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Italian Pages 82 Year 2010
Cornelio Fabro Opere Complete Volume 10 Dio Introduzione al problema teologico a cura di Marcelo Lattanzio
Avvertenza La ricerca di Dio è il segno più autentico della vita dello spirito perché rispetto a Dio ogni epoca della storia dell’umanità, le singole civiltà e le stesse coscienze singole si specchiano come nella misura del proprio rapporto all’Assoluto. E si tratta di un rapporto stranamente dialettico, perché attestano Dio non solo i credenti in Lui, ma anche quanti lo negano caparbiamente perché l’ostinazione che li rode e la protervia che li fa persecutori ad oltranza sono ancora una testimonianza di Dio di cui non si vuol tollerare la presenza. L’ateismo, dopo l’avvento del Cristianesimo che ha elevato l’uomo a figlio adottivo di Dio, ha un significato teologico che non aveva nell’antichità, perché contiene il rifiuto della propria salvezza generosamente garantita ed offerta. L’agnosticismo, imperante nelle scuole della fine del secolo scorso, oggi è passato nella vita delle classi medie che aborriscono il materialismo dialettico marxista perché si teme la perdita dei privilegi acquisiti; e insieme non si ha l’animo di decidersi per una religiosità senza infingimenti, il cui posto è preso dalla cultura, dalla tecnica, dal «divertissement» dell’ora che fugge. E il numero degli autentici cercatori di Dio si assottiglia sempre più in questa civiltà dannata che rende l’uomo estraneo a se stesso. Le pagine che seguono vogliono essere un itinerario elementare per questa mèta suprema: dalle strutture di quelle negazioni e oscillazioni, dalle genuine affermazioni della scienza e della cultura, dal ritmo più profon|do del pensiero e dell’esperienza, trarre quell’affermazione dell’esistenza dell’Assoluto, della Sua presenza nella natura, nella storia e nella coscienza dei singoli senza la quale l’essere sprofonda nell’insignificanza del nulla. Perché è a questa alternativa che oggi resta sospesa, in una imminenza che sa di catastrofe, la libertà di vivere e di sentirsi qualcosa nel destino dell’essere per la salvezza dell’uomo. L’ Autore Roma, 13 maggio 1953.|
Introduzione 1. Il problema di Dio e la coscienza umana Quel che anzitutto sorprende nello studio del problema di Dio è il carattere propriamente – vorrei dire «disperatamente» – dialettico e paradossale della sua ricerca, in tutti i suoi aspetti, nell’insieme come nelle singole parti. Tale paradossalità può essere espressa – almeno dal punto di vista che ispira questa mia modesta ricerca – coi termini di universalità e trascendenza, presi nel loro significato metafisico e antropologico o esistenziale che dir si voglia. Per «universalità» del problema di Dio, intendo ch’esso, tanto per la sua impostazione, quanto per la soluzione fa appello a tutte e a ciascuna delle forme della coscienza umana. Si vuol dire: a) che tale problema è accessibile «in qualche suo grado» a ognuna di tali forme, e insieme b) che nessuna di tali forme lo esaurisce da sola o può avocarselo interamente. L’uomo sia giovane, adolescente, maturo o vecchio; sia egli primitivo o evoluto, dedito all’attività pratica o alla ricerca scientifica; sia un artista, uomo di cultura o fornito di rigorosa mentalità filosofica...: il problema di Dio, dico, lo segue e lo raggiunge dovunque con la sua «richiesta». A qualunque categoria o classe sociale l’uomo appartenga e qual si sia il suo grado di cultura, il problema di Dio è inevitabile e la sua urgenza non muta per mutar di secoli e di eventi. Benché di tutti i problemi quello di Dio sia il più arduo e complesso, esso coesiste a tutte le| forme delle coscienze, anche alle più rozze e primitive; e quel ch’è più strano esso non si presenta in una rigorosa successione ascendente di chiarezza concettuale quasi che la filosofia ne rappresenti assolutamente il fastigio e la coscienza immediata un semplice fioco barlume che svanisce come inessenziale all’apparire del pensiero riflesso. No: i vari significati non son da dire tanto significati «vari» e «diversi», quanto aspetti, prospettive e tentativi di un unico movimento dello spirito umano. Essi sono destinati non a superarsi in successione ascendente (come p. es. le forme delle coscienze che portano, nella Fenomenologia di Hegel, all’assolutezza esclusiva del Begriff astratto), quanto a integrarsi l’un altro e a intensificare, per una forma di «convergenza intenzionale», il bisogno che l’uomo sente di Dio per la comprensione del suo stesso essere come di quello del mondo. Voglio dire, ed a questo si riduce essenzialmente la «universalità» di cui parlo, che il problema di Dio e il corrispondente atteggiamento dell’uomo, non hanno un significato solamente e semplicemente «conclusivo», ma è desso in un certo senso anche «costitutivo» rispetto alla determinazione dell’essere stesso dell’uomo e del mondo. Ed è, credo, anche per questo che la storia delle civiltà umane e delle religioni di cui ci è venuta notizia, non corrisponde punto per punto alla storia della filosofia. Si sa infatti che la religione deve aver preceduto di lunghi secoli la filosofia, in forme ricche e non di rado anche elevate; è noto insieme che la religione trascende sempre la filosofia, sia quando la coscienza logica tenta i primi passi (fatti spesso sotto la guida della stessa religione e all’ombra dei templi), sia quando la filosofia si è proclamata suprema saggezza, decisa ad assorbire la stessa religione. Per «trascendenza» del problema religioso s’intende allora cotesta «inesauribilità» del momento teologico rispetto a tutte le forme della coscienza e della conoscenza, anche le più alte e universali come la filo|sofia, e la stessa teologia e la mistica...: anzi più ancora. Questo non significa che le sfere della coscienza e i gradi della conoscenza siano sullo stesso piano o restino indifferenti l’uno per l’altro: ciò porterebbe al simbolismo assoluto della conoscenza o all’Agnosticismo delle filosofie relativiste fino alla Chiffreschrift1 di Jaspers. Si vuol dire invece che il problema di Dio, in quanto non può formare l’oggetto esclusivo di alcuna scienza o conoscenza particolare, interessa l’intero settore della conoscenza e della coscienza in tutte le sue varie forme; trascende perciò ciascuna di esse, condizionandola «in qualche modo» al movimento e alle esigenze delle altre. Ma non basta. Questa «trascendenza scambievole», in un certo senso, in cui stanno i diversi settori della coscienza e le varie forme della conoscenza, fonda o piuttosto «rivela» una trascendenza di natura superiore rispetto all’intero settore conoscitivo come tale. Con ciò non si nega che l’insieme o l’organizzazione delle varie conoscenze nostre su Dio possa dare dei risultati positivi e anche superiori ad una semplice sommazione aritmetica, ma si afferma anzitutto che nella conoscenza di Dio il settore concettuale non è l’unico operante. C’è infatti anche il settore affettivo e tendenziale il quale non va tanto concepito in contrasto a quello conoscitivo quanto come stimolo, accompagnamento e sequela
del medesimo, e questo in funzione del conseguimento stesso dell’oggetto che deve dare all’anima il compimento e la quiete della sua perfezione. Voglio dire anzitutto che senza «inquietudine» del vero e aspirazione del bene, non c’è fame del vero, specialmente di quel Vero che sazia e ci fa riposare «come fera in lustra» (Par. IV, 127): quell’inquietudine, che a sua volta è pur stata preceduta dalla conoscenza. Ed ogni nuovo oggetto per alto che sia, anzi qualsiasi grado di conoscenza di Dio a| cui possa arrivare l’uomo nella sua esistenza terrestre, lungi dal placarne la sete, l’accende maggiormente quasi urgendo per un «passaggio al limite», per un trasferimento del nostro essere oltre i confini dell’umana coscienza e della sua possibilità. A questo modo, pur riconoscendo nella coscienza – come si deve riconoscere – la distinzione fra la sfera conoscitiva e affettiva e affermando la priorità e superiorità reale della prima sulla seconda, e restando insieme pacifico che l’uomo può avanzare fino alla «posizione» definitiva del problema di Dio, in quanto ogni posizione «laterale» o parziale urge per la posizione integrale: bisogna tuttavia anche confessare che lo spirito umano non è finora mai riuscito a dare da solo la «soluzione integrale» del problema stesso2. Così, benché il momento della Fede e della grazia resti per definizione fuori dell’essenza (natura) dell’uomo, esso non è affatto estraneo a quello dell’esistenza (dell’attuazione della sua libertà) in cui si opera la salvezza dell’uomo. La ragione infatti non è mai riuscita da sola a chiarire l’intima essenza del male e della libertà: i problemi della creazione e della Provvidenza, della libertà di Dio e dell’uomo e del loro rapporto, costituiscono la prova cruciale del concetto di Dio e che l’uomo da solo non può superare. Ma se la risposta ultima a quel tremendo «perché» non può venire dalla ragione, è ben sempre la ragione che addita il punto e indica il momento in cui bisogna «passar oltre» per salvarsi. E ciò appartiene alla «coscienza immediata» anzitutto, termine ch’è nel nostro assunto| evidentemente convenzionale. Per Hegel esso indica lo stadio della massima indeterminatezza della coscienza, l’affermazione astratta e vuota dei contenuti percettivi senz’alcuna forma di verità. Il suo oggetto è infatti il questo, qui, ora, quali son dati di atto in atto e che come ogni atto trova così ogni atto sommerge e fa «svanire»...3. Un senso questo del termine «immediato» che a Hegel faceva comodo per snocciolare la ponderosa dialettica e metter in atto l’impalcatura del «sistema» che aveva già in testa. Non v’è dubbio che c’è nel nostro sviluppo spirituale uno stadio di «coscienza immediata», ma in un senso molto diverso da quello hegeliano. Basteranno alcuni accenni elementari, per introdurre la nostra ricerca e determinarne il senso. «Coscienza», all’inizio di questa ricerca, ha un significato vasto, in prevalenza fenomenologico e non psicologico rigoroso (come atto e facoltà), né ancora espressamente metafisico. Per «coscienza» non s’intende né una particolare attività o facoltà e tanto meno un principio autonomo di essere e di agire: «coscienza» è quel che tutti intendono quando si dice «aver coscienza» o «esser cosciente di qualche cosa...» od anche «esser coscienti di se stessi» specialmente quando si è svegli a differenza di quando si dorme o si perdono i sensi quando si dice appunto «perder la coscienza»! La «coscienza» è quindi la «condizione» fondamentale dell’uomo quando conosce, quando avverte gli oggetti e quando «progetta» le sue azioni e le compie. La «coscienza» è insomma caratterizzata dalla «presenza» degli oggetti al soggetto a cui corrisponde la presenza del soggetto ai medesimi oggetti, e questo sia come oggetto da conoscere soltanto oppure anche da conquistare e possedere effettivamente. è chiaro d’altra parte che| la presenza degli oggetti al soggetto, la «coscienza» dell’oggetto, non sarebbe possibile senza che il soggetto non fosse insieme presente a se stesso: sarebbe contradditorio da parte della coscienza avvertire la presenza dell’oggetto, senza «avvertire di avvertire» l’oggetto, avvertire cioè l’oggetto presente senza avvertire il suo atto che lo fa presente. E questo è tanto vero che è in funzione di questa coscienza di sé, ovvero della organizzazione interiore che la coscienza di ciascuno vien assumendo nel tempo, che si costruisce o diciam meglio cresce il sentimento della personalità di ognuno di noi. Senza entrare in disquisizioni psicanalitiche sulla natura e funzione dell’inconscio, possiamo dire che «coscienza» è chiarezza di conoscenza che può prolungarsi in consapevolezza di azione; è quindi il fattore primario nella nostra formazione spirituale in seno al quale sorgono tutti i problemi e sotto il cui stimolo anche si pongono tutte le soluzioni. Cotesta «situazione», che diciamo coscienza, non l’abbiamo avuta prima di nascere, mentre il nostro essere era in formazione; non sappiamo precisamente quando abbia cominciato (non certamente al primo momento della «nascita»), né sappiamo quando e come
finirà (alla morte): anzi vogliamo che non finisca perché aspettiamo l’immortalità. Possiamo quindi abbozzare qualche precisazione di terminologia. a) Si potrebbe anzitutto distinguere una coscienza dell’oggetto ed una coscienza del soggetto. Se non che sarebbe errato pensare che si tratti di «due» coscienze nettamente distinte, dato che, come si è visto, non c’è conoscenza di oggetto che non comporti necessariamente da parte del soggetto la coscienza di sé in atto di conoscere, cioè come «fatto presenza» di un oggetto. Però, oltre questa «coscienza concomitante» che il soggetto ha di sé in ogni atto di coscienza e non soltanto nella conoscenza, ogni uomo acquista col tempo una particolare e al tutto individuale coscienza e conoscenza del suo io, la quale rappresenta e costituisce funzionalmente| la personalità di ciascuno dal punto di vista fenomenologico. Questa coscienza pienamente consapevole quando si serve di una tecnica precisa, si potrebbe anche chiamare «coscienza riflessa» in quanto essa viene elaborando e vien crescendo per un continuo lavorio di ricerca e riflessione proporzionata alla natura dell’oggetto (il mondo, l’io, Dio...) che intende indagare. Con il termine invece di «coscienza immediata» credo si possano benissimo abbracciare ambedue gli aspetti o momenti di conoscenza, sia dell’oggetto come del soggetto, purché si prenda il termine «immediato» nel suo significato più ampio e senz’altro come ciò che è «non-scientifico», vale a dire non organizzato in un sistema definito di coerenze e conseguenze secondo principi, dimostrazioni e conclusioni. Ed è in questo senso che faccio rientrare nella «coscienza immediata» tipi e forme di coscienza, che sotto altri aspetti si differenziano notevolmente, come sono il bambino, il primitivo, e l’adulto o uomo comune dei paesi civili. b) La «coscienza riflessa» è allora equivalente alla conoscenza scientifica, che non si accontenta dei fatti come tali e della semplice «presenza» degli oggetti e del soggetto stesso, né delle strutture che prendono sia gli oggetti per il soggetto come il soggetto per se stesso coll’avanzare spontaneo dell’esperienza e della vita, ma ne cerca espressamente una giustificazione razionale, secondo schemi e processi logici. Chiamo allora «coscienza riflessa di primo grado» la conoscenza che resta nell’ambito delle scienze particolari, che resta quindi legata ad un tipo determinato di apprensione della realtà, qualunque sia il metodo impiegato: l’osservazione sperimentale, l’introspezione, l’analisi matematica con tutte le varietà dell’induzione e della deduzione sia nelle scienze della natura come in quelle dello spirito. Chiamo «coscienza riflessa di secondo grado», la conoscenza che si propone di abbracciare l’essere come tale, non più quindi limitato a un dato tipo di essenza, ma considerato| nell’intero suo complesso; è la coscienza che dei diversi esseri come anche dello stesso soggetto cerca gli ultimi principi e la prima origine per determinarne la consistenza ontologica e l’ultimo destino. È quindi costituita dalla filosofia e particolarmente dalla metafisica. Per la nostra ricerca possono bastare questi accenni che credo non possano sollevare controversie di principio. Soltanto sarà opportuno ancora osservare che indicando la «situazione fenomenologica» della metafisica come «coscienza riflessa di secondo grado», ciò non comporta alcuna dipendenza diretta e immediata della metafisica, almeno in linea di massima, dalla coscienza riflessa di primo grado cioè della scienza, quasi che la metafisica abbia per «unico necessario» presupposto la scienza o qualche particolare tipo di scienza. Ma la metafisica neppure si attacca o deriva direttamente dalla «coscienza immediata»: la metafisica si rapporta a tutto il campo dell’essere oggettivo e soggettivo, e abbraccia quindi la situazione del mondo come quella dell’io come i due settori complementari del panorama complessivo dell’essere. Possiamo ora ritornare al nostro pensiero iniziale e dichiarare che il «momento teologico» ovvero religioso, non appartiene in modo esclusivo a nessuna di queste forme di coscienza, né alla coscienza immediata che sembra il «luogo» preferito della religione dov’essa mostra le sue forme più vistose; e neppure alla metafisica a cui d’altronde sembra demandata la dimostrazione e la concezione definitiva dell’Assoluto. Perché, se non vogliamo annientare l’essenza stessa del problema, dobbiamo riconoscere espressamente l’universalità e la trascendenza del problema teologico, vale a dire dobbiamo ammettere che il problema di Dio e della religione è il problema, come dice l’Eucken, «di tutto l’uomo» (des ganzen Menschen)4.| Si vuol dire che l’uomo è religioso in quanto uomo; com’è sociale, tecnico e artista..., nel senso ampio di questi termini... Anzi il momento religioso è ancor più intimamente legato al suo essere, a quella che può dirsi l’organizzazione e la maturazione della sua coscienza, di qualsiasi altro momento.
Sembra allora che possiamo con ogni rigore chiamare il problema teologico «il problema essenziale dell’uomo essenziale»: sarà alla luce di questa formula che intraprenderemo l’esame delle varie forme di coscienza ora indicate.
2. Dio nella coscienza infantile Sembrerebbe che il metodo migliore per rintracciare la «genesi dell’idea di Dio» nella coscienza umana, fosse appunto il metodo genetico, di osservare cioè quella genesi nella forma più semplice di coscienza e alla luce dei principi più ovvi. Il Razionalismo e l’Illuminismo moderno hanno accettato il principio associazionalista; l’uomo sviluppa il suo conoscere muovendo dai contenuti più semplici delle qualità sensoriali e salendo con complicati processi di associazione ai concetti più elevati. Poiché il concetto più elevato è indubbiamente quello di Dio, esso non può esser presente nella prima età ed esige nell’uomo il pieno esercizio del pensiero logico astratto. Quindi è perfettamente inutile, anzi può riuscire dannoso, iniziare il bambino alla religione, alle sue verità e ai suoi doveri; fatto grande, egli penserà per suo conto a risolvere il problema supremo dell’esistenza. In questo senso si spiega il vivo interesse dell’Illuminismo settecentesco per l’uomo primitivo, che può sviluppare la sua vita nell’armoniosa libertà della natura e abbandonarsi all’immediato dispiegamento dei suoi impulsi senza la pressione delle idee e dei costumi di una civiltà raffinata ed ipocrita. Ed è questo| «ritorno alla natura» che forma lo sfondo «umanista», per dir così, dell’«Emile» del Rousseau, nel quale l’ingenuità razionalista della tesi è almeno pari all’innegabile abilità dello scrittore. Quanto ai «primitivi»5 oggi possiamo dire che se «primitivo» in senso assoluto non lo è e non può esserlo nessuno dei popoli attualmente esistenti, tuttavia l’etnologia ha mostrato che alcuni popoli sono più «primitivi» di altri e che tali popoli sono ben lungi dal trovarsi in quella beata condizione di naturalismo e di ateismo affermata dalla tesi illuminista e evoluzionista. Nei popoli poi di cultura più evoluta l’ambiente ideologico del soggetto singolo ed il suo comportamento pratico subiscono gli influssi sociali, stanno sotto la «tirannia» del gruppo, in proporzioni senza confronto maggiori di noi civilizzati, perché nel primitivo il pensiero logico resta ancora troppo inceppato, e non dispone sempre di forze sufficienti per controllare le pressioni del suo ambiente. La tesi illuminista in ambedue i casi ha fallito completamente6. Non miglior esito ha avuto la tesi illuminista quanto alla psiche infantile. Certamente non è facile rilevare con assoluta precisione il contenuto esatto delle idee del bambino, ma è doveroso comunque impostare esattamente il nostro problema per non imporre al corso logico del bambino un binario che non è il suo. Anzitutto non bisogna dal bambino esigere troppo, pretendere cioè da lui un concetto teologico di Dio rifinito e com|pleto sotto tutti gli aspetti. Evidentemente un concetto simile nel bambino non c’è; ma ciò non prova nulla, perché quanti sono anche fra gli adulti che arrivano a quel concetto? Bisogna quindi accostarsi al bambino, tenendo presente ch’egli è certamente uomo ma ricordando insieme che il suo pensiero è tutto immerso nella immediatezza e che per lui i rapporti logici sono anzitutto rapporti d’interessi vitali e si muovono nel campo delle rappresentazioni a lui familiari. Soltanto che non bisogna confondere neanche nel bambino l’idea con la sua immagine: l’immagine è una veste, un aiuto del concetto, non il suo vero contenuto. Il bambino, per averlo sentito raccontare tante volte, si rappresenterà p. es. Dio come un vecchio con la barba bianca...: voler concludere da ciò che il bambino manca del vero concetto di Dio, è da psicologi poco perspicaci, perché bisogna vedere se per il bambino tutto finisce con quell’immagine e bisogna poi rendersi conto del posto che occupa l’idea di Dio nella vita del bambino, nel sentimento di responsabilità delle sue azioni. Gli studi, pur così ricchi e meticolosi del marxista Wallon come del Piaget e della sua scuola sul formarsi della psiche infantile, soffrono di questa angustia di visuale. Una formazione spontanea dell’idea di Dio nel bambino è certamente rarissima. Si danno però dei casi di ciechi, di sordo-muti e perfino di sordi-ciechi-muti i quali si son formati un concetto di Dio ben consistente dal punto di vista logico quanto quello degli individui normali: basti ricordare il caso notissimo di Helen Keller sordacieca-muta che arrivò ad un notevole livello di cultura servendosi del solo senso del tatto. Fra «i ricordi più cari» della sua vita, essa ci dice nell’autobiografia, è la sua formazione religiosa (protestante) dovuta a due eccellenti persone, alla signorina Sullivan la sua principale educatrice per i primi concetti su Dio e
sul suo amore per gli uomini, e al vescovo Broocks per la verità più complessa. «Due grandi idee mi colpirono,| essa scrive: che Iddio sia nostro Padre e che gli uomini sian tutti fratelli... Dio è l’amore, Dio è nostro Padre, noi siamo suoi figli; allora le nubi più oscure svanirono una volta per sempre, ed anche se il diritto potrà esser conculcato, il torto tuttavia per questo non trionferà»7. Una formazione spontanea dell’idea di Dio, qualora fosse possibile realizzarne le condizioni sperimentali, non differirebbe essenzialmente dalla formazione sociale se non per il tempo impiegato, e forse – anche in questo – meno di quanto si possa credere. L’uomo, comunque viva e dovunque sia, è un «animal curiosum» che cerca sempre una ragione di quel che sente dentro e fuori di sé. La vita dell’infanzia è tutta pervasa di questa «curiosità» metafisica che non lascia mai quieto il bambino e quelli che vivono con lui. Parlargli di Dio non è allora affatto un espediente cabalistico o fantastico ma è un aiutarlo a trovare l’ultimo «perché» dei problemi senza fine ch’egli si pone tanto per il mondo come per gli uomini. Il fatto che ci debba essere Uno che ha formato il mondo e ne sia il padrone, Uno che premia i buoni e punisce i cattivi..., sono concetti questi ch’egli afferra benissimo e che non incontrano resistenza alcuna nella sua coscienza. La «meraviglia», di cui parlano Platone e Aristotele come della divina scintilla del filosofare, è presente all’uomo fin dai primi passi della vita spirituale e spinge anche il bambino alla ricerca dell’Assoluto per vie che le buone mamme e le brave educatrici cristiane conoscono assai più a fondo e che sanno percorrere molto più lestamente della pedagogia scientifica. «La fede in Dio, ha dichiarato già il Pestalozzi, non è conclusione o risultato di una sapienza erudita, ma è il senso puro della semplicità, è l’orecchio in ascolto dell’innocenza alla voce della natura che Dio| è il Padre»8. La realtà è, per paradossale che possa apparire, che il bambino è più sensibile all’ideale della perfezione pura, alla bellezza, alla bontà, alla perfezione, che non alla stessa realtà sensibile così che l’idea di Dio non costituisce per lui affatto un’intrusione prematura ma è il coronamento dell’aspirazione più profonda dell’anima semplicetta che fa i primi passi verso la verità. So che a questa posizione si posson fare un nugolo di obbiezioni, ma esse partono o da «principi» sistematici o da osservazioni frettolose: vengono da chi insomma scambia la semplicità dell’infanzia con una specie di animalità sia pur graziosa e attraente, invece di vedervi l’uomo in boccio e trattarlo come tale9. Si fa un gran torto all’anima del fanciullo quando, invece di aiutarlo a entrare negli oggetti reali della vita e nei rapporti concreti, gli si riempie il cervello di corbellerie facendolo navigare nel mondo più inverosimile dell’orrido e del meraviglioso. Con tutto quel guazzabuglio di maghi, di streghe e di orchi che mangian bambini come polpette..., il piccino rischia di soffrir incubi senz’alcuno scopo. Ed anche con le fate, per belle e buone che siano, non bisogna esagerare: non bisogna cioè creare delle sostituzioni inutili e peggio sconvenienti di quelle altre vere realtà ben più benefiche e attraenti che sono anche| più accessibili al bambino. E fra questi la prima è senza dubbio Dio. L’idea di Dio nel bambino, come tutte le sue idee, avrà il suo lato bambinesco, presenterà una certa rappresentazione ingenua della divinità: p. es. quella già ricordata di un buon vecchio dalla barba bianca, come s’è detto. Ma la nozione del bambino non finisce qui: anche senza barba, anche quando gli si dice che Dio non ha corpo, Dio resta Dio. Dobbiamo ad H. Clavier alcuni risultati concreti in materia. La piccola Andreina appena fece la scoperta che Dio è spirito puro, ne fu certamente un po’ sconcertata, ma si limitò a sospirare non senza una malizietta tutta femminile: «Pazienza! Peccato, perché sarebbe stato così bello...: un vecchio con una bella barba bianca!»10. Ma è rimasta forse la piccola turbata per questo nella sua fede? Niente autorizza ad affermarlo. Ha semplicemente concluso che questo Dio in cui lei crede, non ha la barba com’essa supponeva: anche senza barba questo Dio resta essenzialmente lo stesso Essere supremo ch’essa prima credeva e continua tuttavia a credere. Se pertanto la sua nozione di Dio non svanisce, anzi resta immutata nella sostanza, dopo esser stata spogliata della bella barba bianca, ciò è perché essa era già essenzialmente altra cosa da| quest’attributo del tutto esteriore e attinto all’immaginativa religiosa corrente11. Per la maggior parte di noi il primo contatto con l’Invisibile, col Trascendente, è stato con la «preghiera». 1) La preghiera può riuscir difficile per l’adulto, non pel bambino che concepisce facilmente l’Invisibile e i contatti a distanza (fiaba, mito): Dio, gli Angeli e i Santi, di cui sente parlare come incarnazioni della potenza e della bontà, egli non sente alcuna difficoltà ad accettarli per reali. Ma fin da
questo momento c’è nell’idea infantile di Dio qualcosa che la distingue dalle finzioni. Cerchiamo di seguirne le tappe di sviluppo. 2) Cioè, ormai Dio per il bambino non è soltanto l’Invisibile, come nella favola di Psiche: l’Inaccessibile che lo vede e intende la sua preghiera. Dio è invece Qualcuno, un vivente, una Persona – il bambino questo lo intuisce da sé senza filtro di ragionamenti. E quel ch’è importante, e che potrebbe far giustizia delle teorie razionaliste sulla religione, tale nozione non è affatto sostenuta o provocata nel bambino da paura e neppure dal concetto della morte che viene molto dopo per la mentalità infantile. Si potrebbe dire che l’illazione di Dio nel bambino segue il tragitto diretto, dal positivo (finito) al positivo (infinito) senza passare attraverso il| momento dialettico del negativo, della conoscenza riflessa della insufficienza e contingenza del finito, come fa l’adulto e specialmente la filosofia. Dio entra a far parte del mondo del bambino senza incontrare difficoltà od opposizioni come un momento od un elemento indispensabile di questo stesso mondo. 3) Per il bambino infatti Dio è Qualcuno che l’ascolta con bontà. Il sentimento che qui entra in gioco è l’affetto, l’amore, il bisogno cioè che il bambino sente di una benevolenza superiore a quella dei genitori ed anche, e di conseguenza, il riguardo da parte del bambino di piacere a Chi è sopra ai genitori e da cui viene ogni bontà. Dio sta quindi al colmo della scala delle persone: perché vede e intende come una persona, perché vede e conosce tutto senza che nessuno glielo dica. Earl Barnes, citato dal Clavier, parla di bambini di 3-4 anni che affermavano senza riserva l’onniscienza divina e riporta un dialogo della piccola Gretschen col coetaneo Hans: «È vero che il buon Dio può veder tutto? – Sì, lo può. – Può allora guardare attraverso la porta? – Sì, naturalmente. – Può allora guardare attraverso i grossi muri e le pietre? – Sì, lo può dappertutto. – Può anche vedere attraverso la porta dell’armadio? del mio piccolo armadio dove tengo le bambole...? – Sì, sì; lo può. – Però Hans io credo che è attraverso il vetro che Dio vede meglio». Quindi per questi bambini Dio vede tutto, ma quasi con occhi ancora materiali; ciò che del resto non deve sorprendere data la difficoltà che il concetto del puro spirituale ha presentato per gli stessi filosofi. Il concetto di «spirito», secondo le ricerche della Fargues, comincia a farsi solo nella seconda infanzia (da 6-7 a 11-12 anni), ma esso non è affatto essenziale dal punto di vista fenomenologico, benché lo sia da quello della metafisica. È stato anche osservato che in un primo tempo, la spiritualità vien riservata a Dio, come nella risposta di quella bambina alla mamma che| le parlava dell’Angelo custode, puro spirito senza corpo: «Mamma, è impossibile perché non l’ho mai visto!». 4) Il bambino può arrivare perfino al concetto di Dio creatore. James Sully riporta l’osservazione di un bambino di 3 anni e 10 mesi certamente eccezionale: «Mamma, quelli operai sono dèi? – E perché? – Perché costruiscono case e templi, come Dio fa la luna e i cagnolini!». Così il nucleo centrale del concetto di Dio come creatore, conservatore del mondo, Provvidenza e fonte di ogni bene per gli uomini, ed anche i concetti di eternità, d’infinita perfezione e onnipotenza possono molto per tempo farsi presenti all’anima infantile12. Interessante la domanda di un bambino di 3 anni alla mamma; giunto al sommo della scala, esclamò: «Ma’, se ho salito la scala, potrebbe Dio fare ch’io non l’abbia salita?». Una domanda, come si vede, di notevole ardimento metafisico e in contrasto il più stridente con tanta scipita e dolciastra letteratura infantile. Si può quindi concludere (contro il Piaget e la pedagogia materialista e idealista) che il bambino accetta le verità religiose anche di ordine soprannaturale, purché non sembrino contradditorie. Le oscillazioni del suo pensiero e gli errori formali sono comprensibili perché il bambino, per il suo ristretto orizzonte rappresentativo e l’instabilità della coscienza che si viene organizzando, non è ancora in grado di comprendere tutte le conseguenze di un principio. Così p. es., anche dopo che ha afferrato che Dio è spirito, il bambino continua a rappresentarselo: ma non fanno così anche gli adulti e non fanno spesso altrettanto anche i filosofi? La stessa Sacra Scrittura, specialmente nel Vecchio Testamento nel qua|le il concetto della più assoluta trascendenza è accentuato alla massima potenza, non abbonda forse di rappresentazioni e «teofanie» sensibili della divinità? Il «mito», nella sua esigenza essenziale, può essere un espediente ausiliare della conoscenza come «fonte di passaggio» dal visibile all’invisibile ovvero come espressione sensibile e «simbolo» della trascendenza. L’arte cristiana non ha indietreggiato neppure di fronte ai dogmi più ardui, compreso quello più ineffabile di tutti la Santissima Trinità: nessun artista, neppure il Dürer con la sua stupenda raffigurazione del supremo mistero ha preteso di esprimere
l’essenza, ma soltanto di tradurre in modo visibile la formula della Fede che ci parla del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Altrettanto per le verità fondamentali della teologia naturale fa il bambino, ch’è il primo artista dell’umanità. Riassumendo questi accenni di fenomenologia della religione nell’infanzia, possiamo considerare come risultati acquisiti: a) la precocità del problema di Dio; b) il suo significato positivo per la coscienza infantile; c) il suo carattere schiettamente conoscitivo, anzi metafisico in certi momenti, e non quindi irrazionale o puramente affettivo o derivato come vogliono l’idealismo, il positivismo e tutte le scuole che tengono la religione per un momento inferiore; d) la sua connessione con il problema della persona (responsabilità). Questi primi risultati suggeriscono la conclusione che il problema di Dio è il problema dell’«uomo intero» in senso forte, cioè di tutte le età, razze, culture e civiltà. Si vuol dire che in ogni età, civiltà ecc. nell’uso della ragione l’uomo incontra il problema di Dio ed è in grado di dare al medesimo una soluzione proporzionale al suo grado di sviluppo e di civiltà ma sempre soddisfacente. Potrà essere che l’ambiente familiare e sociale cerchino espressamente di tener lontano il bambino e l’uomo in genere dal problema teologico o ne turbino e confondano i termini, ma è molto difficile pen|sare che lo annullino completamente perché l’uomo ne porta la radice nell’intimo del suo spirito. Perché il problema di Dio, nel suo più profondo significato, coincide con quello della consistenza del nostro essere e costituisce la più autentica testimonianza della nostra spiritualità e non è senza ragione che nel bambino tale testimonianza abbia un carattere così sicuro e deciso ed una gioia di canto spiegato che non di rado la cosiddetta età matura e i belletti della scienza soffocano e deturpano.
3. Dio nella coscienza dell’uomo comune Il bambino richiama sotto molti aspetti l’uomo primitivo: quel ch’è il bambino nell’evoluzione individuale, sembra sia il primitivo nell’evoluzione dell’umanità; ne costituisce cioè il primo stadio dei contenuti più incerti e rudimentali. L’analogia potrebbe anche difendersi, non però nel senso dei positivisti e della Scuola sociologica che l’ha inventata, ma secondo il rovescio o il capovolgimento che tale tesi ha subito in questi ultimi decenni. Come ormai si ammette che i (veri) primitivi sono in possesso – non meno dei popoli civili – di un concetto assai puro di Dio e osservano i precetti fondamentali della morale naturale, si deve altrettanto dire del bambino rispetto all’adulto: il suo concetto di Dio, confrontato coi concetti che il bambino ha delle altre cose, è senza dubbio più completo e consistente, benché tale concetto dal punto di vista scientifico sembri e sia realmente più complesso ed abbia sempre i suoi lati tremendamente oscuri. Questo benefico paradosso, che scandalizza la filosofia e mette a duro cimento la teologia razionalista, si continua anche nell’«uomo comune», nell’adulto il quale, cresciuto in un ambiente moralmente sano, attende ai doveri urgenti della vita e non inciampa, salvo eccezioni, nei dubbi teologici. Questo non significa affatto che la teologia dell’adulto resti allo stadio infantile, ma si dice| soltanto che i problemi, arricchiti di tutta l’esperienza degli anni, conservano la trasparenza che avevano nella prima età. Le vicende liete e dolorose della vita non si sono contese la vittoria di una soluzione unilaterale, ma le une e le altre hanno confluito, per una misteriosa coincidenza, a radicare le buone convinzioni dell’infanzia. Le anime in crisi, le profonde scosse di coscienza che possono venire nella prima giovinezza o nella maturità sono eccezioni e possono avere le cause più disparate, dalle disfunzioni del sistema neuroendocrino, alle perversioni demoniache (le «crisi» di perversione); come anche possono indicare le vocazioni spirituali superiori (le «crisi» di conversione) e portare agli slanci mistici. Vediamo brevemente come la filosofia moderna prospetta il problema. 1. La maggior parte delle filosofie della religione, fiorite in questo ultimo secolo, s’ispirano ai metodi opposti13 di Hegel e del suo avversario Schleiermacher. La prospettiva hegeliana è la «chiarezza» del concetto, la pretesa di penetrare l’oggetto della religione, di esporne la struttura e l’inserzione nell’umana coscienza. È istruttiva al proposito questa pagina con cui si aprono le famose Vorlesungen di Berlino sulla religione (1821): «Il nostro oggetto è ciò che è semplicemente vero, ciò ch’è la stessa verità, la regione in cui son risolti tutti gli enigmi del mondo, tutte le contraddizioni del pensiero che scruta a fondo, tutti i
dolori del sentimento; è la regione della verità eterna e dell’eterna quiete, la stessa verità assoluta, l’assoluta soddisfazione. Ciò per cui l’uomo è uomo, per cui egli si distingue| dall’animale, è la coscienza (Bewusstsein), il pensiero in generale (der Gedanke ueberhaupt), più precisamente questo: ch’egli è spirito (Geist). Il punto dello spirito si espande in molteplici forme, e tutte le differenti scienze che da esso diramano, le arti e gli infiniti intrecci dei rapporti fra gli uomini, gli interessi della vita politica, usanze e costumi, attività e storicità, godimenti e tutto ciò che ha per noi valore e merita considerazione, che ci dà onore e soddisfazione, tutto ciò in cui l’uomo cerca la sua destinazione (Bestimmung), le sue virtù e la sua felicità, da cui l’arte e la scienza traggono il loro orgoglio e la loro fama, i rapporti che fanno capo alle sue libertà e alla sua volontà – tutto questo trova il suo ultimo punto di volta (Mittelpunkt) nella religione, nell’unico pensiero, nella coscienza, nel sentimento di Dio. Egli è il punto di partenza e il punto d’arrivo di tutto, da cui tutto prende il suo inizio ed a cui tutto ritorna...». «Poiché Dio così è il principio e il termine di ogni qualsiasi agire, cominciare e volere, allora tutti gli uomini e popoli hanno coscienza di Dio, della sostanza assoluta come verità che è la verità di se stesso»14. Evidentemente Hegel determina l’oggetto della filosofia della religione in funzione del «sistema» ch’egli tiene in testa, come risulta da tutto quel che segue e che riempie ben tre grossi volumi. Se la religione è il punto di convergenza di tutte le scienze ed arti, essa a sua volta sottostà alla determinazione o riduzione definitiva riservata alla filosofia nella quale Dio appare come lo Spirito assoluto, la sostanza e la verità unica e assoluta in cui si risolve e dissolve quanto nei due mondi, della materia e dello spirito, si squaderna. Ed allora la Religione stessa si risolve in una «introduzione alla| filosofia», perché la filosofia – per Hegel – è pensiero assoluto dell’Assoluto che non ammette dentro di sé introduzione alcuna (contro Kant). Così la filosofia determina anzitutto, non i comportamenti noetici e pratici del soggetto, «ma l’Eterno, l’Infinito, com’è determinato in se stesso, cioè l’ “In-sé-per-sé” (Anundfuersich), ma lo conosce come il mio sì, la mia riflessione, autocoscienza (Selbstbewusstsein), come mia libertà, come assoluta oggettività e soggettività»15. È chiaro che per Hegel: a) la religione è prospettata nel solo ambito della conoscenza; b) essa rappresenta la forma di unificazione dell’oggetto non ancora perfettamente compiuta; l’oggetto resta ancora legato al particolare così che – a tirar le somme degli interminabili arzigogoli di Hegel – la religione sta per lui ancora sotto la dualità di universale e particolare che la filosofia invece supera elevandosi al puro speculativo. «La religione, dice Hegel più avanti, è la coscienza del vero in sé e per sé. La filosofia è la sua determinazione (Bestimmung) secondo questa coscienza dell’Idea, e il suo compito è di concepir tutto come Idea. Ma l’Idea è il vero nel pensiero, non nell’intuizione o rappresentazione (dove si trova diviso e non ancora unificato come verità degli opposti)... La religione è ora proprio il punto di partenza della coscienza del vero... Ma questo vero che semplicemente determina se stesso è (nella religione) soltanto come quell’idea, quella rappresentazione». Hegel chiama l’oggetto della religione «questo speculativo» (dies Spekulative), dove il «questo» ha valore strettamente formale e indica l’inferiorità essenziale della religione rispetto alla filosofia: «La religione stessa come tale è ora come questo speculativo: essa è lo speculativo per così dire come stato della co|scienza. Ma essa il suo oggetto, e tutto quel che ha, lo ha nelle forme concrete della rappresentazione, Dio e comunità, culto; assoluta oggettività e assoluta soggettività; qui si manifesta il concetto della religione. I due momenti nel suo concetto di opposizione sono: assoluta universalità, pensiero puro e assoluta singolarità, sensazione»16. Una volta concepita la religione in forma di semplice conoscenza e la conoscenza come immanenza, la posizione hegeliana non fa una grinza: in essa tutte le forme del conoscere si dispongono in progressione scalate a seconda del rispettivo staccarsi dalla sensazione e rappresentazione, che per Hegel costituiscono il modo di conoscere più vuoto e indeterminato, fino alla perfetta unità dello speculativo ch’è propria della filosofia. Anche nello stadio inferiore della religione l’uomo non cerca altro, secondo Hegel, che l’unità dell’oggetto, del vero, con se stesso; esso cerca soltanto una «spiegazione» dell’essere universale e non la salvezza del «suo» essere. Hegel ha tratto, con ostinazione teutonica, tutte le conseguenze logiche di questa sua Einstellung dell’essere dell’uomo, a cui son rimasti fedeli non solo gli Hegeliani di tutte le direzioni fino a Croce e a Gentile, ma la maggioranza dei cultori di filosofia religiosa delle più varie tendenze liberali, ed è perciò il principale responsabile della «laicità»
della cultura moderna e contemporanea. La stessa critica di Feuerbach e di Marx alla religione ha il suo punto di partenza nella posizione hegeliana, nel suo «teologismo antropologico» come ha detto appunto Feuerbach17. Ma la religione di Hegel è quella di un «Herr Professor», non quella dell’«uomo comune».| 2. All’assolutismo hegeliano del «logos» puro, della razionalità, fa netto contrasto l’assolutismo del sentimento del teologo Schleiermacher. Intendo esporre, sia pur per sommi capi, questa celeberrima teoria che riappare in modo originale nel Fries ed è stata rinnovata, ai nostri giorni, in un’originale sintesi di entrambi, da Rudolf Otto nel fortunato saggio Das Heilige e nelle opere complementari. Come in Hegel trionfa l’impulso dell’anima germanica di prevedere il «Tutto», così in Schleiermacher emerge l’elemento mistico e irrazionale dei popoli nordici, quell’abbandono di sé ai richiami primitivi della natura e la brama di raggiungere l’Assoluto al di là del concetto e del discorso. Sintomatico sotto questo aspetto è il fatto che Schleiermacher – a differenza di Hegel – si occupa quasi esclusivamente di determinare l’essenza della religione, non nomina quasi mai il nome di Dio e tanto meno si preoccupa della sua esistenza e natura. Un altro carattere differenziale fra i due fieri antagonisti è che mentre Hegel cerca l’Assoluto a traverso le pieghe della riflessione, col movimento dialettico dell’interiorità, Schleiermacher trova il contatto con l’Assoluto nella contemplazione dell’universo; la religione poi, l’atteggiamento religioso, ha per ambiente l’immediatezza e per strumento conoscitivo l’intuizione, che però negli ultimi scritti è lasciata quasi da parte. Ecco i capisaldi della seconda delle Reden ueber die Religion che tratta dell’essenza della religione. La religione non è metafisica (scienza), né morale (agire pratico) e neppure una mescolanza di ambedue. Essa è «senso e gusto per l’Infinito», «venerazione di fronte all’Universo», «nostalgia per l’universo», «intuizione (Anschauung) dell’universo». Ciò che opera qui è l’universo, l’uomo è completamente passivo (egli è colpito, prova, sente...). Ma subito ecco che però diventa attivo: nel sentimento (Gefühl) religioso. Così intuizione (momento conoscitivo passivo) e sentimento (momento affettivo passivo) sono in questa concezione gli elementi| fondamentali per una ricerca scientifica dell’essenza della religione. Lasciando cadere negli ultimi scritti il momento dell’intuizione, la religione si concentra tutta sul sentimento che prende un carattere di completa passività. L’essenza della religione è così fatta consistere nel «semplice sentimento di dipendenza» o nel «sentimento di dipendenza da Dio» (Abhängigkeitsgefühl von Gott)18. Nelle Reden è detto che la religione come intuizione si può accendere in tutto: nella natura (la sua regolarità e pienezza), nell’umanità (con la sua storia essa forma la materia preferita della religione)19, nel mondo spirituale che ci sovrasta e di cui l’uomo ha soltanto un presentimento (Ahnung: il termine che farà tanta fortuna con Fries), infine nel proprio Io. Il sentimento religioso, continua Schleiermacher, si esplica come umiltà, amore, riconoscenza, compassione, pentimento... Questi e sentimenti consimili hanno nella religione, e non nella morale, la propria patria, è la religione soltanto che li può produrre e la pietà (Frömmigkeit) ne costituisce la sintesi. I dogmi appartengono alla religione solo in quanto essa deve avere, oltre l’intuizione e il sentimento, anche concetti. Essi sono particolarmente necessari per le persone colte, come miracolo, rivelazione, ispirazione, grazie ed esperienze soprannaturali. La religione è possibile soltanto come qualcosa di personale: i «mediatori» intermediari (Mittler) sono necessari solo per il principio. E, quel che più| sorprende ma che armonizza col principio ispiratore della teoria, il problema di Dio e dell’immortalità esulano per sé dall’essenza della religione. E quel ch’è più sconcertante si è che Dio porta quasi sempre l’appellativo di «spirito del mondo» (Weltgeist). Ma il colmo di questo soggettivismo «cosmologico», per così dire, è nel giudizio sulla Sacra Scrittura: «Ogni Sacra Scrittura è solo un mausoleo della religione, un monumento per ricordare che ivi era un grande spirito ma ora non c’è più... Non ha religione colui che crede in una Sacra Scrittura ma chi non ne abbisogna di alcuna e può farsene una per conto suo»20. E per finire: «Questo è il mio pensiero su quest’argomento. Dio non è tutto nella religione, ma un qualcosa (eins), e l’universo è di più: ancora, voi non potete credere in Lui di vostro arbitrio o perché ne avete bisogno per consolazione ed aiuto, ma perché lo dovete. L’immortalità non può essere un desiderio, se non è anzitutto divenuta un compito che voi avete risolto. Identificarsi nella finitezza coll’infinito ed esser eterni in un istante, questa è l’immortalità della religione»21.
Così, come in Hegel, il momento teologico ovvero della trascendenza e della personalità di Dio è fatto svanire nella Totalità razionale dello Spirito: così (anzi molto peggio, sotto l’aspetto noetico), esso abbandonato al tenue filo del sentimento, sprofonda nell’irrazionale. La religione e la pietà son confuse con un torbido commercio col mondo, con una romantica sensibilità, con un vuoto stupore dell’universo, in una specie di erotismo fisico dell’Assoluto. Un vecchio teorico della religione ha proposto di questa torbida teoria la seguente formula: «L’assoluta identità dell’identità e non iden|tità dell’Assoluto»22, definizione che è un autentico abracadabra ma che si trova quasi alla lettera in Schleiermacher. In termini più aderenti al problema si può dire che per S. la religione è «la determinatezza della autocoscienza immediata (eine Bestimmtheit des unmittelbaren Selbstbewusstseins) che si sente dipendente ovvero in rapporto a Dio». Ma siccome al centro di questa determinazione sta il solo sentimento e non Dio, non si sa come e perché Schleiermacher arrivi a Dio. La sua concezione del «divino» fa leva essenzialmente su quel tipo di «giudizio» intuitivo che Kant analizza nella Critica (del giudizio) e da lui è contrapposto come giudizio estetico al giudizio logico23. La posizione di Hegel invece fa rientrare il problema di Dio proprio in quel campo del pensiero puro teoretico da cui Kant l’aveva escluso con la prima Critica (della Ragion pura), in quanto per Hegel la «cosa in sé» è lo stesso pensiero e Dio è l’Assoluto del pensiero. Fra questi due tipi di soluzioni estreme la filosofia moderna ha fermentato forme senza numero di soluzioni intermedie, a cui accennerò nella parte storica ma che hanno per noi un interesse molto ridotto perché tali soluzioni sono germinate per reazione filosofica chiusa e non per un cosciente e consistente appello all’«uomo comune». L’uomo di Hegel, come puro pensiero, o quello di Schleiermacher come puro sentimento sono delle astrazioni, delle mostruosità irrealizzabili (per fortuna!) anche fra quelli che le hanno concepite, perché appena lo fossero, nell’istante l’uomo cesserebbe di esistere e di esser uomo, peggio che se fosse caduto nelle trasformazioni di Circe.| 3. Meno paradossale e più aderente allo spirito e alla lettera della seconda «Critica» kantiana (della Ragion pratica) è quella che si richiama all’esigenza morale, di cui si è fatto promotore specialmente il Le Roy. Egli non nega le altre vie sia del pensiero volgare, come della filosofia pura, ma sostiene il primato della «prova morale». «L’analisi intuisce, l’esame di coscienza rivela in noi una segreta esigenza in virtù della quale certi valori sono affermati come assoluti, che si impongono per diritto al disopra di ogni fatto. Noi sentiamo in essa che dobbiamo volere in una certa direzione, anche se constatiamo ch’è sempre possibile volere altrimenti»24. Ecco quindi le due caratteristiche della realtà morale: l’obbligazione e il valore, dovere e bene, in una prospettiva d’assoluto. La regola suprema abbraccia due momenti indissolubilmente uniti, e cioè: 1°) «Tale fine vale assolutamente, al di sopra di ogni altro qualunque sia e magari contro esso. 2°) Questo fine dev’essere voluto assolutamente, qualunque possa essere il successo pratico e dovessimo anche soccombere»25. Il Dio veramente consistente per la vita dell’uomo e questo “Dio morale”: «conosciuto per esperienza di vita interiore, col quale si cerca di entrare in comunione di vita spirituale; che è sostegno del dovere e dispensatore della grazia, centro di unità soprannaturale e mistica dove, nell’amore, si trova la liberazione dall’individualità»26. Il Le Roy è molto prodigo nelle sue spiegazioni a sostegno della tesi centrale che| «l’affermazione di Dio è quella del primato dell’esigenza morale»; quindi, secondo lui, «in tutti i tempi affermare l’esistenza di Dio ha avuto sempre questo senso che l’universo non è inerte, cieco, senz’anima; che la coscienza dell’uomo con l’esigenza della vita spirituale ch’essa porta con sé, non è senza eco più reale e più vero di essa stessa, non è senza fondamento e senza garanzia; che all’origine e al fondo di ogni esistenza si trova il medesimo principio e che questo principio è una volontà di bene infinito»27. La posizione del Le Roy è di ben altra natura dalle due precedenti ed effettivamente valorizza un aspetto, quello della vita e dell’esigenza morale, che sta al centro della vita dell’uomo. Il punto debole o la sua lacuna è nella sua gnoseologia, nella posizione immanentista, nell’aver affidato la prova di Dio all’intuizione che non conosce altro oggetto e appoggio che la trasparenza dello spirito: una posizione che se non resta estranea all’«uomo comune», comporta sempre una notevole capacità introspettiva. Posizione, ancora, che per aver senso deve pur spezzare il cerchio dell’immanenza e supporre il problema dell’«altro», del «tu» e degli «altri» e sulla loro scia anche il problema del mondo in cui essi ed
io ci muoviamo ed esplichiamo i nostri rapporti «davanti a Dio». La prova morale perciò ha bisogno, per farsi valere, del fondamento ontologico, senza di cui non si determina né si sostiene alcun rapporto. Il Le Roy è molto sbrigativo nel presentare l’«idea popolare» di Dio: ... antropomorfa, più o meno derivata dagli dèi primitivi, oggetto d’immaginazione collettiva, simbolo e fattore o piuttosto centro di unità sociale28. Così l’«uomo comune» resta l’eterno tradito| dalla filosofia: ma non è alla fine antropomorfo anche il Dio di Le Roy, fonte dei (nostri) valori e garante delle (nostre) obbligazioni? Chi gli ha detto che la sua aspirazione morale, presa nel suo isolamento, non possa fallire, dal momento che falliscono in un’esistenza tanti altri valori? La sua istanza, quando è conservata nel suo atteggiamento antimetafisico, o non prova nulla od è un lampante circolo vizioso. Concludendo: falliscono tutte quelle filosofie che «prospettano» il problema di Dio in una forma (contenuto, metodo, risultato...) inaccessibile all’«uomo comune» e che pretendono di «risolverlo» in funzione di esigenze parziali (la verità, la bellezza, la moralità, il valore...) invece che in funzione dell’essere e di tutto l’essere sia da parte dell’oggetto come del soggetto.| NOTE: 1 Cfr. K. Jaspers, Philosophie, Berlin 1932, t. III, p. 128 ss. 2 Si legga il c. 4 del libro I della Summa contra Gentiles dove S. Tommaso fa una specie di «filosofia della filosofia» e parla mirabilmente delle difficoltà che incontra l’uomo nella conoscenza del vero Dio. Secondo il S. Dottore: «... nonnisi cum magno labore studii ad praedictae veritatis (= esistenza e natura di Dio) perveniri potest»..., vix, post longum tempus..., e in questa ricerca «plerumque falsitas admiscetur». 3 Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. ital., Firenze 1933, t. I, p. 83 ss. Cfr. C. Fabro, Hegel, in «Enc. Cattolica», t. VI, col. 1387 ss. 4 R. Eucken, Hauptprobleme der Religionsphilosophie der Gegenwart, 4-5 ed., Berlin 1912, p. 5. 5 Sulla concezione di Dio nei primitivi, il P. Schmidt con la sua scuola ha capovolto la tesi positivista del Lévy-Bruhl, rivendicando per gli autentici primitivi un rigoroso monoteismo e una severa moralità naturale. Cfr. G. Schmidt, L’anima dei primitivi, Roma, Studium, 1931. 6 Per una presentazione complessiva della controversia, v.: B. Bernardi, La religione dei primitivi, in «Le religioni del mondo», Editore Coletti, Roma 1946, c. 1. 7 Helen Keller, Die Geschichte meines Lebens, tr. ted., Xa ed., Stuttgart s. d., p. 135 ss. 8 Apud: Jo. Volkelt, Religion and Schule, Coll. «Philosophische Zeitfragen», Leipzig 1919, p. 39. 9 Si obbietterà anche ch’io qui vedo il bambino con gli occhi dell’adulto e che gli attribuisco le idee e i sentimenti dell’adulto... Non nego che nell’atteggiamento qui adottato non si possa esagerare e cadere in uno sciatto formalismo che fa invecchiare il bambino anzi tempo. Ma l’esagerazione suppone una verità. E la verità conosciuta da tutti gli educatori che mirano a coltivare la vita spirituale del bambino, è ch’egli è capace di afferrare le idealità più alte: certamente a modo suo, col presentimento più che con la logica (beato lui!), ma ne è capace. 10 H. Clavier, L’idée de Dieu chez l’enfant, II éd., Paris 1926, p. 189 ss. Mi valgo del sostanzioso riassunto e delle integrazioni fatte recentemente da L. Barbier, La notion de Dieu chez l’enfant, in «Lumen vitae», II (1947), pp. 117-128. Cfr. anche G. Castiglioni, Ricerche e osservazioni sull’idea di Dio nel bambino, in «Contributi del laboratorio di Psicologia e Biologia dell’Univ. Catt.», S. III, Milano 1928, pp. 131-225. Un comprensivo riassunto dello stato attuale delle ricerche è al denso cap. Der Gottesgedanke bei Kindern und Jugendlichen, di W. Keilbach, Die Problematik der Religion, Paderborn 1936, pp. 70-103. Il K. dà un eccellente riassunto critico della bibliografia sull’argomento. 11 È opportuno osservare che non solo i fautori della corrente agostiniana ma lo stesso S. Tommaso accenna ad una conoscenza intellettuale immediata e confusa di Dio, implicata nella prima conoscenza dello ens in communi e delle sue proprietà, specie il vero e il bene; «Omnia cognoscentia cognoscunt implicite Deum in quolibet cognito. Sicut enim nihil habet rationem appetibilis nisi per similitudinem primae bonitatis, ita nihil est cognoscibile nisi per similitudinem primae veritatis» (De Ver., q. XXII, a. 2 ad 1). Non v’è dubbio che l’Angelico è molto guardingo. Del resto nel bambino l’intelligenza fa ormai le sue inferenze, certamente più in concreto che in astratto: ma anche Dio appartiene, come Padre comune dei viventi, alle inferenze concrete. Comprender questo non supera affatto la capacità del bambino. 12 Lo sviluppo quindi dell’idea infantile di Dio è un passaggio quasi dall’implicito all’esplicito, un processo di «chiarificazione» (Verdeutlichung), un «dispiegamento» come dice bene il Keilbach (Op. cit., p. 87). 13 Si tratta di opposizione di metodo e non di contenuto, Hegel con la mediazione del concetto, Schleiermacher con l’immediatezza del sentimento: perché quanto al contenuto ambedue finiscono nell’immanenza e nell’identità della «sostanza» spinoziana e quindi nel superamento di ogni religione che faccia appello a verità rivelate e a una Chiesa come organismo di verità visibile e storica. 14 Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, Erster Teil. Begriff der Religion, hsg. G. Lasson, Philos. Bibliothek Bd. 59, Leipzig 1925, p. 1 ss. (tr. nostra). 15 Hegel, Op. cit., p. 22. Nella traduzione ho omesso le integrazioni al testo manoscritto di H. introdotte dal Lasson, perché mi son parse superflue. 16 Hegel, Op. cit., p. 153 ss. Sulla concezione che Hegel ha di Dio, si dirà più avanti. 17 Cfr. il nostro: Tra Kierkegaard e Marx, Vallecchi, Firenze 1952, p. 93 ss. 18 Così nel suo: Der evangelische Glaube (La fede evangelica) del 1821, contemporaneo quindi delle Lezioni di Hegel sulla filosofia della religione. La battaglia fra i due rivali era venuta quindi ai ferri corti. È nota la sferzata di Hegel quando riferendosi alla teoria di Schleiermacher disse che in questo caso l’animale più religioso era il cane! 19 «Geschichte im eigentliche Sinne ist der höchste Gegenstand der Religion» (Ueber die Religion..., ed. M. Rade, Berlin s. d., p. 73). 20 Ueber die Religion..., ed. cit., p. 89. 21 Ueber die Religion..., ed. cit., p. 96 s. Cfr. D. F. Strauss, Die christliche Glaubenslehre, Tübingen-Stuttgart 1841, Bd. II, p. 738. 22 Cfr. G. F. Taute, Religionsphilosophie2, I, Leipzig 1852, p. 260. 23 L’osservazione è di R. Otto, Das Heilige, tr. it., Bologna 1926, p. 219. Si tratta specialmente del «giudizio teleologico» a cui è riservata la II P. della kantiana «Critica del giudizio». 24 Éd. Le Roy, Le problème de Dieu, Paris 1930, p. 225. Il L. R. ha ripreso le sue idee nel Saggio recente: Introduction à l’étude du problème religieux, Paris 1944, dove il momento idealista è fortemente accentuato: cfr. p. 20, p. 112 ss., p. 121, p. 130. Però Dio vi è designato espressamente come «persona» (p. 138 ss.). 25 Le problème de Dieu, p. 225 ss. 26 Le problème de Dieu, p. 240. 27 Le problème de Dieu, p. 273. 28 Cfr. Le problème de Dieu, p. 239; cfr. p. 268. Scrivendo nel 1930, il L. R. avrebbe dovuto aggiornarsi un po’ su questa concezione positivista e materialista dei primitivi, ch’egli copia a occhi chiusi dal positivista Belot.
Capitolo I L’ATEISMO 1. Nozione, divisione, possibilità L’ateismo è la teoria che nega l’esistenza di un Dio personale. Il termine fu in voga nel Rinascimento per indicare l’atteggiamento di chi non ammette l’esistenza della divinità, ma la definizione è già in Clemente Alessandrino: «L’ateo è chi afferma che non esiste Dio»1. È ateismo pratico quando si vive senza riconoscere Dio, «come se» Dio non esistesse ovvero senza preoccuparsi della sua esistenza e organizzando la propria vita privata e pubblica prescindendo dall’esistenza di qualsiasi Principio assoluto che trascenda i valori dell’individuo e della specie umana. È ateismo teorico quando si porta direttamente o indirettamente il proprio giudizio sulla non-esistenza della divinità. Negano Dio «indirettamente» (ateismo negativo) coloro che lo ignorano completamente, che non sono in grado di darne un giudizio oppure affermano che il problema non li interessa (indifferentismo). Lo negano «direttamente» (ateismo positivo) anzitutto quanti s’applicano a demolire i fondamenti delle prove dell’esistenza di Dio, della necessità della religione e del culto e di quanto necessariamente vi si connette (Provvidenza, immortalità dell’anima, legge naturale, sanzione morale...). È detto ateismo scet|tico se si insiste sull’invincibilità del dubbio e diventa ateismo agnostico quando l’indimostrabilità è detta o riconosciuta assoluta o da parte dell’oggetto o del soggetto. È ateismo teorico positivo quando ci si proclama certi e persuasi della non-esistenza di Dio, quando si demoliscono e si scalzano come erronee e infondate le prove addotte per la sua esistenza e si pretende che una vera dimostrazione della medesima finora non sia stata data né mai si possa dare. Ma nell’ateismo rientrano, dal punto di vista teologico e metafisico, anche tutte quelle filosofie e religioni, che si fanno di Dio un concetto contrastante l’esigenza della sua Natura: il Flint2 ha preferito parlare qui di «antiteismo» invece di ateismo. Ma queste concezioni, con l’illusione di una accettazione della divinità, allontanano in un certo senso ancor più dell’ateismo dalla conoscenza del vero Dio. Questo schema tradizionale di classificazione dell’ateismo non può tuttavia essere applicato in concreto, specialmente nella filosofia e cultura moderna, se non con opportune cautele, avendo riguardo soprattutto se c’è un’affermazione di Assoluto, quale esso sia e come la mente umana lo possa raggiungere. La possibilità di un ateismo pratico, almeno temporaneo, pare fuori dubbio: la pressione dei problemi concreti della vita, il bollore delle passioni, un ambiente familiare indifferente e un’educazione laica possono per un certo periodo della vita distogliere l’interesse dell’uomo dal problema di Dio. Non però per sempre: almeno per quanti vivono a contatto della società dove la posizione del problema, per le stesse esigenze di competizione e di lotta religiosa e politica, pare inevitabile. Del resto, quel che la storia delle religioni ci attesta per i popoli, si può dire anche per gli individui: anzitutto i grandi fenomeni della natura con lo spettacolo di| stupore della loro magnificenza, e di terrore con la minaccia travolgente della distruzione; poi i fatti decisivi dell’umana esistenza come la nascita e la morte ed il problema più angosciante della vita umana, quello cioè della sofferenza del giusto su questa terra e della frequente fortuna del malvagio. Tutto questo, presto o tardi, deve porre alla coscienza umana il problema di una causa e di una giustificazione, ciò che è il problema di Dio. L’ateismo teoretico di conseguenza non può essere una situazione originaria ma va spiegato come un fenomeno riflesso, come la «conclusione» di un determinato processo razionale che fa capo a certe premesse: appartiene quindi alla coscienza riflessa, propria della filosofia o della scienza camuffata da filosofia. È un fatto che in ogni civiltà matura si sono avuti fautori decisi (che si dicevano e che si suppongono quindi «convinti») dell’ateismo teorico sia negativo come positivo; risulta anche che il numero degli atei sembra aumentare in quella che può dirsi la «fase di saturazione» di una certa forma di civiltà, come la filosofia stoica ed epicurea nella civiltà greco-romana, l’illuminismo e l’idealismo nella civiltà moderna, la sopraffazione della tecnica e dell’economia nella vita contemporanea. La possibilità perciò dell’ateismo teorico diventa più o meno reale e plausibile a seconda del verificarsi o meno di
certe condizioni ambientali e culturali che il teologo deve considerare volta per volta: esse spesso, nel tessuto concreto dell’esistenza, non sembrano superabili che per un intervento speciale della Grazia divina la quale, secondo la dottrina cattolica, non può mancare a chi sinceramente cerca la verità. Le complicazioni spirituali a cui oggi può portare la cultura moderna sono tali che gli autori cattolici non sono ancora riusciti a formulare un giudizio sull’ateismo di pieno accordo3: chi nega la possibilità stessa dell’atei|smo teoretico (Blondel, de Lubac) che poi è un fatto; chi invece ammette che l’ateismo possa essere invincibile in casi singoli (Billot) e c’è perfino chi dice che si possa perdere la fede senza colpa teologica (K. Adam). Il card. Billot distingue per gli atei adulti, gli «adulti aetatis» e gli «adulti rationis»: quelli cioè a cui manca il minimo lume richiesto per formarsi un concetto del vero Dio e quelli che nel loro ambiente hanno a disposizione gli argomenti e gli elementi per un giudizio definitivo. Solo l’ateismo dei secondi è cosciente e colpevole, non quello dei primi nel quale il Billot fa rientrare le civiltà e religioni idolatriche antiche e moderne e le concezioni laiche e atee in certi ambienti della vita contemporanea. Malgrado tutte queste cautele che impone oggi il problema dell’ateismo, si deve comunque riconoscere che esso ha rappresentato nella storia dell’umanità, e lo rappresenta ancor oggi, più un atteggiamento individuale che una condotta sociale: un atteggiamento che può significare anche protesta o liberazione del singolo. La pretesa della etnologia materialista ed evoluzionista di mettere all’inizio della storia un uomo senza religione o politeista e feticista4, privo di ogni vera nozione e culto della divinità, è stata smentita dai fatti; anzi, com’è noto, oggi la situazione si trova sostanzialmente capovolta, nel senso che le forme più primitive della religione sono risultate strettamente monoteiste, così che il politeismo è un fenomeno di degenerazione del monoteismo originario e le posizioni singole di ateismo non appaiono geneticamente che come le forme di reazione alle assurdità e sconvenienze delle concezioni e delle pratiche politeistiche. In questo senso poteva un dossografo antico affermare: «tutti gli uomini, senza distinzione di civiltà e lingua, onorano e temono gli dèi; non| c’è invero nessun popolo che sia ateo»5. E già prima Aristotele: «Tutti gli uomini hanno la convinzione ch’esistono gli dèi»6. Affermazioni riprese ai nostri giorni, sul fondamento delle induzioni dell’etnologia moderna, da G. van der Leeuw: «Non esistono popoli senza religione. All’inizio della storia non c’è alcuna forma di ateismo. La religione c’è sempre e dappertutto»7: perché, secondo il medesimo autore, l’ateismo rappresenta nello sviluppo della coscienza il «momento negativo» che può sorgere e vivere soltanto in quanto suppone il precedente momento dell’affermazione cioè della religione come culto della divinità padrona dell’uomo e del suo destino8. In questo senso il van der Leeuw chiama l’ateismo «la religione della fuga» davanti a Dio, o, con terminologia kierkegaardiana, dell’«angoscia di Dio», quando si rifiuta la fede per cadere nel demoniaco9. La ragione intima dell’ateismo, come atteggiamento spirituale-individuale, è nella stessa «libertà umana»: le difficoltà da una parte di raggiungere una completa chiarezza sui problemi dell’aldilà, del male e della Provvidenza e quindi sull’essenza ultima del mondo e della coscienza, come sulla capacità di trascendenza della conoscenza; e d’altra parte le contraddizioni delle religioni fra loro, le sconvenienze di molte credenze e pratiche religiose, ed insieme l’esigenza che avanza ogni religione d’abbracciare ed influire su tutta la vita dell’uomo, possono di fatto allontanare l’uomo dalla religione e fargli respingere con essa anche il problema di Dio. D’al|tronde è appunto una tale situazione (cioè la genesi dell’ateismo «per scandalo») che deve operare e spingere il singolo alla ricerca colla scelta, fra le varie contrastanti religioni, dell’unica che sia la vera perché non dà scandalo. Se non che nelle condizioni reali dell’umana civiltà la religione vera, e quindi l’unica concezione che sia degna di Dio e dell’uomo, pare sia assicurata soltanto dalla Rivelazione, che per natura sua trascende l’evidenza razionale ed esige la fede. Per questo la vittoria definitiva sulle istanze del dubbio che portano all’ateismo, fa capo alla Grazia e alla libertà. Risulta perciò almeno semplicista l’interpretazione che ha data dell’ateismo il teologo protestante K. Barth secondo il quale l’ateismo è un fenomeno di reazione alla mistica: contro il mistico che pretende di avere il rapporto diretto con Dio, l’ineffabile e l’inoggettivabile, l’ateo proclama il ritorno dell’uomo a se stesso, al mondo delle creature e della storia. L’ateismo sarebbe la mistica negativa o «del nulla», sorta dalla opposizione alla mistica positiva «del tutto»10. Il Barth però non precisa anzitutto il concetto di «mistica», e poi deve spiegare perché l’ateismo faccia maggior presa nei paesi a prevalenza protestante: è vero che la «mistica» è agli antipodi dell’ateismo ma in un senso
opposto a quello inteso da Barth (teologo di «stretta osservanza» e d’ispirazione antipietista) in quanto cioè l’unione mistica rappresenta nella vita cristiana la forma più intima e alta (e sempre «gratuita») dell’unione dell’anima con Dio.
2. Storia e sistemi filosofici Forme di ateismo possono esser dette le filosofie e religioni a sfondo naturalistico dell’antica India, la filosofia Samkhya, lo Jainismo e il Buddhismo nella sua forma originaria, prima cioè che Buddha stesso fosse di|vinizzato11. Nelle religioni invece prebibliche, specialmente del Medio Oriente, la divinità abbraccia tutto e si rapporta all’uomo in prevalenza come onnipotenza di terrore e di minaccia che lo tiene in continua angoscia, spingendolo fino ai sacrifici umani per placarne l’ira: di qui la rappresentazione mostruosa degli dèi senza numero nelle religioni dell’Oriente, e che vediamo ancor oggi nei templi pagani dell’India e della Cina. Nelle religioni evolute le rappresentazioni della divinità assumono di preferenza un aspetto benefico ed estetico, mentre l’origine del male è rimandata alla nemesi e alla necessità (avna,gkh) del destino (eivmarme,nh) cui soggiacciono, a cominciare da Zeus, gli stessi dèi. Ma anche nella religione greco-romana la frammentazione della divinità invade tutte le attività della natura e dell’uomo fin nei particolari più ridicoli12: è in questa degenerazione delle religioni che bisogna vedere lo stimolo che ha suscitato la riflessione filosofica e con essa ad un tempo l’ateismo e il bisogno di un unico principio assoluto dell’essere. Presso il popolo giudaico, conscio di possedere nel magistero profetico e nei libri sacri la verità dell’unico vero Dio, l’ateismo è supremo atto di «stoltezza»13 e l’idolatria il massimo peccato: concezione ripresa da S. Paolo che vede nei vizi nefandi del paganesimo il castigo di Dio per il peccato d’idolatria14 e ricorda ai neo-convertiti che prima essi erano «senza speranza e| senza Dio (a;qeoi) in questo mondo»15 e che «le genti non conoscono Dio»16. Gli uomini però, anche nel paganesimo avrebbero potuto assurgere a Dio dalle creature, in cui egli si era manifestato, e perciò il peccato d’idolatria era inescusabile17. All’Areopago18 l’Apostolo scopre che un’ispirazione profonda all’unico vero Dio è insita nel culto prestato in Atene al «Dio ignoto». Nella S. Scrittura e dal punto di vista strettamente teologico – ciò che nel resto è confermato anche dalla riflessione metafisica – non v’è distinzione fra ateismo e politeismo idolatrico: fra essi esiste al più una distinzione dal punto di vista psicologico, la quale però nello sviluppo della coscienza deve scomparire. Ma anche nel mondo greco-romano il più grande delitto era quello d’empietà (avse,beia), ch’era stato oggetto di una severa legislazione, specialmente in Grecia, e poteva comportare la stessa pena capitale. Per determinare il senso preciso di tale reato ci si può richiamare alla triplice divisione degli dèi di Varrone, ricordata da S. Agostino19: favolosa o mitica, naturale o filosofica e civile cioè politica. La prima, frutto della fantasia dei poeti-teologi, era retaggio del popolo incolto, la terza invece rappresentava la religione dello Stato così che il riconoscimento delle sue divinità e del loro culto ufficiale rappresentava il fondamento della stessa vita civile e il primo dovere del cittadino. «Ateo» era perciò chiunque ne avesse contraddetta la credenza o avesse rifiutato di riconoscere il culto, che nella società antica era l’unico obbligatorio. Chi abbondava nella credenza e nel culto agli dèi mitici, seminando il mondo di divinità benefiche e malefiche, era detto «su|perstizioso» (deisidai,mwn) con un senso di eccesso, ma non di disprezzo. La religione naturale dei filosofi fondata sull’esigenza di un unico principio e della sua trascendenza, ebbe una funzione di risoluzione critica dell’una e dell’altra, specialmente in quei pensatori che non vollero scendere a compromessi con le credenze volgari o con gli interessi della politica. Rappresentarono questi filosofi, con l’energica affermazione della trascendenza e dell’unità della divinità, il vertice toccato dall’umana saggezza fuori della Rivelazione così che S. Agostino poteva scrivere di essi: «Quidam eorum quaedam magna, quantum divinitus adiuti sunt, invenerunt...» e arriva a riconoscere che «si philosophi aliquid invenerunt, quod agendae bonae vitae beataeque adipiscendae satis esse possit; quanto iustius talibus divini honores decernerentur?»20. Ma per il volgo superstizioso e per i politicanti essi erano «atei»; non di rado colpiti dall’accusa di ateismo, per aver salva la vita, dovettero emigrare (Anassagora, Protagora, Aristotele); è noto che Socrate, avendo rifiutato la fuga affrontò la morte, fiducioso nel suo Dio, come ci hanno tramandato Platone (Apologia) e Senofonte.
Lo stesso Platone nelle Leggi (l. X, 885 b ss.) ci fa conoscere tutta una legislazione in materia che colpisce quanti negano l’esistenza degli dèi, la provvidenza, e la vendetta ch’essi prendono dei trasgressori delle leggi dello Stato. Che fossero in gioco preoccupazioni di carattere politico ovvero che si trattasse di una religione in funzione della politica, si desume dal fatto, che gli a;qeoi cadevano sotto il processo di avse,beia non per le opinioni o dottrine personali, ma soltanto quando ne facevano propaganda o oltraggiavano in pubblico gli dèi della religione ufficiale. L’empietà dei «filosofi universalisti» consisteva nello strappare alla religione il fon|damento delle tradizioni locali a cui la «città» doveva la sua storia e le sue fortune, perché quindi quelle dottrine minavano i fondamenti della giustizia civile. Perciò con ragione il Derenne (dopo il Drachman) osserva che, pur sotto lo sfondo politico, era ancor la religione e la concezione della religione che nel processo di avse,beia era chiamata in causa21; ma si deve anche aggiungere ch’è stata soprattutto la reazione della filosofia a svincolare nell’età classica l’uomo dagli angusti confini dei suoi interessi nazionali e razziali e a dargli per patria l’universo intero, preparando in qualche modo gli uomini al concetto cristiano della trascendenza di Dio e della fratellanza universale. Ci sono state tramandate molte liste di «atei»: in quella di Sesto Empirico, che li distingue dai filosofi tanto teisti come scettici, figurano Evemero, Diagora di Melo, Prodico di Ceo, Teodoro di Cirene (detto per antonomasia a;qeoj). Cicerone nomina Crizia, Protagora, Epicuro...; ai quali il Fabricius aggiunge (da Lisippo Epirota) molti altri come Arcagora, Anassimandro, Apollofane, Aristagora di Melo, Bione di Boristene, Callimaco, Carneade, Gorgia, Ippia di Elea, Leucippo, ecc.; certamente sono da menzionare anche Democrito, Diogene di Apollonia, Ippo di Reggio, Senofane. Ma della maggior parte di essi si deve dire, come ha provato il Drachman (op. cit., p. 19) che la loro negazione non portava tanto su Dio, quanto sulla molteplicità degli dèi e sulle superstizioni del culto. Tuttavia pare non siano fra essi mancati gli «atei» in senso stretto (Democrito, Teodoro di Cirene, Protagora...). Il Nestle ricorda Cinesia di Mileto (cf. Platone, Gorgia, 501 e) per opera del quale si era costituito in Atene un gruppo di empi| (kakodaimonistai,) che si radunavano sul novilunio per sollazzarsi «nello schernire gli dèi e le nostre costumanze»22. Anche nella lista di Sesto pare non manchino gli «atei» radicali. La posizione di Epicuro circa il rispetto esterno dovuto agli dèi, è trattata con un certo favore (J. Festugière, C. Diano): Sesto invece, nell’ossequio esterno di Epicuro per la religione ufficiale vede un espediente pratico per celare l’ateismo, perché nella realtà dei fatti non si ammette l’esistenza degli dèi (cf. anche Cicerone: «...Epicurum, ne in offensionem Atheniensium caderet, verbis reliquisse deos, re sustulisse» (De nat. Deorum, I, 30). In tutta questa materia Sparta e Roma si mostrarono più tolleranti di Atene, accontentandosi dell’atto esterno di culto alle divinità ufficiali dello Stato, senza preoccuparsi delle opinioni dei singoli e delle dispute sull’argomento fra i filosofi. Fu con i cristiani che a Roma fu sollevato il problema dell’ateismo che ebbe la sua realtà o finzione giuridica nei decreti che ordinarono le persecuzioni. Già nel periodo ellenista, con la caduta delle repubbliche locali, era svanita dall’anima greca la credenza nelle divinità indigene che si erano mostrate incapaci di difendere la patria di cui costituivano il palladio. L’ellenismo però aveva lasciato intatto il principio greco-romano della religione che restava sempre affare di Stato e caratteristica nazionale: soltanto aveva perduto l’influsso che sulla città aveva la religione antica, così che praticamente, come rileviamo dagli scrittori a partire dall’epoca augustea, l’ateismo non è ristretto più alla «élite» dei filosofi ma è passato nelle masse che s’immergono nel materialismo. Col cristianesimo ogni equivoco diveniva impossibile: in quanto esso| riprendeva il monoteismo ebraico, veniva respinta ogni forma d’idolatria; in quanto insegnava la Redenzione in Cristo dal peccato, esigeva l’ascesi e il rinnovamento di tutta la vita a cui non potevano bastare le torbide – quando non erano empie e infami – pratiche dei vari «misteri» portati a Roma dalla Grecia e dall’Oriente. Quando perciò Tacito indica il motivo della prima persecuzione sotto Nerone «haud proinde in crimine incendii quam odio generis humani» (Ann., XV, 44, 3) esprime l’impressione che la nuova religione faceva anche sull’animo dei migliori: l’abbandono cioè di tutta una forma di civiltà che aveva portato Roma all’impero del mondo. Sotto un’impressione analoga, ma con riferimento all’alto senso (quello della «catarsi» misterica) è Apuleio quando, facendo l’apologia dei misteri di Iside, parla di una donna la quale oltre i vizi che la macchiano, «spretis ac calcatis divinis numinibus in vicem certae
religionis mentita sacrilega superstitione dei quem predicant unicum confictis observationibus vacuis» (Metamorph., 9, 4), ingannava tutti gli uomini (l’ultimo inciso pare mostri la distinzione netta del cristianesimo dal giudaismo che Tacito ancora confondeva). Per Apuleio quindi la nuova religione spogliava l’uomo dell’incanto delle forze rigeneratrici e delle bellezze della natura che le religioni e i culti pagani sanzionavano e celebravano. Al pagano convinto dovevano perciò i cristiani apparire i peggiori «atei». Se non che i cristiani, a cominciare dai Padri apostolici e dagli apologeti, hanno rintuzzato l’accusa di ateismo e ricambiato con energia l’epiteto esplicito di a;qeoi ai loro avversari (S. Ignazio M., Trall., 3, 2; S. Policarpo, Martyr., cap. 9; Clemente Alessandrino, Protrept., II, 23-24). Il politeismo pagano è ateismo secondo Origene (polu,qeoi o;ntej kai. a;qeoi: In Ps., 65, 12) ed è messo sullo stesso piano della «superstizione» (deisidaimoni,a) come opera del diavolo (Clemente Alessandrino, Protrept., I, 18, 22; II, 13-15; Gregorio| Nazianzeno, Or., 25: PG 35, 1220 A), ed è bollato come a;qeo,thj. Mentre i cristiani, poiché adorano l’unico vero Dio, atei non sono: dicono gli apologeti (S. Giustino, Ap., I, 5: che si gloria di essere a;qeoj rispetto agli dèi pagani; e cf. Lattanzio, De ira Dei, IX, 2; Clemente Alessandrino, Strom., VII, 9, 54, 3: «Il cristiano non è affatto ateo»). Gli stessi giudei sono chiamati a;qeoi da S. Gregorio Nazianzeno (Or., 2, 37: PG 35, 444) e accomunati al politeismo. Atei sono dai Padri detti i Caldei (Ippolito, In Dan., II, 31, 3), i Persiani e fra i filosofi atei ha il primo posto Epicuro che da Clemente Alessandrino è chiamato avqew,tetoj kata,rcwn (Protrept., II, 3, 10). Il medesimo, rispetto ai pagani, parla di una doppia avqeo,thj, quella di non conoscere il vero Dio (to.n o;ntwj o;nta), l’altra di chiamare dèi ciò che non lo è (ibid., II, 23, 1). Anche Proclo parla di una doppia avqeo,thj: l’una di quelli che negano l’esistenza degli dèi, l’altra di quelli che negano la loro provvidenza23. L’accusa quindi di ateismo nei primi secoli dell’èra cristiana non si riferiva tanto alla negazione assoluta della divinità, ch’è stata sempre rara, quanto alla perversione (supposta da ognuna delle parti contrastanti per la sua antagonista) del concetto di Dio che nella controversia equivaleva poi alla negazione. Ciò è tanto evidente che i Padri trattano gli eretici senz’altro da atei: gli ariani sono detti tali da S. Massimo Confessore (Acta: PG 90, 144), e così i Manichei (S. Atanasio, Or. I contra Arianos: PG 26, 124; S. Gregorio Nisseno, Ep. can.: PG 45, 225 C; Cod. Iustin., I, 5, 12, 3). Marcione è detto to. th/j avqew,thtoj sto,ma da S. Cirillo di Gerusalemme (Catech., 6, 16) e avqew,tatoj per eccellenza (ibid., 16, 3, 7). Parimenti Eunomio è detto autore della avqewta,thj aivre,sewj (Synes. Epist., V) e son detti| «atei» i negatori dello Spirito Santo (oi` mh. dexa,menoi to.n Paraklhi,ton). E già da S. Ignazio M. son chiamati (a;qeoi kai. a;pistoi) i doceti (Trall., 10) e da Clemente Alessandrino la mitologia pagana viene in blocco tacciata di mu,qwn avqe,wn (Protrept., II, 11, 1). Questo breve cenno di testi mostra che gli scrittori che usano il termine a;qeoj, non tanto intendono di dare una semplice valutazione teorica nel campo religioso, quanto di portare con essa e a complemento della medesima, una condanna di ordine morale; ed era un significato più etico che dogmatico che il termine doveva suscitare tanto all’epoca classica come in quella patristica. Ne abbiamo la conferma in una sentenza di Porfirio, epigono del paganesimo morente, secondo il quale «ogni vita leggera è piena di servitù e di irreligiosità ed è quindi atea (a;qeoj bi,oj) e senza giustizia (avdi,kioj bi,oj) perché in essa lo spirito è pieno di irreligiosità e quindi anche di ingiustizia (avdiki,aj)»24. Ed è su questa linea che il pensiero greco e patristico c’invita a prospettare la vera essenza dell’ateismo. Se anzitutto ateismo significa negazione diretta di Dio, esso è anche – e soprattutto – nell’ammissione di una nozione di Dio che lo annulla come Dio e lo avvilisce di fronte alla sua maestà. È ben questo il giudizio che dànno i massimi filosofi greci delle divinità della mitologia popolare e statale e tale anche, per la legge dei contrari, la loro condanna del cristianesimo. Allo stesso modo hanno giudicato il paganesimo – per necessaria ritorsione – sulla guida della S. Scrittura, i dottori cristiani i quali, per strano che possa sembrare, hanno con ragione coinvolto nella condanna di ateismo anche gli eretici. Perché il concetto di Dio va portato fino all’ultima conseguenza; per non esser detti atei, non basta affermare l’esistenza del «divino» o dell’assoluto: bi|sogna pensarlo come Persona sussistente e trascendente ed insieme sollecito del mondo e delle nostre miserie. Dato poi il fatto che Dio ha parlato all’uomo direttamente (Rivelazione), la sua parola va accettata integralmente: ogni «selezione» (ai;resij) che l’uomo vuol fare, è un vero sacrilegio (avqeo,thj), una vera empietà (avqei