in questo modo. Ché, 35 queste cose e tutte quelle naturali o sempre o per lo più vengono all’essere così, mentre nessuna di quelle dovute alla fortuna e al caso ‹viene all’essere così›. Infatti, non è dalla fortuna 199 a né dal caso che — come tutti ammettono — d’inverno piove sovente, ma semmai sotto la canicola; né che sotto la canicola si abbiano calori, ma semmai in inverno. Se dunque — ad avviso unanime — ‹le cose› si producono o per una coincidenza o in vista di qualcosa, se non è possibile che quelle 5 sopraddette derivino né da una coincidenza né dal caso, saranno in vista di qualcosa. Ma in realtà tutte le cose siffatte sono per natura, come direbbero anche coloro che sostengono queste ‹tesi›. Pertanto, nelle cose che vengono all’essere e sono per natura vi è l’in vista di qualcosa. ‹2› Inoltre, in tutto ciò in cui vi è un certo fine, quel che è anteriore e quel che è consecutivo sono compiuti in vista di questo. Pertanto, ogni cosa, come è compiuta, così è per natura e come è per natura, così è compiuta, se alcunché non 10 l’impedisca. Ma è compiuta in vista di qualcosa. Quindi, per natura è anche in vista di qualcosa. Per esempio, se la casa facesse parte delle cose che si producono per natura, si produrrebbe così come ora ‹è prodotta› dall’arte. E se le cose naturali non si producessero soltanto per natura, ma anche per arte, si produrrebbero nello stesso modo in cui sono per natura. Pertanto una cosa è in vista dell’altra. ‹3› In generale, l’arte porta a compimento alcune cose che la natura è nell’impossibilità di effettuare, altre le imita. Se, dunque, le cose secondo arte sono in vista di qualcosa, è chiaro che lo sono pure quelle secondo natura. Ché, nelle cose secondo arte e in quelle secondo natura ciò che è posteriore e ciò che è anteriore si rapportano in modo simile l’uno all’altro52.15 ‹4› ‹Questo› è evidente soprattutto nel caso degli altri viventi, 20 i quali non agiscono né per arte, né in seguito a una ricerca, né in seguito a una deliberazione. Donde, alcuni pongono il problema se i ragni e le formiche e gli ‹animali› siffatti agiscano con la mente o con qualche altra ‹facoltà›. E a chi avanza un poco in questo modo risulta con chiarezza che anche nelle piante quel che è utile si produce in rapporto al fine: 25 per esempio, le foglie per il riparo del frutto. Di conseguenza, se per natura e in vista di 171

qualcosa la rondine costruisce il nido e il ragno la tela, e le piante fanno le foglie in vista dei frutti e le radici non in alto, bensì in basso in vista del nutrimento, è evidente che tale causa è nelle cose che per natura si 30 producono e sono. ‹5› E poiché la natura è duplice: da un lato, come materia, dall’altro, come forma, e questa è fine, e in vista del fine sono le altre cose, questa sarà la causa finale53. ‹1› Ma si produce un errore anche nelle cose secondo arte, giacché il grammatico scrive non correttamente e il medico fabere 35 il farmaco non correttamente. Per cui è chiaro che può esserci anche nelle cose secondo natura. Ora, se vi sono alcune 199 b cose secondo arte nelle quali, da un lato ciò che ‹si attua› correttamente è in vista di qualcosa, dall’altro negli aspetti sbagliati si mette mano in vista di qualcosa, ma lo si fallisce, similmente sarà anche nelle cose naturali e i mostri sono errori di quell’in vista di qualcosa. E, pertanto, se nelle ‹loro› 5 costituzioni originarie i bovini non fossero in grado di pervenire a un certo scopo e a un fine, ‹ciò› avverrebbe perché si è corrotto un certo principio, come ora ‹i mostri sono tali per la corruzione› del seme. ‹2› Inoltre, è necessario che il seme si produca per primo, ma non che ‹si producano› subito gli animali. E «l’«informe iniziale» è seme54. 10 ‹3› Inoltre, anche nelle piante è presente l’in vista di qualcosa, ma è meno articolato. Ebbene, forse che, come i bovini dal muso umano, così anche tra le piante potrebbero prodursi delle viti dall’aspetto d’ulivo, o no? Ché, sarebbe assurdo. Ma in realtà sarebbe necessario, se ‹questo si verificasse› anche tra gli animali. ‹4› Inoltre, occorrerebbe anche che nei semi si desse generazione come capita. 15 ‹5› In senso complessivo, chi fa queste affermazioni elimina le cose naturali e la natura. Infatti, sono naturali55 tutte le cose che, mosse continuamente da un qualche principio interno a se stesse, giungono a un qualche fine. Ma da ciascun ‹principio› non deriva il medesimo ‹fine› per ciascuna ‹di tali cose›, né quello che capita, ma certamente ‹ciascuna si muove› sempre verso il medesimo ‹fine›, se qualcosa non lo impedisca56. ‹6› Il ciò in vista di cui e ciò che è in vista di questo possono prodursi anche fortuitamente: per esempio, diciamo che 20 lo straniero è giunto fortuitamente e, dopo essersi purificato, se n’è andato, quando agisca come se fosse giunto per questo, ma non sia giunto per questo. E ciò è per accidente, giacché la fortuna fa parte delle cause per accidente, come abbiamo detto anche prima. Ma quando questa cosa accada sempre o per lo 172

più, non è un accidente, né ‹si produce› fortuitamente. E 35 nelle cose naturali è sempre così, a meno che qualcosa non le impedisca. ‹7› È assurdo il non credere che vi sia generazione in vista di qualcosa, se non vedano il motore mentre decide57. Eppure anche l’arte non decide. E infatti, se58 l’arte di costruire navi fosse nel legno, agirebbe similmente alla natura. Di conseguenza, se nell’arte è presente l’in vista di questo, lo è anche 30 nella natura. È chiaro soprattutto quando qualcuno guarisca se stesso. Ché, la natura assomiglia a costui. Che dunque la natura sia una causa, e che lo sia così come Yin vista di questo, è evidente.

II, 9 ‹La natura e la necessità› Ciò che è per necessità esiste forse per ipotesi o anche in senso assoluto? Ora, infatti, ritengono59 che ciò che è per 35 necessità sia nella generazione, come se si pensasse che il 200 a muro si è prodotto per necessità: poiché le cose pesanti per loro natura si portano verso il basso, mentre quelle leggere alla 5 superficie, per questo le pietre e le fondamenta ‹si portano› verso il basso, mentre verso l’alto la terra, per la leggerezza, e massimamente alla superficie i legni, giacché sono i più leggeri. Ma tuttavia, se senza queste cose non si ha generazione, nondimeno non ‹si ha› a causa di queste cose, se non nel senso di «a causa della materia», bensì in vista del nascondere talune cose e del salvarle60. Similmente, anche in tutti gli altri casi, in tutti quelli in cui vi è l’in vista di questo, ‹la generazione› non è senza le cose che, quanto alla loro natura, sono necessarie, ma tuttavia non è tramite queste cose, se non nel 10 di «tramite la materia», bensì in vista di questa cosa: per esempio, perché la sega è così? Perché questa cosa qui è in vista di questa cosa qui. Tuttavia, questo ciò in vista di cui è impossibile che si produca se ‹la sega› non sia di ferro. Pertanto è necessario che sia di ferro se dev’essere una sega e deve aver luogo la sua opera. Quindi, il necessario è per ipotesi, ma non come fine. In effetti, il necessario è nella materia, mentre il fine nella nozione61. 15 Il necessario nelle matematiche e nelle cose che si producono per natura si dà, in un certo senso, in maniera simile. ‹A› ‹1› Poiché infatti il retto62 è questa cosa qui, è necessario che il triangolo abbia gli angoli uguali a due retti. ‹2› Ma non perché si dà questa ‹conseguenza›, si dà quella 173

‹nozione›63; ‹3› però, se questa ‹conseguenza› non si dà, non si dà neppure il retto. ‹B› Invece nelle cose che si producono in vista di 20 qualcosa è l’inverso: ‹1› se vi sarà o vi è il fine, vi sarà o vi è anche ciò che è prima64; ‹2› ma se non ‹esiste ciò che è prima›, come nel caso precedente se non si dà la conclusione non si darà neppure il principio, anche in chiesto ‹non si daranno› il fine e il ciò in vista di cui. Infatti, anche il fine è principio: non dell’esecuzione65, bensì del ragionamento. Nel caso precedente, invece, del ragionamento ‹soltanto›, giacché non vi sono esecuzioni. Di conseguenza, se vi sarà una casa, è necessario che si producano o che sussistano queste ‹condizioni›, o 25 che in generale vi sia la materia in vista di questo: per esempio, mattoni e pietre, se si tratta di una casa. Tuttavia il fine non è causato da queste cose, se non come dalla materia, né sarà causato da queste cose. Tuttavia, in generale, se ‹esse› non si danno non si darà né la casa né la sega: la prima, se non si danno le pietre; la seconda, se non si dà il ferro. Ché, neppure nel caso precedente si danno i princìpi se il triangolo non 30 ha gli angoli uguali a due retti66. È evidente, quindi, che il necessario nelle cose naturali sono ciò che si dice come materia e i suoi movimenti. E il fisico deve esporre entrambe le cause, ma soprattutto quella finale, giacché l’in vista di qualcosa è causa della materia, ma questa non è ‹causa› del fine. E il fine è il ciò in vista di cui, e il principio muove dalla 35 definizione e dalla nozione, come nelle cose secondo arte: 200 b poiché la casa è un ente di tale qualità, necessariamente devono prodursi e sussistere queste date cose, e poiché la salute è questa cosa qui, necessariamente devono prodursi e sussistere queste date cose. In questo modo, anche se l’uomo è questa cosa qui, ‹necessariamente devono prodursi e sussistere› queste date cose; e se queste date cose, queste date altre. 5 Forse anche nella nozione si dà il necessario. Infatti, a chi definisce l’opera del segare ‹risulta› che ‹essa› è una divisione di questo dato tipo; ma questa non si darà se ‹la sega› non avrà denti di questa data qualità; e questi non si avranno se non saranno di ferro. In effetti, anche nella nozione alcune parti sono come materia della nozione. tica: la necessità non riguarda il fine (esso non si rapporta alle condizioni materiali come la conclusione rispetto alle premesse nei ragionamenti matematici), ma riguarda le condizioni materiali, una volta posto il fine. 1. Sul fatto che il testo rechi ἀρχὴν κινήσεως καὶ στάσεως, non τὴν ἀρχὴν κινήσεως καὶ στάσεως e sul peso che questo comporta in ordine alla determinazione dell’essenza degli enti di natura, nella loro distinzione dai prodotti delle arti, cfr. Introduzione, p. 10. In questa sede mette conto precisare che, 1) sul piano strettamente linguistico e grammaticale, l’assenza

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dell’articolo non comporta necessariamente che sia indicato «un principio» (per il che sarebbe piuttosto da aspettarsi αρχήν τίνα): senza articolo, infatti, il nome greco indica anche la cosa nella sua generalità (per esempio, ἄνϑρωπoς indica l’uomo, nella sua generalità astratta; cfr. J. HUMBERT, Syntaxe grecque, 3ème édition revue et augmentée, Paris 1960, p. 44); inoltre, il nome comune, quando è attributo, come nel caso in questione, rifiuta l’articolo (cfr. HUMBERT, op. cit., p. 45). Di conseguenza, può ben tradursi «il principio», senza contravvenire per questo un uso linguistico consolidato dalla grammatica, ma, anzi, conformandosi pienamente a essa, soprattutto per l’aspetto che qui «principio» sembra designato nella sua funzione tipizzante. 2) Il fatto, poi, che gli enti naturali abbiano intrinseco a sé «il principio» del movimento e della quiete non significa che essi non siano determinati anche da princìpi, ossia da cause, loro esterni, ma significa unicamente che non sono questi i princìpi e le cause che li caratterizzano nella loro essenza specifica, mentre li caratterizza in questa modalità il principio immanente. Il quale, proprio per questo, può ben dirsi «il principio» di tali enti. 2. Cfr. 192 b 21-23. 3. Simplicio (271, 12-12) precisa che sono «per natura» (φύσει) le cose prodotte dalla natura, mentre sono «conformi a natura» (κατὰ φύσιν) quelle che s’accordano col piano della natura. Tuttavia la distinzione non è sempre rispettata da Aristotele, né a livello terminologico, né a livello concettuale (cfr. Ross, Commentary, p. 501). 4. Il riferimento è ai Presocratici, per i quali la φύσις è la sostanza originaria degli enti, sia nello loro singola individualità che nel tutto dell’esistente. Λ quest’idea di φύσις fanno riferimento PLATONE (Phaed., 96 a 7; Leg., 891 c) e l’incerto fr. 910 di EURIPIDE (cfr. J. BURNET, Early Greek Philosophy, 3a ed., London 1920, p. 363). Aristotele «recupera» la nozione presocratica di φύσις all’interno della propria determinazione dottrinale di sostrato, assimilandola a esso. 5. Accolgo l’aggiunta di ov, proposta da Ross. 6. Sul significato di «prima» in quest’espressione, come in quella di 193 a 29 («la materia che per prima funge da sostrato»), cfr. Introduzione, pp. 16 sgg. 7. Cfr. D. Κ 87 Β 15. 8. Si tratta di Eraclito e Ippaso (cfr. Μetaph., 984 a 7). 9. Il riferimento è forse a Esiodo (cfr. Metaph., 989 a 9. Ma in Metaph., 989 a 5 e in De An., 405 a 8 Aristotele afferma che nessun filosofo ha posto la terra come principio). 10. Anassimene e Diogene di Apollonia (cfr. Metaph., 984 a 5). 11. Talete e Ippone (cfr. Metaph., 984 a 2). 12. Il riferimento è probabilmente alla via dell’opinione di Parmenide, il quale, secondo l’indicazione che ne dà Aristotele (cfr. Phys., 188 a 20; Metaph., 984 b 4; 986 b 35), sostenne che il fuoco e la terra sono gli elementi ultimi. 13. Riferimento a Empedocle (cfr. Metaph., 984 a 8). 14. Si confronti l’intero passo con Metaph., 983 b 6-18. 15. Traduco, qui come altrove, con «forma» il sostantivo εἶδoς, che nell’espressione τo εἶδoς τὸ κατὰ τὸν λόγoν e in unione a μoρφή ho reso con «specie». 16. Cioè dalla materia e dalla forma. 17. Ossia la forma. 18. Se, come mi sembra, il modo più lineare e semplice d’intendere il ragionamento è il seguente: se deve considerarsi «natura» il legno, come vogliono quei filosofi, e in generale la materia, a maggior ragione sarà natura la forma, giacché essa caratterizza gli enti naturali nel loro venire all’essere (l’uomo viene all’essere da un uomo); allora la sostituzione di τέχνη con φύσις, secondo la proposta di Ross, è quanto mai auspicabile. Va da sé che in tal caso τoῦτo deve riferirsi a τo ξύλoν e non a κλίνη. 19. Cfr. 224 a 21 sgg. 20. Il termine greco è συμβεβηκότα (letteralmente, «cose che accadono»), che in altri

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contesti (e molto più di sovente) è stato reso con «accidenti». Di conseguenza, alla riga 193 b 33 συμβέβηκεν (letteralmente, «sopraggiungono») è stato tradotto con «si attribuiscono». 21. Cfr. EURIPIDE, in FILOPONO, 236, 7; ma BONI TZ, Ind. arist., 607 b 25 attribuisce il verso a un poeta comico. 22. Il passo «Inoltre» Filosofia» (104 a 27-36) è riportato come fr. 30 del Περί φιλoσoφίας negli Aristotelis Dialogorum Fragmenta di R. Walzer e come fr. 28 negli Aristotelis Fragmenta Selecta di W. I). Ross. I due sensi in cui si dice «ciò in vista di cui» sono indicati in De An., 415 b 2-3 («il "ciò in vista di cui" e duplice: da un lato è il "ciò di cui [τὸ oὗ]", dall’altro il "ciò a vantaggio di cui [τὸ ᾧ]"», ossia, da un lato lo scopo, dall’altro il soggetto al quale una certa cosa è finalizzata. Per esempio, il «ciò di cui» dell’arte medica nel primo senso ò la salute, perché essa costituisce lo scopo che quest’arte vuole realizzare, nel secondo senso è il malato, in quanto colui a vantaggio del quale la medicina opera) e in Metaph., 1072 b 2-3 («il "ciò in vista di cui" è, da un lato, "a vantaggio di qualcuno" [τινί], dall’altro "di qualcosa" [τινός]»). 23. Cfr. Metaph., XII, 6-10. 24. La quiddità (τὸ τί ἦν εἷναι) è l’essenza, espressa dalla definizione, la quale a sua volta è data dal genere prossimo e dalla differenza specifica. I «generi» della definizione — e quindi della stessa quiddità — sono i «generi remoti», vale a dire quelli sotto cui cade il genere prossimo, fino a risalire, regressivamente, al genere categoriale. 25. Sul punto si veda anche Phys., 251 a 28-b 1. 26. Col Ross espungo ἤ κινήσεως. 27. In proposito si veda De An., 423 a 28; Mot. an., 700 b 28; Rhet., 1369 a 2; b 28. Ossia, o come combinate assieme o come separate. 29. Sulla causa prima cfr. anche Phys., 184 a 12; 7, 198 a 16, nonché Metaph., I, 3; 1015 a 17; 1044 a 32; De Gen. Anim., 765 b 4. 30. Riferimento agli Atomisti e in particolare a Democrito. 31. Pare trattarsi di Anassagora: a costui Stobeo, nei Placita, attribuisce un’analoga dottrina professata dagli Stoici. 32. Seguendo la lezione del Ross, espungo κoμιζόμενoς. 33. È l’ultima delle tre opinioni esposte nel precedente capitolo. 34. È la prima opinione. 35. Con la maggior parte degli interpreti e dei traduttori seguo la lezione ὅτι εὐλόγως. 36. È, con ogni probabilità, un’opiuione corrcntc, non professata da nessun filosofo in particolare. 37. I termini che abbiamo tradotto con «avere prosperità» e con «prosperità» sono, rispettivamente, εὐτυχῆσαι ed εὐτυχία; in essi è dunque nominata la fortuna (τύχη). La prova che quest’ultima ha un ambito più ristretto del caso, perché è relativa unicamente al dominio della prassi, si struttura così sull’analisi linguistica di ciò che il comune modo di pensare (δoκεῖ) intende per prosperità: qualcosa di assai prossimo, se non addirittura di identico, alla felicità, la quale, com’è determinato nei trattati di etica, è relativa all’azione, anzi, costituisce il supremo bene pratico. 38. Letteralmente «muovendosi da sé» (αὐτόματoς). Si ponga mente alla circo stanza che quest’espressione, detta del cavallo, qui, del tripode qualche parola più avanti, enuncia al genere maschile ciò che, enunciato col neutro (ταὐτόματoν), indichiamo come il caso. Che propriamente significa «ciò che si muove da sé». 39. Ossia il fine. 40. Ossia ciò che ha valore strumentale rispetto al fine. 41. L’accusativo singolare τρόπoν, in funzione di complemento di relazione, conferisce piena plausibilità alla frase e perciò va assunto — in sostituzione del genitivo plurale τῶν τρόπων, mal agevolmente collocabile. Le lezioni της δ’αΐτίας τoν τρόπoν e τὸν δὲ τρόπoν τῆς αἰτίας sono del tutto equivalenti quanto alla struttura sintattica, ancorché dal punto di vista paleografico la prima sembri più plausibile, limitando al massimo l’intervento correttivo.

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42. Cfr. ante, 5, 196 b 28. 43. Cfr. ante, 4, 186 a 24. 44. Si tratta, rispettivamente: a) dei motori immobili, b) degli astri e dei rispettivi cieli, e) degli enti del mondo sublunare. 45. Tutti i filosofi naturalisti. Si espone un φoανόμενoν. 46. Ossia, le singole cose. Aristotele le indica con ταδί (queste cose qui) perché, probabilmente, nel corso della lezione (i trattati di cui si compone la Fisica erano destinati alla scuola) l’espressione accompagnava un gesto della mano, o del dito, col quale il filosofo segnava ostensivamente le cose circostanti. 47. Analoga critica di non aver fatto uso della causa finale (oltre che della causa efficiente) nella spiegazione dell’universo, Aristotele muove a Empedocle e ad Anassagora anche in Metaph., 985 a 10-23; 98 b 6-16. Di aver tralasciato la causa finale, dopo averla avvistata, Anassagora viene imputato anche da Platone in Fedone, 98 b. 48. Empedocle. 49. Anassagora. 50. Ossia con la pioggia. 51. Cfr. D. K., 31 Β 61, dove però si fa menzione del nascere, ma non del perire di tali animali. 52. Sull’analogia tra l’operare della natura e dell’arte cfr. anche Metero., 381 a 9-12; De Parl. Anim., 639 b 15-21. 53. L’espressione mi sembra più sciolta, perché evita un’inutile ridondanza, se si sopprime la virgola dopo αἰτία. Diversamente il testo suonerebbe: «questa sarà la causa, la ‹causa› finale». 54. Cfr. D. K., 31 A 62; De Part. Anim., 693 a 25. 55. Letteralmente: «per natura» (φύσει). Ma ho tradotto con «naturali» per ragioni di conformità con il φύσει dell’espressione τὰ φύσει della riga precedente. 56. Il ragionamento di Aristotele è il seguente: l’ipotesi meccanicistica chiama in causa princìpi diversi. Ora, da ciascun principio diverso deriva un esito diverso e non soggetto al caso, mentre gli enti naturali divengono sempre verso il medesimo fine. Quell’ipotesi è dunque incompatibile con l’idea di natura come principio che, operando intrinsecamente alla cosa, la muove verso la realizzazione del proprio fine. 57. Il riferimento polemico è a Democrito e, in generale, agli Atomisti. 58. La lezione γὰρ εἰ rende — mi sembra — più scorrevole il pensiero del solo εἰ. A essa mi sono pertanto attenuto. 59. Il riferimento è a Empedocle e, probabilmente, ad Anassagora (cfr. D. K., 59 Β 15). 60. Il riferimento è alla casa: senza la materia di cui è fatta (mattoni, pietre, ecc.), non può costruirsi, tuttavia la «causa per la quale» è costruita non è la materia, bensì il riparo di chi la abita, ossia il «ciò in vista di cui» essa sussiste. La materia ò soltanto la «causa con cui» è costruita, e in questo senso soltanto è «necessaria». 61. Cfr. De Part. Anim., 639 b 11-40 a 8. 62. Non mi sembra che τo εύΦύ significhi in questo caso «la retta» (così, tra gli altri, Ross), ma la mozione di «retto». La proprietà del triangolo di avere gli angoli angoli uguali a duo angoli retti non è la conseguenza della retta, bensì della nozione nozione, ossia, in ultima analisi, di angolo retto (così traduce — giustamente — Russo; quanto a me, ho preferito lasciare anche in italiano la stessa espressione del greco). 63. Ossia, il retto. 64. Ossia, le condizioni o i mezzi per attuarlo. 65. Il termine greco è πράξις (ma ho preferito tradurre con «esecuzione», anziché con «azione», in quanto il fine si esegue, non si agisce). 66. La somiglianza (παραπλησίως) tra la necessità in campo matematico e la necessità (ipotetica) presente negli enti naturali si coglie tenendo presente le seguenti relazioni:

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A. necessità in campo matematico: 1. se si dà l’antecedente (la nozione di «retto»), si dà il conseguente (la proprietà del triangolo di avere gli angoli interni uguali a due retti) [se la nozione di «retto» è questa, allora gli angoli interni di un triangolo sono uguali a due retti]; 2. se si dà il conseguente, non segue che si dia l’antecedente [non perché gli angoli interni di un triangolo sono uguali a due retti, si dà la nozione di «retto»]; 3. se non si dà il conseguente, non si dà l’antecedente [se gli angoli interni di un triangolo non sono uguali a due retti, non si dà la nozione di «retto»]. B. necessità ipotetica: 1. se si dà l’antecedente (il fine, ossia la nozione), si dà il conseguente (le condizioni materiali per realizzare il fine) [se si dà la casa, si danno anche i mattoni]; 2. se non si dà il conseguente, non si dà l’antecedente [se non si danno mattoni, non si dà la casa]. Come si può vedere dal raffronto di A1 con Β1 e di A3 con B2, le relazioni nei due campi della necessità sono identiche sotto il profilo formale, ma inverse per l’aspetto secondo cui, in matematica, l’antecedente è dato dalle premesse e il conseguente da ciò che ne deriva, mentre nel campo della necessità ipotetica il fine costituisce l’antecedente e le condizioni il conseguente. Per cui, negli enti naturali il fine sta alle condizioni come nelle matematiche le premesse stanno alla conclusione. Aristotele può così ben dire che il fine non è posto dalle condizioni materiali, anche se senza di esse non può attuarsi. Si precisa ancora, in tal modo, la nozione di necessità ipotetica: la necessith non riguarda il fine (esso non si rapporta alle condizioni matcxriali come la conclusione risprtto alle prrmessc nei ragionamenti matemzttici), ma riguarda le contlizioni materiali, una volta posto il fine.

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LIBRO TERZO III, I ‹Definizione del movimento› Poiché la natura è principio di movimento e di mutamento e la nostra ricerca ha per oggetto la natura, non deve restarci nascosto che cos’è il movimento. Ché, se lo si ignora, è necessario che si ignori anche la natura. Ma dopo aver fornito la definizione circa il movimento, bisogna cercare di procedere 15 nel medesimo modo intorno a ciò che ne è connesso. È da tutti ammesso che il movimento appartiene alle cose continue, e in ciò che è continuo l’infinito appare come ‹carattere› primo. Per questo, a coloro che definiscono il continuo sovente capita di impiegare in più la nozione dell’infinito, come se ciò che è divisibile all’infinito fosse continuo. 20 Inoltre, senza il luogo, il vuoto e il tempo, il movimento è cosa impossibile. In virtù di queste ‹considerazioni› e del fatto che questi argomenti sono comuni a tutti e universali a tutti, è chiaro dunque che coloro che vi mettono mano devono indagare su ciascuno di questi. Ché, la speculazione relativa alle cose proprie è successiva a quella concernente le cose comuni. Ed innanzitutto, come s’è detto, ‹bisogna indagare› sul 25 movimento. Ebbene, da un lato esiste ciò che è solamente in atto, da un altro ciò che è in potenza e in atto: un certo questo, il quanto, il quale e similmente nel caso delle altre categorie dell’essere1. Di ciò che è in relazione a qualcosa, 30 l’uno si dice secondo secondo’eccesso e il difetto, un altro secondo la capacità di agire e patire e in generale secondo la capacità di muovere e il mobile. In effetti, ciò che è capace di muovere è capace di muovere un mobile e il mobile è mobile ad opera di ciò che è capace di muovere. Non esiste movimento fuori delle cose. Ché, ciò che muta, sempre muta o secondo la sostanza, o secondo la quantità, o secondo la qualità, o secondo il luogo. Non si può assumere 35 niente di comune in questi casi, come sosteniamo, che non sia né un questo, 201 a né un quanto, né un quale, né alcuno degli altri categoremi2. Per cui non vi sarà neppure movimento né mutamento di nulla fuori delle cose dette, giacché in realtà nulla esiste fuori delle cose che abbiamo enunciato. 179

Ciascuna ‹di esse› appartiene a ogni cosa in due modi: per esempio, il questo3: da un lato, infatti, è la sua forma, 5 dall’altro è privazione; e secondo la qualità: infatti si hanno il bianco e il nero; e secondo la quantità: il perfetto e l’imperfetto; e similmente anche secondo la traslazione: l’alto e il basso, oppure il leggero e il pesante. Per cui del movimento e del mutamento vi sono tante forme quante ve ne sono dell’essere. 10 Distinto secondo ciascun genere ciò che è in atto e ciò che è in potenza, l’atto di ciò che è in potenza è, in quanto tale, movimento: per esempio, ‹l’atto› di ciò che è alterabile, in quanto alterabile, è l’alterazione, e ‹l’atto› di ciò che è passibile di aumento e dell’opposto, ossia di ciò che è passibile di diminuzione (infatti non vi è un nome comune per entrambi), sono l’aumento e la diminuzione; di ciò che è generabile e la generazione e la 15 corruzione; di ciò che è passibile di traslazione, la traslazione. Che questo sia il movimento, è chiaro da ciò che segue. In effetti, quando ciò che è costruibile come casa, in quanto diciamo che esso è tale, sia in atto, si costruisce una casa, e questo è la costruzione di una casa. E similmente anche l’apprendimento, la guarigione, la rotazione, il salto, la crescita e l’invecchiamento. Poiché alcune, identiche cose sono sia in potenza che in 20 atto, non nello stesso tempo o non sotto il medesimo rispetto, ma come il caldo in potenza è freddo in atto, molte già agiranno e patiranno ad opera le une delle altre. Ogni cosa, infatti, sarà al tempo stesso atta ad agire e a patire4. Per cui anche ciò che muove in modo fisico è soggetto movimento. Ché, tutto ciò che è siffatto muove essendo esso stesso in movimento. Ad alcuni sembra, dunque, che ogni motore sia in 25 movimento, ma tuttavia su questo punto sarà chiaro come stanno le cose da altre ‹considerazioni› (infatti vi è qualche motore anche immobile). Però l’atto di ciò che è in potenza, quando, essendo in atto, sia in atto non in quanto tale, bensì in quanto mobile, è movimento. D’altro canto dico «in quanto è 30 così». Infatti il bronzo è statua in potenza, ma tuttavia non è l’atto del bronzo, in quanto bronzo, a costituire movimento: non è infatti lo stesso l’essere per il bronzo e per qualcosa che in potenza è mobile, dal momento che, se fosse lo stesso in senso assoluto e secondo la definizione, l’atto del bronzo in quanto bronzo sarebbe movimento. Ma non è lo stesso, come s’è detto (ed è chiaro nel caso dei contrari: in effetti, il poter essere in buona salute e il 35 poter ammalarsi sono cosa diversa, giacché ‹in caso contrario› 201 b anche l’ammalarsi e l’essere in buona salute sarebbero la stessa cosa; invece il soggetto, tanto ciò che è sano quanto ciò che è malato, sia esso un liquido, sia sangue, è lo stesso). E poiché non è il medesimo, come neppure il colore e una cosa 180

visibile sono identici, è chiaro che l’atto di ciò che è in 5 potenza, in quanto è in potenza, è movimento. Che dunque sia questo, e che allora capiti di essere in movimento, quando cioè l’atto sia quello, e né prima né dopo, è chiaro. Infatti, ciascuna cosa può talvolta essere in atto, talvolta no: per esempio, il costruibile come casa; e l’atto del costruibile come casa, in quanto costruibile come casa, è la 10 costruzione della casa. Ché, la costruzione della casa è l’atto del costruibile come casa, oppure la casa. Ma quando vi sia la casa, non vi è più il costruibile come casa, e si costruisce come casa il costruibile come casa. Pertanto è necessario che la costruzione della casa sia l’atto. E la costruzione della casa è un certo movimento. Ma la stessa definizione si adatterà anche agli altri movimenti.

III, 2 ‹Esame critico delle precedenti definizioni del movimento› 15 Che si sia detto bene è chiaro anche dalle cose che gli altri affermano in merito a esso5 e dal fatto che non è facile definirlo in altro modo. Né infatti si potrebbero porre il movimento e il mutamento in un altro genere. È chiaro a coloro 20 che indagano come alcuni lo pongono, sostenendo che il movimento è alterità e disuguaglianza e non-essere6. Cose di cui nessuna è necessario che sia in movimento, né se si tratti della diversità, né della disuguaglianza, né del non-essere. Ma neppure il mutamento né ‹si riporta› a queste, né deriva da queste più che dalle loro opposte. Causa del riporlo in queste cose è che il movimento sembra 25 essere alcunché d’indefinito, e che i princìpi della seconda serie sono indefiniti, a motivo del loro esser privativi7. Infatti, nessuno di essi è né un questo né un quale, né fa parte delle altre categorie. 30 Causa del fatto che il movimento sembri una cosa indefinita è che non è assolutamente possibile riporlo né in una potenza degli enti, né in un atto. Né infatti l’essere una quantità potenziale è necessariamente in movimento, né l’‹essere› una quantità in atto, e il movimento è un certo atto, ma imperfetto. La causa è che ciò che è in potenza, di cui ‹il movimento› è atto, è imperfetto. E per questo è difficile concepirlo 35 202a a suo che cos’è.Infatti, è necessario riporlo o nella privazione o nella potenza o nell’atto puro, ma in tutta evidenza nessuna di queste cose accoglie ‹il movimento›. Resta pertanto il modo che s’è detto: che è un certo atto, ma 181

un atto tale quale abbiamo asserito, diffìcile a vedersi, ma che può sussistere. 10 Anche ciò che muove è in movimento, come s’è affermato: ogni motore che, essendo in potenza, è mobile e la cui assenza di movimento è riposo (infatti, per quella cosa a cui appartiene 5 il movimento, l’assenza di movimento è riposo). Ché, l’agire in rapporto al mobile, in quanto tale, è lo stesso muovere. Ma ‹il motore› compie ciò per contatto, per cui al contempo anche patisce. Per questo il movimento è l’atto di ciò che è mobile, in quanto mobile, e ciò avviene per il contatto di ciò che è capace di muovere. Per cui al contempo anche patisce. Ma ciò che muove porterà sempre una qualche forma: o un questo, o un quale, o un quanto, forma che sarà principio 10 e causa del movimento, quando muova: per esempio, l’uomo in atto produce un uomo da ciò che è un uomo in potenza.

III, 3 ‹Il movimento come atto del motore nel mobile› 15 20 E ciò che fa difficoltà è evidente: che il movimento è nel mobile. Infatti, è atto di questo ad opera di ciò che è capace di muovere8, e l’atto di ciò che è capace di muovere non è diverso. 15 Ché, l’uno e l’altro devono avere un atto. Infatti, ‹il motore› è capace di muovere per essere ‹motore› in potenza, ed è motore per far passare all’atto; ma è capace di far passare all’atto il mobile, per cui l’atto di entrambi è unico, in modo simile a come l’uno rispetto al due e il due rispetto all’uno sono il medesimo intervallo, e quello ‹che si percorre› salendo e quello ‹che si percorre› discendendo. Queste cose, infatti, sono una, tuttavia la nozione non è una. Similmente è 20 anche nel caso di ciò che muove e di ciò che è mosso. Ma ‹ciò› presenta una difficoltà logica. ‹1› Infatti, è senz’altro necessario che un qualche atto di ciò che agisce e di ciò che patisce sia diverso9: da un lato, quindi, il compiere l’azione, dall’altro il subirla; e opera e fine dell’uno è l’azione compiuta, dell’altro l’azione subita. 25 Poiché dunque entrambi sono movimenti, se sono diversi in quale ‹ente si trovano›? Infatti, ‹a› o sono entrambi in ciò che subisce ed è mosso, ‹b› o il compiere l’azione è in ciò che agisce, il subirla in ciò che patisce. ‹b› E se anche questo si deve chiamare compiere l’azione, sarà omonimo. Ma se ‹vale› questo, il movimento sarà nel motore, giacché la definizione è la stessa nel caso della 30 cosa che muove e della cosa che è mossa. Di 182

conseguenza, od ogni motore sarà mosso, o, pur avendo movimento, non sarà mosso. ‹a› Se invece l’azione compiuta e quella subita sono entrambe in ciò che è mosso e patisce — anche l’insegnamento e l’apprendimento, pur essendo due, sono in chi apprende —, in primo luogo l’atto di ciascuna cosa non sussisterà in ciascuna cosa, in secondo luogo ‹sarà› assurdo che ‹ciascuna cosa› sia mossa secondo due movimenti: infatti, quali saranno 35 le due alterazioni dell’unica cosa e verso una sola forma? Ma è assurdo! 202b 5 ‹2› Ma vi sarà un solo atto. Però è illogico che di due cose diverse per la specie vi sia un atto identico e unico. E se davvero l’insegnamento e l’apprendimento sono la medesima cosa, e consistono nel compiere l’azione e nel subirla, anche l’insegnare sarà identico all’imparare e l’agire al patire. Per 5 cui sarà necessario che colui che insegna impari ogni cosa e colui che agisce patisca. 10 Oppure, né ‹1› l’essere l’atto di una cosa in un’altra è illogico (infatti, l’insegnamento è atto di chi è capace di insegnare, ma tuttavia è in qualcuno, e non è separato, ma è ‹atto› di questo in quest’altro), ‹2› né vi è impedimento che il medesimo ‹atto› sia unico per due cose (non come se l’essere fosse il 10 medesimo, ma come ciò che è in potenza si rapporta a ciò che è in atto), ‹3› né è necessario che colui che insegna impari: neppure se l’agire e il patire sono la stessa cosa, però non come è ‹necessario che sia› una la nozione che dice la quiddità, al modo di veste e mantello, ma come la via che da Tebe va ad Atene e quella che da Atene va a Tebe, come anche prima s’è detto10. Ché, non tutte le medesime cose appartengono 15 a ciò che è identico in qualunque modo, ma soltanto a ciò a cui l’essere è identico. Ma neppure l’insegnamento è la stessa cosa dell’apprendimento e l’insegnare dell’imparare, come neppure se l’intervallo di ciò che è distante è unico anche il distare da qui a là e da là a qui sono una sola e medesima cosa. Per parlare in generale, né l’insegnamento è in senso proprio 20 la stessa cosa dell’apprendimento, né il compiere l’azione del subirla, ma ‹è identico› ciò a cui queste cose appartengono, ossia il movimento. In effetti, l’essere atto di questo per questo e l’esserlo di questo ad opera di questo sono cosa diversa per la definizione. Che cos’è, dunque, il movimento, s’è detto, sia in universale che in particolare. Infatti è chiaro come si definirà ciascuna delle sue specie: ché, l’alterazione è l’atto di ciò che è alterabile, in quanto alterabile. E in un modo che rende più noto: l’‹atto› di ciò che in potenza è capace di agire e di patire, in quanto tale, in senso assoluto e, a sua volta, rispetto al singolo 183

caso, sono sia la costruzione di una casa che la guarigione. 25 E nello stesso modo si dirà anche nel caso di ciascuno degli altri movimenti.

III, 4 ‹Opinioni degli Antichi sull’infinito e relative aporie› Poiché la scienza concernente la natura ha per oggetto 30 grandezze, movimento e tempo, ciascuno dei quali è necessariamente o infinito o limitato, anche se non tutto è o infinito o limitato (per esempio, l’affezione e il punto: ché, indubbiamente, nessuna di tali cose è necessario che sia in una delle 35 due in causa), sarà conveniente che chi tratta della natura 35 speculi sull’infinito: se esiste o no, e, se esiste, che cos’è. 203a Ecco una prova che l’indagine su questo tema è propria della scienza fisica: tutti coloro che, ad avviso unanime, si sono accostati adeguatamente a tale filosofia hanno svolto un discorso sull’infinito, e tutti lo pongono come un certo principio degli enti: gli uni, come i Pitagorici e Platone11, per sé, 5 non come accidente per qualche altra cosa, ma come se l’infinito fosse esso stesso una sostanza. Tranne che i Pitagorici ‹lo pongono› tra le cose sensibili (giacché non pongono il numero come separato12) e ‹affermano› che l’infinito è ciò che è fuori del cielo13. Platone invece ‹sostiene› che nessun corpo ne è fuori, neppure le idee, per il fatto di non essere, esse, neppure in qualche luogo, ma che tuttavia l’infinito è sia nelle 10 cose sensibili che in quelle. E i primi ‹sostengono› che l’infinito è il pari: questo, infatti, assunto e limitato dal dispari, offre agli enti l’infinità; e che ne è prova ciò che accade nel caso dei numeri: se infatti si pongono gli gnomoni intorno all’uno e in maniera separata, talvolta si produce una figura 15 sempre diversa, talvolta una sola ‹figura›. Platone invece ‹afferma› che le cose infinite sono due: il grande e il piccolo14. Tutti coloro ‹che hanno indagato› sulla natura hanno sempre supposto per l’infinito una qualche natura diversa da quelli che dicono elementi: per esempio, l’acqua, o l’aria15, o ciò che è a mezzo tra questi16. Tra 20 coloro che pongono gli elementi come limitati, nessuno li fa infiniti17. Invece, tutti coloro che pongono gli elementi come infiniti, come Anassa Democrito, il primo dagli omeomeri, il secondo dall’universale disseminazione delle figure, affermano che l’infinito è continuo per contatto. E l’uno ‹dice› che qualsivoglia delle parti è una mescolanza, similmente al tutto, per il fatto di vedere che qualunque cosa si genera da qualunque cosa. Da qui, infatti, 184

sembra ‹affermare› anche che in un dato tempo 25 tutte le cose erano assieme18: per esempio, questa carne e quest’osso, e così qualunque cosa. E dunque tutte le cose e, beninteso, nello stesso tempo. E infatti il principio della separazione non è so ltanto in ciascuna cosa, ma è anche di tutte le cose. Infatti, poiché ciò che si genera, si genera da un tale essere materiale19, e di tutte le cose vi è generazione, tranne che non nello stesso tempo, e deve esserci anche un qualche 30 principio della generazione, e questo è unico, quello20 che egli chiama «Mente», e la Mente opera a partire da qualche principio, pensando, ne consegue che in un dato tempo tutte le cose sono necessariamente assieme e, soggette a movimento, in un dato tempo si originano. Invece Democrito sostiene che nessuna delle cose prime si origina una dall’altra, ma tuttavia il corpo comune di esse21, differente per grandezza, a seconda 203 b delle parti, e per figura, è principio di tutte le cose. Che dunque ‹questa› speculazione sia conveniente a coloro che si occupano di fisica, è chiaro da queste ‹osservazioni›. E ben ragionevolmente tutti pongono l’infinito anche come principio, dal momento che né è possibile che esso esista invano, 5 né gli appartiene altra potenza se non come principio. Tutte le cose, infatti, o sono principio, o sono dal principio, e dell’infinito non vi è un principio, giacché sarebbe il suo limite. Inoltre, nella supposizione che sia un qualche principio, è anche ingenerato e incorruttibile. Infatti, ciò che è generato assume necessariamente una fine, e vi è un termine di ogni corruzione. Perciò, come sosteniamo, non vi è principio di 10questo, ma questo sembra essere principio delle altre cose e circondarle tutte quante e governarle tutte22, come affermano tutti coloro che non ammettono altre cause oltre l’infinito: per esempio, la Mente o l’Amore. E questo è il divino: infatti è immortale e indistruttibile, come affermano Anassimandro2315 e la stragrande maggioranza dei fisiologi. La convinzione del fatto che l’infinito sia alcunché, a coloro che indagano può derivare soprattutto da cinque ‹considerazioni›: ‹1› dal tempo (giacché questo è infinito) e ‹2› dalla divisione nelle grandezze (infatti, i matematici fanno uso dell’infinito24). ‹3› Inoltre, perché soltanto così non sarebbero trascurate la generazione e la corruzione, ossia se sarà infinito ciò da cui si stacca quel che viene all’essere25. ‹4› Inoltre, perché 20 ciò che è limitato sempre ha un limite in rapporto a qualcosa; per cui è necessario che niente sia limite, se, di necessità, sempre una cosa ha un limite in rapporto a un’altra. ‹5› Ma, soprattutto e in senso principale, ‹la circostanza› che rende la difficoltà comune a tutti: per il fatto di non lasciarlo indietro nel 185

pensiero26, anche il numero sembra essere infinito; 25 e ‹sembrano infiniti› le grandezze matematiche e ciò che è fuori del cielo27. Ma se ciò che è fuori del cielo è infinito, anche il corpo e i mondi sembrano essere infiniti28. Perché, infatti, più vuoto qui che là ? Di conseguenza la massa, se è in un solo luogo, è dappertutto. Al tempo stesso, se esistono e il vuoto e il luogo infinito, è necessario che esista anche un corpo 30 infinito, giacché tra le cose eterne non fa alcuna differenza esser possibile o essere29. La teoria sull’infinito presenta una difficoltà. In effetti, sia a coloro che pongono che non esiste, sia a coloro che pongono che esiste capitano molte assurdità. E inoltre, in quale dei due modi è: forse come sostanza o come accidente per sé per qualche natura? Oppure in nessuno dei due modi, ma per nulla di meno vi è un infinito, o ‹vi sono› cose infinite per numero? Ma è soprattutto proprio di chi si occupa di fisica indagare 204a se esiste una grandezza sensibile infinita. Ebbene, per prima cosa bisogna determinare in quanti modi si dice l’infinito. Ora, in un modo è ciò che è impossibile percorrere, per il fatto di non potersi per sua natura attraversare, alla maniera in cui la voce è invisibile; in altro modo è ciò che, pur avendo un percorso, è massimamente privo di 5 fine, oppure ciò che si può percorrere a stento, o ciò che, pur potendo per natura averli, non ha percorso o fine. Inoltre, ogni cosa è infinita o secondo composizione o secondo separazione o in entrambi i modi.

III, 5 ‹L’inesistenza dell’infinito in atto› 10 15 Ebbene, non è possibile che l’infinito sia separato dalle cose sensibili, essendo alcunché di infinito in se stesso30. Se infatti non è né grandezza né numero, ma l’infinito è in se 10 stesso sostanza e non accidente, sarà indivisibile. Infatti, ciò che è divisibile sarà o grandezza o numero. Ma se è indivisibile non è infinito, se non come la voce è invisibile31. Ma non è in questo modo che né i Fisiologi sostengono che esiste l’infinito, né noi cerchiamo, bensì come impercorribile. E se l’infinito è per accidente, non sarà elemento degli esseri, in quanto 15 infinito, come neppure ciò che è invisibile è proprio della lingua, benché la voce sia invisibile. Inoltre, com’è possibile che qualcosa sia in se stesso infinito se non è o numero o grandezza, cose delle quali l’infinito è un’affezione per 186

sé? Infatti, è ancor meno necessario del numero o della grandezza. 20 È evidente anche che non è possibile che l’infinito esista come un ente in atto e come sostanza e principio. Infatti, qualunque sua ‹parte› si assuma sarà infinita, se è divisibile. Ché, l’essere per l’infinito e l’infinito sono la stessa cosa, se veramente l’infinito è sostanza e non ‹ciò che si predica› di un soggetto. Per cui sarà o indivisibile o divisibile in infiniti. Ma è impossibile che la medesima cosa sia molti infiniti (ma, come una parte dell’aria è aria, così anche ‹una parte› dell’infinito è infinito, se in realtà è sostanza e principio). Pertanto sarà senza parti e indivisibile. Ma 25 è impossibile che ciò che è in atto sia infinito, giacché è necessariamente una qualche quantità. Pertanto l’infinito sussiste per accidente. Ma se è 30 così, si è detto32 che non è possibile asserire che esso è principio, ma ‹è principio› ciò di cui ‹esso› è accidente: l’aria33 o il pari34. Di conseguenza, coloro che sostengono la stessa teoria dei Pitagorici, appariranno in un alone di assurdità. Ché, al tempo stesso fanno dell’infinito una sostanza e lo dividono in parti. Ma forse questa ricerca è più universale, se è possibile che 35 l’infinito sussista sia negli ‹enti› matematici35, sia negli ‹enti› 204b di pensiero36 e che non hanno alcuna grandezza. Noi però indaghiamo sugli ‹enti› sensibili37 e su quelli intorno ai quali facciamo la ‹nostra› ricerca: se in essi esiste o no un corpo infinito quanto all’accrescimento. Ora, a coloro che conducono la ricerca sulla base dei soli concetti38, da questi ‹rilievi› sembrerà che non esiste. Se 5 infatti la definizione di corpo è «ciò che è delimitato dalla superficie», non vi sarà un corpo infinito, né intelligibile né sensibile. Ma neppure il numero, così come separato, è anche infinito. Ché, il numero e ciò che ha numero è numerabile; se dunque è numerabile, è possibile numerarlo, e sarà possibile percorrere l’infinito. A coloro, invece, che conducono maggiormente la ricerca 10 sulla base delle cose ‹risulta che non esiste› da questi ‹rilievi›. Infatti, ‹l’infinito› non può essere né composto né semplice. Ebbene, come composto l’infinito non sarà un corpo, se gli elementi sono finiti per il numero. Infatti è necessario che siano più di uno, e che i contrari si eguaglino sempre e che uno di essi non sia infinito (se infatti la potenza presente in uno qualsiasi di due corpi è superata da quella dell’altro 15 — per esempio, se il fuoco è limitato, l’aria è infinita e una pari quantità di fuoco è in potenza un qualsivoglia multiplo, ma soltanto provvisto di un certo numero, di una pari quantità di aria —, è tuttavia chiaro che l’infinito supererà e corromperà il finito). Ed è impossibile che ciascuna cosa sia infinita, giacché corpo è ciò che ha estensione da ogni parte, 20 mentre infinito è ciò che si estende 187

infinitamente. Per cui l’infinito sarà un corpo esteso all’infinito da ogni parte. Ma non è neppure possibile che un corpo infinito sia uno e semplice: né, come dicono alcuni, come ciò che è al di là degli elementi, dal quale questi si originano39, né in senso assoluto. Vi sono infatti taluni che stabiliscono che l’infinito è questo, 25 ma non aria o acqua, perché gli altri ‹elementi› non siano distrutti da quello tra essi che è infinito40. In effetti, ‹essi› presentano una reciproca contrarietà41: per esempio, l’aria è fredda, l’acqua umida, il fuoco caldo. E se uno di essi fosse infinito, gli altri sarebbero già distrutti. Ora, invece, sostengono che è diverso ciò da cui questi provengono. Ma è impossibile 30 che una cosa siffatta esista, non perché infinita (ché, intorno a essa bisogna assumere alcunché di comune in tutti i casi, ugualmente: sia all’aria che all’acqua che a qualunque cosa), ma perché non esiste un corpo sensibile siffatto al di là di quelli che son detti elementi. Infatti, tutte le cose si risolvono anche in ciò da cui provengono, per cui dovrebbe essere 35 al di là dell’aria, del fuoco, della terra e dell’acqua; ma in tutta chiarezza non ce n’è nessuno. D’altro canto, né il fuoco 205a né alcun altro degli elementi può essere infinito. Ché, in generale, anche indipendentemente dall’essere qualcuno di essi infinito, è impossibile che il tutto, anche se sia limitato, o sia o divenga uno di essi, come Eraclito afferma che tutte le cose in un certo tempo diventano fuoco42. E lo stesso discorso vale 5 anche nel caso dell’uno, quale i Fisici pongono al di là degli elementi43. Infatti, tutte le cose mutano da un contrario verso il contrario, per esempio dal caldo verso il freddo. Ma bisogna esaminare su ogni punto a partire da questi ‹rilievi›: se sia possibile o non sia possibile che un corpo sensibile sia infinito. Ora, che sia affatto impossibile che un corpo sensibile sia infinito, è chiaro da quel che segue. 10 ‹1› In effetti, tutto ciò che è sensibile è in qualche luogo, e vi è un qualche luogo di ciascuna cosa44, ed è il medesimo della parte e del tutto: per esempio, dell’intera terra e di una zolla, del fuoco e di una favilla. Di conseguenza, se ‹il tutto› è omogeneo, sarà immobile o sarà sempre in movimento. Ma è impossibile: perché mai, infatti, sarebbe in basso piuttosto che in alto o in qualunque altro luogo? Dico per esempio: se 15 vi sia una zolla, dove essa si muoverà o dove permarrà? Ché, il luogo del corpo a essa congenere è infinito. Forse dunque possederà l’intero luogo? E come? Quali sono, dunque, o dove sono il suo stare in riposo e il suo movimento? Starà forse in riposo dovunque? Pertanto non sarà in movimento. Oppure sarà in movimento in ogni luogo? Pertanto non si arresterà45. 188

‹2› Se invece il tutto46 è disomogeneo, anche i luoghi sono 20 disomogenei. E, primariamente, il corpo del tutto non è uno se non per il fatto di avere contatto. In secondo luogo, le cose saranno o limitate o infinite per la specie. ‹a› Ora, non è possibile che siano limitate, giacché alcune sarebbero infinite, altre no, se il tutto è infinito: per esempio, il fuoco o l’acqua. Una tale situazione sarebbe distruzione per i contrari, come prima s’è detto47. [E per questo nessuno dei Fisiologi porrebbe 25 il fuoco né la terra come uno e infinito, ma o l’aria o l’acqua o ciò che è intermedio tra esse, poiché, come s’è affermato, il luogo di ciascuna ‹delle prime cose› è chiaramente determinato, mentre queste ‹seconde› stanno a mezzo tra l’alto e il basso]48. ‹b› Se invece ‹le cose› sono infinite e semplici, 30 anche i luoghi sono infiniti, e saranno infiniti gli elementi. Ma se questo è impossibile e i luoghi sono finiti, è necessario che anche il tutto sia finito, giacché è impossibile che il luogo e il corpo non convengano perfettamente. Né infatti ogni luogo è maggiore di quanto è possibile che sia il corpo. E nello stesso tempo neppure il corpo sarà infinito49. Né il corpo è più piccolo del luogo, giacché o vi sarà qualcosa di vuoto, o un corpo 35 per natura non sarà in nessuna parte. Ma Anassagora parla assurdamente dello stare in riposo 205bdell’infinito. Dice infatti che l’infinito sostiene se stesso, e questo perché è in se stesso. Ché, null’altro gli è intorno, come se, dove qualcosa si trovi, lì fosse per natura. Ma ciò non è 5 vero, giacché qualcosa può essere in un certo luogo per violenza e non per natura. Ora, se il tutto non è il più possibile in movimento (giacché ciò che sostiene se stesso ed è in se stesso è necessario che sia immobile), bisogna dire però in forza di che cosa per natura non è in movimento. Infatti, non è sufficiente trarsi d’impaccio facendo queste asserzioni, giacché 10 anche qualunque altra cosa può non essere in movimento, ma per natura niente impedisce ‹che lo sia›50: dal momento che anche la terra non è soggetta a traslazione, neppure se fosse 15 infinita, essendone in verità impedita dal mezzo; ma permarrà nel mezzo non perché non vi è altro dove sarà portata, ma perché è così per natura. Certamente sarebbe lecito dire che sostiene se stessa. Se dunque neppure nel caso della terra, se fosse infinita, è questa la causa, ma perché ha peso, e ciò che è pesante permane nel mezzo, e la terra è nel mezzo, similmente pure l’infinito permarrà in se stesso in virtù di qualche altra causa e non perché è infinito e sostiene esso stesso se stesso. Al contempo è chiaro che dovrà permanervi anche qualunque ‹sua› parte. In effetti, come l’infinito permane in se 20 stesso sostenendosi, così pure qualunque ‹sua› parte si prenda permarrà in se stessa. Ché, i luoghi del 189

tutto e della parte sono della medesima specie: per esempio, il basso dell’intera terra e di una ‹sua› zolla e l’alto di tutto il fuoco e di una favilla. Di conseguenza, se luogo dell’infinito è l’essere in se stesso, il medesimo ‹luogo sarà› anche della parte. Pertanto permarrà in se stessa. ‹3› In senso complessivo è evidente che è impossibile dire 25 al tempo stesso che vi è un corpo infinito e un qualche luogo per i corpi, se ogni corpo è sensibile, oppure ha pesantezza o leggerezza e, se è pesante, per natura ha la traslazione verso il mezzo, se è leggero verso l’alto. Infatti, anche l’infinito sarà necessariamente ‹così›; ma è impossibile o che sia tutto in qualunque parte, o che ciascuna metà subisca ‹entrambi i movimenti›. Ché, come lo si potrà dividere? Oppure come 30 una ‹parte› dell’infinito sarà alto e un’altra basso o estremità o mezzo? ‹4› Inoltre, ogni corpo sensibile è in un luogo, e forme e differenze del luogo sono l’alto, il basso, il davanti, il didietro, la destra, la sinistra, e queste ‹determinazioni› non si definiscono soltanto in rapporto a noi e per posizione, ma anche nel tutto stesso. Ma è impossibile che nell’infinito si trovino 25 queste ‹determinazioni›. ‹5› In modo generale, se è impossibile che vi sia un luogo infinito, e ogni corpo è in un luogo, è impossibile che vi sia un qualche corpo infinito. Ma in verità il «dove» è in un luogo e ciò che è in un luogo è un «dove». Se dunque non è possibile che l’infinito sia una quantità (infatti sarà una certa quantità: per esempio, di due cubiti o di tre cubiti, giacché queste ‹determinazioni› significano la quantità), così 5 non è neppure ciò che è in un luogo, in quanto sarebbe un «dove», e questo è o in alto o in basso in qualche altra dimensione fra le sei ‹predette›; ma ciascuna di esse è un certo limite. Che dunque non vi sia un corpo infinito in atto, è evidente da queste ‹osservazioni›.

III, 6 ‹L’esistenza e la natura dell’infinito› Ma che derivino molte assurdità se non vi è affatto un infinito, è chiaro. In effetti vi sarà certo un inizio e una fine 10 del tempo, e le grandezze non saranno divisibili in grandezze, e il numero non sarà infinito. Quando però si siano operate queste distinzioni, appare che nessuna delle due soluzioni è possibile, ed è chiaro che in un certo senso esiste, in un altro no. 190

Ora, l’essere si dice per un verso in potenza, per un altro in atto, invece l’infinito in un senso è per aggiunzione, in un 15 altro è anche per detrazione51. E che secondo l’atto la grandezza non sia infinita, s’è detto, ma per divisione lo è. In effetti, non è difficile distruggere le linee indivisibili52. Resta, dunque, che l’infinito esiste in potenza. Ma non si deve assumere ciò che esiste in potenza come se ‹significasse che›, al modo in cui è possibile che esista questa statua, ossia — 20 anche — al modo in cui vi sarà questa statua, così si dà anche qualcosa di infinito53, che sarà in atto. Ma poiché l’essere è in molti modi, come il giorno e la gara sussistono per il fatto di diventare sempre un’altra e un’altra cosa ancora, così pure l’infinito. E infatti, nei casi suddetti è possibile ‹l’esistenza› sia in potenza che in atto. Ché, i giochi di Olimpia esistono sia per il fatto d’essere possibile che si svolga la gara, sia per il 25 fatto di svolgersi. Invece è chiaro che l’infinito è in un senso diverso nel tempo, nel caso degli uomini e in quello della divisione delle grandezze. Ché, in senso complessivo l’infinito si caratterizza così, per il fatto di assumersi come un’altra e un’altra cosa ancora e di essere ciò che si assume sempre come limitato, ma sempre in realtà come una cosa diversa e una diversa ancora [inoltre, l’essere si dice in più sensi. Di conseguenza, 30 non si deve assumere l’infinito come un certo questo, per esempio un uomo o una casa, ma nel modo in cui si dicono il giorno e la gara, i quali non hanno avuto l’essere come una certa sostanza, ma sono sempre nella generazione e nella corruzione. ‹L’infinito› è limitato, ma in realtà è sempre cosa diversa e diversa ancora]54. 206b Ma nelle grandezze questo avviene perché permane ciò che si è assunto, invece nel caso del tempo e del corrompersi degli uomini ‹avviene› in modo che ‹essi› non lasciano ‹nulla›. L’‹infinito› secondo aggiunzione e l’‹infinito› secondo divisione sono in un certo modo la stessa cosa, giacché in ciò che è limitato ‹l’infinito› si produce per aggiunzione in senso inverso ‹all’altro modo›. In effetti, nella prospettiva in cui 5 ‹una cosa› viene vista divisa all’infinito, in questa prospettiva ‹una cosa› appare aggiunta a ciò che è definito. Ché, se nella grandezza finita uno, dopo aver preso una ‹porzione› determinata, ne prenda in più ‹un’altra› con la stessa proporzione, senza prendere però dal contorno del tutto un’identica grandezza, non percorrerà la ‹grandezza› finita; se invece aumenti 10 la proporzione così da prendere dal contorno sempre un’identica grandezza, la percorrerà, in ragione del fatto che tutto ciò che è finito è tolto via ‹dalla progressiva sottrazione di› una ‹grandezza› determinata, qualunque sia55. In altro modo, dunque, l’infinito non si dà, ma si dà così, in potenza e per 191

sottrazione ‹ma si dà anche in atto, come diciamo che esistono il giorno e la gara), e in potenza così come la 15 materia, e non per sé, come la cosa finita. Ora, anche secondo aggiunzione si dà in questa maniera un infinito, cioè in potenza, e diciamo che esso in un certo modo è identico a quello secondo divisione, giacché fuori di esso sarà sempre possibile assumere qualcosa, ma tuttavia non si supererà ogni grandezza determinata, come nella direzione 20della divisione si supera ogni ‹grandezza› determinata, e ‹quel qualcosa› sarà più piccolo56. Di conseguenza, neppure in potenza è possibile superare ogni cosa secondo l’aggiunzione, se davvero non esiste un infinito in atto per accidente, come i Fisiologi affermano che il corpo esterno al mondo, la cui sostanza è o aria o qualcos’altro di questo genere, è infinito. Ma se non è possibile che 25 vi sia in questo modo un corpo sensibile infinito in atto, è evidente che neppure in potenza si darà secondo aggiunzione, se non — come s’è detto57 — in senso inverso alla divisione, poiché anche Platone per questo ‹motivo› rese due gli infiniti58, dal momento che sembra eccedere e procedere all’infinito sia nella direzione dell’aumento, sia nella direzione della 30 sottrazione, anche se, dopo averli resi due, non se ne serve. In effetti, né nei numeri sussiste l’infinito secondo la sottrazione, giacché l’unità è la cosa più piccola, né secondo l’aumento, giacché ‹egli› crea la serie numerica fino alla decade59. Avviene che l’infinito sia il contrario di come dicono: giacché non ciò al 207a di fuori del quale non vi è nulla, ma ciò al di fuori del quale vi è sempre qualcosa, questo è infinito. Ecco una prova: si dicono infatti infiniti gli anelli che non hanno un castone, perché è sempre possibile prendere qualcosa esternamente ‹alla loro circonferenza›, pur parlando secondo una certa analogia, ma non in senso proprio. In effetti, deve 5 sussistere questa ‹situazione› e non deve mai prendersi il medesimo ‹punto›. Nel cerchio, invece, non è così, ma soltanto il ‹punto› consecutivo è sempre diverso da un altro. È dunque infinito ciò al di fuori del quale è sempre possibile prendere qualcosa, se si prende secondo la quantità. Invece ciò al di fuori del quale non vi è nulla, questo è perfetto e intero, giacché in questo modo definiamo l’intero: ciò a cui nulla è assente: 10 per esempio, un uomo intero o una cassa intera. E come vale per l’individuale, così vale anche per ciò che è in senso proprio; ossia: l’intero è ciò al di fuori di cui non vi è niente. Per contro, ciò al di fuori del quale vi è qualcosa che gli è assente, non è un tutto, qualunque sia quello che gli è assente. E intero e perfetto o sono completamente la stessa cosa, o sono vicini quanto alla natura. E nulla è 192

perfetto se non ha un fine. E il fine è un limite. Per questo bisogna ritenere che Parmenide abbia detto assai 15 meglio di Melisso. Questi ha infatti sostenuto che l’intero è infinito, quegli ha definito l’intero «ugualmente distante dal centro»60. In effetti, connettere l’infinito col tutto e con l’intero non è «connettere filo a filo»61, poiché in verità da qui ‹essi› concepiscono la venerabilità per l’infinito, ossia il suo abbracciare ogni cosa e il suo essere tutto in se stesso: per il 20 fatto di avere una certa somiglianza con l’intero. Ché, l’infinito è materia della perfezione della grandezza e l’intero in potenza, ma non in atto, divisibile per la riduzione e per l’aggiunta in senso inverso, intero e limitato non in sé, ma per altro. Ancora: non contiene, ma è contenuto, in quanto infinito25. Per questo, in quanto infinito, è inconoscibile. Infatti la materia non possiede forma. Di conseguenza è chiaro che l’infinito risiede piuttosto nella nozione della parte che in quella dell’intero. Ché, la materia è parte dell’intero, come il bronzo lo è della statua di bronzo, dal momento che, se tra le cose sensibili il Grande e il Piccolo hanno funzione di contenere, anche tra quelle intelligibili dovrebbero contenere 30 le cose intelligibili. Ma è assurdo e impossibile che l’inconoscibile e l’indefinito contengano e definiscano

III, 7 ‹Proprietà dell’infinito› Secondo ragione deriva anche il non potersi opinare un infinito secondo aggiunzione in modo che ecceda ogni grandezza, mentre nella linea della divisione è possibile (infatti, 35207b come la materia, anche l’infinito è contenuto all’interno; invece la forma contiene). Ed è ben ragionevole anche l’esistenza nel numero di un limite nella direzione del minimo, mentre nella direzione del maggiore che si superi sempre ogni quantità; che invece nel caso delle grandezze sia il contrario: nella direzione del più piccolo si superi ogni grandezza, mentre in quella del maggiore 5 che non vi sia una grandezza infinita. La causa è che l’unità è indivisibile, qualunque sia la cosa unitaria: per esempio, l’uomo è un uomo e non molti. Invece il numero è una pluralità di unità e certe quantità. Per cui è necessario arrestarsi nella direzione dell’indivisibile (in effetti il due e il tre sono nomi paronimi62, e similmente anche 10 ciascuno degli altri numeri); invece nella direzione del maggiore è sempre possibile pensare ‹l’infinito›, giacché le dicotomie della grandezza 193

sono infinite. Per cui ‹il numero› è ‹infinito› in potenza, ma non in atto. Però sempre quello che si assume supera ogni quantità determinata. Ma questo numero non è separabile ‹dalla dicotomia›, né l’infinità permane 15 stabilmente, bensì diviene, come anche il tempo e il numero del tempo. Invece nel caso delle grandezze è il contrario: ché, il continuo è divisibile in infinite cose, mentre nella direzione del più grande non è possibile un infinito. Infatti, quanto è possibile che esista in potenza, tanto è possibile che esista anche in atto. Di conseguenza, poiché nessuna grandezza sensibile è 20 infinita, non è possibile che vi sia superamento di ogni grandezza determinata. Ché, vi sarebbe qualcosa più grande del cielo63. L’infinito non è lo stesso nella grandezza, nel movimento e nel tempo, come se fosse una qualche natura unica, ma il ‹termine› posteriore si dice secondo quello anteriore: per esempio, un movimento ‹sussiste› perché ‹sussiste› la grandezza sulla quale vi è movimento o alterazione o aumento, e il tempo per via del movimento. Ebbene, per il momento ci 25 serviamo di queste ‹nozioni›, ma in seguito cercheremo di dire anche che cos’è ciascuna e perché ogni grandezza è divisibile in grandezze. Togliendo di mezzo che l’infinito sussiste in modo da essere impercorribile, in atto, nella direzione dell’accrescimento, il discorso non elimina la teoria neppure quanto ai matematici: ora, infatti, non hanno nemmeno bisogno dell’infinito 30 (infatti non ne fanno uso), ma soltanto che l’accrescimento64sia della quantità che vogliono, purché limitato. E con la grandezza massima è possibile tagliare nella medesima proporzione qualunque altra grandezza. Di conseguenza, in rapporto al dimostrare, per loro non avrà alcuna importanza l’esistenza ‹dell’infinito› nelle grandezze reali65. Poiché si sono distinte le cause in quattro modi, è evidente che l’infinito è causa come materia, e che l’essere per esso è 35 privazione, mentre il sostrato per sé è il continuo sensibile66208 a E, con ogni chiarezza, anche tutti gli altri si sono serviti dell’infinito come materia. Per questo è assurdo farne l’‹elemento› che contiene ma che non è contenuto67.

III, 8 ‹L’inammissibilità dell’esistenza dell’infinito› 5 Restano da percorrere le ragioni secondo le quali si ritiene che l’infinito esista non soltanto in potenza, ma anche come cosa determinata. In effetti, 194

alcune di esse non sono necessarie, altre ammettono certe altre risposte vere. ‹I› In effetti, affinché la generazione non venga meno, non è necessario che esista un corpo sensibile infinito in atto. 10 Infatti è possibile che la corruzione di una cosa sia generazione di un’altra, essendo il tutto limitato68. ‹II› Inoltre, l’essere in contatto e l’esser limitati sono diversi. Il primo, infatti, è in relazione a qualcosa e con qualcosa (ché, tutto ‹ciò che è in contato› è in contatto con qualcosa) e si verifica per qualcuna delle cose limitate; invece ciò che è limitato non è in relazione a qualcosa, né a qualsivoglia cosa è possibile essere in contatto con qualsivoglia cosa69. 15 ‹III› Il dar credito al pensiero è assurdo. In effetti, l’eccesso e il difetto non hanno luogo nella cosa, ma nel pensiero. Ché, si potrebbe pensare che ciascuno di noi è multiplo di se stesso, aumentando all’infinito; ma non per questo uno è fuori della città o della ‹nostra› specifica grandezza, ossia perché uno lo pensa, ma perché lo è. Il pensarlo è un accidente70. 20 ‹IV› Il tempo e il movimento sono cose infinite, ed anche il pensiero, senza che ciò che si assume permanga. Invece una grandezza non è infinita né per la diminuzione né per l’aumento che siano mero oggetto di pensiero71. Ma dell’infinito: come è, e come non è, e che cosa è, si è parlato.

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Frontespizio dell’edizione aldina della Fisica commentata da Michele Psello (Venezia, Aldo Manuzio, 1554). 1. Alla riga 20 b 26 accolgo la proposta del Ross di espungere τι: il pensiero si snoda in modo più scorrevole. Dunque, in tutte le categorie vi sono enti soltanto in atto ed enti in potenza e in atto, o altrimenti detto — tutti gli enti esprimono un significato categoriale o soltanto in atto o in potenza e in atto. «Un certo questo» (τόδε τι) è l’individuo sostanziale, giacché, com’è detto in Cat., 3 b 15-16, l’universale sostanziale esprime piuttosto «un certo quale». 2. Ossia delle altre categorie. 3. Ossia la sostanza individuale. 4. Ogni cosa, s’intende, del mondo sublunare. Giacché gli astri sono soltanto capaci di azione (cfr. in proposito De Gen. et Corr., 1, 6-9). 5. Ossia al movimento. 6. L’allusione è ai Pitagorici e a Platone (cfr. Sopii. 256 d-e; Tim. 57 e-58 e). 7. In proposito cfr. Metaph., 1048 b 29-35. 8. Col Ross espungo il καἰ della riga 202 a 14, del tutto pleonastico. 9. ἄλλην è lezione adottata dalla stragrande maggioranza degli editori. Benché la relativa espunzione, come è proposto dal Ross, non muti minimamente il senso («è senz’altro

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necessario che vi sia qualche atto proprio di ciò che agisce e di ciò che patisce»), il peso della ricorrenza di tale lezione mi induce a seguirla. 10. Cfr. 202 a 18-20. Cfr. anche 185 b 19-21. 11. Cfr. Metaph., 986 a 23; 988 a 8-14. 12. Infatti per i Pitagorici l’unità è un volume minimo, avente dunque un’esistenza concreta, e il numero è una somma di unità. I muneri coincidono perciò con le cose, essendo essi stessi cose. 13. Cfr. Metaph., 987 b 27. 14. Cfr. 187 a 17. 15. Riferimento rispettivamente a Talete, ad Anassimene e a Diogene di Apollonia. 16. Cfr. 205 a 27; De coel., 303 b 12; De gener. et corr., 322 a 20; Metaph., 989 a 14. Il riferimento sembra essere a Ideo di Imera, discepolo di Anassimene (così Diels). 17. La limitazione riguarda il numero degli elementi, l’infìnitudine e l’estensione di ciascuno. Il riferimento sembra essere a Empedocle e ai pensatori allineati alla sua p’osizione. 18. Cfr. D. K. 59 B1. 19. Letteralmente: corpo. 20. Distaccandomi dal Ross, accolgo la lezione tradita ov, pienamente plausibile sia dal punto di vista critico testuale che grammaticale. 21. Alla lezione oύτω, derivata dal commentario di Filopono e adottata dal Ross («per lui»), preferisco αυτών della tradizione manoscritta: una lezione pienamente plausibile sia sotto il profilo grammaticale che per il senso che conferisce alla frase. 22. L’espressione ricorre in Eraclito (cfr. D. K., 22 Β 41) e in Parmenide (cfr. D. K., 29 Β 12, ν. 3). Diels congettura che possa derivare da Anassimandro. 23. DIELS-K RANZ (vol. III, p. 17, 35) considerano l’espressione «immortale … indistruttibile» una citazione da Anassimandro. 24. Per essi, infatti, la linea, la superficie e il solido sono divisibili all’infinito. 25. L’argomento è riferito ad Anassimandro (cfr. AEZIO, Plac., I, 3, 3). 26. L’espressione, che nella traduzione ho preferito mantenere in tutto e per tutto aderente all’originale greco, indica l’impossibilità per il pensiero di sopprimere l’infinito. 27. Ossia lo spazio che si estende fuori del primo cielo, o cielo delle stelle fisse. 28. Che i mondi sono infiniti fu sostenuto, oltre che dagli Atomisti, da Anassimandro, da Anassimene, da Archelao, da Senofane, da Diogene, da Metrodoro di Chio, da Anassarco e da Zenone. 29. L’argomento sembra doversi attribuire ad Archita di Taranto (cfr. SIMPLICIO, 467, 26-35) ed è una sorta di riassunto di quello che gli ascrive EUDEMO (cfr. fr. 30 Spengel). 30. Come ha indicato Ross, il riferimento e ai Pitagorici e a Platone (cfr. supra, 203 a 6). 31. Ossia, per accidente. 32. Cfr. ante, 203 a 14-17. 33. Riferimento ad Anassimene e a Diogene di Apollonia. 34. Riferimento ai Pitagorici (cfr. ante, 203 a 10-15). 35. La soluzione di questo problema si trova nel cap. 7 di questo libro, 207 b sgg. 36. La soluzione di questo problema si trova nel cap. 6 di questo libro, 207 a 29 sgg. 37. Da rilevare la distinzione aristotelica degli enti in sensibili (αἰσθητά), matematici (μαθηματικά) e intelligibili (νoητά). Nei primi le forme si uniscono a una materia, sia sensibile che intelligibile (l’estensione); nei secondi le forme sono congiunte con una materia intelligibile, tale essendo l’estensione (cfr. Metaph., 1036 a 9; 1059 b 15); i terzi sono pure forme e non hanno grandezza, né sensibile né matematica. 38. Λoγικῶς denota l’ordine puramente concettuale e per termini della ricerca, in contrapposizione a φυσικῶς, che indica invece il suo articolarsi sulle cose. 39. Riferimento all’ἄπειρov anassimandreo (così Simplicio) o a un elemento intermedio tra aria, acqua, terra e fuoco.

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40. Si tratta di Anassimandro. Aristotele richiama il ragionamento con il quale il fisiologo poneva che l’ἄπειρoν è al di là degli elementi. 41. Cfr. I, 5. 42. Cfr. D. K. 22 Β 30, 31, 63-66, 90. 43. Cfr. 204 b 23-26. 44. Cfr. infra, IV, 1. 45. L’argomento, che è parecchio complesso, può riassumersi come segue: se esistesse un corpo sensibile infinito e fosse omogeneo, sarebbe o immobile o sempre in movimento (infatti, poiché il corpo è omogeneo, nessuna parte del luogo che esso occupa come tutto è più adatta di un’altra a qualche parte del corpo stesso; per cui nessuna parte del corpo si muove e dunque neppure l’intero corpo. Se invece il corpo come tutto è in movimento, poiché nessuna parte del luogo che esso occupa è più adatta di un’altra a che una parte del corpo si arresti, nessuna parte del corpo cesserà di essere in movimento e dunque neppure l’intero corpo); ma nessuna delle due alternative è possibile, giacché, essendo infinito, il corpo non avrebbe un luogo (il basso, l’alto, o qualunque altro) dove spostarsi o stare in quiete. Quindi, un corpo sensibile infinito che sia omogeneo non esiste. 46. Ovviamente, il corpo sensibile infinito come tutto. 47. Cfr. 204 b 13-19; 24-29. 48. Le parole tra parentesi quadre sono trasposte dal Ross alla fine del successivo argomento (205 b 1), probabilmente a ragione. 49. Il testo è piuttosto dubbio. Il modo più semplice per darvi linearità mi sembra quello di leggere τό σῶμα εἶναι ἅμα δ’ oύδ ἄπειρoν ἔσται τὸ oῶμα. Mi discosto pertanto dal Ross nell’espungere alla fine del passo ετι (conformemente alla lezione adottata da altri editori), che mi pare pleonastico. 50. Distaccandomi da Ross, seguo, con Carteron, la lezione dei codici Laur. 87.7, Vat. 241 e Vind. 100. 51. Seguo la lezione άπαιρέσει, adottata dalla maggior parte degli editori e più pregnante di διαιρέσει (per divisione), in quanto concettualmente più comprensiva. Infatti, ogni divisione è anche una detrazione, ma non vale l’inverso. In tal modo può considerarsi anche superata l’obiezione di Ross (p. 554 del Commentary), il quale, a giustificazione della seconda lezione, da lui seguita, fa presente che «il processo che Aristotele ha in mente è essenzialmente quello della divisione». 52. In Metaph., 92 a 29 sgg. La dottrina delle linee indivisibili è ascritta a Platone, ma altri autori, a partire da PROCLO (In Tim., 36 b, II, 246 Diehl) la attribuiscono a Senocrate. Si rammenti anche che nel corpus degli scritti aristotelici compare un trattatello Sulle linee indivisibili. 53. L’aggiunta di τι, secondo la lezione del codice Laurenziano 87. 7 e il commentario di Simplicio, mi sembra conferire maggior precisione all’espressione. 54. Come ha ben suggerito Ross, le parole tra parentesi quadre sono da espungersi. Il tenore dell’espressione lascia infatti chiaramente intendere che si tratta di una glossa. 55. Il ragionamento, che esplica in che modo esiste l’infinito per aggiunzione, è il seguente: se si divide una grandezza, per esempio il segmento AB, nei segmenti AC e CB, indi CB in CD e DB, a sua volta DB in DE e KB, e così via, e si aggiungono CD, DE ecc. ad AC, si vede che, come AB può essere diviso all’infinito, in questo stesso modo può essere aggiunto AC. Tuttavia l’aggiunzione procede all’infinito soltanto se i segmenti che via via si aggiungono ad AC decrescono secondo un criterio costante. Che, se i segmenti sono uguali, l’intera grandezza, ossia AB, viene percorsa con un numero finito di aggiunzioni (cfr. Ross, Commentary, p. 556). In questa logica, mi pare che alla riga 206 b 8 la lezione τὸ αὐτό τι μέγεθoς τω ὅλω sia perfettamente congruente e sia più significativa di quella stessa adottata dal Ross: τὸ αὐτό τoῦ ὅλoυ τι μέγεθoς («senza prendere la stessa grandeza del tutto», ossia senza togliere l’intera grandezza). Quest’ultima, infatti, pur enunciando un’annotazione

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pertinente al ragionamento, esprime però un’idea assai meno importante e, a ben vedere, fornisce una precisazione piuttosto ovvia. 56. S’intende, dell’infinito. Le lezioni adottate alle righe 18 e 20 sono quelle dei codici Laur. 87.7, Vat. 241 e Vind. 100. 57. Cfr. 203 a 7; b 25-26. 58. Ossia il grande e il pieeolo (cfr. 203 a 15-16). 59. Il riferimento è ai numeri ideali, limitati per l’appunto fino alla decade (cfr. Metaph., 1073 a 20; 1084 a 12, 31). 60. D. K., 28 Β 8, ν. 44. 61. Cfr. EURIPIDE,Oreste, 1431; PLATONE,Eutidemo, 298 c; STRATTIS, Potam., fr. 38. 62. Posto infatti che (come si desume da Cat., 1 a 14; 10 a 30; b 9; Eth. End., 1228 a 35) la paronimia è un nesso tra termini tale che il successivo significa qualcosa di metafìsicamente semplice e più fondamentale di ciò che significa il precedente, come «bianco» è paronimo di «bianchezza» perché significa «qualificato dalla bianchezza», così il nome «due» è paronimo del corrispondente aggettivo «due» in quanto significa «numero composto di due unità» (cfr. Ross, Commentary, pp. 559-560). 63. Si tratta del primo cielo o cielo delle stelle fisse, che contiene l’intero universo. L’espresione equivale dunque a «vi sarebbe qualcosa più grande dell’universo». 64. Non vedo altra possibilità grammaticale di connettere i femminili τὴν πεπερασμένην e ὅσην se non a αὔξησιν (o αὔξην, secondo un’altra lezione). «Quantità», come traducono, tra gli altri, Russo e Carteron, è concetto indubbiamente pertinentissimo e congruente sul piano del senso, ma non trova — mi pare — alcun sostegno grammaticale nella proposizione. Peraltro nel concetto di «accrescimento» è compreso quello di «quantità». 65. Il ragionamento di Aristotele è il seguente: negando che si possa raggiungere l’infinitamente grande in atto non si viene a cozzare con la teoria dei matematici, giacché essi possono effettuare le loro dimostrazioni anche su grandezze piccole. Infatti, ogni segmento, per quanto piccolo, può dividersi secondo lo stesso criterio con cui si divide un segmento quanto si voglia grande, cosicché le proprietà geometriche possono essere provate ugualmente sull’uno e sull’altro. I matematici, dunque, non hanno bisogno di quantità grandi, e di conseguenza neppure dell’infinito. 66. Καί ha chiaramente valore di endiadi. 67. Nuovo riferimento polemico verso Anassimandro (cfr. ante, 203 b 11; 207 a 18-32). 68. È la risposta all’argomento enunciato in 203 b 18-20. 69. È la risposta all’argomento enunciato in 203 b 20-22. 70. È la risposta all’argomento enunciato in 203 b 16-17. 71. È la risposta all’argomento enunciato in 203 b 17-17.

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LIBRO QUARTO IV, 1 ‹Necessità dello studio del luogo› Similmente è necessario che lo studioso di fisica faccia luce anche sul luogo, come sull’infinito: se esiste o no, e che cos’è. Tutti infatti suppongono che gli enti siano in un certo luogo (ché, il non-essere non è in nessun luogo. Dov’è, infatti, il 30 capricervo, o la sfinge?) e la specie massimamente comune e più importante del movimento, che chiamiamo traslazione, è secondo il luogo. Ma che cosa sia mai il luogo, ha insite molte difficoltà, giacché a coloro che indagano a partire da tutte le ‹proprietà) che gli appartengono non appare la stessa cosa. Inoltre, da parte degli altri ‹filosofi› non possediamo niente che su 35 quest’argomento né sollevi difficoltà, né le risolva. Ora, che il luogo esista sembra essere chiaro dallo spostamento 208 b reciproco. Ché, dove ora vi è acqua, qui, quando sia uscita come da un vaso, vi è di nuovo aria. E quando qualcun altro dei corpi occupa questo stesso luogo, ebbene questa cosa1, ad avviso unanime, è diversa da tutte quelle che sopraggiungono 5 e che mutano. Infatti, in ciò in cui ora vi è aria, prima vi era acqua; per cui è chiaro che il luogo e lo spazio nel quale le due cose nel loro mutare entravano e dal quale uscivano, era alcunché di diverso per entrambe. Inoltre, anche le traslazioni dei corpi naturali e semplici — per esempio, del fuoco, della terra e delle cose siffatte — 10 non soltanto indicano che il luogo è alcunché, ma anche che possiede una certa potenza. Ciascuno infatti, se non è impedito, si porta nel suo luogo, l’uno in alto, l’altro in basso. Queste sono, infatti, le parti e le specie del luogo: l’alto, il basso e le altre delle sei dimensioni2. Ma le ‹determinazioni) di questo tipo: l’alto, il basso, la destra e la sinistra, non sono 15 soltanto in rapporto a noi: giacché per noi non sono sempre identiche, ma si costituiscono secondo la posizione, nel modo in cui ci volgiamo; ond’è che sovente la medesima cosa è a destra e a sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro. Invece nella natura ciascuna ‹di queste determinazioni› si definisce in modo assoluto. Ché, l’alto non è qualunque cosa, ma dove 20 si portano il fuoco e il leggero; similmente anche il basso non è qualunque cosa, ma dove ‹si portano› le cose che hanno pesantezza e quelle terrose, poiché non differiscono soltanto per la 200

posizione, ma pure per la potenza. Lo indicano anche gli ‹enti› matematici: ché, pur non essendo in un luogo, tuttavia secondo la posizione rispetto a noi hanno una destra e una sinistra, così che la loro posizione viene soltanto pensata3, 25 senza che essi possiedano per natura ciascuna di queste ‹posizioni›. Inoltre, coloro che affermano il vuoto sostengono che vi è il luogo: ché, il vuoto sarebbe un luogo privato del corpo. In forza di queste ‹osservazioni› si può dunque comprendere che il luogo è alcunché al di là dei corpi, e che ogni corpo sensibile è in un luogo. E si può opinare che anche Esiodo dica esattamente quando fa del caos la cosa prima. Effettivamente 30 dice: di tutte le cose il caos fu la primissima, poi, successivamente, la terra dall’ampio seno4,

supponendo che per gli enti debba innanzitutto sussistere lo spazio, per il fatto di ritenere, come i più, che tutte le cose sono in qualche parte e in un luogo. E se vale una situazione siffatta, la potenza del luogo sarà sorprendente e prima di ogni cosa. Ché, ciò senza di cui 35 non esiste nessuna delle altre cose, ma esso ‹esiste› senza le altre cose, è necessario che sia primo. Difatti il luogo non si distrugge 209 a se si corrompono le cose in esso contenute. ‹1› Ma nondimeno ‹il luogo› presenta una difficoltà: se è, che cos’è: forse una certa massa del corpo o qualche altra natura. Per prima cosa bisogna infatti ricercare il suo genere. Ebbene, possiede tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità, 5 con le quali si definisce ogni corpo. Ma è impossibile che il luogo sia un corpo, giacché nella medesima cosa ci sarebbero due corpi. ‹2› Inoltre, se di un corpo vi sono un luogo e uno spazio, è chiaro che ‹vi saranno un luogo e uno spazio› anche della superficie e degli altri limiti, giacché vi si adatta il medesimo discorso. Infatti, dove in precedenza vi erano le superfici 10 dell’acqua, poi vi saranno quelle dell’aria. Ma non abbiamo nessuna differenza tra il punto e il luogo del punto; per cui, se il luogo non è cosa diversa da questo, non lo è neppure da alcuna delle altre, né il luogo sarà alcunché oltre ciascuna di esse. ‹3› Ché cosa mai possiamo porre che sia il luogo? Avendo infatti una tale natura, né è possibile che sia un elemento, né che derivi da elementi, né che faccia parte delle cose corporee, 15 né di quelle incorporee. Infatti, ha grandezza, ma non è alcun corpo; e gli elementi delle cose sensibili sono corpi, mentre dalle cose intelligibili non deriva alcuna grandezza. 201

‹4› Inoltre, chi potrebbe porre che il luogo è causa di al 20 cunché per gli enti? Infatti non gli appartiene nessuna delle quattro cause. In effetti non è né come materia degli enti (giacché nessuno è costituito da esso), né come forma ed essenza delle cose, né come fine, né muove gli enti. ‹5› Inoltre, anche se esso stesso è uno degli enti, dove sarà? In effetti, l’aporia di Zenone5 richiede un qualche discorso. 25 Ché, se tutto ciò che è, è in un luogo, è chiaro che vi sarà un luogo anche del luogo, e questo all’infinito. ‹6› Inoltre, come ogni corpo è in un luogo, così anche in ogni luogo vi è un corpo. Come diremo allora riguardo alle cose che aumentano? Infatti, da queste ‹considerazioni› è necessario che il luogo aumenti con esse, se veramente il luogo non è né minore né maggiore di ciascuna cosa. In forza, dunque, di queste ‹considerazioni› fa necessariamente 30 difficoltà non soltanto che cosa sia ‹il luogo›, ma anche se esista.

IV, 2 ‹L’impossibilità di identificare il luogo con la forma e la materia› Poiché una cosa si dice per sé, un’altra per altro, anche il luogo in un senso è comune: quello nel quale sono tutti i corpi, in un altro è proprio: quello nel quale ‹un corpo è› come nel ‹luogo› primo. Dico, per esempio, che tu ora sei nel cielo perché sei nell’aria e questa è nel cielo, e sei nell’aria perché sei 35 sulla terra; e parimenti sei anche su questa perché sei in questo 209b dato luogo, il quale non contiene niente di più che te. Ebbene, se il luogo è la cosa prima che contiene ciascuno dei corpi, sarà un limite; per cui il luogo sembrerà essere la forma e la sagoma di ciascuna cosa, con la quale si determinano la grandezza e la materia della grandezza. Questo infatti è il limite di ciascuna cosa. 5 Pertanto, per coloro che indagano in questo modo, il luogo è la forma di ciascuna cosa. Ma in quanto il luogo sembra essere l’intervallo della grandezza, è la materia. L’intervallo, infatti, è diverso dalla grandezza. Questa è ciò che è contenuto e definito dalla forma: per esempio, dalla superficie e dal limite. Ora, la materia e l’indeterminato sono una cosa siffatta: ché, quando si eliminino il limite e le affezioni della sfera, 10 non resta niente oltre la materia. Per questo, anche Platone nel Timeo afferma che la materia e lo spazio sono identici6: infatti, il ricettacolo e lo spazio sono un’unica e medesima cosa. E, pur parlando in modo diverso qui7 e 202

nelle cosiddette dottrine non scritte8, tuttavia ha dichiarato identici il luogo e lo spazio. Tutti, infatti, sostengono che il luogo è un alcunché, ma che cosa sia questi soltanto ha cercato di dire. Ben logicamente a coloro che indagano a partire da queste ‹considerazioni› sembrerà che è difficile rendere noto che cos’è il luogo, se davvero è una o l’altra di queste due cose: sia la materia, sia la forma. Ché, in altro modo esse rendono 20 l’esame assai arduo e, separatamente una dall’altra, non è facile farle conoscere. Ma tuttavia, che in realtà sia impossibile che il luogo consista o nell’una o nell’altra, non è difficile vedere. ‹1› In effetti, la forma e la materia non sono separate dalla cosa, mentre è possibile che il luogo ‹lo sia›. Ché, in ciò in cui vi era aria, un’altra volta vi è acqua, come abbiamo detto9, ponendosi 25 mutuamente l’acqua e l’aria l’una al posto dell’altra, e similmente ‹ponendovisi› gli altri corpi; per cui il luogo non è né parte né stato, ma è separabile da ciascuna cosa. E infatti sembra che il luogo sia una cosa tale quale è il vaso (giacché il vaso è un luogo trasportabile), e il vaso non è nessuna ‹parte› della cosa. Ora, nella misura in cui è separabile dalla cosa,30non ne è la forma; nella misura in cui la contiene, è diverso dalla materia. ‹2› Per altro verso, è comunemente ammesso che sempre ciò che esiste in un dove è in se stesso qualcosa e che vi è qualcos’altro fuori di esso. ‹3› Ma, se si deve esporre facendo una digressione, Platone deve dire perché le idee e i numeri non sono in un luogo, se davvero il luogo è ciò che è capace di partecipare, tanto se ciò che è capace di partecipare siano il Grande e il Piccolo, tanto se sia la materia, come ha scritto nel Timeo10, ‹4› Inoltre, come ‹un corpo› si porterebbe verso il luogo proprio se il luogo fosse la materia o la forma? Infatti, è impossibile che ciò verso cui non si ha il movimento e di cui non sussiste né l’alto né il basso sia un luogo. Di conseguenza, il 5 luogo deve essere ricercato tra le cose di questo genere. ‹5› Se il luogo è nella cosa stessa (deve infatti esserci, se veramente è o sagoma o materia), il luogo sarà in un luogo. Ché, anche la forma e l’indeterminato mutano e si muovono assieme alla cosa: non sono sempre nella medesima parte, ma sono là dove anche vi è la cosa. Di conseguenza vi sarà un luogo del luogo. 10 ‹6› Inoltre, quando dall’aria si produce l’acqua il luogo va distrutto: ché, il corpo prodotto non è nel medesimo luogo. Ebbene, di che sorta è la distruzione? Pertanto, si sono esposte le ‹considerazioni› dalle quali è necessario che il 203

luogo sia qualcosa e, a loro volta, quelle dalle quali si possono sollevare difficoltà sulla sua essenza.

IV, 3 ‹Nuove aporie intorno al luogo› Dopo ciò bisogna comprendere in quanti modi una cosa si dice in un’altra. ‹1› Ebbene, in un modo, come il dito è nella mano e in generale come la parte è nell’intero. ‹2› In un altro, come l’intero è nelle parti: ché, l’intero non esiste al di fuori delle parti. ‹3› In un altro modo, come l’uomo è nell’animale e in generale la specie è nel genere. ‹4› In un altro, come il genere è nella specie e in generale la parte della specie è nella definizione ‹della specie›. ‹5› Inoltre, come la salute è in cose calde e fredde e in 20 generale come la forma è nella materia. ‹6› Inoltre, come le vicende dei Greci sono nelle mani del re dei Macedoni e in generale nel primo motore. ‹7› Inoltre, come nel bene e in generale nel fine. E questo è il ciò in vista di cui. ‹8› Ma il ‹modo› principale fra tutti è «come in un vaso e in generale in un luogo». Si potrebbe sollevare la difficoltà se sia mai possibile anche 25 che una certa cosa sia essa stessa in se stessa, o se nulla ‹possa esserlo›, ma tutto o non è in nessun luogo o è in altro. Ma questo è in due modi: ‹considerando la cosa› o per sé o per altro. Infatti, quando ciò in cui ‹è qualcosa› e ciò che è in questo ‹qualcosa› siano parti dell’intero, l’intero sarà preso in se stesso. Ché, si dice anche secondo le parti: per esempio, bianco perché la superficie è bianca e sapiente perché lo è la 30 parte calcolativa dell’anima. Quindi l’anfora non sarà in se stessa, né il vino, ma lo sarà l’anfora del vino. Infatti, sia ciò che è in, sia ciò in cui è sono entrambi parti della medesima cosa. In questo modo è dunque possibile che una cosa sia essa stessa in se stessa, mentre nel primo non è possibile: per esempio, il bianco è nel corpo. Infatti, la superficie è nel corpo e la 210b scienza nell’anima. Secondo queste cose, che sono parti, poiché in realtà sono nell’uomo, si hanno le denominazioni (invece l’anfora e il vino come cose prese 204

separatamente non sono parti, ma ‹lo sono› insieme. Per questo, quando vi siano parti, la cosa sarà in se stessa): per esempio, il bianco è nell’uomo perché è nel 5 corpo, ed è in questo perché è nella superficie; ma è in questa non più secondo altro. E queste cose sono in realtà divers per la specie, e ciascuna possiede una natura e una potenza diversa: la superficie e il bianco. Ora, neppure se conduciamo l’esame induttivamente vediamo che alcuna cosa è in se stessa, secondo nessuno dei ‹sensi› che abbiamo determinato; e per la ragione è manifestamente 10 impossibile. Ché, bisognerà che ciascuna delle due cose sia entrambe le cose, per esempio, che l’anfora sia vaso e vino e che il vino sia vino e anfora, se veramente è possibile che una cosa sia essa stessa in se stessa. Di conseguenza, se possono essere, quanto massimamente possibile, l’una nell’altra, l’anfora riceverà il vino non in quanto sia essa stessa 15 vino, bensì in quanto è quella e il vino sarà nell’anfora non in quanto sia esso stesso anfora, ma in quanto è quello. Che dunque siano cosa diversa secondo l’essere, è chiaro. Infatti, la definizione di ciò in cui e di in questo è altra. Ma non è possibile neppure per accidente, giacché vi saranno contemporaneamente due cose nella medesima cosa. 20 Ché, l’anfora sarà essa stessa in se stessa, se ciò la cui natura è atta a ricevere sia in se stesso e, inoltre, vi sia ciò che ‹esso› è atto a ricevere: per esempio, del vino, se ‹è atto a ricevere› vino. Che dunque sia impossibile che qualcosa sia in senso primario in se stesso, è chiaro. Ma la difficoltà che sollevava Zenone11, ossia che, se il luogo è qualcosa, sarà in qualcosa, non è difficile da risolvere. Ché, nulla impedisce che il primo luogo sia in altro, ma non in 25 quest’altro come in un luogo, bensì come la salute, in quanto abito, è nelle cose calde e il caldo, in quanto affezione, è in un corpo12. Di conseguenza, non è necessario che si vada all’infinito. Ma questo è evidente, e cioè che, poiché il vaso non è nulla di ciò che è in esso (infatti, presi in senso primario, sono una cosa diversa ciò che ‹è in qualcosa› e ciò in cui è ‹qualcosa›), il luogo non può essere né materia né forma, ma è altro. Ché, queste ‹determinazioni› — la materia e la forma — sono un 30 aspetto di ciò che è in ‹un luogo›. Queste difficoltà siano dunque state svolte.

IV, 4 205

‹La natura del luogo› Che cosa sia mai il luogo, può diventare chiaro in questo modo. Assumiamo in merito a esso tutto ciò che comunemente si ritiene con verità che gli appartiene per sé. Ebbene, riteniamo che il primo luogo sia ciò che contiene quello di cui è 211a luogo13, e che non sia nulla della cosa14; inoltre, che il primo luogo non sia né minore né maggiore ‹di essa›15; inoltre, che prescinde da ciascuna cosa e che è separabile16; in più, che tutte le cose hanno come luogo l’alto e il basso, e che per natura ciascuno dei corpi si porta e permane nei luoghi propri, 5 e che fa questo o in alto o in basso17. Poste queste ‹istanze›, si deve indagare il resto. Perché ne sia esplicato il che cos’è, bisogna sforzarsi di effettuare la ricerca così che siano risolti gli aspetti che facevano difficoltà: anche quelle ‹proprietà› che secondo le opinioni correnti appartengono al luogo saranno ‹proprietà› che gli appartengono e, inoltre, sarà chiara la causa del malcontento e delle 10 difficoltà in merito a esso. Così infatti si mostrerà ciascuna cosa nella maniera più valida. Per prima cosa, dunque, si deve riflettere che il luogo non sarebbe oggetto di ricerca se una specie di movimento18 non fosse quello secondo il luogo. Per questo, infatti, riteniamo che anche il cielo sia soprattutto in un luogo, perché è sempre in movimento. E una specie di esso è la traslazione, un’altra15l’aumento e la diminuzione. In effetti, sia nell’aumento che nella diminuzione si verifica un mutamento, e ciò che prima era qui, poi è mutato verso il meno o il più. È una cosa mossa, da un lato ciò che lo è per sé, in atto, dall’altro ciò che lo è per accidente. ‹Si muovono› per accidente, 20 da un lato ciò che può muoversi per sé, per esempio le parti del corpo e il chiodo nella nave, dall’altro le cose che non possono ‹muoversi per sé›, ma ‹si muovono› sempre per accidente, per esempio la bianchezza e la scienza. Così, infatti, queste ‹seconde› sono mutate di luogo, perché muta ciò in cui sussistono. E poiché diciamo che ‹una cosa› è nel cielo come in un 25 luogo perché è nell’aria e questa è nel cielo; ed è sì nell’aria, però non in tutta ‹l’aria›, ma diciamo che è nell’aria per via della parte estrema di essa e che la contiene (ché, se tutta l’aria fosse luogo, il luogo di ciascuna cosa non sarebbe uguale a ciascuna cosa, mentre in realtà, ad avviso unanime, lo è. E tale è il primo ‹luogo›, quello cioè nel quale è ‹la cosa›), ebbene, quando ciò che contiene non sia diviso ‹dal corpo›, 30 ma sia continuo ‹con esso›, ‹il corpo› si dice che è in esso non come in un luogo, bensì come parte nell’intero; quando invece ‹ne› sia diviso e contiguo, è nel primo ‹luogo›, ossia nell’estremità di 206

ciò che ‹lo› contiene, il quale né è parte di ciò che è in esso, né è maggiore dell’intervallo, ma uguale. Infatti, le estremità delle cose contigue sono nel medesimo ‹luogo›. 35 E se ‹il corpo› è continuo ‹col luogo›, non si muove in esso, ma con esso; poiché invece è diviso, ‹si muove› in esso. E ‹si muove› per nulla di meno tanto nel caso in cui ciò che lo contiene sia in movimento quanto in quello in cui non lo sia [Inoltre, 211b quando non sia diviso, si dice come parte nell’intero: per esempio, la vista nell’occhio o la mano nel corpo; quando invece sia diviso, è come l’acqua nell’orcio o il vino nella coppa. Infatti la mano si muove assieme al corpo, invece l’acqua ‹si muove› nell’orcio]19. 5 Pertanto, già da queste ‹considerazioni› è evidente che cos’è il luogo. In effetti sono all’incirca quattro le cose in una delle quali è necessario che il luogo consista: ‹l›o forma, ‹2› o materia, ‹3› o un certo intervallo intermedio tra le estremità, ‹4› o le estremità, se non vi è nessun intervallo al di fuori della grandezza del corpo che è interno. E che ‹il luogo› non possa 10 essere tre di queste, è evidente. ‹1› Ma in virtù del fatto di contenere sembra essere la forma, giacché le estremità di ciò che contiene e di ciò che è contenuto sono nel medesimo ‹luogo›. Ebbene, entrambi20sono limiti, però non della stessa cosa, ma la forma lo è della cosa, mentre il luogo del corpo contenente. ‹3› Per il fatto che ciò che è contenuto e diviso muta spesso, 15 pur restando saldo ciò che ‹lo› contiene, come acqua che esce da un vaso, l’intervallo che è intermedio ‹tra le estremità› sembra essere qualcosa, come se fosse alcunché oltre il corpo che si sposta. Ma questo ‹alcunché› non esiste, però vi cade qualunque corpo tra quelli che si spostano e sono per natura contigui. Se invece fosse possibile che qualche intervallo per natura esista per sé e permanga, nello stesso ‹luog› vi sarebbero 20 infiniti luoghi: ché, spostandosi l’acqua e l’aria, tutte le parti compiranno nell’intero la stessa cosa che compie tutta l’acqua nel vaso. Nello stesso tempo anche il luogo sarà mutato. Di conseguenza, vi sarà un altro luogo del luogo, e vi saranno molti luoghi assieme. Ma il luogo della parte, nel 25 quale ‹essa› si muove, non è diverso quando l’intero vaso si sposta, ma è il medesimo. Infatti l’aria e l’acqua, o le parti dell’acqua, si spostano vicendevolmente nel ‹luogo› in cui sono, ma non nel luogo in cui vengono a essere, il quale è parte del luogo che è luogo dell’intero cielo. ‹2› Anche la materia può sembrare che sia il luogo, se la si 30 guarda in un ‹corpo› in quiete e non diviso, ma continuo. Come, infatti, se vi è alterazione vi è qualcosa che ora è bianco ma prima era nero, che ora è duro ma prima era molle (per questo diciamo che la materia è qualcosa), 207

così anche il luogo sembra esistere in virtù di una tale rappresentazione, tranne che il primo caso si verifica perché quello che era acqua ora è 35 aria, mentre questo secondo perché dove vi era aria, qui212a oravi è acqua. Ma la materia, come s’è detto nelle trattazioni precedenti21, né è separata dalla cosa, né la contiene; il luogo invece è entrambe le cose. ‹4› Se dunque il luogo non è nessuna delle tre cose ‹suddette›: né la forma, né la materia, né un certo intervallo sempre sussistente come diverso da quello della cosa che si sposta, 5 è necessario che il luogo sia la restante delle quattro: il limite del corpo contenente, ‹secondo il quale esso è contiguo al corpo contenuto›22. Chiamo «corpo contenuto» quello che può muoversi secondo traslazione. Sembra che il luogo sia alcunché di grande e di difficile a comprendersi per via del suo apparire come la materia e la forma e per il fatto che il trasferimento del ‹corpo› che si 10 sposta, si produce in una cosa in quiete, il contenente. Sembra infatti che sia possibile l’esistenza di un intervallo intermedio, come alcunché di diverso dalle grandezze in movimento. Vi contribuisce anche l’aria, col suo sembrar essere incorporea. In effetti pare che il luogo non consista soltanto nei limiti del vaso, ma anche in quel che è intermedio, ‹supposto› come 15 vuoto. Invece, come il vaso è un luogo che può trasferirsi, così anche il luogo è un vaso intrasportabile. Per questo, quando ‹qualcosa› si muova in un ‹corpo› in movimento e muti la cosa che vi è dentro, per esempio una nave in un fiume, ci si serve del contenente come di un vaso più che come di un luogo. Invece il luogo vuole essere immobile. Perciò, luogo è piuttosto tutto il fiume: perché nella sua totalità è immobile. 20 Di conseguenza, il luogo è questo: il primo limite immobile del contenente. E per questo il mezzo del cielo e l’estremità della ‹sua› traslazione circolare che è in relazione a noi, a tutti sembrano essere, la seconda l’alto, il primo il basso in senso massimamente proprio: perché il primo resta fermo sempre, invece l’estremità del cerchio23 resta ferma in quanto è nel medesimo modo ‹di quello›. Di conseguenza, poiché il leggero è ciò che per natura si porta verso l’alto, mentre il pesante ciò che si porta verso il basso, il limite che contiene in rapporto al mezzo è in basso, ed è ‹in basso› lo stesso mezzo; invece il limite in rapporto all’estremità è in alto, ed è ‹in alto› la stessa estremità. E per questo il luogo sembra essere una sorta di superficie e come un vaso e una cosa che contiene. Inoltre, il luogo è assieme alla cosa: giacché i limiti sono 30 assieme alla cosa limitata.

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IV, 5 ‹L’essere in un luogo› Ebbene, quel corpo che ha all’esterno un dato corpo che lo avvolge, è in un luogo; quello che non l’ha, no. Per questo, anche se un tale corpo diventi acqua, le sue parti saranno in movimento (giacché si contengono l’una l’altra); invece il tutto, in un senso sarà possibile che sia in movimento, in un altro no. Come tutto, infatti, non muta contemporaneamente 35 luogo, ma si muove24 in circolo. Questo è, in effetti, il luogo delle 212b parti25. E alcune si non muovono in alto e in basso, ma in circolo; le parti, invece, che si muovono in alto e in basso sono tutte quelle che hanno condensazione e rarefazione. Come s’è detto26, alcune cose sono in un luogo secondo la potenza, altre secondo Tatto. Perciò quando la cosa costituita 5 di parti simili sia continua, le parti sono in un luogo secondo la potenza; quando invece siano separate ma in contatto, come un mucchio, lo sono secondo Tatto. E alcune cose sono in un luogo per sé: per esempio, ogni corpo mobile o secondo traslazione o secondo aumento ‹è in un luogo› per sé, mentre il cielo, come s’è detto27, non è tutto in un dove né in un qualche luogo, se in realtà nessun corpo lo 10 contiene. Ma nella misura in cui si muove, anche le sue parti hanno un luogo: ché, delle parti, una è contigua all’altra. Altre cose, invece, sono in un luogo per accidente: per esempio, l’anima e il cielo. Infatti, le ‹sue › parti in un certo modo sono tutte in un luogo, giacché sul cerchio l’una contiene l’altra. Per questo la ‹parte› superiore si muove circolarmente; invece il tutto non è in un dove. Infatti, quel che è in un dove è in 15 se stesso qualcosa, e inoltre dev’esserci qualche altra cosa oltre questo, nella quale si trova ciò che lo contiene; ma, oltre il tutto e l’intero, non vi è nulla fuori del tutto, e per questo tutte le cose sono nel cielo. Ché, il cielo è senza dubbio il tutto. E il ‹loro› luogo non è il cielo, bensì una certa estremità del cielo, ossia un limite in quiete contiguo col corpo mobile. E in 20 forza di ciò la terra è nell’acqua, questa nell’aria, questa nell’etere e l’etere nel cielo. Il cielo, invece, non è più in un’altra cosa. È evidente da queste ‹considerazioni› che anche tutte le difficoltà si risolveranno definendo28 così il luogo. Né infatti è necessario che il luogo aumenti, né che ci sia un luogo del 25 punto, né che due corpi siano nello stesso luogo, né che ci sia qualche intervallo corporeo (in effetti l’intermedio del luogo, qualunque sia, è un corpo, ma non un intervallo del corpo›. E il luogo è anche in un dove, però non come in un luogo, bensì come il limite nella cosa limitata. Ché, non tutto ciò che esiste è in un luogo, 209

ma il corpo mobile. E pertanto è ben logico che ciascun ‹corpo› si porti nel proprio luogo (‹il corpo›, infatti, 30 che è consecutivo e contiguo non per costrizione, è congenere, e se le cose stanno insieme per natura sono esenti da affezioni, se invece sono in contatto, sono mutuamente capaci di patire e di agire); e, quindi, che ciascuno29 permanga nel proprio luogo non è senza buona ragione: infatti, ‹vi permane› anche la parte, essa che è in un luogo in quanto è una parte divisibile rispetto a un intero30, per esempio quando si muova una 35 parte d’acqua o di aria. Anche l’aria si rapporta così all’acqua: 213a infatti ‹vi si rapporta› come materia, mentre questa è forma: l’acqua è materia dell’aria, mentre l’aria è come una sorta di atto di quella. Infatti l’acqua in potenza è aria, ma, in un altro modo, l’aria in potenza è acqua. Ma in merito a queste 5 cose si deve determinare in seguito31. Però, se è necessario parlarne a braccio, un ‹concetto› enunciato ora in modo non chiaro, allora sarà più chiaro. Ebbene, se la medesima cosa è materia e atto (l’acqua, infatti, è entrambe, ma l’una in potenza, l’altra in atto), può rapportarsi in un certo senso come parte rispetto all’intero. Perciò anche queste cose hanno un 10 contatto. Vi è, invece, natura unitaria quando due cose divengano una sola in atto. Anche del luogo si è detto: sia che è, sia che cos’è.

IV, 6 ‹Esame delle opinioni sul vuoto› Nello stesso modo bisogna intendere che è compito dello studioso di fisica indagare intorno al vuoto: se esiste o no e com’è e che cos’è, come ‹è compito di costui indagare› anche intorno al luogo. E infatti, in base a ciò che si è appreso, ‹esso› 15 possiede pressoché le stesse ragioni sia di non credere che di credere ‹che esista›. In effetti coloro che l’affermano, pongono il vuoto come un certo luogo e un vaso. E sembra che sia pieno quando possieda la massa di ciò che è atto a ricevere, quando invece ne sia privo, è vuoto, come se vuoto, pieno e luogo fossero la stessa cosa, ma l’essere per essi non fosse lo stesso. 20 Si deve iniziare la ricerca assumendo ciò che sostengono coloro che ne affermano l’esistenza, e a sua volta ciò che sostengono coloro che la negano e, per terzo, le opinioni comuni intorno a quelle ‹tesi›. Ebbene, coloro che cercano di mostrare che non esiste, non confutano ciò che gli uomini vogliono dire per vuoto, bensì l’errore che commettono quando ne parlano: 210

25 come Anassagora32 e quelli che confutano in questo modo. Infatti dimostrano che l’aria è qualcosa torcendo gli otri, mostrando come l’aria sia forte e rinchiudendola nelle clessidre. Ma gli uomini vogliono che sia vuoto l’intervallo nel quale non vi è nessun corpo sensibile: credendo che tutto quello che esiste sia corpo, affermano che ciò in cui non vi è completamente nulla è vuoto, per il fatto che quel che è pieno 30 d’aria è vuoto. Ora, non è questo che si deve mostrare, ossia che l’aria è qualcosa, ma che non vi è un intervallo diverso dai corpi, né come separabile né come esistente in atto, il quale separi ogni corpo così da non essere continuo, come affermano Democrito33, Leucippo34 e molti altri tra i Fisiologi35, o 213b anche se sia alcunché d’esterno a ogni corpo continuo36. Ebbene, costoro non giungono neppure alle porte rispetto al problema, ma ‹vi giungono) piuttosto coloro che sostengono che ‹il vuoto› esiste37. Fanno valere una ragione: che non ci sarebbe il movimento secondo il luogo (e questo è la traslazione e l’aumento): ché, ad avviso unanime, non esisterebbe 5 movimento se non vi fosse il vuoto, giacché il pieno è impossibile che accolga alcunché. Se invece l’accoglierà e nel medesimo ‹luogo› vi saranno due cose, sarebbe possibile che vi siano contemporaneamente anche quanti corpi si voglia, giacché non è possibile esprimere la differenza in forza della quale non esisterebbe quel che s’è detto. E se questo è possibile, anche la cosa più piccola accoglierà quella più grande: 10 infatti la cosa grande consiste di molte cose piccole. Per cui, se è possibile che molte cose uguali siano nel medesimo ‹luogo›, ve ne saranno anche molte disuguali. Ora, da queste ‹considerazioni› Melisso dimostra anche che il tutto è immobile38: ché, se si muoverà, è necessario — egli afferma — che vi sia il vuoto; ma il vuoto non fa parte degli enti. 15 In un modo, dunque, essi dimostrano che il vuoto è qualcosa da questi ‹rilievi›, in un altro ‹facendo presente› che alcune cose risultano unirsi e comprimersi: affermano, per esempio, che le botti ricevono anche il vino assieme alle otri, come se il corpo che si condensa convenisse in quegli ‹intervalli› vuoti che esistono dentro ‹di esso›. Inoltre, anche l’aumento a tutti sembra prodursi in forza 20 del vuoto. Infatti, il nutrimento è corpo, ed è impossibile che due corpi esistano insieme. Portano come testimonianza anche ciò che avviene relativamente alla cenere, la quale accoglie tanta acqua quanta il vaso vuoto39. Anche i Pitagorici sostennero l’esistenza del vuoto40 e che dall’infinito soffio esso penetra nel cielo, come se ‹questo› respirasse anche il vuoto, il quale delimita le nature, supponendo 25 che il vuoto sia una certa separazione e una delimitazione delle cose consecutive. E che questo si 211

verifica innanzitutto nei numeri: giacché il vuoto delimita la loro natura. Ebbene, gli ‹argomenti› a partire dai quali gli uni affermano e gli altri negano l’esistenza ‹del vuoto› sono pressoché di questo tipo e di questo numero.

IV, 7 ‹Critica delle dottrine asserenti l’esistenza del vuoto› 30 Per sapere in quale dei due modi stiano le cose41, bisogna assumere che cosa significa il nome. ‹1› Ebbene, è comunemente ammesso che il vuoto è un luogo nel quale non vi è nulla. Causa di questa ‹convinzione› è che si ritiene che l’esistente sia corpo, e ogni corpo è in un luogo; il vuoto, invece, è un luogo nel quale non c’è nessun corpo. Per cui, se in qualche dove non vi è un corpo, qui non c’è nulla42. ‹2› A sua volta, credono che ogni corpo sia tangibile, ed è tale ciò che 214a possieda pesantezza o leggerezza. Pertanto, da un sillogismo deriva che è vuoto ciò in cui non vi è nulla di pesante o di leggero43. Queste ‹conclusioni›, come abbiamo detto anche prima, derivano da un sillogismo. Ma si ha un assurdo se il punto è un vuoto, giacché dev’essere un luogo nel quale vi è 5 un intervallo di un corpo tangibile. Ma allora risulta che il vuoto ‹2› in un modo si dice come ciò che non è pieno di un corpo sensibile secondo il tatto; ed è sensibile secondo il tatto ciò che possiede pesantezza e leggerezza (perciò si potrebbe sollevare la questione: che cosa mai si direbbe se l’intervallo avesse colore o suono: è vuoto o no? Oppure è chiaro che, se 10 contenga un corpo tangibile, è vuoto, altrimenti no). ‹1› In un altro modo, ‹il vuoto è› ciò in cui non vi è né un certo questo, né una sostanza sensibile. Perciò alcuni44 sostengono che il vuoto è la materia del corpo (e si tratta di coloro che ‹affermano› che anche il luogo è questa stessa cosa), dicendo però in modo non corretto: ché, la materia non è separabile dalle 15 cose, mentre ricercano il vuoto come separabile. Ma poiché si sono date delle definizioni sul luogo, ed è necessario che il vuoto, se esiste, sia un luogo privo di un corpo, e si è detto in che senso esiste il luogo e in che senso non esiste, è evidente che in questo modo il vuoto non esiste, né se sia separato, né se sia inseparabile. Ché, il vuoto non vuole essere un corpo, bensì intervallo di un corpo. Per questo sembra 20 che anche il vuoto sia qualcosa: perché lo è anche il luogo e per le medesime (ragioni›. Infatti, il movimento secondo il luogo va bene sia a 212

coloro che sostengono che il luogo è qualcosa al di là dei corpi che vi cadono dentro, sia a coloro che affermano questo del vuoto. E così ritengono che causa del 25 movimento sia il vuoto, dal momento che è ciò in cui si produce il movimento. Ed esso sarebbe quale alcuni sostengono che è il luogo. Ma non vi è nessuna necessità, se c’è movimento, che ci sia il vuoto. Anzi, in senso complessivo ‹il vuoto non esiste› pur dandosi ogni movimento, e per questo motivo ‹esso› sfuggì anche a Melisso. Infatti ‹1› è possibile che il pieno si alteri45. Ma neppure il movimento secondo il luogo ‹richiede il vuoto›: giacché è possibile che nello stesso tempo le cose cedano 30 l’una il posto all’altra senza che ci sia alcun intervallo separabile al di là dei corpi che sono in movimento. E questo è chiaro anche nelle rotazioni dei ‹corpi› continui, come pure in quelle dei ‹corpi› liquidi46. ‹2› Ed è possibile anche che si dia condensazione non verso il vuoto, ma mediante l’espellere 214b quel che è interno (per esempio, comprimendosi l’acqua, l’aria che è in ‹essa›47) e che ‹3› si dia aumento non soltanto se penetra qualcosa, ma anche con l’alterazione: per esempio, se dell’aria si produca dall’acqua48. Complessivamente, il ragionamento relativo all’aumento e all’acqua versata nella cenere 5 impedisce se stesso. Infatti, o non aumenterà qualunque ‹parte del corpo›, o ‹l’aumento non sarà dovuto› a un corpo, o è possibile che due corpi siano nello stesso ‹luogo› (pertanto ritengono di risolvere una difficoltà comune, ma non dimostrano che esiste il vuoto), oppure è necessario che il corpo sia tutto vuoto, se aumenta in ogni parte e aumenta a causa del vuoto49. E il medesimo ragionamento vale anche nel caso della cenere. 10 Che dunque sia facile risolvere gli ‹argomenti› dai quali dimostrano l’esistenza del vuoto, è evidente.

IV, 8 ‹Impossibilità che il vuoto sia separato› Che dunque non esista un vuoto così separato, come affermano alcuni, diciamo di nuovo. Se infatti c’è una qualche traslazione di ciascuno dei corpi semplici per natura: per esempio, per il fuoco verso l’alto e per la terra verso il basso e verso il mezzo, è chiaro che il vuoto non può essere causa 15 della traslazione. Di che cosa sarà dunque causa il vuoto? Infatti si opina che sia causa del movimento secondo il luogo, ma di questo non lo è. 213

noltre, se, quando vi sia il vuoto, vi è qualcosa come un luogo privato del corpo, dove sarà portato il corpo che vien posto in esso? Certo non in ogni ‹direzione›? Il medesimo ragionamento vale anche per coloro che pensano che il vuoto, 20 verso il quale ‹un corpo› si porta, sia alcunché di separato. Infatti, come sarà portato o resterà fermo ciò che vi è posto dentro? E naturalmente il medesimo ragionamento sarà adeguato sia che si tratti dell’alto e del basso che del vuoto, giacché coloro che ne affermano l’esistenza fanno del vuoto un luogo. Ebbene, come ‹un corpo› sarà o dentro un luogo50 o 25 dentro il corpo? Infatti, ‹questo› non avviene, quando qualche corpo sia posto nella sua interezza come in un luogo separato e permanente51. Infatti, se la parte non viene posta in modo separato non sarà in un luogo, ma nell’intero. Inoltre, se non vi è un luogo non vi sarà neppure un vuoto. Se si guarda con attenzione, a coloro che sostengono che, se vi sarà movimento, il vuoto esiste come necessario, capita piuttosto il contrario, e cioè che, qualora si dia il vuoto, non è 30 possibile che si muova neppure una sola cosa. Infatti, al modo di coloro che affermano52 che la terra è in quiete a causa della sua omogeneità, così è necessario che sia in quiete anche nel vuoto: giacché non esiste dove sarà mossa di più o di meno. Infatti ‹il vuoto›, in quanto vuoto, non ha differenza. 215a Ebbene, innanzitutto53 ‹è chiaro› che ogni movimento è per costrizione o secondo natura. Ed è necessario che, se si dia quello costretto, vi sia anche quello secondo natura: giacché il ‹movimento› costretto è contro natura, e il ‹movimento› contro natura è successivo a quello secondo natura. Di 5 conseguenza, se ciascuno dei corpi naturali non ha un movimento secondo natura, non vi sarà nessuno neppure degli altri movimenti. Ma come ‹un movimento› sarà per natura se non vi è nessuna differenza secondo il vuoto e l’infinito? Ché, nel caso ci sia l’infinito, non ci sarà nessun alto né 10 basso né mezzo; e qualora vi sia il vuoto, l’alto non differirà in nulla dal basso (come infatti del nulla non vi è nessuna differenza, così anche del non-essere. Ché, il vuoto sembra essere un certo non-essere e una privazione); invece la traslazione naturale ha differenze: per cui le cose naturali54 saranno differenti. Quindi, o per nessuna vi è per natura traslazione in alcun luogo, oppure, se questo si dà, non vi è il vuoto. In più ancora, le cose scagliate, anche se chi le ha lanciate 15 non le tocca, sono in movimento: o per compressione circostante, come alcuni sostengono55, o per il fatto che l’aria scacciata origina con la sua spinta un movimento più veloce della traslazione del corpo lanciato, secondo la quale ‹esso› si porta nel suo luogo proprio. Ma nel vuoto non sussiste nessuna di 214

queste cose, né sarà possibile che ‹un corpo› si trasporti, se non perché vi è il veicolo. Inoltre, nessuno sarebbe in grado di dire perché una cosa in movimento si arresterà in un certo luogo. Perché, infatti, qui piuttosto che là? Di conseguenza, o sarà in quiete, o si trasporta necessariamente all’infinito, a meno che qualcosa di più potente non la ostacoli. In più ancora, sembra che si porti verso il vuoto per il fatto che ‹questo› cede. Ma nel vuoto una tale ‹condizione› si ha similmente in ogni parte, per cui sarà portata in ogni parte. Inoltre, anche da queste ‹considerazioni› quel che diciamo è evidente. Vediamo infatti che il medesimo peso, ossia il medesimo 25 corpo, si trasporta più velocemente per due ragioni: o per il fatto che ciò attraverso cui ‹passa› è differente: per esempio, attraverso l’acqua o la terra o l’aria; oppure per il fatto che ciò che si trasporta è differente per l’eccesso del peso o della leggerezza, qualora le altre ‹condizioni› siano identiche. Ebbene, ciò attraverso cui ‹il corpo› si trasporta è causa perché, portandosi in senso contrario, offre massima resistenza; 30 inoltre, anche restando fermo. Ma maggiormente la offre ciò che non è facilmente divisibile. E una tale cosa è ciò che è alquanto denso. Ora, il corpo indicato con A si trasporterà 215b attraverso Β per il tempo indicato con C, e attraverso D, che è costituito di parti più sottili, per il tempo indicato con E: se la lunghezza di Β è uguale a D, ‹il tempo dello spostamento› è proporzionale al corpo che offre resistenza. Sia infatti Β acqua, D aria. Ebbene, quanto l’aria è più leggera e incorporea 5 dell’acqua, tanto più velocemente A si trasporterà attraverso D che attraverso B. La velocità rispetto alla velocità abbia, quindi, la stessa proporzione secondo la quale l’aria differisce rispetto all’acqua. Per cui, se è sottile in maniera doppia, ‹il corpo› percorre la distanza Β in un tempo doppio della distanza D, e il tempo indicato da C sarà doppio di quello indicato da E. E sempre, dunque, si trasporterà più 10 velocemente quanto più incorporeo e minormente offerente resistenza e più facile a dividersi sia ciò attraverso cui si trasporta. Il vuoto, invece, non ha nessuna proporzione per la quale è superato dal corpo, come neppure lo zero rispetto al numero. Se infatti il quattro supera il tre di uno, e di più il due, l’uno di più ancora 15 del due, non ha più una proporzione con la quale supera lo zero: giacché è necessario che ciò che supera si divida nell’eccesso e in ciò che è superato; per cui il quattro sarà la quantità con la quale supera e zero. Per questo, neppure la linea supera il punto, se non è costituita di punti. Similmente, anche il vuoto non è possibile che abbia 20 rispetto al pieno alcuna proporzione, per cui non l’ha neppure rispetto al movimento. 215

Ma se, in rapporto alla lunghezza di una data quantità, la traslazione attraverso il ‹corpo› più sottile avviene in una data quantità di tempo, attraverso il vuoto oltrepassa ogni proporzione. Sia infatti Ζ il vuoto, uguale per grandezza a Β e D. Ebbene, se A ‹lo› percorre e ‹vi› sarà mosso in un certo tempo, 25 indicato con H, minore di quello indicato da E, il vuoto rispetto al pieno starà in questa proporzione. Ma in un tempo di quantità pari a quello indicato con H, A percorre la ‹lunghezza› Τ di D. Ma in realtà la percorre secondo quella proporzione che il tempo indicato con E ha con quello indicato con Η anche se ciò che è indicato con Ζ sia per sottigliezza 30 alcunché di differente dall’aria. Qualora, infatti, il corpo indicato con Ζ sia più sottile di D tanto quanto E oltrepassa H, 216a il ‹corpo› indicato da A, se sia soggetto a traslazione, percorre Z, inversamente alla velocità, in tanto tempo quanto è H. Se pertanto in Ζ non vi sia nessun corpo, è ancora più veloce. Ma era nel ‹tempo› H. Di conseguenza, in pari tempo percorre sia una cosa che è piena, sia una cosa che è vuota. Ma è impossibile. Pertanto è evidente che, se vi è un qualche tempo 5 nel quale un ‹corpo› qualsiasi sarà portato attraverso il vuoto, avverrà questa impossibilità. Ché, si assumerà che un certo ‹corpo› attraversa in un ugual ‹tempo› sia una cosa che è piena, sia una cosa che è vuota. Infatti, un corpo diverso si rapporterà a un corpo diverso in modo analogo a come un tempo si rapporta a un tempo56. Per dire brevemente, è chiara la causa della conclusione: che vi è proporzione di ogni movimento rispetto a un movimento (infatti ‹il movimento› è in un tempo, e vi è proporzione 10 di ogni tempo rispetto a un tempo, essendo entrambi finiti), mentre non vi è ‹proporzione› del vuoto rispetto al pieno. In quanto, dunque, differiscono le cose attraverso cui ‹gli oggetti› si trasportano, si hanno queste conseguenze; invece, secondo la differenza degli ‹oggetti› trasportati, le seguenti. Vediamo infatti che i ‹corpi› ai quali o la pesantezza o la leggerezza conferiscono maggiore inclinazione, se le altre ‹caratteristiche› versino in una situazione di somiglianza alle loro figure, si trasportano più velocemente, essendo uguale lo spazio, 15 e secondo la proporzione che le grandezze hanno l’una rispetto all’altra. Di conseguenza, anche attraverso il vuoto. Ma è impossibile: ché, in virtù di quale causa saranno trasportate più velocemente? In effetti, nelle cose piene lo sono di necessità, giacché quel che è maggiore per la forza divide più velocemente; infatti, ciò che è trasportato o ciò che è lanciato divide o per la figura o per l’inclinazione che possiede. Pertanto, tutti ‹i corpi› avranno uguale velocità. Ma è 20 impossibile. Che dunque, se esiste il vuoto, consegua il contrario di ciò in forza di cui 216

lo erigono coloro che ne affermano l’esistenza, è evidente da quel che si è detto. Gli uni, dunque, ritengono che il vuoto esiste se esisterà il movimento secondo il luogo: come ‹determinazione› distinta per se stessa. Ma questo è25 identico ad affermare che il luogo è qualcosa di separato. E che ciò sia impossibile, è stato detto precedentemente57. Anche a coloro che lo esaminano per se stesso apparirà che il vuoto di cui abbiamo parlato è realmente vuoto. Infatti, al modo in cui, se si ponesse un cubo nell’acqua, si sposterà una quantità d’acqua pari al cubo, così è anche nell’aria. Ma è 30 oscuro alla percezione. E sempre in ogni corpo che abbia uno spostamento, nella misura in cui si sposta per natura, è necessario che, se non sia compresso, si produca uno spostamento: o sempre verso il basso, se la traslazione è verso il basso, come quella della terra, o verso l’alto, se si tratta del fuoco, o in ambedue le direzioni, secondo quale sia il ‹corpo› posto dentro. Ma nel vuoto questo è impossibile (giacché non 35 è nemmeno un corpo), ma sembrerà che l’uguale intervallo — cioè quello che anche prima era nel vuoto — abbia attraversato 216b il cubo, come se l’acqua non si fosse spostata per il cubo di legno, né l’aria, ma tutte le cose si espandessero attraverso esso58. Ma anche il cubo in realtà ha tanta grandezza quanta ne occupa il vuoto: esso che, pure se è caldo o freddo o pesante o 5 leggero, per il fatto di esistere non è per nulla di meno diverso da tutte le sue affezioni, anche se non ne è separabile: intendo dire la massa del cubo di legno. Di conseguenza, pure se fosse separato da tutte le altre ‹affezioni› e non fosse né pesante né leggero, occuperà un vuoto uguale e sarà nella stessa parte del luogo e del vuoto che è uguale a se stesso. In che cosa, 10 dunque, il corpo del cubo differirà dall’uguale vuoto e dall’‹uguale› luogo? E se due cose sono di tal fatta, in forza di che nel medesimo ‹luogo› non esisterà anche un qualsivoglia numero di cose? Ora, questa è una prima assurdità e impossibilità. Inoltre, è evidente che il cubo, anche se si sposta, possederà questa ‹massa›: ‹caratteristica› che hanno anche tutti gli altri corpi. Per cui, se non differisce in nulla dal vuoto, perché mai ai corpi si deve creare un luogo al di là della massa di ciascuno, se la massa è esente da affezione? Infatti non si avrà 15 alcun giovamento se intorno a esso vi sia un altro intervallo uguale di questo tipo. [Inoltre, deve essere chiaro come vi è un vuoto nelle cose che sono in movimento. Ora, non esiste in nessuna parte dentro il mondo. Ché, l’aria è qualcosa, ma in realtà non lo sembra. Neppure l’acqua ‹sarebbe percepita› se i pesci fossero di ferro, giacché il giudizio di ciò che è tangibile si ha con il tatto]. 217

Pertanto, che non esista un vuoto separato, è chiaro da 20 queste ‹considerazioni›.

IV, 9 ‹L’inesistenza del vuoto internamente ai corpi› Vi sono alcuni che a causa del rado e del denso ritengono che esista il vuoto. Infatti, se non esistono il rado e il denso, non è neppure possibile che vi siano riunione e restringimento; e se non si desse questo, o non esisterà movimento, in 25 senso totale, o il tutto fluttuerà, come sostenne Xuto, oppure aria e acqua ‹devono› mutare59 sempre in uguale quantità (dico ad esempio che, se da una ciotola d’acqua è derivata aria, al contempo da un’uguale quantità d’aria ‹dev’› esser derivata altrettanta acqua), oppure ‹dev’› esserci necessariamente del vuoto. Infatti non è possibile che ‹le cose› si restringano assieme e si estendano assieme in altro modo. Se dunque affermano che il rado è ciò che possiede molti 30 vuoti separati, è evidente che, se non è possibile che neppure un vuoto esista come separato, come nemmeno un luogo che abbia un suo intervallo, neppure il rado sarà così. Ma se non è separabile, ma tuttavia un certo vuoto esiste all’interno ‹del corpo›, non si ha un assurdo minore, ma innanzitutto capita che il vuoto non sia causa di ogni movimento, bensì di quello verso l’alto (giacché il rado è leggero; per 35 questo affermano che il fuoco è rado); inoltre, il vuoto è causa 217adi movimento non così, ossia come ciò in cui ‹il movimento si produce›, ma, al modo in cui gli otri con il portarsi essi stessi in alto vi portano ciò che è ‹loro› continuo, così il vuoto porta verso l’alto60. Eppure, com’è possibile che vi sia traslazione del vuoto o un luogo del vuoto? Ché, si avrà un vuoto del 5 vuoto, verso il quale si porta. Inoltre, per la cosa pesante come esplicheranno il portarsi in basso? Ed è chiaro che, se si porterà in alto quanto più sia rada e vuota, se fosse totalmente vuota vi si porterebbe nel modo più celere. Ma, senza dubbio, anche in questo caso è impossibile che sia mossa. E la ragione è la stessa, e cioè che, come nel vuoto tutte le cose 10 sono immobili, così pure il vuoto è immobile. Infatti le velocità sono inconfrontabili. Ma dopo che neghiamo l’esistenza del vuoto, altre questioni, come si diceva, costituiscono realmente delle difficoltà: e cioè che o non esisterà movimento, se non esisteranno condensazione e rarefazione, o il cielo fluttuerà, o sempre uguale acqua deriverà dall’aria e uguale aria dall’acqua. 218

(È chiaro infatti che dall’acqua si produce più aria. Pertanto è 15 necessario che, se non vi è restringimento, o il contiguo, eccitato dall’esterno, faccia fluttuare la parte estrema, o in qualche altro luogo dall’aria derivi per mutazione uguale acqua, affinché tutta la massa dell’intero sia uguale, o nulla si muova. Sempre, infatti, producendosi cambiamento, si avrà questo risultato, a meno che ‹la cosa› non si volga in cerchio. Ma non 20 sempre la traslazione è in linea circolare, bensì anche in linea retta). Gli uni, dunque, per queste ragioni sosterranno che esiste qualche vuoto. Noi, al contrario, a partire da ciò che abbiamo posto affermiamo che vi è un’unica materia dei contrari: del caldo e del freddo e delle altre opposizioni naturali per contrarietà; che ciò che è in atto deriva da ciò che è in potenza; che la materia non è separabile, ma il ‹suo› essere è diverso, ed è numericamente una, se per caso ha colore, caldo, 25 freddo61. Anche di un corpo, sia grande che piccolo, la materia è la stessa. Ed è chiaro: quando infatti dall’acqua si produce aria, la medesima materia è divenuta senza assumere in più qualcos’altro, ma è diventata in atto ciò che era in potenza. E di nuovo, nello stesso modo, l’acqua dall’aria: talvolta dalla piccolezza ‹perviene› a grandezza, talvolta da grandezza a 30 piccolezza. Similmente, dunque, anche nel caso in cui l’aria, che è molta, in seguito a divenire consista in una massa più piccola e da una ‹massa› minore divenga maggiore, è la materia che, essendolo in potenza, diviene entrambe le cose. Come infatti la medesima materia ‹diventa› e una cosa calda da una cosa fredda e una cosa fredda da una cosa calda, poiché, come si diceva, è in potenza ‹l’una e l’altra›, così anche da una cosa calda diventa una cosa maggiormente calda, senza 217b che nella materia niente che non era caldo, quando ‹essa› era una cosa minormente calda, sia divenuto caldo. Come invero, nel caso che la circonferenza e la convessità di un cerchio maggiore diventino ‹circonferenza e convessità› di un cerchio minore — si tratti della stessa o di un’altra —, neppure la convessità si è prodotta in alcuna ‹parte› che non era convessa, ma dritta: ché, non per il fatto di lasciare un intervallo vi 5 sono il meno o il più. Né è possibile assumere qualche grandezza della fiamma nella quale non siano presenti e calore e bianchezza. Così, pertanto, anche il calore anteriore ‹è presente› in quello successivo62. Di conseguenza anche la grandezza e la piccolezza di una massa sensibile si estendono senza che la materia assuma in più qualcosa, ma perché la materia è in potenza entrambe le cose. Per cui la stessa cosa è 10 densa e rada, e unica è la materia di queste ‹determinazioni›. E il denso è pesante, mentre il rado è leggero. [Inoltre, come la circonferenza del cerchio, se viene portata a una dimensione minore, non assume qualche altra convessità, ma è portato ‹a una dimensione minore› 219

ciò che c’era, e ogni ‹parte› del fuoco che si prenda sarà calda, così pure il tutto sussiste15 per contrazione e dilatazione della stessa materia63]64: in effetti, per ciascuna delle due ‹determinazioni›, il denso e il rado, ve ne sono due65. Ché, tutti riconoscono che il pesante e il duro sono densi e i loro contrari, ossia il leggero e il molle, sono radi. Ma il pesante e il duro sono discordanti nel caso del piombo e del ferro. 20 Ebbene, da ciò che si è detto è evidente che non esiste un vuoto né separato, né in senso assoluto, né nel rado, né in potenza, a meno che non si voglia chiamare in tutti i casi vuoto la causa del trasportarsi. Ma in questo modo la materia del pesante e del leggero, in quanto tale, sarebbe il vuoto. Infatti, secondo questa opposizione il denso e il rado sono atti 25 a produrre una traslazione, invece secondo il duro e il molle ‹sono atti a produrre› un’affezione e assenza di affezione: ossia non una traslazione, bensì piuttosto un’alterazione. Anche riguardo al vuoto: come esiste e come non esiste, le determinazioni siano date in questo modo.

IV, 10 ‹Il problema del tempo› Essendo in possesso delle ‹tesi› che abbiamo esposto, è 30 possibile condurre un esame sul tempo. E innanzitutto è bene sviluppare le difficoltà relative a esso anche mediante i discorsi essoterici66: se faccia parte delle cose che sono o di quelle che non sono; inoltre, quale sia la sua natura. Che dunque o non esista affatto, o che esista a stento e in modo oscuro, si potrebbe supporre da queste ‹considerazioni›. In effetti, una parte di esso è stata e non è, una parte sarà e non è ancora. Di queste cose è costituito sia il tempo infinito 218a che quello che si assume di volta in volta67. Ma ciò che è costituito di cose che non sono — tutti ne converranno —, è impossibile che partecipi di una sostanza. Inoltre, le parti di ogni cosa divisibile, se effettivamente esista, è necessario che, quando esiste, esistano o tutte o alcune; del tempo, invece, alcune sono state, altre saranno e 5 nessuna è, pur essendo ‹esso› divisibile. Quanto all’istante, non è una parte: giacché la parte funge da misura, e l’intero deve essere costituito dalle parti; il tempo, invece, non sembra sia costituito dagli istanti. Inoltre, non è facile vedere se l’istante, che in tutta evidenza definisce il passato e il futuro, permanga come uno e sempre lo 220

stesso o 10 sia un altro e un altro ‹ancora›. Se, infatti, di volta in volta è una cosa differente e una differente ‹ancora› e nessuna parte tra quelle che sono nel tempo, ‹essendo› altra e altra ‹ancora›, sussiste assieme — parte che non comprende, mentre un’altra è compresa, come il tempo minore lo è da quello maggiore — e ciò che ora non esiste, ma prima esisteva è necessario che in un certo momento si sia corrotto, anche gli istanti non saranno assieme gli uni con gli altri, ma è necessario che di 15 volta in volta quello precedente si sia corrotto. Dunque, non è possibile che si sia distrutto in se stesso, per il fatto che allora esisteva, e non è possibile che l’istante precedente si sia distrutto in un altro istante. Sia infatti impossibile che gliistanti sono continui tra loro come un punto con un punto. 20 Ebbene, se ‹l’istante› non si è distrutto in quello consecutivo, ma in un altro, negli istanti intermedi, che sono infiniti, coesisterebbe, e questo è impossibile. Ma non è neppure possibile che permanga di volta in volta lo stesso, giacché di nessuna cosa divisibile che sia finita vi è un solo limite, né se sia continua in una sola direzione, né se lo sia in più di una; invece l’istante è un limite, ed è possibile assumere un tempo finito. 25 Inoltre, se l'essere assieme secondo il tempo, ossia né prima né dopo, consiste nell’essere nel medesimo ‹tempo›, vale a dire nel medesimo istante, se le cose anteriori e quelle posteriori sono in questo istante qui, allora quelle avutesi diecimila anni fa possono coesistere con quelle che si hanno oggi, e nessuna sarebbe né anteriore né posteriore a un’altra. 30 Dunque, intorno alle ‹determinazioni› che gli appartengono, tante siano le difficoltà che si sono sviluppate. Ma che cosa sia il tempo e quale la sua natura, dalle ‹dottrine› tramandate è oscuro, similmente a come sono ‹oscure› le ‹proprietà› intorno alle quali prima ci è capitato di discutere. Gli 218b uni, infatti, sostengono che è il movimento dell’intero68, gli altri che è la stessa sfera69. Eppure, anche la parte della traslazione circolare è un certo tempo, ma non, in realtà, la traslazione circolare. Infatti, quello che s’è detto è parte della traslazione circolare, ma non traslazione circolare. Inoltre, se i cieli fossero più di uno, il movimento di uno qualsiasi di essi 5 sarebbe, a pari titolo, il tempo, cosicché si avrebbero molti tempi assieme. Ma a coloro che ne sostengono l’esistenza è sembrato che il tempo sia la sfera dell’intero perché tutte le cose sono nel tempo e nella sfera dell’intero. Ma la tesi sostenuta è troppo semplicistica perché intorno a essa si indaghino le impossibili ‹implicazioni›. Poiché comunemente si riconosce che il tempo sia soprattutto 10 movimento e un certo mutamento, è questo che si dovrà indagare. Ebbene, il mutamento e il movimento di ciascuna cosa sono soltanto nella cosa stessa che muta, oppure là dove la cosa stessa che si muove e muta si trovi a 221

essere. Il tempo, invece, è ugualmente dappertutto e presso ogni cosa. Inoltre, ogni mutamento è più veloce e più lento, invece il tempo non lo è. Infatti, ciò che è lento e veloce sono determinati col 15 tempo, ed è veloce ciò che si muove molto in poco ‹tempo›, mentre è lento ciò che si muove poco in molto ‹tempo›. Invece il tempo non è determinato col tempo, né col fatto di essere di una certa quantità, né di una certa qualità.

Frontespizio di un’edizione commentata tedesca della Fisica (Francoforte, 1604).

Che dunque non sia movimento, è evidente. E al momento per noi non fa nessuna differenza dire movimento o mutamento.

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IV, 11 ‹Definizione del tempo› Ma invero ‹il tempo› non è neppure senza mutamento. 20 Infatti, quando noi stessi non mutiamo per nulla parere, o non cogliamo di mutarlo, non ci sembra che sia trascorso del tempo, come neppure a coloro che — secondo il racconto — in Sardegna dormono accanto agli eroi, qualora si sveglino70. In 25 effetti, connettono l’istante successivo con l’istante precedente e li rendono uno, eliminando per l’assenza di percezione ciò che sta nel mezzo. Come dunque, se l’istante non fosse diverso, bensì identico e uno, non vi sarebbe tempo, così anche ciò che sta nel mezzo, poiché sfugge che è diverso, non sembra essere tempo. Pertanto, se allora ci sopraggiunge il credere che non vi è tempo, quando non determiniamo alcun 30 mutamento, ma l’anima risulta mantenersi in una unitaria indivisibilità71, è evidente che il tempo non è senza movimento e mutamento. Che dunque il tempo non sia né movimento, né 219a senza movimento, è evidente. Ma poiché cerchiamo che cos’è il tempo, incominciando da qui bisogna pensare quale ‹aspetto› è del movimento. Ché, percepiamo assieme movimento e tempo. E infatti, se vi sia 5 buio e non percepiamo nulla attraverso il corpo, ma nell’anima sia presente un qualche movimento, subito sembra che simultaneamente si sia prodotto anche un qualche tempo. Ma, in realtà, pure quando sembri essersi prodotto un qualche tempo, sembra che simultaneamente si sia prodotto anche un qualche movimento. Di conseguenza, il tempo o è movimento o un ‹aspetto› del movimento. Poiché dunque non è movimento, è necessario che esso sia un ‹aspetto› del movimento. 10 Poiché tutto ciò che si muove, si muove da qualcosa verso qualcosa, e ogni grandezza è continua, alla grandezza consegue il movimento. Ché, in virtù del fatto che la grandezza è continua anche il movimento è continuo, e in virtù del fatto che lo è il movimento lo è anche 15 il tempo. Infatti, quanto è il movimento, tanto di volta in volta sembra esser trascorso anche il tempo. Ora, il prima e il poi sono innanzitutto in un luogo. Ebbene, vi sono per la posizione. E poiché il prima e il poi sono nella grandezza, è necessario che il prima e il poi siano anche nel movimento, in analogia con quelli della grandezza. Ma anche nel tempo vi sono il prima e il poi, per il fatto che uno di essi consegue sempre all’altro72. E 20 il prima e il poi sono nel movimento come ciò che, sussistendo in qualche tempo ‹soltanto›, è movimento73; ma tuttavia, quanto all’essere, ne sono diversi e non sono movimento. Ma quando, determinando il prima e il poi, determiniamo il 223

movimento, rendiamo noto anche il tempo. E allora affermiamo che è trascorso del tempo, quando nel movimento assumiamo percezione del prima e del poi. 25 Ma definiamo queste ‹determinazioni› supponendo che siano altra e altra cosa, e un alcunché di intermedio diverso da esse. Quando infatti pensiamo gli estremi come diversi dal medio e l’anima dica che gli istanti sono due, uno anteriore e uno posteriore, allora diciamo anche che questo è tempo. Infatti, ciò che si è definito con l’istante sembra essere tempo. E sia posto come base. Quando dunque percepiamo l’istante come unità e non o 30 come prima e poi nel movimento, o come identità di un certo prima e di un certo poi, non sembra che sia trascorso nessun tempo, poiché neppure vi è movimento. Quando invece lo percepiamo come prima e poi, allora diciamo che vi è tempo, 219b giacché il tempo è questo, numero del movimento secondo il prima e il poi. Pertanto il tempo non è movimento, ma il movimento lo possiede in quanto misura. Eccone la prova: giudichiamo il più e il meno col numero, un movimento maggiore e minore col tempo. Il tempo è, pertanto, un certo numero. E poiché il 5 numero è in due sensi (infatti chiamiamo numero sia ciò che è numerato, sia ciò che è numerabile, sia ciò con cui numeriamo), il tempo è ciò che è numerato e non ciò con cui misuriamo. E sono cosa diversa ciò con cui numeriamo e ciò che è numerato. E come il movimento è di volta in volta sempre diverso, ‹così› anche il tempo (ma il tempo, considerato come tutto 10 insieme, è il medesimo. Ché, l’istante che era allora è lo stesso — ma il suo essere è diverso74 — e l’istante misura il tempo, in quanto prima e poi). L’istante in un senso è identico, ma in un altro è non identico. In effetti, in quanto è in una cosa sempre diversa, è diverso (e questo, come si diceva, è per esso l’essere istante), ma quanto all’essere ciò che è ed era una volta, l’istante è identico. 15 Come infatti s’è detto, alla grandezza consegue il movimento e, come diciamo, a questo il tempo. E similmente, al punto consegue quel che è trasportato, col quale rendiamo noto il movimento e, in esso, il prima e il poi. Ma quel che è trasportato, quanto all’essere ciò che è ed era una volta è identico75 (infatti, o è un punto, o una pietra, o qualche alta cosa 20 di questo genere), invece per la definizione è altro, come i Sofisti assumono che è diverso «Corisco nel Liceo» e «Corisco nella piazza»: anche questo è diverso per il fatto di essere qui e là. Ma a ciò che è trasportato consegue l’istante, come il tempo ‹consegue› al movimento: giacché con ciò che è 25 trasportato rendiamo noto il prima e il poi nel movimento, e in quanto il prima e il poi sono numerabili, si ha l’istante. Di 224

conseguenza, anche in queste cose l’istante, quanto all’essere ciò che è ed era una volta, è identico (giacché è il prima e il poi nel movimento), quanto invece all’essere è diverso: infatti, in quanto il prima e il poi sono numerabili, si ha l’istante. E questo è massimamente noto: e infatti il movimento lo 30 è tramite ciò che è mosso e la traslazione tramite ciò che è trasportato. Ché, ciò che è trasportato è un certo questo, il movimento no. In un senso, dunque, l’istante è sempre identico, in un altro non è identico; infatti è ‹così› anche ciò che è trasportato. È evidente anche che, se non esistesse il tempo, non esisterebbe l’istante, se non esistesse l’istante, non esisterebbe il 220a tempo. In effetti, come ciò che è trasportato e la traslazione coesistono, così anche il numero di ciò che è trasportato e quello della traslazione. Ché, il tempo è il numero della traslazione, mentre l’istante, come ciò che è trasportato, è come l’unità del numero76. 5 E il tempo è continuo per l’istante, ed è diviso secondo l’istante, giacché anche per quest’aspetto consegue alla traslazione e a ciò che è trasportato. In effetti, sia il movimento che la traslazione sono unitari per ciò che è trasportato, poiché è uno (e, ‹se si dà variazione›, non si dà quanto a ciò che ‹esso› è ed era una volta — giacché si avrebbe un’interruzione ‹del movimento› —, bensì per la sua nozione). Questo, infatti77, fa anche definire il movimento come prima e poi. 10 Pure questa ‹circostanza› consegue in qualche modo al punto, giacché pure il punto e rende continua la lunghezza e la determina. In effetti, è principio di una cosa e fine di un’altra. Ma quando lo si assuma servendosi dell’unico ‹punto› come se fossero due, è necessario arrestarsi, se il medesimo punto sarà principio e fine. Ma l’istante, per il fatto che ciò che è trasportato è in movimento, è sempre diverso. Per cui il 15 tempo è numero non come se il punto, poiché è principio e fine, fosse il medesimo, ma piuttosto come gli estremi della linea — e non come le parti, in forza di ciò che si è detto (ché, ci si servirà del punto di mezzo come se fossero due, cosicché si avrà come conseguenza di essere in quiete). E inoltre è evidente che né l’istante è una parte del tempo, né la divisione lo è del movimento, come neppure i punti sono una parte della 20 linea, giacché parti dell’unica linea sono due linee. In quanto, dunque, l’istante è un limite, non è tempo, ma accade. E in quanto numera, è numero. In effetti, i limiti sono soltanto di quella cosa di cui sono limiti, mentre il numero di questi cavalli, il dieci, è anche altrove. Pertanto, che il tempo sia numero del movimento secondo 25 il prima e il poi, e che sia continuo (giacché è ‹numero› di una cosa continua), e evidente. 225

IV, 12 ‹L’esistenza nel tempo› Il numero più piccolo in senso assoluto è la diade78. Ma un certo numero in un senso esiste, in un altro non esiste: per esempio, per quantità il numero più piccolo della linea è due ‹linee› o una ‹linea›, mentre per grandezza non esiste un numero più piccolo, giacché ogni linea si divide sempre. Per cui30 anche il tempo sta in una condizione simile: infatti, secondo il numero è un tempo o due tempi, secondo la grandezza non esiste. È evidente anche che ‹il tempo› non si dice veloce e lento,220b bensì molto e poco, lungo e corto. In effetti, in quanto continuo, è lungo e breve, in quanto numero, molto e poco. Ma non è veloce e lento, giacché nessun numero, con il quale 5 numeriamo, è veloce e lento. E, di certo, è simultaneamente lo stesso dappertutto. Ma in quanto prima e poi non è lo stesso, poiché anche il mutamento, se presente è uno, se passato e se futuro è diverso. Però il tempo non è un numero col quale numeriamo, ma che è numerato. E questo ‹numero›, come prima e poi, sopraggiunge 10 sempre diverso, giacché gli istanti sono diversi. E il numero di cento cavalli e di cento uomini è uno e il medesimo, mentre le cose di cui è numero sono diverse: i cavalli dagli uomini. Inoltre, come è possibile che un movimento sia il medesimo e uno per la periodicità della ripetizione, così anche un tempo: per esempio, un anno, o una primavera, o un autunno. 15 Non misuriamo soltanto il movimento col tempo, ma anche il tempo col movimento, per il fatto di essere l’uno determinato dall’altro. Infatti il tempo determina il movimento, essendone il numero, e il movimento ‹determina› il tempo. E diciamo molto o poco un tempo misurandolo col movimento, come anche il numero con ciò che è numerabile: per esempio, 20 il numero dei cavalli con un cavallo. In effetti conosciamo la quantità dei cavalli col numero, e a sua volta il numero stesso dei cavalli con un cavallo. Similmente è anche nel caso del tempo e del movimento: giacché col tempo misuriamo il movimento e col movimento il tempo. Ed è ben logico che questo avvenga: ché, il movimento 25 tien dietro alla grandezza e al movimento il tempo, per il fatto di essere quantità sia continue che divisibili: è infatti perché la grandezza è tale che il movimento ha queste caratteristiche, e il tempo le ha in virtù del movimento. E misuriamo sia la grandezza col movimento che il movimento con la grandezza: in effetti diciamo che la strada è molta se sia 30 molto il cammino, e che questo è 226

molto se sia molta la strada. Anche il tempo ‹diciamo che è molto› se sia ‹molto› il movimento, e il movimento se lo sia il tempo. 221a Poiché il tempo è misura del movimento e dell’essere in movimento, ed esso misura il movimento col determinare un certo movimento che fungerà da misura dell’intero ‹movimento (come pure il cubito ‹misura› la lunghezza col determinare una certa quantità che fungerà da misura dell’intera ‹lunghezza›), anche per il movimento l’essere nel tempo corrisponde all’essere misurato col tempo: sia esso che il suo 5 essere, giacché ‹il tempo› misura assieme il movimento e il suo essere, e questo per il movimento è l’essere nel tempo: il fatto che il suo essere ne sia misurato. È evidente che anche per le altre cose questo è l’essere nel tempo: il fatto che il loro essere è misurato dal tempo. Ché, l’essere nel tempo corrisponde a una o all’altra delle due cose: 10 una, l’esistere quando esiste il tempo; una, come diciamo che alcune cose esistono nel numero79. E questo significa o che ‹la cosa› è parte e affezione del numero, e in generale che è qualcosa del numero, oppure che il numero è ‹parte› di essa. E poiché il tempo è un numero, e l’istante, il poi e tutto ciò che è di questo genere sono nel tempo così come l’uno, il dispari e 15 il pari sono nel numero (giacché le seconde cose sono alcunché del numero, le prime alcunché del tempo), e le cose sono nel tempo come nel numero, se è così, sono contenute dal tempo nel modo in cui ‹anche le cose che sono nel numero sono contenute dal numero› e quelle che sono in un 20 luogo ‹sono contenute› dal luogo80. Ed è evidente anche che l’essere nel tempo non corrisponde all’esistere quando sussiste il tempo, come neppure l’essere nel movimento né l’essere in un luogo ‹corrispondono all’esistere› quando sussistono il movimento e il luogo. Ché, se l’essere in qualcosa sarà così, tutte le cose saranno in una qualsiasi cosa, e il cielo in un chicco di miglio. In effetti, quando sussiste un chicco di miglio sussiste anche il cielo. Ma questo è accidentale, mentre quest’altro è necessario che consegua: e che vi sia un qualche tempo per 25 una cosa che è nel tempo, quando quella esiste, e che vi sia movimento per una cosa che è in movimento. Poiché l'essere nel tempo è come ‹l’essere› nel numero, si supporrà un qualche tempo maggiore di tutto ciò che è nel tempo. Per questo è necessario che tutte le cose che sono nel tempo siano contenute dal tempo, come anche tutte le altre che sono in qualcosa: per esempio, quelle che sono in un luogo ‹sono contenute› dal luogo. 30 Ed ‹è necessario› anche che dal tempo sia prodotta qualche affezione81, come pure siamo soliti dire che il tempo consuma, e che tutto 227

invecchia ad opera del tempo, e che vien meno nella memoria a causa del tempo, ma non che ‹a causa 221b del tempo› si è imparato, né che si è divenuti giovani né belli. Ché, il tempo per se stesso è piuttosto causa di corruzione. Infatti, è numero del movimento, e il movimento fa venir meno ciò che sussiste. Di conseguenza, è evidente che le cose che esistono sempre, in quanto esistono sempre non sono nel tempo. In effetti, 5 non sono contenute dal tempo, né il loro essere è misurato dal tempo. Prova di ciò è che non ricevono neppure alcuna affezione dal tempo, come se non esistessero nel tempo. Poiché il tempo è misura del movimento, per accidente sarà misura anche della quiete. Ché, ogni quiete è nel tempo. In effetti, come ciò che è in movimento è necessariamente 10 mosso, non così anche ciò che è nel tempo: giacché il tempo non è movimento, bensì numero del movimento. E nel numero del movimento è possibile che vi sia anche ciò che è in quiete. Infatti, non tutto ciò che è immobile è in quiete, bensì ciò che è privo di movimento, ma che per sua natura può essere mosso, come s’è detto anche nelle precedenti trattazioni82. E l’essere in un numero corrisponde al fatto che vi è 15 qualche numero della cosa e che il suo essere è misurato col numero in cui è; di conseguenza, se è nel tempo lo è dal tempo. Ma il tempo misurerà ciò che è in movimento e ciò che è in quiete, in quanto il primo è in movimento e in secondo è in quiete. Infatti misurerà di che quantità sono il loro movimento e la loro quiete. Di conseguenza, ciò che è in movimento non sarà misurabile in senso assoluto dal tempo in quanto è 20 una certa quantità, bensì in quanto il suo movimento è di una certa quantità. Per cui, ciò che né è in movimento, né è in quiete non è nel tempo. Ché, l’essere nel tempo corrisponde all’essere misurato col tempo, e il tempo è misura del movimento e della quiete. È evidente, dunque, che neppure il non-essere sarà tutto nel tempo: per esempio, tutte le cose che non è possibile che siano altrimenti, come l’essere la diagonale commensurabile 25 col lato83. In senso complessivo, se il tempo per se stesso è misura del movimento, mentre per accidente lo è delle altre cose, è chiaro che per le cose delle quali misura l’essere, per tutte queste l’essere consisterà nell’essere in quiete o in movimento. Quindi, tutte quelle che sono soggette alla possibilità di corrompersi e generarsi e, in generale, talvolta sono, talvolta non sono, è necessario che siano nel tempo. Ché, esiste un certo 30 tempo maggiore, il quale eccede sia il loro essere che ciò che ne misura la sostanza. E quante fra le cose che non sono il tempo contiene, le une erano, come Omero era una volta, le 222a altre saranno, come qualcuna di quelle future: in quella 228

delle due ‹dimensioni in cui il tempo› le contiene. E se le contiene in entrambe, entrambe ‹competono loro›: ed erano e saranno. Quante invece non contiene in nessuna ‹dimensione›, né erano, né sono, né saranno. Le cose di questo tipo fanno parte di quelle che non sono, e a tutte queste sono opposte quelle che sono sempre: per esempio, l’essere la diagonale incommensurabile 5 è sempre, e questo non sarà nel tempo. Pertanto non lo è neppure l’essere commensurabile. Per questo non è, sempre: perché è contrario a ciò che è sempre. Invece tutte quelle cose il cui contrario non è sempre, queste possono sia essere che non essere, e di esse sono possibili sia generazione che corruzione.

IV, 13 ‹L’esistenza nell’istante› L’istante è continuità di tempo, come s’è detto84: infatti congiunge il tempo trascorso e quello che sarà; ed è limite del tempo: infatti è principio di uno, fine di un altro. Ma che questo non sia come nel caso del punto che è stabile, è evidente. Ma divide in potenza. E in quanto è tale, l’istante è 15 sempre diverso. In quanto però connette, è sempre identico, come nel caso delle linee matematiche: infatti il punto per il pensiero non è sempre lo stesso; ché, quando si opera la divisione è altro e altro ‹ancora›85. Però, in quanto uno, è lo stesso in tutti i modi. Così anche l’istante, per un verso è divisone in potenza del tempo, per l’altro limite e unità di entrambi ‹i tempi›. È identico e secondo la ‹sua› identità si hanno la 20 divisione e l’unificazione, ma quanto all’essere non è identico. Un senso degli istanti si dice dunque così; un altro, quando il tempo di questo ‹istante› sia vicino. «Verrà ora»86, poiché verrà oggi; «viene ora», poiché è giunto oggi. Le vicende di Ilio, invece, sono accadute non «ora», né un terremoto è avvenuto «ora». Certamente vi è un tempo continuo nella loro direzione, ma poiché non è vicino ‹non si dice «ora»›. 25 «Una volta» significa un tempo determinato in rapporto all’istante anteriore: per esempio, una volta fu presa Troia e una volta vi sarà un terremoto. Infatti, bisogna che ci sia un limite in rapporto all’istante. Pertanto vi sarà una certa quantità di tempo dall’istante attuale a quello futuro, e ve n’era verso quello passato. Ma se non si desse nessun tempo che sia stato una volta, ogni tempo sarebbe finito. Forse dunque che verrà meno? 30 Oppure no, se è vero che 229

sempre vi è movimento. Quindi è diverso o di volta in volta lo stesso? È chiaro che, come sia il movimento, così è anche il tempo. In effetti, se una volta si produce un movimento identico e uno, anche il tempo sarà uno e il medesimo; altrimenti non lo sarà. E poiché l’istante è fine e principio del tempo, ma non del medesimo ‹tempo›, 222b bensì è fine di quello passato e principio di quello futuro, come in un certo senso il cerchio nel medesimo punto è il concavo e il convesso, così anche il tempo sarà sempre in principio e in fine, e per questo sembra essere sempre diverso. Ché, l’istante non è principio e fine del medesimo ‹tempo› 5 (infatti i contrari sarebbero assieme e sotto il medesimo rispetto), e pertanto non verrà meno: giacché è sempre in principio. «Or ora» è la parte indivisibile del tempo futuro, vicina all’istante presente. Quando cammini? Or ora,10 poiché il tempo in cui avverrà è vicino. Ed è anche la parte del tempo passato non lontana dall’istante. Quando cammini? Or ora ho camminato. Ma non diciamo «Ilio or ora è stata presa», poiché ‹l’evento› è troppo lontano dall’istante. Anche «da poco» è la parte del passato vicina all’istante presente. Quando sei giunto? Da poco, se il tempo sia vicino all’istante presente. «Da molto» è la ‹parte› lontana. «Immediatamente» è ciò che emerge in un tempo impercettibile 15 per la sua piccolezza. Ogni mutamento è per natura una cosa capace di emergere. E nel tempo tutte le cose vengono all’essere e si corrompono. Per questo taluni sostenevano che è il più sapiente87, mentre il pitagorico Parone88, dicendo più giustamente, che è il più ignorante, poiché in esso si dimentica. È chiaro, dunque, che per sé sarà causa piuttosto di 20 corruzione che di generazione, come anche prima s’è detto89(giacché il mutamento in quanto tale è cosa capace di emergere), invece di generazione e dell’essere ‹sarà causa› per accidente. Una prova sufficiente è che nulla viene all’essere senza che in qualche modo esso stesso sia mosso o agisca, mentre si corrompe anche non essendo affatto mosso. E siamo soliti 25 dire che questa corruzione è soprattutto ad opera del tempo. Nondimeno il tempo non produce neppure questa, ma è accidentale che nel tempo si produca anche questo mutamento. Che dunque il tempo sia, e che cos’è, e in quanti modi diciamo l’istante, e che cosa sono «una volta», «da poco», «or ora», «da molto» e «immediatamente», s’è detto.

IV, 14 230

‹L’unità del tempo› 30 Dopo che questi ‹argomenti› sono stati da noi così determinati, è evidente che ogni mutamento e tutto ciò che si muove sono nel tempo. Ché, «più veloce» e «più lento» sono in conformità di ogni mutamento. In ognuno, infatti, risulta così. Dico che si muove più velocemente ciò che muta per primo 223a verso il soggetto ‹della trasformazione›, muovendosi secondo lo stesso intervallo e un movimento uniforme: per esempio, nel caso della traslazione, se entrambe le cose si muovono secondo la ‹linea› curva o entrambe secondo la retta. E similmente è anche negli altri casi. Ma in realtà il prima è nel tempo. In effetti diciamo il 5 prima e il poi secondo l’allontanamento relativo all’istante, e l’istante è limite del passato e del futuro. Di conseguenza, poiché l’istante è nel tempo, anche il prima e il poi saranno nel tempo: ché, là dove è l’istante, è anche l’allontanamento dell’istante. Ma il prima si dice in modo contrario secondo il 10 tempo passato e quello futuro. Il effetti, in quello passato diciamo «prima» ciò che è più lontano dall’istante, «poi» ciò che ne è più vicino, mentre in quello futuro ‹diciamo› «prima» ciò che è più vicino, «poi» ciò che è più lontano. Di conseguenza, poiché il prima è nel tempo e il poi tien dietro a ogni movimento, è evidente che ogni mutamento e ogni 15 movimento sono nel tempo. È degno di ricerca anche il modo in cui il tempo si rapporta all’anima, e in forza di che in ogni cosa sembra esserci tempo, sia in terra che in mare che in cielo. E poiché ‹il tempo› è o una certa affezione o uno stato del movimento, essendone in realtà il numero, e tutte queste ‹determinazioni› sono mobili, giacché tutte sono in un luogo, il tempo e il movimento 20 sono assieme secondo la potenza e secondo l’atto. Si potrebbe porre la questione se, non essendoci l’anima, ci sarebbe il tempo, o no. In effetti, essendo impossibile l’esistenza di ciò che numererà, è impossibile che vi sia anche qualcosa di numerabile; per cui è chiaro che non vi sarebbe neppure il numero. Ché, il numero è o ciò che è numerato, o ciò che è numerabile90. E se per natura nient’altro numerasse 25 se non l’anima, ossia l’intelletto dell’anima, sarebbe impossibile che vi sia tempo senza che vi sia l’anima, tranne questa cosa che, essendo una volta, è il tempo: per esempio, se è possibile che vi sia movimento senza anima. Ma il prima e il poi sono nel movimento, ed essi sono tempo, in quanto sono numerabili. Si potrebbe porre la questione anche di quale movimento 30 il tempo è numero. Non forse di qualunque? Ché, nel tempo ci si genera e ci si corrompe, e si aumenta e ci si altera nel tempo, e si è trasportati. Dunque, 231

nella misura in cui vi è movimento, vi è un numero di ogni movimento. Perciò ‹il tempo› è numero in senso assoluto di un movimento continuo, 223b ma non di un certo ‹movimento›. Ma è possibile che attualmente sia in movimento anche un’altra cosa91, e di ciascun movimento di queste due cose vi sarà un numero. Quindi il tempo è diverso, e vi sarebbero assieme due tempi uguali; o no? In effetti, ogni tempo uguale e simultaneo è il medesimo92. E anche i tempi non simultanei sono ‹identici› per specie93. 5 Ché, se vi siano dei cani o dei cavalli, e gli uni e gli altri siano sette, il numero è lo stesso. Così, anche dei movimenti che si compiono assieme il tempo è il medesimo, tranne che forse uno è veloce, l’altro no, e l’uno è traslazione, l’altro alterazione. Certamente il tempo sia dell’alterazione che della traslazione è lo stesso se in realtà e il numero è uguale ed 10 esse sono simultanee. E per questo i movimenti sono diversi e separati, ma il tempo è dappertutto il medesimo, poiché anche il numero di cose uguali e simultanee è uno e il medesimo. Poiché si dà traslazione e, di essa, quella circolare94, e ciascuna cosa è numerata con una certa unità del medesimo genere: le monadi con una monade, i cavalli con un cavallo, così 15 anche il tempo ‹si misura› con un certo tempo determinato. Ma il tempo, come abbiamo detto95, si misura con il movimento e il movimento con il tempo. E questo è perché dal movimento, determinato col tempo, viene misurata la quantità sia del movimento che del tempo. Se dunque la cosa prima è misura di quelle congeneri, la traslazione circolare uniforme è misura in senso principale, 20 poiché il numero di essa è massimamente noto. Ebbene, l’alterazione non è uniforme, né l’aumento né la generazione, mentre la traslazione lo è96. Perciò sembra che il tempo sia il movimento della sfera97, perché con questo si misurano anche gli altri movimenti e il tempo si misura con questo movimento. Per questo capita 25 anche ciò che è solito dirsi: si dice infatti che le cose umane sono un circolo, e che lo siano anche la generazione e la corruzione delle altre cose che hanno un movimento naturale. E ciò perché tutte queste cose sono misurate col tempo, e assumono la loro fine e il loro principio come se ‹avvinsero› secondo un certo periodo. E infatti lo stesso tempo sembra essere un certo circolo. E, a sua volta, sembra questo perché è misura di una tale traslazione ed esso è misurato da una tale 30 ‹traslazione›. Di conseguenza, il dire che quelle fra le cose che avvengono sono un circolo equivale al dire che vi è un qualche circolo del tempo. E ciò perché si misura con la traslazione circolare. In effetti, ciò che è misurato non risulta essere nient’altro al di fuori della 232

misura, tranne che il tutto è più 224a misure. Si dice giustamente anche che il numero delle pecore e dei cani è il medesimo se quello di ciascuno dei due è uguale, ma la decade non è la stessa, né sono gli stessi le dieci cose, come neppure quello isoscele e quello scaleno sono gli stessi triangoli. 5 Eppure la figura è la stessa, dal momento che entrambi sono triangoli. In effetti, si dice identica la cosa dalla quale non si differisce per una differenza, ma non quella dalla quale si differisce: per esempio, un triangolo differisce da un triangolo per una differenza. Pertanto i triangoli sono diversi. Però non la figura, ma essi sono nella medesima e unica divisione. In effetti, la figura di una certa qualità è un cerchio, quella di 10 una certa qualità un triangolo, e, di questo, quello di una certa qualità è isoscele, quello di una cert’altra è scaleno. Anche questa figura è dunque la stessa (si tratta infatti di un triangolo), ma il triangolo non è lo stesso. Ebbene, pure il numero è il medesimo, giacché il numero delle cose non differisce da un numero per una differenza, però la decade non è la stessa. In effetti, nelle cose delle quali si parla vi è differenza, 15 giacché le une sono cani, le altre cavalli. Anche in merito al tempo: a esso e alle proprietà che lo riguardano, ci si è espressi con la ricerca. 1. Ossia il luogo, indicato da Aristotele con «questa cosa» (τoῦτo) perché in questo momento la relativa nozione è assolutamente vaga e imprecisa. 2. Ossia, destra e sinistra, avanti e indietro, oltre ad alto e basso. Essi, come già è stato detto nel corso del libro III e qui ancora viene ribadito, sono per natura e non semplicemente «rispetto a noi». 3. La piena intelligibilità conferita al testo dalla lezione dei codici [ὣστε μόνoν νoεῖσθαι αὐτῶν (αὐτῶν νoεῖσθαι Par. Gr. 1853) τὴν θέσιν] mi induce a non distaccarmene. La congettura di Diels, seguita da Ross (ὡς τά μόνoν λεγόμενα διά θέσιν, «come le cose che sono soltanto dette in forza della posizione») è plausibilissima quanto al senso, ma non necessaria, giacché, se gli enti matematici (un punto, una linea, ecc.) sono espressi in virtù della posizione, che tuttavia non possiedono per natura, ciò significa che tale posizione viene conferita dal nostro pensarli. 4. Theog., 116-117. 5. Tale aporia, formulata da Aristotele nelle parole immediatamente seguenti (se tutto è in un luogo, allora vi è un luogo anche del luogo), non trova riscontro nei λόγoι zenoniani, ma corrisponde all’applicazione al luogo del criterio sul quale quei λόγoι, sono costruiti. 6. Cfr. Timeo, 51 a-52 d. 7. Ossia nel Timeo. 8. Nelle «dottrine non scritte» la materia, in quanto indefinita, coincide con la diade di grande e piccolo. Con la materia, sempre in quanto indefinito, perché, per l’appunto, ricettacolo, si identifica anche lo spazio (χώρα). Di conseguenza, il luogo coincide con lo spazio, poiché entrambi sono espressioni della materia indefinita, ossia della diade di grande e piccolo. 9. Cfr. ante, 208 b 1-8. 10. Cfr. Timeo, 209 b 11-17; 214 a 13-16. Cfr. anche Metaph., 988 a 23-26. Λ. J. TAYLOR, Aristotle’s Doctrine of Space, in A Commentary on Plato’s Timaeus, Oxford 1928, pp. 664-677

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segnala l’inesattezza del modo aristotelico di intendere i passi platonici. 11. Cfr. ante, 200 a 23-25. 12. Viene dunque fatta valere da Aristotele la distinzione dei sensi di «essere in qualcosa» (stabilita all’inizio di questo capitolo). Si tratta, in tutta evidenza, di un’operazione dialettica, al cui procedimento è dunque affidata la soluzione dell’aporia di Zenone. 13. Cfr. 209 b 1. 14. Cfr. 208 b 27. 15. Cfr. 205 a 33; 211 a 27. 16. Cfr. 207 b 2 1; 31-32; 208 b r. 17. Cfr. 208 b 8; 210 a 2. 18. La lezione κίνησις τις specifica con maggior precisione il concetto che non il semplice κίνηoις, giacché attesta in modo esplicito e testuale che il movimento secondo il luogo è una delle quattro specie del movimento. Λ essa mi sono pertanto adeguato. 19. Le parole tra parentesi quadre sono chiaramente una glossa. 20. Ossia il luogo e la forma. 21. Cfr. 209 b 21 sgg. 22. Le parole κaϑ ὅ συνάπτει τῷ περιεχoμένω) («secondo il quale esso è contiguo al ‹corpo› contenuto») non compaiono nei codici, ma costituiscono un’aggiunta della versione arabolatina, di Temistio, di Simplicio e di Giovani Filopono. Si tratta di un’aggiunta pertinentissima, che è entrata a far parte della celebre definizione aristotelica del luogo consegnata alla tradizione. 23. La lezione κύκλω («l’estremità dell’altra cosa [scil., della traslazione] resta ferma in quanto è nel medesimo modo del cerchio»), comportando di riferire il neutro τoΰ al femminile φoρά, indicata come un semplice «altra cosa», pur grammaticalmente possibile, rende però aspra l’espressione. Essa risulta invece più sciolta con κύκλoυ, concordato con τoῦ, restando nell’uno e nell’altro caso il senso del tutto invariato. 24. Il tempo presente del primo verbo della contrapposizione (μεταβάλλει) fa propendere per il presente anche per il secondo. Leggo pertanto κινεῖται, in luogo di κινήσεται, che è la lezione alternativa. Né — mi pare — depone a favore di quest’ultima il fatto che κινήσεται compaia alla riga precedente, giacché qui il futuro assume un senso potenziale (per ragioni stilistiche, nella traduzione si è reso con questo tempo il verbo «essere»), che manca del tutto nel caso in esame. 25. Si osservi che le parti sono nel tutto come in un luogo quando siano in movimento, come quelle dell’acqua, giacché in tal caso non sono continue e, come abbiamo visto (cfr. il cap. precedente), quando un corpo è continuo con un altro, non è in esso come in un luogo, ma, per l’appunto, come parte nel tutto, né si muove in esso, bensì con esso. Il tutto, insomma, costituisce il luogo delle parti se esse sono in movimento, ma non costituisce il loro luogo se esse, non essendo in movimento, sono continue. 26. Cfr. 211 a 17-b 1. 27. Cfr. 211 a 32. 28. In conformità con λόγoς, che significa anche «definizione», traduco qui λέγειν con «definire». 29. La corrispondenza con ἓκαστoν della riga 30 suggerisce l’opportunità di mantenere anche qui lo stesso aggettivo. Su questa base, l’aggiunta di πᾶν, che pur è lezione dei manoscritti, appare pleonastica. Mi sembra perciò preferibile espungerlo, sulla scorta del commentario di Filopono e della parafrasi di Temistio. 30. Il senso complessivo del passo è che a buona ragione ciascuna cosa permane nel proprio luogo in quanto vi permane anche la parte. Ma la parte può permanere nel luogo se ha un luogo. Per questo, la seconda metà della frase («essa … intero») fonda l’istanza, precisando che la parte ha un luogo (costituito dal tutto di cui è parte) in quanto sia divisibile rispetto al tutto, giacché ciò comporta che essa sia separata dalle altre parti e contigua a esse, verificando

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così le condizioni che, come già prima s’è visto, le consentono di essere in un luogo. Insomma, se la parte è divisibile, tali condizioni si verificano e dunque essa è in un luogo: il tutto. Sulla base di queste considerazioni, le lezioni tradizionali (τὸ μέρoς τόδε ἐν ὅλω τῷ τόπω, o ἐν τῷ ὅλω τόπω) appaiono poco plausibili. Se il verbo della principale è εστί («infatti, anche questa data parte è in un intero come nel ‹suo› luogo in quanto sia una parte divisibile rispetto a un intero» o «infatti, anche questa data parte è nell’intero come ‹suo› luogo in quanto ecc.»), oltre la durezza espressiva, viene tralasciato il concetto che anche la parte permane nel luogo, e così il ragionamento è mutilo, venendo soppressa proprio la ragione formale addotta da Aristotele a sostegno del permanere di ciascuna cosa nel proprio luogo. Se invece come verbo della principale è da sottintendersi μένει («infatti, anche questa data parte permane in un intero come nel ‹suo› luogo ecc.», o «infatti, anche questa data parte permane nell’intero come ‹suo› luogo ecc.»), l’espressione, oltre che aspra, enuncia un concetto non poco impreciso nella sua formulazione, quale è per l’appunto quello che la parte «permane in un intero» o «nell’intero». La parte permane nel luogo (ecco il momento nodale, il punto decisivo), il quale si determina come l’intero. Entrambe le lezioni paiono costruite sull’esigenza di riproporre anche nella prima parte della frase quell’idea di intero che è presente nella seconda. Ma si tratta di un’esigenza inutile, avvertita più per motivi di simmetria che per un’autentica necessità logica, giacché il riferimento all’intero, se è importante là dove si tratta di puntualizzare che la parte, essendo divisibile «rispetto all’intero», verifica le condizioni del suo essere in un luogo, è superflua là dove si fissa l’attenzione sull’istanza che anche la parte permane nel luogo. Ora, entrambe le incongruenze — sia quella di ordine stilistico che quella di ordine concettuale — sembrano superate nella lezione proposta dal Ross (τὸ μέρoς, τὸ δὲ ἐν τόπω ecc.), la quale, oltre a eliminare l’impreciso riferimento all’intero, scioglie altresì, con un intervento sorretto da alta plausibilità sotto il profilo paleografico, il τόδε dei manoscritti in ἐν δὲ, correggendo di conseguenza ἐν τῷ ὅλω in ἐν τόπω, con l’espunzione di τῷ, a questo punto poco giustificabile. 31. Cfr. De Gener. et corr., I , 3. 32. Cfr. De coelo, 309 a 19. 33. Cfr. D. K. 55 A 38. 34. Cfr. D. K. 54 A 6. 35. Stando a Simplicio, si tratterebbe di Metrodoro di Chio. 36. Il riferimento implicito è ai Pitagorici. Il ragionamento di Aristotele è chiaro: poiché la tesi dell’uomo comune è che il vuoto è un puro intervallo, privo di qualunque corpo, non serve per respingere questa concezione del vuoto far valere che nell’intervallo vi è aria e che l’aria è un corpo sensibile (cosa che fa Anassagora, mostrando che, se si torcono degli otri, l’aria interna li fa scoppiare e può raccogliersi in clessidre, per cui è ben qualcosa), giacché l’aria potrebbe uscire e — nella supposizione dell’uomo comune — rimanere il puro intervallo, ossia il vuoto. Per rigettare questa concezione occorre invece provare che l’intervallo non esiste. 37. Il riferimento è agli Atomisti: Leucippo e Democrito. 38. Cfr. D. K. 30 A 7, 10. 39. Aristotele confuta i tre argomenti in 214 a 26; 32; b 3. 40. Si tratta di Xuto (cfr. 216 b 26) e di Ecfanto (cfr. AEZIO, Plac., I, 3, 39). 41. Ossia se il vuoto esiste o no. 42. Alla lezione κενόν («qui vi è il vuoto») mi sembra preferibile la lezione oὐδέν, adottata dal Ross. Con essa, infatti, il pensiero si declina, secondo una scansione logicamente rigorosissima, in modo da dare formale esplicazione alla tesi in esame, ossia che «il vuoto è un luogo nel quale non c’è nulla». Con la lezione adottata, infatti, questa tesi viene proposta come la conclusione di un ragionamento cosiffatto: se «l’esistente è corpo e ogni corpo è in un luogo» (213 b 32-33), allora un «dove» (cioè un luogo) che non contenga un corpo è un luogo in cui non vi è alcun esistente, ossia nulla.

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43. In realtà, sembra che il sillogismo sia una catena di due sillogismi, il primo dei quali argomenta che è tangibile ciò che ha pesantezza e leggerezza; ma ogni corpo è tangibile; dunque, ogni corpo ha pesantezza e leggerezza. Il secondo sillogismo assume questa conclusione come premessa maggiore e pone come premessa minore che il vuoto è ciò in cui non vi è alcun corpo (prima accezione di vuoto); dunque, il vuoto è ciò in cui non vi è né pesantezza né leggerezza. 44. Si tratta probabilmente dei Platonici. 45. Cfr. 213 b 12-14. 46. È la risposta alla prima ragione dell’esistenza del vuoto, indicata in 213 b 4 sgg. 47. Risposta alla seconda ragione dell’esistenza del vuoto, indicata in 213 b 14 sg. 48. Risposta alla terza ragione dell’esistenza del vuoto, indicata in 213 b 18 sgg. 49. Sul punto cfr. De Gen. et Corr., 321 a 2-29. 50. Con Ross, pare più confacente espungere τω e leggere ἐν τόπω 51. La lezione σῶμά τι rende il periodo più sciolto e il pensiero più lineare. Al contrario, σώματι, («come in un luogo separato e in un corpo che permane»), oltre a sottintendere σῶμα, rinforza inutilmente l’idea di un qualcosa che sia «come un luogo separato» con quella che esso è una sorta di corpo permanente, appesantendo così l’espressione. Quanto poi a ὡς, la sua presenza appare quanto mai opportuna, dato che ciò in cui il corpo è posto non è un luogo separato, ma qualcosa che si assume come tale, per discuterne la plausibilità. 52. Si tratta di PLATONE(cfr. Fedone, 109 a; Timeo, 62 d) e di Anassimandro (cfr. De coelo, 295 11). 53. Seguo la lezione πρῶτoν μὲν oὖν: la frase che qui inizia adduce una prima ragione a sostegno della tesi secondo cui l’esistenza del vuoto rende impossibile il movimento, anziché esplicarlo, non prosegue in una successione di ragioni, come invece sarebbe da intendere adottando la lezione ἔπειϑα. 54. Benché anche con φύσει il senso complessivo non muti («per cui vi saranno differenze per natura»), la lezione τὰ φύσει lo specifica maggiormente, precisando che «gli enti naturali» hanno differenze. 55. Si tratta di PLATONE(cfr. Timeo, 79 a). 56. Si supponga che il corpo A si muova attraverso Β (per esempio l’aria) nel tempo C e attraverso D (per esempio l’acqua) nel tempo E. Ovviamente l’aria (B) è meno densa dell’acqua (D) e, se i percorsi lungo Β e D sono di uguale lunghezza, E sta a C come D sta a Β in densità, come è stato prima precisato. Si supponga ora che Ζ sia un vuoto di lunghezza pari a Β più D e che il corpo A lo percorra nel tempo H, che è minore di E. Il vuoto si rapporterà allora al pieno secondo la stessa proporzione e in un tempo uguale a Η il corpo A percorrerà la distanza Τ di D. Ma in questo tempo Λ percorre l’intero corpo Z, che supera l’aria in radezza come E supera Η in lunghezza. Infatti, se Ζ è più rado di D secondo la stessa proporzione per cui E è più lungo di H, A percorre Ζ in un tempo proporzionalmente inverso alla velocità, ed esattamente nel tempo H. Pertanto, se Ζ è pieno, A lo percorrerà ancora più velocemente. Ma si era assunto che lo percorre nel tempo H. Dunque, lo percorre in un ugual tempo sia se è pieno, sia se è vuoto. Il che è impossibile. Di conseguenza, se si dà un tempo in cui un oggetto si muove attraverso qualche parte di un vuoto, si avrà l’assurdo che esso in un ugual tempo percorre una certa distanza sia piena che vuota, poiché vi sarà un corpo che si rapporta a un altro come il tempo di percorrenza del primo si rapporta a quello del secondo. 57. Cfr. 211 b 19; 213 a 31. 58. Cfr. De Gen. et Corr., 320 b 16-25. 59. L’aggiunta di δεῖ (Bonitz, Ross) è quanto mai opportuna, mancando in caso contrario il verbo reggente di μεταβάλλειν. Da un punto di vista paleografico, la sua caduta è spiegabile con un errore di aplografia. 60. La congettura di Ross di leggere ἄνω φέρει in luogo dell’ἀvωψερές della tradizione manoscritta («è cosa che porta verso l’alto»), non soltanto riveste un alto grado di plausibilità

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sul piano paleografico, ma rende più sciolta l’espressione. 61. L’espunzione della virgola dopo έτυχε rende il pensiero sintatticamente più scorrevole, non esigendo di sottintendere qualcosa come τινῶν ὑπαρχόντων («se per caso ha alcune ‹proprietà): colore, caldo e freddo» o «se per caso ha degli attributi: ecc.»). 62. La piena intelligibilità conferita al testo dalla lezione τῇ della tradizione manoscritta mi induce a mantenerla, quantunque la proposta di Ross di leggere πρός τήν («si rapporta a quello successivo») non manchi di un ampio grado di plausibilità nella scansione del pensiero. 63. La lezione συναγωγὴ καὶ διαστoλή («contrazione e dilatazione della stessa materia costituiscono il tutto») conferisce al pensiero una scansione non precisa, dal momento che il tutto non consiste, propriamente, «in» questi processi, ma in una materia che si muta «per» questi processi. 64. Le parole tra parentesi quadre sono chiaramente una glossa e ripropongono ciò che Aristotele ha già detto poco sopra. In accordo con gli editori vanno perciò espunte. 65. Ossia il pesante e il leggero. 66. L’espressione è stata diversamente interpretata, a seconda della prospettiva dottrinale da cui viene prospettato il problema degli scritti giovanili di Aristotele. Per parte mia, ritengo che con il riferimento a essi Aristotele non abbia inteso richiamare uno specifico contenuto dottrinale, esposto in una determinata opera (contenuto che, peraltro, su questo particolare tema del tempo non trova un puntuale riscontro nei frammenti rimasti), ma abbia voluto fissare l’attenzione sul carattere dialettico di quegli scritti e precisare così il metodo di ricerca che deve seguire la presente trattazione. 67. Come bene appare nella versione del Russo, αεί ha qui valore distributivo. E così pure alla linea 218 a 11. 68. Si tratta, almeno secondo gli antichi commentatori, di Platone e in particolare della posizione da lui sostenuta nel Timeo (cfr. 39 c-d). 69. Si tratta di Archita di Taranto e in generale dei Pitagorici. 70. Si fa riferimento a una leggenda nella quale si narra del sonno profetico di uomini che, dormendo presso certi eroi, ne contemplavano continuamente le gesta, in un eterno presente. 71. Καί ha qui valore di endiadi. 72. «Uno», «altro» sono rispettivamente il tempo e il movimento. 73. Come ha spiegato Ross (Commentary, p. 598), ὄ πoτρ ὄv è un’abbreviazione di τoῦϑ ὄ πoτε ὄv πρότερoν καὶ ὕστερoν ἐν τῆ κινήσει ἐστίν («come ciò che, sussistendo in qualche tempo ‹soltanto›, ossia prima e poi, è nel movimento») e indica, dunque, l’ὑπoκείμενoν o il soggetto che è prima e poi. In senso complessivo l’espressione significa, pertanto, che il prima e il poi costituiscono come il soggetto del movimento. 74. Cfr. ante, 218 a 8-30; 2 19 a 20. 75. Letteralmente: «ma quel che è trasportato, quanto a ciò che è, essendolo una volta, è identico». Parimenti, alle righe 14-15 il testo alla lettera suona: «ma, quanto a ciò che l’istante è, essendolo una volta, è identico». 76. Cfr. ante, 218 a 6-7; 220 a 14-18. 77. La piena intelligibilità conferita al testo dalla lezione γάρ ὁρίζει della tradizione manoscritta (che è da preferire anche a ὀρίζει δέ, giacché rende esplicito, con γάρ, quel nesso causale che è nella logica dell’intrecciarsi di questo pensiero con quello precedente) mi induce a mantenerla. 78. Cfr.Metaph., 1088 a 6. 79. Il pensiero di Aristotele è che «essere nel tempo» significa due cose: 1) esistere quando esiste il tempo; 2) essere nel tempo come alcune cose sono dette nel numero; il che a sua volta può significare a) essere una parte, o un accidente, o un elemento del numero, b) oppure avere un numero. In rapporto a questa scansione concettuale, la lezione δὲ ὥσπερ è più congrua di δὲ τὸ ὥσπερ. A essa mi sono perciò attenuto. 80. Alle righe 221 a 17-18 il testo è piuttosto incerto. Tra le differenti lezioni ho seguito

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quella adottata dal Ross, che mi sembra assai congruente e lineare con l’andamento complessivo del pensiero. 81. Che il tempo affetti le cose ha il carattere della necessità, non di un semplice fatto. Per questo l’infinito πάσχειν, da connettersi al precedente ἀνάγκη (riga 28), mi sembra preferibile al presente πάσχει. 82. Cfr. ante, 202 a 4. 83. Cfr. Metaph., 1024 b 19-21. 84. Cfr. ante, 220 a 4-5. 85. La lezione seguita dal Ross — e qui adottata — è la più semplice. Secondo le altre lezioni il testo suona: «infatti un solo punto per il pensiero non è sempre lo stesso; che, quando si opera la divisione è diverso»; oppure: «infatti il punto per il pensiero non è sempre lo stesso, e quando si opera la divisione è altro e altro (ancora›»; e ancora: «per l’aspetto per cui si ha un’unità, il punto è sempre uno, ma per il pensiero, quando si opera la divisione, è altro e altro ‹ancora›». 86. «Ora»: il greco porta νΰν, in una perfetta corrispondenza col precedente των vvv («degli istanti»), che in italiano è impossibile riproporre. 87. Così per esempio Talete (cfr. DIOGENE LAERZIO, I, 35 = D. K. 11 A 1: «di lui si tramandano anche queste sentenze: […] il più saggio è il tempo, che tutto svela»). 88. Personaggio del tutto sconosciuto, ma indicato da Temistio e Giovanni Filopono (Simplicio invece legge παρών come participio presente: «un pitagorico che era presente»). 89. Cfr. 221 b 8. 90. Cfr. ante, 219 b 5-8. 91. Il plurale del pronome relativo che segue (ὧν), farebbe ritenere più plausibile la lezione ἄλλα («siano in movimento anche altre cose»); il fatto che si faccia riferimento a due movimenti (ἑκατέρας), ossia a quello di cui si è detto nella frase precedente e a quello di «un’altra cosa», indurrebbe a preferire ἄλλo. Entrambe le lezioni non lasciano pienamente soddisfatti, perché ognuna sottintende qualcosa che nel testo non è esplicito. Tuttavia mi sembra migliore la seconda, per la maggior linearità che conferisce al periodo, rendendo meno brusco il passaggio concettuale rispetto al successivo pronome. A essa mi sono pertanto attenuto. 92. Il testo è piuttosto incerto. Distaccandomi dal Ross, leggo, con Carteron, 6 αὐτὸς γάρ χρόνoς πᾶς ὁ ἴooς καὶ ἅμα. 93. Cfr. ante, 220 b 12-14. 94. Questa, come vien dimostrato in Phys., VIII, 7 e 9, è la traslazione prima; e poiché la traslazione o movimento secondo il luogo è il mutamento primo, la traslazione in circolo costituisce il mutamento fondamentale. 95. Cfr. ante, 220 b 15. 96. Cfr. 261 a 18-b 26. 97. Cfr. ante, 218 a 35.

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LIBRO QUINTO V, I ‹Il mutamento e le sue specie› Ogni cosa che muta, l’uria muta per accidente: per esempio, diciamo che il musico cammina, perché ciò a cui capita di essere musico cammina; un’altra, per il fatto che muta qualcosa di essa è detta mutare in senso assoluto: per esempio, 25 tutto ciò che è detto ‹mutare› secondo le parti. In effetti, il corpo guarisce, perché guarisce l’occhio o il torace, e queste sono parti dell’intero corpo. Ma vi è qualcosa che né si muove per accidente, né per il fatto ‹di muoversi› qualche altra delle cose che gli appartengono, ma per il fatto di muoversi esso stesso innanzitutto. E questo è ciò che è mobile per se stesso, ed è diverso secondo un altro movimento: per esempio, una 30 cosa alterabile e, dell’alterazione, una cosa sanabile o una riscaldabile sono diverse. Anche nel caso di ciò che muove è nello stesso modo. Ché, una cosa muove per accidente, un’altra secondo la parte, per il fatto che ‹a muovere› è qualcuna delle cose che le appartengono, un’altra ancora per sé innanzitutto: per esempio, il medico guarisce e la mano batte. Poiché qualcosa è ciò che muove per primo, qualcosa è ciò 35 che è mosso, in più ciò in cui ‹si compie il movimento›, ossia il tempo e, oltre questi, ciò da cui e ciò verso cui ‹si ha movimento› — ché, ogni movimento è da qualcosa e verso qualcosa. In effetti, è diverso il primo mosso, ciò verso cui e ciò da cui avviene il movimento: per esempio, il legno, il caldo e il freddo. E di questi l’uno è ciò che ‹si muove›, l’altro ciò verso cui ‹si effettua il movimento 224 b ›, il terzo ciò da cui —, ebbene, è chiaro che il movimento è nel legno, non nella forma. Infatti,5 la forma o il luogo o la quantità né muovono né sono mossi, ma si hanno una cosa che muove, una che è mossa e una verso la quale avviene il movimento. Si applica il nome «mutamento» più a ciò verso cui avviene il movimento che a ciò da cui avviene. Per questo anche la corruzione è un mutamento verso il nonessere; eppure ciò che si corrompe muta anche dall’essere. Anche la generazione è verso l’essere, eppure 10 procede dal non-essere. Che cos’è il movimento, si è detto prima1. Le forme, le affezioni e il luogo, verso i quali si muovono le cose che sono in movimento, sono immobili: per esempio, la scienza e il calore. Eppure si potrebbe sollevare la 239

questione se le affezioni siano movimenti e la bianchezza sia un’affezione2: ché, vi sarà mutamento verso un movimento. Ma, senza dubbio, movimento15 non è la bianchezza, bensì il diventare bianco. Ma anche in quelle ‹determinazioni›3 si dà e ciò che è per accidente, e ciò che è secondo la parte e secondo un’altra cosa, e ciò che è primariamente e non secondo altro: per esempio, ciò che diventa bianco muta per accidente in ciò che è pensato (infatti è accidentale al colore di essere pensato) e in un colore, perché il bianco è parte del colore, e verso l’Europa, perché 20 Atene è parte dell’Europa; ma per sé ‹muta› nel colore bianco. Come dunque vi sia movimento per sé e come per accidente, come secondo qualcos’altro, e come il movimento per sé sia primo4, e ‹tutto questo› tanto nel caso di una cosa che muove quanto in quello di una che è mossa, è chiaro; ed ‹è 25 chiaro› che il movimento non è nella forma, bensì in ciò che è mosso, ossia che è mobile secondo Tatto. Ebbene, il mutamento per accidente sia lasciato perdere. Infatti si dà in tutte le cose e sempre, ed è proprio di tutte le cose. Invece quello non per accidente non è in tutte le cose, bensì 30 nei contrari, nelle cose intermedie5 e nella contraddizione. La credenza in esso deriva dall’induzione. Vi è mutamento a partire da ciò che è intermedio, giacché lo si usa come se fosse un contrario rispetto a ciascuno dei due ‹estremi›. Infatti, ciò che è intermedio in un certo modo è gli estremi. Perciò e questo in un certo modo è detto contrario rispetto a quelli e quelli contrari rispetto a questo: per esempio, il semitono ‹è detto› acuto rispetto alla corda bassa e grave rispetto alla 35 nete, e il grigio ‹è detto› bianco rispetto al nero e nero rispetto al bianco. 225 a Poiché ogni mutamento è da qualcosa verso qualcosa ‹lo indica anche il nome6: infatti indica una cosa dopo un’altra e l’una come anteriore, l’altra come posteriore), ciò che muta può mutare in quattro modi: in effetti ‹può mutare› o da un sostrato verso un sostrato, o da un sostrato verso un non 5 sostrato, o da un non sostrato verso un sostrato, o da un non sostrato verso un non sostrato. Chiamo sostrato ciò che è indicato con un’affermazione7. Di conseguenza, da ciò che abbiamo detto8 è necessario che i mutamenti siano tre: quello da un sostrato verso un sostrato, quello da un sostrato verso 10 un non sostrato e quello da un non sostrato verso un sostrato. Ché, quello da un non sostrato verso un non sostrato non è un mutamento, per il fatto di non essere secondo un’antitesi. In effetti, non ci sono né contrari né contraddizione9. Ebbene, il mutamento da un non sostrato verso un sostrato secondo contraddizione è una generazione: assoluta se ‹avviene› in senso assoluto, 240

una certa ‹generazione› se è ‹generazione› di qualcosa: per esempio, quella che procede dal non15 bianco al bianco è generazione di questo, quella che procede dal non-essere in senso assoluto alla sostanza è generazione in senso assoluto, secondo la quale diciamo «viene all’essere in senso assoluto», non «viene all’essere una certa cosa». Il mutamento da un sostrato verso un non sostrato è corruzione: in senso assoluto, quella che procede da una sostanza verso il non-essere; una certa corruzione, quella che procede verso la negazione opposta10, come è stato detto anche nel caso della generazione. Ora, se il non-essere si dice in più sensi e non è possibile 20 che si muova né quello secondo sintesi e diairesi, né quello secondo potenza (l’opposto dell’essere secondo l’atto in senso assoluto), anche se in effetti è possibile che il non bianco e il non buono si muovano per accidente (ché, il non bianco può essere un uomo), ciò che in senso assoluto è un non-questo1125 non lo può in nessun modo. Infatti, è impossibile che il nonessere si muova e, se vale questo, anche che la generazione sia un movimento: giacché si genera ciò che non è. In effetti, anche se ‹è vero dire› che il non-essere si genera soprattutto per accidente, tuttavia è vero dire che appartiene a ciò che si genera in senso assoluto. E similmente anche l’essere in quiete. Ora, sono queste le difficoltà che conseguono al fatto30 che il non-essere si muova; e ancora: se tutto ciò che si muove è in un luogo, il non-essere però non è in un luogo, giacché sarebbe in qualche parte. Ma neppure la corruzione è movimento. Infatti, contrario di un movimento è un movimento o la quiete, mentre la corruzione è il contrario della generazione. Poiché ogni movimento è un certo mutamento, e i mutamenti 35 sono i tre che abbiamo detto12 e, tra essi, quelli secondo 225 b la generazione e la corruzione non sono movimenti, ma questi ‹mutamenti› sono quelli secondo contraddizione, è necessario che soltanto il mutamento da un sostrato verso un sostrato sia movimento. E i sostrati sono o contrari o intermedi (si ponga, in effetti, che anche la privazione è un contrario), e si mostrano 5 con l’affermazione: «nudo», «bianco», «nero». Se dunque le categorie si dividono nella sostanza, nella qualità, nel dove, nel quando, nella relazione, nella quantità, nel fare e nel patire, è necessario che vi siano tre movimenti: quello della qualità, quello della quantità e quello secondo il luogo13.

V, 2 241

‹Determinazione delle specie di mutamento› 10 ‹I› Secondo la sostanza non vi è movimento, perché nessuno degli esseri è contrario alla sostanza14. ‹II› Non vi è ‹movimento›, poi, neppure della relazione, giacché, mutando uno dei due ‹relativi›, è possibile dire con verità dell’altro ‹che è relativo› se muta15 a sua volta, per cui il loro movimento è per accidente. ‹III› Neppure, poi, ‹vi è movimento› di una cosa che agisce e di una che patisce, né di ogni cosa mossa o che muove, poiché non è possibile movimento di un movimento, né generazione 15 di una generazione, né in generale mutamento di un mutamento. ‹1› In primo luogo, infatti, è possibile che vi sia movimento di un movimento in due modi: ‹a› o come ‹movimento› di un sostrato: per esempio, un uomo si muove perché da bianco muta in nero. Ma, in verità, forse che così anche il movimento o si riscalda, o si raffredda, o cambia luogo, 20 o aumenta, o diminuisce? Questo è impossibile, giacché il mutamento non è uno dei sostrati. ‹b› Oppure, per il fatto che qualche sostrato diverso in seguito a un mutamento muta in una forma diversa: per esempio, un uomo dalla malattia alla salute. Ma neppure questo è possibile, se non per accidente: infatti, lo stesso movimento è mutamento da una forma diversa 25 in una diversa. (Anche la generazione e la corruzione si comportano nello stesso modo, tranne che quelle procedono verso gli opposti in un dato modo, il movimento in modo diverso). Pertanto si hanno assieme mutamento dalla salute alla malattia e da questo stesso mutamento in un altro. Ma è chiaro che quando ci si ammali, si sarà soggetti a mutamento nel senso di un mutamento qualsiasi (infatti è possibile essere in quiete). E, inoltre, non sempre verso il mutamento che capiti, 30 ma quel mutamento procederà da qualcosa verso qualcosa di diverso; per cui si avrà anche il ‹mutamento› opposto, la guarigione, ma per il fatto che sopraggiunge: per esempio, se si muta dal ricordo nell’oblio, perché ciò a cui appartiene ‹questo mutamento› muta, talvolta verso la scienza, talvolta verso la salute16. ‹2› Inoltre, si procederà all’infinito se vi sarà mutamento 35 del mutamento e generazione della generazione. Ora, è necessario che anche la prima ‹sia generazione della generazione› 226 a 6se lo sarà l’ultima: per esempio, se la generazione assoluta in un certo tempo si generasse, si genererebbe anche ciò che si genera, per cui non si avrebbe mai una cosa generata in senso assoluto, ma una cosa generata per qualche aspetto e già generata17, e questa a sua volta si genererebbe in un certo tem po, cosicché una cosa generata non si sarebbe mai generata. E poiché tra le cose infinite non ve n’è qualcuna che sia prima, 5 non vi sarà nemmeno ciò che ‹si è 242

generato› per primo, per cui neppure ciò che lo segue. Nulla sarà possibile né che si generi, né che sia in movimento, né che muti. ‹3› Inoltre, il movimento contrario sarà proprio della stessa cosa (e in più il riposo), e ‹saranno proprie di essa, contemporaneamente› la generazione e la corruzione; per cui ciò che si genera18, quando si generi come cosa ‹già› generata, in quel momento si distrugge. Infatti, né ‹può esistere› subito quando si genera, né in seguito, giacché deve esistere ciò che si corrompe. ‹4› Inoltre, sia a ciò che si genera, sia a ciò che muta deve 10 sottostare una materia. Quale sarà, dunque? Come ciò che è alterabile è o corpo o anima, così ciò che si genera che cos’è, movimento o generazione? E ancora, che cos’è ciò verso cui si produce il movimento? In effetti, deve essere qualcosa19 il movimento di questa data cosa, da questa data cosa, verso questa data cosa, e non un movimento o una generazione. E, contemporaneamente, come anche sarà? Ché, la generazione 15 dell’apprendimento non sarà apprendimento, per cui né si ha generazione di generazione, né una certa generazione di una certa generazione. ‹5› Inoltre, se vi sono tre specie di movimento20, è necessario che una di queste costituisca sia la natura che funge da sostrato, sia ciò verso cui si produce il movimento: per esempio, che la traslazione si alteri o si sposti. In senso complessivo, poiché tutto ciò che si muove, si muove in tre modi: o perché si muove per accidente, o perché si muove come una 20 certa parte, o perché si muove per sé, il mutamento potrà mutare soltanto per accidente: per esempio, se la persona che è in buona salute corra o impari. Ma a suo tempo21 abbiamo levato il mutamento per accidente. Poiché non si dà movimento né della sostanza, né della relazione, né del fare e del patire, resta che il movimento è 25 soltanto secondo la qualità, la quantità e il luogo. Ché, in ciascuno di questi vi è contrarietà. 30 Il movimento secondo la qualità sia dunque alterazione: infatti gli è stato aggiunto questo nome comune. Chiamo qualità non ciò che è nella sostanza (ché, anche la differenza è una qualità22), bensì la qualità affettiva, secondo la quale si dice ‹di qualcosa› che prova un’affezione o è privo di affezioni23. Il movimento secondo la quantità, come ‹determinazione› comune è priva di nome, ma secondo ciascun ‹contrario› è aumento e diminuzione: aumento, quello che procede verso una grandezza compiuta, diminuzione quello che procede da questa. Il movimento secondo il luogo, sia come ‹determinazione› comune che come ‹determinazione› propria, non ha nome; ma sia chiamata traslazione quella comune. Tuttavia queste cose soltanto si dice in senso proprio che si 243

spostano, quando 35 non si tratti di cose che, mutando il luogo, non hanno in sé la 226 b capacità di arrestarsi, e tutte quelle che non muovono esse stesse se medesime secondo il luogo. Il mutamento verso il più e il meno nella medesima forma è alterazione. In effetti, si tratta di un movimento da un contrario verso un contrario24: o in senso assoluto, o per un certo aspetto. Ché, se il movimento procede verso il meno, si dirà 5 che ‹la cosa› muta verso il contrario; se invece procede verso il più, che dal contrario ‹muta› verso se stessa. Infatti, non fa alcuna differenza che muti per un certo aspetto o in senso assoluto, tranne che i contrari dovranno sussistere per un certo aspetto. Il più e il meno si hanno per il fatto che ‹la determinazione› è più o meno presente ‹nella cosa› di quella contraria, o no. Che dunque questi tre soltanto siano movimenti, è chiaro da queste ‹considerazioni›. È immobile sia ciò che non può 10 totalmente essere mosso (come il rumore è invisibile), sia ciò che in molto tempo si muove a stento o ciò che incomincia lentamente ‹a muoversi› (il che è detto difficile a muoversi), sia ciò che per natura si muove, sì, e ne ha la capacità, ma che talvolta non si muove: quando, dove e come per natura ‹dovrebbe muoversi›. E soltanto questa tra le cose immobili dico che è in quiete: giacché la quiete è il contrario del movimento; 15 per cui si avrà privazione di ciò che è capace di ricevere ‹movimento›25. Che cos’è, dunque, il movimento e che cosa la quiete, e quanti mutamenti vi sono e quali movimenti, è evidente da quello che s’è detto.

V, 3 ‹Determinazione di «insieme», «separatamente», «essere in contatto», «intermedio», «consecutivo», «contiguo», «continuo»› Dopo ciò diciamo che cosa sono «insieme» e «separatamente», che cosa «essere in contatto», che cosa «intermedio», che cosa «consecutivo», che cosa «contiguo» e «continuo»; 20 e a quali cose appartiene per natura ciascuna di queste ‹determinazioni›. Ebbene, dico che sono «insieme» secondo il luogo queste cose: tutte quelle che sono in un unico luogo primo26; «separatamente» tutte quelle che sono in uno diverso. ‹Dico› che «sono in contatto» le cose i cui estremi sono 23 insieme. ‹Poiché ogni mutamento ha luogo tra gli opposti, gli opposti 227 a 7sono 244

sia i contrari, sia quelli secondo contraddizizione e niente è nel mezzo della contraddizione, è evidente che l’intermedio sarà tra i contrari. 226 b 26 L’«intermedio» consiste in tre cose minime. In effetti, il contrario è un ‹estremo del mutamento›, invece è intermedio il ‹termine› a cui la cosa che muta giunge per natura prima 25 che a quello verso il quale muta, quando muta secondo natura in modo continuo. «Si muove con continuità» ciò che non lascia nessun intervallo nella cosa, o ne lascia pochissimo: non nel tempo (giacché nulla impedisce che ne lasci, e che subito dopo la 30 corda bassa risuoni l’ultima corda della lira), ma nella cosa in cui si muove. Questo è evidente sia nei mutamenti secondo il luogo che negli altri. È «contrario secondo il luogo» ciò che è massimamente distante lungo la linea retta: giacché la linea più corta è limitata, e ciò che è limitato è misura. 35 «Consecutivo» è ciò che, essendo dopo l’inizio, determinato 227 a così o per posizione o per forma o per qualcos’altro, non ha intermedia nessuna cosa tra quelle che rientrano nel medesimo genere e alla quale è consecutivo (intendo, per esempio, una linea o delle linee consecutive a una linea, oppure una monade o delle monadi consecutive alla monade, oppure una casa consecutiva a una casa: ma nulla impedisce che vi sia un’altra cosa intermedia). In effetti, ciò che è consecutivo è consecutivo a qualcosa ed è qualcosa che viene dopo; ché, 5 non l’uno è consecutivo al due, né il primo giorno del mese è consecutivo al secondo, ma questi lo sono a quelli. 10 «Contiguo» è ciò che, essendo consecutivo, è in contatto. […]27. Il «continuo», ciò che è, è un certo contiguo; dico che si ha un continuo quando il limite di ciascuna delle due cose che si toccano divenga il medesimo e uno e, come indica il nome, ‹esse› si tengano assieme. Questo non può aversi se gli estremi sono due. Essendo stata data questa definizione, è evidente che il continuo sussiste in quelle cose dalle quali si produce 15 per natura alcunché di unitario secondo il contatto. E come una volta che si costituisca il continuo si ha unità, così anche l’intero sarà uno: per esempio, per inchiodatura, o per incollamento, o assemblamene o per unione naturale. È evidente sia che il consecutivo è primo: ché, il contiguo è necessariamente consecutivo, mentre non tutto il consecutivo è in contatto (perciò il consecutivo è nelle cose anteriori per la 20 definizione: per esempio nei numeri, mentre ‹in essi› non vi è contatto), sia che, se ‹una cosa› è continua è necessariamente in contatto, mentre se è in contatto non è ancora continua: ché, non necessariamente i loro estremi, se siano assieme, costituiscono un’unità; se invece formano un’unità, è necessario che siano insieme. 245

Di conseguenza, la congiunzione naturale è ultima secondo la generazione, giacché gli estremi saranno necessariamente in contatto se naturalmente saranno connessi. Invece 25 non tutto ciò che è in contatto è congiunto per natura. E nelle cose in cui non ha luogo un contatto, è chiaro che non ha luogo neppure una congiunzione naturale. Di conseguenza, se il punto e la monade, quali dicono28, sono separati, non è possibile che la monade e il punto siano la stessa cosa. Ché, a questi ultimi appartiene l’essere in contatto, mentre alle monadi il consecutivo29. E tra i primi è 30 possibile che vi sia alcunché d’intermedio (infatti ogni linea è in mezzo a punti), mentre tra le seconde necessariamente non c’è. In effetti, non vi è nulla d’intermedio tra il due e la monade30. Dunque, che cosa siano «insieme», «separatamente» ed «essere in contatto», che cosa «intermedio» e «consecutivo», 227 b che cosa «contiguo» e «continuo», e a quali cose ciascuna di queste due ‹determinazioni› appartiene, s’è detto.

V, 4 ‹L’unità del movimento› Il movimento si dice uno in molti sensi: giacché l’uno si dice in molti sensi. Ebbene, per il genere è uno secondo le 5 figure della categoria: ché, per il genere la traslazione è unica per ogni traslazione, e per genere l’alterazione è diversa dalla traslazione. Ma è uno anche per specie quando, essendo uno per il genere, abbia luogo in una cosa indivisibile per specie. Per esempio, vi sono differenze del colore; pertanto il diventare nero è diverso per la specie dal diventare bianco. Quindi ogni diventare bianco sarà il medesimo per la specie per ogni 10 diventare bianco, e ogni diventare nero per il diventare nero. E non si dà più ‹differenza› del diventare bianco: perciò il diventare bianco è uno per la specie per ogni diventare bianco. E se si danno alcune cose che siano assieme tanto generi che specie, è chiaro che ‹il movimento› sarà uno per specie, ma in senso assoluto non sarà uno per specie: per esempio, l’apprendimento, se la scienza da un lato è una specie di giudizio, dall’altro è genere delle scienze. 15 Si potrebbe sollevare il problema se il movimento sia uno quando la stessa cosa muti dalla stessa cosa alla stessa cosa: per esempio, l’unico punto da questo luogo a questo luogo, avanti e indietro. E, se vale questo, la traslazione circolare sarà identica alla traslazione rettilinea e il rotarsi al camminare. Oppure, non è stato determinato che, se ciò in cui ‹si produce› 246

sia diverso per la specie, il movimento è diverso? E 20 ciò che è circolare è diverso per la specie da ciò che è rettilineo. Dunque, per genere e per specie il movimento è uno in questo modo. Ma in senso assoluto è uno il movimento che è uno per la sostanza o per il numero. Quale sia tale movimento, è chiaro se si operano delle distinzioni. In effetti, le cose con le quali diciamo che ha a che fare il movimento sono tre di numero: ciò che, ciò in cui e quando. Dico «ciò 25 che» perché quel che si muove è necessariamente qualcosa: per esempio, un uomo o dell’oro; e «in qualcosa»: per esempio, in un luogo o in un’affezione; e «quando», giacché tutto si muove nel tempo. Di queste ‹determinazioni›, l’essere ‹il movimento› uno per il genere o per la specie dipende dalla cosa in cui il movimento avviene; l’‹essere› contiguo, come s’è detto, dal tempo; l’essere ‹il movimento› uno in senso assoluto, da tutte queste cose. In effetti, sia il «ciò in cui» dev’essere uno e 30 indivisibile: per esempio, la specie; sia il «quando»: per esempio, il tempo ‹dev’essere› uno e non avere intervalli; sia ciò che si muove dev’essere uno non per accidente, come il diventare nero il bianco o il camminare Corisco («Corisco» e «bianco» sono un’unità, ma per accidente), ‹né come una cosa 228 a comune: ché, sarebbe possibile che due uomini guariscano assieme rispetto alla stessa guarigione, per esempio di una malattia degli occhi; ma questa non è una, bensì una per specie. Quanto al fatto che Socrate si alteri di un’alterazione identica per la specie, ma in un tempo diverso e in uno diverso ancora, se è possibile che ciò che si è corrotto diventi nuovamente 5 uno per il numero, anche quell’‹alterazione› sarà una, altrimenti sarà la stessa, ma non una. Presenta una difficoltà simile a questa anche se la salute sia una e, in generale, se nei corpi gli stati e le affezioni siano ‹un uno› per la sostanza. Ché, le cose che li possiedono sono manifestamente in movimento e scorrenti. Ebbene, se la salute che si ha questa mattina e ora è identica e una, perché 10 anche quando, dopo aver perduto la salute, la si riacquisti, quella e questa non potrebbero essere una per il numero? In effetti, la nozione è la medesima, tranne che differisce per tanto, e cioè che, se ‹gli stati› sono due, per questo stesso, nella supposizione che ‹la salute› sia una per il numero, anche gli atti sono necessariamente due: giacché l’atto di una cosa una per numero, è uno per numero. Se invece lo stato è uno, 15 forse a qualcuno potrebbe non sembrare più che pure l’atto sia uno: in effetti, quando si cessi di camminare, non vi è più il camminare, ma vi sarà di nuovo quando si cammina. Se dunque ‹la salute› è una e la stessa, sarà possibile che la medesima e unica cosa e si corrompa e sia molte volte. Ma queste difficoltà eccedono la presente ricerca. Poiché ogni movimento è continuo, quello unitario in senso 20 assoluto è 247

necessariamente anche continuo, se è vero che ogni ‹movimento› è divisibile e, se è continuo, è uno. In effetti, non ogni ‹movimento› può essere continuo a ogni ‹movimento›, come neppure nessun’altra cosa che capiti lo è a quella che capiti, ma ‹sono continue› tutte quelle i cui estremi costituiscono un’unità. E di alcune cose non ci sono estremi, 25 di altre sono diversi per la specie e omonimi. Come infatti potrebbe essere in contatto o formare un’unità l’estremo di una linea e del camminare? Dunque, possono essere contigui anche i ‹movimenti› non identici per la specie né per il genere. In effetti, uno, correndo, potrebbe avere immediatamente la febbre e, per esempio, la fiaccola che passa di mano in mano dà luogo a una traslazione contigua, ma non continua, giacché il continuo si pone per 30 le cose i cui estremi costruisco un’unità. Di conseguenza, sono contigue e consecutive per il fatto che il tempo è continuo, ma sono continue per il fatto che lo sono i movimenti. E questo 228 b ‹si verifica› quando l’estremo di entrambe costituisca un’unità. Perciò il movimento continuo e unitario in senso assoluto è necessariamente identico per la specie, di una sola cosa e in un solo tempo. In un ‹solo› tempo, perché nel mezzo non vi sia assenza di movimento (infatti, nel ‹tempo› che presenta un intervallo si è necessariamente in quiete. Quindi, sono 5 molti e non uno solo i movimenti nel cui mezzo vi è quiete. Di conseguenza, se qualche movimento è interrotto da una stasi, non è unitario né continuo; ed è interrotto se vi è del tempo intermedio); non essendo invece il movimento unitario per la specie, anche se il tempo non presenta un intervallo, il tempo è uno, ma il movimento è diverso per la specie. Ché, esso, 10 essendo uno, è necessariamente uno anche per la specie, mentre il movimento unitario per la specie non è necessariamente uno in senso assoluto. Quale movimento, dunque, sia unitario in senso assoluto, s’è detto. Inoltre, è detto uno anche quello perfetto, tanto che lo sia secondo il genere che secondo la specie che secondo la sostanza. Come anche negli altri casi, il perfetto e l’intero sono propri di ciò che è uno. Ma c’è qualche caso in cui ‹il movimento›, anche se sia imperfetto, è detto uno, se soltanto sia continuo. Inoltre, in un senso diverso, al di là di quelli esposti, è detto 15 unitario il movimento uniforme. In effetti, quello non uniforme è tale che non sembra unitario, ma sembra esserlo piuttosto quello uniforme, come quello rettilineo. Ché, quello non uniforme è scomponibile, e ha tutta Paria di differire ‹da quello precedente› come il più e il meno. Ma in ogni movimento si dà la condizione di uniformità o no. In effetti, e può esserci alterazione in modo uniforme, e 20 può esserci spostamento su una traiettoria uniforme: per esempio, un cerchio o una retta, e nello stesso 248

modo è nel caso dell’aumento e della diminuzione. Talvolta la differenza costituente la non uniformità risiede in ciò in cui avviene il movimento (infatti è impossibile che sia uniforme il movimento che non si attua in una grandezza uniforme: per esempio, il movimento su una linea spezzata o quello sull’ellittica o su un’altra grandezza, ‹figure› di cui una parte presa a caso non 25 s’adatta a una presa a caso); talvolta invece non risiede né nel dove, né nel quando, né nel verso cui, ma nel come: giacché talora si è definita con la velocità e la lentezza. Infatti, il ‹movimento› la cui velocità è identica è uniforme, quello la cui velocità non lo è, è non uniforme. Per questo la velocità e la lentezza non sono specie del movimento, né differenze: poiché conseguono a tutte le differenze secondo la specie. Di conseguenza 30 non lo sono neppure la pesantezza e la leggerezza relative alla cosa stessa: per esempio, della terra rispetto a se stessa o del fuoco rispetto a se stesso. 229 a Dunque, il movimento non uniforme è sì unitario, per il fatto di essere continuo, ma di meno: il che capita alla traslazione spezzata. E il meno è sempre mescolanza del contrario. Ma se ogni ‹movimento› unitario può essere uniforme o no, quelli che sono contigui, ma non identici secondo la specie non saranno un movimento unitario e continuo. 5 Infatti, come potrebbe essere uniforme il ‹movimento› composto dall’alterazione e dalla traslazione? Ché, dovrebbero adattarsi.

V, 5 ‹La contrarietà nel movimento› Inoltre bisogna determinare quale movimento è contrario a un movimento, e nello stesso modo anche per quel che riguarda il restare fermo. Innanzitutto bisogna determinare se è contrario ‹1› il movimento che procede da una stessa cosa a quello che procede verso la stessa cosa (per esempio, quello che procede dalla 10 salute a quello che procede verso la salute), come sembrano anche generazione e corruzione, oppure ‹2› quello che procede dai contrari (per esempio, quello che procede dalla salute a quello che procede dalla malattia), oppure ‹3› quello che procede verso i contrari (per esempio, quello che procede verso la salute a quello che procede verso la malattia), oppure ‹4› quello che procede da un contrario a quello che procede verso ‹l’altro› contrario (per esempio, quello che procede dalla salute a quello che procede verso la malattia), oppure ‹5› 249

quello che da un contrario procede verso ‹l’altro› contrario a quello che da ‹questo secondo› contrario procede verso ‹l’altro› contrario (per esempio, quello che dalla salute procede verso la 15 malattia a quello che dalla malattia procede verso la salute). Ché, è necessario che sia o uno solo di questi modi, di qualunque si tratti, o più di uno, giacché non è possibile che l’antitesi si abbia altrimenti. ‹4› Ma il ‹movimento› che procede da un contrario non è contrario a quello che procede verso ‹l’altro› contrario: per esempio, quello che procede dalla salute a quello che procede verso la malattia, giacché si tratta del medesimo e unico ‹movimento›. Tuttavia non hanno lo stesso essere, come non è lo 20 stesso il mutare dalla salute e il ‹mutare› verso la malattia. ‹2› Neppure è contrario il movimento che procede da un contrario a quello che procede da un contrario: giacché capita che insieme procedano da un contrario verso un contrario o verso l’intermedio. Ma di ciò parleremo in seguito31. Ma il mutare verso un contrario sembrerà essere causa della contrarietà più del ‹mutare› da un contrario: giacché il secondo è perdita della contrarietà, mentre il primo ne è acquisizione. 25 E ogni ‹movimento› è detto in rapporto a ciò verso cui procede il mutamento più che in rapporto a ciò da cui ‹procede›: per esempio, guarigione è il ‹movimento› verso la salute, ammalarsi il ‹movimento› verso la malattia. Restano pertanto ‹3› il ‹movimento› che procede verso i contrari e ‹5› quello che dai contrari procede verso i contrari. Ebbene, forse capita che i ‹movimenti› verso i contrari siano anche quelli dai contrari, ma l’essere certamente non è lo stesso. Intendo dire che il procedere verso la salute ‹non è 30 identico› al procedere dalla malattia e che il procedere dalla salute ‹non lo è› al procedere verso la malattia. Poiché il mutamento differisce dal movimento (infatti il mutamento da qualche sostrato verso qualche sostrato è moviento), il movimento che procede da un contrario all’‹altro› 229 b contrario è contrario a quello che procede da ‹questo secondo› contrario al ‹primo› contrario (per esempio, quello che procede dalla salute alla malattia a quello che procede dalla malattia alla salute). Anche dall’induzione è chiaro quali cose si ritengono comunemente essere i contrari: in effetti, l’ammalarsi è ‹contrario› al guarire e l’apprendere all’ingannarsi non a causa di se 5 stessi. Ché, si tratta di cose rivolte verso contrari. Come infatti la scienza, anche l’errore può acquisirsi a causa e di se stessi e di un altro. E la traslazione verso l’alto ‹è contraria› a quella verso il basso, giacché queste ‹determinazioni› sono contrarie nella lunghezza. E il ‹movimento› verso destra a quello verso sinistra, giacché 250

queste ‹determinazioni› sono contrarie nella larghezza. E il ‹movimento› in avanti a quello in dietro, giacché anche queste ‹determinazioni› sono contrarie. ‹1› Ma quello che procede solamente verso un contrario 10 non è movimento, bensì mutamento: per esempio, il diventare bianco, indipendentemente dalla cosa da cui lo si diventa. E per tutto ciò che non ha contrario, il mutamento che procede dalla cosa è contrario a quello che procede verso la cosa. Per questo la generazione è contraria alla corruzione e la perni. ARISTOTELE,Fisica.dita all’acquisizione. Ma questi sono mutamenti, non movimenti. 15 Bisogna porre che i movimenti verso l’intermedio, per tutte le cose che hanno un intermedio tra i contrari, in un certo senso procedono come verso i contrari. Ché, il movimento si serve dell’intermedio come di un contrario, in qualunque dei due sensi avvenga il mutamento: per esempio, dal grigio al bianco è come dal nero, e dal bianco al grigio è come verso il nero; dal nero al grigio, poi, è come il grigio ‹che muta› verso 20 il bianco. In effetti, il medio in qualche modo si dice in rapporto a ciascuno dei due estremi, come anche prima s’è detto32. Pertanto, un movimento è contrario a un movimento in questo modo: quello che procede da un contrario verso ‹l’altro› contrario a quello che procede da ‹questo secondo› contrario verso l’‹altro› contrario.

V, 6 ‹L’opposizione tra movimento e quiete› Poiché il movimento non sembra essere contrario soltanto al movimento, ma anche alla quiete, bisogna determinare 25 questo ‹punto›. Infatti, in senso assoluto contrario a un movimento è un movimento, ma anche la quiete vi si oppone, giacché è privazione. Ed è possibile che anche la privazione sia detta contraria. Ma quale ‹privazione› a quale? Per esempio, quella secondo il luogo a quella secondo il luogo. Ma questo ora è detto in modo semplice: ché, allo star fermi qui si oppone forse il movimento che procede da questo luogo o il movimento che procede verso questo luogo? Ebbene, è chiaro 30 che, poiché il movimento si verifica tra due sostrati, a quello che procede da questo ‹luogo› al contrario ‹è opposto› lo star fermi in questo ‹luogo›, mentre a quello che procede dal contrario a questo ‹luogo è opposto› lo ‹star fermi› nel ‹luogo› contrario. Ma al tempo stesso le quieti sono contrarie anche tra loro: giacché è 251

assurdo che, se i movimenti sono contrari, le quieti non siano opposte. Ed esse sono nei contrari: per esempio, quella nella salute ‹è contraria› alla quiete nella malattia e al movimento che procede dalla salute alla malattia. In effetti, è assurdo che lo sia a quello che dalla malattia procede verso la salute, giacché il movimento verso ciò in cui s’arresta è piuttosto 5 un venire a quiete, al quale33 capita in realtà di generarsi assieme al movimento. Ma è necessario che ‹la quiete› consista o in questo o quel termine del movimento. Infatti, la quiete nella bianchezza non è contraria a quella nella salute. Ma di tutte quelle cose che non hanno contrari, mutamento opposto è quello che procede dalla cosa a quello che procede verso la cosa; invece non hanno movimento ‹opposto›: per esempio, quello che procede dal nonessere a quello che procede verso l’essere. Anche lo star fermi non è proprio di 10 esse, bensì l’immutabilità: pure se vi fosse un qualche sostrato, l’immutabilità nell’essere sarebbe contraria a quella nel non-essere. Ma se il non-essere non è qualcosa, si può sollevare il problema a che cosa è contraria l’immutabilità nel non-essere, e se è una quiete. Ma se vale questo, o non ogni quiete è contraria al movimento, oppure la generazione e la 15 corruzione sono movimento. È chiaro, pertanto, che non si deve parlare di quiete, se anche le quieti non sono movimenti. Ma l’immutabilità è qualcosa di simile: o non è contraria a niente, o ‹è contraria all’immobilità› nel non-essere, o alla corruzione. Questa infatti muove da essa, invece la generazione procede verso di essa. Si potrebbe sollevare la questione: perché nel mutamento secondo il luogo si hanno e star fermi e movimenti sia secondo natura che contro natura, mentre negli altri ‹movimenti› 20 no: per esempio, un’alterazione è secondo natura, una contro natura? In effetti, la guarigione non è secondo natura o contro natura più dell’ammalarsi, né il diventare bianco ‹più› del diventare nero. E similmente è anche nel caso dell’aumento e della diminuzione: infatti, né essi sono contrari l’uno all’altro 25come per natura o34 contro natura, né un aumento a un aumento. E il medesimo discorso vale anche nel caso della generazione e della corruzione: né infatti la generazione è secondo natura mentre la corruzione è contro natura (giacché la vecchiaia è secondo natura), né vediamo una generazione secondo natura, un’altra contro natura. Ma se «a violenza» è 30 contro natura, anche la corruzione violenta, essendo come contro natura, sarà contraria a quella che è secondo natura. Non è forse, dunque, e che alcune generazioni sono violente e non stabilite dal destino — quelle alle quali sono contrarie le 230 b generazioni secondo natura —, e che vi sono aumenti e diminuzioni violenti: per esempio, le crescite di coloro che per la lussuria si comportano 252

in fretta da giovani, e i frumenti che maturano in fretta anche se non hanno radici? E com’è nel caso dell’alterazione? Non forse nello steso modo? In effetti, alcune saranno violente, altre naturali: per esempio, coloro 5 che guariscono non nei giorni critici, e coloro che ‹guariscono› nei giorni critici. Ché, gli uni si sono alterati contro natura, gli altri secondo natura. Pertanto le corruzioni saranno contrarie tra loro, non alla generazione. E che cosa, in realtà, l’impedisce? In effetti, può ben essere. Ché, se una è piacevole, l’altra sarà dolorosa; per cui non in senso assoluto una corruzione è contraria a una corruzione, ma in quanto una di esse è di questa natura, l’altra di quest’altra. 10 In generale, dunque, i movimenti e le quieti sono contrari nel modo che abbiamo detto: per esempio, il movimento e la quiete in alto al movimento e alla quiete in basso, giacché questi costituiscono delle contrarietà del luogo. Quanto alla traslazione verso l’alto, ‹così› si sposta per natura il fuoco; quanto a quella verso il basso, la terra; e in realtà queste traslazioni sono contrarie. E il fuoco per natura ‹si porta› in alto, mentre contro natura in basso; e in realtà la sua ‹traslazione› 15 secondo natura è contraria a quella contro natura. Anche lo star fermo si comporta nello stesso modo, in tutti i casi: in effetti, lo star fermo in alto è contrario al movimento dall’alto in basso. E per la terra quello star fermo si produce contro natura, mentre questo movimento secondo natura. Di conseguenza, lo star fermo della stessa cosa contro natura è contrario a quello secondo natura. In effetti, anche il movimento della stessa cosa è contrario in questo modo: ché, uno 20 dei movimenti — o quello verso l’alto o quello verso il basso — è secondo natura, l’altro contrario a natura. Si presenta una difficoltà: se si dia generazione di ogni quiete che non è sempre, e se essa consista nell’arrestarsi. Ebbene, può esserci generazione di ciò che sta fermo contro natura: per esempio, della terra in alto. Pertanto, quando era portata in alto a violenza, si arrestava. Ma, tutti lo riconoscono, ciò che si arresta si sposta sempre più velocemente, invece 25 ciò che ‹è portato› a violenza ‹si comporta› al contrario. Pertanto la cosa sarà in quiete senza che la quiete si sia generata. Inoltre, è da tutti ammesso che l’arrestarsi consiste o, in senso assoluto, nel portarsi nel luogo proprio, o nel capitare assieme ‹al movimento›. Si ha una difficoltà: se l’esser fermi qui sia contrario al movimento che procede da qui. Infatti, quando ‹una cosa› si muova o anche sia scagliata da questo luogo qui, tutti ammettono 30 che ‹il luogo› possiede ancora ciò che è scagliato. Di conseguenza, se la medesima quiete è contraria al movimento che da qui procede in senso contrario, i contrari sussisteranno assieme. Ο non è forse che ‹la cosa› in un certo modo è in quiete, se ancora 253

è ferma e, in senso complessivo, una ‹parte› di ciò che si muove è qui, un’altra nel ‹luogo› verso cui muta35? 231 a Perciò contrario a un movimento è un movimento più che la quiete. Anche sul movimento e sulla quiete: come ciascuno dei due sia unitario, e quali siano contrari a quali, s’è detto. [Si potrebbe sollevare una difficoltà anche riguardo all’arrestarsi: 5 se vi sia una quiete contraria pure a tutti i movimenti contro natura. Se infatti non vi sarà, si verifica un assurdo, giacché ‹la cosa› sta ferma, ma a violenza; per cui un qualche essere in quiete non sempre sarà, senza essersi generato. Ma è chiaro che vi sarà: in effetti, come qualcosa è mosso contro natura, può essere anche in quiete contro natura. E poiché 10 per certe cose vi è un movimento secondo natura e contro natura: per esempio, per il fuoco quello in alto è secondo natura, quello in basso contro natura, è contrario questo o quello della terra? Essa, infatti, secondo natura si porta in basso. Oppure è chiaro che lo sono entrambi, però non allo stesso modo, ma, d’un lato, lo è il ‹movimento› secondo natura, nella convinzione che quello proprio della cosa è secondo natu 15 ra: quello in alto, del fuoco, a quello in basso, nella convinzione che quello che è secondo natura ‹è contrario› a quello che è contro natura; dall’altro, simile situazione vale anche per le stasi. Ma forse alla quiete il movimento si oppone in un senso particolare]36. 1. Cfr. ante, 201 a 10. 2. In proposito cfr. Cat., 8. 3. Ossia, nei termini del movimento quali la bianchezza e, in generale, le affezioni. 4. La piena intelligibilità conferita al testo dalla lezione τὸ dei manoscritti e la congruenza del pensiero che da essa risulta con quanto Aristotele ha prima affermato, m’inducono a mantenerla, non scorgendo alcuna cogenza per mutarla in τω (secondo la proposta di Franti, accolta anche da Ross: «e come per il fatto che la cosa è prima»). 5. Come risulta da Cat., 10, tra i contrari (ossia tra le determinazioni massimamente distanti entro un medesimo genere) si hanno intermedi quando uno o l’altro di essi non appartiene necessariamente alla cosa; se invece vi appartiene necessariamente, non si danno intermedi. 6. Il nome greco del mutamento, ossia μεταβoλή, etimologicamente significa, infatti, «getto dopo», assumendo μετά nella valenza di «dopo». 7. Com’è ben spiegato da CARTERON (vol. IL, p. 13, nota 2), qui «affermazione» non è usato nel senso tecnico di enunciato che attribuisce qualcosa a qualcosa (A è B), ma in un senso più lato, col quale si designa la semplice posizione di qualcosa (come uomo o bianco), o uno stato come la privazione. 8. Cfr. ante, 224 b 28-29. 9. Poiché il mutamento avviene tra opposti e i termini in causa in questo quarto caso non hanno questa caratteristica (non si tratta, infatti, né di contrari né di contraddittori. Quanto al possesso e la privazione, questa è riconducibile a un contrario; i relativi poi non interessano il mutamento), a loro riguardo non si può parlare di mutamento. 10. Ossia, la negazione dell’opposto dal quale la corruzione procede (per esempio, la negazione del nero, nel caso in cui il mutamento vada dal nero al non-nero. Il non-nero,

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infatti, in quanto contraddittorio del nero, ne è la negazione — stante che i contraddittori sono l’uno negazione dell’altro). 11. Ossia, una non sostanza individuale. 12. Ossia, la generazione, la corruzione e il movimento. 13. Possiamo indicare riassuntivamente le conclusioni del ragionamento aristotelico con il seguente schema:

Come si può vedere, generazione e corruzione, da un lato, mutamento secondo la qualità, la quantità e il luogo, dall’altro, non sono specie del mutamento derivanti dalla stessa divisione, ma i tre ultimi derivano da una divisione ulteriore del mutamento (μεταβoλή), costituita dal movimento (κίνησις). Questo è quel mutamento (genere) che procede da un sostrato a un sostrato (differenza specifica), laddove generazione e corruzione sono, rispettivamente, mutamento (genere) che procede da un non-sostrato a un sostrato e da un sostrato a un non-sostrato (differenza). 14. Cfr. Cat., 3 b 24-27. 15. Il testo è parecchio incerto. Secondo la lezione tradizionale esso suona: ἐνδέχεται γὰρ θατέρoυ μεταβάλλoντoς ἀληϑεύεoϑαι ϑάτερoν μηδὲν μεταβάλλoν («giacché, mutando uno dei due ‹relativi›, è possibile dire con verità dell’altro ‹che cambia anch’esso›, senza mutare affatto ‹la sua condizione di relativo›». Così per esempio, Carteron). Il senso è che, se un relativo muta, l’altro (che, se restasse identico, non sarebbe più correlativo del primo) può continuare a essere correlativo, non mutando così la sua condizione, ma a patto che cambi anch’esso. Per esempio, nella coppia di relativi «doppio-metà» (8 e 4), se muta il termine che esprime il doppio, cioè 8, diventando ad esempio 10, anche il termine che esprime la metà, ossia 4, può continuare a essere relativo, purché muti a sua volta: in 5. Sennonché, in rapporto a questa scansione concettuale, che è logicamente rigorosa, il testo mancherebbe di esprimere proprio la condizione basilare su cui la scansione stessa si articola, ossia che il secondo relativo deve mutare esso pure per continuare a essere relativo (il participio μεταβάλλoν, preceduto da μηδὲν, deve riferirsi alla «condizione di relativo» del secondo termine, non al termine medesimo della correlazione). Non soddisfacenti risultano poi le lezioni μεταβάλλoντoς μηδὲν (Laur. 87.12) e μηθὲν μεταβάλλoντoς (Par. gr. 1853; Vind. 100), in quanto ne deriva una ovvietà («non mutando affatto uno dei due ‹relativi›, dell’altro ‹relativo›, se non muta per niente, è possibile dire con verità ‹che è relativo›»), anzi una incongruenza, giacché nella situazione prospettata non «è possibile», ma «è necessario» dire con verità che il secondo termine è relativo. In una tale situazione incorre anche la proposta di Schwegler, il quale (nella sua edizione della Metafisica) ipotizza la caduta di μη prima di ἀλητϑεύεσϑαι: «mutando uno dei due ‹relativi›, è possibile ‹non› dire con verità dell’altro, se non è mutato affatto, ‹che è relativo›». Molto più opportuno risulta l’intervento di Ross: correggendo in ‹ἀληΦεύεσθαι καί μή› ἀληϑεύεσϑαι ‹«mutando uno dei due ‹relativi›, è possibile ‹dire con verità e› non dire con verità che l’altro ‹è relativo› anche se non muta affatto»), egli delinea il luogo come esprimente che, «in seguito al cambiamento di uno dei due correlativi, l’altro termine correlativo può cessare di essere tale, a meno che quello al quale si applica la determinazione di relativo non cambi del tutto […] Per esempio, A è doppio della dimensione di B; pertanto, se Β cambia la sua dimensione, "doppio" cessa di essere applicabile ad Λ, a meno che A non abbia cambiato a sua volta la sua» (Commentary, p. 21). Pur tuttavia la correzione di Ross, lineare e congruente sul piano della concatenazione dei concetti, è poco lineare — mi sembra — sul piano dell’espressione, che, anzi, può risultare persino aspra e

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aggrovigliata: giacché nel passo così corretto μηδὲν μεταβάλλoν, che si connette logicamente ad ἀληϑεύεσϑαι (enuncia infatti la condizione per cui un relativo [A] «può» continuare a «dirsi con verità» anche se il correlativo [B] sia mutato), ne è però separato con l’introduzione dell’altra possibilità, quella cioè che il relativo «cessi di dirsi con verità». Mi pare, per contro, che da una simile difficoltà espressiva il testo venga liberato — con l’effetto di conferire maggior scioltezza al pensiero nell’ambito della medesima scansione indicata da Ross —, se si espunge μηδέν, o lo si corregge in μήν, come propenderei a credere. 16. Dunque, non si dà movimento di un movimento perché il movimento non può essere: 1) né il sostrato di un movimento, 2) né il termine finale di un movimento, se non in modo puramente accidentale. 17. L’introduzione di καί tra i due γιγνόμενoν (come recano i codici Laur. 87.7 e Vat. 241) rende — mi sembra — più scorevole il pensiero. Infatti risultano enunciate separatamente le due assurde conseguenze, ossia che la cosa si sarebbe generata solo per qualche aspetto (in ogni caso la contrapposizione con ἁπλῶς richiede di intendere τι come accusativo di relazione e non come concordato con γιγνόμενoν, «qualcosa di generato») e che in senso assoluto essa era già generata. Diversamente il testo suonerebbe: «una cosa generata per qualche aspetto, che era già generata». 18. La lezione τὸ γιγνόμενoν γιγνόμενoν («ciò che si genera come cosa ‹già› generata») appesantisce l’espressione, dicendo una prima volta ciò che viene immediatamente precisato nella temporale. Opto perciò per τo γιγνόμενoν. 19. Secondo la lezione della maggioranza dei codici leggo εἶναί τι. 20. Ossia, il movimento secondo la qualità, la quantità e il luogo. 21. Cfr. 224 b 26-28. 22. Cfr. Metaph., 1020 a 33-34; b 8-9. 23. Sulle qualità affettive cfr. Cat., 8. 24. Secondo la lezione della maggior parte dei codici, alla riga 2 leggo ἡ e alla riga successiva ometto ἣ tra ἐζ ἐναντίoυ e εἰς εναντίoν. 25. Il genitivo (τoῦ δεικτικoῦ) ha chiaramente valore soggettivo: ciò che è capace di accogliere movimento è privato di questo. Tale il senso della frase. 26. Il «luogo primo», come si ricava da Phys., 209 a 33-b 1, è quello nel quale la cosa è direttamente e immediatamente contenuta. Per esempio, la regione di terra o di cielo nella quale essa si trova. 27. Il passo έπεὶ … μεταξύ (127 a 7-10) è stato spostato immediatamente dopo 126 b 23. 28. Il riferimento è ai Pitagorici e ai Platonici, le cui dottrine intorno agli enti matematici sono discusse in Metaph., XIII, 1-3. 29. Si badi che, se i numeri sono consecutivi, non sono però continui, com’è detto in Cat., 6 (ove il numero, assieme al discorso, è annoverato tra le quantità discrete). 30. Cfr. Metaph., 1084 b 25 e la relativa critica alle dottrine platoniche. 31. Cfr. infra, 229 a 27 sgg. 32. Cfr. ante, 224 b 32-35. 33. Mantengo la lezione ἧ dei manoscritti. 34. Alla lezione ἡ δέ mi sembra preferibile ἤ. 35. Cfr. 234 b 10-20. Alla riga 29 leggo ή και (con Carteron) e alla riga 32 accolgo la lezione πή, proposta da Ross. 36. L’ultima parte del capitolo pare essere un’aggiunta posteriore, come indica Simplicio e come sarebbe comprovato dal fatto che né Porfirio né Temistio ne fanno menzione nei loro commentari. Ad avviso di Ross (Commentary, p. 638), si tratta di una sorta di riassunto, O di «versione alternativa» della sezione 230 η 10-28, giacché «di fatto, non contiene niente che in essa non sia già stato detto» e dalle parole di 231 a 2-4 risulta che il capitolo si chiude a questo punto.

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LIBRO SESTO VI, 1 ‹La costituzione del continuo› Se continuo, in contatto e consecutivo sono come si è prima determinato (sono continue le cose i cui estremi costituiscono un’unità, in contatto quelle i cui estremi sono assieme, consecutive quelle tra le quali nulla di congenere è intermedio)1, è impossibile che alcunché di continuo sia costituito da cose indivisibili: per esempio, una linea da punti, se veramente la linea è un continuo, mentre il punto è un indivisibile. Né 25 infatti gli estremi dei punti costituiscono un’unità: giacché di ciò che è indivisibile non vi è da un lato un estremo, da un altro qualche altra parte; né gli estremi sono insieme: infatti, di ciò che non ha parti non esiste nessun estremo. Ché, è diverso l’estremo e ciò di cui è estremo2. Inoltre, è necessario che i punti dai quali è costituito il 30 continuo siano o continui o in contatto tra loro, e il medesimo discorso vale anche per tutte le cose indivisibili. Ora, per la 231 b ragione che s’è detta3, non potrebbero essere continui, e od ogni intero è in contatto con un intero, o una parte con una parte, o una parte con un intero. Ma poiché ciò che è indivisibile è privo di parti, è necessario che come intero sia in contatto con un intero. Ma un intero in contatto con un intero 5 non sarà continuo, giacché ciò che è continuo ha una parte diversa e un’altra diversa, e si divide in ‹parti› in questo modo diverse e separate per il luogo. Ma un punto non sarà neppure consecutivo a un punto, né l’istante all’istante, così che da questi risulti la lunghezza o il tempo. In effetti, sono consecutive le cose in mezzo alle quali non vi è nulla di omogeneo, mentre l’intermedio dei punti è sempre una linea e ‹l’intermedio› degli istanti un tempo4. 10 Inoltre, ‹le cose continue› si dividerebbero in cose indivisibili, se veramente si dividono in quelle dalle quali ciascuna è costituita. Ma, come s’è detto, nessuna delle cose continue è divisibile in cose prive di parti. Ma non è possibile che tra i punti e tra gli istanti vi sia alcun intermedio di genere diverso. Se infatti vi sarà, è chiaro che sarà o indivisibile o divisibile, e, se divisibile, ‹divisibile› 15 o in ‹parti› indivisibili o in ‹parti› sempre divisibili; ma questo è il continuo. Ma è evidente anche che ogni continuo è divisibile in ‹parti› sempre divisibili: ché, se ‹sarà divisibile› in ‹parti› indivisibili, un indivisibile sarà in contatto con un indivisibile. Infatti, 258

l’estremo delle cose continue è unico ed è in contatto. Poiché il criterio è il medesimo, sia la grandezza, sia il tempo, 20 sia il movimento sono composti da ‹parti› indivisibili e si dividono in ‹parti› indivisibili, o non lo è nessuno. È chiaro da queste ‹considerazioni›: se infatti la grandezza è composta da ‹parti› indivisibili, anche il movimento su di essa sarà costituito di uguali movimenti indivisibili: per esempio, se ABC risulta dagli indivisibili A, B, C, il movimento, indicato da DEZ, secondo il quale Ο si muove nell’intervallo ABC, ha 25 ciascuna parte indivisibile. E se, essendo presente il movimento, qualcosa necessariamente si muove e, se qualcosa si muove, è necessariamente presente il movimento, anche il muoversi risulterà da indivisibili. Ora, lungo A, Ο si muove secondo il movimento D, lungo Β secondo il movimento E, lungo C, in pari modo, secondo il movimento Z. Se pertanto ciò che si muove da qui a là è necessario che non contemporaneamente si muova e si sia mosso là dove si muoveva quando 30 si muoveva — per esempio, se qualcuno cammina verso Tebe, è impossibile che contemporaneamente cammini verso Tebe e abbia camminato verso Tebe — e lungo l’‹intervallo› 232 a A, privo di parti, Ο si muoveva in quanto era presente il movimento D, ne consegue che, se l’ha percorso dopo che vi è transitato, ‹il movimento› sarà divisibile (infatti, quando vi transitava né era in quiete né l’aveva percorso, ma era nel mezzo); se invece ciò che cammina, quando cammina, contemporaneamente percorre e ha percorso ‹l’intervallo›, camminerà 5 e si muoverà là dove si muove5. Se poi qualcosa si muove lungo l’intero ‹intervallo› ABC e il movimento secondo il quale si muove è la somma di D, E, Z, e lungo l’intervallo A, privo di parti, niente si muove, ma si è mosso, il movimento non sarà costituito da movimenti, bensì da movimenti compiuti e il fatto che qualcosa si sia mosso si verificherà senza che si muova: ché, ha percorso l’‹intervallo› A senza transitarvi. Di conseguenza sarà 10 possibile che qualcosa abbia fatto un cammino senza fare mai il cammino: giacché ha fatto il cammino di quest’‹intervallo› senza aver fatto il cammino di quest’‹intervallo›. Se dunque ogni cosa di necessità è o in quiete o in movimento, ed è in quiete secondo ciascuno degli ABC, vi sarà, di conseguenza, qualcosa che continuamente è al tempo stesso in quiete e in movimento. Ché, lungo l’intero ‹intervallo› ABC, si muoveva ed era in quiete in qualunque parte, per cui 15 anche in tutto ‹l’intervallo›. Ossia: se gli indivisibili di DEZ sono movimenti, sarà possibile che, pur essendo presente il movimento, ‹qualcosa› non sia in movimento, ma in quiete; se invece non sono movimenti, ‹sarà possibile› che il movimento non sia costituito di 259

movimenti. Similmente che per la grandezza e il movimento, è necessario che anche il tempo sia indivisibile e che sia composto da 20 istanti, che sono indivisibili. Ché, se ogni ‹intervallo› è divisibile, e in un ‹tempo› minore ciò che ha uguale velocità transita su una ‹distanza› minore, anche il tempo sarà divisibile. E se è divisibile il tempo in cui qualcosa si sposta lungo l’‹intervallo› A, anche l’‹intervallo› A sarà divisibile.

VI, 2 ‹Continuo, tempo e intervallo› Poiché ogni grandezza è divisibile in grandezze (infatti si è dimostrato che è impossibile che da indivisibili derivi 25 alcunché di continuo, e ogni grandezza è continua), necessariamente ciò che è più veloce nel tempo uguale si muove per un ‹tragitto› maggiore e nel ‹tempo› minore per un ‹tragitto› uguale, ossia si muove di più nel ‹tempo› minore, come taluni definiscono ciò che è più veloce. Sia infatti ciò che è indicato da A più veloce di ciò che è indicato da B. Poiché dunque il primo è cosa che muta più velocemente, 30 nel tempo in cui A è mutato da C a D, per esempio in ZH, in questo Β non sarà ancora in D, ma sarà indietro; per cui nel tempo uguale ciò che è più veloce compie un percorso maggiore. Ma compie un percorso maggiore anche nel tempo minore, giacché in quello impiegato da A per essere in D, Β è, poniamo, in E, essendo il ‹corpo› più veloce. 232 b Pertanto, poiché A per essere in D ha impiegato tutto il tempo ZH, sarà in Τ in un tempo minore di questo, e poniamo che vi sia nel tempo ZK. Quindi CD, la ‹distanza› che ha percorso A, è maggiore di CE, e il tempo ZK è minore dell’intero ‹tempo› ZH; per cui in un tempo minore compie un percorso maggiore. 5 Da queste ‹considerazioni› è evidente anche che ciò che è più veloce compie il percorso uguale in un tempo minore. Poiché infatti in un ‹tempo› minore percorre un ‹intervallo› maggiore di ciò che è più lento, e, preso per se stesso, percorre in un ‹tempo› maggiore un ‹intervallo› maggiore che in un ‹tempo› minore (per esempio, l’‹intervallo› LM, ‹maggiore› dell’‹intervallo› LS), il tempo PR, nel quale 10 percorre l’‹intervallo› LM, sarà maggiore del ‹tempo› PS, nel quale percorre l’‹intervallo› LS. Di conseguenza, se il tempo PR è minore del ‹tempo› PX, nel quale ciò che è più lento percorre l’‹intervallo› LS, anche il ‹tempo› PS sarà minore di quello indicato da PX. Infatti, è minore del ‹tempo› PR, e ciò che è minore 260

di ciò che minore, è esso stesso minore. Di conseguenza, ‹ciò che è più veloce› si muoverà per un ‹tragitto› uguale in un ‹tempo› minore. Inoltre, se necessariamente ogni cosa si 15 muove o in un ‹tempo› uguale, in uno minore, o in uno maggiore, e ciò ‹che si muove› in un ‹tempo› maggiore è più lento, mentre ciò ‹che si muove› in un ‹tempo› uguale è di pari velocità, e ‹se› ciò che è più veloce non è né di uguale velocità né più lento, ciò che è più veloce non si muoverà né in un ‹tempo› uguale, né in uno maggiore. Resta dunque che ‹si muove› in un ‹tempo› minore, per cui ciò che è più veloce compie necessariamente un percorso di uguale grandezza in un tempo minore6. Poiché ogni movimento ha luogo nel tempo e in ogni 20 tempo è possibile essere in movimento, poiché tutto ciò che si muove è possibile che si muova sia in modo più veloce che in modo più lento, in ogni tempo sarà possibile che si muova ciò che è più veloce e ciò che è più lento. Stanti questi ‹rilievi›, è necessario che anche il tempo sia continuo. Chiamo continuo ciò che è divisibile in ‹parti› sempre divisibili. In effetti, se il25continuo è questo soggetto, è necessario che il tempo sia continuo. Poiché infatti si è dimostrato che ciò che è più veloce in un tempo minore compie un percorso uguale, ciò che è indicato con A sia più veloce, ciò che è indicato con Β più lento, e ciò che è più lento si sia mosso, lungo la grandezza indicata con 30 CD, nel tempo ZH. È chiaro pertanto che, rispetto alla medesima grandezza, ciò che è più veloce si muoverà in un tempo minore di esso; e poniamo che si muove nel ‹tempo› ZT. A sua volta, poiché ciò che è più veloce nel ‹tempo› ZT ha percorso l’intero ‹intervallo› CD, ciò che è più lento nello stesso tempo compie un percorso minore: sarà dunque quello 233 a indicato da CK. E poiché ciò che è più lento, ossia B, nel ‹tempo› ZT ha percorso l’‹intervallo› CK, ciò che è più veloce compie questo percorso in un ‹tempo› minore, cosicché a sua volta il tempo ZT sarà diviso. Ma se questo è diviso, anche la grandezza CK sarà divisa secondo il medesimo criterio. E se lo 5 è la grandezza, lo è anche il tempo. E ciò avrà luogo sempre se dopo ciò che è più veloce si assume ciò che è più lento e dopo ciò che è più lento ciò che è più veloce e ci si serve di quello che si è dimostrato. Infatti, ciò che è più veloce dividerà il tempo, ciò che è più lento la grandezza. Se dunque è sempre vero operare la conversione, e compiendo la conversione 10 si produce sempre una divisione, è evidente che ogni tempo sarà continuo. Al tempo stesso è chiaro che ogni grandezza è continua, giacché il tempo e la grandezza sono divisi ‹secondo› le identiche e uguali divisioni. Inoltre, anche dai ragionamenti che si è soliti proferire è evidente che, se il tempo è continuo, lo è anche la grandezza, 15 se è vero che nella metà del 261

tempo si compie la metà del percorso e, in generale, in un tempo minore ‹si percorre› una ‹grandezza› minore. Ché, le stesse divisioni saranno del tempo e della grandezza. E se uno qualunque dei due è infinito, lo è anche l’altro, e come lo è uno, lo è anche l’altro: per esempio, se il tempo è infinito per gli estremi, anche grandezza lo è per gli estremi; 20 se ‹è infinito› per la divisione, anche la grandezza lo è per la divisione; e se il tempo ‹è infinito› per ambedue le cose, anche la grandezza lo è per ambedue7. Per questo anche il falso ragionamento di Zenone8 assume l’impossibilità di percorrere le cose infinite o di toccare le cose infinite, una per una, in un tempo finito. Infatti, sia la grandezza che il tempo si dicono infiniti in due sensi, e in generale 25 tutto ciò che è continuo: o secondo divisione, o agli estremi. Quindi non è possibile toccare in un tempo finito le cose che sono infinite secondo quantità, mentre è possibile quelle che lo sono secondo divisione. Ché, anche lo stesso tempo è infinito in questo modo. Per cui avviene che nel ‹tempo› infinito e non nel ‹tempo› finito si compia il percorso infinito, e che si 30 tocchino le cose infinite con le cose infinite, non con quelle finite. Pertanto, né è possibile percorrere l’infinito in un tempo finito, né ciò che è finito in un tempo infinito. Ma se il tempo sia infinito, anche la grandezza sarà infinita e se lo sia la grandezza, lo sarà anche il tempo. Sia infatti una grandezza infinita ciò che è indicato con AB, un tempo infinito ciò che lo è 35 con C; e si prenda una ‹parte› finita del tempo, indicata con 233 b CD. In questo ‹tempo› si compie il percorso di una ‹parte› della grandezza, e la ‹parte› percorsa sia indicata con BE. Questa o misurerà ciò che è indicato con AB, o ne sarà inferiore, o ne eccederà: non fa alcuna differenza. Se infatti il epercorso di una grandezza uguale a ΒE si compie sempre in 5 un tempo uguale, e BE misura l’intera ‹grandezza›, ogni tempo in cui la si percorre sarà finito. Ché, sarà diviso in ‹parti› uguali, come anche la grandezza. Inoltre, se non ogni grandezza si percorre in un tempo infinito, ma qualcuna, per esempio BE, si può percorrere anche in un ‹tempo› finito e questa sarà commensurabile col tutto9, 10 anche il percorso uguale si compie in un tempo uguale; per cui, pure il tempo sarà finito. E che il percorso ΒE non si compia in un ‹tempo› infinito, è evidente se si assume il tempo come finito in una delle due ‹direzioni›10. Ché, se la parte si percorre in un ‹tempo› minore, questo è necessariamente finito, giacché in realtà gli appartiene uno dei due limiti. 15 La medesima dimostrazione vale anche se la grandezza è infinita e il 262

tempo finito. Da ciò che si è detto è dunque evidente che né la linea, né la superficie, né in generale alcuna delle cose continue sarà indivisibile, non soltanto per quello che si è ora esposto, ma anche perché ne deriverà che ciò che è indivisibile sia diviso. Poiché in ogni tempo si dà ciò che è più veloce e ciò che è più 20 lento, e ciò che è più veloce in un tempo uguale percorre un ‹tragitto› maggiore, è possibile che ‹esso› compia il percorso di una grandezza sia doppia che mezza. In effetti può essere questa la proporzione del «veloce». Si sposti, dunque, ciò che è più veloce per un tragitto di una volta e mezza in un tempo uguale, e si dividano le grandezze di ciò che è più veloce, 25 indicate con AB, BC e CD, in tre indivisibili, mentre quelle di ciò che è più lento in due, indicate con EZ e ZH. Pertanto anche il 30 tempo sarà diviso in tre ‹parti› indivisibili, giacché in un tempo uguale si compie il percorso uguale. Si divida dunque il tempo in KL, LM e MN. E poiché, a sua volta, ciò che è più lento si è spostato per gli ‹intervalli› EZ e ZH, anche il tempo sarà tagliato in due parti. Dunque si dividerà ciò che è indivisibile, e il percorso di ciò che non ha parti si compie non in un ‹tempo› indivisibile, ma in un ‹tempo› costituito da più parti. È quindi evidente che nessuna delle cose continue è priva di parti.

VI, 3 ‹L’impossibilità di movimento e quiete nell’istante› È necessario anche che l’istante, detto non per altro11, ma per sé e come ‹determinazione› prima, sia indivisibile, e che in ogni tempo sia presente tale istante. Infatti, è un certo 35 estremo del passato, fino al cui limite non vi è nulla del futuro 234 a e, a sua volta, ‹un certo estremo› del futuro, fino al cui limite non vi è nulla del passato. Estremo che, pertanto, dicevamo essere confine per entrambi12. Nell’eventualità che questo sia stato dimostrato, e cioè che ‹l’istante› è tale per se stesso e identico, sarà contemporaneamente evidente anche che è indivisibile. Pertanto è necessario che l’istante, come l’estremo di entrambi i tempi, sia identico. 5 Se infatti fosse diverso, uno non sarebbe consecutivo all’altro, per il fatto che un continuo non è costituito di cose prive di parti; e se ciascuno dei due esiste separatamente, in mezzo vi sarà del tempo, giacché tutto ciò che è continuo è tale che vi è qualcosa di sinonimo in mezzo ai limiti. Ma, se ciò che vi 10 è a mezzo è tempo, sarà continuo, giacché si è dimostrato13 che tutto il tempo è divisibile. Di 263

conseguenza, l’istante ‹sarà› divisibile. E se l’istante è divisibile, qualcosa del passato sarà nel futuro e ‹qualcosa› del futuro nel passato. Infatti, ciò secondo cui sia diviso, delimiterà il tempo passato e il tempo futuro. Contemporaneamente poi l’istante non sarà per sé, 15 ma per altro, giacché la divisione non è per sé14. Inoltre una ‹parte› dell’istante sarà qualcosa di passato, un’altra ‹qualcosa› di futuro, e non sempre il medesimo passato o futuro. Pertanto neppure l’istante ‹sarà› identico, giacché il tempo è divisibile in molti modi. Di conseguenza, se è impossibile che queste ‹condizioni› appartengano all’istante, è necessario che 20 l’istante in ciascuno dei due ‹tempi› sia identico. Ma se è identico, è evidente che è anche indivisibile. Ché, se è divisibile, si avranno le stesse conseguenze che ‹si sono segnalate› anche nella ‹trattazione› precedente. Che dunque vi sia una certa ‹parte› indivisibile nel tempo che diciamo essere l’istante, è chiaro da quanto abbiamo detto. Invece, che nulla si muova nell’istante, è evidente da queste 25 ‹considerazioni›. Infatti, se è possibile ‹che qualcosa si muova›, è possibile che in esso si muova sia più velocemente che più lentamente. Sia pertanto l’istante indicato con Ν e in esso ciò che è più veloce si muova lungo l’‹intervallo› AB. Pertanto ciò che è più lento nello stesso ‹istante› si muoverà per un ‹intervallo› minore di AB: per esempio, AC. E poiché nell’intero istante ciò che è più lento si è 30 mosso lungo l’‹intervallo› AC, ciò che è più veloce si sarà mosso in un ‹tempo› minore di questo. Di conseguenza, l’istante verrà diviso. Ma, come s’è detto, è indivisibile. Pertanto non è possibile che ‹qualcosa› si muova nell’istante. Ma neppure che sia in quiete. Dicevamo, infatti, che è in quiete ciò che per natura è capace di muoversi, anche se non si muove quando, dove e come per natura ‹si muove›. Di conseguenza, poiché nell’istante niente per natura si muove, è chiaro che neppure è in quiete. 35 Inoltre, se l’istante è identico in entrambe le direzioni del 234 b tempo15, ma è possibile che, da un lato, per la sua totalità ‹una cosa› si muova, dall’altro che per la sua totalità sia in quiete, e ciò che si muove per la totalità del tempo si muoverà in qualunque delle ‹parti› di esso secondo la quale si muove per natura, e ciò che è in quiete è in quiete nello stesso modo, avverrà che la stessa cosa sia al contempo in quiete e in movimento: 5 giacché un estremo di entrambi i tempi è identico: l’istante. Inoltre, diciamo che è in quiete ciò che versa in un’uguale condizione — sia esso che le sue parti — adesso e prima; ma nell’istante non esiste il prima; per cui non si è neppure in quiete. Pertanto è necessario che nel tempo e si muova ciò che si muove, e sia in 264

quiete ciò che è in quiete.

VI, 4 ‹La divisibilità dei componenti del movimento› Tutto ciò che muta è necessario che sia indivisibile. Poiché 10 infatti ogni mutamento è da qualcosa verso qualcosa e ‹l’oggetto›, quando sia in ciò verso cui muta, non muta più e d’altro canto, quando sia in ciò a partire da cui muta, sia esso che tutte le sue parti non mutano ancora16 (ché, ciò che versa nella medesima situazione non muta, sia esso che le sue parti), è necessario quindi che una qualche ‹parte› di ciò che muta 15 sia in questo ‹termine del mutamento› e un’altra nell’altro: giacché non è possibile né che sia in entrambi, né in nessuno dei due. Chiamo «ciò verso cui muta» il ‹termine› primo secondo il mutamento: per esempio, muovendo dal bianco, il grigio, non il nero. Infatti non è necessario che ciò che muta sia in uno qualunque degli estremi. È evidente, quindi, che 20 tutto ciò che muta sarà divisibile. Il movimento è divisibile in due modi: in un modo per il tempo, in un altro secondo i movimenti delle parti di ciò che è mosso: per esempio, se AC si muove interamente, si muoveranno anche AB e BC. Ebbene, come movimento delle parti sia DE quello di AB e EZ quello di BC. Pertanto l’intero 25 ‹movimento› indicato con DZ è necessariamente il movimento di AC. Infatti si muoverà secondo questo, se davvero ciascuna delle due parti si muove secondo ciascuno dei due ‹rispettivi movimenti›. Ma niente si muove secondo il movimento di un’altra cosa, per cui l’intero movimento è movimento dell’intera grandezza. Inoltre, se ogni movimento è di qualcosa, e l’intero movimento, 30indicato con DZ, non è ‹movimento› né di nessuna delle due parti (infatti, ciascuno dei due è ‹movimento› di una parte), né di nient’altro (infatti, anche le parti dell’intero, il cui movimento è quello totale, hanno come movimento quello delle parti del movimento totale; ma le parti di DZ sono i movimenti di ABC e di nessun’altra cosa: ché, di più cose non vi è, come abbiamo detto17, un movimento unico), anche l’intero movimento sarà ‹movimento› della grandezza ABC. 35 Inoltre, se vi è un altro movimento dell’intero: per esempio, 235 a uno indicato con TI, da esso sarà eliminato il movimento di ciascuna delle due parti. Questi movimenti saranno uguali a DE e EZ: infatti di una sola cosa vi è un solo movimento. Di conseguenza, se il movimento totale TI si dividerà 265

nei movimenti delle parti, il ‹movimento› TI sarà uguale al ‹movimento› DZ; se invece ‹gli› manca qualcosa, per esempio KI, 5 questo non sarà movimento di niente: in effetti, né lo è del tutto, né delle parti (dal momento che di una sola cosa vi è un solo movimento), né di nient’altro (ché, il movimento continuo è ‹movimento› di alcune cose continue). E così è anche se eccede secondo la divisione. Di conseguenza, se questo è impossibile, il ‹movimento› è necessariamente il medesimo e uguale. Questa è dunque la divisione secondo i movimenti 10 delle parti, ed è necessario che essa sia propria di tutto ciò che è divisibile. Altra è invece ‹la divisione› secondo il tempo. Poiché infatti ogni movimento è nel tempo, e ogni tempo è divisibile, e il movimento è minore in un tempo minore, è necessario che ogni movimento sia divisibile secondo il tempo. E poiché tutto ciò che si muove, si muove in qualcosa e per un certo tempo, e il movimento è proprio di tutto ‹ciò che si muove›, 15 le divisioni del tempo, del movimento, del muoversi, di ciò che si muove e di ciò in cui ha luogo il movimento sono necessariamente le stesse (tranne che non di tutte le cose in cui ha luogo il movimento ‹si determinano› in pari maniera, ma quelle della quantità sono per sé, quelle della qualità per accidente). Si assuma, infatti, il tempo in cui ‹una cosa› si muove come ciò che è indicato con A e il movimento come ciò 20 che è indicato con B. Se dunque ‹la cosa› si è mossa rispetto all’intero ‹movimento› in tutto il tempo, nella metà ‹del tempo si muove› rispetto a un ‹movimento› minore e, venendo questo ‹secondo tempo› diviso a sua volta, rispetto a un ‹movimento› minore di questo ‹secondo movimento›, e così di seguito. In modo simile a come è divisibile il movimento è divisibile anche il tempo: ché, se ‹una cosa si muove› rispetto all’intero ‹movimento› in tutto il tempo, rispetto alla metà ‹del movimento si muove› nella metà ‹del tempo› e, a sua volta, rispetto a un ‹movimento› minore in un ‹tempo› minore. Nello stesso modo si dividerà anche il muoversi. Sia infatti 25 il muoversi indicato con C. ‹Il muoversi› secondo la metà del movimento sarà minore dell’intero ‹muoversi›, e a sua volta secondo la metà della metà, e così via. Anche proponendo il muoversi secondo ciascuno dei due movimenti: per esempio, secondo il ‹movimento› AC e secondo il ‹movimento› CE, è 30 possibile dire che l’intero ‹muoversi› sarà secondo l’intero ‹movimento›. Se infatti è diverso, sarà possibile muoversi di più secondo il medesimo movimento, come abbiamo dimostrato che anche il movimento è divisibile nei movimenti delle parti18. Ché, essendo assunto il muoversi secondo ciascuno dei due ‹movimenti›, l’intero ‹muoversi› sarà continuo. Nello stesso modo si dimostrerà che anche la grandezza è divisibile, e in 266

generale tutto ciò in cui ha luogo il mutamento 35 (tranne che alcune cose lo sono per accidente, poiché divisibile è ciò che muta). Ché, dividendosi un solo ‹componente del movimento›, saranno divisi tutti. Anche a proposito dell’essere ‹le cose in movimento› limitate 235 b o infinite, la situazione sarà uguale per tutti ‹i componenti del movimento›. Ma il dividersi tutte le cose e l’essere infinite sono conseguiti soprattutto da ciò che muta. Infatti, a ciò che muta appartengono immediatamente la divisibilità e l’infinitudine. Ebbene, la divisibilità è stata dimostrata precedentemente19, 5l’infinitudine sarà chiara nelle ‹trattazioni› seguenti20.

VI, 5 ‹I momenti fondamentali del mutamento› Poiché tutto ciò che muta, muta da qualcosa verso qualcosa, è necessario che ciò che è mutato sia, nel momento primo in cui è mutato, in ciò verso cui è mutato. In effetti, ciò che muta si stacca da ciò da cui muta o lo abbandona, e o sono lo 10 stesso «mutare» e «abbandonare», oppure l’abbandonare tien dietro al mutare. Ma se l’abbandonare tien dietro al mutare, l’aver abbandonato tien dietro all’esser mutato, giacché ciascuna delle due ‹determinazioni› si rapporta a ciascuna delle due in modo simile. Poiché dunque uno dei mutamenti è secondo contraddizione, quando ‹una cosa› è mutata dal non-essere all’essere, ha 15 abbandonato il nonessere. Pertanto sarà nell’essere, giacché tutto necessariamente o è o non è. È quindi evidente che nel mutamento secondo contraddizione ciò che è mutato sarà in ciò verso cui è mutato. E se ‹è così› in questo ‹mutamento›, ‹è così› anche negli altri, giacché la situazione è simile nel caso di uno solo e degli altri. Inoltre, è evidente assumendo i movimenti a uno a uno, se 20 davvero ciò che è mutato è necessariamente da qualche parte o in qualcosa. Poiché infatti ha abbandonato ciò da cui è mutato, e necessariamente è da qualche parte, sarà o in questo o in un ’altra cosa. Se dunque è in un’altra cosa: per esempio in C, ciò che è mutato in B, muta a sua volta da C in B: giacché, dicevamo, Β non è contiguo ‹a C›. Infatti, il mutamento è continuo. Di 25 conseguenza, ciò che è mutato, quando è mutato, muta in ciò verso cui è mutato. Ma questo è impossibile. È pertanto necessario che ciò che è mutato sia in ciò verso cui è mutato. È quindi evidente e che ciò che si è generato, quando si è generato, sarà, e che ciò che si è corrotto, non sarà. Ché, lo si è detto in universale riguardo 267

a ogni mutamento, e soprattutto 30 è chiaro in quello secondo contraddizione. Che dunque ciò che è mutato, quando ha attuato il termine primo del mutamento, sia in esso, è chiaro. Ma il termine primo in cui è mutato ciò che è mutato, è necessario che sia indivisibile (dico primo ciò che è tale non per il fatto di esserlo qualcos’altro da esso). Sia infatti AC divisibile, e sia diviso 35 secondo B. Se dunque ‹una cosa› è mutata in AB o, di nuovo, in BC, non sarà mutata in AC come nel ‹termine› primo. Se invece mutasse in entrambi ‹i termini› (infatti è necessario o 236 a che sia mutata o che muti in ciascuno dei due), muterebbe anche nell’intero ‹AC›. Ma, come s’è detto, è mutata. E lo stesso ragionamento ‹vale› anche se in una ‹parte› muta e nell’altra è mutata: infatti, vi sarà qualche ‹termine›21 anteriore al primo. Di conseguenza, non sarà divisibile ciò in cui è 5 mutata. È dunque evidente che tanto ciò che si è corrotto quanto ciò che si è generato si sono, l’uno corrotto, l’altro generato in una cosa indivisibile. Ma «nel termine primo in cui si è attuato il mutamento» si dice in due sensi: uno, «nel termine primo in cui il mutamento è stato portato a compimento» (talvolta, infatti, è vero dire che ‹la cosa› è mutata); l’altro, «nel termine primo in cui ha incominciato a mutare». Il «‹termine› primo» detto secondo il 10 compimento del mutamento sussiste, dunque, ed è. Infatti, è possibile che un mutamento sia stato portato a compimento, e si dà compimento di un mutamento, che peraltro si è anche dimostrato che è indivisibile, per il fatto di essere il limite. Invece il ‹termine› secondo l’inizio non esiste affatto. Ché, non esiste un inizio del mutamento, né un ‹momento› del 15 tempo22 in cui ‹la cosa› mutava come nel momento primo. Sia infatti il ‹momento› primo ciò che si indica con AD. Ebbene, esso non è indivisibile, giacché avverrà che gli istanti siano contigui. Inoltre, se in tutto il tempo CA ‹una cosa› è in quiete (sia posta, infatti, una cosa in quiete), è in quiete anche in A; per cui, se AD è privo di parti, contemporaneamente 20 sarà in quiete e sarà mutata. Ché, in A è in quiete, in D è mutata. Ma poiché ‹AD› non è privo di parti, è necessario che sia divisibile e che ‹la cosa› sia mutata in qualunque delle sue ‹parti›. Venendo infatti diviso AD, se non è mutata in nessuna delle 25 due, non lo è neppure nel tutto; se invece muta in ambedue, ‹muta› anche nel tutto; se poi è mutata in una delle due, non lo è nel tutto come momento primo. Di conseguenza, è necessariamente mutata in qualunque ‹parte›. È pertanto evidente che non esiste il momento primo in cui è mutata, giacché le divisioni sono infinite23. Ora, neppure di ciò che è mutato vi è qualche ‹parte› prima24 che ha 268

compiuto il mutamento. Sia infatti DZ la parte di DE mutata per prima: si è infatti dimostrato che tutto ciò 30 che muta è divisibile. Il tempo in cui DZ è mutato sia indicato con TI. Se dunque DZ è mutato in tutto il ‹tempo›, nella metà vi sarà una ‹parte›25 minore che è mutata anche prima di DZ, e a sua volta un’altra ‹parte che lo è prima› di questa, e un’altra ‹prima› di essa, e così via. Di conseguenza, di ciò che muta non ci sarà nessuna ‹parte› prima che è mutata. 35 Che dunque non vi sia nessun ‹termine› primo né di ciò che muta, né del tempo in cui muta, è evidente da quello che 236 b abbiamo detto. Ma la cosa stessa che muta, o secondo cui ha luogo il mutamento, non verserà più in pari situazione. Tre sono infatti le cose che si dicono secondo il mutamento: ciò che muta, ciò in cui ‹muta› e ciò verso cui ‹muta›: per esempio, l’uomo, il tempo e il bianco. Ora, l’uomo e il tempo sono 5 divisibili, invece riguardo al bianco vale un altro criterio, tranne che, in realtà, tutte ‹queste determinazioni› sono divisibili per accidente. In effetti, ciò di cui il bianco o la qualità è accidente, è divisibile, poiché il ‹termine› primo non sarà neppure in tutte quelle cose che sono dette divisibili per sé e non per accidente: per esempio, nelle grandezze. Sia infatti 10 ciò che si indica con AB una grandezza, e si muova da Β a C come ‹termine› primo: pertanto, se se BC sarà indivisibile, una cosa priva di parti sarà contigua a una cosa priva di parti; se invece è divisibile, ci sarà qualche ‹movimento› anteriore a C, verso il quale è mutato, e un altro a sua volta ‹anteriore› a questo, e così via, per il fatto che la divisione non viene mai meno. Di conseguenza, non ci sarà un ‹termine› 15 primo verso il quale è mutato. E la situazione è simile anche nel caso del mutamento della quantità, giacché anche questo ha luogo in una cosa continua. È evidente, dunque, che soltanto in quello tra i movimenti che è secondo la qualità è possibile che vi sia una cosa indivisibile in sé.

VI, 6 ‹Il mutamento compiuto e i mutamenti in corso› Poiché tutto ciò che muta, muta nel tempo, e si dice che 20 muta nel tempo sia come nel ‹tempo› primo, sia come secondo un altro ‹tempo›26 (per esempio, in un anno, poiché muta nel giorno), ciò che muta è necessario che muti in qualunque ‹parte› del tempo primo in cui muta. Ora, è chiaro anche dalla definizione (così infatti dicevamo ciò che è primo27), ma non di meno è evidente anche dalle seguenti considerazioni. 269

Sia infatti indicato con XR il tempo in cui, come tempo primo, si muove ciò che si muove e sia diviso secondo K. Infatti, tutto il tempo è divisibile. Ebbene, nel tempo XK ‹ciò che si muove› o è in movimento o non è in movimento, e nello stesso modo, a sua volta, nel ‹tempo› KR. Se dunque in nessuno dei due ‹tempi› è in movimento, sarà in quiete in tutto ‹il 30 tempo›: infatti, è impossibile che, pur essendo in movimento, non si muova in nessuna delle sue ‹parti›; se invece è in movimento in una soltanto, non sarà in movimento in XR come nel ‹tempo› primo, giacché il movimento è secondo un altro ‹tempo›. Pertanto è necessario che sia stato in movimento in qualunque ‹parte› di XR. Dimostrato questo, è evidente che tutto ciò che si muove si è necessariamente mosso prima. Se infatti ‹una cosa› in XR 35 come nel tempo primo si è mossa per la grandezza KL, ciò che con uguale velocità e incominciando assieme si muove nella metà ‹del tempo› si sarà mosso rispetto alla metà ‹del tragitto›. 237 a Se dunque ciò che ha uguale velocità si è mosso nello stesso tempo lungo un certo ‹tragitto›, necessariamente anche l’altra cosa si è mossa lungo la stessa grandezza; per cui ciò che si muove si sarà mosso. Inoltre, se diciamo che si è mosso in tutto il tempo XR o, in generale, in qualunque parte del tempo, per il fatto di assumere 5 il suo estremo, ossia un istante (questo è infatti ciò che delimita, e il tempo è l’intermedio degli istanti), si può parimenti dire che si è mosso anche negli altri ‹tempi›. Ma la divisione della metà è un estremo. Di conseguenza, si sarà mosso anche nella metà e, in generale, in una qualsiasi delle parti, giacché sempre, in uno col taglio, si dà un tempo definito 10 dagli istanti. Se dunque tutto il tempo è divisibile, e l’intermedio degli istanti è tempo, tutto ciò che muta si sarà mutato all’infinito. Inoltre, se ciò che muta con continuità e senza corrompersi né cessare il mutamento è necessario o che muti o che sia mutato in una qualunque ‹parte del tempo›, e nell’istante 15 non è possibile mutare, è necessario che sia mutato lungo ciascuno degli istanti. Di conseguenza, se gli istanti sono infiniti, tutto ciò che muta sarà mutato all’infinito. Però non è necessario soltanto che ciò che muta sia mutato, ma è necessario anche che ciò che è mutato muti precedentemente. Infatti, tutto ciò che è mutato da qualcosa a qualcosa, è mutato nel tempo. Sia dunque mutato nell’istante da A a B.20 Ebbene, nel medesimo istante in cui è in A, non è mutato: giacché sarebbe contemporaneamente in A e in Β. Prima infatti si è dimostrato che ciò che è mutato, quando è mutato, non è nel termine primitivo del mutamento28. E se è in un altro, in mezzo vi sarà un tempo, giacché gli istanti, come s’è 25 detto, non sono contigui29. Poiché 270

dunque è mutato nel tempo, e tutto il tempo è divisibile, nella metà ‹del tempo› avrà compiuto un altro mutamento e, di nuovo, nella metà di quest’ultimo un altro, e così via. Di conseguenza, muterà prima ‹d’essere mutato›. Inoltre, nel caso della grandezza ciò che si è detto è più chiaro, per il fatto che la grandezza in cui muta ciò che muta, 30 è continua. Sia, infatti, qualcosa30 mutato da C a D. Pertanto, se CD è indivisibile, una cosa priva di parti sarà contigua a una cosa priva di parti. E poiché questo è impossibile, è necessario che l’intermedio sia una grandezza e sia divisibile all’infinito. Di conseguenza, prima ‹d’essere mutato, quel qualcosa› muta verso grandezze via via intermedie. Pertanto è necessario che tutto ciò che è mutato, in precedenza muti. La stessa dimostrazione ‹si effettua› poi anche tra le cose35 non continue: per esempio, tra i contrari e l’antifasi: assumeremo 237 b infatti il tempo in cui ‹la cosa› è mutata e di nuovo proferiremo gli stessi rilievi. Di conseguenza, è necessario che ciò che è mutato muti e che ciò che muta sia mutato; e anteriormente al mutare si darà l’esser mutato, e anteriormente all’esser mutato 5 il mutare; e non si assumerà mai il primo. Causa di ciò è il fatto che una cosa priva di parti non è contigua a una cosa priva di parti: giacché la divisione procederebbe all’infinito, come nel caso delle linee che aumentano e diminuiscono. È dunque evidente che tanto ciò che si è generato, 10 necessariamente in precedenza si genera, quanto ciò che si genera, necessariamente in precedenza si è generato: ‹così si comportano› tutte le cose che sono divisibili e continue; tuttavia non sempre ciò che si genera, ma talvolta un’altra cosa: per esempio, qualcuna delle sue ‹parti›, come le fondamenta della casa. E similmente è anche nel caso di ciò 15 che si corrompe e si è corrotto: giacché immediatamente in ciò che si genera e in ciò che si corrompe è presente qualcosa d’infinito31, almeno perché è continuo, e non è possibile né che qualcosa si generi senza essersi generato, né che qualcosa si sia generato senza generarsi. E similmente è anche nel caso del corrompersi e dell’essersi corrotto: giacché sempre, prima del corrompersi si darà l’essersi corrotto e prima dell’essersi corrotto il corrompersi. 20 È quindi evidente che, di necessità, ciò che si è generato, in precedenza si genera e ciò che si genera si è generato: giacché ogni grandezza e tutto il tempo sono sempre divisibili. Per cui, nella cosa in cui siano, non possono essere come nella cosa prima.

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VI, 7 ‹La finitezza del movimento› Poiché tutto ciò che si muove, si muove nel tempo, e in un tempo maggiore ‹si muove› lungo una grandezza maggiore, 25 nel tempo infinito è impossibile che si muova lungo un ‹intervallo› finito, non essendo in movimento lungo sempre lo stesso ‹intervallo› e qualcuna delle sue ‹parti›, ma lungo tutto ‹l’intervallo› per tutto ‹il tempo›. Che, dunque, se qualcosa si muova con uguale velocità, è necessario che in un tempo finito si muova lungo ‹un tragitto› finito, è chiaro. Se infatti si assume una parte che misurerà l’intero ‹intervallo›, rispetto all’intero ‹intervallo› il movimento si è compiuto in tanti tempi quanti sono quelli in cui ‹si compie› rispetto a tutte le sue parti; per cui, dal momento che queste sono finite — ciascuna 30 per una quantità e tutte quante per una quantità che ne è il prodotto —, anche il tempo sarà finito. Infatti sarà il prodotto di quanto è il tempo di una parte, moltiplicato per il numero delle parti. Ma anche se non ‹si muove› con uguale velocità, non fa nessuna differenza. Sia infatti ‹la linea› indicata con AB una 35 distanza finita, lungo la quale ha avuto luogo un movimento in un tempo finito, e il tempo finito sia indicato con CD. Ora, 238 a se lungo una delle due ‹parti di AB› il movimento ha necessariamente avuto luogo prima che lungo l’altra (questo è chiaro, giacché nel periodo anteriore e in quello posteriore del tempo il movimento ha avuto luogo lungo una ‹parte› diversa. Sempre, infatti, nel tempo maggiore il movimento avrà avuto luogo lungo una ‹parte› diversa: sia che il mutamento 5 si effettui con velocità uguale, sia con velocità non uguale e, per nulla di meno, sia che il movimento acceleri, sia che deceleri, sia che rimanga costante), ebbene, si prenda una certa ‹parte› della distanza AB, ossia AE, che misurerà l’‹intero› intervallo AB. ‹Il movimento› lungo questa, stante che il ‹tempo› è infinito, si produce in un certo tempo. In un ‹tempo› infinito, infatti, non è possibile, giacché è lungo tutto il ‹tragitto› che ‹si compie› in un ‹tempo› infinito. E di nuovo, se prendo un altro ‹intervallo›, di quantità pari ad AE, ‹il movimento 10 ha luogo› necessariamente in un ‹tempo› finito. E proseguendo nel prendere altri intervalli, poiché non esiste nessuna ‹parte› dell’infinito che ‹li› misurerà (infatti è impossibile che l’infinito si componga di ‹parti› finite, sia uguali che disuguali, per il fatto che le cose finite per quantità e grandezza 15 saranno misurate da una qualche unità e, siano esse uguali o disuguali, sono per nulla di meno definite per la grandezza), mentre la distanza finita è misurata dalle quantità ‹costituenti› AE, lungo AB il movimento avrà luogo 272

in un tempo finito. E nello stesso modo è anche nel caso della quiete32. Di conseguenza, qualcosa che sia lo stesso e uno non è possibile né che si generi, né che si corrompa in un tempo senza fine33. 20 Il medesimo ragionamento ‹mostra› anche che in un tempo finito non è possibile che si producano né un movimento infinito, né una quiete infinita, tanto che una cosa si muova in modo uniforme quanto in modo non uniforme. Ché, presa una certa parte che misurerà l’intero tempo, in questa si percorrerà una certa quantità della grandezza, non l’intera ‹grandezza›: in tutto il ‹tempo›, infatti, ‹si percorre› l’intera 25 ‹grandezza›; e, di nuovo, nel ‹tempo› uguale un’altra ‹grandezza›, e parimenti in ciascuna ‹parte del tempo›, sia essa uguale o non uguale a quella d’inizio: ché, non fa nessuna differenza, purché ciascuna sia finita. È chiaro infatti che, anche se il tempo è eliminato, non sarà eliminato l’infinito, producendosi l’eliminazione come finita sia per la quantità 30 che per il numero di volte. Di conseguenza, in un tempo finito non si percorre l’infinito. E non fa alcuna differenza che la grandezza sia infinita in una direzione o in entrambe. Il ragionamento è infatti lo stesso. Dimostrate queste ‹tesi›, è evidente che neppure è possibile che la grandezza finita percorra l’infinito in un tempo finito, per la medesima ragione. Infatti, nella parte del tempo 35 compie un percorso finito, e in ciascuna nello steso modo; per cui in tutto il ‹tempo compie un percorso› finito. 238b E poiché il finito non percorre l’infinito in un tempo finito, è chiaro che neppure l’infinito ‹percorre› il finito. Ché, se l’infinito ‹percorre› il finito, anche il finito percorre necessariamente l’infinito. In effetti, non fa alcuna differenza che ciò che si muove sia l’uno o l’altro, giacché in entrambi i modi il 5 finito percorre l’infinito. Quando infatti l’infinito, indicato con A, si muove, una certa ‹parte› di esso, per esempio CD, sarà in B, che è finito, e a sua volta un’altra e un’altra ancora, e così di seguito. Di conseguenza avverrà che contemporaneamente l’infinito si sia mosso lungo il finito e che il finito abbia percorso l’infinito. Né infatti è altrimenti possibile, senza dubbio, che l’infinito si sia mosso lungo il finito se non 10 per il fatto che il finito percorre l’infinito, come cosa in movimento o come misurante. Di conseguenza, poiché questo è impossibile, neppure l’infinito percorre il finito. Ma in un tempo finito l’infinito neppure percorre l’infinito. Ché, se percorre l’infinito, percorre anche il finito. Nell’infinito 15 è infatti presente il finito. E , inoltre, la dimostrazione sarà la medesima anche se ‹come infinito› si assume il tempo. 273

Poiché né il finito percorre l’infinito, né l’infinito il finito, né l’infinito si muove lungo l’infinito in un tempo finito, è evidente che in un tempo finito non ci sarà nemmeno un movimento 20 infinito. Che differenza fa, infatti, rendere infinito il movimento o la grandezza? In effetti, è necessario che, se uno o l’altra è infinito, lo sia anche l’altro, giacché ogni traslazione è in un luogo.

VI, 8 ‹Analisi della quiete› Poiché tutto ciò che è naturalmente atto a muoversi è o in movimento 25 o in quiete quando, dove e come è per natura disposto, è necessario che ciò che si arresta, nel momento in cui si arresta, sia in movimento. Se infatti non è in movimento, sarà in quiete; ma non è possibile che entri in quiete ciò che è in quiete. Dimostrato questo, è evidente anche che di necessità si arresta nel tempo: giacché ciò che è in movimento si muove nel tempo, e si è dimostrato34 che ciò che si arresta è in movimento; per cui è necessario che si arresti nel tempo. Inoltre, se nel tempo parliamo di «più veloce» e di «più lento», allora è possibile che si arresti più velocemente e più 30 lentamente. Ma ciò che si arresta, è necessario che si arresti in qualunque ‹parte› del tempo primo in cui si arresta. Ché, diviso il tempo, se non s’arresta in nessuna delle due parti, ‹non s’arresterà› neppure nell’intero; per cui ciò che s’arresta non potrebbe arrestarsi. Se invece ‹s’arresta› in una delle due ‹parti›, 35 non si arresterà nell’intero come tempo primo: giacché in questo si arresta secondo ciascuna ‹parte›, come si è precedentemente detto a proposito di ciò che è in movimento35. E 239 a come ciò che si muove non è nel tempo primo in cui si muove, così neppure ciò che s’arresta è nel tempo primo in cui s’arresta: ché, non si dà una qualche ‹parte› prima né del muoversi né dell’arrestarsi. Sia infatti indicato con AB il ‹tempo› primo in cui ‹una cosa› si arresta. Ebbene, non è possibile che questo sia privo di parti, giacché non si dà movimento in ciò 5 che è privo di parti, per il fatto che una ‹parte› della cosa mossa ha compiuto il movimento, e si è dimostrato che ciò che s’arresta è in movimento. Ma se ‹AB› è divisibile, si arresta in una qualsiasi delle sue parti. Questo infatti si è precedentemente dimostrato36, che s’arresta in una qualsiasi delle parti del tempo primo in 274

cui s’arresta. Poiché dunque il tempo primo in cui si arresta è tempo e non una cosa indivisibile, 10 e ogni tempo è divisibile all’infinito, non ci sarà un tempo primo in cui s’arresta. Ebbene , non c’è neppure un momento primo in cui ciò che è in quiete è in quiete. In effetti, non è in quiete in una cosa priva di parti, per il fatto che non si dà movimento in una cosa indivisibile. Ma in ciò in cui sussiste l’essere in quiete, sussiste anche l’essere in movimento. Parlavamo37 infatti di «essere in quiete» quando non si muove ciò che per natura ne è atto, nel tempo e nella cosa in cui è naturalmente atto ‹a muoversi›38. 15 Inoltre, parlavamo di «essere in quiete» anche quando ‹la cosa› versi ora in una condizione simile a prima39, come se giudicassimo non con un certo ‹termine› unico, ma per lo meno con due; di modo che ciò in cui si attua l’essere in quiete non sarà privo di parti. Ma se è divisibile in parti, sarà tempo, e ‹la cosa› sarà in quiete in una qualsiasi delle sue parti. Infatti, si dimostrerà nel medesimo modo che nei casi precedenti40. Per cui non ci sarà nessun ‹termine› primo. 20 Ne è causa il fatto che ogni cosa è in quiete o in movimento nel tempo, e non esiste un tempo primo, né una grandezza ‹prima›, né, in generale, alcuna cosa continua ‹prima›. Giacché tutto quanto ‹il continuo› è divisibile in parti all’infinito. Poiché tutto ciò che si muove, si muove nel tempo e muta da qualcosa verso qualcosa, nel tempo in cui si muove per sé e non in una delle parti che sono in esso, in quel tempo è 25 impossibile che ciò che si muove sia secondo una certa ‹condizione› prima41. Infatti, l’essere in quiete consiste nell’essere nella medesima ‹condizione› per un certo tempo, sia la cosa che ciascuna delle ‹sue› parti. In questo senso, infatti, parliamo di «essere in quiete», quando in uno e in un altro degli istanti sia vero dire che tanto la cosa quanto le sue parti sono nella medesima ‹condizione›. E se l’essere in quiete è questo, non è possibile che ciò che muta sia tutto intero secondo una 30 certa ‹condizione› lungo il tempo primo. Infatti, tutto il tempo è divisibile, per cui in una e in un’altra parte di esso sarà vero dire che tanto la cosa che le sue parti sono nella medesima ‹condizione›. Ché, se non è così, ma lo è in un solo degli istanti, non sarà in nessun tempo secondo una certa condizione, ma secondo il limite del tempo. E se nell’istante è sempre 35 stabile secondo una certa condizione, non è tuttavia in quiete. 239 b Ché, nell’istante non è possibile essere né in movimento né in quiete, ma è vero che nell’istante non si è in movimento e si è secondo una certa ‹condizione›, mentre nel tempo non è possibile essere conformi a ciò che è in quiete: giacché avviene che sia in quiete ciò che si sposta. 275

VI, 9 ‹Aporie sul movimento› 5 Zenone commette un paralogismo: se infatti — egli dice — ogni cosa è o in quiete o in movimento, ed è in quiete quando sia in un uguale luogo, e ciò che si sposta è sempre in un istante, la freccia, come cosa soggetta a movimento, è immobile. Ma questo è falso, giacché il tempo non è composto dagli istanti che sono indivisibili, come neppure nessun’altra grandezza. 10 Vi sono quattro argomenti di Zenone sul movimento che procurano fastidi a chi li scioglie: il primo concerne il non essere in movimento perché, prima di ‹giungere› alla fine, ciò che è in movimento deve giungere al punto di mezzo; argomento del quale abbiamo trattato nei ragionamenti precedenti42. 15 Il secondo è quello che invoca Achille. Si tratta di quest’‹argomento›: che ciò che è il più lento nella corsa non sarà mai raggiunto da ciò che è il più veloce. Infatti, ciò che lo insegue, prima deve necessariamente arrivare nel punto da cui ha mosso ciò che fugge, cosicché ciò che è più lento ha necessariamente un certo ‹spazio› di più. Anche questo è il medesimo argomento di quello del dicotomizzare, ma differisce 20 nel fatto di dividere non per due la grandezza assunta in più. Dall’argomento è sì derivata la conclusione che ciò che è più lento non viene dunque raggiunto, ma essa si produce per la stessa ragione della dicotomia (ché, in entrambi ‹i ragionamenti› si ha come conclusione di non giungere al limite, se la grandezza è in qualche modo divisa; ma in questo si pone in più che, nell’inseguire il più lento, ‹non vi giunge› neppure 25 quello che è enfaticamente detto il più veloce); per cui anche la soluzione è necessariamente la stessa. Ma il pensare che ciò che sta davanti non viene raggiunto, è falso: quando infatti sta davanti non viene raggiunto; ma tuttavia viene raggiunto, se si concederà che percorre la linea finita. 30 Questi sono dunque i due argomenti; un terzo è quello ora esposto: che la freccia, in quanto soggetta a movimento, sta ferma. Ma si ha questa conclusione in conseguenza del supporre che il tempo sia composto dagli istanti: ché, se non si concede questo, il sillogismo non avrà luogo.

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Esordio del commento di Averroè alla Fisica, nell’edizione dei Libri Physicarum octo cum... epitomntis hactenus non impressis (Pavia, per Jacob Paucidrapium, 1524).

Il quarto concerne le masse uguali che si muovono nello stadio in senso contrario lungo masse uguali: le une dalla fine dello stadio, le altre dal mezzo, con uguale velocità; argomento 35 nel quale pensa che la conclusione sia che la metà del tempo 240 a è uguale al doppio. Ma si tratta del paralogismo in cui si pensa che l’uguale grandezza si sposta nel tempo uguale e con la velocità uguale per un verso lungo una cosa in movimento, per un altro lungo una in quiete. Ma questo è falso. Ci siano, per esempio, delle masse uguali, indicate con AA, che 5 stanno ferme; delle altre, indicate con BB, che iniziano ‹a muoversi› dal mezzo delle A, essendo uguali a queste per il numero e la grandezza; altre ancora, indicate con CC, ‹che 277

muovono› dall’estremo, essendo uguali a queste per il numero e per la grandezza e di velocità uguale alle B. Ora, avviene che il primo Β sia nell’estremo contemporaneamente al 10 primo C, muovendosi l’uno a fianco dell’altro. E avviene che C abbia compiuto il percorso lungo tutti i B, e che i Β ‹lo abbiano compiuto› lungo la metà degli A. Per cui il tempo è la metà, giacché ciascun ‹tempo› è uguale in conseguenza di ciascuna ‹massa›. Ma contemporaneamente avviene che i Β siano scorsi lungo tutti i C: infatti il primo C e il primo Β saranno contemporaneamente agli estremi opposti, essendo il tempo 15 lungo ciascuno dei Β uguale a quanto ‹è trascorso› lungo ciascuno degli A, come egli afferma, per il fatto che entrambi passano per un tempo uguale lungo gli A. Il ragionamento è dunque questo, ma accade che sia falso, in conseguenza di ciò che s’è detto. Neppure, poi, nel mutamento che ha luogo nella contraddizione vi sarà alcuna ‹situazione› che per noi sia impossibile: 20 stragrande maggioranzpaer esempio che, se ‹una cosa› muta dal non bianco al bianco e non è in nessuno dei due, allora non sarà né bianca né non bianca. Ché, se non è tutt’intera nell’una o nell’altra ‹determinazione›, non ‹per questo› non sarà assunta come bianca o non bianca. Infatti, la diciamo bianca o non bianca non per il fatto di essere interamente tale, ma per il fatto che lo è la 25 stragrande maggioranza delle sue parti, o quelle più importanti. E non sono la stessa cosa non essere in questo e non essere interamente in questo. Una situazione simile si verifica sia nel caso dell’essere che in quello del non-essere e delle altre ‹determinazioni› che sono secondo contraddizione. Ché, ‹la cosa› sarà di necessità in uno dei due opposti, mentre come intero non sarà in nessuno dei due, sempre. 30 A loro volta, nel caso del cerchio e della sfera e, complessivamente, delle cose che si muovono su se stesse, ‹si può opporre› che si avrà come conseguenza che esse sono in quiete. Ché, sia esse che le loro parti saranno per un certo tempo 240 b nel medesimo luogo, per cui saranno contemporaneamente in quiete e in movimento. Ma, innanzitutto, le parti non sono nel medesimo luogo, in nessun tempo, e poi anche come intero ‹la cosa› muta sempre in un altro luogo. In effetti, non è la stessa la circonferenza che si assume da A, quella che si assume da B, da C e da ciascuno degli altri punti, tranne che come l’uomo musico è anche uomo, poiché è accidentale43. 5 Di conseguenza, una circonferenza muta sempre verso un’altra, e non sarà mai in quiete. E nello stesso modo è sia nel caso della sfera che delle altre cose che si muovono su di se stesse.

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VI, 10 ‹Impossibilità del movimento dell ’indivisibile e del movimento infinito› Dimostrati questi punti, diciamo che ciò che è privo di parti non è possibile che si muova, tranne che per accidente: 10 per esempio, se si muove il corpo o la grandezza nella quale è presente, come se ciò che è sulla nave si muovesse dalla traslazione della nave, o la parte col movimento del tutto. Chiamo «privo di parti» ciò che è indivisibile secondo quantità. Infatti i movimenti delle parti sono diversi a seconda che le parti siano considerate per se stessero secondo il movimento dell’intero. Si può vedere la differenza soprattutto nel caso 15 della sfera: ché, non sarà identica la velocità delle ‹parti› presso il centro, di quelle esterne e dell’intera ‹sfera›, poiché non si tratta di un solo movimento. Come dunque abbiamo detto, ciò che è privo di parti è possibile che si muova al modo di chi è seduto sulla nave mentre la nave compie il suo percorso, ma per sé non è possibile. 20 Muti, infatti, da AB verso BC: sia da una grandezza in una grandezza, sia da una forma in una forma, sia secondo contraddizione; e il tempo primo in cui muta sia indicato con D. Pertanto è necessario che la cosa, lungo il tempo in cui si compie il mutamento, sia o in AB o in BC, oppure che una ‹parte› di essa sia in questo punto, un’altra in un altro: infatti, 25 tutto ciò che muta si trova in questa condizione44. Dunque, una certa ‹parte› di esso non sarà in ciascuno dei due, giacché non sarebbe divisibile in parti. Ma non ‹sarà› neppure in BC, giacché sarà ‹già› mutato, mentre si è supposto che muta. Non resta quindi che esso sia in AB, lungo il tempo in cui si compie il mutamento. Pertanto sarà in quiete: infatti, l’essere 30 nello stesso luogo per un certo tempo è essere in quiete, come abbiamo detto45. Di conseguenza non è possibile che ciò che è privo di parti si muova né, in generale, che muti. Ché, in un solo modo il suo movimento sarebbe così: se il tempo fosse costituito dagli istanti. Sempre, infatti, si sarebbe mosso o sarebbe mutato nell’istante, per cui non è mai in movimento, 241 a ma lo è sempre stato. E che questo sia impossibile, si è mostrato anche prima46: né, infatti, il tempo è costituito dagli istanti, né la linea da punti, né il movimento da movimenti compiuti. Infatti, chi sostiene questo non fa nient’altro che ‹affermare› che il movimento è costituito da cose prive di 5 parti, come se il tempo lo fosse dagli istanti o la grandezza da punti. Inoltre, anche da queste ‹considerazioni› è evidente che né il punto, né alcun’altra cosa indivisibile può muoversi. Infatti, tutto ciò che si muove è 279

impossibile che anteriormente si muova lungo un ‹tragitto› maggiore di se stesso, ossia prima che ‹si sia mosso› lungo ‹un tragitto› uguale o minore. Ora, se 10 vale questo, è evidente che anche il punto si sarà mosso innanzitutto lungo un ‹tragitto› minore o uguale. Ma poiché è indivisibile, è impossibile che prima si sia mosso lungo un ‹tragitto› minore. Pertanto ‹si sarà mosso› lungo un ‹intervallo› uguale a se stesso. Di conseguenza, la linea sarà costituita da punti: giacché il punto, muovendosi sempre lungo un ‹intervallo› uguale ‹a se stesso›, misurerà l’intera linea. Ma se questo è impossibile, è impossibile anche che l’indivisibile si muova. 15 Inoltre, se ogni cosa si muove nel tempo e nulla ‹si muove› nell’istante, e tutto quanto il tempo è divisibile, per qualunque cosa in movimento ci sarà un certo tempo minore in cui essa si muove per una quantità. In effetti, questo tempo nel quale si muove esisterà per il fatto che ogni cosa si muove nel tempo, e prima si è dimostrato che il tempo è indivisibile47. 20 Se pertanto il punto si muove, ci sarà un tempo minore nel quale questo si è mosso. Ma è impossibile, giacché nel tempo minore si muove necessariamente per un ‹tragitto› minore; per cui ciò che è indivisibile sarà divisibile in ciò che è più piccolo, come anche il tempo lo è nel tempo. In effetti, in un solo modo potrebbe muoversi ciò che è privo di parti e indivisibile: se a ciò che è indivisibile fosse possibile muoversi 25 nell’istante. Infatti, è proprio dello stesso ragionamento che vi sia movimento nell’istante e che qualcosa di indivisibile si muova. Ma nessun mutamento è infinito, giacché, come si diceva48, ognuno è da qualcosa verso qualcosa: sia quello che si attua nella contraddizione, sia quello che si attua tra i contrari. Di conseguenza, l’affermazione e la negazione sono il limite dei mutamenti secondo contraddizione: per esempio, della generazione l’essere, della corruzione il non-essere. 30 Invece ‹il limite› dei mutamenti che hanno luogo tra i contrari sono i contrari, giacché questi sono estremi del mutamento. Di conseguenza, anche di ogni alterazione: giacché l’alterazione procede da certi contrari. E similmente anche dell’aumento e della diminuzione: in effetti, limite dell’aumento è la grandezza della cosa perfetta secondo la sua propria natura, 241 b mentre della diminuzione la perdita di questa ‹condizione›. Ma così la traslazione non sarà finita: giacché non ogni ‹traslazione› ha luogo tra i contrari. Ma poiché ciò che non può esser stato tagliato in questo modo, per il fatto che non è possibile che sia stato tagliato (infatti, l’impossibile si dice in 5 più sensi49), non è possibile che sia tagliato — esso che non può ‹essere tagliato› in questo modo —, neppure, in generale, può prodursi ciò che non può essersi prodotto, né ciò che non può mutare 280

potrebbe mutare in ciò in cui non può mutare. Se dunque ciò che si sposta muti in qualcosa, sarà anche possibile che muti. Di conseguenza, il movimento non è infinito, né 10 ci si sposterà lungo un ‹intervallo› infinito: giacché è impossibile percorrerlo. Che dunque non vi sia un mutamento così infinito da non esser determinato con dei limiti, è evidente. Ma bisogna indagare se può esserlo così che, pur essendo identico e uno, sia infinito per il tempo. Se infatti non si produce come unico, niente, senza dubbio, l’impedisce: per15 esempio, se assieme alla traslazione20 abbia luogo un’alterazione, e assieme alla traslazione un aumento, e a sua volta una generazione. Così, in effetti, per il tempo avrà sempre luogo un movimento, ma non sarà un ‹movimento› unico, perché non è unico componendosi di tutte quante le cose. Di conseguenza, se è possibile che sia unico, non è però possibile che sia infinito per il tempo, tranne uno: e questo è la traslazione circolare. 1. Cfr. 226 b 23; 34-227 a 1; 227 a 10-13. 2. Cfr. 228 a 20-26. 3. Cfr. 231 a 26-29. 4. Dunque, essendo la linea limitata dai punti e il tempo dagli istanti, intermedi di punti e istanti sono anche punti e istanti, ossia entità omogenee. Che la linea non sia costituita di punti, ma di linee (di segmenti) e il tempo non di istanti, ma di tempi, mentre punti e istanti sono limiti rispettivamente della linea e del tempo, costituisce uno dei capisaldi della dottrina aristotelica delle grandezze e del tempo. Cfr. a riguardo ante, 227 a 27 sgg. 5. Cfr. 231 a 30. Alla riga 30 leggo τις, più confacente di τι rispetto al tipo d’azione espresso da βαδίζει (quantunque alla riga 232 a 4 compaia τό βαδίζoν). 6. Viene dunque asserito che (1) ciò che è più veloce si muove nel tempo uguale per un tragitto maggiore, (2) nel tempo minore per un tragitto uguale, (3) nel tempo ancora minore per un tragitto minore. Infatti, (1) se A è più veloce di B, poiché una cosa più veloce di un’altra muta prima di questa, nel tempo ZH in cui A muta da C a D, Β sarà in un punto E anteriore a D; cosicché la tesi risulta provata. (3) Se A è in E quando Β è in D, poiché raggiunge D nell’intero tempo ZH, raggiungerà Τ nel tempo più breve ZK. Pertanto CT è maggiore di CE, ma il tempo ZK è lo stesso. (2) Prima dimostrazione: A percorre una distanza maggiore di Β in un tempo minore, ma percorre una distanza maggiore (LM) in un tempo (PR) maggiore di quello (PS) nel quale percorre una distanza minore (LS). Per cui, se PR è minore del tempo X, in cui Β percorre LS, anche PS sarà minore di X. Seconda dimostrazione: ogni oggetto può muoversi in un tempo o maggiore, o uguale, o minore di quello in cui si muove un altro oggetto; ma ciò che si muove in un tempo maggiore è più lento, ciò che si muove in un tempo uguale è equiveloce e ciò che è più veloce né è equiveloce, né è più lento. Di conseguenza, non può muoversi in un tempo né uguale né maggiore; per cui deve muoversi in un tempo minore. 7. Queste, dunque, le tre tesi e le relative dimostrazioni: (1) che il tempo è continuo (intendendo per continuo ciò che è divisibile in parti sempre divisibili), (2) che ogni grandezza è continua e (3) (a) se uno dei due — il tempo o la grandezza — è infinito, lo è anche l’altro e (b) nel modo in cui lo è l’uno, lo è anche l’altro (se il tempo è infinito agli estremi, o per divisione o per entrambi, anche la grandezza è infinita agli estremi, per divisione o per entrambi). Infatti, (τ) poiché ciò che è più veloce percorre un’uguale distanza in un tempo più breve, se A è più veloce e Β più lento, A percorrerà la stessa distanza CD, che Β percorre nel

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tempo ZH, nel tempo inferiore ZT. In questo stesso tempo ZT, Β percorrerà la distanza CK, minore di CD. A sua volta A precorrerà la distanza CK in un tempo minore di ZT, e così via, continuando il tempo e la distanza a essere divisi secondo lo stesso criterio, giacché continuamente ciò che è più veloce può convertirsi con ciò che è più lento e questo con quello, e il più veloce divide il tempo, il più lento la distanza. Ma se vale che tempo e distanza si convertono e la conversione produce divisione, il tempo è continuo. (2) Poiché il tempo è continuo, lo è anche la grandezza, giacché è divisa con lo stesso numero di divisioni e se ne percorre una parte minore in un tempo minore. (3) Per questi motivi vale anche la terza tesi. 8. Si tratta del paradosso della «dicotomia», che Aristotele espone in 239 b 11-14. In proposito cfr. anche 263 a 4-15. 9. Nel ragionamento si suppone che ΒE sia parte di un’intera grandezza. 10. Ossia, all’origine o al termine. 11. Ossia, secondo il limite, determinazione che ha in comune con il punto. 12. Cfr. 222 a 10 sgg. 13. Nel cap. precedente. 14. La divisione, infatti, non costituisce il «per sé» dell’istante, che è dato invece dal suo essere un limite. Dunque, nel pensare l’istante come divisibile, ossia secondo divisione, lo si assume «per altro», non «per sé». 15. Ossia il passato e il futuro. 16. La proposta di Ross di correggere la lezione oυ dei manoscritti in oύπω migliora sicuramente il testo, in quanto dà espressa correlazione all’oὐκέτι precedente. 17. Cfr. 228 b 1 sgg. 18. Cfr. 234 b 2 1-235 a 10. 19. Cfr. 234 b 10-20. 20. Cfr. il cap. 6 di questo libro. 21. Ossia BC. 22. Nel caso del tempo, in «termine» è in realtà un «momento». 23. Il ragionamento di Aristotele è il seguente: si ponga che il momento in cui una cosa ha iniziato a mutare è AD. Ebbene, esso non e indivisibile, ossia privo di parti, (a) perché in tal caso i suoi istanti dorrebbero essere contigui; (b) inoltre, se la cosa è in quiete nell’intero tempo CA, è in quiete anche in A; per cui, se AD non ha parti, essa sarà assieme in quiete e mutata, dal momento che in A è in quiete e in D è mutata. Poiché dunque AD non è privo di parti, dev’essere divisibile, e la cosa muta necessariamente in ciascuna di tali parti: ché, quando AD è diviso, (a) se essa non è mutata in nessuna parte, non lo è neppure nel tutto; (b) se muta in entrambe le parti, muta anche nel tutto; (c) se è mutata in una parte soltanto, il suo mutamento nel tutto non è nel momento primo. Di conseguenza, la cosa dev’essere mutata in ogni parte, cosicché non si dà un momento in cui essa era già mutata prima, perché la divisione di AD procede all’infinito. Così ha interpretato la maggior parte degli studiosi. Ross invece, eliminando, alla riga 236 a 24, la virgola tra μεταβάλλει e καί, legge nel modo seguente: «se invece muta in ambedue, ossia nel tutto, e se è mutata in una delle due, non lo è nel tutto come nel momento primo» (assegnando in tal modo a «se … tutto» e a «e se …» valore di protasi che conducono alla stessa apodosi «non … primo». Cfr. Commentary, p. 650). 24. Il termine primo, nel caso dell’oggetto, è «parte». 25. Accolgo la proposta di Ross di leggere τι in luogo di τό dei manoscritti («ciò che, minore, è mutato ecc.»). 26. Analoghe distinzioni sono state fatte riguardo allo spazio. Cfr. 209 a 31-b 1. 27. Cfr. 235 b 33. 28. Cfr. 235 b 6 sgg. 29. In quanto — ricordiamolo — non hanno parti, sono cioè indivisibili, e ciò che non ha parti non può essere contiguo. 30. Con Ross, seguo la lezione τι.

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31. In effetti, continuando a dividere si aumenta sempre ciò che è stato diviso e si diminuisce sempre ciò che resta da dividere. 32. Infatti, come spiega CARTERON (vol. II, p. 57), essa è il termine di un movimento, e soltanto un processo finito non può attuarsi in un tempo infinito. 33. Tale il significato di αεί. Trattandosi, infatti, di una cosa finita, anche la sua generazione e la sua corruzione sono finite e dunque la loro durata non può essere senza fine. 34. Cfr. 238 b 31-36. 35. Cfr. 236 b 31. 36. Cfr. 238 b 31-36. 37. Cfr. 226 b 12-15. 38. Cfr. 221 b 12 sgg.; 226 b 12-16. 39. Cfr. 234 b 6 sgg. 40. Ossia, nel caso di ciò che è in movimento (cfr. VI, 6) e nel caso di ciò che si arresta (cfr. 238 b 31-36). 41. Per esempio, si può rilevare con CARTERON (vol. II, p. 60), che sia in movimento in uno spazio esattamente uguale a quello che occupa il mobile. 42. Cfr. 233 a 21-31. 43. Insomma i cerchi AA, BB e CC sono identici soltanto in senso accidentale, ossia soltanto nel senso per cui tutti sono cerchi. 44. Cfr. 234 b 10-17. 45. Cfr. 239 a 26-29. 46. Cfr. 237 a 17-b 22. 47. Cfr. 232 b 33-233 a 10. 48. Cfr. 234 a 1; b 11. 49. Cfr. Metaph., 1019 b 15 sgg.

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LIBRO SETTIMO VII, 1 〈Dimostrazione dell’esistenza del primo motore〉 (Redazione di base)1 Tutto ciò che è mosso, è necessariamente mosso da; 35 qualcosa: infatti, se non ha in 25 se stesso il principio del movimento, è evidente che è mosso da altro; in effetti, il motore sarà un’altra cosa. Se invece l’ha in se stesso, sia stata assunta2 una cosa, indicata con AB, la quale si muove da sé3, ma non per il fatto che si muove qualcuna dellesue 〈parti〉4. In primo luogo, dunque, il supporre che AB 40 si muove da se stesso per il fatto che si muove nella sua totalità e non è mosso da nessuna delle cose esterne, è come se, KL muovendo LM ed essendo esso mosso, si negasse che KM è 35 mosso da qualcosa per il fatto che non è evidente quale dei due è il motore e quale il mosso. In secondo luogo, ciò che non è mosso da qualcosa non 242 a necessariamente cessa di muoversi per il fatto che un’altra cosa è in quiete, ma se qualcosa è in quiete per il fatto che un’altra cosa ha cessato di muoversi, esso è necessariamente mosso da qualcosa. Assunto questo, tutto ciò che si muove sarà mosso da qualcosa. In effetti, poiché si è assunto che la cosa indicata con AB si muove5, essa è necessariamente divisibile: 40 giacché tutto ciò che si muove è divisibile6. Ebbene, lo si divida secondo C. Ora, se CB non si muove, AB non sarà mosso. Ché, se si muoverà, è chiaro che AC può muoversi anche se CB è in quiete; per cui non sarà mosso per sé e innanzitutto. Ma si è supposto che si muove per sé e per primo. Pertanto è 45 necessario che, se CB non è mosso, AB sia in quiete. Ma ciò che, se qualcosa non è mosso, è in quiete, si conviene che è mosso da qualcosa. Di conseguenza, tutto ciò che si muove, è necessariamente mosso da qualcosa: giacché sempre ciò che si muove sarà divisibile, e se la parte non è mossa, anche il tutto è necessariamente in quiete. Poiché tutto ciò che è mosso, 50 è necessariamente mosso da qualcosa, se qualcosa sia mosso secondo il movimento locale7 da un’altra cosa che si muove, e a sua volta il motore è mosso da altro, che si muove, e questo è 284

mosso da un’altra cosa, e così via, è necessario che ci sia il motore primo e che non si proceda all’infinito. Si supponga, infatti, che non sia così, ma che si abbia una 〈serie〉 infinita. Ebbene,55 A sia mosso da Β, Β da C, C da D, e sempre ciò che è contiguo da ciò che gli è contiguo. Poiché dunque si suppone che il motore muove essendo mosso, è necessario che il movimento di ciò che è mosso e il movimento di ciò che muove si producano assieme: giacché contemporaneamente il motore muove e ciò che viene mosso è mosso. 60 È 〈dunque〉 evidente che il movimento di A, di B, di C e di ciascuno dei motori e delle cose mosse sarà contemporaneo. Si assuma dunque il movimento di ciascuno e sia indicato con E quello di A, con Ζ quello di B, con HT quello dei CD: ché, se ciascuno è sempre mosso da ciascuno, 65 tuttavia sarà possibile assumere il movimento di ciascuno come uno per il numero. Infatti, ogni movimento è da qualcosa verso qualcosa, e non è infinito agli estremi. 35 242b Dico che è uno per numero il movimento che si produce da una cosa identica verso una cosa identica per il numero, nel tempo identico per il numero. Infatti, un movimento è identico sia per genere, 35 sia per specie, sia per 242 b numero: per genere, quello della stessa categoria: per esempio, dellasostanzaodellaqualità; per specie, quello che procede da una cosa identica per la specie verso una cosa identica per la specie: per esempio, dal bianco al nero o dal buono al cattivo, se 〈queste determinazioni〉 siano indifferenti per la specie; per numero, quello che procede da una cosa una per il numero verso una cosa una per il numero nel medesimo tempo: per esempio, da questo bianco qui verso questo nero qui, 40 o da questo luogo qui verso questo luogo qui, in questo tempo qui. Ché, se è in un tempo diverso, non vi sarà più un movimento unitario per numero, ma per specie. Si è parlato di questi 〈argomenti〉 nelle precedenti trattazioni8. 45 Sia stato preso il tempo in cui A si è mosso secondo il proprio movimento, e sia indicato con K. Poiché il movimento di A è finito, anche il 45 tempo sarà finito. Ora, poiché i motori e le cose mosse sono infiniti, anche il movimento EZHT, che è costituito da tutti quanti, sarà infinito. Infatti, è possibile che il movimento di A, di Β e quello degli altri sia uguale, ma è possibile che alcuni siano maggiori degli altri9; per cui, tanto se sono sempre uguali, tanto se sono maggiori, in entrambi i casi il 〈movimento〉 50 totale è infinito; infatti, assumiamo ciò che è possibile10. E poiché A e ciascuno degli altri si muovono contemporaneamente, il movimento totale avrà luogo nello stesso tempo di quello di A. Ma quello di A ha luogo in un tempo finito. Di conseguenza, il 〈movimento〉 infinito avrà luogo in un 285

tempo finito. Ma ciò è impossibile11. 55 In questo modo sembrerà che il punto iniziale12 sia stato dimostrato. Ma non è dimostrato, 55 per il fatto che non è dimostrato nulla d’impossibile. Infatti, è possibile che in un tempo finito abbia luogo un movimento infinito: non di una sola cosa, ma di molte. Il che avviene anche in questi casi: in effetti, ciascuna cosa si muove del proprio movimento e non è impossibile che molte si muovano contemporaneamente. Ma se ciò che muove primariamente secondo un luogo e 60 un movimento corporeo è necessariamente o in contatto o continuo con ciò che è mosso14, come osserviamo in tutti i casi, è necessario che le cose mosse e i motori siano continui o in contatto tra loro; per cui da tutti quanti risulta alcunché di uno. E che questo sia finito o infinito, non ha alcuna importanza per il momento: 65 giacché in ogni caso il movimento sarà infinito, essendoci cose infinite, se davvero è possibile che 〈i movimenti〉 siano uguali o maggiori gli uni degli altri. In effetti, ciò che è possibile, lo assumiamo come reale15. Se dunque ciò che è costituito dagli ABCD è qualcosa 〈o di finito o〉 d’infinito16, e si muove secondo il movimento EZHT nel tempo K, e questo è finito, avviene che 70 una cosa infinita in un tempo finito percorra o il finito o l’infìnito. Ma in entrambi i casi è impossibile17. Di conseguenza, è necessario arrestarsi e che si diano un motore primo e un 〈primo〉 mosso. Ché, non ha alcuna importanza il fatto che 30 l’impossibile derivi da un’ipotesi: 343 a giacché l’ipotesi è stata assunta come possibile, e quando si pone il possibile, s’addice che nulla d’impossibile si produca in forza di esso19. (Altra redazione) Tutto ciò che è mosso, è necessariamente mosso da qualcosa: infatti, se non ha in se stesso il principio del movimento, è evidente che è mosso da altro; in effetti, il motore sarà un’altra cosa. Se invece l’ha in se stesso, sia stata assunta una cosa, indicata con AB, la quale si muove non per il fatto che si muove qualcuna delle sue 〈parti〉. In primo luogo, dunque, il supporre che AB si muove da se stesso per il fatto che si muove nella sua totalità e non è mosso da nessuna delle cose esterne, è come se, 30 DE muovendo EZ ed essendo esso mosso, si supponesse che DEZ è mosso da se stesso, per il fatto di non vedere assieme quale dei due è mosso dall’altro: se DE da EZ o EZ da DE. In secondo luogo, ciò che è mosso da se stesso 242 a non cesserà mai di muoversi per il fatto che qualcos’altro che prima si 286

muoveva s’è arrestato. Pertanto, se qualcosa cessa di muoversi perché qualcos’altro s’è arrestato, quella cosa è necessariamente mossa da altro. Quando questo diviene evidente, è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da qualcosa. Poiché 5 infatti si è assunto che AB si muove, sarà divisibile: giacché — si diceva — tutto ciò che si muove è divisibile. Sia dunque diviso secondo C. Ora, se CB è in quiete, è necessariamente in quiete anche AB. Ché, altrimenti, si assuma che è in movimento. Pertanto, mentre CB è in quiete, CA sarà in movimento. Quindi AB non si muove 10 da sé. Ma si è supposto che si muove per sé come cosa prima. È quindi chiaro che, se CB è in quiete, sarà in quiete anche BA, e in un certo tempo cesserà di muoversi. Ma se qualcosa si arresta e cessa di muoversi perché un’altra cosa è in quiete, questa cosa è mossa da altro. Pertanto è evidente che tutto ciò che è mosso, è mosso da altro: giacché tutto ciò che si muove è divisibile, e se la parte è in quiete, 15 sarà in quiete anche il tutto. Poiché tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa, è necessario che anche tutto ciò che è mosso in un luogo sia mosso da altro. Ma anche il motore 〈è mosso〉 da altro, poiché anch’esso è mosso, e a sua volta questo lo è da altro. Ora, non si procede all’infinito, ma ad un certo momento ci si arresterà e ci sarà 20 qualcosa che sarà primariamente causa del muoversi. Se infatti non c’è, ma si procede all’infinito, sia A mosso da Β, Β da C, C da D. Ebbene, anche in questo modo si procede all’infinito. Poiché dunque il motore e la cosa sono mossi assieme, è chiaro che saranno mossi assieme A 25 e B: infatti, essendo mosso B, sarà mosso anche A, ed essendo mosso C, lo sarà anche B, ed essendolo D, anche C. Pertanto il movimento di A, di B, di C e di ciascuno degli altri sarà contemporaneo. Quindi potremo anche prendere ciascuno di quei 〈movimenti〉. Ché, anche se ciascuno è mosso da ciascuno, per nulla meno il movimento di 30 ciascuno è uno per il numero, e non è infinito agli estremi, dal momento che tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa verso qualcosa. Avviene infatti che un movimento sia identico o per numero, o per genere, o per specie. Per numero, dunque, dico che è identico il movimento che procede da una cosa identica verso una cosa identica per il numero nel tempo identico per il numero: 242 b per esempio, da questo bianco, che è uno per il numero, verso questo nero secondo questo tempo, che è uno per il numero; se, infatti, è secondo un 〈tempo〉 diverso, non sarà più uno per il numero, ma per la specie. È invece identico per genere il movimento che 〈cade〉 nella medesima categoria della sostanza 5 o del genere; per specie, quello che 〈procede〉 da una cosa identica per la specie verso una cosa identica per la specie: per esempio, dal bianco al nero o dal buono al cattivo. 287

Questo è stato detto anche nelle precedenti 〈trattazioni〉. Sia stato preso, pertanto, il movimento di A e sia indicato con E, quello di B, indicato con Z, quello di CD, 10 indicato con HT e il tempo, K, in cui A si muove. Ora, essendo il movimento di A finito, anche il tempo Κ sarà finito e non infinito. Ma nello stesso tempo si muovono, come s’è detto, A, Β e ciascuno degli altri. Avviene pertantoche il movimento EZHT, che è infinito, abbia luogo nel tempo finito K: infatti, in 15 quello in cui A si muoveva, si muovevano anche tutte quante le cose consecutive ad A, che sono infinite. Di conseguenza, si muovono nello stesso 〈tempo〉. E infatti, o il loro movimento sarà uguale a quello di A13, o maggiore; ma non fa alcuna differenza: giacché in ogni caso avviene che il movimento infinito abbia luogo in un tempo finito, e questo è impossibile. In questo modo sembrerà 20 che il punto iniziale sia dimostrato, ma in realtà non è dimostrato, per il fatto che non consegue nessun assurdo. Infatti, è possibile che in un tempo finito abbia luogo un movimento infinito: non il medesimo, ma uno diverso e uno diverso ancora, essendo molte, anzi infinite le cose che si muovono. Il che accade anche a quelle ora considerate. Ma se ciò che si muove primariamente secondo [un luogo e] 25 un movimento corporeo è necessariamente o in contatto o continuo col motore, come osserviamo che questo avviene in tutti i casi (ché, provenendo da tutti quanti, il tutto sarà uno o continuo), ebbene, si assuma ciò che è possibile e sia la grandezza, o ciò che è continuo, indicata con ABCD, mentre il suo movimento sia EZHT. E non 30 fa alcuna differenza che 〈la grandezza〉 sia o finita o infinita: ché, in pari modo, o infinita o finita, sarà mossa nel tempo finito K18. Ma ciascuna di queste due cose fa parte di quelle impossibili. È dunque evidente che in un certo tempo ci sarà un arresto e che ciò che 〈è mosso〉 sempre da altro non procede all’infinito, ma vi sarà qualcosa che muove per primo. E non abbia alcun’importanza che questo sia dimostrato 243 a essendo posta un’ipotesi: quando infatti si pone il possibile, non deve conseguire nulla di assurdo.

VII, 2 288

〈L’unità del motore e del mosso e le specie di movimento〉 (Redazione di base) 35 Il primo motore, non come ciò in vista di cui, ma come da cui è l’inizio del movimento, è assieme a ciò che è mosso (dico «assieme» perché non vi è niente d’intermedio tra essi): infatti, questa 35 è 〈proprietà〉 comune nel caso di ogni cosa mossa e ogni motore. E poiché tre sono i movimenti: quello secondo il luogo, quello secondo la qualità e quello secondo la quantità, è necessario che anche i motori siano tre: quello che produce traslazione, quello che produce alterazione e quello che produce aumento e diminuzione.10 Ebbene, parliamo innanzitutto 21 della traslazione, 40 giacché questo è il primo dei movimenti20. Ora, tutto ciò che si sposta, è mosso o da sé o da altro. Dunque in tutte le cose che sono mosse da sé, è evidente che ciò che è mosso e il motore sono assieme: infatti, in esse è presente il 15 motore primo, per cui non vi è niente d’intermedio. Invece, tutte le cose che sono mosse da altro, è necessario che divengano in quattro modi, giacché vi sono quattro specie della traslazione ad opera di altro: la trazione, la spinta, il trasporto e la rotazione. Effettivamente tutti i movimenti secondo il luogo si riconducono a questi. Una sorta di spinta, infatti, è l’impulso: quando ciò che muove da sé spinga seguendo; 20 〈una sorta〉 la repulsione: quando, dopo aver mosso, non segua; 〈una sorta〉 il 243 b lancio: quando renda il movimento che esso produce più vigoroso della traslazione secondo natura e la cosa si sposti di tanto finché il movimento abbia forza. A loro volta, la distrazione e la contrazione sono repulsione e trazione: infatti, la distrazione è una repulsione (ché, la repulsione ha luogo o dallo stesso motore o da altra cosa), 5 la contrazione è una trazione (ché, la trazione ha luogo o verso lo stesso motore o verso altra cosa). Di conseguenza, anche tutte quelle che sono le loro specie: per esempio, l’addensamento e l’allargamento di un tessuto. Il primo, infatti, è una contrazione, il secondo una distrazione. E similmente anche le altre riunioni e separazioni: tutte, infatti, saranno distrazioni o contrazioni21, tranne quante hanno luogo in una generazione e in una corruzione. 10 Al tempo stesso è evidente che la riunione e la separazione non sono per nulla un qualche altro genere di movimento, giacché tutte si classificano in qualcuno dei 〈movimenti〉 che abbiamo detto. Inoltre, l’inspirazione è una trazione, l’espirazione una spinta; e, similmente, anche lo sputo e quanti altri 〈movimenti〉 hanno luogo mediante il corpo, 289

sono movimenti di rigetto o d’assorbimento: giacché gli uni sono trazioni, gli altri repulsioni. 15 Si devono trattare anche gli altri 〈movimenti〉 secondo il luogo; tutti, infatti, ricadono nei quattro che abbiamo detto. Fra questi, a loro volta, il trasporto e la rotazione 〈ricadono〉 nella trazione e nella spinta: in effetti, il trasporto ha luogo secondo uno di questi tre modi (infatti, ciò che è trasportato si muove per accidente, poiché si trova in una 20 cosa che si muove o su qualcosa che si muove; invece ciò che trasporta, trasporta 244 a o perché è tratto, o perché è spinto, o perché è fatto ruotare, per cui il trasporto è comune a tutti i tre 〈movimenti〉), mentre la rotazione è composta da trazione e da spinta (in effetti, ciò che fa ruotare è necessario che da un lato tragga, da un altro spinga: giacché da un lato conduce lontano da sé, dall’altro verso di sé). Di conseguenza, se ciò che 5 spinge e ciò che trae sono as sieme a ciò che è spinto e a ciò che è tratto, è evidente che tra ciò che si muove secondo il luogo e il motore non vi è nulla d’intermedio. Ma questo è chiaro anche dalle definizioni. Spinta è, infatti, il movimento che proviene dalla cosa stessa o da un’altra verso un’altra cosa; trazione quello che proviene da un’altra cosa verso la cosa stessa o verso un’altra, quando il movimento [di ciò che tare] sia più rapido di 10 quello che separa i continui uno dall’altro: giacché così uno dei due viene tratto assieme. (Ma forse può sembrare che qualche trazione sia anche in modo diverso: infatti, il legno non trae il fuoco così. D’altra parte non fa alcuna differenza che si abbia trazione con il traente in movimento o fermo, giacché ora trae dov’è, ora dov’era). Ma è 15 impossibile che 〈una cosa〉 muova o da se stessa verso un’altra, o da un’altra verso se stessa 244 b senza essere in contatto. Per cui è evidente che tra ciò che è mosso secondo il luogo e il motore non vi è niente d’intermedio. Ma neppure tra ciò che viene alterato e ciò che altera. Questo è evidente perinduzione: infatti, in tutti quanti i casi avviene che l’estremità di ciò 5 che altera e la parte prima di ciò che è alterato siano assieme23. 〈In effetti, da parte nostra si suppone la circostanza che le cose che si alterano, si alterino perché sono affette secondo le qualità chiamate affettive24〉. Ché, ogni corpo differisce da un corpo per il numero o maggiore o minore delle 〈qualità〉 sensibili, o per il fatto d’〈essere fornito〉 in misura maggiore o minore di esse. Ma ciò che si altera, si altera in seguito alle cose che abbiamo detto, giacché queste sono le affezioni della qualità che funge da sostrato. Infatti, diciamo che si altera o una cosa che diventa calda, o una 290

che diventa dolce, o una che diventa densa, o una che diventa secca, o una che diventa bianca, affermando 〈che si alterano〉 parimenti ciò che è inanimato e ciò che è animato e, a Ιoί ro volta, 10 sia quelle non sensibili fra le parti delle cose animate sia le stesse sensazioni. Ché, in un certo senso si alterano anche le sensazioni: infatti, la sensazione è il movimento in atto mediante il corpo, venendo la sensazione affetta in alcunché. Dunque, secondo quanto si altera ciò che è inanimato 〈si altera〉 anche ciò che è animato, ma non secondo tutto quanto 〈si altera〉 ciò che è animato 〈si altera〉 ciò che è inanimato 15 (infatti, non si altera secondo le sensazioni). E a una 245 a cosa sfugge, a un’altra non sfugge d’essere affetta. Ma niente impedisce che sfugga anche a ciò che è animato, quando l’alterazione non si produca secondo le sensazioni. Se quindi ciò che si altera è alterato dalle sensazioni, in tutte quante queste cose25 è evidente che l’estremità di ciò che altera e la parte prima di ciò che è alterato sono assieme. Infatti, l’aria è continua alla cosa e il corpo lo è all’aria; a sua volta, il colore 〈è continuo〉 alla luce e la luce alla vista; e allo stesso modo anche l’udito e l’olfatto, giacché l’aria è il motore primo in rapporto a ciò che è mosso26. Pure nel caso del gusto la situazione è simile: infatti, al gusto 〈è unito〉 il 10 chimo27. E nello stesso modo è anche per le cose inanimate e prive di sensazioni. Per cui non vi è niente d’intermedio tra ciò che è alterato e ciò che 25 altera. Ma neppure tra ciò che viene aumentato e ciò che produce l’aumento: giacché la cosa prima che produce l’aumento, produce l’aumento aggiungendosi, cosicché il tutto diventa una sola cosa. E, a sua volta, ciò che produce la diminuzione, produce la diminuzione perché si sottrae qualche 〈parte〉 di ciò che produce la diminuzione. È necessario, dunque, che tanto ciò che produce l’aumento quanto ciò che produce la diminuzione siano continui, e che non vi sia niente d’intermedio tra i continui. È quindi evidente che tra 245 b ciò che è mosso, il motore primo e ultimo in relazione a ciò che è mosso non vi è niente in mezzo. (Altra redazione) Il primo motore, non come ciò in vista di cui, ma come da cui è l’inizio del movimento, è assieme a ciò che è mosso (dico «assieme» perché 5 non vi è niente d’intermedio tra essi): infatti, questa è 〈proprietà〉 comune nel caso di ogni cosa mossa e ogni motore. E poiché tre sono i movimenti: quello secondo il luogo, secondo la qualità e secondo la quantità, è necessario che anche i motori siano tre. Infatti, il 〈movimento〉 secondo il luogo è traslazione, quello secondo la qualità è alterazione, quello secondo la quantità è aumento e diminuzione. 21 25 291

Ebbene, parliamo innanzitutto della traslazione, giacché questo è il primo dei movimenti. Ora, tutto ciò che si sposta, è mosso o da sé o da altro. Se dunque è mosso da sé, è evidente che, sussistendo il motore nella cosa, il motore e ciò che è mosso saranno assieme e non vi è niente d’intermedio tra essi. Invece, ciò che è mosso da altro si muove in quattro modi: infatti, i movimenti ad opera di altro sono quattro: trazione, spinta, trasporto e rotazione 25 . E infatti, avviene che tutti gli altri 〈movimenti〉 si riportino a questi. Ebbene, una 〈specie〉 della spinta è l’impulso, un’altra la repulsione. Si ha dunque impulso quando il motore non abbandoni ciò che è mosso, repulsione invece quando ciò che spinge lo abbandoni. La trazione ha luogo quando 243 b 23 il movimento di ciò che trae, o verso lo stesso (motore〉 o verso altro, sia alquanto veloce, senza essere separato da quello di ciò che è tratto. E infatti, la trazione ha luogo 25 o verso lo stesso 〈motore〉 o verso altro. Anche le altre [trazioni], identiche per la specie, si riporteranno a queste: per esempio, l’inspirazione, l’espirazione, lo sputo e tutti quelli tra i 〈movimenti〉 corporei che sono o di rigetto o d’assorbimento; e l’addensamento e l’allargamento di un tessuto: infatti, una 〈specie〉 di essi è riunione, l’altra separazione. Ora, ogni movimento secondo 29 il luogo è riunione o separazione. Il trasporto avrà luogo nei tre 243 a 28 movimenti 〈seguenti〉: infatti, ciò che è trasportato non si muove per sé, ma per accidente (giacché si muove per il fatto di essere in ciò che 243 b 21 è mosso o su ciò che è mosso), mentre ciò che trasporta si muove o perché è spinto, o perché è tratto, o perché è fatto ruotare. È quindi evidente che il trasporto avrà luogo nei tre movimenti 〈sopraddetti〉22. 23 La rotazione è 29 composta da trazione e spinta: 244 a 16 infatti, il motore per un verso spinge, per un altro trae. È dunque evidente che, poiché ciò che spinge e ciò che trae sono assieme a ciò che è tratto e a ciò che è spinto, non vi è niente d’intermedio tra ciò che è mosso e il motore. Ma questo è chiaro anche dalle cose che si sono definite. La spinta è, infatti, il movimento che proviene o dalla 20 cosa stessa o da un’altra verso un’altra cosa; la trazione, da un’altra cosa verso la cosa stessa o verso un’altra. Inoltre, la contrazione e la distrazione. Si ha il lancio quando il movimento di ciò che è mosso diventi più rapido di quello secondo natura, 292

divenendo più vigorosa la spinta, e avviene che 〈la cosa〉 si sposti fino a questo punto, ossia fino a che il movimento di ciò che è spostato sia più vigoroso 〈di quello naturale〉. È evidente, pertanto, che ciò che è mosso e il motore sono assieme, e che tra essi non vi è niente d’intermedio. Ma neppure tra ciò che 25 viene alterato e ciò che altera non vi è niente d’intermedio. Questo è chiaro per induzione: infatti, in tutti i casi avviene che l’estremità di ciò che altera e 5 la parte prima di ciò che è alterato siano assieme. Ché, la qualità si altera per il fatto di essere sensibile, e sono sensibili le cose per le quali i corpi differiscono l’uno dall’altro: per esempio, 244 b la pesantezza e la leggerezza, la durezza e la mollezza, il rumore e l’assenza di rumore, la bianchezza e la nerezza, la dolcezza e l’asprezza, l’umidità e la secchezza, la densità e la radezza, e le cose intermedie tra queste; e parimenti anche le altre che 〈cadono〉 sotto le sensazioni, fra le quali vi sono il calore e la freddezza, la levigatezza e la ruvidità. Infatti, queste affezioni sono proprie della qualità che funge da sostrato. Ché, per esse differiscono 20 quelli tra i corpi che sono sensibili, oppure in conformità al fatto d’essere affetti più o meno rispetto a qualcuna di esse [e per esserlo rispetto a qualcuna di esse]. In pari modo, infatti, sia quelli fra i corpi che sono animati, sia quelli inanimati, sia tutte quelle parti dei corpi animati che sono inanimate diventano caldi o freddi o dolci o aspri o 〈si alterano〉 secondo qualche altra delle predette 〈qualità〉. Ma anche le stesse sensazioni si alterano: giacché 25 vengono affette. Infatti, il loro atto è movimento mediante il corpo, avendo la sensazione qualche affezione. Dunque, secondo quanto si alterano le cose inanimate, secondo 245 a tutto questo si alterano anche quelle animate; ma secondo quanto si alterano le cose animate, secondo questo non si alterano quelle inanimate (infatti, non si alterano secondo le sensazioni). E alle cose inanimate sfugge di alterarsi. Ma niente impedisce che anche a quelle animate sfugga di alterarsi, quando a esse l’〈effetto〉 dell’alterazione 20 non giunga secondo le sensazioni. Se dunque le affezioni sono sensibili, e a causa di queste 〈si produce〉 l’alterazione, per queste 〈ragioni〉 è in realtà chiaro che ciò che è affetto e l’affezione sono assieme, e che tra questi non vi è niente d’intermedio. Infatti, l’aria è continua all’affezione, e il corpo è in contatto con l’aria. E la superficie è in rapporto con la luce, e la luce è in rapporto con la vista. Similmente, anche l’udito e l’olfatto sono in rapporto con la cosa 25 prima che li muove. E nello stesso modo sono assieme anche il gusto e il chimo [e 293

così pure sia per le cose inanimate che per quelle animate]. Ma anche ciò che è aumentato e ciò che aumenta 〈sono assieme〉: giacché l’aumento è una sorta di aggiunta, per cui ciò che è aumentato e ciò che aumenta sono assieme. Ed anche la diminuzione: giacché la causa della diminuzione è un certo toglimento. Pertanto è evidente che 245 b tra l’estremità del motore e la parte prima di ciò che è mosso non vi è niente d’intermedio [e 〈non vi è niente〉 in mezzo al motore e a ciò che è mosso].

VII, 3 〈L’alterazione e i sensibili〉 (Redazione di base) Che tutto ciò che si altera sia alterato dalle cose sensibili, e che l’alterazione sussista soltanto in tutte queste 5 cose che per se stesse son dette essere affette dalle cose sensibili, bisogna osservare da queste 〈considerazioni〉. Uno potrebbe infatti, supporre che, fra gli altri 〈movimenti〉, l’alterazione sia soprattutto presente nelle figure e nelle forme, e negli abiti e nelle loro assunzioni e perdite28; ma non lo è in nessuno di questi due gruppi di cose. In effetti, ciò che viene raffigurato e ritmizzato, quando 10 sia giunto a compimento, non lo chiamiamo con ciò da cui proviene: per esempio, la statua bronzo o la piramide cera o il letto legno, ma denominiamo l’uno di bronzo, l’altro di cera, l’altro ancora di legno. Invece, ciò che è stato affetto e alterato lo denominiamo 〈con l’affezione e l’alterazione〉: infatti, diciamo umido, caldo, duro il 15 bronzo e la cera (e non soltanto così, ma diciamo anche bronzo l’umido e il caldo〉, denominando la materia in maniera omonima all’affezione. 246 a Di conseguenza, se la cosa che si è generata, nella quale è la figura, non si dice secondo la figura e la forma, mentre si dice secondo le affezioni e le alterazioni, è evidente che le generazioni non saranno alterazioni. Inoltre, sembrerà assurdo 5 anche dire così, e cioè che si sono alterati l’uomo o la casa o qualsiasi altra delle cose che si sono generate. Ma forse è necessario che ciascuna cosa si generi se qualcosa si è alterato: per esempio, se la materia si è condensata o rarefatta o riscaldata; tuttavia, le cose che si generano non si sono alterate, né la loro generazione è un’alterazione.

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10 Ma neppure gli abiti sono alterazioni: né quelli del corpo, né quelli dell’anima. In effetti, tra gli abiti vi sono le virtù e i vizi, e né la virtù né il vizio è un’alterazione, ma la virtù una sorta di perfezionamento (infatti, ciascuna cosa, quando assuma la propria virtù, allora si dice che è perfetta, giacché allora è 15 nel grado più alto30 secondo natura: come un circolo è perfetto quando sia venuto fuori nel grado più alto come circolo e quando sia il migliore31), il vizio una corruzione e una perdita di questa 〈condizione〉. Come dunque non diciamo alterazione neppure il compimento della casa (è assurdo, infatti, che il muro di cinta e la tegola siano alterazione, o che la casa, quando viene cinta dal muro e coperta di tegole, venga alterata ma non portata a compimento), allo stesso modo è 246 b anche nel caso delle virtù e dei vizi e delle cose che li possiedono o li assumono. Ché, si tratta di perfezionamenti e perdite, per cui non sono alterazioni. Inoltre, diciamo che tutte quante le virtù consistono nel rapportarsi in un certo modo a qualcosa: in effetti, poniamo quelle del corpo, 5 per esempio la salute e la buona condizione, nella mescolanza e nella proporzione di cose calde e fredde: o di esse rispetto a se stesse, se si tratta di quelle interne, o rispetto a ciò che le circonda; e parimenti anche la bellezza, la forza e le altre virtù e vizi. Ciascuno, infatti, consiste nel rapportarsi in un certo modo a qualcosa, e ciò che le possiede si dispone bene o male nell’ambito delle passioni 10 proprie. E sono proprie quelle dalle quali 〈virtù e vizio〉 sono per natura generati e corrotti. Poiché dunque né i relativi sono essi stessi delle alterazioni, né di essi vi è alterazione né generazione né, in generale, alcun mutamento, è evidente che neppure gli abiti, né le perdite e le assunzioni degli abiti sono alterazioni32, ma forse è necessario che essi, quando alcune cose 15 si alterano, si generino e si corrompano, come pure la specie e la forma: per esempio, delle cose calde e fredde, o di quelle secche e umide, o di quelle prime nelle quali esse per caso si trovano. Ché, ogni virtù e vizio si dice nell’ambito di quelle cose dalle quali ciò che li possiede è per natura alterato: infatti, la virtù lo rende o insensibile alla passione o capace di provarla in questo 20 dato modo, il vizio invece 〈rende〉 incline alla passione, o insensibile alla passione in maniera contraria 〈a come lo è il virtuoso〉. 247 a Similmente è pure nel caso degli abiti dell’anima: infatti, anche tutti questi consistono nel rapportarsi in un certo modo a qualcosa, e le virtù sono perfezionamenti, i vizi perdite. Inoltre, la virtù dispone in modo buono verso le passioni proprie, il vizio in modo cattivo. Di conseguenza, 5 neppure questi sono alterazioni. 295

Pertanto non lo sono neppure le perdite e le assunzioni di essi. Ma è necessario che essi si generino quando la parte sensitiva dell’anima è alterata. Essa sarà alterata dalle cose sensibili: infatti, ogni virtù etica ha a che fare con piaceri e dolori del corpo, e questi consistono o nell’agire, o nel ricordare, o nello 10 sperare. Alcuni consistono, dunque, nell’azione conforme alla sensazione, per cui sono messi in moto da qualcosa di sensibile, altri consistono nel ricordo e nella speranza provenienti dalla sensazione: giacché si prova piacere o ricordando quali sensazioni si provavano, o sperando quali 〈sensazioni〉 si avranno in futuro; per cui ogni piacere di questo genere deriva necessariamente dalle cose sensibili. E poiché quando insorgono piacere e 15 dolore insorgono anche il vizio e la virtù (infatti, hanno a che fare con questi), e i piaceri e i dolori sono alterazioni della parte sensitiva dell’anima, 6 evidente che, quando qualcosa è alterato, necessariamente li si perde e li si assume. Di conseguenza, la loro generazione s’accompagna ad alterazione, ma essi non sono alterazioni33. 247 b Ma neppure gli abiti della parte noetica dell’anima sono alterazioni, né di essi vi è generazione. Infatti, diciamo che l’essere conoscitore risiede, al grado di gran lunga più alto, nel rapportarsi in un certo modo a qualcosa. Inoltre, è anche è evidente che non vi è generazione di essi: infatti, ciò che conosce in potenza non diviene 5 affatto una cosa che conosce perché esso stesso è mosso, ma per il sussistere di un’altra cosa34. In effetti, quando si dia il particolare, gli universali in un certo modo si conoscono per il particolare35. A sua volta, non si dà generazione dell’uso e dell’atto 〈della scienza〉, a meno che non si pensi che anche del volgere in sù lo sguardo e del tatto si dia generazione; infatti, il far uso e l’essere in atto sono simili a questi. 10 E l’acquisizione iniziale della scienza non è generazione né alterazione: noi, infatti, diciamo che la ragione conosce e pensa con l’essere in quiete e l’arrestarsi, e dell’essere in quiete non vi è generazione. Infatti, non si dà di nessun mutamento, in generale, come prima s’è detto36. Inoltre, nello stesso modo in cui, quando un tale passi dall’essere ubriaco o dal dormire o dall’essere ammalato 15 ai loro contrari, non diciamo che si è generato di nuovo se conosce (eppure egli prima era nell’impossibilità di far uso della conoscenza), così neppure quando acquisisca l’abito dall’inizio. È, infatti, col distendersi dell’anima dal turbamento del corpo che si produce alcunché di saggio e di sapiente. Per questo i fanciulli non sono in grado né di imparare, né di giudicare 248 a secondo le sensazioni in modo simile ai vecchi: 248 a giacché 〈per loro〉 è molto il turbamento e il movimento. E 296

rispetto a talune cose si è distesi e posti in quiete dalla natura stessa, rispetto ad altre da altri 〈fattori〉, ma in entrambi i casi perché alcune 〈situazioni〉 che hanno sede nel corpo si sono alterate: 5 come nel caso dell’uso e dell’attività, quando si divenga vigilanti e ci si desti. Da quel che si è detto è dunque è evidente che l’alterarsi e l’alterazione si producono nelle cose sensibili e nella parte sensitiva dell’anima, e in nient’altro, tranne che per accidente. (Altra redazione) 20 25 Che tutte le cose che si alterano siano alterate da quelle sensibili, e che vi sia alterazione soltanto di tutte quelle che per sé sono affette da esse, osserviamo da queste 20 〈considerazioni〉. Uno potrebbe infatti, supporre che, fra gli altri 〈movimenti〉, l’alterazione sia soprattutto presente nelle figure e nelle forme, e negli abiti e nelle loro perdite e assunzioni. Sembra, infatti, che vi sia presente l’〈effetto〉 dell’alterazione, però non è neppure in queste cose: esse si verificano quando alcune cose si alterano29(〈si hanno〉, infatti, quando la 25 materia diventa densa, o rada, o calda, o fredda〉, ma non sono alterazione. In effetti, non diciamo la forma con ciò da cui proviene la forma della statua, né con ciò da cui proviene la figura della piramide o del letto, ma, usando paronimia, 〈diciamo〉 la prima cosa bronzea, la seconda di cera, la terza lignea. Invece, diamo queste qualificazioni a ciò che si altera: infatti, diciamo che il bronzo è umido o caldo o secco (e non 246 a soltanto così, ma 〈diciamo〉 anche bronzo l’umido e il caldo), chiamando la materia in maniera omonima all’affezione. Poiché dunque ciò da cui derivano la forma, la figura e quel che si è prodotto non viene chiamato in maniera omonima alle figure che risultano da esso, mentre ciò che si altera viene chiamato in maniera omonima alle affezioni, è evidente che l’alterazione ha luogo solamente 25 nelle cose sensibili. Inoltre, è assurdo anche in un altro senso. Infatti, il dire che l’uomo o la casa che hanno conseguito il loro fine si sono alterati, è ridicolo, se diremo che il compimento della casa — il muro di cinta o la tegola — è un’alterazione, oppure che, quando la casa viene cinta con un muro o coperta di tegole, la casa si altera. Pertanto è chiaro che l’〈essenza〉 dell’alterazione non è nel generarsi delle cose. 30 Ma neppure negli abiti.30 Infatti, gli abiti sono virtù e vizi, e ogni virtù e vizio si annovera 246 b tra i relativi, come la salute è una certa proporzione di cose calde e fredde, o interne o relative a ciò che le circonda. Similmente, anche la bellezza e la 297

forza fanno parte dei relativi: infatti, sono certe disposizioni della cosa migliore in relazione a una 〈condizione〉 eccellente (dico «la cosa migliore» quella che salvaguarda e dispone nell’ambito della natura). Poiché dunque le virtù e i vizi fanno parte dei relativi, ma né questi sono generazioni, né di essi vi è generazione né, in generale, alterazione, è evidente che l’essenza dell’alterazione non riguarda complessivamente gli abiti. Ma neppure hanno a che fare con le virtù e i vizi dell’anima. Infatti, la virtù è un certo perfezionamento (infatti, ciascuna cosa è massimamente perfetta quando raggiunga la propria virtù, vale a dire 〈quando sia〉 massimamente 30 conforme a natura, come il cerchio è massimamente conforme a natura quando massimamente sia cerchio), il vizio invece corruzione 247 a e perdita di questi 〈stati〉. Ora, sia l’acquisizione della virtù che l’allontanamento del vizio si producono se qualcosa si altera, tuttavia nessuno di questi due è alterazione. Ma che qualcosa si alteri, è chiaro. Infatti, la virtù o è una sorta di assenza di sensazione o una cosa atta a far provare le sensazioni in questo dato modo, mentre il vizio è cosa atta a far provare le sensazioni o una capacità di sentire contraria alla virtù. E, complessivamente, è accaduto che la virtù etica abbia luogo tra i piaceri e i dolori: in effetti, 25 la 〈sensazione〉 del piacere è o in atto, o dovuta al ricordo, o derivante dalla speranza. Se dunque è in atto, la causa è una sensazione; se è dovuta al ricordo o alla speranza, deriva da essa. Ché, abbiamo la 〈sensazione〉 del piacere o ricordandoci quali 〈sensazioni〉 abbiamo provato, o sperando quali proveremo. Ma l’alterazione non è neppure nella parte dianoetica dell’anima. Infatti, ciò che sa è detto annoverarsi massimamente tra i relativi. Ma questo è chiaro: l’〈essenza〉 della scienza non s’ingenera in coloro che sono mossi secondo qualche potenza, ma se sussiste qualcosa, 247 b giacché acquisiamo la conoscenza scientifica universale dall’esperienza particolare. E neppure l’atto 〈della scienza〉 20 è generazione, a meno di non dire che il volgere in sù lo sguardo e il tatto sono generazione; giacché Tatto è una cosa di questo genere. E l’acquisizione iniziale della scienza non è generazione né alterazione. Infatti, si diventa sapienti e saggi per il fatto che l’anima è in quiete e si distende. Come dunque non si è diventati sapienti neppure quando, dormendo, ci si sia destati, o, essendo ubriachi, si abbia smesso, o, essendo malati, ci si sia 298

ristabiliti (anche 25 se prima non si era nella possibilità di usare e di essere in atto secondo la scienza, in seguito, allontanato il turbamento e giunta la mente alla quiete e alla distensione, è sussistita la potenza relativa all’uso della scienza), ebbene, qualcosa di questo genere si è prodotto anche all’inizio, nel principio della scienza: si è avuta, infatti, una certa quiete del turbamento e una distensione. 30 Pertanto, neppure i fanciulli sono in grado di imparare né di giudicare con le sensazioni in modo simile ai vecchi, giacché molto è il turbamento e il movimento che li riguarda. E ci si distende e ci si acquieta dal turbamento talvolta ad opera della natura, talvolta di altri 〈fattori〉. Ma in entrambi i casi avviene che qualcosa si alteri, come quando ci si desti e si divenga vigilanti per l’attività. È dunque evidente che l’〈essenza〉 dell’alterazione è nelle cose sensibili e nella parte sensitiva dell’anima, e in nient’altro, tranne che per accidente.

VII, 4 〈Raffronto tra la velocità dei movimenti〉 Si potrebbe sollevare la questione se ogni movimento sia 10 confrontabile o no. Ora, se ogni 〈movimento〉 è confrontabile, e ciò che si muove in un tempo uguale per un uguale 〈percorso〉 è di uguale velocità, una certa linea circolare sarà uguale alla retta e, comunque, più grande e più piccola. Inoltre, un’alterazione e una certa traslazione 〈saranno〉 uguali, quando in un tempo uguale una cosa si sia alterata e un’altra si sia spostata. Pertanto, un’affezione sarà uguale a una lunghezza. Ma è impossibile 15 . Ma non è forse che, da un lato, quando 〈una cosa〉 in un 〈tempo〉 uguale si sia mossa per un uguale 〈percorso〉, allora è di uguale velocità, dall’altro, un’affezione non è uguale a una lunghezza, per cui un’alterazione non è uguale a una traslazione, né più piccola; di modo che non ogni 〈movimento〉 è confrontabile? E come avverrà nel caso del cerchio e della retta? In effetti, 20 è assurdo 〈confrontarli〉 se non è possibile che questa seconda si muova in modo simile a un cerchio e che il primo37 〈si muova in somiglianza〉 con la retta, ma è subito necessario che 〈si muovano〉 o più velocemente o più lentamente, come se 〈un movimento fosse〉 verso il basso, l’altro verso l’alto. Né ha alcuna importanza per il ragionamento se si dice che è necessario che subito si muovano in modo più veloce o più 25 lento. Ché, la linea circolare sarà maggiore o minore di quella retta, per cui anche uguale. 299

Se, infatti, nel tempo A una cosa 248 ha percorso l’〈intervallo〉 B38 e un’altra l’〈intervallo〉 C39, l’〈intervallo〉 Β sarà maggiore dell’〈intervallo〉 C, giacché in questo modo si diceva ciò che è più veloce40. Pertanto, anche se in un 〈tempo〉 minore 〈percorre〉 una 〈distanza〉 uguale è più veloce; per cui ci sarà una certa parte di A in cui Β percorre la 〈parte〉 del cerchio uguale alla 〈linea〉 che C 〈percorre〉 5 nell’intero A41. Ma se sono confrontabili, avviene ciò che s’è or ora detto, e cioè che la retta è uguale al cerchio. Ma non sono confrontabili: perciò 〈non lo sono〉 neppure i movimenti, ma sono confrontabili tutte quelle cose che non sono omonime. Per esempio, perché non è materia di un possibile confronto se sia più acuto lo stilo o il vino o la nete42? Non sono confrontabili perché sono omonimi. Ma la nete è confrontabile 10 con la paranete43, poiché in entrambi i casi «acuto» significa la stessa cosa. Ma allora, non è forse che «veloce» non 〈significa〉 la stessa cosa là e qui44, e molto di meno ancora nell’alterazione e nella traslazione? Oppure, in primo luogo, questo non è vero, che cioè 〈le cose〉 sono confrontabili se non sono omonime? In effetti, «molto» significa la stessa cosa nell’acqua e nell’aria, e 〈queste〉 non sono confrontabili. Ma se non 〈si è persuasi〉, «doppio» 〈significa〉 certamente la stessa cosa 15(infatti, 〈significa〉 due in rapporto a uno), e 〈secondo il doppio l’acqua e l’aria〉 non sono confrontabili. Ο non vale forse anche in questi casi il medesimo ragionamento? Ché, «molto» è omonimo. Ma anche le nozioni di alcune cose sono omonime: per esempio, se si dicesse che «molto» è tanto e oltre, «tanto» è una cosa diversa. Anche «uguale» è omonimo, e «uno», se capita, è subito omonimo. E se lo è questo, lo è anche «due»: ché, per 20 quale motivo alcuni casi sono confrontabili e altri no, se, come si diceva, una sola ne è la natura? O non è forse perché sono in un ricettacolo primo diverso? Dunque, il cavallo e il cane sono cose confrontabili: quale delle due è più bianca (ché, la cosa prima in cui sono, è identica, ossia la superficie), e così pure secondo la grandezza. Ma l’acqua e la voce no: giacché sono in una cosa 〈prima〉 diversa. Oppure, è chiaro che in questo modo sarà davvero possibile 25 rendere una tutte le 〈determinazioni〉, e dire che ciascuna 249 a è in un 〈ricettacolo〉 diverso; e sarà possibile che l’uguale, il dolce e il bianco siano identici, ma che uno è in un 〈ricettacolo〉, un altro in un altro. Inoltre, non ciò che capita è ricettacolo 〈di ciò che capita〉, bensì uno solo è proprio di una sola cosa, quello primo. Ma non è forse vero che le cose confrontabili non devono soltanto non 300

essere omonime, ma anche non avere differenza, 5 né per quanto riguarda ciò che sono, né per quanto riguarda ciò in cui sono? Dico, per esempio, che un colore ammette divisione: pertanto non è confrontabile sotto questo profilo (per esempio, quale di due cose è stata colorata maggiormente: non sotto il profilo di un certo colore, ma in quanto al colore), bensì sotto il profilo del bianco. Così, anche per quel che attiene al movimento, 〈una cosa〉 ha uguale velocità per il fatto di muoversi in un tempo uguale per questa data quantità uguale. Pertanto, se in questo dato 〈tempo〉 10 una parte della lunghezza è stata alterata e un’altra spostata45, forse che quest’alterazione è uguale e di uguale velocità alla traslazione? Ma è assurdo. E il motivo è che il movimento ha 〈molte〉 specie, per cui, se le cose che in un tempo uguale vengono spostate per una lunghezza uguale hanno uguale velocità, la linea retta e quella circolare sono uguali. Quale delle due 〈circostanze〉 è dunque la causa, che la 15 traslazione è un genere o che la linea è un genere? Infatti, il tempo è lo stesso, e se per la specie 〈la linea retta e quella circolare〉 sono diverse, anche i loro movimenti differiscono per specie. E infatti, la traslazione ha 〈molte〉 specie, se ciò su cui ha luogo il movimento abbia 〈molte〉 specie (e talvolta se 〈le abbia〉 ciò con cui 〈ha luogo〉: per esempio, se sono i piedi, si ha il camminare, se sono ali, il volo. O forse non è 〈così〉, ma per le figure la traslazione è diversa). Di conseguenza, le cose che in un 〈tempo〉 uguale si muovono per un’identica grandezza, 20 hanno uguale velocità; ma «identica» 〈vuol dire〉 sia indifferente per specie che indifferente per movimento. Di conseguenza, bisogna indagare questo: qual è la differenza di un movimento? E il medesimo ragionamento indica che il genere non è qualcosa di unico, ma accanto a esso restano nascoste molte cose e che, tra le omonimie, alcune sono molto distanti, altre hanno una certa somiglianza, altre ancora sono vicine o per genere o per analogia; perciò non sembrano essere omonimie, 25 pur essendolo.

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Una pagina illustrata nell’ottavo libro della Fisica, in Libri Physicarum octa... cit. (Pavia, per Jacob Paucidrapium, 1524).

Quando , dunque, si ha una 〈determinazione〉 diversa quanto alla specie: se sia la stessa in un 〈ricettacolo〉 diverso, o se sia diversa in un 〈ricettacolo〉 diverso? E qual è il limite? O con che giudichiamo il bianco e il dolce come identici o diversi? Perché in un 〈ricettacolo〉 diverso appaiono come un’altra cosa, oppure perché non sono assolutamente la stessa cosa? 30 249b 5 10 E per ciò che riguarda poi l’alterazione, come una diversa sarà di uguale velocità a una diversa? Ora, se il riprendere la 30 salute è un alterarsi, è possibile che uno guarisca in fretta e un altro lentamente, ma anche che alcuni 〈guariscano〉 assieme; per cui l’alterazione sarà di uguale velocità. Infatti, si è avuta 249 b alterazione in un tempo uguale. Ma che 302

cosa si è alterato? Infatti, qui non si è parlato di «uguale», ma, come nella quantità vi è uguaglianza, qui si ha somiglianza. Ma sia di uguale velocità ciò che in un tempo uguale attua il medesimo mutamento: si deve dunque confrontare ciò in cui è l’affezione 5 o l’affezione? Ora, poiché in questo caso la salute è la stessa, è possibile assumere che non sussiste né in misura maggiore né in misura minore, bensì in modo simile. Ma qualora l’affezione sia diversa: per esempio, si alterano ciò che diventa bianco e ciò che riprende la salute, queste cose non hanno 〈nulla〉 né di identico, né di uguale, né di simile, in quanto già esse producono specie di alterazione, 10 e 〈l’alterazione〉 non è una sola, come neppure lo sono le traslazioni. Di conseguenza, bisogna comprendere quante specie di alterazione vi sono e quante di traslazione. Ebbene, se le cose che si muovono — quelle i cui movimenti sono per sé e non per accidente — differiscono per specie, anche i movimenti differiranno per specie; se 〈differiscono〉 per genere, 〈differiranno〉 per genere; se per numero, 〈differiranno〉 per numero. Ma, se le alterazioni sono di uguale velocità, si deve guardare all’affezione, 15 qualora sia la stessa o simile, oppure a ciò che si altera: per esempio, se di questo è diventata bianca questa data quantità, di quest’altro quest’altra? Oppure a entrambi 〈e rendersi conto che l’alterazione〉 è identica o diversa per l’affezione, a seconda che questa sia identica 〈o non〉 identica, e che è uguale o disuguale a seconda che ciò che si altera sia 〈uguale o〉 disuguale46? 20 E nel caso della generazione e della corruzione bisogna 20 indagare la stessa cosa. Come la generazione è di uguale velocità? Se in un tempo uguale 〈si genera〉 una cosa identica e indivisibile: per esempio, un uomo, ma non un vivente; è invece più veloce se in un 〈tempo〉 uguale 〈si genera〉 una diversa (infatti, non abbiamo due cose, qualunque siano, nelle quali la diversità 〈si costituisca〉 come la dissomiglianza); oppure, se la sostanza è numero, un numero 〈può essere〉 maggiore o minore, pur essendo di ugual specie. Ma ciò che è 25 comune non ha nome, e ciascuna delle due cose 〈generate〉 [è una qualità; e la qualità], come la passione maggiore o ciò che eccede, è «di più», mentre la quantità è «più grande».

VII, 5 〈Rapporti tra il motore e il mosso〉 Poiché ciò che muove, muove sempre qualcosa e lo muove in qualcosa e fino a qualcosa (dico «in qualcosa» perché 〈muove〉 nel tempo e «fino a 303

qualcosa» perché 〈muove〉 per una lunghezza di una certa quantità: ché, sempre muove e 30 contemporaneamente ha mosso, per cui ciò che è stato mosso sarà una certa quantità e in una quantità), ebbene, se A è il motore, Β ciò che è mosso, C la quantità della lunghezza per 250 a la quale è stato mosso e «in quanto 〈lo è stato〉», ossia il tempo, è indicato con D, allora nel tempo uguale la forza uguale, indicata con A, muoverà la metà di Β per un 〈intervallo〉 dop5 10 15 pio dell’〈intervallo〉 C e per l’〈intervallo〉 C nella metà di D. In questo modo, infatti, si avrà, infatti, proporzione. E se la medesima forza muove la medesima cosa in questo tempo qui 5 per un 〈intervallo〉 di questa quantità qui e per la metà dell’〈intervallo〉 nella metà del tempo, anche la metà della forza muoverà nell’ugual tempo la metà della cosa per l’uguale 〈lunghezza〉. Per esempio, la 〈forza〉 E sia la metà della forza A e Ζ la metà di B: ebbene, le cose stanno in modo simile e la forza è proporzionale al peso, per cui in un tempo uguale muoveranno per una 〈lunghezza〉 uguale. E se E muove 10 Ζ nel 〈tempo〉 D per l’〈intervallo〉 C, non necessariamente nel tempo uguale ciò che è indicato con E muove il doppio di Ζ per la metà deH’〈intervallo〉 C. Se poi A nel 〈tempo〉 D muove Β per un 〈intervallo〉 di quantità pari a C, la metà di A, indicata con E, non muoverà Β per queH’〈intervallo〉 nel tempo indicato con D, né in una certa 〈parte〉 di D per una 〈parte〉 dell’〈intervallo〉 C che abbia rispetto all’intero 〈intervallo〉 C 15 la stessa proporzione che A ha rispetto a E. Ché, in generale, se capita, 〈A〉 non muoverà niente. In effetti, se l’intera forza ha mosso per un 〈intervallo〉 di una data quantità, la metà 〈di essa〉 non muoverà né per altrettanto 〈intervallo〉, né in un tempo qualsiasi. Ché, uno solo potrebbe muovere la nave, se la forza di coloro che la tirano in secco viene divisa nel loro numero e nella lunghezza per la quale la muovono. Per questo il ragionamento di Zenone47 che qualsiasi 20 parte del miglio fa rumore, non è vero: giacché nulla impedisce che quest’aria che l’intero medimno ha mosso cadendo, non si muova in nessun tempo. Né poi per sé questo 〈miglio〉 muove tanta parte 〈di aria〉 quanta ne muoverebbe se fosse nel tutto. Né, infatti, vi i: alcuna cosa nel tutto, tranne che in potenza. 25 E se i motori sono due, e ciascuno di questi muove ciascuna delle due cose per una 〈lunghezza〉 di una data quantità in una data quantità di tempo, le forze, anche se sono poste insieme, muoveranno l’insieme derivante dai pesi per l’uguale grandezza e in un tempo uguale: giacché vi è proporzione. È forse così, dunque, anche nel caso dell’alterazione e dell’aumento? In effetti, ciò che aumenta è qualcosa ed è qualcosa 30 ciò che è aumentato, e in una quantità di tempo e per una quantità una cosa aumenta, l’altra è 304

aumentata. E ciò che altera e ciò che è alterato stanno nello stesso modo — 250 b qualcosa si è alterato e per una quantità, secondo il più e il meno, e in una quantità di tempo: in un tempo doppio, del doppio e il doppio in un tempo doppio; e la metà, nella metà del tempo (oppure, nella metà del tempo, della metà), o in un tempo uguale, il doppio48. E se 〈la forza〉 che altera e quella che aumenta, aumenta o altera una data quantità 5 in una data quantità di tempo, non è necessario che la metà 〈della forza aumenti o alteri〉 nella metà del tempo e che nella metà del tempo 〈aumenti o alteri〉 per la metà, ma, se capita, non altererà o aumenterà niente, come anche nel caso del peso. 1. La redazione che dei primi tre capitoli di questo tormentato settimo libro della Fisica e contenuta nei codici Par. 1859 (XIV sec), Par. T86 I (XV sec), Par. 2033 (XV sec.) e nella Bodl. Misc. 238 (XVI sec), fu seguita sia da Simplicio, sia, per ampia parte, da Giovanni Filopono e Temistio e, secondo un’opinione ampiamente condivisa dagli studiosi, oggigiorno viene considerata la più autorevole (sui motivi della sua superiorita cfr. Ross, Aristotle’s Physics, cit., Introduction, pp. 14-15). Qui e indicata come «redazione di base». L’altra redazione — che ebbe molta fortuna nel medioevo e sulla quale fu eseguita la Vetusta Traslatio — e contenuta nei codici Par. gr. 1853 (inizio del X sec), Laur. 87.7 (XIV sec), Vind. 100, gia 34 (X sec.) e Laur. 87.24 (meta del XII sec). 2. Con Ross espungo τό e leggo ε στω είλημμένον 3. Sul movimento pers, distinto dal movimento per accidente, cfr. 224 a 17 sg. 4. Con Ross, seguo qui la lezione indicata da Spengel, sulla scorta dei Com men-tar ia di Simplicio, e adottata dalla maggior parte dei traduttori. 5. Con Ross, espungo τό e leggoε στω είλημμένον 6. Cfr. 240 b 8-241 a 26. 7. Come ha ben messo in chiaro Carteron, Aristotele prende in considerazione soltanto il movimento locale perch, essendo questo il primo di tutti i movimenti, stante che senza di esso gli altri non possono sussistere (cfr. Phys., VII, 2; VIII, 7), la dimostrazione effettuata su di esso vale anche per gli altri. 8. Cfr. Phys., V, 4. 9. L’ipotesi che i movimenti siano sempre più piccoli non viene presa neppure in considerazione, perche cio comporterebbe l’annullamento del movimento stesso. 10. Cfr. 206 b 7-12. II possibile, in questo caso, e l’ipotesi di un’inhnita di motori mossi. 11. Cfr. 238 a 32-b 22. 12. Ossia, cio che s’e detto in 242 a 19-20. 13. Anche qui adotto il testo stabilito dal Ross. 14. Tale necessita non sussiste piu, invece, se la causa e costituita dal fine o da cio che e desiderabile. 15. Cfr. la nota n. 8. 16. Seguo qui la lezione proposta dal Ross. 17. Cfr. ancora 238 a 32-b 22. 18. L’aggiunta di un secondo άπειρον prima di fi, come propone il Ross, suppo-nendo un errore di aplografia («sara mossa (per una distanza infinita)»), non muta il senso complessivo del passo, peraltro pienamente intellegibile anche nella lezione dei codici. A questa pertanto mi attengo. 19. L’ipotesi assunta come possibile (ossia l’infinitudine della serie dei motori e delle cose mosse) si rivela così impossibile, giacche ne e derivata una conseguenza impossibile, in

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entrambe le alternative (ossia che in un tempo finito, un movimento infinito percorra una cosa finita o una cosa infmita). Di conseguenza, e vera la con-traddittoria dell’ipotesi, ossia che la serie dei motori e delle cose mosse e finita. 20. Cfr. 260 a 20-261 a 26. 21. In questo pud ravvisarsi un’implicita critica delle teorie di Empedocle, Anassagora e Democrito. 22. Sposto qui le linee 243 a 28-b 23 per ragioni di corrispondenza con il testo sinottico. 23. A questo punto, come ha segnalato Spengel, i manoscritti presentano un’evidente lacuna. Nei colmarla, ho seguito l’ipotesi di Ross, che e la più semplice. Secondo quella di Prantl, e da aggiungere: «infatti, la qualita si altera per il fatto di essere sensibile, e sono sensibili le cose per le quali i corpi differiscono tra loro». 24. Sulle qualita affettive, che assieme alle affezioni costituiscono una delle quattro specie di qualita, cfr. Cat., 8. 25. Ossia le cose che si alterano. 26. Cfr. De An., 419 a 25-30. 27. Ossi a cio che e sapido, il quale e costituito dalla soluzione del secco nell’umido riscaldato. 28. L’alterazione e mutamento secondo la qualita, e due delle quattro specie di qualita distinte in Cat., 8 sono costituite, rispettivamente, dagli abiti (assieme alle disposizioni) e dalle forme e figure. 29. La corrispondenza con il testo sinottico m’induce a non accogliere le molte espunzioni proposte dal Ross, ad eccezione di τοσχήμα della riga 24, il cui mante-nimento renderebbe più arduo il senso del passo. 30. Con Ross espongo TO e leggo uadiora xaxa cptiaiv. 31. Modificando leggermente il testo del Ross, non interpongo tra le lineette τότε φύσιν ed elimino la virgola dopo τέλειος. 32. Cfr. 225 b 11-13. 33. In proposito cfr. Eth. Nic, 1174 a 13-1175 a 3. 34. Si tratta dell’universale, ad opera del quale la percezione del singolare diventa intelligibile. Come ha messo in chiaro CARTERON (II, p. 82), «un sape-re si attualizza senza mutamento quando si offre l’occasione di coglierne l’oggetto esistente. E il proprio dei relativi (cfr. l’inizio di VI, 2 e VII, 3, 246 b io-r2)». 35. Seguo la lezione del Ross. Secondo altre lezioni il testo viene inteso come asserente che nei particolare si conosce l’universale. L’assunto di fondo e lo stesso, affermandosi in entrambi i casi che l’universale sussiste nei particolare e che alia luce di quello questi si conoscono nella Ioro determinatezza. 36. Cfr. 225 b 15. 37. Con Ross seguo la lezione TOim, la quale mi sembra conferire maggior coe-renza stilistica di TOIJTO. 38. Ossia il cerchio. 39. Ossia la retta. 40. Cfr. 232 a 25. 41. II testo e piuttosto incerto. Alia riga 248 b 1 la lezione τό μέν την B, specificando la correlazione col successivo τό δέ τήν Γ, conferisce al passo maggior chia rezza del semplice τήν B. Alle righe 248 b 3-4, secondo la lezione tradizionale il testo suona: «pertanto ci sara una certa parte di A in cui B transita per una (parte) del cerchio uguale (alia retta) e C (transita) nell’intero A per la (retta) C», con la virgola posta dopo Steioi e τή03BD; Γ alia line della frase. Sennonche, come ha molto opportu-namente fatto osservare Ross (Commentary, p. 678), l’affermazione «e C... (retta) C» (sia B che C indicano tanto gli oggetti che i percorsi, rispettivamente circolare e rettilineo, da essi compiuti) mal si giustifica sul piano concettuale, dal momento che cio che dice e gia espresso, esplicitamente (l’uguaglianza della parte del

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cerchio alia retta e la parte del tempo A) o implicitamente (C percorre la retta C nell’intero tempo A), e disturba sul piano stilistico, giacche interseca i pensieri. Rispetto a questa lezione, quella proposta dallo studioso (che elimina la virgola, conferendo così a τήν καί τό (τό) la funzione di introdurre il secondo termine rispetto a τό ίσονed espunge τήν Γ finale) conferisce al testo maggior chiarezza e linearita. Questa condivisibile proposta potrebbe essere, a sua volta, leggermente modificata, in vista di una precisione ancor maggiore dell’espressione, in τήν κα03AF; τό (τό): modifica, paleograficamente plau-sibile, secondo la quale risultano esplicitamente indicati sia l’oggetto C che il tragitto C. A essa mi sono pertanto attenuto. 42. La nete e la prima corda della cetra, dalla quale esce il suono più acuto. 43. La paranete e penultima corda della cetra, posta subito sotto la nete. II suo suono e necessariamente meno acuto. 44. Ossia, nei movimento sulla linea circolare e in quello sulla linea retta. 45. La situazione ipotizzata vede due corpi di uguale lunghezza (essi sono indicate come «lunghezze», con una sineddoche), dei quali, nello stesso tempo, uno su-bisce un’alterazione e l’altro trasla per un tragitto di lunghezza pari alia sua. 46. Alle righe 18-19 seguo il testo stabilito da Ross, con l’aggiunta di rj TO dopo TO aero e, in conformita con l’edizione di Pacio, di Toov ij dopo EXELVO. In questo modo, infatti, l’espressione e pienamente coerente con tutte le articolazioni dell’ana-lisi sull’alterazione, che viene esplicitamente a riproporre. La lezione tradizionale suona invece: «Oppure a entrambi (e rendersi conto che l’alterazione) e identica o diversa per l’affezione. Se e identica, l’alterazione e uguale o disuguale, se cio che si altera e disuguale». 47. Cfr. I). K., 2g A 29. II paradosso di Zenone, irtteso a negare l’esistenza del molteplice, secondo la ricostruzione di Simplicio (Phys., 1108, 18 = I). K. 29 A 29) e il seguente: «Zenone l’eleata domando a Protagora il sofista: "dimmi, Protagora, un sol grano o la decimillesima parte di un grano fanno rumore cadendo?" Protagora rispose di no. "E un medimno di grani — disse — fa rumore cadendo o no?" Protagora rispose che il medimno faceva rumore. "E che — disse Zenone — non c’e una proporzione tra un medimno di grani e un grano solo o la decimillesima parte di un grano solo?" Quegli rispose che c’e. "E che — disse Zenone — non ci sara anche tra i suoni la stessa proporzione? Infatti la proporzione che c’e tra i corpi sonori ci deve essere tra i suoni. Se così e, dato che un medimno di grano fa rumore, fara rumore anche un sol grano e la decimillesima parte di un grano"». 48. S’intende, il doppio della meta.

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LIBRO OTTAVO VIII, 1 〈L’eternità del movimento〉 Il movimento si è forse generato in un certo tempo, poiché prima non esisteva, e di nuovo si corrompe, cosicché niente si muove, oppure né si è generato, né si corrompe, ma sempre era e sempre sarà, e questa cosa immortale e impossibile a cessare appartiene agli enti, come una sorta di vita che possiedono tutte le cose che sussistono per natura? 15 Ebbene, tutti coloro che dicono qualcosa sulla natura, affermano l’esistenza del movimento, per il fatto che studiano la creazione del mondo e ogni loro speculazione concerne la generazione e la corruzione, la cui sussistenza è impossibile senza che esista il movimento. Ma quanti affermano l’esistenza di infiniti mondi1 e che alcuni mondi si generano, altri si corrompono, sostengono che il movimento esiste sempre 20 (giacché le loro generazioni e le loro corruzioni s’accompagnano necessariamente al movimento). Quanti invece 〈sostengono〉 che è uno, 〈o sempre esistente〉 o non sempre, anche sul movimento formulano un’ipotesi conforme al loro discorso2. Ora, se è possibile che in un certo tempo niente si muova, questo avviene necessariamente in due modi: o, in effetti, come 25 dice Anassagora (egli dice infatti che, essendo tutte le cose assieme e in quiete per il tempo infinito, la Mente ha ingenerato il movimento e le ha divise3), o come 〈dice 〉 Empedocle: che in una parte 〈del tempo〉 si muovono e di nuovo sono in quiete: si muovono quando l’Amore dai molti produca l’uno o l’Odio i molti dall’uno; sono in quiete nei tempi intermedi, affermando: 30 Così, nel modo in cui l’uno imparò a generarsi per natura dai molti, già nuovamente disperdendosi l’uno, i molti si compiono, 251 a e in questo modo si generano, e il tempo eterno non è per loro d’ostacolo. Ma in quanto nessuna sosta li fa cessare nel loro mutarsi, per questo sempre sono immobili secondo il ciclo4.

Infatti , bisogna supporre che egli con «in quanto li … nel loro mutarsi» esprima 〈il movimento〉 da quella situazione a quella situazione. 5 Ora, intorno a questi 〈problemi〉 bisogna indagare come stiano le cose. Infatti, scorgere la verità è utile non soltanto in rapporto alla teoria sulla 308

natura, ma anche in rapporto all’indagine sul principio primo. Prendiamo le mosse, innanzitutto, da ciò che è stato da noi definito nelle precedenti trattazioni di fisica5. Ora, noi sosteniamo10 che il movimento è atto del mobile in quanto mobile. Pertanto è necessario che sussistano le cose che hanno la potenza di muoversi secondo ciascun movimento. Ma, anche indipendentemente dalla definizione del movimento, chiunque converrà che è necessario che si muova ciò che ha la potenza di muoversi secondo ciascun movimento: per esempio, che si altera ciò che ha la potenza di alterarsi e si sposta ciò che ha la potenza di mutare secondo il luogo, per cui 15 〈una cosa〉 deve essere combustibile prima di essere bruciata e atta a bruciare prima di bruciare. Pertanto è necessario che anche queste cose o si siano generate, non esistendo un tempo, o siano eterne. Se dunque ciascuno dei movimenti si è generato, è necessario che prima di quello assunto si siano prodotti un altro mutamento e un altro movimento secondo cui si è generato ciò che aveva la 20 potenza di esser mosso o di muovere. Invece, che gli enti preesistessero sempre, senza esserci movimento, appare, sì, un assurdo anche a chi riflette da questo punto 〈dell’indagine〉, ma tuttavia a chi vi si addentra la necessità che consegua questo 〈appare〉 in misura ancor maggiore. Se, infatti, alcune cose essendo mobili, altre capaci di muovere, talvolta vi saranno un certo motore primo e la prima cosa mossa, talvolta invece non ve ne sarà nessuno, ma vi 25 è quiete, è necessario che anteriormente abbia luogo un mutamento. In effetti, vi era qualche causa della quiete, giacché l’essere in quiete è privazione del movimento. Di conseguenza, avanti il mutamento primo vi sarà un mutamento anteriore. Infatti , alcune cose muovono in un solo modo, altre anche quanto ai movimenti contrari: per esempio, il fuoco riscalda, ma non raffredda, mentre la scienza sembra essere unica dei 30 contrari. Pertanto, anche qui risulta esserci qualcosa dalle medesime modalità: in effetti, il freddo, se in un certo senso è rovesciato, ossia si ritira, riscalda, come pure chi sa sbaglia volontariamente, quando faccia uso della scienza in senso inverso. Ma in realtà tutte quante le cose che hanno la capacità di 251 b agire e di patire, ovvero di muovere e di essere mosse, non hanno questa capacità in ogni modo, ma se stanno in una determinata maniera, ossia se sono vicine l’una all’altra. Di conseguenza, quando siano vicine, una muove e l’altra è mossa: ossia, quando sussistano come si è detto che sono, da un 5 lato, ciò che ha capacità di muovere, dall’altro, il mobile6. Se, dunque, il movimento non esistesse sempre, è chiaro che le cose non starebbero così come se fossero capaci, l’una di essere mossa, l’altra di muovere, ma una di esse 309

dovrebbe mutare. Questo, infatti, avviene necessariamente tra i relativi: per esempio, se una cosa che non era doppia, ora è doppia, si ha un mutamento: di una delle due, se non di entrambe. Pertanto,10 vi sarà un certo mutamento anteriore al primo. Inoltre , come ci saranno il prima e il poi se non esiste il tempo? Ο ci sarà tempo se non esiste movimento? Ora, se il tempo è numero del movimento o un certo movimento, se il tempo è sempre, è necessario che anche il movimento sia eterno7. 15 Ma in realtà sul tempo tutti, tranne uno, sono manifestamente dello stesso avviso. Infatti, sostengono che è ingenerato. Anche per questo Democrito dimostra che è impossibile che tutte le cose si siano generate8, giacché il tempo è ingenerato. Soltanto Platone pensa che si generi: sostiene, infatti, che esiste9 assieme al cielo, e il cielo si è generato10. Ora, se è 20 impossibile tanto che il tempo sia senza l’istante quanto il pensarlo, e l’istante è una sorta di medietà, con l’inizio e la fine assieme: principio del tempo che sarà, fine di quello che è passato, è necessario che il tempo sia sempre. Infatti, l’estremo del tempo assunto come ultimo sarà in un certo istante 25 (giacché nel tempo non è possibile assumere niente oltre l’istante); di conseguenza, poiché l’istante è principio e fine, è necessario che in entrambe le sue direzioni vi sia sempre un tempo. Ma in realtà, se necessariamente vi è un tempo, è evidente che vi è necessariamente anche un movimento, se il tempo è un’affezione del movimento. Il medesimo ragionamento concerne anche l’essere il movimento incorruttibile. In effetti, come nel caso del generarsi del movimento avviene che vi sia un mutamento anteriore al primo, 30 così in questo 〈avviene che ve ne sia〉 uno posteriore all’ultimo. Ché, 〈una cosa〉 non cessa contemporaneamente di essere mossa e mobile: per esempio, di essere bruciata e di poterlo essere (infatti, è possibile che possa essere bruciata senza essere bruciata), né di essere capace di muovere e motrice. 252 a Ora, anche ciò che è capace di corrompere dovrà esser stato corrotto quando sia corrotto, e, a sua volta, ciò che ultimamente è capace di corromperlo11, giacché la corruzione è un certo mutamento. Ebbene, se queste cose sono impossibili, è chiaro che il movimento è eterno, e non talvolta era, talvolta no. E infatti, il dire così assomiglia piuttosto a una finzione. 5 Similmente 〈assomiglia a una finzione〉 anche l’affermare che è così per natura e che bisogna pensare che questo costituisce un principio; il che sembra aver sostenuto Empedocle, che cioè alle cose appartiene fin dall’inizio il fatto che l’Amore e VOdio prevalgano parzialmente, ossia le muovano, e che nel tempo intermedio 〈esse〉 siano in quiete12. Ma forse 310

anche 10 coloro che rendono unico il principio, come Anassagora, direbbero così. Ma, senza dubbio, nessuna delle cose naturali e conformi a natura è priva della possibilità d’essere ordinata: giacché la natura è per tutte causa di ordine. Invece l’infinito non ha nessun rapporto con l’infinito, mentre ogni ordine è rapporto. Ma l’essere in quiete per uh tempo infinito, poi in un certo momento l’esser mosso, e il non darsi alcuna differenza 15 di questo, che cioè lo sia adesso piuttosto che prima, e il non avere proprio nessun ordine, non è più opera della natura. Infatti, o ciò che è per natura è in modo assoluto e non è talvolta così, talvolta in maniera diversa: per esempio, il fuoco per natura si porta in alto e non talvolta sì, talvolta no; o ciò che non è assoluto possiede una razionalità. Per questo, è meglio 20 come 〈dice〉 Empedocle, anche se qualche altro ha sostenuto che è così, ossia che il tutto è parzialmente in quiete e di nuovo si muove. Infatti, una situazione di questo tipo possiede già un certo ordine. Ma anche chi fa quest’affermazione non deve soltanto asserirla, ma anche dirne la causa, e non deve porre nulla, né stabilire un assioma irrazionale, ma portare o un’induzione o 25 una dimostrazione. Di per sé, infatti, le ipotesi che sono state fatte non sono cause, né è questo, come s’è detto, l’essere dell’Amore e dell’Odio, ma dell’uno è il riunire, dell’altro il separare. E se si aggiungerà «parzialmente», bisogna dire i casi in cui è così, come 〈bisogna dire〉 che vi è qualcosa che riunisce gli uomini, ossia l’amore, e che i malvagi si fuggono l’un 30 l’altro. Infatti, si ipotizza che questo sia anche nel tutto, giacché in alcuni casi è manifestamente così. Ma anche l’’〈alternarsi〉 attraverso tempi uguali abbisogna di un qualche ragionamento. In senso complessivo, il pensare che questo sia un principio sufficiente, se qualcosa o è o diviene sempre così, è fare un’ipotesi non corretta. Un’ipotesi alla quale Democrito 35 riconduce le cause della natura: «poiché anche prima fu così». Ma di ciò che è sempre non ritiene opportuno ricercare 252 b il principio, facendo affermazioni corrette in merito ad alcuni casi, ma non facendo un’affermazione corretta 〈nel dire〉 «poiché 〈è così〉 in tutti i casi». E infatti, il triangolo ha gli angoli 〈interni〉 sempre uguali a due retti, ma tuttavia c’è qualche causa diversa di quest’eternità13. Invece non c’è una causa diversa dei princìpi nel loro essere eterni. Che dunque non c’era né ci sarà nessun tempo in cui il movimento non c’era o non ci sarà, sia stato esposto con questo numero di argomenti.

VIII, 2 311

〈La difesa dell’eternità del movimento〉 Non è difficile sciogliere le 〈tesi〉 contrarie a queste. A coloro che indagano da tali 〈tesi〉 sembrerà essere massimamente possibile che il movimento, che non esisteva affatto, esista in un certo momento: innanzitutto perché nessun mutamento è eterno. Infatti, ogni mutamento è per natura da qualcosa 10 verso qualcosa, per cui è necessario che limite di ogni mutamento siano i contrari tra i quali 〈esso〉 si produce, e che nulla si muova all’infinito. Inoltre, vediamo che è possibile che sia mossa una cosa che né è mossa, né ha in sé alcun movimento: per esempio, nel caso di quelle inanimate, le quali, pur non essendo mossi né alcuna loro parte, né l’intero, ma essendo in quiete, talvolta 15 sono mosse; invece sarebbe conveniente o che si muovano sempre, o che non si muovano mai, se davvero 〈il movimento〉 non si genera senza che 〈già〉 sia. Ma al grado di gran lunga più alto è evidente che tale circostanza si ha per le cose animate14: ché, pur non essendo talvolta presente in noi alcun movimento, ma essendo in quiete, tuttavia in qualche momento ci muoviamo, e il principio del movimento si ingenera in noi da noi stessi, anche se niente di 20 esterno muova. In effetti, questo non lo osserviamo in pari modo nelle cose inanimate, ma le muove sempre qualche cosa diversa tra quelle esterne. Invece diciamo che il vivente si muove da se stesso. Di conseguenza, se talvolta è completamente in quiete, il movimento si genererebbe da se stesso e non dall’esterno in una cosa immobile. E se questo è 25 possibile che si produca in un vivente, che cosa impedisce che lo stesso avvenga anche nel tutto? Ché, se si produce in un microcosmo, 〈si produce〉 anche nel macrocosmo; e se nel mondo, anche nell’infinito, se davvero è possibile che l’infinito nella sua totalità si muova e sia in quiete15. Ora, il primo di questi 〈rilievi〉 che s’è esposto, il fatto 30 cioè che il movimento verso gli opposti non è sempre lo stesso e uno per il numero, corrisponde a un’affermazione corretta. Ciò, infatti, è senza dubbio necessario, se è possibile che il movimento della stessa e unica cosa non sia sempre uno e lo stesso. Intendo dire, per esempio, se il suono di un’unica corda sia uno e lo stesso, o sempre diverso, pur essendo e muovendosi 35 essa in modo simile. Ma tuttavia, in qualunque dei 253 a due modi sia mai, niente impedisce che un certo 〈movimento〉 sia lo stesso per il fatto di essere continuo ed eterno. Ma sarà maggiormente chiaro da ciò che 〈diremo〉 in seguito16. Il fatto che si muova una cosa che non si muoveva non è per nulla assurdo se talvolta ci sia ciò che la muove dall’esterno, talvolta no. Tuttavia 312

bisogna ricercare come questo può essere, e intendo riferirmi al fatto che la stessa cosa, dalla 5 stessa cosa che è atta a muoverla talvolta è mossa, talvolta no. In effetti, chi dice questo non solleva nessun’altra difficoltà se non sul perché alcuni tra gli enti non sono sempre in quiete e altri in movimento. Ma soprattutto la terza 〈obiezione〉 sembrerà comportare difficoltà, supponendo che s’ingenera il movimento che prima non esisteva, come ciò che avviene nel caso delle cose 10 animate. Infatti, una che prima era in quiete, poi cammina, senza che nessuna delle cose esterne la muova, come sembra. Ma questo è falso. Nel vivente vediamo, infatti, che qualcuna delle sue 〈parti〉 congenite è sempre in movimento; e lo stesso vivente non è causa del movimento di questa 〈parte〉, ma forse ciò che la contiene. E diciamo che esso non muove se stesso rispetto a ogni movimento, ma a quello secondo il luogo. 15 Niente dunque impedisce, ma piuttosto è forse necessario che nel corpo si ingenerino molti movimenti da parte di ciò che locontiene, e che alcuni di questi muovano il pensiero o il desiderio ed essi muovano già l’intero vivente, come avviene nel campo dei sonni. Infatti, anche se non è presente nessun movimento sensibile, ma pur tuttavia qualcuno è presente17, i 20 viventi si svegliano di nuovo. Ma anche per quel che riguarda questi argomenti sarà evidente da ciò che segue18.

VIII, 3 〈La divisione del movimento e della quiete nell’universo〉 Principio della ricerca è proprio quello che riguarda anche la difficoltà che s’è detta: perché mai alcuni degli enti talvolta si muovono, talvolta sono di nuovo in quiete. Ora, è necessario 〈1 o che tutti siano sempre in quiete, 〈2〉 o che tutti siano sempre in movimento, 〈3〉 o che alcuni siano 25 in movimento e altri in quiete, e a loro volta 〈a〉quelli tra questi che sono in movimento siano sempre in movimento, mentre quelli che sono in quiete siano sempre in quiete; 〈b〉 o che tutti per natura parimenti si muovano o siano in quiete; 〈c〉oppure resta ancora una terza 〈ipotesi〉: infatti, è possibile che alcuni tra gli enti siano sempre immobili, altri siano sempre in movimento, altri ancora partecipino di entrambi. 30 Proprio ciò che dobbiamo sostenere. Questa 〈tesi〉, infatti, possiede la soluzione di tutte le 〈istanze〉 che facevano 313

difficoltà, ed è il fine della presente trattazione. Ebbene, l’essere tutte le cose in quiete e ricercare una ragione di ciò eliminando la sensazione, è una certa deformità del pensiero, ed è una discussione che riguarda un dato ambito nella sua interezza, non una 〈sua〉 parte: giacché non ha 35 relazione soltanto con lo studioso di fisica, ma ha relazione, per così dire, con tutte le scienze e con tutte le opinioni, per il 253 b fatto che tutte fanno uso del movimento. Inoltre, le obiezioni relative ai princìpi, come nei discorsi su argomenti matematici non hanno alcun rapporto col matematico, e similmente 5anche nelle altre 〈scienze〉, così neppure nell’ambito di ciò che si è ora detto hanno rapporto col fisico. La sua ipotesi è, infatti, che la natura è principio del movimento19. Anche il sostenere che tutte le cose sono in movimento è pressoché falso, ma fuoriesce dalla ricerca meno della tesi precedente. Infatti, nei trattati di fisica20 la natura è stata posta come principio tanto del movimento che della quiete, e nondimeno21 il movimento come cosa naturale. E taluni sostengono 10 che, degli enti, non sono in movimento alcuni, mentre altri no, ma tutti e sempre; questo però sfugge alla nostra percezione. Ma a costoro, benché non abbiano distinto di quale movimento parlino, o di quanti, non è difficile opporsi. Infatti, non è possibile né che ci sia continuamente aumento, 15 né diminuzione, ma vi è anche il medio. Il discorso è simile a quello relativo al consumare della goccia e che le cose che si generano all’interno dividono le pietre. Ché, se la goccia ha eroso e tolto una certa quantità, non 〈può dirsi che〉 anche la metà in precedenza 〈l’ha erosa e tolta〉 nella metà del tempo, ma, come il tirare in secco22, anche questa quantità qui di gocce muove questa quantità qui, però la loro parte non 20 〈muove〉 una quantità in nessun tempo. Ebbene, ciò che è stato tolto, viene diviso in più 〈parti〉, ma nessuna di esse è stata mossa separatamente, bensì assieme 〈alle altre〉. È dunque evidente che non è necessario che qualcosa si stacchi sempre perché la diminuzione comporta divisione all’infinito, ma è l’intero che, talvolta, si stacca. Similmente è anche nel caso di qualsivoglia alterazione: infatti, se ciò che si altera è divisibile all’infinito, non per 25 questo lo è anche l’alterazione, ma sovente si produce tutta assieme, come il congelamento23. Inoltre, quando uno24 sia , ammalato, è necessario che si dia un tempo in cui sarà guarito e non che muti in un limite di tempo; ed è necessario che mutiverso la salute e non verso alcun’altra cosa. Di conseguenza, il sostenere che l’alterazione si produce in modo continuo, è contraddire troppo ciò che è evidente. Infatti, l’alterazione va 30 verso il contrario. Invece la pietra non diventa né più dura né più molle. 314

Riguardo allo spostarsi, si ha una stranezza se è sfuggito che la pietra si sposta verso il basso o che resta ferma sulla terra. Inoltre, la terra e ciascuna delle altre cose, necessariamente, nei luoghi propri restano ferme, e da essi si muovono a violenza. Se, dunque, alcune di esse sono nei luoghi propri, 35 necessariamente neppure secondo il luogo sono tutte in movimento. Che dunque sia impossibile o che tutte le cose siano sempre in movimento, o che tutte siano sempre in quiete, si può credere da questi 〈argomenti〉 e da altri di questo genere. Ma neppure è possibile che alcune siano sempre in quiete, altre sempre in movimento, e che nessuna sia talvolta in quiete, 5 talvolta in movimento. Bisogna dire che è impossibile: anche in questi casi, come in quelli precedentemente esposti (infatti, vediamo che i mutamenti di cui abbiamo parlato si producono nelle stesse cose); e, inoltre, che chi vi solleva discussioni polemizza con ciò che è evidente. Infatti, né vi sarà l’aumento, né il movimento forzato se una cosa, prima in quiete, non 10 viene mossa contro natura25. Quindi questo discorso elimina la generazione e la corruzione. Ma tutti ammettono che anche l’essere in movimento è pressoché un generarsi e un corrompersi: infatti, ciò verso cui si muta, si genera o in questo si produce la generazione, mentre ciò da cui si muta, si corrompe o da qui procede la corruzione. Per cui è chiaro che alcune cose si muovono, altre sono in quiete. Invece, il ritenere che tutte le cose talvolta sono in quiete e 15talvolta si muovono, questo bisogna già che s’adatti ai ragionamenti passati26. Ma bisogna creare di nuovo un punto di partenza muovendo dalle distinzioni ora operate27: il medesimo secondo il quale prima abbiamo avviato le mosse. In effetti, 〈1〉o tutte le cose sono in quiete, 〈2〉 o tutte sono in movimento, 〈3〉o alcuni tra gli enti sono in quiete, altri in movimento. E se 〈3〉alcuni sono in quiete, altri 20 sono in movimento, è necessario 〈a〉 o che tutti talvolta siano in quiete, talvolta in movimento, 〈b〉〈o che alcuni siano sempre in quiete, altri sempre in movimento〉28, 〈c〉 o che alcuni di essi siano sempre in quiete, altri sempre in movimento, altri ancora talvolta in quiete e talvolta in movimento. Ebbene, che non sia possibile che tutte siano in quiete, si è detto anche prima29, ma diciamolo anche ora. Infatti, anche 25 se secondo verità le cose stanno così come alcuni sostengono, e cioè che l’essere è infinito e immobile30, secondo la sensazione, però, non risulta proprio, ma 〈risulta〉 che molti tra gli enti si muovono. Ebbene, se è un’opinione falsa o comunque un’opinione, pure il movimento esiste: anche se si trattasse di un’immaginazione e talvolta sembrasse così, talvolta diversamente. In effetti, tutti sono d’accordo che l’immaginazione 30 e l’opinione sono sorte 315

di movimenti31. Ma l’indagare su questo e il ricercare una ragione delle cose rispetto alle quali siamo in una situazione migliore dell’aver bisogno di una ragione, è giudicare male il meglio e il peggio, il credibile e il non credibile, il princìpio e il non-princìpio32. Parimenti è impossibile anche il fatto che tutte le cose siano in movimento, o che alcune siano sempre in movimento, altre sempre in quiete33. Contro tutte queste 〈tesi〉 è sufficiente 35 una sola convinzione: vediamo, infatti, che alcune cose talvolta 254 b sono in movimento, talvolta sono in quiete. Di conseguenza, è evidente che è parimenti impossibile l’essere tutte le cose continuamente in quiete e l’essere tutte continuamente in movimento, per il fatto che alcune si muovono sempre, altre sono sempre in quiete. Resta dunque da indagare se tutte le cose siano tali da essere in movimento ed essere in quiete, o se alcune stanno 5 così, altre sono sempre in quiete, altre ancora sempre in movimento. Questo, infatti, dobbiamo dire.

VIII, 4 〈Necessità del motore per il movimento〉 Ora, delle cose che muovono e di quelle che sono mosse, le une muovono e sono mosse per accidente, le altre per sé: per accidente, come tutte quelle che 〈muovono o sono mosse〉 per il fatto di inerire ai motori o alle cose mosse e quelle 10 relative a una parte; per sé, quante non 〈muovono o sono mosse〉 né per il fatto di inerire al motore o alle cose mosse, né per quello di muovere o d’essere mosse come una parte di essi. E di quelle per sé, alcune muovono o sono mosse da se stesse, altre da altro, e alcune per natura, altre a violenza e contro natura. In effetti, ciò che si muove da sé, si muove per natura: per 15 esempio, ciascuno degli animali (ché, l’animale è mosso da se stesso, e tutte quelle cose il cui principio del movimento è in loro stesse diciamo che si muovono per natura. Perciò l’animale nella sua interezza si muove per natura da sé, ma tuttavia è possibile che il corpo si muova e per natura e contro natura. Infatti, fa differenza quale movimento tocchi 20 in sorte alla cosa che si muove e da quale elemento è composta〉. E delle cose che sono mosse da altro, alcune sono mosse per natura, altre contro natura: contro natura, come quelle terresti verso l’alto e il fuoco verso il basso, e inoltre le parti degli animali spesse volte si muovono contro natura, ossia contrariamente alle posizioni e ai modi del movimento. 316

25 E l'essere ciò che è mosso, mosso da altro, è soprattutto evidente nelle cose che sono mosse contro natura, per il fatto che 〈qui〉 è chiara una cosa mossa da altro. Ma, dopo le cose che sono mosse contro natura, tra quelle che si muovono secondo natura 〈lo manifestano chiaramente〉 quelle che si muovono da se stesse: per esempio, gli animali. Infatti, non è questo che è oscuro, se cioè siano mosse da qualcosa, ma come 30 nella cosa si devono distinguere il motore e il mosso. Sembra infatti che, come nelle navi e nelle cose che non sono composte per natura, così anche negli animali siano separati il motore e il mosso, e che in questo modo il tutto stesso muova se stesso. Ma soprattutto comporta difficoltà il resto dell’ultima divisione che abbiamo enunciato. In effetti, tra le cose che sono 35 mosse da altro, abbiamo posto che alcune sono mosse contro 255 a natura, ma resta che altre esprimono un’antitesi perché 〈sono mosse〉 per natura. Queste sono quelle che possono presentare la difficoltà concernente da che cosa siano mosse: per esempio, le cose leggere e quelle pesanti. Esse, infatti, a violenza si muovono verso i luoghi opposti, ma per natura verso quelli propri: ciò che è leggero verso l’alto, mentre ciò che è 5 pesante verso il basso. Ma da che cosa sono mosse, non è più evidente, come quando siano mosse contro natura. In effetti, il dire che esse sono mosse da se medesime è impossibile, giacché questo è prerogativa di una cosa capace di vita ed è proprio delle cose animate, ed esse potrebbero anche arrestare se stesse (dico per esempio che, se 〈una cosa〉 è causa per sé del camminare, lo è anche del non camminare); per cui, se dipende dallo stesso fuoco il portarsi in alto, è chiaro che 10 dipende da esso anche 〈il portarsi〉 in basso. Ed è illogico anche il fatto che si muovano da sé secondo un unico movimento soltanto, se veramente esse muovono se stesse. Inoltre, com’è possibile che qualcosa di continuo e di naturalmente unito muova, esso, se stesso? Ché, in quanto uno e continuo non per contatto34, per quest’aspetto è esente da affezioni; ma in quanto è stato separato, per quest’aspetto una 〈parte〉 per natura agisce e un’altra patisce. Pertanto, né 15 alcuna di queste cose muove, essa, se stessa (giacché è naturalmente unita), né alcun’altra cosa continua, ma in ciascuna il motore è necessariamente diviso rispetto a ciò che è mosso: come vediamo che è per le cose inanimate, quando qualcuna di quelle animate le muova. Ma avviene che anche queste siano sempre mosse da qualcosa. E può diventare evidente se si distinguono le cause. 20 È possibile assumere quello che s’è detto anche per i motori: giacché alcuni di essi sono atti a muovere contro natura: per esempio, la leva non per natura è atta a muovere ciò che è pesante; altri invece per natura: per 317

esempio, ciò che caldo in atto è capace di muovere ciò che è caldo in potenza. E similmente è anche negli altri casi di questo genere. E, allo stesso modo, è un mobile per natura ciò che è in 25 potenza di una data qualità, o di una data quantità, o in un luogo, quando possieda un tale princìpio in se stesso e non per accidente (infatti, la stessa cosa può essere e qualità e quantità, ma una 〈determinazione〉 è accidentale all’altra e non appartiene per sé). Ora, il fuoco e la terra sono mossi da qualcosa a violenza quando lo siano contro natura, mentre 〈sono mossi〉 per natura quando, essendo in potenza, 〈siano mossi〉 30 verso i loro atti. Poiché ciò che è in potenza si dice in più sensi, questo è causa del non essere evidente da che cosa sono mosse le cose di questo genere: per esempio, il fuoco in alto e la terra in basso. Ma è in potenza in modo diverso chi conosce imparando e chi possiede già 〈la conoscenza〉 e non la esercita. Però, quando l’elemento che può agire e l’elemento che può patire 35 siano assieme, ciò che è in potenza diventa in atto: per 255 b esempio, l’essere che apprende, da una cosa che è in potenza diventa un’altra cosa in potenza (infatti, chi possiede la conoscenza ma non specula, è in qualche modo sapiente in potenza, però non come anche prima di imparare); quando invece versi in questa condizione, a meno che qualcosa non gli sia d’impedimento, esercita 〈la conoscenza〉 e specula, oppure 5 sarà in contraddizione 〈con la sua potenzialità〉, ossia nell’ignoranza. Similmente questo si verifica anche nelle cose naturali. Infatti, ciò che è freddo, in potenza è caldo, e quando abbia attuato il mutamento è ormai fuoco e brucia, a meno che qualcosa non lo ostacoli e non lo impedisca. La situazione è simile anche per quanto riguarda ciò che è pesante e leggero. Infatti, ciò che è leggero si origina da ciò che è pesante: per 10 esempio, dall’acqua l’aria (questa, infatti, prima era in potenza), ed è già una cosa leggera, e passerà tosto all’alto, se qualcosa non lo impedisca. E atto del leggero è l’essere in un luogo, cioè in alto, ed è impedito quando sia nel luogo contrario. E queste considerazioni valgono parimenti sia per la quantità, sia per la qualità . Certo, si ricerca questo: perché le cose leggere e quelle pesanti 15 si muovono verso il loro luogo. La causa è che vanno per natura verso un certo luogo, e questo è l’essere del leggero e del pesante, il primo determinato per l’alto, il secondo per il basso. Ma 〈una cosa〉 è leggera e pesante in potenza in molti sensi, come s’è detto: infatti, quando lo è in quanto acqua, è leggera in un certo senso e quando lo è in quanto aria, è 〈leggera〉 come ancora in potenza (giacché è possibile che, essendo 20 impedita, non sia in alto); ma se sia stato levato ciò che l’impedisce, realizza l’atto e va sempre più in alto. Similmente anche la qualità muta verso 318

l’essere in atto: infatti, ciò che conosce passa immediatamente alla contemplazione, se qualcosa non gliel’impedisca. Anche la quantità si estende, se qualcosa non gliel’impedisca. Ma chi rimuove una cosa che s’oppone e impedisce, in un 25 senso muove, in un altro no35: per esempio, chi tira indietro la colonna e chi toglie la pietra dall’otre nell’acqua. Infatti, muove per accidente, come anche la palla che rimbalza non è mossa dal muro, ma da chi la lancia. Dunque, che nessuna di queste cose muova, essa, se stessa, è chiaro. Però possiedono il principio del movimento: non del 30 muovere né dell’agire, bensì del patire. Ora, se tutte le cose che sono mosse, sono mosse o per natura o contro natura, ossia a violenza, e tutte quelle che 〈sono mosse〉 a violenza, ossia contro natura, 〈sono mosse〉 da qualcosa, vale a dire da altro36, e, tra quelle che 〈sono mosse〉 per natura, sono mosse da qualcosa tanto quelle che sono mosse 35 da se stesse quanto quelle che non 〈sono mosse〉 da se stesse37, come le cose leggere e le cose pesanti (infatti, 〈sono mosse〉 256 a da chi ha generato o fatto la cosa come leggera o pesante38, o da chi ha sciolto ciò che le impediva e le ostacolava), allora tutte le cose che sono mosse, saranno mosse da qualcosa.

VIII, 5 〈Necessità di un motore primo immobile〉 Ciò 〈avviene〉 in due modi: infatti, o non mediante lo stesso motore, bensì mediante un’altra cosa che muove il motore, o 5 mediante lo stesso motore; e questo o è primo, dopo la 〈parte〉 ultima 〈di ciò che è mosso〉, o 〈muove〉 tramite più 〈motori〉: per esempio, il bastone muove la pietra ed è mosso dalla mano, che è mossa dall’uomo; ma questi non 〈muove〉 più per il fatto di essere mosso da altro. Ebbene, diciamo che entrambi muovono, sia l’ultimo dei motori che il primo, ma maggiormente 10 il primo. Esso, infatti, muove l’ultimo, ma questo non 〈muove〉 il primo, e senza il primo, l’ultimo non muoverà, mentre quello 〈muoverà〉 anche senza questo: per esempio, il bastone non muoverà se l’uomo non lo muove. Ora, se è necessario che tutto ciò che è mosso sia mosso da qualcosa, 20 e o da una cosa mossa da altro o no, e se lo è da 15 un’altra cosa [mossa]39 è necessario che ci sia qualche motore primo che non 〈sia mosso〉 da altro, se invece tale cosa è il 〈motore〉 primo non ne è necessario un altro (infatti, è 319

impossibile che ciò che muove ed è esso stesso mosso da altro proceda all’infinito, giacché tra le cose che sono infinite nessuna è prima), se, dunque, tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa e il motore primo è sì mosso, ma non da altro, esso è necessariamente mosso da se stesso. Inoltre, è possibile percorrere questo stesso ragionamento anche in questo modo. In effetti, ogni motore muove qualcosa e con qualcosa: in effetti, il motore o muove con se stesso o con altro: per esempio, l’uomo 〈muove〉 o egli stesso o col 25 bastone, e colpisce o il vento stesso o la pietra che ha spinto. Ma è impossibile che 〈il motore〉 muova la cosa con la quale muove 〈l’oggetto〉 senza muovere quella cosa con se stesso. Ma se muove l’oggetto con se stesso, non è necessaria un’altra cosa con cui lo muova; se invece la cosa con cui lo muove sia un’altra, vi è necessariamente qualcosa che muoverà non con qualcosa, ma con se stesso, oppure si procede all’infinito. Se dunque muove qualcosa che è mosso, è necessario arrestarsi 30 e non procedere all’infinito. Infatti, se il bastone muove per il fatto di essere mosso dalla mano, la mano muove il bastone; e se anche un’altra cosa muove con questa, anche ciò che muove questa è qualcos’altro. Perciò, quando un’altra cosa muova sempre con qualcosa, è necessario che prima vi sia ciò che muove la cosa intermedia40 con se stesso. Se dunque questo è mosso, ma ciò che lo muove non è un’altra 256 b cosa, è necessario che esso muova se stesso. Di conseguenza, anche secondo questo ragionamento o ciò che è mosso è subito mosso da ciò che muove se stesso, o una volta si perviene a un tale 〈motore〉. Oltre a ciò che si è detto, anche se si ragiona in questo modo si avranno queste medesime conclusioni. Se dunque tutto ciò che è mosso, è mosso da una cosa che è mossa, o 5 questo appartiene accidentalmente alle cose, per cui muove, sì, essendo mosso, ma non per il fatto che esso è mosso, oppure no, ma 〈vi appartiene〉 per sé. Innanzitutto, dunque, se è per accidente, non è necessario che ciò che muove41 sia mosso. E se vige questo, chiaramente è possibile che talvolta non sia mosso nessuno degli enti: infatti, ciò che è accidentale non 10 è necessario, ma può non essere. Se, dunque, poniamo che vige questa possibilità, non capiterà niente d’impossibile, ma senza dubbio è falso. Ma è impossibile che non esista il movimento, giacché prima si è dimostrato che il movimento è necessariamente eterno. Ed è ben logico che sia risultato questo: infatti, è necessario che si diano tre cose: ciò che è mosso, il motore e ciò con 15 cui muove. Ebbene, ciò che è mosso è necessario che sia mosso, ma non è necessario che muova; ciò con cui muove, 〈necessariamente〉 e muove ed è mosso (questo, infatti, muta assieme a ciò che è mosso, essendo assieme a esso e nello stesso rapporto 〈rispetto al motore〉; è chiaro nel caso di ciò che muove secondo il 320

luogo, giacché sono necessariamente in contatto l’un con l’altro fino a un certo punto); ciò che muove così da non essere la cosa con cui muove, è immobile. E poiché 20 vediamo il 〈motore〉 ultimo, il quale può sì essere mosso, ma non possiede il principio del movimento, e ciò che è mosso, ma non da altro, bensì da se stesso, è logico, per non dire necessario, che vi sia anche la terza cosa che muove essendo immobile. Perciò Anassagora dice esattamente quando sostiene che la Mente è priva di affezioni e non mescolata, poiché pone 25 che essa sia principio del movimento. Soltanto così, infatti, può muovere essendo immobile e può dominare essendo non mescolata. Ma se il motore non è mosso accidentalmente, bensì necessanamente, e se non fosse mosso non potrebbe muovere, è 30 necessario che il motore, in quanto è mosso, sia mosso così da esserlo o secondo la medesima specie del movimento, o secondo un’altra. Dico che o ciò che riscalda è anche esso stesso riscaldato e ciò che sana è sanato e ciò che sposta è spostato, oppure che ciò che sana è spostato e ciò che sposta è aumentato. Ma è evidente che è impossibile. Infatti, si deve dire 257 a dividendo fino alle 〈specie〉 indivisibili: per esempio, se s’insegna una qualche nozione di geometria, che ricevere l’insegnamento su questa nozione di geometria è identico, oppure, se si lancia, che lo è l’esser lanciati secondo la medesima modalità del lancio. Oppure non è così, ma un genere 〈di movimento〉 deriva da un altro genere: per esempio, ciò che si sposta 5 è aumentato, ciò che lo aumenta è alterato da un’altra cosa, e ciò che lo altera è mosso secondo qualche altro movimento. Ma è necessario arrestarsi, giacché i movimenti sono finiti. E l’asserire che si torna in circolo e che ciò che altera è trasportato, è fare lo stesso che se si asserisse immediatamente 10 che ciò che trasporta è trasportato e ciò che insegna riceve insegnamenti (è chiaro, infatti, che tutto ciò che è mosso, è mosso dal motore superiore, e piuttosto dal primo dei motori). Ma questo è proprio impossibile, ossia che ciò che insegna avvenga che impari: si tratta di cose di cui l’una necessariamente non possiede scienza, l’altra invece la possiede. 15 Ma, ancora più illogico di questi 〈esiti〉 è che avvenga che tutto ciò che è capace di muovere sia mobile, se davvero tutto quanto ciò che è mosso, è mosso da una cosa che è mossa. Infatti, sarà mobile, come se si dicesse che tutto ciò che è capace di guarire è guaribile, e ciò che è capace di costruire è costruibile, o immediatamente o mediante più 〈intermedi〉. Dico ad esempio che, se tutto ciò che è capace di muovere può essere mosso da altro, ma può 20 esser mosso non secondo quel movimento secondo il quale muove il vicino, bensì secondo uno diverso (per esempio, ciò che è capace di sanare è capace di imparare), questo, risalendo, a un 321

certo momento giungerà alla medesima specie, come prima abbiamo detto. Dunque, una di queste cose è impossibile, l’altra fittizia: è assurdo, infatti, che ciò che di necessità è capace di alterare possa essere aumentato. Pertanto non necessariamente ciò che è mosso, 25 è mosso da altro, anche questo essendo mosso. Quindi ci si arresterà. Di conseguenza, o la cosa prima che è mossa sarà mossa da ciò che è in quiete, o sarà mossa da se stessa. Ma se anche si dovesse indagare quale dei due è causa e principio del movimento, ciò che muove se stesso o ciò che è mosso da altro, chiunque porrebbe il primo. Infatti, ciò che è 30 causa per sé è sempre anteriore a ciò che, pur essendo anch’esso causa, lo è per altro. Di conseguenza, assumendo un diverso principio, bisogna indagare questo: se qualcosa muove se stesso, come muove e in che modo. Ora, è necessario che tutto ciò che è mosso sia divisibile in cose sempre divisibili: questo, infatti, si è precedentemente dimostrato nella trattazione generale sulla natura42, che tutto 257 b ciò che si muove da sé è continuo. È dunque impossibile che ciò che muove se stesso, muova se stesso in tutti i punti: giacché sarebbe interamente spostato e sposterebbe secondo la stessa traslazione, essendo uno e indivisibile per la specie, e sarebbe alterato e altererebbe, per cui insegnerebbe e riceverebbe insegnamento contemporaneamente, 5 e guarirebbe e sarebbe guarito secondo la stessa guarigione. Inoltre, si è determinato che si muove ciò che è mobile43, e questo è mosso in potenza, non in atto, e ciò che è in potenza passa all’atto, e il movimento è atto incompleto di un mobile44. Ma il motore è già in atto: per esempio, riscalda ciò che è caldo e, complessivamente, genera ciò che possiede la forma. 10 Di conseguenza, la medesima cosa sotto il medesimo rispetto sarà calda e non calda; e similmente, pure ciascuna di tutte quelle altre cose il cui motore ha 〈in ciò che è mosso〉 il suo sinonimo. Una parte, dunque, di ciò che muove se stesso, muove, un’altra è mossa. Ma che non vi sia una cosa che muove se stessa così che 15ciascuna delle due 〈parti〉 sia mossa da ciascuna delle due, è evidente da queste 〈considerazioni〉. Ché, neppure vi sarà alcun primo motore, se davvero ciascuna delle due 〈parti〉 muoverà se stessa: in effetti, ciò che è anteriore è maggiormente causa dell’esser mosso di ciò che 〈gli〉 è contiguo e muoverà maggiormente. Infatti, come s’è detto, muovere è in due sensi45: 〈muove〉 sia ciò che è mosso da altro, sia ciò che lo è mediante se stesso. Ma ciò che è più lontano da quel che è 20 mosso è più vicino al principio che non l’intermedio. 322

Inoltre , ciò che muove non è necessariamente mosso se non da se stesso; perciò l’altra 〈parte〉 muove in senso contrario per accidente. Pertanto ho assunto46 che è possibile che non muova. Perciò, da un lato si ha ciò che è mosso, dall’altro il motore immobile. Inoltre, non necessariamente il motore è mosso in senso contrario, ma è necessario o che muova proprio qualcosa 25 di immobile, o che 〈il motore〉 sia mosso da se stesso, se il movimento è necessariamente sempre47. Inoltre , sarebbe mosso secondo il movimento secondo cui muove, cosicché ciò che riscalda viene riscaldato48. Ma nemmeno può dirsi che una sola parte o più parti di ciò che muove primariamente se stesso, muoveranno ciascuna se stessa. Infatti, se l’intero è mosso da se stesso, o sarà mosso da 30 qualcuna delle sue 〈parti〉, oppure lo sarà come intero dall’intero. Se dunque lo fosse per il fatto che qualche parte si muove da se stessa, sarebbe questa la cosa prima che muove se stessa (infatti, anche se separata, questa muoverà se stessa, mentre l’intero non lo farà più); se invece come intero è mosso dall’intero, queste muoverebbero se stesse per accidente. Di conseguenza, se non è necessario, le si assuma come non mosse 258 a da sé. Pertanto una parte dell’intero49 muoverà essendo immobile e un’altra sarà mossa. Soltanto così, infatti, è possibile che ci sia una qualche cosa capace di muovere se stessa. Inoltre , se l’intero muove se stesso, una parte di esso muoverà, un’altra sarà mossa. Pertanto, l’〈intero〉 AB sarà mosso da se stesso e da A50. Ma poiché muovono sia ciò che è mosso da altro, sia ciò 5 che è immobile, ed è mosso sia ciò che muove, sia ciò che non muove affatto, ciò che muove se stesso è necessariamente costituito da una cosa immobile, ma che muove e, inoltre, da una cosa che è mossa, ma che non muove di necessità, bensì come capita. Sia, infatti, A un motore, ma immobile, Β una mossa da A e che muove ciò che è indicato con C, questo una 10 cosa mossa da Β e che non muove nulla. Infatti, anche se in un certo momento si arriverà a C tramite più 〈motori〉, sia che 〈vi si arrivi〉 tramite uno solo. Pertanto, tutto ABC muove se stesso. Ma se tolgo C, AB muoverà se stesso — A sarà il motore, Β la cosa mossa —, mentre C non muoverà se stesso, né 15 sarà affatto mosso. Ma neppure BC muoverà se stesso senza A: giacché Β muove per il fatto di essere mosso da altro, non per il fatto di 〈essere mosso〉 da qualche sua parte. Dunque, soltanto AB muove se stesso. È quindi necessario che ciò che muove se stesso possieda un motore, ma immobile, e ciò che è 20 mosso, ma che non muove niente di necessità, essendo o entrambe le cose in contatto reciproco, o una delle due con una delle due51. 323

Se dunque il motore è continuo (giacché ciò che è mosso è necessariamente continuo52), ciascuna delle due 〈parti〉 sarà in contatto con ciascuna delle due. Pertanto è chiaro che il tutto muove se stesso non per il fatto che qualche sua 〈parte〉 è tale da muovere se stessa, ma muove se stesso nella sua totalità: 25 mosso e motore, per il fatto che ciò che muove e ciò che è mosso sono qualche sua 〈parte〉. Infatti, non muove nella sua totalità, né è mosso nella sua totalità, ma muove A ed è mosso soltanto Β [invece C non è più mosso da A, giacché è impossibile]. Ma nel caso in cui si tolga o 〈una parte〉 di A, se il motore è continuo e immobile, o di B, che è mosso, si presenta una 30 difficoltà: forse che la 〈parte〉 restante di A muoverà o quella di Β sarà mossa? Ché, se vige questo, AB non sarà primariamente mosso da se stesso: infatti, tolta 〈una parte〉 da AB, la restante 〈parte〉 di AB muoverà ancora se stessa. Oppure, 258 b niente impedisce che in potenza ciascuna delle due 〈parti〉, o una delle due, vale a dire ciò che è mosso, sia divisibile, ma in atto è indivisibile; se invece sia stata divisa, che non sia più con la propria natura. Di conseguenza, niente impedisce che sia primariamente insita in cose divisibili in potenza. Da queste 〈considerazioni〉 è evidente, pertanto, che ciò 5 che muove primariamente è immobile. Sia, infatti, che ciò che è mosso, ed è mosso da qualcosa, si arresti immediatamente davanti al primo 〈motore〉 immobile, sia che lo faccia davanti a un 〈motore〉 che è sì mosso, ma muove se stesso e s’arresta, in entrambi i casi avviene che per tutte quante le cose mosse vi sia ciò che, immobile, muove primariamente.

VIII, 6 〈L’eternità del primo motore〉 Poiché il movimento deve esistere sempre e non avere intervalli, 10 è necessario che esista qualcosa di eterno che muova come cosa prima, o uno solo o più d’uno, e che il motore primo sia immobile. Ora, che ciascuna delle cose immobili, ma motrici53 sia eterna, non ha alcun rapporto col presente ragionamento; invece, che esista qualcosa che in se stesso è immobile — essendogli esterno ogni mutamento, sia assolutamente 15 che per accidente —, ma è capace di muovere altro, è chiaro se si indaga così. Ora, si ammetta pure, se si vuole, che esistono alcune cose che possono talvolta essere e talvolta non essere senza generazione e corruzione (forse, infatti, è necessario, se qualcosa privo di parti talvolta è e talvolta non è, che 324

tutto ciò che è tale talvolta sia e talvolta non sia senza mutare). 20 E sia possibile anche questo, che alcuni tra i princìpi immobili, ma capaci di muovere, talvolta sono e talvolta non sono. Ma certamente non è possibile che tutti siano 〈così〉: è chiaro, infatti, che per le cose che muovono se stesse vi è una qualche causa del fatto che talvolta sono e talvolta non sono. Ché, tutto ciò che muove se stesso ha necessariamente una grandezza, se niente che sia privo di parti si muove54; invece, da quello che 25 s’è detto non vi è nessuna necessità che 〈l’abbia〉 ciò che muove. Ora, del fatto che alcune cose si generano, altre si corrompono, e che questo è in modo continuo, non è causa nessuna delle cose immobili ma che non sono sempre, né la loro successione55. Infatti, né ciascuna di esse, né tutte sono cause di 30 quel che è sempre e di quel che è continuo. Ché, l’essere in questo modo è eterno e di necessità, mentre tutte quelle cose sono infinite, pur non essendo tutte assieme. Pertanto è chiaro 259 a che, anche se alcune delle cose immobili, ma motrici56 e molte di quelle che muovono se stesse si corrompono e tornano aiTessere diecimila volte, e questa, essendo immobile, muove questa, quest’altra quest’altra qui, per nulla di meno, però, vi è qualcosa che le contiene e che sta — questo 〈qualcosa〉 — al di là di ciascuna: qualcosa che sia causa del fatto che le une 5 sono e le altre no e del mutamento continuo. E questo è causa di movimento per queste cose, queste per altre cose. Se, dunque, il movimento è eterno, sarà eterno anche il motore primo, se è uno; se invece è più d’uno, le cose eterne saranno più d’una. Ma si deve pensare che sia uno piuttosto che più d’uno, e che 〈le cose eterne〉 siano finite piuttosto che 10 infinite. Infatti, quando le risultanze sono le stesse, di preferenza bisogna sempre assumere le cose finite, giacché nelle cose naturali devono piuttosto sussistere, se sia possibile, il finito e il meglio57. Ed è sufficiente anche uno: quel 〈motore〉 che, come primo tra le cose immobili, essendo eterno, sarà causa di movimento anche per le altre. Ma anche da queste 〈considerazioni〉 è evidente la necessità che il motore primo sia qualcosa di unico e di eterno. 15 Infatti, si è dimostrato58 che il movimento è necessariamente sempre. E se è sempre, è necessariamente continuo; e infatti, ciò che è sempre è continuo, mentre ciò che è consecutivo non è continuo. Ma se è continuo, è uno. Ed è uno quello che proviene da un unico motore e da un’unica cosa mossa. Se, studioso, il quale legge τωνδὶ μὲν ταoί e sopprime κινoύντων come aggiunta del copista, conseguente all’aver egli ritenuto των dipendente da oὐδὲν. Secondo tale emendamento, paleograficamente provvisto di alta attendibilità, il testo letteralmente suona: «né queste date cose qui di queste 325

date cose qui, altre di queste», asserisce cioè l’impossibilità, in ordine al carattere continuo del movimento, anche di una successione di motori immobili che siano talvolta soltanto. infatti, muove un cosa diversa e una diversa ancora, il movimento nella sua totalità non è continuo, bensì consecutivo. Ora, da queste 〈riflessioni〉 si può ritenere che esiste un 20 qualche 〈motore〉 primo immobile, ma, 〈lo si può ritenere〉 anche volgendo lo sguardo ai princìpi [dei motori]59. Ebbene, il fatto che tra gli enti ve ne siano alcuni che talvolta si muovono e talvolta sono in quiete, è evidente. E mediante questo è divenuto chiaro che né tutti si muovono, né tutti sono in quiete, né gli uni sono sempre in quiete e gli altri sono sempre 25 in movimento: in effetti, quelli che si contendono tra l’una e l’altra cosa e hanno la capacità di muoversi e di essere in quiete, danno dimostrazione su di essi. E poiché gli enti siffatti sono chiari a tutti, e noi vogliamo dimostrare anche la natura di 〈questi〉 due tipi di cose, che cioè alcune sono sempre immobili, altre sono sempre in movimento, avanzando fino a questo punto e ponendo che tutto 30 ciò che è mosso, è mosso da qualcosa, e che questo è o immobile o mosso, e che, se è mosso, lo è sempre o da sé o da altro, procediamo fino ad assumere che principio dello cose che sono mosse, in quanto mosse è ciò che muove se stesso, in quanto 259 b tutte, è ciò che è immobile. E vediamo pure chiaramente che sono tali le cose che muovono se stesse: per esempio, il genere di quelle animate e dei viventi; ed erano queste a procurare anche l’opinione60 che non è mai possibile l’insorgere di un movimento che non esisteva affatto, per il motivo che ne osserviamo l’accadere in queste cose (infatti, dopo che 5 qualche volta sono immobili, di nuovo si mettono in movimento, come sembra). Ebbene, si deve assumere questo: che muovono se stesse secondo un solo movimento, e che secondo esso non 〈si muovono〉 in senso principale. Ché, la causa non proviene dalla cosa stessa, ma negli animali sono presenti altri movimenti naturali, secondo i quali non si muovono da sé: per esempio, l’aumento, la diminuzione, la respirazione, secondo cui ciascuno degli animali si muove, pur essendo in quiete 10 e senza muoversi secondo il movimento che proviene da sé. Ne sono causa, invece, ciò che li contiene e molte delle cose che vi entrano: di certuni, per esempio, il nutrimento. Infatti, quando è digerito s’addormentano, mentre quando è ben sminuzzato si svegliano e muovono se stessi, derivando il principio primo da fuori. Ond’è che non sempre si muovono 15 con continuità da se stessi. In effetti, il motore è altro, essendo esso mosso e mutando in rapporto a ciascuna delle cose che muovono se medesime. E in tutte queste cose il motore primo, ossia la 326

causa del muovere se stessi, è mosso da sé, ma tuttavia per accidente. Ché, il corpo muta secondo il luogo, di modo che 〈muta secondo il luogo〉 anche ciò che è nel corpo, e 20 〈lo fa〉 pure ciò che muove se stesso sulla leva61. E da queste 〈considerazioni〉 è possibile credere che, se vi è qualcuna delle cose immobili, ma che muovono anche se stesse per accidente, è impossibile che il movimento sia continuo. Per cui, se è necessario che il movimento sia continuamente, dev’esserci qualcosa che sia il primo motore non passibile di movimento anche per accidente62, se, come sosteniamo, negli 25 enti dovrà esserci un certo movimento che non può cessare, ossia immortale, e l’essere dovrà permanere in se stesso e nello stesso 〈luogo〉63. Infatti, se permane il principio, permane necessariamente anche il tutto, essendo continuo rispetto al principio. Ma non è la stessa cosa l’esser mosso per accidente da sé e da altro: infatti, l’〈esserlo〉 da altro appartiene anche a taluni princìpi delle cose celesti: tutte quelle che si spostano 30 secondo più traslazioni, mentre l’altro 〈esser mosso〉 è soltanto per le cose corruttibili64.

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Una pagina illustrata nell’ottavo libro della Fisica, in Libri Physicarum octo ... cit. (Pavia, per Jacob Paucidrapium 1524).

Ma se davvero esiste sempre qualcosa di siffatto, che muove alcunché, ma esso stesso è immobile ed eterno, anche la cosa prima mossa da questo è necessariamente eterna. 260 a Ciò è chiaro pure dal fatto che gli enti non avrebbero in altro modo generazione, corruzione e mutamento, se li muove qualcosa che è mosso. In effetti, ciò che è immobile muoverà sempre nello stesso modo e secondo un unico movimento, poiché non muta affatto se stesso in rapporto a ciò che è mosso; invece ciò 5 che è mosso da una cosa mossa, che a sua volta è mossa da una ormai immobile, per il fatto di rapportarsi alle cose in modo sempre diverso, non sarà causa del medesimo movimento, ma per il fatto di essere in luoghi o in specie contrari procurerà che ciascuna delle altre sia mossa in modo contrario, e che talora sia in 328

quiete, talora in movimento65. 10 Da quel che s’è detto è pertanto evidente anche ciò che all’inizio ci aveva messi in difficoltà, e cioè perché mai non tutte le cose o si muovono o sono in quiete, o le une si muovono sempre, le altre sono sempre in quiete, ma alcune talvolta si muovono o sono in quiete, talvolta no. La causa di questo ora è chiara: il fatto che alcune sono mosse da una cosa 15 eternamente immobile, perciò sono sempre mosse, le altre, invece, lo sono da una cosa che è mossa e che muta, per cui mutano necessariamente anch’esse. Ma ciò che è immobile, come s’è detto, poiché permane assolutamente e nello stesso modo e nello stesso 〈luogo〉, muoverà secondo un movimento unitario e semplice.

VIII, 7 〈La natura del movimento impresso dal primo motore e il primato del movimento locale〉 Ma considerando anche un altro inizio si farà maggior chiarezza su questi 〈problemi〉. Infatti, bisogna indagare se sia possibile o no che un movimento sia continuo e, se è possibile, quale sia questo, e quale fra i movimenti sia primo. È chiaro infatti che, se è necessario che un movimento esista 25 sempre, ed esso è primo e continuo, il primo motore muove questo movimento, che necessariamente è unico e identico, continuo e primo. Essendo tre i movimenti: quello secondo la grandezza, quello secondo l’affezione e quello secondo il luogo, che chiamiamo traslazione, è necessario che sia questo il primo. Infatti, è impossibile che si dia aumento se prima non esiste 30 alterazione: giacché ciò che aumenta, in un senso aumenta per una cosa simile, in un altro per una dissimile. Infatti, si dice che il contrario è nutrimento per il contrario66; invece ogni cosa simile, una volta prodottasi, si aggiunge a una cosa simile. Pertanto è necessario che il mutamento verso i contrari sia alterazione. 260 b Ma se 〈una cosa〉 è alterata, dev’esserci qualcosa che alteri e produca dal caldo in potenza un caldo in atto. È chiaro, dunque, che il motore non si trova in una condizione simile, ma talvolta è più vicino, talvolta più lontano da ciò che è alterato. Ma non è possibile che queste 〈situazioni〉 sussistano 5 senza traslazione. Se, dunque, è necessario che il movimento sia sempre, è necessario anche che una traslazione sia sempre il primo dei movimenti, e che della traslazione, se ve n’è una prima e una 329

ultima, si tratti della prima. Inoltre, principio di tutte le affezioni sono la condensazione e la rarefazione. Infatti, pesante e leggero, molle e duro, 10 caldo e freddo sono — ad avviso di tutti — certe condensazioni e rarefazioni. Ma condensazione e rarefazione sono riunione e separazione, secondo le quali si dicono la generazione e la corruzione delle sostanze. E se le cose si riuniscono e si separano, è necessario che mutino secondo il luogo. Ma anche la grandezza di ciò che è aumentato e diminuito muta secondo il luogo. 15 Inoltre, anche a coloro che indagano da questa prospettiva sarà evidente che la traslazione è il primo 〈movimento〉. In effetti, «primo», come negli altri casi, così anche in quello del movimento si può dire in più sensi. E si dice «anteriore» sia ciò senza il cui darsi non si daranno le altre cose, ma esso 〈si dà〉 senza le altre cose, sia il 〈primo〉 per il tempo, sia il 〈primo〉 secondo la sostanza. Di conseguenza, poiché è necessario che il movimento sia 20 in modo continuo, e può essere in modo continuo se è o continuo o consecutivo, ma lo è maggiormente quello continuo, ed è meglio che sia continuo che consecutivo, e noi supponiamo che nella natura sussiste il meglio, se sia possibile, ed è possibile che sia continuo (lo si dimostrerà in seguito67; per ora lo si supponga), e questo 〈movimento〉 non è possibile che sia alcun altro se non la traslazione, la traslazione è 25 necessariamente 〈il movimento〉 primo. In effetti, non c’è alcuna necessità che ciò che si sposta subisca né aumento né alterazione, né che si generi o si corrompa; invece nessuno di questi 〈movimenti〉 è possibile se non esiste quello continuo, secondo il quale muove il motore primo68. Inoltre, è primo per il tempo: ché, soltanto alle cose eterne è possibile muoversi secondo questo 〈movimento〉. Ma in una 30 delle cose che hanno generazione, qualunque sia, la traslazione è necessariamente l’ultimo dei movimenti: ché, dopo che vi sia stata generazione, innanzitutto si hanno alterazione e aumento, mentre la traslazione è il movimento delle cose che hanno già raggiunto il loro compimento. Ma è necessario che sia anteriore un’altra cosa, mossa 261 a secondo traslazione, cosa che, senza generarsi, sarà causa anche della generazione per le cose che si generano: per esempio, ciò che genera 〈è anteriore〉 a ciò che è generato. Ché, si potrebbe credere che la generazione sia il primo dei movimenti per questo motivo, perché la cosa innanzitutto deve generarsi. Se si tratta di una delle cose che si generano, qualunque sia, la situazione è questa, ma è necessario che qualcos’altro si muova prima delle cose che si generano, dato che esso è e non diviene, e che un’altra cosa sia prima di 330

questo69. E poiché è impossibile che la generazione sia il primo 〈movimento〉 (giacché tutte le cose che si muovono sarebbero corruttibili), è chiaro che non è anteriore nessuno neppure dei movimenti 〈a essa〉 10 consecutivi. E dico consecutivo l’aumento, poi l’alterazione, la diminuzione, la corruzione. Tutti, infatti, sono posteriori alla generazione; per cui, se neppure la generazione è anteriore alla traslazione, non lo è nessuno neppure degli altri mutamenti. In senso complessivo, appare che ciò che si genera è imperfetto e procedente verso un principio, per cui ciò che è posteriore per la generazione, è anteriore per la natura. Ma la 15 traslazione appartiene come cosa finale a tutti gli esseri che sono in generazione. Perciò alcuni degli animali sono totalmente immobili per assenza [dell’organo], come le piante e molti generi degli animali70, mentre a quelli perfetti appartiene 〈il movimento〉; per cui, se la traslazione appartiene in misura maggiore alle cose che in misura maggiore hanno conseguito la 〈loro〉 natura, sarà anche che questo movimento è 20 primo degli altri secondo la sostanza: sia per queste 〈ragioni〉 e sia per il fatto che, tra i movimenti, ciò che è mosso nello spostarsi non si allontana dalla 〈sua〉 sostanza. Ché, secondo la sola 〈traslazione〉 non muta niente dell’essere, come invece 〈mutano〉 la qualità di una cosa che si altera e la quantità di una che aumenta e diminuisce. Ed è massimamente chiaro che ciò che muove se stesso, in via principale muove 〈se stesso〉 soprattutto secondo questo 〈movimento〉, ossia quello secondo 25 il luogo. E certamente diciamo che questo è principio delle cose che sono mosse e motrici e la cosa prima per quelle mosse: ciò che muove se stesso. Pertanto , che la traslazione sia il primo dei movimenti, è evidente da queste 〈considerazioni〉. Ma ora bisogna mostrare quale traslazione è il primo. E al contempo ciò che ora e prima71si è ipotizzato, ossia che è possibile che qualche movimento 30 sia continuo ed eterno, con la medesima indagine sarà manifesto. Che dunque nessuno degli altri movimenti è possibile che sia continuo, è evidente da queste 〈considerazioni〉. Infatti, per tutte le cose i movimenti e i mutamenti derivano dagli opposti e procedono verso gli opposti: ad esempio, per la generazione e la corruzione, l’essere e il non-essere; per l’alterazione, le affezioni contrarie; per l’aumento 35 e la diminuzione, o la grandezza e la piccolezza, o la compiutezza della grandezza e la sua incompiutezza; e sono contrari i 〈movimenti〉 che procedono verso i contrari. Ma ciò che non è mosso s261 b empre secondo questo movimento, poiché esiste anteriormente, è necessario che anteriormente sia in quiete. È dunque evidente che ciò che muta sarà in quiete nel contrario. E similmente 331

avviene nel caso dei mutamenti. Infatti, corruzione e generazione si oppongono assolutamente, e la corruzione e la generazione particolare si oppongono alla corruzione 5 e alla generazione particolare. Di conseguenza, se è impossibile che i 〈mutamenti〉 opposti abbiano luogo simultaneamente, il mutamento non sarà continuo, ma vi sarà un tempo intermedio tra essi. Ché, non ha alcun’importanza che i mutamenti secondo contraddizione siano contrari o non contrari, se è sufficiente l’impossibilità dello loro simultanea presenza nella medesima cosa (questa 〈distinzione〉, infatti, non è per niente utile 10 al ragionamento), né 〈ha importanza〉 se nella contraddizione non necessariamente si abbia quiete, né se un mutamento sia contrario a una quiete (in effetti, senza dubbio il non-essere non è in quiete, e la corruzione procede verso il non-essere), ma 〈importa〉 soltanto se in mezzo vi sia tempo: giacché così il mutamento non è continuo. Né, infatti, nelle precedenti 〈considerazioni〉 era utile la contraddizione, ma il fatto che la simultanea 15 appartenenza 〈dei contrari〉 non è possibile. Non ci si deve turbare perché la medesima cosa sarà contraria a più cose: per esempio, il movimento sia alla stasi che al movimento verso il contrario; ma si deve assumere soltanto questo, che cioè il movimento contrario si oppone in qualche modo tanto a un movimento che alla quiete, come l’uguale e 20 il misurato 〈si oppongono〉 tanto a ciò che supera quanto a ciò che è superato, e che non è possibile che sussistano similmente né movimenti né mutamenti contrari. Inoltre, nel caso della generazione e della corruzione sembrerà esservi completamente un assurdo se una cosa subito generata necessariamente si corrompe e non perdura per 25 nessun tempo. Di conseguenza, da queste considerazioni può originarsi la convinzione per gli altri 〈mutamenti〉, giacché è nell’ordine della natura il fatto che in tutti quanti la situazione sia simile.

VIII, 8 〈La traslazione continua〉 Che sia possibile l’esistenza di qualche 〈movimento〉 infinito, il quale sia unico e continuo, e che questo sia quello circolare, ora diciamo. In effetti, tutto ciò che si sposta, si muove o in circolo, o 30 lungo una retta, o di 〈un movimento〉 misto; per cui, se uno dei primi due non è continuo, non può esserlo neppure quello che è composto da entrambi. Ma che ciò che si sposta lungo una retta e di un 〈movimento〉 finito non 332

si sposti continuamente, è chiaro. Infatti, torna indietro, e ciò che torna indietro lungo la retta si muove secondo i movimenti contrari. Ché, sono contrari secondo il luogo il 〈movimento〉 verso l’alto a quello verso il basso, 35 quello in avanti a quello indietro, quello verso sinistra a quello verso destra, giacché queste contrarietà sono proprie del luogo.262 a Prima si è determinato72 qual è il movimento unico e continuo: che è quello, cioè, di una sola cosa, in un solo tempo e in una cosa indifferente per specie (giacché, si diceva, sono tre le 〈determinazioni〉: ciò che è mosso, come l’uomo o Dio, quando, come il tempo e, terza, ciò in cui; e questa è o un luogo, o un’affezione, o una specie, o una grandezza73). E i contrari differiscono per la specie e non costituiscono un’unità. 5 E le differenze che abbiamo detto sono proprie del luogo. La prova che il movimento da A a Β è contrario a quello da Β ad A, è che essi si arrestano e cessano reciprocamente se avvengano assieme. E nel caso del circolo è nello stesso modo: per esempio, quello da A a Β a quello da A a C (infatti, si arrestano anche se siano continui e non si verifichi un 10 ritorno indietro, per il fatto che i contrari si corrompono e si impediscono reciprocamente)74; ma non quello trasversale a quello verso l’alto. Ma soprattutto è evidente l’impossibilità che il movimento sulla retta sia continuo, poiché una cosa, tornando indietro, necessariamente si arresta: non soltanto sulla retta, ma anche 15 se lo spostamento avvenga lungo un circolo. Infatti, non è lo stesso che si sposti circolarmente e lungo un circolo: giacché talvolta è possibile che si muova senza interruzione, talvolta invece che dopo esser giunta al medesimo 〈punto〉 dal quale si è mossa, torni di nuovo indietro. La convinzione che necessariamente si arresti non dipende soltanto dalla sensazione, ma anche dal ragionamento. Il principio è questo: essendoci tre cose: l’inizio, il mezzo e la 25 fine, il mezzo è in rapporto con ciascuna delle altre due ed è uno per il numero, ma due per il ragionamento. Inoltre, altro è ciò che è in potenza e ciò che è in atto, per cui un punto qualsiasi della retta entro gli estremi, in potenza è medio, ma in atto non lo è, se non la divida in questo modo e 〈la cosa〉, dopo essersi arrestata, incominci di nuovo a muoversi. E così 25 il medio diventa principio e fine: principio del 〈movimento〉 successivo e fine del primo (faccio quest’affermazione se A, 30 262b 5 per esempio, spostandosi, si arresti in Β e di nuovo si sposti in C). Invece, quando 〈la cosa〉 si sposti in modo continuo, non è possibile che A si sia né avvicinato né allontanato rispetto al 30 punto B, ma soltanto che sia nell’istante, e in nessun tempo se non in quello del quale l’istante è una divisione, cioè nell’intero [ABC]. (E se si porrà che si è avvicinato e 333

allontanato, A 262 b nello spostarsi si arresterà sempre, giacché è impossibile che A si sia avvicinato a Β e se ne sia allontanato. Pertanto è in un punto diverso e diverso ancora del tempo. Quindi, vi sarà un tempo che è nel mezzo. Perciò A in Β sarà in quiete. E similmente è anche nel caso degli altri punti, giacché il medesimo 5 ragionamento vige per tutti. Quando poi la cosa A che si sposta userà Β come mezzo, fine e principio, necessariamente si arresta, per il fatto di creare una dualità, come se anche pensasse). Ma si è allontanato dal punto A, ossia dall’inizio, e si è avvicinato a C, quando abbia compiuto 〈il movimento〉 e si sia arrestato. Perciò in relazione all’aporia bisogna dire questo. In 10 effetti, si ha la seguente aporia: se, infatti, E sia uguale a Ζ e A si sposti con continuità dall’estremo a C, e assieme A sia nel punto B, e D si sposti dall’estremo Ζ verso Η in modo uniforme e con la stessa velocità di A, D giungerà in Η prima che A 〈giunga〉 in C. Infatti, ciò che si è mosso ed è partito prima, 15 giunge necessariamente prima. Pertanto, non nello stesso tempo A è stato in Β e si è allontanato da quel punto; perciò giunge in ritardo. Ché, se era nello stesso tempo, non giungerà in ritardo, ma vi sarà necessità che si arresti. Quindi, non bisogna porre che, quando A si avvicinava a B, contemporaneamente D si muoveva dall’estremo Ζ (ché, se A si sarà 20 avvicinato a B, si verificherà anche il suo allontanarsene, e non nello stesso tempo), ma, come abbiamo detto, è in una sezione del tempo e non in un tempo. Qui, dunque, è impossibile dire così nel caso del 〈movimento〉 continuo; ma nel caso di ciò che torna indietro è necessario dire così. Se, infatti, H75 si spostasse verso D e, tornando indietro, si spostasse verso il basso, userebbe l’estremo indicato con D come fine e inizio, ossia un unico punto come 25 due. Perciò è necessario che si arresti; e non nello stesso tempo è stato in D e si è allontanato da D. Infatti, assieme sarebbe e non sarebbe in questo punto nello stesso istante. Ma per la verità non bisogna enunciare la soluzione di prima, giacché non è possibile dire che Η è in D in una sezione 〈di tempo〉, ma non vi era e non se n’è allontanato. Infatti, è necessario 30 che giunga a un fine che sia in atto, non in potenza. Quindi, le cose che stanno nel mezzo sono in potenza, mentre questo è in atto, e il fine è dal basso, l’inizio dall’alto. Nello stesso modo, 263 a pertanto, sono anche 〈la fine e l’inizio〉 dei movimenti. È quindi necessario che ciò che torna indietro sulla retta si arresti. Dunque, non è possibile che un movimento continuo su una retta sia eterno. Nello stesso modo bisogna opporsi a coloro che chiedono, secondo il ragionamento di Zenone, se si debba percorrere 5 sempre la metà; ma le metà sono infinite, e non è possibile percorrere ciò che è infinito; oppure 334

taluni domandano altrimenti, secondo un modo che in un certo senso è il medesimo di questo, ritenendo che nello stesso tempo in cui si è mossi lungo la metà 〈della linea〉 si enumera, una per una, la metà che prima si produce; per cui, percorrendo l’intera 〈linea〉, avviene di averne contate un numero infinito. Ma, ad 10 avviso unanime, questo è impossibile. Ebbene, abbiamo dato la soluzione nelle prime trattazioni sul movimento76, in forza del fatto che il tempo possiede in se stesso 〈elementi〉 infiniti. Non vi è, infatti, alcun assurdo se in un tempo infinito uno percorre cose infinite. E l’infinito sussiste nella grandezza similmente che nel tempo. Ma questa 15 soluzione, se è sufficiente in relazione a chi fa domande (infatti, era stato domandato se in un 〈tempo〉 finito sia possibile percorrere o enumerare cose infinite), in relazione alla cosa e alla verità non è sufficiente. In effetti, se uno, allontanandosi dalla lunghezza e dal domandare se in un tempo finito sia 20 possibile percorrere cose infinite, ponesse questi quesiti sul tempo stesso (giacché il tempo ha infinite divisioni), questa soluzione non sarà più sufficiente, ma bisogna enunciare il vero: ciò che abbiamo detto nelle trattazioni di poco fa77. Infatti, se uno divida la 〈linea〉 continua in due metà, questi usa 25 l’unico punto come fossero due, giacché ne fa un principio e una fine. E fa così chi enumera e chi divide le metà. Ma, dividendo in questo modo, né una linea né un movimento saranno continui. Infatti, il movimento continuo è proprio di una cosa continua, e in ciò che è continuo sono presenti infinite metà, ma non in atto, bensì in potenza. Se invece le si 30 renda 〈infinite〉 in atto, non si renderà continuo 〈il movimento〉, ma si avrà arresto: cosa che è evidente che succede nel caso di chi enumera le metà. Per costui, infatti, è necessario 263 b enumerare l’unico punto come due. Ché, sarà fine di una delle due metà e principio dell’altra, se non enumeri come una la 〈linea〉 continua, ma come due metà. Di conseguenza, contro chi domanda se sia possibile percorrere o nel tempo o nella lunghezza cose infinite, bisogna 5 asserire che in un senso lo è, in un altro non lo è. In effetti, non è possibile percorrerle se sono in atto, mentre se sono in potenza è possibile. Ché, colui che si muove con continuità accidentalmente ha percorso cose infinite, ma in senso assoluto no. È, infatti, accidentale che la linea abbia infinite metà; ma la sostanza e l’essere sono diversi. 10 È chiaro anche che, se non si pensi il punto del tempo che divide il prima e il poi come sempre proprio del poi per la cosa, la stessa cosa sarà simultaneamente esistente e non esistente, e quando si è generata sarà non esistente. Il punto, dunque, è comune a entrambe le 〈determinazioni〉: sia al prima che al poi, ed è identico e uno per numero, ma non identico per il 335

ragionamento (infatti, è fine di una e principio dell’altra). Invece, per la cosa è un’affezione sempre del poi. Il tempo è indicato con ABC, la cosa con D. Questa nel tempo A è bianca, nel 〈tempo〉 Β è non bianca. Quindi, nel 〈tempo〉 C è bianca e non bianca. Infatti, è vero dire che è bianca in qualunque 〈parte〉 di A, se era bianca per tutto questo tempo, e che in Β è non bianca; e C è in entrambi. Quindi, non bisogna 20 concedere che 〈è bianca〉 in ogni 〈parte del tempo〉, ma 〈che lo è〉 tranne nell’istante finale, indicato con C. Ma questo è già proprio del poi. E se diventava non bianca e il bianco si corrompeva in ogni 〈parte〉 di A, in C 〈il bianco〉 si è generato e si è corrotto. Per cui in quel 〈punto〉 è vero dire primariamente che 〈la cosa〉 è bianca e non bianca, oppure che, quando si è generata, non sarà e, quando si è corrotta, sarà, oppure che 25 necessariamente è al tempo stesso bianca e non bianca e, in generale, esistente e non esistente. Ma se ciò che prima sia non esistente è necessario che divenga esistente, e quando si genera non esiste, non è possibile che il tempo si divida in tempi infiniti. Infatti, se in A D è diventato bianco, e contemporaneamente lo è diventato ed esiste in un altro tempo indivisibile, però contiguo, ossia in Β — se in A si generava, non 30 esisteva; invece in Β esiste —, dev’esserci qualche generazione intermedia, per cui anche un tempo nel quale 〈D〉 si è generato. Infatti, il medesimo ragionamento non vigerà anche 264 a per coloro che negano il darsi di 〈tempi〉 indivisibili, ma 〈la cosa〉 si è generata ed esiste nel punto estremo del medesimo tempo in cui si generava, punto al quale niente è contiguo né consecutivo; invece, i tempi indivisibili sono consecutivi. Ed è evidente che, se 〈la cosa〉 si generava nell’intero tempo A, il 5 tempo nel quale si è generata e si generava non è maggiore di tutto quello in cui si generava soltanto. I ragionamenti ai quali si potrebbe prestare fede come propri, sono dunque questi e di questo genere; ma a chi conduce l’indagine sul piano discorsivo sembrerà che questa stessa conclusione risulti in qualche modo anche da quelli seguenti. Infatti, tutto ciò che si muove con continuità, se non sia distolto 10 da niente, verso quel 〈punto〉 a cui è giunto lungo la traslazione si spostava anche in precedenza: per esempio, se è giunto in B, si spostava anche verso B, e non quando era vicino, ma subito quando ha iniziato a muoversi. Perché mai, infatti, ora in misura maggiore di prima? E similmente è anche nel caso degli altri 〈punti〉. Pertanto, ciò che si sposta15 da A [verso C]78, quando sia giunto in C, se si muove con continuità perverrà di nuovo in A. Quindi, quando da A si sposta verso C, allora si sposta anche verso A secondo il movimento che inizia da C, per cui i movimenti contrari esisteranno contemporaneamente. Infatti, quelli lungo la retta sono contrari. E simultaneamente muta anche da questo 〈punto〉 nel 336

quale non è. Se, dunque, ciò è impossibile, è necessario 20 che si arresti in C. Pertanto il movimento non è unico: giacché quello che è interrotto da un arresto non è uno. Inoltre, anche da queste 〈considerazioni〉 viene maggior chiarezza, in generale, su ogni movimento. Se, infatti, tutto ciò che si muove, si muove secondo uno dei movimenti che abbiamo detto ed è in quiete secondo una delle opposte quieti (ché, non ne esisteva un’altra oltre queste), e ciò che non si 25 muove sempre secondo questo movimento (intendo tutti quei 〈movimenti〉 che sono diversi per la specie, e non se vi è qualche parte dell’intero 〈movimento〉) è necessario che prima sia in quiete secondo la quiete opposta (infatti, la quiete è privazione del movimento); se, dunque, quelli lungo la retta sono movimenti contrari, e non è possibile muoversi simultaneamente 30 secondo i 〈movimenti〉 contrari, allora ciò che da A si sposta verso C non si sposterà nello stesso tempo anche da C verso A. E poiché non si sposta nello stesso tempo, ma si muoverà secondo questo movimento79, è necessario che prima sia in quiete in C: giacché questa era la quiete opposta al movimento da C. Da quel che abbiamo detto è chiaro pertanto 264 b che il movimento non sarà continuo. Inoltre, anche il seguente ragionamento è proprio più di quelli esposti. In effetti, nello stesso tempo si è corrotto ciò che non è bianco e si è generata una cosa bianca. Se, dunque, l’alterazione verso una cosa bianca e da una cosa bianca è 5 continua e non si arresta per un qualche tempo, contemporaneamente si è corrotto ciò che non è bianco, si è generata una cosa bianca e si è generata una cosa non bianca. Ché, il medesimo tempo sarà proprio delle tre cose. Inoltre, non è che, se il tempo è continuo, lo è anche il movimento, ma 〈può essere〉 consecutivo. Ma come l’estremo dei contrari sarà identico: per esempio, della bianchezza e della nerezza? Invece, il movimento sulla 〈linea〉 circolare è uno e continuo, giacché non deriva nulla d’impossibile. Infatti, ciò che si 10 muove da A, contemporaneamente si muoverà verso A secondo la medesima tendenza (ché, verso il 〈punto〉 a cui è giunto, verso questo anche si muove), ma non si muoverà contemporaneamente secondo i 〈movimenti〉 contrari né quelli opposti, giacché non ogni 〈movimento〉 verso questo 〈punto〉 è contrario né opposto a quello da questo 〈punto〉, ma è contrario quello lungo la retta (in questo modo, infatti, si 15 hanno i contrari secondo il luogo: per esempio, il 〈contrario〉 lungo il diametro; infatti, si realizza la massima distanza), mentre è opposto quello secondo la medesima lunghezza. Di conseguenza, niente impedisce che si muova in maniera continua e che non frapponga un intervallo in nessun tempo. Ché, il movimento in circolo 337

procede dal medesimo 〈punto〉 verso il medesimo 〈punto〉, mentre quello lungo la retta dal medesimo 〈punto〉 verso un 〈punto〉 diverso. E quello in circolo non è mai negli stessi 〈punti〉, invece quello lungo la retta è molte volte negli stessi 〈punti〉. Quindi, secondo il (movimento〉 che si produce sempre in un 〈punto〉 costantemente diverso è possibile muoversi con continuità, invece secondo quello che 〈si produce〉 molte volte nei medesimi 〈punti〉 non è possibile. Di conseguenza, né nel semicerchio né in alcun’altra parte della circonferenza è possibile muoversi con continuità, giacché necessariamente ci si muove molte volte secondo i medesimi 〈punti〉 e si muta secondo i mutamenti contrari. Infatti, il termine non è congiunto col principio, mentre nel moto circolare lo è, e solo questo è perfetto. Da questa distinzione è evidente che neppure gli altri movimenti possono essere continui, giacché in tutti quanti avviene 30 che il movimento si produca molte volte secondo i medesimi 〈punti〉: nell’alterazione, per esempio, secondo i 〈punti〉 intermedi, in quello della quantità, secondo le grandezze che stanno nel mezzo, e nello stesso modo nella generazione e nella corruzione. Ché, non ha alcun’importanza che si producano 265 a pochi o molti 〈punti intermedi〉, tra i quali ha luogo il mutamento, né porre o togliere qualcosa d’intermedio: in entrambi i casi avviene, infatti, di muoversi molte volte secondo i medesimi 〈punti〉. Da queste 〈considerazioni〉 è chiaro, dunque, che non dicono bene neppure i Fisiologi che affermano che tutte le cose sensibili sono sempre in movimento80. Infatti, è necessario 5 che si muovano secondo qualcuno di questi movimenti e soprattutto, secondo loro, che si alterino. In effetti, sostengono che sempre scorrono81 e svaniscono, e dicono inoltre che anche la generazione e la corruzione sono un’alterazione; ma il ragionamento sul movimento in generale ha or ora fatto asserire che non è possibile muoversi con continuità secondo nessun movimento tranne quello in circolo, per cui neppure 10 secondo l’alterazione né secondo l’aumento. Che , dunque, nessun mutamento eccetto la traslazione in circolo sia infinito e continuo, sia stato da noi esposto per quest’ampiezza.

VIII, 9 〈La traslazione circolare e il suo primato〉 Che la prima delle traslazioni sia la traslazione circolare, è chiaro. Infatti, ogni traslazione, come anche prima abbiamo 15 detto,82 è o in circolo, o 338

sulla retta, o mista. Le prime due è necessario che siano anteriori alla terza, giacché è composta da esse, e quella in circolo a quella rettilinea, giacché è semplice e perfetta in misura maggiore. In effetti, non è possibile che vi sia traslazione rettilinea infinita (ché, l’infinito così 〈configurato〉 non esiste;83 al tempo stesso, nulla si muoverebbe, neppure se esistesse: infatti, ciò che è impossibile non ha luogo, e percorrere la 〈retta〉 infinita è impossibile); e il movimento 20 sulla 〈retta〉 finita, se torna indietro è composto ed è due 〈movimenti〉, se non torna indietro è imperfetto e corruttibile. Ma sia per natura, sia per la nozione, sia per il tempo84, ciò che è perfetto è anteriore a ciò che è imperfetto e ciò che incorruttibile a ciò che è corruttibile. Inoltre, il 〈movimento〉 che può essere eterno 〈è anteriore〉 a quello che non può 〈esserlo〉: 25 ebbene, quello in circolo può essere eterno, mentre, degli altri, 〈non lo possono essere〉 né la traslazione, né alcun altro: ché, deve prodursi un arresto, e se vi è arresto il movimento si corrompe. Il fatto che sia uno e continuo il 〈movimento〉 in circolo, non quello sulla retta, è ben logico nel suo accadere: in effetti, di quello sulla retta si sono determinati sia un principio, sia 30 una fine, sia un mezzo, ed 〈esso〉 ha in sé tutte queste cose, per cui vi è un 〈punto〉 dal quale ciò che si muove inizierà e uno nel quale finirà (infatti, ai limiti tutto è in quiete: sia nel punto di partenza che in quello di arrivo); invece, 〈le determinazioni〉 di quello circolare sono infinite. Perché, infatti, uno dei 〈punti〉 sulla linea, non importa quale, costituisce maggiormente un limite? In effetti, ciascuno è parimenti sia inizio, sia mezzo, sia fine, così da essere sempre e all’inizio e alla fine, e 265 b non esservi mai. Per questo la sfera in qualche modo è tanto in movimento che in quiete: giacché occupa il medesimo luogo. Ne è causa il fatto che il centro avviene che abbia tutte queste 〈proprietà〉. Infatti, è sia princìpio, sia mezzo, sia fine della grandezza; per cui, per il fatto che esso è fuori della circonferenza, non è possibile un 〈punto〉 dove ciò che viene 5 trasportato sarà in quiete come se avesse effettuato il percorso (ché, è trasportato sempre intorno al centro, ma non verso l’estremo), ma per il fatto che esso resta sempre stabile, in qualche modo l’intero è sempre sia in quiete che in movimento in modo continuo. Questa conseguenza si ottiene con una conversione: e infatti, poiché la traslazione circolare è misura dei movimenti, essa è 10necessariamente la prima (giacché tutte le cose si misurano con la prima), e poiché è la prima, è misura degli altri. Inoltre, soltanto quella in circolo è possibile che sia uniforme: infatti, le cose che 〈si spostano〉 su una retta, si spostano in maniera non uniforme dall’inizio e verso la fine. Ché, tutte si spostano più velocemente quanto 339

più85 siano distanti da 15 ciò che è in quiete; ma se la 〈traslazione〉 è in circolo86, né principio né fine per natura sono in essa, bensì fuori. E che la traslazione secondo il luogo sia il primo dei movimenti, testimoniano tutti quanti hanno fatto menzione del movimento. Infatti, attribuiscono i princìpi di esso alle cose 20 che muovono secondo tale movimento. Ché separazione e aggregazione sono movimenti secondo il luogo. Così muovono l’Amore e l’Odio87: infatti, il primo di essi aggrega, mentre il secondo separa88. E Anassagora afferma che la Mente, ossia colei che primariamente ha mosso, separa89. E similmente 〈dicono〉 anche tutti quelli che non asseriscono nessuna causa di questo genere, ma sostengono che vi è movimento attraverso 25 il vuoto90. E, infatti, costoro affermano che la natura si muove del movimento secondo il luogo (in effetti, il movimento attraverso il vuoto è traslazione, ossia 〈movimento〉 come in un luogo); invece ritengono che nessuno degli altri 〈movimenti〉 appartenga alle cose prime, bensì a quelle che derivano da esse. Infatti, dicono che aumentano e diminuiscono e si alterano coll’aggregarsi e col separarsi dei corpi indivisibili. 30 Nello stesso modo 〈parlano〉 anche tutti quelli che immaginano la generazione e la corruzione mediante condensazione e rarefazione91. Infatti, ordinano queste cose con l’aggregazione e la separazione. Inoltre, a fianco di costoro, quelli che fanno dell’anima la causa del movimento92. Sostengono, infatti, che ciò che muove se stesso è principio delle cose mosse, e l’animale e tutto ciò che è animato muove se stesso del 266 a movimento secondo il luogo. E diciamo che in senso principale si muove soltanto ciò che si muove secondo il luogo93. Anche se 〈qualcosa〉 sia in quiete nello stesso luogo, ma aumenti, o diminuisca, o gli capiti di alterarsi, diciamo che in qualche modo si muove, però in senso assoluto non diciamo che si muove. Che, dunque, il movimento esisteva sempre e sarà per tutto 5 quanto il tempo, e qual è il principio del movimento eterno e, inoltre, qual è il movimento primo, e quale movimento soltanto è possibile che sia eterno, e che il motore primo è immobile, s’è detto.

VII, 10 〈L’inestensione e la semplicità del motore primo〉

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Che questo94 sia necessariamente privo di parti e che non 10 abbia alcuna grandezza, ora diciamo, effettuando innanzitutto delle precisazioni sui 〈punti〉 preliminari a quest’〈istanza〉. Uno di essi è che nulla di finito può muovere per un tempo infinito. Vi sono, infatti, tre cose: il motore, il mosso e, terza, ciò in cui 〈avviene il movimento〉, ossia il tempo. E queste sono o tutte infinite, o tutte finite, o alcune, ossia due o una. 15 Ebbene, sia A il motore, Β il mosso, un tempo infinito ciò che è indicato con C. D muova una certa parte di B, indicata con E. Pertanto, non 〈la muove〉 in un 〈tempo〉 uguale a C, giacché ciò che è maggiore 〈è mosso〉 in più 〈tempo〉. Di conseguenza, il tempo Ζ non è infinito. Così, se a D viene 〈ripetutamente〉 aggiunta 〈una parte uguale a esso〉, assumerò A e, 20 〈se viene ripetutamente aggiunta〉 a E 〈una parte uguale a esso, assumerò〉 B; ma non assumerò il tempo, anche se opero sottrazioni sempre in ragione uguale, giacché è infinito. Di conseguenza, tutto A muoverà l’intero Β in un tempo finito di C. Pertanto, non è possibile che alcuna cosa sia mossa di un movimento infinito da una cosa finita. Che, dunque, il finito non possa muovere di un movimento infinito, è evidente; per altro verso, che, in senso complessivo, 25 non possa esistere una potenza infinita in una grandezza finita, è chiaro da queste 〈considerazioni〉. Sempre, infatti, la potenza maggiore sia quella che produce l’uguale in un tempo minore: per esempio, riscaldando, o addolcendo, o lanciando e in generale muovendo. Pertanto, è anche necessario che ciò che è affetto, sia affetto in alcunché da una cosa finita 30 ma che possiede una potenza infinita, e che lo sia di più che da un’altra cosa. Ché, la 〈potenza〉 infinita è maggiore. Ma non è possibile che non lo sia in nessun tempo. Se, infatti, il tempo indicato con A è quello nel quale la potenza infinita riscaldava o spingeva, e nel 〈tempo〉 AB 〈riscaldava o spingeva〉 266 b una 〈potenza〉 finita, continuando ad assumere oltre a questa un’altra 〈potenza〉 finita maggiore, una volta perverrò ad aver compiuto il movimento nel tempo A. Infatti, continuando ad aggiungere a un 〈tempo〉 finito 〈un tempo finito〉, oltrepasserò ogni 〈tempo〉 definito, e continuando a toglierlo lo diminuirò nello stesso modo. Pertanto, una 〈potenza〉 finita 5 muoverà in un tempo uguale a quella infinita. Ma questo è impossibile, giacché niente che sia finito può avere una potenza infinita. Non è possibile, poi, neppure che una 〈potenza〉 finita sia in una cosa infinita. Eppure è possibile che in una grandezza minore vi sia più potenza; ma in misura ancor maggiore che più 〈potenza〉 sia in una 〈grandezza〉 maggiore. Ebbene, ciò che è indicato con AB sia infinito. Ora, BC ha una certa potenza, 10 la quale in un certo tempo ha mosso D, ossia nel tempo indicato con EZ. Quindi, se assumo il doppio di BC, 〈esso muoverà〉 nella 341

metà del tempo EZ (sia infatti questa la proporzione), per cui muoverà nel 〈tempo〉 ZT. Pertanto, continuando a operare l’assunzione in questo modo, non percorrerò mai AB, ma assumerò un 〈tempo〉 sempre minore del tempo dato. La potenza sarà dunque infinita, giacché supera 15 ogni potenza finita, se davvero è necessario che anche il tempo di ogni potenza finita sia finito (infatti, se in un certo tempo si ha una potenza di una data quantità, la 〈potenza〉 maggiore muoverà in un tempo sì minore, ma definito, secondo la proporzione inversa). Ma ogni potenza è infinita nel modo in cui 〈lo sono〉 anche il numero e la grandezza che eccedono 20 ogni 〈numero e grandezza〉 definiti. Ma è possibile dimostrare ciò anche in questo modo: assumeremo, infatti, una certa potenza, identica per il genere a quella che è nella grandezza infinita ed esistente in una grandezza finita, la quale misurerà la potenza finita nella 〈grandezza〉 infinita. Che, dunque, non sia possibile l’esistenza di una potenza 25 infinita in una grandezza finita, né di una 〈potenza〉 finita in una 〈grandezza〉 infinita, è chiaro da queste 〈considerazioni〉. Ma in merito alle cose che si spostano è bene innanzitutto sviluppare diaporeticamente una certa difficoltà. Ché, se tutto ciò che è mosso, è mosso da alcunché, quanto a tutte quelle cose che non muovono se stesse, come alcune si muovono in maniera continua senza che il motore ne sia in contatto: per 30 esempio, quelle scagliate? E se colui che le muove, muove contemporaneamente anche qualcos’altro, come l’aria, la quale muove essendo mossa, è ugualmente impossibile che si muovano senza che il 〈motore〉 primo sia in contatto, né sia mosso, ma tutte e si muovono e cessano 〈di muoversi〉 quando 267 a il motore primo cesserà 〈di muovere〉, anche se opera, come la pietra, in modo che ciò che ha mosso, muova. Ebbene, è necessario dire questo, e cioè che la cosa prima che ha mosso opera in modo che muovano, per esempio, o l’aria, o l’acqua, o qualcos’altro di questo genere, il quale per natura muove ed è mosso. Però 〈questo〉 non cessa di muovere e di essere mosso 5 nello stesso tempo, ma se 〈cessa〉 di essere mosso nello stesso momento in cui chi muove cesserà di muovere, è però ancora motore. Per questo muove qualche altra cosa che gli è contigua; e su questa vige il medesimo ragionamento. Ma cessa 〈di muovere〉 quando in ciò che è contiguo la potenza del muovere si ingenera come sempre minore. E alla fine cesserà, 10 quando il motore anteriore non agirà più, ma sarà soltanto mosso. Ed è necessario che queste cose cessino contemporaneamente, il motore, il mosso e l’intero movimento. Questo movimento si ingenera, dunque, in quelle cose che possono talvolta muoversi, talvolta essere in quiete; e non è continuo, ma appare 342

esserlo. Infatti, è proprio delle cose che 15 sono o consecutive o in contatto, giacché il motore non è unico, ma si tratta di 〈motori〉 contigui l’uno all’altro. Per questo, nell’aria e nell’acqua si origina il movimento siffatto, che taluni sostengono essere un’antiperistasi. Ma è impossibile sciogliere in altro modo i punti che hanno costituito difficoltà, tranne che nel modo che s’è detto. Invece l’antiperistasi fa sì che tutte le cose al contempo siano mosse e muovano, per cui 20 anche che cessino. Ora, però, risulta alcunché di unico che è mosso in maniera continua. Da che cosa, dunque? Infatti, non da se stesso95. Ma poiché è necessario che negli enti vi sia un movimento continuo, e questo è unico, e il 〈movimento〉 unico è proprio di una qualche grandezza (infatti, ciò che è privo di parti non si muove), e di una 〈grandezza〉 unica e 〈mossa〉 da un’unica cosa (ché, 〈altrimenti〉 non vi sarà 〈movimento〉 continuo, bensì un 〈movimento〉 diverso contiguo a uno diverso, ossia 25 diviso〉, ebbene se il motore è unico, muove o essendo mosso o essendo immobile. Ora, se 〈muove〉 essendo mosso, dovrà 267 b conseguire e che esso muta, e che al tempo stesso è mosso da qualcosa, per cui ci si arresterà e si giungerà a che è mosso da una cosa immobile. Infatti, non è necessario che 〈essa〉 muti assieme 〈a ciò che è mosso〉, ma dovrà muovere sempre (infatti, il muovere in questo modo è privo di fatica), e questo movimento è uniforme, o esso solo, o soprattutto 〈esso〉: ché, il 5 motore non ha alcun mutamento. Ma neppure ciò che è mosso deve avere un mutamento rispetto a esso, affinché il movimento sia simile. Pertanto, è necessario che 〈il motore〉 sia o nel mezzo o in un cerchio, giacché questi sono i princìpi. Ma si muovono in modo velocissimo le cose che sono vicinissime al motore. E tale è il movimento del cerchio. Il motore sarà dunque qui. Vi è una difficoltà: se sia possibile che qualcosa che è mosso,10 muova in maniera continua, ma non come ciò che spinge di nuovo e di nuovo ancora, per il fatto di essere consecutivo in maniera continua. Infatti, questo motore deve o spingere o tirare sempre, o entrambe le cose; oppure vi è qualcos’altro che accoglie un effetto diverso da una cosa diversa, come una volta s’è detto per le cose lanciate96, se l’aria, che è divisibile, [o l’acqua] muove essendo mossa come sempre diversa. Ma in entrambi i casi non è possibile che 〈il movimento〉 sia unico, 15 bensì contiguo. Pertanto, è continuo solo il 〈movimento〉 secondo il quale muove ciò che è immobile. Ché, stando sempre in modo uguale, starà in modo uguale e continuo anche rispetto a ciò che è mosso. Definiti questi 〈punti〉, è evidente l’impossibilità che il motore primo e immobile abbia una qualche grandezza. Ché, se ha una grandezza, esso è 343

necessariamente o finito o infinito. 20 Ebbene, che non sia possibile l’esistenza di una grandezza infinita, si è dimostrato precedentemente nelle trattazioni di fisica97 ; d’altro canto, che sia impossibile che il finito abbia una potenza infinita, e che sia impossibile che alcunché venga mosso da una cosa finita per un tempo infinito, si è dimostrato or ora98. In realtè il motore primo muove secondo un movimento eterno e per un tempo infinito. È pertanto evidente 25 che è indivisibile, privo di parti e senza alcuna grandezza. 1. Si tratta senz’altro di Anassimandro e degli Atomisti, ma è facile che il riferimento debba estendersi anche ad Anassimene, a Diogene di Apollonia, ad Archelao e a Empedocle, i quali, secondo modalità dottrinalmente differenti, hanno però tutti ritenuto che i mondi siano infiniti: o perché, come hanno creduto gli Atomisti, nel stesso tempo esistono infiniti mondi, oppure perché, ciclicamente, ogni mondo nasce dall’elemento originario (Anassimandro, Eraclito, Empedocle, Diogene) o dall’aggregazione dagli elementi originari (Empedocle) e in esso, o nella disgregazione di essi, si risolve. 2. Come ha chiarito Ross (Commentary, p. 687), la lezione tradita ενα ή μή dei (uno o non sempre (esistente)) non dà un senso accettabile, giacché la tesi dell’unicità del mondo in se stessa non comporta alcuna «corrispondente» opinione circa l’eternità o non-eternità del movimento. Egli pertanto, seguendo un’indicazione del commento di Temisti 0(209, 11-13), congettura, assai verosimilmente, la caduta di ή άεί dopo ενα. Il che ricompone il senso, in quanto la suddetta opinione ora consegue non all’unità del mondo, bensì al modo in cui è stata pensata: come eterna o non-eterna. Chi ha creduto che il mondo fosse uno ed eterno, ha, di conseguenza, dovuto ritenere eterno anche il movimento; chi invece l’ha pensato come uno e non eterno, ha dovuto ritenere non eterno anche il movimento. In questa seconda ipotesi sembra doversi riconoscere quella di Anassagora, per il quale il mondo, che è uno, si è originato in seguito al movimento impresso dalla Mente all’originario miscuglio di tutte le qualità (cfr. anche 252 a 10-11); nella prima può riconoscersi la teoria fisica di Parmenide. 3. Cfr. I). K. 59 B j, 13. 4. I). K. 31 B 17, vv. 9-13. 5. Il riferimento è ai libri I-IV. 6. Alla riga 4 la presenza di fjv, come ha indicato Ross (Commentary, p. 688), risolve un problema di senso, rispetto al quale le altre lezioni risultano molto insoddisfacenti. 7. Cfr. 219 a 8-220 a 24. 8. Cfr. 68 A 40. 9. Concordo con Ross circa l’opportunità di espungere il primo γεγονέναι (se il tempo «è venuto all’essere» assieme col cielo, non c’è bisogno di precisare che questo «è venuto all’essere» per asserire che anche quello si è generato). Bisogna pertanto sottintendere un semplice είναι. 10. Cfr. Timeo, 28 b; 38 b. 11. Il senso del rilievo definito dalla lezione το φΦαρτικόν δή δεήσει φθαρήναι δταν φθείρΐ], che si è adottata, è che, dopo la fine della corruzione, ciò che può produrla dovrà essere corrotto in questa sua capacità, e a sua volta dovrà essere corrotto ciò che può corrompere quest’elemento, e così all’infinito, di modo che, posta la fine della corruzione, ciò che può corrompere dovrà essere già stato distrutto nell’atto in cui è corrotto. 12. Cfr. D. K. 31 B 30. 13. Una causa diversa, ben inteso, da quella, presuntivamente avanzata come tale, che questa proprietà vale per tutti i triangoli. 14. Cfr. 247 b 2-3.

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15. Implicito riferimento alle tesi di Anassimandro, di Anassimene e, soprattutto, di Democrito (in proposito, cfr. I). Κ., 68 B 39). Sull’impossibilità che un corpo infinito sia in movimento e in quiete cfr. 205 a 8-206 a 7. 16. Cfr. il cap. 8 di questo stesso libro, dove si dimostra che il movimento circolare è continuo ed eterno. 17. Cfr. 259 b 13. Con Carteron riferisco εκείνην (riga 17) sia al desiderio che al pensiero. 18. Cfr. 259 b 1-16. 19. Cfr. 184 b 25-185 a 8. 20. Cfr. 192 b 21. 21. Concordo con Ross (Commentary, p. 692) nel ritenere che la lezione vulgata ομοίως non dà un senso adeguato, quale invece è garantito da ὅμως. 22. Cfr. ante, 250 a 17-19. 23. Cfr. Meteor., 348 b 22. 24. Il testo si stabilisce nel modo più semplice e lineare col maschile τις. 25. Con questa difficile espressione dall’andamento assai slegato Aristotele non intende sostenere — come risulta dall’interpretazione di Alessandro, riportata nel commentario di Simplicio (1201, 14) — che tanto l’aumento quanto il movimento forzato comportano un movimento contro natura di ciò che prima era in quiete, ma che l’aumento implica il movimento di ciò che prima era in quiete e il movimento forzato implica il movimento contro natura della cosa precedentemente ferma (cfr. Ross, Commentary, p. 693). 26. Il riferimento può essere al primo capitolo di questo libro, dove si argomenta contro la tesi che nega la continuità del movimento nel cosmo o, più precisamente, agli argomenti con i quali è stata confutata la teoria empedoclea della ciclica alternanza di quiete e movimento. 27. Cfr. 253 a 24-30. 28. Quest’aggiunta è necessaria per la simmetria con la classificazione iniziale. 29. Cfr. 253 32-b 6. 30. Il riferimento è a Melisso (cfr. 185 a 32; 186 a 16), 31. Cfr. De An., 428 b 11. 32. Cfr. 193 a 4-9. 33. Cfr. 253 b 6-254 a 1; 254 a 3-15. 34. Si tratta, in effetti, di una continuità per natura, propria di ciò che è naturalmente unitario, come si evince anche dalle parole immediatamente precedenti. Aristotele la distingue, dunque, dal continuo come specie del contiguo, il quale è proprio di due cose naturalmente separate, ma aventi un confine comune. 35. Come risulta dalle righe immediatamente successive, muove in senso accidentale, non muove in senso essenziale. 36. Cfr. 254 b 24-27. 37. Cfr. 254 b 33-2 55 b 31. 38. Cfr. 255 a 22-23; b 8-11. 39. L’espunzione di κινούμενοι), proposta da Ross, semplifica di molto e rende ben più lineare lo scorrere del pensiero. Parallelamente, alla riga 18 seguo la lezione del codice Laur. 87.24. 40. La logica stessa del discorso mi induce, con Ross e Carteron, a optare per αυτό. Infatti, con αυτό (ciò che muove se stesso con se stesso) sarebbe anticipata la conclusione. 41. Come ha indicato Ross (Commentary, p. 698), tanto con κινούν quanto con κινύμενον il senso rimane lo stesso (infatti, se ciò che muove può non essere mosso, anche ciò che è mosso può non esserlo), ma la prima lezione ha il suggello di 256028 e di Simplicio, 1225, 25. 42. Cfr. 234 b 10-20 (Ross), 0228a ro sgg. (Diels), o l’intero libro V (Simplicio). 43. Cfr. 251 a 9-16, 44. Cfr. III, I. 45. Cfr. 256 a 13-b 3; 257 a 10-12.

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46. Cfr. 256 b 4-257 a 27. 47. Cfr. VIII, I. ‘ 48. Cfr. 256 b 30 sgg. 49. «L’intero» è qui indicato col femminile (ή όλη) in riferimento alla «linea» (γραμμή), tramite la quale Aristotele, qui come in precedenza, rappresenta la cosa che muove se stessa. 50. Il passo è di difficile interpretazione ed è stato inteso in diversi modi. Per Alessandro si tratta di un secondo argomento col quale Aristotele confuta l’ipotesi che l’intero motore muove se stesso attraverso il movimento da se stessa di una parte. Ma quest’esegesi, per il ragionamento che attribuisce allo Stagirita (ogni parte che muove se stessa dev’essere mossa anche da un’altra, perché in caso contrario il tutto sarebbe un mero aggregato di parti che muovono se stesse e quindi non muo- verebbe se stesso. Ma poiché il suo movimento è unico, tutte le parti sono mosse e muovono con lo stesso movimento e con lo stesso movimento ognuna è mossa da sé e da un’altra: ciò che è assurdo. Se poi si ammettesse che ciascuna è mossa da se stessa e da un’altra con un movimento diverso, si avrebbe l’assurdo ancor maggiore che il tutto non muove se stesso con un unico movimento), è stata — a buon diritto — giudicata da Simplicio non rispondente al testo aristotelico. Ross 0Commentary, p. 702) ritiene che il passo costituisca la conclusione di questa sezione del capitolo, dopo la reiezione delle tesi che il motore primo muove se stesso come tutto, che ciascuna delle sue parti muove un’altra e che una o più parti muovono se stesse. Ma a questa interpretazione mi sembra opporsi il modo con cui il passo è introdotto: con la congiunzione ετι, con la quale anche in questo capitolo Aristotele presenta un argomento nuovo (cfr ad esempio 257 b 20; 23; 25) — mentre nel solco dell’esegesi di Ross sarebbe stato da aspettarsi piuttosto ώστε. Per parte mia, credo sia plausibile vedere nel passo la seconda, assurda conclusione del secondo caso ipotizzato in 257 b 29-30: η ολον ικρ’ δλου. Essendo l’intero a muovere se stesso — argomenta Aristotele —, ci sarà una sua parte che muove e un’altra che è mossa, e la parte che muove, poiché muove l’intero, il quale muove se stesso, lo muoverà in quanto muove se stessa; ma allora l’intero risulta mosso dalla totalità di sé e da una parte, e con ciò i due termini dell’ipotesi iniziale (l’intero muove se stesso; una parte muove se stessa) confliggono tra loro. 51. Cfr. De Gen. et Corr., 323 a 31. 52. Cfr. 234 b 10-10. 53. Si fa riferimento, come ha segnalato il Ross, al problema dell’anima individuale. 54. Cfr. 234 b 10-20. 55. La lezione tràdita è των αεί μέν (των μέν, secondo Simplicio; των μεν αεί, secondo Gaye) κινούντων («né di quelle che sempre muovono, alcune, queste date cose, altre, altre cose»). Ma essa, come ha ben visto Ross (Commentary, pp. 705706), dà un senso poco plausibile, in quanto la continuità del movimento non è contraddetta dal fatto che alcuni motori immobili muovono alcune cose, altri altre, ma da quello che i motori immobili non sono studioso, il quale legge τωνδί, μέν ταδί e sopprime κινούντων come aggiunta del copista, conseguente all’aver egli ritenuto των dipendente da ούδέν. Secondo tale emendamento, paleograficamente provvisto di alta attendibilità, il testo letteralmente suona: «né queste date cose qui di queste date cose qui, altre di queste», asserisce cioè l’impossibilità, in ordine al carattere continuo del movimento, anche di una successione di motori immobili che siano talvolta soltanto. 56. Con Ross leggo evia, espungendo conseguentemente αρχαί, come aggiunta di un copista, anziché ενιαι αρχαί, secondo la tradizione manoscrita: l’espressione ne guadagna in scioltezza e in linearità, offuscate alquanto, invece, da una certa farraginosi della lezione tradita (alcuni princìpi tra quelli immobili, ma motori). 57. Cfr. 188 a 17-18. 58. Cfr. VII, I. 59. Accolgo l’espunzione di των κινούντων, proposta da Ross per le ragioni da lui addotte a p. 706 del Commentary.

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60. Cfr. 252 b 17-18; 253 a 7-20. 61. La lezione grammaticalmente più lineare è έν xfj μοχλεία — essendo peraltro evidente che ciò che muove se stesso «sulla» leva, lo fa assieme e in conformità col movimento di questa. A tale lezione mi sono pertanto attenuto 62. Seguo la lezione καί κατά συμβεβηκός, l’unica che dia all’espressione un senso plausibile rispetto ai precedenti rilievi di Aristotele sull’esser mosso accidentalmente da sé. L’aggiunta di μή (και μή κατά συμβεβηκός), chiaramente dovuta a un copista che, non comprendendo il significato di καί, ha banalmente ritenuto che valesse come «e», conferisce all’espressione un senso o errato o inutilmente complesso. Errato, se s’intende che è necessaria l’esistenza di «qualcosa che sia il primo motore immobile e non per accidente», giacché l’accidentalità di un tale principio motore è ipotesi insensata e, comunque, mai neppure sfiorata dalla trattazione aristotelica. Inutilmente complesso, se s’intende che è necessario «qualcosa che sia il primo motore immobile, e (sia immobile) non per accidente», con riferimento alla distinzione tra l’immobilità per sé e quella per accidente, operata in 258 b 14 (così, per esempio, Carteron). 63. Cfr. ante, 6, 258 b 14, dove si parla di «fuori di ogni mutamento, sia assolutamente che per accidente». 64. Cfr. Metaph., XII, 8. 65. Cfr. De Gen. et Corr., 336 a 31; b 19; Metaph., 1071 a 15; 1072 a 10-12. 66. Cfr. De An., 416 a 21. 67. Cfr. VIII, 8. 68. Ossia, la traslazione circolare dei cieli. 69. Cfr. 194 b 13. 70. Riferimento agli zoofiti (cfr. Hist. An., 487 b 7 sgg.; 528 a 33; 588 a 15; De Part. Anim., 683 b 5). 71. Cfr. 253 a 29. 72. Cfr. Phys., V, 4. 73. Cfr. 227 b 24-26. 74. Si fa riferimento al moto di A verso e lungo B e al moto di A verso e lungo C, come nella seguente figura:

75. Anche in questo caso, come già in precedenza, il femminile (ή τό Η [...] άνακάμψασα) si giustifica sottintendendo γραμμή, la linea, in riferimento alla quale Aristotele ragiona intorno al movimento. Cfr. 233 a 21-31. άνακάμψασα) si giustifica sottintendendo γραμμή, la linea, in riferimento alla quale Aristotele ragiona intorno al movimento. 76. Cfr. 233 a 21-31. 77. Cfr. 262 a 19-b 21. 78. Con Ross accetto la lezione dei codici che non presentano επί το Γ. 79. Cfr. 229 b 28-230 a 7. 80. Non tutti i Fisiologi, infatti, affermano questo, ma, notoriamente, gli Eleati negavano il movimento. 81. Chiaro riferimento a Eraclito e Cratilo, in particolare alle loro discettazioni sulla perenne diversità delle acque del fiume (I). K. 22 A [vol. I, p. 141, 19]; 65 A 3 [vol. II, p. 69, 25]).

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82. Cfr. 261 b 28. 83. Cfr. Phys., IV, 558. 84. Cfr. 260 b T7-19, dove compare una analoga distinzione dei sensi di «primo». 85. Πλεΐον, anche nell’ipotesi che sia stato aggiunto da un copista, come ritiene Ross, migliora tuttavia il testo, per riconoscimento dello stesso studioso (Commentary, p. 720), in quanto «rende più regolare la costruzione». 86. Intendo τής ... μόνης come genitivo assoluto (col participio ουσης sottinteso), essendo questo l’unico modo di dare alla frase plausibilità stilistica. Che, se gli si attribuisce valore di genitivo di specificazione, si ottiene una costruzione farraginosa, con εν αυτή che ripete quanto è già espresso dal genitivo («invece, né principio né fine del (movimento) in circolo sono per natura in esso»). 87. Chiaro riferimento a Empedocle. 88. Cfr. D. K. 31 B 26, vv. 5-6. 89. Cfr. D. K. 59 B 12. 90. Il riferimento è agli Atomisti. 91. Il riferimento è ad Anassimene (cfr. anche 187 a 12-16). 92. Si trata di PLATONE (cfr. Fedro, 245 c-246 a). 93. Accolgo la proposta di Ross ed espungo την ... κίνησιν, che appesantisce l’espressione 94. Ossia, il motore primo. 95. Cfr. Timeo, 79 a-e, le cui dottrine sono qui fatte oggetto di critica (cfr. Ross, Commentary, p. 726). 96. Cfr. 266 b 28-267 a 8. 97. Cfr. III, 5; cfr. anche 251 a 8-9. 98. Cfr. 266 a 24 sgg.

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SOMMARI

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LIBRO PRIMO CAPITOLO PRIMO:〈I〉 compito della scienza fisica: conoscere le cause (dal momento che il sapere scientifico in ogni ambito di ricerca consiste nel rendere note le cause, i princìpi e gli elementi, e la fisica è una scienza). 〈II〉 Metodo: da ciò che è noto per noi a ciò che lo è per natura, ed è noto per noi l’oggetto della sensazione, il quale è l’universale come la cosa nella sua interezza, mentre le parti si determinano successivamente. Perciò: dall’universale al particolare. CAPITOLO SECONDO:〈I〉 si richiamano schematicamente le tesi dei Fisici sul numero e il carattere finito o infinito dei princìpi. 〈II〉 Si rifiuta come inadeguata alla fisica quella secondo cui l’esistente è uno e immobile (semmai l’accertare questo è compito di un’altra disciplina) e si pone su base induttiva che gli enti di natura sono in movimento: o tutti o alcuni. 〈III〉 Non è opportuno risolvere tutti gli errori, ma soltanto quelli di chi dimostra a partire dai princìpi. 〈IV〉 Si espone una serie di critiche alla tesi secondo cui l’essere è uno: 〈A〉 non è chiaro in che senso lo sia: 〈a〉 come sostanza, o qualità, ecc., 〈b〉 oppure come una determinata sostanza, o qualità, ecc.? 〈B〉 Poiché l’essere è multivoco, 〈a〉 se è costituito di sostanze, qualità, quantità, ecc., allora non è uno, ma molteplice; 〈b〉 se è costituito di sole qualità, o quantità, ecc., allora si ha l’assurdo di determinazioni non sostanziali separate; 〈c〉 se, come dice Melisso, è infinito, poiché «infinito» è una quantità, 〈1〉 se è sostanza e quantità, non è uno; 〈2〉 se è soltanto sostanza, non è infinito e non ha grandezza. 〈C〉 Poiché anche l’uno è multivoco e significa 〈a〉 il continuo, 〈b〉 l’indivisibile e 〈c〉 l’identità della definizione, 〈a〉 se l’essere è uno come continuo, è molteplice, stante che il continuo è divisibile all’infinito; 〈b〉 se è uno come indivisibile, poiché indivisibile è soltanto il limite e non anche il limitato, non sarà né infinito, come pretende Melisso, né finito, come vuole Parmenide; 〈c〉 se è uno perché tutte le cose hanno la stessa definizione, saranno identici anche gli opposti e si finirà per dire che tutto è niente, non che tutto è uno. 〈V〉 Anche gli Antichi avvertirono la difficoltà dell’uno e dei molti, e, non avendo colto che il molteplice è sia in potenza che in atto, credettero di risolvere la difficoltà o eliminando «è», o sostituendo, per esempio, «è camminante» con «cammina». CAPITOLO TERZO:〈I〉 si criticano separatamente gli argomenti di Melisso e di Parmenide, ritenuti eristici: 〈A〉 quello del primo, che è più grossolano, 〈1〉 assume che, se «ciò che diviene ha un principio», «ciò che non diviene 350

non ne ha» (deducendo la negazione del conseguente dalla negazione dell’antecedente); 〈2〉 afferma che di tutto vi è principio, ma non del tempo e della generazione assoluta; 〈3〉 passa indebitamente dall’unità all’immobilità dell’essere; 〈4〉 esclude l’alterazione; 〈5〉 suppone che l’essere sia uno per specie. 〈B〉 Il ragionamento di Parmenide è 〈1〉 falso, perché parla dell’essere in senso assoluto, mentre si dice in molti sensi; 〈2〉 non concludente, perché scambia l’unità della nozione con l’unità delle cose che l’accolgono. 〈II〉 Critica della posizione eleatica: 〈1〉 non ammettendo la multivocità dell’essere, essa finisce per negare l’esistenza di ciò a cui l’essere è accidentale, per cui qualcosa che è, non è; 〈2〉 se l’essere in quanto essere non è accidentale a niente, non vi è motivo che significhi l’essere piuttosto che il non-essere; 〈3〉 se l’essere è solo essere in quanto essere, non ha grandezza. 〈III〉 Necessità di distinguere nella definizione molti significati dell’essere in quanto essere, ciascuno dei quali è essere in quanto essere. 〈IV〉 Contro certi tentativi di mediazione tra l’unità e la molteplicità dell’essere si afferma, sulla base della distinzione tra il non-essere assolto e il non-essere relativo, che può esserci non-essere anche nell’ipotesi che l’essere sia uno e i contraddittori non sussistano nello stesso tempo. CAPITOLO QUARTO:〈I〉 nell’esame le dottrine dei Fisici, si distinguono coloro che fanno derivare le cose per condensazione e rarefazione da un sostrato corporeo (a questa posizione viene assimilata anche quella platonica) da coloro che le fanno derivare dai contrari contenuti nell’uno (Anassimandro, Empedocle e Anassagora). 〈II〉 Si formulano otto obiezioni ad Anassagora: 〈1〉 l’infinità dei princìpi, per numero e per specie, rende impossibile conoscere le cose che ne derivano; 〈2〉 la grandezza determinata (e non qualsiasi) delle cose (di un vivente o di una pianta) esclude che le loro parti siano di qualunque quantità; 〈3〉 la separazione dal tutto o si arresta, fermandosi a una determinata cosa, per cui non tutto è presente in tutto; oppure non si arresta, e allora si ha l’assurdo che in una cosa finita è presente un numero infinito di uguali cose finite; 〈4〉 la quantità determinata, per esempio, della carne, esclude che la separazione possa proseguire oltre un dato limite; 〈5〉 in ogni corpo sono presenti infinite determinazioni separate della stessa cosa (infinite carni, infiniti cervelli, ecc.); 〈6〉 le affezioni sono inseparabili e di fatto neppure Anassagora, quantunque inconsapevolmente, le ha separate; 〈7〉 la mente, cercando di operare una separazione impossibile sia qualitativamente che quantitativamente, cade nell’assurdo; 〈8〉 poiché, per esempio, il fango può dividersi anche non in fango, non è spiegata correttamentte neppure la generazione delle cose di forma simile. 351

CAPITOLO QUINTO:〈I〉 tutti i Presocratici hanno considerato i contrari come princìpi. 〈II〉 È logico che lo siano: i princìpi non derivano da altro né uno dall’altro, e i contrari primi, come primi non derivano da altro, come contrari non derivano l’uno dall’altro. 〈III〉 Che tutto ciò che diviene, derivi e si corrompa dai contrari e nei contrari, comprova l’analisi e delle cose semplici e di quelle composte, anche se per queste ultime la mancanza di nome di uno dei contrari rende meno percettibile la condizione in oggetto. 〈IV〉 Se i filosofi concordano nell’affermare che i contrari sono princìpi, divergono però nell’assumere come tali ciò che è anteriore o posteriore, più noto secondo ragione o secondo sensazione. Per cui dicono tutti e la stessa cosa e cose diverse. CAPITOLO SESTO:〈I〉 i princìpi non possono essere 〈1〉 né uno (giacché i contrari non sono uno), 〈2〉 né infiniti (giacché#x2039;a〉 renderebbero inconoscibile l’essere; 〈b〉 nella sostanza, come in ogni genere, vi è una coppia di contrari; 〈c〉 la spiegazione da un numero finito di princìpi è possibile ed è migliore; 〈d〉 i contrari sono reciprocamente anteriori e derivabili). 〈II〉 Essendo di numero finito, non possono essere due: non si vede come un contrario possa naturalmente produrre l’altro, dal momento che uno non comporta l’altro e non opera a partire dall’altro. 〈III〉 Difficoltà insormontabili se ci si ferma ai contrari e non si pone anche un terzo principio: 〈1〉 la sostanza di nessuna cosa è costituita da contrari; 〈2〉 il principio non può dirsi di un sostrato, che sarebbe principio di principio; 〈3〉 la sostanza non ha contrario. 〈IV〉 Necessità di porre il sostrato come terzo principio oltre i contrari, come già videro gli Antichi (meglio, quelli che non lo individuarono in uno dei quattro elementi, i quali sono già implicati in contrarietà, ma in qualcosa d’intermedio). 〈V〉 I princìpi non possono essere che tre: 〈1〉 il principio che patisce è necessariamente uno (se i princìpi fossero quattro e quindi due le coppie di contrari, 〈a〉 o dovrebbe esserci una natura intermedia, cui esse ineriscono,〈b〉 oppure, se una deriva dall’altra, una sarebbe inutile); 〈2〉 e i contrari originari due (giacché la sostanza è un unico genere dell’essere e i contrari in generale sono due). CAPITOLO SETTIMO:〈I〉 una cosa si genera da un’altra, diversa cosa, ancorché sul piano linguistico non sempre si possa dire «da questo è divenuto questo». Ma alcune, divenendo, permangono, altre no. 〈II〉 Il soggetto che diviene è uno di numero, ma per forma non è uno. 〈III〉 〈1〉 Se il divenire riguarda una determinazione che non permane, si dice «diventare qualcosa da qualcosa»; 〈2〉 forma che talvolta è adatta anche se la determinazione permane. 〈3〉 Se la determinazione si genera dall’opposto 352

e non permane, si dice sia «da questo è divenuto questo», sia «questo è divenuto questo». 〈IV〉 Necessità del sostrato nella generazione di ogni tipo (per trasformazione, per aggiunzione, per toglimento, per unione, per alterazione). Per cui, poiché soltanto la sostanza è per se stessa sostrato e non si dice di un soggetto-sostrato, soltanto per essa è proprio parlare di divenire in senso assoluto, mentre per le altre determinazioni categoriali è più proprio parlare di «divenire qualcosa». 〈V〉 Dunque, il divenire comporta 〈1〉 la cosa che diviene, 〈2〉 il sostrato 〈3〉 e l’opposto. 〈VI〉 Tutto si genera dal sostrato e dalla forma. 〈VII〉 Il sostrato è uno per numero, ma due per la forma. Sono così da distinguersi, in esso, materia e forma. 〈VIII〉 In un senso i princìpi del divenire sono due: i contrari, ma in un altro senso tre: i contrari e il sostrato. 〈IX〉 La materia, ossia la natura che permane, è una per analogia, non come l’individuo sostanziale. 〈X〉 Riassunto dei capitoli sesto e settimo. CAPITOLO OTTAVO:l’aporia degli antichi filosofi secondo cui niente si genera e si corrompe, giacché la generazione è o dall’essere o dal non-essere, e nessuna delle due alternative è possibile, si risolve 〈1〉 distinguendo il senso assoluto dal senso accidentale: in senso assoluto nulla si genera dal nonessere, o dall’essere, ma in senso accidentale vi è generazione dal nonessere, o dall’essere; 〈2〉 distinguendo l’essere in potenza e l’essere in atto. CAPITOLO NONO:identificando la natura-sostrato con il Grande e il Piccolo, i Platonici confondono la materia con la privazione. Essi hanno sì scorto la necessità di porre una tale natura per spiegare il divenire, ma l’hanno poi concepita come materia, trascurando l’altro principio. Così la materia, tendendo alla perfezione, tenderebbe alla sua corruzione. La materia, in quanto privazione è corruttibile; in quanto potenza è incorruttibile e ingenerabile (si genererebbe e si corromperebbe in ciò che funge da sostrato per ogni cosa; ma questo è la materia stessa, per cui si genererebbe prima d’essersi generata e si corromperebbe prima d’essersi corrotta). Quanto alla forma, compete alla filosofia prima dire se sia una o se siano molte e precisarne la natura.

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LIBRO SECONDO CAPITOLO PRIMO:‹I› si distinguono ‹1› in base alla nozione di natura (la quale è principio e causa di movimento o di quiete in ciò che esiste per sé e non per accidente), gli enti naturali (quelli che hanno, per l’appunto, in se stessi la causa del loro movimento o della loro quiete) dai prodotti dell’arte (il cui movimento è invece dovuto a fattori esterni); ‹2› in base all’essere la natura o sostrato o in un sostrato, gli enti conformi a natura (come il portarsi del fuoco verso l’alto) da quelli che non lo sono. ‹II› Premesso che è ridicolo dimostrare l’esistenza della natura, si indica che ‹1› in un senso essa è la materia prima che funge da sostrato; ‹2› in un altro è la forma e la specie, come risulta ‹a› dal confronto con i prodotti dell’arte; ‹b› dal fatto che la forma è natura a maggior titolo della materia, giacché è in atto; ‹c› dal fatto che la generazione comporta persistenza della forma, e la natura permane; ‹d› dal fatto che si genera non la cosa da cui proviene ciò che nasce, ma quella a cui tende, e questa è formalmente definita. ‹III› La forma in un certo senso è anche privazione. CAPITOLO SECONDO:‹I› la fisica (e l’astrologia, se è parte della fisica) si occupa anche degli oggetti della matematica (superfici, solidi, lunghezze, punti; forme degli astri), ma in quanto limiti di corpi e quindi forme non separate, ancorché siano concettualmente separabili, e così ne tratta il matematico. ‹II› I Platonici, separando le forme fisiche, rendono sostrati di inerenza anche quelle determinazioni che invece ineriscono a un sostrato (come «camuso», che inerisce a «naso»). ‹III› Gli oggetti della natura, che significa sia materia che forma, sono materiali, ma non vanno studiati sotto il profilo della loro materialità. ‹IV› Compete alla fisica quale scienza unitaria studiare la natura sia come materia che come forma: ‹1› anche le arti studiano entrambe, e la natura imita l’arte; ‹2› sono studiati dalla medesima scienza sia il ciò in vista di cui e il fine, sia ciò che è in vista di questi, ossia la materia; e la natura, oggetto della fisica, è fine. Anche le arti si occupano della materia, dato che in un certo senso se la costruiscono; negli enti di natura, invece, essa è già presente; ‹3› la materia fa parte dei relativi e per una forma diversa si richiede una materia diversa, sicché, studiando l’una, bisogna studiare anche l’altra. ‹V› Il fisico deve conoscere la forma e il che cos’è per ciò che essi riguardano il fine della sua scienza: come separabili concettualmente, ma inerenti in una materia. CAPITOLO TERZO:poiché conoscere scientificamente è conoscere la causa, indagare le forme di movimento è indagare le loro cause. «Causa» significa 354

‹1› il ciò da cui (causa materiale), ‹2› la forma e il paradigma, coincidenti con la definizione della quiddità e i suoi generi, ‹3› il principio primo del mutamento (causa efficiente) e ‹4› il ciò in vista di cui e il fine. Poiché «causa» ha molti significati, di una stesa cosa vi sono molte cause, ma ognuna è causa in un senso diverso. Inoltre, alcune cose sono l’una causa dell’altra. Talvolta poi la causa di un contrario è causa anche dell’altro contrario. Comunque, tutte le cause rientrano nei quattro generi suddetti. I modi delle cause sono molteplici (‹a› tra le cause del medesimo tipo, per esempio tra le cause efficienti, alcune sono anteriori; ‹b› alcune cause sono accidenti; ‹c› è causa anche ciò che contiene l’accidente; ‹d› anche tra gli accidenti che hanno funzione di causa, alcuni sono anteriori; ‹e› sia le cause in senso proprio che le cause accidentali sono cause o in potenza o in atto; ‹f› tutto questo vale anche per le cose causate e per gli accidenti; ‹g› la causa in senso proprio e quella in senso accidentale possono dirsi sia congiuntamente che disgiuntamente), ma comunque riassumibili nei seguenti sei, ciascuno dei quali può essere o in potenza o in atto: ‹1› l’individuo, ‹2› il genere, ‹3› l’accidente, ‹4› il genere dell’accidente, ‹5› il composto, ‹6› il semplice. Le cause in atto e le cause individuali sono simultanee al causato, invece le cause in potenza non lo sono. In ogni ambito va ricercata la causa prima. Le cause, infine, sono omogenee al causato (la causa di un genere è un genere, di un individuo un individuo). CAPITOLO QUARTO:si esaminano tre opinioni sulla fortuna e sul caso. ‹I› Alcuni negano la loro esistenza: là dove si parla di fortuna e di caso è sempre possibile rintracciare una causa determinata; inoltre, nessuno dei filosofi antichi ha annoverato la fortuna e il caso tra le cause della generazione e della corruzione. Aristotele critica questa tesi: alcune cose che pur possono riportarsi a qualcuna della cause che si conoscono, di fatto — per unanime ammissione — non provengono da esse. È strano perciò che quei filosofi non li abbiano menzionati, una stranezza ancor più sorprendente se si pensa che Empedocle — uno di essi — in certe sue espressioni dice «come capita». ‹II› Per altri (gli Atomisti) il caso, nel vortice degli atomi è causa del formarsi di questo mondo come degli infiniti altri, ma non interviene tra le cause dei singoli fenomeni (piante, animali, ecc.). Tesi insostenibile, giacché proprio in questi fenomeni si constata l’intervento della fortuna, mentre i cieli (per la loro assoluta regolarità) non la possono ammettere. ‹III› Per altri ancora, infine (probabilmente per Anassagora), la fortuna si annovera tra le cause, ma è qualcosa di divino e perciò eccede le capacità del pensiero.

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CAPITOLO QUINTO:Aristotele innanzitutto pone l’esistenza della fortuna e del caso, comprovandola col ricorso all’opinione corrente, per la quale essi esistono, e con l’accertamento della sua effettiva possibilità, dal momento che vi è un genere di enti che non sono sempre nello stesso modo. Caso e fortuna (a) intervengono nell’ambito delle cose non necessarie che sono in vista di un fine (la finalità alberga infatti anche in questo genere di realtà, oltre che in quelle necessarie), trale quali si annoverano sia quelle dovute a scelta deliberata, sia quelle naturali e (b) si verificano quando qualcuna di queste cose si produce accidentalmente. Caso e fortuna sono pertanto causa non per sé, ma per accidente (così come l’essere in un senso è per sé, in un altro è per accidente) e, come tale, indeterminata (mentre la causa per sé è determinata) delle cose che sono in vista di un fine; e la sorte, di quelle che derivano da scelta deliberata (mentre il caso, di quelle naturali). L’indeterminatezza delle cause dell’evento fortuito fa sì che la fortuna stessa sia indeterminata. Il che spiega perché siano sorte la prima e la terza delle opinioni anzi esposte. E spiega anche l’opinione secondo cui la fortuna è irrazionale. La prosperità e la disgrazia corrispondono all’aver buona o cattiva fortuna in cose di grande importanza. CAPITOLO SESTO:la fortuna è meno estesa del caso (ossia: tutto ciò che rientra in quella rientra anche in questo, ma non viceversa), in quanto riguarda soltanto la sfera dell’azione e della scelta deliberata. Per questo, chi non è capace di scelta (come gli esseri inanimati, gli animali e i bambini), non si può neppur dire che è soggetto alla fortuna, se non per somiglianza. Invece il caso si estende anche alle cose inanimate e ai viventi incapaci di scelta. Una prova di tutto questo è che si usa l’espressione «invano» per ciò che non raggiunge l’esito al quale è per sua natura finalizzato. Il caso sussiste quando la cosa si produce invano. Le cose che si producono per natura sono massimamente estranee alla fortuna; meno al caso, benché ne differiscano per il fatto che la loro causa è intrinseca, mentre il caso comporta una causa estrinseca. Quanto alla modalità della causazione, caso e fortuna risiedono in ciò da cui proviene il principio del movimento. Essi, inoltre, in quanto cause per accidente, sono posteriori all’intelligenza e alla natura, che sono invece cause per sé. CAPITOLO SETTIMO:le cause sono quelle dette e di numero uguale a quello detto, giacché a esse si riporta il perché di tutte le realtà, sia immobili che divenienti. A queste cause devono riferirsi le spiegazioni del fisico, tenendo presente che spesso la causa formale, la causa finale e la causa efficiente coincidono. Alcuni princìpi del movimento hanno in sé il movimento 356

(muovono essendo mossi), altri non lo hanno (muovono senza essere a loro volta mossi) e per questo, pur muovendo anch’essi in modo fisico, non sono fisici. Tali la forma, coincidente col fine. CAPITOLO OTTAVO:si deve indagare perché la natura faccia parte delle cause finali e come negli enti naturali sia presente la necessità. Aristotele esamina innanzitutto l’obiezione dei Meccanicisti: la natura procede per necessità e il presunto fine è soltanto la coincidenza di necessarie conseguenze. Vi oppone che ‹1› certi fenomeni (quali le frequenti piogge d’inverno o i calori sotto la canicola) non sono fortuite coincidenze, per cui, se tutto si produce o per una fortuita coincidenza o per una causa finale, dovendosi escludere nel caso di specie la prima alternativa, risulta che nella natura vi è finalità; ‹2› il procedere della natura corrisponde a quello di un’azione, e come nell’azione, che è sempre orientata a un fine, i momenti anteriori e consecutivi tendono a questo, così nella natura le fasi anteriori e quelle consecutive del processo sono in vista di un fine; ‹3› se l’arte, che completa e imita la natura, opera in vista di un fine, così opera anche la natura; ‹4› il caso delle piante e degli animali, che sono enti naturali e che, senza agire per arte, né in seguito a una ricerca, né per deliberazione, agiscono in vista di un fine, rende soprattutto manifesta la finalità della natura; ‹5› la natura è, oltre che materia, anche forma, e la forma è fine e causa finale. Aristotele precisa quindi: ‹1› come nei prodotti dell’arte ciò che è ben riuscito ha attuato il fine, mentre in ciò che è sbagliato si è mirato al fine, ma lo si è fallito, così vi sono errori anche nella finalità della natura e i relativi prodotti sono i mostri. ‹2› (Empedocle ha asserito che) inizialmente si ha il seme, non l’animale; ebbene, l’«informe iniziale» è il seme. ‹3› Come tra gli animali non si verificano mostruosità del tipo dei bovini col muso da uomini (di cui ha parlato Empedocle), così non se ne verificano neppure tra le piante, nelle quali è presente la finalità, anche se in modo meno articolato che negli animali. ‹4› Se fosse vera l’ipotesi empedoclea della generazione dai semi originari, tale generazione dovrebbe prodursi come capita. ‹5› L’ipotesi meccanicistica elimina l’idea della natura come principio che opera all’interno degli enti in vista di un fine (giacché ogni genere di cose si sviluppa verso un preciso fine, mentre da ciascun principio diverso — come quell’ipotesi comporta — deriva un fine diverso e non soggetto al caso). (6› Il ricorso al caso, che pur si verifica dove regna finalità, non riesce però a spiegare la costanza dei processi naturali, giacché il caso è un tipo di accidente (esattamente quell’accidente che si incontra in ciò che si muove verso un fine), mentre le cose naturali sono sempre o per lo più. ‹7› È assurdo che gli Atomisti neghino la finalità della natura perché in essa non 357

riescono a scorgere l’operare in senso decisionale del motore: la natura è una sorta di arte immanente alla cosa, e neppure l’arte decide, ma tuttavia opera in vista di un fine. CAPITOLO NONO:posto il problema se la necessità che opera nelle generazioni della natura sia ipotetica o assoluta, Aristotele rifiuta la tesi di coloro (Empedocle e soprattutto Anassagora) che affermano la seconda alternativa (si produce un muro perché le pietre per natura si portano verso il basso) e pone che ‹1› la materia è necessaria come condizione per il generarsi di una cosa, nel senso che tramite essa si raggiunge quel fine che è il prodursi della cosa stessa, non come causa efficiente di questa; ‹2› di conseguenza, la necessità che opera nella natura risiede nella materia ed è ipotetica, è cioè la necessità della condizione rispetto al fine, ma non risiede nel fine stesso; ‹3› quest’ultimo è espresso invece dalla nozione. Indi mostra che sussiste una certa somiglianza tra il modo in cui la necessità si attua nelle matematiche e negli enti di natura: nelle prime, ‹a› il darsi delle premesse comporta il darsi della conclusione, ‹2› il darsi della conclusione non comporta il darsi delle premesse, ‹3) il non darsi della conclusione comporta il non darsi delle premesse; nei secondi ‹1› il darsi del conseguente comporta il darsi dell’antecedente, ‹2› il non darsi dell’antecedente comporta il non darsi del conseguente. Dunque, negli enti di natura il conseguente si rapporta al l’antecedente come nelle matematiche le premesse si rapportano alla conclusione. E poiché l’antecedente è costituito dalle condizioni materiali atte a realizzare il fine e il conseguente è il fine stesso, il quale, in quanto tale, è anche principio, ne deriva che questo non è posto dalle condizioni materiali, ma non può darsi senza di esse. E con ciò è chiaro che la necessità vigente tra gli enti di natura, ossia la necessità ipotetica, è la necessità delle condizioni rispetto a un fine dato (una necessità, dunque, che risiede nella materia e nei suoi movimenti), ma non anche la necessità del fine medesimo. Il fisico deve perciò assumere nelle sue esplicazioni sia la causa finale sia quella materiale, ma soprattutto la prima, giacché essa è causa della materia, mentre la materia non causa il fine. E il fine è la nozione della cosa che si deve realizzare (per esempio, la nozione di casa); rispetto a essa sono da porsi come necessarie certe condizioni materiali (per esempio, i mattoni e le pietre). Infine lo Stagirita fa presente che anche nella nozione è insidente la necessità, giacché alcune sue parti sono come la materia di essa, e — come s’è visto — nella materia risiede la necessità.

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LIBRO TERZO CAPITOLO PRIMO:‹I› lo studio della natura comporta lo studio del movimento (giacché la natura è principio del movimento), e uno studio sul movimento richiede che s’indaghino anche l’infinito (giacché il movimento è continuo e nell’idea di continuo è sembrato entrare quella di infinito), il luogo, il tempo e il vuoto (perché senza i primi due il movimento non è possibile, senza il terzo è sembrato impossibile). ‹II› In tutte le categorie vi sono enti solo in atto ed enti in potenza e in atto; i relativi si predicano secondo l’eccesso e il difetto, la capacità di agire e di patire e, in generale, di muovere e di poter essere mossi. ‹III› Non esiste movimento fuori delle cose. ‹IV› Del mutamento e del movimento vi sono tante forme quanti sono i significati dell’essere. ‹V› In tutte, il movimento è l’atto di ciò che è in potenza. ‹VI› Poiché ogni cosa può essere sia in potenza che in atto, ma non nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto, pure ciò che muove può a sua volta essere mosso (ma si tratterà di precisare in che termini, anche in relazione all’opinione secondo cui ogni motore è mosso). ‹VII› Il movimento è pertanto l’atto di ciò che è in potenza in quanto mobile, ossia in quanto è in potenza (il bronzo è statua in potenza, ma il movimento non consiste nell’atto del bronzo in quanto bronzo, bensì nell’atto di ciò che, come la statua, è soggetta a movimento). CAPITOLO SECONDO:Aristotele verifica l’esattezza della definizione di movimento mediante l’esame delle opinioni. Egli accerta pertanto che ‹1› il movimento non è né alterità né disuguaglianza né non-essere, in quanto nessuna di queste determinazioni è necessariamente in movimento; ‹2› lo si è pensato così perché è sembrato che fosse qualcosa di indefinito, dal momento che non è classificabile né come una potenza degli enti né come un atto, donde la difficoltà di precisarne la nozione; ma la definizione che s’è data (è un certo atto, e precisamente l’atto di ciò che è in potenza in quanto mobile) toglie la difficoltà; ‹3› anche il motore, agendo sul mobile per contatto, subisce un’affezione e perciò è al contempo mosso; ma porta sempre una qualche forma. CAPITOLO TERZO:‹I› il movimento è nel mobile, ma l’atto del mobile e l’atto del motore sono un unico atto (come l’uno rispetto al due e il due rispetto all’uno rappresentano un unico intervallo). ‹II› Vi è però una difficoltà: (1) qualche atto del mobile e del motore è necessariamente diverso (giacché uno subisce e l’altro compie l’azione), per cui (a) o entrambi gli atti sono nel mobile e nel motore, oppure (b) l’azione compiuta è nel motore e l’azione 360

subita è nel mobile. (b) In questo secondo caso, poiché anche il subire l’azione deve intendersi come un atto compiuto (che è perciò un omonimo), l’identica definizione comporta che il movimento sia nel motore, con l’assurda conseguenza che ogni motore è mosso o che, pur avendo movimento, non è mosso. (a) Nel primo caso si ha il duplice assurdo che (α) l’atto di una cosa non risiede in essa e che (β) una cosa è mossa secondo due movimenti. (2) Se invece l’atto del motore e del mobile è unico, non si vede come due cose specificamente diverse possano avere un medesimo atto. ‹III› Aristotele risolve la difficoltà mostrando che ‹1› né è assurdo che l’atto di una cosa sia in un’altra (come l’atto dell’insegnare è in chi impara), ‹2› né che due cose abbiano il medesimo atto (ciò non significa che hanno il medesimo essere, ma che una, in potenza, si rapporta a un’altra, in atto), ‹3› né chi insegna impara (giacché l’unità dell’atto non è unità delle definizioni, ma è come l’unità della strada che da Tebe porta ad Atene con quella che da Atene porta a Tebe). In senso complessivo, a essere uguali non sono il compiere l’azione e il subirla, ma il movimento in cui si verificano il compiere e il subire l’azione. ‹IV› L’accertamento della bontà della definizione di movimento permette di dire che l’alterazione è l’atto di ciò che è alterabile in quanto alterabile, e così per le altre tre specie di movimento. CAPITOLO QUARTO:‹I› all’indagine sulla natura compete di studiare che cosa sia l’infinito. Infatti ‹1› tale indagine ha per oggetto grandezze, movimento e tempo, ciascuno dei quali è o infinito o limitato; ‹2› tutti coloro che hanno trattato di fisica hanno parlato dell’infinito come di un principio: (a) Platone e i Pitagorici ne hanno fatto una realtà per sé: i primi lo hanno identificato con il pari (i numeri pari aumentano all’infinito, mentre il dispari pone un limite), ossia con un principio dei numeri, di modo che, non essendo per costoro i numeri enti separati, ma cose, lo stesso infinito è una cosa sensibile, esistente fuori del cielo; invece Platone lo ha identificato con il Grande e il Piccolo, ossia con uno dei princìpi delle Idee, e poiché queste sono locate entro il cielo, anche il numero è nel cielo. (b) Per i filosofi naturalisti l’infinito è diverso dagli elementi e, se hanno posto un numero illimitato di questi ultimi, hanno concepito l’infinito come continuo per contatto. Per Anassagora ogni parte è una mescolanza; all’origine tutte le cose erano mescolate assieme e la loro generazione, in tempi diversi, è dovuta all’azione della Mente. Per Democrito, invece, princìpi sono i corpi, ossia gli atomi, diversi per grandezza e per figura. (c) I Fisiologi hanno inoltre concepito l’infinito come principio, dunque come ingenerato e incorruttibile, pertanto come divino. ‹II› Vi sono cinque ragioni che fanno 361

credere l’esistenza dell’infinito: (1) il tempo, (2) la divisione delle grandezze, (3) l’idea che la generazione delle cose sia il loro staccarsi dall’infinito, (4) l’estendersi del limite all’infinito, posto che esso è sempre in riferimento a qualcosa, (5) il fatto che i numeri, le grandezze matematiche e lo spazio al di là del cielo sono ritenuti infiniti, e con l’infinità dello spazio, unitamente a quella del vuoto, anche i mondi sono stati ritenuti infiniti. ‹III› Sia che si affermi l’esistenza dell’infinito, sia che la si neghi, si presentano molte difficoltà, a partire da quella di sapere se è una sostanza o un attributo che conviene per sé a qualcosa. ‹IV› Posto comunque che spetta a chi studia la fisica indagare l’infinito, la prima operazione è di accertare in quanti sensi si dice. L’infinito significa ‹1› ciò che non si può percorrere, ‹2› ciò che, pur potendosi percorrere, non ha però fine, ‹3› ciò che si può percorrere a stento, ‹4› ciò che, pur potendo essere percorso e aver fine, non lo è e non ne ha, ‹5› l’infinito o per composizione o per separazione o per entrambe. CAPITOLO QUINTO:‹I› l’infinito non può essere separato e in se stesso, ossia una sostanza e un principio: ‹1› se è sostanza è indivisibile (giacché divisibili sono soltanto il numero e la grandezza), ma se è indivisibile non è neppure infinito, se non per accidente e non per sé, e non è questo l’infinito di cui hanno parlato i Fisiologi, ponendolo come elemento degli enti, né quello intorno a cui verte la presente ricerca; ‹2› in se stesso infinito può essere soltanto un numero o una grandezza, non una sostanza; ‹3› il suo essere in atto è incompatibile con il suo essere sostanza e principio, perché non può essere né divisibile: giacché, se lo fosse, ogni sua parte sarebbe anch’essa infinita, ma è assurdo che una medesima cosa risulti da molti infiniti; né indivisibile, perché indivisibile in atto è la quantità, e come quantità è un accidente, e come accidente non può essere principio. ‹II› La ricerca si amplierebbe se l’infinito esistesse negli enti matematici e in quelli intelligibili, ma la presente ricerca intende esaminare soltanto se ha luogo tra gli enti sensibili. ‹III› Da un esame basato unicamente sui concetti (esame logico) risulta che non possono esistere né un corpo infinito (giacché il corpo per definizione è ciò che è limitato dalla superficie), né un numero infinito (giacché per definizione il numero è misurabile, mentre l’infinito non è misurabile). ‹IV› Da un esame basato sulle cose (esame fisico) risulta che l’infinito non esiste perché non può essere né composto (un corpo, in quanto composto di elementi, che sono in numero finito e tali che un contrario debba essere eguagliato dall’altro contrario, non può esistere. Se un contrario avesse potenza infinita supererebbe l’altro e il corpo ne risulterebbe distrutto. Inoltre, poiché il corpo è ciò che ha estensione da ogni parte, corpi infiniti, aventi cioè estensione da ogni parte, non sono 362

possibili), né semplice (non esiste un corpo infinito, né al di là dei quattro elementi, come pretende Anassimandro, né coincidente con uno dei quattro elementi). ‹V› L’impossibilità che esista un corpo sensibile infinito risulta dai seguenti rilievi: (1) un tale corpo, se esistesse e fosse omogeneo, sarebbe o immobile o sempre in movimento (infatti, poiché il corpo è omogeneo, nessuna parte del luogo che esso occupa come tutto è più adatta di un’altra a qualche parte del corpo stesso; per cui nessuna parte del corpo si muove, e dunque neppure l’intero corpo. Se invece il corpo come tutto è in movimento, poiché nessuna parte del luogo che esso occupa è più adatta di un’altra a che una parte del corpo si arresti, nessuna parte del corpo cesserà di essere in movimento, e dunque neppure l’intero corpo); ma nessuna delle due alternative è possibile, giacché, essendo infinito, il corpo non avrebbe un luogo (il basso, l’alto, o qualunque altro) dove sposarsi o stare in quiete. (2) Se invece il corpo fosse disomogeneo, oltre al fatto di dover essere un tutto soltanto per contatto, darebbe luogo alla seguente aporia: le cose saranno (a) o limitate (b) o infinite. (a) Se sono limitate, dovendo alcune essere infinite (perché il corpo è infinito), si avrebbe la distruzione dei contrari; (b) se sono infinite e semplici, sono infiniti anche i luoghi e gli elementi. Il che è impossibile. ‹3› l’esistenza di un corpo sensibile infinito è incompatibile col fatto che i corpi hanno un luogo e si portano, se pesanti, verso il mezzo, se leggeri, verso l’alto: anche il corpo infinito, in quanto corpo, dev’essere in un luogo, ma è impossibile o che sia tutto in ogni luogo, o che una sua parte si diriga in un luogo, un’altra in un altro. (4) Nell’infinito non possono darsi l’alto, il basso, la destra, la sinistra, il davanti, il dietro, che sono determinazioni assolute e non soltanto rispetto a noi. (5) Poiché ogni corpo è in un luogo, un corpo infinito dovrebbe essere in un luogo infinito; ma un luogo infinito non è possibile, giacché il luogo implica il «dove», e il «dove» è limitato («dove» sono, infatti, l’alto, il basso, la destra, la sinistra, il davanti e il dietro). ‹VI› Tra il secondo e il terzo rilievo Aristotele muove una critica ad Anassagora: non basta dire, come fa il pensatore, che l’infinito è immobile perché sostenta se se stesso, ma occorre indicare la causa della sua immobilità. Ché, anche la terra sta immobile al centro, ma non perché non abbia un luogo dove spostarsi, ma perché per natura sta fissa in quel luogo. CAPITOLO SESTO:‹I› se l’infinito in atto non è ammissibile, la negazione totale di esso comporta molte assurdità, a partire dalla finitezza del tempo e del numero e dall’indivisibilità delle grandezze. Bisogna conciliare le due istanze. ‹II› L’infinito esiste in potenza, ma non come qualcosa che passerà all’atto, bensì come qualcosa che, nella sua esistenza finita, è sempre diverso 363

(come, per esempio, si dice che esistono il giorno e la gara, il quali però sono sempre diversi). Nelle grandezze il processo all’infinito lascia sussistente il dato iniziale, nella sere delle generazioni no. ‹III› Poiché, nella stessa prospettiva in cui una grandezza viene divisa all’infinito secondo una stessa proporzione, a una grandezza se ne può aggiungere infinitamente un’altra, l’infinito per aggiunzione e per divisione sono, in un certo senso, i medesimi. ‹IV› Anche l’infinito per aggiunzione è possibile in potenza: esso non supera ogni grandezza finita (giacché si trova sempre una grandezza finita che può aggiungersi a quelle già aggiunte); invece nel processo di continua divisione ogni grandezza finita viene superata (giacché se ne trova sempre una oltre la divisione già effettuata). Ne consegue che un infinito in atto non esiste neppure per accidente (infatti dovrebbe superare ogni cosa), e con ciò si ribadisce l’insostenibilità dell’ipotesi naturalistica di un elemento infinito (l’aria, acqua, ecc.) esterno al mondo. Anche Platone con il Grande e il Piccolo ha posto due infiniti potenziali, uno per aggiunzione e uno per sottrazione, ma non se ne è servito. ‹V› L’infinito è esattamente il contrario di ciò che si dice: infatti, è ciò al di fuori del quale vi è sempre qualcosa, mentre ciò al di fuori di cui non vi è nulla, non mancando di nulla, è finito e perfetto: determinazioni, queste ultime, che o significano la stessa cosa, o sono vicine per natura. ‹VI› Per i motivi suddetti Parmenide, che ha pensato l’intero come «egualmente distante dal centro» (ossia come uno sfero, dunque come finito), ha detto meglio di Melisso, che l’ha posto come infinito. L’infinito è intero in potenza, non in atto; contiene, non è contenuto; intero e limitato non per sé, ma per altro; più vicino alla parte che all’intero. CAPITOLO SETTIMO:‹I› l’infinito per aggiunzione non oltrepassa ogni grandezza, quello per divisione sì. ‹II› (1) Nel numero, (a) la divisione (ossia, il processo nella direzione del più piccolo) incontra un limite, costituito dall’unità, che è indivisibile (e il numero è una pluralità di unità), (b) nell’aggiunzione (ossia nel processo nella direzione del più grande) ogni quantità è sempre superata; (2) quanto alle grandezze, invece, che sono continue, e il continuo è divisibile all’infinito, (a) nella divisione ogni grandezza è superata, (b) nell’aggiunzione si trova sempre una grandezza finita, ossia un limite. Ne consegue che, non potendo esistere una grandezza sensibile infinita, ogni grandezza non viene superata da un’altra all’infinito, ma il processo si arresta a una grandezza finita. ‹III› L’infinito non è identico nella grandezza, nel movimento e nel tempo (ossia non costituisce un genere). ‹IV› La negazione dell’infinitamente grande in atto non contrasta con le teorie dei matematici, i quali non hanno bisogno di 364

effettuare le loro dimostrazioni su grandezze di ampia estensione, e a fortiori su grandezze infinite, giacché, per esempio, il criterio con cui si può dividere un segmento comunque piccolo è lo stesso con cui se ne può dividere uno comunque grande. ‹V› L’infinito è causa in quanto materia e il suo essere è privazione (mentre il sostrato è il continuo sensibile). Da qui la ribadita impossibilità d’intenderlo come l’elemento primo che tutto contiene. CAPITOLO OTTAVO:le ragioni invocate per sostenere l’esistenza dell’infinito in atto sono, alcune non necessarie, altre passibili di altre risposte vere. ‹I› Per la continuità della generazione non serve ipotizzare una sostanza primordiale infinita, ma, se la corruzione di una cosa è generazione di un’altra, all’ipotesi basta una sostanza finita. ‹II› Altro è esser limitato e altro è essere in contatto: infatti, (a) questo secondo è tra due cose, mentre il primo non è tra due cose; (b) inoltre, ogni cosa esistente è limitata, mentre ogni cosa non può essere in contatto con ogni cosa. ‹III› Non perché si può pensare che un corpo aumenti all’infinito, quel corpo è realmente infinito: il pensiero non determina la realtà. ‹IV› Il tempo, il movimento e il pensiero sono infiniti, ma senza che la cosa che è nel tempo, in movimento e pensata permanga; una grandezza non è infinita per l’aumento o per la diminuzione che si possono pensare.

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LIBRO QUARTO CAPITOLO PRIMO:‹I› dopo aver rappresentato la necessità che una trattazione di fisica studi il luogo e le difficoltà relative, Aristotele fa presente che l’esistenza di esso è attestata (1) dallo spostamento reciproco dei corpi, che avviene per l’appunto in un luogo («dove» prima vi era l’acqua, ora vi è aria); (2) dal fatto che alto e basso, destra e sinistra, davanti e dietro sono «luoghi» assoluti (l’alto è dove si portano i corpi leggeri, il basso quelli pesanti, non semplici posizioni relative a noi), e sono — la destra e la sinistra — posizioni che si attribuiscono anche agli enti matematici, che pur non sono in nessun luogo; (3) dal fatto che chi ammette il vuoto, lo fa con l’intento di ammettere un luogo privo di corpi. (4) La sua esistenza e la sua importanza si possono ricavare anche da due versi di Esiodo. ‹II› Tuttavia l’esistenza del luogo — che pur s’impone — presenta alcune difficoltà: (1) il luogo è distinto dal corpo, ma tuttavia ha le stesse tre dimensioni (lunghezza, larghezza e profondità); (2) se vi è un luogo per ogni corpo e non vi è differenza tra il punto e il luogo del punto, parrebbe che il luogo coincida col punto e, di conseguenza, con i corpi; (3) il luogo (a) non è un elemento né (b) deriva da elementi, (c) non fa parte delle cose corporee (d) né di quelle incorporee; (4) non è causa di nulla per gli enti; (5) se tutto ciò che esiste è in un luogo (e il luogo esiste), vi sarà anche un luogo del luogo, e poi un luogo del luogo del luogo, e così all’infinito; (6) se ogni corpo è in un luogo e in ogni luogo vi è un corpo, l’aumentare del corpo comporta l’aumento del luogo. CAPITOLO SECONDO:‹I› il luogo, in un senso è quello comune (nel quale sono tutti i corpi), in un altro è quello proprio (nel quale un corpo è come nel suo luogo primo). ‹II› Il luogo proprio, da un lato, in quanto è ciò che contiene un corpo, sembra essere il suo limite, ossia la sua forma; da un altro, in quanto intervallo tra degli estremi, sembra essere materia e identificarsi con lo spazio (ossia con il ricettacolo indeterminato) di cui ha parlato Platone. ‹III› In verità, il luogo non consiste né nella forma, né nella materia. (1) Forma e materia non possono essere separate dalla cosa, mentre il luogo può esserlo. (2) Il luogo, in quanto esiste da qualche parte, esiste in se stesso e fuori di esso vi è qualcosa; invece materia e forma non esistono in se stesse (bensì nella cosa), né è fuori di esse che vi è qualcosa. (3) (Ad hominem, contro Platone) se il luogo, fatto coincidere da Platone con la materia o con la Diade di grande e piccolo, rende possibile la partecipazione, allora anche le Idee e i numeri dovrebbero essere in un luogo. (4) Ogni corpo si porta verso il luogo proprio, che è termine del 366

relativo movimento e ha un alto e un basso; ma forma e materia né sono termini di un movimento, né hanno un alto e un basso. (5) Come forma o materia, il luogo è nella cosa; ma poiché questa è in un luogo, vi sarà un luogo del luogo. (6) Il subentrare di un corpo diverso (per esempio, l’acqua) nel luogo in cui prima ve n’era un altro (per esempio, l’aria), comporterebbe che il luogo stesso vada distrutto; ma non si vede di che distruzione si tratti. CAPITOLO TERZO:‹I› si distinguono otto sensi in cui una cosa è in un’altra (come la parte è nel tutto; come il tutto è nelle parti; come la specie è nel genere; come il genere è nella specie, in quanto parte della sua definizione; come la forma è nella materia; come le cose sono nel principio motore; come sono nel fine; come in un vaso e, in generale, in un luogo) e si precisa che l’ultimo è il senso principale. ‹II› Si affronta il problema se una cosa possa essere in se stessa e si mostra che, in senso primario, non può esserlo, (1) né considerando la cosa per sé (può essere per sé in se stessa solo in quanto sia parte di un intero costituito dal contenente e dal contenuto, come l’anfora e il vino, giacché l’intero si dice anche secondo le parti, non esistendo che in esse; ma in quanto o solo contenente, o solo contenuto, non può essere in se stessa), (2) né per accidente (vi sarebbero contemporaneamente due cose nella medesima cosa). ‹III› Si risolve l’aporia di Zenone, mostrando che il luogo può «essere in qualcosa», ma in un senso diverso da «essere in un luogo», per cui cade il presunto rinvio all’infinito. ‹IV› Si prova infine che il luogo, in quanto vaso, è altro da materia e forma: giacché il vaso non è nessuna parte di ciò che contiene, invece materia e forma sono parti di ciò che è in un luogo. CAPITOLO QUARTO:si procede a determinare la natura del luogo. ‹I› Si precisa che (1) ciò che l’opinione comune gli attribuisce e che, criticamente vagliato, è risultato vero, viene senz’altro assunto, ossia (a) che il luogo è un contenente, (b) che non è una parte della cosa, (c) che il primo luogo, quello cioè in cui la cosa è immediatamente, non è né maggiore né minore di essa, (d) che ha realtà indipendente dalla cosa, (e) che ogni cosa si porta nel luogo proprio, consistente nell’alto e nel basso. (2) Quanto alle proprietà che, attribuitegli dalla comune opinione, fanno problema, bisogna (a) risolvere le relative difficoltà e (b) comprenderne la causa. ‹II› Premesso che (1) non si indagherebbe il luogo se una specie di movimento non fosse secondo esso e che (2) ciò che è mosso lo è o per sé o per accidente, si chiarisce che, (1) se il contenente è continuo col contenuto, questo è in quello come parte nel tutto, non come in un luogo e non si muove nel contenente, ma con esso; (2) 367

quando invece il contenente è diviso dal contenuto e contiguo a esso, il contenuto è nel contenente come in un luogo e si muove in esso. ‹III› Posto che il luogo è (1) o forma, (2) o materia, (3) o l’intervallo intermedio tra gli estremi, (4) o gli estremi, si mostra che il luogo (1) (a) sembra identico alla forma perché entrambi sono limiti, ma (b) non lo è in quanto la forma è limite della cosa, il luogo invece è limite di ciò che la contiene. (3) (a) Sembra consistere nell’intervallo perché questo sembra permanere quando il corpo si sposta e sembra esistere, come il luogo, indipendentemente dal corpo; (b) ma non è l’intervallo, che non esiste affatto, giacché altrimenti nello stesso luogo vi sarebbero infiniti luoghi. (2) (a) Sembra essere materia perché questa, considerata quando il corpo nella sua continuità è in quiete, sembra identica allo spazio che esso occupa; (b) ma non è la materia, perché questa non è separabile dalla cosa né la contiene, mentre il luogo ne è separato e la contiene. (4) Pertanto il luogo è un limite, ed esattamente il limite del contenente contiguo al contenuto. ‹IV› La ribadita impossibilità che il luogo consista anche nell’intervallo tra i limiti e che dunque si sposti con lo spostarsi della cosa, fa concludere che esso dev’essere immobile (lo si può paragonare a un vaso intrasportabile, mentre il vaso è come un luogo trasportabile). Da qui una seconda definizione di luogo: esso è il primo limite immobile del contenente. Ne consegue che il luogo di una nave che si muova in un fiume, è l’intero fiume. ‹V› In rapporto a questa definizione e al fatto che per natura è leggero ciò che si porta verso l’alto, pesante ciò che si porta verso il basso, si precisa che il limite che contiene in rapporto al centro del cielo è in basso, quello che contiene in rapporto alla sua estremità è in alto. CAPITOLO QUINTO:‹I› per essere in un luogo un corpo deve avere al suo esterno un altro corpo che lo contenga. Per cui il tutto, non essendo contenuto da nulla, non è in un luogo. In un senso, esso è immobile, ma in un altro senso, in quanto cioè si dica come insieme delle parti e queste si muovano in esso, o circolarmente o in alto e in basso, cioè non siano continue, ne è il luogo. ‹II› Le parti continue sono solo potenzialmente in un luogo, lo sono invece in atto quando siano separate e contigue. ‹III› Ogni corpo mobile è in un luogo per sé (anche il cielo, inteso come insieme delle sue parti, che sono contigue e si muovono, mentre come tutto non è in un luogo, non essendo contenuto da nulla); altre cose, invece, sono in un luogo per accidente, come l’anima e lo stesso cielo, dal momento che le sue parti sono in un luogo perché si contengono reciprocamente sul cerchio estremo del cielo. Il luogo delle cose, che sono tutte nel cielo, non è l’intero cielo, bensì quella sua porzione che è contigua alla cosa e dunque la limita. ‹IV› 368

Queste acquisizioni consentono di risolvere le difficoltà sollevate: (1) non vi è necessità di pensare che il luogo aumenti, (2) né che vi sia un luogo del punto, (3) né che due corpi siano nello stesso luogo, (4) né che il luogo consista in un intervallo del corpo, che non esiste; (5) il luogo è in un dove, non in un altro luogo; (6) non ogni esistente è in un luogo, ma soltanto il corpo in movimento; (7) ogni cosa si porta nel luogo proprio e in esso permane. CAPITOLO SESTO:posto che è compito dello studioso di fisica indagare anche il vuoto (se esiste e che cos’è), si esaminano le opinioni in proposito. ‹1› Anassagora, per confutare l’opinione comune secondo cui il vuoto è un intervallo che non contiene nessun corpo (opinione basata sulla supposizione che tutto ciò che esiste è corpo; per cui, ciò che non contiene nessun corpo è vuoto), fa valere che nell’intervallo è contenuta l’aria, la quale è qualcosa, dal momento che, compressa nelle otri, le fa scoppiare e può raccogliersi in clessidre. Ma poiché può supporsi che l’aria esca, non è col provare che essa è qualcosa che si confuta quell’opinione, ossia l’esistenza del vuoto, bensì mostrando che non esiste altro intervallo oltre quello dei corpi. ‹II› Gli Atomisti (Leucippo e Democrito) hanno sostenuto l’esistenza del vuoto, con tre argomenti: (a) senza di esso non vi sarebbe movimento secondo il luogo, stante che, se qualcosa si muove nel pieno, si verifica l’assurdo che una cosa può contenere infinite cose, anche una piccolissima molte cose grandi. Proprio in base alla necessità del vuoto per il movimento, Melisso ha affermato l’immobilità del tutto: se mutasse, dovrebbe sussistere il vuoto; ma poiché non esiste, il tutto non muta; (b) ciò che si condensa si ritira in intervalli, per l’appunto, vuoti, interni a sé; (c) l’aumento, che si ha con l’ingestione di un corpo in un altro (come nel caso della cenere che accoglie acqua), sarebbe impossibile senza l’ipotesi del vuoto. ‹III› Per i Pitagorici il vuoto è esterno ai corpi e li delimita, come nel caso dei numeri (penetrando nel cielo dall’infinito soffio). CAPITOLO SETTIMO:‹I› per risolvere la questione relativa all’esistenza o meno del vuoto è indispensabile conoscere che significa il termine «vuoto». Se ne indicano due accezioni: (1) un luogo nel quale non vi è nulla e (2) ciò in cui non vi è nessun corpo tangibile, ossia dotato di pesantezza o leggerezza (con la difficoltà di sapere se sia vuoto un intervallo dotato di colore o di suono). Conformemente alla prima accezione, alcuni (i Platonici) hanno identificato il vuoto con la materia del corpo, cosa che è inammissibile, dal momento che la materia non è separabile dal corpo, mentre il vuoto è da costoro concepito come separato ‹II› Poiché il vuoto si 369

connette al luogo e la stessa definizione di luogo comporta che questo non possa prescindere dal corpo contenuto, cioè che non sia un puro intervallo, il vuoto non esiste. ‹III› Nessuno dei motivi addotti a sostegno dell’esistenza del vuoto è plausibile: (1) il vuoto non è richiesto dal movimento, giacché (a) è possibile che il pieno si alteri (il che è sfuggito a Melisso); (b) lo stesso movimento locale può spiegarsi come subentrare di una cosa al posto di un’altra, senza alcun bisogno di ipotizzare un intervallo separabile oltre i corpi; (2) la condensazione è spiegabile come espulsione di ciò che è interno al corpo; (3) l’aumento come alterazione del corpo stesso. In particolare, il ragionamento condotto sull’acqua versata nella cenere si ingarbuglia su se stesso in quanto (a) o l’aumento non si produce in ogni parte del corpo, (b) o esso non si produce affatto in un corpo, (c) o due corpi possono essere contemporaneamente nello stesso luogo, (d) o l’intero corpo è vuoto, se aumenta in ogni parte, a causa del vuoto. CAPITOLO OTTAVO:‹I› innanzitutto si portano altre due prove della nonesistenza del vuoto: ‹1› esso non può essere causa del movimento di ciascun corpo semplice verso il suo luogo naturale; ‹2› entro di esso (al pari che entro un luogo pensato come avente esistenza separata), non esistendo l’alto e il basso, un corpo si sposterebbe in tutte le direzioni. ‹II› Indi si mostra che l’ipotesi del vuoto, lungi dallo spiegare il movimento, non lo rende affatto possibile. Infatti ‹1› nel vuoto non c’è alcuna differenza, per cui non c’è nulla verso cui una cosa può muoversi. ‹2› I proiettili continuano a muoversi dopo il lancio o per reazione o perché l’aria spostata imprime una spinta, non per il vuoto. ‹3› Non vi sarebbe ragione per cui un corpo in movimento si fermi in un punto piuttosto che in un altro. ‹4› Ogni parte del vuoto è cedevole, per cui il corpo in esso si porterebbe in ogni parte. ‹5› Si darebbe l’assurdo che in un ugual tempo un corpo percorrerebbe una medesima distanza attraverso un mezzo pieno e vuoto. ‹6› Altro assurdo: tutti i corpi si muoverebbero con la stessa velocità. ‹7› Mentre inserendo un cubo di legno nell’acqua o nell’aria si verifica lo spostamento di una quantità di acqua o di aria pari a quella del cubo, questo non si verificherebbe immettendo il cubo nel vuoto, ma, delimitando con tale immissione un intervallo uguale a quello che prima era nel vuoto, l’acqua o l’aria si disporrebbero nel cubo. ‹8› Il cubo occuperebbe una quantità di vuoto pari alla sua grandezza; per cui nello stesso luogo coesisterebbero cubo e (quantità di) vuoto. ‹9› La massa non differirebbe affatto dal luogo, per cui non si vede la necessità di porre questo oltre quella. ‹10› Bisognerebbe ammettere l’esistenza di un vuoto nei corpi mossi, ma in nessuna parte dell’universo c’è vuoto. 370

CAPITOLO NONO:‹I› Aristotele esamina l’opinione secondo cui il vuoto è presente nel rado e la rigetta: ‹1› se per rado s’intende ciò che ha molti vuoti separati, poiché il vuoto non esiste come separato, non esiste il rado; ‹2› se invece il vuoto non è separato, ma è diffuso nei corpi, allora (a) si spiega soltanto il movimento verso l’alto; (b) il vuoto ha un luogo e si muove nel vuoto; (c) non si spiega il movimento verso il basso; (d) la velocità del movimento verso l’alto è infinita. ‹II› Risolve le pretese difficoltà addotte dai sostenitori del vuoto, ossia che senza di esso (a) non si darebbero rarefazione e condensazione, (b) oppure il cielo ondeggerebbe, (c) e una certa quantità di aria si trasformerebbe in un’eguale quantità d’acqua e viceversa. Mostra che, invece, (a) rarefazione e condensazione, (c) aumento e diminuzione della massa di aria e acqua, nelle relative trasformazioni, senza ricorrere al vuoto, si spiegano in base al principio fisico che la materia, una e inseparabile, contenendo potenzialmente i contrari, diviene ora l’uno, ora l’altro; per cui ciò che è attualmente qualcosa, prima era quella cosa in potenza. Così (a) il medesimo oggetto può essere denso e rado perché è in potenza entrambi e, divenendo l’uno o l’altro, diviene ciò che era in potenza (al denso si riconduce poi il pesante, al rado il leggero). (c) Analogamente, una massa sensibile (come l’aria e l’acqua) assume una data quantità non perché la materia subisce un’aggiunta, ma perché l’aveva in potenza. [(b) il darsi della compressione esclude che ciò che è espulso, essendo coeso col resto, faccia ondeggiare il tutto]. ‹III› Se a tutti i costi si volesse parlare del vuoto come causa del movimento, esso sarebbe materia del pesante e del leggero: causa del movimento sono il denso e il rado, mentre il pesante e il leggero, in rapporto al duro e al molle, sono causa d’assenza d’affezione e d’affezione, dunque di alterazione e non di traslazione. CAPITOLO DECIMO:iniziando l’indagine sul tempo, Aristotele, ‹I› secondo il metodo diaporetico, espone innanzitutto le difficoltà che paiono ostare alla sua esistenza: (1) alcune parti del tempo (il passato e il futuro) non sono, e ciò le cui parti non sono non può essere una sostanza. (2) Le parti di una cosa divisibile, se esiste la cosa esistono anch’esse, mentre le parti del tempo, che pur è divisibile, non esistono. (3) L’istante (a) non è una parte del tempo (giacché, differentemente dalla parte, che misura l’intero, non misura il tempo); (b) né coesiste con l’istante successivo, ma si distrugge al sopraggiungere di questo, né si distrugge in se medesimo, né in un altro istante, né continua a permanere identico; (c) è piuttosto un limite. ‹II› Anche le precedenti dottrine sul tempo non fanno chiarezza circa la determinazione della sua natura: (1) per alcuni il tempo è il movimento 371

dell’intero, (2) per altri è la stessa sfera celeste. Ma (1) anche la parte del movimento circolare è tempo, senza coincidere con il movimento circolare; (2) (a) essendo molti i cieli, il movimento di ciascuno ha pari titolo a essere il tempo, per cui esisterebbero molti tempi assieme; (b) il fatto che le cose siano nel tempo e nella sfera celeste è un motivo troppo semplicistico per provare la coincidenza dei due. ‹III› Il tempo non coincide col movimento e col mutamento perché (1) questi sono o nella cosa che muta o in cui essa si trova a essere, mentre il tempo è dovunque; (2) il movimento e il mutamento possono essere più lenti o più veloci, il tempo no (infatti, lentezza e velocità sono determinate col tempo, essendo veloce ciò che si muove di molto in poco tempo, lento ciò che si muove di poco in molto tempo). CAPITOLO UNDICESIMO:‹I› il tempo, se non è movimento, non è però senza movimento, come risulta dal fatto che non ne percepiamo il trascorrere quando non avvertiamo di mutare. Tempo e movimento si percepiscono assieme. Pertanto il tempo, essendo congiunto col movimento, ma non coincidendo con esso, ne è un aspetto. Si tratta di determinare quale. ‹II› Grandezza, movimento e tempo si connettono tra loro, nel senso che alla continuità della grandezza segue quella del movimento e alla continuità del movimento segue quella del tempo. Nella grandezza sono inclusi, per la posizione, il prima e il poi. Di conseguenza, lo sono anche nel movimento e nel tempo. Prima e poi che, anzi, coincidono talvolta col movimento, pur essendo diversi da esso quanto all’essere e che, essendo percepiti nel movimento, rendono noto il tempo. Ma per poterlo percepire, è necessario cogliere i momenti intermedi come due (cogliendoli invece come un solo istante, non si percepisce il tempo). Pertanto, poiché il movimento è ritmato o misurato dal prima e dal poi, percependo i quali si percepisce il tempo, questo è il numero del movimento secondo il prima e il poi. ‹III› Il numero significa sia ciò che è numerato, sia ciò che è atto a numerare e con cui numeriamo. Il tempo è numero in questo secondo senso. ‹IV› Il tempo, come il movimento, è di volta in volta sempre diverso. Poiché l’istante, coincidendo col prima e col poi, che sono nella cosa in movimento, si connette costitutivamente con questa e questa stessa, in quanto quella determinata cosa (un punto, o una pietra, ecc.), è sempre la medesima, anche l’istante è sempre il medesimo; ma in quanto quella cosa, in rapporto all’esser qui o là nel corso del movimento, è diversa, anche l’istante è sempre diverso. ‹V› Se non esistesse il tempo non esisterebbe l’istante e se non esistesse l’istante non esisterebbe il tempo. ‹VI› Come il punto rende continua una lunghezza e parimenti la divide, così l’istante dà continuità al 372

tempo (che è continuo in quanto numero di una cosa continua: il movimento) e lo divide. Ma, mentre il punto che funge da principio e da fine può anche pensarsi come unico, se l’istante che finisce un tempo e ne inizia un altro fosse unico, si avrebbe stasi, non movimento, e dunque assenza di tempo. Questo è numero (del movimento) come gli estremi di una linea. ‹VII› In quanto estremo o limite, l’istante non è tempo (quindi neppure una parte del tempo, come il punto non è parte della linea, ma parti della linea sono linee, e parti del tempo sono tempi). CAPITOLO DODICESIMO:‹I› il tempo più piccolo in rapporto alla quantità è il due o l’uno, in rapporto alla durata non esiste, giacché il tempo è divisibile all’infinito. ‹II› Il tempo è lungo o breve, molto o poco, ma non lento o veloce (giacché questi attributi non appartengono a nessun numero). ‹III› Simultaneamente è lo stesso dappertutto, ma in quanto prima e poi è diverso. ‹IV› Non misuriamo soltanto il tempo col movimento, ma anche il movimento col tempo. ‹V› Poiché il tempo è misura del movimento, l’essere questo nel tempo significa che è misurato col tempo. ‹VI› Anche per le cose, l’essere nel tempo significa che il loro essere è misurato dal tempo (dove «essere nel tempo» non significa «esistere quando esiste il tempo», bensì «esistere nel tempo come esistere nel numero», giacché il tempo stesso è numero; e le cose sono nel numero, o perché sono parti o affezioni o elementi di esso, oppure perché contengono il numero come loro parte). ‹VII› Poiché essere nel tempo è come essere nel numero e significa essere contenuto nel tempo, si deve ammettere un tempo maggiore di tutto ciò che è contenuto in esso. ‹VIII› Il tempo produce affezioni ed è causa di consunzione. ‹IX› Per cui, le cose che esistono sempre non sono nel tempo. ‹X› Per accidente il tempo è misura anche della quiete (giacché anche la quiete è nel tempo, stante che non tutto ciò che è nel tempo è necessariamente in movimento, come non tutto ciò che è immobile è in quiete). ‹XI› Per cui, ciò che non è né in movimento né in quiete non è nel tempo, come non lo è neppure tutto il non essere (per esempio, ciò che non può essere diversamente da come è). ‹XII› Tutto ciò che è soggetto alla possibilità di generarsi e corrompersi è necessariamente nel tempo. CAPITOLO TREDICESIMO:‹I› l’istante congiunge e divide il tempo, ma in potenza. In quanto congiunge è sempre identico, in quanto divide è sempre diverso. ‹II› Si dice «ora» anche dell’istante vicino a quello presente. «Una volta» significa un tempo determinato in rapporto all’istante anteriore. ‹III› Poiché il movimento è infinito, anche il tempo è infinito. E come il movimento è unitario ma di volta in volta diverso, così anche il tempo è 373

uno, ma l’istante (in quanto fine del tempo passato e inizio di quello futuro) è diverso. Il rapporto tra l’identità e la diversità del tempo è analogo a quello tra la concavità e la convessità presenti in un punto del cerchio. ‹IV› «Or ora» indica la parte del tempo futuro, vicina al presente e la parte del tempo passato non lontana dall’istante. Quest’ultima circostanza è espressa anche da «da poco». «Da molto» indica invece la parte del passato lontana dal presente. «Immediatamente» denota l’emergere di qualcosa in un tempo impercettibile per la sua piccolezza (ogni mutamento è un emergere ed è causa di generazione e di corruzione, ma soprattutto di quest’ultima). CAPITOLO QUATTORDICESIMO:‹I› ogni mutamento e tutto ciò che si muove sono nel tempo. Si muove «più velocemente» ciò che, lungo lo stesso intervallo e con un movimento uniforme, raggiunge per primo il termine del mutamento. ‹II› Il prima e il poi sono nel tempo e nel tempo passato è «prima» ciò che è più lontano dall’istante, in quello futuro ciò che è più vicino. ‹III› Tempo e movimento sono assieme sia secondo la potenza che secondo l’atto. ‹IV› Essendo il tempo un numero, se non esistesse ciò che numera, ossia l’anima e l’intelletto, non vi sarebbe neppure il tempo. ‹V› Il tempo non è il numero di qualsiasi movimento: in senso assoluto, è il numero di un movimento continuo, ed è uguale e identico (se fosse diverso, vi sarebbero assieme due tempi uguali), come uguale e identico è il numero sette se vi sono sette cani e sette cavalli. ‹VI› Poiché (a) ogni cosa è misurata da qualcosa di omogeneo a essa (le monadi con una monade, i cavalli con un cavallo) e (b) la traslazione circolare uniforme fornisce la misura basilare (perché il suo numero è il più noto), il tempo (che è numero, ossia misura) è dato dal numero della traslazione circolare della prima sfera (ossia di quella delle stelle fisse). Col movimento di essa si misurano anche gli altri movimenti, e il tempo è misurato dal suo movimento. ‹VII› Il numero di cose diverse, ma di pari quantità non è diverso, bensì identico.

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LIBRO QUINTO CAPITOLO PRIMO:‹I› ciò che muta, muta (1) o per accidente, ‹2) o perché muta qualche sua parte, (3) o per sé. Parimenti, ogni motore (1) o muove per accidente, (2) o perché muove qualche sua parte, (3) o per sé. ‹II› Si distinguono cinque elementi del movimento: (1) il motore, (2) il mosso, (3) ciò in cui avviene il movimento, ossia il tempo, (4) il termine iniziale e (5) il termine finale. Si parla di «mutamento» in rapporto al termine finale del movimento più che al termine iniziale. ‹III› Le forme, le affezioni e il luogo a cui perviene il mutamento sono immobili (le affezioni, quali la bianchezza, non sono esse stesse movimenti — in tal caso il mutamento sarebbe verso un movimento —, ma movimento è semmai il diventar bianco. Inoltre, anche nei termini finali del mutamento si danno ciò che è per accidente, ciò che è secondo altro e ciò che è per sé). ‹IV› Il mutamento per accidente (che può darsi in ogni cosa) non è interessante. Il mutamento per sé (1) si ha nei contrari, negli intermedi (che valgono come contrari rispetto agli estremi) e nei contraddittori; (2) la sua esistenza si conosce per induzione; (3) può aver luogo (a) da un sostrato verso un sostrato, (b) da un sostrato verso un non sostrato, (c) da un non sostrato verso un sostrato (nel caso del passaggio da un non sostrato verso un non sostrato non si può parlare di mutamento, giacché il mutamento è tra opposti, mentre i termini qui in causa non sono opposti); (4) il mutamento per contraddizione (a) da un non sostrato verso un sostrato è generazione: assoluta (come la generazione di una sostanza dal non essere), o una certa generazione (come quella del bianco dal non bianco); (b) da un sostrato verso un non sostrato è corruzione: assoluta (come la corruzione di una sostanza nel non-essere) o una certa corruzione (se perviene alle negazione dell’opposto da cui procede, come la corruzione del nero nel non-nero). ‹V› La generazione e la corruzione non possono essere movimenti, giacché comportano non-essere (si genera ciò che non è e si corrompe ciò che cessa di essere) e il non-essere non è soggetto a movimento, come a essere in quiete, in nessuno dei sensi in cui il non-essere si dice: né secondo sintesi e diairesi, né secondo la potenza, né come nonsostanza individuale. Movimenti sono, invece, soltanto i mutamenti da un sostrato a un sostrato (mentre generazione e corruzione sono mutamenti da un non-sostrato a un sostrato e da un sostrato a un nonsostrato, ossia mutamenti secondo la contraddizione). Ora, sono sostrati o i contrari o gli intermedi. ‹VI› Stanti i sensi categoriali, i movimenti sono tre: secondo la qualità, la quantità e il luogo. CAPITOLO

SECONDO:‹I›

non vi è movimento ‹1› né secondo la sostanza, 375

perché la sostanza non ha contrario; ‹2› né secondo la relazione, perché, mutando uno dei due relativi, l’altro non è più tale, a meno che non si muova a sua volta, per cui il loro movimento è per accidente; ‹3› né di un agente e di un paziente, o di un motore e di un mosso, perché ciò comporterebbe o movimento di movimento, o generazione di generazione, o mutamento di mutamento. Ora, il movimento di un movimento non si dà (e così pure il mutamento di un mutamento e la generazione di una generazione), perché ‹A› dovrebbe prodursi (a) o come movimento di un sostrato costituito esso stesso da un movimento, ma ciò è impossibile, giacché il movimento non è uno dei sostrati; (b) o in modo puramente accidentale, in concomitanza col mutamento di un altro sostrato verso una forma diversa. ‹B› Comporterebbe un processo all’infinito, in seguito al quale (dovendosi supporre una generazione, un movimento e un mutamento anteriori a ogni generazione, movimento e mutamento), nulla potrebbe mai essersi generato, mosso e mutato. ‹C› Comporterebbe nello stesso tempo anche il movimento contrario (per cui una cosa, nell’atto stesso in cui si genera, si corromperebbe). ‹D› Non si vede quale sarebbe mai la materia che, come a ogni movimento e mutamento, dovrebbe sottostare anche al movimento di un movimento e al mutamento di un mutamento, né quale il termine finale. ‹E› Perché sia il sostrato che il termine finale del movimento dovrebbero coincidere con una delle tre specie di movimento (quello cioè secondo la qualità, la quantità e il luogo): la traslazione, ad esempio, dovrebbe alterarsi o spostarsi di luogo. Il movimento di un movimento potrebbe così prodursi soltanto per accidente e mai per sé o per il movimento di una parte; ma prima s’è visto che il movimento per accidente non si dà. ‹II› Poiché (come s’è visto) si devono scartare la sostanza, la relazione, il fare e il patire come categorie del movimento, resta che esso può prodursi soltanto (1) secondo la qualità, (2) la quantità e (3) il luogo. (1) Il movimento secondo la qualità (la specie di qualità che interessa è costituita dalle qualità affettive) è detto complessivamente alterazione; (2) quello secondo la quantità, come determinazione comune non ha nome, come determinazione specifica è aumento e diminuzione: il primo procede verso una grandezza compiuta, la seconda da una tale grandezza; (3) quello secondo il luogo è detto, come determinazione comune, traslazione. ‹III› Il mutamento verso il più e il meno nella medesima forma, o in senso assoluto o per un certo aspetto, è alterazione: quello verso il meno è mutamento della cosa verso la proprietà contraria, quello verso il più è mutamento verso se stessa. ‹IV› Immobile è (1) ciò che non può assolutamente muoversi; (2) ciò che in molto tempo si muove a stento; (3) ciò che incomincia lentamente a muoversi; (4) ciò che, 376

pur avendo per natura la capacità di muoversi, non si muove quando, dove e come dovrebbe. Soltanto in quest’ultima circostanza la cosa è in quiete. La quiete è infatti il contrario del movimento e la cosa in questo stato è privata di esso. CAPITOLO TERZO:(I› nella prima parte si definiscono le seguenti nozioni: (1) sono «insieme secondo il luogo» le cose che sono in un unico luogo primo; «separatamente», quelle che sono in un luogo primo diverso. (2) «Sono in contatto» le cose i cui estremi sono insieme. (3) L’«intermedio» (che ha luogo tra i contrari, non tra i contraddittori) è il termine cui per natura giunge la cosa che muta prima di pervenire all’estremo di un mutamento naturale e continuo. (4) «Si muove con continuità» ciò che non lascia nessun intervallo nella cosa o ne lascia pochissimo. (5) È «contrario secondo il luogo» ciò che dista massimamente lungo la retta. (6) È «consecutivo» ciò che tra sé e la cosa cui è consecutivo non ha intermedio nulla di omogeneo. (7) Sono «contigue» quelle cose consecutive che sono in contatto. (8) Sono «continue» quelle cose contigue che hanno un limite in comune. Le cose continue formano alcunché di unico e di intero. ‹II› Nella seconda parte si precisa che (1) (a) tutto ciò che è contiguo è consecutivo, mentre non tutto ciò che è consecutivo è anche contiguo e (b) tutto ciò che è continuo è contiguo, mentre non tutto ciò che è contiguo è anche continuo. Per cui la nozione prima è quella di consecutivo. (2) La congiunzione naturale è ultima secondo la generazione e non può aver luogo là dove non vi è contatto. (3) I punti e le monadi sono realtà diverse, giacché i primi sono contigui e ammettono intermedi, le seconde sono consecutive e non ammettono intermedi. CAPITOLO QUARTO:‹I› il movimento è (1) uno per il genere se è uno in rapporto alla medesima categoria; (2) uno per la specie se, oltre a essere genericamente uno, ha luogo in una cosa indivisibile per specie. Se alcune cose sono tanto generi che specie, il relativo movimento è uno per specie, ma non in senso assoluto. Quando una stessa cosa vada avanti e indietro da uno stesso luogo a uno stesso luogo, se la cosa in cui avviene il movimento è diversa per specie, il movimento non è uno (ché, se lo fosse, la traslazione circolare sarebbe identica a quella rettilinea). (3) Il movimento è uno in senso assoluto se è uno per la sostanza o per il numero. E poiché il movimento è relativo (a) al ciò che, (b) al ciò in cui e (c) al quando, l’unità del movimento secondo il genere o la specie dipende dal ciò in cui, la sua contiguità dal quando, la sua unità in sensoassoluto da tutti e tre gli elementi: (b) il ciò in cui deve essere uno e indivisibile, (c) parimenti il 377

quando (il tempo, cioè, deve essere uno e senza intervalli), (a) il ciò che deve essere uno (a) non in modo accidentale e (β) non per specie (ma come cosa individua). Contro quest’ultima condizione si potrebbe obiettare che (1) alterazioni specificamente identiche, ma prodottesi in tempi diversi costituiscono un’unica alterazione (come una cosa che, corrottasi, si ripristina, è numericamente una); (2) parimenti, affezioni e stati somatici identici per specie, ma prodottisi in tempi diversi costituiscono un unico stato e un’unica affezione (per esempio, la salute che, perduta, si riacquisti, costituisce un unico stato). Aristotele respinge l’obiezione osservando che, (1) se gli atti sono due, anche gli stati debbono essere due; (2) se invece lo stato è uno, potrebbe sembrare che anche l’atto sia uno, ma erroneamente, e quest’abbaglio sta alla radice dell’errore su cui si basa l’obiezione. ‹II› Sulla base dell’osservazione che, (1) se il movimento è unitario in senso assoluto è continuo, e se è continuo è necessariamente uno e che (2) possono essere contigui anche dei movimenti non identici per la specie o per il genere (una fiaccola che passi di mano in mano dà luogo a un movimento contiguo), si precisa che (1) il movimento continuo e unitario in senso assoluto comporta necessariamente identità di specie, unità del mobile e unità del tempo; (2) il movimento non unitario per specie, anche se si attua senza intervalli di tempo non è uno, ma specificamente diverso. ‹III› Inoltre, è unitario (1) in senso assoluto il movimento perfetto, o secondo il genere, o secondo la specie, o secondo la sostanza; (2) il movimento uniforme (mentre quello non uniforme — che è tale per una differenza o nel dove, o nel quando, o nel verso cui, o nel come del movimento — è sì unitario, per il fatto di essere continuo, ma minormente). Vale infatti la seguente relazione: il movimento unitario può essere o no uniforme, mentre il movimento contiguo, ma non identico per specie non è né unitario né continuo. CAPITOLO QUINTO:studia quali movimenti sono contrari. ‹I› Si prospettano cinque possibilità: (1) o il movimento che procede da una cosa a quello che procede verso quella stessa cosa, (2) o i movimenti che procedono dai contrari, (3) o quelli che procedono verso i contrari, (4) o il movimento che procede da un contrario a quello che procede verso l’altro contrario, (5) o quello che da un contrario procede verso l’altro contrario a quello che da questo secondo procede verso il primo. ‹II› Indi si rileva che la contrarietà ‹1› non è espressa né dal caso (4), giacché il movimento che procede da un contrario e quello che procede verso l’altro contrario costituiscono un unico e medesimo movimento, ancorché non abbiano la stessa essenza, né dal caso (2), giacché i due movimenti in causa possono procedere insieme da un 378

contrario verso l’altro contrario o verso l’intermedio. (2› È maggiormente espressa dal procedere verso un contrario che dal procedere da un contrario, giacché (a) il secondo caso corrisponde alla perdita della contrarietà, mentre il primo alla relativa acquisizione; (b) ogni movimento si qualifica in rapporto al termine cui perviene. ‹III› Ne consegue che la contrarietà dei movimenti si restringe ai casi (3) e (5). Premesso che il movimento dai contrari può coincidere col movimento verso i contrari (per esempio, quello che procede dalla salute con quello che procede verso la malattia), ma la loro essenza è diversa, poiché il movimento è mutamento da un sostrato verso un sostrato, sono contrari i movimenti indicati al caso (5). ‹IV› Questa conclusione è confermata per via induttiva: infatti, si riconosce comunemente che, per esempio, l’ammalarsi è contrario al guarire, l’apprendere all’ingannarsi non per propria causa, la traslazione verso l’alto è contraria a quella verso il basso, quella verso destra a quella verso sinistra, quella in avanti a quella in dietro. ‹V› Il solo procedere verso un contrario, senza specificare da che cosa vi si procede, non costituisce movimento, bensì mutamento. A ciò si riconduce il caso (1): là dove la cosa non abbia contrario, il movimento verso di essa è contrario a quello che procede da essa, ma in realtà si tratta di mutamento. ‹VI› Quando tra i contrari sussistono intermedi, il movimento verso l’intermedio si comporta come quello verso il contrario e valgono le stesse considerazioni circa la contrarietà dei movimenti. CAPITOLO SESTO:‹Ι› (1) in senso assoluto, a un movimento è contrario un movimento, ma in un altro senso gli è contraria anche la quiete, giacché essa è privazione, e la privazione è una certa contrarietà. Esattamente, al movimento da un certo luogo è contraria la quiete in quel luogo. (2) Inoltre, una quiete è contraria alla quiete nel contrario (per esempio, la quiete nella salute a quella nella malattia). ‹II› Ciò che non ha contrario, come non ha movimento opposto, così non ha neppure quiete (che conviene, invece, a ciò che ha movimento), bensì immobilità. Questa o non è contraria a niente, o è contraria all’immobilità nel non-essere, o alla corruzione. ‹III› Poiché esistono generazioni e corruzioni violente e così aumenti e diminuzioni, alterazioni e movimenti locali, e ciò che è «a violenza» è contro natura, questi mutamenti e movimenti sono contrari ai rispettivi mutamenti e movimenti secondo natura. Ciò permette di dire, in particolare, che le corruzioni non sono contrarie alle generazioni, bensì ad altre corruzioni, anche se tale contrarietà non è in senso assoluto: quelle secondo natura a quelle violente, come attesta anche il fatto che le prime sono piacevoli, mentre le seconde dolorose, e piacere e dolore sono contrari. ‹IV› Pertanto, 379

riassumendo, sono contrari (1) il movimento e la quiete in alto al movimento e alla quiete in basso; (2) la traslazione secondo natura a quella contro natura; (3) la quiete in un luogo al movimento da quel luogo; (4) la quiete di una cosa secondo natura alla quiete della stessa cosa contro natura. ‹V› Non si dà generazione della quiete di una cosa che non è sempre in questo stato: infatti (a) una tale quiete corrisponde all’arresto di ciò che è trasportato contro natura, ossia a violenza (per esempio, della terra in alto), ma ciò che è trasportato a violenza procede lentamente e tende a fermarsi, cosicché l’arresto non è per generazione; (b) l’arrestarsi o consiste nel raggiungere il luogo proprio, o si ha accidentalmente assieme al movimento. ‹VI› Poiché ciò che si muove da un certo luogo è trattenuto da quel luogo, nel quale — ovviamente — è fermo, parrebbe che la quiete nel luogo e il movimento da esso siano compresenti; per cui, se — come s’è detto — essi sono contrari, si avrebbe che i contrari coesistono. Aristotele risolve l’aporia chiarendo che ciò che si muove permane nel luogo «per un certo aspetto» (una parte si muove e un’altra è ferma nel luogo), cosicché la compresenza dei contrari non si dà. ‹VII› [Alla quiete sono contrari anche i movimenti contro natura, ma non nello stesso modo dei movimenti secondo natura].

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LIBRO SESTO CAPITOLO PRIMO: si argomenta che il continuo non è costituito di indivisibili. 〈A〉 Innanzitutto, in rapporto alla linea: essa non può essere costituita da quegli indivisibili che sono i punti: ‹I› né da punti continui, ‹II› né da punti contigui, ‹III› né da punti consecutivi. Infatti, ‹I› i punti, non avendo parti (perché indivisibili), non hanno estremità, dunque neppure (1) estremità che siano in comune (condizione di continuità), né (2) che siano assieme (condizione di contiguità). ‹II› I punti potrebbero essere contigui soltanto come tutto col tutto (giacché, non avendo parti, non possono esserlo come parte col tutto o come parte con la parte); ma ciò che è interamente in contatto non può essere continuo, giacché, avendo i continui in comune gli estremi, ossia alcune parti, ne hanno di conseguenza altre spazialmente separate. ‹III› Infine, i punti, come gli istanti (ossia degli indivisibili), non possono essere neppure consecutivi, giacché (1) ciò che è consecutivo non ha intermedi omogenei, mentre i punti hanno come intermedi le linee e dunque, essendo queste delimitate da puniti, dei punti — parimenti gli istanti hanno come intermedi dei tempi e quindi, essendo questi delimitati dagli istanti, degli istanti; (2) le cose continue, se ciascuna si dividesse in quelle dalle quali è costituita, si dividerebbero in indivisibili; ma questo è impossibile; (3) tra punti e istanti non possono esserci intermedi di genere diverso, giacché, se ve ne fossero, sarebbero o indivisibili o divisibili e, in questo secondo caso, divisibili a loro volta in parti o indivisibili o sempre divisibili, cosicché gli intermedi sarebbero continui; ma il continuo — come prima s’è provato — non può dividersi in parti indivisibili. ‹B› Neppure le grandezze e il movimento, che sono continui, sono costituiti di indivisibili. Infatti, in caso contrario, (1) se una cosa si muovesse lungo un intervallo costituito di parti indivisibili, con un movimento composto anch’esso di movimenti indivisibili, in rapporto a ciascuna di dette parti, poiché in ognuna di queste il movimento della cosa è compiuto, la cosa nello stesso tempo percorrerebbe e avrebbe terminato di percorrere l’intero intervallo; (2) se invece la cosa in una parte indivisibile dell’intervallo non si muove, ma ha terminato il movimento, allora il movimento complessivo, lungo l’intero intervallo, non risulterebbe composto di movimenti, ma del compimento di movimenti e la cosa avrebbe terminato di muoversi senza esser stata sul punto di muoversi; (3) se, infine, in ogni parte indivisibile del tragitto la cosa (non potendo essere in movimento, né aver compiuto il movimento) è in riposo, lungo l’intero tragitto essa sarebbe al tempo stesso in riposo e in movimento. ‹C› Quanto al tempo, il suo esser indivisibile e composto di indivisibili si reggono o cadono in rapporto al reggersi o al 381

cadere di queste proprietà nella linea e nel movimento. Infatti, il tempo sarà indivisibile, o composto di parti indivisibili, soltanto se ciò è vero per la linea e per il movimento. Ora, se ogni movimento è divisibile, e in un tempo inferiore una cosa che si muove con velocità uniforme percorre una distanza più breve, il tempo sarà divisibile; parallelamente, se il tempo in cui una cosa percorre una certa distanza è divisibile, anche detta distanza dovrà essere divisibile. CAPITOLO SECONDO: 〈A〉 si dimostra ‹I› che ciò che è più veloce si muove (1) nel tempo uguale per un tragitto maggiore, (2) nel tempo minore per un tragitto uguale, (3) nel tempo ancora minore per un tragitto minore; ‹II› che (1) il tempo è continuo (intendendo per continuo ciò che è divisibile in parti sempre divisibili); (2) ogni grandezza è continua; (3) (a) se uno dei due — il tempo o la grandezza — è infinito, lo è anche l’altro e (b) nel modo in cui lo è l’uno, lo è anche l’altro (se il tempo è infinito agli estremi, o per divisione, o per entrambi, anche la grandezza è infinita agli estremi, per divisione, o per entrambi). ‹B› Indi (1) si critica il paradosso zenoniano (della dicotomia) per l’aspetto per cui afferma l’impossibilità di percorrere cose infinite, o di toccare cose infinite in un tempo infinito (grandezza e tempo sono infiniti in due sensi: o per divisione o agli estremi, ossia per quantità, e se in un tempo finito è impossibile toccare cose infinite per quantità, è invece possibile toccare cose infinite per divisione); (2) si precisa che un percorso infinito e cose infinite possono rispettivamente compiersi e toccarsi in un tempo infinito e con cose infinite. ‹C› Si ribadisce che ogni grandezza è divisibile e se ne porta un’ulteriore prova, facente forza sul fatto che, altrimenti, dovrebbe dividersi l’indivisibile. CAPITOLO TERZO: ‹I› innanzitutto si prova l’indivisibilità dell’istante. Essa è dedotta dalla sua identità, che viene dunque dimostrata in prima istanza. (1) Se l’istante non fosse identico (la medesima estremità di due tempi), vi sarebbero due istanti; essi non sarebbero consecutivi, ma avrebbero come intermedio il tempo; ma il tempo (com’è stato dimostrato) è divisibile; dunque, sarebbe divisibile anche l’istante; in tal caso (a) qualcosa del passato sarebbe nel futuro e qualcosa del futuro nel passato; (b) inoltre, l’istante non sarebbe assunto per sé, ma per altro, ossia per la divisione; (c) infine, una parte dell’istante sarebbe del passato, un’altra del futuro, e non sempre del medesimo passato e del medesimo futuro. (2) L’identità comporta l’indivisibilità, per cui l’istante, essendo identico, è indivisibile. Se non lo fosse, si avrebbero gli stessi assurdi di prima. ‹II› Nell’istante (1) nulla si muove: ché, in caso contrario, in esso qualcosa potrebbe muoversi più 382

velocemente e qualcos’altro più lentamente, per cui, in corrispondenza di queste divisioni anche l’istante sarebbe diviso, contro la sua già dimostrata indivisibilità. (2) Nulla è in quiete: giacché (a) è in quiete ciò che per natura può muoversi, ma nell’istante nulla lo può; (b) potendo una cosa sia muoversi che essere in quiete per la totalità dell’istante, avverrebbe che in esso la medesima cosa è al contempo in quiete e in movimento; (c) è in quiete ciò che sta nella medesima condizione ora e prima, ma nell’istante non vi è prima. CAPITOLO QUARTO: ‹I› ciò che muta, poiché è in parte nel termine iniziale del mutamento, in parte nel termine finale (intendendosi con questo il termine primo cui perviene il mutamento, per esempio il grigio, se si muta dal bianco), è necessariamente divisibile. ‹II› Il movimento è divisibile (1) per il tempo e (2) secondo i movimenti delle parti. (2) Infatti, (a) se un intero si muove, si muovono anche le sue parti; ciascuna di esse si muove secondo il rispettivo movimento e l’intero movimento è l’insieme dei movimenti delle parti; poiché nulla si muove secondo il movimento di un’altra cosa, l’intero si muoverà secondo l’insieme dei movimenti delle parti. (b) Ogni movimento è movimento di qualcosa, e l’intero movimento non è né quello di alcuna parte della cosa, né quello di qualcos’altro; per cui è il movimento dell’intera cosa. (c) Se vi è un altro movimento della cosa, da esso si può sottrarre il movimento di ciascuna delle parti della cosa stessa; se quest’altro movimento si divide nei movimenti delle parti di essa, coincide col movimento della cosa; se invece gli manca il movimento di una parte o eccede di un movimento, questo movimento in meno o in più è movimento di niente, non potendo essere movimento né dell’intera cosa, né delle parti, né di qualcos’altro. (1) Ogni movimento è nel tempo, questo è divisibile e in un tempo minore vi è un movimento minore. ‹III› Le divisioni del tempo, del movimento, del muoversi, di ciò che si muove e di ciò in cui ha luogo il movimento sono le stesse (tranne che, in quest’ultimo caso, le divisioni della quantità sono per sé, quelle della qualità per accidente). Infatti, (1) il movimento è minore a seconda della quantità del tempo (in un tempo minore, la cosa si muove secondo un movimento minore; nella metà di tale tempo minore, secondo un movimento a sua volta minore di quello predetto, e così via); (2) il tempo della metà del movimento è minore e quello di un movimento minore di questo secondo è a sua volta minore; (3) (a) il muoversi secondo la metà del movimento è minore del muoversi secondo l’intero movimento, il muoversi secondo la metà di detta metà è minore di detto movimento minore; (b) se la totalità del muoversi non corrispondesse alla totalità del movimento, in rapporto a 383

una parte dell’intero movimento sarebbe possibile muoversi di più; (4) analoghe dimostrazioni valgono per ciò che concerne le divisioni della grandezza e, in generale, di ciò in cui ha luogo il mutamento (tranne che talvolta questo è divisibile per accidente). ‹IV› Anche a proposito della finitezza o dell’infinitudine, vi è corrispondenza tra i componenti del movimento. Tuttavia la divisibilità e l’infinitudine dipendono soprattutto dalla cosa che muta. CAPITOLO QUINTO: ‹I› ciò che è mutato, nel momento primo in cui è mutato è necessariamente in ciò verso cui è mutato. Infatti, (1) ciò che muta si distacca da ciò da cui muta e l’abbandona (o perché mutare e abbandonare sono la stessa cosa, o perché alla prima consegue la seconda), per cui anche ciò che è mutato ha abbandonato ciò da cui è mutato; (2) nel mutamento secondo contraddizione, quando una cosa è mutata dal non-essere all’essere ha abbandonato il non-essere ed è nell’essere, e così procedono anche gli altri mutamenti; (3) ciò che è mutato è necessariamente da qualche parte, e non potendo essere né in ciò da cui è mutato, né in altra cosa, è necessariamente in ciò verso cui è mutato. ‹II› Di conseguenza, ciò che si è generato esiste e ciò che si è corrotto non esiste più. ‹III› Il termine primo in cui qualcosa è mutato è necessariamente indivisibile (intendendosi per «termine primo» ciò che è tale per se stesso, non perché lo è qualcos’altro cui inerisce): ché, se non lo fosse, (a) esisterebbe un altro termine al quale la cosa sarebbe pervenuta come al termine primo del suo mutamento, contrariamente all’assunzione che quel termine divisibile è il primo in cui la cosa è mutata è; (b) oppure, se mutasse in questo e in quel termine, muterebbe anche in quello divisibile, mentre si era assunto che vi era già mutata; (c) il medesimo ragionamento vale anche nel caso che una parte della cosa muti e un’altra sia mutata, giacché si darebbe un termine anteriore al primo. ‹IV› Il termine primo in cui si è attuato il mutamento può essere (1) o il termine nel quale il mutamento si è compiuto, (2) o il termine primo nel quale una cosa ha incominciato a mutare. (1) Si conferma l’esistenza del termine primo del mutamento nel primo senso (termine che è indivisibile). (2) Invece il termine primo nel secondo senso non esiste (perché non esiste un inizio del mutamento): (A) né come termine iniziale del tempo: giacché, (a) essendo esso divisibile, gli istanti sarebbero contigui; (b) quel termine, ossia quel momento, in quanto divisibile, avrebbe parti, per cui una cosa che in esso dovrebbe iniziare a mutare, dovrebbe esser già mutata in ciascuna sua parte, e all’infinito, perché le divisioni in parti sono infinite. (B) Né come termine iniziale, ossia come parte, dell’oggetto mutato: giacché si darebbe, all’infinito, una parte minore di esso che 384

sarebbe mutata nella metà del tempo. (3) Quanto alla cosa stessa che muta, o secondo la quale ha luogo il mutamento, (a) se essa è divisibile in sé e non per accidente, come nel caso delle grandezze e dei mutamenti quantitativi, non ammette un momento primo in cui si è attuato il mutamento; (b) se invece è indivisibile — il che si ha soltanto nel caso del mutamento qualitativo — lo ammette. CAPITOLO SESTO: ‹I› posto che il tempo del mutamento può essere o il tempo primo, o un tempo relativo a un altro tempo, ciò che muta, muta necessariamente in una qualunque parte del tempo primo. Questo risulta (1) dalla definizione di primo; (2) dal fatto che, diviso il tempo primo in cui una cosa si muove in due tempi, va escluso (a) che non si muova in nessuno di essi, giacché sarebbe in quiete nell’intero tempo, contro l’assunzione che è in movimento; (b) che si muova in uno soltanto, giacché nell’intero tempo non sarebbe in movimento come nel tempo primo, contro l’ipotesi di partenza; (c) per cui non resta che sia stata in movimento in qualunque parte dell’intero tempo. ‹II› Tutto ciò che si muove si è necessariamente mosso prima. Infatti, (1) se una cosa in un certo tempo percorre una certa distanza e un’altra, che si muova con la stessa velocità, in metà tempo percorre metà della distanza, anche la prima fa altrettanto, per cui prima di essersi mossa (per l’intera distanza) è in movimento; (2) se una cosa si è mossa in un certo tempo e questo è indefinitamente divisibile, in ciascuno dei tempi risultanti dalla divisione essa si sarà già mossa; (3) ciò che muta con continuità e senza corrompersi, necessariamente muta o si è mutato in ogni parte del tempo; ma poiché non può mutare nell’istante, è mutato in ogni tempo delimitato da istanti e, essendo gli istanti infiniti, è mutato all’infinito. ‹III› Parallelamente, ciò che si è mutato è necessario che precedentemente muti. Infatti (1) poiché l’istante in cui si compie il mutamento non può essere quello iniziale, ma dev’essere un altro, nel mezzo è intercorso un tempo, e poiché tutto il tempo è divisibile e nei tempi intermedi la cosa muta, essa muta prima d’essere mutata; (2) se un cosa è mutata da un termine a un altro, l’intermedio non può essere alcunché d’indivisibile (altrimenti qualcosa privo di parti sarebbe contiguo a qualcos’altro privo di parti), ma dev’essere una grandezza, dunque divisibile all’infinito, per cui nelle parti in cui è diviso la cosa muta, prima d’aver compiuto il mutamento. Argomentando sul tempo, identica dimostrazione vale anche per ciò che non è continuo: per esempio, per i contrari e per i contraddittori. ‹IV› Pertanto, (1) una cosa deve esser mutata prima di mutare e (2) mutare prima d’esser mutata, per cui non si dà un termine primo del mutamento. È la conseguenza del fatto che ciò che non ha parti 385

non può essere contiguo a ciò che non ha parti. Il principio enunciato vale in particolare nel caso della generazione (ciò che si è generato, prima si genera e ciò che si genera, prima si è generato) e della corruzione (ciò che si è corrotto, prima si corrompe e ciò che si corrompe, prima si è corrotto). CAPITOLO SETTIMO: si dimostra che necessariamente (1) il movimento lungo un intervallo finito non può attuarsi in un tempo infinito, tanto che la velocità del movimento sia uguale che disuguale (infatti, assunta una parte del tragitto che misuri l’intero intervallo, essa viene percorsa in un tempo finito; e poiché l’intero intervallo risulta dall’assunzione di quella parte per un numero finito di volte, anch’esso viene percorso in un tempo che, essendo la somma di tempi finiti, è finito); (2) né in un tempo finito possono aver luogo un movimento o una quiete infiniti, sia il movimento continuo o no (infatti, assunta una parte — finita — del tempo che misuri l’intero tempo del movimento, in essa si attua un movimento finito; e poiché l’intero tempo, essendo misurabile con quella parte, risulta dall’assunzione di essa per un numero finito di volte, anche in esso, come somma di tempi in ognuno dei quali si attua un movimento finito, si attua un movimento finito); (3) di conseguenza, né una grandezza finita può percorrere l’infinito in un tempo finito (per la stessa ragione), (4) né una grandezza infinita percorre il finito in un tempo finito (infatti, se l’infinito percorre il finito, allora il finito percorre l’infinito), (5) né una grandezza infinita percorre l’infinito in un tempo infinito (infatti, se percorre l’infinito, percorre anche il finito, essendo questo compreso nell’infinito). Quindi, poiché non differisce in nulla rendere infiniti la grandezza o il movimento, (6) in un tempo finito non può neppure darsi un movimento infinito. CAPITOLO OTTAVO: premesso che ciò che per natura è atto a muoversi, è o in movimento o in quiete, nel tempo, luogo e modo in cui è ne è atto per natura, ‹I› si dimostra che (1) ciò che si arresta, nel momento in cui s’arresta, è in movimento (infatti, se non lo fosse, sarebbe in quiete, ma allora non potrebbe passare dal movimento alla quiete); (2) necessariamente si arresta nel tempo (giacché si muove nel tempo, e ciò che si arresta era in movimento); (3) può arrestarsi più velocemente o lentamente; (4) non si dà un momento primo dell’arresto (infatti, dovrebbe arrestarsi in ogni parte del tempo primo in cui s’arresta, stante che, [a] se non si arrestasse in nessuna, non si arresterebbe affatto, contro l’ipotesi e, [b] se si arrestasse in una parte soltanto, il tempo in cui s’arresta non sarebbe quello primo, nuovamente contro l’ipotesi; ma se l’arresto è in ogni parte del tempo primo, poiché il tempo è divisibile all’infinito, non può esserci un termine 386

primo, come si è anche dimostrato a proposito di ciò che è in movimento); (5) né un momento primo dell’essere in quiete (infatti, non può essere in quiete ciò che è indivisibile: perché [a] quel che è indivisibile non può essere neppure in movimento e la quiete, come s’è detto, è stato di ciò che era in movimento; [b] inoltre, perché la quiete, consistendo nel versare, ora, in una condizione simile a prima, è definita da due termini e dunque non è indivisibile; ma se ciò che è in quiete è divisibile, è nel tempo, ed è in quiete in ogni parte di questo; e con ciò si ricade nel caso della dimostrazione della tesi 4). Causa delle tesi 4 e 5 è che il tempo, come il movimento e la grandezza, è continuo, e in ciò che è continuo non esiste un primo termine, essendo divisibile all’infinito ‹II› Nella seconda parte del capitolo si chiarisce che (1) ciò che muta non può versare tutto intero in un dato stato nel (presunto) tempo primo del suo mutare, giacché questo equivarrebbe a essere in quiete, consistendo la quiete proprio nel permanere nel medesimo stato. (2) Ciò che muta, invece, versa interamente in un certo stato nell’istante (che non è tempo, bensì limite del tempo), ma un tale esser stabile nell’istante è ben altro che essere in quiete, giacché nell’istante non si è né in movimento, né in quiete. CAPITOLO NONO: ‹I› nella prima parte vengono esposti e criticati quattro argomenti di Zenone intesi a negare la possibilità del movimento. Il loro assunto di fondo, di natura paralogistica, è che, se ogni cosa è o in quiete o in movimento, ed è in quiete se è in uno spazio uguale a se stessa, nell’istante ciò che si muove verifica questa condizione, per cui è in quiete. Assunto paralogistico, perché si basa sul falso presupposto che il tempo è costituito di istanti, ossia di indivisibili, mentre, al pari di ogni altra grandezza, è divisibile all’infinito (e l’istante — indivisibile — non è tempo, bensì limite del tempo). Primo argomento (o della dicotomia): ciò che si sposta, prima di arrivare alla fine del tragitto deve raggiungere la metà, poi di nuovo la metà e così all’infinito, cosicché non perviene mai alla fine. La soluzione di questo paralogismo è stata data nel cap. 2. Secondo argomento (o di Achille): concesso un iniziale vantaggio a un oggetto che si muove più lentamente, chi si muove più rapidamente, come il piè veloce Achille, non può mai raggiungerlo perché, mentre percorre il tragitto per agguantarlo, esso avanza di un altro tragitto, e così all’infinito. Si tratta dello stesso paralogismo della dicotomia (per cui anche la soluzione è la stessa), affermandosi in entrambi l’impossibilità di raggiungere il limite, e la sola differenza riguarda la divisione della grandezza. Terzo argomento (o della freccia): in ogni istante del suo percorso, una freccia è immobile. Il vizio risiede nel concepire il tempo come composto di istanti. Donde, anche la 387

soluzione. Quarto argomento (o dello stadio): se in uno stadio vi sono delle masse immobili, delle masse di uguale grandezza che si muovono con uguale velocità sulle prime, partendo dalla metà dello stadio, infine delle masse di pari grandezza delle precedenti e che, partendo da un’estremità dello stadio, si muovono con uguale velocità sulle seconde, nel medesimo tempo in cui le seconde raggiungono le terze, queste, poiché fruiscono anche del movimento delle seconde, compiono un percorso doppio e raggiungono l’altra estremità dello stadio; ma poiché le velocità sono le stesse, se il percorso è doppio, è doppio anche il tempo, sicché il tempo uguale è doppio. Il paralogismo consiste nel pensare che grandezze uguali, dotate di velocità uguale, si muovono in un tempo uguale su ciò che è fermo e su ciò che è in movimento. ‹II› Nella seconda parte si risolvono altri argomenti capziosi, volti a provare presunte assurdità del mutamento: (1) in uno si afferma che, nel momento del passaggio da un contraddittorio all’altro (per esempio, dal bianco al non-bianco), la cosa non è né l’uno né l’altro, e lo stesso nel passaggio dall’essere al nonessere, risultando così violata la legge del terzo escluso (necessariamente una cosa è o A o non-A). La soluzione si ottiene osservando che, per attribuire una qualificazione a una cosa (per esempio, il bianco, o l’esistenza), non è necessario che le appartenga nella sua interezza, ma è sufficiente che appartenga alla maggioranza delle sue parti o a quelle più importanti. (2) La sfera e, in generale, gli oggetti che ruotano su se stessi sono in quiete (donde la contraddizione), giacché essi stessi e le loro parti dopo un certo tempo sono nel medesimo luogo. Si risponde che (a) né le loro parti sono nello stesso tempo nel medesimo luogo, (b) né vi sono gli oggetti nella loro totalità, non essendo la stessa, se non per accidente, la circonferenza considerata da un suo punto o da un altro. CAPITOLO DECIMO: ‹I› nella prima sezione si dimostra, con tre argomenti, che una cosa priva di parti, cioè indivisibile secondo la quantità, non può muoversi se non per accidente, ossia quando si muove ciò in cui essa esiste. (1) Poiché ciò che muta passa da una condizione iniziale a una finale, durante il tempo del mutamento essa si troverà o in uno di questi momenti o in parte nell’uno e nell’altro. Ma ciò che non ha parti non può verificare questa condizione, né può essere nel momento finale, giacché avrebbe già compiuto il mutamento, né in quello iniziale, perché sarebbe in quiete; dunque non può mutare. Lo potrebbe se il tempo fosse costituito di istanti e divisibile in essi, ma proprio questo non è (come neppure la linea è costituita di punti e il movimento di movimenti compiuti). (2) Ciò che si muove, non può percorrere uno spazio maggiore di se stesso senza averne 388

percorso uno uguale o più piccolo. Ma quest’ultima condizione non conviene a ciò che è indivisibile, per esempio al punto, giacché sarebbe divisibile; dunque, dovrebbe aver percorso uno spazio uguale a sé. Ma in tal caso costituirebbe la relativa grandezza (il percorso dei punti costituirebbe la linea, la successione degli istanti il tempo, e così via), il che non è. (3) Poiché ciò che si muove, si muove nel tempo e il tempo è divisibile, ci sarebbe anche un tempo più piccolo in cui si muoverebbe il punto (e, in generale, ciò che è indivisibile); ma ciò è impossibile, perché in un tempo inferiore si muoverebbe per un distanza inferiore e dunque sarebbe divisibile. Ciò che è indivisibile potrebbe muoversi soltanto se lo potesse nell’istante, ma non è così. ‹II› Nella seconda sezione si mostra (1) che nessun mutamento è infinito, giacché il mutamento procede da qualcosa a qualcosa e questi sono limiti del mutamento stesso. Tali limiti, (a) nel mutamento secondo contraddizione sono l’affermazione e la negazione, (b) in quello secondo contrarietà e (c) nell’alterazione sono i contrari, (d) nell’aumento e nella diminuzione, lo stato conforme alla natura propria della cosa nella sua compiutezza e la perdita di questo stato. (e) Quanto alla traslazione, essa non è limitata dai contrari, ma tuttavia, poiché anche ciò che è soggetto a traslazione di fatto muta verso qualcosa, e quindi ha la possibilità di mutare, e il mutamento, come s’è detto, è entro certi limiti, anche la traslazione non è un movimento infinito. (2) Il mutamento può essere però infinito nel tempo: (a) ma a condizione che non si tratti di un mutamento unico; (b) se invece si tratta di un movimento unico, non può essere infinito nel tempo, (c) a meno che non si tratti di una traslazione circolare.

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LIBRO SETTIMO CAPITOLO PRIMO:‹I› tutto ciò che è mosso, necessariamente è mosso da qualcosa: infatti, è divisibile e, se non fosse mosso da altro, qualora non fosse mossa una sua parte, non sarebbe mosso neppure esso stesso. Se il principio del movimento risiede fuori della cosa mossa, l’istanza è evidente; se risiede in essa, la negazione della tesi deriva dalla mancata distinzione del motore dal mosso. ‹II› La conseguenza della tesi I è che deve esserci un motore primo e che nell’ordine dei motori non si può procedere all’infinito. Infatti, (a) se la serie dei motori fosse infinita, (1) ciascuno, supposto come contiguo al mosso, muoverebbe e simultaneamente sarebbe mosso; (2) il movimento del motore e quello della cosa mossa sarebbero simultanei, (3) ogni termine della serie, ossia i motori e le cose mosse, sarebbe mosso da un altro termine, pur essendo il movimento di ciascuno numericamente uno. (b) Il movimento è uno (1) numericamente, se avviene da una cosa identica per numero a una cosa identica per numero in un tempo identico per numero; (2) genericamente, se cade sotto la stessa categoria; (3) specificamente, se procede da una cosa identica per specie a una cosa identica per specie. (c) Poiché i motori e le cose mosse sono infiniti, il movimento totale sarebbe infinito. E poiché i singoli movimenti sono simultanei, esso avverrebbe nello stesso tempo di ciascuno. Ma ciascun singolo movimento avviene in un tempo finito, per cui in un tempo finito avrebbe luogo un movimento infinito. ‹III› Tuttavia questa dimostrazione non è soddisfacente, giacché an che un movimento infinito può aver luogo in un tempo finito, purché si tratti del movimento di molte cose e non di una sola. La dimostrazione corretta è la seguente: (a) dal momento che, come risulta dall’esperienza, il motore primo di un movimento locale o di un movimento corporeo è contiguo con ciò che viene mosso, allora, sul piano di questi movimenti (che sono i primi, giacché senza di essi gli altri movimenti non sono possibili), i motori e le cose mosse sono contigui o continui gli uni alle altre e costituiscono un’unità, non importa se finita o infinità; (b) il movimento di quest’unica cosa è infinito, stante che, come s’è visto, i singoli movimenti sono o uguali o gli uni maggiori degli altri; (c) tuttavia, come s’è detto, questo movimento infinito può aver luogo in un tempo finito; (d) pertanto, ne consegue che in un tempo finito, un movimento infinito percorre una cosa finita o infinita. Situazioni che sono già risultate entrambe impossibili. ‹IV› Poiché dall’ipotesi che la serie dei motori e delle cose mosse sia infinita è derivata l’impossibilità testé detta, quell’ipotesi è falsa ed è perciò vera la sua contraddittoria: che cioè la serie è finita. 390

CAPITOLO SECONDO: il primo motore, inteso come inizio del movimento, non come causa finale, è assieme alla cosa mossa: si tratta di una proprietà comune a ogni motore e a ogni cosa mossa. S’intende per «assieme» l’assenza di un intermedio. Poiché i movimenti sono tre — ‹I› secondo il luogo o traslazione, ‹II› secondo la qualità o alterazione e ‹III› secondo la quantità, ossia l’aumento e la diminuzione — e a essi corrispondono tre tipi di motori — ‹I› quello che produce traslazione, ‹II› quello che produce alterazione e ‹III› quello che produce aumento e diminuzione — tale proprietà viene verificata in tutti e tre i casi. ‹I› Quanto alla traslazione, la quale è il primo dei movimenti, (1) quella in cui la cosa si muove da sé, verifica immediatamente detta proprietà; (2) invece quella in cui la cosa è mossa da altro, ammette quattro specie: (a) la trazione, (b) la spinta, (c) il trasporto e (d) la rotazione, a cui si riportano tutti i movimenti secondo il luogo (l’impulso, la repulsione, il lancio, la distrazione, la contrazione, l’addensamento, l’allungamento, le riunioni, le separa zioni, l’inspirazione, l’espirazione, i movimenti mediante il corpo) e di cui la terza e la quarta si riconducono alle prime due; ebbene, si prova che in tutti questi movimenti il motore è assieme al mosso. A questa stessa conclusione si perviene ragionando anche sulle definizioni di spinta e di trazione: la prima è il movimento che parte dalla cosa stessa o da un’altra verso un’altra cosa, la seconda quello che parte da un’altra cosa verso la cosa stessa o verso un’altra, ed è impossibile che una cosa muova o da se stessa verso un’altra, o da un’altra verso se stessa senza essere in contatto con ciò che muove. ‹II› Quanto all’alterazione, l’assenza d’intermedio, ossia il contatto tra l’estremo di ciò che produce l’alterazione e la parte prima di ciò che si altera, risulta dall’induzione, effettuata a partire da cose sia inanimate che animate e dalle stesse sensazioni, dal momento che in un certo senso si alterano anche queste. Così, l’aria e il corpo sono continui, il colore è continuo alla luce e questa alla vista, e lo stesso vale anche per l’udito, l’odorato e il gusto. ‹III› Nel caso dell’aumento e della diminuzione, la proprietà in oggetto è provata dal fatto che ciò che li produce opera come parte che, rispettivamente, s’aggiunge alla cosa o vi si sottrae, e tra la parte aggiunta o sottratta e la cosa non vi è alcun intervallo. CAPITOLO TERZO: si dimostra che l’alterazione è prodotta dalle cose sensibili e si ha soltanto in esse. Lo si prova facendo vedere che essa non ha luogo in quelle specie di qualità che nella loro definizione prescindono dalla sensazione, ossia ‹I› nelle forme e nelle figure e ‹II› negli abiti. ‹I› Non consiste nelle prime perché (1) la cosa che si è costituita in una certa forma 391

e con una certa figura non viene indicata col nome della materia in cui sussistono quella forma e quella figura (per esempio, non si denomina la statua come bronzo o la piramide come cera), mentre viene indicata col nome delle affezioni e delle alterazioni (per esempio, si indica il bronzo con «umido», «caldo» e «duro»); (2) l’alterazione non consiste nel generarsi delle cose, ossia nel giungere a costituirsi secondo una data forma e figura, ma semmai la loro generazione si attua se si è alterato qualcosa. ‹II› Neppure consiste negli abiti: giacché tra gli abiti si annoverano anche le virtù e i vizi, i quali sono, rispettivamente, stati di raggiunta perfezione e perdite di essa, ed è assurdo che il perfezionamento di qualcosa sia un’alterazione. In particolare, (1) non consiste in abiti del corpo, giacché le virtù di questo sono enti relativi, ma né i relativi sono alterazioni, né di essi vi è alterazione, come neppure vi sono generazione e, in generale, mutamento. (2) Né consiste in abiti dell’anima, giacché anch’essi sono enti relativi: (a) non consiste in uno degli abiti della parte sensitiva dell’anima, perché questi, a seconda che siano virtù o vizi, la dispongono in modo buono o cattivo rispetto a specifiche passioni, e ciò che dispone in un dato modo non è un’alterazione, anche si genera quando la suddetta parte dell’anima abbia subito un’alterazione, ad opera di qualche cosa sensibile (com’è chiaro dal fatto che le virtù etiche hanno a che fare con piaceri e dolori fisici); (b) né in uno degli abiti della parte noetica (ossia della conoscenza intellettiva), giacché (a) anch’essi sono enti relativi; (β) non si generano né si originano in seguito a un mutamento del soggetto (com’è invece per l’alterazione); (γ) non costituiscono una generazione neppure l’uso e l’atto della scienza; (δ) né l’iniziale acquisizione di essa (giacché la ragione conosce e pensa restando in quiete e dell’essere in quiete non vi è generazione); (ε) come chi passa dall’ubriachezza alla sobrietà o dalla malattia alla salute non si è nuovamente generato, così è quando si acquisisce ex novo l’abito della conoscenza, la quale si ingenera col placarsi delle turbolenze dell’animo. Per questo i bambini, che sono in preda a forti turbamenti e movimenti dell’animo, non sono in grado di imparare e di giudicare le sensazioni come gli anziani. CAPITOLO QUARTO: ‹I› stante che ciò che si muove per una distanza uguale in un tempo uguale è equiveloce, se ogni movimento fosse confrontabile quanto alla velocità si avrebbe che (1) una linea circolare è confrontabile in lunghezza con una linea retta; (2) un’alterazione e una traslazione prodottesi in un tempo uguale sono uguali, e dunque un’affezione è uguale a una lunghezza. Pertanto, non ogni movimento è confrontabile. ‹II› Quanto alla circonferenza e alla retta, (1) il confronto non è possibile, dato che il 392

movimento su di essi non è equiveloce; (2) né avrebbe rilevanza far valere che deve essere tale: ché, se in un dato tempo un oggetto percorre una linea circolare e un altro una linea retta, ovviamente con velocità inferiore, in una parte di quel tempo il primo oggetto percorre una parte della linea circolare pari alla retta percorsa dal secondo nell’intero tempo; per cui, se le due linee sono confrontabili, si ha, nuovamente, che la retta è uguale alla curva. ‹III› (1) Sono confrontabili le cose che non sono omonime. (2) Viene respinta l’obiezione che «molto» e «doppio» si dicono con lo stesso senso dell’aria e dell’acqua, eppure esse non sono confrontabili: in realtà, anche «molto» è detto omonimamente dell’aria e dell’acqua, come «uguale», «uno» (quindi anche «due») e altre nozioni si dicono omonimamente di realtà differenti. (3) Si potrebbe credere che per potersi confrontare le cose devono essere in uno stesso ricettacolo primo, ma la tesi va rigettata perché (a) ne conseguirebbe che tutte le determinazioni costituiscono una sola determinazione, salvo trovarsi ciascuna in un ricettacolo diverso (l’uguale, presente in cose diverse, costituirebbe un’unica e medesima nozione, mentre si tratta di nozioni diverse, a seconda della diversa cosa cui appartengono, e così il dolce, il bianco, ecc.); (b) inoltre, il ricettacolo proprio di una determinazione non è qualunque cosa, ma uno solo, e coincide con ciò in cui essa direttamente risiede. (4) Invece, per essere confrontabili, non basta che le cose non siano omonime, ma né i loro attributi, né il loro ricettacolo devono avere differenze. (5) Applicato al movimento, ciò comporta che certamente due cose che nello stesso tempo si spostano per un uguale tragitto sono equiveloci, ma che, essendo molte le specie di movimento, ciascuna con peculiari differenze (relative non soltanto alle linee delle traiettorie, ma anche ad altri fattori, come i mezzi con i quali i moti si attuano), se nello stesso tempo e su due lunghezze uguali si verificano un’alterazione e una traslazione, non può dirsi che l’alterazione e la traslazione sono di uguale velocità. Si tratta pertanto di individuare la differenza di un movimento e, in particolare, stante che la pura unità generica di un suo attributo non sussiste, dandosi, anche nascostamente, molte differenze di esso, di trovare se la determinazione che distingue il movimento è specificamente diversa perché è in un ricettacolo diverso, oppure perché è totalmente diversa. ‹IV› Quanto alle alterazioni, posto in linea generale che esse sono di uguale velocità se in un tempo uguale si attua il medesimo mutamento (qualitativo), si precisa che (1) il confronto deve riguardare (a) le affezioni, se queste sono le stesse (ossia, se si tratta della medesima alterazione); (b) ciò cui le affezioni ineriscono, cioè i soggetti o i ricettacoli, se esse sono diverse (ossia se si tratta di alterazioni diverse). (2) Se le alterazioni sono di uguale velocità, bisogna guardare sia 393

alle affezioni che ai soggetti di queste e dire che le alterazioni sono (a) identiche o diverse a seconda che le affezioni siano identiche o non identiche, (b) uguali o disuguali a seconda che siano uguali o disuguali i soggetti delle affezioni. ‹V› Quanto infine alla generazione e alla corruzione, il mutamento è (1) di uguale velocità se in un tempo uguale si generano cose identiche e indivisibili; (2) più veloce (a) se in un tempo uguale si generano cose diverse, (b) oppure, nel caso che la sostanza si identifichi col numero, se in un tempo uguale si generano un numero maggiore e uno minore. CAPITOLO QUINTO: ‹I› premesso che ciò che muove, muove qualcosa, in qualcosa, ossia nel tempo, e fino a qualcosa, perché muove per una lunghezza di una certa quantità, vengono stabilite le seguenti relazioni: se una forza muove un certo oggetto in un certo tempo per una certa lunghezza, allora (1) l’uguale forza muove (a) metà dell’oggetto in un tempo uguale per una lunghezza doppia, (b) metà dell’oggetto per una lunghezza uguale nella metà del tempo, (c) lo stesso oggetto per la metà della lunghezza nella metà del tempo; la metà della forza muove la metà dell’oggetto per la lunghezza uguale nel tempo uguale. Invece non vige che (1) necessariamente metà della forza muove nel tempo uguale l’oggetto per metà della lunghezza, (2) né che metà della forza muove l’oggetto per l’uguale lunghezza nel tempo uguale, né che metà della forza muove l’oggetto in una parte del tempo per una parte della lunghezza che stia alla lunghezza intera così come l’intera forza sta alla metà di essa. Ché, se così non fosse (se valesse cioè che una forza che sia la metà di quella che muove un oggetto in un certo tempo per una certa lunghezza, muove lo stesso oggetto per una lunghezza minore in un tempo qualsiasi), si avrebbe l’assurdo che un solo uomo, parte di un gruppo di persone le quali, unendo le loro forze, in certo tempo muovono una nave per una certa distanza, con la sua sola forza potrebbe muovere anch’egli la nave, per un tragitto minore e in un qualche tempo. ‹II› In base a quest’acquisizione viene rigettato il paradosso con cui Zenone, per provare l’irrealtà del molteplice, sosteneva che, se un medimno di grani cadendo fa rumore, allora anche un solo grano e persino la decimillesima parte di esso cadendo lo procurano: giacché sono parte del medimno. (1) Tale ragionamento si fonda su ciò che si è escluso: se la forza prodotta dalla caduta di tutti i grani del medimno sposta l’aria producendo rumore, quella prodotta dalla caduta di un solo grado non sposta aria e dunque non si produce rumore. (2) Inoltre, un solo grano non muove tanta aria quanta ne muoverebbe se fosse nel tutto (giacché la parte non è nulla per se stessa, ma è tale solamente in quanto in potenza è nel 394

tutto). ‹III› Se ciascuno di due motori muove un oggetto per una certa lunghezza in un certo tempo, i due motori insieme muovono l’insieme dei due pesi per la stessa lunghezza nello stesso tempo. ‹IV› Le relazioni stabilite al punto II valgono anche per l’alterazione e per l’aumento: se qualcosa si altera in un dato tempo per una certa quantità, (1) in un tempo doppio si altera del doppio, (2) il doppio si altera in un tempo doppio, (3) la metà si altera nella metà del tempo, (4) il doppio della metà si altera nel tempo uguale; ma non necessariamente la metà della forza che altera o che aumenta, (1) altera o aumenta nella metà del tempo, (2) né nella metà del tempo altera o aumenta della metà.

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LIBRO OTTAVO CAPITOLO PRIMO: 〈I〉 posto il problema se il movimento abbia avuto inizio e finisca, oppure sia eterno, si espongono innanzitutto le tesi dei predecessori. (1) Tutti coloro che hanno trattato della natura ne hanno affermato l’esistenza (giacché hanno dovuto occuparsi della generazione e della corruzione, impossibili senza il movimento), ma (a) per quelli per i quali i mondi sono infiniti, il movimento è eterno, (b) per quelli, invece, per i quali il mondo è uno, il movimento è non-eterno o eterno a seconda che il mondo abbia o no avuto origine. (2) La tesi che il movimento in un certo tempo è assente si è configurata (a) o nei termini di Anassagora: all’inizio tutto era assieme e in quiete, e in seguito la Mente ha impresso il movimento; (b) o in quelli di Empedocle: il movimento manca quando tutto è riunito assieme, per la prevalenza di Amore, o tutto è assolutamente separato, per la prevalenza di Odio, e si ha invece nei tempi intermedi tra il dominio dell’uno e quello dell’altro. 〈II〉 Si afferma che l’indagine sui problemi del movimento deve prendere le mosse dai princìpi anzi stabiliti: (1) il movimento è l’atto del mobile in quanto mobile; (2) esistono necessariamente cose che hanno la potenza di muoversi secondo ciascun movimento; (3) può muoversi secondo ciascun movimento ciò che ha la potenza di farlo. 〈III〉 Indi si dimostra l’eternità del movimento, con tre prove: (1) le cose possono essere o generate o eterne; nel primo caso è necessario un movimento sempre anteriore, dal quale siano stati generati ciò che ha la potenza di muovere e ciò che ha la potenza di essere mosso; nel secondo, ipotizzandosi una condizione di quiete, poiché la quiete è assenza di movimento, è necessario che vi sia stato un movimento anteriore. (2) Ogni cosa si muove in un solo modo, potendosi ricondurre a questa condizione anche ciò che, come la scienza, si muove rispetto ai contrari. Ora, le cose che hanno la capacità di muovere e di essere mosse, muovono e sono mosse quando vengono in contatto, e se si verifica questa condizione esse attuano la loro potenza, rispettivamente, di motori e di mossi. Ma se, venute a contatto, le prime non muovessero o le seconde non fossero mosse, il mutamento prodottosi nelle une determinerebbe un mutamento anche delle altre, ed esse, che non appartengono ai relativi, verserebbero così in una situazione che è propria di questi. (3) L’esistenza del prima e del poi implica quella del tempo, e l’esistenza del tempo implica quella del movimento, essendo risultato che il tempo è o numero del movimento o un certo movimento. Sul carattere ingenerato del tempo sono d’accordo tutti i filosofi (da esso Democrito ha inferito l’impossibilità che tutte le cose siano state generate), tranne Platone, per il quale il tempo ha 396

avuto origine con la generazione del cielo. Ma poiché non è possibile l’esistenza del tempo senza quella dell’istante e questo è il limite tra due tempi, l’inizio del tempo, segnato da un istante, è congiunto con un altro tempo, sicché il tempo stesso risulta eterno e con esso il movimento. 〈IV〉 Il medesimo ragionamento ne prova anche l’incorruttibilità: poiché una cosa non cessa contemporaneamente di essere mossa e di essere mobile, né di muovere e di essere capace di muovere, dopo la fine del movimento dovrà darsi un movimento per il quale il mobile e ciò che è capace di muoverlo passino allo stato di quiete. Se il mutamento è una corruzione, dopo che essa sia cessata ciò che può produrla dovrà essere corrotto in questa sua capacità, e a sua volta dovrà essere corrotto ciò che può corrompere quest’elemento, e così all’infinito, di modo che, posta la fine della corruzione, ciò che può corrompere dovrà essere già stato distrutto nell’atto in cui è corrotto. 〈V〉 Si criticano infine le teorie sul movimento dei precedenti filosofi: (1) la teoria di Anassagora — che può essere assimilata a quella di Empedocle per l’aspetto secondo cui il movimento si origina dopo un periodo di quiete, ma che se ne distingue per l’assenza della ciclicità di quest’origine —, nel lasciare indeterminato in quale momento dell’infinita quiete iniziale sia nato il movimento, come se non ci fosse alcuna differenza tra il prima e il poi dell’origine, contrasta col principio che la natura è ordine e che l’ordine è razionalità. (2) Migliore, perciò, la teoria di Empedocle, la quale, ponendo la genesi del movimento nei periodi ciclicamente intermedi tra il predominio di Amore e Odio, istituisce un certo ordine nella natura. Tuttavia è anch’essa carente, perché asserisce soltanto e non porta alcuna prova, né induttiva né dimostrativa, che le cose stiano così: dunque non può fungere da esplicazione e perciò non è un’ipotesi corretta. (3) Lo stesso vale anche per Democrito, che ha avuto il torto di addurre, in luogo della dimostrazione, il semplice fatto che le cose stanno in un dato modo in ogni caso. CAPITOLO SECONDO:〈I〉 si enunciano anzitutto tre possibili obiezioni all’eternità del movimento: (1) nessun mutamento è eterno, giacché procede da qualcosa a qualcosa e i contrari ne segnano il limite; (2) anche nelle cose inanimate, ma soprattutto in quelle animate, si vede che può essere mosso ciò di cui né alcuna parte, né l’intero sono mossi; (3) negli esseri viventi, come attesta l’esperienza personale, il movimento si origina (a) spontaneamente e (b) dal loro interno, ossia (a) senza che in loro vi siano già altri movimenti, ma essendo in quiete e (b) senza derivare dall’esterno. E se questo avviene per i viventi, può avvenire anche per il tutto e anche per l’infinito, nel caso in cui possa essere in moto o in quiete. 〈II〉 Indi 397

vengono respinte: (1) è vero che il movimento tra gli opposti (ossia il movimento rettilineo) non è sempre identico e numericamente uno (cioè eterno), come comprova il fatto che l’identità del mosso non garantisce l’identità del movimento (anche se si può discutere se il suono di una corda sia sempre diverso o unitario), ma con ciò non è esclusa la possibilità di un movimento la cui unità non dipenda da quella della cosa mossa, ma dalla continuità e dall’eternità del movimento stesso. (2) Che una cosa, prima in quiete, successivamente si muova, dipende dal fatto che un’altra, esterna a essa, talvolta la muove e talvolta no, ed è questo il problema sul quale si deve appuntare l’indagine: come una stessa cosa, dalla stessa cosa in un tempo possa essere mossa e in un altro no; il che equivale a chiedersi perché alcuni enti non sono sempre in quiete e altri sempre in movimento. (3) È falso che nei viventi il movimento si generi spontaneamente, ma alcune parti dei loro corpi sono sempre in movimento perché mosse dall’ambiente esterno; dal moto di queste parti niente impedisce che siano mossi il pensiero e il desiderio, dai quali a loro volta sono mossi i viventi nella loro totalità. CAPITOLO TERZO: 〈I〉 assunto come punto di partenza della ricerca il problema esposto nel precedente capitolo, nella soluzione della seconda obiezione (perché alcuni enti talvolta si muovono, talvolta sono in quiete), si prospettano tre possibilità: (A) tutti gli enti sono sempre in quiete, (B) tutti sono sempre in movimento, (C) alcuni sono in movimento, altri in quiete e, di essi, (a) i primi sono sempre in movimento, i secondi sempre in quiete, (b) oppure tutti sono talvolta in movimento, talvolta in quiete; (c) oppure alcuni sono sempre in quiete, alcuni sempre in movimento, alcuni talvolta in quiete, talvolta in movimento. Quest’ultima è la tesi che la ricerca si propone di sostenere, giacché con essa vengono risolte tutte le difficoltà. 〈II〉 Si procede quindi a esaminare le suddette possibilità. (A) La prima (1) corrisponde a una deformità del pensiero, che non riguarda soltanto la fisica, ma tutte le scienze e tutte le opinioni, poiché tutte ricorrono al movimento. (2) È inaccettabile anche perché formula un’ipotesi — quella, per l’appunto, che il movimento non esiste — che non riguarda più la fisica, come le ipotesi che negano i primi princìpi di una scienza non riguardano quella scienza. La fisica, infatti, essendo lo studio degli enti in movimento, ne presuppone l’esistenza. (B) Anche la seconda (1) è falsa e non pertiene alla disciplina, ma meno della precedente, perché per la fisica il movimento è naturale e la natura è principio del movimento e della quiete. (2) Si confuta mostrando che in tutti i tipi di mutamento (che essa neppure distingue) vi è un limite oltre il quale gli enti cessano di mutare: (a) 398

nell’aumento e nella diminuzione non procedono continuamente, ma vi è un medio nel quale questi mutamenti si arrestano (come la metà di una forza non sposta l’oggetto per un tragitto o in un tempo inferiori, così anche una parte della goccia non erode nessuna quantità in nessun tempo). (b) L’alterazione non si produce in modo continuo (non perché l’oggetto è divisibile all’infinito, così procede anch’essa), ma sovente si attua tutta insieme, come nel congelamento; in altri casi, come nel mutamento dalla malattia alla salute, si produce in un certo tempo, e verso il contrario. (c) Che tutto non muti sempre secondo il luogo è provato dal fatto che (a) la pietra, che si sposta verso il basso, sulla terra s’arresta; (β) ogni cosa nel luogo proprio resta ferma e da esso si sposta soltanto a violenza. (Ca) L’ipotesi che tutte le cose in quiete siano sempre in quiete e che tutte le cose in movimento siano sempre in movimento è smentita dal fatto che (1) nelle stesse cose si osserva l’alternanza dei mutamenti predetti e della quiete; (2) l’aumento e il movimento forzato comportano, rispettivamente, movimento e movimento contro natura di ciò che prima era in quiete; non soltanto, ma anche la generazione e la corruzione sono in un certo senso un movimento (la generazione è un movimento verso il suo termine finale e la corruzione un movimento da quello iniziale) e comportano quiete prima del loro inizio e dopo il loro termine, cosicché risulterebbero soppresse dall’ipotesi in oggetto. (Cb) L’ipotesi che tutte le cose talvolta siano in movimento e talvolta in quiete è confutata dai precedenti ragionamenti [cap. 1] sull’inammissibilità della tesi empedoclea del ciclico alternarsi di quiete e movimento. 〈III〉 Viene ripresentata la distinzione iniziale e vengono nuovamente respinte l’ipotesi (A): anche se l’essere fosse immobile e infinito e il movimento una falsa opinione, poiché l’opinione e l’immaginazione sono movimenti, l’esistenza del movimento risulterebbe sempre attestata; l’ipotesi (B) e l’ipotesi (Ca): si osserva che alcune cose talvolta sono in movimento, talvolta in quiete. Restano dunque da esaminare le ipotesi (Cb) e (Cc). CAPITOLO QUARTO: 〈I〉 i motori e le cose mosse muovono e sono mosse (a) o per accidente (se ineriscono a ciò che muove ed è mosso, o sono relativi a una parte di questi), (b) o per sé (se non ineriscono a ciò che muove ed è mosso, né sono una parte di essi). Questi secondi muovono e sono mossi o da sé o da altro, o per natura o contro natura, ossia a violenza. 〈II〉 (1) Ciò che è mosso da sé, si muove secondo natura. Tali gli animali, che hanno in se stessi il principio del movimento. (2) Sono mossi da altro contro natura gli elementi portati in un luogo diverso dal proprio e le parti degli animali distorte dalle loro posizioni naturali o dai loro modi naturali di muoversi. 399

Soprattutto in questo tipo di movimenti è chiaro che ciò che è mosso, è mosso da qualcosa. È chiaro anche nelle cose mosse da sé, ma in esse non è facile distinguere il motore dal mosso. (3) Invece, nelle cose mosse da altro secondo natura fa difficoltà individuare da che cosa sono mosse. Comunque, è certo che sono mosse da qualcosa, non potendo essere mosse da sé, in quanto (a) questo è proprio delle cose animate; (b) se si muovessero da sé, potrebbero anche arrestarsi da sé; (c) sarebbe illogico che si muovessero secondo un solo movimento; (d) essendo cose naturalmente continue (ossia unitarie, non due con un confine in comune), non è possibile che una parte agisca e una patisca. 〈III〉 La determinazione della causa motrice di ciò che è indicato al punto (3) esige di riflettere su quando una cosa muove e quando è un mobile. (1) Alcuni motori, come la leva, muovono contro natura, altri secondo natura, come il caldo in atto muove il caldo in potenza. (2) È mobile per natura ciò che è in potenza di una data qualità, o quantità, o in un luogo, quando possieda tali potenze (ossia un tale principio di movimento) in se stesso e non accidentalmente (così il fuoco e la terra, che sono mossi a violenza se contro natura, sono mossi per natura quando attuano ciò che sono in potenza). (3) La multivocità di «essere in potenza» è la ragione della non evidenza della distinzione tra il motore e il mosso nelle cose suddette. (4) Comunque, quando l’elemento attivo e quello passivo siano assieme, ciò che è in potenza passa all’atto. (5) Questo vale anche per le cose naturali: ciò che è freddo, in potenza è caldo e ciò che è pesante, in potenza è leggero, e poiché l’atto del leggero è l’alto, passando dalla potenza all’atto il leggero è mosso verso questo luogo. (6) La ragione ricercata è dunque la natura, che ha fatto in modo che l’essenza delle cose naturali sia definita da un certo luogo (l’alto per il leggero, il basso per il pesante. Ma una cosa è leggera o pesante in potenza in molti sensi, e per questo non si scorge facilmente il motore). (7) Motore delle cose in oggetto è anche ciò che toglie l’ostacolo a che esse si portino nel loro luogo naturale, ma è motore in senso accidentale. (8) Di conseguenza, neppure queste cose muovono se medesime. Esse hanno in sé il principio del movimento, ma non è la capacità di agire e di muovere, bensì quella di patire. 〈IV〉 Poiché sono mosse da qualcosa sia le cose che si muovono contro natura, ossia a violenza, sia le cose che si muovono per natura — tanto quelle mosse da sé, quanto quelle mosse da altro —, allora tutto ciò che è mosso, lo è da qualcosa. CAPITOLO QUINTO: 〈I〉 premesso che (1) l’esser mosso da qualcosa avviene in due modi: o mediante ciò che è mosso dal motore, o mediante lo stesso motore e questo può essere o il motore primo (se muove direttamente la 400

parte estrema del mosso), o una sere di motori; 〈2) il motore primo muove in misura maggiore dell’ultimo. (1〉 Nella prima sezione si mostra che il motore primo è mosso soltanto da se stesso, con cinque prove. (1) Tutto ciò che è mosso deve essere mosso da qualcosa; questo qualcosa o è mosso da altro o no; se è mosso da altro, è necessario che ci sia un motore primo non mosso da altro; se invece non è mosso da altro, ma è il motore primo, non è necessario un altro motore, giacché non si può procedere all’infinito nella serie dei motori mossi, in quanto nell’infinito non esiste il primo; pertanto, se ciò che è mosso deve essere mosso da qualcosa, e il motore primo non può essere mosso da altro, sarà necessariamente mosso da sé. (2) Il motore muove qualcosa con qualcosa; questo qualcosa può essere o il motore stesso, o qualcos’altro (come la mano e poi il bastone, con i quali un uomo muove una pietra); ma il motore non può muovere la cosa con cui muove l’oggetto senza muovere questa cosa con se stesso; così, se muove l’oggetto con sestesso non c’è bisogno di un’altra cosa con cui muoverlo; se invece lo muove con un’altra cosa, dovrà darsi una cosa che lo muova con se stessa, pena un procedere all’infinito che non è ammissibile; la serie delle cose con cui il motore muove l’oggetto è una serie di motori mossi, e in essa è necessario arrestarsi e giungere a un motore che muova con se stesso la prima cosa intermedia; e poiché anch’esso è mosso da qualcosa (giacché tutto ciò che muove è mosso da qualcosa), ma non è mosso da altro, necessariamente muoverà se stesso. (3) La cosa mossa, lo è da un motore che è mosso; questo appartiene alla cosa (a) o per accidente, per cui la muove, ma non per il fatto di essere mosso, (b) o per sé. (a) Nel primo caso il motore potrebbe non essere mosso, quindi in un certo momento anche nessun ente potrebbe essere mosso (giacché ciò che è accidentale può anche non essere): il che, stante la necessità del movimento, è falso. Conclusione logica, dal momento che, essendo richieste tre cose: il mosso, il motore e il mezzo, la prima è necessario che sia mossa ma non che muova, la terza è necessario che sia mossa e che muova, la seconda, se non s’identifica con la cosa con cui muove, è eterna; e poiché vediamo il motore ultimo, che non ha in sé il principio del movimento, e quello che è mosso da se stesso, è logico che vi sia anche un motore che muove restando immobile. Sotto questo profilo è esatta l’ipotesi anassagorea di una Mente impassiva e non mescolata. (b) Invece, se il motore è mosso necessariamente, lo sarà (α) o secondo la stessa specie di movimento del mosso, (β) o secondo un’altra. Ma entrambe le alternative sono impossibili: la (a), perché comporterebbe, per esempio, che chi insegna una nozione di geometria è identico a chi l’apprende, o che il lanciare lo è all’esser lanciati; né varrebbe dire che un genere di movimento deriva da un altro: poiché i movimenti sono finiti, 401

occorre arrestarsi nella serie delle derivazioni, cosicché si ricade nel medesimo assurdo; la (β), perché è esposta alle difficoltà connesse alla limitazione delle specie di movimento. (4) Se ciò che è mosso, lo è da una cosa mossa, si ha allora l’assurdo che ciò che ha la capacità di muovere, è mobile: sia direttamente, sia per più intermedi; ipotesi delle quali la prima è impossibile, la seconda è fittizia. Di conseguenza, non necessariamente ciò che è mosso, è mosso da un motore mosso a sua volta, ma, dovendo arrestarsi, o il primo motore è mosso da una cosa che è in quiete, o è mosso da se stesso. (5) Poiché ciò che muove se stesso è causa per sé ed è anteriore a ciò che muove essendo mosso da altro, e la scienza ricerca le cause prime, causa e principio del movimento, ricercati dalla scienza, è ciò che muove se stesso. 〈II〉 Nella seconda sezione si dimostra che il primo motore è immobile. (1) Tutto ciò che è mosso è divisibile all’infinito (giacché è continuo); ma il motore non può muovere interamente se stesso: infatti, (a) essendo uno e indivisibile per specie, interamente sposterebbe e sarebbe spostato, altererebbe e sarebbe alterato, ecc.; (b) poiché ciò che si muove è ancora in potenza, mentre il motore è già in atto, sarebbe sotto il medesimo rispetto in potenza e in atto; quindi, una parte del motore che muove se stesso deve muovere, un’altra deve essere mossa. (2) Ma è impossibile che ciascuna delle due parti sia mossa dall’altra. Infatti, (a) dal momento che ciascuna muoverebbe (indirettamente) se stessa, non vi sarebbe un primo motore (stante che [a] tra due motori è maggiormente causa di movimento — e dunque muove di più — quello anteriore; [β] muove sia il motore mosso da altro che quello mosso da sé, ma quello più lontano dal mosso è più vicino al principio del movimento che l’intermedio); (b) poiché il motore è mosso necessariamente soltanto da se stesso, l’altra parte muove in senso contrario soltanto per accidente e per questo può anche non muovere; di conseguenza, dovrà esserci una parte che è mossa e una che muove essendo immobile; (c) non è necessario che il motore sia mosso in senso contrario, ma unicamente, posta la necessità dell’eterna esistenza del movimento, che sia prodotto o da un motore immobile o da uno mosso da se stesso; (d) il motore sarebbe mosso secondo lo stesso movimento con cui muove. (3) Non può neppure essere che una o più parti del motore che muove se stesso, muovano singolarmente se stesse. Infatti, l’intero motore è mosso da se stesso (a) o perché è mosso da una sua parte, (b) o perché è mosso tutto intero dalla totalità di sé; ma (a) nel primo caso sarebbe quella parte a muovere se stessa e non più l’intero (mentre l’ipotesi era che l’intero muove se stesso); (b) nel secondo, essendo l’intero a muovere se stesso, [b] le parti muoverebbero se stesse soltanto per accidente; quindi, si può assumere che non si muovono da sé, per cui nell’intero, in quanto capace di 402

muovere se stesso, una parte muoverà restando immobile e un’altra sarà mossa; [β] ci sarà una sua parte che muove e un’altra che è mossa, e la parte che muove, poiché muove l’intero, il quale muove se stesso, lo muoverà in quanto muove se stessa; ma allora l’intero risulta mosso dalla totalità di sé e da una parte, e con ciò i due termini dell’ipotesi (l’intero muove se stesso — una parte muove se stessa) configgono tra loro. 〈IV〉 nell’ultima sezione si analizza la struttura interna del motore immobile: (1) esso è costituito da una parte immobile, la quale causa il movimento, e da una mossa, la quale non necessariamente causa il movimento; (2) muove se stesso non perché qualche sua parte muova se medesima, ma nella sua totalità: di mosso e motore (infatti, ciò che è mosso e ciò che muove sono sue parti, non muovendo né essendo mosso nella sua totalità); (3) se si toglie una parte dalla sua parte motrice o una dalla sua parte mossa, ciò che resta di esse né muove né è mosso, anche se la parte mossa, pur essendo indivisibile in atto, in potenza è però divisibile. CAPITOLO SESTO: 〈I〉 nella prima parte si dimostra l’eternità del motore immobile, con due prove: (1) (a) si ipotizza l’esistenza di enti che talvolta sono e talvolta non sono, ma senza generarsi né corrompersi e di alcuni motori immobili che, anch’essi senza generarsi né corrompersi, talvolta sono e talvolta non sono. Questo è possibile perché essi non hanno parti (infatti, ciò che muove se stesso dev’essere una grandezza, dev’essere cioè divisibile, ossia avere parti, ma ciò che muove soltanto non è necessario che ne abbia), dunque non sono soggetti a mutamento e, pertanto, neppure a generazione e corruzione; di conseguenza, possono soltanto passare temporaneamente dall’essere al non essere e vice versa. Sennonché, con la loro alternanza nell’essere e nel non essere tali motori non possono causare, per quanto sia elevata la frequenza della successione, la continuità del movimento, che è invece un carattere necessario di quest’ultimo, assieme alla sua eternità: né ciascuno di essi, singolarmente, né tutti. La necessità del movimento è garantita, invece, dall’esistenza di uno o più motori immobili eterni, al di là di quelli predetti. (b) Si aggiunge che, pur potendo essere anche molti i motori immobili, è tuttavia più adeguato che il motore immobile ed eterno sia uno (il primo dei motori immobili), giacché anche uno solo è sufficiente, e nell’ordine della natura è da preferirsi il finito all’infinito. (2) Il movimento è eterno, continuo e uno (tale quello che deriva da un unico motore e si attua in un unico mosso) e, se muovesse qualcosa di sempre diverso, esso non sarebbe continuo, ma consecutivo. Quindi si richiamano l’esistenza di enti talvolta in movimento, talvolta in quiete; la necessità che tutto ciò che è mosso lo sia da qualcosa, il quale è o immobile 403

o mosso e, in quest’ultimo caso, o da sé o da altro; quella di un principio che, in quanto principio delle cose mosse, muove se stesso e, in quanto principio della totalità di esse, è immobile. A questo punto si fa presente che esistono esseri, come gli animali, che sono capaci di muovere se stessi, ma non con continuità e neppure in tutti i movimenti: il loro moto, che è senz’altro uno, non è continuo perché essi per un certo tempo sono in quiete, per un altro si muovono; non è attuato esclusivamente da loro, giacché negli animali esistono alcuni movimenti (come la crescita e la diminuzione o la respirazione) il cui principio viene dall’esterno, dovuti come sono all’ambiente e all’alimentazione. Anche il loro principio motore, ossia l’anima, è mosso da sé, ma per accidente, in quanto, trovandosi nel corpo, che cambia continuamente di luogo, è come ciò che, trovandosi su una leva, muove se stesso assieme al muoversi di questa. Ma d’altro canto il movimento è continuo, e un principio motore che sia immobile ma che, come l’anima, muova se stesso solo accidentalmente, non può muovere secondo un moto continuo. Peraltro, è diverso l’esser mossi accidentalmente da sé, cosa propria dei princìpi di alcuni enti terrestri, e l’esser mossi accidentalmente da altro, che è invece proprietà dei princìpi dei corpi celesti, i quali sono mossi secondo una pluralità di traslazioni. È pertanto necessaria l’esistenza di un motore immobile che sia tale anche in rapporto all’accidentalità del muovere se stesso, sia cioè eterno. 〈II〉 Nella seconda parte si precisa che (1) l’eternità del motore immobile comporta quella di ciò che esso muove primariamente; (2) tale motore muove sempre nello stesso modo, non mutando se stesso in relazione al mosso (mentre i motori mossi da altri motori, mossi a loro volta dal motore immobile, trovandosi sempre in stati diversi in rapporto alle cose, non causano un solo movimento, ma, poiché sono di volta in volta in luoghi contrari e hanno forme contrarie, anche il movimento che producono avviene secondo i contrari e si alterna con la quiete); (3) il fatto che le cose siano talora in moto, talora in quiete è dovuto al loro esser mosse, in parte da un motore immobile ed eterno (sì che per quest’aspetto sono mosse sempre), in parte da motori mossi e soggetti a mutamento (sì che anche il loro movimento muta); (4) invece il motore immobile permane nello stesso modo e nello stesso luogo, e il movimento che causa è unico e assoluto. CAPITOLO SETTIMO: 〈I〉 nella prima parte si dimostra che la traslazione è il primo dei movimenti, con tre prove: (1) dei tre movimenti, secondo (a) la quantità, (b) la qualità, (c) il luogo — ossia (a) l’aumento e la diminuzione, (b) l’alterazione e (c) la traslazione —, (a) l’aumento e la diminuzione non sono possibili senza alterazione, giacché ciò che è accresciuto, lo è dal simile 404

e dal dissimile, e il mutamento verso questi contrari è alterazione. (b) L’alterazione, a sua volta, presuppone la traslazione, perché si produce quando l’azione di ciò che altera, ossia della cosa che possiede una data qualità in atto, raggiunge ciò che viene alterato, ossia la cosa che possiede la stessa qualità in potenza, e quest’azione si realizza percorrendo una distanza (tanto da essere più o meno efficace a seconda che ciò che altera sia vicino o lontano rispetto a ciò che alterato), ossia con una traslazione. (c) Quest’ultima, pertanto, sta alla base e dell’alterazione e dell’aumento/ diminuzione. (2) L’alterazione è mutamento secondo le affezioni; principio delle affezioni sono la condensazione e la rarefazione, le quali consistono in una riunione e in una separazione, che sono mutamenti secondo il luogo, ossia traslazioni. Esse sono dunque presupposte alle alterazioni; [e poiché s’è già visto che l’alterazione è presupposta all’aumento e alla diminuzione, la traslazione lo è anche a queste]. (3) «Primo» si dice (a) di ciò che può essere senza altre cose, mentre queste non possono essere senza di esso, (c) secondo il tempo, (c) secondo la sostanza. La continuità del movimento richiede il darsi di un movimento continuo o contiguo, e poiché è meglio il primo e la natura opera secondo il meglio, e il movimento continuo è possibile, esso è anche reale. Ma un tale movimento non può che essere la traslazione; questa è pertanto il primo movimento. Infatti (a) ciò che si altera, che si genera o si corrompe, che aumenta o diminuisce compie necessariamente una traslazione, mentre non è necessario che ciò che trasla attui anche uno dei mutamenti suddetti. (b) La traslazione è il movimento delle cose eterne, le quali vengono cronologicamente prima di quelle corruttibili. (c) (a) Gli esseri soggetti a generazione, inizialmente si generano, quindi, man mano che procedono nella realizzazione della loro natura, si alterano, aumentano e soltanto quando hanno raggiunto la pienezza del loro essere sono capaci di traslazione, che è perciò il movimento delle cose perfette. Potrebbe allora sembrare che la generazione sia il primo movimento, ma non è così, in quanto altri movimenti anteriori (quelli, per l’appunto, delle cose già realizzate) sono stati necessari perché essa abbia luogo. Così, la traslazione sussiste già in tutto ciò che si genera. Essa è posteriore secondo la generazione (ma, si badi, non secondo il tempo), ma poiché il generato è imperfetto e tende al suo compimento, ciò che è posteriore secondo la generazione è primo secondo la natura. (β) Ciò che trasla si allontana dalla propria natura meno che negli altri movimenti. 〈II〉 Nella seconda parte si avvia la ricerca su quale traslazione costituisca il movimento primo. E poiché tale movimento dev’essere continuo, si mostra perché gli altri movimenti non sono tali. Perché avvengono tra opposti, i quali ne costituiscono i limiti (l’essere e il non-essere per la generazione e la 405

corruzione, le affezioni contrarie per l’alterazione, la grandezza o la piccolezza, ovvero la perfezione o l’imperfezione della grandezza per l’aumento e la diminuzione), e, dal momento che gli opposti non mutano simultaneamente, in mezzo a tali movimenti vi è un tempo, sì che non sono continui. Rispetto a ciò non ha alcuna importanza il fatto che il mutamento per contraddizione sia tra contraddittori e non tra contrari, giacché anche i contraddittori non possono essere simultaneamente presenti. Né ha importanza il fatto che un movimento è contrario sia a quello in senso contrario che alla quiete: basta, anche in questo caso, l’impossibilità della simultanea presenza dei mutamenti contrari. CAPITOLO OTTAVO: 〈I〉 premesso che il movimento locale è o circolare, o rettilineo, o misto, al fine di provare che soltanto il primo è unico e continuo, si dimostra che quello rettilineo non è né uno, né — di conseguenza — continuo. 〈A〉 Innanzitutto vengono formulati due argomenti di ordine fisico: (1) è unico il movimento attuato da un unico oggetto, in un unico tempo e in ciò che è specificamente indifferente. Ma i contrari differiscono per specie e quindi non costituiscono alcunché di unico. Ora, il movimento rettilineo avviene secondo i contrari e per questo torna in dietro; per cui non è uno, quindi neppure continuo. (2) (a) Il moto rettilineo, tornando in dietro, si arresta, e con ciò ha una pausa e, dunque, scissione nella sua unità e nella sua continuità (il che si verifica anche nel movimento lungo un cerchio — che, ben inteso, differisce da quello circolare —, quando il mobile, giunto al punto da cui era partito, torna indietro). (b) Ciò è spiegabile anche razionalmente: distinguendosi l’inizio, il mezzo e la fine, il mezzo (che potenzialmente è ogni punto della retta, punto che però è mezzo in atto soltanto se la divide e da esso il mobile torna indietro) numericamente è uno, ma logicamente è due, ossia fine di un movimento e inizio di un altro; in esso perciò il moto si arresta. Al contrario, un movimento continuo non ammette un mezzo, non vi si avvicina e non vi si allontana, e il mobile è soltanto nell’istante, dunque in nessun tempo se non in quello di cui l’istante segna una sezione, dunque è nell’intero. 〈B〉 Ciò permette di risolvere una difficoltà: non è vero che un oggetto che si muova di moto continuo da un punto a un altro di una retta giunge alla fine dopo un altro che si muova di moto continuo per un’uguale distanza su un’altra retta, giacché il primo, arrivando al mezzo, si ferma e riparte, questo non si verifica nello stesso tempo e, dunque, comporta un ritardo rispetto al secondo. Nel presunto mezzo (come in ogni altro punto), il primo mobile non è in un tempo, ma in una sezione di tempo, e la distinzione tra arrivo e partenza non sussiste per il moto continuo, ma 406

unicamente per quello che ritorna indietro; per il moto continuo, soltanto la fine del tragitto è in atto, mentre il medio è soltanto in potenza. 〈C〉 A questa presunta difficoltà si riconduce il paradosso di Zenone, per il quale non esiste movimento, perché, per percorrere un tragitto, si dovrebbero percorrere infinite metà e l’infinito non è percorribile. Contro di esso si fa presente che (1) in un movimento continuo sono presenti infinite metà soltanto in potenza; se lo fossero in atto, il movimento non sarebbe continuo; (2) l’infinito non è percorribile in atto, ma lo è in potenza; (3) d’altro canto, il punto che divide il tempo in anteriore e posteriore dev’essere attribuito al tempo posteriore, altrimenti la stessa cosa contemporaneamente sarebbe e non sarebbe e, quando si è prodotta, non sarebbe (se un oggetto muta da bianco in non bianco, il tempo in cui cessa di essere bianco e diventa non bianco in realtà non è un tempo, bensì un istante che divide il tempo del bianco da quello del non bianco, e come tale non s’aggiunge come terzo tempo, ma segna l’inizio del non bianco; se fosse un tempo, in esso la cosa, poiché smette di essere bianca e inizia a essere non bianca, sarebbe assieme bianca e non bianca; inoltre, iniziando a essere bianca, non sarebbe bianca); (4) il tempo non è divisibile in tempi indivisibili, i quali soltanto sarebbero consecutivi, mentre i punti della divisione all’infinito del tempo non sono consecutivi. 〈D〉 Si propongono, infine, cinque argomenti di natura puramente logica a dimostrazione della non continuità del movimento rettilineo: (1) si muove di moto continuo ciò che, se non è impedito, anche prima si dirigeva verso il medesimo punto a cui è pervenuto; ma sulla retta questo coincide col muoversi secondo i contrari, il che non è possibile simultaneamente; dunque, il moto deve avvenire con un arresto e un’interruzione, ossia in modo non continuo. (2) Inoltre, si muove di moto continuo ciò che si muove da un punto in cui attualmente non è; ma questo sulla retta è impossibile, per cui deve esserci un arresto, sì che il movimento non è continuo. (3) Ciò che non è sempre mosso secondo un certo movimento, precedentemente è nella quiete opposta a questo movimento; ma i movimenti lungo la retta sono contrari e, dunque, non possono prodursi simultaneamente; quindi, prima che si attui il movimento contrario, l’oggetto deve essere in quiete. (4) Se l’alterazione che perviene al bianco e quella che procede dal bianco fossero continue, si avrebbero simultaneamente la cessazione del non bianco, la generazione del bianco e quella del non bianco. (5) Non per il fatto che il tempo è continuo dev’esserlo anche il movimento, ma questo può anche essere consecutivo, per cui l’estremo dei contrari non coincide. 〈II〉 Indi si prova che il movimento circolare è continuo: (1) in esso l’oggetto si muove con la stessa tensione da un certo punto e verso questo punto senza che i movimenti 407

siano contrari (il che si verifica sulla retta) o opposti (come avviene se i movimenti sono secondo la stessa lunghezza); (2) l’oggetto si muove dunque dallo stesso punto verso lo stesso punto, mentre sulla retta si muove da un punto verso un altro; (3) nel moto circolare l’oggetto non è mai negli stessi punti e ciò è compatibile con la continuità del movimento stesso, mentre in quello rettilineo l’oggetto è spesso negli stessi punti e ciò è incompatibile con la continuità del movimento, giacché comporterebbe la simultaneità di movimenti opposti. Anche gli altri movimenti si attuano più volte secondo le medesime cose: l’alterazione secondo gli intermedi, il movimento quantitativo secondo le grandezze mediane, e così anche per la generazione e la corruzione. 〈III〉 L’impossibilità che nessun altro movimento all’infuori di quello circolare sia continuo, in particolare l’impossibilità che lo sia l’alterazione, smentisce la tesi di quei Fisiologi che hanno sostenuto che il movimento e, specificamente, l’alterazione si producono continuamente in tutte le cose. CAPITOLO NONO: 〈I〉 nella prima parte si dimostra il primato del movimento circolare sugli altri movimenti. Ciò è provato dal fatto che, essendo ogni movimento o circolare, o rettilineo, o misto, i primi due sono anteriori al terzo e, tra essi, il primo lo è al secondo. Infatti, (1) è più semplice e più perfetto, giacché su una retta un movimento infinito non è possibile (ché, l’infinito non esiste, ma se anche esistesse, non sarebbe percorribile) e, su una retta finita, se il moto torna indietro è duplice, se non torna indietro è imperfetto e corruttibile, mentre il movimento circolare è eterno; e, sia per la natura, sia per la ragione, sia per il tempo, il perfetto precede il perfetto, così come l’incorruttibile precede il corruttibile: dunque, il movimento che può essere eterno precede quello che non può esserlo. (2) Nel movimento rettilineo c’è un punto da cui il mobile inizia a muoversi e un altro in cui finisce di muoversi, in quello circolare ogni punto è inizio, mezzo e fine, per cui il movimento è sempre all’inizio e alla fine, e non lo è mai. Per questo la sfera (la quale si muove di questo movimento) è sì in moto, ma, in quanto occupa sempre lo stesso luogo, è in quiete. Ciò è dovuto al fatto che il centro è inizio, mezzo e fine della grandezza e, non essendo posto fuori della sfera, essa non ha un luogo dove il suo movimento possa portarla. (3) Il movimento circolare è la misura dei movimenti, e la misura precede il misurato. (4) Soltanto esso può essere uniforme, non avendo in sé, diversamente dal movimento rettilineo, né principio né fine, ma unicamente all’esterno di sé: 〈II〉 Nella seconda parte si dimostra che tutti i filosofi precedenti hanno assegnato il primato al movimento locale. Infatti, (a) aggregazione e disgregazione sono movimenti secondo il luogo; 408

(b) Amore e Odio e (c) la Mente, aggregando e disgregando, riconducono la loro azione al movimento locale; (d) il movimento degli atomi nel vuoto è come un movimento in un luogo; (e) condensazione e rarefazione comportano movimento locale; (f) l’anima, come principio del movimento, esercita un movimento secondo il luogo. Nell’ottica aristotelica, ciò che si muove secondo gli altri movimenti si muove in un certo senso, ma non in senso assoluto. CAPITOLO DECIMO: 〈I〉 innanzitutto si provano tre tesi: stante che il movimento esige il motore, il mosso e il tempo, (1) nessuna cosa finita può muovere per un tempo infinito: infatti, posti il motore e il mosso come finiti e il tempo come infinito, una parte del motore muoverà una parte del mosso in un tempo che, essendo minore di quello infinito, è necessariamente finito; per cui, continuando ad aggiungere a quella parte del motore e del mosso altre parti a esse uguali, si raggiungono il motore e il mosso (perché sono finiti), ma, aggiungendo a quel tempo finito altri tempi uguali, non si raggiunge il tempo infinito, bensì un tempo finito; in esso, dunque, muove il motore finito. (2) In una grandezza finita non può esserci una potenza infinita: infatti, stante che una potenza maggiore produce il medesimo effetto in un tempo minore, una potenza infinita produrrebbe l’effetto in un tempo azzerato, contrariamente alla suddetta necessità del tempo. (3) In una grandezza infinita non può esserci una potenza finita: infatti, (a) supposta una grandezza infinita, una parte di essa muoverà uno stesso oggetto in un tempo maggiore; continuando a raddoppiare questa parte, la grandezza che ne risulta, per quanto ampia diventi, sarà sempre finita e, quindi, non raggiungerà mai quella iniziale; parallelamente, il tempo del movimento si ridurrà sempre più, proporzionalmente al numero dei raddoppiamenti, ma, per quanto sia piccolo, sarà sempre maggiore di quello in cui muove la grandezza infinita; ora, una potenza finita muove in un tempo finito e una infinita in un tempo minore di quello in cui muove qualunque grandezza finita, per quanto sia ampia; per cui, la potenza della infinita grandezza iniziale, che muove in un tempo sempre inferiore a quello, sempre più piccolo, di ogni grandezza finita, ampia quanto si voglia, eccede ogni potenza finita e, dunque, è infinita. (b) Supposta una grandezza infinita dotata di una potenza finita, si considera una grandezza finita la cui potenza è inferiore a quella della grandezza infinita secondo una certa proporzione (la quale è possibile in quanto è tra due potenze finite); ora, ampliando la grandezza finita di un numero di volte pari a quello della proporzione, si ottiene una grandezza finita con la stessa potenza della grandezza infinita; il che è assurdo: è 409

assurdo cioè che una grandezza infinita abbia la stessa potenza di una grandezza finita, per cui deve averne una infinita. 〈II〉 Indi, a proposito di oggetti che, come i proiettili, si muovono di moto continuo, o così sembra, nonostante il motore non sia in contatto, si chiarisce che il primo motore muove cose, come l’acqua o l’aria, che hanno la naturale capacità di muovere e di essere mosse; l’esercizio di queste due capacità non finisce simultaneamente, ma la cessazione dell’esser mosso, che si verifica quando il motore smette di muovere, non comporta che tali cose smettano anche d’imprimere il movimento a ciò che è loro contiguo, che a sua volta ripete l’operazione a quanto gli è contiguo, fino a che la capacità di muovere, affievolendosi lungo i passaggi, venga meno e resti soltanto quella di esser mossi. Il movimento non è continuo, poiché il motore non è uno, ma sono molti, l’uno contiguo all’altro, e si attua in oggetti contigui. In ogni caso nell’aria o nell’acqua non si produce quel movimento che alcuni (probabilmente Platone) hanno chiamato antiperistasi, per il quale simultaneamente tutte le cose muovono e sono mosse, cosicché cessano anche simultaneamente. 〈III〉 Infine si specificano gli attributi del primo motore e, tra essi, l’assenza di grandezza. (1) Dapprima se ne ribadisce l’immobilità: esiste necessariamente il moto continuo; esso è necessariamente uno e proprietà di una grandezza (giacché ciò che si muove ha grandezza), la quale dev’essere unica e mossa da un unico motore (altrimenti il movimento non sarebbe continuo, ma contiguo); questo è o mosso o immobile; nel secondo caso la tesi è già raggiunta; nel primo, il motore dovrà cambiare e simultaneamente essere mosso da qualcosa; ma nell’ordine dei motori mossi è necessario arrestarsi e pervenire a un motore immobile. (2) Poi si chiarisce che (a) il primo motore muove sempre e senza fatica (perché non muta dalla sua condizione di motore); (b) il movimento da esso prodotto è uniforme (perché esso non muta); (c) neppure il mosso subisce alcun mutamento rispetto al motore; (d) tale motore è nel cerchio, non nel centro (perché soltanto così il mosso è più vicino al motore e il suo movimento è più veloce). (3) Indi si prova l’impossibilità che una cosa mossa produca un movimento continuo, ma un tale movimento è prodotto soltanto dall’immobile. (4) Infine si dimostra che il motore immobile non ha grandezza: infatti, se l’avesse, sarebbe o finito o infinito; ma si è già provato che (a) una grandezza infinita non esiste; (b) una cosa finita non può avere una potenza infinita; (c) niente può essere mosso da qualcosa di finito per un tempo infinito; ne consegue che il primo motore, poiché muove con un movimento eterno e per un tempo infinito, è necessariamente indivisibile, cioè privo di parti, ossia senza grandezza.

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INDICI

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INDICE DEI NOMI DI PERSONA PRESENTI NELL’INTRODUZIONE E NELLE NOTE

A Abbagnano N., 100, 107. Ackrill J. L., 107. Aezio, 194, 226. Agostino, santo, 99. Alessandro d’Afrodisia, 56, 134, 363. Allan D. L., 107. Alien R. E., 123. Anassagora 10, 25, 26, 31, 56, 59, 74, 134, 170, 177, 178, 181, 319, 342, 401, 404, 408, 411, 418, 453, 454 Anassarco, 194. Anassimandro, 194, 197, 207, 230, 341, 348. A