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Zitiervorschau

CLASSICI DELLE RELIGIONI Sezione prima, diretta da OSCAR BOTTO

Le religioni orientali Sezione seconda, fondata da PIERO ROSSANO

La religione ebraica Sezione terza, diretta da FRANCESSO GABRIELI

La religione islamica Sezione quarta, fondata da PIERO ROSSANO

La religione cattolica Sezione quinta, fondata da LUIGI FIRPO

Le altre confessioni cristiane

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CLASSICI DELLE RELIGIONI SEZIONE QUARTA FONDATA DA PIERO ROSSANO

La religione cattolica

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San Giovanni della Croce

OPERE A cura di PIER PAOLO OTTONELLO

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

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© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it

ISBN: 978-88-418-9280-0

Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1993 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

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INDICE DEL VOLUME Introduzione Nota biografica Nota bibliografica La presente edizione POESIE SALITA DEL MONTE CARMELO Libro primo Libro secondo Libro terzo NOTTE OSCURA Libro primo Libro secondo Indice dei nomi Indice scritturistico Indice delle tavole

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INTRODUZIONE

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Giovanni della Croce si colloca in posizione culminante nella mistica dell’Occidente, al capo estremo del filo aureo che ne lega le sommità, rappresentate da Plotino, Dionigi Areopagita, Eckhart. La modernità non continua a dipanare questo filo, ma tanto più ne accresce in sé la fame sotterranea, che si affaccia negli spiriti più vigili, anzitutto nella forma di una crescente nostalgia di strade maestre, di essenzialità e radicalità. I quattro secoli e mezzo che ci separano dalla morte di Lutero sono un deserto di mistica, che sembra essere succeduto ai deserti ed ai giardini mistici dei quindici secoli precedenti. Perciò tanto più vi spiccano eventi, pur tanto disparati, e stridenti rispetto a quello che una universalizzata superficialità crede sia la fondamentale direzione della storia — imperniata cioè su un progresso scientifico-tecnologico —, e non solo dell’Occidente: fra tali eventi si possono scegliere, simbolicamente, da un lato la straordinaria emersione, nel 1782, con la Filocalia1, dell’aurea catena ascetico-mistica che si snoda dal IV al XIV secolo, e, dall’altro lato, l’esplosione della fame di verità, che un secolo dopo si manifesta, divorante e insaziata, nel grido d’allarme alla storia lanciato da Nietzsche, al capo estremo di una mistica capovolta, consapevole del miserabile esaurirsi della storia ove essa non ritrovi il proprio respiro «astorico» di eternità2. Giovanni della Croce attua una mistica integrale, anzitutto integrando i residui intellettualisti e panteisti presenti in Plotino e riaffioranti in Eckhart, sulla strada maestra del neoplatonismo agostiniano e patristico di modello fondamentalmente dionigiano. Imperniato su Dionigi Areopagita e su S. Gregorio è il suo primo scritto3, perduto, di cui abbiamo notizia, che è un lavoro sulla contemplazione dello studente di quarto anno nell’Università di Salamanca, del medesimo anno in cui Luis de León — il famoso biblista e poeta agostiniano memore dei Nomi divini dionigiani specie nella sua opera sui Nomi di Cristo e autore di un Commento del Cantico dei Cantici — tenne un celebre corso De fide. 8

Giovanni, di intelligenza viva e vigile, fortemente volta all’essenziale, sempre più si mostra nemico di ogni forma di mezza cultura e con lucidità profonda pesa e vaglia l’eclettismo culturale in cui si forma. La base tomista degli studi accademici della Spagna del tempo, se a Salamanca sussiste in gran parte grazie ai frutti del magistero di Francisco de Vitoria (morto nel 1546, lo stesso anno in cui muore Lutero), insieme è percorsa da movimenti valorizzanti Avicenna e Averroè, ed è arricchita dai nuovi studi biblici — Vives, e Cisneros fondatore dell’Università di Alcalá nel 1510, costituiscono lo sfondo della cultura umanistica e teologica della prima metà del siglo de oro, in rapporto più o meno stretto con Erasmo4 —, nonché da risonanze e contraccolpi relativi alla riforma luterana, in piena espansione, che nella Spagna di Filippo II risuonano in prevalenza nel senso dello spogliamento totale del Terzo abecedario (1527) di Francisco de Osuna5. Sul piano letterario, se il rinascentismo italianeggiante di Boscán e Garcilaso domina la scena, nonché l’attenzione della vibrante sensibilità estetica di Giovanni6, la poesia di Luis de León, più profondamente volta a lo divino, costituisce forse, insieme con la Bibbia meditata diuturnamente, il principale modello espressivo e formativo che egli tesaurizza. La posizione culminante della mistica di Giovanni della Croce è sottolineata anche dall’assoluta originalità della genesi e della struttura dei suoi scritti. I primi sono infatti le poesie più intensamente «natalizie» e sponsali, che erompono dal fondo oscuro della gestazione dei nove mesi di carcere, grido e canto della nuova nascita mistica; e tutti gli altri scritti maggiori ne sono «commenti». Non scrive mai né come poeta né come trattatista: nelle poesie è del tutto antiretorico e arditamente semplice, in quanto esse sono l’espressione più sintetica e spontaneamente originale della sua pienezza di esistenza — perciò il Cantico e la Notte sono tra le massime espressioni poetiche dell’Occidente —; e gli altri suoi scritti non sono, nel loro complesso, al medesimo livello: di necessità, in quanto essenzialmente sono 9

prolungamento del magistero orale7, rispetto al quale egli, da grandissimo mistagogo, vi dedica quasi le ultime cure: perciò di solito né li lima né li compie, attento solo alla «dottrina sostanziale e solida», che esige uno «stile più semplice e senza affettazioni né eccessi»8. Tanto più che egli, come pochi, è consapevole che alla crescita integrale dell’uomo non mancano certo né le parole né gli scritti, anzi normalmente in eccesso, ma «il silenzio e l’operare»9. Il suo senso estetico, assunto in tutta la ricchezza nella sua mistica integrale, attraversa perciò anche le sue prose — le Sentenze sono anche un capolavoro di prosa —, e lo confermano «creatore di linguaggio», il cui stile è insieme semplice ed elevato, ordinario e personalissimo, arido e vibrante, iterativo e salmodiante, compatto e variegato, tagliente e sfumatissimo. La sua creatività mistica ed espressiva ha l’audace e semplice nudità della verità, che permea in modo intero e unitario la sua esperienza spirituale e sensibile, e ne infiamma amorosamente la possente dinamica ascensiva. In quanto nutre lo spirito di cultura essenzialmente attraverso la cultura dello spirito, egli attua una assoluta libertà da tutte le sue «fonti» — ivi compresa la Scrittura, come dalla patristica non si faceva —; il che ne conferma insieme la creatività e l’integralità. La possente originalità formale e sostanziale dell’opera di Giovanni della Croce ha il suo fuoco vivo nella croce amorosa, della quale vivere morendo è l’assoluta condizione dell’amorosa unione con Dio. In ciò consiste la ragione sostanziale sia delle difficoltà che nei suoi scritti incontravano i suoi stessi confratelli, tanto che fu indotto a frequenti iterazioni didattiche10 — difficoltà che, in ultima analisi, è la medesima e sola ragione delle traversie che ebbe a soffrire, essendo acerrimo nemico d’ogni mediocrità e compromesso, d’ogni artificio e prudenza umana, nonché d’ogni ingegnosa eloquenza — sia dello «scandalo» che, in più di una occasione significativa, gli oscuramenti spirituali e culturali del nostro tempo hanno accusato di fronte alla sua 10

«durezza» radicale: o cercando di aggirarla, confinando la sua opera, come per lo più accade, nelle serre storico-letterarie, oppure cercando di estrometterla dal nucleo vivo della cultura «attuale» — ma è impresa difficile e dunque assai rara —, ad esempio azzerandola con il giudizio di «nichilismo mistico», come in modo esemplare ha implicitamente fatto K. Barth, che considera la mistica un «ateismo esoterico». Giovanni della Croce si è assunto anche questi aspetti della croce, ben sapendo — come emerge specialmente nei prologhi delle sue opere — che sempre pochissimi sono coloro che, per attuarsi interamente come amore integrale, scelgono «non il più facile ma il più difficile»11, apprendendo così che solo «chi saprà morire a tutto otterrà la vita in tutto»12. Nella sua severità dolce e gravità serena, egli è soavemente inflessibile, taglientemente intransigente come roccia desertica, dalla quale soltanto può scaturire la fonte più gaudiosa e la musica luminosissima delle nozze mistiche: quanto più un nutrimento è sostanzioso, corroborante, universale, tanto più esige una consumazione tranquilla e sacrificale, ossia spirito d’amore o intelligenza amativa, senza cui si può solo rigettarlo e restarne digiuni. Il facilismo e il disorientamento che egli denuncia come usuali nella direzione delle persone gli trasformano in assillo insonne la consapevolezza dell’immensa necessità di formazione e crescita integrale che chiunque normalmente nasconde in se stesso. Anziché sostanziarsi di saggezza e discrezione ed esperienza personale, le pedagogie usuali, e non solo di ieri, si consumano nello sfoderare sempre nuovi e più captanti arbitrii per didattismi astratti quanto più soggettivistici e in realtà irreggimentati con le uniformi equivalenti dei variegati scetticismi e dogmatismi, che generano, anziché il bene più grande della libertà dell’amore integrale, una legione di schiavitù, più o meno inconsapevoli di sé, e più o meno disperatamente distruttive, malgrado le mille maschere mondanamente o storicamente consolatorie. La logica della mistica di Giovanni della Croce è assolutamente semplice e coerente: è logica integrale che si 11

incardina in una dialettica dell’integrazione, la dialettica assolutamente rigorosa e libera della crescita amorosa culminante nell’unione divina: l’amore divino è il fine e insieme il mezzo adeguato a tale fine, all’assoluta integrazione o totalità. Questa logica possentemente ascensiva e centripeta attraversa, includendole, teologia metafisica poesia, fuse e mai confuse nell’unico fuoco ricreativo di una sintesi nuova e perenne del Verbo nella Storia. La costellazione ricchissima di immagini-simboli che illumina le espressioni del suo intero percorso — notte monte abisso fonte fiamma nozze: la croce non è mai simbolo in quanto è l’albero che li regge tutti13 — conferma l’integralità dell’attraversamento ascetico-mistico del mondo intero, cui consegue il suo rinnovamento radicale e in nessun modo, dunque, la sua distruzione. Ma il rinnovamento o ricreazione dell’uomo e dell’intero creato è possibile radicalmente e integralmente solo attraverso la negazione creativa — negazione totale di tutte le negazioni parziali — che capovolge la prospettiva del rapporto creatura-Creatore instaurata dal peccato, riportandola al suo ordine assoluto. L’asse teoretico di questo capovolgimento Giovanni della Croce lo esprime nella maniera più piena e netta nella Fiamma viva d’amore: il mezzo più adeguato al fine dell’unione divina è lo stesso amore divino, che a maggior ragione è il mezzo più adeguato alla conoscenza amativa del creato. Questa revolutio, che è l’asse della sua mistica integrale, comporta dunque essenzialmente il «conoscere le creature attraverso Dio, anziché Dio attraverso le creature»14: la conoscenza è integrale in quanto vive amativamente nella causa prima tutti gli effetti d’ogni ordine e grado. L’adeguazione dei mezzi al fine può dunque essere perfetta alla condizione di non alterare la funzione di nessun mezzo assumendolo, in qualsiasi modo e grado, come fine, cioè attaccandovisi e gustandolo. La massima attività dovrà dunque consistere nel guadagnare la massima passività come negazione e distacco da tutto ciò che non è Dio, dunque dal creato e anzitutto dalla propria volontà e gusto 12

— l’attaccamento a sé come parte scissa dall’Intero è stato la causa, come peccato, della passione e morte di Cristo15 —, nei cui confronti è necessario farsi «spietati carnefici», affiggendosi alla croce e non desiderando nient’altro16. Solo l’annullamento di tutti i mezzi non adeguati al fine e di tutte le deformazioni dei mezzi stessi può dunque condurre alla trasformazione dell’uomo e del mondo da parti separate, e perciò sofferenti, a membra vive dell’Intero che è la Vita dell’Amore di Dio: ricostituendosi come «Dio per partecipazione», l’uomo è rivelato integralmente a se stesso, vivendo entro l’unica realtà, che è l’amore di Dio, nell’assoluta libertà che questo amore è. Dunque l’uomo è relazione metafisica con Dio: senza Dio è un’astrazione; il Reale è l’Amore di Dio creante e ricreante, l’Assoluto «senza modo contenente sostanzialmente tutti i modi», ossia il creato, che fa reale il mio stesso amore come 1’«unica mia attività»17. Al di fuori di questa unità sostanziale c’è il vuoto abissale delle opposizioni astratte: fra io, Dio e mondo. È dunque necessario rivelare come nulla e nullificante Vastrazione della separazione da Dio, e tutte le astrazioni che ne conseguono, in primo luogo quella della libertà mondana, manifestandola nella sua essenza di «suprema servitù e angoscia»18. Non c’è dunque nessun dualismo antropologico né metafisico in Giovanni della Croce; così come non c’è nessuno spazio per qualsiasi forma o sentore di panteismo: nell’unione divina essenziale o sostanziale l’uomo è «Dio per partecipazione», ma «in certo modo», ossia nel modo della differenza metafisica di «due nature in un solo spirito e amore di Dio». L’abissale notte della fede e luce della sapienza mistica nella loro unità profonda contengono il senso radicale di tutto ciò che è necessario negare solo per negarne la negatività: l’amore di Dio al quale non si frapponga più alcuna negatività dispiega volontà e intelletto e memoria e senso e gusto nella loro integralità e verità, sì che tutte le cose «rivelano le bellezze del loro essere, la loro virtù e leggiadria e grazia e la radice della loro vita e 13

durata»19. Se per Giovanni della Croce l’analogia fra Creatore e creatura, assunta teoreticamente, è insufficiente alla conoscenza di Dio ed alla perfezione dell’uomo, perché il rapporto intellettuale è per sé insufficiente in quanto parziale, allorché tutte le potenze umane si restituiscono alla loro verità e pienezza, emerge in primo piano una analogia mistica, entro la quale la ragione, come il sentire, anziché essere tolti si attuano nella loro integralità, nell’unico atto in cui Dio comunica «insieme luce e amore»20. «Un solo pensiero dell’uomo vale più di tutto il mondo; perciò solo Dio è degno di lui»21: questa espressione si può assumere come la più sinteticamente ricca rispetto alla sua scientia crucis, perfettamente agli antipodi della luterana theologia crucis, che ha segnato l’inizio della fine della teologia cristiana. La grandezza culminante della mistica di Giovanni della Croce si misura così anche dal suo costituire la risposta essenziale positiva alla «riforma» luterana22: la sua riforma del Carmelo è insieme inizio e simbolo della intera riforma di ogni umanesimo disorientato, o per autoassolutizzazioni o per autodissoluzioni, in quanto viziato naturalisticamente o immanentisticamente, in ogni caso nichilistica mistione di scetticismi e pragmatismi più o meno scientificamente paludati. Indicando la necessità assoluta di purificare senso intelletto volontà, ha segnato la strada maestra, pericolosamente offuscata o scantonata, soltanto ripercorrendo la quale è possibile costruire e arricchire sempre di nuovo una psicologia, una teologia, una filosofia, una pedagogia non ridotte o decapitate della loro più profonda e viva essenza, ma integrali, ricreando dunque nel loro ordine intrinseco tutte le forme di sapere e di fare come armoniosa unità e fecondità storica. Solo questa radicale consecratio mundi,nell’atto in cui vibra dell’ineffabilità del suo centro più profondo, che resta segreto «indicibile», al di sopra di ogni lingua23, non può non erompere nel canto gloriosamente ardito d’amore, sigillo ricchissimo del superamento di ogni naturalismo, con il quale Giovanni della 14

Croce compie l’assoluto distacco da tutto nel possesso divinamente perfetto di tutto: «miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori; gli angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie; lo stesso Cristo è mio e per me, perché Cristo è mio e tutto per me»24. 1. In tale anno è infatti pubblicata per la prima volta, a Venezia, grazie al mecenatismo di un principe rumeno; se ne veda la traduzione italiana: La Filocalta, Torino, 1982-87, 4 voll. 2. In particolare nella seconda delle Considerazioni inattuali (1874): «la virtù della giustizia esiste tanto di rado, ancor più di rado è riconosciuta e quasi sempre è odiata a morte, mentre la schiera delle virtù apparenti ha ricevuto in ogni tempo onori e pompe. Pochi servono la verità, in verità, poiché solo pochi hanno la pura volontà di essere giusti» (F. NIETZSCHE, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, t. I, Milano, 1972, p. 304). Tra gli studi comparativi in proposito si veda G. THIBON, Nietzsche und der Heilige Johannes von Kreuz, Paderborn, 1957. 3. Per la storia di tutti i suoi scritti si veda E. PACHO, San Juan de la Cruz y sus escritos, Madrid, 1969. 4. Cfr. P. P. OTTONELLO, Luis Vives, nel vol. miscellaneo, a cura di G. Uscatescu, Forjadores de Europa, Madrid, 1990. 5. Sull’ambiente culturale, con particolare attenzione alle componenti quietiste, senechiste, islamiche e relative agli alumbrados, restano fondamentali le puntualizzazioni di M. MENÉNDEZ Y PELAYO nella sua Historia de los heterododoxos españoles, vol. IV, Madrid, 1947, pp. 209284. Si veda anche la monumentale Historia del Carmen Descalzo en España, Portugal y América di P. SILVERIO DE SANTA TERESA (t. IX, 1940, pp. 79-131; t. XI, 1943, pp. 766-785), che resta nel suo ambito un’opera insuperata (Burgos, 1935-52, 15 voll.). Cfr. inoltre J. CARO BAROJA, Las formas complejas de la vida religiosa. Religión, sociedad y caracter de la España de los siglos XVI y XVII, Madrid, 1978. 6. In particolare egli conobbe l’opera di SEBASTIáN DE CóRDOBA SULas obras de Boscán y Garcilaso trasladadas a materias cristianas y religiosas, pubblicata a Granada nel 1575. 7. Temperamento contemplativo silenzioso e ritirato, nella conversazione spirituale è massimamente comunicativo e inesauribile; se ne vedano testimonianze nella citata Historia del Carmen Descalzo, t. IV, 1936, p. 394. 8. Come scrive nella Censura (S. JUAN DE LA CRUZ, Obras completas, a

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cura di J. Vicente Rodríguez e F. Ruiz Salvador, Madrid, 19883, p. 124). 9. Come scrive nella lettera del 22 novembre 1587 alle carmelitane di Beas. 10. Come dichiarò Baltasar de Jesús nel processo di Ubeda; cfr. E. PACHO, op. cit., p. 222. 11. Salita del Monte Carmelo, 1. I, c. 13, n. 6. 12. Dichos de luz y amor, in Obras completas, cit.. p. 105. 13. Questo universo simbolico offre la pili ampia materia ad una interpretazione tipicamente riduttiva della mistica di Giovanni della Croce, sostanzialmente neognostica, che identifica l’unione mistica e la salita all’unione con una coniunctio opposi-torum di natura psicologicoalchemica, cui si perviene attraversando i gradi di nigredo e dessicatio, candor e rubor. Si veda esemplarmente C. G. JUNG, Mysterium coniunctio-nis, in Opere, vol. 14, t. I, Torino, 1989. 14. Cfr. Obras completas, cit., p. 850. 15. Cfr. la lettera del febbraio dell’89 da Segovia. 16. Cfr. la lettera del 18 novembre 1586 e il decimo degli Avisos. 17. Cfr. Salita del Monte Carmelo, l. II, c. 4, n. 5 e Cantico spirituale A, strofa 19. Riconosciamo in Sciacca il filosofo d’oggi più teoreticamente affine a Giovanni della Croce, per la sua antropologia metafìsica, fondata sulla inscindibilità sostanziale di uomo e Dio, di metafisica e di teologia, nonché per il rilievo nel suo pensiero della dialettica di impegno e distacco; cfr. in particolare: M. F. SCIACCA, La libertà e il tempo, Milano, 1965 e Ontologia triadica e trinitaria, Milano, 1972 e P. P. OTTONELLO, La metafìsica integrale, nel suo volume Studi su Sciacca, Genova, 19922. 18. Salita del Monte Carmelo, l. I, c. 4, n. 5. 19. Llama de amor viva, 4, 5 (cfr. Obras completas, cit., p. 849). 20. Ib., 3, 49 (Op. cit., p. 831). 21. Dichos de luz y amor, ib., p. 92. Scrive anche, nello stesso gruppo di testi: «Colui che opera secondo la ragione è come chi si nutre sostanzialmente» (ib., p. 93). 22. Cfr. Lutero e il nichilismo della libertà, in P. P. OTTONELLO, Struttura e forme del nichilismo europeo, voi. II, L’Aquila-Roma, 1988, pp. 17 sgg. 23. Cfr. Notte oscura, 23, 3; e inoltre: Cántico espiritual B, 26, 4, in Obras completas, cit., p. 693 e Llama de amor viva, 4, 17, ib., p. 855. 24. Dichos de luz y amor, in Obras completas, cit., p. 92. È il culmine della sua poesia a lo divino, canto fermo vibrantissimo. È noto che egli amava udire musica e canto e salmeggiare, specie all’aperto; e che le sue poesie si cantavano già durante la sua vita, come testimonia anche Teresa d’Avila (cfr. la testimonianza di Andrés de la Incarnación, Memorias historiales, ms. 13482 della Biblioteca Nacional di Madrid, f. 74

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r.). Il superamento del naturalismo della corrispondenza micromacrocosmica si evidenzia ad esempio nel confronto con l’espressione di Origene, secondo cui dentro di noi ci sono «il sole, la luna e anche le stelle» (In Leviticum homiliae, V, 2).

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NOTA BIOGRAFICA 1542 Juan nasce a Fontiveros, cittadina di cinquemila abitanti nella vecchia Castiglia, tra Avila e Salamanca, da famiglia umile, ultimo dopo i fratelli Francisco e Luis. Il padre, Gonzalo de Yepes, è di nobili origini, ma fa il tessitore, avendo rotto con la parentela per sposare Catalina Alvarez, di origini modeste. Juan ha pochi anni quando perde il padre e, a breve distanza, il fratello Luis. 1548-51 Catalina, vedendosi chiuse le porte della famiglia del marito, per sostentarsi si trasferisce con i due figli ad Arévalo. 1551-64 La famiglia si trasferisce a Medina del Campo (Valladolid), vivace centro commerciale. Juan, docile gentile sveglio, ben presto si dimostra tanto avido di sapere quanto di preghiera, tanto amico del lavoro quanto di temperamento contemplativo. Come testimonierà il fratello Francisco, Juan lavora come apprendista prima con un carpentiere, poi con un intagliatore e infine con un pittore: da questi apprendistati continuerà a trar frutto nel corso della sua vita disegnando, scolpendo in legno soprattutto crocifissi; a Los Mártires di Granada farà anche il muratore lavorando alla costruzione di un acquedotto tuttora esistente. Lascerà questi lavori solo per dedicare la maggior parte della giornata all’assistenza più umile agli infermi di un ospedale della città. Qui lo accoglie il benefattore Alonso Alvarez di Toledo, con l’intento d’avviarlo alla cappellania di questo ospedale. Juan intanto segue i corsi, specie di grammatica e di filosofia, nel locale collegio dei Gesuiti: si dedica allo studio, spesso di notte, come alla preghiera, alla penitenza e alla carità verso il prossimo: quando sarà religioso e con 18

cariche avrà una straordinaria cura personale per i confratelli più sofferenti. 1563 Rinunzia alla sicurezza della cappellania d’ospedale per entrare novizio nel Carmelo di S. Anna, con il nome di Juan de Santo Mafia, attratto dalla vita contemplativa e dalla pietà mariana. Dopo poche settimane chiede di poter osservare la più rigorosa regola primitiva dell’Ordine. 1564-68 Studia teologia nell’Università di Salamanca, che contava circa settemila studenti. Contemporaneamente si forma nel Collegio carmelitano di S. Andrea, dove è viva specialmente la tradizione agostiniana; allievo eccellente, presto gli si affidano compiti di ripetitore. 1567 L’8 settembre è ordinato sacerdote. Pochi giorni dopo, mentre si prepara ad entrare nei Certosini a S. Maria del Paular, trovandosi a Medina del Campo dove si recava per cantare la prima messa, ha il primo incontro con Teresa di Gesù (che nel 1562 aveva fondato ad Avila il suo primo monastero). Teresa, nel pieno della sua fervida attività, è in cerca di religiosi adatti alla riforma del Carmelo maschile; uno già l’ha ritenuto poco adatto: in Juan il suo profondo discernimento intuisce l’uomo di profonda nobiltà e pace, di vita esemplare, ammirandone soprattutto la rara unità di forza e dolcezza, di concentrazione e discrezione; in una sua lettera dello stesso settembre ne parla come di persona sensata e penitente, perfetta e coraggiosa. 1568 Il 28 novembre, con il nome di Juan de la Cruz, è il primo Carmelitano riformato o Scalzo, insieme con due confratelli, a Duruelo, in una casa piccolissima e in condizioni esteriori incredibilmente miserevoli, quasi un Presepe. 1569-70 È il primo maestro dei novizi degli Scalzi, a Duruelo. Dal giugno al settembre del 1570 dirige il noviziato di 19

Pastrana (Guadalajara), dove Teresa ha dato vita (il 13 luglio) ad una nuova fondazione. 1571-72 Nell’aprile del 1571 è nominato, per un anno, rettore del Collegio di Alcalá di Henares, il primo degli Scalzi. All’inizio del 1572, dopo un breve ritorno a Pastrana, Teresa, priora dall’anno precedente, lo chiama ad Avila come confessore e direttore spirituale al monastero dell’Incarnazione: Juan vi resta cinque anni. Teresa lo sceglie come proprio direttore spirituale, sebbene molto più giovane di lei: il «piccolo Seneca», come lo chiama fraternamente, la esorta e la esorterà sempre, con dolcezza inflessibile, specialmente a non fermarsi su nessuna manifestazione divina e a non appoggiarvisi. 1574 Collabora con Teresa alla fondazione di un monastero a Segovia. 1576 Si acuiscono i contrasti connessi con la riforma dell’Ordine. Nel 1569 Pio V aveva nominato il domenicano P. Francisco Vargas visitatore apostolico per l’Andalusia. P. Vargas, in contrasto con il Generale dell’Ordine, pensa che il mezzo migliore per rinnovarlo sia fondare conventi di Scalzi; concede perciò il permesso per tre fondazioni in Andalusia, nominando P. Baldassarre Nieto superiore e suo delegato per i tre conventi. Costui a sua volta delega le proprie facoltà a P. Girolamo Gracián, che nel 1574 fonda un convento a Siviglia. Ma il Generale dell’Ordine revoca i poteri a P. Gracián: la revoca viene notificata nel Capitolo di Piacenza del 22 maggio 1575. Filippo II si schiera con gli Scalzi; P. Vargas pertanto nomina P. Gracián vicario provinciale di tutti i carmelitani, d’antica osservanza e scalzi. Gli ambienti romani attaccano P. Gracián, che a Roma è difeso dal nunzio a Madrid, il quale non favorisce invece P. Tostado che nel 1576 è nominato visitatore in Spagna per farvi eseguire i decreti del Capitolo di Piacenza contro gli Scalzi. Il 29 agosto del 20

1576 giunge a Madrid il nuovo nunzio, Filippo Sega, favorevole ai Calzati. La tensione si accentua tra due parti, che vedono da un lato uniti il consiglio reale, P. Gracián e gli Scalzi, e dall’altro lato P. Tostado, il nuovo nunzio (che il 20 dicembre 1578 condannerà P. Gracián) e i Calzati. L’8 settembre del 1576 Juan de la Cruz partecipa al Capitolo della Riforma dell’Ordine che si tiene ad Almodóvar e nel quale gli Scalzi cercano di erigersi in Provincia separata: egli è nettamente favorevole a questa soluzione. 1577-78 Un delegato di P. Tostado, in una notte dei primi di dicembre (forse fra il 2 e il 3), fatta forzare la porta della casetta di Avila dove Juan de la Cruz dimora con un confratello, con l’aiuto del braccio secolare li fa arrestare. Juan, sottoposto due volte alle verghe, viene rinchiuso nel Carmelo Mitigato di Toledo, spogliato del saio della Riforma, allettato, con promesse di cariche e di oro, a desistere dal suo atteggiamento inflessibile nei confronti della riforma. Egli persevera e perciò come «ribelle» è gettato in un ripostiglio angusto e oscuro — il solo spiraglio è un’alta feritoia — dal quale talvolta è fatto uscire per ricevere in refettorio pane e acqua e le vergate dei confratelli, che spesso gli usano l’epiteto di «lima sorda». Nell’assoluta pazienza di questa «notte» di grandissime sofferenze morali e corporali (febbre, dissenteria, piaghe ulcerate dagli indumenti non cambiati, poi calore e fetore soffocanti) erompe il grido delle sue prime poesie: le delicatissime romances, il cantar «Que bien sé yo la fuente…» e buona parte del Cantico spirituale (probabilmente le prime trenta strofe). Dopo l’Assunta del 1578, dopo molta preghiera ed alcune apparizioni della Vergine e di Cristo, egli segue il forte impulso interiore — concentrato sulle vicende e gli esiti della riforma — ed evade, approfittando della benevolenza del guardiano che ben ne ha conosciuto la provatissima docilità, calandosi con 21

una fune di stracci da una finestra prospiciente la sponda del Tago, nel profondo di una notte splendente di luna, e raggiunge il monastero delle Carmelitane Scalze. In ottobre partecipa ad Almodovar a un altro difficile Capitolo della riforma. In novembre è superiore al Calvario di Jaén, nell’Andalusia nordorientale, oasi solitaria e verdeggiante non lontana dal Guadalquivir: riprende a scolpire crocifissi e disegna il famoso grafico della Salita al Carmelo, il cui originale non ci è conservato. 1579 Il 14 inaugura la fondazione di Baeza, nuovo Collegio della riforma, di cui è il primo rettore: vi resta più di tre anni, terminandovi il Cantico spirituale. A Baeza, città universitaria e commerciale di cinquantamila abitanti, trova sollievo alle sue sofferenze interiori: nelle campagne all’intorno spesso prega, anche di notte. 1581 Dal 3 al 17 marzo partecipa al Capitolo di Alcalá di Henares, nel quale si comunica ufficialmente che il Papa (con breve del 22 giugno del 1580) ha separato i Mitigati dai Riformati. Il Capitolo, che dà alla riforma il suo codice, elegge Juan de la Cruz terzo di quattro definitori (consiglieri) provinciali. 1582 In gennaio è nominato priore del convento di Los Mártires di Granada. Vi compie la redazione dei suoi quattro commenti (quello alla Fiamma viva d’amore in soli quindici giorni). Il 4 ottobre muore Teresa di Gesù. Inizia per lui il periodo più attivo, con viaggi in Castiglia e Andalusia. 1584 Fonda un convento a Guadalcazar. 1585 Fonda un convento a Málaga. Partecipa al Capitolo di Lisbona e vi è eletto fra i quattro definitori provinciali. 1586 Contribuisce alla pubblicazione delle Opere di Teresa, essendo presente nel Definitorio del 1° settembre nel 22

quale se ne decide ufficialmente la stampa. Nel 1587 il Consiglio Reale incarica Luis de León di dirigerne l’edizione, che si realizza a Salamanca l’anno seguente. 1586-87 È vicario provinciale dell’Andalusia, restando a Granada, dove nel 1587 è rieletto priore. 1588-90 Nel giugno del 1588, nel primo Capitolo Generale degli Scalzi, che si tiene a Madrid, è nominato defìnitore generale: si trasferisce a Segovia, divenuta la sede del governo generale degli Scalzi. Esercita una intensissima attività di governo e di direzione spirituale; è superiore della comunità di Segovia. Dal 1590 si riacuiscono situazioni conflittuali anche in relazione al suo opporsi ad atteggiamenti di P. Nicolò Doria nei confronti di P. Gracián — entrambi i Padri erano prediletti da Teresa — nonché delle Scalze. Juan de la Cruz dà un’ulteriore prova della sua fermezza irremovibile. 1591 Nel giugno partecipa al Capitolo Generale, che si tiene a Madrid: ne esce esonerato da ogni carica e si accetta la sua richiesta di recarsi in Messico. Per una infermità ad una gamba, che ben presto s’aggrava e lo porterà a morte, si ritira nella solitudine della Peñuela (Jaén). In vista di un processo a P. Gracián (che si concluderà con la sua condanna) il Capitolo invia P. Diego Evangelista, visitatore di Andalusia: esorbitando dal suo incarico inquisisce. Lo stesso Juan de la Cruz subisce triste insinuazioni ed una grottesca inchiesta sulla purità di costumi; molte delle sue lettere, nonché appunti delle sue parole, vengono distrutte. Egli stesso aveva distrutto le lettere di Teresa, in quanto lo riguardavano. Il 22 settembre viene trasportato, sofferente, a Ubeda, in un convento molto povero di recentissima fondazione — e a Ubeda ritiene di non essere riconosciuto —, il cui priore non gli risparmia avversione (quando Juan era vicario provinciale dell’Andalusia non gli aveva 23

risparmiato rimproveri), specie vedendo di quanto amore sia circondato. Il priore si riconcilia con lui poche ore prima che egli muoia. Sul tempo della propria morte Juan de la Cruz è illuminato perfettamente: spira nel profondo della notte all’inizio del 14 dicembre. 1593 II suo corpo viene traslato a Segovia, dove tuttora si conserva intatto. 1618 Ad Alcalá esce la prima edizione delle sue opere con il titolo Obras espirituales. 1621 La prima traduzione delle sue opere esce a Parigi, seguita dalle traduzioni italiana (Roma, 1627), fiamminga (Anberes, 1637), latina (Roma, 1639), boema (Praga, 1697), tedesca (Linz, 1753), polacca (Kraków, 1855), inglese (London, 1864). 1627 A Bruxelles viene pubblicata la prima edizione del Cantico spirituale. 1675 Il 25 gennaio Clemente X lo proclama beato. 1726 Il 27 dicembre Benedetto XIII lo canonizza. 1926 Il 24 agosto Pio XI lo dichiara dottore della Chiesa universale. 1952 Il 21 marzo è dichiarato patrono dei poeti spagnoli.

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P. MESNARD, La place de Saint Jean de la Croix dans la tradition mystique, «Bull, de l’Enseign. Publ, du Maroc», 1942, pp. 48. M. ASÍN PALACIOS, Un precursor hispanomusulmân de San Juan de la Cruz, in Obras escogidas, vol. I, Madrid, 1946, pp. 243-326. I. HAUSIIERR, Les orientaux connaissent-ils «nuits» de Saint Jean de la Croix?, «Orientalia Christiana Periodica», 1946, pp. 5-46. H. SANSON, Saint Jean de la Croix entre Bossuet et Fénelon, Alger, 1953, pp. 128. CARMELO DE LA CRUZ, Defensa de San Juan de la Cruz en tiempo de los alumbrados, «El Monte Carmelo», 1954, pp. 41-72. H. WAACII, Johannes vom Kreuz und Franz von Sales, «Jahrb. für Myst. Theologie», 1955, pp. 179-234. L. ROY, Faut-il chercher la consolation dans la vie spirituelle? Saint Ignace de Loyola et Saint Jean de la Croix, «Se. Ecclésiastiques», 1956, pp. 109-170. V. LARRAÑAGA, San Ignacio de Loyola y San Juan de la Cruz, «Rev. de Espiritualidad», 1956, pp. 138-151 e 216-276. J. PETERS, La teología protestante y la doctrina sobre la f e en San Juan de la Cruz, «Rev. de Espiritualidad», 1957, pp. 429-448. G. THIBON, Nietzsche und der Heilige Johannes vom Kreuz, Paderborn, 1957, pp. 132. J. M. TAVERA, La mística en la poesía española: Santa Teresa de Jesús y San Juan de la Cruz, Barcelona, 1958, pp. 64. E. SCHERING, Mystik und Tat. Therese vom Jesu, Johannes vom Kreuz und die Selbtbehauptung der Mystik, München, 1959, pp. 356. E. OROZCO DÍAZ, La literatura religiosa y el Barroco, «Rev. de la Univ. de Madrid», 1962, pp. 411-477. 36

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presenza in questo volume della Salita e della Notte, per la stretta coordinazione fra le due opere che insieme costituiscono un organismo oltre a strutturarsi entrambe come commento alla medesima «canzone» En una noche oscura. Le Poesie compaiono in apertura, sottolineando l’originale genesi e struttura degli scritti principali di Giovanni della Croce che si presentano tutti come «commenti» di tre sue «canzoni». Il Cantico spirituale e la Fiamma viva d’amore sono le altre due opere principali, in evidente continuità l’una rispetto all’altra, che delle prime due costituiscono un ricco completamento, di grande importanza anche letteraria. Le Parole di luce e d’amore, breve preziosa raccolta di sentenze, gli Avvisi e le Cautele, insieme con le poche Lettere pervenuteci, compiono il non ampio arco dei suoi scritti.

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POESIE

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I 1 ROMANCE SUL VANGELO: IN PRINCIPIO ERAT VERBUM INTORNO ALLA SANTISSIMA TRINITÀ1 Nel principio era il Verbo e in Dio viveva e in lui la sua gioia infinita possedeva. Il Verbo stesso era Dio che il principio si diceva. Dimorava nel principio e principio non aveva. Era il principio stesso e per questo non ne aveva. Il Verbo si chiama. Figlio che dal principio nasceva; da sempre l’ha concepito e sempre lo concepisce; sempre gli dà sua sostanza egli sempre la conserva. Così la gloria del Figlio è quella che era nel Padre e tutta la sua gloria il Padre nel suo Figlio possedeva. Come amato nell’amante l’un nell’altro dimorava e l’amore che li unisce in unità confluiva e con l’uno e con l’altro in eguaglianza e valore. 40

Tre Persone e un solo amato erano le stesse tre e nelle tre un amore solo, ed un solo amante; e l’amante è l’amato in cui ciascuna viveva; poiché l’essere che hanno ciascuna in sé lo possiede e ciascuna d’esse ama l’altra che l’essere ha. E quest’essere è ciascuna e questo solo le univa d’un ineffabile nodo che dire non si sapeva; e per ciò era infinito quell’amore che le univa, perché, in tre, un solo amore, il qual è la loro essenza: l’amore, quanto più uno, tanto più genera amore. En el pricipio moraba / el Verbo y en Dios vivía / en quien su felicidad / infinita poseía. / El mismo Verbo Dios era / que el principio se decía. / El moraba en el principio / y principio no tenía. / El era el mismo principio; / por eso de él carecía. / El Verbo se llama Hijo / que de el principio nacía; / hale siempre concebido / y siempre le concebía; / dale siempre su sustancia / y siempre se la tenía. / Y así la gloria del Hijo / es la que en el Padre había / y toda su gloria el Padre / en el Hijo poseía. / Como amado en el amante / uno en otro residía / y aquese amor que los une / en lo mismo convenía / con el uno y con el otro / en igualdad y valía. / Tres Personas y un amado / entre todos tres había / y un amor en todas ellas / y un amante las hacía; / y el amante es el amado / en que cada cual vivía; / que el ser que los tres poseen / cada cual le poseía / y cada cual de ellos ama / a la que este ser tenía. / Este ser es cada una / y éste solo las unía / en un inefable nudo / que decir no se sabía; / por lo cual era. infinito / el amor que las unía, / porque un solo amor tres tienen, / que su esencia se decía: / que el amor cuanto más uno / tanto más amor hacía.

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2 SULLA COMUNICAZIONE DELLE TRE PERSONE In quell’amore immenso che dai due procedeva parole di grande gioia il Padre al Figlio diceva, di diletto sì profondo che nessuno le intendeva; solo il Figlio ne godeva ché a lui solo appartenevano, ma di quello che si intende in questo modo sonava: «nulla mi dà gioia, Figlio, fuor che la tua compagnia; e se qualcosa mi appaga in te stesso io la amo. E chi a te più assomiglia più mi dà soddisfazione e chi in nulla ti assomiglia in me nulla troverà. In te solo mi compiacqui o vita della mia vita! Sei luce della mia luce e sei la mia sapienza, figura della mia sostanza in cui mi son compiaciuto. A chi t’amerà, Figlio, di me stesso farò dono e l’amore che in te pongo, in lui stesso lo porrò, perché avrà voluto amare colui che tanto ho amato». En aquel amor inmenso / que de los dos procedía / palabras de gran regalo / el Padre al Hijo decía, / de tan profundo deleite / que nadie las entendía; / solo el Hijo lo gozaba, / que es a quien pertenecía; / pero

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aquello que se entiende / de esta manera decía: / «nada me contenta, Hijo, / fuera de tu compañía; / y si algo me contenta, / en ti mismo lo quería. / El que a ti más se parece / a mí más satisfacía / y el que en nada te semeja / en mí nada, hallaría. / En ti solo me he agradado, / ¡oh vida de vida mía! / Eres lumbre de mi lumbre, / eres mi sabiduría, / figura de mi sustancia / en quien bien me complacía. / Al que a ti te amare. Hijo, / a mi mismo le daría / y el amor que yo en ti tengo / ese mismo en él pondría, / en razón de haber amado / a quien yo tanto quería».

3 SULLA CREAZIONE «Una sposa che ti ami, Figlio mio, vorrei darti, che per tua grazia meriti stare in nostra compagnia e mangiar lo stesso pane che io mangio, alla mia mensa, affinché conosca i beni ch’io possiedo in tale Figlio e con me si compiaccia della tua grazia e ricchezza». «Molto ti ringrazio, Padre — il Figliolo gli rispose —; a colei che mi darai lo splendore mio darò perché in lei veder possa quanto vale il Padre mio e che l’esser che possiedo dal suo esser lo ricevo. Reclinata sul mio braccio nel tuo amore avvamperà e in un eterno diletto il tuo bene esalterà». «Una esposa, que te ame, / mi Hijo, darte quería, / que por tu valor merezca / tener nuestra compañía / y comer pan a una mesa / de el

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mismo que yo comía, / porque conozca los bienes / que en tal Hijo yo tenía / y se congracie conmigo / de tu gracia y lozanía.» / «Mucho lo agradezco, Padre, / — el Hijo le respondía —; / a la esposa que me dieres / yo mi claridad daría / para que por ella vea / cuánto mi Padre valía, / y cómo el ser que poseo / de su ser le recibía. / Reclinarla he yo en mi brazo / y en tu amor se abrasaría / y con eterno deleite / tu bondad sublimaría».

4 PROSEGUE SULLA CREAZIONE «Così sia — disse il Padre — il tuo amor lo meritò; e pronunciando tal verbo tutto il mondo egli creò palazzo per la sua sposa fatto con grande sapienza; lo costruì di due piani, in alto e in basso lo divise; ed in basso in differenze infinite lo compose; e l’alto l’abbelliva di mirabili gioielli. Perché la sposa sapesse quale Sposo ella possieda nell’alto vi collocava l’angelica gerarchia; mentre l’umana natura in quel basso egli la pose, perché nella sua struttura v’era pregio minore. E s’anche l’essere e i luoghi in tal modo egli divise, tutti fanno un solo corpo della sposa, che diceva: l’amor dell’unico Sposo ne fa l’unica sposa. 44

Quelli in alto possedevano lo Sposo nella letizia, per la fede che infondeva dicendo loro che un giorno li esalterà di grandezza e che la loro bassezza egli a sé l’innalzerà in maniera che nessuno più la vitupererà, poiché in tutto somigliante egli a loro si farà e venuto tra di loro tra di loro abiterà e che Dio sarà uomo e che l’uomo Dio sarà e con loro vivendo mangerà e con lor berrà e che con loro per sempre egli stesso rimarrà finché fosse consumato questo secolo presente, quando insieme essi godranno in eterna melodia, poiché egli era il vero capo della sua stessa sposa, alla qual tutte le membra dei suoi giusti egli unirà che son corpo della sposa, che egli poi teneramente fra le braccia prenderà e le darà il suo amore; e così congiunti in uno al Padre la condurrà, dove lo stesso diletto che Dio gode ella godrà; e come il Padre ed il Figlio e Colui che ne procede 45

l’uno vive nell’altro, così sarà la sua sposa che entro Dio assorta vita di Dio vivrà. «Hágase, pues — dijo el Padre —, / que tu amor lo merecía»; / y en este dicho que dijo, / el mundo criado había / palacio para la esposa / hecho en gran sabiduría; / el cual en dos aposentos, / alto y bajo dividía; / el bajo de diferencias / infinitas componía; / mas el alto hermoseaba / de admirable pedrería. / Porque conozca la esposa / el Esposo que tenía, / en el alto colocaba / la angélica jerarquía; / pero la natura humana / en el bajo la ponía, / por ser en su compostura / algo de menor valía. / Y aunque el ser y los lugares / de esta suerte los partía, / pero todos son un cuerpo / de la esposa que decía: / que el amor de un mismo Esposo / una esposa los hacía. / Los de arriba poseían / el Esposo en alegría, / los de abajo en esperanza / de fe que les infundía, / dicíendoles que algún tiempo / él los engrandecería / y que aquella su bajeza / él se la levantaría / de manera que ninguno / ya. la vituperaría, / porque en todo semejante / él a ellos se haría / y se vendría con ellos / y con ellos moraría / y que Dios sería hombre / y que el hombre Dios sería / y trataría con ellos, / comería y beberia / y que con ellos contino / él mismo se quedaría / hasta que se consumase / este siglo que corría, / cuando se gozaran juntos / en eterna melodía, / porque él era la cabeza / de la esposa que tenía, / a la cual todos los miembros / de los justos juntaría, / que son cuerpo de la esposa, / a la cual él tomaría / en sus brazos tiernamente / y allí su amor la daría; / y que así juntos en uno / al Padre la llevaría, / donde de el mismo deleite / que Dios goza, gozaría; / que, como el Padre y el Hijo / y el que ellos procedía / el uno vive en el otro, / así la esposa sería / que, dentro de Dios absorta, / vida de Dios viviría.

5 PROSEGUE Con questa buona speranza che dall’alto veniva il tedio dei lor travagli più lieve diventava; ma l’attesa prolungata e il crescente desiderio di godere col suo Sposo 46

di continuo l’affliggeva; e così con le preghiere xcon sospiri ed agonia e con lacrime e con gemiti notte e giorno supplicavano sì che si determinasse a donar la sua presenza. Diceva l’uno: «O se fosse nel mio tempo l’allegria!». Altri: «Signore rispondi: chi devi inviare, invia!». Altri poi: «O se s’aprissero questi cieli, io lo vedrei coi miei occhi che discende e il mio pianto cesserebbe!». «Piovete, nubi, dall’alto, che la terra lo chiede, e s’apra ormai la terra che solo spine ci ha dato e produca l’unico fiore del quale essa fiorirebbe!». Dicevano altri: «Felice chi in tal tempo vivrà e meriti di veder Dio con i suoi stessi occhi di toccarlo con le mani d’andare in sua compagnia e godere dei misteri ch’egli allor dispiegherà!». Con esta buena esperanza. / que de arriba les venía, / el tedio de sus trabajos / más leve se les hacía; / pero la esperanza larga / y el deseo que crecía. / de gozarse con su Esposo / contino les afligía.; / por lo cual con oraciones, / con suspiros y agonía, / con lágrimas y gemidos / le rogaban noche y día / que ya se determinase / a les dar su compañía. / Unos decían: «¡Oh si fuese / en mi tiempo el alegría!» / Otros: «¡Acaba, Señor; / al que has de enviar, envia!» / Otros: «¡Oh si ya rompieses / esos cielos, y vería / con mis ojos que bajases, / y mi llanto cesaría!» / «¡Regad, nubes

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de lo alto, / que la tierra lo pedía, / y ábrase ya la tierra / que espinas nos producía / y produzca aquella flor / con que ella florecería!» / Otros decían: «¡Oh dichoso / el que en tal tiempo sería / que merezca ver a Dios / con los ojos que tenía / y tratarle con sus manos / y andar en su compañía / y gozar de los misterios / que entonces ordenaría!».

6 PROSEGUE In queste e altre preghiere lungo tempo era passato; però negli ultimi anni cresceva molto il fervore, quando il vecchio Simeone s’infiammò di desiderio pregando Dio che volesse lasciargli veder quel giorno. Così lo Spirito Santo al buon vecchio rispose che gli dava la parola che non vedrebbe la morte finché non vedesse la vita discendere dall’alto e nelle sue stesse mani Dio stesso ricevesse e tenendol fra le braccia a se stesso l’abbracciasse. En aquestos y otros ruegos / gran tiempo pasado había: / pero en los postreros años / el fervor mucho crecía, / cuando el viejo Simeón / en deseo se encendía, / rogando a Dios que quisiese / dejalle ver este día. / Y así el Espíritu Santo / al buen viejo respondía / que le daba su palabra / que la muerte no vería / hasta que la vida viese / que de arriba descendía, / y que él en sus mismas manos / al mismo Dios tomaría / y le tendría en sus brazos / y consigo abrazaría.

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CONTINUA SULL’INCARNAZIONE Quando il tempo era venuto nel qual farsi conveniva il riscatto della sposa che in duro giogo serviva sottomessa a quella legge che Mosè le aveva dato con soave amore il Padre così a lui si rivolgeva: «Vedi, Figlio, la tua sposa a tua immagine l’ho fatta ed in quanto t’assomiglia a te bene si conviene: differisce nella carne che non è nell’esser tuo. Ma negli amori perfetti si richiede questa legge: che si faccia somigliante l’amante a chi egli ama; ché la maggior somiglianza maggior diletto contiene; e certo nella tua sposa grandemente crescerebbe a vederti somigliante nella sua stessa carne». «La mia volontà è la tua — il Figlio così gli rispose — ed è l’unica mia gloria che la tua volontà sia mia; ed a me conviene, Padre, ciò che dice la tua altezza, poiché in questa maniera la tua bontà è manifesta; si vedrà la tua potenza, la giustizia e la sapienza; andrò a dirlo a tutto il mondo 49

gli darò così l’annunzio della tua dolce bellezza e della tua sovranità. Andrò a cercarmi la sposa e su di me prenderò le sue fatiche e i travagli di cui tanto ella soffrì; e affinché ella abbia vita io per lei morirò e traendola d’abisso io te la ridonerò. Y que el tiempo era llegado / en que hacerse convenía / el rescate de la esposa / que en duro yugo servía / debajo de aquella ley / que Moisés dado le había, / el Padre con amor tierno / de esta manera decía: / «Ya ves, Hijo, que a tu esposa / a tu imagen hecho había / y en lo que a ti se parece / contigo bien convenía; / pero difiere en la carne / que en tu simple ser no había. / En los amores perfectos / esta ley se requería: / que se haga semejante / el amante a quien quería; / que la mayor semejanza / más deleite contenía; / el cual, sin duda, en tu esposa / grandemente crecería / si te viere semejante / en la carne que tenía». / «Mi voluntad es la tuya / — el Hijo le respondía — / y la gloria que yo tengo / es tu voluntad ser mía; / ya mí me conviene, Padre, / lo que tu alteza decía, / porque por esta manera / tu bondad más se vería; / veráse tu gran potencia, / justicia y sabiduría; / irélo a decir al mundo / y noticia le daría / de tu bellezza y dulzura / y de tu soberanía. / Iré a buscar a mi esposa / y sobre mí tomaría / sus fatigas y trabajos / en que tanto padecía; / y porque ella vida tenga / yo por ella moriría / y sacándola de el lago / a ti te la volvería».

8 PROSEGUE Allora chiamò un arcangelo di nome San Gabriele e lo mandò a una fanciulla che si chiamava Maria, ed il suo solo consenso questo mistero compì; 50

ed in lei la Trinità di carne il Verbo rivestì; e se tre compiono l’opera in un solo si compì; ed ecco il Verbo incarnato è nel grembo di Maria. E chi solo aveva Padre ebbe allora anche la Madre, ma non come colei che da uomo concepisce, ché dalle sue sole viscere la sua carne ricevette; e per ciò Figlio di Dio e dell’uomo si chiamò. Entoces llamó a un arcángel / que San Gabriel se decía / y enviólo a una doncella / que se llamaba María, / de cuyo consentimiento / el misterio se hacía; / en la cual la Trinidad / de carne al Verbo vestía: / y aunque tres hacen la obra, / en el uno se hacía; / y quedó el Verbo encarnado / en el vientre de María. / Y el que tenía sólo Padre, / ya también Madre tenía, / aunque no como cualquiera / que de varón concebía, / que de las entrañas de ella / él su carne recebia; / pollo cual Hijo de Dios / y de el hombre se decía.

9 SULLA NATIVITÀ Ed essendo giunto il tempo in cui nascere doveva, allor egli come sposo dal suo talamo sorgeva abbracciato alla sua sposa che al petto stringeva: la Madre piena di grazia nel presepe lo poneva in mezzo agli animali che lì intorno si trovavano. 51

Gli uomini innalzano cantici, e gli angeli melodia, festeggiando gli sponsali fra costoro consumati; però Dio nel presepe andava piangendo e gemendo, e queste gioie la sposa portava al suo sposalizio; e la Madre spasimava nel vedere tale scambio: il pianto dell’uomo in Dio e nell’uomo la gioia: ciò che dall’uno e dall’altro sempre è tanto lontano. Ya que era llegado el tiempo / en que de nacer había, / así como desposado / de su tálamo salía / abrazado con su esposa, / que en sus brazos la traía, / al cual la graciosa Madre / en un pesebre ponía / entre unos animales / que a la sazón allí había. / Los hombres decían cantares, / los ángeles melodía, / festejando el desposorio / que entre tales dos había; / pero Dios en el pesebre / allí lloraba y gemía, / que eran joyas que la esposa / al desposorio traía; / y la Madre estaba en pasmo / de que tal trueque veía: / el llanto de el hombre en Dios / y en el hombre la alegría, / lo cual de el uno y de el otro / tan ajeno ser solía.

II ROMANCE SUL SALMO SUPER FLUMINA BABILONIS2 Lungo le rive del fiume che si trova in Babilonia me ne sedevo piangendo e la terra ne irrigavo ricordandomi di te, o Sion, te che amavo. La tua memoria era dolce e con essa più piangevo; smisi gli abiti di festa 52

e ne indossai di travaglio, tra i verdi salici posi la musica che portavo riponendola nella speranza di quello che in te speravo. E mi ferì l’amore ed il cuore mi strappava. Gli chiesi che m’uccidesse, poiché tanto mi feriva; mi gettai nel suo fuoco sapendo che m’avrebbe arso comprendendo quell’uccello che nel fuoco consumava; così in me stavo morendo e in te solo respiravo, ed in me per te morivo e per te resuscitavo, e la memoria di te dava vita e la toglieva. Morivo per morirmene, la mia vita m’uccideva, poiché essa continuando del vederti mi privava. Godevano gli stranieri tra i quali ero prigioniero. Vedevo che non vedevano che il godere li ingannava. E mi chiedevano cantici di quelli che in Sion cantavo: — Cantaci un inno di Sion; vediamo come suonava. — Ditemi, in terra straniera, dove per Sion piangevo, come cantar l’allegria che in Sion allora avevo? lo farei dimenticando se in esilio avessi gioia; 53

al mio palato s’attacchi la lingua con cui parlavo, se di te io mi obliassi nella terra ove dimoro. Sion, per i verdi rami che Babilonia mi dava, si scordi di me la mia destra, ciò che in te ho più amato, se di te non mi ricordi in ciò che più io godevo e se dandomi alla festa senza te la festeggiassi! O figlia di Babilonia, o misera e sventurata! Fortunato era colui nel quale io confidavo, che dovrà darti il castigo che dalle tue mani ho avuto; e riunirà i suoi piccoli e me, poiché in te ho pianto, alla pietra, che era Cristo, per il quale t’ho lasciata! Encima de las corrientes / que en Babilonia hallaba, / allí me senté llorando, / allí la tierra regaba / acordándome de ti, / ¡oh Sión!, a quien amaba. / Era dulce tu memoria / y con ella más lloraba; / dejé los trajes de fiesta, / los de trabajo tomaba / y colgué en los verdes sauces / la música que llevaba / poniéndola en esperanza / de aquello que en ti esperaba. / Allí me hirió el amor / y el corazón me sacaba. / Díjele que me matase, / pues de tal suerte llagaba; / yo me metía en su fuego / sabiendo que me abrasaba / desculpando al avecica / que en el fuego se acababa; / estábame en mí muriendo / y en ti solo respiraba, / en mí por ti me moría / y por ti resucitaba, / que la memoria de ti / daba, vida y la quitaba. / Moríame por morirme / y mi vida me mataba, / porque ella perseverando / de tu vista me privaba. / Gozábanse los extraños / entre quien cautivo estaba. / Miraba cómo no vían / que el gozo los engañaba. / Preguntábanme cantares / de lo que en Sión cantaba: / — Canta de Sión un himno; / veamos cómo sonaba. / — Decid, ¿cómo en tierra ajena, / donde por Sión lloraba, / cantaré yo el alegría / que en Sión se me quedaba? / e cháñala en olvido / si en la ajena me gozaba; / con mi

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paladar se junte / la lengua con que hablaba, / si de ti yo me olvidare / en la tierra do inoraba. / ¡Sión, por los verdes ramos / que Babilonia me daba, / de mí se olvide mi diestra, / que es lo que en ti más amaba, / si de ti no me acordare / en lo que más me gozaba, / y si yo tuviere fiesta / y sin ti la festejaba! / ¡Oh hija de Babilonia, / miseria y desventurada! / ¡Bienaventurado era / aquel en quien confiaba, / que te ha de dar el castigo / que de tu mano llevaba, / y juntará sus pequeños / y a. mí, porque en ti lloraba, / a la piedra, que era Cristo, / por el cual yo te dejaba!

III CANTICO SPIRITUALE3 CANZONI FRA L’ANIMA E LO SPOSO Sposa Dove ti nascondesti, in gemiti lasciandomi, o Amato? Come il cervo fuggisti dopo avermi ferito; gridando ti seguii, te n’eri andato. Pastori che salite su per gli stazzi fino alla collina, se per caso vedeste colui che più io amo, ditegli che languisco e peno e muoio. In cerca del mio amore andrò per questi monti e queste ripe, non coglierò più fiori né temerò le fiere e passerò oltre i forti e le frontiere. Domanda alle creature O boschi e folte selve piantate dalla mano dell’Amato! 55

O prato di verzura e di fiori smaltato ditemi se tra voi egli è passato! Risposta delle creature Mille grazie spargendo passò per questi boschi con sveltezza e venendo e mirando con il solo suo sguardo li lasciò rivestiti di bellezza. Sposa Ah, chi potrà guarirmi? Donati a me finalmente davvero; e non voler mandarmi d’ora in poi messaggeri perché non sanno dirmi ciò che amo! Tutti color che vagano mille grazie di te mi van narrando e tutti più mi piagano, e mi lascia morente il non so che da loro balbettato. Ma come sopravvivi, o vita, non vivendo dove vivi, facendoti morire i dardi che ricevi da quel che dell’Amato concepisci? Perché tu ch’hai piagato questo mio cuore non lo risanasti? tu che me l’hai rubato perché sì lo lasciasti e non cogli la preda che rubasti?

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Estingui le mie pene poiché nessuno basta a consumarle, ti vedano i mei occhi, poiché sei la loro luce e per te solo voglio riserbarli! Svela la tua presenza, e m’uccida il veder la tua bellezza; guarda, la sofferenza d’amore non si cura se non con la presenza e la figura! O cristallina fonte, se in questi tuoi riflessi inargentati formassi di repente gli occhi desiderati che nell’intimo serbo disegnati! Allontanali, Amato io spicco il volo! Sposo Volgiti, colomba, che il cervo vulnerato dal colle si protende all’aura del tuo volo e si ristora! Sposa L’Amato è le montagne le valli solitarie più boscose le isole remote i fiumi risonanti il sussurro dell’aure amorose e la notte acquietata prossima al risvegliarsi dell’aurora 57

la musica silente la solitudine sonora la cena che ricrea ed innamora. Scacciateci le volpi, che fiorita è oramai la nostra vigna e nel mentre di rose intrecceremo un fascio che nessuno si mostri alla collina. Placati, Borea morto; vieni, Austro che rianimi gli amori, spira nel mio giardino a spargere gli aromi: si sazierà l’Amato in mezzo ai fiori. O ninfe di Giudea! fintanto che fra i fiori ed i roseti l’ambra scioglie profumi restate nei dintorni, e non sfiorate queste nostre soglie. Nasconditi, mio Caro, e volgi il viso verso le montagne e non voler parlarne, ma guarda le compagne del mio andar per isole lontane. Sposo Voi lievi uccelli, leoni, cervi, daini saltellanti, monti, valli, riviere, acque, aure ed arsure e vigili timori delle notti; io per le amene lire e il canto di sirene vi scongiuro: 58

cessino le vostre ire e non toccate il muro perché la sposa dorma più al sicuro. Si è addentrata la sposa nell’ameno giardin desiderato e a suo piacer riposa il collo reclinato sulle dolci braccia dell’Amato. Ed all’ombra del melo finalmente con me fosti sposata; qui ti diedi la mano e fosti riscattata dove tua madre un giorno fu violata. Sposa Fiorito è il nostro letto da tane di leoni circondato da porpora protetto di pace edificato di mille scudi d’oro incoronato. Seguendo la tua traccia le giovinette vagano per via al tocco di scintilla all’aromato vino zampillare di balsamo divino. Nell’intima segreta dell’Amato ho bevuto, e quando uscii per tutta la vallata nulla io più sapevo e persi anche le greggi che seguivo. Lì mi diede il suo petto lì m’insegnò la scienza saporosa 59

e in quell’atto gli diedi me, senza nulla sottrargli: e gli promisi d’esser la sua sposa. L’anima mia donata gli ho, con ogni bene al suo servizio; non guardo più le greggi né conservo altro impegno, che solo nell’amare è il mio esercizio. Se d’ora in poi dai campi non fossi più veduta né trovata, mi direte smarrita; che errando innamorata, volli smarrirmi e fui riguadagnata. Di fiori e di smeraldi scelti nella frescura del mattino formeremo ghirlande nel tuo amore fiorite e con un mio capello intrecciate. In quel solo capello che sul mio collo hai visto ondeggiare guardandolo sul collo tu sei rimasto preso ed un solo mio sguardo t’ha ferito. Quando tu mi guardavi la lor grazia i tuoi occhi m’imprimevano; e per ciò più m’amavi e così meritavano i miei d’adorar la tua visione. Non voler disprezzarmi, che se bruno colore in me hai trovato, ora puoi ammirarmi dopa che m’hai guardato, 60

poiché grazia e bellezza in me hai lasciato. Sposo La bianca colombella all’arca con il ramo è ritornata e già la tortorella il suo compagno amato su verdeggianti sponde ha ritrovato. Solitaria viveva e solitaria preparò il suo nido: solitaria la guida solitario l’amato d’amore in solitudine ferito. Sposa Godiamoci, o Amato, e rispecchiamoci nella tua bellezza andiamo al colle, al monte là dove pura scaturisce l’acqua; addentriamoci ancora più nel folto, e poi nelle elevate grotte di pietra c’incammineremo, che stanno ben celate, e quando v’entreremo mosto di melograno gusteremo. Là tu mi mostrerai quello che la mia anima cercava e là mi donerai là quello, vita mia, quello che l’altro giorno mi hai donato: lo spirare dell’aura ed il canto del dolce usignolo e la grazia del bosco 61

nella notte serena con fiamma che consuma e non dà pena. E nessuno guardava; neppure Amidanab ricompariva e l’assedio allentava e la cavalleria alla vista dell’acque discendeva. Esposa ¿Adónde te escondiste, / Amado, y me dejaste con gemido? / Como el ciervo huiste / habiéndome herido; / salí tras ti clamando, y eras ido. / Pastores los que fuerdes / allá por la majadas al otero, / si por ventura vierdes / aquel que yo más quiero, / decilde que adolezco, peno y muero. / Buscando mis amores / iré por esos montes y riberas, / ni cogeré las flores / ni temeré las fieras / y pasaré los fuertes y fronteras. / Pregunta a las criaturas / ¡Oh bosques y espesuras / plantadas por la mano del Amado! / ¡Oh prado de verduras / de flores esmaltado / decid si por vosotros ha pasado! Respuesta de las criaturas / Mil gracias derramando / pasó por estos sotos con presura / y vendólos mirando / con sola su figura / vestidos los dejó de hermosura. Esposa I ¡Ay, quién podrá sanarme? / ¡Acaba de entregarte ya de vero; / no quieras enviarme / de hoy más ya mensajero / que no saben decirme lo que quiero! / Y todos cuantos vagan / de ti me van mil gracias refiriendo / y todos más me llagan / y déjame muriendo / un no sé qué que quedam balbuciendo. / Mas ¿cómo perseveras, / ¡oh vida!, no viviendo donde vives / y haciendo porque mueras / las flechas que recibes / de lo que del Amado en ti concibes? / ¿Por qué, pues, has llagado / aqueste corazón, no le sanaste? / Y, pues me le has robado, / ¿por qué así le dejaste, / y no tomas el robo que robaste? / ¡Apaga mis enojos, / pues que ninguno basta a deshacellos, / y véante mis ojos, / pues eres lumbre dellos / y sólo para ti quiero tenellos! / ¡Descubre tu presencia, / y máteme tu vista y hermosura; / mira que la dolencia / de amor, que no se cura / sino con la presencia y la figura! / ¡Oh cristalina fuente, / si en esos tus semblantes plateados / formases de repente / los ojos deseados / que tengo en mis entrañas dibujados! / ¡Apártalos, Amado, / que voy de vuelo! Esposo I ¡Vuélvete, paloma, / que el ciervo vulnerado / por el otero asoma / al aire de tu vuelo, y fresco toma!

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Esposa / Mi Amado las montañas / los valles solitarios nemorosos / las ínsulas extrañas / los ríos sonorosos / el silbo de los aires amorosos / la noche sosegada / en par de los levantes de la aurora / la música callada / la soledad sonora / la cena que recrea y enamora. / Cazadnos las raposas, / que está ya florecida nuestra viña, / en tanto que de rosas / hacemos una pina, / y no parezca nadie en la montíña. / Detente, cierzo muerto; / ven, austro, que recuerdas los amores, / aspira por mi huerto / y corran sus olores / y pacerá el Amado entre las flores. / ¡Oh ninfas de Judea! / en tanto que en las flores y rosales el ámbar perfumea, / mora en los arrabales, / y no queráis tocar nuestros umbrales. / Escóndete, Carillo, / y mira con tu haz a las montañas / y no quieras decillo, / mas mira las compañas / de la que va por ínsulas extrañas. Esposo / A las aves ligeras, / leones, ciervos, gamos saltadores, / montes, valles, riberas, / aguas, aires, ardores / y miedos de las noches veladores: / por las amenas liras / y canto de serenas os conjuro / que cesen vuestras iras / y no toquéis al muro / porque la esposa duerma más seguro. / Entrado se ha la esposa / en el ameno huerto deseado / ya su sabor reposa / el cuello reclinado / sobre los dulces brazos del Amado. / Debajo del manzano / allí conmigo fuiste desposada; / allí te di la mano / y fuiste reparada / donde tu madre fuera violada. Esposa / Nuestro lecho florido / de cuevas de leones enlazado / en púrpura tendido / de paz edificado / de mil escudos de oro coronado. / A zaga de tu huella / las jóvenes discurren al camino / al toque de centella / al adobado vino; / emisiones de bálsamo divino. / En la interior bodega / de mi Amado bebí, y cuando salía / por toda aquesta vega / ya cosa no sabía / y el ganado perdí que antes seguía. / Allí me dio su pecho / allí me enseñó ciencia muy sabrosa / y yo le di de hecho / a mí, sin dejar cosa: / allí le prometí de ser su esposa. / Mi alma se ha empleado / y todo mi caudal en su servicio; / ni ya tengo otro oficio, / que ya sólo en amar es mi ejercicio. / Pues ya si en el ejido / de hoy más no fuere vista ni hallada, / diréis que me he perdido; / que, andando enamorada, / me hice perdidiza y fui ganada. / De flores y esmeraldas / en las frescas mañanas escogidas / haremos las guirnaldas / en tu amor floridas / y en un cabello mío entretejidas. / En solo aquel cabello / que en mi cuello volar consideraste / mirástele en mi cuello / y en él preso quedaste / y en uno de mis ojos te llagaste. / Cuando tú me mirabas / su gracia en mi tus ojos imprimían; / por eso me adamabas / y en eso merecían / los míos adorar lo que en ti vían. / No quieras despreciarme, / que si color moreno en mí hallaste, / ya bien puedes mirarme / después que me miraste, / que gracia y hermosura en mí dejaste. Esposo / La blanca palomica / al arca con el ramo se ha tornado / y

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ya la tortolica / al socio deseado / en las riberas verdes ha hallado. / En soledad vivía / y en soledad ha puesto ya su nido / y en soledad la guía / a solas su querido / también en soledad de amor herido. Esposa I Gocémonos. Amado, / y vámonos a ver en tu hermosura / al monte y al collado / do mana el agua pura; / entremos más adentro en la espesura, / y luego a las subidas / cavernas de la piedra nos iremos, / que están bien escondidas, / y allí nos entraremos / y el mosto de granadas gustaremos. / Allí me mostrarías / aquello que mi alma pretendía / y luego me darías / allí tú, ¡vida mia! / aquello que me diste el otro día: / el aspirar del aire / el canto de la dulce filomena / el soto y su donaire / en la noche serena / con llama que consume y no da pena. / Que nadie lo miraba; / Aminadab tampoco parecía / y el cerco sosegaba / y la caballería / a vista de las agrias descendía.

IV CANTO DELL’ANIMA CHE SI RALLEGRA DI CONOSCERE DIO PER FEDE4 Ben conosco la fonte che scaturisce e scorre: anche se è notte! Se quell’eterna fonte sta nascosta ben so dov’è la sua polla riposta, anche se è notte. Sua origine non so, che non ne ha alcuna, so che tutte le origini promana, anche se è notte. So ch’esister non può cosa sì bella e cielo e terra bevono di quella anche se è notte. Ben so che in essa non si trova fondo e che nessuno mai potrà vederla anche se è notte. La sua chiarità mai è offuscata 64

ed ogni luce so che n’è emanata anche se è notte. Tanto copiose son le sue correnti che inferni e cieli irrigano e le genti anche se è notte. Il corso che rampolla dalla fonte ben so che è tanto ampio e onnipotente, anche se è notte. Il corso che da queste due procede so che d’esse nessuna lo precede, anche se è notte. E questa eterna fonte sta nascosta in questo vivo pane a darci vita, anche se è notte. Qui se ne sta chiamando le creature di quest’acqua a saziarsi, anche se al buio, anche se è notte. E questa viva fonte che io bramo in questo pan di vita già la vedo, anche se è notte. ¡Qué bien sé yo la fonte que mana y corre: / aunque es de noche! / Aquella eterna fonte está escondida, / que bien sé yo do tiene su manida, / aunque es de noche. / Su origen no lo sé, pues no le tiene, / mas sé que todo origen della viene, / aunque es de noche. / Sé que no puede se cosa tan bella / y que cielos y tierra beben della, / aunque es de noche. / Bien sé que suelo en ella no se halla / y que ninguno puede vadealla, / aunque es de noche. / Su claridad nunca es escurecida / y sé que toda luz de ella es venida, / aunque es de noche. / Sé ser tan caudalosos sus corrientes, / que infiernos, cielos riegan y las gentes, / aunque es de noche. / El corriente que nace de esta fuente / bien sé que es tan capaz y omnipotente, / aunque es de noche. / El corriente que de estas dos procede / sé que ninguna de ellas le precede, / aunque es de noche. / Aquesta eterna fonte esta escondida / en este vivo pan por

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darnos vida, / aunque es de noche. / Aquí se está llamando a las criaturas / y de esta agua se hartan, aunque a escuras, / porque es de noche. / Aquesta viva fuente que deseo / en este pan de vida yo la veo, / aunque de noche.

V NOTTE OSCURA5 CANZONI DELL’ANIMA CHE GIOISCE DI AVER RAGGIUNTO L’ALTO GRADO DI PERFEZIONE CHE è L’UNIONE CON DIO ATTRAVERSO IL CAMMINO DELLA NEGAZIONE SPIRITUALE. In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata; allo scuro e sicura per la segreta scala, travestita, o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz’altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. E questa mi guidava più certa della luce meridiana là dove mi aspettava chi bene io conoscevo in luogo ove nessuno si mostrava. O notte che guidasti! 66

O notte amabile più dell’aurora! O notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata! Sul mio petto fiorito, che per lui solo intatto si serbava, lì rimase dormiente ed io l’accarezzavo e il ventaglio di cedri l’arieggiava. E l’aura dei bastioni mentre quei suoi capelli discioglievo con la mano serena nel collo mi feriva e tutti i miei sensi sospendeva. Dimentica, acquietata, il volto reclinai sull’Amato, tutto cessò e rimasi, lasciando ogni mia cura, circondata da gigli, obliata. En una noche oscura / con ansias en amores inflamanda / joh dichosa ventura! / sali sin ser notada / estando ya mi casa sosegada; / a escuras, y segura / por la secreta escala disfrazada / ¡oh dichosa ventura! / a escuras y en celada / estando ya mi casa sosegada. / En la noche dichosa / en secreto que nadie me veía / ni yo miraba cosa, / sin otra luz y guía / sino la que en el corazón ardía. / Aquesta me guiaba / más cierto que la luz del mediodía / adonde me esperaba / quien yo bien me sabía / en parte donde nadie parecía. / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que la alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada, / amada en el Amado transformada! / En mi pecho florido, / que entero para él solo se guardaba, / allí quedó dormido / y yo le regalaba / y el ventalle de cedros aire daba. / El aire de la almena / cuando yo sus cabellos esparcía / con su mano serena / en mi cuello hería / y todos mis sentidos suspendía. / Quédeme y olvidóme, / el rostro recliné sobre el Amado, / cesó todo y dejóme, / dejando mi cuidado / entre las azucenas olvidado.

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VI UN PASTORELLO CANZONI «AL DIVINO» DI CRISTO E DELL’ANIMA6 Un pastorello solo sta appenato, lontano da ogni gioia e godimento alla pastora il suo pensiero è intento e il suo petto d’amore è lacerato. Non piange perché amore l’ha piagato, né l’appena vedersi tanto afflitto sebbene nel suo cuore sia ferito, ma al pensier piange d’essere obliato; solo al pensiero d’essere obliato dalla bella pastora, con gran pena si lascia maltrattare in terra aliena con il petto d’amore lacerato. E dice il pastorello: «O sventurato è chi il mio amore ha ridotto ad assenza e non ama goder la mia presenza né il petto dal suo amore lacerato!». E infine, su di un albero innalzato, dove distese le sue braccia belle morto se n’è rimasto appeso a quelle, col petto dall’amore lacerato. Un pastorcico solo está penado, / ajeno de placer y de contento / y en su pastora puesto el pensamiento / y el pecho del amor muy lastimado. / No llora por haberle amor llagado, / que no le pena verse así afligido, / aunque en el corazón está herido, / mas llora por pensar que está olvidado; / que sólo de pensar que está olvidado / de su bella pastora, con gran pena / se deja maltratar en tierra ajena, / el pecho del amor muy lastimado. / Y dice el pastorcico: «¡ay, desdichado / de aquel que de mi amor ha hecho ausencia / y no quiere gozar la mi presencia / y el pecho por su amor muy lastimado!». / Ya cabo de un gran rato se ha

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encumbrado / sobre un árbol, do abrió sus brazos bellos / y muerto se ha quedado asido dellos, / el pecho de el amor muy lastimado.

VII FIAMMA D’AMOR VIVA7 CANZONI DELL’ANIMA NELL’INTIMA COMUNICAZIONE DI UNIONE D’AMOR DI DIO O fiamma d’amor viva che soave ferisci dell’anima nel più profondo centro, poiché non sei più schiva, se vuoi, l’opra finisci; rompi la tela del tuo dolce incontro! O cauterio soave! carezzevole piaga! o lieve mano! o tocco delicato che sa di vita eterna e ogni debito paga; morte in vita, uccidendo, hai tramutato!

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San Giovanni della Croce in un dipinto di José Vergara. (Barcellona, collezione privata).

O lampade di fuoco nel cui risfavillare le profonde caverne dei miei sensi, ch’erano oscuri e ciechi, con ignota maestria 70

calore e luce danno al loro amato! Come mite e amoroso risvegli nel mio seno dove in segreto e solo tu dimori e col tuo dolce respiro di bene e gloria pieno con qual delicatezza m’innamori! ¡Oh llama de amor viva / que tiernamente hieres / de mi alma en el más profundo centro, / pues yano eres esquiva, / acaba ya, si quieres; / rompe la tela deste dulce encuentro! / ¡Oh cauterio suave! / ¡Oh regalada llaga! / ¡Oh mano blanda! ¡Oh toque delicado / que a vida eterna sabe / y toda deuda paga; / matando, muerte en vida la has trocado! / ¡Oh lámparas de fuego / en cuyos resplandores / las profundas cavernas del sentido, / que estaba oscuro y ciego, / con extraños primores / calor y luz dan junto a su querido! / ¡Cuan manso y amoroso / recuerdas en mi seno / donde secretamente solo moras / y en tu aspirar sabroso / de bien y gloria lleno / cuan delicadamente me enamoras!

VIII STROFE DELL’ANIMA CHE SOFFRE PER VEDERE DIO8 Vivo ma non vivo in me e sì grandemente spero che muoio perché non muoio. In me io più non vivo senza Dio viver non posso; di lui e di me privo questo viver che sarà? Mille morti subirò se alla mia vita attendo, morendo perché non muoio. Questa vita che io vivo è privazione di vita, e un continuo morire 71

fino a che con te non viva. Ascolta, mio Dio, ciò che dico, io questa vita non voglio, ché muoio perché non muoioì Stando lontano da te quale vita posso avere se non la morte patire la peggiore che mai vidi? Provo gran pietà di me perseverando in tal modo ché muoio perché non muoio. Il pesce fuori dell’acqua tuttavia trova sollievo se la morte che patisce gli guadagna infin la morte. Qual morte sarà ch’eguagli il mio vivere pietoso, ché più vivo più io muoio? Quando penso d’alleviarmi vedendoti nel Sacramento, s’acuisce il sentimento di non potere goderti; tutto è più grande penare non vedendoti come voglio e muoio perché non muoio. E poi se godo, Signore, sperando di contemplarti, vedendo che posso perderti si raddoppia il mio dolore; vivendo in tanto timore e sperando come spero, me ne muoio che non muoio. Strappami da questa morte, 72

Dio mio, dammi la vita; non lasciarmi imprigionata in un laccio tanto forte; guarda, peno per vederti e il mio male è tanto intero, che muoio perché non muoio. Piangerò già la mia morte lamenterò la mia vita fino a quando prigioniera dei miei peccati sarà. O mio Dio, quando avverrà che io possa dir davvero: vivo ormai perché non muoio? Vivo sin vivir en mi / y de tal manera espero / que muero porque no muero. I En mí yo no vivo ya / y sin Dios vivir no puedo; / pues sin él y sin mí quedo, / este vivir ¿qué será? / Mil muertes se me hará, / pues mi misma vida espero, / muriendo porque no muero. I Esta vida que yo vivo / es privación de vivir, / y así es contino morir / hasta que viva contigo. / ¡Oye, mi Dios, lo que digo; / que esta vida no la quiero, / que muero porque no muero! I Estando ausente de ti / ¿qué vida puedo tener / sino muerte padecer / la mayor que nunca vi? / Lástima tengo de mí, / pues de suerte persevero / que muero porque no muero. I El pez que del agua sale / aun de alivio no carece / que. en la muerte que padece / al fin la muerte le vale. / ¿Qué muerte habrá que se iguale / a mi vivir lastimero, / pues si más vivo muero? I Cuando me pienso a aliviar / de verte en el Sacramento, / háceme más sentimiento / el no te poder gozar; / todo es para más penar / por no verte como quiero / y muero porque no muero. I Y si me gozo, Señor, / con esperanza de verte, / en ver que puedo perderte / se me dobla mi dolor; / viviendo en tanto pavor / y esperando como espero, / muérome porque no muero. I ¡Sácame de aquesta muerte, / mi Dios, y dame la vida; / no me tengas impedida / en este lazo tan fuerte; / mira que peno por verte / y mi mal es tan entero, / que muero porque no muero! I Lloraré mi muerte ya / y lamentaré mi vida / en tanto que detenida / por mis pecados está. / ¡Oh mi Dios, cuándo será / cuando yo diga de vero: / vivo ya porque no muero?

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STROFE COMPOSTE DOPO UN’ESTASI DI PROFONDA CONTEMPLAZIONE9 Entrai dove non sapevo là rimasi non sapendo ogni scienza trascendendo. Non sapevo dove entravo, però, quando lì mi vidi, non sapendo dove stavo, grandi cose vi compresi; non dirò quel che sentii, che mi lasciò non sapendo, ogni scienza trascendendo. E di pace e di pietà quella scienza era perfetta in profonda solitudine la diritta via compresa; era cosa sì segreta che mi lasciò balbettante, ogni scienza trascendendo. Me ne stavo tanto rapito, tanto assorto e trasognato che rimasero i miei sensi d’ogni sentire privati e il mio spirito dotato d’intender non intendendo, ogni scienza trascendendo. Chi fin qui giunge davvero da se stesso viene meno; quanto prima egli sapeva molto infimo gli pare e sì cresce la sua scienza che rimane non sapendo, ogni scienza trascendendo. 74

Quanto più in alto si sale tanto meno si comprende, ché la tenebrosa nube va rischiarando la notte; e perciò chi la conosce resta sempre non sapendo, ogni scienza trascendendo. Questo saper non sapendo è di sì alto potere che i sapienti argomentando vincer mai lo potranno; ché non giunge il lor sapere a intender non intendendo, ogni scienza trascendendo. E di tanto alta eccellenza è questo sommo sapere che né facoltà né scienza v’è che possa conquistarla; ma colui che sappia vincersi con un non saper sapendo, andrà sempre trascendendo. E, se lo volete udire, consiste questa somma scienza in un sublime sentire della divina essenza; atto della sua clemenza lasciarci non intendendo, ogni scienza trascendendo. Entréme donde no supe / y quedéme no sabiendo / toda ciencia trascendiendo. I Yo no supe dónde entraba, / pero, cuando allí me vi, / sin saber dónde me estaba, / grandes cosas entendí; / no diré lo que sentí, / que ine quedé no sabiendo, / toda ciencia trascendiendo. I De paz y de piedad / era la ciencia perfecta / en profunda soledad / entendida (vía recta); / era cosa tan secreta / que me quedé balbuciendo,

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/ toda ciencia trascendiendo. / Estaba tan embebido, / tan absorto y ajenado / que se quedó mi sentido / de todo sentir privado / y el espíritu dotado / de un entender no entendiendo, / toda ciencia trascendiendo. / El que allí llega de vero / de sí mismo desfallece; / cuanto sabía primero / mucho bajo le parece / y su ciencia tanto crece / que se queda no sabiendo, / toda ciencia trascendiendo. / Cuanto más alto se sube / tanto menos se entendía, / que es la tenebrosa nube / que a la noche esclarecía; / por eso quien la sabía / queda siempre no sabiendo, / toda ciencia trascendiendo. / Este saber no sabiendo / es de tan alto poder / que los sabios arguyendo / jamás le pueden vencer; / que no llega su saber / a no entender entendiendo, / toda ciencia trascendiendo. / Y es de tan alta excelencia / aqueste sumo saber / que no hay facultad ni ciencia / que le puedan emprender; / quien se supiere vencer / con un no saber sabiendo, / irá siempre trascendiendo. / Y, si lo queréis oír, / consiste esta suma ciencia / en un subido sentir / de la divinal esencia; / es obra de su clemencia / hacer quedar no entendiendo, / toda ciencia trascendiendo.

X ALTRE STROFE VOLTE AL DIVINO10 Oltre un amoroso slancio, non mancando di speranza volai in alto, sì in alto, che raggiunsi la mia meta. Ma per dare compimento a questo slancio divino tanto volare dovetti che di vista mi perdetti; ed in tal grande cimento nel mio volo venni meno; ma l’amor fu tanto alto che raggiunsi la mia meta. Quanto più in alto salivo più s’abbagliava la vista e la più forte conquista nell’oscurità compivo; 76

ma poiché è d’amor lo slancio feci un salto cieco e oscuro e fui in alto, tanto in alto, che raggiunsi la mia meta. Quanto più in alto giungevo nello slancio sì sublime tanto più in basso ed arreso e abbattuto mi trovavo; dissi: «mai nessuno la raggiunge!»; m’abbattei tanto tanto che fui in alto, tanto in alto, che raggiunsi la mia meta. In maniera straordinaria mille voli feci d’un volo, ché la speranza del cielo tanto ottiene quanto spera; io sperai sol questo slancio e con speranza non vana, se fui in alto, tanto in alto, che raggiunsi la mia meta. Tras de un amoroso lance, / y no de esperanza falto / volé tan alto tan alto, / que le di a la caza alcance. / Para que yo alcance diese / a aqueste lance divino / tanto volar me convino / que de vista me perdiese; / y, con todo, en este trance / en el vuelo quedé falto; / mas el amor fue tan alto, / que le di a la caza alcance. / Cuando más alto subía / deslumbróseme la vista / y la más fuerte conquista / en escuro se hacía; / mas por ser de amor el lance / di un ciego y oscuro salto / y fui tan alto tan alto, / que le di a la caza alcance. / Cuanto más alto llegaba / de este lance tan subido, / tanto más bajo y rendido / y abatido me hallaba; / dije: «¡no habrá quien alcance!»; / y abatíme tanto tanto / que fui tan alto tan alto, / que le di a la caza alcance. / Por una extraña manera / mil vuelos pasé de un vuelo, / porque esperanza de cielo / tanto alcanza cuanto espera; / esperé solo este lance / y en esperar no fui falto, / pues fui tan alto tan alto, / que le di a la caza alcance.

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GLOSSA «AL DIVINO»11 Senza aiuto e con aiuto, senza luce e al buio stando tutto mi vo consumando. L’anima mia distaccata è da ogni cosa creata e sopra di sé innalzata vive in saporosa vita al suo Dio solo appoggiata; per questo ormai si dirà ciò che maggiormente stimo: l’anima mia già si vede senza aiuto e con aiuto. E s’anche le tenebre soffro in questa vita mortale, non è sì cresciuto il mio male, poiché, se di luce io manco, la mia vita è celestiale, poiché l’amor dà tal vita quanto più cieco diventa, che tiene l’anima arresa senza luce e al buio stando. Compie tal opera amore da quando l’ho conosciuto, che se è in me un bene o un male tutto lo fa d’un sapore e l’anima in sé trasforma e in sua fiamma saporosa, che in me stesso sto sentendo, rapidamente annullandomi, tutto mi vo consumando. Sin arrimo y con arrimo, / sin luz y a oscuras viviendo / todo me voy consumiendo. / Mi alma está desasida / de toda cosa criada / y sobre sí levantada / y en una sabrosa vida / sólo en su Dios arrimada; / por eso

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ya se dirá / la cosa que más estimo: / que mi alma se ve ya / sin arrimo y con arrimo. / Y, aunque tinieblas padezco / en esta vida mortal, / no es tan crecido mi mal, / porque, si de luz carezco, / tengo vida celestial, / porque el amor da tal vida, / cuando más ciego va siendo, / que tiene el alma rendida, / sin luz y a oscuras viviendo. / Hace tal obra el amor / después que le conocí, / que, si hay bien o mal en mí, / todo lo hace de un sabor / y al alma transforma en sí / y así, en su llama sabrosa, / la cual en mi estoy sintiendo, / apriesa, sin quedar cosa, / todo me voy consumiendo.

XII GLOSSA «AL DIVINO»12 Mai per tutta la bellezza giammai mi perderò se non per un non so che che si coglie per ventura. Sapor di bene finito può al massimo arrivare a stancare l’appetito ed il palato a guastare; e per nessuna dolcezza giammai mi perderò se non per un non so che che si coglie per ventura. Ogni cuore generoso non si cura di fermarsi dove si possa passare né nel più arduo cammino; nulla lo può saziare e sì ascende la sua fede che gusta di un non so che che si coglie per ventura. E chi soffre per amore, toccato dall’esser divino, 79

ha il gusto sì trasformato che a ogni gusto vien meno, come chi febbricitante disdegna il cibo che vede e cerca un non so che che si coglie per ventura. Non stupitevi di questo, che il suo gusto resti tale, [poiché la causa del male è estranea da tutto il resto; e così ogni creatura lontanissima egli vede e gusta d’un non so che che si coglie per ventura. E poiché la volontà dalla Divinità è toccata non può venir appagata che dalla Divinità; ma poiché la sua bellezza si vede solo per fede la gusta in un non so che che si coglie per ventura. Un simile innamorato ditemi se v’addolora, non trovando egli sapore per tutto quanto il creato; senza forma né figura, solo, senza appoggio o base, là si gusta un non so che che si coglie per ventura. L’interiorità non paia — ch’è di più grande valore — goder gioia ed allegria in ciò che qui dà sapore; 80

ma al di là d’ogni bellezza di quanto è sarà e fu là si gusta un non so che che si coglie per ventura. Più impegna ogni sua cura chi si vuole migliorare in quanto vuol guadagnare che in quanto già ha guadagnato; quanto più grande l’altezza tanto più m’abbasserò soprattutto a un non so che che si coglie per ventura. Non per ciò che con i sensi può comprendersi quaggiù per tutto ciò che s’intende sebbene molto sublime, non per grazia o per bellezza giammai io mi perderò se non per un non so che che si coglie per ventura. Por toda la hermosura / nunca yo me perderé / sino por un no sé qué / que se alcanza por ventura. / Sabor de bien que es finito / lo más que puede llegar / es cansar el apetito / y estragar el paladar; / y así, por toda dulzura / nunca yo me perderé / sino por un no sé qué / que se halla por ventura. / El corazón generoso / nunca cura de parar / donde se puede pasar, / sino en más dificultoso; / nada le causa hartura / y sube tanto su fe / que gusta de un no sé qué / que se halla por ventura. / El que de amor adolece, / de el divino ser tocado, / tiene el gusto tan trocado / que a los gustos desfallece, / como el que con calentura / fastidia el manjar que ve / y apetece un no sé qué / que se halla por ventura. / No os maravilléis de aquesto, / quel el gusto se quede tal, / porque es la causa del mal / ajena de todo el resto; / y así toda criatura / enajenada se ve / y gusta de un no sé qué/’que se halla por ventura. / Que estando la voluntad / de Divinidad tocada / no puede quedar pagada / sino con Divinidad; / mas, por ser tal su hermosura / que sólo se ve por fe, / gústala en un no sé qué / que se halla por ventura. / Pues de tal enamorado / decidme si habréis dolor, / pues que no tiene sabor / entre

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todo lo criado; / solo, sin forma y figura, / sin hallar arrimo y pie, / gustando allá un no sé qué / que se halla por ventura. I No penséis que el interior, / que es de mucha más valía, / halla gozo y alegría / en lo que acá da sabor; / mas sobre toda hermosura / y lo que es y será y fue / gusta de allá un no sé qué / que se halla por ventura. / Más emplea su cuidado / quien se quiere aventajar / en lo que está por ganar / que en lo que tiene ganado; / y así, para más altura, / yo siempre me inclinaré / sobre todo a un no sé qué / que se halla por ventura. / Por lo que por el sentido / puede acá comprehenderse / y todo lo que entenderse, / aunque sea muy subido, / ni por gracia y hermosura / yo nunca me perderé / sino por un no sé qué / que se halla por ventura.

XIII NATALIZIA Del Verbo divino la Vergine incinta vien da lungo cammino: le darai asilo? Del Verbo divino / la Virgen preñada / viene de camino: / ¿si le dáis posada?

XIV SOMMA DI PERFEZIONE Oblio del creato memoria del Creatore attenzione all’interiore e starsene amando l’Amato. Olvido de lo criado; / memoria del Criador; / atención a lo interior; / y estarse amando al Amado.

1. I nove romances, scritti nel 1578 nel carcere di Toledo, possono considerarsi, nel loro insieme, un unico poema. Il romance è una composizione metrica tipicamente spagnola, generalmente ottosillaba,

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con versi pari rimati in assonanza. 2. Scritto nel 1578 nel carcere di Toledo; sul Salmo 137. 3. Nella seconda redazione, Granada 1584-86; la prima redazione fu scritta a Toledo e a Granada fra il 1578 e il 1584. 4. Del 1578, scritta nel carcere di Toledo. 5. Toledo, 1578. 6. Del 1582-84: Giovanni della Croce volge a lo divino una lirica profana. 7. Granada, 1582-84. 8. Strofe anteriori al 1584. 9. Strofe anteriori al 1584. 10. Anteriore al 1584. 11. Del 1584-86. 12. Del 1584-86.

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SALITA DEL MONTE CARMELO

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Tratta del modo in cui un ‘anima potrà disporsi per giungere in breve all’unione divina. Dà avvisi e una dottrina, tanto ai principianti quanto ai proficienti1, molto utile affinché sappiano sciogliersi da tutto ciò che è temporale e non impigliarsi in ciò che è spirituale, restando nella somma nudità e libertà di spirito, quale si richiede per la divina unione, composta dal padre fra Giovanni della Croce, Carmelitano Scalzo. ARGOMENTO Tutta la dottrina che intendo trattare in questa Salita del Monte Carmelo è inclusa nelle seguenti canzoni e in esse è contenuto il modo di salire fino alla cima del Monte, cioè l’alto stato di perfezione che qui chiamiamo unione dell’anima con Dio. E poiché intendo procedere fondando su di esse ciò che dirò, ho voluto porle qui insieme, affinché insieme si intenda e veda tutta la sostanza di ciò che devo scrivere; tuttavia nel corso della spiegazione converrà porre a sé ciascuna canzone ed egualmente i versi di ciascuna di essa, secondo che lo richiederà la materia e la spiegazione. Dice dunque così: CANZONI nelle quali l’anima canta la felice ventura che le toccò, di passare, attraverso la notte oscura della fede, nella sua nudità e purgazione, all’unione con l’Amato. In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata stando già la mia casa addormentata; allo scuro e sicura per la scala segreta, travestita, 85

o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz’altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. E questa mi guidava più certa della luce meridiana là dove mi aspettava chi ben io conoscevo in luogo ove nessuno si mostrava. O notte che guidasti! O notte amabile più dell’aurora! O notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata! Sul mio petto fiorito, che per lui solo intatto si serbava, lì rimase dormiente ed io l’accarezzavo e il ventaglio di cedri l’arieggiava. E l’aura dei bastioni mentre quei suoi capelli discioglievo con la mano serena nel collo mi feriva e tutti i miei sensi sospendeva. Dimentica, acquietata, il volto reclinai sull’Amato, tutto cesso e rimasi, lasciando ogni mia cura, 86

circondata da gigli, obliata. PROLOGO 1. Per poter spiegare e far comprendere questa notte oscura attraverso la quale l’anima passa per giungere alla divina luce dell’unione perfetta dell’amore di Dio, qual è possibile in questa vita, occorreva altra maggior luce di scienza ed esperienza della mia; poiché tante e tanto profonde sono le tenebre ed i travagli, sia spirituali sia temporali, attraverso cui ordinariamente sogliono passare le anime felici per poter giungere a quest’alto stato di perfezione, che né basta scienza umana per saperlo intendere, né esperienza per saperlo dire: poiché solo colui che l’attraversa saprà sentirlo, ma non dirlo. 2. E pertanto, per dir qualcosa di questa notte oscura, non mi fiderò né dell’esperienza né della scienza, poiché l’ima e l’altra possono venir meno ed ingannare; ma, non tralasciando d’aiutarmi con entrambe, per quanto possibile, debbo valermi — per tutto ciò che, con il favore divino, dovrò dire, almeno per ciò che è più importante ed oscuro ad intendersi — della divina Scrittura, guidandoci con la quale non potremo errare, poiché chi parla in essa è lo Spirito Santo. E se io in qualcosa errerò, non intendendo bene ciò che dirò, sia con la Scrittura che senza, non è mia intenzione discostarmi dal sano senso e dalla dottrina della santa madre la Chiesa cattolica, poiché, in tal caso, totalmente mi assoggetto e sottometto non solo al suo ordine, ma a chiunque ne giudicasse con miglior ragione. 3. Il motivo che mi ha mosso non è la possibilità che vedo in me per cosa tanto ardua, bensì la fiducia che ho nel Signore che mi aiuti a dire qualcosa, per la grande necessità che ne hanno molte anime. Esse infatti, iniziando il cammino della virtù, e volendo nostro Signore porle in questa notte oscura affinché attraverso essa passino alla divina unione, 87

non progrediscono; a volte non volendo entrare in essa o non lasciandovisi condurre; a volte perché non si comprendono e perché mancano loro guide idonee ed accorte che le conducano fino alla cima. Così è penoso vedere molte anime alle quali Dio dà talento e favori per progredire e che, se volessero farsi animo, giungerebbero a quest’alto stato, e invece rimangono in un basso modo di rapporto con Dio, perché non vogliono o non sanno sciogliersi da quegli inizi, o non si indirizzano né si insegna loro a sciogliersene. E se anche, infine, nostro Signore le favorisca tanto da farle procedere senza questi o altri modi, vi giungeranno molto più tardi, con maggior travaglio e con minor merito, non essendosi sottomesse a Dio lasciandosi porre liberamente nel puro e sicuro cammino dell’unione. Poiché, sebbene sia vero che Dio le conduce — e può condurle senza esse —, tuttavia non si lasciano condurre; così progrediscono meno, resistendo a chi le conduce, e non meritano tanto, perché non applicano la volontà e con ciò stesso soffrono di più. Poiché vi sono anime che, invece di lasciare che Dio le aiuti, piuttosto l’impediscono con il loro indiscreto operare o riluttare, divenendo simili ai bambini che battono i piedi e piangono quando la madre vuol prenderli in braccio, ostinandosi a camminare da sé, e cosi non possono muoversi o, se procedono, lo fanno solo al passo di bambino. 4. Affinché, dunque, sia i principianti che i proficienti sappiano lasciarsi condurre da Dio, quando egli voglia farli progredire, con il suo aiuto daremo dottrina ed avvisi, affinché sappiano intendere o, almeno, lasciarsi condurre da Dio. Infatti alcuni padri spirituali, non avendo conoscenza né esperienza di queste vie, sono soliti più intralciare e danneggiare tali anime che non aiutarle nel cammino, divenendo simili ai costruttori di Babilonia, che, avendo da usare un materiale adatto, ne davano ed usavano di molto diversi, non conoscendo la lingua, cosicché non si costruiva 88

nulla (Gn. 11, 7-9). È perciò cosa dura e penosa in tali casi che un’anima non si comprenda né trovi chi la comprenda; potrà infatti accadere che Dio giunga ad un’anima attraverso un altissimo cammino di oscura contemplazione e aridità e che ad essa paia di perdersi e che, stando così, piena di oscurità e travagli, angustie e tentazioni, incappi in chi le dica, come i consolatori di Giobbe (2, 11-13), che si tratta di melanconia, o sconforto, o carattere, o che potrà trattarsi di qualche sua occulta malizia, per la quale Dio l’ha abbandonata; e così son soliti giudicare che quell’anima dev’essere stata molto cattiva se le accadono tali cose. 5. E vi sarà anche chi le dirà che sta tornando indietro, in quanto non trova come prima gusto né consolazione nelle cose di Dio. E così costoro raddoppiano il travaglio della povera anima; accadrà infatti che la pena maggiore che essa prova sia quella della conoscenza delle proprie miserie, sembrandole di veder chiaro più della luce del giorno di star piena di mali e di peccati, poiché Dio le dà quella luce di conoscenza in quella notte di contemplazione, come poi diremo; e quando incontri qualcuno conforme al suo parere, che le dica che ciò che le accade è per sua colpa, la pena e l’angustia di quest’anima crescono senza limite fino a giungere per lo più ad uno stato peggiore della morte. E non contenti di ciò, siccome questi confessori ritengono che questo stato sia conseguenza di peccati, inducono queste anime a rivangare le loro vite ed a far molte confessioni generali ed a crocifiggerle di nuovo; non intendendo che forse quello non è tempo né di questo né di altro, ma solo di lasciarle nella purificazione nella quale Dio le tiene, consolandole ed incoraggiandole a volere ciò finché Dio lo voglia; poiché fino ad allora, per quanto esse facciano o dicano, non c’è nessun rimedio. 6. Di ciò dovrò poi trattare, con il favore divino, come dunque l’anima deve comportarsi, ed il confessore con essa, e quali segni avrà per riconoscere se quella è la purificazione 89

dell’anima e, se lo è, se del senso o dello spirito, il che è la notte oscura di cui parliamo, e come si potrà riconoscere se si tratta di melanconia o d’altra imperfezione riguardante il senso o lo spirito. Perché alcune anime potranno pensare, esse o i loro confessori, che Dio le conduca per questo cammino della notte oscura della purificazione spirituale e invece si tratterà forse di alcune delle accennate imperfezioni; infatti vi sono pure molte anime che pensano di non pregare e invece lo fanno molto, ed altre che pensano di pregare molto e pregano invece poco più che niente. 7. È una pena che alcune si travaglino ed affatichino molto, e tornino indietro, ponendo il frutto del progredire in ciò che non fa progredire, bensì ostacola, mentre invece altre, con riposo e quiete, vanno progredendo molto. Altre ancora, con i medesimi doni e grazie che Dio dà loro affinché progrediscano, s’impacciano ed ostacolano e non vanno avanti. E molte altre cose accadono in questo cammino a coloro che lo seguono, e godimenti e pene e speranze e dolori: dei quali alcuni procedono dallo spirito di perfezione, altri da quello di imperfezione. Con il favore divino cercheremo dunque di dir qualcosa, affinché ciascuna anima che lo legga procuri di vedere il cammino seguito e quello che le conviene seguire se intende giungere alla cima di questo Monte. 8. E in quanto questa dottrina tratta della notte oscura attraverso la quale l’anima deve andare a Dio, il lettore non si meravigli se le parrà un poco oscura. Il che ritengo accadrà all’inizio della sua lettura; ma, andando avanti, verrà intendendo meglio l’inizio, poiché con un punto si viene spiegando l’altro. E se poi leggerà una seconda volta, comprendendo meglio, il tutto le apparirà più chiaro e la dottrina più sana. E se alcune persone non si troveranno bene con questa dottrina, dipenderà dal mio poco sapere e dal mio basso stile, poiché la materia per sé è buona e molto 90

necessaria. Mi sembra però che, se anche scrivessi più compiutamente e perfettamente di ciò di cui tratto, non ne trarrebbero vantaggio se non i meno, perché qui non si scriveranno cose morali e saporose per tutti quegli spirituali che si dilettano d’andare a Dio attraverso cose dolci e saporose, bensì una dottrina sostanziosa e solida, buona per gli uni e per gli altri, purché cerchino di giungere alla nudità di spirito di cui qui si scrive. 9. Né del resto il mio intento principale è rivolgermi a tutti, ma ad alcune persone della nostra santa religione dell’ordine primitivo del Monte Carmelo, frati e monache, che me l’hanno chiesto ed ai quali Iddio faccia il dono di porli sul sentiero di questo Monte; ed essendo costoro già ben spogli delle cose temporali di questo mondo, intenderanno meglio la dottrina della nudità dello spirito. 1. Coloro che hanno oltrepassato il livello spirituale del principiante.

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LIBRO PRIMO CAPITOLO 1. Riporta la prima strofa. Parla di due diverse notti per le quali passano gli spirituali, secondo le due parti dell ‘uomo, inferiore e superiore; e spiega la seguente strofa: In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. 1. In questa prima strofa l’anima canta la sorte felice e la fortuna che ebbe di uscire da tutte le cose esteriori, e dagli appetiti ed imperfezioni che vi sono nella parte sensitiva dell’uomo per il disordine della sua ragione. Per capir ciò occorre sapere che, affinché un’anima giunga allo stato di perfezione, ordinariamente prima deve passare attraverso due principali modi di notte, che gli spirituali chiamano purgazioni o purificazioni dell’anima. Le chiamiamo notti perché l’anima, tanto nell’una come nell’altra, cammina come di notte, allo scuro. 2. La prima notte o purgazione è della parte sensitiva dell’anima; di essa si tratta nella presente strofa e si tratterà nella prima parte di questo libro. E la seconda è della parte spirituale, della quale parla la seconda strofa che segue; e di essa pure tratteremo nella seconda e terza parte per quanto riguarda il suo aspetto attivo e, per quanto riguarda quello passivo, nella quarta2. 3. E questa prima notte appartiene ai principianti allorché Dio comincia a porli nello stato di contemplazione, e di essa partecipa anche lo spirito, come diremo a suo tempo. E la seconda notte, o purificazione, appartiene a coloro 92

che già sono profìcienti, allorché Dio vuole ormai porli nello stato dell’unione con Dio; e questa è purgazione più oscura e tenebrosa e terribile, come diremo dopo. Spiegazione della strofa 4. In questa strofa l’anima vuole dunque dire che uscì — traendola Dio — solo per amore di lui, infiammata nel suo amore, in una notte oscura, che è la privazione e purgazione di tutti i suoi appetiti sensuali, nei confronti di tutte le cose este riori del mondo e di quelle che erano dilettevoli alla sua carne, ed anche dei gusti della sua volontà. E tutto ciò avviene nella purgazione del senso. E perciò dice che uscì stando già la sua casa addormentata, cioè la parte sensitiva, essendo ormai tran quilli e addormentati in essa gli appetiti ed essa in questi. Infatti non si esce dalle pene ed angustie delle prigioni degli appetiti finché non si siano smorzati e addormentati. E questo significa che le fu felice ventura / uscire non notata, cioè senza che nessun appetito della sua carne né di altra cosa glielo potesse impedire. E inoltre perché uscì di notte, cioè privandola Dio di tutte queste cose, il che per lei era notte. 5. E questo fu felice ventura, ossia che Dio l’abbia posta in questa notte, donde le derivò tanto bene, e nella quale ella non avrebbe indovinato d’entrare, perché, da soli, non si riesce a vuotarsi di tutti gli appetiti per venire a Dio. 6. Questa è dunque la spiegazione della strofa. Ed ora dovremo proseguire scrivendo intorno a ciascun verso, spiegando ciò che ci proponiamo. E il medesimo stile si tiene con le altre strofe, come ho detto nel prologo: prima si riporterà ciascuna strofa e la si spiegherà, e poi si farà lo stesso con ciascun verso. CAPITOLO 2 93

Spiega la natura di questa notte oscura attraverso la quale l’anima dice d’esser giunta all’unione. In una notte oscura. 1. Per tre motivi possiamo dire che si chiama notte questo passaggio dell’anima all’unione con Dio. Primo, a causa del termine donde l’anima esce, poiché deve procedere privando l’appetito di tutte le cose del mondo che possedeva, negandole; e questa negazione e privazione è come notte per tutti i sensi dell’uomo. Secondo, a causa del mezzo o cammino, attraverso cui l’anima deve andare a questa unione, cioè la fede, che pure è oscura per l’intelletto, come notte. Terzo, a causa del termine verso cui va, cioè Dio, il quale ugualmente in questa vita è per l’anima notte oscura. Queste tre notti devono passare attraverso l’anima o, per meglio dire, l’anima attraverso esse, per giungere alla divina unione con Dio. 2. Nel libro di san Tobia (6, 18-22) questi tre modi di notte si raffigurarono attraverso le tre notti che l’angelo comandò al giovane Tobia di lasciar passare prima d’unirsi con la sua sposa. Nella prima gli comandò di bruciare il cuore del pesce nel fuoco, che significa il cuore affezionato e legato alle cose del mondo, che, per cominciare ad andare verso Dio, bisogna bruciare, e purificare di tutto ciò che è creatura con il fuoco dell’amore di Dio. E con questa purgazione si mette in fuga il demonio, che ha potere sull’anima mediante l’attaccamento alle cose corporali e temporali. 3. Nella seconda notte gli disse che sarebbe stato ammesso nella compagnia dei santi patriarchi, che sono i padri della fede. Infatti, passando attraverso la prima notte, che consiste nel pri varsi di tutti gli oggetti del senso, l’anima entra poi nella se conda notte, restando sola nella fede — non come escludente la carità, bensì le altre notizie dell’intelletto, come in seguito di remo —, che è cosa che non 94

cade nel senso. 4. Nella terza notte l’angelo gli disse che avrebbe ottenuto la benedizione, cioè Dio, il quale, mediante la seconda notte, che è la fede, va comunicandosi all’anima tanto segretamente e intimamente che per essa è un’altra notte, in quanto tale comunicazione va facendosi molto più oscura delle altre, come poi diremo. E passata questa terza notte, che è compiere la comunicazione di Dio nello spirito, il che ordinariamente avviene in una grande tenebra dell’anima, segue poi l’unione con la sposa, che è la Sapienza di Dio. Come anche l’angelo disse a Tobia, passata la terza notte, si sarebbe congiunto con la sua sposa con timore del Signore; e quando il timore di Dio è perfetto, è perfetto l’amore, il che avviene quando l’anima si trasforma per amore. 5. Queste tre parti della notte sono una sola notte; la quale, come la notte, ha tre parti. Infatti la prima, quella del senso, si paragona alla prima notte, che è quando le cose scompaiono dalla vista. E la seconda, cioè la fede, si paragona alla mezzanotte, che è totalmente scura. E la terza infine, cioè Dio, è ormai vicinissima alla luce del giorno. Ma, per meglio comprendere, verremo trattando di ciascuna di queste cause per se stesse. CAPITOLO 3 Parla della prima causa di questa notte, cioè la privazione dell’appetito in tutte le cose e della ragione per la quale si chiama notte. 1. Chiamiamo qui notte la privazione del gusto nell’appetito di tutte le cose; infatti, così come la notte non è altro che privazione della luce e, per conseguenza, di tutti gli oggetti che si possono vedere mediante la luce, onde la potenza visiva rimane allo scuro e senza nulla, così anche la mortificazione dell’appetito si può chiamare notte per 95

l’anima, poiché, privandosi l’anima del gusto dell’appetito in tutte le cose, rimane come allo scuro e senza nulla. Infatti, così come la potenza visiva mediante la luce si ciba e pasce degli oggetti che si possono vedere, e, spenta la luce, non si vedono, così l’anima mediante l’appetito si pasce e ciba di tutte le cose che secondo le sue potenze si possono gustare; e quando l’appetito sia spento, o, per meglio dire, mortificato, l’anima cessa di pascersi nel gusto di tutte le cose e così rimane, quanto all’appetito, allo scuro e senza nulla. 2. Portiamo qualche esempio per ogni potenza. Quando l’anima priva il suo appetito nel gusto di tutto ciò che il senso dell’udito può dilettare, essa, quanto a questa potenza, resta allo scuro e senza nulla. E privandosi del gusto di tutto ciò che al senso della vista può essere gradevole, anche quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. E privandosi del gusto di ogni soavità di profumi che l’anima può gustare mediante il senso dell’olfatto, ugualmente quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. E negando anche il gusto di tutti i cibi che possano soddisfare il palato, l’anima vi resta allo scuro e senza nulla. E infine, se l’anima si mortifica in tutti i diletti e gradevolezze che possa ricevere dal senso del tatto, allo stesso modo quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. Dimodoché l’anima che avesse negato e allontanato da sé il gusto di tutte le cose, mortificando in esse i suoi appetiti, potremo dire che sta come di notte, allo scuro, il che non è altro che un vuoto in essa di tutte le cose. 3. La causa di ciò è che l’anima, come dicono i filosofi, non appena Dio la infonde nel corpo, è come una tavola rasa e liscia, sulla quale non sta impresso nulla; e se non fosse che viene conoscendo attraverso i sensi, per altra via naturalmente non le si comunicherebbe niente. Così, fino a che sta nel corpo, è come chi sta in uno scuro carcere, nel quale non si sa niente se non quello che si riesce a vedere 96

dalle sue finestre, e se attraverso queste non si vedesse niente, niente si vedrebbe in altro modo. Così l’anima, se non fosse per ciò che le si comunica mediante i sensi, che sono le finestre del suo carcere, naturalmente non raggiungerebbe niente per altra via. 4. Pertanto, se essa rifiuta e nega ciò che può ricevere tramite i sensi, possiamo ben dire che resta come all’oscuro e vuota; infatti, come appare chiaro da quanto s’è detto, naturalmente non le può entrare luce da altri passaggi che da quelli detti. Infatti, sebbene in verità non possa cessare di udire, di vedere, di odorare, di gustare e di sentire, se però nega e rifiuta tutto ciò, l’anima non vi fa più caso e non ne è gravata più che se non vedesse né udisse, ecc.; così come chi vuol chiudere gli occhi resterà allo scuro come il cieco che non può vedere. E così dice David in proposito: Pauper sum ego, et in laborious a iuventute mea. Che significa: «Io sono povero e in travagli fin dalla mia gioventù» (Sal. 87, 16). Si dice povero, sebbene sia chiaro che era ricco, in quanto non volgeva la sua volontà alla ricchezza e così era come se fosse realmente povero; ma se invece fosse stato realmente povero, ma non nella volontà, non sarebbe stato veramente povero, perché la sua anima sarebbe stata ricca e piena d’appetiti. E perciò chiamiamo questa nudità notte per l’anima, poiché qui non trattiamo del mancare delle cose, che per sé non denuda l’anima che ne conservi appetito, bensì trattiamo della nudità del gusto e dell’appetito delle cose, che è ciò che lascia l’anima libera e vuota di esse anche quando le abbia. Infatti le cose di questo mondo non occupano l’anima né la danneggiano, in quanto essa non vi entra, bensì la volontà e l’appetito di esse che sono in lei. 5. Questo primo modo di notte, come poi diremo, appartiene all’anima secondo la sua parte sensitiva, che è una delle due, come ho detto, per le quali l’anima deve passare per giungere all’unione. Ora diciamo quanto convenga all’anima uscire dalla sua 97

casa in questa notte oscura del senso per volgersi all’unione con Dio. CAPITOLO 4 Si tratta di quanto sia necessario all’anima passare davvero per questa notte oscura del senso, che è la mortificazione dell’appetito, per procedere verso l’unione con Dio. 1. La ragione per la quale è necessario che l’anima attraversi questa notte oscura di mortificazione degli appetiti e di negazione dei gusti di tutte le cose per giungere alla divina unione con Dio è che tutte le affezioni che essa ha verso le creature davanti a Dio sono pure tenebre; e finché l’anima ne resta rivestita, non ha capacità di essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio, se prima non le respinge da sé, poiché luce e tenebre non possono stare assieme, in quanto, come dice San Giovanni: Tenebrae eum non comprehenderunt; cioè: «le tenebre non poterono ricevere la luce» (1, 5). 2. La ragione è che due contrari, come ci insegna la filosofia, non possono stare in un soggetto; infatti le tenebre, che sono le affezioni verso le creature, e la luce, che è Dio, sono contrari e non hanno tra loro nessuna somiglianza né convenienza, come San Paolo insegnò ai Corinzi (II, 6, 14) dicendo: Quae conventio lucis ad tenebras?, ossia: «Quale convenienza ci può essere tra la luce e le tenebre?»; ne consegue che nell’anima non può alber gare la luce della divina unione se prima non se ne scaccino quelle affezioni. 3. Per dimostrare meglio quanto s’è detto occorre sapere che l’affezione ed attaccamento dell’anima verso la creatura egua glia l’anima stessa con la creatura, e quanto più grande è l’af fezione tanto più l’eguaglia e la rende assomigliante, poiché l’a more rende simili chi ama e chi è amato. E perciò David, par lando di coloro che ponevano negli idoli la loro 98

affezione, disse: Similis illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis; che significa: «Saranno simili a loro quelli che vi pongono il loro cuore» (Sal 113, 8). E così colui che ama la creatura resta in basso come quella creatura, anzi affatto più in basso, poiché l’amore non solo eguaglia ma anche assoggetta all’amante ciò che ama. Ne consegue che, nell’atto stesso in cui l’anima ama qualcosa, si fa incapace della pura unione con Dio e della tra sformazione in lui; poiché la bassezza delle creature è molto meno capace dell’altezza del Creatore di quanto non lo siano le tenebre della luce. Infatti tutte le cose della terra e del cielo, paragonate con Dio, sono niente, come dice Geremia con queste parole: Aspexi terram, et ecce vacua erat et nihil; et cáelos, et non erat lux in eis: «guardai la terra — dice — ed era vuota, ed era niente; ed i cieli, e vidi che in essi non c’era luce» (4, 23). Di cendo che vide la terra vuota intende che tutte le sue creature erano nulla e che anche la terra era nulla. E dicendo che guardò i cieli e non vi vide luce significa che tutti i lumi del cielo, paragonati a Dio, sono pure tenebre. Dimodoché tutte le creature sono niente e le affezioni ad esse possiamo chiamarle meno che niente, in quanto sono impedimento e privazione della trasformazione in Dio, così come le tenebre sono nulla e meno che nulla, in quanto sono privazione della luce. E così come non può comprendere la luce colui che è nelle tenebre, così non potrà comprendere Dio l’anima che pone nelle creature la sua affezione; e, finché non se ne purghi, non potrà quaggiù possederlo mediante pura trasformazione d’amore, né lassù per chiara visione. E per maggior chiarezza ne parleremo più in particolare. 4. Tutto l’essere delle creature, dunque, paragonato con quello infinito di Dio, è niente. E pertanto l’anima che vi pone la sua affezione, davanti a Dio è anch’essa niente e meno che niente; poiché, come abbiamo detto, l’amore produce eguaglianza e somiglianza e inoltre pone più in basso ciò che ama. E pertanto in nessun modo quest’anima potrà unirsi con l’infinito essere di Dio, in quanto ciò che non è non può 99

convenire con ciò che è. E scendendo in particolare ad alcuni esempi: L’intera bellezza delle creature, confrontata con l’infinita bellezza di Dio, è somma bruttezza, come Salomone dice nei Proverbi: Fallax gratia, et vana est pulchritudo: «ingannevole è la grazia e vana la bellezza» (31, 30). E così l’anima che ha attaccamento alla bellezza di qualsiasi creatura, davanti a Dio è sommamente brutta; e pertanto quest’anima brutta non potrà trasformarsi nella bellezza che è Dio, perché la bruttezza non può pervenire alla bellezza. E l’intera grazia e leggiadria delle creature, confrontata con la grazia di Dio, è somma sgraziataggine e somma scipitezza; e perciò l’anima che s’attacchi alla grazie e leggiadrie delle creature è sommamente sgraziata e scipita davanti agli occhi di Dio; e così non può essere capace dell’infinita grazia e bellezza di Dio, poiché lo sgraziato dista grandemente da chi è infinitamente pieno di grazia. E l’intera bontà delle creature del mondo, confrontata con l’infinita bontà di Dio, si può chiamare malizia. Poiché nulla vi è di buono se non Dio solo (Lc. 18, 19); e pertanto l’anima che pone il suo cuore nei beni del mondo è sommamente cattiva di fronte a Dio. E siccome la malizia non concorda con la bontà, quest’anima non potrà dunque unirsi con Dio che è somma bontà. E l’intera sapienza del mondo e l’abilità umana, confrontata con l’infinita sapienza di Dio, è pura e somma ignoranza, come scrive San Paolo Ai Corinzi dicendo: Sapientiam huius mundi stultitia est apud Deum: «la sapienza di questo mondo davanti a Dio è stoltezza» (I, 3, 19). 5. Pertanto ogni anima che desse qualche importanza a tutto il suo sapere ed abilità per giungere all’unione con la sapienza di Dio, sarebbe sommamente ignorante davanti a Dio e resterebbe molto lontana dalla sua sapienza. Poiché l’ignoranza non sa che cosa è la sapienza, e, come dice San Paolo, questa sapienza a Dio sembra stoltezza. Infatti davanti a Dio coloro che credono di possedere qualche sapere sono 100

molto ignoranti; poiché l’Apostolo dice di costoro scrivendo ai Romani: Dicentes enim se esse sapientes stulti f adi sunt; cioè: «ritenendosi saggi divennero stolti» (1, 22). E possiedono la sapienza di Dio solo coloro che, messo da parte il proprio sapere, come bimbi ignoranti vanno con amore al suo servizio. E questo modo di sapienza l’insegnò anche San Paolo Ad Corinthios: Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultusfiat ut sit sapiens; sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum; cioè: «Se qualcuno tra voi si crede saggio, si faccia stolto per divenir saggio, poiché la sapienza di questo mondo davanti a Dio è follia» (1, 3, 18-19). Pertanto, affinché l’anima giunga ad unirsi con la sapienza di Dio, deve piuttosto procedere non sapendo che sapendo. 6. E l’intero dominio e la libertà del mondo, confrontato con la libertà ed il dominio dello spirito di Dio, è somma servitù e angustia e schiavitù. Pertanto l’anima che s’innamora degli onori o di altri simili interessi e della libertà dell’appetirli, davanti a Dio è considerata e trattata non come figlia, ma come basso servo e schiavo, non avendo voluto cogliere la sua santa dottrina che c’insegna che colui il quale vuol essere il maggiore sia il minore e chi vuol essere minore sia maggiore (Lc. 22, 26). E pertanto l’anima non potrà giungere alla reale libertà dello spirito, che perviene alla divina unione, poiché la servitù non può avere nessuna relazione con la libertà, la quale non può trovarsi nel cuore soggetto a questi affetti, in quanto è cuore di schiavo, bensì in quello libero, in quanto cuore di figlio. E questo è il motivo per il quale Sara disse a suo marito Abramo di scacciare la schiava e suo figlio, dicendo che il figlio della schiava non doveva essere erede insieme con il figlio della libera (Gn. 21, 10). 7. E tutti i diletti e gusti della volontà in tutte le cose del mondo, confrontati con tutte le delizie che sono Dio, sono somma pena, tormento e amarezza. E così colui che pone il suo cuore in queste cose, davanti a Dio è tenuto degno di 101

somma pena, tormento e amarezza. E così non potrà giungere alle de lizie dell’abbraccio dell’unione con Dio, essendo degno di pena e amarezza. Tutte le ricchezze e glorie dell’intero creato, confrontate con la ricchezza che è Dio, sono somma povertà e miseria. E così l’anima che le ama e possiede è sommamente povera e miserabile davanti a Dio, e perciò non potrà giungere alla ricchezza e gloria che è lo stato della trasformazione in Dio, in quanto il miserabile e povero dista sommamente da ciò che è sommamente ricco e glorioso. 8. Pertanto la divina Sapienza, dolendosi di costoro che si fanno brutti, bassi, miserabili e poveri, in quanto amano ciò che del mondo sembra loro bello e ricco, nei Proverbi rivolge loro questa apostrofe dicendo: O viri, ad vos clamito, et vox mea ad filios hominum. Intelligite parvuli astutiam, et insipientes animadvertite. Audite, quia de rebus magnis locutura sum. E prosegue dicendo: Mecum sunt divitiae et gloria, opes superbae et iustitia. Melior est fructus meus auro et lapide pretioso, et genimina mea argento electo. In viis iustitiae ambulo, in medio semitarum iudicii, ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam; vale a dire: «O uomini, a voi grido e la mia voce si rivolge ai figli degli uomini! Imparate, fanciullini, l’astuzia e la sagacia; e voi stolti state attenti. Udite, poiché intendo parlare di grandi cose. Con me sono le ricchezze e la gloria, le superbe ricchezze e la giusti zia. Il frutto che troverete in me è migliore dell’oro e delle pietre preziose; e le mie generazioni — cioè ciò che da me genererete nelle vostre anime — sono migliori dell’argento scelto. Io cammino per le vie della giustizia e attraverso i sentieri dell’equità, per arricchire coloro che mi amano e riempire perfettamente i loro tesori» (8, 4-6; 18-21). Qui la divina Sapienza parla a tutti coloro che pongono il cuore e l’affezione in qualsiasi cosa del mondo, come abbiamo detto. E li chiama fanciullini perché si fanno simili a ciò che amano, che è piccolo. E perciò dico loro che abbiano astuzia ed avvertano che ella tratta di cose grandi e 102

non di piccole, come loro; che le grandi ricchezze e la gloria che essi amano sono con lei e in lei e non dove essi pensano; e che le superbe ricchezze e la giustizia dimorano in lei; poiché, sebbene sembri loro che le cose di questo mondo siano le migliori, li esorta ad accorgersi che le migliori sono le sue, dicendo che il frutto che vi si troverà sarà migliore dell’oro e delle pietre preziose; e che ciò che ella genera nelle anime è migliore dell’argento scelto che essi amano, intendendo con ciò ogni genere di attaccamento che si può avere in questa vita. CAPITOLO 5 Si continua a trattare quanto s’è detto, mostrando con l’autorità della Sacra Scrittura e con immagini quanto sia necessario che l’anima vada da Dio in questa notte oscura della mortificazione dell’appetito in tutte le cose. 1. Da quanto s’è detto si può giungere in qualche modo a comprendere la distanza che c’è tra tutto ciò che le creature sono in sé e ciò che Dio è in sé, e come le anime che pongono la loro affezione in alcune delle creature restino a questa stessa distanza da Dio; poiché, come abbiamo detto, l’amore produce eguaglianza e somiglianza. E sant’Agostino, ben rappresentandosi questa distanza, diceva, parlando con Dio nei Soliloqui: «Misero me, quando potrà la mia pochezza e imperfezione convenire con la tua rettitudine? Tu veramente sei buono ed io cattivo; tu misericordioso ed io empio; tu santo, io miserabile; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu vita, io morte; tu medicina, io infermo; tu somma verità, io tutta vanità». Tutto ciò dice questo Santo3. 2. Pertanto è somma ignoranza dell’anima pensare di poter passare a quest’alto stato di unione con Dio senza prima aver vuotato l’appetito di tutte le cose naturali e soprannaturali che possano ostacolarla, come più avanti spiegheremo; infatti è somma la distanza tra queste e ciò 103

che si dà in tale stato, che è puramente trasformazione in Dio. Perciò nostro Signore, insegnandoci questo cammino, ci disse in San Luca: Qui non renuntiant omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus; che significa: «Colui che non rinunzia a tutte le cose che possiede con la volontà, non può essere mio discepolo» (14, 33). E questo è chiaro, poiché la dottrina che il Figlio di Dio venne ad insegnare fu il disprezzo di tutte le cose per poter ricevere il prezzo dello spirito di Dio in sé; poiché, fintanto che l’anima non se ne scioglie, non ha capacità di ricevere lo spirito di Dio nella pura trasformazione. 3. Di ciò abbiamo una figura nell’Esodo (e. 16, 3-4), dove si legge che Dio non diede ai figli d’Israele il cibo dal cielo, che era la manna, finché non mancò loro la farina che avevano portato dall’Egitto, con ciò facendo intendere che prima conviene rinunciare a tutte le cose, poiché questo cibo degli angeli non conviene al palato che vuol gustare quello degli uomini. Le anime che indugiano e si dilettano in altri gusti estranei si rendono dunque incapaci dello spirito divino; ma anche dispiacciono molto alla Divina Maestà coloro i quali, pretendendo di cibarsi di spirito, non si contentano di Dio solo, ma vogliono mischiarvi l’appetito e l’affezione per altre cose. Il che si fa ben comprendere nel medesimo libro della Sacra Scrittura, dove si dice che, non accontentandosi di quel cibo tanto semplice, appetirono carne e chiesero di mangiarne (ivi, 8-13); e nostro Signore si dispiacque gravemente che essi volessero mischiare un cibo tanto basso e rozzo con un cibo tanto sublime che, sebbene fosse tale, aveva in sé il sapore e la sostanza di tutti i cibi (Sap., 16, 2021). Perciò, mentre essi avevano ancora il boccone in bocca, come dice David, ira Dei descendit super eos (Sal. 77, 30-31): «l’ira di Dio scese su di loro», gettando fuoco dal cielo e bruciandone molte migliaia; giudicando cosa indegna che appetissero altro cibo mentre dava loro il cibo del cielo.

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Frontespizio delle Obras Espirituales nell’edizionc 1618.

4. O se gli spirituali sapessero quanto bene ed abbondanza di spirito perdono per non voler liberare completamente l’appetito dalle inezie, e come in questo semplice cibo dello spirito ritroverebbero il gusto di tutte le cose se non volessero gustarle! Invece non gustano lo spirito; infatti la ragione per la quale quelli non provavano nella manna il gusto di tutti i cibi è perché non riponevano il loro appetito soltanto in essa. Dimodoché non riuscivano a 105

trovare nella manna tutto quel gusto e quella forza che potevano cercarvi, non perché la manna non l’avesse, ma perché cercavano altre cose. Così colui che vuole amare altra cosa insieme con Dio, senza dubbio tiene Dio in poco conto, poiché pone su una stessa bilancia insieme con Dio ciò che, come abbiamo detto, dista infinitamente da Dio. 5. Si sa bene per esperienza che quando una volontà si affeziona ad una cosa, la considera più di qualsiasi altra, anche molto migliore di essa, se non la gusta quanto l’altra. E se vuole gustare e l’ima e l’altra, di necessità deve fare oltraggio alla più importante, poiché le pone su un piano di eguaglianza. E non essendovi alcuna cosa che eguagli Dio, reca grande oltraggio a Dio l’anima che insieme con lui ami altra cosa o vi s’attacchi. E dunque che accadrebbe poi se l’amasse più di Dio? 6. Questo dunque Dio faceva intendere allorché comandava a Mosè di salire sul monte per parlare con lui. Gli comandò non soltanto di salire lui solo, lasciando abbasso i figli d’Israele, ma anche che le bestie non pascolassero di fronte al monte: Nullus ascendat tecum, nee videat quispiam per totum montem, boves quoque et oves non pascant e contra (Es. 34, 3). Facendo così capire che l’anima che deve salire su questo Monte di perfezione per comunicare con Dio, non solo deve rinunziare a tutte le cose e deve lasciarle abbasso, ma nemmeno deve lasciar pascolare gli appetiti, che sono le bestie, di fronte a questo Monte, ossia in altre cose che non siano puramente Dio, nel quale cessa ogni appetito, cioè nello stato di perfezione. È pertanto necessario che il cammino e la salita verso Dio sia una costante cura nel far cessare e mortificare gli appetiti; e l’anima tanto prima vi giungerà quanto più vi si affretterà. E, finché non cessino, l’anima non vi perverrà, anche se eserciti più virtù, perché le manca di acquisirle in perfezione, la quale consiste nel tenere l’anima vuota e nuda e purificata da ogni appetito. E di ciò abbiamo un’immagine molto viva nel Genesi, ove si 106

legge che il patriarca Giacobbe, volendo salire sul monte Betel per edificarvi un altare a Dio sul quale offrirgli sacrifici, prima comandò a tutta la sua gente tre cose: primo, che scacciassero da sé tutti gli dèi stranieri; secondo, che si purificassero; terzo, che mutassero le vesti: Abiicite deos alienos qui in medio v estri sunt, et mundamini ac mutate vestimenta (ivi, 35, 1-2). 7. In queste tre cose si vuol fare intendere ad ogni anima che voglia salire a questo Monte per farvi altare di se stessa — sul quale offra a Dio sacrifìcio di amore puro e lode e puro ossequio — che, prima di salire alla vetta del Monte, deve aver fatto perfettamente queste tre cose. Primo, è necessario che scacci tutti gli dèi stranieri, che sono tutte le affezioni e gli attaccamenti estranei. Secondo, che si purifichi del residuo che questi appetiti hanno lasciato nell’anima mediante la notte oscura del senso di cui diciamo, negandoli e pentendosene continuamente. Terzo, ciò che deve avere per giungere a questo alto Monte è il mutare le vesti. E queste, mediante l’opera delle due prime cose, Dio le muterà da vecchie in nuove, ponendo ormai nell’anima una nuova conoscenza di Dio in Dio — lasciato da parte il vecchio modo umano di conoscere — e un nuovo amore di Dio in Dio, essendo ormai la volontà spoglia di tutti i suoi vecchi desideri e gusti umani; e ponendo l’anima in una nuova cognizione, lasciate ormai da parte le altre vecchie cognizioni e immagini; e facendo venir meno tutto ciò che è dell’uomo vecchio, cioè le capacità dell’essere naturale, il quale si riveste di nuova capacità soprannaturale secondo tutte le sue potenze. Dimodoché il suo operare, da umano che era si volge in divino, ciò che si consegue nello stato di unione, nel quale l’anima non serve altra cosa se non l’altare sul quale Dio è adorato in lode e amore, e solo Dio è in lei. È per ciò che Dio comandava che l’altare nel quale doveva stare l’arca del Testamento fosse vuoto al di dentro (Es. 27, 8), affinché l’anima intenda quanto Dio la voglia vuota da ogni cosa, per essere altare degno sul quale stia la Maestà 107

divina. E in questo altare nemmeno permetteva che vi fosse fuoco estraneo, né che mai vi mancasse quello proprio (Lev. 6, 12-13); tanto che nostro Signore, sdegnato, fece morire proprio davanti all’altare Nadab e Abiud, figli del sommo sacerdote Aronne, perché avevano offerto sul suo altare fuoco estraneo (Lev. 10, 1-2). Ciò affinché intendiamo che l’anima, per essere degno altare, non deve mancare dell’amore di Dio, né deve mescolarvi altro amore estraneo. 8. Dio non consente ad altra cosa di dimorare insieme con lui. Per cui si legge nel primo libro dei Re che, avendo posto i Filistei l’arca del Testamento dove stava il suo idolo, ogni mattina l’idolo si trovava gettato per terra e ridotto in frantumi (5, 2-5). E dove egli è, Dio consente e vuole vi sia solo quell’appetito, che è osservare perfettamente la legge di Dio e prender sopra di sé la croce di Cristo. Così nella Sacra Scrittura divina si dice che Dio comandava di non porre nell’arca ove era la manna nessun’altra cosa se non il libro della Legge e la verga di Mosè (Dt. 31, 26), che significa la croce. Infatti l’anima che non aspiri ad altra cosa se non ad osservare perfettamente la legge del Signore e a portare la croce di Cristo, sarà vera arca, che racchiuderà la vera manna, cioè Dio, quando giunga a contenere perfettamente questa legge e questa verga, senza nessun’altra cosa. CAPITOLO 6 Si tratta dei due principali danni che gli appetiti causano nell’anima, uno privativo e l’altro positivo. 1. Per intendere più chiaramente e ampiamente quanto s’è detto, sarà bene ora soffermarci a dire come questi appetiti causano nell’anima due danni principali: il primo è che la privanodello spirito di Dio, e il secondo è che stancano, tormentano, oscurano, macchiano, infiacchiscono e feriscono l’anima in cui vivono, come dice Geremia nel capitolo secondo: Duo mala fecit populus meus: dereliquerunt 108

fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas; che significa: «Lasciarono me, che sono fonte d’acqua viva, e scavarono per proprio conto cisterne rotte, che non possono contenere acqua» (2, 13). Occorre sapere che questi due mali, privativo e positivo, sono causati da qualsiasi atto disordinato dell’appetito. E parlando in primo luogo di quello privativo, è chiaro che, per il fatto stesso che l’anima si affeziona ad una cosa che cade sotto il nome di creatura, quanto più grande è nell’anima quell’appetito, tanto minore capacità essa ha per Dio, in quanto due contrari non possono esser contenuti in uno stesso soggetto, come dicono i filosofi e come abbiamo detto nel quarto capitolo. E affezione di Dio e affezione di creatura sono contrari, e così affezione di creatura e affezione di Dio non sono contenuti in una stessa volontà. Infatti, che ha a che vedere la creatura con il Creatore, il sensuale con lo spirituale, il visibile con l’invisibile, il temporale con l’eterno, il cibo celestiale puramente spirituale ed il cibo del senso puramente sensuale, la nudità di Cristo con l’attaccamento a qualcosa? 2. Pertanto, così come nella generazione naturale non si può introdurre una forma senza prima togliere dal soggetto la precedente forma contraria, la quale, finché c’è, è d’impedimento all’altra per la contrarietà che esiste fra loro, così, finché l’anima s’assoggetta allo spirito sensuale, non vi può entrare lo spirito puramente spirituale. Perciò il nostro Salvatore disse in San Matteo: Non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus; cioè: «Non è cosa conveniente prendere il pane dei figli e darlo ai cani«(15, 26). E in altro luogo dice anche mediante lo stesso evangelista: Nolite sanctum dare canibus; che significa: «Non date ai cani ciò che è santo» (7, 6). In questi passi nostro Signore paragona ai figli di Dio coloro che, negando gli appetiti delle creature, si dispongono a ricevere puramente lo spirito di Dio; ed ai cani coloro che vogliono soddisfare i loro appetiti nelle creature; infatti ai figli è dato mangiare con il proprio 109

Padre alla sua mensa e dal suo piatto, cioè pascersi del suo spirito, ed ai cani spettano le briciole che cadono dalla mensa. 3. Bisogna dunque sapere che tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Pertanto giustamente è chiamato cane colui che va pascendosi delle creature e perciò gli si toglie il pane dei figli; poiché costoro non vogliono sollevarsi dalle briciole delle creature alla mensa dello spirito increato del loro Padre. E perciò giustamente vagano sempre affamati come cani, poiché le briciole servono piuttosto a stimolare l’appetito che a soddisfare la fame. Di costoro dice David: Famem patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint saturati, et murmurabunt; cioè «Essi soffriranno la fame come cani e s’aggireranno nella città e non sentendosi sazi mormoreranno» (Sal. 58, 15-16). La caratteristica di chi ha appetiti è infatti d’esser sempre scontento e stizzoso come chi ha fame. Ma che ha a che vedere la fame causata da tutte le creature con la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Infatti questa sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non si scaccia l’altra fame creata dell’appetito dell’anima; poiché, come abbiamo detto, in uno stesso soggetto non possono esserci due contrari, che in questo caso sono la fame e la sazietà. 4. Da quanto s’è detto si vedrà quanto più Dio faccia nel purificare e purgare un’anima da queste contrarietà che non nel crearla dal nulla. Infatti queste contrarietà di affetti ed appetiti opposti sono più opposti e resistenti a Dio del niente, poiché questo non fa resistenza. E questo basti intorno al primo danno principale che gli appetiti fanno all’anima, cioè il resistere allo spirito di Dio, in quanto già ne abbiamo parlato a lungo. 5. Diciamo ora del secondo effetto che provocano in essa, che è di molti tipi, poiché gli appetiti stancano l’anima e la tormentano e la oscurano e la macchiano e l’infiacchiscono. 110

Di questi cinque aspetti tratteremo partitamente. 6. Quanto al primo, è chiaro che gli appetiti stancano e affaticano l’anima, poiché sono come figlioletti inquieti e di difficile contentatura, che vanno sempre chiedendo questo e quello alla madre senza mai accontentarsi. E come si stanca e si affatica colui che scava per cupidigia d’un tesoro, così si stanca e affatica l’anima per ottenere ciò che i suoi appetiti le chiedono. E se anche infine l’ottenga, si stanca, sempre, perché mai si soddisfa; infatti, in fondo, sono cisterne rotte quelle che scava, che non possono contenere acqua per saziare la sete (Ger. 2, 13). E così come dice Isaia: Lassus adhuc sitit, et anima eius vacua est (29, 8), che significa: il suo appetito è vuoto e l’anima che ha appetiti si stanca e s’affatica; poiché è come un malato febbricitante, che non sta bene finché non se ne va la febbre ed ogni minuto gli aumenta la sete. Infatti, come si dice nel libro di Giobbe: Cum satiatus fuerit, arctabitur aestuabit, et omnis dolor irruent super eum; che significa: Quando avrà soddisfatto il suo appetito resterà più oppresso e gravato; è cresciuto nella sua anima il calore dell’appetito e così cadrà su di lui ogni dolore (20, 22). L’anima si stanca e s’affatica con i suoi appetiti, poiché ne è ferita e agitata e turbata come l’acqua dai venti, e nello stesso modo la sconvolgono senza lasciarla quietare né in un luogo né in una cosa. E di quest’anima dice Isaia: Cor impii quasi mare fervens: «Il cuore dell’empio è come il mare quando ribolle» (57, 20; ed è empio colui che non vince gli appetiti. L’anima che vuole soddisfare i suoi appetiti si stanca ed affatica perché è come colui che, avendo fame, apre la bocca per saziarsi di vento e anziché saziarsi s’inaridisce di più, poiché non è quello il suo cibo. A questo proposito disse Geremia: In desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui; intendendo: «Nell’appetito della sua volontà attrasse a sé il vento della sua afflizione» (2, 24). E subito dopo, per far capire l’aridità che resta in tale anima, dà questo avvertimento: Prohibe pedem tuum a nuditate, et guttur 111

tuum a siti; che significa: «Allontana il tuo piede, cioè il tuo pensiero, dalla nudità e la tua gola dalla sete» (2, 25), vale a dire: distogli la tua volontà dall’appagamento dell’appetito che aumenta l’aridità. E come si stanca e affatica l’innamorato nel giorno della speranza quando vanno a vuoto i suoi slanci, così l’anima si stanca e affatica con tutti i suoi appetiti e i loro appagamenti, poiché tutti le causano un vuoto e una fame maggiori; infatti, come si dice comunemente, l’appetito è come il fuoco, che, gettandovi legna, cresce, e non può che smorzarsi non appena l’abbia consumata. 7. Però la condizione dell’appetito è ancor peggiore, in questo senso, che il fuoco, diminuendo la legna, decresce, mentre l’appetito, sebbene diminuisca la materia, non diminuisce rispetto al suo livello iniziale, anziché decrescere come fa il fuoco quando venga a mancargli l’alimento, e invece si consuma dalla fatica, poiché gli vien accresciuta la fame e diminuito il cibo. E di ciò parla Isaia dicendo: Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur; che significa: «Si volterà verso la destra ed avrà fame; e mangerà verso la sinistra e non si sazierà» (9, 20). Infatti, coloro che non mortificano i propri appetiti, quando si voltano giustamente vedono la sazietà del dolce spirito di coloro che stanno alla destra di Dio, che loro non è concessa; e quando corrono verso la sinistra, cioè a soddisfare il loro appetito in qualche creatura, giustamente non si saziano; poiché, tralasciando ciò che solo può soddisfare, si pascono di ciò che causa loro una fame maggiore. È chiaro dunque che gli appetiti stancano ed affaticano l’anima. CAPITOLO 7 Si tratta del modo in cui gli appetiti tormentano l’anima. Lo si prova anche con paragoni ed autorità scritturali. 112

1. Il secondo modo di male positivo che gli appetiti causano all’anima è che la tormentano ed affliggono, in modo simile a quello di chi sia torturato con corde, legato da qualche parte, che non si riposa finché non lo si liberi. E di costoro dice David: Funes peccatorum circumplexi sunt me: «Le corde dei miei peccati, che sono i miei appetiti, mi si sono strette intorno» (Sal. 118, 61). E allo stesso modo che si tormenta e affligge chi si corica nudo su spine e punte, così si tormenta e affligge l’anima quando si abbandona sui suoi appetiti; poiché questi come spine feriscono e appenano e bruciano e lasciano dolore. E anche di costoro dice David: Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis; che significa: «Mi girarono intorno come api, pungendomi con i loro pungiglioni e s’accesero contro di me come fuoco con le spine» (Sal. 117,12); poiché negli appetiti, che sono le spine, cresce il fuoco dell’angustia e del tormento. E come il contadino affligge e tormenta il bue sotto l’aratro nel desiderio della messe che spera, così la concupiscenza affligge l’anima sotto l’appetito per ottenere ciò che desidera. E ciò è evidente in quell’appetito che Dalida aveva di sapere dove avesse tanta forza Sansone, appetito che, dice la sacra Scrittura, tanto l’affaticava e tormentava da farla indebolire fin quasi alla morte: Defecit anima eius, et ad mortem usque lassata est (Giud. 16, 16). 2. L’appetito è un tormento tanto più grande per l’anima quanto più è intenso; dimodoché tanto è il tormento quanto l’appetito, e ha tanti più tormenti quanti più appetiti la possiedono; poiché avviene in tale anima, fin da questa vita, ciò che nell’Apocalisse si dice di Babilonia, con queste parole: Quantum glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum; cioè: «Tanto quanto volle gloriarsi e soddisfare i suoi appetiti, datele tormento e angustia» (18, 7). E come è tormentato e afflitto colui che cade in mano ai suoi nemici, così è tormentata e afflitta l’anima che si lascia trascinare dai suoi appetiti. E di ciò v’è figura nel libro dei Giudici (16, 21), dove si legge 113

che il forte Sansone, che prima era forte e libero e giudice d’Israele, caduto in potere dei suoi nemici, fu privato della forza e accecato e legato a girare una mola, il che lo tormentò e afflisse molto. E così accade all’anima in cui questi nemici, gli appetiti, vivano e vincano: prima l’infiacchiscono ed accecano e, come poi diremo, subito dopo l’affliggono e tormentano legandola alla mola della concupiscenza; e i lacci con cui è legata sono gli stessi appetiti. 3. Perciò, avendo Dio compassione di costoro che con tanto travaglio e a proprie spese vanno soddisfacendo la sete e la fame dell’appetito nelle creature, dice loro con Isaia: Omnes sitientes, venite ad aquas; et qui non habetis argentum, properate, emite et comedite: venite, emite absque argento vinum et lac. Quare appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in saturitate? (55, 1-2); intendendo: Voi tutti che avete sete di appetiti, venite alle acque, e voi tutti che non avete l’argento della propria volontà e degli appetiti, affrettatevi; comperate da me e mangiate; venite e comperate del mio vino e del mio latte, cioè pace e dolcezza spirituale, senza l’argento della propria volontà, senza darmi in cambio nessuna fatica, come invece fate per i vostri appetiti. Perché date l’argento della vostra volontà per ciò che non è pane, cioè non appartiene allo spirito divino, e ponete invece il travaglio dei vostri appetiti in ciò che non può saziarvi? Venite, ascoltatemi, e mangerete il bene che desiderate e la vostra anima si delizierà nell’abbondanza. 4. Questo giungere all’abbondanza è liberarsi da tutti i gusti di creatura, poiché la creatura tormenta e lo spirito di Dio ricrea. E così egli ci chiama dicendoci con San Matteo: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos, et invenietis requiem animabus vestris (11, 2829); intendendo: Voi tutti che andate tormentati, afflitti e gravati dal peso delle vostre preoccupazioni ed appetiti, liberatevene venendo a me, ed io vi ricreerò e troverete per le 114

vostre anime quel riposo che i vostri appetiti vi tolgono. Così questi sono un carico pesante, poiché di essi dice David: Sicut onus grave gravatae sunt super me (Sal. 37, 5). CAPITOLO 8 Si tratta del modo in cui gli appetiti oscurano e accecano l’anima. 1. Il terzo effetto che gli appetiti provocano nell’anima è che l’accecano ed oscurano. Come i vapori oscurano l’aria e non lasciano che il sole risplenda chiaro; o come lo specchio appannato non può ricevere nitidamente il nostro volto; o come nell’acqua melmosa non si distingue bene la faccia di chi vi si guardi; così l’anima che è presa dagli appetiti è ottenebrata nell’intelletto e non consente che la investano ed illuminino interamente né il sole della ragione naturale né quello soprannaturale della Sapienza di Dio. E così dice David, parlando a questo proposito: Comprehenderunt me iniquitates meae, et nonpotui, ut viderem; che significa: «Le mie iniquità si impossessarono di me e non ebbi più la capacità di vedere» (Sal, 39, 13). 2. E nell’atto stesso in cui si oscura nell’intelletto, si intorpidisce anche nella volontà e si arrozzisce e disordina nella memoria secondo la sua naturale operazione. Poiché, siccome queste potenze dipendono nelle loro operazioni dall’intelletto, essendo questo impedito, è chiaro che esse non possono restare se non disordinate e turbate. E così dice David: Anima mea turbata est valde; cioè: «La mia anima è molto turbata» (Sal. 6, 4); che è come dire: disordinata nelle sue potenze. Poiché, come abbiamo detto, né l’intelletto ha capacità di ricevere l’illuminazione della Sapienza di Dio, come non l’ha nemmeno l’aria tenebrosa di ricevere quella del sole, né la volontà è in grado d’abbracciare in sé Dio in puro amore, come non lo è nemmeno lo specchio appannato dall’alito di rappresentare in sé con chiarezza il volto che gli 115

è davanti, e meno ancora la memoria, che è offuscata dalle tenebre dell’appetito, è in grado di riflettere in sé nitidamente l’immagine di Dio, come nemmeno l’acqua torbida può rispecchiare chiaramente la faccia che vi si guarda. 3. L’appetito acceca e oscura l’anima, in quanto esso, come appetito, è cieco; poiché di per sé non ha nessun intelletto in se stesso e la ragione lo guida sempre come un cieco. Ne consegue che tutte le volte che l’anima si guida con i suoi appetiti è cieca, poiché è come chi vede e si fa guidare da chi non vede, che è come esser ciechi tutt’e due. E ciò che ne segue è quanto nostro Signore dice in San Matteo: Si caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt: «Se un cieco guida un altro cieco, tutt’e due cadranno in una fossa» (15, 14). Poco servono gli occhi alla farfalletta, poiché l’appetito della bellezza della luce la conduce abbagliata alla fiamma. E così possiamo dire che colui il quale si ciba di appetito è come il pesce abbagliato, al quale la luce che ha davanti gli fa da tenebra, affinché non veda i pericoli che i pescatori gli preparano. Lo fa molto ben intendere David dicendo di costoro: Supercecidit ignis, et non viderunt solem (Sal. 57, 9); che significa: «Cadde su di loro il fuoco che riscalda con il suo calore e abbaglia con la sua luce». È quanto fa l’appetito nell’anima, accendendo la concupiscenza e abbagliando l’intelletto, in modo che non possa vedere la sua luce. Infatti la causa dell’abbagliamento è che, ponendosi una diversa luce davanti alla vista, la potenza visiva è accecata da quella interposta e non vede l’altra e siccome l’appetito si pone tanto vicino all’anima da stare nell’anima stessa, essa incappa in questa prima luce, e se ne ciba, e così è impedita di vedere chiaramente la luce dell’intelletto, né la vedrà finché non si tolga di mezzo l’abbagliamento dell’appetito. 4. È dunque penoso dover deplorare l’ignoranza di alcuni che si caricano di penitenze straordinarie e di molti altri 116

esercizi volontari, pensando che tutto questo basti loro per giungere all’unione con la Sapienza divina; il che invece non sarà, se essi diligentemente non procurino di negare i propri appetiti. E se costoro si curassero di porre in ciò la metà di quei travagli, in un mese progredirebbero più che in molti anni di tutti gli altri esercizi. Infatti, come alla terra è necessario lavoro affinché porti frutto, e senza lavoro non porta frutti ma erbacce, così la mortificazione degli appetiti è necessaria affinché l’anima abbia profitto; ed oso dire che senza ciò l’anima non può progredire nella perfezione e nella conoscenza di Dio e di se stessa, se non quanto può progredire la semente gettata nella terra non dissodata; e dunque la tenebra e la rozzezza non lasceranno l’anima finché gli appetiti non si spengano. Sono infatti come le cataraffe o come la polvere negli occhi, che impediscono la vista finché non siano tolte. 5. E così David mostrando la cecità degli appetiti e quanto ostacolino le anime dallo splendore della verità e quanto se ne sdegni Dio, si rivolge loro dicendo: Priusquam intelligerent spineto vestrae rhamnum: sicut viventes, sic in ira absorbet eos (Sal. 57, 10); intendendo: «Prima che le vostre spine — cioè i vostri appetiti — intendano come viventi, in questo modo Dio li consumerà nella sua ira». Infatti gli appetiti che vivono nell’anima, prima che possano intendere Dio, egli li consumerà in questa vita o nell’altra con castighi e correzioni che serviranno alla purificazione. E dice che li consumerà nell’ira poiché ciò che si soffre nella mortificazione degli appetiti è il castigo per la strage che essi hanno provocato nell’anima. 6. O se gli uomini sapessero di quanto bene di luce divina li priva tale cecità provocata dalle loro affezioni ed appetiti, e in quanti mali e danni li fanno cadere ogni giorno finché non li mortificano! Infatti non bisogna fidarsi della buona intelligenza o dei doni ricevuti da Dio, pensando che se vi sono affezioni o appetiti li faranno poco a poco accecare e 117

oscurare e diminuire. Chi infatti avrebbe detto che un uomo tanto ricolmo di sapienza e di doni di Dio qual era Salomone sarebbe giunto a tanta cecità e torpore di volontà da far altari a tanti idoli e da adorarli lui stesso da vecchio? (3 Re 11, 4-8). E per questo bastò il solo attaccamento che aveva per le donne e la noncuranza nel negare gli appetiti e i diletti del suo cuore. Infatti egli stesso dice di sé nell’Ecclesiaste (2, 10) che non negò al suo cuore ciò che voleva. E tanto si gettò ai propri appetiti, che, sebbene in verità da principio si mantenesse modesto, non avendoli poi negati, poco a poco finirono coll’accecargli ed oscurargli l’intelletto, in modo da spegnere del tutto quella grande luce di sapienza che Dio gli aveva dato, fino al punto che egli nella sua vecchiaia abbandonò Dio. 7. E se gli appetiti non mortificati tanto poterono su di lui che aveva profonda conoscenza della distanza che c’è tra il bene e il male, cosa non potranno di fronte alla nostra rozzezza? Infatti, come Dio disse dei niniviti al profeta Giona, non sappiamo la differenza tra la sinistra e la destra (4, 11), poiché in ogni momento scambiamo il male con il bene e il bene con il male; e ciò per conto nostro. Che accadrà dunque se alla tenebra naturale s’aggiunga l’appetito, se non quanto dice Isaia: Palpavimus sicut caeci parietem, et quasi absque oculis attrectavimus: impegimus meridie, quasi in tenebris? (59, 10). Il profeta parla a coloro che amano seguire questi loro appetiti, come per dire: «Abbiamo palpato la parete come se fossimo ciechi, e andavamo a tentoni come senza occhi e a tanto giunse la nostra cecità che ci impantanammo in pieno giorno come se ci fossero tenebre». Infatti a chi è accecato dall’appetito accade che, posto in mezzo alla verità e a ciò che gli conviene, non può vederlo, come se fosse nelle tenebre. CAPITOLO 9 Si tratta del modo in cui gli appetiti macchiano l’anima. Lo si 118

prova con paragoni e testimonianze della Sacra Scrittura. 1. Il quarto danno che gli appetiti recano all’anima è che la macchiano ed insozzano, secondo quanto insegna l’Ecclesiastico dicendo: Qui tetigerit picem, inquinabitur ab ea; che significa: «Chi tocca la pece se ne insozza» (13, 1); e allora uno tocca la pece quando soddisfa l’appetito della sua volontà in qualche creatura. E qui bisogna osservare che il Saggio paragona le creature alla pece, poiché c’è maggiore differenza tra l’eccellenza dell’anima e tutto il meglio delle creature di quanta non ve ne sia tra un limpido diamante o l’oro fino e la pece. E come l’oro o il diamante, se vi si versasse sopra pece calda, ne resterebbero unti e impiastricciati, per il calore che la riscaldò e liquefece, così l’anima che è calda di appetito verso qualche creatura, dal calore del suo appetito resta immonda e macchiata. E c’è più grande differenza tra l’anima e le altre creature corporee che tra un liquido limpidissimo e un fango sozzissimo. Perciò, come si insozzerebbe un simile liquido se lo si mescolasse con il fango, allo stesso modo si insozza l’anima che s’attacca alla creatura, poiché così diviene simile a tale creatura. E come la fuliggine deturperebbe un volto molto bello e perfetto, allo stesso modo gli appetiti disordinati che dominano l’anima l’imbruttiscono ed insozzano, mentre essa in sé è una bellissima e perfetta immagine di Dio. 2. Perciò Geremia, piangendo la rovina e bruttezza che queste disordinate affezioni causano nell’anima, ne narra prima la bellezza e poi la bruttezza, dicendo: Candidiores sunt Nazaraei eius nive, nitidiores lacte, rubicundiores ebore antiquo, saphiro pulchriores. Denigrata est super carbones facies eorum, et non sunt cogniti in plateis; che significa: «I suoi capelli, cioè dell’anima, sono più candidi della neve, più risplendenti del latte e più vermigli dell’avorio antico e più belli dello zaffiro. La loro faccia si è annerita più del carbone e non sono più conosciuti nelle piazze» (Lam. 4, 7-8). Per i 119

capelli qui intendiamo gli affetti e pensieri dell’anima, che, se ordinati a ciò che Dio comanda, cioè a Dio stesso, sono più bianchi della neve e più bianchi del latte e più rosseggianti dell’avorio e belli più dello zaffiro. Per queste quattro qualità si intende ogni tipo di bellezza ed eccellenza della creatura corporea, a cui sono superiori l’anima e le sue operazioni, rappresentate dai nazareni o capelli, che, se disordinati o posti come Dio non volle, cioè se usati per le creature, dice Geremia, rendono la faccia più nera dei carboni. 3. Questo e ancora più grande è il male che fanno alla bellezza dell’anima gli appetiti disordinati per le cose di questo mondo. Tanto che se volessimo di proposito parlare del brutto e sozzo aspetto che gli appetiti possono far assumere all’anima, non troveremmo cosa alla quale potremmo paragonarla, per quanto fosse piena di ragnatele e schifezze, né bruttezza di corpo morto, né qualsiasi altra cosa immonda e sozza quanto si può vedere e immaginare in questa vita. Infatti, sebbene sia vero che l’anima disordinata resta perfetta come Dio la creò, quanto alla sua natura, invece quanto al suo essere razionale è brutta, abominevole, sozza, oscura e con tutti i mali che qui andiamo descrivendo, e più ancora. Infatti un solo appetito disordinato, come poi diremo, sebbene non sia materia di peccato mortale, è sufficiente a far diventare un’anima tanto schiava, sozza e brutta che in nessun modo può convenire con Dio nell’unione, finché l’appetito non si purifichi. Quale sarà la bruttezza di quella che sia affatto disordinata e soggetta ai propri appetiti nelle sue passioni, e quanto sarà lontana da Dio e dalla sua purezza? 4. Non si può spiegare con parole e nemmeno capire con l’intelletto la varietà di impurità che la varietà degli appetiti causa all’anima. Se infatti si potesse dire e far capire, sarebbe stupefacente ed anche molto miserevole vedere come ogni appetito, secondo la sua maggiore o minore quantità e qualità, lascia nell’anima il suo segno e deposito di impurità 120

e bruttezza, e come un solo disordine della ragione possa contenere in sé innumerevoli specie di maggiori o minori sozzure, ciascuna diversa dall’altra. Poiché, come l’anima del giusto, in una sola perfezione, cioè la rettitudine dell’anima, contiene innumerevoli ricchissimi doni e molte bellissime virtù — ciascuna di diversa specie e bella a seconda della moltitudine e differenza degli affetti d’amore che essa ha avuto verso Dio —, così l’anima disordinata, secondo la verità degli appetiti che ha verso le creature, contiene una miserevole varietà di impurità e bassezze, delle quali la colorano quegli appetiti. 5. Questa varietà di appetiti è ben raffigurata in Ezechiele (8, 10-16), dove si scrive che Dio mostrò a questo profeta all’interno del tempio, dipinti all’intorno sulle pareti, tutti gli schifosi esseri che strisciano sulla terra ed ogni genere di abominazione di animali immondi. E allora Dio disse ad Ezechiele: «Figlio dell’uomo, davvero non hai visto le abominazioni che costoro compiono, ciascuno nel segreto della sua stanza?»; e avendo Dio comandato al profeta di inoltrarsi a vedere più grandi abominazioni, dice d’aver veduto donne sedute a piangere il dio degli amori Adone. E Dio gli comandò di inoltrarsi a vedere abominazioni ancor più grandi; e dice d’aver visto venticinque vecchi che tenevano le spalle rivolte contro il tempio. 6. I diversi animali schifosi e immondi, ch’erano dipinti nel primo recesso del tempio, sono i pensieri e le concezioni che l’intelletto ha delle cose basse della terra e di tutte le creature, le quali si dipingono tali quali sono nel tempio dell’anima, quando questa ne ingombra l’intelletto, che è la prima stanza dell’anima. Le donne che erano più all’interno, nella seconda stanza, a piangere il dio Adone, sono gli appetiti che si trovano nella seconda potenza dell’anima, cioè la volontà. E questi stanno come piangendo in quanto bramano ciò a cui la volontà è affezionata, cioè gli schifosi animaletti già dipinti 121

nell’intelletto. E gli uomini che stavano nella terza stanza sono le immagini e rappresentazioni delle creature che la terza parte dell’anima, cioè la memoria, custodisce e volge dento di sé. E di esse si dice che stanno con le spalle rivolte contro il tempio, poiché, quando l’anima abbraccia con queste sue tre potenze qualcosa di terreno in modo intero e perfetto, si può dire che essa tiene le spalle contro il tempio di Dio, cioè la retta ragione dell’anima, la quale non ammette in sé nulla che riguardi creature. 7. Per intendere qualcosa di questo brutto disordine dell’anima nei suoi appetiti basti per ora quanto s’è detto. Infatti, se dovessimo trattare in particolare della bruttura minore che viene causata nell’anima dalle imperfezioni e dalle loro varietà; e di quella provocata dai peccati veniali, che è già più grande di quella provocata dalle imperfezioni, e dalla loro grande varietà; e anche di quella causata dagli appetiti del peccato mortale, che è la totale bruttezza dell’anima, nonché delle sue molte varietà; per la varietà e moltitudine di questi tre generi di cose, mai si finirebbe, né basterebbe intelletto angelico per poter intenderlo. Ciò che dico e risponde al mio intento è dunque che qualsiasi appetito, anche della minima imperfezione, macchia ed insozza l’anima. CAPITOLO 10 Si tratta del modo in cui gli appetiti intiepidiscono ed infiacchiscono l’anima nella virtù. 1. Il quinto danno che gli appetiti provocano nell’anima è che la intiepidiscono e infiacchiscono in modo che non abbia forza per seguire la virtù e perseverare in essa. Infatti, nell’atto stesso in cui la forza dell’appetito si divide, resta meno forte che se fosse rimasto tutt’intero in una sola cosa; e in quante più cose si divide, tanto meno 122

forte è per ciascuna di esse. Ed è per ciò che i filosofi dicono che la virtù unita è più forte di quanto non sia se si disperda. E pertanto è chiaro che se l’appetito della volontà si disperde in altra cosa al di fuori della virtù, non può che restar più fiacco per la virtù. E così l’anima che ha la volontà divisa in inezie è come l’acqua che, potendo espandersi verso il basso, non cresce verso l’alto e così non è di beneficio. Ed è per ciò che il patriarca Giacobbe paragonò suo figlio Ruben all’acqua dispersa, perché in un suo certo peccato aveva dato libero corso ai suoi appetiti, dicendo: «Sei disperso come l’acqua: non crescerai» (Gn. 49, 4). Come per dire: Poiché sei disperso secondo i tuoi appetiti come l’acqua, non crescerai nella virtù. E come l’acqua calda, se non è coperta, facilmente perde il suo calore, e come le spezie aromatiche lasciate all’aria vanno perdendo la fragranza e la forza del loro profumo; così l’anima non raccolta nell’unico appetito di Dio perde calore e vigore nella virtù. E ben intendendo ciò, David disse, parlando con Dio: Fortitudinem meam ad te custodiam: «Custodirò la mia fortezza per te» (Sal. 58, 10); cioè raccogliendo in te solo la forza dei miei appetiti. 2. E gli appetiti infiacchiscono la virtù dell’anima, poiché sono come i polloni che nascono intorno all’albero e gli tolgono vigore sì che non produca tanto frutto. E di simili anime il Signore dice: Vae praegnantibus et nutrientibus in illis diebus! (Mt. 24, 19). Cioè: «Guai a coloro che in quei giorni saranno incinte o allatteranno!». Per questa gestazione e nutrizione intende quella rivolta agli appetiti che, se non si fermano, verrano sempre più togliendo virtù all’anima e cresceranno per il male dell’anima, come i polloni per l’albero. E per ciò nostro Signore ci consiglia dicendo: «Siano cinti i vostri fianchi», che qui significano gli appetiti (Le. 12, 35). Poiché in effetti essi sono come le sanguisughe che succhiano continuamente il sangue dalle vene; infatti così le chiama l’Ecclesiastico dicendo: «Sanguisughe sono le figlie», cioè gli appetiti; «dicono sempre: Dammi, dammi!» (Prov. 30, 15). 123

3. Da ciò è chiaro che gli appetiti non recano all’anima nessun bene, bensì gli tolgono quello che ha. E se non li si mortificheranno finiranno col farle quanto si dice facciano i figli della vipera a sua madre, che, crescendole nel ventre, la divorano ed uccidono e vivono al prezzo della sua stessa vita; così gli appetiti non mortificati giungono al punto da far morire l’anima a Dio, non avendoli questa fatti morire prima; perciò dice l’Ecclesiastico: Aufer a me, Domine, ventris concupiscentias et concubitus concupiscentiae ne apprehendant me (23, 6), infatti solo essi sono ciò che vive nell’anima. 4. Ed anche quando non giungano a questo, è molto penoso considerare in quale stato tengano la povera anima gli appetiti che vivono in essa, quanto la rendano disgustata verso se stessa, quanto aspra con il prossimo e quanto pigra e svogliata verso le cose di Dio. Non vi è infatti nessun cattivo umore che tanto renda pigro e difficoltoso ad un malato il camminare o ripugnante il cibo quanto l’appetito delle creature rende l’anima pigra e triste nel seguire la virtù. E così ordinariamente il motivo per cui molte anime non hanno né diligenza né voglia di acquistare virtù è che hanno appetiti ed affezioni non pure verso Dio. CAPITOLO 11 Si prova che per giungere alla divina unione è necessario privare l’anima di tutti gli appetiti, per minimi che siano. 1. Mi sembra che da tempo il lettore voglia chiedere se per giungere a questo alto stato di perfezione sia necessario aver prima compiuto una mortificazione totale di tutti gli appetiti, piccoli e grandi, e se basti mortificare alcuni di essi e non gli altri, per lo meno quelli che sembrano di poco conto, in quanto sembra cosa ardua e difficilissima poter far giungere l’anima a tanta purezza e nudità che non abbia più volontà o affezione verso nessuna cosa. 124

2. A ciò rispondo: in primo luogo, è vero che non tutti gli appetiti sono ugualmente dannosi, né impacciano l’anima quando non vi si consenta, né vanno oltre i primi movimenti tutti quelli ai quali la volontà razionale non prese parte né prima né dopo; poiché in questa vita è impossibile lasciarli, cioè mortificarli del tutto, essi non sono d’impedimento a tal punto che non si possa giungere alla divina unione, malgrado, com’ho detto, non siano totalmente mortificati; e poiché la natura può averli e insieme l’anima può essere affatto libera mediante lo spirito razionale, talvolta potrà anche accadere che l’anima si trovi in profonda orazione di quiete nella volontà e che contemporaneamente gli appetiti risiedano nella parte sensitiva dell’uomo, non partecipando ad essi la parte superiore che è in orazione. Però di tutti gli altri appetiti volontari, siano da peccato mortale, cioè i più gravi, siano da peccato veniale, cioè i meno gravi, o siano solo da imperfezioni, cioè i minori, di tutti l’anima deve vuotarsi e privarsi per giungere a questa unione totale, per minimi che essi siano. E la ragione di ciò è che lo stato della divina unione consiste nel tenere l’anima, secondo la volontà, in tale trasformazione nella volontà di Dio che in essa non vi sia nessuna cosa contraria alla volontà di Dio, ma che in tutto e per tutto il suo movimento sia volontà solamente di Dio. 3. E questa è la ragione per la quale in tale stato diciamo che viene fatta una sola volontà, che è volontà di Dio, e questa volontà di Dio è anche la volontà dell’anima. Se infatti l’anima desiderasse qualche imperfezione, che Dio non vuole, non verrebbe fatta l’unica volontà di Dio, poiché l’anima avrebbe una volontà che non è quella di Dio. È dunque chiaro che, affinché l’anima giunga ad unirsi con Dio perfettamente in amore e volontà, anzitutto deve privarsi di ogni appetito di volontà, per minimo che sia; ossia non deve avvertitamente e consapevolmente consentire con la volontà all’imperfezione e deve giungere ad avere la capacità e la libertà di poter fare ciò coscientemente. 125

E dico consapevolmente poiché se non l’avverte o sa, o se non ne è padrona, facilmente cadrà in imperfezioni e peccati veniali e negli appetiti naturali di cui abbiamo parlato; poiché di codesti peccati non del tutto volontari e surrettizi sta scritto che il giusto cadrà e si rialzerà sette volte al giorno (Prov. 24, 16). Ma quanto agli appetiti volontari, che sono peccati veniali avvertiti, sebbene siano di minima portata, come ho detto, basta non vincerne uno solo perché sia d’impedimento. Dico del mortificare l’abito degli appetiti, poiché talora alcuni atti di diversi appetiti non hanno grande rilievo quando gli abiti siano mortificati. E tuttavia bisogna giungere a liberarsi anche di questi, in quanto procedono da un abito di imperfezione. Infatti alcuni abiti di imperfezioni volontarie, che ancora non siano del tutto vinti, non solo impediscono la divina unione, ma anche il progredire nella perfezione. 4. Queste imperfezioni abituali sono, ad esempio: una comune abitudine di parlare molto, un piccolo attaccamento a qualcosa che non si vuol vincer del tutto, a qualche persona, ad un vestito, ad un libro, ad una cella, ad un determinato modo di mangiare o ad altri piccoli discorsi e piccole soddisfazioni nel voler gustare le cose, o nel sapere o nell’udire e simili. Qualunque di queste imperfezioni cui l’anima abbia attaccamento ed abito è di tanto danno riguardo al poter crescere e progredire nella virtù, che se l’anima cadesse ogni giorno in molte altre imperfezioni e facili peccati veniali, che non procedessero da qualche cattiva abitudine, non le sarebbero di impedimento tanto grande quanto quello conseguente ad un suo attaccamento a qualcosa. Infatti, finché ne abbia, è escluso che l’anima possa progredire nella perfezione, anche se l’imperfezione sia affatto minima. Non mi importa infatti che un uccello sia legato ad un filo sottile o ad uno grosso, poiché, anche se è sottile, vi rimarrà legato quanto al grosso, finché non lo spezzerà per volare. È vero 126

che quello sottile è più facile da spezzare, ma, per quanto facile sia, se non lo spezza, non volerà. Così l’anima che conserva legami con qualche creatura, per quanto grandi virtù abbia, non giungerà alla libertà della divina unione. L’appetito e attaccamento dell’anima ha infatti la proprietà che si dice abbia la remora in rapporto ad una nave, cioè che, pur essendo un pesce molto piccolo, se riesce ad attaccarsi ad una nave la tiene tanto ferma da non lasciarla navigare né giungere in porto. E così è una pena vedere alcune anime simili a ricche navi cariche di preziosità ed opere ed esercizi spirituali e virtù e grazie donate da Dio, che non avendo l’animo di smetterla con qualche piccolo gusto o attaccamento o affezione, il che è tutt’uno, mai progrediscono e giungono al porto della perfezione, per il quale basterebbe che spiccassero un bel volo finendo di spezzare quel filo di attaccamento o di liberarsi da quella vischiosa remora dell’appetito. 5. È deplorevole che, avendo Dio concesso loro di spezzare altre più grosse corde di affezioni a peccati e a vanità, per non distaccarsi da una piccolezza dalla quale Dio ha chiesto loro di vincersi per amor suo, e che non è più d’un filo o d’un capello, lasciano andare un bene tanto grande. E il peggio è che non soltanto non progrediscono, ma, per quell’attaccamento, tornano indietro, perdendo quanto avevano guadagnato avanzando in tanto tempo e con tanto travaglio. Si sa infatti che in questo cammino non progredire è andare indietro e non procedere guadagnando è procedere perdendo4. E ciò volle farci intendere nostro Signore quando disse: «Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde» (Mt. 12, 30). Basta che non ci si preoccupi di riparare un vaso che abbia un’incrinatura anche minima perché venga a disperdersi tutto il liquido che contiene. Infatti l’Ecclesiastico ce lo insegnò bene dicendo: «Colui che disprezza le cose piccole poco a poco andrà cadendo» (10, 1). E come dice egli stesso, «da una sola scintilla si fa un grande fuoco» (11, 34). E 127

così una sola imperfezione basta per portarsene appresso un’altra e queste altre ancora; e dunque quasi mai si vedrà un’anima che sia negligente nel vincere un appetito che non ne abbia molti altri derivanti dalla stessa fiacchezza e imperfezione che ha in quell’appetito; e così continuerà a cadere. Ed ho visto molte persone alle quali Dio aveva fatto il dono di farle molto progredire in un grande distacco e libertà, che, soltanto per aver cominciato a lasciarsi prendere da un piccolo attaccamento di affezione, sotto la specie di bene, come ad una conversazione o ad un’amicizia, sono venute svuotandosi lo spirito e il gusto per Dio e per la santa solitudine, venendo meno nella gioia e fermezza negli esercizi spirituali e finendo per perdere tutto. E ciò per non aver troncato quel principio di gusto e appetito sensitivo, custodendosi in solitudine per Dio. 6. In questo cammino per giungere al termine si deve sempre procedere, cioè liberarsi sempre dai desideri anziché alimentarli. E se non si tolgono interamente tutti non si giunge in fondo. Infatti come un tronco non si trasforma in fuoco se manchi un solo grado necessario, così l’anima non si trasformerà in Dio se conserva una sola imperfezione, anche inferiore ad un appettito volontario; poiché, come poi si dirà nella Notte della fede, l’anima ha una sola volontà, e se la si ingombra e riempie di qualcosa, non resta libera, integra, sola e pura, come è necessario per la divina trasformazione. 7. Quanto s’è detto è raffigurato nel libro dei Giudici, dove si dice che venne l’angelo dai figli d’Israele e disse loro che, non avendola fatta finita con quelle genti nemiche ed essendosi invece alleati con alcuni di loro, perciò si doveva lasciare queste genti tra loro come nemici, affinché fossero occasione della loro caduta e perdizione (2, 2-3). E giustamente Dio fa così con alcune anime: dopo ch’egli le ha distaccate dal mondo e ha ucciso i giganti dei loro peccati e annientato la moltitudine dei loro nemici, cioè le occasioni che avevano nel mondo, e ciò solo affinché entrassero con 128

maggiore libertà nella terra promessa dell’unione divina, tuttavia esse contraggono amicizia e alleanza con il popolo minuto delle imperfezioni non mortificandole del tutto. Perciò nostro Signore sdegnato le lascia cadere di peggio in peggio nei loro appetiti. 8. Quanto s’è detto è raffigurato anche nel libro di Giosuè, allorché Dio, nel tempo in cui Giosuè doveva cominciare a prender possesso della terra promessa, gli comandò di distruggere in Gerico tutto quanto vi fosse, in modo da non lasciarvi cosa viva, uomini e donne ed anche bambini e vecchi e tutti gli animali e di non prendere né desiderare nulla affatto delle spoglie (6, 17-21). E ciò affinché intendiamo che, per entrare in questa divina unione, deve morire tutto ciò che vive nell’anima, poco o molto, piccolo o grande, e l’anima deve restare senza desiderio di tutto ciò e tanto distaccata, come se ciò non fosse per lei, né lei per tutto questo. San Paolo ben ce lo insegna dicendo ad Corinthios: «Vi dico, fratelli, che il tempo è breve; ciò che resta e conviene è che coloro che hanno moglie siano come non l’avessero; e coloro che piangono per le cose di questo mondo, come se non piangessero; e coloro che son lieti, come se non lo fossero; e coloro che comprano, come se non possedessero; e coloro che usano di questo mondo, come se non ne usassero» (I, 7, 29-31). Questo ci dice l’Apostolo insegnandoci quanto dobbiamo tenere distaccata l’anima da tutte le cose per giungere a Dio. CAPITOLO 12 Si tratta del modo in cui si risponde a un’altra domanda, spiegando quali siano gli appetiti che bastano a causare nell’anima i danni di cui s’è detto. 1. Potremmo molto diffonderci su quest’argomento della notte del senso, dicendo il molto che c’è da dire sui danni 129

causati dagli appetiti, non solo nei modi detti, ma anche in molti altri. Ma per quanto riguarda il nostro proposito basta quanto abbiamo detto; sembra infatti che si sia chiarito perché si chiama notte la mortificazione degli appetiti e quanto convenga entrare in questa notte per andare a Dio. Ma prima di trattare del modo di entrare in essa, per concludere questa parte proponiamo un dubbio in cui potrebbe incorrere il lettore su quanto abbiamo detto. 2. Il primo è se basti un qualsiasi appetito per provocare nell’anima i due mali già detti, ossia il privativo, cioè il privare l’anima della grazia di Dio, e il positivo, cioè il causare in essa i cinque danni principali di cui abbiamo parlato. Il secondo è se basti qualsiasi appetito, per quanto minimo e di qualsiasi specie, per causare tutti questi cinque danni insieme, o se solamente gli uni causino gli uni e gli altri gli altri, in modo che ad esempio gli uni causino tormento, gli altri spossatezza, gli altri tenebra ecc. 3. Rispondendo dico, quanto al primo dubbio, che per quanto riguarda il danno privativo, cioè il privare l’anima di Dio, soltanto gli appetiti volontari con materia di peccato mortale possono fare e fanno ciò totalmente, in quanto in questa vita privano l’anima della grazia e, nell’altra, della gloria, cioè del possedere Dio. Quanto al secondo, dico che sia gli appetiti la cui materia sia di peccato mortale, sia quelli volontari con materia di peccato veniale, sia quelli con materia di imperfezione, ciascuno di questi basta a causare nell’anima tutti questi danni positivi insieme. E sebbene in certo modo questi siano privativi, qui li chiamiamo positivi, perché corrispondono alla conversione della creatura, così come il privativo corrisponde all’allontanamento da Dio. Ma c’è questa differenza: che gli appetiti di peccato mortale causano totale cecità, tormento e impurità e fiacchezza ecc. Invece gli altri di materia veniale o imperfezione non causano questi mali in 130

grado totale e compiuto, perché la sua morte è la loro vita; ma li causano nell’anima debolmente, secondo la debolezza della grazia che tali appetiti causano nell’anima. Dimodoché quanto più quell’appetito indebolirà la grazia, tanto più causerà abbondante tormento, cecità e sozzura. 4. Ma bisogna osservare che, sebbene ogni appetito causi questi mali che qui chiamiamo positivi, ve ne sono alcuni che principalmente e direttamente ne causano alcuni ed altri, e per conseguenza i rimanenti. È infatti vero che un appetito sensuale causa tutti questi mali, ma principalmente e propriamente insozza l’anima e il corpo. Ed anche è vero che un appetito di avarizia li causa tutti, ma principalmente e direttamente causa afflizione. E allo stesso modo anche un appetito di vanagloria causa tutti gli altri, ma principalmente e direttamente causa tenebre e cecità. E sebbene un appetito di gola causi tutti gli altri, principalmente però causa tepidezza nella virtù. E così per gli altri. 5. E il motivo per cui qualsiasi atto di appetito volontario produce nell’anima tutti questi effetti insieme è che sono direttamente contrari a tutti quegli atti di virtù che producono nell’anima gli effetti contrari. Infatti, come un atto di virtù produce nell’anima e crea insieme soavità, pace, consolazione, luce, limpidezza e fortezza, così un appetito disordinato causa tormento, fatica, spossatezza, cecità e fiacchezza. Tutte le virtù crescono nell’esercizio di una sola, ed i vizi crescono in quello di uno solo, e così le loro tracce nell’anima. E sebbene tutti questi mali non si lasciano vedere nel momento in cui si soddisfa l’appetito, perché il suo gusto non lo consente, però prima o poi si sentono i suoi cattivi residui. E ciò si fa molto bene comprendere con l’immagine di quel libro che nell’Apocalisse, l’angelo comandò a San Giovanni di mangiare e che in bocca gli fu dolce e amaro nel 131

ventre (10, 9-10). Infatti l’appetito, quando lo si consuma è dolce e sembra buono, ma poi se ne sente l’amaro effetto, come potrà ben giudicare chi se ne lascia trascinare. Sebbene non ignori che vi sono alcuni tanto ciechi e insensibili da non sentirlo, poiché, non volgendosi a Dio, non possono vedere ciò che è d’impedimento a Dio. 6. Degli altri appetiti naturali che non sono volontari e dei pensieri che non oltrepassano i primi movimenti, nonché delle altre tentazioni cui non si consenta, qui non tratto, poiché non causano nell’anima nessuno dei mali che ho detto. Infatti, sebbene nella persona che attraversano sorga l’impressione che la passione e il turbamento che le causano la insozzino ed accechino, però non è così; le causano invece benefici contrari; poiché in quanto vi resiste acquista fortezza, purezza, luce e consolazione e molti altri beni; secondo che nostro Signore disse a San Paolo, che «la virtù si perfeziona nella debolezza» (2 Cor. 12, 9). Ma gli appetiti volontari provocano tutti questi mali ed altri ancora. E perciò la cura principale che hanno i maestri spirituali è anzitutto di mortificare i loro discepoli in tutti gli appetiti, lasciandoli nel vuoto di ciò che desideravano, per liberarli da tanta miseria. CAPITOLO 13 Si tratta delle maniere che si debbono seguire per entrare in questa notte del senso. 1. Restano ora da dare alcuni avvisi per sapere e poter entrare in questa notte del senso. A tal fine occorre sapere che l’anima ordinariamente entra in questa notte sensitiva in due maniere; l’una attiva, l’altra passiva. Quella attiva consiste in ciò che l’anima può fare e fa da parte sua per entrare in essa, e di ciò tratteremo ora negli avvisi che seguono. La passiva è quella in cui l’anima non fa niente e Dio 132

l’opera in lei, che resta come passiva; e di ciò tratteremo nel QuartoLibro5, allorché dovremo trattare dei principianti. E poiché, con il favore divino, in quella sede dovremo dare ai principianti molti avvisi riguardo alle molte imperfezioni che sono soliti avere in questo cammino, qui non mi diffonderò dandone molti; anche perché non è molto appropriato darne in questa sede, in quanto qui trattiamo solo delle ragioni per le quali questo passaggio si chiama notte, e in che cosa consista e in quante parti si divida. Ma poiché potrebbe sembrare insufficiente e di poco profìtto non indicare subito qualche rimedio o avviso per esercitarsi in questa notte degli appetiti, ho voluto disporli qui in modo breve come segue; e lo stesso farò alla fine di ciascuna delle altre due parti o cause di questa notte, delle quali, con l’aiuto del Signore, intendo poi trattare. 2. Gli avvisi che qui seguono sul vincere gli appetiti, sebbene pochi e brevi, ritengo siano tanto utili ed efficaci quanto compendiosi, in modo che chi veramente volesse esercitarvisi non gliene mancherà nessun altro, anzi in questi li abbraccerà tutti. 3. Primo, abbia un costante appetito di imitare Cristo in tutte le cose, conformandosi alla sua vita, che deve meditare, per saperla imitare e per comportarsi in tutte le cose come lui si comporterebbe. 4. Secondo, per poter fare bene ciò, rinunzi a qualsiasi gusto che si offra ai sensi, se non sia puramente per onore e gloria di Dio, e se ne svuoti per amore di Gesù Cristo, che in questa vita non ebbe né volle altro gusto che fare la volontà del Padre suo, che egli chiamava suo cibo e nutrimento (Jo. 4, 34). Faccio un esempio: se all’anima si offrisse il gusto di udire cose che non importano per il servizio e l’onore di Dio, non voglia né gustarle né udirle. E se le desse gusto guardare cose che non l’aiutino ad amare di più Dio, non voglia né gustare 133

né guardare tali cose. E se, nel parlare, qualche altra cosa le si offrisse, faccia lo stesso; e lo stesso riguardo a tutti i sensi, se può facilmente sottrarsi; e, se non lo può, basta che non voglia gustarne, anche se queste cose l’attraversino. In questo modo deve procurare anzitutto di lasciare mortificati e vuoti di quel gusto i sensi, come allo scuro. Avendo questa cura in breve farà molto profitto. 5. E per mortificare e acquietare le quattro passioni naturali, che sono piacere, speranza, timore e dolore, dalla cui concordia e pacificazione provengono questi e gli altri beni, è totale rimedio quanto segue, e fonte di grandi meriti e di grandi virtù. 6. Cerchi sempre di inclinarsi: non al più facile, ma al più difficile; non al più saporoso, ma al più insipido; non a quanto più piace, ma invece a quanto meno piace; non al riposo, ma alla fatica; non al consolante, ma invece allo sconsolante; non al più, ma al meno; non a ciò che è più alto e prezioso, ma a ciò che è più basso e spregiato; non a desiderare qualcosa, ma a non desiderare nulla; non alla ricerca del meglio delle cose temporali, ma del peggio, e a desiderare d’entrare per Cristo in ogni nudità e vuoto e povertà di tutto quanto c’è nel mondo. 7. E conviene che abbracci di cuore queste opere e procuri di addestrare la volontà in esse. Se infatti le fa di cuore, molto presto verrà a trovarvi gran diletto e consolazione, operando con ordine e discrezione. 8. Quanto s’è detto, se ben esercitato, basta per entrare nella notte sensitiva. Ma, per farlo con più grande ampiezza, diremo d’un altro modo di esercizio che insegna a mortificare «la concupiscenza della carne e la concupiscenza 134

degli occhi e la superbia della vita», che sono le cose che San Giovanni dice che regnano nel mondo (I, 2, 16) e dalle quali procedono tutti gli altri appetiti. 9. Primo, procurare di agire nel disprezzo di sé e di desiderare che tutti facciano altrettanto, e ciò contro la concupiscenza della carne. Secondo, procurare di parlare nel disprezzo di sé e di desiderare che tutti facciano lo stesso, e ciò contro la concupiscenza degli occhi. Terzo, procurare di pensare bassamente di sé, nel disprezzo di sé, e desiderare che tutti facciano lo stesso, e ciò contro la superbia della vita. 10. A conclusione di questi avvisi e regole, conviene qui porre quei versi che stanno scritti nella salita del Monte, che è la figura che sta all’inizio di questo libro6, e che sono dottrina per salire su di esso, cioè alla sommità dell’unione; poiché, sebbene veramente vi si parli di ciò che è spirituale e interiore, tuttavia tratta anche dello spirito di imperfezione secondo il sensuale e l’esteriore, come si può vedere nelle due strade che sono ai lati del sentiero di perfezione. Così qui li intenderemo secondo questo senso, cioè secondo il sensuale. E poi, nella seconda parte di questa notte, dovremo intenderli secondo lo spirituale. 11. Dicono così: Per arrivare a godere tutto non voler godere nulla in nulla. Per arrivare a possedere tutto non voler possedere nulla in nulla. Per arrivare a essere tutto non voler essere nulla in nulla. Per arrivare a sapere tutto non voler sapere nulla in nulla. Per arrivare a quello che ora non ti piace devi andare per dove non ti piace. 135

Per arrivare a quello che non sai devi andare per dove non Sal. Per arrivare a quel che non possiedi devi andare per dove non possiedi. Per arrivare a quello che non sei devi andare per dove non sei. MODO PER NON OSTACOLARE IL TUTTO 12. Quando ti fermi in qualcosa cessi di slanciarti al tutto. Poiché per giungere del tutto al tutto devi negarti del tutto al tutto. E quando tu giunga tutto ad avere tu devi averlo senza nulla volere. Poiché se nel tutto vuoi avere qualcosa non hai puro in Dio il tuo tesoro. 13. In questa nudità l’anima spirituale trova la sua quiete e riposo, poiché, non bramando niente, niente l’affatica verso l’alto e niente l’opprime verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando infatti brama qualcosa proprio in essa s’affatica. CAPITOLO 14 Si spiega il secondo verso della strofa: d’amorose ansie infiammata. 1. Abbiamo spiegato il primo verso di questa strofa, che tratta della notte sensitiva, facendo capire quale notte sia questa del senso e perché si chiama notte. Ed avendo anche indicato l’ordine e il modo che si deve avere per entrare in essa attivamente, continuiamo ora trattando in modo ordinato delle sue proprietà ed effetti mirabili, che sono contenuti nei versi successivi di tale strofa, su cui 136

brevemente mi soffermerò per spiegarli, come ho promesso nel Prologo e procederò poi al Secondo Libro, che tratta dell’altra parte di questa notte, cioè quella spirituale. 2. Dunque l’anima dice che d’amorose ansie infiammata passò attraverso questa notte oscura del senso e giunse all’unione con l’Amato. Infatti, per vincere tutti gli appetiti e negare i gusti di tutte le cose, nel cui amore ed affezione suole infiammarsi la volontà per goderne, era necessario che più grandemente s’infiammasse d’altro miglior amore, cioè quello per il suo Sposo; affinché, ponendo in lui il suo gusto e la sua forza, trovasse il valore e la costanza di negare facilmente tutti gli altri. E per vincere la forza degli appetiti sensitivi non bastava che amasse il suo Sposo, ma doveva essere infiammata d’amore e con ansie. Infatti accade in verità che la sensualità è mossa e attratta verso le cose sensitive con tanto grandi ansie di appetito che, se la parte spirituale non è infiammata con altre maggiori ansie di ciò che è spirituale, non potrà vincere il giogo naturale, né entrare in questa notte del senso, né avrà l’animo di rimanere allo scuro di tutte le cose, privandosi dell’appetito di esse. 3. E come e di quanti modi siano queste ansie d’amore che le anime hanno all’inizio di questo cammino di unione; e le attenzioni e gli espedienti che fanno per uscire dalla loro casa, cioè la propria volontà, nella notte della mortificazione dei sensi; e quanto facili e dolci e saporose queste ansie dello Sposo facciano apparire tutti i travagli e pericoli di questa notte: tutto ciò in questo luogo non si deve dire né si può dire; poiché è meglio serbarlo e meditarlo che scriverlo. Passeremo così a spiegare gli altri versi nel capitolo seguente. CAPITOLO 15 Si spiegano gli altri versi della strofa:

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O felice ventura! Uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. 1. L’anima prende per metafora il misero stato del prigioniero, del quale è felice ventura liberarsi, senza che lo impedisca qualcuno dei carcerieri. Infatti, dopo il primo peccato originale, è veramente come prigioniera in questo corpo mortale, soggetta alle passioni e agli appetiti naturali, dall’assedio e dalla soggezione dei quali ritiene per felice ventura d’essersi liberata senza essere notata, cioè senza che nessuno di questi l’abbia impedita o trattenuta. 2. Per questo le giovò uscire nella notte oscura, cioè nella privazione di tutti i gusti e nella mortificazione di tutti gli appetiti, nel modo che abbiamo detto. E ciò stando già la sua casa addormentata; che significa che la parte sensitiva, che è la casa di tutti gli appetiti, era addormentata, essendo stati tutti gli appetiti vinti e addormentati. Infatti fino a che gli appetiti non s’addormentino, per la mortificazione della sensualità, e la sensualità stessa non se ne sia acquietata, in modo da non far più alcuna guerra allo spirito, l’anima non si leva alla vera libertà a godere dell’unione con il suo Amato. FINE DEL PRIMO LIBRO 2. Qui, come più avanti (l. 1, 13, 1), la Salita e la Notte vengono considerate un’unica opera divisa in quattro parti, eli cui l’ultima corrisponderebbe alla stessa Notte. Nel libro II della Salita (1, 3 e 2, 3) questa divisione si ridurrà in tre parti, vedendo unite la seconda e la terza. 3. Non si tratta, in realtà, dei Soliloqui autentici, ina del Liber Soliloquiorum animae ad Deum, testo del XII o XII secolo, già. attribuito ad Agostino; cfr. Migne, P. L., 40, 866. 4. Fa suo un avvertimento spirituale classico della tradizione cristiana; si veda ad esempio il secondo sermone di Bernardo di Chiaravalle sulla Purificazione della Vergine, in Migne, P. L., 183, 369 5. Che pertanto corrisponde alla prima parte della Notte (1. I, cc. 1-

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14). Cfr., qui, la nota 2. 6. Qui riprodotta nella tavola a fronte della pagina 128.

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LIBRO SECONDO della Salita del Monte Carmelo, nel quale si tratta del mezzo prossimo per salire all’unione con Dio, cioè della fede; così si tratta della seconda parte di questa notte che diciamo appartenere allo spirito, contenuta nella seconda strofa, che è quella che segue. STROFA SECONDA CAPITOLO 1 Allo scuro e sicura per la segreta scala, travestita o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. I. In questa seconda strofa l’anima canta la felice ventura che ebbe di denudare lo spirito di tutte le imperfezioni spirituali e degli appetiti di possesso di cose spirituali. E questa fu per lei ventura molto più grande per la maggiore difficoltà d’addormentare questa casa della parte spirituale e di poter entrare in questa oscurità interiore che è la nudità spirituale di tutte le cose, tanto sensuali quanto spirituali, appoggiandosi solo alla pura fede e con essa salendo a Dio. Perciò la chiama qui scala e segreta, perché tutti i suoi gradi ed articoli sono segreti e nascosti ad ogni senso e intelletto. Così essa rimase allo scuro d’ogni lume di senso e intelletto, uscendo da ogni limite naturale e razionale, per salire per questa divina scala della fede, che ascende e penetra fino alla profondità di Dio. E dice che andava travestita perché, salendo con la fede, aveva cambiato in divino l’abito e il rivestimento e il termine naturale. Così a causa di questo travestimento non fu riconosciuta né trattenuta dal temporale, né dal razionale, né dal demonio, poiché nessuna di queste cose può portare 140

danno a colui che cammina nella fede. Non solo, ma l’anima procede tanto coperta e nascosta ed esente da tutti gli inganni del demonio, che veramente cammina, come anche qui dice, allo scuro e celata, cioè dal demonio, per il quale la luce della fede è più che tenebre. Così possiamo dire che l’anima che in essa cammina procede nascosta e coperta al demonio, come si vedrà più chiaro in seguito. 2. Per questo dice d’essere uscita allo scuro e sicura, poiché colui che ha questa ventura di camminare nell’oscurità della fede prendendola per guida come un cieco e uscendo da tutti i fantasmi naturali e ragioni spirituali, come abbiamo detto, cammina molto al sicuro. E così dice anche che uscì per questa notte spirituale stando già la sua casa addormentata, cioè la parte spirituale e razionale, della quale, quando l’anima giunge all’unione con Dio, ha addormentato le potenze naturali e gli impeti ed ansie sensuali nella parte spirituale. E perciò qui non dice che uscì con ansie, come nella prima notte del senso; poiché per entrare nella notte del senso e spogliarsi del sensibile, cioè per uscirne del tutto, erano necessarie ansie d’amore sensibile; mentre invece per addormentare del tutto la casa dello spirito si richiede solo la negazione di tutte le potenze e gusti e appetiti spirituali nella pura fede. Quando l’anima abbia compiuto ciò, si congiunge con l’Amato in un’unione di semplicità e purezza e amore e somiglianza. 3. Bisogna sapere che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, dice che uscì nella notte oscura; e qui, parlando della parte spirituale, dice che uscì allo scuro, in quanto è molto più grande la tenebra della parte spirituale, come l’oscurità è tenebra più grande di quella della notte, poiché, per quanto sia oscura una notte, tuttavia consente di veder qualcosa, mentre invece nell’oscurità non si vede nulla. Così nella notte del senso resta tuttavia qualche luce, poiché restano l’intelligenza e la ragione, che non s’accecano; invece 141

questa notte spirituale, cioè la fede, è priva di tutto, tanto nell’intelletto che nel senso. Perciò l’anima dice che in questa notte andava allo scuro e sicura, cosa che non diceva per l’altra; poiché, quanto meno l’anima opera con la propria capacità, tanto più va sicura, perché procede in fede. E ciò si verrà spiegando ben distesamente in questo Secondo Libro, nel quale sarà necessario che il devoto lettore proceda con attenzione, perché vi si debbono dire cose molto importanti per il vero spirito; e sebbene siano un poco oscure, le une apriranno il cammino alla comprensione delle altre, in modo che si comprenda tutto molto bene. CAPITOLO 2 Si comincia a trattare della seconda parte o causa di questa notte, cioè la fede. Si prova con due argomenti come essa sia più oscura della prima e della terza. 1. Continuiamo trattando ora della seconda parte di questa notte, cioè la fede, che come abbiamo detto è il mirabile mezzo per giungere alla meta che è Dio, che per l’anima costituisce naturalmente la terza causa o parte di questa notte. Infatti la fede, che è il mezzo, viene paragonata alla mezzanotte. E così possiamo dire che per l’anima è più oscura della prima e, in certo modo, della terza. Infatti la prima, cioè quella del senso, è paragonata alla prima parte della notte, allorché cessa la vista d’ogni oggetto sensibile, ma non è tanto lontana dalla luce come la mezzanotte. La terza parte, cioè l’alba, che è già prossima alla luce del giorno, non è tanto oscura come la mezzanotte, essendo vicina all’illuminazione e alla proiezione della luce del giorno, la quale è paragonata a Dio. Poiché sebbene sia vero che, parlando naturalmente, Dio è per l’anima una notte oscura quanto la fede, tuttavia — compiute ormai queste tre parti della notte che per l’anima naturalmente sono tali — Dio viene illuminando soprannaturalmente l’anima con il raggio 142

della sua divina luce, il che è il principio della perfetta unione, che segue dopo che s’è attraversata la terza parte della notte, che si può dire la meno oscura. 2. Quella della fede è anche più oscura della prima, poiché questa appartiene alla parte inferiore dell’uomo, cioè la sensitiva e di conseguenza la più esteriore; mentre questa seconda appartiene alla parte superiore dell’uomo, cioè la razionale e di conseguenza è più interiore ed oscura, poiché la priva della luce razionale o per meglio dire l’acceca. E così ben la si paragona alla mezzanotte, che è la parte più profonda ed oscura della notte. 3. Dovremo ora dimostrare che questa seconda parte, cioè la fede, è notte per lo spirito, così come la prima lo era per il senso. E diremo poi anche quali ne siano gli ostacoli e come si deve disporre l’anima attivamente per entrarvi. Infatti della disposizione passiva, in cui Dio agisce senza di lei per porverla, diremo a suo luogo, che ritengo sarà il Terzo Libro7. CAPITOLO 3 Come la fede sia notte oscura per l’anima. Lo si prova con argomenti e testimonianze e figure della Sacra Scrittura. 1. I teologi dicono che la fede è un abito dell’anima certo e oscuro. E la ragione per la quale è abito oscuro è che fa credere verità rivelate da Dio stesso, che sono al di sopra d’ogni luce naturale ed eccedono senza proporzione ogni umano intelletto. Ne consegue che questa eccessiva luce che le è data mediante la fede è per l’anima oscura tenebra, poiché il più toglie e vince il meno, così come la luce del sole toglie qualsiasi altra luce, in modo che, quand’essa splende, sembra non ve ne siano altre, e vince la nostra potenza visiva, sicché anzitutto l’acceca e priva della sua capacità visiva, in quanto la sua luce è sproporzionatamente eccessiva 143

rispetto alla potenza visiva; allo stesso modo la luce della fede opprime e vince per il suo grande eccesso quella dell’intelletto; la quale di per sé si estende alla scienza naturale, sebbene abbia potenza per quella soprannaturale, allorché nostro Signore voglia porla in atto in rapporto al soprannaturale. 2. Ne consegue che nessuna cosa di per sé l’anima può sapere se non per via naturale, e ciò è quello che coglie solo mediante i sensi, e perciò deve conservare i fantasmi e le figure degli oggetti presenti in sé o nelle loro immagini e non in altro modo; poiché, come dicono i filosofi, ab objecto et potentia paritur notitia, cioè: la cognizione nasce nell’anima dall’oggetto presente e dalla propria potenza. Ne consegue che se si dicessero cose a chi mai le conobbe né mai ne vide di simili, in nessun modo gli si farebbe più luce su di esse che se non gli si fossero dette. Faccio un esempio: se a qualcuno si dicesse che in una certa isola c’è un animale ch’egli non ha mai visto, se di quest’animale non gli si indichi nessuna somiglianza con qualche altro che abbia visto, non gliene resterà un’immagine né una conoscenza maggiore di prima, sebbene si continui a parlargliene. E con un esempio più chiaro si capirà meglio. Se a un cieco nato, che mai ha visto nessun colore, si cercasse di spiegare com’è il colore bianco o il giallo, per quanto gli si dicesse non potrebbe capire più di tanto, poiché mai vide tali colori né altri simili per poter concepirli; di essi gli resterà solo il nome, perché questo l’ha potuto percepire con l’udito, ma la forma e figura no, perché non le ha mai viste. 3. Così è la fede in rapporto all’anima, in quanto ci dice cose che mai abbiamo visto né inteso in se stesse in relazione con qualcosa che v’assomigli, in quanto ciò non esiste. E così non possiamo averne lume di scienza naturale, in quanto ciò che essa ci dice non è proporzionato a nessun senso; però lo sappiamo mediante l’udito, credendo ciò che 144

ci insegna, assoggettando ed accecando la nostra luce naturale. Infatti, come dice San Paolo, Fides ex auditu (Rom. 10, 17); che vuol dire: la fede non è scienza che entri mediante qualche senso, ma è solo il consenso dell’anima a qualcosa che entra mediante l’udito. 4. Ma la fede supera di molto ciò che tali esempi fanno comprendere. Infatti non solo non produce nozione o scienza, bensì, come abbiamo detto, priva e acceca l’anima di qualsiasi altra nozione o scienza, affinché si possa meglio credere. Le altre scienze si acquistano infatti con la luce dell’intelletto; invece questa della fede si acquista senza la luce dell’intelletto, negandola per la fede, e con la sola luce dell’intelletto si perde, se non la si oscura. Perciò disse Isaia (7, 9): Si non credideritis, non intelligetis; cioè: «Se non crederete non intenderete». È dunque chiaro che la fede è notte oscura per l’anima, e in questo modo le dà luce; e quanto più la oscura, tanto più le dà della sua luce, poiché, accecandola, le dà luce, secondo quest’espressione di Isaia: «Poiché se non crederete non intenderete», cioè non avrete luce. E così la fede fu raffigurata da quella nube che divideva i figli d’Israele dagli Egiziani, quando stavano per entrare nel Mar Rosso, della quale la Sacra Scrittura dice che erat nubes tenebrosa et illuminans noctem (Es. 14, 20); ossia quella «nube era tenebrosa e illuminava la notte». 5. È cosa mirabile che, essendo tenebrosa, illuminasse la notte; e ciò perché la fede, che è nube oscura e tenebrosa per l’anima — la quale è anch’essa notte, poiché in presenza della fede resta privata e cieca del suo lume naturale —, con la sua tenebra rischiara e dà luce alla tenebra dell’anima; infatti il discepolo conviene assomigli al maestro. E l’uomo che sta nella tenebra non può essere convenientemente illuminato se non da un’altra tenebra, come ci insegna David dicendo: Dies diei éructât verbum et nox noeti indicat scientiam; che significa: «Il giorno traboccante spira parole al 145

giorno e la notte rivela sapere alla notte» (Sal. 18, 3). Il che più chiaramente significa: Il giorno, che è Dio, nella sua beatitudine, ove è già giorno, comunica e pronuncia agli angeli e alle anime beate, che già sono giorno, la Parola, cioè suo Figlio, perché lo conoscano e lo godano. E la notte, cioè la fede, nella chiesa militante, dove ancora è notte, insegna la scienza alla Chiesa, e di conseguenza a qualsiasi anima; e tale scienza le è notte, in quanto essa è priva della chiara, sapienza beatifica, e in presenza della fede il suo lume naturale è cieco. 6. In tal modo se ne deve concludere che la fede, in quanto è notte oscura, dà luce all’anima, che è allo scuro, affinché si avveri ciò che dice David a questo proposito: Nox illuminatio mea in deliciis meis; che significa: «La notte sarà la mia luce nei miei diletti» (Sal. 138, 11). Che è come dire: nei diletti della mia pura contemplazione e unione con Dio la notte della fede sarà la mia guida. Dove si fa comprendere chiaramente che l’anima deve stare nella tenebra per essere illuminata in questo cammino. CAPITOLO 4 Tratta in generale del modo in cui l’anima per parte sua deve stare allo scuro per essere ben guidata dalla fede alla somma contemplazione. 1. Credo si sia fatto ormai comprendere come la fede sia notte oscura per l’anima, e come l’anima deve essere oscura o stare allo scuro dalla sua luce per lasciarsi guidare dalla fede a questa sublime meta dell’unione. Ma affinché l’anima sappia compiere ciò, converrà ora spiegare più dettagliatamente la natura dell’oscurità che l’anima deve avere per entrare in quest’a bisso della fede. Così in questo capitolo parlerò in generale di essa e poi, con il favore divino, proseguirò dicendo più in particolare come ci si debba comportare per non errare in essa e per non essere 146

d’impedimento a tale guida. 2. Dico dunque che l’anima, per lasciarsi ben guidare dalla fede a questo stato, non solo deve restare allo scuro secondo quella sua parte che riguarda le creature e il temporale, cioè la sensitiva e inferiore, di cui abbiamo già trattato, ma anche deve accecarsi e oscurarsi secondo quella sua parte che riguarda Dio e lo spirituale, cioè la ragione o parte superiore, di cui veniamo trattando. Infatti, affinché un’anima pervenga alla trasformazione soprannaturale, è chiaro che deve oscurarsi e oltrepassare tutto quanto contiene la sua natura, cioè il sensitivo ed il razionale. Infatti soprannaturale vuol dire che sale al di sopra del naturale e dunque lascia sotto di sé il naturale. Infatti, poiché questa trasformazione e unione non è in potere del senso, né della capacità umana, l’anima deve vuotarsi perfettamente e volontariamente di tutto ciò che può essere contenuto in essa, sia quanto alla parte superiore che all’inferiore, secondo l’affetto, dico, e la volontà, per quanto dipenda da lei; a Dio infatti chi mai potrà impedire di far quanto vuole nell’anima rassegnata, annichilita e nuda? Però si deve vuotare di tutto ciò che possa cadere nella sua capacità, in modo che, quantunque possa avere molte ricchezze soprannaturali, deve sempre restarne come nuda e allo scuro, come il cieco, appoggiandosi alla fede oscura, prendendola per guida e lume e non appoggiandosi a nessuna cosa che intende e gusta e sente e immagina. Infatti tutto ciò è tenebra che la farà errare; e la fede è al di sopra di tutto quell’intendere e gustare e sentire e immaginare. E se non s’acceca in questo, restando totalmente allo scuro, l’anima non giunge a ciò che è superiore, ossia a ciò che la fede insegna. 3. Se il cieco non è del tutto cieco non si lascia ben condurre dalla sua guida, ma, vedendo un poco, pensa che sia meglio andare per la qualsiasi parte che vede, perché non ne vede migliori; così può far sbagliare chi lo conduce e vede 147

meglio di lui e infine può comandare più della sua guida. E così l’anima, se per procedere in questo cammino si fonda su qualche sua cognizione o gusto o sentimento di Dio, in quanto tutto ciò, per quanto grande possa essere, è assai poco e dissimile da ciò che Dio è, facilmente sbaglia o si ferma, perché non s’affida completamente cieca alla fede che è la sua vera guida. 4. Ciò infatti volle intendere San Paolo quando disse: Accedente, ad Deum oportet credere quod est (Eb. 11, 6); che vuol dire: «Colui che vuol giungere all’unione con Dio deve credere nel suo essere». Come se dicesse: Colui che vuol giungere ad unirsi in un’unione con Dio non deve procedere intendendo, né appoggiandosi al gusto né al senso né all’immaginazione, ma credendo nel suo essere, che non cade nell’intelletto né nell’appetito né nell’immaginazione né in alcun altro senso, né si può conoscere in questa vita; anzi ciò che in essa di più sublime si può sentire e gustare ecc. di Dio dista infinitamente da Dio e dal suo puro possesso. Isaia (64, 4) e San Paolo (1 Cor. 2, 9) dicono: Nec oculus vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis qui diligunt illum; che vuol dire: «Ciò che Dio tiene preparato per coloro che lo amano né occhio mai lo vide, né orecchio lo udì, né venne nel cuore o nel pensiero dell’uomo». Poiché, aspirando l’anima ad unirsi perfettamente per grazia in questa vita con colui al quale nell’altra vita deve essere unita per gloria — che, come qui dice San Paolo, occhio non vide né orecchio udì né venne nel cuore o nel pensiero dell’uomo —, è chiaro che, per giungere ad unirvisi perfettamente in questa vita per grazia e per amore, deve essere allo scuro di tutto quanto può entrare per gli occhi e di tutto quello che può recepire con l’udito e può immaginare con la fantasia e comprendere con il cuore, che qui significa l’anima. E così l’anima s’allontana grandemente dal giungere a questo alto stato di unione con Dio allorché s’attacca a qualche suo intendere o sentire o immaginare o parere o 148

volontà o modo o a qualsiasi altra cosa od opera propria, non sapendosi distaccare e denudare da tutto questo. Infatti, come abbiamo detto, ciò a cui va è al di sopra di tutto questo, anche se ciò fosse il massimo che si possa sapere o gustare; e così bisogna soprattutto passare al non sapere. 5. Pertanto in questo cammino l’entrare nel cammino è abbandonare il proprio cammino o, per meglio dire, è giungere alla meta; e abbandonare il proprio modo è entrare in colui che non ha modo, cioè Dio; infatti l’anima che giunge a tale stato non ha ormai modi né maniere e nemmeno s’attacca né può attaccarsi ad esse; dico né modi di intendere né di gustare né di sentire, sebbene racchiuda in sé tutti i modi, così come non ha nulla di particolare chi possiede tutto; infatti, avendo l’ardire di oltrepassare interiormente ed esteriormente il proprio limite naturale, entra nel limite soprannaturale che non ha modo alcuno, contenendo in sostanza tutti i modi. Perciò giungere qui è uscire da quei limiti, di qui e di là elevandosi grandemente oltre se stessi, da questa bassura verso questa sublime altezza. 6. Pertanto, oltrepassando tutto ciò che può sapere e intendere spiritualmente e naturalmente, l’anima deve desiderare con ogni desiderio di giungere a ciò che in questa vita non si può sapere né può essere contenuto nel suo cuore; e, lasciando indietro tutto ciò che temporalmente e spiritualmente gusta e sente e può gustare e sentire in questa vita, deve desiderare con ogni desiderio di pervenire a ciò che supera ogni sentimento e gusto. E per restare libera e vuota a questo fine, non deve in nessun modo avere attaccamento a quanto riceve nella sua anima, spiritualmente o sensibilmente, giudicando tutto ciò per molto meno, come poi spiegheremo quando ne tratteremo in particolare. Infatti, quanto più pensa che sia ciò che intende, gusta e immagina, e quanto più lo stima, sia spirituale o no, tanto più perde del bene supremo e tanto più 149

indugia a pervenirvi. E quanto meno stima che sia ciò che può avere, per quanto grande possa essere, rispetto al sommo bene, tanto più pone in questo la sua stima e di conseguenza tanto più gli si approssima. E in tal modo, allo scuro, l’anima grandemente si avvicina all’unione mediante la fede, la quale è anch’essa oscura, e così le dà mirabile luce. Certo, se l’anima volesse vedere, si oscurerebbe nei riguardi di Dio molto più sollecitamente di chi aprisse gli occhi per vedere il grande bagliore del sole. 7. Pertanto in questo cammino, accecandosi nelle sue potenze, dovrà vedere la luce, secondo quanto dice il Salvatore nel Vangelo: In indicium veni in hunc mundum: ut qui non vident, videant, et qui vident, caeci fiant; cioè: «Sono venuto in questo mondo per il giudizio; in modo che coloro che non vedono vedano e coloro che vedono diventino chiechi» (Gv. 9, 39). E ciò, così come suona, si deve intendere nei confronti di questo cammino spirituale: occorre cioè sapere che l’anima che starà allo scuro e s’accecherà in tutti i propri lumi naturali vedrà sopran naturalmente, e si accecherà e s’arresterà nel cammino dell’unione quanto più vorrà appoggiarsi a qualche suo lume. 8. Per procedere meno confusamente, mi sembra necessario far comprendere nel capitolo seguente che cosa sia ciò che chiamiamo unione dell’anima con Dio; poiché, compreso questo, si darà molta luce in ciò che d’ora in avanti andremo dicendo; e così ritengo che ora convenga trattarne come nel suo luogo appropriato; poiché, sebbene s’interrompa il filo di ciò che veniamo trattando, non è fuori di proposito, in quanto qui serve per dar luce al medesimo argomento che si sta trattando; a ciò servirà questo capitolo inserito come tra parentesi e collocato entro un’unica argomentazione, in quanto presto dovremo trattare in particolare delle tre virtù teologali in rapporto a questa seconda notte.

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CAPITOLO 5 Si spiega che cosa sia l’unione dell’anima con Dio; e si porta un paragone. 1. Da quanto s’è finora detto si può in qualche modo comprendere ciò che qui intendiamo per unione dell’anima con Dio, e perciò si comprenderà meglio ciò che ora ne diremo. Ma non intendo ora trattare delle sue divisioni o parti, poiché mi dilungherei troppo se ora mi mettessi a spiegare la natura dell’unione dell’intelletto, e della volontà, ed anche della memoria, e la natura di quella transeunte e di quella permanente secondo tali potenze; e poi di quella totale transuente e permanente secondo tutte queste potenze insieme. Di ciò verremo trattando partitamente nei vari tratti del nostro discorso, ma ora non è il caso di spiegare ciò che ne dovremo dire e molto meglio si farà comprendere a suo luogo, allorché, trattando proprio tali argomenti, avremo l’esempio vivo insieme con la conoscenza presente, e allora si osserverà e intenderà ciascuna cosa e se ne giudicherà meglio. 2. Ora tratto solo di questa unione totale e permanente secondo la sostanza dell’anima e le sue potenze, con riguardo all’abito oscuro dell’unione; infatti, riguardo all’atto, con l’aiuto divino diremo poi come in questa vita non si possa avere unione permanente secondo le potenze, ma solo transeunte. 3. Inoltre, per comprendere la natura di questa unione della quale veniamo trattando, bisogna sapere che Dio dimora ed è sostanzialmente presente in qualsiasi anima, anche in quella del più grande peccatore del mondo. E questo modo di unione vi è sempre tra Dio e tutte le creature e con esso Dio ne conserva l’essere che hanno; dimodoché se questo modo d’unione venisse loro a mancare subito s’annichilirebbero e cesserebbero di essere. Perciò, quando parliamo di unione dell’anima con Dio, 151

non parliamo di questa unione sostanziale, che sempre è in atto, ma dell’unione e trasformazione dell’anima in Dio, che non è sempre in atto, ma solo allorché viene ad esserci somiglianza d’amore. E pertanto questa si chiamerà unione di somiglianza, così come quella unione essenziale o sostanziale: naturale questa, e soprannaturale l’altra. E questa si dà quando le due volontà, cioè dell’anima e di Dio, sono totalmente conformi, non essendoci nell’una nulla che sia incompatibile con l’altra. E così quando l’anima si libererà totalmente da ciò che è incompatibile o non conforme con la volontà divina, rimarrà trasformata in Dio per amore. 4. Il che si intende non solo quanto a ciò che è incompatibile secondo l’atto, ma anche secondo l’abito. Dimodoché non solo deve essere priva degli atti volontari di imperfezione, ma deve anche annientare gli abiti della qualsiasi imperfezione. E in quanto tutte le azioni e capacità di qualsiasi creatura non sono conformi né giungono a ciò che Dio è, perciò l’anima si deve spogliare di ogni creatura e delle sue azioni e capacità, cioè del suo capire, gustare e sentire, affinché, gettato tutto ciò che è dissimile e difforme da Dio, ne riceva somiglianza a Dio, non restando in lei alcunché che non sia volontà di Dio; e così si trasforma in Dio. Sebbene dunque sia vero che, come abbiamo detto, Dio è sempre nell’anima, donandole e conservandole l’essere naturale con la sua presenza, però non sempre le comunica l’essere soprannaturale. Infatti questo non si comunica se non per amore e grazia, e non tutte le anime vi si trovano; e, quelle che vi si trovano, non in eguale grado, ma le une in maggiore e le altre in minor grado d’amore. Ne consegue che Dio più si comunica all’anima che più è progredita nell’amore, che consiste nel conformare maggiormente la propria volontà con quella di Dio. E quella che totalmente è conforme e somigliante, totalmente è unita e trasformata in Dio soprannaturalmente. Perciò, come già abbiamo spiegato, quanto più un’anima è 152

rivestita di creature e di capacità secondo l’affezione e l’abito, tanto meno è disposta per tale unione, poiché non dà a Dio totale disposizione a trasformarsi soprannaturalmente; dimodoché l’anima altro non deve fare che spogliarsi di queste contrarietà e dissimiglianze, affinché Dio, che per essenza le si comunica naturalmente, le si comunichi soprannaturalmente per grazia. 5. E ciò volle far intendere San Giovanni quando disse: Qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, nec ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (1, 13); che significa: Diede il potere di poter divenire figli di Dio, cioè di poter trasformarsi in Dio, solo a coloro che sono nati non dal sangue, cioè non dalle complessioni e composizioni naturali, e nemmeno dalla volontà della carne, cioè dall’arbitrio dell’abilità e della capacità naturale, né dalla volontà dell’uomo. E in ciò si include ogni maniera di giudicare e comprendere con l’intelletto. A nessuno di costoro diede la capacità di poter essere figli di Dio, se non a coloro che sono nati da Dio; cioè a coloro che, rinascendo per grazia, prima morendo a tutto ciò che è l’uomo vecchio, si elevano al di sopra di sé al soprannaturale, ricevendo da Dio tale rinascita e figliazione, che è al di sopra di tutto quanto si può pensare. Infatti, come altrove dice San Giovanni: Nisi qui renatus fuerit ex aqua, et Spiritu Sancto, non potest videre regnum Dei (3, 5); che significa: «Colui che non rinascerà nello Spirito Santo non potrà vedere questo regno di Dio», cioè lo stato di perfezione. E rinascere nello Spirito Santo in questa vita è avere un’anima somigliantissima a Dio in purezza, senza avere in sé nessuna mescolanza d’imperfezione, per cui può farsi pura trasformazione per partecipazione d’unione, sebbene non essenzialmente. 6. E per meglio intendere tutto ciò, portiamo un paragone. Se un raggio di sole batte su una vetrata, e se questa è offuscata da qualche macchia o appannatura, non la potrà 153

totalmente rischiarare e trasformare nella sua luce, come se fosse tersa e monda di tutte quelle macchie; anzi, tanto meno la rischiarerà, quanto meno sarà priva di quegli offuscamenti e macchie, e tanto più, quanto più sarà tersa. E ciò non accadrà a causa del raggio, ma a causa della vetrata. Tanto che, se essa diverrà affatto tersa e pura, il raggio la trasformerà e rischiarerà a tal punto che sembrerà il raggio stesso e ne emanerà la stessa luce. Ma, in verità, anche quando sembra tutt’una con il raggio, la vetrata conserva la sua natura distinta da quella del raggio; ma possiamo dire che la vetrata è raggio o luce per partecipazione. E così l’anima è come questa vetrata, che sempre è investita, o per meglio dire, nella quale dimora sempre, per natura, come abbiamo detto, questa luce divina dell’essere di Dio. 7. Quando l’anima si dispone — cioè caccia da sé ogni offuscamento e macchia di creatura, il che consiste nel tenere la volontà perfettamente unita con quella di Dio, poiché amare è operare nello spogliarsi e denudarsi per Dio di tutto ciò che non è Dio —, subito diviene rischiarata e trasformata in Dio e Dio le comunica il suo essere naturale, in modo che sembra Dio stesso, ed ha ciò che Dio stesso ha. E tale unione avviene quando Dio fa all’anima questo dono soprannaturale, cosicché tutte le cose di Dio e l’anima sono uno, in trasformazione partecipante. E l’anima sembra più Dio che anima, è Dio per partecipazione; e, sebbene sia trasformata, conserva come prima il proprio essere naturalmente distinto, come anche la vetrata lo conserva distinto da quello del raggio, quando ne è rischiarata. 8. Risulta ora più chiaro che la disposizione per questa unione, come abbiamo detto, non è l’intendere né il gustare né il sentire né l’immaginare Dio, né qualsiasi altra cosa da parte dell’anima, ma la purezza e l’amore, cioè la nudità e la rinunzia perfetta a tutto questo solo per Dio; e che non si può dare perfetta trasformazione se non c’è perfetta 154

purezza; e che il rischiaramento e l’illuminazione e l’unione dell’anima con Dio sarà maggiore o minore secondo la proporzione della purezza; e dunque, come dico, non sarà perfetta se l’anima non è perfetta e tersa e limpida. 9. E ciò si capirà meglio con questo paragone. Pensiamo un’immagine perfettissima per grande ed eccellente maestria e molti e fini e delicati smalti, alcuni dei quali tanto eccellenti e sottili che non si possono perfettamente distinguere tale è la loro delicatezza e squisitezza. Colui che abbia vista meno limpida e pura in quest’immagine riuscirà a vedere minori eccellenze e delicatezze; e chi l’abbia un po’ più pura riuscirà a vedervi un po’ più eccellenze e perfezioni; e se altri l’avesse ancora più pura, vedrà ancora più perfezioni; e infine chi abbia la più tersa e limpida potenza visiva vedrà maggiori maestrie e perfezioni. Poiché nell’immagine c’è tanto da vedere che, per quanto si vada a fondo, molto più ne resta da cogliere. 10. Possiamo dire che nello stesso modo si comportano le anime con Dio in questa illuminazione e trasformazione. Poiché, se è vero che un’anima, secondo la sua poca e molta capacità, può giungere all’unione, non tutte però lo possono in eguale grado, poiché questo è quale il Signore vuole dare a ciascuna. Nello stesso modo vedono Dio in cielo, le une più e le altre meno; però tutte lo vedono e sono felici perché la loro capacità è soddisfatta. 11. Ne consegue che sebbene in questa vita troviamo anime in stato di perfezione, in eguale pace e quiete, ciascuna soddisfatta, peraltro potendo l’una esser molti gradi più elevata rispetto ad un’altra, tuttavia sono soddisfatte egualmente, in quanto è soddisfatta la loro capacità. Ma quella che non giunge alla purezza che compete alla sua capacità non perverrà mai alla vera pace e soddisfazione, poiché non ha raggiunto la nudità ed il vuoto nelle sue potenze come è richiesto per la semplice unione. 155

CAPITOLO 6 Si spiega come le tre virtù teologali siano quelle che debbono portare a perfezione le tre potenze dell’anima e come in esse queste virtù facciano vuoto e tenebre. 1. Dovendo poi trattare del modo d’introdurre le tre potenze dell’anima, intelletto, memoria e volontà, in questa notte spirituale, che è il mezzo per la divina unione, è anzitutto necessario far comprendere in questo capitolo come le tre virtù teologali, fede, speranza e carità — le quali sono gli oggetti propri soprannaturali rispetto a queste tre potenze e sono i mezzi mediante i quali l’anima si unisce a Dio secondo le sue potenze —, facciano lo stesso vuoto e oscurità, ciascuna nella sua potenza: la fede nell’intelletto, la speranza nella memoria e la carità nella volontà. Tratteremo quindi del modo in cui l’intelletto deve perfezionarsi nella tenebra della fede, e la memoria nel vuoto della speranza, e anche come la volontà debba farsi intera nella privazione e spogliazione da ogni affetto per andare a Dio. Quando l’avremo fatto, sarà chiaro quanto sia necessario per l’anima, affinché proceda sicura in questo cammino spirituale, attraversare questa notte oscura, appoggiandosi a queste tre virtù, che la vuotano di tutte le cose e la oscurano nei loro confronti. Poiché, come abbiamo detto, l’anima in questa vita non si unisce a Dio mediante il capire, né il godere, né l’immaginare, né mediante qualsiasi altro senso, ma solo mediante la fede secondo l’intelletto, e la speranza secondo la memoria, e l’amore secondo la volontà. 2. E tutte e tre le virtù, come abbiamo detto, operano il vuoto nelle potenze: la fede fa nell’intelletto vuoto e oscurità nel capire; la speranza fa nella memoria il vuoto d’ogni possesso; e la carità il vuoto nella volontà e la nudità d’ogni affetto e godimento di tutto ciò che non è Dio. Abbiamo infatti già visto che la fede ci dice ciò che non si 156

può comprendere coll’intelletto. Onde San Paolo così dice di essa ad Hebraeos: Fides est sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium (11, 1); che per quanto ci riguarda vuol dire che «la fede è sostanza delle cose che si sperano». E quantunque l’intelletto vi consenta con fermezza e certezza, tuttavia non sono cose che si manifestino all’intelletto, poiché, se gli si manifestassero, non sarebbe fede; la quale, se rende certo l’intelletto, non lo fa chiaro, bensì oscuro. 3. E quanto alla speranza, non c’è dubbio che anch’essa pone la memoria nel vuoto e nelle tenebre circa le cose di quaggiù e circa quelle dell’aldilà. Infatti la speranza è sempre di ciò che non si possiede, poiché, se lo si possedesse, non sarebbe più speranza. Perciò San Paolo dice ad Romanos: Spes, quae videtur, non est spes: nam quod videt quis, quid sperat? Cioè: «La speranza di ciò che si vede non è speranza; poiché ciò che uno vede, ossia che uno possiede, come può sperarlo?» (8, 24). Dunque anche questa virtù produce il vuoto, poiché riguarda ciò che non si ha e non ciò che si ha.

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Immagine del monte Carmelo in controfrontespizio alla Subida del Monte Carmelo.

4. La carità, ugualmente, fa nella volontà il vuoto di tutte le cose, poiché ci obbliga ad amare Dio sopra tutte le cose, il che non può essere se non allontanandone l’affetto da tutte per porlo intero in Dio. Onde Cristo ci dice in San Luca: Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus; che vuol dire: «Chi non rinuncia a tutte le cose 158

che possiede, con la volontà, non può essere mio discepolo» (14, 33). E così tutte e tre queste virtù pongono l’anima nell’oscurità e nel vuoto di tutte le cose. 5. E qui dobbiamo ricordare quella parabola che il nostro Rendentore narrò in San Luca al capitolo undicesimo (v. 5), là dove disse che un amico doveva andare a mezzanotte da un amico a chiedergli tre pani; e questi tre pani significano queste tre virtù. E disse che glieli chiese a mezzanotte, per far capire che l’anima deve acquistare queste tre virtù allo scuro di tutte le cose quanto alle sue potenze e in tale notte deve perfezionarvisi. Nel capitolo sesto di Isaia (v. 2) leggiamo che i due serafini che questo profeta vide ai lati di Dio avevano ciascuno sei ali; e con due si coprivano i piedi, che significa l’accecamento e lo spegnimento degli affetti della volontà verso tutte le cose per amore di Dio; e con le altre due si coprivano il volto, che significa la tenebra dell’intelletto davanti a Dio, e infine con le altre due volavano, alludendo al volo della speranza verso le cose che non si possiedono, elevata al di sopra di tutto ciò si può possedere quaggiù e nell’aldilà alPinfuori di Dio. 6. In queste tre virtù dovremo poi introdurre le tre potenze dell’anima, in modo che ciascuna sia informata dalla virtù corrispondente, spogliandola e ponendola allo scuro di tutto ciò che non sono questre tre virtù. E questa è la notte spirituale che abbiamo chiamato attiva, poiché l’anima fa quanto le è possibile per entrarvi. E come per la notte sensitiva ho indicato il modo di vuotare le potenze sensitive dei loro oggetti sensibili secondo l’appetito, affinché l’anima passi dal suo termine iniziale al mezzo che è la fede, per questa notte spirituale indicheremo, con il favore di Dio, come le potenze spirituali si vuotino e purifichino da tutto ciò che non è Dio e rimangano nell’oscurità di queste tre virtù che, come abbiamo detto, sono il mezzo e la disposizione per l’unione dell’anima con Dio.

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7. In tal modo si trova completa sicurezza contro le astuzie del demonio e contro l’efficacia dell’amor proprio e delle sue diramazioni, ossia contro ciò che spesso inganna ed impedisce sottilissimamente il cammino degli spirituali, allorché non sanno spogliarsi, governandosi secondo queste tre virtù; perciò non giungono mai alla sostanza e purezza del bene spirituale, né vanno per una via tanto diritta e breve come potrebbero. 8. Facciamo notare che ora stiamo parlando specialmente per coloro che hanno incominciato ad entrare nello stato di contemplazione, in quanto con i principianti se ne deve trattare più ampiamente, come noteremo nel Libro Secondo8, allorché, con l’aiuto di Dio, tratteremo delle loro caratteristiche. CAPITOLO 7 Si tratta di quanto angusto sia il sentiero che guida alla vita eterna e quanto spogli e sciolti conviene che siano coloro che vogliono percorrerla. Si comincia a parlare della nudità dell’intelletto. 1. Per poter trattare della nudità e purezza delle tre potenze dell’anima sarebbe stato necessario altro e ben superiore sapere e spirito del mio, per poter far ben comprendere agli spirituali quanto angusto sia questo cammino, come disse il nostro Salvatore, che conduce alla vita; affinché, persuasi di ciò, non si meraviglino del vuoto e della nudità in cui dobbiamo lasciare le potenze dell’anima in questa notte. 2. Perciò si debbono considerare con attenzione le parole che in San Matteo, nel capitolo 7 (v. 14), nostro Signore disse di questo cammino in questi termini: Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam; che significa: «Quanto angusta è la porta e 160

stretto il cammino che conduce alla vita e quanto pochi sono coloro che lo trovano!». E in questo testo bisogna ben considerare la vivissima accentuazione contenuta in quella particella quam. Poiché sta a significare: davvero è molto angusta, più di quanto non pensiate. E bisogna anche osservare che prima dice che è angusta la porta, per significare che l’anima, per entrare per questa porta di Cristo, che è il principio del cammino, prima deve restringere e denudare la volontà in tutte le cose sensuali e temporali, amando Dio al di sopra di tutto questo; e ciò appartiene alla notte del senso, di cui abbiamo detto. 3. E poi dice che è stretto il cammino, intendendo della perfezione; per far comprendere che per camminare lungo il cammino di perfezione non solo deve entrare per la porta angusta, vuotandosi del sensibile, ma deve anche restringersi espropriandosi e sbarazzandosi completamente di ciò che è spirituale. Così, quanto dice della porta angusta possiamo riferirlo alla parte sensibile dell’uomo, e quanto dice del cammino stretto possiamo intenderlo per la parte spirituale o razionale; e in rapporto al fatto che dice che son pochi coloro che lo trovano si deve osservare la causa, ossia perché sono pochi coloro che sanno o vogliono entrare in questa somma nudità e vuoto dello spirito. Infatti questo sentiero dell’alto Monte di perfezione in quanto sale in alto ed è angusto, esige viandanti che non portino pesi che li aggravino quanto alla parte inferiore, né li ostacolino quanto alla parte superiore; poiché è un impegno nel quale si cerca e guadagna solo Dio e solo Dio si deve cercare e guadagnare. 4. Ne risulta chiaro che l’anima deve andar sciolta non solo da tutto ciò che è dalla parte delle creature, ma deve procedere espropriata e annichilita anche di tutto ciò che è dalla parte del suo spirito. Perciò nostro Signore, istruendoci e inducendoci a questo cammino, espose in San Marco, al capitolo 8 (vv. 34-35), quella mirabile dottrina, forse tanto meno esercitata dagli spirituali quanto più è loro necessaria; 161

ed essa viene talmente a nostro proposito che la riporterò qui per intero e la spiegherò secondo il suo senso genuino e spirituale. Dice dunque così: Siquis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucern suam, et sequatur me. Qui enim voluerit animam suam salvam faceré, perdét earn: qui autem perdiderit animam suam propter me… salvam faciet earn; che significa: «Se qualcuno vuole seguire il mio cammino, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Poiché colui che vuole salvare la sua anima la perderò; ma colui che per me la perderà, la guadagnerà». 5. O se mai si potesse far intendere e sperimentare e gustare che cosa sia questo consiglio che qui ci dà il nostro Salvatore di rinnegare noi stessi, affinché gli spirituali vedessero quanto il modo che debbono condurre in questo cammino sia differente da quello che molti di loro pensano! Alcuni di costoro ritengono che basti qualsiasi forma di ritiro o di riforma delle cose; altri in qualche modo s’accontentano di esercitarsi nelle virtù e di continuare nella preghiera e di dedicarsi alla mortificazione, ma non giungono alla nudità e povertà o alienazione o purezza spirituale – che è tutt’uno – che qui nostro Signore ci consiglia; infatti, procedono invece nutrendo e rivestendo la propria natura di consolazioni e sentimenti spirituali piuttosto che spogliarla e negarla in tutto questo per Dio. Credono infatti che basti negarla in ciò che è del mondo e che non sia necessario annichilirla e purificarla anche nella proprietà spirituale. Ne consegue che quando si offra loro qualcosa di solido e perfetto, come questo annichilimento di ogni soavità divina, in aridità, disgusto, travaglio, ossia la pura croce spirituale e la nudità dello spirito povero di Cristo, ne rifuggono come dalla morte e vanno cercando in Dio solo dolcezze e saporose comunicazioni. Ma questa non è negazione di sé, né nudità di spirito, ma golosità di spirito. E in ciò si fanno spiritualmente nemici della croce di Cristo (Fil. 3, 18), poiché il vero spirito cerca in Dio prima lo sgradevole che il saporoso e propende più al soffrire che alle consolazioni, e 162

più a mancare di ogni bene per Dio che a possederlo, e più alle aridità e afflizioni che alle dolci comunicazioni, sapendo che questo è seguire Cristo e rinnegare se stessi e il resto è forse cercare se stessi in Dio, il che è affatto contrario all’amore. Infatti cercarsi in Dio è cercare i doni e le ricreazioni di Dio, mentre cercare Dio per se stesso è non soltanto mancare di tutto questo per Dio, ma è propendere a scegliere per Cristo tutto ciò che è più sgradevole, sia da parte di Dio che da parte del mondo; e questo è amore di Dio. 6. O se mai si potesse far comprendere fino a quale punto il Signore chiede che arrivi questa negazione! La quale, nell’estimazione della volontà, in cui si compie ogni negazione, deve certo essere come una completa morte e annichilimento temporale, naturale e spirituale. È ciò che volle intendere il nostro Salvatore quando disse: «Colui che vuole salvare la sua anima la perderà» (Gv. 12, 25); cioè: Chi vorrà possedere o cercare qualcosa per sé la perderà; e colui che perderà la sua anima per me la guadagnerà (Mt. 10, 39); ossia: Colui che per Cristo rinuncerà a tutto ciò che può appetire e gustare, scegliendo ciò che è più simile alla croce, ciò che il Signore stesso in San Giovanni chiama odiare la propria anima (Gv. 12, 25), costui la guadagnerà. Questo stesso insegnamento la Maestà divina diede a quei due discepoli che andavano chiedendogli di sedere alla sua destra e alla sua sinistra: non diede loro alcuna risposta a tale richiesta di una gloria tanto grande, ma offrì il calice che egli doveva bere, come cosa più preziosa e sicura in questa terra che il godere (Mt. 20, 12). 7. E questo calice è il morire alla propria natura, spogliandola e annichilendola, affinché possa camminare per questo angusto sentiero in tutto ciò che può appartenerle secondo il senso, come abbiamo detto, e secondo l’anima, come ora diremo, cioè nel suo capire e godere e sentire. In 163

modo che essa resti espropriata di tutto ciò, e specialmente in quanto riguarda lo spirito non resti impacciata per il cammino stretto, nel quale non c’è posto che per la negazione, come il Salvatore fa capire, e per la croce, che è il bastone per arrivare alla meta e con il quale grandemente ci si alleggerisce e facilita. Perciò nostro Signore dice in San Matteo: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero» (II, 30), ed esso è la croce. Se infatti l’uomo si determina ad assoggettarsi a portare questa croce, che è determinarsi davvero a cercare e sopportare travagli in tutte le cose per Dio, in tutte queste troverà grande sollievo e soavità nel percorrere così questo cammino, nudo di tutto, senza desiderare niente. Se però pretende di avere qualcosa con spirito di proprietà, sia di Dio sia di altra cosa, egli non andrà nudo, né negato in tutto, e così né potrà entrare, né salire per questo angusto sentiero fino alla cima. 8. Vorrei dunque persuadere gli spirituali che questo cammino di Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, né delle pratiche, né dei gusti, sebbene tutto ciò sia a suo modo necessario ai principianti; ma in una sola cosa necessaria, cioè nel sapersi davvero negare, secondo l’esterno e l’interno, dandosi al patire per Cristo, e annichilendosi in tutto; poiché, esercitandosi in questo, vi si opera tutto il resto e ben più. E se si manca in questo esercizio, che è la totalità e la radice delle virtù, tutti gli altri modi sono un divagare senza profìtto, anche se si abbiano altissime meditazioni e comunicazioni angeliche. Infatti non si ha progresso se non imitando Cristo, che è la via e la verità e la vita, e nessuno giunge al Padre se non per lui, come dice lo stesso San Giovanni (14, 6). E in altra parte dice: «Io sono la porta: chi entra per me si salverà» (10, 9). Perciò non giudico buono nessuno spirito che voglia procedere per dolcezze e facilità e rifugga dall’imitare Cristo. 9. E poiché ho detto che Cristo è la via e che questa consiste nel morire alla nostra natura, sensibile e spirituale, 164

voglio far comprendere come questo sia a esempio di Cristo, poiché è lui il nostro esempio e la nostra luce. 10. Quanto alla natura sensibile, è certo che egli morì al sensibile, spiritualmente nella sua vita e naturalmente nella sua morte. Poiché, com’egli disse, nella sua vita non trovò dove posare il capo (Mt. 8, 20) e tanto meno in morte. 11. Quanto alla natura spirituale, è certo che in punto di morte restò annichilito anche nell’anima, senza alcuna consolazione e sollievo, lasciandolo il Padre in intima aridità, anche secondo la parte inferiore; tanto da essere costretto a gridare: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. 27, 46); e questo sensibilmente fu il più grande abbandono che ebbe nella sua vita. Così si compì in lui l’opera più grande di tutta la sua vita di miracoli e prodigi, in cielo e in terra: per grazia riconciliare e unire a Dio il genere umano. E ciò, come dico, avvenne nel preciso momento in cui il Signore fu più annichilito in tutto; cioè quanto alla reputazione degli uomini, poiché, vedendolo morire, anziché averne qualche stima, lo beffavano; e quanto alla natura, annichilendola con la morte; e quanto all’aiuto e consolazione spirituale del Padre, poiché in quel momento lo abbandonò, affinché totalmente pagasse il debito e riunisse l’uomo a Dio, restando così annichilito e ridotto come al niente. Perciò David dice di lui: Ad nihilum redactus sum et nescivi (Sal. 72, 22); affinché chi davvero è spirituale comprenda il mistero della porta e della via di Cristo per unirsi con Dio, e sappia che quanto più si annichilerà per Dio, secondo queste due parti, sensibile e spirituale, tanto più si unirà a Dio, e tanto maggiore sarà la sua opera. E quando giungerà a rimanere ridotto a nulla, che sarà la somma umiltà, si compirà l’unione spirituale tra l’anima e Dio, che è il più grande ed alto stato cui si possa giungere in questa vita. Dunque la via non consiste in svaghi e gusti e sentimenti spirituali, ma in una viva morte di croce sensibile e spirituale, cioè interiore ed esteriore. 165

12. Non voglio diffondermi oltre in questo argomento, sebbene non finirei di parlare, poiché vedo che Cristo è assai poco conosciuto da coloro che si credono suoi amici. Vediamo infatti che vanno cercandolo nei propri gusti e consolazioni, amando molto se stessi, ma non invece, amandolo molto, nelle sue amarezze e morti. Parlo di coloro che si credono suoi amici; perché degli altri, che vivono là nel mondo, lontani e divisi da lui, grandi dotti e potenti, e di chiunque altro viva nella cura delle preoccupazioni e delle grandezze del mondo — e possiamo dire che non conoscono Cristo e che la loro fine, per quanto buona, sarà molto amara —, di costoro non facciamo menzione in queste pagine. Però si dovrà farla nel giorno del giudizio, in quanto soprattutto costoro erano tenuti ad annunziare la parola di Dio, essendo coloro che Dio scelse a tal fine, dando loro dottrina e più alto stato. 13. Ci rivolgeremo dunque all’intelletto dello spirituale, e particolarmente di colui al quale Dio ha fatto il dono di porlo nello stato di contemplazione, in quanto, come ho detto, andremo parlando in particolare con costoro, per dire come ci si debba volgere a Dio in fede e ci si debba purificare delle cose contrarie, restringendoci per entrare in questo sentiero angusto della oscura contemplazione. CAPITOLO 8 Mostra in generale come nessuna creatura e nessuna notizia che possa cadere nell’intelletto, possa servire all’anima come mezzo prossimo per la divina unione con Dio. 1. Prima che trattiamo del mezzo proprio e adatto per l’unione con Dio, cioè della fede, conviene che dimostriamo come nessuna cosa creata, né pensata, può servire all’intelletto come mezzo proprio per unirsi con Dio, e come tutto ciò che l’intelletto può cogliere gli serve piuttosto di impedimento che di mezzo, qualora vi s’attacchi. 166

In questo capitolo, dunque, dimostrerò questo in generale, e poi, scendendo al particolare, verremo parlando di tutte le notizie che l’intelletto può ricevere da parte di qualsiasi senso, esteriore e interiore, e degli inconvenienti e danni che può ricevere da tutte queste notizie interiori ed esteriori, se non vuol procedere fondandosi sul mezzo proprio che è la fede. 2. Occorre poi sapere che, secondo una regola della filosofia, tutti i mezzi debbono essere proporzionati al fine, cioè debbono avere una convenienza e somiglianza con il fine, tale da essere affatto sufficiente affinché per loro tramite si consegua il fine cui si tende. Porto un esempio: se uno vuol arrivare ad una città, deve necessariamente percorrere la strada che è il mezzo che a quella città l’unisce e conduce. Un altro esempio: se si deve appiccare il fuoco al legno, è necessario che il calore, che è il mezzo, anzitutto predisponga il legno a tanti gradi di calore, in modo che esso acquisti una grande somiglianza e proporzione con il fuoco; perciò, se si volesse predisporre il legno con un mezzo diverso da quello proprio, cioè il calore, ad esempio con aria o acqua o terra, sarebbe impossibile unire il legno col fuoco; e così pure sarebbe impossibile arrivare a quella città senza prendere la strada propria che vi conduce. Ne consegue che, affinché l’intelletto giunga ad unirsi a Dio, per quanto è possibile in questa vita, necessariamente deve usare quel mezzo che congiunge con lui e che ha con lui la somiglianza più grande. 3. A tale proposito, dobbiamo far notare che, fra tutte le creature, superiori e inferiori, non ce n’è nessuna che congiunga prossimamente con Dio, né che abbia somiglianza con il suo essere. Infatti, sebbene sia vero che tutte, come dicono i teologi, hanno una certa relazione con Dio e un’orma di Dio – quali più quali meno, secondo l’importanza più o meno grande del loro essere – tuttavia fra Dio e loro 167

non c’è nessuna relazione né somiglianza essenziale, anzi la distanza che c’è tra l’essere divino ed il loro essere è infinita e perciò è impossibile che l’intelletto possa giungere a Dio per mezzo delle creature, siano celesti o terrene, in quanto non c’è proporzione di somiglianza. Perciò David, parlando di quelle celesti, dice: «Fra gli dèi non ve n’è simile a te, Signore» (Sal. 85, 8); chiamando dèi gli angeli e le anime sante. E in altro luogo: «Dio, la tua via è nella santità; quale Dio è grande come il nostro?» (Sal. 76, 14); come per dire: il cammino per giungere a te, o Dio, è un cammino santo, cioè è purezza di fede. Infatti quale dio sarà tanto grande? Ossia: quale angelo, tanto elevato nel suo essere, o quale santo, tanto elevato nella sua gloria, saranno così grandi da essere via proporzionata e sufficiente per venire a te? E lo stesso David, parlando insieme delle cose terrene e celesti, dice: «Alto è il Signore, e guarda le cose basse, e le cose alte le conosce da lontano» (Sal. 137, 6); come per dire: essendo alto nel proprio essere, vede molto basso l’essere delle cose di quaggiù a paragone con il suo alto essere; e le cose alte, che sono le creature celesti, le vede e sa molto lontane dal suo essere. Tutte le creature non possono dunque servire all’intelletto come mezzo proporzionato per giungere a Dio. 4. Allo stesso modo, tutto ciò che l’immaginazione possa immaginare e l’intelletto recepire ed intendere in questa vita, non è, né può essere, mezzo prossimo per l’unione con Dio. Infatti, se parliamo del piano naturale, in quanto l’intelletto non può intendere alcunché che non sia contenuto sotto le forme e immagini delle cose che si ricevono tramite i sensi corporei — e abbiamo detto che queste cose non possono servire come mezzo —, non si può dunque trar profìtto dall’intelligenza naturale. Se poi parliamo del piano soprannaturale, l’intelletto, secondo quanto è possibile in questa vita, non ha, per sua potenza ordinaria, nel carcere del corpo, né disposizione né 168

capacità di ricevere nozione chiara di Dio, poiché tale nozione non è di questo stato, e dunque o deve morire o non la può ricevere. Perciò quando Mosè chiese a Dio questa nozione chiara, gli rispose che non poteva vederlo, dicendo: «Non mi vedrà uomo che possa restare vivo» (Es. 33, 20); e perciò dice San Giovanni: «Nessuno mai vide Dio né qualcosa che gli assomigli» (1, 4, 12; Gv. 1, 18). E San Paolo (1Cor. 2, 9) con Isaia (64, 4) dice: «Né occhio lo vide né orecchio lo udì né cadde in cuore di uomo». Questa è la ragione per la quale Mosè, come si dice negli Atti degli Apostoli (7, 32), non osò guardare nel roveto nel quale Dio era presente; sapeva infatti che il suo intelletto non poteva pensare Dio convenientemente e in modo conforme a ciò che di Dio sentiva. E del nostro padre Elia si dice che «sul monte si coprì la faccia alla presenza di Dio» (3 Re 19, 13), che significa accecare l’intelletto; e così egli fece non osando porre la sua mano tanto bassa in cosa tanto alta, vedendo chiaro che, qualsiasi cosa pensasse e comprendesse in modo determinato, sarebbe stata molto distante e dissimile da Dio. 5. Pertanto nessuna nozione né apprendimento soprannaturale può servire, in questo stato mortale, di mezzo prossimo per l’alta unione dell’anima con Dio. Infatti, tutto ciò che l’intelletto può intendere, e la volontà gustare, e l’immaginazione costruire, come abbiamo detto, è molto dissimile e non proporzionato a Dio. E tutto ciò lo fece mirabilmente intendere Isaia (40, 18-19) in quel testo tanto notevole che dice: «A che cosa avete potuto rassomigliare Dio? O quale immagine avete che gli assomigli? Potrà forse il fabbro farne qualche statua? O l’orefice potrà foggiarne una con l’oro, o l’argentiere con lamine d’argento?». Per fabbro qui si intende l’intelletto, che ha l’ufficio di formare le cognizioni e di spogliarle del ferro delle specie e delle fantasie. Per orafo intende la volontà, la quale ha la capacità di 169

ricevere la figura e la forma del diletto causato dall’oro dell’amore. Per argentiere, del quale dice che egli non potrà raffigurarlo con lamine d’argento, si intende la memoria insieme con l’immaginazione, in quanto si può ben dire propriamente che le sue nozioni, e le immagini che può fingere e costruire, sono come lamine d’argento. Perciò è come se dicesse: né l’intelletto con le sue cognizioni potrà intendere cosa simile a lui, né la volontà potrà gustare diletto e soavità che assomigli a quella di Dio, né la memoria potrà collocare nell’immaginazione nozioni e immagini che lo rappresentino. È chiaro dunque che nessuna di queste nozioni possono dirigere l’intelletto immediatamente a Dio, e che per giungere a lui si deve procedere piuttosto non intendendo che volendo intendere, e piuttosto accecandosi e ponendosi nelle tenebre che aprendo gli occhi per avvicinarsi di più al raggio divino. 6. Ed è perciò che la contemplazione mediante la quale l’intelletto ha la più alta nozione di Dio si chiama Teologia mistica, che significa segreta sapienza di Dio, in quanto è segreta per lo stesso intelletto che la riceve. E perciò San Dionigi la chiama raggio di tenebra9; della quale il profeta Baruc dice: «Non vi è chi ne conosca la via né chi possa pensarne i sentieri» (3, 23). È dunque chiaro che l’intelletto, per unirsi con Dio, deve accecarsi in tutti quei sentieri cui può giungere. Aristotele dice che come gli occhi del pipistrello si comportano col sole, che li ottenebra totalmente, così il nostro intelletto si comporta con ciò che in Dio e più luminoso, che per noi è totalmente tenebra. E dice anche che quanto più alte e più chiare sono in sé le cose di Dio, tanto più per noi sono ignote ed oscure10. Il che afferma anche l’Apostolo dicendo: «Ciò che di Dio è più alto è meno conosciuto dagli uomini» (1 Cor. 3, 19). 7. Di questo passo non finirei di portare testi ed 170

argomenti per dimostrare con evidenza come non vi sia scala, tra tutte le cose create e che possano cadere nell’intelletto, con la quale esso possa giungere alle altezze del Signore; anzi è necessario sapere che, se l’intelletto volesse trarre profitto da tutte queste cose, o da alcune di esse, come mezzo prossimo per tale unione, non solo gli sarebbero d’impedimento, ma anche occasione di troppi errori e inganni nella salita di questo Monte. CAPITOLO 9 Si tratta della fede come del mezzo prossimo e proporzionato all’intelletto affinché l’anima possa giungere alla divina unione d’amore. Lo si dimostra con testi e figure della divina Scrittura. 1. Da quanto s’è detto si conclude che l’intelletto, per essere disposto a questa divina unione, deve restare limpido e vuoto di tutto ciò che può cadere nel senso, e nudo e sgombro di tutto ciò che con chiarezza può cadere nell’intelletto, e intimamente quieto e silenzioso, posto nella fede, la quale soltanto è per l’anima il mezzo prossimo e proporzionato per unirsi con Dio. È tanta infatti la somiglianza tra essa e Dio, che non vi è se non la differenza tra Dio creduto e Dio veduto. Infatti, essendo Dio infinito, essa ce lo propone infinito; ed essendo Trino e Uno ce lo propone Trino e Uno; ed essendo Dio tenebra per il nostro intelletto, anch’essa acceca ed offusca il nostro intelletto. E così con questo solo mezzo Dio si manifesta all’anima nella sua divina luce che eccede ogni intelletto. E pertanto, quanta più fede ha l’anima, tanto più è unita a Dio. E questo è ciò che intendeva dire San Paolo nel testo sopra citato: «Colui che vuole unirsi con Dio deve credere» (Eb. 11, 6). Vada cioè nella fede camminando verso Dio, e ciò può avvenire se l’intelletto è cieco e allo scuro nella sola fede, poiché sotto questa tenebra l’intelletto si congiunge con Dio e sotto di essa Dio è nascosto, come disse David con queste 171

parole: «Pose l’oscurità sotto i suoi piedi. E salì al di sopra dei cherubini e volò sulle ali del vento. E scelse come nascondiglio le tenebre e l’acqua tenebrosa» (Sal. 17, 10-12). 2. Là dove disse che Dio pose l’oscurità sotto i suoi piedi e che scelse le tenebre per nascondiglio e che pose intorno a sé il tabernacolo nell’acqua tenebrosa, si allude all’oscurità della fede nella quale sta racchiuso. E, dicendo che salì al di sopra dei cherubini e volò sulle ali del vento, si vuol fare intendere come egli voli al di sopra di ogni intelletto. Infatti cherubini significa esseri intelligenti o contemplanti; e le ali del vento significano le sottili ed elevate nozioni e concetti degli spiriti, sopra tutti i quali è il suo essere, a cui nessuno può giungere con le proprie forze. 3. Ne leggiamo un’immagine nella sacra Scrittura, dove si dice che, avendo Salomone terminato di costruire il tempio, Dio scese nelle tenebre e riempì il tempio in modo tale che i figli d’Israele non potevano vedere nulla; allora Salomone parlò così dicendo: «Il Signore ha promesso che dimorerà nelle tenebre» (3 Re 8, 12). Anche a Mosè, sul monte, Dio apparve nella tenebra, nella quale stava nascosto. E tutte le volte che Dio si comunicava in modo particolare appariva nella tenebra, come si può vedere in Giobbe (38, 1 e 40, 1), dove la sacra Scrittura dice che Dio parlò con lui dall’aria tenebrosa. E tutte queste tenebre significano l’oscurità della fede nella quale è nascosta la Divinità mentre si comunica all’anima; e quest’oscurità finirà quando, come dice San Paolo, «finirà ciò che è in parte» (ICor. 13, 10), cioè questa tenebra della fede, e «verrà ciò che è perfetto», cioè la luce divina. Una bella immagine ne abbiamo anche nell’esercito di Gedeone, i cui soldati si dice avessero tutti in mano dei lumi, che non vedevano, perché li tenevano nascosti nelle tenebre di recipienti, tolti i quali subito apparve la luce (Giud. 7, 16). E così la fede, che è raffigurata da quei recipienti, contiene in sé la luce divina: quando finirà, spezzata dal frantumarsi e dalla fine di questa vita mortale, subito apparirà la gloria e la 172

luce della Divinità che conteneva in sé. 4. È dunque evidente che l’anima, per giungere in questa vita ad unirsi con Dio e a comunicare immediatamente con lui, è necessario che si unisca con la tenebra, nella quale, come disse Salomone, Dio aveva promesso di dimorare, e che si congiunga all’aria tenebrosa, nella quale piacque a Dio di rivelare i suoi segreti a Giobbe, e che prenda in mano allo scuro le urne di Gedeone, per tenere nelle proprie mani, cioè nelle opere della propria volontà, la luce, cioè l’unione di amore, sebbene allo scuro nella fede: affinché poi, rompendosi i vasi di questa vita, la quale soltanto impediva la luce della fede, nella gloria si veda Dio faccia a faccia. 5. Resta ora da spiegare in particolare la natura di tutte le intelligenze e le percezioni che l’intelletto può ricevere, nonché l’impedimento e il danno che l’anima può subire in questo cammino di fede, e come deve comportarsi nei loro confronti affinché le siano più di profitto che di danno, tanto quelle che le provengono dai sensi quanto quelle che le provengono dallo spirito. CAPITOLO 10 Si distinguono tutte le percezioni e le cognizioni che possono cadere nell’intelletto. 1. Per poter trattare in particolare del profìtto e del danno che le nozioni e le percezioni dell’intelletto possono portare all’anima nei confronti di questo mezzo della fede per la divina unione, di cui abbiamo detto, è necessario porre qui una distinzione fra tutte le percezioni che esso può ricevere, tanto naturali quanto soprannaturali, in modo che poi con maggiore ordine e chiarezza andiamo indirizzando l’intelletto attraverso di loro nella notte e oscurità della fede; e lo faremo con la maggiore brevità che ci è possibile.

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2. Bisogna dunque sapere che l’intelletto può ricevere nozioni per due vie, la prima naturale e l’altra soprannaturale. Quella naturale consiste in tutto ciò che l’intelletto può intendere, sia per via dei sensi corporei, sia per se stesso. Quella soprannaturale consiste in tutto ciò che viene dato all’intelletto al di sopra della sua capacità e abilità naturale. 3. Di queste nozioni soprannaturali alcune sono corporee, altre spirituali. Le corporee sono di due specie; le une si ricevono per via dei sensi corporei esterni; le altre per via dei sensi corporei interni, ed includono tutto ciò che l’immaginazione può comprendere, fingere e costruire. 4. Le spirituali sono anch’esse di due specie: quelle della prima sono distinte e particolari; della seconda ce n’è solo una confusa, oscura e generale. Quelle distinte e particolari includono quattro specie di percezioni particolari, che si comunicano allo spirito senza la mediazione di nessun senso corporeo, e sono: visioni, rivelazioni, locuzioni e sentimenti spirituali. L’intelligenza oscura e generale è in una sola, cioè la contemplazione che si dà nella fede. In questa dobbiamo porre l’anima, incamminandola verso essa mediante le altre, cominciando dalle prime e spogliandola di esse. CAPITOLO 11 Si tratta dell’impedimento e danno che si può avere nelle percezioni dell’intelletto per via di ciò che soprannaturalmente si rappresenta ai sensi corporei esterni e del modo in cui l’anima debba comportarsi. 1. Le prime nozioni di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente sono quelle che appartengono all’intelletto per via naturale. Non ne faremo qui parola, avendone trattato nel 174

Primo Libro dove, incamminando l’anima nella notte del senso, ne abbiamo dato dottrina adeguata per le anime. Pertanto nel presente capitolo dovremo trattare solo di quelle nozioni e percezioni che pervengono all’intelletto soprannaturalmente per via dei sensi corporei esterni, vista, udito, odorato, gusto e tatto. In rapporto a tutte queste possono e sogliono nascere negli spirituali rappresentazioni ed oggetti soprannaturali. Infatti nella vista sogliono rappresentarsi loro talune figure e personaggi dell’altra vita, santi e immagini di angeli, buoni o cattivi, e luci e splendori straordinari. E con l’udito sogliono udire parole straordinarie, ora pronunziate da queste figure che vedono, ora senza che vedano chi le pronuncia. Nell’olfatto talora avvertono sensibilmente profumi soavissimi, senza sapere donde vengano. Anche nel gusto accade di sentire un sapore molto soave, e nel tatto grande piacere, e talora tanto grande che sempra che tutte le midolla e le ossa godano e fioriscano e s’immergano nel piacere; e questo si suol chiamare unzione dello spirito, che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. E questo gusto sensibile è molto comune negli spirituali, in ciascuno dei quali si diffonde, più o meno a seconda del modo di ciascuno, dall’affetto e dalla devozione sensibile dello spirito. 2. E occorre sapere che, sebbene tutte queste cose possano accadere ai sensi corporei per opera di Dio, mai ci si deve tranquillizzare in esse, né si debbono ammettere, anzi si debbono totalmente fuggire, senza, voler esaminare se siano buone o cattive. Poiché, quanto più sono esteriori e corporee, tanto meno certamente provengono da Dio; infatti Dio più ordinariamente e propriamente si comunica allo spirito, nel quale c’è maggiore sicurezza e profitto per l’anima, anziché al senso, nel quale ordinariamente c’è molto pericolo ed inganno, in quanto il senso corporeo vi si fa giudice ed estimatore delle cose spirituali, pensando che 175

siano così come le sente, mentre sono tanto differenti quanto il corpo dall’anima e la sensualità dalla ragione; poiché il senso corporeo è ignorante delle cose spirituali quanto un giumento delle cose razionali, ed ancor più. 3. E così chi dà importanza a tali cose erra molto, e si pone in grande pericolo di essere ingannato, o almeno troverà in sé un totale impedimento a volgersi allo spirituale; in quanto, come abbiamo detto, tutte quelle cose corporee non hanno alcuna proporzione con quelle spirituali. E così si deve ritenere che tali cose provengono più sicuramente dal demonio che da Dio; perché il demonio ha più gioco in ciò che è più esteriore e corporeo e può ingannare più facilmente in quest’ambito che in quello di ciò che è più interiore e spirituale. 4. E questi oggetti e forme corporee, quanto più sono in sé esteriori, tanto meno giovano all’interiore e allo spirito, per la grande distanza e la poca proporzione che c’è tra il corporeo e lo spirituale. Infatti, sebbene se ne comunichi alcunché di spirituale, come sempre accade per quelle che sono da Dio, ciò è molto meno che se le stesse cose fossero più spirituali e interiori. E così, molto facilmente e provocantemente, creano nell’anima errori e presunzione e vanità; poiché, essendo tanto palpabili e materiali, muovono molto il senso e, quanto più sensibili, tanto più importanti appaiono al giudizio dell’anima, che va loro dietro, abbandonando la fede, pensando che la loro luce sia la guida ed il mezzo per raggiungere ciò cui tende, cioè l’unione con Dio; e tanto più l’anima perde la via e il mezzo della fede, quanto più tiene in conto tali cose. 5. Inoltre l’anima, appena vede che le accadono tali cose, spesso sente nascere dentro di sé segretamente una certa opinione di sé, che la porta a credersi qualcosa di fronte a Dio, e ciò è contro l’umiltà. 176

E il demonio riesce a far sorgere nell’anima anche una soddisfazione di sé, occulta e talora anche troppo manifesta. Infatti molto spesso egli pone nei sensi questi oggetti, mostrando alla vista figure di santi e meravigliosi splendori, e all’udito parole assai occulte, e profumi soavissimi e in bocca dolcezze, e nel tatto delizie, così allettando per indurre a molti mali. Pertanto si debbono sempre respingere queste rappresentazioni e questi sentimenti, poiché, se si dia il caso che talora provengano da Dio, non per ciò gli si reca offesa, né si omette di ricevere l’effetto ed il frutto che Dio voglia dare all’anima per loro tramite, per il solo fatto che l’anima respinga e non desideri tutto questo. 6. La ragione di ciò è che la visione corporea, o il sentimento proprio di ciascun senso, come qualsiasi altra comunicazione delle più interiori, se è da Dio, nell’atto stesso in cui appare o si sente, produce il suo effetto sullo spirito, senza dar modo all’anima d’aver tempo di decidere se volerla o no. Infatti, come Dio dà tutto ciò soprannaturalmente, senza nessuna adeguata cura e capacità da parte delle anime, così vi produce l’effetto che egli vuole produrre mediante tutto questo, che accade e si compie nello spirito passivamente. Così, che tali cose si compiano o meno, non dipende dal volerle o dal non volerle; come a qualcuno a cui, essendo nudo, si gettasse del fuoco, poco gioverebbe che non volesse bruciarsi, perché il fuoco deve di necessità produrre il suo effetto. E così è delle visioni e delle rappresentazioni buone: se anche l’anima non le desideri, producono il loro effetto, anzitutto e principalmente in essa, anziché nel corpo. E quelle che provengono dal demonio, senza che l’anima le desideri, vi provocano scompiglio o aridità, o vanità o presunzione nello spirito. Perché non hanno tanta efficacia nell’anima quanto quelle divine l’hanno nel bene, poiché quelle che provengono dal demonio possono solo generare nella volontà moti primi, ma non muoverla oltre, se essa non 177

lo voglia, e possono generarvi inquietudini, ma di breve durata, se il poco coraggio e la poca prudenza dell’anima non la prolunghino. Ma quelle che provengono da Dio penetrano nell’anima, e muovono la volontà ad amare, e provocano il loro affetto, cui l’anima non può resistere, anche se la voglia, più di quanto non accada per una vetrata quando il raggio del sole la colpisca. 7. Pertanto l’anima non s’azzardi mai a volerle ammettere, anche quando, come dico, siano da parte di Dio, perché, se le ammette, incorre in sei inconvenienti. Il primo è che le va diminuendo la fede, perché distruggono la fede le cose che si sperimentano con i sensi, in quanto, come abbiamo detto, la fede è al di sopra di ogni senso. E così ci si allontana dal mezzo dell’unione con Dio, non chiudendo gli occhi dell’anima a tutte queste cose sensibili. Il secondo è che sono d’impedimento allo spirito, se non si negano, poiché l’anima indugia in esse, e lo spirito non vola all’invisibile. E questa è una delle ragioni per cui il Signore disse ai suoi discepoli che doveva andarsene affinché venisse lo Spirito Santo (Gv. 16, 7). Così come non permise a Maria Maddalena di toccargli i piedi dopo la resurrezione, affinché si fondasse nella fede (Gv. 20, 17). Il terzo è che l’anima va nutrendo uno spirito di proprietà verso tali cose e non s’incammina alla vera rassegnazione e nudità di spirito. Il quarto è che va perdendo il loro effetto e lo spirito che provocano nell’intimo, in quanto l’anima pone gli occhi su quanto hanno di sensuale, ossia su ciò che è meno importante. E così non riceve tanto abbondantemente lo spirito che producono, che molto più si imprime e conserva negando tutto ciò che è sensibile, che è molto diverso dal puro spirito. Il quinto è che va perdendo i doni di Dio, perché li riceve con spirito di possesso e non ne trae buon profitto. E riceverli 178

con spirito di possesso e non trarne profitto è desiderare riceverli; poiché Dio non glieli dà perché l’anima desideri riceverli, e dunque mai deve risolversi a credere che provengono da Dio. Il sesto è che, nel voler ammettere tali cose, apre la porta al demonio, in modo che la inganni con altre simili, che sa ben dissimulare e mascherare, tanto da farle sembrare buone; infatti, come dice l’Apostolo, egli può trasfigurarsi in angelo di luce (2 Cor. 11, 14). E di ciò, col favore di Dio, tratteremo più avanti, nel Terzo libro, nel capitolo sulla gola spirituale. 8. Pertanto conviene sempre che l’anima le rigetti a occhi chiusi, da qualunque parte provengano; poiché, se non lo facesse, darebbe al demonio tanto spazio e tante occasioni che, oltre alla une, riceverebbe anche le altre, ma in questo modo andrebbero moltiplicandosi quelle del demonio e cessando quelle di Dio, e tutto verrebbe a trovarsi nelle mani del demonio e niente in quelle di Dio; come è accaduto a molte anime imprudenti e poco sagge, che a tal punto si credettero sicure nel ricevere tali cose, che molte di esse dovettero assai faticare per tornare a Dio in purezza di fede, e molte non poterono tornarvi, perché il demonio vi aveva ormai gettato molte radici. Perciò è bene chiudersi ad esse, e negarle tutte, poiché nelle cattive si tolgono gli errori del demonio, e nelle buone l’impedimento alla fede, e lo spirito ne raccoglie il frutto. E come Dio le toglie, quando le si accetti, perché vi si nutre spirito di proprietà, e non se ne ricava ordinatamente profìtto, e il demonio va insinuando ed aumentando le sue, perché ve ne trova spazio e motivo; così, quando l’anima sta umile e contraria ad esse, il demonio cessa di operare ciò che s’accorge che non produce danno, e Dio invece va moltiplicando e accrescendo i suoi doni in quell’anima umile e senza spirito di proprietà, «facendola padrona di molto», come il servo che «fu fedele nel poco» (Mt. 25, 21).

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9. Tuttavia, se l’anima resterà fedele e distaccata ricevendo questi doni, il Signore non si fermerà, finché essa salga di grado in grado fino alla divina unione e trasformazione. Infatti nostro Signore prova ed eleva l’anima in modo tale che prima le dà cose molto esteriori e basse secondo il senso, conformemente alla sua poca capacità, affinché, comportandosi essa come deve e prendendo quei primi bocconi per acquisire forza e sostanza, possa elevarla a cibo più abbondante e migliore. In modo che se nel primo grado vincerà il demonio, passerà al secondo; e se anche nel secondo, passerà al terzo; e così via per tutte le sette mansioni11, che sono i sette gradi d’amore, fino a che lo Sposo l’introdurrà nella cella vinaria (Cant. 2, 4) della sua perfetta carità. 10. Felice l’anima che saprà lottare contro quella bestia dell’Apocalisse (12, 3) che ha sette teste, contrarie a questi sette gradi d’amore, con le quali fa guerra contro ciascuno di questi, e lotta con l’anima in ciascuna di queste mansioni, nelle quali ella sta esercitando e guadagnando tutti i gradi dell’amore di Dio. E senza dubbio, se ella in ciascuna combatterà fedelmente e vincerà, meriterà di passare di grado in grado e di mansione in mansione fino all’ultima, dopo aver mozzato alla bestia le sue sette teste, con le quali essa le faceva una guerra furiosa – tanto che San Giovanni dice che le fu dato di lottare contro i santi e di poterli vincere (Ap. 13, 7) – in ciascuno di questi gradi di amore, adoperando contro ciascuno armi e munizioni adeguate. Perciò addolora assai che molti, entrando in questa battaglia spirituale contro la bestia, non arrivino a tagliarne nemmeno la prima testa, negando le cose sensuali del mondo. Ed altri, dopo essersi persuasi a tagliarla, non tronchino poi la seconda, cioè le visioni del senso di cui andiamo parlando. Ma ciò che più addolora è che alcuni, avendo troncato non solo la seconda e la prima, ma anche la terza — che riguarda le percezioni di sensi interiori, passando attraverso lo stato di mediazione e procedendo 180

oltre —, nel momento di entrare nella purezza dello spirito, si lasciano vincere da questa bestia spirituale, che torna a levarsi contro di loro ed a resuscitare persino la prima testa, e, prendendo con sé altri sette spiriti peggiori del primo (Le. 11, 26), li fa ricadere, in modo che il loro stato successivo sia peggiore del primitivo. 11. Lo spirituale deve poi negare tutte le percezioni e tutti i diletti temporali che cadono nei sensi esterni, se di tale bestia vuole troncare la prima e la seconda testa, entrando nella prima stanza dell’amore e nella seconda della viva fede, senza voler legarsi né intralciarsi con ciò che si presenta ai suoi sensi, poiché ciò è quanto maggiormente distrugge la fede. 12. È dunque chiaro che queste visioni e percezioni sensibili non possono essere mezzo per l’unione, non avendo nessuna proporzione con Dio. E questa è una delle ragioni per cui Cristo non volle che la Maddalena (Gv. 20, 17) e San Tommaso (Gv. 20, 29) lo toccassero. Perciò il demonio è molto soddisfatto quando un’anima desidera ricevere rivelazioni e la vede inclinata ad esse, perché così ha maggiori occasioni e maggior destro per insinuare errori e per distruggere quanto può la fede; infatti, come ho detto, nei confronti della fede, l’anima che le desidera ha grande rozzezza e talvolta anche tentazioni ed insolenza. 13. Mi sono un po’ dilungato intorno a queste percezioni interiori per meglio illuminare le altre di cui ora dobbiamo trattare. Ma su questa parte avrei tanto da dire che non finirei, e capisco d’aver abbreviato anche troppo; ma, avendo detto soltanto che l’anima deve aver cura di non ammetterle mai, se non in alcuni casi, e solo sulla scorta di un rarissimo consiglio, mi pare d’aver detto abbastanza per questa parte. CAPITOLO 12 181

Si tratta delle percezioni immaginarie naturali. Si dice che cosa siano e si dimostra come non possano essere mezzo proporzionato per giungere all’unione con Dio e si parla del danno che provoca il non sapersene distaccare. 1. Prima di trattare delle visioni immaginarie che sogliono presentarsi soprannaturalmente al senso interno, cioè nell’immaginativa e nella fantasia, per procedere con ordine conviene ora trattare delle percezioni naturali di questo stesso senso interiore corporeo, per poter procedere dal meno al più e dal più esterno al più interno, fino a giungere all’ultimo raccoglimento, nel quale l’anima si unisce con Dio. E fin qui abbiamo seguito questo stesso ordine; poiché prima abbiamo trattato dello spogliare i sensi esterni dalle percezioni naturali degli oggetti — e di conseguenza dalle forze naturali degli appetiti, il che abbiamo fatto nel Primo libro, dove abbiamo parlato della notte del senso — e poi, per incamminare l’anima nella notte dello spirito, abbiamo cominciato a spogliare questi stessi sensi delle percezioni esterne soprannaturali che cadono nei sensi esterni, terminando nel capitolo precedente. 2. Ciò che anzitutto occorre ora trattare in questo Secondo Libro è il senso corporeo interno, cioè l’immaginativa e la fantasia, che infatti dovremo vuotare di tutte le forme e percezioni immaginarie che naturalmente possono cadervi, e dovremo dimostrare come sia impossibile che l’anima giunga all’unione con Dio finché non cessa di operare con esse, non potendo essere mezzo proprio e prossimo di tale unione. 3. Inoltre occorre sapere che i sensi dei quali parliamo qui in particolare sono i due sensi corporei interni che si chiamano immaginativa e fantasia; i quali ordinatamente si servono l’uno dell’altro; perché l’uno discorre immaginando e l’altro forma l’immaginazione o ciò che viene immaginato fantasticando; e per il nostro intento è la stessa cosa trattare 182

dell’uno o dell’altro. Perciò, quando non li nomineremo entrambi, si intenda secondo quanto qui se ne è detto. Tutto ciò che questi sensi possono ricevere e costruire si chiamano dunque immaginazioni e fantasie, ossia forme che si rappresentano ai sensi con immagine e figura di corpo. E queste possono essere di due specie: le une soprannaturali, che senza l’opera dei sensi si possono rappresentare e vi si rappresentano passivamente; e queste le chiamiamo visioni immaginarie per via soprannaturale e ne dovremo parlare in seguito. Le altre sono naturali, e sono quelle che i sensi interni possono costruire con la propria opera e capacità, agendo attivamente, sotto l’aspetto di forme, figure e immagini. E così a queste due potenze appartiene la meditazione, che è atto discorsivo per mezzo di immagini, forme e figure, costruite e immaginate da tali sensi; come è nel caso dell’immaginare Cristo crocifìsso, o alla colonna, o in altro stato, oppure Dio in trono con grande maestà; o del considerare e immaginare la gloria come una bellissima luce, ecc., e, similmente, qualsiasi altra cosa, o divina o umana, che possa cadere nell’immaginativa. Per giungere alla divina unione l’anima deve vuotarsi di tutte queste immaginazioni, restando allo scuro secondo questo senso, in quanto esse non possono affatto avere alcuna proporzione di mezzo prossimo con Dio, come quelle corporee che servono di oggetto ai cinque sensi esterni. 4. La ragione di ciò consiste nel fatto che l’immaginazione non può costruire né immaginare alcuna cosa al di fuori di quelle che ha sperimentato con i sensi esterni, ossia che ha visto con gli occhi, udito con gli orecchi, ecc.; o al massimo può comporre cose simili a queste cose viste o udite o sentite, che non s’elevino a maggiore entità, né ad eguale, di quella che ha ricevuto da tali sensi. Infatti, sebbene essa immagini palazzi di perle e montagne d’oro, in quanto ha visto e oro e perle, in verità tutto ciò è inferiore alla sostanza di un po’ d’oro o di una perla, quantunque 183

nell’immaginazione sia superiore in quantità e in composizione. E in quanto tutte le cose create, come già s’è detto, non possono avere nessuna proporzione con l’essere di Dio, ne consegue che tutto ciò che si potrà immaginare a loro somiglianza non può servire di mezzo prossimo per l’unione con lui, anzi, come abbiamo detto, molto meno. 5. Perciò coloro che immaginano Dio sotto alcune di tali figure, o come un gran fuoco o fulgore, o in qualsiasi altra forma, e pensano che qualcosa di ciò gli assomigli, vanno molto lontani da lui. Infatti, sebbene ai principianti siano necessarie queste considerazioni e forme e modi di meditazioni, affinché l’anima se ne vada innamorando e nutrendo mediante il senso, come poi diremo, per cui le servono di mezzi remoti per unirsi a Dio, attraverso i quali le anime ordinariamente debbono passare per giungere al termine e alla dimora del riposo spirituale; tuttavia, è necessario attraversare questi mezzi, anziché continuare a rimanervi, altrimenti mai si giungerebbe alla meta, la quale non è come i termini remoti, né ha nulla a che fare con essi; come i gradini di una scala niente hanno a che vedere con il termine e compimento della salita, rispetto a cui sono mezzi. E se chi sale non avanzasse, lasciandosi indietro i gradini, finché non ne rimanesse nessuno, ma volesse restarsene su qualcuno di essi, mai salirebbe sino a giungere alla piana e tranquilla dimora della meta. Perciò l’anima che in questa vita voglia raggiungere l’unione di quel sommo riposo e bene, dovrà attraversare tutti i gradi di considerazioni, forme e nozioni, e dovrà oltrepassarli, in quanto non hanno nessuna somiglianza né proporzione con la meta cui si indirizzano, cioè Dio. Perciò negli Atti degli Apostoli San Paolo dice: Non debemus aestimare auro vel argento, aut lapidi sculpturae artis, et cogitationis hominis divinum esse simile; che vuol dire «Non dobbiamo credere né ritenere che la divinità sia simile all’oro né all’argento, né alla pietra scolpita con arte, né a ciò che l’uomo possa costruire coll’immaginazione» (17, 29). 184

6. Perciò errano assai molti spirituali i quali, essendosi esercitati ad avvicinarsi a Dio mediante immagini e forme e meditazioni, come si conviene ai principianti, allorché Dio vuole raccoglierli a beni più spirituali, interiori e invisibili, togliendo loro il gusto ed il sapore della meditazione discorsiva, essi non riescono né s’azzardano né sanno distaccarsi da quei modi palpabili ai quali sono abituati; e così faticano ancora per manternerli, desiderando procedere come prima mediante considerazione e meditazione di forme, e pensando che debba esser sempre così. E in ciò molto si travagliano, traendone poca o nessuna sostanza; anzi aumenta e s’accresce l’aridità e la fatica e l’inquietudine della loro anima, quanto più s’affaticano per quel primo gusto; ma è ormai impossibile che lo gustino in quel primo modo, in quanto l’anima, come abbiamo detto, non gusta più di quel nutrimento tanto sensibile, ma di un altro più delicato e interiore e meno sensibile, che non consiste nel travagliarsi coll’immaginazione, ma nel far riposare l’anima lasciandola stare nella sua tranquillità e quiete, il che è più spirituale. Infatti, quanto più l’anima avanza nello spirito, tanto più cessa di operare con le potenze in atti particolari, ponendosi in un atto più generale e puro; cessano così di operare le potenze che s’indirizzavano a ciò ove l’anima è giunta, così come si fermano i piedi in fine di giornata; poiché, se tutto fosse andare, mai ci sarebbe il giungere, e se ci fossero solo mezzi, dove e quando si godrebbero i fini o la meta? 7. È perciò penoso vedere molti, la cui anima vuole restare in questa pace e riposo di quiete interiore, dove si riempie di pace e ristoro di Dio; ma essi la disturbano, traendola fuori verso ciò che è più esteriore, e inopportunamente vogliono che essa rifaccia il cammino già percorso, e che abbandoni il termine e fine in cui già riposa, per tornare ai mezzi che la conducevano a questo punto, cioè alle meditazioni. E ciò non accade senza un grande disgusto e ripugnanza dell’anima, che vorrebbe restare in quella pace, pur senza comprenderla, 185

come al proprio posto: come accade a colui che sia arrivato con fatica dove possa riposarsi, che si appena se lo fanno tornare al lavoro. E poiché essi non capiscono il mistero di questa novità, immaginano di starsene oziosi senza far nulla, e così non restano in quiete, e cercano di meditare e di ragionare; e si riempiono così di aridità e fatica, volendo cavar sugo dove ormai non debbono cercarlo. Anzi possiamo dire che, quanto più s’affannano, tanto meno traggono profitto, perché, quanto più si ostinano in quel modo, tanto peggio si trovano; infatti tanto più tolgono l’anima dalla pace spirituale, che è lasciare il più per il meno e ripercorrere il percorso e voler fare il già fatto. 8. A costoro bisogna dire che imparino a starsene in quella quiete con attenzione e avvertenza amorosa in Dio, e non si preoccupino dell’immaginazione né delle sue operazioni; poiché, come abbiamo detto, in questo stato le potenze riposano e non agiscono attivamente, ma passivamente, ricevendo ciò che Dio opera in loro. E se qualche volta operano, ciò non avviene mediante la forza, né un prolungato ragionamento, ma con soavità d’amore; mosse più da Dio che dalla stessa abilità dell’anima, come spiegheremo in seguito. Ma ciò basti ora per far capire come convenga e sia necessario, a tutti coloro che intendono progredire, saper staccarsi da tutte queste modalità ed opere dell’immaginazione, nel momento e nella fase in cui lo richieda il profitto dello stato in cui si trovano. 9. E perché si capisca in quale tempo esattamente ciò debba accadere, nel capitolo seguente indicheremo alcuni segni che lo spirituale deve vedere in se stesso, per riconoscervi la fase ed il momento in cui possa usare liberamente del termine di cui s’è detto, e smettere di camminare mediante il discorso e l’opera dell’immaginazione. CAPITOLO 13 186

Si indicano i segni che lo spirituale deve vedere in sé per conoscere in quale tempo gli convenga lasciare la meditazione e il discorso e passare allo stato di contemplazione. 1. Affinché questa dottrina non resti confusa, converrà che in questo capitolo si faccia comprendere in quale tempo e fase converrà che lo spirituale lasci l’attività della meditazione discorsiva mediante quelle immaginazioni e forme e figure, perché non l’abbandoni né prima né dopo che lo richieda lo spirito. Infatti, come è necessario lasciarle a suo tempo per andare a Dio, affinché non siano d’impedimento, così è necessario non lasciare anzitempo la meditazione mediante immagini, per non tornare indietro. Sebbene infatti le percezioni di tali potenze non servano ai profìcienti come mezzo prossimo di unione, tuttavia ai principianti servono per disporre e abituare lo spirito a ciò che è spirituale mediante il senso, e per procedere nel vuotare il senso di tutte le altre forme e immagini basse, temporali, mondane, naturali. Perciò diremo ora di alcuni segnali e indizi che lo spirituale deve avere in sé per conoscere se gli convenga o no lasciare tutto questo in quel determinato tempo. 2. Il primo è vedere in sé di non poter più meditare né ragionare coll’immaginazione, né gustarne, come prima era solito fare; anzi di trovare aridità in ciò in cui prima soleva fissare il senso procurandone gusto. Ma finché vi trarrà gusto e potrà ragionare nella meditazione, non deve abbandonarla, a meno che l’anima si disponga nella pace e nella quiete di cui si dice riguardo al terzo segno. 3. Il secondo è quando l’anima s’accorge di non aver nessuna voglia di porre l’immaginazione o il senso in altre cose particolari, né esteriori né interiori. Non dico che l’immaginazione non vada e venga, in quanto suole andar sciolta anche durante un grande raccoglimento, ma che non 187

piaccia all’anima porla di proposito in altre cose. 4. Il terzo e più sicuro è quando l’anima gode di starsene sola, con attenzione amorosa a Dio, senza particolare considerazione, in pace interiore e quiete e riposo, e senza atti ed esercizi delle potenze, memoria intelletto volontà — o almeno senza quelli discorsivi, che è passare dall’uno all’altro di questi atti —, ma solo con l’attenzione e la generale conoscenza amorosa di cui dicevamo, senza comprendere con intelligenza particolare a che si rivolga. 5. Lo spirituale deve vedere in sé almeno questi tre segnali insieme per cominciare a lasciare con sicurezza lo stato di meditazione e del senso e per entrare in quello della contemplazione e dello spirito. 6. E non basta che ci sia solo il primo senza il secondo, perché potrebbe accadere che il non poter più immaginare e meditare come prima nelle cose di Dio dipenda da distrazione o da poca diligenza; perciò bisogna vedere in sé anche il secondo, che è non aver voglia né desiderio di pensare ad altre cose estranee. Infatti, quando il non poter fissare l’immaginazione e il senso nelle cose di Dio deriva da distrazione o tepidezza, l’anima ha subito desiderio e voglia di porla in altre cose, come pretesto per allontanarsi da quelle. E nemmeno basta vedere in sé il primo e il secondo segno, senza vedere anche il terzo; infatti, sebbene veda di non poter ragionare né pensare alle cose di Dio e nemmeno d’aver voglia di pensare ad altre, ciò potrebbe dipendere da melanconia, o da qualche altro umore del cervello o del cuore, che sogliono provocare nel senso un certo intorpidimento e sospensione, che non consentono all’anima di pensare a nulla, né di desiderare, né d’aver voglia di pensarlo, ma solo di starsene in quel saporoso incantamento. Per ovviare a ciò, l’anima, come abbiamo detto, deve avere il terzo segno, cioè la conoscenza e l’attenzione amorosa nella 188

pace, ecc. 7. Ma è vero che, agli inizi di tale stato, questa conoscenza amorosa non si lascia vedere. E ciò per due motivi: primo, perché agli inizi tale conoscenza amorosa suol essere molto sot tile e delicata e quasi insensibile; secondo, poiché, essendo l’a nima abituata all’altro esercizio della meditazione, che è total mente sensibile, quasi non riesce a vedere né a sentire questa novità insensibile, che è già puramente spirituale; specialmente quando, non comprendendola, non vi s’abbandona quietamente, ma si procura l’altro esercizio più sensibile, per cui, quantunque sia più abbondante l’interiore pace amorosa, non s’abbandona a sentirla e goderla. Però, quanto più l’anima verrà abituandosi ad abbandonarvisi quietamente, tanto più crescerà e si farà sentire in lei quell’amorosa conoscenza generale di Dio, che ella gusta più di tutte le cose, perché le procura pace, riposo, sapore e diletto senza travaglio. 8. E affinché sia più chiaro quanto abbiamo detto, nel capitolo seguente indicheremo le cause e i motivi per i quali questi tre segni appariranno necessari per volgersi allo spirito. CAPITOLO 14 Si dimostra la convenienza di questi segni, dando ragione della necessità, per progredire, di quanto s’è detto. 1. Quanto al primo segno di cui abbiamo detto, occorre sapere che lo spirituale, per entrare nella via dello spirito, ossia contemplativa, deve lasciare la via immaginativa e di meditazione sensibile, quando più non ne gustane può procedere discorsivamente, e ciò per due ragioni, che quasi si fondono in una. La prima è che in certo modo si è dato all’anima tutto il bene spirituale che doveva trovare nelle cose di Dio per via di 189

meditazione e di discorso; e l’indizio di ciò è che non può più meditare né discorrere come prima, né come prima trovarvi sugo e gusto, perché fino ad allora non era pervenuta allo spirito che le era riserbato. Infatti, ordinariamente, tutte le volte che l’anima riceve qualche bene spirituale, lo riceve con gusto, almeno nello spirito, nel mezzo tramite il quale lo riceve e le reca profìtto; altrimenti c’è da meravigliarsi che ne tragga vantaggio e che trovi nella sua causa quel sostegno e gusto che vi trova quando lo riceve. Accade infatti come dicono i filosofi, che Quod sapit, nutrit: «ciò che è saporito nutre e ingrassa». Perciò disse il santo Giobbe: Numquid poterit comedi insulsum, quod non est sale conditum? «Si potrà forse mangiare ciò che è scipito, cioè non condito con sale?» (6, 6). E questa è la ragione per la quale non si può meditare né discorrere come prima: il poco sapore e profitto che vi trova lo spirito. 2. La seconda è che l’anima in questo momento ha già lo spirito della meditazione in sostanza ed abito. Bisogna infatti sapere che il fine della meditazione e del discorso intorno alle cose di Dio è ricavare qualche conoscenza e amore di Dio. E ogni volta che l’anima la ricava mediante la meditazione, ciò ne costituisce un atto; e come molti atti, in qualsiasi campo, vengono a generare un abito nell’anima, così molti atti di questa conoscenza amorosa, che l’anima poco a poco sia venuta acquisendo, per la continuità del loro ripetersi ne divengono un abito. In molte anime Dio suole fare lo stesso anche senza il tramite di questi atti, o almeno senza averne fatti precedere molti, ma ponendole subito nella contemplazione. Così ciò che l’anima veniva prima acquisendo mediante il travaglio del meditare nozioni particolari, per l’uso continuo, come abbiamo detto, si è trasformato in lei in abito e sostanza di una notizia amorosa generale, non distinta né particolare come prima. E perciò, quando si pone in preghiera, come chi già ha attinto l’acqua, beve senza travaglio e con soavità, senza che sia necessario trarla dai canali delle gravose 190

meditazioni e forme e figure. In modo che, non appena si pone davanti a Dio, si mette in atto di nozione confusa, amorosa, pacifica e quieta, nella quale l’anima beve sapienza e amore e gusto. 3. E questa è la ragione per cui l’anima avverte molto travaglio e disgusto allorché, trovandosi in questa quiete, la vogliono far meditare e faticare intorno a nozioni particolari. Le accade perciò come al bambino che, mentre prende il latte, raccolto e attaccato al petto, ne venga tolgo, facendo poi in modo che torni ad attaccarvisi con la cura del suo premerlo e palpeggiarlo; o come a chi avesse già tolta la buccia ad un frutto e ne stesse gustando la sostanza e lo si facesse tornare a togliere la buccia già tolta, per cui non la troverebbe e smetterebbe di gustare la sostanza che aveva fra le mani, simile in questo a chi lasci ciò che ha preso in cambio di ciò che non ha. 4. E così fanno molti che cominciano ad entrare in questo stato: pensando che tutto l’impegno consista nell’andare ragionando e intendendo particolarità mediante immagini e orme, che sono la corteccia dello spirito, non trovandole in quella quiete amorosa e sostanziale in cui vuole restare la loro anima, non comprendendovi nessuna cosa con chiarezza, pensano d’andar perdendosi e di perder tempo, e tornano a cercare la corteccia dell’immagine e del discorso, che però non trovano, perché ormai è stata loro tolta; e così non gustano la sostanza, né ritrovano la meditazione, e si perturbano, pensando di tornare indietro e di perdersi. E in verità si perdono, ma non come essi credono, bensì vengono meno ai propri sensi e al primo modo di sentire; il che è andar guadagnando lo spirito che viene loro dato; e, quanto meno vanno comprendendolo, tanto più vanno entrando nella notte dello spirito del quale trattiamo in questo libro, attraverso cui essi debbono passare per unirsi con Dio al di sopra di ogni sapere.

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5. Circa il secondo segno c’è poco da dire, perché si capisce bene che l’anima, in questo tempo, di necessità non deve gustare altre immagini diverse, cioè del mondo, poiché, come abbiamo detto, per le ragioni spiegate, non gusta quelle che sono più conformi, cioè quelle di Dio. In questo raccoglimento, come già abbiamo osservato, l’immaginativa suole per suo conto solamente andare e venire e variare; ma senza che l’anima vi ponga gusto e volontà: anzi, vi prova pena, perché le turba la pace e il gusto. 6. E credo che qui non occorra dir nulla intorno al terzo segno, cioè intorno alla convenienza e alla necessità della notizia o avvertenza generale amorosa in Dio, per poter lasciare la meditazione, in quanto ne già abbiamo spiegato qualcosa trattando del primo, e poi dovremo trattarne espressamente a suo luogo, cioè quando parleremo di questa nozione generale e confusa, dopo che avremo parlato di tutte le apprensioni particolari dell’intelletto. Diremo però una sola ragione, affinché si veda chiaro come, nel caso in cui il contemplativo debba lasciare la via della meditazione e del discorso, gli sia necessaria questa nozione o avvertenza amorosa in Dio. Se infatti l’anima non avesse questa nozione o avvertenza in Dio, finirebbe col non far niente e col non aver niente; in quanto l’anima, lasciando la meditazione, mediante la quale opera discorrendo con le potenze sensibili, e mancandole la contemplazione, ossia la nozione generale di cui abbiamo detto — nella quale tiene in atto le potenze spirituali, memoria, intelletto e volontà, unite ormai in questa nozione già prodotta e da esse ricevuta —, necessariamente mancherebbe di ogni esercizio riguardo a Dio, poiché l’anima non può operare, né ricevere ciò che ne deriva, se non per via di questi due modi delle potenze sensibili e spirituali. Infatti, come abbiamo detto, mediante le potenze sensibili può discorrere cercando ed elaborando le nozioni degli oggetti; e mediante le potenze spirituali può godere le notizie ricevute in quelle sensibili, senza che esse operino più. 192

7. La differenza che c’è nell’esercizio che l’anima fa in rapporto alle une e alle altre potenze è dunque la stessa che intercorre tra l’andare operando e il godere dell’opera già fatta, o tra la fatica del camminare ed il riposo e la quiete della meta, o anche tra il cucinare il cibo e il mangiarlo e gustarlo già cucinato e masticato senza lavorarvi in alcun modo, o tra il ricevere e il trar vantaggio da ciò che si è ricevuto. E così se l’anima non sarà occupata nell’operare con le potenze sensibili, cioè nella meditazione e nel discorso, o con ciò che ha ricevuto ed operato con le potenze spirituali, cioè nella contemplazione e nozione che abbiamo detto, restando oziosa nelle une e nelle altre, in nessun modo vi sarà motivo per dire che essa sia occupata. Perciò è necessaria questa nozione per poter lasciare la via della meditazione e del discorso. 8. Ma ora conviene sapere che questa nozione generale di cui stiamo parlando è talvolta tanto sottile e delicata, specialmente quando è più pura e semplice e perfetta, e più spirituale e interiore, che l’anima, sebbene vi sia occupata, né la vede né la sente. E diciamo che questo accade specialmente quando essa è in sé più chiara e perfetta e semplice. E ciò avviene allorché essa investe un’anima più limpida, e aliena da altre intellezioni e nozioni particolari, alle quali l’intelligenza o il senso potrebbero attaccarsi; ma, mancandole queste, sulle quali l’intelletto e il senso hanno la capacità e l’abitudine di esercitarsi, essa non le sente, in quanto le mancano le forme sensibili alle quali è abituata. E questa è la ragione per la quale, quanto più questa notizia è pura e perfetta e semplice, tanto meno l’intelletto la sente, anzi gli sembra più oscura. Così, al contrario, quanto meno è pura e semplice per l’intelletto, tanto più gli appare chiara e di maggior valore, in quanto essa è rivestita o mischiata o involta in alcune forme intelligibili, nelle quali possono fermarsi l’intelletto o il senso.

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9. Il che si capirà bene con questo paragone: se osserviamo un raggio di sole che entra da una finestra, notiamo che quanto più fittamente contiene corpuscoli e polvere, tanto più è palpabile e sensibile e tanto più chiaro appare alla percezione del senso. È allora evidente che il raggio è in sé meno puro e chiaro e semplice e perfetto, essendo pieno di tanta polvere e corpuscoli; e vediamo anche che, quanto più è limpido e puro da quella polvere e da quei corpuscoli, tanto meno è percettibile, e tanto più oscuro appare all’occhio materiale; e, quanto più è limpido, tanto più oscuro gli appare e meno percettibile. E se il raggio fosse del tutto limpido e puro di tutti i corpuscoli e della polvere, sino al pulviscolo più sottile, esso apparirebbe all’occhio del tutto oscuro e impercettibile, in quanto vi mancherebbero gli elementi visibili che sono oggetto della vista. E così l’occhio non troverebbe specie sulle quali fermarsi, poiché la luce non è oggetto proprio della vista, ma è il mezzo tramite il quale si vede ciò che è visibile; perciò, se mancano gli elementi visibili nei quali si riflettano il raggio o la luce, non si può vedere niente. Dunque, se un raggio entrasse da una finestra e uscisse da un’altra, senza incontrare nessun oggetto di qualche consistenza, non si vedrebbe nulla; e tuttavia il raggio sarebbe in sé più puro e limpido di quando lo si vedesse e percepisse più chiaramente, essendo pieno di cose visibili. 10. Allo stesso modo accade alla luce spirituale nei confronti della vista dell’anima, cioè l’intelletto: questa nozione generale e lume soprannaturale di cui stiamo dicendo lo investe in modo tanto puro e semplice, ed è tanto spogliata e aliena da tutte le forme intelligibili che sono oggetto dell’intelletto, che questo non la percepisce, né può vederla. Anzi, talvolta, quando essa è più pura, gli produce tenebre, poiché gli toglie le abituali luci e forme e fantasie, e allora si percepisce bene e si manifesta la tenebra. Quando invece la luce divina non investe l’anima con tanta forza, essa né percepisce tenebra, né vede luce, né 194

coglie nulla di quanto conosce delle cose di quaggiù e di lassù; onde talvolta l’anima resta in un oblio tanto grande da non sapere dove sia stata, né che cosa abbia fatto, né le sembra che il tempo le sia passato. Perciò può accadere ed accade che passino molte ore di questo oblio, e quando l’anima torna in sé non le sembra nemmeno un istante, o le sembra che niente sia accaduto. 11. E la ragione di questo oblio è la purezza e semplicità di questa nozione che, occupando l’anima, la rende semplice e pura e limpida di tutte le apprensioni e forme dei sensi e della memoria, tramite cui l’anima operava nel tempo, e così la lascia in oblio e senza tempo. Perciò, sebbene un’orazione duri molto, come abbiamo detto sembra brevissima all’anima, essendo stata unita in intelligenza pura, che non sta nel tempo. Ed è l’orazione breve della quale si dice che penetra i cieli (Ecclesiastico 35, 21), perché è breve e perché non è nel tempo. E penetra i cieli perché l’anima è unita in intelligenza celeste. Così questa nozione lascia l’anima, quando questa ricorda, con gli effetti che le produsse senza che se n’accorgesse, cioè elevazione della mente a intelligenza celeste, e alienazione ed astrazione da tutte le cose e dalle loro forme e figure e memorie. David così dice che gli accadde tornando in sé dallo stesso oblio: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto (Sal. 101, 8); che significa: «Mi sono ricordato e mi sono trovato come un passero solitario sul tetto». Dice solitario, cioè alienato e astratto da tutte le cose. E sul tetto, cioè con la mente elevata in alto; e così l’anima rimane come ignorante di tutte le cose, poiché conosce solo Dio, senza sapere come. Così la Sposa, nei Cantici (6, 11), tra gli effetti prodotti in lei da questo sogno ed oblio, descrive questo non sapere nel quale è discesa, dicendo: Nescivi, cioè: «Non seppi»; perciò, come abbiamo detto, sebbene all’anima in questa cognizione sembri di non far nulla e di non stare occupata in nulla, perché non opera affatto con i sensi o con le potenze, deve tuttavia credere di non star perdendo 195

tempo, perché, pur cessando l’armonia delle potenze dell’anima, la sua intelligenza è nello stato che abbiamo detto. E perciò la sposa, che era saggia, ancora nei Cantici rispose da sé a questo dubbio, dicendo: Ego dormio et cor meum vigilai (5, 2). Come per dire: Sebbene io dorma, secondo ciò che sono, cessando di operare naturalmente, il mio cuore veglia, elevato soprannaturalmente in soprannaturale nozione. 12. Ma non si deve intendere che tale nozione debba necessariamente causare questo oblio per essere quale l’abbiamo descritta, perché ciò accade solo quando l’anima astrae dall’esercizio di tutte le potenze naturali e spirituali; il che accade nella minor parte dei casi, in quanto non sempre essa occupa interamente l’anima. Per causare l’effetto di cui stiamo trattando è sufficiente che l’intelletto sia astratto da qualsiasi nozione particolare, ora temporale ora spirituale, e che la volontà non abbia voglia di pensare né all’uno né all’altro, come abbiamo detto, perché allora sarebbe segno che l’anima è occupata. Si deve tener presente questo indizio per individuare tale stato, ossia che quella nozione si applichi e comunichi soltanto all’intelletto, cosa che talvolta l’anima non riesce a vedere. Infatti, quando tale nozione si comunica insieme con la volontà, cioè quasi sempre, l’anima, prestandovi attenzione, più o meno comprende d’essere impegnata e occupata in questa nozione, in quanto vi si sente con gusto d’amore, senza sapere né intedere particolarmente ciò che ama. E perciò la chiama nozione amorosa generale, perché, essendo tale per l’intelletto, cui si comunica oscuramente, è tale anche per la volontà, alla quale comunica confusamente gusto e amore, senza che essa sappia in modo distinto ciò che ama. 13. E ciò basti ora per comprendere come convenga all’anima essere occupata in questa nozione, per poter 196

lasciare la via del discorso spirituale e per essere sicura, se riscontra in sé questi segni, d’esser ben occupata, malgrado le sembri di non far nulla; e anche per ben comprendere, mediante il paragone che abbiamo fatto, come l’anima non deve giudicare più pura, elevata e chiara, quella luce, per il fatto che essa si rappresenta all’intelletto più comprensibile e palpabile, come il raggio del sole all’occhio quando sia più pieno di corpuscoli; è chiaro infatti che, come dicono Aristotele12 e i teologi, quanto più alta ed elevata è la luce divina, tanto più è oscura al nostro intelletto. 14. Molto c’è da dire di questa divina nozione, sia in se stessa, sia in rapporto agli effetti che provoca nei contemplativi. Lo riserviamo al suo luogo, perché, sebbene su quanto ora abbiamo detto non ci siamo molto diffusi, lo abbiamo fatto quanto potesse bastare per non lasciare questa dottrina più confusa di quanto non sia rimasta; e tuttavia, lo confesso, lo è certamente rimasta molto. Perché, oltre al fatto che siamo di fronte a materia della quale ben di rado si tratta in questo modo, sia parlando che scrivendo, in quanto è in sé straordinaria e oscura, s’aggiunge anche il mio stile pesante e il mio poco sapere. Così, dubitando di riuscire a farla comprendere, spesso capisco di diffondermi troppo e d’uscir fuori dei limiti sufficienti rispetto al luogo e alla parte della dottrina che sto trattando. E a volte, lo confesso, lo faccio intenzionalmente; perché ciò che non si riesce a comprendere con alcune ragioni forse lo si capirà meglio con altre, anche perché capisco che così viene meglio illuminato in rapporto a quanto si deve dire in seguito. Perciò, per concludere questa parte, mi sembra bene non lasciare senza risposta un dubbio che si può avere circa la continuità di quella nozione, il che farò brevemente nel seguente capitolo. CAPITOLO 15

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Si dichiara come ai proficienti che cominciano ad entrare in questa nozione generale di contemplazione convenga talvolta valersi del discorso naturale e dell ‘opera delle potenze naturali. 1. Riguardo a quanto è stato detto potrebbe presentarsi un dubbio, cioè se i proficienti, che sono coloro che Dio comincia a porre nella nozione soprannaturale di contemplazione della quale abbiamo parlato, una volta che abbiano cominciato ad averla, non debbano continuare a valersi della via della meditazione e del discorso e delle forme naturali. Si risponde che non si intende che coloro che cominciano ad avere questa nozione amorosa generale non debbano più curarsi di stare in meditazione; poiché, valendosene in modo iniziale, né il suo abito è tanto perfetto che possano disporvisi non appena lo vogliano, né d’altra parte sono tanto lontani dalla meditazione da non poter talvolta meditare e discorrere naturalmente com’erano soliti fare, nelle forme e passaggi consueti, trovandovi qualcosa di nuovo; anzi, in questi inizi, quando dai segni già detti s’accorgano che la loro anima non è occupata in quella quiete e nozione, dovranno trar profìtto dal discorso, fino a che di essa non acquisiscano l’abito che abbiamo detto, in qualche modo perfetto; il che sarà quando, ogniqualvolta vorranno meditare, subito si troveranno in questa nozione e pace, senza aver voglia di meditare come abbiamo detto, e senza poter farlo. Infatti, fino a che non si giunga a questo punto, cioè ad essere ormai proficienti in essa, ora bisogna usare dell’uno ora dell’altro modo, a seconda dei momenti. 2. Molte volte, dunque, l’anima si troverà in questa amorosa o pacifica presenza, senza agire affatto con le proprie potenze, ossia non operando attivamente quanto ad atti particolari, ma solo ricevendo; e molte altre, invece, per porsi in essa, dovrà aiutarsi in modo dolce e moderato con il discorso. Ma, quando l’anima vi si sia posta, come abbiamo 198

detto, non agisce affatto con le proprie potenze anzi, bisogna dire che l’intelligenza e il gusto agiscono in lei, anziché esser lei ad operare alcunché, in quanto deve solo preoccuparsi di amare Dio, senza desiderare né vedere niente. Così Dio le si comunica passivamente, come a chi tenga gli occhi aperti si comunica la luce passivamente, senza ch’egli faccia altro se non tenerli aperti. E questo ricevere la luce che soprannaturalmente le si infonde è intendere passivamente. Perciò si dice che non agisce, non perché non intenda, ma perché intende ciò che non richiede la sua attività, ma solo il ricevere quanto le danno, come accade nelle visioni o illuminazioni o ispirazioni di Dio. 3. Sebbene ora la volontà riceva liberamente questa nozione generale e confusa di Dio, per ricevere in modo più semplice e abbondante questa luce divina è solo necessario che non interponga altre più palpabili luci o forme o notizie o figure di qualche discorso, poiché niente di tutto ciò è somigliante a quella serena e pura luce. Perciò, se si volessero intendere e considerare cose particolari, anche fossero le più spirituali, esse impedirebbero la pura e semplice luce generale dello spirito, interponendo quelle nubi; come farebbe chi si mettesse davanti agli occhi qualcosa che, ostacolandogli la vista, gli impedisse la luce e di vedere davanti a sé. 4. Ne consegue chiaramente che quando l’anima si sia affatto purificata e vuotata di tutte le forme e immagini apprensibili, resterà in questa pura e semplice luce, trasformandosi in essa in stato di perfezione, in quanto questa luce non manca mai all’anima; ma non si infonde in lei per le forme e i veli di creatura da cui è velata e impacciata. Se infatti lasciasse totalmente questi impedimenti e veli, come poi si dirà, rimanendo nella pura nudità e povertà di spirito, l’anima già semplice e pura si trasformerebbe subito nella semplice e pura sapienza, che è il Figlio di Dio; in quanto, mancando l’anima innamorata di 199

ciò che è naturale, subito le s’infonde ciò che è divino, naturalmente e soprannaturalmente, perché nella natura non si dà vuoto. 5. Lo spirituale impari dunque a starsene con avvertenza amorosa in Dio, con quiete d’intelletto, quando non può meditare, anche se gli sembra di non far nulla; perché così, poco a poco, e ben presto, s’infonderà nella sua anima la divina quiete e pace, con mirabili e sublimi nozioni di Dio avvolte dall’amore divino. E non s’intrometta in forme, meditazioni e immaginazioni, né in alcun discorso, donde l’anima riceva disgusto e ripugnanza, affinché non le si turbi la quiete e non la si tolga dalla sua gioia e pace. E se avesse scrupolo, come abbiamo detto, di non far nulla, noti come non sia cosa di poco conto rappacificare l’anima e porla in quiete e pace, senza alcuna attività e appetito; ciò che nostro Signore ci chiede dicendo in David: Vacate, et videte quoniam ego sum Deus (Sal. 45, 11); come dire: imparate a starvene vuoti di tutte le cose, cioè interiormente ed esteriormente, e vedrete che io sono Dio. CAPITOLO 16 Si tratta delle apprensioni immaginarie che si rappresentano nella fantasia soprannaturalmente. Si mostra come non possano servire all’anima come mezzo prossimo per l’unione con Dio. 1. Dopo aver trattato delle apprensioni che la fantasia e l’immaginativa possono ricevere e mediante le quali possono operare discorsivamente, conviene ora trattare di quelle soprannaturali, che si chiamano visioni immaginarie e che, quanto quelle naturali, appartengono al senso interno, presentandosi sotto l’aspetto di immagine o forma o figura. 2. Bisogna sapere che sotto questo nome di visioni immaginarie vogliamo intendere tutte le cose che si possono 200

rappresentare all’immaginazione soprannaturalmente sotto l’aspetto di immagine, forma e figura. Infatti tutte le apprensioni e specie che per via naturale si rappresentano al senso della fantasia mediante tutti i cinque sensi corporei e vi prendono sede, possono per via soprannaturale prendervi posto e rappresentarvisi senza alcun concorso dei sensi esterni. Il senso della fantasia, insieme con la memoria, è infatti come un archivio e un ricettacolo dell’intelletto, nel quale si ricevono tutte le forme e immagini intelligibili; così, come se fosse uno specchio, le contiene, avendole ricevute tramite i cinque sensi o, come abbiamo detto, soprannaturalmente; e così li rappresenta all’intelletto, il quale le considera e le giudica. E non solo questo può fare il senso della fantasia, ma anche comporne ed immaginarne altre, a somiglianza di quelle che già conosce. 3. Occorre inoltre sapere che, come i cinque sensi esterni rappresentano a quelli interiori le immagini e le specie dei propri oggetti, così, soprannaturalmente, senza i sensi esterni, Dio e il demonio, come abbiamo detto, possono rappresentare le stesse immagini e specie, ed anche molto più belle e perfette. Perciò, sotto queste immagini, spesso Dio rappresenta molte cose all’anima e le insegna grande sapienza; come ad ogni tratto si vede nella sacra Scrittura: Isaia vide Dio nella sua gloria sotto l’immagine del fumo che copriva il tempio e dei serafini che con le ali si coprivano il volto e i piedi (6, 2-4); Geremia sotto l’immagine della verga che vegliava (1, 11) e Daniele in molte altre visioni (7, 10), ecc. E anche il demonio cerca con le proprie immagini, apparentemente buone, d’ingannare l’anima, come si può vedere nel libro dei Re, dove si legge che ingannò tutti i profeti di Acab, rappresentando alla loro immaginazione le corna con le quali diceva che avrebbe distrutto gli Assiri, ed era una menzogna (3 Re 22, 11). Ed è anche il caso delle visioni che ebbe la moglie di Pilato (Mt. 27, 19) perché non si condannasse Cristo; e così in molti altri luoghi. Ne risulta che in questo specchio della fantasia e dell’immaginativa tali 201

visioni immaginarie si presentano ai proficienti più frequentemente di quelle corporee esterne. In quanto immagini e specie, esse non si differenziano, come abbiamo detto, da quelle che provengono dai sensi esterni. Però se ne differenziano molto quanto all’effetto che producono e quanto alla perfezione, in quanto sono più sottili e producono nell’anima effetti maggiori, essendo soprannaturali e più interiori di quelle soprannaturali esterne. Tuttavia ciò non toglie che qualcuna di quelle immagini corporee esterne non produca effetti maggiori; perché in fondo la comunicazione è come Dio la vuole. Ma diciamo che, per loro natura, ne producono maggiori quelle interne, in quanto sono più spirituali. 4. Questo senso dell’immaginazione e della fantasia è l’ambito nel quale ordinariamente bazzica il demonio con i suoi strattagemmi, ora naturali ora soprannaturali; infatti esso è per l’anima la porta d’ingresso, attraverso cui, come abbiamo detto, l’intelletto traffica come in un mercato le sue provviste. E perciò Dio, e anche il demonio, vi ricorrono sempre, con i loro gioielli di immagini e forme soprannaturali da offrire all’intelletto; ma Dio non si vale solo di questo mezzo per ammaestrare l’anima, poiché, dimorando sostanzialmente in lei, può farlo così oppure con altri mezzi. 5. Non c’è motivo per cui ora mi dilunghi nel formulare la dottrina sugli indizi grazie ai quali si può distinguere quali siano le visioni che provengono da Dio e quali no, nonché sui diversi modi in cui si manifestino; infatti il mio intendimento ora non è questo, bensì è solo di istruire l’intelletto, affinché non trovi ostacoli e impedimenti all’unione con la divina Sapienza con le visioni buone, né inganni con quelle false. 6. Dico, pertanto, che tutte queste apprensioni e visioni immaginarie, e qualsiasi altra loro forma o specie, che si presentino sotto l’aspetto di forma o di immagine o di 202

un’intelligenza particolare, tanto nel caso in cui siano false provenendo dal demonio, quanto in quello che si riconoscano vere, cioè da parte di Dio, non debbono ostacolare l’intelletto, né esso deve nutrirsene, né l’anima deve ammetterle, né ritenerle, per poter rimanere distaccata, nuda, pura e semplice, senza nulla di tutto ciò, come si richiede per l’unione. 7. La ragione di ciò è che tutte queste forme di cui abbiamo detto, quando vengono recepite si rappresentano mentre, come sappiamo, in forme determinate e in modi limitati, mentre la Sapienza di Dio, alla quale l’intelletto deve unirsi, non ha nessun modo o maniera, né cade sotto alcun limite, né sotto alcuna cognizione distinta e particolare, in quanto è totalmente pura e semplice. E siccome due estremi, quali sono l’anima e la divina Sapienza, per congiungersi dovranno necessariamente convenire in qualche mezzo di reciproca somiglianza, ne consegue che anche l’anima deve stare pura e semplice, non limitata né attaccata ad alcuna intelligenza particolare, né modificata da alcun limite di forma o specie o immagine. Dio infatti non cade sotto immagine o forma, né è contenuto da nessuna intelligenza particolare; dunque nemmeno l’anima, per poter unirsi con Dio, deve cadere sotto una forma o una intelligenza determinata. 8. E che in Dio non vi sia forma né somiglianza lo fa ben capire lo Spirito Santo nel Deuteronomio, dicendo: Vocem verborus eius audistis, et formam penitus non vidistis; che vuol dire: «Avete udito la voce delle sue parole e non avete affatto visto in Dio forma alcuna» (4, 12). E dice che vi erano tenebre e nubi e oscurità (11), cioè la nozione confusa e oscura di cui abbiamo detto, nella quale l’anima si unisce con Dio. E appena più avanti dice: Non vidistis aliquam similitudinem in die, qua locutus est vobis Dominus in Horeb de medio ignis; cioè: «Non avete visto in Dio nessuna somiglianza nel giorno in cui vi parlò in mezzo al fuoco sul 203

monte Horeb» (4, 15). 9. E che l’anima non possa giungere alle altezze di Dio, per quanto si può in questa vita, mediante alcune forme e figure, lo dice lo stesso Spirito Santo nei Numeri, dove, rimproverando Iddio Aronne e Maria, fratelli di Mosè, perché mormoravano contro costui, per far loro comprendere l’alto stato d’unione e amicizia con sé in cui lo aveva posto, disse loro: Si quis inter vos fuerit propheta Domini in visione apparebo ei, vel per somniumloquar ad illum. At non talis servus meus Moyses, qui in omni domo mea fidelissimus est: ore enim ad os loquor et, et palam, et non per aenigmata et figuras Dominum videt; che vuol dire: «Se tra voi vi sarà un profeta del Signore io gli apparirò in qualche visione o forma e gli parlerò in sogno. Ma nessuno è quale il mio servo Mosè, che in tutta la mia casa è fedelissimo: a lui parlo faccia a faccia e non vedrà Dio mediante paragoni, somiglianze e figure» (12, 6-8). Dove si fa comprendere chiaramente che nel sublime stato d’unione, del quale stiamo parlando, Dio non si comunica all’anima dissimulandosi in nessuna visione immaginaria, o somiglianza, o figura, ma bocca a bocca, cioè come pura e nuda essenza di Dio, che è la bocca di Dio nell’amore, unita con l’essenza pura e nuda dell’anima, che è la bocca dell’anima nell’amore di Dio. 10. Pertanto, per giungere a questa unione essenziale con l’amore di Dio, l’anima deve aver cura di non procedere appoggiandosi a visioni immaginarie, né a forme, né a figure, né a particolari intelligenze, poiché non le possono servire quale mezzo proporzionato e prossimo per tale effetto, anzi le sarebbero d’impedimento e perciò deve rinunziarvi e procurare di non attenervisi. Infatti, se in qualche caso esse si potessero ammettere ed apprezzare, sarebbe per il profìtto e il buon effetto che le visioni vere possono produrre nell’anima; ma anche in questo caso non è necessario ammetterle, anzia, per il meglio, conviene sempre negarle. Il bene che tali visioni immaginarie possono operare 204

nell’anima, così come abbiamo detto possono fare quelle corporee esterne, è infatti quello di comunicarle intelligenza o amore o soavità; ma, affinché vi producano tali effetti, non è necessario ammetterle, in quanto, come s’è detto, all’atto stesso in cui sono presenti all’immaginazione, lo sono anche nell’anima, infondendole intelligenza e amore, o soavità, o quello che Dio vuole le producano. E producono nell’anima il proprio effetto non solo congiuntamente, anche se non nello stesso tempo, ma principalmente in modo passivo, senza che essa possa impedirlo, anche se lo volesse, così come era accaduto per raggiungerlo, anche se le era stato impossibile far qualcosa per disporvisi. Infatti, come la vetrata non ha modo di impedire al raggio del sole che vi batta, ma ne viene passivamente illuminata, in quanto è disposta nella sua purezza, e dunque senza nessuna sua cura od atto, così anche l’anima non può non ricevere in sé le influenze e comunicazioni di quelle figure, anche se non lo volesse e vi resistesse. Infatti, la volontà negativa per rassegnazione umile e amorosa non può resistere alle infusioni soprannaturali, ma lo possono solo l’impurità e le imperfezioni dell’anima, così come le macchie nella vetrata sono d’ostacolo alla luce. 11. Da ciò si vede chiaramente come, quanto più l’anima, con la volontà e l’affezione, si spoglierà delle apprensioni delle macchie di quelle forme, immagini e figure che rivestono le comunicazioni spirituali di cui abbiamo parlato, non solo non si priva delle comunicazioni e dei beni che queste le producono, bensì si dispone a riceverli con ben più grande abbondanza, chiarezza, libertà di spirito e semplicità, una volta che abbia lasciato da parte tutte quelle apprensioni, che sono cortine o veli che coprono ciò che vi è di spirituale. Così, se invece vorrà nutrirsene, esse occuperanno lo spirito e il senso, in modo che lo spirito non possa comunicarsi in modo semplice e libero, in quanto è chiaro che l’intelletto che sia occupato a livelli superficiali 205

non avrà libertà di ricevere lo spirito mediante quelle forme. Ne consegue allora che, se l’anima volesse ammetterle e tenerle in conto, s’intralcerebbe, e s’accontenterebbe del meno che vi è contenuto, cioè di tutto quanto può apprendere e conoscere, vale a dire di quelle forme, immagini e cognizioni particolari che può averne. Ma il loro elemento principale, cioè lo spirituale che vi si infonde, non saprà né conoscerlo né capirlo, né saprà in che cosa consista, né saprà esprimerlo, proprio in quanto esso è puramente spirituale. Ciò che conosce di quelle forme, abbiamo detto, è solo quanto v’è in esse di meno importante, e lo conosce secondo il proprio modo di intendere, ossia mediante i sensi. Perciò dico che se l’anima si dispone passivamente, senza porre in atto il proprio intendere e senza saper farlo, da quelle visioni le si comunicherà ciò che non saprebbe mai intendere né immaginare. 12. Pertanto si debbono sempre distogliere gli occhi dell’anima da tutte queste apprensioni che ella può vedere e intendere distintamente — e ciò comunica col senso senza avere fondamento e sicurezza di fede — e si deve rivolgerli a ciò che non si vede e non appartiene al senso, bensì allo spirito; il quale, non cadendo in immagine sensibile, è ciò che la conduce all’unione nella fede, che, abbiamo detto, ne è il mezzo proprio. Così queste visioni gioveranno sostanzialmente all’anima per la fede, se essa ne saprà ben negare il sensibile e l’intelligibile, respingendole, e se userà bene del fine che Dio si prefigge nel concedergliele; infatti, come abbiamo detto a proposito di quelle corporee, Dio non le concede affinché l’anima le desideri e vi ponga il suo attaccamento. 13. Ma ora nasce un dubbio: se è vero che Dio dà all’anima visioni soprannaturali non perché ella ne desideri, né vi s’attacchi o dia loro importanza, perché mai gliele dà, dal momento che l’anima a causa loro può cadere in molti errori e pericoli, o almeno negli inconvenienti dei quali qui s’è 206

scritto, che ne ostacolano il progredire, tanto più che Dio potrebbe comunicare all’anima spiritualmente e sostanzialmente ciò che le comunica mediante i sensi con quelle visioni e forme sensibili? 14. Risponderemo a questo dubbio nel capitolo seguente; e si tratta di dottrina ricca e molto necessaria, a mio parere, tanto per gli spirituali quanto per chi insegni loro. Vi si insegna infatti il modo e il fine che Dio si prefigge in queste visioni e forme; e i molti che non li conoscono non sanno governarsi, né, rispetto ad esse, dirigere se stessi, né gli altri, all’unione. Costoro pensano che, per il fatto stesso che le riconoscono come vere e da Dio, sia bene ammetterle e assicurarvisi, non badando che l’anima potrà trovarvi spirito di proprietà e attaccamento e impaccio come nelle cose del mondo, se non sappia rinunciare ad esse come alle cose del mondo. Così ritengono che sia bene ammetterne alcune e riprovarne altre, mettendo se stessi e le anime in grande travaglio e pericolo riguardo al discernere quali siano vere e quali false. Ma Dio non comanda loro di mettersi in questo travaglio, né di mettere in questo pericolo e in queste dispute le anime semplici e ingenue; hanno infatti una dottrina sana e sicura, la fede, in cui progredire. 15. Ma progredire nella fede non è possibile se non si chiudono gli occhi a ciò che appartiene al senso e all’intelligenza chiara e particolare. Perciò San Pietro, pur essendo tanto certo della visione di gloria in cui vide Cristo nella trasfigurazione — dopo averlo raccontato nella sua seconda lettera canonica —, non volle che la si prendesse come principale testimonianza per la fermezza della fede, ma, indirizzando ad essa, disse: Et habemus firmiorem propheticum sermonem: cui benefacitis attendentes, quasi lucernae lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat, ecc.; che significa: «E abbiamo una testimonianza più ferma che non questa visione del Tabor, cioè i detti e le parole dei profeti che rendono testimonianza a Cristo, ai quali fate bene 207

a guardare come a lume che illumina in luogo oscuro» (2 Piet. 1, 19). Se ben osserviamo, troveremo in questo paragone la dottrina che stiamo insegnando; dire infatti che guardiamo alla fede di cui parlarono i profeti come a lume che risplende in luogo oscuro significa indicarci di rimanere allo scuro, chiudendo gli occhi a tutti gli altri lumi, e significa che in questa tenebra la sola fede, la quale è essa pure oscura, è il lume al quale dobbiamo affidarci. Infatti, se vogliamo appoggiarci ad altri lumi di conoscenze chiare e distinte, non ci appoggeremo più a quello oscuro della fede, ed essa cesserà di illuminarci nel luogo oscuro di cui dice San Pietro; e questo luogo, che qui significa l’intelletto, ed è il candeliere in cui si colloca questa candela della fede, deve restare allo scuro, fino a che nell’altra vita non le albeggi il giorno della chiara, visione di Dio, e in essa quello della trasformazione e unione con Dio, verso la quale l’anima procede. CAPITOLO 17 Si spiega il fine e il modo che Dio ha nel comunicare alle anime i beni spirituali per mezzo dei sensi, e si risponde al dubbio cui s’è accennato. 1. Molto ci sarebbe da dire intorno al fine e al modo che Dio tiene nel dare queste visioni, per innalzare un’anima dalla sua bassezza alla divina, unione, e di questo trattano tutti i libri spirituali, e anche nel nostro trattato l’intento è far capire questo. Ma in questo capitolo dirò solo quanto può bastare per sciogliere il nostro dubbio, che era il seguente: poiché, abbiamo detto, in queste visioni soprannaturali c’è tanto pericolo e impedimento al progredire, perché mai Dio, che è sapientissimo e desideroso d’allontanare dalle anime inciampi e lacci, ne offre e comunica loro? 2. Per rispondere conviene anzitutto porre tre fondamenti: Il primo è da San Paolo, che dice ad Romanos: Quae 208

autem sunt, a Deo ordinata sunt; che vuol dire: «Le opere che sono state fatte, sono state ordinate da Dio» (13, 1). Il secondo è dallo Spirito Santo che dice nel libro della Sapienza: Disponit omnia suaviter (8, 1); che significa: La Sapienza di Dio, sebbene arrivi dall’uno all’altro fine, cioè da un estremo all’altro, dispone tutte le cose con soavità. Il terzo è dai teologi, i quali affermano che omnia movet secundum modum eorum; cioè: «Dio muove tutte le cose secondo il loro modo»13. 3. Dunque, secondo questi fondamenti, è chiaro che Dio, per muovere l’anima ed elevarla dal limite estremo della sua bassezza all’altro limite estremo della sua altezza nella divina unione, deve farlo ordinatamente e soavemente e secondo il modo dell’anima stessa. E siccome l’ordine del conoscere proprio dell’anima è mediante le forme e le immagini delle cose create, e il modo del suo conoscere e sapere è mediante i sensi, ne consegue che Dio, per elevare soavemente l’anima alla somma conoscenza, deve cominciare a toccarla dal basso ed estremo limite dei sensi, per elevarla così, secondo il suo modo di operare, fino all’altro limite della sapienza spirituale, che non cade sotto i sensi. Perciò la conduce al sommo spirito di Dio anzitutto istruendola mediante forme, immagini e vie sensibili, secondo il suo modo di intendere, ora naturali ora soprannaturali, e mediante discorsi. 4. E questa è la ragione per la quale Dio le dà visioni e forme e immagini, e le altre nozioni spirituali sensibili e intelligibili; non perché Dio non voglia darle subito, nel primo atto, la sapienza dello spirito. Ciò sarebbe possibile se i due estremi, quali sono l’umano e il divino, il senso e lo spirito, potessero ordinariamente convenire ed unirsi con un solo atto, senza che prima fossero intervenuti molti altri atti dispositivi, come gli agenti naturali, convenendo tra di loro in modo ordinato e dolce, gli uni come fondamento e disposizione per gli altri, in modo che i primi servano ai 209

secondi e i secondi ai terzi, e via dicendo. Così Dio va perfezionando l’uomo secondo i modi dell’uomo stesso, da ciò che è più basso ed esterno a ciò che è più alto e interiore. Perciò anzitutto perfeziona il suo senso corporeo, inducendolo ad usare oggetti naturali esterni buoni e perfetti, come ascoltare sermoni, messe, guardare cose sante, mortificare il gusto nel cibo, macerare il tatto con penitenze e santo rigore. E quando i sensi sono meglio disposti, per confermarli nel bene, Dio suole perfezionarli ancora, con grazie e doni soprannaturali, offrendo all’uomo comunicazioni soprannaturali, come visioni corporee di santi o di cose sante, profumi soavissimi e locuzioni e, nel tatto, grandissimo diletto; e con tutto questo il senso si conferma molto nella virtù e si libera dell’appetito degli oggetti cattivi. Oltre a ciò, Dio insieme va perfezionando e abituando al bene i sensi corporei interni di cui stiamo parlando, come l’immaginazione e la fantasia, con considerazioni, meditazioni e discorsi santi, in tal modo istruendo lo spirito. Così, predisposti i sensi naturali interni con questo esercizio naturale, Dio suole ancor più illuminarli e spiritualizzarli con visioni soprannaturali, cioè quelle che qui chiamiamo immaginarie, nelle quali, abbiamo detto, insieme trae molto profitto lo spirito, in quanto esso va poco a poco dirozzandosi e riformandosi, sia con le une che con le altre. E in questo modo Dio va innalzando l’anima di grado in grado fino a quello più interiore. Ma non è sempre necessario osservare con tanta esattezza l’ordine di questa successione; perché a volte Dio fa una cosa senza l’altra, o il più interiore con il meno interiore, o tutt’insieme, ossia come Dio giudica più conveniente per ciascuna anima e secondo le grazie che le vuol concedere. Ma la via ordinaria è conforme a quanto s’è detto. 5. In questo modo, dunque, Dio istruisce e rende spirituale l’anima, cominciando col comunicarle lo spirituale dalle cose esteriori, palpabili e convenienti al senso, secondo 210

la piccolezza e la poca capacità dell’anima stessa, affinché, attraverso la corteccia delle cose sensibili, di per sé buone, lo spirito venga compiendo atti particolari e ricevendo tanti bocconi di comunicazione spirituale, in modo che se ne faccia abito spirituale e che giunga ad attuare la propria sostanza, che è aliena da ogni senso; e a questo stato, come abbiamo detto, l’anima non può giungere se non poco a poco, secondo il suo modo, attraverso il senso, al quale è sempre stata attaccata. Così, nella misura in cui va sempre più avvicinandosi allo spirito, nel suo rapporto con Dio, l’anima va sempre più spogliandosi e vuotandosi delle vie del senso, ossia di quelle del discorso e della meditazione immaginativa. Perciò, quando giungerà perfettamente al tratto spirituale con Dio, avrà dovuto necessariamente liberarsi da tutto ciò che in rapporto a Dio può cadere nel senso; infatti, quanto più una cosa va avvicinandosi a un estremo, tanto più s’allontana e aliena dall’altro, e quando si sarà perfettamente avvicinata ad un estremo, si sarà anche perfettamente allontanata dall’altro. In proposito si usa comunemente questa massima spirituale: Gustato spiritu, desipit om-nis caro14; che vuol dire: «Quando si sia pienamente ricevuto il gusto» e il sapore «dello spirito, tutto ciò che è carne riesce insipido»; cioè: tutte le vie della carne, per le quali si intendono tutti i rapporti del senso con ciò che è spirituale, né giovano né danno gusto. Ed è chiaro: perché, se è spirito, non cade nel senso, e se è qualcosa che il senso può comprendere, non è più puro spirito. Infatti, come abbiamo già spiegato, quanto più il senso e l’apprensione naturale possono conoscere qualcosa, tanto meno essa partecipa dello spirito e del soprannaturale. 6. Pertanto, lo spirito che sia ormai perfetto non tiene in conto il senso né riceve nulla per suo tramite; né principalmente se ne serve, né gli occorre servirsene, in relazione a Dio, come invece accadeva prima, quando non era ancora cresciuto come spirito. 211

La pagina iniziale della Subida del Monte Carmelo.

È quanto insegna quel passo di San Paolo ai Corinti, dove si dice: Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli; che significa: «Quando ancora ero Piccolino, parlavo da piccolino, conoscevo da piccolino, pensavo da piccolino; ma quando 212

divenni uomo lasciai le cose che erano da piccolino» (I, 13, 11). Abbiamo ormai spiegato come le cose del senso e la conoscenza che lo spirito può ricavarne siano un esercizio da piccolino. Così, se l’anima volesse sempre restarvi attaccata e non distogliersene, non cesserebbe mai d’essere un bimbo piccolino, e pariarebbe sempre di Dio come un piccolino, e conoscerebbe Dio come un piccolino, e penserebbe Dio come un piccolino; perché, attaccandosi alla corteccia del senso, che è il piccolino, non perverrebbe mai alla sostanza dello spirito, che è l’uomo perfetto. Per crescere, dunque, l’anima non deve voler ammettere tali rivelazioni, anche se Dio gliele offra, così come il bambino deve lasciare il petto materno per assuefare il suo palato a cibo più sostanzioso e robusto. 7. Perciò ora mi chiederete: non sarà necessario che l’anima, quando è come un piccolino, desideri le cose del senso, e le lasci solo quando è più grande, così come il bimbo deve desiderare il petto materno per nutrirsi, finché non sia cresciuto tanto da poterlo lasciare? Rispondo che, quanto alla meditazione e al discorso naturale in cui l’anima comincia a cercare Dio, è vero che non deve lasciare il petto del senso per sostentarvisi, finché essa non giunga al momento e al tempo in cui possa lasciarlo, cioè quando Dio pone l’anima nello stato più perfetto della contemplazione, della quale abbiamo trattato nel capitolo tredicesimo di questo libro. Ma quando si tratta di visioni immaginative o di altre percezioni soprannaturali che possono cadere nel senso indipendentemente dall’arbitrio dell’uomo, dico che, quale che sia il tempo e il momento, e sia l’anima in uno stato perfetto o meno perfetto, essa non deve volerle ammettere, anche se provengono da Dio, per due ragioni. La prima è che Dio, come abbiamo detto, produce nell’anima il suo effetto senza che essa possa impedirlo, sebbene l’anima possa impedire la visione, e di fatto frequentemente l’impedisca. Per conseguenza, l’effetto che 213

doveva causare nell’anima si comunica ad essa molto più sostanzialmente, quantunque in modo diverso; infatti, come abbiamo detto, l’anima per sé non può essere d’impedimento ai beni che Dio voglia comunicarle, se non per qualche sua imperfezione o per spirito di proprietà. Ma nel rinunciare a queste cose con umiltà e diffidenza di sé, non c’è nessuna imperfezione, né spirito di proprietà. La seconda è che occorre liberarsi dal pericolo e dal travaglio connessi con il discernere le visioni cattive da quelle buone e con il riconoscere se si tratti di un angelo di luce o di tenebre; infatti in queste operazioni non si ha nessun profìtto, ma si perde tempo, e s’intralcia l’anima, e le si danno occasioni di molte imperfezioni; e non la si fa progredire, in quanto non la si pone nella situazione necessaria, liberandola dalle minuzie delle apprensioni e delle conoscenze particolari, secondo quanto s’è detto a proposito delle visioni corporee, mentre delle altre si dirà più avanti. 8. Ci si persuada dunque che se nostro Signore non dovesse condurre l’anima secondo il modo dell’anima stessa, come ora diremo, mai le comunicherebbe l’abbondanza del suo spirito per canali tanto angusti quali sono quelli delle forme e delle figure e delle cognizioni particolari, per mezzo delle quali nutre l’anima a briciole; onde David disse: Mittit crystallum suum sicut buccellas (Sal. 147, 17). Che significa: «Comunica alle anime la sua sapienza come a bocconi». E c’è molto da dolersi che, avendo l’anima una capacità infinita, si vada nutrendola con bocconi sensibili, a causa della pochezza dello spirito e della sua scarsa sensibilità. Perciò questa scarsa disposizione e inettitudine a ricevere lo spirito appenava anche San Paolo, quando, scrivendo ai Corinti, disse: «Fratelli, quando venni da voi non potei parlarvi come a spirituali, ma come a carnali, poiché non potevate ricevere lo spirito, e nemmeno ora lo potete». Tamquam parvulisin Christo lac potum vobis dedi, non escam; cioè: «Come a piccolini in Cristo vi detti da bere del 214

latte, non da mangiare cibo solido» (I, 3, 1-2). 9. Occorre dunque sapere che l’anima non deve fermare il suo sguardo su quella corteccia di figure ed oggetti che le si pongono dinanzi soprannaturalmente: sia che riguardino il senso esterno — come nel caso di locuzioni e di parole che si presentino all’udito, e di visioni di santi e di meravigliosi splendori che si presentino agli occhi, e di profumi alle narici, e di sapori e soavità al palato, e di altre delizie al tatto: e tutto questo suole provenire dallo spirito ed è molto frequente negli spirituali —; e sia che riguardino le visioni del senso interno, cioè quelle immaginative: l’anima non deve fermarvi lo sguardo, anzi deve rinunziare a tutte. Invece deve fissare lo sguardo solo sul buono spirito che tutto ciò produce, procurando di conservarlo nel praticare quanto riguarda il servizio di Dio e nell’esercitarvisi ordinatamente, senza prestare attenzione a quelle rappresentazioni e senza cercare alcun gusto sensibile. Così di queste cose si prende solo ciò che Dio intende e vuole, cioè lo spirito di devozione, poiché egli non ce le dà per un altro fine principale: e si lascia invece tutto quanto egli non darebbe se fosse possibile riceverle nello spirito, come abbiamo detto, senza l’esercizio e l’apprensione del senso. CAPITOLO 18 Tratta del danno che alcuni maestri spirituali possono arrecare alle anime non guidandole con un buon metodo riguardo a tali visioni. Si mostra anche come si possa restarne ingannati, sebbene provengano da Dio. 1. In questa materia di visioni non possiamo essere brevi quanto vorremmo, per l’ampiezza di ciò che c’è da dire in proposito. Sebbene in sostanza sia stato detto tutto ciò che è necessario per far intendere allo spirituale come ci si debba regolare riguardo a tali visioni, e al maestro che guida le 215

anime quale metodo debba usare in proposito con i discepoli, non sarà inopportuno determinare ulteriormente questa dottrina e chiarire meglio i danni che possono derivare, sia alle anime spirituali che ai maestri che le dirigono, quando siano troppo creduli nel confronti di tali visioni, anche quando provengano da Dio. 2. La ragione che mi ha indotto a diffondermi alquanto in quest’argomento è la poca discrezione che mi è capitato di vedere a questo proposito in alcuni maestri spirituali; i quali, ritenendosi sicuri di tali apprensioni soprannaturali, in quanto le avevano riconosciute buone e provenienti da Dio, caddero in molti errori e confusioni, essi e i loro discepoli, compiendosi in loro la sentenza del nostro Salvatore che dice: Si caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt (Mt. 15, 14); che significa: «Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadono in una fossa». E non dice cadranno, ma cadono; infatti non è necessario aspettare che cadano a causa di un errore, in quanto è già un errore il fatto che osino governarsi l’un l’altro, per cui, quanto meno, cadono anzitutto in questo; poiché ve ne sono alcuni che, nei confronti delle anime che ricevono tali visioni, usano modi e metodi tali da farle errare, o facendovele inciampare, o non conducendole per le vie dell’umiltà, e invece aiutandole a riporvi una qualche attenzione; di conseguenza le anime restano senza vero spirito di fede, perché essi con le edificano nella fede, ma si mettono a fare grandi discorsi su quei fenomeni. In tal modo i maestri spirituali mostrano di tenerli in gran conto e di conseguenza le anime vi s’attaccano e vi restano prese, anziché edificarsi nella fede, restando vuote e nude e distaccate da tutti quei fenomeni, per volare alle altezze della oscura fede. E tutto ciò nasce dal comportamento e dal linguaggio che intorno a tali fenomeni l’anima recepisce dal suo maestro; dimodoché, non si sa come, facilissimamente se ne insinua in lei una grande considerazione, senza che possa fare altrimenti; così essa distoglie lo sguardo dall’abisso della fede. 216

3. Dev’essere questa la causa delle tante facilità con cui si lascia che l’anima resti presa nelle visioni; trattandosi infatti di cose riguardanti i sensi, alle quali è naturalmente inclinata, essendo già allettata e disposta dall’apprensione di cose distinte e sensibili, le basta vedere nel suo confessore o in altra persona una qualche stima e apprezzamento di tali cose, non solo per averne anche lei, ma per ingolosirsene l’appetito, senza nemmeno accorgersene, e per nutrirsene, inclinarvisi ed attaccarvisi sempre di più. Ne scaturiscono molte imperfezioni, se non altro perché l’anima non resta più tanto umile, pensando che quelle visioni abbiano una qualche importanza e qualcosa di buono, e che Dio le approvi, per cui va contenta e piuttosto soddisfatta di sé, il che è contro l’umiltà. E poi il demonio, segretamente, senza ch’essa se ne accorga, le va accrescendo questi sentimenti e comincia a indurla a giudicare gli altri a seconda che abbiano o no tali visioni e che siano o no vere, il che è contrario alla santa semplicità e alla solitudine spirituale. 4. Ma in tale comportamento, oltre a questi danni — come il non crescere nella fede se non ci se ne libera, e come altri non altrettanto tangibili e conoscibili —, ve ne sono di ancor più sottili e odiosi agli occhi divini, perché impediscono di giungere alla totale nudità; ma ora lasciamoli da parte, finché non arriveremo a trattare del vizio della gola spirituale e di altri sei vizi, allorché, con l’aiuto di Dio, si tratteranno molte cose relative a queste sottili e delicate macchie che s’attaccano allo spirito, se non si sappia guidarlo in nudità. 5. Diciamo ora qualcosa di questo metodo che alcuni confessori usano con le anime senza istruirle bene. E certo vorrei saperlo dire, perché ritengo sia difficile far capire come lo spirito del discepolo, occultamente e segretamente, si sviluppi in conformità con quello del suo padre spirituale. Certo mi stanca molto questa materia tanto prolissa, perché mi sembra che non si possa chiarire una cosa senza far 217

capire anche l’altra, in quando, trattandosi di cose dello spirito, le une corrispondono alle altre. 6. Ma, per dire quanto basta in proposito, mi sembra e così è, che se il padre spirituale è incline allo spirito delle rivelazioni in modo da stimarle e da gustarle e riempirsene l’anima, a meno che il discepolo non sia più avanti di lui, non potrà non imprimervi, anche senz’accorgersene, quel suo gusto e atteggiamento. Ma, se anche fosse più avanti, potrà, ugualmente riceverne grande danno se persevererà con lui, perché dall’inclinazione e dal gusto che nutre per quelle visioni nascerà nel padre spirituale un certo tipo di stima di tali fenomeni, che, se non sarà più che attento, non potrà non mostrare o far sentire alle altre persone. E se l’altra persona ha la stessa disposizione di spirito, per quanto capisco non potrà non esserci una comunicazione reciproca di molte esperienze e di stima di tali cose. 7. Ma non andiamo ora tanto per il sottile, bensì parliamo del caso in cui il confessore, abbia o meno inclinazione per le visioni, non abbia però la prudenza nel liberare l’anima del discepolo e nello spogliarne l’appetito, ma anzi si metta a discorrerne con lui, imperniando sulle visioni la parte principale del discorso spirituale, dandogli i criteri, di cui abbiamo parlato, per distinguere quelle buone da quelle cattive. Certamente è bene distinguerle, ma non c’è ragione di metter l’anima in questo travaglio e timore e pericolo; infatti, non dando loro importanza e negandole, si evita tutto questo e si fa ciò che si deve. E non è tutto, poiché i confessori stessi, quando vedono che queste anime ricevono da Dio quelle visioni, chiedono loro di supplicare Dio affinché riveli o dica queste o quest’altre cose che riguardino loro stessi o altre persone; e le anime, stolte, lo fanno, pensando sia lecito voler conoscerle per questa via. Infatti pensano che, se Dio vuole rivelare o dire qualcosa per via soprannaturale, come vuole e per il fine che vuole, sia lecito anche volere che lo riveli a noi 218

e che noi glielo chiediamo. 8. E se accade che Dio riveli loro qualcosa che abbiano chiesto, si rassicurano ancora di più, pensando che ciò piaccia a Dio e che egli lo voglia, dal momento che risponde; ma, in verità, né a Dio piace, né lo vuole; però costoro spesso operano o credono secondo quanto è stato loro rivelato o risposto, perché essendo affezionati a questo modo di trattare con Dio, vi si dispongono molto volentieri, accomodandovi la volontà. Naturalmente vi si compiacciono e vi s’accomodano secondo il loro modo di intendere; ma spesso sbagliano di molto e vedono allora che le cose non vanno come avevano creduto e se ne meravigliano, e subito nascono dubbi se tutto questo provenga o no da Dio, dal momento che non vedono accadere le cose in quel certo modo. Erano anzitutto persuasi di due cose; primo, che la visione venisse da Dio, in quanto s’imprimeva tanto fortemente in loro, mentre invece, come abbiamo detto, poteva essere una loro naturale inclinazione a causare quell’impressione; secondo, che, provenendo essa da Dio, le cose dovessero svolgersi nel modo in cui essi intendevano o pensavano. 9. E qui c’è un grande inganno, perché le rivelazioni e le locuzioni di Dio non sempre si avverano come gli uomini le intendono o come suonano in sé. E così non si deve esserne sicuri, né credervi ad occhi chiusi, anche quando le si sappiano rivelazioni o risposte o parole di Dio; poiché, quand’anche siano certe e vere in sé, non sempre lo sono quanto alle loro cause e alla nostra maniera di intendere; il che dimostreremo nel capitolo seguente. Ed anche diremo e dimostreremo come, sebbene talvolta Dio risponda per via soprannaturale a quanto gli si chiede, tuttavia talora non gli sia gradito. CAPITOLO 19 219

Si spiega e dimostra come, sebbene le visioni e le locuzioni che provengono da Dio siano vere, possiamo ingannarcene. Lo si prova con passi della divina Scrittura. 1. Per due ragioni diciamo che, sebbene le visioni e le locuzioni che provengono da Dio siano in sé sempre vere e certe, tuttavia non lo sono sempre per noi. Primo, per il nostro modo difettoso d’intenderle; secondo, perché le loro cause talvolta sono variabili. Dimostreremo queste due ragioni con alcune testimonianze divine. Quanto alla prima, è chiaro che non sempre le visioni si avverano così come suonano al nostro modo d’intendere. La ragione di ciò è che, essendo Iddio immenso e profondo, nelle sue profezie e locuzioni e rivelazioni suole racchiudere vie, concetti e intelligenze molto diverse dai propositi e dai modi in cui comunemente possiamo intenderle, e sono tanto più vere e certe quanto più a noi sembra il contrario. Possiamo riscontrarlo in ogni pagina della sacra Scrittura; dove a molti, nell’antico Testamento, accade di non vedere avverate numerose profezie e locuzioni di Dio così come essi s’attendevano, in quanto le avevano intese in tutt’altro modo e troppo alla lettera. Lo si vedrà chiaro da queste testimonianze. 2. Nel Genesi Dio disse ad Abramo, dopo averlo condotto nella terra dei Cananei: Tibi dabo terram hanc; che vuol dire: «Ti darò questa terra» (15, 7). E siccome glielo disse molte volte e Abramo era ormai molto vecchio e ancora non gliela dava, quando Dio glielo disse un’altra volta Abramo gli rispose: Domine, unde scire possum quod possessurus sum eam? Cioè: «Signore, da che cosa o da quale segno potrò capire che dovrò possederla?» (Gn. 15, 8). Allora Dio gli rivelò che non lui in persona, ma i suoi figli, dopo quattrocento anni, l’avrebbero posseduta (Gn. 15, 13-16). Abramo così comprese perfettamente la promessa, che in sé era verissima, in quanto che Dio desse quella terra ai suoi figli per amor suo era lo stesso che darla a lui. Abramo dunque 220

s’ingannava a causa del proprio modo d’intendere. Perciò, se avesse agito in conformità al proprio modo di intendere la profezia, avrebbe potuto sbagliare molto, perché Dio non si riferiva a quel tempo, e coloro che l’avessero visto morire senza che egli avesse ricevuto quella terra, dopo aver udito dire che Dio gliel’avrebbe data, sarebbero rimasti confusi, nella persuasione che quanto avevano udito fosse falso. 3. Anche a suo nipote Giacobbe, nel tempo in cui suo figlio Giuseppe, su suo ordine, si recava da Canaan in Egitto, mentre era in cammino, Dio apparendogli disse: Iacob, Iacob, noli timere, descende in Aegyptum, quia in gentem magnam faciam te ibi. Ego descendam tecum illuc… Et inde adducam te revertentem; che vuol dire: «Giacobbe, non temere, scendi in Egitto, che io vi scenderò insieme con te, e quando ne tornerai via io ti condurrò guidandoti» (Gn. 46, 2-4). Il che non avvenne come suona al nostro modo di intendere, poiché sappiamo che il santo vecchio Giacobbe morì in Egitto (Gn. 49, 32) e non ne tornò vivo. Doveva invece compiersi nei suoi figli, che infatti Dio tolse di là dopo molti anni, essendo lui stesso la guida del loro cammino. Dunque è evidente che, chiunque avesse saputo di tale promessa di Dio a Giacobbe, avrebbe creduto con certezza che Giacobbe, come era entrato vivo e in persona in Egitto per ordine e aiuto di Dio, così senza dubbio, nella stessa forma e maniera, vivo e in persona, avrebbe potuto uscirne, perché Dio gli aveva promesso che ne sarebbe uscito e che l’avrebbe aiutato a farlo; e vedendolo invece morire in Egitto senza il compimento sperato, sarebbe rimasto molto ingannato e meravigliato. Così, sebbene la parola di Dio in sé sia sempre verissima, ci si sarebbe potuti ingannare molto nei suoi riguardi. 4. Anche nel libro dei Giudici leggiamo che, essendosi riunite tutte le tribù d’Israele per combattere contro la tribù di Beniamino, per punire una cattiva azione che vi s’era lasciata compiere, per la sola ragione che Dio aveva loro 221

indicato il capitano per la guerra, essi erano tanto sicuri della vittoria che, essendo stati vinti, e con ventiduemila morti, rimasero molto meravigliati (20, 1-21); e per tutto quel giorno piansero davanti a Dio, perché non conoscevano la causa della disfatta ed avevano inteso che invece la vittoria sarebbe stata loro. Chiesero perciò a Dio se dovessero o meno tornare a combatterli, ed egli rispose di tornare a combattere contro di loro. E già pensando d’avere stavolta la vittoria, si mossero con grande ardimento, ma tornarono vinti anche la seconda volta e con una perdita di altri diciottomila uomini (ivi, v. 2325). Rimasero perciò confusissimi e senza saper che fare, vedendo che rimanevano sempre vinti, sebbene Dio avesse loro ordinato di combattere, e per giunta fossero molto superiori ai nemici per numero e foza, in quanto quelli di Beniamino non erano più di venticinquemilasettecento, mentre essi erano quattrocentomila (ivi, v. 17). Così s’ingannavano a causa del proprio modo d’intendere, perché le parole di Dio non erano ingannevoli, in quanto non aveva detto loro che avrebbero vinto, ma solo che combattessero; infatti Dio, con queste sconfitte, volle castigarli di certe loro negligenze e presunzioni e in tal modo umiliarli. Ma quando, alla fine, rispose loro che avrebbero vinto, così fu (ivi, v. 28, 34-35, 43-46), anche se vinsero a prezzo di grande astuzia e fatica. 5. In questo e in molti altri modi accade che le anime s’ingannino riguardo alle locuzioni e alle rivelazioni da parte di Dio, in quanto le intendono alla lettera e superficialmente; infatti, come abbiamo già spiegato, l’intento principale di Dio è significare e comunicare lo spirito che vi è racchiuso e che è difficile ad intendersi: lo spirito è molto più grande e straordinario della lettera e al di fuori dei suoi limiti. Così, colui che si sarà attenuto alla lettera, o alla locuzione o forma o figura percepibile della visione, non potrà non errare molto e non trovarsi poi molto impacciato e confuso, per esservisi lasciato guidare dal senso, anziché fare spazio allo spirito, spogliandosi del senso. Littera enim occidit, spiritus autem 222

vivificat, come dice San Paolo; cioè: «La lettera uccide, mentre lo spirito dà vita» (2 Cor. 3, 6). Si deve dunque rinunziare alla lettera, in questo caso al senso, e restare allo scuro nella fede, cioè nello spirito, il quale non può essere compreso nel senso. 6. Perciò molti figli d’Israele, intendendo molto alla lettera le parole e le predizioni dei profeti e non avverandosi queste come essi speravano, cominciarono a tenerle in poco conto e a non credervi, al punto che cominciò a circolare pubblicamente tra loro un detto, quasi un proverbio, con il quale schernivano i profeti. Di esso si lamenta Isaia, riferendolo in questo modo: Quem docebit Dominus scientiam? et quem intelligere faciet auditum? ablactatos a lacte, avulsos ab uberibus. Quia manda, remanda, manda, remanda; exspecta, reexspecta, exspecta, reexspecta; modicum ibi, modicum ibi. In loquela enim labii et lingua altera loquetur ad populum istum; che vuol dire: «A chi Dio insegnerà la scienza? E a chi farà capire la sua profezia e la sua parola? Solo a coloro che già sono divezzati e staccati dal petto materno? Poiché tutti dicono — cioè intorno alle profezie —: prometti e torna a promettere, aspetta e torna ad aspettare e ancora aspetta e torna ad aspettare, un po’ qui un po’ lì; poiché in parole delle sue labbra e in altra lingua parlerà a questo popolo» (28, 9-11). Dove Isaia fa intendere chiaramente che costoro si burlavano delle profezie e ripetevano in ischerno questo proverbio: aspetta e torna ad aspettare; per far comprendere che non si sarebbero mai compiute, in quanto essi stavano attaccati alla lettera, cioè al latte dei bambini, e al senso, cioè al petto materno, cose entrambe contrarie alla grandezza della scienza dello spirito. Per questo dice: «A chi insegnerà la sapienza delle sue profezie? A chi farà comprendere la sua dottrina», se non a coloro che sono ormai «staccati dal latte» della lettera e «dal petto» del senso? Proprio perché costoro non lo intendono se non secondo questo latte, secondo la corteccia della lettera e secondo il petto del senso, essi 223

dicono: «Promette e torna a promettere, e ancora promette e torna a promettere, aspetta e torna ad aspettare ecc.». Infatti Dio deve parlare secondo la dottrina della sua bocca e non della loro, e in lingua diversa dalla loro. 7. Perciò qui non si deve badare al nostro senso e alla nostra lingua, sapendo che quella di Dio è diversa, cioè secondo il suo spirito, molto differente dal nostro intendere, e diffìcile. A tale punto che lo stesso Geremia, pur essendo profeta di Dio, vedendo i concetti e le parole di Dio tanto diversi dal senso comune degli uomini, talora sembra restarne abbagliato e sembra prendere le parti del popolo, dicendo: Heu, heu, heu, Domine, Deus, ergone decepisti populum istum et Jerusalem, dicens: Pax erit vobis et ecce pervenit gladius usque ad animam? Che vuol dire: «Ahi, ahi, ahi, Signore Iddio! hai forse ingannato questo popolo e Gerusalemme dicendo: Verrà su di voi la pace ed ecco invece che il coltello è entrato fino all’anima?» (4, 10). Ma la pace che Dio prometteva era quella che ci sarebbe stata tra Dio e l’uomo, per mezzo del Messia che avrebbe loro inviato, mentre essi intendevano la pace temporale. Perciò quando facevano guerre, o attraversavano travagli, pareva loro che Dio li ingannasse, in quanto accadeva il contrario di quanto speravano. E così dicevano, come anche dice Geremia: Exspectavimus pacem, et non est bonum; cioè: «Abbiamo aspettato la pace, ma non c’è pace» (8, 15). Così era impossibile che non s’ingannassero, in quanto si lasciavano guidare dal solo senso letterale. Chi infatti potrà non confondersi ed errare attenendosi alla lettera di quella profezia che David fa di Cristo — nel salmo 71 e in tutto ciò che vi dice, e in particolare dove dice —: Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum (v. 8); cioè: «Dominerà dall’uno all’altro mare e dal fiume fino ai confini della terra»; e vi dice anche: Liberabit pauperem a potenti, et pauperem cui non erat adiutor (ivi, 12); che significa: «Libererà il povero dal dominio del potente, il povero che non aveva chi lo aiutasse»; 224

chi dunque non potrà confondersi ed errare vedendo poi Cristo nascere in bassa condizione e vivere in povertà e morire in miseria, e vedendo che non solo non signoreggiò la terra temporalmente durante la sua vita, ma che si assoggettò a gente bassa, fino a morire sotto il potere di Ponzio Pilato, e che non solo non liberò temporalmente i suoi poveri discepoli dalle mani dei potenti, ma li lasciò uccidere e perseguitare a causa del suo nome? 8. Ma queste profezie si dovevano intendere spiritualmente in rapporto a Cristo, e in questo senso erano verissime, poiché Cristo non solo era signore della terra, ma anche del cielo, essendo Dio. E i poveri che lo avrebbero seguito non solo li avrebbe redenti e liberati dal potere del demonio, che era il potente contro il quale non avevano nessuno che li aiutasse, ma li avrebbe fatti eredi del regno dei cieli. Così Dio parlava di Cristo e dei suoi seguaci secondo ciò che è più importante, cioè secondo il regno eterno e la libertà eterna; essi invece intendevano a modo loro, secondo ciò che è meno importante e che Dio tiene in poco conto, cioè secondo il regno temporale e la libertà temporale, che davanti a Dio non sono né regno né libertà. Perciò, accecandosi con la bassezza della lettera e non intendendo il suo spirito e la sua verità, tolsero la vita al loro Dio e Signore, come dice San Paolo: Qui enim habitabant Ierusalem, et principes eius, hunc ignorantes, et voces prophetarum, quae per omne sabbatum leguntur, iudicantes impleverunt; che significa: «Coloro che abitavano in Gerusalemme e i suoi prìncipi, non sapendo chi egli fosse e non intendendo i detti dei profeti che si recitano ogni sabato, giudicandolo li adempirono» (Atti 13, 27). 9. E a tanto giunse questa difficoltà di intendere convenientemente le parole di Dio, che restarono ingannati persino i suoi stessi discepoli che l’avevano seguito; come accadde a quei due che, dopo la sua morte, se ne andavano 225

tristi e sfiduciati verso il villaggio di Emmaus, dicendo: Nos autem sperabamus quod ipseesset redempturus Israel; cioè: «Noi invece speravamo che egli avrebbe redento Israele» (Lc. 24, 21), anch’essi intendendo che si trattasse di redenzione e di dominio temporale. Cristo nostro Redentore, apparendo loro, li rimproverò come insipienti e tardi e duri di cuore nel credere alle cose che avevano detto i profeti (ivi, 25). E anche al momento della sua ascensione al cielo alcuni di costoro persistevano in quella durezza e gli chiesero: Domine, si in tempore hoc restitues regnum Israel? cioè: «Signore, dicci se in questo tempo ristabilirai il regno d’Israele» (Atti 1, 6). Lo Spirito Santo fa dire molte cose, alle quali dà un senso diverso da quello che gli uomini intendono, come si può vedere nelle parole che fece dire a Caifa riguardo a Cristo: «Che conveniva che morisse un solo uomo, affinché non perisse tutta la nazione» (Gv. 11, 50). E questo non lo disse da sé, ma lo disse intendendo in un certo modo ciò che lo Spirito Santo intendeva in un altro. 10. È dunque evidente che, sebbene le parole e le rivelazioni provengano da Dio, non possiamo esserne sicuri, in quanto possiamo invece ingannarci molto e molto facilmente a causa del nostro modo di intenderle; infatti esse sono abisso e profondità di spirito, e voler limitarle a ciò che ne intendiamo e a ciò che il nostro senso può apprenderne non è più che voler stringere l’aria, e la polvere che la mano vi incontri: l’aria sfugge e non resta niente. 11. Il maestro spirituale deve dunque fare in modo che lo spirito del suo discepolo non si riduca a dar importanza a tutte le apprensioni soprannaturali, che non sono più che una polvere di spirito, altrimenti verrà a trovarsi solo con esse e senza nessuno spirito; allontanandolo invece da tutte le visioni e locuzioni, gli comandi di saper stare in libertà e in tenebra di fede, nella quale riceve la libertà e l’abbondanza dello spirito e di conseguenza la sapienza e l’intelligenza proprie delle parole di Dio. 226

Infatti è impossibile che l’uomo, se non è spirituale, possa giudicare delle cose di Dio, e possa intenderle ragionevolmente; perciò, quando le giudica secondo i sensi, non è spirituale, e di conseguenza non le intende nemmeno quando cadano sotto i sensi. Bene lo dice San Paolo: Animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei; stultitia enim est illi, et non potest intelligere, quia de spiritualibus examinatur. Spiritualis autem iudicat omnia; che significa: «L’uomo animale non percepisce le cose che sono dello spirito di Dio, perché per lui sono stoltezza e non può intenderle perché sono spirituali; lo spirituale invece giudica tutte le cose» (1 Cor. 2, 14-15). Per uomo animale s’intende qui colui il quale usa. solo il senso; per spirituale colui che non s’attacca al senso e non se ne lascia guidare; è perciò temerarietà osar trattare con Dio per via di apprensione soprannaturale nel senso, e consentire ad altri di farlo. 12. Per chiarire meglio, portiamo ora alcuni esempi. Poniamo il caso che vi sia un santo molto afflitto per le persecuzioni dei suoi nemici e che il Signore gli dica: Io ti libererò da tutti i tuoi nemici. Questa profezia può essere verissima anche nel caso in cui i suoi nemici finissero col prevalere ed egli morisse per loro mano. Così, chi la intendesse in senso temporale, resterebbe ingannato, in quanto Dio avrebbe parlato della vera e principale libertà e vittoria, cioè della salvezza, nella quale l’anima è libera e vittoriosa di tutti i suoi nemici molto più veramente e profondamente che se se ne fosse liberata quaggiù. Questa profezia sarebbe stata dunque molto più veritiera ed estesa di quanto l’uomo avrebbe potuto intenderla se l’avesse intesa in rapporto a questa vita. Infatti Dio con le sue parole si riferisce sempre al significato più importante e utile, invece l’uomo può intendere a proprio modo e proposito cio che è meno importante, restando così ingannato. Come vediamo in quella profezia di Cristo che David così annuncia nel salmo secondo: Reges eos in virga ferrea, et tamquam vas figuli confringes eos; cioè: «Reggerai tutte le nazioni con 227

verga di ferro e le infrangerai come un vaso di argilla» (Sal. 2, 9). Qui Dio parla secondo il dominio più importante e perfetto, cioè quello eterno, che egli compì; e non secondo il meno importante, cioè quello temporale, che mai si compì in Cristo in tutta la sua vita temporale. 13. Portiamo un altro esempio. Poniamo vi sia un’anima grandemente desiderosa d’esser martire; alla quale accada che Dio dica: «Tu sarai martire», dandole interiormente grande consolazione e fiducia che ciò debba verificarsi. Anche se le accadesse di non morire martire, la promessa resterebbe vera. Perché dunque non s’è avverata? Perché potrà compiersi e si compirà secondo ciò che essa ha di più importante ed essenziale; cioè Dio darà all’anima essenzialmente l’amore e il premio del martirio, donandole davvero ciò che essa formalmente desiderava e che le aveva promesso. Infatti il desiderio formale dell’anima non era quel certo modo di morire, bensì di rendere a Dio quel servizio di martire e come martire di esercitare l’amore per lui. Quel modo di morire, infatti, non vale niente senza questo amore; e questo amore e l’esercizio e il premio del martire vengono dati all’anima molto perfettamente con altri mezzi; in modo che, sebbene non muoia come martire, essa resta molto soddisfatta, perché Dio le ha dato ciò che desiderava. Tali e simili desideri, infatti, quando nascono da vivo amore, anche se non si compiono in quel modo determinato in cui le anime immaginano ed intendono, si compiranno in modo diverso e migliore e con maggior gloria di Dio di quanto non saprebbero desiderare. Perciò dice David: Desiderium pauperum exaudivit Dominus; cioè: «Il Signore esaudì il desiderio dei poveri» (Sal. 10, 17). La Sapienza divina dice nei Proverbi: Desiderium suum iustis dabitur: «Ai giusti sarà dato quanto desiderano» (10, 24). Pertanto, se vediamo che numerosi santi desiderano molte cose in particolare per Dio e il loro desiderio non si compì in questa vita, bisogna credere che il loro desiderio, essendo giusto e vero, si compì 228

perfettamente nell’altra. La promessa di Dio resterebbe dunque vera anche se la facesse loro dicendo che si compirà il loro desiderio in questa vita e poi ciò non si avverasse nella maniera che pensavano. 14. In questi e in altri modi le parole e le visioni di Dio possono essere vere e certe, e noi possiamo ingannarci nei loro riguardi non sapendone intendere la profondità, l’importanza, le intenzioni e i sensi che Dio vi pone. Perciò la cosa più opportuna e sicura è far sì che le anime rifuggano con prudenza da queste cose soprannaturali, abituandole, come abbiamo detto, alla purezza di spirito nella fede oscura, che è il mezzo dell’unione.

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CAPITOLO 20 Si prova con testimonianze della Sacra Scrittura come i detti e le parole di Dio, sebbene siano sempre vere, non sono sempre certe nelle loro cause. 1. Ci conviene ora argomentare intorno alla seconda causa per la quale le visioni e le parole che provengono da Dio, sebbene siano sempre vere in sé, non sempre sono certe per noi; ed è a motivo delle cause su cui esse si fondano. Infatti, molte volte Dio dice cose che sono fondate sulle creature, o su loro effetti, che sono variabili e possono mancare, per cui le parole che vi si fondano possono essere anch’esse variabili o mancare. Quando infatti una cosa dipende da un’altra, mancando l’una manca anche l’altra. Se Dio dicesse: «Entro un anno manderò quella piaga a questo regno» e la causa e il fondamento di questa minaccia fosse una certa offesa che in quel regno si facesse a Dio, se poi cessasse o cambiasse l’offesa, potrebbe cessare il castigo ma la minaccia resterebbe vera, perché era fondata su di una colpa attuale, perdurando la quale, il castigo si porterebbe ad esecuzione. 2. Vediamo che questo è accaduto alla città di Ninive, da parte di Dio, quando egli disse: Adhuc quadraginta diebus et Ninive subverteretur; che significa: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà rasa al suolo» (Giona 3, 4); il che non si compì, perché cessò la causa di questa minaccia, cioè i suoi peccati, dei quali fece penitenza; ma se non si fosse fatta penitenza, la minaccia si sarebbe compiuta. Leggiamo anche nel Libro terzo dei Re (21, 21) che, avendo il re Acab commesso un grandissimo peccato, Dio gli inviò come messaggero il nostro padre Elia, per mezzo del quale gli promise un grande castigo sulla sua persona, sulla sua casa e sul suo regno. Ma poiché Acab si strappò le vesti del dolore e si vestì di cilicio e digiunò e dormì su di un sacco e rimase triste e umiliato, gli mandò a dire per mezzo dello stesso profeta queste parole: Quia igitur humiliatus est mei causa, noninducam malum in 230

diebus eius, sed in diebus filii sui; che significa: «In quanto Acab si è umiliato per amor mio, non gli manderò il male che gli promisi durante i suoi giorni, ma durante quelli dei suoi figli» (3 Re 21, 27-29). Dove vediamo che, avendo Acab mutato il suo animo e il suo affetto, anche Dio cambiò la sua sentenza. 3. Da tutto ciò possiamo arguire, per quanto ci riguarda, che, sebbene Dio abbia rivelato o detto a un’anima qualcosa affermativamente, in bene o in male, che riguardi quell’anima o un’altra, ciò potrà mutarsi in più o in meno, o variare, o mancare del tutto, a seconda del mutare o del variare dell’affetto di quell’anima o della causa su cui Dio si fondava; perciò la parola di Dio non si compie come ci si attendeva e spesso senza che nessuno, eccetto Dio solo, sappia perché. Infatti Dio suole dire, insegnare e promettere molte cose non perché si intendano nell’atto in cui le manifesta, ma perché si comprendano più tardi, quando convenga essere illuminati 0 quando se ne consegua l’effetto; come vediamo che egli fece con i suoi discepoli, ai quali diceva molte parabole e sentenze, la cui sapienza essi non intesero finché giunse il tempo in cui dovevano predicarla, cioè finché discese su di loro lo Spirito Santo (Atti 2, 1-4), del quale Cristo aveva detto che avrebbe spiegato tutto ciò che egli aveva loro insegnato durante la sua vita (Gv. 14, 26). E Giovanni, parlando dell’entrata di Cristo in Gerusalemme, disse: Haec non cognoverunt discipuli eius primum: sed quando glorificatus est Jesus, tunc recordati sunt quia haec erant scripta de eo (12, 16). Perciò molte cose divine assai particolari possono passare nell’anima senza che né essa, né chi la dirige, le intendano, finché non ne sia giunto il tempo. 4. Nel primo libro dei Re leggiamo anche che Dio, adirato contro Eli, sacerdote d’Israele, perché non puniva i suoi figli per i loro peccati (2, 29-30), mandò Samuele a dirgli, tra le altre, queste parole: Loquens locutus sum, ut domus tua, et domus patris tui, ministraret in conspectu meo, usque in 231

sempiternum. Verumtamen absit hoc a me; intendendo così: «In verità prima d’ora dissi che la tua casa e la casa di tuo padre avrebbero esercitato per sempre il sacerdozio al mio cospetto. Però questo proposito è molto lontano da me e non farò così». E sebbene l’ufficio del sacerdozio si fondasse nel dare onore e gloria a Dio, e per questo fine Dio lo avesse promesso a suo padre per sempre, mancando in Eli lo zelo dell’onore di Dio — infatti, come Dio stesso si lamentò con lui per bocca altrui, onorava i propri figli più di Dio, nascondendone i peccati per non dispiacere loro —, perciò venne meno anche la promessa, che sarebbe stata per sempre se per sempre fosse perdurato in loro il buon servizio e lo zelo. Perciò non si deve pensare che le parole e le rivelazioni, per il fatto stesso che provengono da Dio, debbano infallibilmente avverarsi così come suonano, specialmente quando sono legate a cause umane, che possono variare o mutare o alterarsi. 5. E quando dipendano da tali cause Dio lo sa, ma non sempre lo manifesta, bensì qualche volta pronuncia le parole o annuncia la rivelazione, tacendo la condizione; come fece con i Niniviti, ai quali risolutamente disse che, passati quaranta giorni, sarebbero stati distrutti (Giona 3, 4). Altre volte la manifesta, come fece con Roboam, dicendogli: «Se tu osserverai i miei comandamenti come il mio servo David, anch’io sarò con te come con lui, e come al mio servo David ti edificherò la casa» (5 Re 11, 38). Però, sveli o no la condizione, non dobbiamo essere sicuri di capirne le parole, perché non possiamo comprendere le verità occulte di Dio e i molti sensi ch’esse racchiudono. Egli è in cielo e parla secondo le vie eterne; mentre noi, ciechi, siamo in terra, e non intendiamo se non le vie della carne e del tempo. Credo che per questo motivo il Saggio dicesse: «Dio è in cielo e tu in terra; pertanto nel parlare non dilungarti e non ardire» (Ecl. 5, 1).

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6. Forse mi si dirà: se non dobbiamo intenderlo, né intrometterci in tutto ciò, perché Dio ci comunica queste cose? Già ho detto che ogni cosa si capirà a suo tempo, secondo l’ordine di chi l’ha manifestata, e dovrà capirla colui che egli vorrà, e si vedrà che è conveniente così, poiché Dio non fa nulla senza causa e verità. Ma ci si persuada che non si può comprendere completamente il senso delle parole e delle cose di Dio, e non si ci si può risolvere in rapporto a ciò che paiono significare senza errare molto e senza restare alla fine molto confusi. Lo sapevano molto bene i profeti, che avevano consuetudine con la parola di Dio, e ai quali era di grande travaglio profetizzare al popolo, poiché, come abbiamo detto, molti vedevano che le profezie non s’avveravano alla lettera come erano state annunziate. Perciò, spesso, si deridevano e beffeggiavano i profeti; tanto che Geremia disse: «Tutto il giorno si burlano di me, tutti mi beffeggiano e disprezzano, perché già da molto alzo la voce contro la malvagità e prometto loro la distruzione, e la parola del Signore è diventata per me in ogni tempo obbrobrio e derisione. Così dissi: Non mi ricorderò più di lui né più parlerò in suo nome» (20, 7-9). E sebbene qui il santo profeta parlasse con rassegnazione e sotto figura di uomo debole, che non può sostenere le vie e i segreti di Dio, pure fa ben comprendere come le parole divine si compiano in modo tanto diverso dal comune senso in cui suonano. Per questo consideravano ingannatori i profeti di Dio, e costoro soffrivano tanto a causa delle profezie, che in altro luogo lo stesso Geremia disse: Formido et laqueus facta est nobis vaticinatio et contritio; che significa: «Timore e laccio sono diventate per noi la profezia e la contrizione di spirito» (Lam. 3, 47). 7. E occorre sapere che la causa per la quale Giona fuggì, allorché Dio lo mandò a predicare la distruzione di Ninive, fu questa: che egli conosceva la diversità delle parole di Dio in rapporto al modo di intenderle degli uomini e la varietà delle 233

cause di quelle parole; così, affinché non lo schernissero qualora non vedessero realizzarsi la sua profezia, andava fuggendo per non profetizzare (Giona 1, 1-3); così se ne stette ad aspettare per quaranta giorni fuori della città, per vedere se la sua profezia si avverasse (ivi, 4, 5); e poiché non si avverava, se ne afflisse grandemente, e disse al Signore: Obsecro, Domine, numquid non hoc est verbum meum, cum adhuc essem in terra mea? propter hoc praeoccupavi, tu fugerem in Tharsis; cioè: «Ti prego, Signore, non è forse questo che io dicevo quando ero nella mia terra? Per questo ti resistetti e andai fuggendomene a Tarsi». E il santo si adirò e chiese a Dio di togliergli la vita (ivi 4, 2-3). 8. C’è dunque da meravigliarsi se alcune cose che Dio dice e rivela alle anime non si verificano così come esse l’intendono? Infatti, poniamo il caso che Dio comunichi o manifesti all’anima tale o talaltro bene o male, per sé o per altri: se ciò si fonda su un certo affetto, o servizio, od offesa, che quell’anima o un’altra recano a Dio, in modo che quanto è stato detto si compia solo se vi perseverano, il compimento dunque non è certo, perché non è certo il perseverare. Pertanto non dobbiamo essere sicuri dei modi di intendere le rivelazioni, ma della fede. CAPITOLO 21 Si spiega come, sebbene Dio talvolta risponda a quanto gli si chiede, non gli piace che si usi questo comportamento. E si dimostra come, anche quando accondiscende e risponde, spesso si sdegni. 1. Alcuni spirituali giudicano tranquillamente per buona, come abbiano detto, la curiosità che a volte usano per cercar di sapere alcune cose per via soprannaturale; pensano infatti che questo sia un buon comportamento e che piaccia a Dio, in quanto egli talvolta risponde alle loro domande; invece è vero che, sebbene egli risponda, questo non è un buon comportamento, né piace a Dio, anzi gli dispiace; non solo, 234

ma spesso se ne sdegna e offende molto. La ragione di ciò è che a nessuna creatura è lecito uscir fuori dai termini nei quali Dio l’ha naturalmente ordinata per sua norma. All’uomo pose, per sua norma, termini naturali e razionali; dunque non è lecito uscirne, e voler indagare e raggiungere cose per via soprannaturale è uscire dai termini naturali; dunque non è cosa lecita e non piace a Dio, che è offeso da tutto ciò che è illecito. Ben lo sapeva il re Acab, poiché, sebbene Isaia da parte di Dio gli dicesse di chiedere qualche segno, non volle farlo dicendo: Non petam, et non tentabo Dominum; cioè: «Non chiederò né tenterò Dio» (Is. 7, 12). È infatti tentare Dio voler trattare con lui per vie straordinarie quali sono quelle soprannaturali. 2. Mi direte: Se è così e se non piace a Dio, perché alcune volte egli risponde? Dico che talvolta risponde il demonio. Ma quando è Dio che risponde, dico che è per la debolezza dell’anima che vuol andare per quella strada, affinché non si sconforti e non torni indietro, e non pensi che Dio sia irritato con lei per aver passato i limiti, o per qualche altro fine che Dio sa; a causa della debolezza di quell’anima, egli vede che conviene rispondere e accondiscendere per tale via. Così fa anche con molte anime fiacche e delicate, dando loro più sensibile gusto e soavità nel trattar con lui, come abbiamo detto; ma non perché voglia o gli piaccia che si tratti con lui in questo modo e per questa via. Ma, abbiamo detto, a ciascuno dà secondo il suo modo; poiché Dio è come la fonte, dalla quale ciascuno attinge secondo il recipiente che ha, e a volte egli lascia attingere mediante quei canali straordinari; ma non perciò ne consegue che sia lecito voler cogliere l’acqua in questo modo, se non lo voglia Dio, che può darla quando, come e a chi vuole, e per il fine che vuole, senza tuttavia che si possa pretenderlo. Così, come abbiamo detto, talvolta accondiscende all’appetito e alla preghiera di alcune anime che, essendo buone e semplici, non vuol lasciare inesaudite per non contristarle, ma non perché gli piaccia questo comportamento. 235

3. Lo si capirà meglio con questo paragone. Un padre di famiglia ha in tavola molti diversi cibi, alcuni migliori di altri. Un suo bimbo gli chiede un piatto, non il migliore, ma il primo che trova e gli chiede quello perché preferisce mangiare quello anziché un altro. E il padre, vedendo che il figlio non prenderà il cibo migliore che gli viene offerto, ma un altro che, solo fra tutti, gli piace, affinché non resti sconsolato senza nutrimento, con tristezza gli dà quello. Così vediamo che Dio fece con i figli d’Israele, quando gli chiesero un re: glielo diede di mala voglia, perché non era per loro un bene. Così disse a Samuele: Audi vocem populi in omnibus quae loquuntur tibi: non enim te abiecerunt, sed me; che significa: «Ascolta la voce di questo popolo e concedi loro il re che ti chiedono, poiché non hanno respinto te, ma me, affinché io non regni su di loro» (1 Re 8, 5-7). Allo stesso modo, Dio accondiscende ai desideri di alcune anime, concedendo loro ciò che non è il meglio, perché esse non vogliono o non sanno camminare che per questa via. Così alcune ottengono anche dolcezze o soavità di spirito o di senso, che Dio dà loro perché non saprebbero mangiare il cibo più forte e solido dei travagli della croce del suo Figlio, verso cui vorrebbe che tendessero la mano più che verso qualsiasi altra cosa. 4. Tuttavia ritengo che sia molto peggio voler sapere qualcosa per via soprannaturale che cercare altri gusti spirituali nel senso. Non vedo infatti come l’anima che li pretende — e questo vale anche per chi glielo ordini o glielo consenta — possa non peccare almeno venialmente, anche se abbia buoni fini e sia in grande perfezione; poiché non ve n’è necessità, essendoci la ragione naturale e la legge e la dottrina evangelica, grazie alle quali le anime possono sufficientemente regolarsi; né c’è diffi coltà o necessità che non possa risolversi e rimediarsi con questi mezzi più graditi a Dio e di maggior vantaggio per le anime. E tanto dobbiamo valerci della ragione e della dottrina evangelica che, se ci fossero comunicate, volendolo o no, 236

alcune cose soprannaturali, di esse dobbiamo accettare solo quanto rientri nella ragione e nella legge evangelica. E dobbiamo anche riceverlo non perché ci sia rivelato, ma perché è razionale, lasciando da parte ogni senso di rivelazione; e conviene allora guardare ed esaminare quella ragione molto più che se su di essa si facessero rivelazioni, in quanto il demonio, per ingannare, dice molto cose vere, e che accadranno, e conformi a ragione. 5. Ne consegue che in tutte le nostre necessità e travagli e difficoltà non ci resta mezzo migliore e più sicuro della preghiera e della speranza che Dio provvederà con i mezzi che vorrà. Questo consiglio ci viene dato dalla sacra Scrittura, dove leggiamo che il santo re Giosafatte, trovandosi molto afflitto, circondato da nemici, si mise in preghiera dicendo: Cum ignoremus quod facere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te (2 Cron. 20, 3-12); che significa: Quando mancano i mezzi e la ragione non arriva a provvedere nelle necessità, ci resta solo di volgere gli occhi a te affinché tu provveda come meglio t’aggrada. 6. E anche se Dio talvolta risponde a queste richieste, come si è spiegato, tuttavia se ne sdegna; e sarà bene dimostrarlo ancora con alcune testimonianze della sacra Scrittura. Nel I libro dei Re si dice che il re Saul chiese che gli parlasse il profeta Samuele che era morto, e tale profeta gli apparve (28, 11-14); ma Dio se n’adirò, essendosi Samuele così lamentato d’esservi stato indotto: Quare inquietasti me, ut suscitarer? cioè: «Perché m’hai inquietato facendomi resuscitare?» (ivi, 28, 15). Sappiamo anche che, sebbene Dio corrispondesse ai figli d’Israele, dando loro le carni che chiedevano, si sdegnò molto contro di loro; infatti li castigò immediatamente, mandando fuoco dal cielo, come si legge nel Pentateuco (Num. 11, 32-33), e come David narra dicendo: Adhuc escae eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei descendit super eos; che significa: «Avevano ancora il boccone in bocca quando l’ira di Dio scese 237

su di loro» (Sal. 77, 30-3I). Anche nei Numeri (22, 20-32) leggiamo che Dio s’adirò molto contro il profeta Balaam, perché andò dai Madianiti chiamatovi dal loro re Balac; eppure Dio stesso gli aveva detto d’andare, dal momento che egli voleva farlo e glielo aveva chiesto; ma, quando già era in cammino, gli apparve un angelo con la spada, che voleva ucciderlo, e gli disse: Perversa est via tua, mihique contraria: «Il tuo cammino è perverso e a me contrario»; e perciò voleva ucciderlo. 7. In questo e in altri modi Dio asseconda corrucciato gli appetiti dell’anima. Ne abbiamo molte testimonianze e molti esempi nella sacra Scrittura; ma non ne occorrono altri, data la chiarezza della cosa. Dico soltanto che è pericolosissimo, molto più di quanto io non sappia dire, voler trattare con Dio seguendo tali strade; e chi rimanesse affezionato a tali modi non potrà non errare molto e non restare spesso confuso. Chi poi vi abbia fatto attenzione m’intenderà per esperienza. Infatti, oltre alla difficoltà per riuscire a non sbagliare, quando le locuzioni e le visioni provengono da Dio, si badi che tra queste, ordinariamente, ve ne sono molte che provengono dal demonio; poiché questi normalmente si comporta con l’anima nello stesso modo in cui si comporta Dio, proponendole cose tanto simili a quelle che Dio le comunica, che a stento si possono distinguere, per insinuarvisi, come il lupo che entra nell’ovile con pelle di pecora. E siccome dice molte cose vere o che si manifestano vere e conformi a ragione, ci si può ingannare facilmente, pensando che risultano vere e che indovinano il futuro e dunque non possono provenire che da Dio. Non sanno infatti che, per chi abbia un chiaro lume naturale, è facilissimo conoscere le cose, o molte di esse, nelle loro cause, sia quelle che sono accadute, sia quelle che accadranno. E siccome il demonio ha questo lume tanto vivo può facilissimamente dedurre un certo effetto da una certa causa; sebbene non sempre accada così, poiché tutte le cause dipendono dalla 238

volontà di Dio. 8. Facciamo un esempio: il demonio sa che la disposizione della terra, dell’aria e la posizione del sole sono situati in modo e grado tali che necessariamente, a un determinato momento, la disposizione di questi elementi perverrà, secondo la posizione cui giungeranno, a contaminarsi e perciò a contaminare la gente con una pestilenza, e sa in quali parti essa sarà maggiore e in quali minore. Ecco qui la pestilenza conosciuta nella sua causa. Che c’è da stupirsi se il demonio la riveli a un’anima dicendole: «Entro un anno o sei mesi ci sarà una pestilenza» e poi risulti vero? Ed è profezia del demonio. Allo stesso modo può riconoscere i terremoti, vedendo che le sue viscere della terra si riem piono d’aria, sicché può dire: «In quel determinato tempo tremerà la terra»; e questa è conoscenza naturale, per la quale basta avere lo spirito libero dalle passioni dell’anima, come dice Boezio15: Si vis claro lumine cernere verum, gaudia pelle, timorem, spemque fugato, nec dolor adsit; cioè: «Se vuoi conoscere la verità con chiarezza naturale, rigetta da te la gioia e il timore, la speranza e il dolore». 9. Inoltre si possono conoscere nelle loro cause eventi e fatti soprannaturali nell’ordine della Provvidenza divina, la quale risponde con la più grande giustizia e certezza alle richieste delle cause buone o cattive dei figli degli uomini. Si può infatti conoscere naturalmente che una determinata persona o città o cosa giungerà ad una determinata necessità o punto, affinché Dio, secondo la sua provvidenza e giustizia, intervenga adeguatamente secondo la causa e in conformità alla sua natura, con castighi o con premi; per cui si possa dire: «In quel determinato tempo Dio ci darà questo, o farà questo, e certamente accadrà quest’altro». Il che santa Giuditta fece comprendere ad Oloferne, per persuaderlo che i figli d’Israele dovevano essere immancabilmente distrutti: prima gli raccontò dei loro molti peccati e miserie (Giudit. 11, 8-12) e poi disse: Et quoniam haec faciunt, certum est quod 239

in perditionem dabuntur; che significa: «Poiché fanno queste cose, certamente saranno distrutti» (ivi, 11, 15). E questo è conoscere il castigo nella causa, ed equivale ad affermare: è certo che tali peccati causeranno tali castighi di Dio, il quale è giustissimo; come dice la Sapienza divina: Per quae quis peccat, per haec et torquetur: «In quello o per quello con cui uno pecca sarà castigato» (Sap. 11, 17). 10. Il demonio può conoscere tali cose non solo naturalmente, ma anche per l’esperienza che ne ha, avendo visto Dio farne di simili, per cui può predirle e indovinarle. Anche il santo Tobia conobbe nella sua causa il castigo della città di Ninive (14, 6); perciò ne avvertì suo figlio dicendogli: «Attento, figlio, nell’ora in cui io e tua madre moriremo, lascia questa terra, perché verrà distrutta». Video enim quod iniquitas eius finem dabit: «Io vedo chiaramente che la sua stessa iniquità sarà causa del suo castigo, che consisterà nel suo finire distrutta» (14, 12-13). Tutto ciò potevano conoscerlo sia il demonio che Tobia, non solo deducendolo dalla malvagità della città, ma anche per esperienza, vedendo che i loro peccati erano quelli per i quali Dio distrusse il mondo con il diluvio (Gn. 6, 5-7), e quelli dei Sodomiti, che perirono per mezzo del fuoco (Gn. 19, 24-25); ma Tobia lo conosceva anche per spirito divino. 11. E il demonio può anche conoscere e predire che Pietro secondo natura non può vivere più di quei dati anni; e così per molte altre cose e in molti altri modi, di cui non si può finire di parlare, né spesso nemmeno cominciare, trattandosi di alcunché ove si insinuano intricatissime e sottilissime menzogne. E non è possibile liberarsene se non fuggendo da ogni rivelazione e visione e locuzione soprannaturale. Perciò Dio giustamente si sdegna con coloro che le ammettono, perché vede che esporsi a tale pericolo è temerarietà e presunzione e curiosità, principio di superbia, radice e fondamento di vanagloria, disprezzo delle cose di Dio e principio di numerosi mali in cui molti incorsero. 240

Costoro tanto sdegnarono Dio che di proposito li lasciò errare ed ingannarsi, permettendo che si oscurassero nello spirito e abbandonassero le vie ordinate della vita, per dar luogo alle loro vanità e fantasie; come dice Isaia: Dominus miscuit in medio eius spiritum vertiginis; che significa: «Il Signore mischiò in mezzo a loro uno spirito di rivolta e di confusione» (19, 14), che in buon volgare vuole dire «spirito d’intendere alla rovescia». E quanto dice Isaia torna perfettamente al nostro proposito, perché lo dice riferendosi a coloro che cercavano di sapere per via soprannaturale le cose che dovevano accadere. E perciò dice che Dio mescolò in mezzo a loro lo spirito d’intendere alla rovescia. Non perché Dio volesse che cadessero, né perché desse loro effettivamente lo spirito d’errore, ma perché essi volevano intromettersi in ciò a cui non potevano giungere naturalmente; per cui, sdegnato, lasciò che facessero spropositi, non dando loro il lume necessario a distinguere ciò in cui Dio non voleva s’intromettessero. Perciò dice che Dio mescolò quello spirito privativamente. In tal modo è Dio la causa di quel danno, ossia causa privativa, che consiste nel privarli della luce del suo aiuto, senza il quale necessariamente cadessero in errore. 12. In tale modo Dio consente al demonio di accecare e ingannare molti, avendolo costoro meritato per i loro peccati e la loro temerarietà. E il demonio lo può, e ottiene il suo effetto, perché costoro lo credono e ritengono spirito buono. A tal punto che, quand’anche siano ben persuasi che non lo sia, non si riesce a disingannarli, in quanto Dio permette che siano ormai imbevuti di spirito d’intendere alla rovescia; e leggiamo che ciò accadde ai profeti del re Acab, che Dio lasciò s’ingannassero a causa dello spirito di menzogna, dandone licenza al demonio, dicendogli: Decipies, et praevalebis; egredere, et fac ita; che significa: «Con le tue menzogne prevarrai su di loro e li ingannerai; esci e fa così» (3 Re 22, 22). E tanto poté sui profeti e sul re nell’ingannarli che essi non vollero credere al profeta Michea, il quale profetizzò loro 241

verità contrarie a quelle che gli altri avevano profetizzato. Ciò avvenne perché Dio lasciò che s’accecassero, nutrendo uno spirito di proprietà nel desiderare che certe cose accadessero e che Dio rispondesse conformemente ai loro appetiti e desideri; ed era questo il mezzo e la disposizione certissima perché Dio di proposito lasciasse che s’accecassero e s’ingannassero. 13. Così infatti profetizzò Ezechiele (14, 7-9) in nome di Dio, parlando contro chi vuole soddisfare le curiosità di conoscenza servendosi di Dio, secondo la volubilità del proprio spirito: «Quando un uomo siffatto verrà dal profeta per interrogarmi tramite lui, io, il Signore, gli risponderò da me stesso, e porrò il mio volto sdegnato dinanzi a quell’uomo, e dinanzi al profeta, se avesse sbagliato a rispondere a quanto gli era stato chiesto». Ego, Dominus, decepi prophetam illum; cioè: «Io, il Signore, ho tratto in inganno quel profeta». Il che si deve intendere nel senso che Dio non concorse con la sua grazia ad impedire che fosse ingannato; questo infatti vuol significare quando dice: «Io, il Signore, gli risponderò io stesso, sdegnato»; il che significa la privazione della sua grazia e del suo favore, onde necessariamente consegue l’essere ingannato a causa dell’abbandono divino. Allora è il demonio che s’affretta a rispondere secondo il gusto e l’appetito di quell’uomo, il quale, compiacendosi che le risposte e le comunicazioni siano come le voleva, si lascia gravemente ingannare. 14. Sembra che ci siamo un po’ allontanati dall’intento promesso nel titolo del capitolo, che era quello di provare come, sebbene Dio risponda, talora si sdegni. Ma, a ben vedere, tutto quanto abbiamo detto serve a provare ciò che intendevamo, in quanto risulta ormai chiarissimo che Dio non gradisce che si desiderino quelle visioni e che permette che vi si resti ingannati in molti modi. CAPITOLO 22 242

Si scioglie un dubbio: perché non sia lecito ora, nella legge di grazia, interrogare Dio per via soprannaturale, come si faceva sotto la legge vecchia. Lo si prova con una testimonianza di San Paolo. 1. Continuamente ci affiorano dei dubbi, per cui non possiamo procedere con la rapidità che desideravamo. Infatti, non appena li solleviamo, siamo necessariamente obbligati a risolverli, affinché la verità della dottrina risulti sempre chiara e in tutta la sua forza. Ma, sebbene tali dubbi rallentino un po’ il procedere, implicano sempre un bene, in quanto servono ad approfondire e a chiarire l’argomento che intendiamo trattare, il che accade anche a proposito di questo dubbio. 2. Nel capitolo precedente abbiamo detto come Dio non voglia che le anime desiderino ricevere per via soprannaturale particolari visioni o lucuzioni, ecc. D’altra parte, nello stesso capitolo, abbiamo visto, e dedotto dalle testimonianze della sacra Scrittura che vi abbiamo riferito, che nell’antica legge tale modo di trattare con Dio si usava ed era lecito; anzi, non solo lecito, dal momento che Dio stesso lo comandava. E quando non lo usavano, Dio li riprendeva, come si vede in Isaia, dove Dio rimprovera i figli d’Israele perché volevano scendere in Egitto senza prima averglielo chiesto: Et os meum non interrogasti (30, 2); cioè: «Non mi hai prima interrogato per sapere dalla mia stessa bocca che cosa convenisse». Anche in Giosuè leggiamo (9, 14) che, essendo i figli d’Israele ingannati dai Gabaoniti, lo Spirito Santo nota quest’errore, dicendo: Susceperunt ergo de cibariis eorum, et os Domini non interrogaverunt; che significa: «Presero dei loro cibi e non interrogarono la bocca del Signore». E così vediamo nella sacra Scrittura che Mosè interrogava sempre Dio; lo stesso faceva il re David e tutti i re d’Israele riguardo alle loro guerre e necessità, e così pure i sacerdoti e gli antichi profeti; e Dio rispondeva e parlava loro senza sdegnarsi, in quanto era cosa buona; ed è vero che, se 243

non l’avessero fatto, avrebbero fatto male. E perché allora, nella Legge Nuova, legge di grazia, non sarà come prima? 3. Bisogna rispondere che la causa principale per cui, nella Legge scritta, era lecito interrogare Dio ed era conveniente che i profeti e i sacerdoti desiderassero rivelazioni e visioni divine, era il fatto che non erano ancora ben fondate né la fede né la Legge evangelica; così era necessario che interrogassero Dio e che egli rispondesse loro, ora con parole, ora con visioni e rivelazioni, ora con figure e immagini, ora in molti altri modi d’espressione; infatti tutto ciò che rispondeva loro, e diceva e faceva e rivelava, erano misteri della nostra fede, o la riguardavano, o vi indirizzavano. Provenendo infatti le cose della fede non dall’uomo, ma da Dio stesso che parla di sua bocca, era dunque necessario, come abbiamo detto, che le chiedessero dalla stessa bocca di Dio e perciò Dio li riprendeva se non le chiedevano dalla sua bocca, per rispondere indirizzando alla fede i loro casi e le loro vicende. Ma, in questa età di grazia, la fede in Cristo è fondata e la Legge evangelica manifesta; dunque non è necessario interrogarlo in quei modi, né che egli risponda parlando come prima. Dandoci infatti il suo Figlio, la sua unica Parola, non ne ha un’altra, e in quest’unica Parola ci ha detto tutt’insieme in una sola volta, e non parla oltre. 4. E questo è il senso del testo nel quale San Paolo vuole indurre gli Ebrei ad abbandonare quei modi primitivi di trattare con Dio propri della Legge di Mosè, e a fissare lo sguardo solamente in Cristo, dicendo loro: Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis: novissime autem diebus istis locutus est nobis in Filio; che significa: «Quello che Dio anticamente disse ai nostri padri tramite i profeti in molti modi e maniere, ora poi in questi giorni ce lo ha detto in una sola volta mediante il Figlio» (Eb. 1, 1-2). Qui l’Apostolo ci fa capire che Dio è rimasto come muto e non ha da parlare oltre, poiché ciò che prima in parte 244

ci ha detto, per mezzo dei profeti, ce l’ha detto ormai interamente, dandoci il Tutto, cioè suo Figlio. 5. Perciò chi oggi volesse interrogare Dio, o volesse qualche visione o rivelazione, non solo commetterebbe una sciocchezza, ma recherebbe offesa a Dio, non ponendo i propri occhi totalmente in Cristo, senza desiderare alcun’altra cosa o novità. Dio potrebbe infatti rispondergli in questo modo: «Se già ti ho detto tutto nella mia Parola, cioè mio Figlio, e non ne ho un’altra, come possa ora risponderti o rivelarti qualcosa di più grande? Poni i tuoi occhi in lui solo, perché in lui tutto ti ho detto e rivelato e in lui troverai più di quanto tu chiedi e desideri. Infatti tu chiedi locuzioni e rivelazioni, cioè una parte, ma se poni i tuoi occhi in lui vi troverai il tutto, perché è lui la mia intera locuzione e risposta, ed è la mia intera visione e la mia intera rivelazione. E con lui vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato, dandovelo per Fratello, Compagno e Maestro, Prezzo e Premio a16. Infatti dal giorno in cui con il mio Spirito discese su di lui sul monte Tabor dicendo: His est filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite (Mt. 17, 5), cioè: «Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo», levai la mano da tutti quei modi di insegnare e di rispondere e misi tutto in lui. Ascoltalo dunque, perché non ho altra fede da rivelare, né altre cose da manifestare. Se prima parlavo, era per promettere Cristo; e se m’interrogavano, le domande erano volte a chiedere e ad aspettare Cristo, nel quale dovevano trovare ogni bene, come ora insegna tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli. Ma chi ora mi interrogasse in quei modi e chi volesse che gli parlassi e rivelassi qualcosa, in qualche modo sarebbe come se mi chiedesse un’altra volta Cristo, e mi chiedesse un’altra fede, e dunque sarebbe debole in quella che è già stata data in Cristo. In questo modo si offenderebbe grandemente il mio diletto Figlio, in quanto non solo si mancherebbe di fede ma lo si obbligherebbe ad incarnarsi un’altra volta e ad 245

attraversare ancora la sua vita e la sua morte. Dunque non devi chiedermi, né desiderare, rivelazioni o visioni da parte mia. Guarda bene lui e in lui tutto questo lo troverai compiuto e dato, più di quanto tu non chieda. 6. Se vuoi che ti risponda qualche parola di consolazione, guarda mio Figlio, obbediente a me e per mio amore sottomesso e afflitto, e vedrai quante cose ti risponderà. Se vuoi che ti spieghi talune cose o avvenimenti occulti, poni gli occhi in lui solo e vi troverai racchiusi occultissimi misteri e sapienza e meraviglie di Dio, come dice il mio Apostolo: In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei absconditi; cioè: «In lui, Figlio di Dio, sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio» (Col. 2, 3). E questi tesori di sapienza saranno per te molto più profondi e saporosi e utili delle cose che tu vuoi sapere. E per ciò lo stesso Apostolo si gloriava dicendo «di aver fatto intendere di non sapere altra cosa se non Gesù Cristo, e questo crocifìsso» (1 Cor. 2, 2). E se tu desiderassi altre visioni e rivelazioni, divine o corporee, guarda a lui umanato e vi troverai più di quanto non pensi; infatti l’Apostolo dice anche: In ipso habitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter; che significa: «In Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col. 2, 9). 7. Dunque non è più conveniente interrogare Dio in quel modo, né è più necessario che egli parli, avendo rivelato compiutamente in Cristo tutta la fede, e dunque non c’è, né mai ci sarà, un’altra fede da rivelare. E chi ora volesse ricevere qualcosa per via soprannaturale, sarebbe come se denunciasse una mancanza in Dio, per non aver dato tutto il necessario a suo Figlio. Infatti, anche se lo si facesse supponendo la fede e credendovi, sarebbe tuttavia una curiosità propria di una fede manchevole. Dunque non si deve attendere né dottrina, né alcun’altra cosa per via soprannaturale. Infatti, nel momento in cui Cristo, morendo sulla croce, 246

disse: Consummatum est (Gv. 19, 30), che vuol dire: «Tutto è compiuto», non solo vennero meno questi modi, ma anche tutte le altre cerimonie e i riti della Vecchia Legge. Pertanto in tutto ciò dobbiamo lasciarci guidare dalla legge di Cristouomo, della sua Chiesa e dei suoi ministri, in modo umano e visibile, per rimediare in questo modo alle nostre ignoranze e debolezze spirituali; e per ogni necessità vi troveremo abbondante medicina. Tutto ciò che esorbita da questo cammino non è dunque soltanto curiosità, ma grande presunzione. Niente perciò si deve credere per via soprannaturale, se non soltanto ciò che è insegnamento di Cristo-uomo, come dico, e dei suoi ministri, uomini anch’essi. Tanto che San Paolo dice queste parole: Quod si angelus de caelo evangelizaverit, praeterquam quod evangelizavimusvobis, anathema sit; cioè: «Se un angelo del cielo vi evangelizzasse in maniera diversa da come noi uomini vi abbiamo evangelizzato, sia maledetto e scomunicato» (Gal. 1, 8). 8. Ne consegue pertanto che è vero che dobbiamo sempre stare entro ciò che Cristo ci ha insegnato, e che tutto il resto non è nulla, né vi si deve credere se non ne è conforme; e che cammina invano chi oggi vuol trattare con Dio nel modo della Vecchia Legge. Tanto più che nemmeno a quel tempo era lecito a chiunque interrogare Dio, né Dio rispondeva a tutti, ma solo ai sacerdoti ed ai profeti, dalla cui bocca il popolo doveva conoscere la legge e la dottrina. Perciò se qualcuno voleva sapere qualcosa di Dio lo chiedeva tramite il profeta, o il sacerdote, e non da se stesso. E se David qualche volta interrogò Dio da sé è perché era profeta, né lo fece senza veste sacerdotale, come si vede nel Primo libro dei Re (23, 9), allorché disse al sacerdote Abimelec: Applica ad me ephod, che era la più autorevole veste sacerdotale, con la quale pertanto consultò Dio. Ma, altre volte, lo consultò tramite il profeta Natan o altri profeti. E per bocca di costoro e dei sacerdoti, e non per proprio parere, si doveva credere che ciò che gli veniva detto proveniva da Dio. 247

9. Pertanto, a ciò che Dio diceva non si dava nessuna autorità, né intera credibilità, se non veniva approvato per bocca dei sacerdoti e dei profeti. Infatti Dio tanto desidera che il governo ed ogni rapporto umano si attui mediante un suo simile e che l’uomo sia retto e governato mediante la ragione naturale, da volere che a quanto ci comunica per via soprannaturale assolutamente non diamo credito intero e che non producano in noi piena forza e sicurezza, finché non passano per il canale della bocca dell’uomo. Così, ogni volta che dice o rivela qualcosa a un’anima, lo fa ponendo in essa un’inclinazione a comunicarla a chi di dovere; e, fino a che non avrà obbedito a questa inclinazione, suole non darle soddisfazione intera, in quanto non ha ricevuto la comunicazione tramite un suo simile. Perciò nei Giusdici (7, 9-11) vediamo che questo accadde al capitano Gedeone; il quale sebbene Dio molte volte gli avesse detto che avrebbe vinto i Madianiti, tuttavia restava dubbioso e pavido; infatti Dio gli lasciò quella debolezza fino a che egli non udì dalla bocca degli uomini ciò che aveva udito da lui. E, vedutolo, Dio gli disse: «Sorgi e scendi dall’accampamento»; et cum audieris quod loquantur, tunc confortabuntur manus tuae, et securior ad hostium castra descendes; cioè: «Quando vi udrai quello che dicono gli uomini allora prenderai coraggio per fare quanto ti ho detto e con maggiore sicurezza scenderai contro gli serciti dei nemici». E così accadde che, avendo udito un sogno raccontato da un Madianita a un altro, nel quale aveva sognato che Gedeone avrebbe vinto, fu molto incoraggiato e con grande gioia cominciò a prepararsi alla battaglia. Dove si vede che Dio non volle che se ne stesse tranquillo nella sicurezza della sola via soprannaturale, fino a che non ne avesse avuta conferma per via naturale. 10. Tanto più mirabile è perciò quanto accadde in proposito a Mosè, il quale, pur avendogli Dio comandato — con molte ragioni, confermate dai segni della verga trasformata in serpente e della mano sana trasformata in lebbrosa — di liberare i figli d’Israele, tuttavia restò tanto 248

fiacco e incerto in questa idea che, nonostante lo sdegno di Dio, non ebbe mai il coraggio d’avere una fede piena e forte, come il caso richiedeva per procedere; finché Dio non gli diede animo con suo fratello Aronne, dicendo: Aaron frater tuus Levites scio quod eloquens sit: ecce ipse egredietur in occursum tuum, vidensque te, laetabitur corde. Loquere ad eum, et pone verba mea in ore eius, et ego ero in ore tuo, et in ore illius, ecc. Il che significa: «Io so che tuo fratello Aronne è uomo eloquente; ecco che ti verrà incontro, e vedendoti si rallegrerà di cuore; parlagli e digli tutte le mie parole ed io sarò nella tua bocca e nella sua» (Es. 4, 14-15); ciò affinché l’uno ricevesse fiducia dalla bocca dell’altro. 11. Udite queste parole, Mosè si rincuorò subito, sperando nella consolazione che avrebbe avuto dai consigli di suo fratello. Infatti l’anima umile ha la caratteristica di non ardire di trattare da sola con Dio, né può essere pienamente soddisfatta senza la direzione e il consiglio umano. E così Dio vuole, e a coloro che si uniscono per conoscere la verità egli si unisce, per chiarirla e confermarla in loro, fondandola sulla ragione naturale, come disse che avrebbe fatto con Mosè ed Aronne uniti, ponendosi nella bocca dell’uno e dell’altro. È per ciò che anche nel Vangelo si dice che Ubi fuerint duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum ego in medio eorum; cioè: «Dove due o tre saranno riuniti per considerare ciò che sia di maggiore onore e gloria al mio nome, lì io sarò in mezzo a loro» (Mt. 18, 20); vale a dire: rischiarando e confermando nei loro cuori le verità di Dio. È da notare che non disse: dove si troverà uno solo lì io sarò, ma almeno due; per far capire come Dio non vuole che nessuno, da sé solo, creda in cose che ritiene provengano da Dio, né vi si conformi ed assicuri senza la Chiesa e i suoi ministri; se costui infatti se ne resta solo, Dio non sarà con lui per rischiarare e conformare la verità nel suo cuore, e così se ne rimarrà fiacco e freddo riguardo alla verità. 12. Perciò in proposito l’Ecclesiaste rincara dicendo: Vae 249

soli, qui cum ceciderit, non habet sublevantem se. Si dormierint duo, fovebuntur mutuo: unus quomodo calefiet? et si quispiam praevaluerit contra unum, duo resistent ei (4, 10-12); che significa: «Guai a chi è solo che quando cadrà non avrà chi lo sollevi! Se due dormiranno insieme si riscalderanno a vicenda, cioè con il calore di Dio che sta in mezzo a loro; ma uno solo come si riscalderà?». Che significa: come non resterà freddo nelle cose di Dio? E «se qualcuno fosse più forte e prevalesse contro chi è solo», cioè se prevalesse il demonio, che può prevalere e prevale su coloro che vogliono agire da soli nelle cose di Dio, due uniti invece gli resisteranno, cioè il discepolo e il maestro, che si uniscono per conoscere e mettere in pratica la verità. Finché non ci si unisca così, invece, colui che è solo ordinariamente si sente tiepido e fiacco verso la verità, anche se l’abbia più volte udita da Dio; tanto che San Paolo, sebbene predicasse il Vangelo, dicendo che l’aveva udito non da uomo ma da Dio, tuttavia non ne fu pienamente sicuro finché non si recò a parlarne a San Pietro e agli Apostoli, dicendo: Ne forte in vanum currerem, aut cucurrissem (Gal. 2, 2); che significa: «Per non correre o aver corso invano»; non reputandosi sicuro finché non gli desse sicurezza un altro uomo. E questo sembra molto notevole, o Paolo: colui che vi ha rivelato il Vangelo non avrebbe potuto rivelarvi anche la sicurezza dell’errore che avrebbero potuto commettere nella predicazione della sua verità? 13. Qui si fa chiaramente capire come non si debba essere sicuri nelle cose che Dio rivela, se non mediante l’ordine di cui stiamo parlando; perché, poniamo caso che una persona abbia la certezza che San Paolo aveva del suo vangelo, quando già aveva cominciato a predicarlo; anche in tale caso, sebbene la rivelazione venga da Dio, l’uomo può sempre errare quanto ad essa o a ciò che vi si riferisce. Infatti non sempre Dio, quando dice una cosa, dice anche l’altra; per cui spesso dice la cosa, ma non il modo di farla; poiché, anche quando da molto tempo tratta affabilmente un’anima, 250

ordinariamente non fa né dice niente intorno a quanto si può fare con la capacità ed il consiglio umano. Di ciò era ben consapevole San Paolo, il quale, pur sapendo che il vangelo gli era rivelato da Dio, andò a parlarne con gli Apostoli. E lo vediamo chiaramente anche nell’Esodo (18, 21-22), dove, sebbene Dio trattasse molto familiarmente Mosè, mai gli diede quel consiglio tanto prezioso che invece gli venne dal suocero Jetro, ossia: che eleggesse altri giudici, i quali lo aiutassero ad evitare che il popolo stesse ad aspettare dalla mattina alla sera. E Dio approvò tale consiglio, ma non glielo diede lui, trattandosi di cosa che rientrava nella capacità della ragione e del giudizio umano. Dio non suole rivelare tutto ciò che riguarda le visioni e le rivelazioni e locuzioni divine, perché vuole sempre che ci valiamo della ragione e del giudizio umano per quanto è possibile, regolando per loro tramite tutte queste cose, eccetto quanto è di fede, che eccede ogni giudizio e ragione, senza però contraddirli. 14. Nessuno dunque, pur essendo certo che Dio e i santi trattino con lui familiarmente di molte cose, deve pensare che per ciò stesso debbano chiarirgli eventuali suoi difetti riguardanti qualcuna di esse, in quanto egli può conoscerli per altra via. Non bisogna dunque starsene sicuri, poiché, come leggiamo negli Atti degli Apostoli, accadde a San Pietro, che pur era principe della Chiesa ed era istruito immediatamente da Dio, di sbagliare riguardo a certe cerimonie in uso tra i gentili, e Dio taceva; tanto che San Paolo, come gli stesso afferma, lo riprese dicendogli: Cum vidissem, quod non recte ad veritatem Evangelii ambularent, dixi Cephae coram omnibus: Si tu iudaeus cum sis, gentiliter vivis, quomodo gentes cogis iudaizare? che significa: «Quando vidi», dice San Paolo, «che i discepoli non procedevano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Pietro davanti a tutti: Se tu che sei giudeo vivi da gentile, perché simuli in modo da costringere i gentili a giudaizzare?» (Gal. 2, 14). Ma Dio non avvertiva direttamente San Pietro di questo difetto, perché quella simulazione era 251

cosa che cadeva nell’ambito della ragione e si poteva conoscere per via razionale. 15. Perciò Dio, nel giorno del giudizio, castigherà parecchie mancanze e peccati di molti che quaggiù avrà trattato assai familiarmente e ai quali avrà dato grandi lumi e virtù, per essere stati negligenti in tutte le altre cose che sapevano di dover fare, confidando unicamente nelle virtù e nel rapporto che intrattenevano con Dio. E allora, come Cristo dice nel Vangelo, si meraviglieranno e diranno: Domine, Domine nonne in nomine tuo prophetavimus, et in nomine tuo daemonia eicimus, et in nomine tuo virtutes multas fecimus? cioè: «Signore, Signore, non abbiamo forse in tuo nome annunziato le profezie che ci avevi fatto, e in tuo nome non abbiamo scacciato i demoni, e in tuo nome non abbiamo fatto molti miracoli e prodigi?» (Mt. 7, 22). E dice il Signore che risponderà loro così: Et tunc confitebor illis, quia, numquam novi vos: discedite a me omnes qui operamini iniquitatem; ossia: «Allontanatevi da me voi che operate iniquità, perché mai vi conobbi» (ivi, 7, 23). Tra costoro c’era il profeta Balaam, ed altri simili a lui, i quali erano peccatori, sebbene Dio parlasse con loro e largisse loro grazie. Pertanto il Signore riprenderà anche i suoi amici prediletti, ai quali quaggiù si sia comunicato familiarmente, per le mancanze e le negligenze in cui siano incorsi, delle quali non era necessario che Dio stesso li avvertisse, perché già li aveva avvertiti mediante la legge e la ragione naturale che aveva dato loro. 16. Concludendo dunque questa parte, dico e deduco da quanto detto che l’anima, qualsiasi cosa riceva per via soprannaturale e in qualsiasi modo la riceva, deve subito comunicarla al suo maestro spirituale, in modo chiaro e piano, intero e semplice. Infatti, anche quando non le sembri il caso di renderne conto, né di perdervi tempo, ed essa resti sicura— specialmente quando si tratti di visioni o di rivelazioni o di altre comunicazioni soprannaturali, che o 252

sono chiare o poco importa che ci siano o no —, anche se le respinge e non vi dà peso e non le desidera, come abbiamo detto, è tuttavia necessario che l’anima le manifesti interamente, anche se non le sembri il caso. E questo per tre motivi. Il primo è che Dio comunica molte cose all’anima senza confermargliene interamente l’effetto, la forza, la luce, la sicurezza, finché, come abbiamo detto, non ne abbia trattato con chi Dio ha posto a suo giudice spirituale; costui ha infatti il potere di legarla o di scioglierla, di approvarla o riprovarla in queste cose, come abbiamo mostrato con le testimonianze precedentemente portate, e come ogni giorno sperimentiamo vedendo che le anime umili in cui accadono tali cose, dopo averne trattato con chi devono, restano con soddisfazione, forza e luce e sicurezza rinnovate; tanto che ad alcune anime pare che quelle visioni non siano manifestate, né appartengono loro, finché non ne riferiscano, e solo allora siano loro ridonate. 17. Il secondo motivo è che ordinariamente l’anima ha bisogno di una dottrina circa le cose che le accadono, che la indirizzi per tale via alla nudità e povertà spirituale, cioè alla notte oscura. Infatti, se le manca questa dottrina, anche se non desidera quelle visioni, senza accorgersene diverrà più rozza nel cammino spirituale, abituandosi a quello del senso, al quale in parte si riferiscono quei vari fenomeni. 18. Il terzo motivo è che l’anima, per umiltà e ubbidienza e mortificazione, deve dar conto di tutto, anche di ciò a cui faccia poco caso e a cui non dia affatto importanza; alcune anime infatti s’infastidiscono molto a dire tali cose, giudicandole da nulla, ma non sanno come le recepirà la persona con la quale debbono aver a che fare; e questa è poca umiltà, e già per questo motivo è necessario assoggettarsi a parlarne. Altre poi si vergognano molto a parlarne, perché non si veda che hanno manifestazioni che sembrano proprie dei santi, o per altri sentimenti che 253

provano parlandone, e perciò credono che non ne sia il caso e non vi danno importanza; già per questo conviene che invece si mortifichino e ne parlino, fino a diventare umili, piane e dolci e pronte a parlarne; in seguito lo faranno sempre con facilità. 19. Ma, in rapporto a quanto abbiamo detto, bisogna avere grande attenzione: se si è tanto insistito affinché si respingano quei fenomeni e affinché i confessori non concedano alle anime tanto spazio al discorrerne, e se è conveniente che i padri spirituali mostrino distacco verso tali cose, questo non deve però accadere in modo da provocare nelle anime smarrimento o disprezzo verso tali fenomeni. Ciò potrebbe infatti dar loro occasione di rinchiudersi senza osare manifestarli, il che potrebbe provocare molti inconvenienti se si chiudesse la porta al loro parlarne. E poiché questo, abbiamo detto, è un mezzo e un modo attraverso il quale Dio guida quelle anime, non c’è motivo per disprezzarlo, né per spaventarsene, né per scandalizzarsene; anzi, bisogna procedere con molta benevolenza e serenità, incoraggiando le anime, e dando loro la possibilità di parlarne e, se fosse necessario, dandogliene l’ordine, perché, data la difficoltà che alcune anime trovano nel trattarne, talvolta è necessario servirsi di qualsiasi mezzo. Si dirigano dunque queste anime nella fede, insegnando loro dolcemente a distogliere lo sguardo da tutte quelle cose e indicando loro il metodo con il quale sporgliarne l’appetito e lo spirito per progredire, e facendo loro comprendere come davanti a Dio sia più preziosa un’opera o un atto di volontà compiuto in carità di quante visioni e rivelazioni e comunicazioni possa contenere il cielo, in quanto queste non costituiscono né merito né demerito; e mostrando loro come molte anime, pur non ricevendo manifestazioni di quel genere, siano incomparabilmente più avanti di altre che ne ricevono moltissime.

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CAPITOLO 23 Si comincia a trattare delle apprensioni che l’intelletto riceve puramente per via spirituale. Si dice che cosa siano. 1. Sebbene la dottrina che abbiamo esposto circa le apprensioni ricevute dall’intelletto tramite il senso risulti piuttosto breve, rispetto a quanto se ne sarebbe potuto dire, tuttavia non desidero diffondermici oltre; credo anzi d’essermi troppo dilungato rispetto al mio intento, che è di liberarne l’intelletto e di indirizzarlo alla notte della fede. Pertanto cominceremo ora a trattare delle altre quattro apprensioni dell’intelletto, che nel decimo capitolo abbiamo detto essere puramente spirituali, cioè visioni, rivelazioni, lucuzioni e sentimenti spirituali. Le chiamiamo puramente spirituali perché non si comunicano all’intelletto tramite i sensi corporei, come invece quelle corporee immaginarie, ma, senza il tramite di nessun senso corporeo, esterno o interno, si offrono all’intelletto in modo chiaro e distinto per via soprannaturale, passivamente, cioè senza che l’anima per parte sua compia attivamente operazione alcuna. 2. Occorre inoltre sapere, parlando ampiamente e in generale, che queste quattro apprensioni si possono chiamare visioni dell’anima, dal momento che l’intelligenza dell’anima la chiamiamo anche vista dell’anima. E in quanto queste apprensioni sono intelligibili all’intelletto, sono dette visibili spiritualmente. Così si possono chiamare visioni intellettuali le intellezioni che se ne formano nell’intelletto. E in quanto tutti gli oggetti degli altri sensi, come tutto ciò che si può vedere e udire e odorare e gustare e toccare, sono oggetto dell’intelletto, e come tali cadono sotto verità e falsità, ne consegue che, come agli occhi corporei tutto ciò che è corporalmente visibile causa una visione corporea, così agli occhi spirituali dell’anima, cioè all’intelletto, tutto ciò che è intelligibile causa una visione spirituale; infatti, come abbiamo detto, intendere è vedere. Così, parlando 255

generalmente, possiamo chiamare visioni queste quattro apprensioni; il che non accade con gli altri sensi, perché ciascuno per sua natura non è capace dell’oggetto degli altri. 3. Ma poiché queste apprensioni si rappresentano all’anima allo stesso modo che agli altri sensi, ne consegue che, parlando in modo proprio e specifico, chiamiamo visione ciò che l’intelletto riceve al modo della vista, in quanto può vedere le cose spiritualmente così come l’occhio vede corporalmente; chiamiamo rivelazione ciò che esso riceve come apprendendo e intelligendo cose nuove, così come l’udito che oda cose mai udite; chiamiamo locuzione ciò che l’intelletto riceve al modo dell’udito; e chiamiamo sentimenti spirituali ciò che esso riceve al modo degli altri sensi, come accade per la percezione di un soave profumo spirituale e del sapore spirituale, e del diletto spirituale che l’anima può gustare soprannaturalmente. Da tutto ciò l’intelletto ricava intelligenza o visione spirituale, senza alcuna apprensione di forma, immagine o figura d’immaginazione o fantasia naturale; tali cose, invece, si comunicano all’anima immediatamente per opera e per mezzo soprannaturale. 4. Ma anche di queste, come abbiamo fatto delle apprensioni corporee immaginarie, ci conviene ora sgomberare l’intelletto, che attraverso esse deve incamminarsi ed essere indirizzato nella notte spirituale della fede verso la divina e sostanziale unione con Dio; se infatti non lo si sgombra e dirozza da esse, gli si impedisce il cammino della solitudine e della nudità di tutte le cose, che è necessaria per l’unione. Poiché, anche ammettendo che queste siano apprensioni più nobili ed utili e molto più sicure di quelle corporee immaginarie — in quanto già interiori e puramente spirituali, sono infatti meno raggiungibili dal demonio, poiché si comunicano all’anima in modo più puro e sottile, senza nessuna operazione né sua né dell’immaginazione, per lo meno attiva —, tuttavia 256

l’intelletto non solo potrebbe restarne impedito per quel cammino, ma, per poca prudenza, potrebbe esserne molto ingannato. 5. E sebbene in qualche modo possiamo concludere intorno a questi quattro modi di apprensione, dando globalmente riguardo ad esse il consiglio comune che abbiamo dato riguardo a tutte le altre, cioè di non pretenderle né desiderarle, tuttavia è bene trattare di ciascuna in particolare, per poter forse meglio illuminare lo scopo e dire qualcosa intorno ad esse. Diremo quindi delle prime, cioè delle visioni spirituali o intellettuali. CAPITOLO 24 Si tratta dei due modi di visioni spirituali per via soprannaturale. 1. Parlando ora più propriamente delle visioni spirituali, ossia di quelle che avvengono senza l’intervento di alcun senso corporeo, dico che i modi di visione che possono cadere nell’intelletto sono due: le visioni di sostanze corporee e quelle di sostanze separate 0 incorporee. Le visioni delle sostanze corporee riguardano tutte le cose materiali che sono in cielo e in terra, e che l’anima, finché sta con il corpo, può ricevere mediante un certo lume soprannaturale derivato da Dio, in cui può vedere tutte le cose assenti, del cielo e della terra; ciò accadde a San Giovanni, secondo che si legge nel capitolo 21 dell’Apocalisse, dove egli descrive la magnificenza della Gerusalemme celeste che vide in cielo; e si legge anche di San Benedetto17, che in una visione spirituale vide tutto il mondo. Anche San Tommaso, nel primo libro delle sue Quodlibetales18, dice che questa visione fu possibile grazie al lume derivato dall’alto, di cui abbiamo trattato. 2. Le altre visioni, quelle delle sostanze incorporee, non si 257

possono percepire mediante tale lume derivato, bensì mediante un più alto lume, che si chiama lume di gloria. Perciò tali visioni di sostanze incorporee, come gli angeli e le anime, non sono di questa vita, né si possono vedere con questo corpo mortale; perché se Dio volesse comunicarle all’anima quali sono nella loro essenza, subito essa uscirebbe dalla carne e si scioglierebbe dalla vita mortale. Per ciò a Mosè, quando gli chiese di mostrarglisi nella sua essenza, disse: Non videbit me homo, et vivet; cioè: «Nessun uomo che mi veda può restare vivo» (Es. 33, 20). Pertanto, quando i figli d’Israele pensavano di dover vedere Dio, o d’averlo visto, o di aver visto un angelo, temevano di morire, come si legge nelll’Esodo, dove, presi da timore, dissero: Non loquatur nobis Dominus, ne forte moriamur; ossia: «Non ci si comunichi Dio manifestamente affinché non moriamo» (20, 19). Ed anche nei Giudici (13, 22), Manue, padre di Sansone, pensando d’aver visto nella sua essenza un angelo apparso in forma d’uomo bellissimo che parlava con lui e con sua moglie, disse a costei: Morte moriemur, quia vidimus Dominum; che significa: «Morremmo, perché abbiamo visto il Signore». 3. Queste visioni non sono dunque di questa vita, a meno che non siano concesse solo qualche volta e momentaneamente; in tal caso Dio sospende o salva la condizione e la vita naturale, astraendo totalmente lo spirito da essa, in modo che con la sua grazia si suppliscano tutte le funzioni naturali dell’anima nei confronti del corpo. Perciò San Paolo stesso, riferendosi a quanto vide, cioè alle sostanze separate nel terzo cielo, dice: Sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio; Deus scit (2 Cor. 12, 2); cioè, sul fatto di essere stato rapito fino ad esse e su ciò che vide, dice di non sapere «se era nel corpo o fuori del corpo, e che solo Dio lo sa»; dal che si comprende chiaramente che egli oltrepassò la vita naturale per opera di Dio. Si legge inoltre che quando Dio, come si crede, volle mostrare la propria essenza a Mosè, gli disse che l’avrebbe posto nella cavità della pietra e 258

l’avrebbe protetto coprendolo con la sua destra, difendendolo affinché non morisse al passaggio della sua gloria, che sarebbe consistito in un istantaneo mostrarsi, e conservando con la sua destra la vita naturale di Mosè (Es. 33, 22). Ma queste visioni sostanziali, come quella di San Paolo e di Mosè, e del nostro padre Elia, durante la quale si coprì il volto al sibilo soave di Dio (3 Re 19,12-13), sebbene siano passeggere, accadono molto raramente, anzi quasi mai e a pochissimi, poiché Dio le concede a coloro che sono molto forti nello spirito della Chiesa e nella legge di Dio, come appunto lo furono i tre ora nominati. 4. Ma, sebbene queste visioni di sostanze spirituali in questa vita non si possano vedere nudamente e chiaramente coll’intelletto, tuttavia si possono sentire nella sostanza dell’anima con soavissimi tocchi e congiungimenti, che appartengono a quei sentimenti spirituali dei quali, con l’aiuto divino, tratteremo in seguito; infatti a questo si indirizza e si incammina la nostra penna, cioè al divino congiungimento e unione dell’anima con la Sostanza divina, di cui tratteremo a proposito dell’intelligenza mistica e confusa od oscura; ne parleremo allorché diremo come Dio si congiunga con l’anima in grado alto e divino mediante questa notizia amorosa e oscura. Questa notizia amorosa e oscura, infatti, è la fede, che, in qualche modo, in questa vita serve per la divina unione, come nell’altra il lume di gloria serve per la chiara visione di Dio. 5. Pertanto ora tratteremo delle visioni di sostanze corporee che si ricevono spiritualmente nell’anima, producendosi allo stesso modo delle visioni corporee; infatti, come gli occhi vedono le cose corporee mediante la luce naturale, così l’anima, mediante il lume derivato soprannaturalmente di cui abbiamo detto, con l’intelletto vede interiormente queste stesse cose naturali, e altre che Dio voglia; ma c’è una differenza riguardo al mezzo e alla maniera di riceverle, poiché quelle spirituali e intellettuali si 259

percepiscono in modo molto più chiaro e sottile di quelle corporee. Infatti, quando Dio vuol fare questo dono all’anima, le comunica quella luce soprannaturale di cui abbiamo parlato, mediante cui essa vede le cose che Dio vuole, del cielo e della terra, nel modo più facile e chiaro, senza che né la loro presenza né la loro eventuale assenza le siano d’impedimento. A volte è come se le si aprisse una porta luminosissima, attraverso cui vede una luce come di lampo, che in una notte oscura improvvisamente rischiari le cose, facendole vedere in modo nitido e distinto, lasciandole subito dopo allo scuro, sebbene le forme e le figure rimangano nella fantasia; il che nell’anima accade in modo molto più perfetto, poiché le cose che in quella luce essa ha visto con lo spirito le restano impresse a tal punto che, ogniqualvolta vi pone attenzione, le vede in sé come le aveva viste: come in uno specchio, ogni volta che vi si guardi, si vedono le forme che vi sono riflesse, allo stesso modo le forme delle cose che l’anima ha visto non la lasciano mai del tutto, anche se col tempo vanno facendosi un po’ lontane. 6. L’effetto che queste visioni producono nell’anima è la quiete, l’illuminazione e il gaudio come di gloria, la soavità, la purezza e l’amore, l’umiltà e l’inclinazione o elevazione dello spirito in Dio: a volte in maggiore e a volte in minor grado, e in chi più e in chi meno, secondo lo spirito con cui si ricevono e secondo che Dio vuole. 7. Anche il demonio può causare nell’anima queste visioni mediante il lume naturale, attraverso il quale, per suggestione spirituale, egli illumina allo spirito le cose sia presenti che asssenti. Perciò riguardo a quel passo di San Matteo, dove si narra che il demonio ostendit omnia regna mundi et gloriam eorum a Cristo, ossia gli «mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria» (4, 8), alcuni dottori sostengono che lo fece mediante suggestione spirituale, perché non era possibile fargli vedere con gli occhi corporei tutti i regni del mondo e la loro gloria. 260

C’è però grande differenza tra queste visioni provocate dal demonio e quelle che vengono da parte di Dio. Infatti, gli effetti che le prime causano non sono come quelli delle visioni buone, in quanto provocano aridità di spirito nel rapporto con Dio, e inclinazione a stimare se stessi, nonché ad ammettere e a dare importanza alle visioni stesse; e queste in nessun modo causano dolcezza di umiltà e amor di Dio. Né la loro forma resta impressa nell’anima con quella soave chiarezza propria delle altre, e nemmeno durano, ma subito si cancellano dall’anima, a meno che non le tenga in gran conto, nel qual caso, per questa stima, essa procura naturalmente di ricordarsene; ma tutto questo è accompagnato da grande aridità e non provoca quell’effetto di amore e di umiltà che le visioni buone causano quando l’anima se ne ricorda. 8. Poiché queste visioni sono di creature, con le quali Dio non ha nessuna proporzione né convenienza essenziale, dunque esse non possono servire all’intelletto come mezzo prossimo per l’unione con Dio. Conviene perciò che l’anima si comporti nei loro confronti in modo puramente negativo, come con le altre di cui abbiamo detto, per andare avanti mediante il mezzo prosssimo, che è la fede. Ne consegue che l’anima non deve far archivio né tesoro delle forme delle visioni che vi restano imspresse, né deve voler appoggiarvisi: se così facesse, resterebbe intralciata in quelle forme, immagini e personaggi che riceve nell’intimo e non andrebbe a Dio attraverso la negazione di tutte le cose. Nel caso infatti che quelle forme le si ripresentino sempre, non le saranno di grande impedimento soltanto se l’anima non vorrà darvi importanza. Se infatti è vero che la loro memoria sollecita l’anima a un certo amore di Dio e alla contemplazione, certo molto più ve la sollecitano ed elevano la pura fede e la nudità oscura di tutto ciò, senza che l’anima sappia né come né da dove le provenga. Accadrà così che l’anima vada infiammata d’ansie d’amore purissimo di Dio, senza sapere donde le vengano e 261

quale fondamento abbiano. E ciò perché, come la fede si è più radicata e infusa nell’anima mediante quel vuoto e tenebra e nudità di tutte le cose, o povertà spirituale — cose che potremmo chiamare tutte allo stesso modo —, così, insieme, anche la carità di Dio maggiormente si radica e si infonde nell’anima. Ne consegue che, quanto più l’anima cerca di oscurarsi o annichilirsi nei confronti di tutte le cose che può ricevere, esterne e interne, tanto maggiormente le si infonde la fede e di conseguenza l’amore e la speranza, in quanto queste tre virtù teologali progrediscono insieme. 9. Talvolta però la persona non comprende e non sente questo amore, perché la sua sede non è nella tenerezza del senso, bensì nell’anima, che ha più forza e coraggio e audacia di prima, sebbene altre volte l’amore trabocchi anche nel senso e si mostri tenero e dolce; perciò, per giungere a quell’amore e gaudio e gioia che quelle visioni provocano nell’anima, conviene che essa abbia fortezza e mortificazione e amore, per voler restarsene nel vuoto e nell’oscurità di tutto questo e per fondare quell’amore e quel gaudio in chi in questa vita non vede né sente, né può vedere né sentire, cioè in Dio, il quale è incomprensibile e al di sopra di tutto. Ci conviene perciò andare a lui attraverso la negazione di tutto, altrimenti, anche nel caso in cui l’anima sia a tal punto accorta, umile e forte, che il demonio non possa ingannarla né possa farla cadere in qualche presunzione, come è solito fare, non la lascerà progredire, ponendo ostacoli alla nudità spirituale e alla povertà di spirito e al vuoto nella fede, ossia a ciò che è necessario per l’unione dell’anima con Dio. 10. E poiché a proposito di queste visioni serve la medesima dottrina che abbiamo esposto nel capitoli 19 e 20 intorno alle visioni e apprensioni soprannaturali del senso, non perderemo tempo a trattarne. CAPITOLO 25

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Si tratta delle rivelazioni. Si dice che cosa siano e si fa una distinzione. 1. Secondo l’ordine che qui seguiamo, continuiamo ora trattando del secondo modo di apprensioni spirituali, quelle cioè che abbiamo chiamato rivelazioni e che propriamente appartengono allo spirito di profezia. Intorno a ciò anzitutto occorre sapere che rivelazione non significa altro che scoperta di qualche verità occulta o manifestazione di qualche segreto 0 mistero: come se Dio facesse intendere all’anima qualcosa chiarendone all’intelletto la verità o svelasse all’anima alcune cose che gli ha fatto o fa 0 pensa di fare. 2. Con questo criterio possiamo dire che vi sono due modi di rivelazioni: la scoperta di alcune verità dell’intelletto, che propriamente si chiamano nozioni intellettuali o intelligenze; e la manifestazione di segreti, che più propriamente delle altre si chiamano rivelazioni. Le prime infatti, a rigore, non si possono chiamare rivelazioni, perché consistono nel far comprendere all’anima, da parte di Dio, nude verità non soltanto circa le cose temporali, ma anche circa quelle spirituali, mostrandogliele in modo chiaro e manifesto. Ma ho voluto trattarne sotto il nome di rivelazioni, in primo luogo perché sono molto vicine e connesse a queste, e inoltre per non moltiplicare troppo i termini delle distinzioni. 3. Ora si potranno dunque distinguere bene le rivelazioni in due generi di apprensioni: chiameremo il primo genere notizie intellettuali, e il secondo manifestazioni di segreti e misteri occulti di Dio; ne tratteremo in due capitoli, il più brevemente possibile, e nel seguente parleremo del primo genere. CAPITOLO 26 Si tratta dell’intelligenza di nude verità nell’intelletto; e si 263

chiarisce come siano di due generi e come l’anima debba comportarsi nei loro confronti. 1. Per parlare propriamente dell’intelligenza di nude verità che viene offerta all’intelletto sarebbe necessario che Dio prendesse la mano e movesse la penna; sappi infatti, amato lettore, supera ogni dicibilità quello che sono in se stesse per l’anima. E poiché non ne parlo qui espressamente, ma solo per ammaestrare e indirizzare l’anima alla divina unione attraverso tale intelligenza, si dovrà tollerare che io ora ne parli in modo breve e misurato, quanto basti per tale intento. 2. Questo genere di visioni, o per meglio dire di notizie di nude verità, è molto diverso da quello di cui abbiamo parlato nel capitolo ventiquattresimo, in quanto non consiste nel vedere le cose corporee coll’intelletto, bensì nell’intendere e nel vedere verità di Dio o delle cose che sono, furono o saranno, il che è molto conforme allo spirito di profezia, come forse spiegherò in seguito. 3. Bisogna dunque osservare che questo genere di notizie si distingue in due generi: nel primo l’anima le riceve circa il Creatore, nel secondo circa le creature, come abbiamo detto. E sebbene entrambe siano molto gustose per l’anima, tuttavia il diletto che quelle di Dio le procurano a niente si può paragonare, né c’è vocabolo o termine con cui si possa esprimere, in quanto sono notizie di Dio stesso e diletto di Dio stesso; e, come dice David, nessuna cosa è simile a lui (Sal. 39, 6). Infatti queste notizie riguardano direttamente Dio, in quanto fanno sentire profondissimamente qualche suo attributo, ora l’onnipotenza, ora la forza, ora la bontà e dolcezza, ecc.; e, ogni volta che si sente, ciò che si sente si imprime nell’anima; essendo infatti pura contemplazione, l’anima vede chiaramente che non ha modo di dirne qualcosa, se non alcune espressioni generali che l’abbondanza del diletto e il bene che vi provano suscitano 264

nelle anime che l’esperimentano, ma senza che possano intendere compiutamente ciò che vi hanno gustato e sentito. 4. Perciò David, avendone avuta una qualche esperienza, ne parlò usando solo parole comuni e generali, dicendo: Indicia Domini vera, iustificata in semetipsa. Desiderabilia super aurum et lapidem pretiosum multum, et dulciora super mel et favum; che significa: «I giudizi di Dio, cioè le virtù e gli attributi che sentiamo in lui, sono veri, giustificati in se stessi, più desiderabili dell’oro e delle pietre preziose, molto e molto più dolci del favo e del miele» (Sal. 18, 10-11). E di Mosè leggiamo che, di una profondissima notizia che Dio gli diede di sé una volta che gli passò davanti, disse soltanto quello che si può esprimere in termini comuni: avvenne che, presentandoglisi il Signore in quella notizia, Mosè si prostrò precipitosamente a terra, dicendo: Dominator Domine Deus, misericors et demens, patiens et multae miserationis ac verax. Qui custodis misericordiam in millia, ecc.; che significa: «Dominatore, Signore mio, misericordioso e clemente, paziente e di grande commiserazione e verace, mantieni la misericordia che hai promesso a migliaia» (Es. 34, 5-8). E se queste notizie talvolta si esprimono a parole, l’anima si rende ben conto di non aver detto nulla di ciò che ha sentito, perché capisce che non ci sono parole atte ad esprimerle. E così San Paolo, quando ebbe quell’alta notizia di Dio non si curò di dir nulla, se non che non era lecito all’uomo di trattarne (2 Cor. 12,4). 5. Queste notizie divine intorno a Dio non riguardano mai cose particolari, in quanto riguardano il Sommo Principio; per questo non possono esprimersi in modo particolareggiato, a meno che non riguardino in qualche modo verità relative a cose inferiori a Dio che insieme le si mostrino; ma quelle che riguardano Dio non possono dirsi in nessuna maniera. Inoltre, tali alte notizie può averle solo l’anima che giunge all’unione con Dio, in quanto esse 265

costituiscono la stessa unione; la quale consiste nel riceverle in quel contatto che l’anima ha con la Divinità, così che è Dio stesso colui che vi è gustato. Sebbene non sia altrettanto manifesto e chiaro quanto nella gloria, questo tocco di conoscenza e di gusto è tanto profondo che penetra nella sostanza dell’anima e il demonio non può intromettervisi, né far qualcosa di simile — che non esiste —, né qualcosa che possa confrontarsi con esso, né può infondere un simile gusto o diletto, dal momento che quelle notizie hanno il sapore dell’essenza divina e della vita eterna, e il demonio non può fingere cose tanto sublimi.

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Atto notarile di fondazione del primo convento riformato fuori di Spagna, redatto a Genova il 1° dicembre 1584. (Genova, Archivio dei Carmelitani).

6. Però egli potrebbe provocare alcune parvenze simulate, rappresentando all’anima sensibilmente cose grandi e 267

soddisfacenti, facendo in modo da persuadere l’anima che si tratta di Dio; perciò non può fare in modo che esse entrino nella sostanza dell’anima e la rinnovino e l’innamorino improvvisamente, come fanno quelle di Dio. Infatti, alcune di queste notizie e tocchi che Dio elargisce nella sostanza dell’anima, a tal punto l’arricchiscono, che non solo ne basta una per liberare l’anima d’un tratto di tutte le imperfezioni delle quali non avrebbe potuto liberarsi in tutta la vita, ma la lascia piena di virtù e di beni di Dio. 7. Questi tocchi sono per l’anima tanto gustosi e di così intimo diletto che per uno solo si reputerebbe ben ripagata di tutti i travagli che avesse sofferto nella sua vita, anche se fossero innumerevoli; e resta tanto animata e tanto risoluta a patire molte cose per Dio, che le è di particolare sofferenza accorgersi di non soffrire molto. 8. queste sublimi notizie l’anima non può giungere attraverso nessuna sua comparazione né immaginazione, in quanto sono al di sopra di tutto, e così Dio le compie in lei indipendentemente dalle capacità dell’anima; perciò a volte, quando meno vi pensa e lo desidera, Dio suol dare all’anima questi tocchi divini, generando in lei alcuni ricordi di sé. E questi talvolta nascono in lei improvvisamente nel ricordarsi di qualche cosa, talora anche minima. E sono talmente efficaci, che alcune volte fanno sussultare non solo l’anima, ma anche il corpo; mentre altre volte si verificano nello spirito in modo molto quieto e senza alcun tremore, con un improvviso senso di diletto e di refrigerio spirituale. 9. Altre volte ancora si verificano mentre le anime dicono o sentono dire qualche parola, o della sacra Scrittura o d’altri argomenti. Non sempre sono della stessa efficacia e intensità, poiché spesso sono assai deboli; ma, per quanto lo siano, per l’anima uno di questi ricordi e tocchi di Dio vale più di molte altre notizie e considerazioni sulle creature e sulle opere di Dio. 268

E in quanto queste notizie vengono date all’anima all’improvviso e senza sua volontà, ella non deve far nulla per cercarle o non cercarle, bensì deve restarsene umile e rassegnata nei loro confronti, ché Dio compirà la sua opera come e quando vorrà. 10. E non dico che con queste notizie l’anima debba comportarsi negativamente come con le altre, poiché, come abbiamo detto, queste fanno parte dell’unione verso la quale stiamo incamminando l’anima, insegnandole a spogliarsi e a distaccarsi da tutte le altre. E Dio le concede queste grazie solo se in lei vi è umiltà e sofferenza per amor suo, e solo se rinunzia ad ogni ricompensa; infatti queste grazie non vengono concesse all’anima che abbia spirito di proprietà; Dio le elargisce all’anima che particolarmente egli ama e che a sua volta lo ama molto disinteressatamente. E questo volle significare il Figlio di Dio dicendo in San Giovanni: Qui autem diligit me, diligetur a Patre meo, et ego diligam eum, et manifestabo ei meipsum; che significa: «Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio ed io l’amerò e gli manifesterò me stesso» (14, 21). In ciò si includono le notizie e i tocchi che, come stiamo dicendo, Dio manifesta all’anima che giunge a lui e davvero lo ama. 11. Il secondo modo di notizie o visioni di verità interiori è molto diverso da quello di cui stiamo parlando, in quanto concerne cose inferiori a Dio e comprende la conoscenza della verità delle cose in sé e dei fatti e casi che accadono tra gli uomini. Questo genere di conoscenza è tale che, quando l’anima viene a conoscere queste verità, a tal punto le s’imprimono interiormente senza che le si dica niente, che se anche venisse contraddetta essa non potrebbe consentire, nemmeno se si cercasse di forzarla, in quanto lo spirito sta conoscendo altra cosa in quello che spiritualmente gli si rappresenta, e in modo tale da vederlo chiarissimamente. E ciò appartiene allo spirito di profezia e alla grazia che San Paolo chiama dono del discernimento degli spiriti (I Cor. 12, 269

10). E sebbene, come abbiamo detto, l’anima ritenga certissimo e verissimo ciò che intende, e non possa non avere un consenso interiore passivo, tuttavia non per questo deve cessare di credere e di dare anche il suo consenso razionale a ciò che il suo maestro spirituale le dica e comandi, anche se fosse del tutto contrario a quello che essa sente, perché in tal modo l’anima s’indirizza nella fede alla divina unione, verso la quale deve procedere più credendo che intendendo. 12. Dell’un caso e dell’altro abbiamo chiare testimonianze nella sacra Scrittura. Infatti, quanto alla conoscenza spirituale che si può avere delle cose, il Savio afferma: Ipse dedit mihi horum quae sunt scientiam veram, ut sciam dispositionem orbis terrarum, et virtutes elementorum, initium et consummationem temporum, vicissitudinem permutationes, et consummationem temporum et morum mutationes, divisiones temporum, et anni cursus, et stellarum dispositiones, naturas animalium et iras bestiarum, vim ventorum, et cogitationes hominum, differentias virgultorum, et virtutes radicum, et quaecumque sunt abscondita, et improvisa didici: omnium enim artifex docuit me sapientia; che significa: «Dio mi ha dato scienza vera delle cose che sono, affinché conosca la disposizione della rotondità delle terre e le virtù degli elementi, il principio e la fine e la metà dei tempi: le vicissitudini dei mutamenti e le consumazioni dei tempi, e il mutare dei costumi, le divisioni dei tempi, i corsi dell’anno e le disposizioni delle stelle, la natura degli animali e le ferocie delle belve, la forza e la virtù dei venti, e i pensieri degli uomini, le differenze delle piante e degli alberi e le virtù delle radici, e ho imparato tutte le cose che sono nascoste e improvvise. Poiché me l’ha insegnato la Sapienza che è artefice di tutte le cose» (Sap. 7, 17-21). E sebbene questa notizia di tutte le cose, che il Savio dice aver ricevuto da Dio, sia infusa e generale, mediante questa testimonianza si 270

dimostrano sufficientemente tutte le notizie particolari che Dio, quando vuole, infonde nelle anime. Non in quanto dia loro l’abito generale della scienza, come lo diede a Salomone riguardo a quel genere di cose, ma talvolta manifestando loro alcune verità sulla qualsiasi delle cose di cui il Savio dice. Anche se è vero che nostro Signore a numerose anime infonde l’abito circa molte cose, tuttavia non è mai tanto generale quanto quello di Salomone, ma secondo la varietà dei doni che Dio distribuisce, fra i quali San Paolo pone sapienza, scienza, fede, profezia, discernimento o conoscenza degli spiriti, intelligenza delle lingue, spiegazione delle parole, ecc. (I Cor. 12, 8-10). Tutte queste notizie sono abiti infusi, che Dio dà gratuitamente a chi vuole, ora in modo naturale ora in modo soprannaturale; naturalmente, come a Balaam e ad altri profeti idolatri e a molte sibille, a cui diede spirito di profezia; e soprannaturalmente, come ai santi profeti e apostoli e ad altri santi. 13. Ma oltre a questi abiti o grazie elargite gratuitamente, le persone perfette, o che vanno progredendo nella perfezione, ordinariamente hanno illuminazione e notizia delle cose presenti o assenti, che conoscono tramite il loro spirito ormai illuminato e purgato. In questo senso possiamo intendere quella testimonianza dei Proverbi (27, 19) che dice: Quomodo in aquis resplendent vultus prospicientium, sic corda hominum manifesta sunt prudentibus: «Come nelle acque si vedono i volti di coloro che vi si specchiano, così i cuori degli uomini sono manifesti ai prudenti», il che significa: di coloro che hanno la sapienza dei santi, che la sacra Scrittura chiama prudenza. In tal modo anche questi spiriti conoscono talvolta le altre cose, anche se non sempre quando vogliono, il che è proprio soltanto di chi ne possiede l’abito; né le conoscono sempre, ma quando a Dio piace favorirli. 14. Occorre sapere che coloro che hanno lo spirito purificato, con molta facilità possono conoscere 271

naturalmente, quale più quale meno, ciò che è nel cuore o nell’intimo dello spirito, nonché le inclinazioni e i talenti delle persone, mediante indizi esteriori, anche minimi, come parole, gesti o altre manifestazioni. Infatti, come lo può il demonio, in quanto è spirito, così lo può anche lo spirituale, come dice l’Apostolo: Spiritualis autem iudicat omnia: «Lo spirituale giudica tutte le cose» (I Cor. 2, 15). E altrove dice: Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei: «Lo spirito penetra tutte le cose, anche le profondità di Dio» (ivi, 10). Ne consegue che gli spirituali, quando non possano conoscere naturalmente i pensieri o l’interiorità, ben lo possono però per illuminazione soprannaturale o mediante indizi. E se nella conoscenza per indizi molte volte possono ingannarsi, per lo più colgono nel segno; ma di nessuno dei due modi dobbiamo fidarci, perché, come poi diremo, il demonio vi s’intromette con grande sottigliezza; e dunque dobbiamo sempre rinunziare a tali intelligenze e notizie. 15. E che gli spirituali, sebbene assenti, possano aver notizia dei fatti e dei casi degli uomini, ne abbiamo testimonianza ed esempio nel quarto libro dei Re (5, 26), dove, volendo Giezi, servo del nostro padre Eliseo, nascondergli il denaro ricevuto da Naaman siro, Eliseo gli disse: Nonne cor meum in praesenti erat, quando reversus est homo de curru suo in occursum tui? «Non era forse presente il mio cuore quando Naaman scese dal suo carro e ti venne incontro?». Il che accade spiritualmente, vedendolo egli con lo spirito, come se gli passasse davanti. E lo stesso si dimostra nel medesimo libro, dove si legge anche di Eliseo che, sapendo tutto ciò che il re di Siria tramava con i suoi prìncipi in segreto, lo riferiva al re d’Israele, e così i suoi consigli non avevano efficacia; tanto che, vedendo il re di Siria che si veniva a sapere tutto, disse alla sua gente: Perché non mi dite chi di voi mi tradisce presso il re d’Israele? Allora uno dei suoi servi gli disse: Nequaquam, domine mi rex, sed Eliseus propheta, qui est in Israel indicat regi Israel omnia verba quaecumque locutus fueris in conclavi tuo: 272

«Nessuno, o re mio Signore, se non il profeta Eliseo, che è in Israele, rivela al re d’Israele tutte le parole che tu pronunci in segreto» (4 Re 6, 11-12). 16. Entrambi i modi di queste notizie riguardanti cose, così come le altre notizie, accadono all’anima passivamente, senza che essa faccia nulla da parte sua. Accadrà infatti che allo spirito di una persona noncurante e lontana si presenti l’intelligenza viva di ciò che ascolta o legge, molto più chiaramente di quanto non suoni la parola; e talvolta, sebbene non comprenda le parole, o perché in latino o perché non le conosce, se ne farà presente la nozione, quantunque continui a non capirle. 17. Intorno agli inganni che il demonio può fare e fa in questo genere di notizie e di intelligenze ci sarebbe molto da dire, perché tali inganni sono grandi e molto nascosti. Infatti per suggestione egli può rappresentare all’anima molte notizie intellettuali, imprimendole con tanta efficacia in modo che le sembrino l’unica verità; e se l’anima non è umile e diffidente, certo le farà credere mille menzogne. A volte infatti la suggestione esercita molta forza sull’anima, tanto più quando partecipi un po’ della debolezza del senso, nel quale il demonio fa imprimere la notizia con tanta forza, persuasione ed efficacia, che, per liberarsene, l’anima ha bisogno di molta preghiera e forza. A volte infatti le rappresenta, falsamente e con grande chiarezza, i peccati altrui e le cattive coscienze e le anime malvage; tutto ciò con lo scopo d’infamare e di scoprire le cause e i generi di peccato, insinuando nelle anime che tutto questo sia per zelo di raccomandarle a Dio. Infatti, se è vero che Dio talvolta rappresenta alle anime sante le necessità del prossimo, affinché glielo raccomandino o l’aiutino, come leggiamo in Geremia, che scoprì la debolezza del profeta Baruc per insegnargliene il rimedio (Ger. 45, 3), molto spesso il demonio fa lo stesso, ma falsamente, per indurre a infamie e peccati e sconforti; e di ciò abbiamo grandissima esperienza. Altre 273

volte imprime invece notizie diverse con grande forza e induce a credervi. 18. Tutte queste notizie, provengano o no da Dio, se l’anima vi mostrerà attaccamento potranno servire ben poco al suo progresso nel cammino a Dio; anzi, se non avrà cura di rinnegarle in se stessa, non solo la ostacoleranno, ma le procureranno anche gravi danni e la faranno errare grandemente. Infatti vi si possono nascondere tutti quei pericoli e inconvenienti, ed anche altri maggiori, che abbiamo detto possono torvarsi nelle apprensioni soprannaturali delle quali abbiamo finora trattato. Pertanto non mi dilungherò oltre in questo argomento, avendone data sufficiente dottrina; dirò soltanto che si abbia grande cura nel negarle sempre, se si vuole andare a Dio mediante il non sapere; e se ne dia sempre conto al proprio confessore o maestro spirituale, attenendosi sempre a ciò che egli ne dirà. Ed egli stimoli l’anima a passare rapidamente oltre tutto questo, non concedendogli nessuna importanza per il suo cammino d’unione; infatti, di queste cose che le vengono elargite passivamente, nell’anima resta sempre l’effetto che Dio vuole, senza che essa ne abbia cura. Non mi sembra dunque che ci sia ora ragione di parlare degli effetti provocati dalle notizie vere e da quelle false, poiché stancherei senza esaurire l’argomento, in quanto i loro effetti non possono essere compresi in una breve trattazione; queste notizie sono infatti numerose e molto varie, e così pure i loro effetti, poiché le buone ne producono buoni e cattivi le cattive, ecc. Dicendo di negarle tutte è detto quanto basta per non errare. CAPITOLO 27 Si tratta del secondo genere di rivelazioni, cioè la manifestazione di segreti e misteri occulti. Si dice in che modo possano servire all’unione con Dio o esserne d’impedimento e come il demonio possa ingannare molto su 274

questo punto. 1. Abbiamo detto che il secondo genere di rivelazioni è la manifestazione di segreti e di misteri occulti. Ciò può darsi in due maniere: La prima riguarda ciò che è Dio in sé, e comprende la rivelazione del mistero della Santissima Trinità e Unità di Dio. La seconda riguarda ciò che è Dio nelle sue operee. E comprende tutti gli altri articoli della nostra fede cattolica e le proposizioni vere che intorno a ciò si possono dare esplicitamente. Il che include e comprende un grande numero delle rivelazioni dei profeti, delle promesse e minacce di Dio, ed altre cose che dovevano o dovranno accadere a proposito di ciò che riguarda la fede. In questa seconda maniera possiamo includere anche molte altre cose particolari che Dio ordinariamente rivela, concernenti sia l’universo in generale, sia, in particolare, i regni, le province, gli stati, le famiglie e le persone singole. Di tutto ciò abbiamo abbondanti esempi nelle divine Scritture, specialmente in tutti i profeti, nei quali si trovano rivelazioni annoverabili in ognuna di queste maniere. E siccome la cosa è chiara e semplice, non voglio perder tempo riportandone, ma solo dire che queste rivelazioni non avvengono soltanto mediante la parola, poiché Dio le dà in molti modi: ora con sole parole, ora con soli segni e figure e immagini e somiglianze, ora in questi due modi insieme, come anche si vede nei profeti, specialmente in tutta l’Apocalisse, dove non solo si trovano tutti i generi di rivelazione di cui abbiamo detto, ma anche tutte le maniere di cui ora trattiamo. 2. Di queste rivelazioni incluse nella seconda maniera, anche nel nostro tempo, Dio ne fa a chi vuole; infatti è solito rivelare ad alcune persone la durata della loro vita ed i travagli che dovranno sopportare; che cosa accadrà a questa o quella persona, o a questo o quel regno, ecc. E suole anche 275

svelare e chiarire allo spirito le verità circa i misteri della nostra fede, quantunque ciò non si chiami propriamente rivelazione, trattandosi di verità già rivelate, ma piuttosto manifestazione o spiegazione del già rivelato. 3. Il demonio può intromettersi molto in questo genere di rivelazioni. Poiché infatti le rivelazioni di questo genere ordinariamente si comunicano mediante parole, figure e somiglianze ecc., il demonio può fingerle molto bene, meglio che nei casi di rivelazioni puramente spirituali. Pertanto, se nella prima o nella seconda maniera di cui abbiamo parlato ci venisse rivelato qualcosa di nuovo o di diverso riguardante la nostra fede, in nessun modo dobbiamo acconsentirvi, anche se sentissimo con evidenza che ce lo dice un angelo del cielo. Così infatti afferma San Paolo, dicendo: Licet nos, aut angelus de caelo evangelizei vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit; che significa: «Anche se noi stessi, o un angelo del cielo, vi annunziasse o predicasse cosa diversa da quella che vi abbiamo predicato, sia anatema» (Gal. 1, 8). 4. Perciò, non essendovi altri articoli da rivelare circa la sostanza della nostra fede oltre a quelli già rivelati alla Chiesa, non solo non si deve ammettere quanto di nuovo si riveli all’anima circa la fede, ma, per cautela, conviene all’anima non ammetterne altre varietà involute; e, per la purezza nella fede che l’anima deve avere, anche se le vengano rivelate di nuovo verità già rivelate, non deve credervi in forza del fatto che le siano nuovamente rivelate, ma solo in quanto sono già sufficientemente rivelate alla Chiesa; anzi, chiudendo l’intelletto, si appoggi con semplicità alla dottrina della Chiesa e alla sua fede, la quale, come dice San Paolo, entra «attraverso l’udito» (Rom. 10, 17). E, se non vuole essere ingannata, non presti credito né intelletto a queste cose di fede nuovamente rivelate, anche se le sembrino del tutto conformi e vere. Infatti il demonio, per ingannare e insinuare menzogne, anzitutto nutre con verità e 276

con cose verisimili, per dare sicurezza e per poi ingannare; in modo simile a quello della setola con cui si cuce il cuoio, che prima entra la setola rigida e poi il filo floscio: questo non potrebbe entrare se la setola non le facesse strada. 5. Si ponga molta attenzione in tutto questo, in quanto, anche se non sussistesse il pericolo di quell’inganno, all’anima conviene molto non voler intendere cose chiare riguardo la fede, per conservarne puro e intero il merito, e per giungere, attraverso questa notte dell’intelletto, alla divina luce dell’unione con Dio. Ed è tanto importante, in qualsiasi nuova rivelazione, tenere gli occhi chiusi, attenendosi alle profezie passate, che San Pietro apostolo, pur avendo visto in qualche modo la gloria del Figlio di Dio sul monte Tabor, tuttavia nella sua lettera canonica scrive queste parole: Et habemus firmiorem propheticum sermonem; cui bene facitis attendentes, ecc. (2 Piet. 1, 19); intendendo: Sebbene sia vera la visione di Cristo che abbiamo avuto sul monte, «più ferma e certa è la parola della profezia che ci è rivelata, sulla quale fate bene ad appoggiare la vostra anima». 6. E se è vero che, per le ragioni già dette, è conveniente chiudere gli occhi alle rivelazioni che si ricevessero riguardo alle proposizioni della fede, quanto più sarà necessario non ammettere né dar credito alle altre rivelazioni concernenti cose diverse, nelle quali ordinariamente il demonio si intromette tanto, che ritengo impossibile che non resti ingannato in molte di esse chi non le avrà rifiutate, tanta è l’apparenza di verità e la certezza che il demonio vi insinua! Infatti, affinché vi si creda, unisce verosimiglianze e convenienze, e le stabilisce tanto fermamente nel senso e nell’immaginazione, che all’anima sembra senza alcun dubbio che accadrà così. In tal modo la induce ad attaccarvisi ostinatamente, tanto che se essa non è umile, a stento ve la distaccheranno e le faranno credere il contrario. Pertanto l’anima pura, cauta, semplice e umile deve resistere con 277

tanta forza e cura, e deve rifiutare le rivelazioni e le altre visioni come le tentazioni più pericolose; poiché non è necessario desiderarle, anzi è necessario non desiderarle per volgersi all’unione d’amore. E ciò volle intendere Salomone quando disse: «Che necessità ha l’uomo di volere e cercare e ottenere le cose che sono al di sopra della sua capacità naturale?» (Ecl. 7, 1). Come per dire: Per essere perfetto non ha nessuna necessità di volere cose soprannaturali per via soprannaturale, cioè al di sopra della sua capacità. 7. E poiché alle obiezioni che si possono opporre a ciò si è già risposto nei capitoli diciannovesimo e ventesimo19 di questo Libro, rinvio ad essi, ribadendo solo che l’anima, per procedere puramente e senza errore nella notte della fede verso l’unione, deve guardarsi da tutte quelle cose. CAPITOLO 28 Si tratta delle locuzioni interiori che possono essere ricevute soprannaturalmente dallo spirito. Si dice di quante specie siano. 1. Il lettore accorto deve sempre ricordarsi dell’intento e del fine che mi propongo in questo libro, cioè di incamminare l’anima, nella purezza della fede, alla divina unione con Dio, attraverso tutte le sue operazioni, naturali e soprannaturali, senza che vi si inganni o vi si trovino impedimenti. Dico ciò affinché si intenda il motivo per cui, circa le apprensioni dell’anima, sebbene non dia una trattazione molto abbondante, né sminuzzi la materia e le sue divisioni quanto forse l’intelletto richiederebbe, tuttavia dò quanto basta in proposito. Ritengo infatti che intorno a questi argomenti si diano sufficienti avvisi e lumi ed istruzioni, affinché ci si sappia comportare prudentemente in tutte le cose dell’anima, esteriori e interiori, per progredire. E questa è la ragione per la quale ho concluso tanto 278

rapidamente circa le apprensioni delle profezie, così come ho fatto con le altre, pur avendo tanto di più da dire su ciascuna, a seconda della varietà dei modi e delle maniere in cui ciascuna suole presentarsi, che penso non si potrà mai finire di conoscere; e con ciò mi accontento d’aver dato, a mio avviso, la sostanza e la dottrina e le precauzioni che bisogna avere con esse e con tutto ciò che di simile possa accadere all’anima. 2. Farò ora lo stesso riguardo alla terza specie di apprensioni, che abbiamo chiamato locuzioni soprannaturali, che gli spirituali sogliono ricevere nel loro spirito senza la mediazione di nessun senso corporeo; e, sebbene siano di tanti tipi, credo che si possano ridurre a questi tre, vale a dire: a parole successive, formali e sostanziali. Chiamo successive certe parole e ragionamenti che lo spirito suole formare quando è raccolto in sé e discorre con se stesso. Formali sono certe parole formalmente distinte, che lo spirito riceve non da se stesso, ma da una terza persona, ora quand’è raccolto, ora quando non lo è. Sostanziali sono altre parole, che pure vengono dette allo spirito, ora raccolto ora no, le quali provocano nella sostanza dell’anima quel contenuto e quella virtù che esse significano. Di tutte queste tratteremo ora secondo il loro ordine. CAPITOLO 29 Si tratta del primo genere di parole che talvolta lo spirito raccolto forma in sé. Se ne dice la causa, e il profitto e il danno che si può averne. 1. Queste parole successive si ricevono sempre quando lo spirito è raccolto ed assorto molto attentamente in qualche considerazione. Esso trascorre dall’uno all’altro punto della stessa materia alla quale sta pensando, e forma parole e ragionamenti molto giusti, con grande facilità e chiarezza, e 279

ne viene argomentando e scoprendo tali cose sconosciute, che non gli sembra d’esser lui a far ciò, ma un’altra persona che interiormente discorra o risponda o insegni. E in verità c’è un buon motivo per pensare così, poiché egli stesso ragiona con sé e risponde a se stesso come una persona ad un’altra. E in qualche modo è veramente così, in quanto, se è lo spirito stesso a fungere da strumento, spesso lo Spirito Santo lo aiuta a produrre e a formare quei concetti, quelle parole e quelle ragioni vere. Così le dice a se stesso, come se a parlare fosse un’altra persona; quando infatti l’intelletto è raccolto e unito con la verità di ciò che pensa, anche lo Spirito divino gli è unito in quella verità, come lo è sempre in ogni verità, e perciò l’intelletto, comunicando in tal modo con lo Spirito divino mediante quella verità, va formando entro se stesso, insieme e successivamente, altre verità intorno a ciò che pensava, in quanto lo Spirito Santo gli si fa maestro e gli apre la via e gli dà luce; questo è infatti uno dei modi in cui lo Spirito Santo insegna. 2. Così l’intelletto, illuminato e istruito da tale Maestro, comprendendo quelle verità, contemporaneamente va for mando da sé quelle parole sulle verità che da altra parte gli vengono comunicate. In modo che si può dire che la voce è di Giacobbe e le mani sono di Esaù (Gn. 27, 22). E chi ne fa esperienza non potrà convincersi che tali parole e frasi non sono di una terza persona; poiché ignora che l’intelletto facilmente può formare da sé, come se provenissero da altri, delle parole intorno a concetti e a verità che gli vengano comunicate da una terza persona. 3. E sebbene sia vero che in quelle comunicazioni e illuminazioni dell’intelletto di per sé non vi sia inganno, può però esserci, e spesso c’è, nelle parole formali e nelle ragioni che l’intelletto vi costruisce sopra; talvolta, infatti, quel lume che gli si dà è molto sottile e spirituale, e perciò l’intelletto non giunge a coglierlo bene, ed essendo lui stesso, come abbiamo detto, a formare da sé le ragioni, ne consegue che 280

spesso ne forma di false o di verosimili o di difettose. Infatti, siccome da principio ha cominciato a cogliere il filo della verità, ma subito dopo vi frappone la rozza capacità del suo povero intelletto, perciò facilmente viene variandola a seconda della sua abilità, e tutto ciò in modo tale come se a parlargli fosse un’altra persona. 4. Ho conosciuto una persona che, essendo capace di queste locuzioni successive, oltre a formarne alcune molto vere e sostanziali sul Santissimo Sacramento dell’Eucarestia, ne formava altre che erano vere e proprie eresie. E mi meraviglio molto di quanto accade nel nostro tempo: se un’anima qualunque, che abbia quattro soldi di riflessione, durante un raccoglimento percepisce qualche locuzione, eccola subito pronta a battezzare tutto come se venisse da Dio, e, nella persuasione che sia così, va dicendo: «Dio mi ha detto», «Dio mi ha risposto»; ma per lo più non è così, in quanto, come abbiamo affermato, è lei stessa a dire tali cose. 5. Inoltre il desiderio che queste anime ne hanno, e l’affezione che ne portano nello spirito, fanno sì che esse stesse si rispondano, e pensino che sia Dio a rispondere e a parlare loro; incorrono quindi in grandi spropositi, se in ciò non vengano decisamente frenate e se chi le governa non imponga loro la negazione di questo genere di discorso. Infatti, per lo più, vi cavano ciance e impurità d’anima piuttosto che umiltà e purificazione di spirito, perché pensano che sia accaduta una grande cosa e Dio stesso abbia parlato, mentre s’è trattato di poco più che niente, o di niente, o di meno che niente. Che cosa infatti può essere ciò che non genera umiltà, carità, mortificazione, santa semplicità e silenzio? Affermo dunque che tutto ciò può molto sviare dal cammino verso la divina unione, perché, se l’anima vi dà molta importanza, viene molto allontanata dall’abisso della fede, in cui l’intelletto deve stare allo scuro e, per amore, 281

deve procedere al buio, nella fede, anziché con molti ragionamenti. 6. E se mi si chiede: perché l’intelletto deve privarsi di quelle verità, dal momento che in esse è lo Spirito di Dio che lo illumina, e dunque non può esserci male? dico che lo Spirito Santo illumina l’intelletto raccolto, e lo illumina nel modo del suo raccoglimento, e l’intelletto non può avere un raccoglimento più grande che nella fede; perciò lo Spirito Santo non lo illuminerà in nessun’altra cosa più che nella fede; infatti, quanto più l’anima è pura ed eccellente nella fede, tanto più ha carità infusa da Dio; e quanto più ha carità, tanto più l’illumina e le comunica i doni dello Spirito Santo, poiché la carità è la causa e il mezzo attraverso cui le si comunica. E sebbene sia vero che Dio comunica all’anima qualche lume in quell’illuminazione di verità, però al suo confronto quello della fede, che non comporta l’intendere chiaramente, è tanto differente per qualità quanto l’oro purissimo dal più vile metallo; ed è tanto differente per quantità quanto il mare di fronte ad una goccia d’acqua. Infatti, mentre nel primo modo le si comunica la sapienza di una o due o tre verità, ecc., nell’altro l’intera Sapienza di Dio in generale, cioè il Figlio di Dio, che si comunica all’anima nella fede. 7. Se poi mi si dice che tutto è buono e che l’una cosa non impedisce l’altra, rispondo ribadendo che, se l’anima vi dà importanza, le sarà di grande impedimento, perché verrà a trovarsi già occupata da cose ovvie e di poco conto, che sono sufficienti ad impedire la comunicazione dell’abisso della fede; nella fede, invece, Dio insegna all’anima in modo soprannaturale e segreto, e la innalza in viritù e doni, come ella stessa non sa. Il profitto che quella comunicazione successiva deve portare non deve provenire dall’applicarvi di proposito l’intelletto, perché in tal modo si andrà invece allontanandola da sé, secondo quanto la Sapienza dice all’anima nel Cantico 282

dei cantici: «allontana da me i tuoi occhi, che mi fanno volare» (6, 4); vale a dire: mi fanno volare lontano da te e mi levano più in alto; applichi invece la volontà a Dio con amore, in modo semplice e puro, senza porre l’intelletto in ciò che Dio va comunicandole in modo soprannaturale; per amore, infatti, le vengono comunicati quei beni e per amore glieli saranno comunicati con maggiore abbondanza di prima. Infatti, se in queste cose che si comunicano soprannaturalmente e passivamente si introduce attivamente la naturale capacità dell’intelletto, o di altre potenze, il loro modo rozzo non è capace di tanto e di necessità le modificherà, abbassandole al proprio livello, e di conseguenza le altererà; perciò necessariamente verrà sbagliando e formando da sé i ragionamenti, e alla fine non si tratterà più di cose soprannaturali o simili, ma di cose erronee naturali e inferiori. 8. Vi sono però alcuni intelletti tanto vivi e sottili che, stando raccolti in qualche meditazione e discorrendo concettualmente, in modo del tutto naturale e facile e con grave vivacità, vanno formulando quelle parole e quei ragionamenti, pensando poi senz’altro che provengano da Dio; in realtà non è nient’altro che il loro intelletto che può far questo e altro, essendo libero dall’operazione dei sensi e senza bisogno di alcun aiuto soprannaturale. Di costoro ve ne sono molti, ed essi grandemente s’ingannano allorché pensano che si tratti di molta preghiera e comunicazione in Dio, giungendo a scriverne o a farne scrivere in questi termini. Invece spesso non sarà un bel niente, senz’alcuna sostanza di virtù, che non servirà se non ad andarne vanitosi. 9. Costoro imparino a non darvi peso, ma piuttosto a fondare la volontà nella fortezza dell’amore umile, e a operare davvero soffrendo e imitando il Pìglio di Dio nella sua vita e nelle sue mortificazioni: questo, e non molti discorsi interiori, è il cammino per giungere all’intero bene 283

spirituale. 10. Anche in questo genere di parole interiori successive il demonio s’intromette molto, specialmente con coloro che ne hanno inclinazione o affezione. Infatti, nel momento in cui costoro cominciano a raccogliersi, il demonio suole offrir loro abbondante materia di digressioni, formando per suggestione nel loro intelletto i concetti e le parole, e così sottilissimamente vien precipitando e ingannando quelle anime con cose verosomili. Ê questo uno dei modi in cui si comunica con coloro che hanno fatto qualche patto con lui, tacito o esplicito, e con alcuni eretici, specialmente con alcuni eresiarchi, informando il loro intelletto con concetti e ragioni molto sottili, false ed erronee. 11. Da quanto s’è detto si comprende che queste locuzioni successive possono derivare all’intelletto da tre cause, ossia: dallo Spirito Divino, che muove e illumina l’intelletto, dal lume naturale dell’intelletto stesso, e dal demonio, che può parlargli per suggestione. Ora sarebbe molto difficile mostrare e descrivere interamente i segni e gli indizi attraverso i quali riconoscere quando procedono dall’una o dall’altra causa; ma se ne possono dare alcuni generali, che sono i seguenti. Quando l’anima, insieme con quelle parole e concetti, va amando e provando amore umile e reverente per Dio, è segno che vi è lo Spirito Santo, il quale riveste sempre in questo modo le grazie che dona. Quando tutto procede soltanto dal lume e dalla vivacità dell’intelletto, è l’intelletto che agisce, senza l’operazione delle virtù, sebbene la volontà possa amare naturalmente nella conoscenza e nella luce di quelle verità; ma, cessata la meditazione, la volontà, quantunque non sia inclinata a vanità né al male, resta arida, a meno che il demonio non prenda occasione per tentarla di nuovo. Il che non accade nel caso di locuzioni che procedono da spirito buono, perché, dopo, la volontà rimane ordinariamente affezionata a Dio e 284

inclinata al bene; sebbene talvolta accada che, dopo, la volontà resti arida anche nel caso in cui la comunicazione provenga da spirito buono, poiché così vuole Dio, per l’utilità dell’anima stessa. Altre volte, pur essendo buono ciò che ha ricevuto, l’anima non sentirà molto le operazioni e i movimenti di quelle virtù. Perciò dico che talvolta è difficile conoscere la differenza tra l’una e l’altra comunicazione, a causa della varietà degli effetti che si producono; ma questi ora indicati sono quelli comuni, sebbene siano presenti ora in maggiore ora in minore ampiezza. Talvolta, poi, è diffìcile individuare e riconoscere quelle che provengono dal demonio, perché, sebbene ordinariamente lascino la volontà arida nei riguardi dell’amore di Dio e l’animo inclinato alla vanità, alla stima e alla compiacenza di sé, tuttavia qualche volta insinuano nell’animo una falsa umiltà e un’ardente affezione della volontà fondata sull’amor proprio, cosicché, per conoscerle, è necessaria una persona molto spirituale. E il demonio provoca questi effetti per meglio nascondersi, e in qualche caso sa bene far spargere lacrime sui sentimenti che genera, per insinuare nell’anima le affezioni che vuole. Ma procura sempre di spingere la volontà a stimare quelle comunicazioni interiori e a dar loro grande importanza, affinché l’anima vi si dedichi, occupandosi di ciò che non è virtù e che, anzi, è occasione di perdere quella che avesse. 12. Per non essere dunque ingannati né impediti da tali comunicazioni comportiamoci verso le une e le altre con questa necessaria cautela: non teniamole in alcun conto, ma sappiamo indirizzare unicamente a Dio la volontà con fortezza, osservando perfettamente la sua legge e i suoi santi consigli — in ciò consiste la sapienza dei Santi —, accontentandoci di conoscere i misteri e le verità con la semplicità e la veracità con cui ce li propone la Chiesa. Questo basta per infiammare grandemente la volontà, senza gettarci in altre profondità e senza esporci a curiosità, che solo per miracolo sono esenti da pericoli. Infatti dice San 285

Paolo a questo proposito: «Non conviene sapere più di quanto è necessario sapere» (Rom. 12, 3). E ciò basti quanto all’argomento delle parole successive. CAPITOLO 30 Si tratta delle parole interiori che formalmente sono rivolte allo spirito per via soprannaturale. Si danno avvertimenti sul danno che possono provocare e sulle cautele necessarie per non esserne ingannati. 1. Il secondo genere di parole interiori è costituito dalle parole formali, che talora si danno allo spirito per via soprannaturale, senza alcun tramite dei sensi, stando o no lo spirito in raccoglimento. Le chiamo formali perché formalmente vengono dette allo spirito da una terza persona, senza che esso vi metta niente. E perciò sono molto diverse da quelle di cui abbiamo ora finito di parlare, poiché non solo ne differiscono in quanto si danno senza che lo spirito vi prenda parte in alcun modo, ma talvolta senza che lo spirito sia in raccoglimento, anzi quand’è molto lontano da quello che gli si dice, il che non avviene con le parole successive, che riguardano sempre l’argomento sul quale si stava meditando. 2. Talora queste parole sono ben formulate, talaltra non molto; poiché spesso sono come concetti dei quali vien detto qualcosa allo spirito, ora mediante risposte, ora parlandogli in altro modo. Esse consistono ora in una sola parola, ora in due o più, ora in parole successive come le precedenti; sogliono infatti durare mentre all’anima viene insegnato o spiegato qualcosa, e tutto ciò senza che lo spirito vi ponga niente di suo, in quanto tutte queste parole sono come quelle di una persona che parli con un’altra. Leggiamo che così accadde a Daniele (9, 22), il quale dice che un angelo gli parlava. Parlava cioè formalmente e successivamente, ragionando all’interno del suo spirito e ammaestrandolo, 286

come anche l’angelo stesso afferma, dicendo di essere venuto per ammaestrarlo. 3. Queste parole, quando non sono più che formali, non producono un grande effetto nell’anima; infatti ordinariamente hanno il solo scopo di insegnare o illuminare intorno a qualcosa; e per ottenere questo effetto non occorre che ne abbiano uno più efficace del fine cui tendono. E, quando provengono da Dio, producono sempre tale effetto nell’anima, rendendola pronta e perspicace in ciò che le si comanda o insegna, senza tuttavia, talvolta, liberare l’anima da ripugnanza e difficoltà, che anzi sogliono aumentarle, cosa che Dio permette per un maggiore insegnamento e umiltà e bene dell’anima. Anzi, questa ripugnanza ordinariamente Dio la permette quando impone a un’anima cariche od altro in cui possa ricevere qualche onore, mentre nelle cose umili e basse le dà maggiore facilità e prontezza. Così leggiamo nell’Esodo (3-4) che quando Dio comandò a Mosè di presentarsi al Faraone e di liberare il popolo, egli provò tanta ripugnanza che fu necessario comandarglielo tre volte e dargli dei segni, né tutto ciò servì, finché Dio non gli diede come compagno Aronne a spartirne l’onore. 4. Il contrario accade quando le parole e le comunicazioni provengono dal demonio, che nelle cose di maggiore importanza pone facilità e prontezza e in quelle basse ripugnanza; infatti certamente Dio tanto aborre di vedere le anime inclinate a grandezze, che anche quando gliene manda o ve le pone in mezzo, non vuole che abbiano pronta disposizione e voglia di comandare. Ed è nella prontezza che comunemente Dio pone nelle anime con parole formali che queste differiscono dalle parole successive, le quali invece non muovono altrettanto lo spirito, né gli mettono tanta sollecitudine, perché sono più esterne e perché l’intelletto vi mette meno di suo. Tuttavia ciò non toglie che talvolta alcune parole successive producano un effetto maggiore, poiché non di rado c’è una grande comunicazione tra lo Spirito divino e 287

l’umano; c’è però grande differenza quanto al modo di produrre tale effetto. Nelle parole formali, infatti, l’anima non deve dubitare d’esser lei stessa a pronunciarle, sebbene si veda che non è così, specie quando non stava pensando a ciò che le venga detto; e se poi vi pensava, percepisce in modo molto chiaro e distinto che ciò che ha sentito le proviene da altra parte. 5. Di tutte queste parole formali l’anima deve tenere lo stesso poco conto che di quelle successive; perché, oltre ad occupare lo spirito con ciò che non è un mezzo legittimo e prossimo per l’unione con Dio, cioè la fede, molto facilmente potrebbe essere ingannata dal demonio; talvolta infatti a stento si distinguerà se le parole siano pronunciate da spirito buono o da cattivo; infatti, in quanto producono scarsi effetti, si possono appena distinguere grazie a questi; non solo, ma quelle che provengono dal demonio talvolta sugli imperfetti hanno maggiore efficacia di quanta non ne abbiano sugli spirituali quelle che provengono dallo spirito buono. Perciò non si deve fare quanto esse dicono, né bisogna dar loro peso, vengano da buono o da cattivo spirito; bisogna invece manifestarle al confessore prudente o a persona discreta e saggia, affinché istruisca e veda cosa convenga al caso e dia consiglio, onde l’anima a loro riguardo si comporti rassegnatamente e negativamente. Se poi non si trovasse una persona esperta, è meglio non farne parte con nessuno e non far nessun conto di tali parole, perché facilmente ci si imbatterà in persone che più facilmente distruggeranno l’anima anziché edificarla; infatti le anime non possono essere trattate da qualsiasi persona, essendo cosa di grande importanza sbagliare o agir bene in una questione tanto grave. 6. Si abbia grande cura affinché l’anima non dica mai la sua e non faccia o ammetta alcunché in rapporto a ciò che quelle parole possano dirle, senza il pieno consenso ed il consiglio di altri, poiché in questa materia si verificano sottili 288

e strani inganni; perciò ritengo che l’anima che non sia nemica di tali parole o poco o tanto non potrà non essere ingannata in molte di esse. 7. E poiché di questi inganni e pericoli, e delle cautele nei loro riguardi, si è trattato espressamente nei capitoli diciasssettesimo, diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo di questo libro, ai quali rinvio, non mi diffondo oltre. Ribadisco solo che la principale e più sicura dottrina è di non darvi assolutamente peso, malgrado tutto, ma di regolarsi in tutto secondo ragione e secondo ciò che ci ha insegnato e ogni giorno ci insegna la Chiesa. CAPITOLO 31 Si tratta delle parole sostanziali che interiormente lo spirito riceve, della differenza tra queste e quelle formali, del profitto che producono e del rispetto che l’anima deve avere nei loro confronti. 1. Abbiamo detto che il terzo genere di parole interiori è costituito dalle parole sostanziali, le quali, sebbene siano anch’esse formali, in quanto si imprimono nell’anima molto formalmente, ne differiscono tuttavia in questo, che la parola sostanziale ha sull’anima un effetto vivo e sostanziale, che invece non è prodotto da quella solo formale. Dimodoché, sebbene sia vero che ogni parola sostanziale è anche formale, tuttavia non ogni parola formale è sostanziale, ma lo è solo quella che, come abbiamo detto, imprime sostanzialmente nell’anima ciò che per suo mezzo significa. Così, se nostro Signore dicesse formalmente all’anima «Sii buona», questa subito sarebbe sostanzialmente buona. O se le dicesse «Amami», subito avrebbe e sentirebbe in sé sostanza di amore divino; o se essa fosse in grande timore ed egli le dicesse «Non temere», subito sentirebbe grande fortezza e tranquillità. Poiché, come dice il Savio, «il detto di Dio e la sua parola sono piene di potenza» (Ecl. 8, 4); 289

e perciò producono sostanzialmente nell’anima ciò che le dicono; il che infatti intese esprimere David quando disse: «Guardate che egli darà alla sua voce voce di virtù» (Sal. 67, 34). E così fece con Abramo, il quale, quando Dio gli disse: «Cammina alla mia presenza e sii perfetto» (Gn. 17, 1), subito fu perfetto e andò sempre a lui sottomesso. E questo è il potere della sua parola nel Vangelo: soltanto pronunziandola risanava gli infermi, risuscitava i morti, ecc. Ad alcune anime Dio concede locuzioni sostanziali di questo tipo; e sono di tanta importanza e valore che sono per l’anima vita e virtù e bene incomparabile, poiché una parola di queste le procura un bene maggiore di quanto non ne abbia ricevuto in tutta la vita. 2. Nei confronti di queste parole l’anima non ha niente da fare, né da volere, né da non volere, né da rifiutare, né da temere. Non ha niente da fare per compiere quanto esse dicono, perché queste parole sostanziali Dio non le pronunzia mai affinché essa le ponga in opera, ma per operare in lei attraverso esse; il che non accade nelle formali e successive. E dico che non deve né volerle né non volerle, poiché non c’è bisogno del suo volere affinché Dio le conceda, né basta il non volerle per impedirne l’effetto; ci si comporti invece con rassegnazione ed umiltà nei loro confronti. E non ha niente da rifiutare, giacché il loro effetto rimane sostanziato nell’anima e ricolmo del bene di Dio, rispetto al quale, ricevendolo passivamente, la sua azione niente vale. Né l’anima ha da temere qualche inganno, poiché né l’intelletto né il demonio possono intromettervisi provocando passivamente in lei un effetto sostanziale, in modo da imprimerle l’effetto e l’abito della sua parola. A meno che l’anima non si sia consegnata al demonio con patto volontario, in modo che, abitando in lei come suo signore, egli le imprima simili effetti, che però non sono di bene, ma di malizia. Infatti, solo in quanto un’anima gli fosse unita in nequizia volontaria, il demonio vi potrebbe 290

facilmente imprimere i maliziosi effetti dei propri discorsi e delle proprie parole. Vediamo infatti per esperienza che in molte cose il demonio esercita una grande forza di suggestione anche sulle anime buone, e con grande efficacia; che se fossero cattive vi potrebbe consumare il male. Ma non può mai imprimere effetti simili a quelli buoni, perché non c’è confronto tra le sue e le parole di Dio, di fronte alle quali tutte le sue parole sono come se non fossero, e il loro effetto è niente. Perciò Dio dice in Geremia: «Che ha a che vedere la paglia con il frumento? Le mie parole sono forse come fuoco e come martello che spezza le rocce?» (23, 28-29). Queste parole sostanziali pertanto servono molto per l’unione dell’anima con Dio, e quanto più sono interiori e sostanziali tanto più giovano. Felice l’anima alla quale Dio le pronuncerà! «Parla Signore, che il tuo servo ascolta» (1 Re 3, 10). CAPITOLO 32 Si tratta delle apprensioni che l’intelletto riceve dai sentimenti interiori che sono generati soprannaturalmente nell’anima. Se ne dice la causa e come l’anima deve comportarsi per non intralciare il cammino dell’unione con Dio. 1. Tratteremo ora del quarto e ultimo genere di apprensioni intellettuali che abbiamo detto possono cadere nell’intelletto da parte dei sentimenti spirituali, i quali spesso si danno soprannaturalmente nell’anima dello spirituale; li abbiamo già annoverati fra le apprensioni distinte dell’intelletto. 2. Questi sentimenti spirituali distinti possono essere di due tipi: Primo, i sentimenti che sono nell’affetto della volontà. Secondo, i sentimenti che sono nella sostanza dell’anima. Gli uni e gli altri possono essere di molti generi. Quelli della volontà, quando sono da Dio, sono molto 291

sublimi, ma quelli che appartengono alla sostanza dell’anima sono profondissimi e producono grande bene e profitto. Né l’anima, né chi la dirige, possono sapere né intendere la causa donde procedono, né le operazioni con cui Dio largisce questi doni, dal momento che non dipendono da opere che l’anima compia, né da sue meditazioni, sebbene queste cose ne rivelino buona disposizione, ma Dio li dà a chi vuole e con il fine che vuole; sicché accadrà che una persona si sia esercitata in molte opere e tuttavia Dio non le conceda questi tocchi, e che un’altra vi si sia esercitata molto meno e ne riceva invece molto sublimi e copiosi. Non è dunque necessario che l’anima sia attualmente applicata e occupata in cose spirituali — anche se è molto meglio che lo sia — perché Dio le doni i tocchi da cui riceve i sentimenti dei quali abbiamo trattato, anzi il più delle volte ne è molto lontana. Alcuni di questi tocchi sono distinti, e passano presto; altri non sono molto distinti e durano di più. 3. Questi sentimenti, in quanto sono soltanto sentimenti, non appartengono all’intelletto, ma alla volontà; perciò non ne tratto espressamente qui, ma nel seguente Libro Terzo, nel quale parleremo della notte e della purificazione della volontà nei suoi affetti. Siccome però molte volte, anzi per lo più, l’intelletto ne riceve apprensione, notizia e intelligenza, conviene allora che io ne faccia menzione anche qui. Si deve dunque sapere che da questi sentimenti — sia da quelli della volontà, sia da quelli che sono nella sostanza dell’anima, siano i tocchi di Dio a farli repentini o siano durevoli e successivi — spesso, dico, ridonda nell’intelletto un’apprensione di notizia o intelligenza, che di solito è un altissimo sentimento di Dio, gustosissimo nell’intelletto, al quale non è possibile dare un nome, come non è possibile darlo al sentimento donde scaturisce. E queste notizie si danno ora in una maniera ora in un’altra, talora più sublimi e chiare, talora meno, a seconda delle proprietà dei tocchi che Dio dà e che causano i sentimenti donde esse procedono. 292

4. Non è dunque necessario impiegare grandi sforzi per suggerire cautela e per incamminare l’intelletto nella fede, mediante queste notizie, all’unione con Dio; infatti, come i sentimenti di cui abbiamo parlato si ricevono passivamente nell’anima, senza che essa effettivamente faccia nulla per riceverli, così anche le loro notizie si ricevono passivamente nell’intelletto che i filosofi chiamano possibile, senza che esso faccia alcunché da parte sua. Perciò, per non sbagliare in questi sentimenti e non per impedirne il profìtto, l’intelletto non deve far nulla nei loro riguardi, ma deve comportarsi passivamente senza intromettervi la propria capacità naturale. Infatti, come abbiamo detto accadere con le parole successive, molto facilmente con la sua attività può turbare e distruggere quelle delicate notizie, che sono una saporosa intelligenza soprannaturale a cui la natura non può giungere, e nemmeno può comprenderla agendo, ma ricevendola. Così l’anima non deve procurarsele, né deve aver voglia di riceverle affinché l’intelletto non vada per suo conto formandosene altre, e il demonio non si introduca con notizie diverse e false; cosa che questi può fare molto bene mediante quei sentimenti o mediante quelli che da parte sua può porre nell’anima che si disponga alla sua azione. L’anima se ne stia dunque rassegnata in esse, umile e passiva: infatti le riceve passivamente da Dio e Dio le si comunicherà quando lo vorrà, vedendola umile e distaccata. In tal modo non impedirà il vantaggio per la divina unione che le viene da queste notizie: vantaggio grande, in quanto tutti questi sono tocchi di quell’unione che si compie nell’anima passivamente. 5. Quanto s’è detto sull’argomento è sufficiente perché l’anima abbia la necessaria cautela e, con l’aiuto di tutte le distinzioni di cui si è parlato, conosca la dottrina relativa a qualsiasi cosa le capiti quanto all’intelletto. E se anche qualcosa sembri diverso e non incluso nelle distinzioni descritte, in realtà non c’è cognizione che non possa ridursi ad una di esse onde possa trarsene dottrina. 293

7. Che corrisponde dunque all’opera Notte oscura. 8. Che in realtà corrisponde all’intera Notte oscura. 9. DIONIGI AREOPAGITA,De mystica theologia, I, 1. 10. Nella Metafisica, II, 1. 11. Molto probabilmente il riferimento, che si estende al numero successivo, è al Castillo interior di Teresa d’Avila. 12. Ancora con generale riferimento all’inizio del secondo libro della Metafisica. 13. Comune assioma teologico, di cui si può riscontrare la forma che Tommaso d’Aquino ne dà, ad esempio, nel De verilate, q. 12, a. 6. 14. Massima spirituale che si trova in questa forma, ad esempio, nella Lettera III di Bernardo di Chiaravalle. 15. Nel De consolatione philosophiae, I, 7; il passo integrale è il seguente: «Tu quoque si vis / lumine claro / cernere verum / tramite recto / carpere callem / gaudia pelle / pelle timorem / spemque fugato / nec dolor adsit / Nubila mens est / vinctaque frenis / haec ubi regnant». 16. Evidenti le risonanze dell’inno eucaristico Verbum supernum di Tommaso d’Aquino, la cui quarta strofa suona: «Se nascens dedit socium / convescens in edulium / se moriens in praetium / se regnans dat in praemium». 17. Come riferisce San Gregorio nel 1. II, c. 35 dei suoi Dialoghi. 18. Quodlibetales, q. I, a. I, ad primum. 19. In realtà, nel 21° e nel 22°.

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LIBRO TERZO Si tratta della purificazione della notte attiva della memoria e della volontà. Si insegna come l’anima deve comportarsi riguardo alle apprensioni di queste due potenze per giungere, secondo esse, ad unirsi con Dio in perfetta speranza e carità. CAPITOLO 1 1. Dopo aver istruito la prima potenza dell’anima, cioè l’intelletto, in tutte le sue apprensioni in relazione alla prima virtù teologale che è la fede, affinché l’anima possa unirsi con Dio secondo questa potenza mediante la purezza della fede, resta ora da fare lo stesso riguardo alle altre due potenze dell’anima, cioè la memoria e la volontà, purificando anche queste secondo le loro apprensioni, affinché l’anima, secondo queste due potenze, venga ad unirsi con Dio in perfetta speranza e carità. Il che faremo in questo Terzo Libro, brevemente; perché, avendo concluso quanto all’intelletto, che a suo modo è il ricettacolo di tutti gli altri oggetti, parlando di esso abbiamo percorso molto cammino anche riguardo alle altre potenze, cosicché intorno a queste non è necessario diffonderci molto; infatti non è possibile che lo spirituale istruisca bene l’intelletto nella fede secondo la dottrina che abbiamo dato, senza che istruisca almeno di passaggio le altre due potenze nelle relative virtù: le operazioni delle une dipendono infatti dalle altre. 2. Ma per proseguire con il metodo già usato e affinché meglio si intenda, è necessario parlare della materia propria e determinata, onde tratteremo qui delle apprensioni proprie di ciascuna potenza, e in primo luogo di quelle della memoria, facendo subito la distinzione che serve al nostro proposito. Potremo derivarla dalla distinzione dei suoi oggetti, che sono tre: naturali, immaginari e spirituali; secondo i quali anche le notizie della memoria sono in tre 295

modi, ossia: spirituali.

naturali

e

soprannaturali

e

immaginari

3. Con l’aiuto di Dio tratteremo ora di queste notizie, cominciando da quelle naturali, che hanno un oggetto più esteriore. Si tratterà quindi delle affezioni della volontà, con cui si concluderà questo terzo libro della notte attiva spirituale. CAPITOLO 2 Si tratta delle apprensioni naturali della memoria e si dice come si debba vuotarsene affinché l’anima possa unirsi con Dio secondo questa potenza. 1. È necessario che in ciascuno di questi libri il lettore ponga mente al nostro proposito, perché altrimenti potrebbero nascergli molti dubbi riguardo a quanto legge, come ora li potrebbe avere su quanto abbiamo detto dell’intelletto e su quanto stiamo per dire della memoria e poi della volontà; vedendo infatti come annichiliamo le potenze nelle loro stesse operazioni, gli parrà forse che distruggiamo il cammino dell’esercizio spirituale, anziché edificarlo; il che sarebbe vero se qui volessimo istruire soltanto i principianti, ai quali soltanto conviene disporsi mediante queste apprensioni discorsive e apprensibili. 2. Ma poiché qui stiamo dando una dottrina per progredire, mediante la contemplazione, verso l’unione con Dio — e per questo fine tutti questi mezzi ed esercizi sensitivi delle potenze si debbono lasciare da parte e in silenzio, affinché Dio da sé compia nell’anima la divina unione — conviene dunque seguire il metodo di sbarazzare e vuotare le potenze e di negare la loro giurisdizione naturale e le loro operazioni, affinché si dia luogo all’infusione in esse e all’illuminazione del soprannaturale; la loro sola capacità non può infatti giungere a meta tanto alta, anzi può 296

disturbare se non la si perde di vista. 3. Essendo dunque vero, come è vero, che l’anima deve conoscere Dio piuttosto attraverso ciò che non è che non ciò che è, per andare a lui deve necessariamente procedere negando e non accettando le proprie apprensioni, sia naturali che soprannaturali, fino al limite estremo della possibilità di negarle. Perciò così faremo ora riguardo alla memoria, liberandola dai suoi limiti e sostegni naturali, ed elevandola al di sopra di sé, cioè al di sopra di ogni notizia distinta e di ogni possesso apprensibile, nella somma speranza di Dio incomprensibile. 4. Incominciando dunque dalle notizie naturali, dico che queste, nella memoria, sono tutte quelle che essa può formare riguardo agli oggetti dei cinque sensi corporei, cioè: udito, vista, odorato, gusto e tatto, e tutte quelle di tale genere che essa può foggiare e formare. Di tutte queste notizie e forme essa deve spogliarsi e vuotarsi, procurando di perderne l’apprensione immaginaria, in modo che non lascino impressa in lei notizia né traccia di alcuna cosa, ed essa rimanga nuda e rasa, come se nulla fosse passato in lei, e sospesa e dimentica di tutto. Per unirsi a Dio non si può dunque fare a meno di annichilire la memoria rispetto a tutte le forme. Infatti l’unione con Dio non può avvenire a meno che essa non si separi totalmente da tutte le forme che non sono lui, perché Dio non cade sotto nessuna forma o notizia distinta, come abbiamo detto parlando della notte dell’intelletto. E poiché nessuno può servire due padroni (Mt. 6, 24), come dice Cristo, la memoria non può essere unita con Dio e contemporaneamente con le forme e notizie distinte; e poiché Dio non ha forma né immagine che possa essere compresa dalla memoria, ne consegue che quando l’anima è unita con Dio, come anche si può vedere ogni giorno per esperienza, resta priva di forma e di figura, con l’immaginazione perduta e la memoria assorta nel sommo 297

bene, in grande oblio, senza ricordo di nulla; infatti quella divina unione le vuota la fantasia e le cancella tutte le forme e notizie mentre l’innalza al soprannaturale. 5. È perciò degno di nota ciò che talvolta avviene in questo caso; a volte infatti, quando Dio opera questi tocchi di unione nella memoria, improvvisamente provoca nel cervello, che ne è la sede, un sussulto tanto sensibile che le sembra che tutta la testa le svanisca e che il giudizio e il senso si perdano: ora più ora meno, secondo che il tocco sia più o meno forte. Perciò a causa di questa unione la memoria si vuota e si purifica di tutte le notizie e resta in oblio, e talvolta in oblio tale che deve farsi grande forza e deve faticare per ricordarsi di qualcosa. 6. E qualche volta, quando la memoria è unita con Dio, il suo oblio e la sospensione dell’immaginazione sono tali che passa molto tempo senza che lo s’avverta e senza che si sappia che cosa si sia fatto in quel tempo. Perciò, quando l’immaginazione è sospesa, anche se si subiscono cose che provocano dolóre, non se ne ha sensazione, poiché senza immaginazione non c’è sentimento, nemmeno in forza del pensiero, dal momento che questo non c’è. Affinché dunque Dio venga ad operare questi tocchi d’unione, è necessario che l’anima distacchi la memoria da tutte le notizie apprensibili; e bisogna notare che queste sospensioni, proprie dell’inizio dell’unione, non avvengono in questo modo nei perfetti, proprio perché in essi l’unione è ormai perfetta. 7. Qualcuno osserverà che tutto questo sembra buona cosa, ma che ne consegue la distruzione dell’uso naturale e del corso delle potenze, che lascia l’uomo come bestia, smemorato, e anche peggio, senza discorso e senza ricordo delle necessità e delle operazioni naturali; e mentre Dio non distrugge la natura, anzi la perfeziona20, di qui invece sembrerebbe conseguirne necessariamente la distruzione, in 298

quanto ci si dimentica del morale e del razionale per praticarlo, e del naturale per esercitarlo, e di ciò non si può ricordare niente, dal momento che ci si priva delle notizie e delle forme che sono il mezzo per la reminiscenza. 8. A ciò rispondo che è veramente così: quanto più la memoria si unisce con Dio, tanto più si perfeziona quanto alle notizie distinte, fino a perderle del tutto allorché giunge al perfetto stato dell’unione. Così, in principio, quando questa unione si sta attuando, l’anima non può non avere un grande oblio di tutte le cose, le cui forme e notizie vanno cancellandosi, per cui commette molti errori quanto alle abitudini e al tratto esteriore, non ricordandosi né di mangiare né di bere, né di aver fatto o visto o non visto qualcosa, né se una cosa è stata detta o no; e ciò a causa dell’assorbimento della memoria in Dio. Però, quando l’anima è giunta ad avere l’abito dell’unione, che è un bene sommo, non ha più simili dimenticanze quanto alla ragione morale e naturale; anzi, è molto più perfetta nelle operazioni convenienti e necessarie. Infatti non compie più quelle operazioni mediante le forme e le notizie della memoria, in quanto, nel possesso dell’abito dell’unione, che è ormai stato soprannaturale, la memoria e le altre potenze vengono del tutto meno nelle loro operazioni naturali e passano dal loro limite naturale al piano soprannaturale, quello di Dio. Essendo perciò la memoria trasformata in Dio, non si possono imprimere in lei né forme né notizie delle cose. Per tale motivo, in questo stato, le operazioni della memoria e delle altre potenze sono tutte divine, in quanto Dio stesso, possedendo ormai le potenze come loro assoluto signore, in quanto trasformate in lui, le muove e comanda divinamente secondo il suo spirito e la sua divina volontà. Ed è per ciò che le operazioni non sono distinte, in quanto quelle che l’anima opera sono di Dio e sono operazioni divine; poiché, come dice San Paolo (ICor. 6, 17), colui che si unisce con Dio si fa un solo spirito con lui; onde le 299

operazioni dell’anima nell’unione sono dello Spirito Divino e sono divine. 9. Ne consegue che le opere di queste anime sono tutte convenienti e ragionevoli, e nessuna non conveniente, poiché lo spirito di Dio fa loro sapere ciò che debbono sapere, e ignorare ciò che conviene ignorare, e fa loro ricordare ciò che debbono ricordare, senza forme o con forme, e dimenticare ciò che debbono dimenticare, ed amare ciò che debbono amare, e non amare ciò che non è in Dio. Tutti i primi moti delle potenze di queste anime sono dunque divini; e non c’è da meravigliarsi che siano divini i movimenti e le operazioni di queste potenze, essendo trasformate nell’essere divino. 10. Porterò qualche esempio di queste operazioni: se una persona chieda ad un’altra che si trovi in tale stato di raccomandarla a Dio, questa persona si ricorderà di farlo non perché le sia rimasta nella memoria qualche forma o notizia di quella persona, ma solo se tale raccomandazione a Dio è conveniente; ossia, se Dio accetta la preghiera per tale persona, egli muoverà la volontà dandole desiderio di farlo; ma se Dio non vuole quella preghiera, per quanto l’anima si sforzi di pregare per quella persona, non potrà farlo, né ne avrà voglia, e Dio la spingerà invece a pregare per altri che mai ha conosciuto e di cui non ha mai sentito parlare. E ciò accade perché solo Dio muove le potenze di queste anime a quelle opere che sono convenienti secondo la sua volontà e disposizione, e non possono muoversi ad altre; così le opere e le preghiere di queste anime raggiungono sempre l’effetto. Tali erano quelle della gloriosissima Vergine Nostra Signora, la quale, essendo fin da principio elevata a questo sublime stato, non ebbe mai impressa nell’anima forma di alcuna creatura, né si mosse mediante essa, ma la sua mozione fu sempre mediante lo Spirito Santo. 11. Un altro esempio: una persona deve badare in un 300

determinato tempo ad un determinato lavoro necessario; non se ne ricorderà in forza di qualche forma, ma, senza sapere come, le si presenterà nell’anima quando e come converrà compierlo, senza alcun errore. 12. E lo Spirito Santo dà loro luce non solo in queste cose, ma anche in molte che succedono e succederanno e in molti casi anche quando siano assenti. Questo talora accade mediante forme intellettuali, e molte altre volte senza forme apprensibili, senza che le anime sappiano come ne siano venute a conoscenza. E poiché tutto ciò deriva dalla Sapienza divina, sebbene tali anime si esercitino nel non sapere e nel non apprendere nulla mediante le potenze, generalmente vengono a sapere tutto, come abbiamo detto nel Monte, secondo ciò che si dice il Savio: «L’artefice di tutto, cioè la Sapienza, mi insegnò tutto» (Sap. 7, 21). 13. Mi dirai forse che l’anima non potrà vuotare e privare la memoria di tutte le forme e fantasie, sì da poter giungere a uno stato tanto alto, in quanto vi sono due difficoltà superiori alle forze e alla capacità umana: cioè: liberarsi del naturale con capacità naturale, il che non può essere, e toccare il soprannaturale e unirvisi, il che è molto più difficile e, per dire la verità, impossibile con la sola capacità naturale. Dico che è vero che deve essere Dio a porre l’anima in questo stato soprannaturale; ma essa vi si deve disporre per quanto è in lei, il che può farlo naturalmente, soprattutto con l’aiuto che Dio va dandole; così, nella misura in cui da parte sua va entrando in questa negazione e in questo vuoto di forme, Dio va disponendola al possesso dell’unione. E Dio lo opera in lei passivamente, come diremo, Deo dante, nella notte passiva dell’anima21; così, quando a Dio piacerà, a seconda del modo della disposizione dell’anima, finirà col darle l’abito della perfetta unione divina. 14. Degli effetti divini che l’unione perfetta produce nell’anima, sia da parte dell’intelletto che della memoria e 301

della volontà, non trattiamo parlando di questa notte e purgazione attiva, perché questa sola non basta per attuare la divina unione; ne diremo invece trattando di quella passiva, mediante la quale l’anima si congiunge con Dio. Pertanto ora tratterò solo del modo necessario affinché la memoria, per quanto le compete, si metta attivamente in questa notte e purgazione; cioè dirò come lo spirituale debba avere ordinariamente questa cautela: di tutte le cose che udirà, vedrà, odererà, gusterà o toccherà non faccia archivio o tesoro nella memoria, ma subito se ne dimentichi, e, se necessario, procuri di farlo con tanta forza quanta altri ne usano per ricordarsene; in modo che non gliene resti nella memoria nessuna notizia né figura, come se non esistessero al mondo, lasciando la memoria libera e sbarazzata e non attaccata ad alcuna considerazione, né alta né bassa, come se non avesse questa potenza della memoria, lasciandola liberamente perdersi in oblio, come cosa che disturba, poiché tutto ciò che è naturale, se vogliamo usarne nel soprannaturale, disturba piuttosto che aiutare. 15. E se si presentassero quei dubbi e quelle obiezioni di cui abbiamo parlato trattando dell’intelletto, ossia che in questo modo non si fa niente e si perde tempo e ci si priva dei beni spirituali che l’anima può ricevere mediante la memoria, là si è risposto a tutto, e ancora risponderemo più avanti nella notte passiva; perciò non c’è ragione di dilungarci. Conviene soltanto avvertire che, sebbene per qualche tempo non s’avverta il profitto di questa sospensione di notizie e forme, non per ciò lo spirituale deve stancarsi; ché Dio non mancherà di provvedere a suo tempo. Per un bene tanto grande conviene perseverare e soffrire con pazienza e speranza. 16. E sebbene sia vero che difficilmente si troverà un’anima che in tutto e in ogni tempo sia mossa da Dio possedendo un’unione con Dio tanto continua che le sue 302

potenze siano sempre mosse divinamente senza il mezzo di nessuna forma, tuttavia sono anime che ordinariamente sono mosse da Dio nelle loro operazioni e non sono esse a muoversi; secondo quanto dice San Paolo: che i figli di Dio, che sono costoro, trasformati e uniti in Dio, sono mossi dallo spirito di Dio, nelle loro potenze, ad opere divine (Rom. 8, 14). E non c’è da meravigliarsi che le loro operazioni siano divine, perché è divina l’unione della loro anima. CAPITOLO 3 Si tratta di tre tipi di danni che l’anima riceve non oscurandosi quanto alle notizie e ai discorsi della memoria. Qui si tratta del primo. 1. A tre danni e inconvenienti è soggetto lo spirituale che vuole ancora servirsi delle notizie e dei discorsi naturali della memoria, per andare a Dio o per altro fine: due sono positivi e uno è privativo. Il primo viene da parte delle cose del mondo; il secondo da parte del demonio; il terzo e privativo è l’impedimento e il disturbo che esse provocano in rapporto all’unione divina. 2. Il primo, cioè quello che viene dal mondo, consiste nell’esser soggetti a molti tipi di danno mediante le notizie e i discorsi, come falsità, imperfezioni, appetiti, giudizi, perdita di tempo e molte altre cose che provocano nell’anima molte impurezze. È chiaro che, dando spazio alle notizie e ai discorsi, di necessità si cade in molte falsità; infatti difficilmente possiamo conoscere a fondo una verità e dunque spesso il vero ci sembra falso e il certo incerto, o al contrario; e di tutto ciò ci si libera se si oscura la memoria in ogni discorso e notizia. 3. L’anima incorre in imperfezioni ad ogni passo se pone la memoria in ciò che ha udito, visto, toccato, odorato e 303

gustato, ecc.; in ciò infatti si imprime in lei una qualche affezione, o di dolore, o di timore, o di odio, o di vana speranza e vana gioia e vanagloria, ecc.; e tutte queste sono per lo meno imperfezioni e a volte veri peccati veniali, ecc.; e nell’anima provocano sottilissimamente grande impurità, anche se si tratti di discorsi e notizie che riguardano Dio. Ed è anche chiaro come naturalmente si generino appetiti da tali notizie e discorsi, ed anzi il solo desiderio di avere tali notizie e discorsi è appetito. Ed è evidente che sono inevitabili molti giudizi, in quanto l’anima non può non incappare con la memoria in mali e beni altrui, ove talora il male sembra bene e il bene male. Credo che non vi sia chi possa interamente liberarsi di tutti questi danni se non accecando e oscurando la memoria di tutte le cose. 4. E se mi si osservi che l’uomo potrà ben vincere tutte queste cose quando si presenteranno, dico che è impossibile che le vinca completamente, se fa caso alle notizie, perché vi si insinuano mille imperfezioni e inopportunità, e talune tanto sottili e delicate da aderire da sé all’anima senza che essa se ne accorga, come la pece a chi la tocchi; è dunque meglio vincere tutto in una volta, negando totalmente la memoria. Si dirà anche che in questo modo si priva l’anima di tanti buoni pensieri e meditazioni intorno a Dio, che giovano molto all’anima affinché Dio le elargisca grazie. Anche in questo caso dico che ben più giova la purezza dell’anima, che consiste nel non attaccarsi a nessun affetto di creatura, né alle cose temporali, né ad una particolare attenzione ad esse, in quanto ritengo che non si potrà fare a meno di attaccarvisi alquanto, a causa dell’imperfezione che è propria delle potenze nelle loro operazioni. Perciò è meglio imparare a porre le potenze in silenzio e a tacere, affinché parli Dio, perché, come abbiamo detto, si devono perdere di vista le operazioni naturali, il che avviene, come dice il profeta, allorché l’anima secondo le sue potenze giunge alla solitudine e Dio parla al suo cuore (Os. 2, 14). 304

5. Se tuttavia si replica dicendo che l’anima non possiederà nessun bene se la memoria non medita e non discorre in Dio, e invece sarà invasa da molte distrazioni e debolezze, dico che, se la memoria si rinchiude contemporaneamente alle cose di lassù e di quaggiù, è impossibile che vi entrino mali e distrazioni ed altre sconvenienze o vizi, in quanto non c’è né da dove né per dove entrare. Il che accadrebbe se si chiudesse la porta alle considerazioni e discorsi sulle cose di lassù e la si aprisse a quelle di quaggiù; chiudiamola invece a tutte le cose dalle quali ciò possa venire, facendo sì che la memoria resti silenziosa e muta e solo l’udito dello spirito sia in silenzio per l’ascolto di Dio, dicendo con il profeta: «Parla, Signore, che il tuo servo ascolta» (1Re 3, 10). Così nei Cantici lo Sposo disse che doveva essere la sua Sposa: «La mia sorella è un orto chiuso e una fonte sigillata» (4, 12), cioè sigillata a tutte le cose che possono entrare in lei. 6. Lo spirituale se ne stia dunque chiuso senza preoccupazione né pena; infatti colui che, essendo chiuse le porte, entrò corporalmente tra i suoi discepoli, dando loro la pace (Gv. 20, 19-20), senza che essi sapessero né pensassero che cosa sarebbe potuto accadere, né come, entrerà spiritualmente nell’anima, senza che essa sappia come, né vi cooperi, mentre terrà le porte delle potenze — memoria, intelletto e volontà — chiuse a tutte le apprensioni, e gliele riempirà «di pace, facendo scorrere su di lei», come dice il profeta, come «un fiume di pace», in cui le toglierà ogni dubbio e sospetto, ogni turbamento e tenebra, che le facevano temere di essere o di andare perduta (Is. 48, 18). Non perda dunque la cura della preghiera e aspetti in nudità e vuoto, ché il suo bene non tarderà. CAPITOLO 4 Si tratta del secondo danno che l’anima può subire da parte del demonio per via delle apprensioni naturali della 305

memoria. 1. Il secondo danno positivo che l’anima può subire tramite le notizie della memoria viene da parte del demonio, che con questo mezzo ha grande potere sull’anima, potendo aggiungere forme, notizie e discorsi, mediante i quali gravarla con superbia, avarizia, ira, invidia, ecc. e insinuarle odio ingiusto, amore vano e ingannarala in molti modi. Oltre a ciò, il demonio è solito lasciare le cose impresse nella fantasia in modo che le false sembrino vere e le vere false. E, infine, tutti i grandi inganni e mali che il demonio fa subire all’anima entrano attraverso le notizie e i discorsi della memoria; pertanto, se l’anima si oscura in tutto ciò e si annichilisce nell’oblio, chiude totalmente la porta a questo danno del demonio e si libera da tutte queste cose, il che è un grande bene. Infatti il demonio nulla può sull’anima se non mediante le operazioni delle sue potenze, e principalmente mediante le notizie, poiché da queste dipendono quasi tutte le operazioni delle altre potenze; perciò, se la memoria si annulla riguardo ad esse, il demonio non può più nulla, in quanto non ha nulla cui appigliarsi, e senza niente non può niente. 2. Vorrei che gli spirituali comprendessero bene quanti danni i demoni provocano nelle anime per mezzo della memoria quando se ne faccia un uso eccessivo; quante tristezze e afflizioni e cattivi e vani piaceri fanno loro provare sia riguardo a ciò che pensano intorno a Dio, sia riguardo alle cose del mondo, e quante impurità lasciano radicate nello spirito, facendolo per di più grandemente distrarre dal sommo raccoglimento; infatti il raccoglimento consiste nel porre tutta l’anima, secondo le sue potenze, nell’unico bene incomprensibile, liberandola da tutte le cose apprensibili, in quanto non sono il bene incomprensibile. E se anche da questo vuoto non conseguisse un bene tanto grande quale è il porsi in Dio, è un grande bene per il solo fatto che procura la liberazione da molte pene, afflizioni e tristezze, oltre che 306

dalle imperfezioni e dai peccati di cui si libera. CAPITOLO 5 Sul terzo danno che deriva all’anima a causa delle notizie distinte naturali della memoria. 1. Il terzo danno che deriva all’anima per via delle appren sioni naturali della memoria è privativo, in quanto le può impedire il bene morale e la può privare di quello spirituale. E anzitutto, per dire come queste apprensioni impediscano all’anima il bene morale, occorre sapere che il bene morale consiste nell’imbrigliamento delle passioni e nel freno degli appetiti disordinati; donde seguono nell’anima tranquillità, pace, riposo e virtù morali, che costituiscono appunto il bene morale. L’anima non può tenere veramente questa briglia e freno se non dimenticando ciò da cui le provengono gli affetti e allontanandosene. Solo dalle apprensioni della memoria le nascono infatti i turbamenti, poiché, dimenticate tutte le cose, non resta niente che le perturbi la pace o le muova gli appetiti, in quanto, come si dice, cuore non desidera ciò che occhio non vede. 2. Di ciò facciamo esperienza ogni momento, vedendo che, ogni volta che l’anima si mette a pensare qualcosa, ne resta agitata e alterata, poco o molto, a seconda della sua apprensione: se è pesante e molesta ne trae tristezza o odio, se gradevole, desiderio e gioia, ecc. Perciò al mutare delle apprensioni necessariamente segue turbamento; onde l’anima prova ora gioia ora tristezza, ora odio e ora amore, e non può perseverare sempre nello stesso stato, che è l’effetto della tranquillità morale, finché non procura di dimenticare tutte le cose. È dunque chiaro che le notizie impediscono molto all’anima il bene delle virtù morali.

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3. E che la memoria ingombra impedisca anche il bene spirituale, si dimostra chiaramente da quanto s’è detto; infatti l’anima alterata, che non ha fondamento di bene morale, non è capace, in quanto tale, del bene spirituale, il quale non si imprime se non nell’anima moderata e in pace. Inoltre, se l’anima accetta e stima le apprensioni della memoria, siccome non può recepire più d’una cosa per volta, se si applica alle cose apprensibili, come le notizie della memoria, non è possibile che sia libera per l’incomprensibile, cioè Dio; e siccome l’anima, per andare a Dio, deve procedere piuttosto non comprendendo che comprendendo, come abbiamo sempre detto, si deve dunque cambiare il mutevole e il comprensibile con l’immutabile e l’incomprensibile. CAPITOLO 6 Sui vantaggi che provengono all’anima che sia nell’oblio e nel vuoto di tutti i pensieri e di tutte le notizie che può avere naturalmente circa la memoria. 1. Dai danni che, come abbiamo detto, provengono all’anima mediante le apprensioni della memoria, possiamo anche dedurre i vantaggi contrari che derivano dal loro oblio e vuoto, in quanto, come dicono i naturalisti22, la dottrina che serve ad un contrario serve anche all’altro. Infatti in primo luogo l’anima gode della tranquillità e della pace in quanto mancano i turbamenti e le alterazioni che scaturiscono dai pensieri e dalle notizie della memoria e, di conseguenza, cosa ancor più importante, gode della purezza di coscienza e di spirito. In tal modo, è in grande disposizione per la sapienza, umana e divina, e per le virtù. 2. In secondo luogo, si libera da molte suggestioni e tentazioni e movimenti del demonio; questi infatti insinua nell’anima pensieri e notizie, facendola cadere in numerose impurezze e peccati, come afferma David dicendo: «Pensarono e dissero malvagità» (Sal. 72, 8). Così, tolti di 308

mezzo i pensieri, il demonio non ha più con che combattere naturalmente lo spirito. 3. In terzo luogo, per mezzo di questo oblio e di questa rinunzia a tutte le cose, l’anima ha in sé la disposizione ad essere mossa e ammaestrata dallo Spirito Santo; il quale, come dice il Savio, «si allontana dai pensieri che sono fuori della ragione» (Sap. 1, 5). Ma se anche da questo oblio e vuoto della memoria l’uomo non ricevesse altro vantaggio che liberarsi da pene e turbamenti, ciò sarebbe per lui un grande guadagno e un grande bene. Infatti, le pene e i turbamenti che provengono all’anima dalle cose e dai casi avversi non servono a nulla, e a nulla giovano per il buon esito di quegli stessi casi e cose; anzi, ordinariamente, portano danno sia a questi che all’anima. Per questo disse David: «In verità ogni uomo si conturba vanamente» (Sal. 38, 7). È infatti chiaro che il turbarsi è sempre vano, perché non è mai di alcun vantaggio. Perciò, anche se ogni cosa finisse e sprofondasse, e tutto accadesse alla rovescia e al contrario, turbarsi sarebbe vano, anzi così s’accrescerebbe più il danno che il rimedio. Sopportarlo, invece, con equanimità tranquilla e pacifica, non solo avvantaggia l’anima di molti beni, ma anche le consente di giudicare meglio quelle stesse avversità, per apprestarvi i rimedi opportuni. 4. Perciò Salomone, ben conoscendo il danno e il profitto di tutto ciò, disse: «Conobbi che per l’uomo non c’è cosa migliore nella sua vita che rallegrarsi e compiere il bene» (Ecl. 3, 12). Dove ci insegna come in tutte le evenienze, per quanto avverse, dobbiamo piuttosto rallegrarci che turbarci, per non perdere il bene più grande di ogni prosperità, ossia la tranquillità dell’animo e la pace in tutte le cose, avverse e prospere, sopportandole tutte nello stesso modo. E l’uomo non perderebbe mai la pace se non solo dimenticasse le notizie e lasciasse da parte i pensieri, ma anche, per quanto è possibile, si distaccasse dall’udire, dal vedere e dall’avere 309

relazioni. Il nostro essere, infatti, è tanto lieve e fragile che, per quanto ben esercitato, a fatica eviterà d’inciampare con la memoria in cose che turbino e alterino l’animo che se ne stava in pace e tranquillità, dimentico di tutto. Perciò disse Geremia: «Me ne ricorderò con la memoria e la mia anima verrà meno dal dolore» (Ger. 3, 20). CAPITOLO 7 Si tratta del secondo genere di apprensioni della memoria, di quelle immaginarie e delle notizie soprannaturali. 1. Quando abbiamo trattato del primo genere di apprensioni naturali abbiamo esposto una dottrina includente anche quelle immaginarie, che sono esse pure naturali; è tuttavia conveniente distinguere fra apprensioni naturali e apprensioni immaginarie, a motivo di altre forme e notizie che la memoria vede in se stessa, ossia di cose soprannaturali, come visioni, rivelazioni, locuzioni e sentimenti ricevuti per via soprannaturale. Quando queste si depositano nell’anima, di solito lasciano immagini, forme, figure e notizie, impresse ora nell’anima ora nella memoria o nella fantasia, e talora con molta vivezza ed efficacia. Occorre dunque dare alcuni avvertimenti in proposito, affinché l’anima non ne subisca impaccio e impedimento per l’unione con Dio, e resti in speranza pura e perfetta. 2. Dico che l’anima, per conseguire questo bene, non deve mai riflettere sulle cose chiare e distinte che siano passate in lei per via soprannaturale, allo scopo di conservarne in sé le forme, le figure e le notizie; infatti dobbiamo sempre presupporre che, quanto più l’anima ritiene qualche apprensione naturale o soprannaturale distinta e chiara, tanto meno è per se stessa capace e disposta a entrare nell’abisso della fede, dove tutto il resto viene assorbito. Infatti, come s’è detto, nessuna forma o notizia soprannaturale che possa cadere nella memoria è Dio, 310

mentre per andare a Dio l’anima deve vuotarsi di tutto ciò che non è Dio; perciò, per unirsi con Dio in speranza, deve liberarsi anche della memoria di tutte queste forme e notizie. Ogni possesso è infatti contro la speranza, la quale, come dice San Paolo, riguarda ciò che non si possiede (Rom. 8, 24). Pertanto, quanto più la memoria si spoglia, tanto più ha speranza, e quanto più ha speranza, tanto più è unita a Dio; in relazione a Dio, infatti, l’anima tanto più ottiene quanto più spera; ma tanto più spera quanto più si spoglia; e quando si sarà spogliata perfettamente, resterà con il possesso di Dio nell’unione divina. Ma molti non vogliono privarsi della dolcezza e del gusto che derivano dalla memoria delle notizie, e perciò non giungono al sommo possesso e alla perfetta dolcezza. Infatti, «colui che non rinuncia a tutto quanto possiede non può essere suo discepolo» (Lc. 14, 33). CAPITOLO 8 Sui danni che le notizie delle cose soprannaturali possono recare all’anima se essa vi si sofferma. Si dice quanti siano. 1. Lo spirituale che indugi a riflettere sulle notizie e sulle forme che si imprimono in lui delle cose che riceve per via soprannaturale, si espone a cinque tipi di danni. 2. Il primo è che spesso s’inganna scambiando l’uno con l’altro. Il secondo è che è prossimo alle occasioni di cadere in qualche presunzione o vanità. Il terzo consiste nel fatto che, mediante tali apprensioni, il demonio ha grande potere d’inganno. Il quarto è che gli impedisce l’unione con Dio nella speranza. Il quinto è che, per lo più, giudica di Dio bassamente.

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3. Quanto al primo tipo, è chiaro che se lo spirituale accetta quelle notizie e forme e vi indugia a riflettervi, non potrà non ingannarsi spesso nel proprio giudizio; se infatti nessuno può conoscere completamente le cose che passano in modo naturale attraverso la sua immaginazione, né può darne un giudizio perfetto e sicuro, molto meno ne sarà capace riguardo alle cose soprannaturali, che superano la nostra capacità e si verificano di rado. Perciò spesso s’illuderà che si tratti di cose che provengono da Dio, mentre invece non saranno che una sua fantasia; e spesso crederà che provenga dal demonio ciò che invece proviene da Dio, o da Dio ciò che proviene dal demonio. E spesso gli resteranno profondamente impresse forme e notizie di beni e di mali altrui o propri, ed altre figure che gli si siano rappresentate e che egli riterrà molto certe e veritiere, mentre invece saranno assai false. Altre invece saranno veritiere ed egli le giudicherà false; ritengo tuttavia più sicuro quest’ultimo caso, perché di solito nasce da umiltà. 4. Ma anche se lo spirituale non si inganna sulla verità, potrà ingannarsi sulla sua quantità o sulla qualità, pensando che sia molto ciò che è poco e poco ciò che è molto; e riguardo alla qualità, reputando che ciò che è nella sua immaginazione sia una cosa piuttosto che un’altra, mentre non sarà affatto così; scambierà infatti, come dice Isaia (5, 20), «le tenebre con la luce e la luce con le tenebre, l’amaro con il dolce e il dolce con l’amaro». Insomma, se giudica giustamente quanto ad un aspetto, sarebbe stupefacente se non errasse quanto al resto; e se anche non voglia applicare il proprio criterio per giudicarle, basta che usi il proprio giudizio anche solo per darvi peso, perché, almeno passivamente, ne riceva qualche danno, se non del tipo già descritto, certo di uno dei quattro di cui stiamo per trattare. 5. Per non cadere in questo danno, ingannandosi nel giudizio, conviene che lo spirituale eviti di applicare il suo 312

giudizio per sapere che cosa sia quanto ha o sente in se stesso, o che cosa sia questa o quella visione, notizia o sentimento; non deve dunque voler saperlo, né darvi peso, se non per parlarne al padre spirituale, affinché gli insegni a vuotare la memoria da quelle apprensioni. Infatti, per quanto possano valere in sé, non possono giovare nell’amore di Dio quanto il minimo atto di fede viva e di speranza compiuto nel vuoto e nella rinunzia di tutto. CAPITOLO 9 Sul secondo genere di danni, cioè sul pericolo di cadere nella stima di sé e nella vana presunzione. 1. Quelle apprensioni soprannaturali della memoria sono un’importante occasione per cadere in qualche presunzione o vanità anche per gli spirituali qualora vi facciano caso e le tengano in conto; infatti, come è libero dal cadere in questo vizio colui che non abbia tali apprensioni, così, al contrario, chi ne ha si trova nell’occasione di credersi qualcosa d’importante in quanto riceve quelle comunicazioni soprannaturali; infatti, se è vero che si può attribuirle a Dio, ritenendosene indegni, tuttavia, di solito, ne nasce nello spirito una sorta di occulta soddisfazione, e una stima, sia per quelle comunicazioni, sia per se stessi, donde nasce, senza che se n’abbia avvertenza, una grande superbia spirituale. 2. Costoro lo possono sperimentare chiaramente nel disgusto e nell’antipatia che provano verso chi non loda il loro spirito né ha considerazione per tali comunicazioni, o nella pena che provano quando pensano o sentono dire che anche altri ne ricevono, e anche maggiori. Tutto ciò nasce da una segreta stima e superbia, che essi forse non vedono interamente, essendovi immersi fino agli occhi. Pensano infatti che, pur essendo pieni di una occulta stima e soddisfazione di se stessi e compiacendosi più del proprio 313

spirito e dei propri beni spirituali che degli altrui, basti conoscere in qualche modo la propria miseria; come il fariseo che ringraziava Dio di non essere come gli altri uomini e di queste e quest’altre virtù, essendone presuntuosamente soddisfatto di sé (Lc. 18, 11-12). E anche se costoro non usano le sue espressioni, tuttavia abitualmente hanno proprio questo atteggiamento spirituale. Inoltre, alcuni arrivano ad essere tanto superbi da essere peggiori del demonio; poiché, non appena sembri loro di vedere in sé alcune apprensioni e sentimenti devoti e soavi di Dio, ne hanno tale soddisfazione che pensano di essere più vicini a Dio, e pensano che coloro che non ne hanno siano molto bassi, e li disprezzano come il fariseo il pubblicano. 3. Per sfuggire a questo danno pestifero, esecrabile agli occhi di Dio, occorre considerare due cose. La prima è che la virtù non sta nelle apprensioni, né nei sentimenti di Dio, per sublimi che siano, né in niente di questo genere che si possa sperimentare, ma, al contrario, consiste in ciò che costoro non sentono in sé, cioè grande umiltà e disprezzo di sé e di tutte le cose, molto radicato e sensibile nell’anima, e nel rallegrarsi che anche gli altri abbiano di se stessi questo medesimo sentire, desiderando non valer nulla nel cuore altrui. 4. La seconda è che è necessario ricordare che tutte le visioni e rivelazioni e sentimenti celesti, e quanto di più grande essi possano pensare, non valgono quanto il minimo atto di umiltà, che ha gli stessi affetti della carità: ossia non avere stima delle proprie cose, non procurarsene e non pensar male che di sé, anzi di sé non pensare alcun bene, ma solo degli altri (cfr. I Cor. 13, 4-7). Pertanto conviene che gli spirituali non si inorgogliscano di queste apprensioni soprannaturali, ma procurino di dimenticarle per restarne liberi. CAPITOLO 10 314

Sul terzo danno che può derivare all’anima da parte del demonio mediante le apprensioni immaginarie della memoria. 1. Da tutto quanto s’è detto, ben si deduce e comprende quanto danno può derivare all’anima da parte del demonio mediante queste apprensioni soprannaturali; egli, infatti, non soltanto può rappresentare nella memoria e nella fantasia molte notizie e forme false, facendole apparire vere e buone, imprimendole per suggestione nello spirito e nel senso con molta efficacia ed evidenza, in modo che all’anima la cosa non sembri diversamente da come le si presenta, a tal punto che se si trasfigura in angelo di luce (2 Cor. 11, 14) all’anima sembra luce vera; ma può anche tentarla in molti modi, persino nelle apprensioni vere che provengono da Dio, movendo disordinata mente, nei loro riguardi, i suoi appetiti e affetti, ora spirituali ora sentitivi. Infatti, se l’anima trova gusto in tali apprensioni, al demonio è molto facile accrescerle gli appetiti e gli affetti e farla cadere nella gola spirituale e in altri danni. 2. E per meglio ottenere tale effetto, egli di solito insinua nel senso un gusto, un sapore e un diletto verso le stesse cose di Dio, così che l’anima, addolcita da quel sapore e abbagliata, con quel gusto vada accecandosi e ponendo più attenzione nel gusto che nell’amore, o almeno non altrettanto nell’amore e dia più importanza all’apprensione che alla nudità e al vuoto della fede, della speranza e dell’amore di Dio. Così, a poco a poco, essa viene ingannata e facilmente crede alle sue menzogne. Infatti, all’anima cieca ormai la falsità non sembra falsità, né il male le sembra male, ecc., perché le tenebre le sembrano luce e la luce tenebre, onde viene a incappare in mille spropositi, sia quanto al naturale che al morale ed anche allo spirituale, dato che ormai quel che era vino è diventato aceto; e tutto ciò le accade perché al principio non ha negato il gusto per quelle cose soprannaturali; e poiché 315

da principio esso era poco e non palesemente malvagio, l’anima non è stata abbastanza vigilante e non lo ha sradicato, finché è cresciuto come un grande albero, come il seme di senapa (Mt. 13, 31-32). Infatti, come si dice, un errore piccolo all’inizio alla fine è grande. 3. Per evitare questo grande danno da parte del demonio è affatto necessario che l’anima non voglia gustare tali cose, perché, gustandole, certissimamente si accecherà e cadrà, in quanto il gusto, il diletto e il sapore, anche senza l’aiuto del demonio, di per se stessi accecano l’anima. Il che fece intendere David dicendo: «In mezzo alle delizie forse le tenebre m’accecheranno e la notte sarà per me la mia luce» (Sal. 138, II). CAPITOLO 11 Sul quarto danno che l’anima subisce dalle apprensioni soprannaturali distinte della memoria, cioè l’impedimento all’unione. 1. Non c’è molto da aggiungere su questo quarto danno, avendone a più riprese trattato nel presente Terzo Libro, dove si è dimostrato come l’anima, per giungere ad unirsi con Dio in speranza, deve rinunciare ad ogni possesso della memoria; infatti, affinché la speranza sia totalmente in Dio, niente deve dimorarvi che non sia Dio; e abbiamo anche detto che nessuna forma, né figura, né immagine, né altra notizia che possa cadere nella memoria, è Dio, né è simile a lui, siano esse celesti o terrene, naturali o soprannaturali, come insegna David allorché dice: «Signore, nessuno degli dèi è simile a te» (Sal. 85, 8); perciò, se la memoria si sofferma su qualche cosa, pone impedimenti rispetto a Dio, sia perché s’intralcia, sia perché, quanto più possiede, tanto meno spera. 2. È dunque necessario che l’anima resti nuda e dimentica 316

di ogni forma e notizia distinta delle cose soprannaturali, per non impedire, con la memoria di altre cose, l’unione con Dio in perfetta speranza. CAPITOLO 12 Sul quinto danno che l’anima può subire attraverso le forme e le apprensioni immaginarie soprannaturali, danno che consiste nel giudicare Dio in modo basso e improprio. 1. Non minore per l’anima è il quinto danno che le proviene dal voler ritenere nella memoria e nella fantasia quelle forme e immagini delle cose che le si comunicano soprannaturalmente, specie se intende considerarle come mezzo per l’unione divina; è infatti molto facile giudicare dell’essenza e della grandezza di Dio in modo meno degno e alto di quanto non convenga alla sua incomprensibilità; infatti, sebbene la ragione e il giudizio non formulino esplicitamente un concetto secondo cui Dio sarebbe simile a qualcuna di quelle apprensioni, tuttavia la stima stessa di queste — supposto che ci sia — provoca nell’anima una stima e un sentimento di Dio alto non quanto ci insegna la fede, che ci dice che egli è incomparabile e incomprensibile, ecc. Per non parlare del fatto che, quanto l’anima dà alle creature, tanto toglie a Dio, in quanto, mediante la stima delle cose apprensibili, naturalmente dentro di sé le confronta con Dio e ciò le impedisce di giudicarlo e di stimarlo tanto altamente quanto deve; infatti le creature, sia terrene che celesti, e tutte le distinte notizie e immagini, naturali e soprannaturali, che possono cadere nell’ambito delle potenze dell’anima, per quanto sublimi siano in questa vita, non hanno nessuna possibilità di comparazione né di proporzione con l’essere di Dio, poiché, a differenza di quelle, come dicono i teologi23, Dio non cade sotto nessun genere e specie. L’anima, in questa vita, non è capace di 317

ricevere in modo chiaro e distinto se non ciò che cade sotto un genere o una specie. Perciò San Giovanni afferma (1,18) che «nessuno mai vide Dio». E Isaia che «mai il cuore umano è giunto a sapere come sia Dio» (64, 4). E Dio stesso disse a Mosè che «non lo avrebbe potuto vedere, finché fosse stato in vita» (Es. 33, 20). Pertanto, colui che ingombra la memoria e le altre potenze dell’anima con tutto quanto esse possono comprendere, non può stimare né sentire di Dio come deve. 2. Facciamo un paragone molto semplice: è chiaro che, quanto più uno bada e fa attenzione ai servitori del re, tanto meno dà importanza al re e lo stima; infatti, sebbene l’apprezzamento non sia nell’intelletto in modo formale e distinto, di fatto però c’è, perché, quanto più si bada ai servitori, tanto più si toglie al signore; e inoltre non si giudica il re troppo altamente, in quanto i servitori appaiono qualcosa di fronte al re loro signore. La stessa cosa accade all’anima con il suo Dio, quando dia qualche importanza alle creature. Il che è vero, sebsbene questo paragone sia troppo inadeguato, in quanto, come abbiamo detto, l’essere di Dio è ben altro da quello delle sue creature e ne dista infinitamente. Dunque, tutte le cose debbono perdersi di vista e l’anima non deve porre gli occhi su nessuna loro forma, per poter fissarli in Dio, grazie alla fede e alla speranza. 3. Perciò, coloro che non solo danno importanza a queste apprensioni immaginarie, ma pensano che Dio sia simile a qualcuna di esse e che per loro mezzo potranno giungere all’unione con Dio, già in questo modo sbagliano grandemente e andranno sempre più perdendo nel loro intelletto il lume della fede — mediante la fede, infatti, l’intelletto si unisce con Dio — e nemmeno si leveranno all’altezza della speranza, quella in cui e grazie a cui la memoria si unisce con Dio; il che potrà avvenire solo separandosi da tutto ciò che è immaginario.

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CAPITOLO 13 Sui vantaggi che l’anima riceve nell’allontanare da sé le apprensioni dell’immaginativa; inoltre si risponde a un ‘obiezione e si spiega una differenza tra le apprensioni immaginarie naturali e quelle soprannaturali. 1. I vantaggi che si ricevono dal vuotare l’immaginativa dalle sue forme sono evidenti attraverso i cinque danni che abbiamo detto provenire all’anima quando questa, invece, vuole tenerle in sé, come abbiamo spiegato a proposito delle forme naturali. Oltre a questi, vi sono altri vantaggi, che recano allo spirito grande riposo e quiete; poiché l’anima naturalmente raggiunge la quiete quando è libera da immagini e da forme e dunque è anche libera dalla preoccupazione di distinguere se queste siano buone o cattive, e di cercare come debba comportarsi con le une e con le altre, ed è libera dal travaglio e dal tempo che dovrebbe perdere con i maestri spirituali, per cercar di verificare se quelle forme siano buone o cattive e di quale genere. Al contrario, non occorre sapere tutto questo, bensì occorre non farvi nessun caso. Così, tutto il tempo e la cura che l’anima dovrebbe perdere nel chiarire tutto questo, può impiegarli in altro esercizio, molto migliore e più utile, qual è il volgere la volontà a Dio, cercando di raggiungere la nudità e la povertà spirituale e sensibile; questa consiste nel volere veramente privarsi d’ogni appoggio consolatorio e apprensivo, interiore ed esteriore. Buon servizio è dunque cercare e procurare di non appoggiarsi a queste forme, donde verrà all’anima il grande vantaggio di avvicinarsi tanto più a Dio — che non ha immagine né forma né figura — quanto più essa si spoglierà di tutte le forme, le immagini e le figure immaginarie. 2. Mi dirai forse: perché molti spirituali consigliano alle anime di cercare di trar profitto dalle comunicazioni e dai sentimenti di Dio e di desiderare di ricerverne, per avere 319

qualcosa da offrirgli, dal momento che non possiamo dargli niente se non ci concede qualcosa? Dice San Paolo: «Non vogliate estinguere lo spirito» (1 Tess. 5, 19). E lo Sposo alla Sposa: «Mettimi come bersaglio sul tuo cuore, come bersaglio sul tuo braccio» (Cant. 8, 6); il che è già un’apprensione; ora, secondo la dottrina esposta, tutto ciò non solo non si deve cercare, ma si deve respingere e allontanare quando Dio lo mandi; d’altra parte è chiaro che, se Dio lo dà, è solo per un bene ed un effetto buono; dunque non si debbono gettar via le perle preziose (cfr. Mt. 7, 6); ed è una sorta di superbia non voler accettare le cose di Dio, come se potessimo valere qualcosa da noi stessi senza i suoi doni. 3. Per rispondere in modo soddisfacente a questa obiezione, occorre tener presente quanto abbiamo detto nei capitoli quindicesimo e sedicesimo24 del Secondo Libro, dove in gran parte si risponde a questo dubbio. Vi abbiamo detto, infatti, che il bene che trabocca nell’anima dalle apprensioni soprannaturali, quando siano buone, si opera passivamente nell’anima, nell’istante stesso in cui quelle apprensioni si presentano al senso, senza che le potenze dal canto loro compiano nessuna operazione. Perciò non è necessario che la volontà compia l’atto d’ammetterle; infatti, come abbiamo detto, se l’anima vuole invece operare con le proprie potenze, con questo infimo atto naturale impedirà l’operazione soprannaturale che Dio realizza in lei mediante queste apprensioni, anziché trarre profìtto dall’esercizio di quelle potenze. Pertanto, come lo spirito di quelle apprensioni immaginarie si dà passivamente all’anima, così l’anima deve comportarsi nei loro confronti, senza compiere affatto atti interiori o esteriori. Questo significa custodire davvero i sentimenti di Dio, che in tal modo non si perdono a causa del nostro basso modo di operare. E questo è anche non spegnere lo spirito, perché sarebbe spegnerlo se l’anima volesse comportarsi in modo diverso da quello al quale Dio la conduce; cosa che 320

accadrebbe se, mentre Dio le dà lo spirito passivamente, come in queste apprensioni, essa volesse invece comportarsi attivamente nei loro confronti, operando con l’intelletto o cercandovi qualcosa. È chiaro che se invece l’anima vuole operare, di necessità la sua opera non può essere che naturale, poiché, per parte sua, non può di più; essa non si solleva, infatti, sino ad un’operazione soprannaturale, né può farlo se Dio non ve la spinga e ve la ponga. Pertanto, se l’anima vuole a tutti i costi operare da sé, con la propria attività potrà solo impedire quella che Dio sta comunicando al suo starsene passiva, cioè ostacolare lo spirito, in quanto si chiude nel proprio operare, che è di genere diverso e più basso rispetto a quello che Dio le comunica; quello di Dio è soprannaturale ed è dato all’anima passiva, mentre quello dell’anima è attivo e naturale. E questo sì sarebbe spegnere lo spirito.

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Frontespizio della prima edizione italiana delle Opere Spirituali. (Roma, 1627).

4. Ed è chiaro che questo operare è più basso: infatti le potenze dell’anima non possono fare da sé riflessioni né operazioni, se non su qualche forma, figura o immagine. Questa sostanza, questo spirito, non s’unisce con le potenze 322

dell’anima in vera intelligenza ed amore, se non quando ormai cessa l’operazione delle potenze; l’esigenza e il fine di tale operazione è infatti unicamente giungere a ricevere nell’anima la sostanza conosciuta e amata di quelle forme. Di qui la differenza tra l’operazione attiva e quella passiva e il vantaggio della seconda rispetto alla prima, che è la stessa differenza tra ciò che si sta facendo e ciò che si è già fatto, come tra ciò che si cerca di conseguire e raggiungere e ciò che si è già raggiunto. Da ciò si deduce anche che, se l’anima vuole applicare attivamente le proprie potenze in quelle apprensioni soprannaturali — lo spirito delle quali, come abbiamo detto, Dio le dà passivamente — non fa altro che lasciare il già fatto per tornare a farlo, e non proverà soddisfazione di quanto ha fatto; anzi, con le sue azioni non farà che porre impedimenti a quanto ha fatto, perché, come abbiamo detto, tali azioni non possono mai giungere da sé allo spirito che Dio dà all’anima, proprio in quanto è assente il loro esercizio. Perciò, se l’anima facesse assegnamento sulle apprensioni immaginarie, direttamente estinguerebbe lo spirito che Dio le infonde per loro tramite. Bisogna dunque trascurarle, comportandosi nei loro confronti in modo passivo e negativo; perché, allora, Dio muove l’anima a più di quanto ella stessa non possa e non sappia. Perciò disse il profeta: «Starò in piedi in vedetta e fermerò il passo alla scolta e contemplerò ciò che mi si dice» (Ab. 2, 1). Che significa: starò in veglia a guardia di tutte le mie potenze e non muoverò un passo nelle mie operazioni, e così potrò contemplare ciò che mi verrà detto, ossia intenderò e gusterò ciò che mi verrà comunicato soprannaturalmente. 5. E quanto si è citato del Cantico sullo Sposo deve intendersi in rapporto all’amore che egli chiede alla Sposa. La caratteristica di tale amore è che gli amanti vengano ad assomigliarsi reciprocamente nella loro parte migliore. Perciò lo Sposo dice alla Sposa di «metterlo come bersaglio sul suo cuore» (Cant. 8, 6) — dove vengono a finire tutte le saette 323

amorose della faretra, cioè gli atti e i moti d’amore —, affinché tutte lo colpiscano, restando là come nel loro segno, e tutte siano con lui, in modo che l’anima gli somigli per gli atti e i movimenti d’amore, fino a trasformarsi in lui. E dice di porlo come un bersaglio anche sul suo braccio, poiché in esso sta l’esercizio dell’amore, trovandovi l’Amato sostegno e carezze. 6. Pertanto, tutto ciò di cui l’anima deve preoccuparsi in ogni apprensione che le venga dall’alto (sia immaginaria che di qualsiasi altro genere, ossia visioni e locuzioni o sentimenti o rivelazioni), è di non dare importanza alla lettera o corteccia, ossia a ciò che essa significa o rappresenta o fa intendere; invece deve solo badare ad avere l’amore di Dio che interiormente quelle apprensioni recano all’anima, e in questo modo deve badare non ai sentimenti di gusto o di soavità o di immagine, bensì ai sentimenti d’amore che suscitano in lei. E solo per questo fine l’anima potrà talvolta ricordare un’immagine o un’apprensione che le abbia arrecato amore: per porre lo spirito in ciò che muove ad amare. Infatti, sebbene l’apprensione, quando l’anima se ne ricorda successivamente, non produca lo stesso effetto della prima volta che le sia stata comunicata, tuttavia il ricordo le rinnova l’amore ed eleva la sua mente in Dio, specialmente quando il ricordo consiste in alcune figure, immagini o sentimenti soprannaturali che sono soliti imprimersi nell’anima tanto fortemente da durarvi a lungo, talvolta fino a non lasciarla mai. Le figure che così si imprimono nell’anima, quasi ogni volta che le avverte, vi producono effetti divini d’amore, soavità, luce, ecc., ora più ora meno, proprio perché vi sono state impresse per questo scopo; è perciò un grande dono per coloro cui Dio le concede, in quanto comporta il serbare in sé una miniera di beni. 7. Le figure che producono tali effetti sono impresse vivamente nell’anima; non sono infatti come le altre 324

immagini e forme che si conservano nella fantasia, alla quale dunque l’anima non ha bisogno di ricorrere quando vuole ricordarsene, perché sa bene d’averle in sé, così come vede l’immagine nello specchio. Anzi, accade che quando l’anima abbia in sé formalmente tali figure, potrà ben ricordarsene per effetto dell’amore di cui ho parlato, senza che le siano d’impedimento all’unione di amore nella fede, a condizione che essa non voglia perdervisi, immersa nelle figure, e dunque che le lasci immediatamente da parte e tragga profitto dall’amore; in tal caso le saranno invece d’aiuto. 8. Difficilmente si può distinguere quando queste immagini siano impresse nell’anima e quando nella fantasia, poiché quelle della fantasia di solito sono molto più frequenti. Alcune persone sono solite ricevere ordinariamente nell’immaginazione e nella fantasia visioni immaginarie e molto frequentemente queste appaiono loro negli stessi modi: o perché hanno organi molto apprensivi, sì che per poco che vi pensino subito si rappresenta e si disegna nella loro fantasia quella figura ordinaria; oppure perché ve le insinua il demonio; o anche perché ve le pone Dio, senza che si imprimano fortemente nell’anima. È tuttavia possibile riconoscerle dagli effetti, in quanto quelle naturali, o quelle che provengono dal demonio, sebbene spesso rievocate, non producono alcun effetto buono, né rinnovamento spirituale nell’anima, la quale le guarda freddamente; invece quelle che sono buone, quando vengono rievocate, producono qualche buon effetto simile a quello che causarono nell’anima la prima volta; ma quelle formali che si imprimono nell’anima producono in lei qualche buon effetto quasi ogniqualvolta vengono ricordate. 9. Chi ne avrà ricevuto, distinguerà facilmente le une dalle altre, in quanto, per chi ne ha esperienza, la differenza tra le due specie è molto chiara. Dico solo che quelle che si imprimono nell’anima formalmente e durevolmente sono più rare. Ma, siano esse dell’uno o dell’altro genere, è bene 325

che l’anima non voglia comprenderne niente, ma che invece cerchi Dio, per fede, nella speranza. Quanto poi all’altro aspetto dell’obiezione — ossia che può sembrare superbia il rifiutare queste cose quando siano buone — rispondo che invece è prudente umiltà profittarne nel modo migliore, come abbiamo detto, conducendoci per la via più sicura. CAPITOLO 14 Si tratta delle notizie spirituali in quanto possono cadere nella memoria. 1. Abbiamo posto le notizie spirituali come terzo genere di apprensioni della memoria non perché appartengano come le altre al senso corporeo della fantasia — non hanno infatti immagine né forma corporea —, ma perché sono anche oggetto della reminiscenza e della memoria spirituale, in quanto, dopo che l’anima ne ha ricevuto qualcuna, se vuole, può ricordarsene. La rievocazione non avviene mediante l’effige e l’immagine che tale apprensione lascia nel senso corporeo — poiché questo, in quanto tale, come abbiamo detto, è incapace di forme spirituali —, ma è possibile perché l’anima se ne ricorda intellettualmente e spiritualmente mediante la forma che le ha lasciato impressa; questa è anche una forma o notizia o immagine spirituale o formale, mediante cui si ricorda, o se ne ricorda mediante il suo effetto; per questo motivo annovero tali apprensioni fra quelle della memoria, sebbene non appartengano a quelle della fantasia. 2. Quali siano queste notizie e come l’anima debba regolarsi con esse, per giungere all’unione con Dio, lo abbiamo sufficientemente detto nel capitolo 25 ventiquattresimo del Libro Secondo, dove ne abbiamo trattato come di apprensioni dell’intelletto. Si veda in tale luogo, poiché vi abbiamo detto come siano di due tipi: 326

increate e create. Relativamente al mio proposito — che è quello di spiegare come la memoria debba comportarsi nei loro confronti per giungere all’unione — dico solo che, come ho già fatto nel precedente capitolo riguardo alle forme — e queste sono simili, perché riguardano cose create —, l’anima, se le hanno prodotto un effetto buono, può ricordarsene, non con il desiderio di ritenerle in sé, ma per ravvivare l’amore e la conoscenza di Dio. Se però il ricordarsene non le procura effetti buoni, non deve mai desiderare di richiamarle alla memoria. Raccomando invece che procuri di ricordare il più spesso possibile le apprensioni increate, poiché le produrranno grande effetto, essendo, come abbiamo detto, tocchi e sentimenti di unione con Dio, meta alla quale stiamo incamminando l’anima. La loro memoria non è dovuta a qualche forma, immagine o figura che essi imprimano nell’anima, poiché quei tocchi e sentimenti d’unione con Dio non ne hanno, bensì all’effetto di luce, amore, diletto e rinnovamento spirituale, ecc. che vi produssero e che si rinnova ogni volta che l’anima se ne ricorda. CAPITOLO 15 Si propone il modo generale in cui lo spirituale deve regolarsi circa la memoria. 1. Per concludere, dunque, questa trattazione intorno alla memoria, sarà bene ora esporre in sintesi al lettore spirituale il modo che si deve universalmente tenere per unirsi con Dio secondo questo senso; infatti, sebbene ciò che abbiamo detto già lo faccia comprendere con chiarezza, il riassumerlo qui consentirà di intenderlo più facilmente. Si deve perciò osservare che il fine cui tendiamo è che l’anima si unisca con Dio, secondo la memoria, nella speranza; e poiché si spera in ciò che non si possiede, quanto meno si possiede d’altre cose, tanto maggiore 327

capacità e abilità si ha di sperare ciò in cui si spera e, di conseguenza, tanto maggiore è la speranza. Pertanto, quanto più l’anima spoglierà la memoria delle forme e delle cose che si possono ricordare e che non sono Dio, tanto più la collocherà in Dio e tanto più la terrà vuota in attesa che egli la riempia della sua memoria. L’anima, dunque, per vivere in intera e pura speranza di Dio, ogni volta che riceve notizie, forme e immagini distinte, senza fermarvisi, deve rivolgersi subito a Dio con affezione amorosa, nel vuoto di tutto ciò che si può ricordare, non pensando né guardando a quelle cose più di quanto il loro ricordo sia necessario per comprendere e fare ciò che è d’obbligo, se questo fosse il loro oggetto. E questo deve farlo senza porvi affetto né gusto, affinché non ne residui nell’anima qualche effetto. È dunque necessario non cercar di pensare e di ricordare a ciò che si deve fare e sapere, in quanto, a condizione che in tutto questo non vi siano affezioni di proprietà, non se ne riceverà danno. A questo scopo serviranno i versetti del Monte che sono nel capitolo tredicesimo del Primo Libro. 2. Ma dobbiamo ora sottolineare che con ciò questa nostra dottrina non conviene, né intende convenire, con quella di quegli uomini pestiferi che, catturati dalla superbia e dall’invidia di Satana, vollero allontanare dagli occhi dei fedeli l’uso santo e necessario e l’adorazione esemplare delle immagini di Dio e dei santi. La nostra dottrina è molto diversa dalla loro, in quanto noi non neghiamo che vi debbano essere immagini e che si debbano adorare, come invece fanno costoro; al contrario, facciamo comprendere la differenza tra esse e Dio, in modo tale che il senso delle immagini, attraversando ciò che è dipinto, non sia impedito di giungere a ciò che è vivo, così che l’anima non vi si soffermi più di quanto basta per andare allo spirituale. Come il mezzo è buono e necessario per il fine, e come le immagini sono buone per ricordarci di Dio e dei santi, quando ci si arresta al livello del mezzo più di quanto lo richieda la sua natura di mezzo, ne restiamo disturbati e in 328

certo modo impediti, come in ogni altro caso; perciò, tanto più io calco la mano specie sulle immagini e sulle visioni soprannaturali, perché è nei loro confronti che si verificano molti inganni e pericoli. Se infatti naturalmente la Chiesa cattolica ci propone verso le immagini memoria, adorazione e stima, in ciò non vi può essere né inganno né pericolo, in quanto in esse si dà valore a ciò che rappresentano. Né il loro ricordo impedirà che l’anima ne tragga profitto, in quanto se ne conserva memoria solo per amore di ciò che rappresentano; e se vi si sofferma solo per questo scopo, esse saranno sempre d’aiuto all’unione con Dio, lasciando che l’anima s’innalzi, quando Dio gliene farà grazia, dall’immagine dipinta a Dio vivo, nell’oblio di tutte le creature. CAPITOLO 16 Si comincia a trattare della notte oscura della volontà. Si distinguono gli affetti della volontà. 1. Purificando l’intelletto, per fondarlo nella virtù della fede, e la memoria in quella della speranza, non avremmo fatto nulla se non purgassimo anche la volontà quanto alla terza virtù, cioè la carità, per la quale sono vive ed hanno grande valore le opere compiute nella fede, e senza la quale non valgono nulla; come dice infatti San Giacomo: «Senza opere di carità la fede è morta» (2, 20). E dovendo ora trattare della notte e dello spogliamento attivo della potenza della volontà per formarla intera nella virtù della carità di Dio, non trovo autorità più conveniente di quella del Deuteronomio, al capitolo 6 (v. 5), dove Mosè dice: «Amerai il Signore Iddio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze». Qui è contenuto tutto ciò che l’uomo spirituale deve fare e che qui cerco di insegnare, affinché egli giunga davvero a Dio in unione di volontà, per mezzo della carità. Vi si comanda infatti che Mosè raccolga in Dio tutte le potenze, gli appetiti, le operazioni e gli affetti 329

della sua anima, in modo che tutte le abilità e le forze dell’anima non servano che a questo, in conformità con quanto dice David quando afferma: Fortitudinem meam ad te custodiam (Sal. 58, 10). 2. La fortezza dell’anima consiste nelle sue potenze, passioni e appetiti: tutto ciò è governato dalla volontà; perciò, quando la volontà indirizza in Dio queste potenze, passioni e appetiti e li allontana da tutto ciò che non è Dio, allora custodisce per Dio la fortezza dell’anima; in tal modo essa ama Dio con tutta la sua fortezza. E affinché l’anima giunga a far questo, tratteremo qui della purificazione della volontà da tutte le affezioni disordinate, dalle quali nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni disordinate, e donde deriva anche il fatto che essa non custodisce tutta la sua forza per Dio. Quattro sono tali affezioni o passioni, ossia: gioia, speranza, dolore e timore. È chiaro che queste passioni dirigono e custodiscono la forza e la capacità dell’anima per Dio se vengono fatte operare razionalmente in ordine a Dio, in modo che l’anima non goda se non esclusivamente dell’onore e della gloria di Dio e non abbia speranza d’altro, né s’addolori, se non per ciò che la tocchi, né tema se non Dio solo; infatti, quanto più l’anima godrà d’altro che non sia Dio, tanto meno fortemente porrà la sua gioia in Dio, e quanto più spererà in altro, tanto meno spererà in Dio; e così via. 3. E per dare in proposito una dottrina completa, com’è nostra abitudine verremo trattando in particolare di ciascuna di queste quattro passioni e degli appetiti della volontà, poiché tutto l’impegno per giungere all’unione con Dio consiste nel purificare la volontà dalle sue affezioni e dai suoi appetiti, affinché in tal modo da volontà umana e bassa divenga volontà divina, fatta una cosa sola con la volontà di Dio.

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4. Queste quattro passioni tanto più regnano nell’anima e la contrastano quanto meno fortemente la volontà è in Dio e quanto più dipende dalle creature, perché allora molto facilmente essa gioisce di cose che non meritano gioia, spera in ciò che non è di profitto, s’addolora di ciò di cui forse dovrebbe gioire e teme ciò che non ha motivo di temere. 5. Da queste affezioni, quando sono sregolate, nascono nell’anima tutti i vizi e le imperfezioni, mentre quando sono ordinate e composte, nascono tutte le sue virtù. Occorre sapere che, quando una di esse diviene ordinata e razionale, così faranno anche le altre tre, in quanto queste quattro passioni dell’anima sono tanto unite e affratellate fra di loro che, dove va l’una attualmente, virtualmente vanno anche le altre, e se una si raccoglie attualmente, virtualmente anche le altre tre si raccolgono nella stessa misura. Infatti, se la volontà gioisce di qualcosa, di conseguenza, nella stessa misura, la deve sperare, e virtualmente vi è compreso anche il dolore e il timore che le si connettono; e nella misura in cui va perdendone il gusto, va perdendone anche il timore e il dolore e la speranza. La volontà con queste quattro passioni è rappresentata dall’immagine vista da Ezechiele (1, 8-9) dei quattro animali congiunti in un sol corpo con quattro facce: le ali di ciascuno erano attaccate a quelle dell’altro, ciascuno procedente nella direzione della propria faccia, così che, una volta andati avanti, non tornavano più indietro. In modo simile, le ali di ciascuna di queste affezioni sono legate a quelle delle altre, sì che, dovunque una porti attualmente la propria faccia, cioè la propria operazione, di necessità le altre devono virtualmente volgersi insieme a quella; e quando l’una s’abbassa, come qui si dice, tutte s’abbasseranno, e quando una s’eleva, tutte le altre s’eleveranno. Dove sarà la tua speranza, là saranno anche la tua gioia il tuo timore e il tuo dolore; e se l’una tornerà indietro, anche questi torneranno indietro, e così via. 6. È perciò necessario ricordare, o spirituale, che, 331

dovunque andrà una di queste passioni, vi andrà anche tutta l’anima e la volontà e le altre potenze e tutte saranno prigioniere di quelle passioni, e le altre tre passioni vivranno in lei per affliggere l’anima con i loro vincoli e non lasciarla volare alla libertà e al riposo della dolce contemplazione ed unione. Perciò Boezio ha affermato che, «se vorrai conoscere con chiarezza la verità, dovrai allontanare da te le gioie e la speranza e il timore e il dolore»26; finché, infatti, dominano queste passioni, non lasciano stare l’anima nella tranquillità e nella pace che sono necessarie per la sapienza che essa può ricevere naturalmente e soprannaturalmente. CAPITOLO 17 Si comincia a trattare della prima affezione della volontà. Si dice che cosa sia la gioia e si fa una distinzione tra gli oggetti di cui la volontà può compiacersi. 1. La prima fra le passioni dell’anima e le affezioni della volontà è la gioia; per quanto riguarda ciò che intendiamo dire, essa non è altro che un compiacimento della volontà, insieme con una stima di qualcosa che essa ritiene conveniente; infatti mai la volontà si compiace se non quando una cosa le ispira apprezzamento e soddisfazione. Ciò riguarda la gioia attiva, che si ha quando l’anima intende in modo chiaro e distinto ciò di cui gode e il goderne o non goderne dipende da lei. Infatti vi è anche una gioia passiva, nella quale la volontà può trovarsi a godere, a volte senza intendere in modo chiaro e distinto da che cosa essa dipenda, a volte intendendolo, ma senza che dipenda da lei il trattenerla o no. Ma di ciò tratteremo in seguito. Ora diremo della gioia, in quanto è attiva e volontaria, avente per oggetto cose distinte e chiare. 2. La gioia può nascere da sei generi di cose o beni: temporali, naturali, sensuali, morali, soprannaturali e spirituali; dovremo esaminarli ordinatamente, disponendo la 332

volontà secondo la ragione, altrimenti, impedita da questi oggetti, essa potrebbe cessare di porre in Dio la forza della sua gioia. Per tutto ciò, conviene presupporre un fondamento che sarà come un bastone al quale dovremo andare sempre appoggiati; e converrà intenderlo bene, perché si tratta della luce mediante la quale dobbiamo orientarci a intendere questa dottrina e a indirizzare la nostra gioia a Dio, pur nell’uso di tutti questi beni; la volontà, infatti, deve gioire solo di ciò che è a gloria e onore di Dio, e il maggior onore che possiamo dargli è servirlo secondo la perfezione evangelica; quanto è al di fuori di ciò, non è di alcun valore e profitto per l’uomo. CAPITOLO 18 Tratta del godimento dei beni temporali. Dice come si deve indirizzare a Dio tale godimento. 1. Il primo genere di beni, abbiamo detto, è costituito da quelli temporali: per beni temporali intendiamo ricchezze, condizioni sociali, cariche e altre ambizioni, nonché figli, parenti, matrimoni, ecc.; tutte cose di cui la volontà può godere. È infatti chiaro come sia vano che gli uomini godano ricchezze, titoli, condizioni sociali, cariche e cose del genere, cui per lo più ambiscono; se coll’essere più ricchi si servisse di più Dio, allora si dovrebbe davvero godere delle ricchezze; invece esse sono motivo d’offesa a Dio, come insegna il Savio dicendo: «Figlio, se sarai ricco non sarai libero dal peccato» (Eccli. II, 10). Infatti, sebbene sia vero che i beni temporali per sé non fanno necessariamente peccare, tuttavia, normalmente, il cuore dell’uomo, per debolezza dei suoi affetti, vi si attacca, allontanandosi da Dio, il che è peccato, perché il peccato consiste nel venir meno a Dio; perciò il Savio dice che in tal caso non si sarà liberi dal peccato. Proprio perciò il Signore nel Vangelo usò la parola spine 333

(Mt. 13, 22; Lc. 8, 14), per far comprendere che chi maneggerà le ricchezze con la volontà resterà ferito da qualche peccato. Lo stesso intendimento ha quell’esclamazione che fa nel Vangelo di San Luca: «Quanto difficilmente entreranno nel regno dei cieli coloro che posseggono ricchezze» (Lc. 18, 24), ossia coloro che ne godono; questa esclamazione ci fa ben comprendere che l’uomo non deve godere delle ricchezze, poiché si espone a un grande pericolo. E, per tenercene lontani, David incalza: «Se le ricchezze abbondano, non vi porre il tuo cuore» (Sal. 61, 11). 2. Non voglio portare qui altre testimonianze su questo punto tanto chiaro, poiché non finirei di citare la Scrittura, né di enumerare i mali che Salomone nell’Ecclesiaste attribuisce alle ricchezze; infatti, avendone egli avute in grande abbondanza e ben conoscendole, disse che «tutto quanto è sotto il sole (1, 14) è vanità delle vanità» (ivi, 1, 2), «afflizione di spirito» (ivi, 1, 14; 2, 17) e vana sollecitudine dell’animo (ivi, 2, 26). E aggiunge che «chi ama le ricchezze non ne ricaverà frutto» (ivi, 5, 9); che le «ricchezze si custodiscono a danno del loro padrone» (ivi, 5, 12), come si vede nel Vangelo, dove a colui che si rallegrava per aver ammassato per molti anni un grande raccolto fu detto dal cielo (Lc. 12, 20): «Stolto, stanotte la tua anima sarà chiamata alla resa dei conti, e di chi sarà mai ciò che hai accumulato?». E infine David ci dà lo stesso insegnamento esortandoci a «non avere invidia per il nostro vicino che s’arricchisse, perché questo non gli servirà affatto per l’altra vita», con ciò facendoci intendere che dovremmo piuttosto averne pietà (Sal. 48, 17-18). 3. Ne consegue, dunque, che l’uomo non deve rallegrarsi delle ricchezze, né delle proprie né di quelle di suo fratello, se non in quanto gli siano strumento per servire Dio. Infatti, se è lecito goderne in qualche modo come ricchezze, è solo in quanto si spendano ed impieghino a seivizio di Dio; poiché in nessun altro modo se ne trarrà profitto. 334

E lo stesso deve intendersi a proposito degli altri beni, come i titoli, le condizioni sociali, le cariche, ecc.: goderne è vano, se non in quanto contribuiscano ad un migliore servizio di Dio e ad un più sicuro cammino verso la vita eterna. E siccome non si può sapere con certezza che, godendo tali beni, si serva di più Dio, ecc., sarebbe dunque cosa vana goderne in modo determinato, poiché questo godìmento non può essere razionale; dice infatti il Signore: «Anche se si conquista tutto il mondo, si può perdere la propria anima» (Mt. 16, 26). Non vi è dunque niente che sia da godere, se non in quanto giovi maggiormente al servizio di Dio. 4. Anche a proposito dei figli, non ci si deve compiacere che siano numerosi, ricchi e adorni di doni e grazie naturali e beni di fortuna, ma solo se servano Dio; infatti, nemmeno ad Assalonne, figlio di David, a nulla servirono né la bellezza né la ricchezza né la stirpe, in quanto egli non servì Dio (2 Re 14, 25); gli fu perciò inutile essersi rallegrato di queste cose. Ne consegue che è vano anche desiderare figli, come fanno alcuni mettendo a soqquadro e sconvolgono il mondo con la loro voglia d’averne; infatti non sanno se saranno buoni, se serviranno Dio, se la soddisfazione che ne attendono non si muterà in dolore, o il riposo e la consolazione in travaglio e sconforto, o l’onore in disonore; non sanno, dunque, se con essi, come spesso accade, offenderanno di più Dio; di costoro Cristo dice che, per terra e per mare, cercano d’arricchirsi, facendone figli di perdizione due volte più di loro (Mt. 23, 15). 5. Pertanto, quand’anche tutto gli sorridesse e gli accadesse prosperamente, l’uomo deve piuttosto temere che gioire, poiché nella prosperità cresce l’occasione e il pericolo di dimenticare Dio e d’offenderlo. Perciò Salomone confessa nell’Ecclesiaste (2, 2) d’aver diffidato di queste gioie, dicendo: «Ho giudicato errore il riso e alla gioia ho detto: perché t’illudi vanamente?». Che significa: quando le cose mi 335

sorridevano reputai inganno ed errore rallegrarmene, perché è certamente errore grande e insipienza che l’uomo goda di ciò che gli si mostra gradito e dilettevole, senza sapere con certezza se gliene venga un bene eterno: «Il cuore dello stolto», afferma il Savio, «è là dov’è l’allegria, ma quello del saggio è là dov’è la tristezza» (Eccle. 7, 5), poiché l’allegria acceca il cuore e non gli lascia considerare né ponderare le cose, mentre la tristezza fa aprire gli occhi e gliene mostra il danno e il profitto. Perciò egli stesso dice che «è meglio l’ira del riso» (ivi, 7, 4), per cui «è meglio andare alla casa del pianto che a quella del convito, poiché in quella si mostra il fine di tutti gli uomini», come anche dice il Savio (ivi, 7, 3). 6. Perciò sarà vanità anche il prender diletto della moglie o del marito, quando non si sa chiaramente se nel matrimonio essi serviranno meglio Dio; anzi, si dovrà provarne confusione, quando il matrimonio, come dice San Paolo, sia causa del non porre interamente il cuore in Dio, avendolo riposto l’uno nell’altro. Perciò egli dice: «se sei libero da donna, non cercarne», poiché, se si ha, conviene sia con tanta libertà di cuore «come se non la si avesse» (I Cor. 7, 27). Questo ci insegna San Paolo, insieme con quanto abbiamo detto dei beni temporali, esortando: «È sicuro quanto vi dico, fratelli, che il tempo è breve; resta perciò che per coloro che hanno moglie sia come non ne avessero, per coloro che piangono come non piangessero, per coloro che gioiscono come non gioissero, per coloro che comprano come non possedessero, e per coloro che usano di questo mondo come non ne usassero» (ivi 7, 29-31). Non si deve dunque riporre godimento in altro che non sia il servire Dio; tutto il resto è vano e senza profitto, in quanto il godimento che non è secondo Dio non può essere di profitto all’anima. CAPITOLO 19 Sui danni che possono derivare all’anima dal porre il 336

godimento nei beni temporali. 1. Se dovessimo enumerare i danni ai quali l’anima va incontro quando pone l’affetto della volontà nei beni temporali, non basterebbero né inchiostro né carta né tempo; infatti, dal poco, si può giungere a grandi mali e a distruggere grandi beni; così come da una scintilla di fuoco che non venga subito spenta si possono sprigionare fuochi grandi da incenerire il mondo. Tutti questi danni hanno radice e origine in un danno privativo principale che si nasconde in questo godimento, cioè nel separarsi da Dio: come, avvicinandosi a lui con l’affezione della volontà, provengono all’anima tutti i beni, così, allontanandosene a causa di questo attaccamento alle creature, le derivano tutti i danni e i mali, in proporzione all’affezione con cui ci si unisce alle creature, poiché questo è allontanarsi da Dio; perciò, il modo in cui ciascuno si separerà più o meno da Dio ci farà comprendere quanto questi danni siano più o meno intensi o estesi, ed anzi, come per lo più accade, quanto siano insieme intensi ed estesi. 2. Questo danno privativo, dal quale abbiamo detto che scaturiscono gli altri, privativi e positivi, ha quattro gradi, uno peggiore dell’altro; così l’anima che giungesse al quarto riceverebbe tutti i mali e tutti i danni possibili in questo caso. Questi quattro gradi sono indicati molto bene da Mosè nel Deuteronomio con le parole: «L’amato si è impinguato ed ha recalcitrato. Si è impinguato, ingrassato, dilatato. Ha abbandonato Dio suo creatore e si è allontanto da Dio sua salute» (32, 15). 3. Questo impinguarsi dell’anima, che era amata prima che s’impinguasse, rappresenta l’ingolfarsi nel godimento delle creature; di qui proviene il primo grado di questo danno, cioè quello di tornare indietro, che consiste in un ottundimento della mente nei confronti di Dio, che le oscura i beni divini come la nebbia oscura l’aria, impedendole 337

d’essere illuminata dal sole; infatti, nell’atto stesso in cui l’anima ripone la sua gioia in qualcosa e sbriglia l’appetito verso ciò che non è opportuno, s’ottenebra nei confronti di Dio e offusca la naturale intelligenza del giudizio, come insegna lo Spirito divino nel libro della Sapienza (4, 12), là dove dice: «La falsa apparenza delle vanità oscura i beni, mentre l’incostanza dell’appetito sconvolge e perverte il senso e il giudizio, anche se non ci sia malizia». Qui lo Spirito Santo fa comprendere che, sebbene nell’anima non vi sia alcuna malizia concepita nell’intelletto, la sola concupiscenza e il godimento di queste cose è sufficiente a generare in lei questo primo grado del danno dell’ottundimento della mente e dell’oscuramento del giudizio nell’intendere la verità e nel giudicare bene ciascuna cosa secondo la sua natura. 4. Qualora l’uomo dia spazio alla concupiscenza o al godimento delle cose temporali, non bastano santità e buon giudizio per preservarlo dal cadere in questo danno; perciò così disse Dio, per mezzo di Mosè, allo scopo di ammaestrarci: «Non ricevere doni, ché accecano anche i prudenti» (Es. 23, 8). E lo diceva con particolare riguardo a coloro che dovevano esser giudici, in quanto costoro debbono avere il giudizio limpido ed accorto, il che non avverrà se hanno cupidigia e compiacenza per i doni. Per questa stessa ragione Dio comandò a Mosè di nominare giudici coloro che aborrissero l’avidità, affinché il loro giudizio non si ottundesse per il gusto delle passioni (ivi, 18, 21-22). Perciò vuole non solo che non desiderino le ricchezze, ma anche che le aborriscano, poiché, per difendersi perfettamente dall’affezione dell’attaccamento, ci si deve sostenere con il rifiuto, scacciando un contrario con l’altro; perciò la ragione per la quale il profeta Samuele fu un giudice sempre tanto retto e illuminato è che, come egli stesso dice nel libro dei Re, mai ricevette doni da nessuno (r Re 12, 3). 338

5. Il secondo grado di questo danno privativo nasce dal primo; ciò si intende nel seguito del testo citato: «Si è impinguato, ingrassato e dilatato» (Dt. 32, 15). Questo secondo grado è dunque la dilatazione della volontà che acquisisce maggiore libertà nelle cose temporali; questa consiste nel non darsi né pensiero né pena e nel non ritenere cosa grave il godere e gustare i beni creati; ciò proviene dal fatto che prima si è sbrigliato il godimento, sicché, lasciato libero il campo, l’anima è venuta impinguandosene, come qui vien detto, e quella pinguedine di godimento e d’appetito le ha fatto dilatare ed estendere la volontà verso le creature. Tutto ciò reca con sé grandi danni, in quanto questo secondo grado fa allontanare l’anima dalle cose di Dio e dai santi esercizi e gliene toglie il gusto, poiché essa gusta ormai altre cose e va consumandosi in molte imperfezioni, sconvenienze, godimenti e gusti vani. 6. Quando questo secondo grado viene totalmente consumato, l’uomo abbandona le pratiche abituali e la sua mente e la sua cupidigia si volgono interamente ai beni del mondo. Coloro che si trovano in questo secondo grado non solo hanno il giudizio e l’intelletto oscurati nel riconoscere la verità e la giustizia, come coloro che si trovano nel primo grado, ma hanno anche molta fiacchezza e tepidezza e negligenza nel conoscerle e nell’attuarle; di loro così dice Isaia (1, 23): «Tutti amano i doni e si lasciano trascinare dalle ricompense e non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro, perché non se ne prendono cura». Il che non accade senza colpa, specialmente quando spetta loro per ufficio, poiché in questo secondo grado non mancano di malizia, come invece avviene nel primo. E così vanno allontanandosi dalla giustizia e dalle virtù, estendendo sempre più la volontà nell’attaccamento alle creature. Pertanto la caratteristica di coloro che si trovano in questo secondo grado è una grande tepidezza nelle cose spirituali e un mediocrissimo comportamento verso di esse, che 339

vengono praticate per cerimonia o per forza o per abitudine acquisita, più che per motivo d’amore. 7. Il terzo grado di questo danno privativo consiste nel fatto che, per non allontanarsi dalle cose e dai beni del mondo, si abbandona completamente Dio senza curarsi di osservare la sua legge, lasciandosi cadere per cupidigia in peccati mortali. Questo terzo grado è messo in rilievo nel tratto di quel passo che dice: «Abbandonò Dio suo creatore» (Dt. 32, 15). Tale grado comprende tutti coloro che hanno le potenze dell’anima tanto ingolfate nelle cose del mondo, nelle ricchezze e negli affari, che non si occupano affatto di compiere ciò a cui obbliga la legge di Dio; costoro hanno grande oblio e torpore per quanto riguarda la loro salvezza, mentre sono tanto più attenti e acuti riguardo alle cose del mondo; tanto che Cristo nel Vangelo li chiama figli di questo secolo, che nei loro affari sono «più prudenti» ed accorti «che non i figli della luce» nei propri (Le. 16, 8). Perciò essi non sono niente per quanto riguarda Dio e sono tutto per quanto riguarda il mondo; costoro sono propriamente gli avari, che hanno ormai talmente e tanto appassionatamente esteso e dilatato l’appetito e il godimento delle cose create, che non ne sono mai sazi, anzi il loro appetito e la loro sete tanto più crescono quanto più essi stanno lontani dall’unica fonte che potrebbe saziarli, cioè Dio; di costoro Dio stesso in Geremia dice: «Abbandonarono me, che sono fonte d’acqua viva e si scavarono cisterne rotte che non possono contenere acqua» (2, 13). Ciò accade perché l’avaro non può saziare la sua sete nelle creature, ma solo accrescerla; tali sono coloro che, per amore dei beni temporali, cadono in mille specie di peccati e ne ricevono innumerevoli danni. Di costoro David dice: Transierunt in affectum cordis (Sal. 72, 7). 8. Il quarto grado di questo danno privativo si nota nell’ultimo tratto del testo citato che dice: «Si allontanò da Dio sua salvezza» (Dt. 32, 15). A questo grado si giunge dal 340

terzo, allorché, non curandosi di porre il cuore nella legge di Dio a causa dei beni temporali, l’anima dell’avaro viene allontanandosi molto da Dio nella memoria, nell’intelletto e nella volontà, dimenticandosi di lui come se non fosse il suo Dio; il che accade perché ha fatto del denaro e dei beni temporali i suoi dèi, come dice San Paolo affermando che «l’avarizia è servitù degli idoli» (Col. 3, 5). Questo quarto grado porta dunque a dimenticare Dio e a porre formalmente il cuore, anziché in Dio, come dovrebbero, nel denaro, come non avessero altro Dio. 9. A questo quarto grado appartengono coloro che non esitano a subordinare le cose divine e soprannaturali a quelle temporali come a loro dio, mentre dovrebbero fare il contrario, ordinandole a Dio, se davvero credessero in lui, come è ragionevole. Uno di costoro fu l’iniquo Balaam, che vendette la grazia che Dio gli aveva dato (Num. 22, 7); anche Simon Mago pensava che la grazia di Dio potesse valutarsi in denaro, e volle comperarla (Atti 8, 18-19). Così finiva col dare più valore al denaro, in quanto riteneva che qualcuno lo apprezzasse tanto da farne cambio con la grazia. Anche al giorno d’oggi vi sono molti che si trovano in questo quarto grado, in diversi altri modi; con la ragione oscurata per cupidigia nelle cose spirituali, servono il denaro e non Dio e, anteponendo il prezzo al valore e al premio divino, si muovono per denaro e non per Dio, in molti modi facendo del denaro il loro dio e il loro fine principale, anteponendolo al fine ultimo che è Dio. 10. A quest’ultimo grado appartengono anche quei miserabili, tanto innamorati dei beni da ritenerli loro dèi, i quali non esitano a sacrificare a tali beni la propria vita, quando li vedono diminuire temporalmente, per cui si disperano e si danno la morte per ragioni miserabili, mostrando con le loro stesse mani quale disgraziata ricompensa si riceve da simile dio, che dispensa solo disperazione e morte, nient’altro essendoci da sperare in lui. 341

E coloro che la cupidigia non conduce fino a quest’ultimo danno della morte, li fa vivere come morti nelle pene degli affanni e di molte altre miserie, impedendo che la gioia entri nel loro cuore e che qualche bene risplenda sulla loro terra; così costoro pagano sempre il tributo del loro attaccamento al denaro con le pene che ne soffrono, ammassandolo per la loro ultima disgrazia e per la giusta perdizione, come avverte il Savio dicendo che «le ricchezze vengono custodite per il male del loro padrone» (Ecl. 5, 12). 11. E appartengono a questo quarto grado anche coloro dei quali dice San Paolo che tradidit illos in reprobum sensum (Rom. 1, 28); poiché, quando il godimento del possesso si pone come fine ultimo, esso conduce l’uomo a questi danni estremi. Ma anche di coloro che ne ricevono danni minori bisogna avere grande compassione, perché, come abbiamo detto, tale grado fa tornare l’anima molto indietro sulla via di Dio. Perciò, come dice David: «Non temere l’uomo quando diventa ricco», ossia non averne invidia, pensando che ne avrà vantaggio, perché «quando morrà non si porterà via niente né scenderanno con lui la sua gloria e il suo godimento» (Sal. 48, 17-18). CAPITOLO 20 Sui vantaggi che derivano all’anima dall’allontanare il godimento delle cose temporali. 1. Lo spirituale deve dunque badare molto a che il suo cuore e la sua gioia non comincino ad attaccarsi alle cose temporali, e deve temere che di grado in grado dal poco non si giunga al molto, perché dal poco si perviene sempre al molto, da un danno inizialmente piccolo ne deriva alla fine uno grande, così come basta una scintilla per incendiare un monte e il mondo intero. E, per quanto piccolo sia l’attaccamento, lo spirituale non s’arrischi a non troncarlo 342

subito, magari pensando di provvedervi dopo, perché se non ha il coraggio di eliminarlo dall’inizio quando esso è piccolo, come pensa o presume di poterlo fare quando sarà più grande e radicato? Tanto più che nostro Signore dice nel Vangelo che «chi è infedele nel poco lo sarà anche nel molto» (Lc. 16, 10), poiché chi evita il poco non cadrà nel molto; nel poco c’è già un grande danno, poiché la recinzione e le mura del cuore sono già violate, come dice l’adagio: «chi ben comincia è alla metà dell’opera»; perciò David ci avverte: «se le ricchezze abbondano, non vi porre il cuore» (Sal. 61, 11). 2. L’uomo dovrebbe liberare perfettamente il suo cuore da tutti questi godimenti, per serbarlo solo per il suo Dio e per ciò cui lo obbliga la perfezione cristiana, oltre che per i vantaggi spirituali e per quelli temporali che ne conseguono, in quanto, così, non solo si libera dei danni pestiferi di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, ma, abbandonando il godimento dei beni temporali, acquista anche la virtù della liberalità, cioè una delle principali qualità di Dio, che non si può affatto avere se si è cupidi. E inoltre acquista libertà d’animo, lucidità di ragione, serenità, tranquillità e pacifica confidenza in Dio e culto e vero ossequio della volontà a Dio. Spogliandosene, poi, acquista anche maggiore gioia e ricreazione nelle creature, in quanto non se ne può godere se si guardano con attaccamento di proprietà, perché tale attaccamento è una preoccupazione che lega lo spirito alla terra come laccio e non lascia dilatare il cuore. Il distacco dalle cose ne fa acquistare una più chiara nozione, attraverso la quale se ne intendono meglio le verità che le riguardano, sia sul piano naturale sia su quello soprannaturale; perciò le cose sono godute in modo diverso da come le gode chi vi è attaccato, e se ne traggono grandi vantaggi e utilità; infatti si gustano secondo la loro verità, anziché secondo la loro falsità, come nei casi precedenti: secondo il meglio e non secondo il peggio, secondo la sostanza e non secondo l’accidente, come fa chi vi attacca i 343

sensi; infatti il senso non può cogliere che l’accidente e non può andare oltre esso, mentre lo spirito, purificato dalle nubi e dagli aspetti accidentali, penetra la verità e il valore delle cose, essendo proprio questo il suo oggetto. Per tale motivo, il godimento oscura il giudizio come nebbia; non ci può essere infatti godimento volontario di creatura senza proprietà volontaria, così come non vi può essere godimento inteso come passione senza che in cuore non vi sia anche proprietà abituale; e la negazione e la purificazione di tale gioia lasciano chiaro il giudizio, come lasciano rischiarata l’aria i vapori quando si dissipano. 3. L’uno gode dunque tutte le cose come se le possedesse tutte, in quanto non le gode con spirito di possesso; mentre l’altro, in quanto le guarda con particolare intenzione di proprietà, perde il gusto di tutte in generale; l’uno, non possedendone nessuna nel cuore, le possiede tutte con grande libertà, come dice San Paolo (2 Cor. 6, 10); l’altro, in quanto vi è legato con la volontà, non ne ha né ne possiede alcuna, anzi, son le cose a possedere il suo cuore e perciò lo fanno soffrire come un prigioniero; perciò costui avrà necessariamente tante angustie e pene, nel suo cuore così attaccato e posseduto, quante sono le gioie che egli cerca nelle creature. Chi ne è distaccato, invece, non è molestato da preoccupazioni, né durante né fuori dell’orazione, e così, senza perdere tempo, facilmente acquista grande ricchezza spirituale. L’altro, al contrario, non fa che girare e rigirare il laccio cui sta attaccato e avvinto il suo cuore, e difficilmente e per poco, anche se si sforza, potrà liberarsi da quel laccio del pensiero e del godimento di ciò a cui il suo cuore è attaccato. Pertanto lo spirituale deve reprimere sin dal primo moto il godimento delle creature, ricordandosi del principio che abbiamo enunciato, ossia che non c’è cosa che l’uomo debba godere se non in quanto serve a Dio e a procurargli onore e gloria in tutto, e indirizzando tutte le cose solo a questo fine, 344

allontanandosi in esse dalla vanità, senza cercarvi il proprio gusto o la propria consolazione. 4. Il distacco dal godimento delle creature produce un altro vantaggio grandissimo, primario, quello di lasciare il cuore libero per Dio, il che costituisce il principio della disposizione a tutti i doni che Dio vuol fare e che non fa senza quella disposizione; questi doni sono tali che, per ogni rinunzia a quel godimento, fatta per amore di Dio e per la perfezione evangelica, anche temporalmente sarà dato il cento per uno in questa vita, come la Maestà divina promette nello stesso Vangelo (Mt. 19, 29). Ma se anche non fosse per questi vantaggi, solo per il disgusto che si dà a Dio nel godimento delle creature, lo spirituale dovrebbe spegnerlo nella sua anima; vediamo infatti nel Vangelo che il Signore si adirò tanto con il ricco che godeva per il possesso di beni sufficienti per molti anni, da annunciargli che quella notte stessa la sua anima sarebbe stata chiamata alla resa dei conti (Lc. 12, 20). Dobbiamo perciò credere che, ogni volta che godiamo vanamente, Dio vede e prepara castighi e amare avversità proporzionate al demerito, sì che spesso la pena che ne viene è cento volte maggiore del godimento provato. È vero infatti quanto San Giovanni afferma di Babilonia nell’Apocalisse (18,7): se Babilonia merita tanto tormento e tanta pena quanto ha goduto e si è dilettata, ciò non significa che la pena non sarà superiore al godimento; lo sarà, invece, dal momento che, per brevi piaceri, si riceveranno tormenti eterni; egli infatti vuol far comprendere che niente resterà senza il suo castigo particolare, in quanto «colui che punirà ogni parola inutile» (Mt. 12, 36) non perdonerà il vano godimento. CAPITOLO 21 Si dice come sia vanità porre la gioia della volontà nei beni naturali e come per loro tramite ci si debba indirizzare a Dio.

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1. Per beni naturali intendiamo qui bellezza, grazia, leggiadria, presenza fisica e tutte le altre doti corporee, e, quanto all’anima, retto intendimento, discrezione e le altre qualità pertinenti alla ragione. Di tutte queste doti l’uomo si compiace, sia in quanto proprie, sia in quanto di persone a lui congiunte, ma solo per goderne, senza ringraziarne Dio, che le concede per essere, grazie ad esse, maggiormente conosciuto e amato. Il che è vanità e inganno, come dice Salomone: «Fallace è la grazia e vana la bellezza: colei che teme Dio sarà lodata» (Prov. 31, 30). Qui ci viene insegnato che l’uomo deve invece provar timore di fronte a questi doni naturali, perché facilmente, a causa loro, può distrarsi dall’amore di Dio e cadere in vanità e, attratto da essi, può restarne ingannato; perciò dice che «la grazia corporea è ingannatrice», perché, durante il cammino, inganna l’uomo e lo attrae verso ciò che non gli conviene, per vano godimento e compiacenza di sé, o di chi abbia quelle grazie; e dice che «la bellezza è vana», poiché lo fa cadere in molti modi quando la stima o ne gode disordinatamente, mentre deve goderne solo in quanto, in lui e in altri, serve a Dio; deve anzi diffidare e temere che i suoi doni e le sue grazie naturali diventino causa di offesa a Dio, qualora vi ponga sopra gli occhi per vana presunzione e per eccessiva affezione. Perciò colui che ha tali doni deve vivere con attenzione e prudenza, per non essere occasione a nessuno, con la sua vana ostentazione, di allontanare un solo istante il suo cuore da Dio; queste grazie e questi doni naturali sono infatti un’occasione fortemente provocante, tanto per chi li ha, quanto per chi li guarda, cosicché difficilmente non ne sortirà qualche sottile laccio o legame nel cuore; ed è a motivo di tale timore che abbiamo visto molte persone spirituali, dotate di alcune di queste qualità, pregando, ottenere da Dio che le sfigurasse, per non essere causa ed occasione, né a sé né ad altri, di qualche affezione o godimento vano.

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2. Lo spirituale deve dunque purificare e oscurare la propria volontà nei confronti di questo vano godere, ricordando che la bellezza e tutte le altre doti naturali sono terra, da cui vengono e a cui torneranno; che la grazia e la leggiadria sono fumo e alito di questa terra e che come tali debbono ritenersi e stimarsi per non cadere in vanità; che in tutte queste cose si deve indirizzare il cuore di Dio, godendo e rallegrandosi del fatto che Dio è in sé, eminentissimamente, tutte quelle bellezze e grazie in modo infinito al di sopra di tutte le creature; e che, infine, come dice David: «tutte invecchieranno e si consumeranno, come una veste, e lui solo resterà immutabile per sempre» (Sal. 101, 27). Perciò, chi non indirizzerà a Dio la sua gioia in tutte le cose, sarà sempre ingannatore e sempre ingannato; a costui si riferisce quel testo di Salomone che del godimento delle creature dice: «Alla gioia ho detto: perché ti lasci ingannare vanamente?» (Ecl. 2, 2). Questo precisamente accade quando il cuore si lascia attrarre dalle creature. CAPITOLO 22 Sui danni che provengono all ‘anima dal riporre la gioia della volontà nei beni naturali. 1. Molti dei danni e dei vantaggi che vado enumerando in questi generi di godimento sono peraltro comuni a tutti, poiché sono conseguenza diretta del godimento o del suo spogliamento, sebbene il godimento appartenga a tutti e sei e i generi di cui sto trattando; perciò per ogni genere di godimento dirò di alcuni danni e dei vantaggi che si trovano anche negli altri generi, in quanto sono connessi con il godimento comune a tutti. Ma il mio intento principale è indicare i particolari danni e vantaggi che provengono all’anima in rapporto a ciascuna cosa in quanto goduta o non goduta; e li definisco particolari perché sono causati primariamente e immediatamente da un determinato genere di gioie, né possono essere causati da 347

altro genere se non in modo secondario e mediato. Per esempio, il danno della tepidezza di spirito è causato direttamente da qualsiasi genere di godimento e perciò è danno generale, comune a tutti i sei generi; la sensualità, invece, è un danno particolare, che proviene direttamente solo dal godimento dei beni naturali dei quali stiamo trattando. 2. I danni spirituali e corporali, che derivano direttamente ed effettivamente all’anima quando pone il suo godimento nei beni naturali, si riducono dunque a sei principali. Il primo è vanagloria, presunzione, superbia e disprezzo del prossimo; poiché non si possono porre gli occhi della stima in una cosa senza toglierli da altro, ne consegue, per lo meno, un disprezzo reale di tutte le altre cose. Naturalmente, infatti, quando si pone la stima in una cosa, il cuore si ritira dalle altre, per fissarsi in quella, e da questo effettivo disinteresse è molto facile cadere in un disprezzo intenzionale e volontario, particolare o generale, non solo serbandolo in cuore, ma anche mostrandolo a parole, col dire che questa o quella cosa, questa o quella persona, non è come questa o quell’altra. Il secondo danno consiste nel muovere i sensi alla compiacenza, al diletto sensuale e alla lussuria. Il terzo danno consiste nel cadere in adulazione e in lodi vane, in cui c’è inganno e vanità, come dice Isaia quando afferma: «Popolo mio, chi ti loda ti inganna» (3, 12); e la ragione è che, sebbene talvolta si dica la verità lodando la grazia e la bellezza, tuttavia solo per puro caso non vi sarà mischiato qualche danno, perché la persona lodata sarà tentata di cadere nella compiacenza di sé e nella gioia vana che generano affetti e intenzioni imperfette. Il quarto danno è generale, in quanto si ottundono gravemente la ragione e il sentimento spirituale; ciò avveniva anche nel godimento dei beni temporali, ma qui, in certo modo, molto di più, perché i beni naturali sono più congiunti all’uomo dei beni temporali e dunque il loro godimento si 348

imprime con maggiore efficacia e prontezza, lascia tracce nei sensi e più fortemente li affascina, cosicché la ragione e il giudizio non restano liberi, ma offuscati dall’affezione di quel godimento che è loro molto affine. Di qui scaturisce il quinto danno, che è la distrazione della mente nelle creature. Conseguentemente nasce la tepidezza e la fiacchezza di spirito, che costituisce il sesto danno, anch’esso generale, il quale di solito giunge a tal punto da ingenerare grave tedio e tristezza nelle cose di Dio, fino ad aborrirle. In questa gioia infallibilmente si perde lo spirito puro, almeno all’inizio; se infatti si continua a percepire alcunché di spirituale, consisterà in qualcosa di molto sensibile e grossolano, poco spirituale, poco interiore e raccolto, più gusto sensibile che forza spirituale. Infatti lo spirito è così debole e fiacco da non poter eliminare l’abito di quel godimento — per non avere lo spirito puro non è nemmeno necessario consentire, offrendosene l’occasione, agli atti del godimento, ma basta avere questo abito imperfetto —; esso deve dunque vivere in certo modo più nella fiacchezza del senso che nella forza dello spirito; e ciò sarà reso manifesto dalla perfezione e dalla forza che avrà nelle singole circostanze. Non nego che possano coesistere molte virtù insieme con grandi imperfezioni; ma, finché non si spengono questi godimenti, lo spirito interiore non potrà essere né puro né saporoso, poiché regna «la carne, la quale combatte contro lo spirito» (Gal. 5, 17); e se anche lo spirito non ne risenta danni, per lo meno ne subirà distrazione nel suo intimo. 3. Ma, per insistere sul secondo danno, che ne contiene in sé innumerevoli, pur non potendosi tutto esprimere con la penna, né significarlo con parole, non è certo cosa oscura né segreta quanto estrema e grande sia la sventura che nasce dal riporre il godimento nelle grazie e nella bellezza naturale. Per questa causa, infatti, ogni giorno vediamo innumerevoli morti, onori perduti, insulti, beni dissipati, emulazioni e contese, adulteri e stupri e fornicazioni, e santi caduti in 349

basso in tal numero da essere paragonabili alla «terza parte delle stelle del cielo abbattute sulla terra dalla coda di quel serpente» (Apoc. 12, 4), o comparabili all’«oro fino che nel fango ha perduto la sua lucentezza e bellezza; o agli incliti nobili di Sion, vestiti d’oro purissimo, ridotti a vasi di terra spezzati, divenuti cocci» (Lam. 4, 1-2). 4. Fin dove non giunge il veleno di questo danno? E chi non beve, poco o molto, dal calice dorato della donna babilonica dell’Apocalisse? (17, 4). Stando seduta sulla grande bestia dalle sette teste e con dieci corone, ella fa capire come non vi sia né nobile né plebeo, né santo né peccatore, al quale non faccia bere del suo vino, in qualcosa assoggettando a sé il suo cuore; infatti, come qui si dice di lei, tutti i re della terra «furono inebriati dal vino della sua prostituzione». Ella tiene sotto il suo dominio tutti gli stati, persino quello supremo ed eccelso del santuario e del sacerdozio divino, posando il suo abominevole vaso, come dice Daniele (9, 27), «nel luogo santo»; non lasciando nessuno, per quanto forte, al quale, poco o molto, non faccia bere del vino di questo calice, cioè del godimento vano; perciò è scritto che tutti i re della terra furono inebriati di quel vino, in quanto saranno pochissimi coloro che, per quanto santi, ella non abbia affascinato e sconvolto con la bevanda del godimento e del gusto della bellezza e delle grazie naturali. 5. Qui è da notare l’espressione si inebriarono, poiché, per quanto poco si beva del vino di questo godimento, immediatamente esso avvince il cuore e lo seduce, provocando l’oscuramento della ragione, come accade a chi è preso dal vino; tanto che se non si prende subito qualche rimedio specifico per espellere il veleno, la vita dell’anima è in pericolo: crescendo, infatti, la fiacchezza spirituale, l’anima sarà ridotta a così mal partito che, come Sansone, strappati gli occhi con cui acutamente vedeva e tagliati i capelli della sua primitiva forza, si vedrà costretta, prigioniera fra i suoi nemici, a girar macine di mulino e poi forse, come lui con 350

quelli, a morire una seconda morte. Tutti questi danni corporali, causati dall’aver assaporato quel godimento, in molti si producono spiritualmente; così che i nemici verranno a dire all’anima, con sua grande confusione: «Non sei tu che spezzavi i lacci doppi, smascellavi i leoni, uccidevi mille filistei, scardinavi le porte e ti liberavi di tutti i tuoi nemici?» (Giud. 16, 19). 6. Concludiamo, dunque, indicando l’antidoto necessario contro tale veleno: non appena il cuore s’accorga d’esser mosso da questo vano godimento dei beni naturali, ricordi quanto sia stolto godere di qualsiasi cosa che non sia servire Dio, e quanto, anzi, sia pericoloso e dannoso; consideri quanto danno derivò agli angeli stessi dall’aver goduto con compiacenza della propria bellezza e dei propri beni naturali, se per questo motivo furono precipitati nell’orrendo abisso; e mediti su tanti mali che derivano ogni giorno agli uomini per questa stessa vanità; perciò si rianimino presto, prendendo il necessario rimedio, come consiglia il poeta27 a coloro che cominciano ad assuefarvisi: «Affrettatevi a porvi rimedio ora, agli inizi; poiché, quando i mali avranno avuto il tempo di crescere nel cuore, il rimedio e la medicina arriveranno tardi». «Non guardate il vino, dice il Savio, quando il suo colore è rosso e risplende nel calice: esso entra dolcemente e alla fine morde come serpe espandendo il veleno come il basilisco» (Prov. 23, 31-32). CAPITOLO 23 Sui vantaggi che derivano all ‘anima dal non porre il suo godimento nei beni naturali. 1. Molti sono i vantaggi che derivano all’anima dall’allontanare il suo cuore da simili godimenti; oltre a disporia all’amore di Dio e alle altre virtù, direttamente apre la via all’umiltà per se stessa ed alla carità universale verso il prossimo; infatti, non vincolandosi a nessuno a causa dei 351

suoi beni naturali apparenti, che sono ingannevoli, l’anima resta libera e pura per amare tutti razionalmente e spiritualmente, come Dio vuole che siano amati. Da ciò si comprende come nessuno meriti amore se non per la virtù che è in lui. Questo modo d’amare è molto conforme a Dio ed è segno di grande libertà; e se implica un attaccamento, questo non è che maggiore attaccamento a Dio; infatti, quanto più cresce l’amore del prossimo, tanto più cresce l’amore di Dio, e quanto più cresce l’amore di Dio, tanto più cresce l’amore del prossimo; poiché ciò che è in Dio ha un’unica ragione e un’unica causa. 2. Alla negazione di quel genere di godimento consegue un altro grandissimo vantaggio, che consiste nel compiere e nell’osservare il consiglio che il nostro Salvatore dà in San Matteo: «chi vuole seguirlo rinneghi se stesso» (16, 24). In nessun modo, infatti, l’anima potrebbe osservare quel consiglio, se riponesse la sua gioia nei propri beni naturali, perché chi in qualche modo si stima non si rinnega, e perciò non segue Cristo. 3. Un altro vantaggio ancora proviene dal negare questo genere di godimento ed è che porta nell’anima grande tranquillità, la sgombra dalle distrazioni e genera raccoglimento nei sensi, specie negli occhi; perché, non volendo goderne, l’anima non vuol guardare né esercitare gli altri sensi in tali cose, per non esserne attratta né allacciata, né perdervi tempo e pensieri, divenendo simile al prudente serpente, che «si tappa gli orecchi per non udire gli incantatori e per non riceverne nessuna impressione (Sal 57, 5-6); custodendo, infatti, le porte dell’anima, cioè i sensi, se ne custodisce e aumenta grandemente la tranquillità e la purezza. 4. Un vantaggio non minore, per coloro che si sono mortificati in questo genere di godimento, è che gli oggetti e le notizie sgradevoli non producono in loro 352

quell’impressione e quell’impurità che si danno invece in coloro che in qualche modo ancora vi indulgano; pertanto, alla negazione e alla mortificazione di quel godimento consegue la limpidezza spirituale dell’anima e del corpo, dello spirito e del senso; e l’uomo acquista una convenienza angelica con Dio, facendo della propria anima e del proprio corpo tempio degno dello Spirito Santo. Il che non sarebbe possibile se il cuore godesse dei beni e delle grazie naturali; non è nemmeno necessario, infatti, che consenta a qualcosa di brutto e lo ricordi, poiché, per l’impurità dell’anima e del senso, basta quel godimento o la sua notizia; perciò il Savio dice che «lo Spirito Santo s’allontanerà dai pensieri insipienti», cioè che non hanno una superiore ragione in ordine a Dio (Sap. 1,5). 5. Ne consegue poi un altro vantaggio generale: l’anima, oltre a liberarsi dei mali e dei danni che abbiamo detto, si spoglia anche di innumerevoli vanità e di molteplici inconvenienti, spirituali e temporali, specialmente di quello di cadere nella poca stima che spetta a tutti coloro che si sono mostrati vanitosi e compiaciuti delle doti naturali, proprie o altrui. Così sono giudicati e stimati assennati e savi, come in verità sono, tutti coloro che non si preoccupano di queste cose, ma solo di quanto piace a Dio. 6. Dai vantaggi enumerati consegue l’ultimo, che consiste in un bene generoso dell’anima, tanto necessario per servire Dio quanto la libertà dello spirito; con esso facilmente si vincono le tentazioni, si sopportante bene le tribolazioni e le virtù crescono prosperamente. CAPITOLO 24 Tratta del terzo genere di beni in cui la volontà può porre l’affezione del godimento, ossia i beni sensuali. Si dice quali siano e di quanti generi e come la volontà debba indirizzarsi a Dio purificandosi da questo godimento. 353

1. Procediamo trattando del godimento riguardante i beni sensuali, che costituiscono il terzo genere di beni nel quale abbiamo detto che la volontà può compiacersi. Occorre notare che per beni sensuali qui intendiamo tutto ciò che in questa vita può cadere sotto i sensi della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto e del tatto e della costruzione interiore del discorso immaginario, cose tutte che appartengono ai sensi corporei, interni ed esterni. 2. Per oscurare e purificare la volontà del godimento di tali oggetti sensibili, volgendola a Dio attraverso essi, è necessario presupporre una verità, ossia che, come più volte s’è detto, il senso della parte inferiore dell’uomo di cui stiamo trattando non ha né può avere la capacità di conoscere né di comprendere Dio come è in sé. Infatti, né l’occhio può vederlo o vedere cosa che gli somigli, né l’orecchio può udire la sua voce o suono che le somigli, né l’olfatto può percepire profumo tanto soave, né il gusto cogliere sapore tanto sublime e gustoso, né il tatto sentire tocco tanto delicato e dilettevole o qualcosa di simile; né il suo aspetto può cadere nel pensiero o nell’immaginazione, e neppure qualsiasi immagine che lo rappresenti; dice infatti Isaia: «Né occhio lo vide, né orecchio l’udì, né cadde in cuore d’uomo» (Is. 64, 4; 1 Cor. 2, 9). 3. Bisogna ora notare che i sensi possono ricevere gusto e diletto o da parte dello spirito, mediante qualche comunicazione ricevuta interiormente da Dio, o da parte delle cose esterne comunicate ai sensi; ma, secondo quanto s’è detto, la parte sensitiva non può conoscere Dio, né per via dello spirito, né per via dei sensi, in quanto, non avendo capacità che giunga a tanto, può ricevere ciò che è spirituale solo per via sensibile e sensuale. Pertanto, fissare la volontà nell’assaporare il gusto procurato da qualcuna di queste apprensioni sarebbe per lo meno vanità, e certo impedirebbe alla forza della volontà di applicarsi in Dio ponendo in lui solo il suo godimento. L’anima non può applicarsi in Dio 354

compiutamente se non purificandosi da questo e dagli altri generi di godimento, ottenebrandosi in rapporto ad essi. 4. Ho detto di proposito che sarebbe vano quel godimento che si fermasse su qualcuna delle cose di cui s’è parlato, poiché, quando l’anima non vi si sofferma, subito sente il gusto di ciò che ode, vede e tocca e si eleva a gioire in Dio, ed è per lei motivo e forza per farlo, il che è un bene grande. In questo caso non solo non si devono evitare tali sollecitazioni, allorché producono devozione ed orazione, ma anzi se ne può trar profitto e si deve farlo per un esercizio tanto santo, in quanto vi sono anime che vengono facilmente portate a Dio attraverso oggetti sensibili. Ma bisogna avere molta cautela e osservare gli effetti che se ne traggono; spesso, infatti, molti spirituali usano tali ricreazioni dei sensi con il pretesto dell’orazione e di darsi a Dio, ma in modo tale che ciò merita piuttosto il nome di ricreazione che di orazione, e dà gusto a se stessi piuttosto che piacere a Dio; e se anche la loro intenzione è rivolta a Dio, l’effetto che ne traggono è in vista della ricreazione sensibile, donde si ricava fiacchezza di imperfezione più che un ravvivamento della volontà e la sua offerta a Dio. 5. Perciò ora voglio dare un criterio per distinguere quando i diletti dei sensi siano vantaggiosi e quando no; ogni volta che si ode musica od altro, o si vedono oggetti piacevoli, o si percepiscono odori soavi, e si gustano sapori e tocchi delicati, se subito, fin dal primo moto, si rivolgono a Dio la percezione e l’orientarsi della volontà, in modo tale che la percezione dia un gusto maggiore rispetto all’elemento sensuale che la muove e che non la si gusti se non per questo, allora è segno che se ne trae profitto, e che il sensibile aiuta lo spirito; con questo criterio ci si può dunque servire del diletto sensibile, in quanto, così, le cose sensibili servono al fine per il quale Dio le creò e ce le diede, cioè per essere più amato e conosciuto attraverso di loro. Bisogna dunque sapere che coloro nei quali i beni sensibili 355

producono il puro effetto spirituale di cui ho detto non ne hanno appetito né vi danno grande importanza, e se provano molto gusto al loro presentarsi è per il gusto di Dio che quei beni producono in loro; così non s’affannano per averne, ma quando si offrono loro, subito ritirano la volontà dai beni sensibili e li lasciano, per mettersi in Dio. 6. Il motivo per cui costoro non vi danno tanta importanza, sebbene vi trovino un aiuto per andare a Dio, è che quando lo spirito ha questa prontezza d’elevarsi a Dio con tutto e mediante tutto, è tanto nutrito e provvisto e soddisfatto dello spirito di Dio che non manca di nulla e nulla desidera; e se desidera qualcosa subito vi passa sopra e lo dimentica e non vi fa caso. Se invece qualcuno non sente questa libertà di spirito nei confronti di tali beni e gusti sensibili, ma s’accorge che la sua volontà vi si sofferma e se ne nutre, vuol dire che ne riceve danno e deve evitare di usarne; infatti, se anche volesse valersene secondo ragione per andare a Dio, tuttavia, siccome l’appetito ne prova gusto sensuale, e siccome l’effetto è sempre conforme al gusto, senza dubbio ne riceve più disturbo che aiuto e più danno che vantaggio; e quando si accorgesse che in lui diventa dominante il desiderio di tali ricreazioni, deve mortificarle, perché, quanto più saranno forti, tanto maggiore imperfezione e fiacchezza ne riceverà. 7. Lo spirituale, qualsiasi gusto gli si offra da parte dei sensi, per caso o intenzionalmente, deve dunque valersene soltanto per Dio, elevando a lui il godimento dell’anima affinché risulti utile e vantaggioso e perfetto; ricordando che ogni godimento che non sia negazione e annullamento di qualche altro, anche riguardante cosa apparentemente sublime, è vano e senza profitto e ostacola l’unione della volontà con Dio. CAPITOLO 25

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Tratta dei danni che l’ anima riceve quando vuole porre il godimento della volontà nei beni sensuali. 1. Anzitutto, se l’anima non oscura e non spegne il godimento delle cose sensuali, indirizzandolo a Dio, potrà averne tutti i danni generali, che, come abbiamo detto, nascono da qualsiasi genere di godimento e derivano dalle cose sensibili, come ad esempio l’oscuramento della ragione, la tepidezza e il tedio spirituale, ecc. Ma in particolare sono molti i danni, tanto spirituali quanto corporali e sensuali, in cui può cadere direttamente a causa di questo godimento. 2. In primo luogo, dal godimento delle cose visibili, quando non siano negate per andare a Dio, possono conseguire direttamente vanità d’animo e distrazione di mente, cupidigia disordinata, disonestà, scompostezza interiore ed esteriore, impurità di pensiero e invidia. 3. Dal godimento dell’udire cose inutili nascono direttamente distrazione dell’immaginazione, pettegolezzi, invidia, giudizi incerti e volubilità di pensieri e da questi molti altri pericolosi danni. 4. Dal godere odori soavi nasce ripugnanza per i poveri, contraria alla dottrina di Cristo, avversione alla servitù, poca sottomissione del cuore nelle cose umili e insensibilità spirituale, almeno in proporzione del suo appetito. 5. Dal godimento dei sapori dei cibi provengono direttamente gola e ubriachezza, ira, discordia e mancanza di carità verso il prossimo e i poveri, come quella dell’epulone, che ogni giorno banchettava splendidamente, nei confronti di Lazzaro (Lc. 16, 19). Ne derivano inoltre indisposizione del corpo e infermità; e i cattivi moti, in quanto nascono gli incentivi alla lussuria; ne consegue direttamente anche un gran torpore di spirito, e si corrompe l’appetito delle cose spirituali, in modo che non se ne può gustare, né 357

soffermarvisi, né parlarne. Nasce da questo godimento anche una distrazione degli altri sensi e del cuore e un disgusto per molte cose. 6. Dal godimento del tatto di cose soavi nascono danni più grandi ancora e più pericolosi, che in breve sostituiscono il senso allo spirito e ne spengono la forza e il vigore. Ne nasce, in proporzione, l’abominevole vizio per le mollezze e per ciò che le stimola; si alimenta la lussuria, l’anima diviene effeminata e timida, e il senso allettatore e mellifluo e disposto a peccare e a fare danno; si infondono nel cuore una allegria e una gioia vane, si scioglie la lingua e si sbrigliano gli occhi e, secondo l’intensità dell’appetito, vengono ammaliati ed ottusi gli altri sensi. Questo appetito disturba il giudizio, mantenendolo nell’insipienza e nella leggerezza spirituale, e moralmente genera codardia e incostanza; e, insieme con le tenebre dell’animo e la fiacchezza del cuore, procura timori, anche quando non ce n’è motivo; spesso crea dunque spirito di confusione e una insensibilità di coscienza e di spirito, in quanto debilita la ragione, riducendola al punto che questa, non sa né ricevere né dare buoni consigli, resa incapace di beni spirituali e morali, inutile come un vaso di cocci. 7. Tutti questi danni vengono prodotti da quel genere di godimento, più o meno intensamente a seconda della sua intensità e a seconda della facilità o fiacchezza o incostanza del soggetto; vi sono infatti nature che da una piccola occasione ricevono danno maggiore che non altre da una grande. 8. Da questo genere di godimento — quello del tatto — si può infine cadere in molti altri mali e danni, dei quali abbiamo parlato trattando dei beni naturali, e ai quali ora non mi riferisco più, avendolo già fatto; così come tralascio di dire di molti altri danni che provoca, quali sono la diminuzione degli esercizi spirituali e della penitenza 358

corporale, la tepidezza e la scarsa devozione nell’uso dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia. CAPITOLO 26 Sui vantaggi spirituali e temporali che provengono all’anima dalla negazione del godimento delle cose sensibili. 1. Mirabili sono i vantaggi che l’anima trae dalla negazione di questo godimento; alcuni sono spirituali, altri temporali. 2. Il primo è che l’anima, allontanando il suo godimento dalle cose sensibili e raccogliendosi in Dio riacquista il suo equilibrio nei confronti delle distrazioni in cui era caduta per l’eccessivo esercizio dei sensi, conserva lo spirito e accresce le virtù che ha acquistato traendone profitto. 3. Il secondo vantaggio spirituale che l’anima riceve, quando non vuol godere beni sensibili, è eccellente, in quanto possiamo veramente dire che da sensuale diventa spirituale, da animale diventa razionale, e che l’uomo procede come angelo, divenendo, da temporale e umano, divino e celestiale; infatti, come l’uomo che cerca il gusto delle cose sensuali e vi pone il suo godimento, non merita né può ricevere altra denominazione che quella detta, cioè sensuale, animale, mondano, ecc., così, quando ritrae il godimento da queste cose sensibili, merita tutti questi altri nomi, cioè spirituale, celestiale, ecc. 4. Ed è chiaro che sia così; poiché, siccome l’esercizio dei sensi e la forza della sensualità, come dice l’Apostolo, contraddicono alla forza e all’esercizio spirituale (Gal. 5, 17), ne segue che, diminuendo o venendo meno le une, di necessità crescono e aumentano le forze contrarie, che dalle prime erano impedite di crescere; così, perfezionandosi lo spirito, cioè la parte superiore dell’anima che ha sguardo e comunicazione con Dio, esso merita tutti questi attributi, in 359

quanto si perfeziona nei beni e nei doni di Dio, spirituali e celestiali. E tutto ciò è mostrato in San Paolo, che denomina «animale» il sensuale, ossia chi esercita la propria volontà solo in rapporto al sensibile, e «non percepisce le cose di Dio»; mentre chiama «spirituale» l’altro, che innalza la volontà a Dio, affermando che egli «penetra e giudica tutto, fino alle profondità di Dio» (I Cor. 2, 14). L’anima vi trae dunque un mirabile profitto, ossia una grande disposizione a ricevere beni di Dio e doni spirituali. 5. Il terzo vantaggio, poi, è che anche sul piano temporale aumentano con grande intensità nell’anima i gusti e il godimento della volontà; poiché, come dice il Salvatore, «in questa vita le vien dato il cento per uno» (Mt. 19, 29), in modo che, se tu rinunzi a un godimento, il Signore in questa vita te ne darà il centuplo, sia in modo temporale che in modo spirituale; e, similmente, per un godimento delle cose sensibili, te ne verrà il centuplo di disgusti e dispiaceri; infatti, da parte dell’occhio ormai purificato dai godimenti del vedere, l’anima riceverà godimento spirituale, volgendo a Dio tutto ciò che vede, sia divino che profano; da parte dell’udito purificato dal godimento dell’udire, l’anima riceverà il centuplo di godimento del tutto spirituale e rivolto a Dio in tutto quanto ode, sia divino che profano. Lo stesso accade per gli altri sensi ormai purificati, poiché, come nello stato d’innocenza i nostri primi padri nel paradiso, guardando e parlando e mangiando, accrescevano il sapore della contemplazione, in quanto mantenevano la parte sensitiva ben ordinata e soggetta alla ragione, così, colui che ha il senso purificato e soggetto allo spirito, fin dal primo movimento trarrà da tutte le cose sensibili il diletto di un saporoso sguardo e della contemplazione di Dio. 6. Perciò, al puro, tutto ciò che è sublime o basso favorisce ed accresce la sua purezza, così come l’impuro, per la sua impurità, da tutto trae male; e colui che non supera il 360

godimento dell’appetito non godrà della serenità e della continua gioia in Dio, mediante le sue creature. Tutte le operazioni dei sensi e delle potenze di colui che non vive più secondo il senso sono indirizzate alla contemplazione divina; infatti, essendo vero, secondo la buona filosofia, che l’operazione di ogni ente è conforme al suo essere e alla sua vita, è chiaro che se l’anima, mortificata la vita animale, vive vita spirituale, senza contraddizioni dovrà andare totalmente a Dio, in quanto tutte le sue azioni e i suoi movimenti spirituali procedono da una vita spirituale; ne consegue perciò che costui, ormai puro di cuore, in tutte le cose troverà una notizia di Dio gioiosa e gustosa, casta, pura, spirituale, lieta e amorosa. 7. Da quanto detto deduco questa dottrina: finché l’uomo non ha abituato il senso alla purificazione del godimento sensibile, in modo tale da ricavarne, fin dal primo movimento, il vantaggio di cui ho parlato — cioè che le cose lo conducano direttamente a Dio —, è necessario che neghi il godimento e il gusto che vi prova, per liberare l’anima dalla vita sensitiva; temo infatti che, non essendo egli spirituale, dall’uso di queste cose tragga più succo e forza per il senso che per lo spirito, in quanto nella sua operazione predomina la forza sensuale, che accresce la sensualità, la sostiene e la nutre; dice infatti il nostro Salvatore: «ciò che nasce dalla carne è carne e ciò che nasce dallo spirito è spirito» (Gv. 3, 6). Si badi bene a ciò, perché è verità: chi ancora non ha mortificato il gusto nelle cose sensibili non ardisca servirsi molto della forza e dell’operazione del senso nei loro confronti, illudendosi che siano d’aiuto allo spirito; poiché le forze dell’anima s’accresceranno molto di più se si spengono il godimento e l’appetito delle potenze sensitive. 8. Ora non è necessario parlare dei beni gloriosi che nell’altra vita ci verranno dal rinnegare questo godimento: oltre alle doti dei corpi gloriosi, come l’agilità e la chiarezza, che saranno molto più eccellenti di quelle di coloro che non 361

rinnegarono il godimento sensibile, anche l’aumento di gloria essenziale dell’anima, corrispondente all’amore di Dio, per il quale avrà rinunciato alle cose sensibili, per ciascun godimento momentaneo e caduco che abbia rinnegato, «opererà in lei eternamente», come dice San Paolo, «un immenso peso di gloria» (2 Cor. 4, 17). Non intendo ora parlare degli altri vantaggi, sia morali che temporali e anche spirituali, che conseguono a questa notte del godimento; infatti appartengono tutti agli altri generi di godimento cui abbiamo accennato, ma in grado più eminente, in quanto i godimenti sensibili che si rinnegano sono strettamente congiunti con la natura e perciò la loro negazione frutta una purezza molto più profonda. CAPITOLO 27 Si comincia a trattare del quarto genere di beni, cioè quelli morali. Si dice quali siano e in che modo sia lecito che la volontà ne goda. 1. Il quarto genere di beni in cui la volontà può compiacersi sono i beni morali; e per beni morali intendiamo qui le virtù e i loro abiti in quanto morali, l’esercizio di qualsiasi virtù e la pratica delle opere di misericordia, l’osservanza della legge di Dio, e la politica28, ed ogni attività di buona indole e di buona inclinazione. 2. Quando si posseggono e si esercitano, questi beni morali meritano forse il compiacimento della volontà più di qualunque altro dei tre generi di beni di cui s’è parlato; infatti l’uomo può compiacersi di quanto possiede per una delle seguenti due ragioni, o per tutt’e due insieme: o per ciò che sono in sé, o per il bene che in sé comportano e recano come mezzo e strumento. Capiremo così che il possesso dei tre generi di beni di cui abbiamo parlato non merita alcun compiacimento della volontà, in quanto, come s’è detto, essi non producono 362

nell’uomo alcun bene, dal momento che, caduchi ed effìmeri, non ne hanno in sé; anzi, come pure abbiamo detto, procurano e recano pena e dolore e afflizione d’animo; e se anche meritano qualche compiacimento per il secondo motivo, cioè per il fatto che l’uomo se ne serve per andare a Dio, questo risultato è tanto incerto che, come normalmente vediamo, l’uomo ne riceve più danno che profitto. Però i beni morali, già per la prima ragione, ossia per ciò che sono e valgono in se stessi, meritano qualche compiacimento da parte di chi li possiede; infatti portano con sé pace e tranquillità, un retto e un ordinato uso della ragione e operazioni armoniose: umanamente, non si può possedere niente di meglio in questa vita. 3. E così, umanamente parlando, poiché le virtù meritano d’essere amate e stimate per se stesse, l’uomo può ben godere d’averle e di esercitarle, sia per quanto sono in sé, sia per i beni che comportano umanamente e temporalmente. Per tale ragione e in tal modo, i filosofi e i sapienti e i prìncipi antichi le stimarono e si preoccuparono di possederle e praticarle29; e sebbene fossero pagani e le considerassero solo sotto il profilo temporale, per i beni temporali e corporali che naturalmente esse sapevano produrre, non solo conseguivano per il loro tramite i beni e la stima cui temporalmente aspiravano, ma accadeva anche che Dio — che ama tutto ciò che è buono, anche nel barbaro e nel gentile, e «mai impedisce una cosa buona», come dice il Savio (Sap. 7, 22) — accresceva loro la vita, l’onore, il dominio e la pace, come fece con i romani: perché usavano leggi giuste, assoggettò loro quasi tutto il mondo, ricompensando temporalmente per i buoni costumi coloro che, come infedeli, erano impotenti a conseguire il premio eterno. Infatti Dio tanto ama questi beni morali che per il solo fatto che Salomone gli chiese la sapienza per farsene maestro al popolo e governarlo giustamente, istruendolo nei buoni costumi, gradì molto la cosa; gli disse anzi che, proprio perché aveva chiesto la sapienza a tale fine, «gliela avrebbe 363

concessa, dandogli più di quanto avesse chiesto, ossia ricchezze e onori, così che nessun re del passato e del futuro sarebbe stato simile a lui» (3 Re, 11-13). 4. Però, anche se il cristiano deve godere in questo modo dei beni morali e delle buone opere che egli compie in questa vita, cioè in quanto procurano anche i beni temporali di cui abbiamo parlato, tuttavia non deve limitare il proprio compiacimento a questo modo; esso infatti, come abbiamo detto, è proprio dei gentili, il cui sguardo interiore non oltrepassa questa vita mortale; invece, in quanto ha il lume della fede, che lo fa sperare nella vita eterna, e senza cui ciò che è in questo e nell’altro mondo non vale nulla, il cristiano deve unicamente godere del possesso e della pratica di questi beni morali in modo del tutto diverso, cioè in quanto le opere che compie per amore di Dio gli fanno acquistare la vita eterna. Perciò deve porre lo sguardo e la gioia solo nel servire e onorare Dio con i buoni costumi e le virtù, perché le virtù, senza questa intenzione, non valgono niente davanti a Dio, come si vede nell’episodio delle dieci vergini del Vangelo, le quali tutte avevano custodito la verginità e compiuto opere buone, ma cinque di esse, non avendo posto la loro gioia conformemente al secondo modo, ossia non avendola indirizzata a Dio, bensì conformemente al primo, ossia avendo goduto del loro possesso, furono cacciate dal cielo senza alcuna ricompensa o premio da parte dello Sposo (Mt. 25, 1-12). Allo stesso modo, numerosi antichi coltivarono molte virtù e compirono opere buone, così come oggi molti cristiani, ma queste nulla serviranno loro per la vita eterna, se in esse non cercano soltanto la gloria e l’onore che sono di Dio. Il cristiano deve dunque rallegrarsi di compiere buone opere e di seguire buoni costumi solo se fa ciò per amore di Dio, senza altro riguardo; infatti, se le opere compiute solo per servire Dio meritano maggior premio di gloria, quelle fatte per altri motivi generano maggior confusione dinanzi a 364

Dio. 5. Per indirizzare a Dio la gioia nei beni morali il cristiano deve dunque ricordare che il valore delle sue opere buone, digiuni, elemosine, penitenze, orazioni, ecc., non consiste tanto nella loro quantità e qualità, quanto nell’amore di Dio con cui vengono compiute; esse dunque tanto più valgono quanto più sono compiute con puro e intero amore di Dio e quanto meno, in esse e al di fuori di esse, si cerca godimento, gusto, conforto e lode. Perciò non si deve fissare il cuore nel gusto, nella consolazione e nella soddisfazione e negli altri benefici che le buone pratiche ed opere solitamente comportano, ma si deve raccogliere la gioia in Dio, volendo servirlo attraverso tutte queste cose e, purificandosi e restando allo scuro di tale gioia, si deve volere che solo Dio ne goda e gusti nascostamente, senza altro fine e gusto all’infuori dell’onore e della gloria di Dio; così si raccoglierà in Dio l’intera forza della volontà verso questi beni morali. CAPITOLO 28 Sui sette danni in cui si può cadere allorché si ponga il godimento della volontà nei beni morali. 1. Trovo che sono sette i danni principali in cui l’uomo può cadere a causa della vana compiacenza delle proprie buone opere e costumi; sono danni molto pericolosi perché spirituali; ne riferirò ora brevemente. 2. Il primo danno è costituito da vanità, superbia, vanagloria e presunzione; non si può, infatti, compiacersi delle proprie opere senza stimarle; di qui nasce la iattanza, e peggio, ciò che nel Vangelo si dice del fariseo, il quale, pregando con iattanza, si gloriava con Dio dei suoi digiuni e delle altre opere buone (Lc. 18, 12). 3. Il secondo danno normalmente è collegato con il primo, 365

e consiste nel giudicare gli altri cattivi e imperfetti rispetto a se stessi, come non operassero altrettanto bene, e dunque stimandoli meno, sia nel proprio cuore sia anche, talvolta, a parole. In questo danno incappava anche il fariseo, osando dire nella sua preghiera: «Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti e adulteri» (ivi 18, 11). Sicché con un solo atto, cadeva in entrambi i danni: stimare se stesso e disprezzare gli altri; e anche oggi molti dicono: «Io non sono come il tizio, né faccio questo o quello come il tale o il tal’altro». E molti di costoro sono anche peggiori del fariseo, il quale non solo disprezzò gli altri, ma ne indicò anche qualcuno dicendo: «Non sono come questo pubblicano»; mentre costoro, non contenti né dell’una né dell’altra cosa, giungono persino ad irritarsi e a invidiare, quando vedono che altri sono lodati od operano o valgono più di loro. 4. Il terzo danno consiste in questo: siccome nell’operare spesso cercano il gusto, normalmente non fanno niente se non vedono che dalle loro azioni deriverà qualche piacere e qualche lode; perciò, come dice Cristo, fanno tutto ut videantur ab hominibus (Mt. 23, 5) anziché operare per il solo amore di Dio. 5. Il quarto danno scaturisce dal terzo e consiste nel fatto che non troveranno il loro premio in Dio, avendolo voluto trovare nelle loro azioni, nella vita di gioia e di conforto, o d’interesse per l’onore o per cose simili; e a proposito di tutto questo il Salvatore dice che proprio in ciò «hanno ricevuto la loro ricompensa» (Mt. 6, 2), perciò a loro rimane la sola fatica dell’opera e una confusione senza premio. C’è tanta miseria nei figli degli uomini per questo danno, che penso che la maggior parte delle azioni pubbliche siano o viziose o di nessun valore o imperfette dinanzi a Dio, perché non sono distaccate dagli interessi e dai rispetti umani. Infatti, non si può giudicare diversamente in rapporto alle 366

opere e alle memorie da taluni compiute e istituite, dal momento che costoro non agiscono senza avvolgere le proprie azioni con l’onore e il rispetto umano della vanità della vita, o senza perpetuare in esse il proprio nome e lignaggio o dominio, fino a collocare i propri segni, nomi e blasoni nei templi, quasi volessero mettersi al posto delle immagini nei luoghi dove tutti piegano le ginocchia: non si può dire che nelle loro opere costoro non adorino più se stessi che Dio. Ed è così, se le hanno fatte con quel fine, senza il quale non le avrebbero fatte. Ma, lasciando da parte costoro, che sono dei peggiori, quanti vi sono che nelle loro azioni in molti modi cadono in questo danno! Alcuni desiderano esser lodati, altri ringraziati; altri ancora parlano di ciò che fanno e hanno piacere che lo sappiano tizio e caio e magari tutto il mondo; e qualche volta desiderano che le loro elemosine, o qualsiasi cosa facciano, passi per mano di terzi, affinché più persone lo sappiano; altri ancora desiderano tutte queste cose insieme. Il che è proprio quel «suonare la tromba» che il Salvatore nel Vangelo attribuisce ai vanesii, i quali perciò non avranno da Dio ricompensa per le loro opere (Mt. 6, 2). 6. Per fuggire questo danno si devono dunque nascondere le proprie opere, in modo che le veda solo Dio, e si deve desiderare che nessuno vi faccia caso; e non solo si debbono nascondere agli altri, ma anche a se stessi; occorre cioè non compiacersene quasi fossero qualcosa, né prendervi gusto; in questo senso spirituale si deve intendere quanto dice nostro Signore: «Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra» (ivi 6, 3), che significa: non giudicare con occhio mondano e carnale le opere spirituali che compi. In tal modo la forza della volontà si raccoglie in Dio e la sua opera frutta al suo cospetto; per cui, non solo non la perderà, ma gli sarà di grande merito. Così si deve intendere la sentenza di Giobbe (31, 26-28): «Se ho baciato la mia mano con la mia bocca, che è iniquità e peccato grande, e se di nascosto si rallegrò il mio cuore» (31, 27); dove per mano 367

s’intende l’opera e per bocca la volontà che in essa si compiace. E poiché, come abbiamo detto, si tratta di compiacenza di sé, aggiunge: «Se il mio cuore si rallegrò di nascosto, che è grande iniquità e negazione contro Dio» (ivi 27-28), per significare che il suo cuore non si compiacque, né si rallegrò di nascosto. 7. Il quinto danno consiste nel fatto che costoro non progrediscono nella via della perfezione; infatti, poiché nell’operare sono attaccati al gusto e alla consolazione, quando nelle azioni e negli esercizi non trovano gusto né consolazione — il che accade ordinariamente quando Dio vuol farle progredire, dando loro pane duro, cioè quello dei perfetti, e togliendo loro il latte dei bambini, per provarne le forze e purificarne l’appetito delicato, affinché possano gustare il cibo dei grandi —, in genere si scoraggiano e perdono la perseveranza, trovando le proprie opere prive di sapore. In tale senso spirituale va inteso quanto dice il Savio: «Le mosche che muoiono corrompono la soavità dell’unguento» (Ecl. 10, 1); infatti, la presenza di qualche mortificazione li fa morire alle opere buone, onde cessano di compierle, perdendo la perseveranza, nella quale si trova la soavità dello spirito e la consolazione interiore. 8. Il sesto danno consiste nel fatto che ordinariamente costoro si ingannano giudicando le cose e le opere che gustano migliori di quelle che non riescono a gustare, e lodano e stimano le prime, disprezzando le altre; al contrario, ordinariamente sono più gradite e preziose davanti a Dio quelle opere in cui l’uomo da sé più si mortifica, specie se non è molto avanti nella perfezione — a motivo del rinnegamento di sé che vi porta — rispetto a quelle in cui trova consolazione, perché in queste ultime è più facile cercare se stessi. A proposito di costoro dice Michea: Malum manuum suarum dicunt bonum (7, 3); ossia: «Ciò che delle loro mani è male lo chiamano bene». Il che accade perché ripongono il gusto nelle proprie opere e non nel solo piacere 368

a Dio. Sarebbe lungo descrivere quanto questo danno regni sia sugli spirituali che sulle persone comuni: a malapena si troverà qualcuno che operi puramente per Dio senza mirare ad alcun interesse di consolazione o di gusto o d’altro genere. 9. Il settimo danno consiste in questo: quanto meno l’uomo spegne il vano godimento nelle opere morali, tanto più è incapace di ricevere consiglio o ammaestramento razionale circa le opere che deve compiere; infatti, l’abito di fiacchezza che ha acquisito nell’operare ed il vano godimento lo incatenano, sicché non riesce ad apprezzare il consiglio altrui, o, pur apprezzandolo, non vuole seguirlo, non avendo il coraggio di metterlo in pratica. Costoro si indeboliscono molto nella carità verso Dio e verso il prossimo, perché l’amor proprio che nutrono per le proprie opere raffredda la loro carità. CAPITOLO 29 Sui vantaggi che derivano all’anima doll ‘allontanare il godimento dei beni morali. 1. Moltissimi sono i vantaggi che provengono all’anima dal non voler applicare vanamente il godimento della volontà in questo genere di beni. Quanto al primo, infatti, essa si libera dal cadere nelle molte tentazioni e nei molti inganni del demonio che si celano nel godimento di quelle opere buone; lo si può comprendere da quanto si dice in Giobbe: «Dorme sotto l’ombra, nel folto del canneto e nei luoghi umidi» (40, 16). Il che è riferito al demonio, perché questi inganna l’anima nella lubricità del godimento e nel vuoto della canna, ossia delle opere vane. E non c’è da stupirsi se occultamente si è ingannati dal demonio in tale godimento, perché, anche senza aspettare la sua suggestione, il vano godimento è per 369

sé inganno, specie quando il cuore è accompagnato da iattanza, come ben dice Geremia: Arrogantia tua decepit te (49, 16). Quale maggiore inganno, infatti, della iattanza? E l’anima se ne libera purificandosi da quel godimento. 2. Il secondo vantaggio sta nel compiere le proprie azioni con maggiore discernimento e perfezione, il che non è possibile quando si sia schiavi del godimento e del gusto; a causa della passione del godimento, infatti, la parte irascibile e quella concupiscibile salgono a tale grado di audacia da non lasciare spazio alla ragione, facendole normalmente mutare atti e propositi, ora prendendo una cosa per poi lasciarla, ora cominciandola senza finirla. Quando si opera mediante il gusto, essendo questo variabile, più o meno a seconda della natura di ciascuno, allorché esso viene meno, anche l’azione e il proposito, per quanto importanti siano, cessano, perché il godimento è l’anima e la forza delle loro azioni; sicché, cessando il godimento, cessa e muore anche l’opera e l’anima non persevera. Di costoro Cristo dice che «con gioia ricevono la parola, ma subito il demonio gliela toglie, affinché non perseverino» (Lc. 8, 12); e questo accade perché quel godimento è tutta la loro forza e il loro fondamento. Togliere e allontanare la volontà di tale godimento è dunque fonte di perseveranza e di riuscita; perciò costituisce un vantaggio grande, così come è grande il danno contrario. Il saggio presta attenzione alla sostanza e al vantaggio dell’opera, anziché al suo sapore e piacere, e così non scaglia lance in aria, e trae dalla sua opera una gioia stabile e senza tributi di disgusto. 3. Il terzo è un vantaggio divino: spegnendo il godimento vano delle opere l’anima si fa povera di spirito, cioè realizza quella beatitudine della quale il Figlio di Dio dice: «Beati i poveri di spirito perché di costoro è il regno dei cieli» (Mt. 5, 3). 4. Il quarto vantaggio consiste nel fatto che colui che 370

rinnega questo godimento sarà mansueto nelle sue azioni, umile e prudente, perché non agirà in modo impetuoso e affrettato, spinto dal lato concupiscibile e irascibile del godimento stesso; né agirà in modo presuntuoso, spinto dalla stima che nutre per le proprie azioni a causa del piacere che ne prova; né si comporterà in modo incauto, accecato dal compiacimento. 5. Il quinto vantaggio consiste nel fatto che così l’anima piace a Dio e agli uomini e si libera dell’avarizia e della gola e dell’accidia spirituale e dell’invidia spirituale e di mille altri vizi. CAPITOLO 30 Si comincia a trattare del quinto genere di beni, quelli soprannaturali, in cui la volontà può compiacersi. Si dice quali siano e come si distinguano da quelli spirituali e come si debba indirizzare a Dio il loro godimento. 1. Occorre ora trattare del quinto genere di beni in cui l’anima può compiacersi, cioè quelli soprannaturali; per questi intendiamo qui tutti i doni e le grazie date da Dio che eccedono la facoltà e la virtù naturale, onde si dicono gratis datae, come i doni della sapienza e della scienza che Dio diede a Salomone, come le grazie di cui dice San Paolo (1Cor. 9-10), ossia: la fede, la grazia delle guarigioni, il potere dei miracoli, la profezia, la conoscenza e il discernimento degli spiriti, l’interpretazione delle parole e infine il dono delle lingue. 2. Se è vero che alcuni di questi beni sono anche spirituali, ossia dello stesso genere di quelli che dovremo trattare più avanti, tuttavia ho preferito distinguerli, per la grande differenza fra di loro; infatti, l’esercizio dei beni di cui qui trattiamo ha immediata relazione con il bene del prossimo, ed è per questo effetto e scopo che Dio li dà, come dice San 371

Paolo (ivi 12, 7); a nessuno viene dato lo spirito se non per l’altrui vantaggio; il che si riferisce alle grazie ora enumerate; invece l’esercizio delle grazie spirituali implica un rapporto esclusivo dell’anima con Dio e di Dio con l’anima, in comunicazione di intelletto e di volontà, ecc., come diremo in seguito. Vi è dunque una differenza quanto all’oggetto, perché l’oggetto delle grazie spirituali è solo il Creatore e l’anima, mentre l’oggetto di quelle soprannaturali è la creatura. E differiscono anche quanto alla sostanza; di conseguenza anche quanto all’operazione e di necessità anche quanto alla dottrina. 3. Parlando ora dei doni e delle grazie soprannaturali nel senso in cui qui l’assumiamo, dico che per purificare in loro il vano godimento è bene prendere in considerazione due vantaggi, temporali e spirituali, impliciti in questo genere di beni. Il vantaggio temporale è guarire le malattie, ridonare la vista ai ciechi, risuscitare i morti, scacciare i demoni, predire il futuro per poter salvaguardare se stessi e gli altri dalla stessa sorte. Il vantaggio spirituale ed eterno è che, per mezzo di queste opere, Dio è conosciuto e servito, sia da chi le compie, sia da coloro di fronte ai quali si compiono. 4. Riguardo al primo vantaggio, quello temporale, dico che le opere e i miracoli soprannaturali meritano scarso o nullo compiacimento dell’anima; escluso il secondo vantaggio, poco o niente importano all’uomo, dal momento che, se non v’è carità, di per sé non sono un mezzo d’unione dell’anima con Dio. Queste opere e grazie soprannaturali si possono infatti compiere anche senza grazia e carità, sia che vengano veramente da Dio, come accadde all’iniquo profeta Balaam (Num. 22, 20) e a Salomone, sia che provengano dall’inganno del demonio, come accadde a Simon Mago, oppure ancora da altre occulte vie naturali. Se alcune di queste opere e 372

meraviglie dovessero essere di qualche utilità a chi le compie, accadrebbe solo con quelle vere, che sono date da Dio. San Paolo ci insegna quanto queste possano valere, senza il secondo vantaggio, allorché dice: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli e non avessi la carità, sarei come un metallo o una campana sonante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto il sapere ed avessi tutta la fede tanto da trasportare le montagne, e non avessi la carità, non sarei nulla, ecc.» (1 Cor. 13, 1-2). Perciò, quando i molti che avranno stimato le opere in questo modo, in loro nome chiederanno la gloria, dicendo: «Signore, non abbiamo profetato nel tuo nome e non abbiamo compiuto molti miracoli?», Cristo dirà loro: «Allontanatevi da me, operatori di iniquità» (Mt. 7, 22-23). 5. L’uomo non deve dunque compiacersi perché possiede ed esercita tali grazie, ma perché ne ricava il secondo frutto, quello spirituale, cioè in esse servire Dio con vera carità, nella quale è il frutto della vita eterna. Perciò il Salvatore così rimproverò i discepoli che andavano compiacendosi d’avere scacciato i demoni: «Non rallegratevi per il fatto che i demoni vi sono soggetti, ma perché i vostri nomi sono scritti nel libro della vita» (Lc. 10, 20). Il che, in buona teologia, vuol dire: rallegratevi se i vostri nomi sono scritti nel libro della vita. Si comprende dunque che l’uomo deve rallegrarsi solo di trovarsi lungo questo cammino, quello del compimento delle opere di carità; che cosa giova e vale, infatti, davanti a Dio, ciò che non è amore di Dio? Ma l’amore di Dio non è perfetto se non è forte ed accorto nel purificare il godimento di tutte le cose, cercandolo soltanto nel fare la volontà di Dio; in questo modo la volontà si unisce con Dio mediante questi beni soprannaturali. CAPITOLO 31 Sui danni che derivano all’anima dal porre il compiacimento della volontà in questo genere di beni. 373

1. Mi sembra che tre danni principali possono derivare all’anima dal porre il suo godimento nei beni soprannaturali: ingannare ed essere ingannata, ricevere detrimento nella fede, incorrere in vanagloria o in qualche vanità. 2. Quanto al primo, dico che è molto facile ingannare gli altri e se stessi, compiacendosi in questo genere di opere. E la ragione è che, per conoscere quali di queste opere siano false e quali vere, e come e quando si debbano compiere, è necessario avere grande attenzione e molta luce divina, due cose assai ostacolate dal compiacimento e dalla stima per le opere stesse. E ciò per due motivi: primo, perché il compiacimento ottunde e oscura il giudizio; secondo, perché, compiacendosene, l’uomo è avido di credere più facilmente in quelle opere ed è spinto a volere che si compiano intempestivamente. Ammesso pure che le virtù e le opere esercitate siano vere, questi due difetti bastano per cadere spesso in inganno a loro proposito, o non intendendole come si dovrebbe o non traendone profitto, e non usandone come e quando è più conveniente; infatti, sebbene sia vero che quando Dio dà questi doni e grazie dona anche il lume corrispondente e la mozione di come e quando debbano esercitarsi, tuttavia, a causa dello spirito di proprietà e dell’imperfezione con cui si possono usare, si può cadere in molti errori, non servendosene con la perfezione che Dio vuole, né come e quando vuole. Così si legge che voleva fare Balaam quando, contro la volontà di Dio, decise di andare a maledire il popolo di Israele; per cui Dio adirato voleva farlo morire (Num. 22, 22-23). E San Giacomo e San Giovanni volevano far discendere dal cielo il fuoco sui Samaritani perché avevano rifiutato l’alloggio al nostro Salvatore; per ciò egli li rimproverò (Lc. 9, 54-55)· 3. Da tutto questo si vede con chiarezza come costoro fossero determinati a compiere quelle opere quando non era 374

conveniente, spinti da una passione d’imperfezione racchiusa nel compiacimento e nella stima di esse; infatti, quando non c’è tale imperfezione, gli uomini si muovono e si determinano ad esercitare quelle virtù soltanto quando e come Dio li sollecita, perché fino ad allora non conviene attuarle. Perciò Dio in Geremia si lamenta di certi profeti (23, 21) dicendo. «Non inviavo i profeti ed essi correvano; non parlavo loro ed essi profetizzavano». E più avanti: «Ingannavano il mio popolo con le loro menzogne e con i loro miracoli, mentre non avevo dato loro ordini, né li avevo inviati» (ivi 23, 32). E di costoro dice anche che «vedono visioni del loro cuore e le raccontano» (ivi 23, 26); il che non accadrebbe se in tali opere non conservassero un abominevole spirito di proprietà. 4. Queste testimonianze fanno comprendere che il danno prodotto da quel compiacimento non solo inclina all’uso iniquo e perverso delle grazie date da Dio, come fecero Balaam e coloro dei quali qui si dice che facendo miracoli ingannavano il popolo, ma induce anche ad usare quanto non si è ricevuto da Dio: come facevano costoro, che profetizzavano le proprie fantasie e divulgavano le visioni da loro stessi combinate o quelle rappresentate loro dal demonio; infatti, appena il demonio vede le anime attaccate a tali cose, subito apre loro vasti spazi ed ampia materia, intromettendosi in molti modi, per cui esse gonfiano le vele ed acquistano un’audacia sfrontata, sbizzarrendosi in tali opere prodigiose.

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Disegno autografo del Crocifisso e firma di San Giovanni della Croce in due documenti appartenenti alla Congregazione spagnola dei Carmelitani Scalzi.

5. E non si fermano qui, ma il compiacimento per queste opere a tal punto ne gonfia la cupidigia che, se costoro avevano già stretto un patto occulto col demonio — infatti 376

molti operano così in forza di questo patto nascosto —, si spingono sfacciatamente a stipulare con lui un patto espresso e manifesto, sottomettendosi a lui per contratto, come suoi discepoli e famigliari. Di qui nascono stregoni, fattucchieri, maghi, indovini e maliardi. Il godimento di costoro giunge a tal punto da indurli non solo a comperare con denaro doni e grazie per servire il demonio, come faceva Simon Mago (Atti 8, 18), ma anche per possedere cose sacre e divine — il che non si può dire senza tremare — per cui abbiamo visto usurpato il Corpo di nostro Signore Gesù Cristo, degno d’ogni timoroso rispetto, per le loro malvagità e abominazioni. Mostri Iddio ed estenda qui la sua grande misericordia! 6. Ognuno può ben capire quanto costoro siano dannosi a se stessi e nocivi alla Cristianità. E c’è da osservare come siano precipitati in abominazioni e inganni tutti i maghi e indovini che abbondavano tra i figli d’Israele e che Saul estirpò dalla terra (1 Re 28, 3), perché volevano simulare i veri profeti di Dio. 7. Colui che praticherà la grazia e il dono soprannaturale dovrà dunque tenere lontani cupidigia e compiacimento, trascurando d’usarne; poiché Dio, che concede quei doni soprannaturalmente per l’utilità della Chiesa e dei suoi membri, sempre soprannaturalmente suggerirà come e quando si debba esercitarli. Egli che comandò ai suoi fedeli di non preoccuparsi di quello che avrebbero dovuto dire né di come avrebbero dovuto parlare (Mt. 10, 19) — questo essendo compito soprannaturale della fede, poiché l’esercizio di queste opere non è meno importante — vorrà anche che l’uomo aspetti che ne sia Dio l’operatore, muovendo il suo cuore, poiché ogni nostra virtù si deve compiere nella sua virtù (Sal. 59,14). Perciò i discepoli negli Atti degli Apostoli (4, 29-30), sebbene avessero ricevuto da Dio queste grazie e doni, lo pregarono scongiurandolo che si degnasse di stendere la sua mano facendo per loro tramite segni e opere e 377

guarigioni, affinché entrasse nei cuori la fede del nostro Signore Gesù Cristo. 8. Il secondo danno che può derivare dal primo è un detrimento della fede; esso può avvenire in due maniere. La prima riguarda il prossimo; infatti, chi si dà a compiere prodigi o ad esibire virtù fuori tempo e senza necessità, oltre a tentare Dio, che è peccato grave, potrà anche non riuscirvi, generando così nei cuori intepidimento, anzi disprezzo nei confronti della fede. Infatti, sebbene Dio talvolta consenta, per altri motivi e riguardi, che l’uomo ottenga l’effetto voluto — come accadde alla strega di Saul (x Re 28, 12), se è vero che era Samuele colui che gli apparve —, tuttavia a volte lo farà mancare; e quand’anche l’ottenga non sarà esente da errori e da colpe per aver usato di quelle grazie in momenti sconvenienti. Anche nella seconda maniera l’anima può procurarsi danno rispetto al merito della fede; infatti, dando molta importanza a questi miracoli, si discosta molto dall’abito sostanziale della fede, che è abito oscuro; dove infatti concorrono più testimonianze e segni il merito del credere è minore. Perciò San Gregorio afferma che la fede è senza merito quando la ragione umana la assoggetta a esperimenti30. Perciò Dio non opera mai queste meraviglie se non quando sono necessarie alla fede; per questo motivo, affinché i suoi discepoli non perdessero il merito, sperimentando la sua resurrezione, prima di mostrarsi loro compì molti miracoli: affinché credessero senza vederlo; e a Maria Maddalena prima mostrò il sepolcro vuoto e poi le diede l’annuncio degli angeli — poiché «la fede si ha mediante l’udito», come dice San Paolo (Rom. 10, 17) — e volle che udendolo credesse prima di vederlo; e quando lo vide, lo percepì come un uomo comune, affinché con il calore della sua presenza potesse ammaestrarla compiutamente nella fede che ancora le mancava (Gv. 20, 11-18). Anche ai discepoli prima mandò le donne ad annunciarlo e soltanto 378

successivamente si recarono al sepolcro per vedere (Gv. 20, 1-10). E a coloro che si recavano a Emmaus infiammò il cuore di fede prima che lo riconoscessero, mentre stava tra loro ancora occulto (Lc. 24, 15); infine li rimproverò tutti perché non avevano creduto a chi aveva loro annunziato la sua resurrezione; e riprese San Tommaso perché aveva voluto sperimentare le sue piaghe, predicando che sarebbero stati beati coloro che gli avrebbero creduto senza vederlo (Gv. 20, 29). 9. Dio non è dunque tanto propenso a fare miracoli e, per così dire, li compie solo quando non può farne a meno. Perciò ai farisei che non credevano se non per mezzo di segni prodigiosi rimprovera: «Se non vedete prodigi e segni non credete» (Gv. 4, 48). Pertanto, coloro che amano molto dilettarsi in queste opere soprannaturali si vedono affievoliti grandemente nella fede. 10. Il terzo danno consiste nel fatto che normalmente le anime, compiacendosi di quelle opere, cadono nella vanagloria o in qualche vanità, in quanto il godimento stesso di queste meraviglie, non essendo esclusivamente in Dio e per Dio, come abbiamo detto, è vanità. Per questo nostro Signore ha rimproverato i discepoli per essersi rallegrati d’aver sottomesso i demoni (Lc. 10, 20): non avrebbe rimproverato questa compiacenza se non fosse stata cosa vana. CAPITOLO 32 Sui due vantaggi che derivano dalla negazione del compiacimento per le grazie soprannaturali. 1. Oltre ai vantaggi che l’anima consegue liberandosi dei tre danni di cui abbiamo detto, allorché si priva di questo godimento, ne acquista altri due eccellenti. Il primo è la glorificazione e l’esaltazione di Dio; il 379

secondo è l’elevazione della propria anima. Nell’anima infatti Dio viene innalzato in due modi: primo, allontanando il cuore e il compiacimento della volontà da tutto ciò che è meno di Dio, li fissa in lui solo. E questo intende dire David nel verso riferito al principio della notte di questa potenza, ossia: «L’uomo s’avvicinerà al cuore alto e Dio sarà esaltato» (Sal. 63, 7); infatti, elevando il cuore al di sopra di tutte le cose, l’uomo si eleva con l’anima al di sopra di esse. 2. E poiché in questo modo l’anima si affisa in Dio solo, Dio si innalza e si esalta, manifestandole la propria eccellenza e grandezza, in quanto in tale elevazione di gioia Dio le dà testimonianza di chi egli è. Il che non è possibile se non si vuota il compiacimento e la consolazione della volontà verso tutte le cose, come dice David: «Vuotatevi e vedete che io sono Dio» (Sal. 45, 11). E altrove dice: «In terra deserta arida e impraticabile mi presentai dinanzi a te per vedere la tua potenza e la tua gloria» (Sal. 62, 3). Se è vero che si glorifica Dio ponendo la propria gioia in lui e allontanandola da tutte le cose, molto più lo si glorificherà distogliendola da queste più meravigliose e di natura più nobile, in quanto soprannaturali, per porla in lui soltanto; pertanto l’abbandonarle per riservare a Dio solo ogni nostra gioia significa attribuire a Dio gloria ed eccellenza più grande rispetto a tutte le opere soprannaturali; infatti, quanto più numerose ed eccellenti sono le cose che si disprezzano per amore di qualcuno, tanto maggiore è la stima e la gloria che gli si porta. 3. Oltre a ciò, Dio è esaltato anche nella seconda maniera, allorché la volontà s’allontana da questo genere di opere; infatti, quanto più crediamo e serviamo Dio senza bisogno di testimonianze e di segni, tanto più egli viene esaltato dall’anima, in quanto essa, in Dio, crede più di quanto i segni e i miracoli possono farle comprendere.

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4. Il secondo vantaggio consiste nel fatto che l’anima si eleva perché, allontanando la volontà da ogni testimonianza e segno visibile, si innalza in fede purissima, che Dio le infonde accrescendola con molta maggiore intensità, insieme alimentando le altre virtù teologali, cioè carità e sperenza; perciò, mediante l’oscuro e nudo abito della fede, l’anima gode divine e profondissime notizie e grande diletto d’amore mediante la carità, onde la volontà non ha gaudio in altro se non nel Dio vivo, e si colma di soddisfazione nella memoria per mezzo della speranza. E tutto ciò è un profitto mirabile, che ha valore essenziale e diretto per la perfetta unione dell’anima con Dio. CAPITOLO 33 Si comincia a trattare del sesto genere di beni di cui la volontà può godere. Si dice quali siano e se ne fa una prima divisione. 1. Siccome l’intento che ci siano proposti con questa nostra opera è quello di avviare lo spirito alla divina unione dell’anima con Dio mediante i beni spirituali, dovendo, a proposito di questo sesto genere di beni, trattare proprio di quelli sprirituali, i più importanti per tale scopo, converrà che sia io che il lettore vi dirigiamo la nostra attenzione con particolare diligenza; infatti, a causa della loro sprovvedutezza, è normale che taluni si servano delle cose spirituali solo per il senso, lasciando vuoto lo spirito, sicché a mala pena si troverà qualcuno a cui il gusto sensuale non abbia corrotto in gran parte lo spirito, bevendo l’acqua prima che arrivi a ristorarlo e così lasciandolo arido e vuoto. 2. Venendo dunque al mio proposito, dico che per beni spirituali intendo tutti quelli che muovono alle cose divine e giovano ad esse, al contatto dell’anima con Dio e alle comunicazioni di Dio con l’anima.

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3. Per fare dunque una divisione per generi supremi, dico che i beni spirituali sono di due tipi, gli uni saporosi e gli altri penosi. E ciascuno di questi tipi è in due modi; infatti, dei beni saporosi gli uni riguardano cose chiare che si intendono distintamente, e gli altri cose che non si intendono né chiaramente né distintamente. Ed anche dei beni penosi alcuni riguardano cose chiare e distinte ed altri cose confuse e oscure. 4. Possiamo anche distinguere tutti questi beni secondo le potenze dell’anima, poiché gli uni, in quanto sono intellezioni, appartengono all’intelletto; gli altri, in quanto sono affezioni, appartengono alla volontà; e gli altri ancora, in quanto sono immaginari, appartengono alla memoria. 5. Tralascerò dunque per ora i beni penosi, in quanto appartengono alla notte passiva, nel cui ambito dovremo parlarne31, così pure tralascerò, per trattarne più avanti, i beni saporosi di cose confuse e non distinte che appartengono alla notizia generale indistinta e amorosa in cui si compie l’unione dell’anima con Dio — che nel Libro Secondo ho tralasciato, differendone la trattazione alla fine, quando distingueremo le apprensioni dell’intelletto —, mentre ora parleremo solo dei beni saporosi che si riferiscono alle cose chiare e distinte. CAPITOLO 34 Sui beni spirituali che in modo distinto possono cadere nell’intelletto e nella memoria. Si dice come la volontà debba comportarsi riguardo al loro godimento. 1. Dovremmo a lungo trattare della molteplicità delle apprensioni della momoria e dell’intelletto, insegnando alla volontà come debba comportarsi nei confronti del godimento che può provarvi, se già non l’avessimo fatto 382

ampiamente nel Secondo e nel Terzo Libro. Siccome vi abbiamo detto come queste due potenze si debbano comportare per volgersi all’unione divina e come analogamente debba comportarsi la volontà nei confronti del godimento che se ne può trarre, non è necessario che qui ne riparliamo. Basta infatti ribadire che, là dove si dice che quelle potenze debbono vuotarsi di queste o quelle apprensioni, si deve intendere che anche la volontà deve vuotarsene; e ancora, che la volontà deve comportarsi nello stesso modo della memoria e dell’intelletto nei confronti di quelle apprensioni; dato poi che l’intelletto e le altre potenze non possono ammettere né negare nulla senza il concorso della volontà, è chiaro che la dottrina che serve per l’una servirà anche per l’altra. 2. Si consideri pertanto quel che è necessario in questo caso, poiché, se non si sa volgersi a Dio si subiranno tutti quei danni. CAPITOLO 35 Sui beni spirituali saporosi che possono cadere distintamente nella volontà. Si dice di quanti generi siano. 1. Possiamo ridurre a quattro tutti i generi che distintamente possono dare godimento alla volontà: motivi, provocativi, direttivi e perfettivi; ne parleremo per ordine, cominciando da quelli motivi, che sono le immagini e i ritratti dei santi, gli oratori e le cerimonie. 2. Si può avere molta vanità e vuoto godimento nei confronti delle immagini e dei ritratti; essi sono tanto importanti per il culto divino e tanto necessari per muovere a devozione la volontà, come dimostrano l’approvazione della nostra Madre Chiesa e l’uso che ne fa; perciò dobbiamo sempre servircene per risvegliarci dalla nostra tepidezza, anziché, come molti fanno, per godere più della pittura e 383

dell’ornamento che di ciò che rappresentano. 3. La Chiesa ha ordinato l’uso delle immagini per due fini principali: per venerare i santi e per muovere la volontà ad eccitarne la devozione; pertanto, in quanto servono a questo scopo, sono utili e il loro uso è necessario. Bisogna dunque scegliere quelle che sono più verosimili e più atte a muovere la volontà alla devozione, badando più a questo scopo che al valore ed alla preziosità della fattura e dell’ornamento; alcuni infatti, come dico, guardano più alla rarità e al valore dell’immagine che a ciò che rappresenta, così che la loro devozione interiore, che spiritualmente deve indirizzarsi al santo invisibile, dimenticandone subito l’immagine, che serve solo come mezzo, si rivolge all’ornamento e alla curiosità esteriore, dove i sensi provano piacere e diletto e dove si arrestano l’amore e il compiacimento della volontà. Il che impedisce affatto l’esercizio spirituale, il quale in tutte le cose particolari esige l’annullamento dell’affetto. 4. Ciò appare chiaro dall’uso abominevole che ai nostri giorni ne fanno alcuni: non aborrendo i vani costumi del mondo adornano le immagini con gli stessi abiti che la gente leggera va escogitando per passatempo e vanità: le rivestono cioè proprio di quegli abiti il cui uso fu biasimato, e questo la Chiesa l’ha sempre aborrito e l’aborre; in tal modo essi e il demonio cercano di canonizzare le loro vanità addobbandone i santi, ma, così, offendendoli grandemente. L’onesta e severa devozione dell’anima, che respinge e bandisce da sé ogni vanità e ogni sua apparenza, si riduce così a poco più che ad ornamento di pupazzi, in quanto alcuni si servono delle immagini come di idoli su cui riversare il loro godimento. Si vedrano quindi persone che non cessano d’aggiungere immagini a immagini, per giunta accuratamente scelte di un determinato tipo e fattura, e da collocare solo in questo o in quel modo, affinché possano dilettare i sensi, mentre la devozione del cuore è minima; e ne hanno tanto attaccamento quanto Mica e Labano ai loro 384

idoli; cosicché uno di loro uscì di casa gridando che glieli rubavano e l’altro, adiratissimo, per cercarli fece molto cammino e mise a soqquadro tutte le preziose suppellettili di Giacobbe (Giud. 18, 24 e Gn. 31, 34). 5. La persona veramente devota pone la sua devozione principalmente nell’invisibile; le servono poche immagini e poche ne usa e solo le più convenienti al divino che all’umano, conformandole e attraverso di esse conformandosi all’abito e alla condizione dell’altra vita e non di questa; così, non solo la figura di questo mondo non solleciterà vani desideri, ma le immagini non li risveglieranno offrendo ai loro occhi cose mondane o simili. Né la persona devota ha il cuore attaccato alle immagini che usa; perciò, se gliele tolgono, se ne appena minimamente; infatti cerca dentro di sé l’immagine viva, ossia Cristo crocifìsso, nel quale anzi gode d’esser privata di tutto e che tutto le venga meno. Se ne resta quieta persino se le tolgono i motivi e i mezzi che più l’avvicinano a Dio, perché per l’anima è perfezione più grande godere tranquillamente della privazione di questi motivi che non possederli con appetito e attaccamento; quantunque sia bene allietarsi d’avere immagini e mezzi che aiutino l’anima ad una maggiore devozione — anzi bisogna sempre scegliere i più efficaci — tuttavia non è perfezione esservi attaccati con spirito di proprietà, tanto da intristirsi se venissero meno. 6. L’anima abbia la certezza che, quanto più sarà attaccata con spirito di proprietà a un’immagine o a qualsiasi strumento, tanto meno la sua devozione ed orazione salirà a Dio. E se pur conviene affezionarsi ad una più che ad un’altra, in quanto l’una è più adatta di un’altra ad accrescere la devozione, bisogna farlo soltanto per il motivo che ho detto, senza attaccamento e spirito di proprietà; altrimenti il senso, ingolfato nel godimento dei mezzi, divora tutto ciò che, elevandosi per loro tramite, può condurre lo 385

spirito a Dio, dimenticando subito l’una o l’altra cosa; perciò quegli strumenti che dovrebbero servirmi solo a questo scopo, a causa della mia imperfezione mi sono di impedimento non meno dell’attaccamento e dello spirito di proprietà nei confronti di qualsiasi altra cosa. 7. Giacché però puoi fare qualche osservazione in fatto di immagini, non avendo ben compreso la nudità e povertà di spirito che la perfezione esige, almeno non potrai far rilievi sulla diffusa imperfezione a proposito dei rosari: a stento, infatti, troverai chi non vi abbia qualche debolezza, o perché vuole il rosario di una fattura piuttosto che di un’altra, di un colore o metallo piuttosto che di un altro, con un ornamento piuttosto che con un altro; mentre non ha importanza l’uno piuttosto che l’altro tipo di rosario affinché Dio ascolti meglio ciò di cui lo si prega con esso; piuttosto, importa la preghiera fatta con cuore semplice e veritiero, che bada solo di piacere a Dio, a meno che non si tratti di indulgenze. 8. La nostra vana cupidigia è di tale genere e grado che s’attacca a tutte le cose; è come il tarlo, che rode ciò che è sano ma fa il suo lavoro tanto su ciò che è buono quanto su ciò che è cattivo. Infatti provare gusto per un rosario prezioso e volerlo in un modo piuttosto che in un altro, o scegliere un’immagine piuttosto che un’altra, curando solo che sia più preziosa e originale e non se ciò ti aiuterà maggiormente nell’amore, che altro è tutto questo se non porre il tuo piacere nello strumento? Se tu impiegassi il tuo desiderio e compiacimento solo nell’amare Dio, non ti preoccuperesti affatto né di questo né di quello. Dispiace molto vedere alcune persone spirituali tanto attaccate al modo e alla forma di questi strumenti e stimoli, ed alla curiosità e al gusto vano di queste cose; anche perché non le vedrai mai soddisfatte, ma sempre occupate ad abbandonare una cosa per l’altra, avendo barattata la devozione dello spirito con queste forme visibili, alle quali sono attaccate con spirito di proprietà, spesso affine alla brama degli altri tesori 386

secolari, per cui ne ricevono danno non piccolo. CAPITOLO 36 Si prosegue sulle immagini e si dice dell’ignoranza che alcune persone hanno nei loro confronti. 1. Avrei molto da dire sulla rozzezza di molti nei confronti delle immagini, poiché la sciocchezza giunge a tal punto che alcuni ripongono maggior fiducia in alcune immagini che in altre, credendo che Dio li ascolti più per mezzo di queste che di quelle, sebbene entrambe rappresentino lo stesso soggetto, come ad esempio due immagini di Cristo o della Madonna. E ciò solo perché preferiscono un genere di fattura ad un altro, il che implica una grande rozzezza nel tratto con Dio, nel culto e nell’onore dovutigli, che mirano unicamente alla fede e alla purezza di cuore di chi prega. Infatti, se talvolta Dio concede maggiori grazie mediante un’immagine che mediante un’altra dello stesso genere, ciò non accade perché l’una sia capace più dell’altra di tale effetto, essendo di differente fattura, ma per il fatto che le persone sono risvegliate a maggior devozione con le une piuttosto che con le altre; se infatti avessero la stessa devozione con tutte, ed anche con nessuna, riceverebbero da Dio le stesse grazie. 2. La ragione per la quale Dio fa più miracoli e dà più grazie mediante alcune immagini che mediante altre non è dunque perché si stimino più le une che le altre, bensì perché con la loro novità può meglio accendersi la devozione sopita e l’affezione dei fedeli per l’orazione. Perciò accade che quando mediante una certa immagine s’infiamma la devozione e l’orazione persevera — due mezzi affinché Dio ascolti e conceda quanto gli si chiede — allora mediante quell’immagine e grazie all’orazione e all’amore Dio non cessa di far grazie e miracoli con quell’immagine; e certamente non a causa dell’immagine stessa, che per sé è 387

solo pittura, ma per la devozione e la fede che si ha verso il santo che essa rappresenta. Perciò, se tu avessi la stessa devozione e fede nella Nostra Signora davanti a qualsiasi immagine che la rappresenti, così come in assenza di immagine, come abbiamo detto, riceveresti le stesse grazie. L’esperienza mostra che Dio fa alcune grazie e miracoli ordinariamente mediante immagini non molto ben scolpite né accuratamente dipinte o raffigurate, affinché i fedeli nulla attribuiscano alla figura o alla pittura. 3. E spesso nostro Signore opera tali grazie mediante immagini appartate e solitarie; anzitutto affinché la fatica necessaria per raggiungerle accresca l’affetto e intensifichi l’atto; inoltre, affinché i fedeli s’appartino dal chiasso e dalla gente per pregare, come faceva il Signore (Mt. 14, 23; Lc. 6, 12). Perciò chi va in pellegrinaggio fa bene a compierlo quando non ci va altra gente, anche se il tempo è insolito; non gli consiglierei di andarvi quando c’è molta folla, perché normalmente si torna più distratti di prima. Molti poi fanno pellegrinaggi più per svago che per devozione. Pertanto, quando c’è devozione e fede, qualsiasi immagine basta; ma, se non c’è fede, nessuna basterà; infatti, per quanto viva fosse l’immagine del nostro Salvatore nel mondo, coloro che non avevano fede, sebbene andassero sempre con lui e vedessero le sue opere meravigliose, non ne traevano profitto; e questo era il motivo per cui nella propria terra egli non faceva molti prodigi, come dice l’Evangelista (Mt. 13, 58). 4. Voglio anche parlare di effetti particolari che alcune immagini talvolta producono in certe persone; cioè Dio dà ad alcune immagini uno spirito particolare, in modo che il suo ricordo e la devozione che ha provocato si fissi nella mente come se fosse presente; e quando all’improvviso se ne ricordano si riproduce con maggiore o minore intensità il moto spirituale del momento in cui l’hanno vista, mentre 388

non ritroverebbero lo stesso spirito in un’altra immagine, anche se fosse di fattura più perfetta. 5. Inoltre molte persone hanno maggiore devozione in rapporto ad una certa fattura che in rapporto ad un’altra; ma si tratterà piuttosto di affezione e gusto naturale, come quando ad uno piace più il volto di una persona che quello di un’altra e naturalmente le si affezionerà di più e l’avrà più presente nell’immaginazione, anche se non bella come altre, in quanto la sua natura inclina a quel tipo di forma e figura; così alcuni penseranno che l’affezione a questa o quell’immagine sia devozione, mentre forse si tratterà di affetto o gusto naturale. Altre volte accade che alcuni, guardando un’immagine, la vedano muoversi o fare segni e gesti o far capire qualcosa o parlare. E spesso queste manifestazioni e questi effetti soprannaturali delle immagini sono veri e buoni e Dio li causa o per accrescere la devozione o affinché l’anima abbia qualche sostegno cui appoggiarsi quando sia debole e non si distragga; ma molte volte li produce il demonio per ingannare e per nuocere. Pertanto tratteremo interamente l’argomento nel capitolo seguente. CAPITOLO 37 Come si debba indirizzare a Dio la compiacenza della volontà per l’oggetto delle immagini, in modo che non se ne riceva errore né impedimento. 1. Come le immagini, se si usano in modo conveniente, sono di grande utilità per ricordarsi di Dio e dei santi e per muovere la volontà alla devozione, così potranno anche far cadere in diversi errori se, al verificarsi di fatti soprannaturali in relazione ad esse, l’anima non sa comportarsi come è necessario per andare a Dio; infatti uno dei mezzi di cui si serve facilmente il demonio, per afferrare le anime incaute ed impedire loro il cammino dello spirito 389

verso la verità, è costituito dalle cose soprannaturali e straordinarie da lui mostrate mediante le immagini: ora con quelle materiali e corporee usate dalla Chiesa, ora con quelle che è solito imprimere nella fantasia rispetto a questo o a quel santo o ad una sua immagine, trasfigurandosi in angelo di luce per ingannare (2 Cor. 11, 14). Infatti l’astuto demonio fa in modo di dissimularsi in quegli stessi mezzi che abbiamo per rimedio e aiuto per coglierci quando siamo meno cauti; perciò l’anima buona deve diffidare più di fronte a una cosa buona che non di fronte a una cosa cattiva, perché quella cattiva si manifesta da sé. 2. Pertanto, per evitare tutti i danni che possono accadere all’anima in questo caso — quali l’essere impedita di volare a Dio o l’usare le immagini in modo indegno e ignorante, o l’esserne ingannata naturalmente o soprannaturalmente, tutte cose di cui abbiamo parlato — ed anche per purificarne la compiacenza della volontà e indirizzare l’anima a Dio tramite le immagini stesse, che è poi l’intendimento della Chiesa riguardo al loro uso, voglio dare una sola avvertenza che basterà in tutti i casi: cerchiamo nelle immagini solo il motivo, l’affezione, il compiacimento della volontà nei confronti di ciò che di vivo esse rappresentano, dal momento che ci servono solo come stimolo per condurci alle realtà invisibili. Quando il fedele vede un’immagine, abbia dunque l’avvertenza di non immergervi il senso, anche quando si tratti di un’immagine corporea o fantastica, di bella fattura e riccamente adorna, e quando produca in lui una devozione sensibile o spirituale o gli dia segni soprannaturali. Non si soffermi a dare importanza a nessuno di questi accidenti, ma subito ne elevi la mente a ciò che rappresenta, riponendo in Dio il gusto e il compiacimento della volontà, grazie all’orazione e alla devozione dello spirito, o riponendolo nel santo che invoca, affinché la pittura e il senso non tolgano a ciò che è vivo e spirituale ciò che gli spetta. In questo modo il fedele non verrà ingannato, perché non darà importanza a 390

ciò che l’immagine gli dice, né occuperà il senso e lo spirito impedendo che vadano liberamente a Dio, né porrà maggiore fiducia in un’immagine piuttosto che in un’altra. Allora l’immagine che gli avrebbe dato soprannaturalmente devozione gliene darà ancora più abbondantemente, poiché con l’affetto si eleverà subito a Dio. E Dio, che nel dargli queste e altre grazie gli dispone sempre l’affetto della compiacenza della volontà verso l’invisibile, vuole che proprio così facciamo, annichilendo la forza e il gusto delle potenze verso tutte le cose visibili e sensibili. CAPITOLO 38 Prosegue sugli strumenti di bene. Tratta degli oratori e dei luoghi dedicati all’orazione. 1. Mi sembra d’aver fatto ormai capire come in questi accidenti delle immagini lo spirituale possa subire tanta imperfezione, e forse anche molto pericolosa, ponendo in esse, come pure nelle altre cose corporee e temporali, il proprio gusto e godimento. E dico forse di più che nel caso delle altre cose corporee, perché, trattandosi di cose sante, ci si crede più sicuri e dunque non ci si guarda dal naturale spirito di possesso e di attaccamento. Perciò talvolta i fedeli s’ingannano molto pensano d’esser colmi di devozione allorché provano gusto per le cose sante, mentre forse si tratta solo di un’inclinazione e di un appetito naturale che può essere riposto tanto in queste cose come in altre. 2. Perciò, per cominciare dagli oratori, alcuni non si stancano d’aggiungere nel proprio oratorio queste e quelle immagini, prendendo gusto nell’ordinarie e nell’ornarle, in modo che l’oratorio sia ben addobbato e di bella figura. Ma non per questo amano Dio di più, usando un ornamento piuttosto che un altro, anzi lo amano meno, in quanto, come abbiamo detto, tolgono alla realtà viva quel gusto che ripongono nell’ornamento dipinto. È vero che ogni 391

ornamento e decoro e reverenza che si può recare alle immagini è cosa da poco — tuttavia coloro che le conservano con scarso decoro e reverenza meritano lo stesso grande biasimo che meritano coloro che le realizzano tanto male da togliere la devozione anziché accrescerla, per cui si dovrebbe impedire l’esercizio dell’attività ad alcuni artigiani incapaci e ignoranti nella loro arte —; ma ci chiediamo che cosa abbia a che fare con tutto questo lo spirito di proprietà, l’attaccamento e la voglia che tu hai per le decorazioni e gli ornamenti esterni, dal momento che ti ingolfano lo spirito tanto da impedire al tuo cuore d’andare a Dio e d’amarlo e di dimenticare tutte le cose per suo amore. Se infatti verrai meno a questo scopo per l’altro, non solo Dio non ti premierà, ma ti castigherà per non aver cercato in tutte le cose più il suo gusto che il tuo. Potrai ben comprendere tutto ciò riflettendo sulla festa che fecero alla Maestà divina quando entrò a Gerusalemme, ricevendolo con tanti cantici e rami (Mt. 21, 8-9; Mc. 11, 8-10; Lc. 19, 37-38; Gv. 12, 13); ma il Signore piangeva (Lc. 19, 41); perché essi avevano il cuore molto lontano da lui e credevano d’appagarlo con quei segni e ornamenti esteriori, con i quali possiamo dire che facessero più festa a se stessi che a Dio: come anche oggi accade a molti i quali, quando da qualche parte si celebra una festa solenne, sogliono rallegrarsi perché se la godono o possono guardare ed essere ammirati, o mangiare o altro, fuor che piacere a Dio; ma con queste inclinazioni e intenzioni non piacciono affatto a Dio, specie quando chi organizza la festa escogita ogni mezzo per introdurvi elementi grotteschi e non devoti per eccitare la gente al riso, sicché i fedeli si distraggono ancora di più; altri ancora vi inseriscono cose che piacciono alla gente piuttosto che muoverla alla devozione. 3. Che dire poi di intenti diversi che taluni introducono nel celebrare le feste? Costoro sanno e Dio vede se hanno più cura e desiderio in questi diversi intenti che nel servizio di Dio. Ma, quand’è così, sappiano che in ogni modo fanno più 392

festa a se stessi che a Dio; infatti Dio non reputa fatto per sé quanto essi fanno per il proprio gusto o per l’altrui; anzi, se molti staranno a divertirsi partecipando alle feste di Dio, Dio invece si irriterà con loro, come con i figli d’Israele allorché fecero festa cantando e danzando attorno al loro idolo, credendo di far festa a Dio, ed egli ne uccise molte migliaia (Es. 32, 7-28); o come fece con i sacerdoti Nadab e Abiud, figli di Aronne, che Dio fece morire mentre stavano con gli incensieri in mano, perché offrivano fuoco profano (Lev. 10, 12); o come fece con colui che, entrando alle nozze mal vestito e disordinato, «per ordine del re fu gettato fuori nelle tenebre con i piedi e le mani legate» (Mt. 22, 12-13). Qui si comprende quanto Dio mal sopporti che in occasione del suo servizio si compiano tali irriverenze; infatti in queste feste, Dio mio, fatte dai figli degli uomini, il demonio ricava più vantaggio di Voi! E il demonio se ne rallegra, perché vi si trova come un mercante alla fiera. E quante volte direte nei loro confronti: «Questo popolo mi onora solo con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, perché mi serve senza causa!» (Mt. 15, 8). Infatti la causa per la quale Dio deve essere servito è solo perché egli è chi è, senza che interponiamo altri fini; perciò, quando non lo si serve solo perché egli è chi è, lo si serve come se Dio non fosse la causa finale. 4. Tornando dunque agli oratori, dico che alcuni li adornano più per il proprio gusto che per piacere a Dio. Altri poi danno tanta poca importanza alla devozione da non tenere l’oratorio in maggiore conto dei loro salottini privati; altri poi meno ancora, gustando più il profano che il divino. 5. Ma lasciamo ora da parte questi casi e consideriamo invece coloro i quali vanno più per il sottile e si considerano persone devote; infatti molti di costoro sono tanto attaccati con l’appetito e il gusto al proprio oratorio e ai suoi ornamenti da impiegare in tutto questo le energie che dovrebbero impiegare nella preghiera a Dio e nel raccoglimento interiore. E non arrivano a vedere che se non 393

ordinano queste cose al raccoglimento interiore e alla pace dell’anima, vi si distraggono come in ogni altra cosa mondana e in tale gusto s’inquieteranno ogni momento, specialmente se qualcuno volesse toglierlo loro. CAPITOLO 39 Come ci si deve servire degli oratorî e dei templi indirizzando lo spirito a Dio. 1. Per indirizzare lo spirito a Dio in questo genere di beni bisogna tener presente che è cosa buona e conveniente consentire ai principianti di mantenere un certo gusto e un certo piacere sensibile per le immagini, gli oratori e gli altri oggetti visibili di devozione; infatti non hanno ancora il palato divezzato e distaccato dalle cose del mondo, tanto da lasciare il vecchio gusto per il nuovo: come quando vogliamo togliere qualcosa di mano a un bambino e gliene diamo un’altra perché non pianga per essere rimasto a mani vuote. Ma lo spirituale, se vuol progredire, deve spogliarsi anche di tutti questi gusti e appetiti in cui la volontà può compiacersi; infatti il puro spirito non si attacca per nulla a tali oggetti, bensì consiste unicamente nel raccoglimento interiore e nel rapporto mentale con Dio; e se si serve delle immagini e degli oratori, lo fa in modo transitorio, perché subito ferma il suo spirito in Dio, dimentico di tutto il sensibile. 2. Pertanto, anche se è meglio pregare nel luogo più decoroso, nonostante ciò, bisogna scegliere il luogo dove il senso e lo spirito sono meno impediti nell’andare a Dio. In questo senso conviene accogliere ciò che il nostro Salvatore rispose alla samaritana, quando gli chiese quale fosse il luogo più adatto per pregare, se il tempio o il monte: egli le rispose che la vera preghiera non è legata né al monte né al tempio, e gli adoratori più graditi al Padre sono coloro che lo adorano «in spirito e verità» (Gv. 4, 23-24). 394

Perciò, sebbene i templi e i luoghi appartati siano dedicati e fatti apposta per la preghiera, in quanto il tempio non si deve usare che per questo, tuttavia, per un rapporto tanto interiore quanto è quello con Dio, si deve scegliere il luogo che meno occupi e attiri a sé il senso. Dunque non deve essere un luogo ameno e piacevole al senso, come alcuni sogliono cercarlo, quasi che lo spirito, invece di raccogliersi in Dio, debba fermarsi nello svago e nel gusto e sapore del senso. Perciò il più adatto è un luogo solitario e anche aspro, affinché lo spirito salga a Dio in modo fermo e diretto, non impedito né trattenuto dalle cose visibili, pur riconoscendo che queste talvolta lo aiutano ad elevarsi; il che però avviene piuttosto dimenticando subito le cose visibili e rimanendo in Dio. Perciò il nostro Salvatore, per darci l’esempio, ordinariamente sceglieva luoghi solitari per pregare (Mt. 14, 23) e quelli che non occupassero troppo i sensi, ma che elevassero l’anima a Dio, come i monti elevati e normalmente brulli e privi di svaghi sensibili (Lc. 6, 12). 3. Perciò il vero spirituale non si preoccupa mai se il luogo per la preghiera sia più o meno comodo, perché ciò denoterebbe ancora un suo attaccamento al senso; ma bada solo al raccoglimento interiore, dimentico di ogni cosa, scegliendo perciò il luogo più libero di oggetti e di attrazioni sensibili, distogliendo l’attenzione da tutto questo, per poter meglio godere del suo Dio nel deserto delle creature. Meraviglia dunque vedere alcuni spirituali tutti impegnati ad ornare oratori e a sistemare luoghi rendendoli piacevoli secondo il proprio temperamento e la propria inclinazione, mentre si interessano pochissimo del raccoglimento interiore, che è la cosa più importante, e che a loro fa difetto, perché, se infatti l’avessero, non potrebbero trovar gusto in tutte quelle cose, anzi se ne stancherebbero. CAPITOLO 40 Si continua ad indirizzare lo spirito al raccoglimento 395

interiore circa quanto si è detto. 1. Il motivo per cui alcuni spirituali non giungono mai ad entrare nel vero godimento dello spirito è che non si liberano mai completamente dell’appetito del godimento delle cose esteriori e visibili. Costoro debbono aver ben presente che se il tempio e l’oratorio visibili sono i luoghi decorosi e dedicati alla preghiera e le immagini ne sono stimoli, non dovrà mai accadere che ci si dimentichi del pregare nel tempio vivo, cioè nel raccoglimento interiore dell’anima, anziché saziarsi del gusto e del sapore spirituale nel tempio visibile e nelle immagini. L’Apostolo, infatti, per farcene avvertiti, disse: «Guardate che i vostri corpi sono templi vivi dello Spirito Santo che abita in voi» (1 Cor. 3, 16). A questa considerazione ci invita l’espressione di Cristo che abbiamo citato: «i veri adoratori devono adorare in spirito e verità» (Gv. 4, 24). Infatti a Dio ben poco aggradano le tue preghiere e i tuoi luoghi adorni se il tuo attaccamento al desiderio e al gusto di tali cose diminuisce la tua nudità interiore, cioè la povertà spirituale nella negazione di tutte le cose che puoi possedere. 2. Pertanto devi purgare la volontà di ogni godimento e di ogni vano desiderio di tali cose, rivolgendolo a Dio nella tua preghiera, badando soltanto che la tua coscienza sia pura, la tua volontà sia intera in Dio, e la tua mente davvero fissa in lui; perciò bada a scegliere, come già ho detto, il luogo più appartato e solitario possibile, e a convertire interamente il godimento della tua volontà all’invocazione e alla glorificazione di Dio. Infatti, se l’anima si lascia andare al gusto della devozione sensibile, non giungerà mai a passare alla forza dei diletti dello spirito, che si trovano nella nudità spirituale mediante il raccoglimento interiore. CAPITOLO 41 Su alcuni danni in cui incorrono coloro che si dedicano al 396

gusto sensibile delle cose e dei luoghi devoti nei modi dei quali si è trattato. 1. Molti danni provengono allo spirituale, sotto l’aspetto sia interiore che esteriore, dal voler andare in cerca del sapore sensibile nelle cose di cui si è detto; infatti, quanto all’aspetto interiore, egli non giungerà mai all’intimo raccoglimento, che consiste nel passare sopra a tutto ciò e nel far dimenticare all’anima tutti i sapori sensibili, nell’entrare nel vivo del raccoglimento e nell’acquistare energicamente le virtù. Quanto all’esteriore, questa ricerca disabitua a pregare in ogni luogo, ma induce a pregare solo in quelli di proprio gusto; pertanto spesso si verrà meno all’orazione, in quanto, come si dice, non si sa leggere che nel proprio libro. 2. Inoltre tale appetito provoca nello spirituale molte instabilità; queste sono infatti caratteristiche di coloro che non perseverano mai nello stesso luogo, né per lo più nello stesso stato, ma li vedrai ora in un luogo ora in un altro, ritirati ora in un eremo ora in un altro, occupati a sistemare ora un oratorio ora un altro. Fra costoro si annoverano anche quelli che passano la vita cambiando stato e modo di vivere; avendo nelle cose spirituali solo fervore e gioia sensibile e non essendosi mai sforzati di giungere al raccoglimento interiore, mediante la negazione della volontà e la paziente sopportazione dei disagi, ogni volta che un luogo sembri loro devoto, o qualche modo o stato di vita sembri corrispondere al loro temperamento e inclinazione, subito vi corrono dietro e lasciano quello che avevano. E poiché si sono mossi a causa di quel gusto sensibile, dato che esso non è costante e ben presto viene meno, vanno subito in cerca di qualche altra cosa. CAPITOLO 42

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Su tre specie di luoghi devoti e sul modo in cui la volontà deve comportarsi nei loro riguardi. 1. Trovo che sono tre le specie dei luoghi per mezzo dei quali Dio suole muovere la volontà alla devozione. La prima consiste nella disposizione del luogo; infatti il piacevole aspetto della sua varietà, la disposizione del terreno e degli alberi, o la sua quiete solitaria inducono naturalmente alla devozione. Ed è cosa utile usarne, dimenticandolo però subito, appena s’indirizza a Dio la volontà, così come per giungere al fine conviene non arrestarsi al mezzo e all’occasione più del necessario; se invece si cerca di svagare l’appetito e di trarne piacere sensitivo, ciò procurerà piuttosto aridità di spirito e distrazione spirituale, poiché la soddisfazione e il gusto spirituale non si trovano che nel raccoglimento interiore. 2. Pertanto, stando in un luogo determinato, ma subito di mentichi di esso, si deve cercar di stare interiormente con Dio, come se non ci si trovasse lì, poiché, se ci si abbandona ad ammirare e a gustare il luogo, si vagherà di qua e di là, trovando piuttosto svago sensitivo e instabilità spirituale che riposo dello spirito. Così facevano gli anacoreti e altri santi eremiti, che nei deserti sconfinati e amatissimi cercavano il luogo più piccolo che potesse bastare loro, edificandovi celle strettissime e grotte in cui rinchiudersi; in una di esse San Benedetto dimorò tre anni e un altro, San Simone, vi si legò con una corda per non occupare troppo posto e non andare più lontano di quanto questa gli consentisse; e così fecero tanti altri che non finiremmo di enumerare. Questi santi intesero molto bene che, se non avessero spento l’appetito e la brama di trovare gusto e sapore spirituale, non avrebbero potuto giungere a tal punto, né diventare spirituali. 3. La seconda specie è più particolare, poiché riguarda i luoghi, non importa se deserti o d’altro tipo, nei quali Dio 398

suole largire grazie spirituali molto saporose ad alcune persone particolari, in modo che il cuore di chi vi ha ricevuto quella grazia è ordinariamente rivolto a quel luogo e talvolta prova grande desiderio ed ansia di tornarvi, sebbene andandovi non vi ritrovi ciò che vi ricevette nel passato, in quanto quel dono non dipendeva dal luogo. Infatti Dio concede queste grazie quando e come e dove vuole, senza essere legato né al tempo né all’arbitrio di colui al quale le concede. È tuttavia bene che lo spirituale qualche volta vi ritorni a pregare, purché vada spoglio dell’appetito di proprietà; e ciò per tre motivi: primo, perché, sebbene, come abbiamo detto, Dio non sia legato ad un luogo, sembra però che desideri essere lodato in luogi determinati da ciascuna anima, facendole proprio in quei luoghi quella grazia; secondo, perché l’anima si ricorda meglio di ringraziare Dio per quanto vi ha ricevuto; terzo, perché lì con quel ricordo si risveglia più fervidamente la sua devozione. 4. Per queste ragioni vi deve ritornare, ma non pensando che Dio per fargli grazie sia legato a quel luogo e che non gliene possa fare dove voglia; perché solo l’anima è per Dio il luogo proprio e più decoroso di qualsiasi altro luogo visibile. Per questo motivo leggiamo nella sacra Scrittura che Abramo innalzò un altare proprio nel luogo dove Dio gli era apparso invocandovi il suo santo nome e che poi, tornando dall’Egitto, si diresse verso la stessa strada dove gli era apparso Dio, e lì tornò ad invocarlo, sullo stesso altare che gli aveva edificato (Gn. 12, 8 e 13, 4). Anche Giacobbe contrassegnò il luogo dove gli era apparso Dio in cima alla scala, elevando lì una pietra unta con olio (ivi 28, 13-18). E Agar mise un nome al luogo dove gli era apparso l’angelo, stimando molto quel luogo e dicendo: «certamente qui ho visto le spalle di colui che mi vede» (ivi 16, 3). 5. La terza specie è costituita da alcune località particolari che Dio elegge per esservi invocato, come il monte Sinai, dove Dio dettò la legge a Mosè (Es. 24,12) e come il luogo che 399

segnalò ad Abramo perché vi sacrificasse suo figlio (Gen. 22, 2). Tali sono il monte Oreb, dove Dio apparve al nostro padre Elia (3 Re 19, 8), e il luogo che dedicò a San Michele per il suo culto, cioè il monte Gargano, appartenente al vescovo di Siponte, il quale affermava d’esserne custode, affinché lì si dedicasse a Dio un oratorio in onore degli angeli. E la gloriosa Vergine, con un singolare segno della neve, scelse a Roma il luogo per un tempio che Patrizio voleva edificare in suo nome. 6. Dio solo sa la ragione per cui sceglie un luogo piuttosto che un altro nel quale essere lodato. Quel che dobbiamo sapere noi è che tutto ciò è a nostro profitto, volto al fine che Dio ascolti le nostre preghiere e affinché, dovunque, lo preghiamo con fede intera; non si può negare tuttavia che nei luoghi che sono dedicati al suo servizio vi siano più occasioni di ascolto, in quanto la Chiesa li ha indicati e dedicati a questo. CAPITOLO 43 Tratta dei motivi per pregare che molti usano e che costituiscono una grande varietà di cerimonie. 1. Gli inutili compiacimenti e l’imperfetto spirito di proprietà che molti hanno riguardo a quanto abbiamo detto sono forse, in certa misura, tollerabili, perché suppongono un comportamento piuttosto innocente; è invece intollerabile la grande fiducia che taluni ripongono in molti tipi di cerimonie introdotte da gente poco illuminata e priva della semplicità della fede. Lasciamo qui da parte quelle che contengono nomi straordinari, termini che non significano niente, ed altre cose non sacre che gente stolta, d’animo rozzo e sospettoso, sogliono mescolare alle loro preghiere; infatti sono evidentemente cattive, e in esse c’è peccato e in molte anche 400

un patto occulto col demonio; perciò provocano l’ira di Dio anziché la sua misericordia. 2. Ma voglio riferirmi solo a quelle cerimonie che, pur non avendo in se stesse elementi sospetti, oggi sono praticate da molti con devozione indiscreta; costoro ripongono tanta fiducia e fede in quelle determinate forme di devozione e orazione da credere che, se vi mancassero in un solo punto o s’allontanassero da quelle forme, non ne trarrebbero vantaggio e Dio non li ascolterebbe; perciò confidano più in quei precisi modi, che nel vivo della preghiera, non senza grave irriverenza e offesa a Dio. Ad esempio vogliono la messa con un certo numero di candele, né più né meno; che la celebri un sacerdote con determinate caratteristiche, e che sia a una determinta ora, né prima né dopo; che le preghiere e le pause siano di un certo numero e qualità e in tempi determinati e con precise cerimonie fatte in un certo momento e in un certo modo; e che la persona che le compie abbia certe caratteristiche e vi abbia una determinata parte. E pensano che, se manca qualcosa di ciò che si sono proposti, convenga non farne nulla; analogamente avviene per mille altre cose che si offrono loro e che essi fanno. 3. La cosa peggiore e intollerabile è che alcuni vogliono sentire in sé qualche effetto o vedere il compimento di quanto hanno chiesto o esser certi che si realizzi il fine di quelle loro preghiere piene di cerimonie; il che è nientemento che tentare Dio ed offenderlo gravemente; al punto che, talvolta, Dio consente al demonio d’ingannarli, facendo loro sentire e intendere cose molto estranee al profitto della loro anima. E costoro l’hanno meritato, a causa dello spirito di proprietà che hanno portato nelle preghiere, chiedendo che fosse fatta la volontà che essi pretendono piuttosto che la volontà di Dio. Così niente riuscirà loro bene, perché non ripongono l’intera loro fiducia in Dio. CAPITOLO 44 401

Come si debba indirizzare a Dio la gioia e la forza della volontà mediante queste devozioni. 1. Costoro sappiano dunque che quanta maggior fiducia hanno in queste cose e cerimonie, tanta minore ne hanno in Dio, e non otterranno quanto desiderano. Alcuni, infatti, pregano più per ottenere quanto pretendono che per onorare Dio; e, sebbene suppongano d’essere esauditi se la cosa chiesta piace a Dio, e non altrimenti, tuttavia, a causa dello spirito di proprietà e del vano godimento che vi provano, per essere esauditi moltiplicano all’accesso le preghiere, che invece sarebbe meglio sostituissero con qualcosa di più importante per loro: ad esempio purificando davvero la loro coscienza e occupandosi concretamente di ciò che riguarda la loro salvezza, dimenticando tutte le domande che non la riguardino. In tal modo, conseguendo quello che è più importante per loro, otterrebbero anche tutto quello che è per loro conveniente, anche senza chiederlo, anzi molto meglio che se vi avessero impegnato tutte le loro forze. 2. Infatti così ha promesso il Signore per mezzo dell’Evangelista: «Cercate anzitutto e principalmente il regno di Dio e la sua giustizia e tutte le altre cose vi saran date in più» (Mt. 6, 33); è infatti questa la richiesta e la domanda a Dio più gradita. Per veder realizzare le richieste che abbiamo in cuore non c’è modo migliore che porre la forza della nostra preghiera in ciò che più piace a Dio; perché, allora, non solo egli ci darà quello che chiediamo, cioè la salvezza, ma anche quello che egli vede conveniente e buono per noi, anche se non lo chiediamo, come ben ci fa intendere David in un salmo, dove dice: «Il Signore è vicino a coloro che lo invocano nella verità», ossia che gli chiedono le cose veramente più alte, come quelle riguardanti la salvezza; infatti a proposito di costoro aggiunge: «Compirà la volontà di coloro che lo temono, ne ascolterà le preghiere e li salverà; poiché Dio protegge coloro che lo amano bene» (Sal. 144, 18402

20). Così lo star vicino del Signore di cui dice David non è altro che soddisfare le anime concedendo loro ciò che esse nemmeno pensano di chiedere. Leggiamo infatti che Salomone giustamente chiese a Dio qualcosa che a Dio piacque, ossia la sapienza per governare con giustizia il suo popolo, e Dio gli rispose dicendogli: «Poiché più di ogni altra cosa ti piacque la sapienza e non mi hai chiesto la vittoria e la morte dei tuoi nemici, né la ricchezza, né una vita lunga, io ti dò non solo la sapienza che hai chiesto per governare con giustizia il mio popolo, ma anche quello che non hai chiesto, cioè ricchezza e beni e gloria, in modo che nessun re, prima o dopo di te, sia simile a te» (2 Cron. 1, 11-12). E così fece pacificando anche i suoi nemici, così che tutti coloro che gli erano intorno gli pagavano tributi senza molestarlo. E lo stesso leggiamo nel Genesi (21, 13): Dio promise ad Abramo di moltiplicare la discendenza del suo figlio legittimo come le stelle del cielo, come gli aveva chiesto, predicendogli: «Perché è tuo figlio moltiplicherò anche la discendenza del figlio della sua schiava». 3. In questa maniera si debbono dunque indirizzare a Dio le forze e il compiacimento della volontà nel domandare, non preoccupandosi di far leva sull’invenzione di cerimonie che la Chiesa cattolica né usa né approva, lasciando che il sacerdote celebri la messa nel modo in cui gli viene ordinato e deve fare, in quanto lo fa in nome della Chiesa. E si rifiutino di usare modi nuovi, come se fossero più sapienti dello Spirito Santo e della sua Chiesa. E se Dio non li esaudisce quando si comportano nel modo più semplice, credano che non lo farà certamente quali che potranno essere le loro escogitazioni. Infatti Dio è tale che, se gli si rivolgono nel modo giusto e come il suo essere esige, otterranno quanto desiderano; ma se lo fanno per un qualche interesse è meglio che neppure gli si rivolgano. 4. E quanto agli altri modi di pregare e alle altre devozioni, 403

non vogliano dedicarsi a cerimonie e a modi di preghiera diversi da quelli che ci ha insegnato Cristo (Lc. 11, 1-2). È chiaro che quando i suoi discepoli gli chiesero di insegnare loro a pregare, insegnò tutto quanto è necessario perché l’Eterno Padre ci ascolti, ben conoscendone l’essere; e insegnò loro solo le sette petizioni del Pater noster, che contengono tutte le nostre necessità spirituali e temporali, né comunicò loro molti altri generi di parole e cerimonie, bensì un’altra volta li esortò a non dire molte cose pregando, perché il Padre celeste sa bene ciò di cui abbiamo bisogno (Mt. 6, 7-8); ci raccomandò soltanto, con molto calore, di perseverare nella preghiera, cioè nel Pater noster, altrove confermando che «bisogna pregare incessantemente» (Lc. 18, 1). Non ci insegnò invece varietà di domande, bensì a ripeterle molte volte con fervore e con cura; in quanto, come dico, vi si racchiude tutta la volontà di Dio e tutto il nostro bene. Perciò le tre volte in cui il Signore ricorse all’Eterno Padre, dicono gli evangelisti che pregò tutte e tre le volte con le parole del Pater noster, dicendo: «Padre, se non posso fare a meno di bere questo calice, sia fatta la tua volontà» (Mt. 26, 39). Quanto alle cerimonie con le quali ci ha insegnato a pregare, ve ne sono solo due: o nel segreto della nostra camera, dove senza frastuoni e senza render conto a nessuno possiamo pregare con cuore più integro e puro, come egli disse: «Quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega» (ivi 6, 7); oppure nei luoghi solitari come egli faceva, e nel tempo migliore e più quieto della notte (Lc. 6, 12). Perciò non occorre indicare né tempi né giorni determinati come gli uni più adatti degli altri per la nostra devozione, né vi sono altri modi o preghiere o giochi di parole, ma solo le forme e i modi usati dalla Chiesa, in quanto tutti si riducono a ciò che abbiamo detto del Pater noster. 5. Tuttavia non condanno, anzi approvo che alcuni qualche volta propongano giorni determinati per devozioni, come ad 404

esempio novene o digiuni o simili cose; biasimo invece il modo limitato di comportarsi nelle cerimonie che compiono. Così Giuditta fece con gli abitanti di Betulia riprendendoli perché avevano limitato a Dio il tempo in cui sperare nella sua misericordia, dicendo loro: «Avete fissato a Dio il tempo della sua misericordia? Ciò non serve — disse — per muovere Dio a clemenza ma per suscitare la sua ira» (8, 1112). CAPITOLO 45 Si tratta del secondo genere di beni distinti in cui la volontà può vanamente dilettarsi. 1. Il secondo tipo di beni distinti e saporosi in cui la volontà può vanamente dilettarsi è costituito da coloro che inducono e persuadono a servire Dio, per cui li chiamiamo provocativi; a questo genere appartengono i predicatori, dei quali possiamo trattare sotto due aspetti: per quanto li concerne come predicatori e per quanto riguarda chi li ascolta. Non ci resta dunque che ricordare agli uni e agli altri come debbano indirizzare a Dio il diletto della volontà nel loro esercizio. 2. Quanto al predicatore, conviene rammentargli, affinché giovi alla gente e non si impigli nel vano godimento e nella presunzione, che il suo esercizio è più spirituale che vocale; infatti, se è vero che esso si esercita all’esterno mediante parole, la sua forza ed efficacia non agiscono però se non nello spirito interiore. Pertanto, per quanto sia elevata la dottrina che predica, squisita la retorica e raffinato lo stile con cui la riveste, ordinariamente da sé non produrrà profitto maggiore di quello che potrà trarre dal proprio spirito. Infatti, se è vero che la parola di Dio è efficace per se stessa, come dice David — «Egli darà alla sua voce, voce di virtù» (Sal. 67, 34) —, però è anche vero che, se il fuoco ha la virtù di bruciare, non potrà bruciare se nel soggetto non ve 405

ne sia disposizione. 3. Affinché la dottrina raggiunga la sua forza debbono dunque essere presenti due disposizioni: l’ una di chi predica e l’altra di chi ascolta. Ordinariamente il profitto dipende dalla disposizione di chi la insegna; onde si dice che quale è il maestro tale sarà il discepolo. Perciò, quando negli Atti degli Apostoli i sette figli di quel principe dei sacerdoti dei Giudei solevano scongiurare i demoni nelle stesse forme usate da San Paolo, il demonio si irritò contro il loro dicendo: «Confesso Gesù e conosco Paolo, ma voi chi siete?» (19, 15), e, gettatosi contro di loro, li denudò e li ferì. E ciò accadde perché non avevano la disposizione conveniente, non perché Cristo non volesse che scacciassero i de moni in suo nome; infatti, quando impedirono ad uno che non era suo discepolo di scacciare un demonio in suo nome, il Si gnore li riprese dicendo: «Non glielo impedite, perché nessuno potrà parlare male di me e subito dopo compiere qualche prodigio in mio nome» (Mc. 9, 38). Si adira invece con coloro che, insegnando la legge di Dio, non la osservano e, predicando lo spirito buono, non lo hanno in se stessi. Perciò dice con San Paolo: «Tu insegni agli altri, ma non a te stesso; tu che predichi di non rubare, rubi» (Rom. 2, 21). E per bocca di David lo Spirito Santo ammonisce: «Dice Dio al peccatore: perché predichi la mia giustizia e hai la mia legge sulla tua bocca, ma hai in odio la correzione e hai gettato le mie parole dietro le tue spalle?» (Sal. 49, 16-17). Dove si comprende che nemmeno darà loro lo spirito onde ne traggano frutto. 4. Comunemente vediamo — nel giudizio che quaggiù possiamo darne — che, quanto è migliore la vita di chi predica, tanto maggiore è il frutto che egli ottiene, quantunque basso possa essere il suo stile e poca la sua retorica e comune la sua dottrina, poiché il fervore si ottiene dallo spirito vivo; diversamente, altri darà poco frutto, per sublimi che siano il suo stile e la sua dottrina; perché, se è vero che il buon stile e i gesti e la dottrina elevata e il 406

linguaggio adeguato, accompagnati da buono spirito, muovono di più e producono migliore effetto, però, senza il buono spirito, il discorso può dar forse sapore e gusto al senso e all’intelletto, ma poco o nulla nutre la volontà, che generalmente resta, come prima, fiacca e debole nell’operare. Se uno ha predicato meravigliosamente cose meravigliose, ma queste servono solo per dilettare l’udito, come una musica armoniosa o un suono di campane, lo spirito, come ho detto, non si solleva più di prima dalla sua inerzia, perché la sola voce non ha capacità di resuscitare il morto dal suo sepolcro. 5. Poco importa udire una musica migliore di un’altra, se questa non muove più di quella ad operare: se anche sono state dette meraviglie, queste subito si dimenticano, perché non hanno appiccato il fuoco alla volontà; infatti, oltre a non produrre gran frutto per se stesse, l’attaccamento che il senso ha per il piacere di ascoltare tale dottrina impedisce che ci si levi fino allo spirito e induce a fermarsi al solo giudizio sul modo e sugli accidenti della predica, a lodare il predicatore per questo o quel motivo e a seguirlo più per queste ragioni che per l’emendazione che se ne trae. San Paolo fa molto ben intendere tale dottrina dicendo ai Corinti (1Cor. 2, 1-4): «Fratelli, quando venni a voi non predicai Cristo con sublimità di dottrina e con sapienza, e le mie parole e la mia predicazione non erano basate sulla retorica della sapienza umana, ma sulla manifestazione dello spirito e della verità». Ma l’intenzione dell’Apostolo e la mia non è certo di condannare l’ottimo stile e la retorica e il linguaggio scelto; che, anzi, sono elementi molto importanti per il predicatore, come del resto in ogni situazione; il linguaggio scelto e lo stile buono elevano infatti anche le cose cadute e corrotte e le riedificano, così come le espressioni mediocri corrompono e rovinano anche le buone. 20. Principio che Tommaso d’Aquino formulava ad esempio nella

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Summa, I, q. I, a. 8, ad 2m. 21. Cioè nel libro secondo della Notte oscura. 22. Ossia gli studiosi della filosofia della natura. 23. Cfr. ad esempio il Contra Gentiles, 1. I, c. 25, di Tommaso d’Aquino. 24. In realtà nei capp. 16 e 17. 25. In realtà nel cap. 26. 26. Cfr. la nota 15. 27. Ovidio, nei Remedia amoris, I, 91-92: «Principiis obsta; sero medicina paratur, / cum mala per longas invaluere moras». 28. Ossia la virtù della prudenza mediante la quale l’uomo governa se stesso in ordine al bene comune. Trasparente il riferimento alla determinazione che ne dà Tommaso d’Aquino, ad esempio nella Summa, IIa-IIae, q. 48, a. 1, c. 29. L’allusione è allo stoicismo di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. 30. Cfr. Homilia 26 in Evangelium, 1, 2. 31. Evidente rinvio alla Notte oscura, specie al libro secondo.

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NOTTE OSCURA

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Spiegazione delle strofe che trattano del modo tenuto dall’anima nel cammino spirituale per giungere alla perfetta unione di amore con Dio quale è possibile in questa vita. Si parla anche della proprietà che ha in sé colui che è giunto a tale perfezione, secondo quanto è contenuto nelle strofe. Del padre fra Giovanni della Croce, carmelitano scalzo, autore delle stesse strofe.

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Prologo al lettore In questo libro si pongono prima le strofe che devono essere spiegate. Poi si illustra ciascuna strofa separatamente, collocando ogni strofa prima del commento, e infine, dopo averlo trascritto, si spiega verso per verso. Nelle prime due strofe si chiariscono gli effetti delle due purificazioni spirituali, quella della parte sensitiva dell’uomo e quella della parte spirituale. Nelle altre sei si illustrano i vari e mirabili effetti dell’illuminazione spirituale e dell’unione di amore con Dio. In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata; allo scuro e sicura per la segreta scala, travestita, o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz’altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. E questa mi guidava più certa della luce meridiana là dove mi aspettava chi bene io conoscevo in luogo ove nessuno si mostrava. 411

O notte che guidasti! O notte amabile più dell’aurora! O notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata! Sul mio petto fiorito, che per lui solo intatto si serbava, lì rimase dormiente ed io l’accarezzavo e il ventaglio di cedri l’arieggiava. E l’aura dei bastioni mentre quei suoi capelli discioglievo con la mano serena nel collo mi feriva e tutti i miei sensi sospendeva. Dimentica, acquietata, il volto reclinai sull’Amato, tutto cessò e rimasi, lasciando ogni mia cura, circondata da gigli, obliata. Incomincia la spiegazione delle strofe che trattano del modo seguito dall’anima nel cammino dell’unione di amore con Dio, del padre fra Giovanni della Croce, carmelitano scalzo. Prima di entrare nella spiegazione di queste strofe, è ora necessario sapere che l’anima le pronuncia quando è già nella perfezione, cioè nell’unione di amore con Dio, dopo essere passata attraverso le strette di travagli ed angosce, mediante l’esercizio spirituale della via stretta della vita eterna di cui parla il nostro Salvatore nel Vangelo (Mt. 7, 14): è la via attraverso la quale ordinariamente l’anima passa per giungere a questa sublime e beata unione con Dio. E poiché 412

questa via è tanto stretta e tanto pochi sono coloro che vi entrano, come anche dice il Signore stesso (Mt. 7, 14), l’anima reputa grande felicità e fortuna l’esser giunta attraverso di essa alla perfezione d’amore, come canta nella prima strofa, chiamando con molta proprietà notte oscura questa via stretta, come poi si spiegherà nei versi di questa strofa. L’anima dunque, felice d’essere passata per questo angusto cammino dal quale ha conseguito tanto bene, così canta:

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LIBRO PRIMO

SULLA NOTTE DEL SENSO. Strofa In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. Dichiarazione 1. In questa prima strofa l’anima narra in quale modo sia uscita fuori di sé e di tutte le cose quanto all’affezione, morendo a tutte le cose e a se stessa attraverso una vera mortificazione, per giungere a vivere la dolce e saporosa vita d’amore con Dio. E dicendo che questo uscire da sé e da tutte le cose è stata una notte oscura, intende con questa espressione la contemplazione purgativa, come poi si dirà, la quale provoca passivamente nell’anima la negazione di se stessa e di tutte le cose di cui s’è parlato. 2. E spiega d’esser potuta uscire in questo modo grazie alla forza e al calore donatole a tale fine dall’amore del suo Sposo in quella contemplazione oscura. E vi esalta la buona fortuna che ebbe nell’andare a Dio attraverso questa notte, con tanto prospero successo che nessuno dei suoi tre nemici — il mondo, il demonio e la carne, che sempre ostacolano questo cammino — ha potuto impedirglielo; infatti la notte della contemplazione purificativa fece addormentare e assopire nella dimora della sua sensibilità tutte le passioni e gli appetiti, con appetiti e moti contrari. Perciò il verso dice: 414

In una notte oscura. CAPITOLO 1 Sulle imperfezioni dei principianti. 1. Le anime cominciano ad entrare in questa notte oscura quando Dio le fa uscire dallo stato di principianti, proprio di coloro che meditano sul cammino spirituale, e comincia a porle nello stato dei proficienti, che è ormai quello dei contemplativi, affinché attraverso esso giungano allo stato dei perfetti, che è quello della divina unione dell’anima con Dio. Pertanto, per spiegare e meglio comprendere che cosa sia questa notte che l’anima attraversa e per quale ragione Dio ve la pone, anzitutto converrà accennare ad alcune proprietà dei principianti: un cenno, anche se il più breve possibile, che non mancherà di giovare agli stessi principianti affinché, comprendendo meglio la debolezza dello stato nel quale si trovano, si rianimino e desiderino che il Signore li ponga in questa notte, dove l’anima si fortifica, si conferma nelle virtù e si dispone agli inestimabili diletti dell’amore di Dio. Ci tratterremo un poco su quest’argomento, non più di quanto sia sufficiente per parlare subito della notte oscura. 2. Occorre dunque sapere che l’anima, dopo che con determinazione si è convertita a servire Dio, ordinariamente è da Dio nutrita nello spirito e accarezzata come un tenero bimbo dalla madre amorosa, che lo riscalda al calore del suo petto, lo nutre con latte saporito e cibi delicati e dolci, e lo porta in braccio accarezzandolo. Però, man mano il bimbo cresce, la madre allenta le carezze e nascondendo il suo tenero amore cosparge d’aloe amaro il suo dolce petto, così che il bimbo scenda dalle sue braccia per camminare con i suoi piedi, affinché, perdendo la proprietà del bambino, si dia a cose più grandi e sostanziali. Allo stesso modo l’amorosa madre che è la grazia di Dio fa con l’anima non appena 415

l’abbia rigenerata con nuovo calore e fervore di servire Dio; infatti le fa trovare dolce e saporito il latte spirituale senza alcun patimento in tutte le cose di Dio e grande gusto negli esercizi spirituali, perché Dio le dà il suo petto dolcemente amoroso proprio come a tenero bimbo (JPiet. 2, 2-3). 3. Pertanto ella trova diletto nello stare lungo tempo in orazione, a volte intere notti; trova gusto nelle penitenze, contentezze nei digiuni, consolazioni nel frequentare i sacramenti e nella comunione con le cose divine. Tuttavia, sebbene gli spirituali pratichino tutte queste cose con grande efficacia e costanza e ne trattino con molta cura, spiritualmente parlando per lo più essi si conducono in modo molto fiacco e imperfetto. Infatti, essendo mossi a queste cose e agli esercizi spirituali dalla consolazione e dal gusto che vi provano e non essendo ancora abituati a conquistare le virtù con gli esercizi di un’aspra lotta, in queste loro opere spirituali cadono in molte mancanze e imperfezioni; ciascuno del resto opera conformemente al proprio abito di perfezione; e siccome costoro non hanno avuto modo di acquistare abiti forti, di necessità debbono operare fiaccamente, come deboli fanciulli. Per spiegare più chiaramente tutto questo e per mostrare con quanta fiacchezza i principianti procedono sulla via della virtù dal momento che agiscono con facilità grazie al gusto di cui s’è detto, osserveremo il loro comportamento in rapporto ai sette vizi capitali, trattando di alcune fra le molte imperfezioni che ciascuno ha; si vedrà così come il loro operare sia da bambini, ed anche quanti beni porti con sé la notte oscura della quale ora dovremo trattare, perché monda e purifica l’anima di tutte queste imperfezioni. CAPITOLO 2 Su alcune imperfezioni spirituali che i principianti hanno riguardo all’abito della superbia.

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1. I principianti si sentono molto fervorosi e diligenti nelle cose spirituali e in questo genere di esercizi devoti; ma, sebbene sia vero che i santi esercizi per sé favoriscono l’umiltà, in costoro, a causa della loro imperfezione, spesso nasce un germoglio di superbia occulta, per cui arrivano a provare qualche soddisfazione per le proprie opere e per se stessi. Ne scaturisce anche una vana voglia, a volte davvero molto vana, di parlare di cose spirituali di fronte agli altri e anche di insegnarle piuttosto che di impararle; così interiormente condannano gli altri se non li vedono in quelle forme di orazione che essi vorrebbero, e talvolta li condannano apertamente anche a parole, divenendo così simili al fariseo, che lodando Dio si vantava delle proprie opere e disprezzava il pubblicano (Lc. 18, 11-12). 2. Spesso il demonio accresce in costoro il fervore e il desiderio di moltiplicare sempre più queste cose, affinché vada crescendo in loro la superbia e la presunzione. Il demonio infatti sa molto bene che tutte queste loro opere e virtù non solo non valgono nulla ma anzi in loro possono volgersi in vizio. E alcuni di costoro cadono a tal punto che non vorrebbero che altri fosse giudicato buono tranne loro stessi; perciò, quando ne capita l’occasione, con atti e parole condannano e denigrano gli altri, vedendo la pagliuzza nell’occhio del fratello e non considerando la trave che è nel proprio (Mt. 7, 3); colano il moscerino altrui e inghiottono il proprio (Mt. 23, 24). 3. Se poi i loro maestri spirituali, come i confessori e i superiori, non approvano il loro atteggiamento spirituale e il loro modo di procedere, siccome desiderano che tutto ciò che li riguarda venga stimato e lodato, pensano che costoro non comprendano il loro spirito o addirittura non siano sprirituali, dal momento che non li approvano e non accondiscendono. Perciò subito desiderano e cercano di trattare con altri che s’accordino con il loro gusto; infatti normalmente desiderano trattare con chi sanno che loderà e 417

apprezzerà i loro comportamenti, mentre rifuggono come dalla morte da chi glieli distrugga per avviarli su una strada sicura; a volte giungono sino al rancore nei loro confronti. Da presuntuosi, propongono molto e fanno ben poco. A volte hanno una gran voglia che gli altri conoscano il loro spirito e la loro devozione, perciò ostentano gesti, sospiri ed altre cerimonie, talora anche rapimenti; e questo in pubblico piuttosto che in segreto, e il demonio vi coopera, perché piace loro moltissimo, sino ad esserne avidi, che molti sappiano di questi fenomeni. 4. Molti ambiscono la preferenza e il favore dei confessori, cosa dalla quale nascono mille invidie e inquietudini. Sono imbarazzati a dire loro i propri peccati senza veli, affinché i confessori non li stimino meno, perciò vanno colorandoli in modo che sembrino brutti, il che finisce con l’essere più uno scusarsi che un accusarsi. Talvolta cercano un altro confessore per dirgli il male compiuto, affinché il confessore abituale pensi che non hanno peccati ma solo bene; così hanno sempre piacere di dirgli il bene compiuto, a volte in termini tali da aumentarlo, per il desiderio di far apparire buone le proprie opere; invece, come diremo, sarebbe umiltà più grande diminuirle e desiderare che né il confessore né alcun altro ne abbia stima. 5. Alcuni di costoro inoltre tengono in poco conto le proprie mancanze, altre volte si rattristano troppo di esservi caduti, pensando che già dovrebbero essere santi e inquietandosi con se stessi impazientemente: il che è un’altra imperfezione. Spesso hanno grande ansia che Dio li liberi da imperfezioni e mancanze, ma più per sentirsi in pace senza molestie che per amore di Dio; senza pensare che se fossero esauditi diverrebbero forse più superbi e presuntuosi. Sono ostili a che si lodino gli altri, ma amici dell’essere lodati, anzi a volte lo pretendono, simili in ciò alle vergini stolte che, avendo le proprie lucerne spente, cercavano olio dalle altre (Mt. 25, 8). 418

6. Di queste imperfezioni alcuni ne hanno molte e molto gravi e per causa loro incorrono in grandi mali; altri ne hanno meno, e altri ancora ne hanno solo i primi moti o poco più; ma pochissimi sono i principianti che nel tempo di questi fervori non cadano in qualcuna di queste imperfezioni. Coloro invece che in questo periodo procedono nella perfezione si comportano in modo molto diverso e con ben diversa tempra di spirito; infatti traggono molto profitto ed edificazione dell’umiltà, non solo non tenendo in nessun conto le proprie cose, ma anche essendo assai poco soddisfatti di sé; ritengono tutti gli altri migliori tanto da averne una santa individia e desiderio di servire Dio come loro. Infatti, procedendo con umiltà, nella misura in cui maggiore si fa in loro il fervore e più numerose le opere buone e più intenso il gusto, tanto più conoscono quanto Dio merita e quanto poco sia quel che fanno per lui; perciò, più fanno e meno sono soddisfatti. Ed è così tanto quel che vorrebbero fare per lui per carità e amore, che tutto sembra loro nulla; e questa sollecitudine d’amore li sollecita, occupa ed assorbe a tal punto da non far caso a quello che gli altri fanno o non fanno; o, se se n’accorgono, come ho detto, pensano che gli altri siano tutti migliori di loro. Perciò, avendo poca stima di sé, desiderano che anche gli altri ne abbiano poca e li tengano in conto di nulla e disistimino ciò che essi fanno. Di più, se qualcuno vuole lodarli e stimarli, in nessun modo vi possono credere e sembra loro cosa strana che se ne dica quel bene. 7. Costoro, con grande tranquillità, desiderano molto che chiunque insegni loro e possa loro giovare: proprio il contrario di coloro di cui prima abbiamo parlato, i quali invece vorrebbero insegnare a tutti e quando sembra che si insegni loro qualcosa subito tolgono la parola di bocca come se già la sapessero. Costoro invece, essendo ben lontani dal voler essere maestri di qualcuno, sono ben pronti a progredire e perciò a prendere una strada diversa da quella 419

che percorrono se ciò venga loro ordinato, persuasi di non riuscire mai in niente. E godono che gli altri vengano lodati, ma solo si danno pena di non riuscire a servire Dio come loro. Né hanno voglia di parlare delle proprie cose, perché le tengono in così poco conto che si vergognano persino di parlarne ai propri maestri spirituali, sembrando loro che non valga la pena parlarne. Desiderano piuttosto manifestare le proprie mancanze e peccati, e che vengano conosciuti, ma non le virtù; così tendono piuttosto a parlare della loro anima a coloro che meno apprezzano le loro cose e il loro spirito, il che è una caratteristica dello spirito semplice, puro, vero e molto gradito a Dio. Infatti, non appena il sapiente spirito divino prende dimora in tali anime, subito le muove ed inclina a custodire i loro tesori in segreto e ad esternarne i loro mali. Infatti Dio dà agli uomini, insieme alle altre virtù, questa grazia, che nega ai superbi. 8. Costoro daranno il sangue del loro cuore a chi serve Dio e per quanto potranno l’aiuteranno a servirlo. Nelle imperfezioni in cui si vedono cadere sopportano se stessi con umiltà e mitezza di spirito e timore amoroso di Dio, sperando in lui. Però, come ho detto, credo che siano pochissime le ar che in principio camminano secondo questo modo di perfezione per cui ci contenteremmo se non cadessero nei difetti contrari. Perciò, come in seguito diremo, Dio pone nella notte oscura coloro che vuole purificare da tutte queste imperfezioni per progredire. CAPITOLO 3 Su alcune imperfezioni che alcuni di costoro sogliono avere riguardo al secondo vizio capitale, cioè l’avarizia, spiritualmente parlando. 1. Molti di questi principianti talvolta hanno anche una 420

grande avarizia spirituale, poiché difficilmente si vedranno contenti dello spirito ricevuto da Dio. Sono molto sconsolati e insoddisfatti perché non trovano la consolazione spirituale che avevano cercato nella cose dello spirito. Molti non si saziano di ascoltare consigli e di apprendere precetti spirituali, di possedere e leggere molti libri che ne trattino, e passano più tempo in tutto questo che nel praticare la mortificazione come dovrebbero, e la perfezione dell’interiore povertà di spirito. Per di più, dunque, si riempiono di immagini e rosari molto ricercati, ed ora ne lasciano uno e ne prendono un altro, li cambiano e ricambiano, e li vogliono ora in un modo ora in un altro, affezionandosi ad una croce piuttosto che a un’altra perché più ricercata. E ne vedrai altri ricoperti di agnusdei e di reliquie e di nomina1, come i bambini di gingilli. Di tali cose condanno lo spirito di proprietà e l’attaccamento che costoro hanno alla qualità, alla quantità e alla ricercatezza di tali oggetti, in quanto è contrario alla povertà di spirito, la quale guarda soltanto alla sostanza della devozione, servendosi unicamente di quanto le è sufficiente, infastidita di quella quantità e ricercatezza; la vera devozione deve infatti salire dal cuore ed aver occhio soltanto per la verità e per la sostanza di ciò che le cose spirituali rappresentano; e tutto il resto è attaccamento e proprietà che sono segno di imperfezione: per giungere a qualche perfezione, si deve spegnere tale appetito. 2. Ho conosciuto una persona che per di più di dieci anni si servì di una croce fatta rozzamente con un ramo benedetto e inchiodata con uno spillo attorcigliato intorno, senza mai abbandonarla e portandola sempre con sé finché non gliela tolsi, e non si trattava di persona di poco senno ed intelligenza. Ne vidi un’altra che pregava con una corona fatta di lische di pesce, ma certamente la sua devozione non per questo era di minor valore dinanzi a Dio, poiché è chiaro che non la riponeva nella fattura o nel valore del rosario. 421

Coloro dunque che fin dall’inizio sono ben incamminati non si attaccano agli strumenti visibili, né se ne caricano, né si danno da fare per sapere più di quanto sia necessario per agire; infatti badano solo a mettersi a posto con Dio ed a piacergli e desiderano solo questo. Perciò danno tutto quello che hanno con grande larghezza e gustano di privarsene per Dio e per la carità del prossimo, sia che si tratti di beni spirituali sia che si tratti di beni temporali, in quanto, come ho detto, hanno di mira solo la vera perfezione interiore, ossia di piacere a Dio e niente affatto a se stessi. 3. Ma di queste imperfezioni, come delle altre, l’anima non può purificarsi completamente finché Dio non la ponga nella purificazione passiva di quella notte oscura di cui diremo più avanti. È perciò necessario che l’anima da parte sua faccia quanto può per perfezionarsi, onde meritare quella sollecitudine divina grazie alla quale Dio la risana di tutto ciò al cui rimedio da sola non giunge; poiché, per quanto faccia, non può purificarsi attivamente nemmeno in modo da essere minimamente disposta all’unione divina di perfezione d’amore, se Dio non la prende per mano e non la purifica in quel fuoco per lei oscuro, nei modi che dovremo dire. CAPITOLO 4 Su altre imperfezioni che di solito i principianti hanno riguardo al terzo vizio, cioè la lussuria. 1. Oltre alle imperfezioni proprie di ciascun vizio, molti principianti ne hanno molte altre di cui non tratto, per non dilungarmi troppo, toccandone solo alcune delle principali, che sono come origine e causa delle altre. Così per quanto riguarda il vizio della lussuria, non dirò del modo in cui vi cadono gli spirituali, dal momento che intendo trattare solo delle imperfezioni delle quali ci si deve purificare per la notte oscura, ma osservo che i principianti 422

hanno molte imperfezioni definibili come lussuria spirituale, non perché sia propriamente tale, ma perché procede da cose spirituali. Infatti spesso accade, durante gli stessi esercizi spirituali e senza che sia impossibile impedirli, che vi verifichino nella sensualità movimenti e atti turpi, talvolta anche quando lo spirito è in intensa orazione o mentre si praticano i Sacramenti della Penitenza o dell’Eucarestia. Questi moti che, ripeto, non sono evitabili, procedono da una delle tre cause seguenti. 2. La prima causa da cui spesso derivano è il gusto stesso che la natura prova nelle cose spirituali; poiché, essendo gustate dallo spirito e dal senso, ciascuna parte dell’uomo è mossa a dilettarsene secondo la propria natura e qualità; perciò lo spi rito, che è la parte superiore, si muove al diletto e al gusto di Dio; mentre la sensualità, che è la parte inferiore, si muove al proprio gusto e diletto, non sapendo rivolgersi né aggrapparsi ad altro e perciò lo fa con ciò che le è più consono, ossia con la turpe sensualità. Accade così che mentre l’anima è con Dio se condo lo spirito in intensa orazione, d’altro lato, secondo il senso, passivamente, non senza grande ripugnanza, soffre ribellioni, movimenti e atteggiamenti sensuali; e ciò accade frequen temente durante la Comunione, poiché l’anima riceve in quest’atto d’amore la gioia e il diletto che il Signore le dà, donandosi a lei proprio per questo, e la sensualità, come abbiamo detto, a suo modo prende la sua parte. E siccome entrambe costituiscono come un supporto, è naturale che partecipino entrambe, ciascuna a suo modo, a ciò che una delle due riceve; infatti, come dice il Filosofo, qualsiasi cosa si riceve, la si riceve al modo del ricevente. E così spesso l’anima riceve lo spirito di Dio in questi inizi, e anche quando essa è ormai più progredita. Ma quando questa parte sensitiva è riformata dalla purificazione della notte oscura di cui diremo, non conosce più queste debolezze; poiché non è più essa che la riceve, bensì è ricevuta nello spirito e dunque tutto accoglie secondo i modi dello spirito. 423

3. La seconda causa da cui a volte procedono queste ribellioni è il demonio, il quale, per inquietare e turbare l’anima mentre è in preghiera o si sforza di restarvi, procura di eccitare nella natura questi turpi movimenti, facendole grande danno qualora essa vi dia importanza. Infatti alcuni, e non solo per timore che ciò li renda fiacchi nella preghiera, che è lo scopo del demonio, per combattere quelle ribellioni l’abbandonano del tutto, sembrando loro che questi fatti le accadano più durante quell’esercizio che fuori di esso; il che è vero, perché il demonio suscita queste inquietudini più lì che altrove, proprio perché essi abbandonino l’esercizio dello spirito. Non solo, ma per atterrire e intimidire l’anima giunge a rappresentare con grande vivezza cose molto brutte e turpi, anzi talvolta così strettamente legate a cose spirituali di ogni sorta ed a persone che giovano alla loro anima, che coloro i quali vi fanno caso non osano guardare né pensare niente senza inciamparvisi subito. A chi è soggetto alla melanconia ciò accade con tanta forza e frequenza da far molta pena, perché costoro soffrono una vita triste; e in alcune persone questo travaglio, che patiscono con cattivo umore, giunge a tal punto che sembra loro chiaro d’avere congiunto con sé il demonio e di non essere libere di evitarlo, anche se alcuni, con grande forza e travaglio, possono in realtà evitare tale congiungimento. Quando queste turpitudini si presentano loro attraverso la melanconia, normalmente essi non se ne liberano fino a che non guariscano da quella specie di umore, a meno che non entrino nella notte oscura dell’anima, che gradatamente libera da tutte queste difficoltà. 4. La terza causa da cui sogliono provenire e far guerra questi turpi movimenti e rappresentazioni di solito è il timore che costoro ne hanno già acquisito; infatti il timore provocato dall’improvviso ricordo che ne hanno, vedendo o trattando o pensando qualcosa, fa sì che, senza colpa, subiscano rappresentazioni di tal genere.

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5. Alcune anime poi sono per natura tanto sensibili e fragili che, appena sentono qualche gusto di spirito o di preghiera, immediatamente sentono in sé anche lo spirito di lussuria, che a tal punto inebria e lusinga la loro sensualità da farle come ingolfare nel gusto del piacere di questo vizio; l’uno e l’altro gusto durano passivamente, così che talvolta costoro non si rendono più conto di aver subìto atti turpi e di ribellione. La causa di ciò è che, in quanto sono per natura sensibili e fragili, come ho detto, qualsiasi alterazione basta a smuoverne gli umori e il sangue, per cui ne scaturiscono quei movimenti; infatti lo stesso accade quando s’accendono d’ira o sono in preda a qualche turbamento o pena. 6. Talvola anche nelle persone spirituali, tanto nel compiere cose spirituali, quanto nel parlarne, si sveglia un certo brio e vivacità, in relazione alle persone che hanno davanti, così che le trattano in qualche modo con gusto vano; e anche ciò nasce da lussuria spirituale nel senso in cui qui la intendiamo e ordinariamente accade con compiacenza nella volontà. 7. Alcuni di costoro poi contraggono affetti per certe persone sul piano spirituale, ma spesso questi affetti non nascono dallo spirito, bensì da lussuria; e che sia così si riconosce dal fatto che con la memoria di quella affezione non cresce anche la memoria e l’amore di Dio ma il rimorso di coscienza. Infatti quando l’affezione è puramente spirituale, col suo crescere cresce anche quella di Dio, e quanto più ce ne ricordiamo tanto più ci ricordiamo di Dio e del desiderio di Dio, così che crescendo nell’una si cresce anche nell’altra; poiché lo spirito di Dio ha la proprietà di accrescere il bene con il bene, per la somiglianza e conformità che vi è tra esso o ogni bene. Ma quando questo amore nasce dal vizio sensuale produce effetti contrari: quanto più cresce l’uno tanto più l’altro diminuisce insieme con la sua memoria; infatti se cresce quell’amore l’anima vedrà subito d’andar raffreddandosi in quello di Dio, 425

dimenticandosi di lui a causa di quel ricordo e provandone rimorso di coscienza; e, al contrario, se nell’anima cresce l’amore di Dio, va raffreddandosi nell’altro e va dimenticandolo, in quanto, trattandosi di amori contrari, non solo non s’aiutano l’un l’altro, bensì quello che predomina estingue e confonde l’altro e rinforza se stesso, come dicono i filosofi. Perciò il nostro Salvatore disse nel Vangelo (Gv. 3, 6) che ciò che nasce dalla carne è carne e ciò che nasce dallo spirito è spirito: l’amore che nasce dalla sensualità termina nella sensualità e quello che nasce dallo spirito termina nello spirito di Dio e l’accresce. Questa è la differenza che consente di riconoscere i due amori. 8. Quando l’anima è entrata nella notte oscura mette ordine in tutti questi amori; infatti fortifica e purifica l’uno, quello secondo Dio, e toglie e spegne l’altro, e da principio, come in seguito si dirà, fa perdere di vista entrambi. CAPITOLO 5 Sulle imperfezioni in cui cadono i principianti riguardo al vizio dell’ira. 1. Molti principianti, a causa della concupiscenza presente nei loro gusti spirituali, ordinariamente mostrano molte imperfezioni riguardo al vizio dell’ira; infatti quando si affievolisce il sapore e il gusto delle cose spirituali, naturalmente si trovano disgustati e con l’insipienza che li distingue agiscono con mala grazia e molto facilmente si adirano per qualsiasi nonnulla, tanto che a volte non c’è chi li sopporti. Il che spesso accade dopo aver molto gustato un raccoglimento sensibile nella preghiera, sicché quando termina quel gusto e quel sapore il loro essere resta naturalmente disgustato e svogliato, proprio come accade al bambino quando l’allontanano dal petto che stava gustando a suo piacimento. In questi effetti naturali, quando non ci si lasci trasportare dalla svogliatezza, non c’è colpa, ma c’è una 426

imperfezione che si deve purificare mediante l’aridità e l’angustia della notte oscura.

Il sepolcro di San Giovanni della Croce nella chiesa dei Carmelitani a Segovia.

2. Tra questi spirituali ve ne sono altri che cadono in una 427

diversa specie di ira spirituale; cioè s’adirano contro i vizi altrui censurandoli con zelo inquieto; e a volte si lasciano prendere dall’impeto di rimproverarli sdegnosamente, atteggiandosi anche a padroni della viriti. Tutto questo è contrario alla mitezza spirituale. 3. Altri ancora quando si vedono imperfetti si adirano con se stessi, privi di umile impazienza; e a questo riguardo hanno tanta impazienza che vorrebbero diventar santi in un giorno. Molti di costoro fanno numerosi e grandi propositi, ma, non essendo umili e non diffidando di sé, quanto più fanno propositi tanto più cadono e s’inquietano, non avendo pazienza di aspettare che Dio conceda loro quel che si sono proposti quando a lui piaccia; ed anche questo è contrario alla mitezza spirituale, né vi si può del tutto rimediare se non con la purificazione della notte oscura. Ma alcuni hanno tanta pazienza nel voler progredire che Dio non vorrebbe vedervene tanta! CAPITOLO 6 Sulle imperfezioni concernenti la gola spirituale. 1. Per quello che concerne il quarto vizio, cioè la gola spirituale, c’è molto da dire, perché è difficile che ci sia qualche principiante che, per bene che proceda, non cada in qualcuna delle molte imperfezioni tipiche di questo vizio, le quali nascono in lui a causa del gusto che all’inizio prova negli esercizi spirituali. Infatti molti di costoro, ingolosendosi del sapore e del gusto che provano in tali esercizi, cercano più il sapore spirituale che la purezza e la discrezione dello spirito, ossia quel che Dio guarda e accetta in tutto il cammino spirituale. Perciò oltre alla imperfezione che consiste già nell’esigere questi sapori, la gola che ne hanno li fa eccedere oltre il giusto limite, di là dal giusto mezzo in cui consistono e si acquistano le virtù. Alcuni infatti, attratti dal gusto che vi 428

provano, s’ammazzano di penitenze ed altri si debilitano con digiuni, facendo più di quanto la loro debolezza non possa sopportare, senza ordine e consiglio; procurano anzi di sfuggire a coloro cui dovrebbero obbedire a questo proposito, ed alcuni osano farlo anche se è stato loro comandato il contrario. 2. Costoro sono imperfettissimi, gente senza ragione, che pospone alla penitenza corporale la sottomissione e l’obbedienza, la quale è penitenza di ragione e discrezione, e perciò è il sacrificio più di tutti gli altri accetto e gradito a Dio. Se si lascia da parte l’altra, la penitenza corporale non è altro che penitenza da bestie, verso cui come bestie si muovono per l’appetito ed il gusto che vi trovano. Tutti gli estremi sono viziosi; dunque con questo modo di procedere costoro fanno la propria volontà e vanno crescendo piuttosto nei vizi che nelle virtù, dal momento che acquistano per lo meno gola spirituale e superbia, poiché ciò che fanno non è secondo obbedienza. E il demonio tanto incalza molti di costoro, attizzando in loro questa golosità per mezzo dei gusti ed appetiti che egli alimenta, che essi, non potendo far altro, o mutano o aggiungono o variano ciò che vien loro comandato, perché ogni obbedienza a questo proposito è per loro aspra. E alcuni giungono a. tanto male che per il fatto stesso di recarsi a compiere questi esercizi per obbedienza ne perdono voglia e devozione, perché la loro unica voglia, e gusto è fare ciò verso cui si sentono mossi, e non perché venga loro ordinato, così che sarebbe forse meglio che non facessero niente di tutto questo. 3. Molti di costoro si mostreranno ostinati con i loro maestri spirituali, affinché concedano loro ciò che vogliono e quasi per forza l’ottengono; in caso contrario se ne rattristano come bambini e procedono di mala voglia, sembrando loro di non servire Dio quando non ottengono il permesso di fare quello che vogliono. Infatti, procedendo 429

appoggiati al proprio gusto e alla propria volontà e facendone il proprio Dio, non appena ne sono distolti e messi nella volontà di Dio, si rattristano, s’infiacchiscono e vengono meno. Costoro pensano che provar gusto ed esser soddisfatti sia servire Dio e piacergli. 4. Altri poi a causa di questa golosità hanno così poca consapevolezza della propria bassezza e miseria e tanto mettono da parte l’amoroso timore e rispetto dovuti alla grandezza di Dio, che non esitano ad insistere molto con i loro confessori affinché li lascino comunicarsi di frequente. E il peggio è che molte volte ardiscono comunicarsi senza il consenso e il parere del ministro e dispensatore di Cristo, seguendo solo il proprio parere e procurando di nascondergli la verità. E per questo motivo, avendo il solo scopo di comunicarsi, fanno le confessioni alla meglio, avendo maggiore desiderio di comunicarsi che di farlo con purezza e perfezione; sarebbe invece più sano e santo avere l’inclinazione contraria, pregando i confessori di non comandar loro di accostarvisi tanto spesso; ma tra l’una e l’altra cosa è sempre preferibile l’umile rassegnazione, perché gli eccessivi ardimenti provocano grandi mali e castighi per tali temerarietà. 5. Costoro comunicandosi fanno di tutto per trarne qualche sentimento o gusto piuttosto che riverire Dio e lodarlo dentro di sé con umiltà; e tanto si attaccano a questo atteggiamento che quando non vi provano gusto o sentimento sensibile pensano di non aver fatto niente; il che significa giudicare molto bassamente di Dio, non intendendo che il più piccolo benefìcio di questo Santissimo Sacramento è quello che riguarda i sensi, essendo ben maggiore quello invisibile della grazia che esso produce; infatti spesso Dio toglie loro altri gusti e sapori sensibili affinché vi pongano solo gli occhi della fede. Così costoro desiderano sentire e gustare Dio come se fosse comprensibile e accessibile, non solo in questo ma anche in tutti gli altri esercizi spirituali, e 430

tutto ciò costituisce imperfezione grave e molto contraria alla natura di Dio, perché è impurità nella fede. 6. Allo stesso modo costoro si comportano nella preghiera, in quanto pensano che tutta l’importanza consista nel prendervi gusto e devozione sensibile, così che si sforzano di procurarsela, come si dice, a forza di braccia, stancando ed affaticando tutte le facoltà e il cervello; e quando non l’ottengono si sconfortano pensando di non aver fatto nulla. E per questa pretesa perdono la vera devozione e lo spirito, che consiste nel perseverare con pazienza e umiltà, diffidando di sé per piacere solo a Dio. Per questo motivo quando non provano gusto in questo o quest’altro esercizio hanno molta difficoltà e ripugnanza a ritornarvi e talora l’abbandonano; insomma, come abbiamo detto, sono simili ai bambini, che non si muovono né agiscono secondo ragione ma per gusto. Tutto il loro impegno è di provare gusto e consolazione di spirito e perciò non si saziano di leggere libri e di fare ora questa ora quella meditazione, andando a caccia di questo piacere nelle cose di Dio; a costoro Dio si nega, molto giustamente, discretamente e amorosamente, perché se così non fosse, a causa di questa golosità e ingordigia spirituale essi crescerebbero in mali non misurabili. Perciò a costoro è necessario entrare nella notte oscura di cui dovremo dire, per purificarsi da questi infantilismi. 7. Chi è così inclinato a tali gusti ha anche un’altra grave imperfezione: ossia è molto fiacco e lento nel camminare per l’aspra via della croce; poiché l’anima che si dà al gustare, naturalmente ha ripugnanza per ogni disgusto connesso alla negazione di sé. 8. Costoro hanno molte altre imperfezioni che scaturiscono da questa, e che il Signore cura gradualmente con tentazioni, aridità e altri travagli, tutti elementi della notte oscura. Non ne tratterò oltre, per non dilungarmi, ma 431

dico solo che la sobrietà e la temperanza spirituale ha un carattere molto diverso di mortificazione, timore e sottomissione in tutte le cose, perché fa vedere come la perfezione e il valore delle cose non sta nel numero delle opere e nel piacere che se ne prova, ma nel saper rinnegarsi in esse; cosa che essi debbono procurar di fare per quanto dipende da loro, finché a Dio non piaccia purificarli realmente introducendoli nella notte oscura, per giungere alla quale concludo rapidamente la trattazione che riguarda queste imperfezioni. CAPITOLO 7 Sulle imperfezioni riguardanti l’invidia e l’accidia spirituale. 1. I principianti non mancano d’aver molte altre imperfezioni anche relative agli altri due vizi, cioè l’invidia e l’accidia spirituale. Infatti, quanto all’invidia, molti di costoro sogliono aver moti di dispiacere per il bene spirituale altrui, provando pene sensibili per il fatto che altri sono più progrediti in questo cammino, né vorrebbero vederli lodare; e poiché si rattristano per le virtù altrui, talvolta non possono nemmeno udirne senza dire il contrario, distruggendo come possono quelle lodi; come si dice, hanno gli occhi fuor della testa perché non si fa altrettanto nei loro riguardi, poiché vorrebbero essere preferiti in tutto. Tutto ciò è affatto contrario alla carità, che, come dice San Paolo (1 Cor. 13, 6), gode della verità; e se l’anima ha qualche invidia, sia un’invidia santa, soffrendo di non avere le virtù altrui ma godendo che altri le abbia e rallegrandosi che tutti la superino nel servizio di Dio, poiché essa vi è tanto manchevole. 2. Per quanto riguarda poi l’accidia spirituale, costoro sogliono tediarsi per le cose più spirituali, come quelle che contraddicono al gusto sensibile e ne rifuggono, perché, essendo tanto golose di assaporare le cose spirituali, quando 432

non vi trovano sapore ne sentono fastidio. Se infatti qualche volta nella preghiera non trovano soddisfazione secondo il proprio gusto — poiché conviene che per provarli Dio s’allontani — non vorranno tornarvi o addirittura l’abbandonano o vi tornano di mala voglia. Così, per quest’accidia, al gusto e sapore della propria volontà pospongono il cammino di perfezione, che è quello della negazione della propria volontà e del gusto di Dio, in modo da soddisfare più la propria volontà che quella di Dio. 3. Molti di costoro vorrebbero che Dio volesse ciò che essi vogliono e si rattristano nel volere ciò che Dio vuole, sentendo ripugnanza nel conformare la propria volontà a quella di Dio. Ne consegue che spesso pensano che non sia volontà di Dio ciò che non si conforma alla propria volontà e al proprio gusto, e credono, al contrario, che Dio si compiaccia di ciò che li soddisfa, misurando Dio con se stessi e non se stessi con Dio, ponendosi affatto in contrasto con quanto egli stesso ci ha insegnato nel Vangelo (Mt. 16, 25), annunciando che colui che perderà la propria volontà per lui la guadagnerà e chi vorrà guadagnarla la perderà. 4. Costoro provano tedio anche quando viene loro comandato ciò che non è di loro gusto. Siccome vanno dietro al diletto e al sapore dello spirito, sono molto fiacchi rispetto alla forza e al travaglio necessari per raggiungere la perfezione: simili in ciò a coloro che si nutrono di diletti e rifuggono con tristezza da ogni cosa aspra e si sdegnano della croce, nella quale sono invece i veri diletti dello spirito. Essi provano tanto più tedio quanto più spirituali sono le cose, poiché, pretendendo di trattarle a loro piacimento e secondo il gusto della loro volontà, provano grande tristezza e ripugnanza nell’entrare nella strada stretta della vita di cui parla Cristo (Mt.7, 14). 5. Basti quanto si è riferito intorno a queste imperfezioni, tra le molte in cui vivono coloro che si trovano in questo 433

primo stato di principianti, per vedere quanto è necessario che Dio li collochi nello stato di proficienti, cioè che li introduca nella notte oscura della quale ora diremo. Qui, divezzandoli dal petto di questi gusti e sapori, mediante pura aridità e tenebre interiori, Dio toglie loro ogni imperfezione e meschinità e fa loro acquistare le virtù con mezzi molto diversi. Infatti, anche se il principiante si esercita molto nel mortificare in sé tutte le proprie azioni e passioni, non potrà riuscirvi né del tutto né molto, sino a che Dio non vorrà che egli vi riesca passivamente, mediante la purificazione di tale notte. Affinché io possa dire qualcosa che sia di profitto, piaccia a Dio di darmi la sua divina luce, così necessaria in una notte tanto oscura e in una materia tanto difficile da esprimere ed esporre. Ecco quindi il verso: In una notte oscura. CAPITOLO 8 Si comincia a parlare di questa notte oscura. 1. Questa notte, che diciamo essere la contemplazione, produce negli spirituali due specie di tenebre o purificazioni, secondo le due parti dell’uomo, quella sensitiva e quella spirituale. E così una notte o purificazione sarà sentitiva, e mediante essa l’anima si purifica secondo il senso conformandolo alio spirito; e l’altra sarà la notte o purificazione spirituale, mediante la quale l’anima si purifica e si spoglia secondo lo spirito, adattandosi e disponendosi all’unione d’amore con Dio. Quella sensitiva è comune e accade a molti, che sono poi i principianti; prima parleremo di questa. Quella spirituale è di pochissimi, cioè dei già esercitati e progrediti: di questa parleremo successivamente. 2. La prima purificazione o notte, come ora diremo, à molto amara e terribile per il senso. La seconda è senza 434

confronti, perché, come più avanti diremo, è orribile e spaventosa per lo spirito. E poiché per ordine e tempo viene prima quella sensitiva, prima diremo brevemente qualcosa intorno ad essa; infatti, essendo più comune, vi sono già molti più scritti dedicati ad essa; tratteremo invece poi più profondamente della notte spirituale, in quanto se ne parla meno, sia nelle pratiche che negli scritti, e pochissimo si esperimenta. 3. Il modo di procedere dei principianti nel cammino di Dio è basso e molto affine con il loro gusto e amor proprio, come abbiamo cercato di spiegare; ora, Dio vuole farli progredire e trarli da questo insufficiente modo di amore ad un grado più alto dell’amor di Dio, liberandoli dal vile esercizio sia del senso sia del discorso, attraverso cui, come abbiamo detto, in modo limitato e con tanti inconvenienti, vanno cercando Dio; ciò allo scopo di porli a quel livello di esercizio spirituale in cui possano comunicare con Dio in modo più ricco e libero da imperfezioni. Infatti si sono esercitati per qualche tempo nel cammino della virtù perseverando nella meditazione e nella preghiera e grazie al sapore e al gusto che ne hanno provato si sono disamorati delle cose del mondo ed hanno acquistato forza spirituale in Dio, onde tengono un po’ a freno gli appetiti per le creature, così da poter soffrire per Dio un poco di afflizione e di aridità senza tornare indietro. Questo avviene nel tempo migliore, ossia quando essi provano maggiore gusto e sapore negli esercizi spirituali e quando più chiara sembra loro la luce solare dei favori divini: ma ecco che Dio oscura questa luce e chiude la porta e la sorgente della dolce acqua spirituale che essi andavano gustando in lui tutte le volte e per tutto il tempo che volevano, mentre quand’erano fiacchi e deboli non v’era per loro nessuna porta chiusa, come dice San Giovanni nell’Apocalisse (3, 8). Così li lascia tanto allo scuro che non sanno dove andare con il senso dell’immaginazione e con il discorso: non possono fare un passo avanti meditando come prima erano soliti fare, in quanto il loro 435

senso interiore è già annegato in questa notte che li lascia così aridi non solo da non provare sapore e gusto nelle cose spirituali e nei buoni esercizi, come solevano, ma da trovare anzi al loro posto disgusto e amarezza; poiché, come ho detto, vedendoli ormai alquanto cresciuti, affinché si rinforzino e si liberino dei pannolini, Dio li allontana dal dolce petto e fattili scendere dalle sue braccia li avvezza a camminare con i propri piedi; e in tutto questo essi sentono una grande novità perché ogni cosa si è per loro voltata alla rovescia. 4. Ciò accade comunemente alle persone devote prima che alle altre, una volta cominciato questo cammino, in quanto sono piu libere da occasioni di regresso e sono più pronte per riformare più rapidamente gli appetiti per le cose del mondo: il che è quanto si richiede per cominciare a entrare nella fortunata notte del senso. Ordinariamente, dopo gli inizi, non passa molto tempo prima che comincino ad entrarvi, e la maggior parte vi entrerà, e generalmente se ne renderà conto vedendosi cadere in queste aridità. 5. Circa i modi di questa purificazione sensitiva, che è tanto comune, potremmo qui portare molti passi della divina Scrittura, dove tanti se ne incontrano ad ogni tratto, specie nei Salmi e nei Profeti. Pertanto non voglio perdervi tempo, perché a chi non sapesse rintracciarli deve bastare la comune esperienza che se ne ha. CAPITOLO 9 Sui segni dai quali si riconosce che lo spirituale va per il cammino di questa notte e purificazione sensitiva. 1. Tali aridità spesso possono provenire non già dalla notte e purificazione dell’appetito sensitivo ma da peccati e imperfezioni, o da fiacchezza e tepidezza, o da qualche cattivo umore o indisposizione corporea; perciò indicherò 436

qui alcuni segni dai quali si riconosce se si tratta dell’aridità connessa a quella purificazione oppure se è derivata da qualcuno dei difetti accennati; riconosco dunque tre segni principali. 2. Il primo segno è che l’anima, come non prova gusto né consolazione nelle cose di Dio, così non ne prova nemmeno in nessuna delle cose create; infatti quando Dio la pone in questa notte oscura non la lascia ingolosire né prender gusto in nessuna cosa, al fine di inaridirla e purificarle l’appetito sensitivo. Da questo si riconosce che con molta probabilità l’aridità e il disgusto non provengono da peccati o da imperfezioni recenti; se così fosse, nella natura dovrebbe sentirsi qualche inclinazione o voglia di altro che non sia Dio, poiché quando l’appetito cade in qualche imperfezione subito l’anima vi si sente inclinata, poco o molto, secondo il gusto e l’affetto che v’ha applicato. Ma poiché il non gustare né le cose celesti né quelle terrene potrebbe provenire da qualche indisposizione o umore melanconico, che spesso toglie il gusto di tutto, è necessario il secondo segno o condizione. 3. Il secondo segno dal quale si può riconoscere la vera purificazione è che ordinariamente l’anima volge la memoria in Dio con sollecitudine e diligenza penosa, pensando di non servire Dio, ma anzi di andare indietro, in quanto si ritrova mancante di gusto per le cose di Dio. Da questo si vede che il disgusto e l’aridità non provengono da fiacchezza o tepidezza; è infatti proprio della tepidezza non preoccuparsi molto né avere sollecitudine interiore per le cose di Dio. Vi è perciò grande differenza fra aridità e tepidezza; infatti la tepidezza ha grande fiacchezza e remissione nella volontà e nell’animo senza alcuna sollecitudine di servire Dio; l’aridità purificativa invece, come ho detto, ha un continuo zelo unito alla preoccupazione e alla pena di non servire Dio. E se anche talvolta questa sollecitudine è 437

accresciuta dalla melanconia o da qualche umore, come spesso accade, non percio tralascia di operare il suo effetto purificatore dell’appetito, poiché l’anima viene privata di ogni gusto e ripone ogni sua cura in Dio solo; quando invece si tratta di puro umore, tutto diventa oggetto di disgusto e ricade a danno della natura, e manca il desiderio di servire Dio proprio dell’aridità purificativa, che rende lo spirito pronto e forte (cfr. Mt. 26, 41), anche se la parte sensitiva fosse molto avvilita, debole e fiacca all’azione a causa del poco gusto che vi prova. 4. La causa dell’aridità dipende dal fatto che Dio indirizza allo spirito i beni e l’energia del senso, e siccome il senso o forza naturale non è capace di ciò che è spirito, esso resta digiuno, arido e vuoto. Infatti la parte sensitiva non è capace di contenere ciò che è puro spirito, ed è per questo che, gustato lo spirito, la carne diventa insipida e fiacca all’operare. Lo spirito, invece, ricevendo nutrimento, procede con forza, con maggior vigilanza e sollecitudine di prima nell’impegno di non venir meno a Dio, e se non sente subito fin da principio sapore e diletto spirituale ma aridità e disgusto, ciò è dovuto alla novità del cambiamento. Infatti, a causa del palato assuefatto ai gusti sensibili — ai quali tuttavia non mira — e dunque non avendo ancora il palato spirituale adattato e purificato per un gusto tanto sottile, finché non vi sarè sufficientemente disposto da quest’arida e oscura notte non potrà percepire il gusto e il bene spirituale, ma sentirà solo aridità e disgusto, nell’assenza di quel che prima godeva con tanta facilità. 5. Coloro che Dio avvia a queste solitudini del deserto sono infatti simili ai figli d’Israele, ai quali, non appena furono nel deserto, Dio cominciò a dare il cibo dal cielo, che per sé aveva tutti i sapori e, come vi si dice (Sap. 16, 20-21), cambiava il sapore a seconda del gusto di ciascuno; e tuttavia essi sentivano ancor più la mancanza del gusto e del sapore delle carni e delle cipolle che avevano mangiato in Egitto, 438

avendo il palato assuefatto e ingolosito più a quei cibi che alla delicata dolcezza della manna angelica; perciò, in mezzo ai cibi del cielo, rimpiangevano la carne e ne lamentavano la mancanza (Num. 11, 4-6). A tanto giunge infatti la bassezza del nostro appetito da farci desiderare le nostre miserie e da farci provar fastidio per il bene incomunicabile del cielo. 6. Quando queste aridità provengono dalla vita purificativa dell’appetito sensibile, sebbene da principio lo spirito non ne senta il sapore, per le ragioni appena dette, sente però la forza e il vigore per agire datigli dalla sostanza del cibo interiore, che, per il senso, è origine di oscura e arida contemplazione; e tale contemplazione, che è occulta e segreta anche per chi la eserciti, insieme con l’aridita e il vuoto che provoca al senso, ordinariamente dà all’anima disposizione e desiderio di starsene sola e in quiete senza poter né voler pensare a nessuna cosa particolare. E se coloro nei quali si verifica sapessero rimanersene quieti, trascurando qualsiasi opera interiore ed esteriore, senza alcuna sollecitudine di fare qualcosa, nella dimenticanza e nel riposo subito sentirebbero la delicatezza di quel nutrimento interiore; ed esso è tanto delicato che ordinariamente, se si ha voglia o preoccupazione di sentirlo, non lo si stente, in quanto, come dico, opera nel massimo riposo e dimenticanza dell’anima ed è come l’aria che, se vogliamo chiuderla in pugno, sfugge. 7. A questo proposito possiamo intendere quel che lo Sposo dice alla Sposa nel Cantico (6, 4): Allontana da me i tuoi occhi, poiché mi fanno volare; infatti Dio pone l’anima in uno stato così particolare e la conduce per un cammino tanto diverso che se essa volesse operare con le proprie potenze anziché assecondarlo, disturberebbe l’opera che Dio va facendo in lei, mentre prima accadeva il contrario. Ciò perché in questo stato di contemplazione — ossia quando l’anima esce dal livello del discorso ed entra nello stato dei proficienti — è ormai Dio che opera in lei, e perciò le lega le 439

potenze interiori, non lasciandole appoggi all’intelletto, né gusto nella volontà, né discorso nella memoria. Infatti, in questo tempo, ciò che l’anima può fare da parte sua, come abbiamo detto, non serve che a disturbare la pace interiore e l’opera che Dio compie nello spirito in quell’aridità del senso. Ed essendo quest’opera spirituale e delicata, ha un’azione quieta, delicata, solitaria, soddisfacente e pacifica, molto lontana da tutti i gusti precedenti, che erano del tutto palpabili e sensibili; si tratta infatti di quella pace a proposito della quale David dice: Dio vi parla nell’anima per renderla spirituale. E di qui il terzo segno. 8. Il terzo segno per riconoscere questa purificazione del senso e l’impossibilità ormai di meditare e di discorrere secondo i modi dell’immaginazione come in passato, sebbene l’anima per parte sua faccia il possibile. Poiché infatti in questo stato Dio comincia a comunicarsi non più mediante il senso, come prima faceva per mezzo del discorso il quale compone e divide le notizie, bensì mediante il puro spirito, in cui non c’è successione di ragionamento, comunicandosi egli all’anima con un atto di semplice contemplazione; a quest’ultima non possono giungere i sensi della parte inferiore, né esterni né interni, perciò 1’immaginativa e la fantasia non possono trovare appoggio in nessuna considerazione né ormai, d’ora in poi, potranno più fermarvisi. 9. Riguardo a questo terzo segno si deve ricordare come questo impedimento delle potenze e del loro gusto non derivi da qualche cattivo umore; se infatti ne provenisse, col venir meno di quell’umore, che è sempre variabile, l’anima che appena vi si sforzi torna a potere come prima e le sue potenze trovano il loro appoggio; questo invece non accade nella purificazione dell’appetito, in quanto l’anima, allorché ha cominciato ad entrarvi, accresce sempre più l’impossibilità di discorrere mediante le proprie potenze. E se è vero che talvolta in alcuni all’inizio la purificazione non 440

agisce con tanta continuità da non permettere qualche volta di seguire i loro gusti e discorsi sensibili — infatti per la loro debolezza non converrebbe forse divezzarli di colpo —, tuttavia vi si addentrano sempre più e, se devono progredire, cesseranno d’agire secondo i modi della sensibilità. Invece coloro che non camminano per la via della contemplazione hanno un modo di procedere molto diverso, poiché questa notte di aridità riguardo al senso in loro non è continua, bensì ora c’è ora no; inoltre, alcuni possono usare il discorso ed altri no. Infatti, essendo Dio solo che li mette in questa notte, per esercitarli e umiliarli e riformare il loro appetito, affinché non vadano alimentando una viziosa golosità nelle cose spirituali e non per condurli alla vita dello spirito, ossia alla contemplazione — Dio non eleva alla contemplazione tutti quelli che di proposito si esercitano nel cammino dello spirito, anzi nemmeno la metà: e il perché lo sa lui — ne consegue che in costoro in realtà il senso non giunge mai a distaccarsi dalle considerazioni e dai ragionamenti, ma, come abbiamo detto, solo ogni tanto e per breve tempo. CAPITOLO 10 Come costoro debbano comportarsi in questa notte oscura. 1. Pertanto nel tempo delle aridità di questa notte sensitiva — nella quale Dio opera il cambiamento di cui s’è parlato, portando l’anima dalla vita del senso a quella dello spirito, ossia dalla meditazione alla contemplazione, dove essa non può più operare né discorrere delle cose di Dio con le proprie potenze, come abbiamo detto — gli spirituali soffrono grandi pene non tanto per le aridità a cui sono soggetti, quanto per il timore d’andar perduti per tale via, pensando che per loro sia esaurito il bene spirituale e che Dio li abbia abbandonati, dal momento che non trovano alcun appoggio né gusto nelle cose buone. Allora s’affaticano e, come erano abituati, cercano d’appoggiare con qualche gusto le loro potenze a qualche oggetto di discorso, 441

pensando di non poter nulla qualora non agiscano così; e questo lo fanno non senza grande dispiacere e interiore ripugnanza dell’anima, alla quale piacerebbe invece starsene nella quiete e nel riposo senza agire con le proprie potenze. Così si sciupano in una cosa senza trarre profltto nell’altra, perché, per cercare lo spirito, perdono lo spirito di tranquillità e di pace che già avevano. E così sono simili a colui che lascia quanto ha fatto per tornare a farlo, o a chi esce dalla città per torn are sui suoi passi e rientrarvi, o a chi lascia la preda già catturata per tornare a caccia. Il che ora è inutile perché, come è stato detto, con il primo modo di procedere ormai non si otterrà nulla. 2. E se in questo tempo costoro non abbiano chi li comprenda, tornano indietro abbandonando o rallentando il cammino, o per lo meno da se ostacolano il proprio progredire, usando grandissima cura nel procedere sul cammino della meditazione e del discorso, affaticando e travagliando eccessivamente la natura; sono infatti persuasi di non progredire a causa della propria negligenza o dei propri peccati. Ma questo è inutile, perché Dio li conduce ormai per altro cammino, quello della contemplazione, affatto diverso dal primo; l’uno infatti si serve della meditazione e del discorso, l’altro non cade né nel’immaginazione né nel discorso. 3. Coloro che si vedono in questo stato si debbono consolare perseverando nella pazienza, senza appenarsi; confidino in Dio, il quale non abbandona coloro che lo cercano con cuore semplice e retto, e non mancherà di dar loro quant’è necessario per il cammino fino ad elevarli alla chiara e pura luce d’amore; questa sarà offerta loro mediante la notte oscura dello spirito, se essi meriteranno che Dio ve li introduca. 4. Il comportamento che devono tenere nella notte del senso è di non curarsi affatto del discorso e della 442

meditazione, perché per loro ne è passato il tempo, bensì di lasciare la propria anima in riposo e quiete, sebbene a loro possa sembrare di non far niente e di perder tempo e di non aver voglia di nulla a causa della tepidezza: faranno molto invece se persevereranno nella pazienza e nella preghiera, senza nulla operare. L’unica cosa che devono fare in questo stato è lasciare 1’anima libera, sgombra e aliena da ogni notizia o pensiero, non preoccupandosi di ciò su cui debbano pensare e meditare, accontentandosi d’avere solo un’avvertenza amorosa e tranquilla in Dio e di starsene senza sollecitudine né sforzo, né desiderio di gustarlo o sentirlo; ogni pretesa, infatti, inquieta e distrae l’anima dalla pacifica quiete e dal soave ozio di contemplazione che le viene concesso. 5. Sebbene s’affaccino loro molti scrupoli di perder tempo e di non compiere altri doveri, soffrano pure e se ne stiano tranquilli se durante la preghiera non possono né fare né pensare alcunché, poiché non vanno ad essa che per rimanervi a piacimento e con larghezza di spirito; se infatti vorranno far qualcosa per conto proprio con le potenze interiori, turberanno e perderanno quei beni che Dio sta ponendo e imprimendo in loro mediante la pace e la quiete dell’anima; come se un pittore stesse dipingendo e colorando un volto e questo si dimenasse per far qualcosa d’altro, il che non permetterebbe al pittore di dipingere, anzi turberebbe ciò che stava facendo. Così quando l’anima desidera starsene in pace e in quiete interiore, qualsiasi opera o affetto o attenzione che ella vorrà assumere la distrarrà e inquieterà e le farà avvertire l’aridità e il vuoto del senso; infatti, quanto più pretenderà d’aver qualche appoggio negli affetti o nelle nozioni, tanto più ne sentirà la mancanza, che non può invece essere supplita per quella via. 6. Perciò ora 1’anima non deve preoccuparsi se le vengano meno le operazioni delle potenze, anzi deve esser lieta di perderle presto, per ricevere con maggiore pacifica 443

abbondanza e senza molestie l’opera della contemplazione infusa che Dio va concedendole; e all’amore che questa contemplazione oscura e segreta porta con s’ e le comunica dia la possibilità di ardere e infiammarsi nello spirito. Infatti la contemplazione non è altro che un’infusione segreta, pacifica e amorosa di Dio, che, lasciata libera, infiamma l’anima nello spirito d’amore, secondo quanto ella fa intendere nel verso seguente, cioè: d’amorose ansie infiammata. CAPITOLO 11 Si spiegano i tre versi della strofa. 1. Questa fiamma d’amore di solito all’inizio non si sente, perché non ha ancora conquistato l’anima a causa dell’impurità della sua natura o perchè essa non le lascia tranquillamente spazio, in quanto ancora non comprende se stessa: sebbene talvolta l’anima, come abbiamo detto, cominci subito a provare ansioso desiderio di Dio, volendolo o no, e quanto più il desiderio cresce tanto piu l’anima si sente devota e infiammata d’amor di Dio, senza sapere né capire come e donde le provenga questo delicato amore ed affetto. Ma talvolta vede crescere in sé questa fiamma ed incendio tanto da desiderare Dio con ansia d’amore, come David, trovandosi in questa notte, così dice di sì (Sal. 72, 2122): Poiché s’è infiammata il mio cuore; cioè, nell’amore, nell’amore di contemplazione, mutarono anche i miei reni, ossia: i miei appetiti di affetti sensibili passarono dalla vita sensitiva alla vita spirituale, vale a dire all’aridità e alla cessazione di tutti quelli di cui stiamo parlando; ed io — prosegue — fui ridotto a niente e annicchilito senza saperlo; infatti, come abbiamo detto, l’anima, senza sapere dove va, si vede annichilita quanto a tutte le cose celesti e terrene che soleva gustare e soltanto si vede innamorata senza sapere né come né perché. E a volte la fiamma d’amore cresce tanto 444

nello spirito e le ansie per Dio sono così divampanti nell’anima che le ossa le sembrano disseccarsi, e la natura avvizzirsi e il suo calore e forza langnire grazie alla forza e alla vivezza della sete d’amore che l’anima sente tanto vivace. Anche David (Sal. 41, 3) l’aveva e la provava quando disse: La mia anima ebbe sete di Dio vivo; vale a dire: viva fu la sete che la mia anima provò. E questa sete, proprio perché è tanto viva, possiamo dire che fa morir di sete. Ma bisogna osservare che la veemenza di questa sete non è continua, bensì sporadica, anche se di solito l’anima ne prova. 2. Però, come ho cominciato a dire, si deve ricordare che all’inizio non si sente questo amore, ma solo l’aridità e il vuoto di cui stiamo dicendo; perciò, in luogo di questo amore che poi avvamperà, ciò che l’anima consegue in tale aridità e vuoto delle potenze è una continua cura e sollecitudine per Dio, con pena e timore di non servirlo; ed è un sacrificio molto gradito a Dio vedere che lo spirito va tribolato e sollecitato per suo amore (Sal. 50, 19). Questa sollecitudine e cura introducono già nell’anima quella segreta contemplazione, fino a che, col tempo — avendo un poco purificati i sensi, ossia la parte sensitiva, dalle forze e affezioni naturali mediante le aridità che vi pone — Dio andrà ormai accendendo nello spirito questo divino amore. Nel frattempo, però, come avviene a colui che è in cura, ogni cosa è sofferenza in questa oscura e arida purificazione dell’appetito, e l’anima guarisce da molte imperfezioni e si esercita in molte virtù per rendersi capace di quell’amore, come ora si dirà spiegando il verso seguente: o felice ventura! 3. Dio pone l’anima in questa notte sensitiva al fine di purificare il senso della parte inferiore e di conformarlo, sottometterlo ed unirlo con lo spirito, ottenebrandolo e facendone cessare i discorsi; similmente, in seguito la porrà nella notte spirituale, al fine di purificare lo spirito per unirlo 445

con Dio, come si dirà; e l’anima, quantunque non le sembri, ne guadagna tanti vantaggi da ritenere felice ventura l’essere uscita dal laccio e dalla prigionia del senso della parte inferiore mediante tale notte. Perciò il presente verso dice: o felice ventura! A questo proposito conviene ora notare i vantaggi che 1’anima incontra in questa notte, onde reputa buona ventura attraversarla. Tutti questi vantaggi per Tamma si racchiudono nel verso seguente: uscii, né fui notata. 4. Si allude qui all’uscita dalla soggezione che l’anima subiva rispetto alla parte sensitiva, quando cercava Dio per mezzo di operazioni tanto fiacche, limitate e pericolose come sono quelle della parte inferiore; infatti ad ogni passo inciampava in mille imperfezioni e ignoranze, come abbiamo prima osservato parlando dei sette vizi capitali. Di tutti questi si libera, poiché la notte le spegne tutti i gusti celesti e terreni e le oscura tutti i discorsi, procurandole altri innumerevoli beni nell’acquisto delle virtù, come ora diremo. Sarà gradevole e di grande consolazione per chi cammina per questa strada vedere come una sola cosa che sembra tanto aspra e ripugnante all’anima, e tanto contraria al gusto spirituale, operi invece in lei così grandi beni. L’anima consegue questi beni, come abbiamo detto, uscendo da tutte le cose create, mediante questa notte e secondo le sue affezioni e operazioni, per camminare verso le eterne: questa è la grande ventura di cui s’è detto. Anzitutto perché è un grande bene spegnere l’appetito e l’affetto per tutte le cose; in secondo luogo, perché sono pochissimi coloro che soffrono e perseverano per entrare per questa porta angusta e per la strada stretta che guida alla vita, come dice il nostro Salvatore (Mt. 7, 14). La porta angusta è infatti la notte del senso, del quale l’anima si spoglia e denuda, per entrarvi fondandosi sulla fede, che è aliena da ogni senso, per poi camminare lungo la strada stretta, ossia nella notte dello spirito, dove l’anima 446

successivamente entra per volgersi a Dio in pura fede; la fede infatti è il mezzo per il quale l’anima si unisce con Dio. Questo cammino è tanto stretto, oscuro e terribile — come diremo, la sua oscurità e i suoi travagli non sono paragonabili a quelli della notte del senso — che pochi lo percorrono, ma i suoi vantaggi sono senza paragone molto più grandi. Cominceremo ora a dirne qualcosa, con la maggior brevità possibile, per passare a parlare dell’altra notte. CAPITOLO 12 Sui vantaggi che questa notte produce nell’anima. 1. Questa notte o purificazione dell’appetito, fortunata per l’anima, vi produce tanti beni e vantaggi — sebbene dapprima, come abbiamo detto, sembri che glieli tolga — che come Abramo fece una grande festa quando divezzò il figlio Isacco (Gn. 21, 8), così in cielo ci si rallegra allorché Dio toglie quest’anima dalle fasce, la depone dalle braccia e la fa camminare sui suoi piedi; anche perché, tolto il latte del petto e il tenero e dolce cibo dei bambini, Dio le fa mangiare pane con crosta, sì che essa incomincia a gustare il cibo di chi è robusto: il cibo, cioè, che in queste aridità e tenebre del senso si comincia a dare allo spirito ormai vuoto e arido di ogni gusto del senso, awiato alla contemplazione infusa di cui abbiamo parlato. 2. E questo è il primo e principale vantaggio prodotto dall’arida e oscura notte di contemplazione: la conoscenza di sé e della propria miseria. Sebbene infatti tutti gli altri doni che Dio fa all’anima ordinariamente siano racchiusi in tale conoscenza, ora 1’aridita e il vuoto delle potenze di fronte all’abbondanza che l’anima prima sentiva e alla difficoltà che essa incontra nelle cose buone le fanno riconoscere la propria bassezza e miseria, quella che non poteva vedere nel tempo della sua prosperità. Ne abbiamo un’efficace immagine nell’Esodo (33, 5), là 447

dove Dio, volendo che i figli d’Israele si umiliassero e si conoscessero, comandò loro di deporre e di spogliarsi dell’abito e dell’ornamento festivo con cui nel deserto andavano ordinariamente abbigliati, ordinando: D’ora in pot spogliatevi dell’ornamento festivo e mettetevi le vesti comuni da lavoro, affinché conosciate il trattamento che meritate; intendendo: poiché l’abito che portate, in quanto è di festa e di gioia, vi dà l’occasione di non sentire di voi tanto bassamente come invece meritate, toglietevelo, affinché da questo momento, vedendovi vestiti in modo vile, riconosciate di non meritare nulla, e conosciate chi voi siete. Di qui la verità della propria miseria, che prima l’anima non conosceva; poiché nel tempo in cui procedeva come in festa, trovando in Dio gusto e consolazione e aiuto, essa se ne andava soddisfatta e contenta, parendole in qualche modo di servire Dio. Tutto questo, per lo meno, si insinua nella soddisfazione che l’anima trova nel gusto, sebbene non ne abbia chiara coscienza; mentre quando è ormai rivestita dell’altro abito di travaglio, di aridità e di abbandono, oscurata rispetto alle luci di prima, in realtà è molto più veracemente illuminata in questa virtù della conoscenza di sé, tanto eccellente e necessaria che le consente di non aderire più a niente e di non provare alcuna soddisfazione di sé, poiché vede che da sé non fa nulla né può far nulla. Dio tiene in maggior considerazione e stima questa poca soddisfazione di sé e questo sconforto di non servire Dio, che non tutte le opere che prima compiva e i gusti che provava, per quanto notevoli fossero, in quanto le erano occasione di gravi imperfezioni e di ignoranza; e da quest’abito di aridità non nascono solo i vantaggi di cui abbiano parlato ma anche quelli molto maggiori di cui ora diremo e che mostreremo procedere dalla conoscenza di sé come da propria fonte e origine. 3. Quanto al primo vantaggio, nei rapporti con Dio nasce nell’anima una maggiore gentilezza e cortesia, che è il tratto che si deve sempre avere con l’Altissimo e che invece era 448

assente nel tempo della prosperità, del gusto e della consolazione; perché il saporoso gusto che allora provava faceva si che il suo appetito verso Dio divenisse alquanto audace e sgarbato e imprudente. Così accadde a Mosè quando sentì che Dio gli parlava: accecato da quel gusto e appetito, senza pensare ad altro avrebbe osato accostarsi se Dio non gli avesse ordinato di fermarsi e scalzarsi. Si vuole qui indicare il rispetto e la discrezione con cui si deve trattare con Dio, spogliandosi dell’appetito; perciò quando Mosè gli obbedì agì con tanta ragione e prudenza che, come dice la Scrittura, non solo non osò avvicinarsi, ma nemmeno osava alzare lo sguardo (Es. 3, 2-6); infatti, toltisi i calzari degli appetiti e dei gusti, riconobbe ampiamente la propria miseria davanti a Dio, cosa che gli era necessaria per poter ascoltare la sua parola. Allo stesso modo, le disposizioni che Dio diede a Giobbe per parlargli non furono quei diletti e quella gloria che egli riferisce d’aver avuto solitamente con il suo Dio (Giobbe I, 18), ma comportarono che se ne stesse nudo nel letamaio, abbandonato e anzi perseguitato dai suoi amici, pieno d’angustia e d’amarezza sulla terra cosparsa di vermi (29-30); allora PAltissimo Iddio, che solleva il povero dallo stereo (Sal. 112, 7), si degnò di scendere e di parlare faccia a faccia con lui, rivelandogli le grandi, profonde altezze della sua sapienza, come mai aveva fatto nel tempo della sua prosperità (Giobbe 38-42). 4. Conviene ora notare un altro eccellente vantaggio che si incontra nella notte e nell’aridità dell’appetito sensitivo, poiché vi ci siamo imbattuti; ed è che in questa notte oscura dell’appetito — affinché si verifichi ciò che dice il profeta (Is. 58, 10), ossia: Risplenderà la tua luce nelle tenebre — Dio illuminerà l’anima, facendole conoscere non solo la sua bassezza e miseria, come abbiamo detto, ma an che la grandezza ed eccellenza di Dio. Spenti infatti gli appetiti e i gusti e gli aiuti sensibili, l’intelletto resta puro e libero per intendere la verità — in quanto il gusto sensibile e l’appetito, 449

quantunque di cose spirituali, offusca ed ostacola lo spirito — e più ancora l’intelletto è illuminato e avvivato da quell’angustia e aridità del senso, come dice Isaia, cioè: Il travaglio fa capire (28, 19). Così fa Dio coll’anima nuda e libera da impediment!, posta cioè nelle condizioni necessarie per l’influenza divina: per mezzo di questa notte oscura ed arida di contemplazione, come abbiamo detto, va istruendola soprannaturalmente nella sua divina sapienza, il che non aweniva mediante i gusti e i diletti di prima. 5. Lo stesso prof eta Isaia lo fa ben comprendere là dove dice: A chi insegnerà Iddio la sua scienza e a chi farà udire la sua parola? A coloro che sono divezzati e sono staccati dal petto, facendo capire che per accogliere questo divino influsso non servono come disposizione il latte della soavità spirituale, né l’alimento dei saporosi discorsi delle potenze sensitive che prima l’anima gustava, ma, al contrario, serve la mancanza dell’uno e il distacco dall’altro. Infatti, per ascoltare Dio è necessaria all’anima una grande attenzione e l’esser priva del sostegno d’affetti e di sensi, come dice di sé il profeta (Ab1. 2, 1): Starò in piedi in vedetta, cioè senza sostegno di appetito, e fermerò il passo, cioè non discorrerò con il senso, per contemplate, cioè per capire quanto mi verrà detto da parte di Dio. Pertanto sappiamo ormai che da questa arida notte anzitutto proviene la conoscenza di sé, dalla quale come dal suo fondamento scaturisce la conoscenza di Dio. Perciò Sant’Agostino2 chiedeva a Dio: Che io mi conosca, Signore, e conoscerò te. Infatti, come affermano i filosofi, un estremo si conosce bene attraverso l’altro. 6. E per dimostrare più chiaramente con quale efficacia questa notte sensitiva, con la sua aridità e il suo distacco, consente all’anima di ricevere da Dio la luce di cui abbiamo detto, riferiremo il testo di David (Sal. 62, 3) in cui si fa ben comprendere la grande importanza della notte per questa profonda conoscenza di Dio. Dice infatti: Nella terra deserta, 450

senz’acqua, sterile e senza strada ti sono comparso davanti per poter vedere la tua virtù e la tua gloria. Ed è mirabile come qui David ci faccia capire che non le delizie spirituali e i molti gusti che aveva avuto, ma l’aridità e il distacco della parte sensitiva, qui raffigurati nella terra arida e deserta, fossero disposizioni e mezzo per conoscere la gloria di Dio; è inoltre mirabile come non dica che i concetti e i discorsi divini, dei quali si era molto servito, gli siano stati cammino per sentire e vedere la potenza di Dio, bensì piuttosto l’impossibilità di fissare in Dio il concetto e l’inanità del procedere secondo il discorso della considerazione immaginaria, che è raffigurata nella terra senza strada. Dimodoché il mezzo per conoscere Dio e se stessi è dato in questa notte oscura, con le sue aridità e i suoi vuoti, e non nella pienezza e nell’abbondanza di quella dello spirito, in quanto questa conoscenza è come il principio dell’altra. 7. Nelle aridità e nei vuoti di questa notte dell’appetito l’anima consegue anche l’umiltà spirituale, che è la virtù contraria al primo vizio capitale, che abbiamo detto essere la superbia spirituale; mediante questa umiltà, che acquista nella conoscenza di sé di cui abbiamo detto, l’anima si purifica di tutte quelle imperfezioni circa il vizio della superbia nelle quali cadeva nel tempo della sua prosperità. Vedendosi infatti tanto arida e miserabile, non si crede migliore degli altri nemmeno per moto istintivo, nà le sembra d’avere qualche vantaggio rispetto a loro, come prima le accadeva, anzi, al contrario, riconosce che gli altri progrediscono più di lei. 8. Di qui nasce l’amore del prossimo, perché non lo stima e giudica come era solita fare quando vedeva se stessa piena di fervore e gli altri no. Ora conosce solo la propria miseria e vi tiene fissi gli occhi a tal punto da non poterli porre su nient’altro, come mirabilmente dice David trovandosi in tale notte: Ammutolii efui umiliato e nei beni rimasi in silenzio e si rinnovò il mio dolore (Sal. 38, 3). Dice questo sembrandogli 451

esauriti i beni della propria anima, tanto da non avere e da non trovare parola riguardo ad essi e da rimanere muto anche riguardo a quelli altrui, per il dolore provocatogli dalla conoscenza della propria miseria. 9. In tal modo le anime diventano sottomesse e obbedienti lungo il cammino spirituale; vedendosi infatti tanto miserabili, non solo ascoltano quanto vien loro insegnato, ma desiderano che chiunque le indirizzi e dica loro che cosa debbono fare, perdendo la presunzione affettiva che invece avevano nella prosperita. E inflne, andando avanti, si purificano di tutte le altre imperfezioni che abbiamo osservato in rapporto al primo vizio che è la superbia spirituale. CAPITOLO 13 1. In questa notte arida e oscura Panima procede corretta quanto alle sue imperfezioni riguardo all’avarizia spirituale, per cui era avida ora d’una ora di un’altra cosa dello spirito e non si sentiva mai soddisfatta dell’uno o dell’altro esercizio per la cupidigia del gusto e dell’appetito che vi provava. E siccome ora non vi trova più il solito gusto e sapore, anzi disgusto e travaglio, ne usa con tanta temperanza che potrebbe forse addirittura perdersi per l’insufficienza con cui ne usa, così come prima rischiava di perdersi per l’eccesso opposto. Ma a coloro che Dio pone in questa notte comunemente dà umiltà e prontezza, anche se accompagnate da disgusto, affinché essi facciano solo per Dio ciò che vien loro comandato e trascurino molte cose non provandovi gusto. 2. Si vede chiaramente come mediante questa aridità e disgusto nel senso che trova nelle cose spirituali, anche riguardo alla lussuria spirituale l’anima si libererà da quelle impurità che abbiamo descritto, in quanto, come abbiamo detto, comunemente esse le provenivano dal gusto che 452

ridondava dallo spirito nel senso. 3. Delle imperfezioni circa il quarto vizio, cioe la gola spirituale, di cui 1’anima si libera in questa notte oscura, abbiamo già parlato, anche se non di tutte, essendo innumerevoli; così non ne parlerò ora, volendo terminare il discorso su questa notte per passare all’altra, intorno alla quale ci resta da fare un discorso importante e da spiegare una dottrina di grande rilievo. Per capire gli innumerevoli vantaggi che, oltre a quelli già detti, 1’anima guadagna in questa notte circa il vizio della gola spirituale, basti dire che essa si libera di tutte quelle imperfezioni di cui abbiamo parlato, e di molti altri maggiori mali e pessimi abomini, dei quali, ripeto, non abbiamo trattato; sono mali, come abbiamo sperimentato, in cui molti incorrono per non essersi corretti nell’appetito in questa golosità spirituale. In questa notte arida e oscura in cui pone 1’anima, Dio tiene infatti frenata la concupiscenza e 1’appetito, in modo che non possa cibarsi di alcun gusto o sapore sensibile di cose né celesti né terrene; e continua così in modo tale che 1’anima resta ordinata, riformata e mortificata nei confronti della concupiscenza e dell’appetito, perde la forza delle passioni e la concupiscenza e, non facendo uso del gusto, si rende sterile, così come si disseccano i decorsi del latte quando il bimbo tralascia di succhiare il latte dalle mammelle. Similmente, disseccati gli appetiti dell’anima, mediante questa sobrieta spirituale si conseguono altri mirabili vantaggi: spenti gli appetiti e le concupiscenze, 1’anima vive nella pace e nella tranquillità spirituale; dove non regnano appetito e concupiscenza non c’è infatti turbamento, ma pace e consolazione di Dio. 4. Da questo vantaggio ne proviene un altro, consistente nel fatto che l’anima ordinariamente ricorda Dio con timore e, come abbiamo detto, col dubbio di tornare indietro nel cammino spirituale; questo è un grande vantaggio, non certo fra i minori, in questa aridità e purificazione dell’appetito, in 453

quanto l’anima si purifica e si monda delle imperfezioni che la contagiavano a causa degli appetiti e degli affetti che per se stessi la ottundono e la offuscano. 5. In questa notte si consegue un altro grandissimo beneficio per l’anima: essa infatti vi esercita più virtù insieme, come la pazienza e la longanimità, le quali si praticano bene in questo vuoto e in questa aridità, perche si soffre perserverando negli esercizi spirituali, pur senza averne né consolazione né gusto. L’anima inoltre vi esercita la carità di Dio, mossa non dal gusto allettante e dilettevole che prova operando, ma per Dio solo. Esercita anche la virtù della fortezza, poiché nelle difficoltà e nei disgusti che prova nell’operare trae forze dalla fiacchezza e così si irrobustisce. In queste aridità l’anima si esercita infine in tutte le virtù, teologali, cardinali e morali, sul piano sia corporale che spirituale. 6. E che in questa notte l’anima consegua i quattro beneiici di cui abbiamo detto — ossia diletto di pace, continua memoria e sollecitudine di Dio, candore e purezza d’animo e la pratica delle virtù di cui abbiamo trattato — ce lo dice David (Sal. 76, 3-4) con queste parole, avendolo sperimentato in questa stessa notte: La mia anima sdegnò le consolazioni, mi ricordai di Dio e trovai conforto, mi esercitai e il mio spirito venne meno; e prosegue (v. 7): Meditai di notte nel mio cuore, mi esercitai e mondai e purificai il mio spirito, che significa: lo liberal da tutte le affezioni. 7. In questa aridità dell’appetito l’anima si purifica anche delle imperfezioni dei tre vizi spirituali dei quali abbiamo detto, ossia ira, invidia e accidia, ed acquisisce le virtù ad essi contrarie; infatti, temprata ed umiliata da queste aridità e difficoltà e da altre tentazioni e travagli in cui talvolta Dio la esercita nella notte, essa diviene mansueta con Dio e con se stessa, ed anche con il prossimo; in tal modo non si sdegna alterandosi conto se stessa per le proprie mancanze, né 454

contro il prossimo per le sue, né si disgusta e si lamenta eccessivamente nei confronti di Dio per il fatto che non le dona una rapida perfezione. 8. Ed anche per quanto riguarda l’invidia, ha carità verso gli altri; poiché, se pur ne prova, non è viziosa come di solito era prima, quando s’appenava che gli altri le fossero preferiti o fossero più progrediti di lei; ora invece si dà per vinta vedendosi tanto miserabile, e se prova invidia è virtuosamente, in quanto cioè desidera imitare gli altri, il che è virtè grande. 9. Anche l’accidia e il tedio che ora può sentire riguardo alle cose spirituali non sono più viziosi come prima; poiché prima quei vizi procedevano dai gusti spirituali che talvolta provava o che forse addirittura pretendeva quando non li provava; invece ora questi tedî non provengono dalla fiacchezza del gusto in quanto in questa puriflcazione dell’appetito Dio le ha tolto il gusto di tutte le cose. 10. Mediante l’arida contemplazione l’anima, oltre a quelli dei quali si è detto, consegue altri innumerevoli benefici; infatti spesso, in mezzo a queste aridità e angustie, quando meno ci si pensa, Dio comunica all’anima soavità spirituale e amore purissimo e notizie spirituali, talora molto delicate, ciascuna di utilità e valore assai maggiori rispetto a quelle gustate precedentemente; e questo accade anche se da principio l’anima non pensi che sia così, essendo molto delicata e non percepibile da parte del senso l’influenza spirituale che ora le viene elargita. 11. Infine, in quanto l’anima si purifica degli affetti e degli appetiti sensitivi, acquista libertà di spirito, nella quale è possibile ricevere i dolci frutti dello Spirito Santo. In questo stato essa si libera mirabilmente anche degli artigli dei tre nemici, mondo, demonio e carne; spegnendosi infatti il sapore e il gusto sensibile nei confronti delle cose, né demonio né mondo né sensualità hanno forze ed armi 455

contro lo spirito. 12. Queste aridità fanno dunque procedere l’anima con purezza nell’amore di Dio; essa ormai non è mossa ad operare per il gusto o per il sapore di ciò che fa, come era forse quando provava questi sentimenti, ma solo per piacere a Dio. Diviene non presuntuosa né soddisfatta, come invece soleva forse essere nel tempo della prosperità, ma timorosa e sospettosa di sà, non provando mai alcuna soddisfazione di sé: in ciò consiste infatti il santo timore che conserva ed accresce le virtò. Quest’aridità spegne anche le concupiscenze e le vivacità naturali, come pure s’è detto; poiché qui, tranne il gusto che Dio da sé talvolta le infonde, come abbiamo detto, difficilmente l’anima prova gusto e consolazione per opera propria in qualche atto o esercizio spirituale. 13. In questa notte arida si accresce in lei il pensiero di Dio e l’ansia di servirlo, poiché, essiccandosi la sensualità con cui sosteneva a nutriva gli appetiti che inseguiva, le resta solo l’arida e nuda ansia si servire Dio, cosa molto gradita a Dio, poiché, come dice David (Sal. 50, 19), lo spirito tribolato è sacrificio per Dio. 14. Poiché dunque l’anima comprende che nell’arida purificazione attraverso cui è passata ha conseguito i vantaggi tanto numerosi e preziosi, dei quali si è ora riferito, non meraviglia, nella strofa che stiamo commentando, il verso: o felice ventura! / uscii, né fui notata; uscii cioè dai lacci e dalla soggezione dei miei appetiti sensibili e dei miei affetti, senza essere notata, vale a dire senza che quei tre nemici abbiano potuto impedirmelo. Essi infatti, come abbiamo detto, imbrigliano l’anima con i lacci degli appetiti e dei gusti impedendole di uscire fuori di sé verso la libertà dell’amore di Dio; ma senza questi appetiti, come s’è detto, non possono combattere l’anima. 15.

Perciò

ella

esce

in

quanto

456

si

acquietano

per

mortificazione continua le quattro passioni dell’anima, cioè gioia, dolore, speranza e timore; in quanto si addormenta riguardo alla sensualità per le ordinarie aridità degli appetiti naturali e sospende l’armonizzazione dei sensi e delle potenze inferiori: infatti, come abbiamo detto, cessano le loro operazioni discorsive, cioè tace tutta la gente e la casa della parte inferiore dell’anima, ossia ciò che qui viene chiamata la sua casa, dicendo: stando già la mia casa addormentata. CAPITOLO 14 1. Questa casa della sensualità è ormai addormentata, ossia mortificata, in quanto le sue passioni sono spente e gli appetiti profondamente sopiti a causa della felice notte della purificazione sensitiva; perciò 1’anima ne è uscita per iniziare il cammino sulla via dello spirito, quello dei proficienti o progrediti, che si può anche chiamare via illuminativa o della contemplazione infusa; su questa via Dio da sé va pascendo e ristorando l’anima, senza che questa discorra né intervenga attivamente. Come abbiamo detto, tale è la notte, o purificazione del senso nell’anima. Questa notte, in coloro che poi entreranno nella più grave notte dello spirito per giungere alla divina unione d’amore — e ordinariamente sono i meno — in genere è accompagnata da gravi patimenti e tentazioni nei sensi, che durano a lungo, sebbene in alcuni piu e in altri meno. Infatti ad alcuni si presenta 1’angelo di Satana (2 Cor. 12, 7), cioè lo spirito di fornicazione, per percuotere i loro sensi con turpi e violente tentazioni e per tribolarne lo spirito con cattivi pensieri e vivissime rappresentazioni neH’immaginazione, il che talvolta per 1’anima è pena più grande della morte. 2. A volte in tale notte s’aggiunge lo spirito della bestemmia, che va insinuando in tutti i concetti e pensieri intollerabili bestemmie, talvolta suggerite all’immaginazione, 457

con tanta forza da fargliele quasi pronunciare, il che è di grave tormento. 3. Altre volte Satana inculca nelle anime uno spirito abietto, che Isaia (19, 14) chiama spiritus vertiginis, non per farle cadere, ma per metterle alla prova; ed esso oscura il loro senso fino a riempirlo di mille scrupoli e di perplessità cosi intricate per la loro capacità di giudizio che non possono mai restare soddisfatte di niente, né appoggiare il giudizio a consiglio o a concetto; e questo è uno dei più gravi pungoli ed orrori di questa notte, molto vicini a quanto accade nella notte spirituale. 4. Ordinariamente nella notte e purificazione sensitiva Dio manda queste tempeste e travagli a coloro che, come ho detto, poi introdurra nell’altra notte — anche se non tutti vi entreranno — affinche, castigati e umiliati in questa maniera, vadano esercitandosi e disponendosi, preparando i sensi e le potenze per l’unione con la Sapienza che dovra esser loro concessa. Se infatti l’anima non è tentata, esercitata e provata con travagli e tentazioni, non si può stimolare il senso alla sapienza. Perciò disse 1’Ecclesiastico (34, 9-11): Chi non è tentato che cosa sa? E chi non è provato che cosa riconoscel’ E di questa verità da buona testimonianza anche Geremia (31, 18) la dove dice: Mi castigasti, Signore, efui ammaestrato. Il modo più proprio di questo castigo per introdurre alla sapienza è costituito dai travagli interiori di cui stiamo parlando, come quelli che più efficacemente purificano il senso da tutti i gusti e da tutte le consolazioni alle quali era affezionato per sua naturale fiacchezza; in questi travagli l’anima è davvero umiliata in vista dell’innalzamento che deve ricevere. 5. Però non si può dire con certezza per quanto tempo l’anima debba permanere nel digiuno e nella penitenza del senso, in quanto non a tutti accade nello stesso modo, né tutti subiscono le medesime tentazioni; è la volontà di Dio a 458

misurare tutto questo, in quanto tien conto delle imperfezioni più o meno grandi che ciascuno ha da purificare e del grado di amore d’unione al quale vuole elevarle, onde le umilierà più o meno intensamente e più o meno a lungo. Coloro che hanno maggiore capacità e forza di offrire vengono purificati con maggiore intensità e meno a lungo. I piu fiacchi, invece, li conduce per questa notte con grande remissione e con deboli ma prolungate tentazioni, di solito concedendo qualche sollievo ai sensi affinche non abbiano a tornare indietro; perciò costoro giungono tardi alla purezza di perfezione in questa vita, alcuni anzi non vi giungono affatto; essi non stanno veramente né dentro né fuori della notte; infatti, sebbene non progrediscano oltre, cionostante, per conservarli nell’iimiltà e nella conoscenza di sé Dio li esercita per breve tratto o per giorni nelle tentazioni e nelle aridità; talora li aiuta per qualche tempo con consolazioni, affinché per scoraggiamento non tornino a cercare le gioie del mondo. Con altre anime più fiacche Dio si comporta ora mostrandosi ora nascondendosi, per esercitarle nel suo amore e perché senza quelle assenze non imparerebbero ad accostarsi a Dio. 6. Ma le anime che debbono entrare nello stato tanto alto e felice dell’unione d’amore, per quanto presto Dio ve le conduca, sogliono permanere molto a lungo in queste aridita e tentazioni, come si constata per esperienza. È dunque tempo di cominciare a trattare della seconda notte. 1. Reliquie con il nome del santo. 2. Cfr. Soliloquia, 1. 2, 1.

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LIBRO SECONDO TRATTA DELLA PIÙ INTIMA PURIFICAZIONE, CHE È LA SECONDA NOTTE DELLO SPIRITO. CAPITOLO 1 Si comincia a trattare della notte oscura dello spirito. Si dice in che tempo inizia. 1. Dio non pone nella notte dello spirito l’anima che vuol far progredire quando sia appena uscita dalle aridità e dai travagli della prima purificazione, о notte del senso; anzi, suole far trascorrere molto tempo, anche anni, durante i quali quell’anima, uscita dallo stato dei principianti, si esercita in quello dei proficienti. Qui, come chi sia uscito da un carcere angusto, essa cammina nelle cose di Dio con maggiore libertà e soddisfazione e con diletto più abbondante e interiore di quello che sperimentava prima di entrare in quella notte; infatti l’immaginazione e le potenze ora non sono più legate al discorso e alle preoccupazioni spirituali come prima, ed essa trova subito nel proprio spirito, con grande facilità, una contemplazione molto serena e amorosa e un sapore spirituale che non conosce la pratica del discorso. Tuttavia la purificazione dell’anima non è ancora perfetta, in quanto le manca la parte principale, ossia quella dello spirito, senza la quale resta incompiuta e imperfetta anche la purificazione sensitiva, sebbene sia stata intensa, in forza dell’unità del supposito3, per cui una parte comunica con l’altra. Perciò talvolta non le mancheranno per nulla prove, aridità, tenebre e angustie, anche molto più intense che in passato, quasi presagi e annunci della notte dello spirito che sta per venire, sebbene non della medesima durata di questa; infatti, trascorsi uno о più tratti, о giorni, di questa 460

notte tempestosa, l’anima subito torna all’usuale serenità. In questa maniera Dio va purificando alcune anime, non destinate come altre a salire a un altissimo grado d’amore, mettendole di quando in quando in questa notte di contemplazione e di purificazione spirituale, facendole spesso annottare e albeggiare, affinché si compia ciò che dice David (Sal. 147, 17): manda il suo ghiaccio, ossia la sua contemplazione, come a bocconi. Questi bocconi di oscura contemplazione non sono però mai tanto duri come quelli dell’orrenda notte di contemplazione di cui dobbiamo parlare, nella quale Dio pone l’anima deliberatamente per elevarla alla divina unione. 2. Il sapore e il godimento intimo, che i proficienti provano e gustano con abbondanza e facilità nel loro spirito, si comunicano dunque loro più abbondantemente, ridondando nel senso più di quanto non accadesse prima di questa purificazione sensibile; infatti il senso ormai fatto puro può assaporare più facilmente i gusti dello spirito secondo la propria natura. La parte sensitiva dell’anima, inoltre, è fiacca e inadeguata alle forti realtà dello spirito, perciò ne consegue che i proficienti, a causa della comunicazione spirituale che si opera nella parte sensitiva, vi soffrono molte debilitazioni, deperimenti e debolezze di stomaco, e conseguenti fatiche spirituali, in quanto, come dice il Savio (Sap. 9, 15), il corpo che si corrompe aggrava l’anima. Perciò le loro comunicazioni non possono essere molto forti né molto intense né molto spirituali, cioè quali si richiedono per la divina unione con Dio, a causa della debolezza e della corruzione della sensualità che ne partecipa. Da ciò derivano i rapimenti, gli svenimenti e gli slogamenti delle ossa che sempre accadono quando le comunicazioni non sono puramente spirituali, ossia rivolte al solo spirito, come quelle dei perfetti già purificati dalla seconda notte dello spirito: costoro non patiscono più rapimenti e tormenti del corpo, in quanto godono della 461

libertà dello spirito senza, che il loro senso si oscuri о venga meno. 3. E affinché si comprenda quanto è necessario che costoro entrino nella notte dello spirito, metteremo in rilievo alcune imperfezioni e alcuni pericoli propri di questi proficienti. CAPITOLO 2 Prosegue su altre imperfezioni dei proficienti. 1. I proficienti incorrono in due tipi di imperfezioni: alcune abituali, altre attuali. Quelle abituali sono le affezioni e gli abiti imperfetti che, come radici, sono residuate nello spirito là dove non è ancora potuta arrivare la purificazione del senso; e la differenza tra l’una e l’altra purificazione è simile a quella tra la radice e i rami, о tra il togliere una macchia fresca e una stantia e vecchia. Infatti, come abbiamo detto, la purificazione del senso costituisce l’iniziale introduzione alla contemplazione in vista della purificazione dello spirito, serve insomma più ad adattare il senso allo spirito che ad unire lo spirito a Dio. Perciò restano ancora nello spirito le macchie dell’uomo vecchio, sebbene a lui non sembri e addirittura non le veda; e se queste macchie non si tolgono con il sapone e la forte lisciva della purificazione della notte oscura, lo spirito non potrà giungere alla purezza dell’unione di Dio. 2. Costoro hanno anche la hebetudo mentis e la rozzezza naturale contratte da ogni uomo con il peccato; il loro spirito è distratto e superficiale e richiede d’essere illuminato, chiarificato e raccolto mediante la pena e l’angustia della notte. Tutti coloro che sono giunti a questo stato di proficienti abitualmente si sono portate queste imperfezioni, che, come abbiamo detto, non possono coesistere con lo stato perfetto dell’unione d’amore. 462

3. Non tutti cadono nello stesso modo in queste imperfezioni attuali. Ad esempio alcuni, avendo questi lumi spirituali tanto esterni e facili ad estendersi al senso, cadono in inconvenienti e pericoli maggiori di quelli che abbiamo detto all’inizio. Essi incontrano infatti a piene mani così abbondanti comunicazioni e apprensioni spirituali che li toccano nel senso e nello spirito, da avere spesso visioni immaginarie e spirituali; tutto questo, con altri sentimenti piacevoli, accade loro nello stato in cui sia il demonio sia la loro fantasia sono per lo più di facile inganno per la loro anima; e poiché il demonio suole imprimere e suscitare nell’anima quelle apprensioni e quei sentimenti con grande gusto, l’anima ne è affascinata e ingannata con grande facilità, non avendo la cautela di umiliarsi e difendersi con gagliardia, mediante la fede, da queste visioni e sentimenti. Ecco che così il demonio induce molti a credere in vane visioni e in false profezie, e cerca di farli presumere che Dio e i santi parlino loro, ed essi sovente credono nelle proprie fantasie; il demonio inoltre suole gonfiarli di presunzione e superbia in modo che, attratti da vanità e arroganza, tendano a mostrarsi in atti esteriori di apparente santità, come rapimenti о altre manifestazioni. Così costoro diventano audaci con Dio e perdono il santo timore, che è chiave e custodia di tutte le virtù; e in alcuni sogliono moltiplicarsi e incancrenire tante falsità e inganni da rendere assai dubbio il loro ritorno al limpido cammino della virtù e del vero spirito. In queste miserie si incorre quando si incomincia a concedere eccessiva sicurezza alle apprensioni e ai sentimenti spirituali, all’inizio del cammino di perfezione. 4. Avrei tanto da dire sulle imperfezioni di costoro e su come esse siano difficilmente curabili in quanto vengono rite nute più spirituali delle prime; ma non lo faccio. Per stabilire quanto è necessaria questa notte о purificazione spirituale a chi voglia progredire dico soltanto che nessuno dei proficienti, per bene che sia loro andata, è privo di molte di quelle affezioni naturali e di quegli abiti imperfetti, la cui 463

purificazione, ab biamo detto, deve precedere affinché si possa passare all’u nione divina. 5. C’è inoltre da osservare, come già detto, che partecipando anche la parte inferiore alle comunicazioni spirituali, queste non possono essere tanto intense, pure e forti come è necessario per la divina unione; pertanto, per giungere a questa, l’anima deve entrare nella seconda notte dello spirito ove, spogliato perfettamente il senso e lo spirito di tutte queste apprensioni e gusti, possa camminare nell’oscura e pura fede, che è il mezzo proprio e adeguato mediante il quale l’anima si unisce con Dio, come dice Osea (2, 20): Io ti sposerò, ossia ti unirò con me mediante la fede. CAPITOLO

3

Annotazione per quanto segue. 1. Costoro dunque, per il tempo trascorso, sono progrediti nutrendo i sensi con dolci comunicazioni, affinché la parte sensitiva, attratta e lusingata dal gusto spirituale emanante dallo spirito, allo spirito appunto si unisca e conformi: ciascuno a suo modo cibandosi di un medesimo nutrimento spirituale nel piatto di un medesimo supposito e soggetto. Così che il senso e lo spirito, in qualche maniera conformi ed uniti, si dispongono a soffrire insieme l’aspra e dura purificazione spirituale che li attende; infatti nell’anima debbono purgarsi perfettamente le sue due parti, spirituale e sensitiva, tenendo presente che l’ima non si affina bene senza l’altra e che la purificazione del senso è valida quando comincia deliberatamente quella dello spirito. Perciò la notte che abbiamo chiamato del senso piuttosto che purificazione si può e si deve chiamare riforma e imbrigliamento dell’appetito; infatti tutte le imperfezioni e i disordini della parte sensitiva hanno la loro forza e radice nello spirito, dove tutti gli abiti buoni e cattivi trovano il loro soggetto; per cui, finché non si purificano questi, non si possono purificare 464

bene neppure le ribellioni e le cadute del senso. 2. Nella notte di cui stiamo parlando si purificano dunque insieme le due parti dell’anima; perciò è stato conveniente che il senso attraversasse la riforma della prima notte e la prosperità che ne è derivata, affinché entrambi, senso e spirito in qualche modo uniti, potessero purificarsi e soffrire ora con maggiore forza; infatti per una purificazione tanto forte e dura è necessaria una disposizione tanto grande; e la natura non avrebbe né forza né disposizione per sopportarla se le energie della parte inferiore non fossero per tempo riformate e non acquistassero fortezza di Dio grazie al dolce e saporoso tratto usato con lui. 3. Ma il modo di comportarsi dei proficienti nei confronti di Dio è ancora molto basso e naturale; essi non hanno infatti purificato e fatto brillare l’oro dello spirito e perciò capiscono ancora Dio come fanciulli e in Dio parlano come fanciulli e come fanciulli sanno e sentono di Dio, come dice San Paolo (x Cor. 13, 11), non essendo giunti alla perfezione, ossia all’unione dell’anima con Dio. Soltanto grazie a questa unione compiranno come adulti grandi opere nel loro spirito, opere ormai più divine che umane, come si dirà. Volendo dunque Dio spogliarli effettivamente dell’ uomo vecchio e riverstirli del nuovo, che è creato secondo Dio nella novità del senso, come dice l’Apostolo (Col. 3, 10), egli spoglierà le loro potenze e affetti e sensi, spirituali e sensibili, esteriori ed interiori, lasciando l’intelletto nell’oscurità, la volontà nell’aridità, la memoria nel vuoto, e le affezioni dell’anima in somma afflizione, amarezza ed angustia, private d’ogni senso e gusto di cui prima godevano nei beni spirituali; e questa privazione è uno dei criteri indispensabili per introdursi ed unirsi nella forma spirituale dello spirito, ossia nell’unione d’amore. Tutto ciò il Signore opera nell’anima per mezzo di una pura e oscura contemplazione, come l’anima fa capire nella prima strofa. Ed anche se essa è stata spiegata in rapporto alla prima notte del senso, l’anima la intende 465

principalmente in relazione alla seconda notte dello spirito, che è il momento cuminante della purificazione dell’anima. In questo senso la proporremo e spiegheremo un’altra volta. CAPITOLO 4 Si riporta la prima strofa e la sua spiegazione. In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. 1. Riflettendo ora su questa strofa con l’attenzione volta alla purificazione contemplativa о nudità о povertà di spirito, che qui sono quasi una medesima cosa, possiamo ora spiegarla nel seguente modo; l’anima dice dunque così. Nella povertà, nell’abbandono e nel distacco da tutte le mie apprensioni, cioè nell’oscurità del mio intelletto e nell’aridità della mia volontà, nell’afflizione e angustia della mia memoria, lasciata all’oscuro nella pura fede, che è notte oscura per le potenze naturali, con la volontà colpita da dolore e afflizioni e ansie d’amor di Dio, uscii da me stessa, dal mio meschino modo d’intendere, dalla mia fiacca maniera d’amare e dal mio scarso e povero modo di gustare Dio, senza che né la sensualità né il demonio me l’impedissero. 2. E questa è stata per me una grande, felice e buona ventura, poiché, del tutto annichilite e addormentate le potenze, le pas sioni, gli appetiti e le affezioni della mia anima, con cui bassa mente sentivo e gustavo Dio, passai dal mio umano modo di operare a quello di Dio; il mio intelletto uscì fuori di sé, dive nendo divino da umano e naturale che era; infatti, unendosi con Dio mediante questa purificazione, ormai esso non intende più mediante il proprio vigore e la 466

luce naturale, ma grazie alla Sa pienza divina con la quale si è unito. Così la mia volontà è uscita di sé facendosi divina dal momento che, unita con l’amore divino, non ama più bassamente con le proprie forze naturali ma con la fortezza e la purezza dello Spirito Santo, così da non operare più umanamente nei confronti di Dio; ugualmente, la memoria ha mutato le proprie apprensioni nelle eterne apprensioni di gloria. E finalmente tutte le forze e gli affetti dell’anima, mediante questa notte e purificazione dell’uomo vecchio, si rinnovano completamente in diletti di natura divina. Segue il verso: In una notte oscura. CAPITOLO 5 Comincia a spiegare come questa oscura contemplazione sia per l’anima non solo notte ma anche pena e tormento. 1. Questa notte oscura è un influsso di Dio sull’anima, che la purifica da ignoranze e imperfezioni abituali e naturali e spirituali e che i contemplativi chiamano contemplazione infusa о teologia mistica. In essa Dio insegna all’anima segretamente e l’istruisce nella perfezione d’amore, senza che essa faccia niente né capisca come ciò accada. Questa contemplazione infusa, in quanto è sapienza amorosa di Dio, produce nell’anima due effetti principali, in quanto la purifica ed illumina in forza dell’unione d’amore con Dio. Perciò la sapienza amorosa che, illuminandoli, purifica gli spiriti beati, è la stessa che qui purifica e illumina l’anima. 2. Di qui il dubbio: dal momento che essa è luce divina che, abbiamo detto, illumina e purifica l’anima dalle sue ignoranze, perché l’anima qui la chiama notte oscura?. Si risponde che due sono le cause per cui questa Sapienza 467

divina è per l’anima non solo notte e tenebra, ma anche pena e tormento: la prima è la stessa altezza della Sapienza divina che, trascendendo la capacità dell’anima, in tal modo le è tenebra; la seconda si connette con la sua bassezza e impurità, per cui la purificazione le è penosa e affliggente ed anche oscura. 3. Per dimostrare la verità della prima causa è necessario supporre la dottrina del Filosofo, la quale afferma che quanto più le cose divine sono in sé chiare e manifeste, tanto più sono naturalmente oscure о occulte all’anima; come la luce, che quanto più è chiara tanto più s’acceca e oscura la pupilla della civetta, e quanto più direttamente si fissa il sole tanto più la potenza visiva s’ottenebra sino ad annullarsi, troppo trascesa nella sua debolezza. Perciò quando questa divina luce di contemplazione investe l’anima non ancora totalmente illuminata, provoca in lei tenebre spirituali, non solo perché ne trascende le capacità, ma perché le toglie anche, e le oscura, l’atto dell’intelligenza naturale. Per tale motivo San Dionigi4 ed altri teologi mistici chiamano questa contemplazione infusa raggio di tenebra per l’anima non illuminata e purificata; la naturale forza intellettiva vi è infatti vinta e annientata dalla grande luce soprannaturale. Perciò anche David (Sal. 96, 2) disse che vicino e intorno a Dio stanno l’oscurità e le nubi; non perché Dio sia tale in se stesso, ma a confronto dei nostri deboli intelletti che in luce tanto immensa, non essendo capaci di tollerarla, si oscurano e restano offuscati. È ancora David a spiegare: Per il grande splendore della sua presenza vi si frapposero le nuvole, ossia: fra Dio e il nostro intelletto. Questa è la causa per cui Dio, da sé immettendo nell’anima non ancora trasformata questo raggio risplendente della propria sapienza segreta, produce tenebre oscure nel suo intelletto. 4. Ed è evidente come da principio questa oscura contemplazione sia penosa per l’anima; infatti se questa 468

divina contemplazione infusa contiene in grado massimo molte buone qualità, d’altro lato l’anima che la riceve, non essendo purificata, ha in grado massimo molti pessimi mali; perciò, non potendo coesistere nell’anima due contrari, di necessità essa deve penare e soffrire, in quanto è il soggetto nel quale questi due contrari vengono a conflitto l’uno contro l’altro, in seguito alla purificazione delle imperfezioni dell’anima operata da questa contemplazione. Lo dimostrerò per induzione nel modo seguente. 5. Quanto al primo modo di sofferenza: la luce e la sapienza di questa contemplazione è molto luminosa e pura mentre l’anima che è investita è oscura e impura; ne consegue che l’anima, ricevendo quella luce in sé, soffre molto, come gli occhi ammalati e impuri per cattivi umori quando siano investiti da luce viva. Questa pena dell’anima a causa della sua impurità si fa immensa quando davvero essa viene investita dalla luce divina, poiché questa luce pura, per espellerne l’impurità, giunge a travolgere l’anima e questa si sente così impura e miserabile che le sembra che Dio sia contro di lei e d’essere lei stessa contraria a Dio. Il che le è di tanta afflizione e pena, in quanto le sembra che Dio l’abbia scacciata, da ricordare uno dei maggiori travagli sofferti da Giobbe (7, 20) allorché, sottoposto da Dio a simile prova, domandò: Perché mi hai posto contro di te e sono diventato grave e pesante a me stesso? Infatti l’anima, sebbene oscura, mediante questa pura luce vede la propria impurità e capisce di non essere degna di Dio né di alcuna creatura. E ciò che più l’appena è il pensiero che non ne sarà mai degna, per cui, ormai, ogni bene le è venuto meno; il che è causato dalla profonda immersione della sua mente nella conoscenza e nel sentimento dei propri mali e miserie, che la divina e oscura luce le pone davanti agli occhi affinché veda chiaramente come da se stessa non potrà avere nessun’altra cosa. In questo senso possiamo intendere il testo di David (Sal. 38, 12) che dice: A causa dell’iniquità hai corretto l’uomo e hai fatto 469

sì che la sua anima si disfacesse, come un ragno. 6. Il secondo modo di sofferenza è causato all’anima dalla sua naturale debolezza morale e spirituale; poiché infatti questa divina contemplazione investe l’anima con forza per rinvigorirla e domarla, essa soffre molto nella sua fiacchezza, tanto da venir quasi meno, specialmente quando, talvolta, sia investita con maggiore impeto. Perciò il senso e lo spirito, come sottoposti ad un peso immenso e oscuro, soffrono e agonizzano tanto che sceglierebbero la morte come sollievo e soluzione. Il profeta Giobbe (23, 6), sperimentandolo, diceva: Non voglio che mi tratti con molta forza, perché non m’opprima con il peso della sua grandezza. 7. Sotto il peso di questa oppressione e di questo gravame l’anima si sente tanto lontana dall’essere privilegiata che le sembra, come infatti è, che tutto ciò in cui era solita trovare qualche appoggio sia sparito con tutti gli altri beni e che nessuno più abbia compassione di lei. A questo proposito dice ancora Giobbe (19, 21): Abbiate pietà di me almeno voi, miei amici, perché la mano del Signore mi ha colpito. Quale grande meraviglia e pietà che la debolezza e l’impurità dell’anima siano tali da farle ora sentire tanto grave e contraria la mano di Dio, per sé tanto mite e soave, sebbene non l’aggravi né l’opprima ma soltanto la tocchi, e misericordiosamente, e non per castigarla ma solo per darle grazia! CAPITOLO 6 1. Il terzo modo di sofferenza e pena che qui l’anima patisce proviene dai due estremi, ossia il divino e l’umano che qui si uniscono. Il divino è la contemplazione purificativa, l’umano è il soggetto dell’anima. Come il divino investe l’anima per macerarla e rinnovarla e farla divina, spogliandola delle affezioni abituali e delle proprietà dell’uomo vecchio a cui è molto unita, congiunta e 470

conformata, così disintegra la sostanza spirituale, assorbendola in una tenebra abissalmente profonda, in modo che l’anima si sente consumare e distruggere da crudele morte spirituale alla vista delle proprie miserie; come se, inghiottita da una belva, sentisse d’esser digerita nel suo ventre tenebroso, soffrendo le angustie provate da Giona (2, 1) nel ventre di quel mostro marino. Tuttavia le è necessario rimanere in questo sepolcro di oscura morte in attesa della resurrezione spirituale. 2. David descrive l’intensità di questa sofferenza e pena, sebbene superino veramente ogni limite, dicendo: Mi circonda rono i gemiti della morte, i dolori dell’inferno mi attorniarono, nella mia tribolazione ho gridato (Sal. 17, 5-7). Ma la maggiore sofferenza che l’anima vi prova è che le sembra evidente e chiaro che Dio l’abbia riprovata e, aborrendola, l’abbia gettata nelle tenebre, per cui le è grave e dolorosa pena credere che Dio l’abbia abbandonata. E David patendo a fondo questa sofferenza dice (Sal. 87, 6-8): Come non ti ricordi dei feriti che giacciono nei sepolcri, allontanati dalla tua mano, così m’hanno gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi e nell’ombra di morte e su di me si è aggravato il tuo furore e tutte le tue onde hai precipitato su di me. In realtà, quando la contemplazione purificativa opprime l’anima, essa patisce molto vivamente l’ombra e i gemiti di morte e i dolori dell’inferno, che consistono nel sentirsi senza Dio, castigata, rigettata e indegna di lui, e soffre il fatto che egli sia sdegnato; e sente tutto questo tanto più gravemente in quanto le sembra che sia per sempre. 3. Il medesimo abbandono e disprezzo lo soffre da parte di tutte le creature e particolarmente da parte degli amici. Perciò David prosegue dicendo (Sal. 87, 9): Hai allontanato da me i miei amici e conoscenti, mi hanno avuto in abominazione. E tutto questo è ben testimoniato da Giona (2, 4-7) avendolo egli sperimentato corporalmente e 471

spiritualmente nel ventre della balena, quando dice: M’hai gettato nel profondo in mezzo al mare e la corrente m’ha circondato; tutti i suoi flutti e le sue onde sono passati sopra di me e io dissi: sono stato gettato lontano dalla presenza dei tuoi occhi, ma vedrò di nuovo il tuo santo tempio (dice così perché Dio sta purificandogli l’anima affinché egli lo possa vedere); le acque m’hanno circondato fino all’anima, l’abisso m’ha inghiottito e il mare ha coperto il mio capo; sono sceso alle radici dei monti; le barriere della terra mi hanno rinserrato per sempre. Per barriere qui si intendono le imperfezioni dell’anima che le impediscono di godere questa saporosa contemplazione. 4. Il quarto modo di sofferenza è causato nell’anima da un’altra eccellente proprietà della contemplazione oscura, cioè dalla sua maestà e grandezza, che provoca nell’anima il sentimento della sua estrema povertà e miseria interiore; ed è questa una delle sue sofferenze maggiori in questa purificazione. Infatti essa sente in sé vuoto profondo e povertà riguardo alle tre specie di beni ordinati al gusto dell’anima, ossia temporali, naturali e spirituali, e s’accorge di trovarsi nei mali contrari, vale a dire nelle miserie delle imperfezioni, nell’aridità e vuoto delle apprensioni delle potenze e nell’abbandono dello spirito nelle tenebre. Poiché infatti Dio vi purifica l’anima secondo la sostanza sensitiva e spirituale e secondo le potenze interiori ed esteriori, è necessario che essa sia posta nel vuoto, nella povertà, nell’abbandono di tutte queste parti e che sia lasciata arida, vuota e nelle tenebre, dal momento che la parte sensitiva si purifica nell’aridità e le potenze nel vuoto delle loro apprensioni e lo spirito nell’oscura tenebra. 5. Tutto ciò Dio lo compie mediante questa oscura contem plazione; nella quale l’anima non solo soffre il vuoto e la sospensione dei naturali appoggi e delle naturali apprensioni — che è una sofferenza molta angosciosa, come se uno si trovasse sospeso in aria senza poter respirare —, ma viene 472

anche purificata, annichilendosi e vuotandosi о consumandosi in lei tutte le affezioni ed abiti imperfetti contratti in tutta la sua vita, come fa il fuoco con la ruggine e l’ossido con il metallo. E siccome queste cose sono molto radicate nella sostanza dell’anima, oltre a quella povertà e al vuoto naturale e spirituale essa soffre una gravissima inquietudine e un tormento interiore, cosicché si verifichi il testo di Ezechiele che dice: Ammasserò le ossa e v’appiccherò il fuoco, le carni saranno consumate e tutta la massa macererà e le ossa si disferanno (Ez. 24, 10). Qui ben si esprime la pena sofferta nel vuoto e nella povertà della sostanza dell’anima sensitiva e spirituale. E aggiunge (24, 11): Ponetela poi così vuota sulle braci perché s’arroventi e si liquefaccia il suo metallo e la sua immondizia si disfaccia in mezzo ad essa e si consumi la sua ruggine. Qui si comprende la grave sofferenza che l’anima patisce nella purificazione del fuoco di questa contemplazione, poiché il profeta afferma che per purificare e distruggere la ruggine delle affezioni che risiedono nel centro dell’anima è in qualche modo necessario che essa stessa si annichili e disfaccia nella misura in cui è connaturata con tali passioni e imperfezioni. 6. In questa fucina l’anima si purifica come Voro nel crogiolo, come dice il Savio (Sap. 3, 6); perciò essa sente nella propria sostanza un grande scioglimento nel quale va come consumandosi in estrema povertà, come si può vedere da quanto David dice a questo proposito (Sal. 68, 2-4), così gridando a Dio: Salvami, Signore, poiché le acque sono entrate sino alla mia anima; sono immerso nel fango profondo e non ho dove appoggiarmi; sono finito nelle profondità del mare sommerso dalla tempesta; mi sono stancato di gridare, si è arrochita la mia gola, si consumano i miei occhi nell’attesa del mio Dio. Così Dio umilia grandemente l’anima per poi innalzarla molto e se egli non disponesse che questi sentimenti, una volta ravvivati nell’anima, si assopiscano presto, ella morirebbe in pochi giorni; ma i momenti in cui li soffre in 473

modo vivo sono intervallati; però a volte li sente tanto fortemente che le sembra di vedere l’inferno e la perdizione. Coloro che provano tali sentimenti davvero scendono all’inferno da vivi (Sal. 54, 16), conquistandovi quella purificazione che dovrebbero fare nell’altra vita5. Così l’anima che passa in tale stato о non vi entra о vi si trattiene per poco, poiché un’ora di qua giova molto più che numerose di là. CAPITOLO 7 Prosegue sullo stesso argomento trattando di altre affezioni ed angustie della volontà. 1. Anche le afflizioni e le angustie della volontà vi sono tanto grandi che a volte trafiggono l’anima con l’improvvisa memoria dei mali in cui si vede versare e con l’incertezza del rimedio. Vi si aggiunge la memoria della prosperità passata; poiché ordinariamente coloro che entrano in questa notte hanno già goduto di molte gioie in Dio e l’hanno molto servito, quindi provano un dolore maggiore vedendosi allontanati da quel bene e nell’impossibilità d’averlo. Giobbe (16, 13-17), che ne fece esperienza, lo dice bene con queste parole: Io che ero abituato ad essere opulento e ricco ali ‘improvviso sono disfatto e contrito; mi ha afferrato per la nuca, m’ha spezzato e mi ha posto come suo bersaglio per ferirmi; m’ha inseguito con le sue lance e m ‘hа trafitto le reni senza pietà; ha sparso per terra le mie viscere e m ‘ha lacerato con ferite su ferite; m ‘aggredì violentemente come un gigante; ho cucito un sacco sulla mia pelle e ho coperto di cenere la mia carne; la mia faccia si è gonfiata di pianto e i miei occhi si sono accecati. 2. Tante e tanto grandi sono le pene di questa notte, e tanto numerose le testimonianze della Scrittura in proposito che a scriverle mancherebbero tempo e forze, poiché 474

certamente tutto quel che si potrebbe dire sarebbe inferiore al vero. Ma dai testi citati potremo farcene un’idea. E per terminare la spiegazione di questo verso e far meglio intendere ciò che la notte opera nell’anima, dirò come ne soffre Geremia (Lam. 3,1-3), allorché esclama nel pianto, diffusamente quanto è necessario per dire quella prova: Io sono un uomo che vedo la mia povertà sotto la verga della sua indignazione; m’ha minacciato e m’ha condotto nelle tenebre, non nella luce. Quanto ha volto la sua mano contro di me tutto il giorno! Fece invecchiare la mia pelle e la mia carne e m ‘ha sbriciolato le ossa; ha messo un muro intorno a me e m’ha circondato d’amarezza e d’affanno; m’ha posto in luoghi tenebrosi, come i morti sempiterni. Ha costruito intorno a me perché non esca e m’ha aggravato i ceppi. E quando piango e imploro mette da parte la mia preghiera. M’ha sbarrato le uscite e le strade con pietre squadrate, sovvertendomi i passaggi. Si è fatto per me un orso appostato, un leone in agguato. Ha sconvolto le mie strade e m’ha sbriciolato lasciandomi nella desolazione; ha teso l’arco e con la freccia m’ha posto a mira. Ha scagliato contro i miei fianchi le figlie della sua faretra. Sono stato posto a scherno di tutto il popolo, oggetto delle loro risa e delle loro beffe tutto il giorno. Mi ha riempito d’amarezza ubriacandomi d’assenzio. Mi ha spezzato i denti uno a uno, nutrendomi di cenere. La mia anima è gettata lontano dalla pace e ho perduto il ricordo dei beni. Ho detto: è perduta e finita la mia attesa e la mia speranza del Signore. Ricordati della mia povertà e delle mie traversie, dell’assenzio e del fiele. Debbo ritenere tutto nella memoria e la mia anima si disferà di pene. 3. Geremia sparge queste lacrime su tali travagli, dipingendo molto vivamente le sofferenze dell’anima in questa purificazione e notte spirituale. Dobbiamo perciò avere grande compassione per l’anima che Dio pone in questa notte orrenda e tempestosa. Sebbene infatti vada incontro ad una sorte molto felice per i grandi beni che le 475

deriveranno — allorché, come dice Giobbe (12, 22), Dio susciterà nell’anima dalle tenebre beni profondi e trasformerà in luce l’ombra di morte, in modo che, come dice David (Sal. 138, 12), la sua luce sia proporzionata alle tenebre precedenti — tuttavia, per l’immensa pena che va soffrendo e per l’incertezza di trovarvi rimedio, merita grande dolore e pietà; ella crede infatti, come dice lo stesso profeta, che il suo male non avrà mai fine, pensando, come conferma David (Sal. 142, 3-4), che Dio l’abbia posta nelle tenebre come morti da tempo, angustiandone lo spirito e sconvolgendone il cuore. Inoltre a causa della solitudine e dell’abbandono provocati dalla notte oscura sopravviene all’anima l’impossibilità di trovare conforto e sostegno in qualche dottrina e in qualche maestro spirituale; infatti, anche se in molti modi le si mostrano motivi di consolazione negli stessi beni racchiusi in queste sofferenze, tuttavia non vi può credere. È infatti tanto profondamente assorbita e immersa nel sentimento di quei mali in cui vede chiaramente le proprie miserie, da pensare che gli altri la confortino solo perché non vedono ciò che ella vede e sente; e anziché conforto riceve invece nuovo dolore e non le sembra quello il rimedio adatto al suo male. Il che è poi vero, in quanto, fino a che il Signore non l’abbia purificata come a lui piace, nessun rimedio serve né giova al suo dolore; tanto più l’anima in tale stato può poco, come chi si trovi imprigionato in oscuro carcere con mani e piedi legati, senza poter muoversi né vedere né udire aiuto da nessuna parte; e tutto questo finché non si umili e s’addolcisca e si purifichi nello spirito ed esso divenga tanto affinato, semplice e delicato da poter farsi uno con lo spirito di Dio, secondo il grado di unione amorosa che la sua misericordia vorrà concedergli; secondo questo grado la purificazione sarà più о meno dura e più о meno lunga. 4. Ma se la purificazione deve essere vera, per quanto dura sia, si prolunga per alcuni anni: anche se vi sono intervalli di sollievo, nei quali per disposizione di Dio la 476

contemplazione oscura sospende di investire l’anima in forma e in modo purificativo per vestirla in modo illuminante e amoroso; ma poi l’anima, come uscita da quel carcere e da quelle catene e posta in condizione di ricrearsi nella più ampia libertà, esperimenta e gusta con grande soavità la pace e l’amicizia amorosa con Dio, ed una facile abbondanza di comunicazioni spirituali. Per l’anima questo è indizio della salute che la purificazione va operando in lei, ed è annunzio dell’abbondanza che ella spera. Talvolta tutto questo è tale che i suoi travagli le sembrano finiti. Infatti, quando sono puramente spirituali, le cose dell’anima hanno questa proprietà: se si tratta di travagli, sembar all’anima di non poterne mai più uscire e che tutti i beni siano finiti, come s’è visto nelle testimonianze che abbiamo portato; se si tratta invece di beni spirituali, all’anima sembra che i suoi mali siano finiti e che mai più le mancheranno i beni, come quando David (Sal. 29, 7) confessa d’essersi trovato in tali momenti: Nell’abbondanza ho detto: non mi muoverò mai più. 5. Questo accade perché nello spirito il possesso attuale di un contrario di per sé rimuove l’attuale possesso e sentimento dell’altro contrario; il che non accade invece nella parte sensibile dell’anima, poiché questa ha un’apprensione debole. Ma poiché in questo stato lo spirito non è del tutto purificato e mondo nelle affezioni contratte dalla parte inferiore, sebbene non muti in quanto spirito, tuttavia in quanto ne è affetto potrà mutare soggiacendo a pene, come vediamo accadde a David (Sal. 29, 7), che subì molti mali e molte pene, anche se nel tempo della sua abbondanza ha espresso la convinzione che non se ne sarebbe mai mosso. Così fa l’anima quando si vede fornita di abbondanti beni spirituali e, non riuscendo a vedere la radice dell’imperfezione e dell’impurità che ancora le resta, pensa che i suoi travagli siano finiti.

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6. Ma questo pensiero la tocca poche volte; fino a che non avrà compiuto la purificazione spirituale, raramente riceverà una soave comunicazione tanto ricca da nasconderle la radice di impurità che le resta, in modo che l’anima cessi di sentire dentro di sé che le manca о che sta per accaderle un non so che, che le impedisce di godere completamente di quel sollievo: è come se sentisse dentro di sé un nemico che, sebbene quieto e sopito, si teme tornerà a farsi vivo ed attivo. E così avviene che, quando è più sicura e meno se ne guarda, la notte torna ad inghiottire l’anima e a ridurla in condizioni peggiori, più dure e oscure e pietose di prima, che durano forse anche più a lungo che nel passato. Così un’altra volta l’anima ricade nella persuasione che tutti i beni siano finiti per sempre; infatti l’esperienza del bene passato, goduto dopo il primo periodo di travaglio, dopo il quale pensava che non avrebbe più sofferto, non basta a impedirle di credere, in questo secondo periodo di angustie, che ormai tutto sia finito e che non le accadrà come la volta precedente. Dico infatti che questa persuasione è fortemente confermata nell’anima dalla sua attuale apprensione di spirito, che le annulla tutto ciò che è contrario al suo stato. 7. Questa è la ragione per la quale coloro che sono nel Purgatorio soffrono grandi dubbi sulla possibilità di uscirne mai e di non veder la fine delle loro pene. Abitualmente, infatti, hanno le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, tuttavia il sentimento sofferto delle pene e della privazione di Dio che attualmente soffrono impedisce loro di godere del bene attuale e del conforto di quelle virtù. E quantunque non cessino di sapere d’amare Dio, questo tuttavia non li consola, perché credono di non essere amati da lui a causa della loro indegnità, anzi, vedendosi privati di Dio, nella loro miseria credono d’avere in sé buone ragioni per essere aborriti e giustamente scacciati per sempre. Così nella purificazione l’anima, pur sapendo di amare Dio fino ad essere pronta a dargli mille volte la vita — ed è vero: in questi travagli le anime amano veramente Dio —, 478

tuttavia non ne ha sollievo, anzi ne ha una pena maggiore; infatti lo ama tanto da non curarsi d’altro, ma si vede così misera da non poter credere che Dio la ami e che né ora né mai abbia motivo d’amarla; anzi, crede vi siano molti motivi per essere aborrita per sempre non solo da lui ma anche da tutte le creature, perciò soffre di vedere in sé le ragioni che le meritano d’essere scacciata da chi tanto ama e desidera. CAPITOLO

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Sulle altre pene che affliggono l’anima in questo stato. 1. Ma un’altra pena s’aggiunge a contristare molto e a sconfortare l’anima; ed è questa: siccome la notte oscura le imbriglia le potenze e le affezioni, non può levare a Dio né l’affetto né la mente e non lo può pregare, poiché le sembra, come a Geremia (Lam. 3, 44), che Dio le abbia posto una nube davanti perché la sua preghiera non passi; spiega nel passo citato: mi chiuse e sbarrò il passaggio con pietre squadrate (Lam. 3, 9). E se talvolta riesce a pregare, lo fa con tanto sforzo e così poco gusto che le sembra che Dio non l’ascolti e non si curi di lei, come il profeta fa intendere nello stesso testo dicendo: Quando ho gridato e pregato ha tenuta lontana la mia preghiera. In verità non è questo il tempo di parlare con Dio, bensì, come dice Geremia, di mettere la bocca nella polvere per vedere se venga qualche speranza attuale (Lam. 3, 29), soffrendo con pazienza la purificazione. È Dio che opera nell’anima, la quale resta passiva e perciò incapace di tutto: non può né pregare né attendere con attenzione alle cose divine e nemmeno agli impegni temporali. E spesso ha anche tali distrazioni e profonde dimenticanze che per lunghi tratti non sa che cosa ha fatto о pensato, né che cosa fa о farà, e neppure volendolo può essere attenta a nessun aspetto del proprio stato. 2. In questo stato infatti non solo l’intelletto si purifica dal suo lume e la volontà dagli affetti, ma anche la memoria dai 479

discorsi e dalle notizie, e perciò è necessario che si annulli per quanto riguarda tutto questo, affinché si compia quanto David dice di sé in questa purificazione: Fui annichilito e non seppi (Sal. 72, 22). Questo non sapere si riferisce qui alle mancanze e dimenticanze della memoria, alle distrazioni e smemoratezze causate dal raccoglimento interiore che assorbe l’anima in questa contemplazione. Infatti, affinché l’anima sia temprata al divino e disposta con le sue potenze alla divina unione d’amore, è necessario che prima sia assorbita con esse nella divina e oscura luce spirituale di contemplazione, separata così da ogni affezione e apprensione di creatura, il che dura a seconda dell’intensità della luce. Perciò, quanto più semplicemente e puramente la luce divina investe l’anima, tanto più la oscura, la svuota e annichila quanto alle apprensioni e alle affezioni particolari delle cose sia di lassù che di quaggiù; analogamente, quanto meno puramente e semplicemente l’investe, tanto meno la svuota e le è oscura. Pare incredibile ma la luce soprannaturale e divina, quanto più è chiara e pura, tanto più oscura l’anima, e quanto meno lo è tanto meno l’oscura. Ma ciò si comprende bene se consideriamo quel che abbiamo dimostrato con una sentenza del Filosofo, vale a dire che le cose soprannaturali sono tanto più oscure al nostro intelletto quanto più sono chiare ed evidenti in se stesse. 3. Per far capire più chiaramente faremo un paragone con la luce naturale del giorno. Vediamo infatti che il raggio di sole che entra da una finestra si scorge tanto nitidamente quanto più esso è mondo e puro di pulviscolo; al contrario, tanto più evidente appare all’occhio quanto più l’aria contiene pulviscolo e polvere. La ragione è che la luce non si vede per se stessa ma è il mezzo con cui si vedono le cose su cui cade; allora, per il riverbero che vi produce, anch’essa si percepisce, ma se non cadesse su qualcosa non si vedrebbero né luce né cose; di modo che se un raggio di sole 480

entrasse dalla finestra in una stanza attraversandola da una parte all’altra senza incontrare alcun ostacolo о pulviscolo in cui riverberarsi, la stanza non ne riceverebbe luce, né il raggio sarebbe visibile; anzi, a ben osservare, dove c’è il raggio maggiore è l’oscurità, perché esso, senza che lo si possa vedere, diminuisce e oscura ogni altra luce, per il fatto che non ci sono oggetti visibili in cui possa riverberarsi. 4. Lo stesso effetto il divino raggio della contemplazione lo produce nell’anima, in quanto, investendola con la sua divina luce, ne eccede la natura e perciò la oscura e la priva di tutte quelle apprensioni e affezioni naturali che prima ella riceveva mediante il lume naturale; così non solo la lascia oscura, ma anche vuota secondo le potenze ed appetiti, spirituali e naturali; lasciandola così svuotata e nell’oscurità, la purifica e illumina con la divina luce spirituale, senza che l’anima pensi d’averla in sé, perché anzi crede di giacere nelle tenebre: come abbiamo detto del raggio che, se è puro e non incontra ostacoli, quantunque attraversi la stanza non si vede. Ma quando la luce spirituale da cui l’anima è investita trova qualcosa in cui riverberarsi, ossia quando le si offra da intendere qualche perfezione о imperfezione spirituale о da formulare qualche giudizio intorno al falso e al vero, allora ella vede e intende molto più chiaramente di quanto non facesse prima di trovarsi in queste oscurità. Allo stesso modo, l’anima sa di avere la luce spirituale che le fa capire con facilità l’imperfezione che le si presenta, come quando il raggio di cui s’è detto penetra nella stanza senza che lo si veda finché non venga a rifrangersi su una mano о su un qualsiasi oggetto, perché allora subito si vede la mano e si capisce che lì era penetrata la luce del sole. 5. Questa luce spirituale è semplicissima, pura e generale, non legata in particolare ad alcuna determinazione intelligibile né naturale né divina — poiché l’anima ha le potenze vuote e annichilite circa tutte queste apprensioni —; ne consegue che con grande generalità e facilità essa può 481

contenere e penetrare qualsiasi cosa divina о terrena le si offra; perciò l’Apostolo disse (I Cor. 2, 10) che lo spirituale penetra tutte le cose, persino le profondità di Dio. A questa sapienza generale e semplice va riferito quel che lo Spirito Santo dice per mezzo del Savio (Sap. 7, 24), ossia Che arriva dovunque con la sua purezza, perché non si particolarizza in nessun intelligibile e in nessun affetto determinato. Questa è infatti la proprietà dello spirito purificato e annichilito circa tutte le particolari affezioni e intelligenze: che, non gustando né intendendo niente in particolare e rimanendo nel suo vuoto e nelle sue tenebre, ha grande disposizione d’abbracciare tutto. Si verifica in lui quanto dice San Paolo (2 Cor. 6, 10): Nihil habentes, et omnes possidentes; è infatti la felicità che conviene a tale povertà di spirito. CAPITOLO 9 Si dice conte questa notte, sebbene oscuri lo spirito, abbia lo scopo di illuminarlo e di infondergli luce. 1. Resta ora da dire come questa felice notte, sebbene offuschi lo spirito, non lo oscura se non per infondergli luce in tutte le cose; se lo umilia e lo rende miserabile è solo per esaltarlo ed elevarlo; se lo rende povero e vuoto d’ogni possesso e affetto naturale, è perché possa divinamente espandersi e godere e gustare tutte le cose celesti e terrene con generale libertà di spirito in tutte le cose. Infatti come gli elementi, per permeare tutti i composti e gli enti naturali, non debbono avere nessuna particolarità di colore di odore di sapore, proprio per poter concorrere alla formazione di tutti i sapori e odori e colori, così è necessario che lo spirito se ne stia semplice, puro e spoglio d’ogni genere di affezioni naturali, sia attuali che abituali, per poter comunicare liberamente, con ampiezza di spirito, con la divina Sapienza, nella quale, per la sua purezza, esso riesce a gustare tutti i sapori di tutte le cose, e in modo eminente ed 482

eccellente. Senza questa purificazione in nessun modo lo spirito potrà sentire о gustare la soddisfazione di bitta l’abbondanza dei sapori spirituali; basta infatti che sia attaccato a una sola affezione о particolarità, in modo attuale о abituale, perché più non senta né gusti né comunichi la delicatezza e l’intimo sapore dello spirito d’amore che contiene in sé in modo eminente tutti i sapori. 2. Infatti i figli d’Israele, solo perché avevano conservato l’attaccamento e il ricordo delle carni e dei cibi d’Egitto (Es. 16, 3), non potevano gustare nel deserto quel delicato pane degli angeli che era la manna, la quale, come dice la divina Scrittura (Sap. 16, 21), aveva la soavità di tutti i gusti e trasformava il suo sapore in rapporto al gusto di ciascuno; allo stesso modo, lo spirito che sia ancora attaccato a qualche affetto attuale о abituale, о con conoscenze particolari о con qualche altra apprensione, non può gustare le gioie dello spirito di libertà, secondo quanto la volontà desidera. Ciò accade perché gli affetti, i sentimenti e le apprensioni dello spirito perfetto, in quanto divini, sono di genere e di qualità ben diversa e superiore a quelli naturali; per possederli in modo attuale e abituale, necessariamente in modo altrettanto attuale e abituale si debbono espellere e annichilire gli altri, come avviene di due contrari, che non possono stare insieme nel medesimo soggetto. Pertanto, affinché l’anima giunga a tali altezze, è estremamente necessario che la notte oscura di contemplazione prima ne annichili e distrugga le bassezze gettandola nell’oscurità e rendendola arida, oppressa e vuota; poiché la luce che le deve esser data è altissima e divina, eccedente ogni altra luce naturale e tale che non può essere ricevuta naturalmente dall’intelletto. 3. Affinché dunque l’intelletto possa giungere ad unirsi con questa luce e farsi divino nello stato di perfezione, occorre che prima sia purificato e annichilito nel suo lume 483

naturale e posto attualmente nelle tenebre mediante questa oscura contemplazione. Questa tenebra deve durare quanto è necessario per espellere e annichilire gli abiti del modo di intendere che vi si è formato da tempo, affinché al suo posto resti l’illuminazione e la luce divina. Così, per il fatto che la forza d’intendere che l’intelletto possedeva è naturale, le tenebre che vi soffre sono profonde, orribili e penosissime, perché, in quanto sofferte nella profonda sostanza dello spirito, sembrano tenebre sostanziali. L’affezione d’amore che l’anima dovrà ricevere nella divina unione d’amore è divina e perciò del tutto spirituale, sottile e delicata e tanto interiore da trascendere ogni affetto e sentimento della volontà ed ogni appetito naturale. Perciò la volontà — affinché possa giungere al sentimento e al gusto, per unione d’amore, di questa divina affezione e di questo diletto così sublime del quale la volontà stessa non è capace naturalmente — occorre che prima venga purificata e annichilita in tutti i suoi affetti e sentimenti e che resti nell’aridità e nell’angustia quanto è necessario a seconda delle abituali affezioni naturali che essa coltivava nei confronti sia del divino che dell’umano. E ciò affinché, estenuata e disseccata e del tutto sciolta da ogni genere di demonio entro il fuoco di questa divina contemplazione, come il cuore del pesce di Tobia posto sulla brace (Toh. 6, 19), la volontà abbia disposizione pura e semplice e gusto purificato e sano per sentire i sublimi e straordinari tocchi dell’amore divino in cui si vedrà divinamente trasformata, avendo ormai eliminato ogni precedente contrarietà attuale e abituale di cui abbiamo trattato. 4. Inoltre, in questa unione a cui la dispone e incammina la notte oscura, l’anima dovrà essere ricolma e dotata di una certa magnificenza gloriosa nella comunicazione con Dio; la quale racchiude in sé innumerevoli beni e gioie che superano ogni abbondanza di cui l’anima possa fruire naturalmente, in quanto non può riceverle in una natura tanto debole e impura; dice infatti Isaia (64, 4): Occhio non vide, né orecchio 484

udì, né cuore umano colse ciò che Dio preparò, ecc.; occorre dunque anzitutto che l’anima sia posta nel vuoto e nella povertà di spirito, e purificata da ogni sostegno e consolazione e apprensione naturale riguardanti ogni cosa celeste e terrestre, affinché, così svuotata, si faccia tanto povera di spirito e spoglia dell’uomo vecchio da poter vivere la vita nuova e beata che si acquista mediante questa notte, cioè lo stato d’unione con Dio. 5. L’anima dovrà quindi giungere ad avere un sentimento e una cognizione divina molto sublime e saporosa di tutte le cose divine e umane che non cadono nel suo sentimento comune e nel suo sapere naturale; così guarderà ad esse con occhi tanto diversi da prima quanto differiscono lo spirito dal senso e il divino dall’umano. Perciò lo spirito deve affinarsi e abituarsi riguardo a quel sentire comune e naturale che grazie alla contemplazione purificatrice è stato posto in grande angustia e strettezza; e la memoria deve allontanarsi da ogni notizia dilettevole e pacifica, con atteggiamento e intimo sentimento di pellegrinaggio e di estraneazione da tutte le cose, così che esse le appaiano lontane e diverse da come di solito le apparivano. Così infatti questa notte va togliendo lo spirito dal modo ordinario e comune di sentire le cose, fancedolo passare a quello divino, estraneo e lontano da ogni criterio umano. E tale è la sofferenza, che all’anima sembra di uscire fuori di sé. Altre volte crede di subire un incantesimo о intontimento e va meravigliandosi delle cose che vede e ode perché le sembrano molto insolite e strane, mentre sono le medesime con le quali normalmente aveva a che fare; ciò dipende dal fatto che l’anima va facendosi remota e lontana dal sentimento comune e dalla comune cognizione delle cose, affinché, in ciò, annichilita, resti informata da quello divino, il quale è più dell’altra vita che di questa. 6. L’anima soffre tutte queste purificazioni afflittive dello spirito per rigenerarsi alla vita dello spirito, grazie a 485

quest’influsso divino, e con tali dolori viene a partorire lo spirito di salute, affinché si compia la sentenza di Isaia (26, 17-18): Signore, abbiamo concepito dalla tua faccia e siamo con i dolori del parto e abbiamo partorito lo spirito di salute. Mediante questa notte contemplativa l’anima si dispone inoltre a giungere alla tranquillità e alla pace interiore — di tale natura e tanto dilettevole che, come dice la Chiesa, eccede ogni senso (Fil. 3, 17) —; perciò è necessario che abbandoni ogni sua pace precedente, non propriamente tale in quanto intrisa di imperfezioni, sebbene all’anima paresse pace in quanto conforme al suo gusto, anzi, sebbene le sembrasse una doppia pace, quella del senso e quella dello spirito, dal momento che si vedeva ricolma di ricchezze spirituali. Tale pace del senso e dello spirito che, come dico, invece è ancora imperfetta, deve prima essere purificata e tolta e perturbata dall’altra e ulteriore, come piangendo esprimeva Geremia nel passo riferito, così rappresentando le calamità di questa dura notte: La mia anima è stata divisa e allontanata dalla pace (Lam. 3, 17). 7. Questo è un penoso turbamento dovuto a molti dubbi, immaginazioni e lotte che l’anima reca in sé, per cui, a causa dell’apprensione e del sentimento delle miserie nelle quali si vede, teme d’esser perduta e che ogni bene sia per lei terminato per sempre. Perciò soffre nello spirito un dolore e un così forte lamento da levare alti gemiti e fremiti spirituali, che ora le sfug gono di bocca, ora si sciolgono in lacrime, ma solo quando ne ha la forza e il coraggio, perché raramente gode di questo sollievo. David lo spiega molto bene, ben avendone fatto esperienza, nel salmo che dice: Fui molto afflitto e umiliato, ruggivo col gemito del mio cuore (37, 9). E questo gemito è molto doloroso perché, per l’improvvisa e viva memoria delle miserie nelle quali l’anima si vede immersa, a volte si fa tanto alto e fascia di tali dolori e pene gli affetti dell’anima, che non so spiegarlo se non con le parole che il profeta Giobbe pronunciò (3, 24) in simile travaglio: Il mio ruggito è 486

come quello delle acque in piena; infatti, come talvolta i fiumi straripano fino ad invadere e sommergere tutto, così questo ruggito e sentimento a volte cresce a tal segno che, sommergendo e trapassando tutta l’anima, ne ricolma di angustie e di dolori spirituali tutti gli affetti profondi e le forze, al di là dell’immaginabile. 8. Gli effetti che questa notte produce sono tali da nascon dere le speranze della luce del giorno. A questo proposito dice ancora il profeta Giobbe (30, 17): Durante la notte la mia bocca è trapassata dai dolori e non dormono coloro che mi divorano. Infatti qui bocca sta per volontà, la quale è trapassata da questi dolori che non si assopiscono né cessano di straziare l’anima, poiché i dubbi e i timori che l’attraversano non quietano mai. 9. Questa guerra e questo combattimento sono profondi, poiché la pace che l’anima attende sarà molto profonda; e il dolore spirituale è intimo e delicato, perché interiore e puro è l’amore che dovrà possedere; infatti, quanto più intima e squisita sarà l’opera, tanto più intimo, squisito e puro dovrà essere il lavoro; e tanto più forte, quanto più stabile, dovrà innalzarsi l’edificio. Perciò, come dice Giobbe (30, 16, 27), l’anima avizzisce in se stessa e le sue viscere ardono senza speranza. Lo stato di perfezione verso cui l’anima cammina in questa notte purificatrice le porterà dunque il possesso e il godimento di innumerevoli beni di doni e di virtù, connessi sia alla sua sostanza che alle sue potenze; perciò anzitutto essa, deve sentirsi totalmente lontana e spoglia e povera di tutti questi beni tanto da credere di esserne così lontana da non poter persuadersi di riuscir mai a conseguirli; invece deve credere che ogni bene sia per lei finito, come anche fa comprendere Geremia nel testo (Lam. 3, 17) in cui dice: Ho perduto il ricordo dei beni. 10. Vediamo però ora quale è la causa per cui questa luce 487

di contemplazione, pur essendo tanto soave e dolce per l’anima che niente di meglio potrebbe desiderare — è infatti, come s’è detto, la stessa con la quale l’anima deve unirsi per trovarvi tutti i beni che desidera nello stato di perfezione —, tuttavia, investendola, da principio le provochi gli effetti tanto penosi e dolorosi di cui abbiamo parlato. 11. A questa domanda si risponde facilmente ripetendo quanto in parte abbiamo detto, e cioè che da parte della contemplazione e infusione divina non c’è nulla che per sé possa provocarle sofferenza, ma al contrario viene grande soavità e diletto, come poi si dirà; la causa della sofferenza è invece la debolezza e l’imperfezione dell’anima e le interne disposizioni contrarie a ricevere quei buoni effetti, per cui quando essa è investita dalla luce divina deve soffrire nel modo che s’è detto. CAPITOLO 10 Si spiega a fondo questa purificazione mediante una similitudine. 1. Per chiarire meglio quanto s’è detto e quanto si dovrà dire occorre dunque osservare che la cognizione purificativa e amorosa 0 luce divina di cui abbiamo parlato, purificando e disponendo l’anima alla perfetta unione con sé, si comporta con l’anima allo stesso modo del fuoco con il legno, al fine di trasformarlo in se medesimo. Infatti quando il fuoco materiale s’appicca al legno anzitutto comincia col disseccarlo cacciandone fuori l’umidità e facendo gemere l’umore che contiene; poi va facendolo oscuro, nero e brutto ed anche maleodorante e disseccandolo poco a poco ne mette in luce e toglie via tutti gli accidenti brutti e oscuri che contrastano con il fuoco; e infine cominciando dall’esterno a riscaldarlo e poi a bruciarlo lo assimila a sé rendendolo bello come il fuoco stesso. A questo punto nel legno non c’è più alcuna passione о azione propria, ad eccezione della forza di 488

gravità e della densità, maggiori di quelle del fuoco, avendo ormai del fuoco le proprietà e le azioni; è infatti secco e caldo e chiaro e luminoso, e molto più leggero di prima, in quanto il fuoco gli ha comunicato queste proprietà ed effetti. 2. Allo stesso modo dobbiamo dunque ragionare a proposito del divino fuoco d’amore della contemplazione, il quale, prima di unire e trasformare l’anima in se stesso, la purifica di tutti gli accidenti contrari: la fa uscire fuori da tutte le sue indegnità rendendola nera e oscura, sì che sembra peggiore, più brutta e abominevole di quanto solitamente prima non sembrasse. Infatti questa divina purificazione va liberandola e togliendole tutti i mali ed i viziosi umori che l’anima non riusciva a vedere; per questo dunque non poteva comprendere d’avere in sé tanti mali, poiché erano molto radicati e sedimentati in lei. Ora invece, per cacciarli fuori e annientarli, se li mette davanti agli occhi, e quantunque essa non sia peggiore di prima né in sé né rispetto a Dio, li vede illuminati tanto chiaramente dall’oscura luce della divina contemplazione da riuscire a scorgere in se stessa ciò che prima non vedeva, e si persuade d’esser tale che Dio non solo non le volge il suo sguardo ma l’aborrisce, di questo solo essendo degna. Grazie a questa similitudine possiamo ora capire molte cose a proposito di quel che stiamo dicendo e intendiamo dire. 3. In primo luogo possiamo comprendere come la luce e la sapienza amorosa, con cui l’anima deve unirsi per trasformarsi in lei, è la medesima che da principio la purifica e dispone, così come il fuoco che trasforma in sé il legno incorporandovisi è il medesimo che prima è venuto disponendolo per tale risultato. 4. In secondo luogo possiamo vedere come l’anima senta che queste pene non le provengono dalla sapienza divina — che anzi, come dice il Savio (Sap. 7, n), tutti i beni vengono all’anima insieme con essa — bensì dalla propria fiacchezza e 489

imperfezione, non purificandosi delle quali non può ricevere quella luce divina, quella soavità e quel diletto, così come il legno non può trasformarsi nel fuoco che gli si appicca finché non vi sia disposto, e perciò soffre molto. Ben lo conferma l’Ecclesiastico dicendo quanto abbia sofferto per giungere ad unirsi alla sapienza e a goderla: La mia anima agonizzò per lei e le mie viscere si turbarono per acquistarla, perciò possiederà un grande bene (51, 25 e 29). 5. In terzo luogo, sia pure di scorcio, possiamo dedurre la modalità delle sofferenze delle anime del purgatorio. Infatti il fuoco che le avvolge non avrebbe nessun potere su di loro se non avessero a patire imperfezioni, che costituiscono la materia su cui il fuoco ha potere; quando tale materia venisse meno, non resterebbe niente da ardere; e così, distrutte le imperfezioni, l’anima cessa di soffrire e le resta solo il godere. 6. In quarto luogo deduciamo che, a mano a mano che l’anima va purgandosi e purificandosi per mezzo di questo fuoco d’amore, tanto più va anche infiammandosi d’amore; così come il legno, che tanto più arde quanto più e meglio vi si dispone. Tuttavia non sempre l’anima sente questo ardore amoroso, ma solo alcune volte allorché la contemplazione cessa d’investirla molto fortemente; allora l’anima può vedere e godere il lavoro che si va facendo in lei giacché le viene mostrato; quasi che si alzasse la mano dall’opera e si togliesse il ferro dalla fornace per vedere un poco il lavoro che si sta facendo; in quel momento l’anima ha la possibilità di vedere in sé il bene che non riusciva a vedere nel corso dell’operare. Allo stesso modo solo quando la fiamma cessa d’investire il legno si può vedere bene quanto l’abbia bruciato. 7. In quinto luogo traiamo da questa similitudine anche una conferma di quanto s’è detto prima, vale a dire che è vero che dopo questi sollievi l’anima torna a soffrire più 490

intensamente e raffinatamente di prima. Infatti, dopo la breve apparizione che si ha quando sono ormai purificate tutte le imperfezioni più esteriori, il fuoco d’amore torna a ferire per consumare e purificare più interiormente. In tal modo la sofferenza dell’anima è tanto più intima, sottile e spirituale, quanto più il fuoco va mortificandole le imperfezioni più intime e sottili e spirituali, e più radicate in lei. Le accade come al legno, che quanto più il fuoco lo penetra, con tanto maggior forza e furore lo dispone internamente per possederlo. 8. In sesto luogo si vedrà anche che la causa per cui all’anima sembra d’esser piena di mali e che per lei ogni bene sia finito, dal momento che non fa che ricevere amarezze, è anch’essa simile a quella per cui al legno non s’accosta né aria né altro ma solo il fuoco consumatore. Tuttavia, dopo altre sue apparizioni simili alla prima, l’anima godrà più intimamente, poiché la purificazione è stata più profonda. 9. In settimo luogo si desume che, sebbene l’anima in questi intervalli goda moltissimo, tanto che, come abbiamo detto, a volte le pare che le pene non debbano più tornare, tuttavia, siccome invece le sofferenze dovranno presto ripresentarsi, non cessa di avvertire, se vi bada — a volte l’avverte anche senza badarvi —, il permanere come di una radice che le impedisce di provar gioia piena, in quanto crede d’esser minacciata da un nuovo assalto; e quando è così non tarda a venire. Infine la parte già purificata dell’anima non può nascondere ciò che nella sua parte più intima resta da purificare e illuminare; così nel legno è ben sensibile la differenza tra la parte esterna già accesa e quella interna non ancora purificata. Quando poi questa purificazione torna a investire le parti più interne non c’è da meravigliarsi se l’anima teme un’altra volta d’aver perduto ogni bene e di non poterlo avere più, giacché, dato che si trova in sofferenze più profonde, perde di vista tutto il bene che è più in 491

superfìcie. 10. Tenendo davanti agli occhi questa similitudine e tutto ciò che s’è detto sul primo verso della prima strofa intorno a questa notte oscura e alle sue terribili proprietà, sarà dunque bene lasciar da parte queste tristezze dell’anima e incominciare a trattare del frutto delle sue lacrime e delle sue doti preziose. Di queste si comincia a cantare da questo secondo verso: d’amorose ansie infiammata. CAPITOLO 11 L’anima, come frutto di queste crudeli angustie, è presa da veemente passione d’amore divino. 1. In questo verso l’anima ci fa intendere il fuoco d’amore di cui s’è parlato, che, come il fuoco materiale con il legno, va impadronendosi di lei in questa notte di contemplazione penosa. E se da un lato questo incendio è simile a quello che abbiamo detto verificarsi nella parte sensitiva dell’anima, dall’altro ne è tanto diverso come l’anima dal corpo о la parte spirituale da quella sensitiva. Si tratta infatti di un incendio d’amore nello spirito, in cui, fra tante oscure angustie, l’anima s’accorge d’essere ferita in modo vivo e profondo dall’amore divino, e dunque percepisce un certo sentimento e sentore di Dio, pur senza comprendere niente di determinato, in quanto, come s’è detto, l’intelletto si trova all’oscuro. 2. Lo spirito si sente ora acceso di grande amore, poiché questo incendio spirituale produce passione d’amore; ed essendo amore infuso è più passivo che attivo e perciò genera nell’anima un’ardente passione d’amore. Tale amore ha già in sé qualcosa dell’unione con Dio, partecipando così 492

alquanto delle sue proprietà, che sono più azioni di Dio che dell’anima, poiché questa le riceve passivamente e soltanto dà loro il suo consenso; ma il calore e la forza e la tempra e la passione о incendio d’amore, come l’anima chiama tutto questo, sono prodotti solo dell’amore di Dio che va unendosi con lei. Questo amore trova nell’anima tanto più luogo e disposizione ad unirvisi e a ferirla, quanto più essa ha isolato e indebolito tutti gli appetiti, così che non possano gustare niente d’altro né di celeste né di terreno. 3. Ciò accade in modo singolare in questa oscura purifica zione, come s’è detto, poiché Dio mantiene il gusto dell’anima tanto divezzato e raccolto che esso non può gustare nulla di ciò che desidera. Dio anzi fa in modo di separarlo e raccoglierlo tutto per sé, affinché l’anima acquisti maggiore forza e capacità in vista della possente unione d’amore con Dio, che già con questo mezzo purificativo comincia ad esser data, e in cui l’a nima deve amare robustamente, con ogni energia e appetito spirituale e sensitivo; il che non potrebbe avvenire se le sue energie si disperdessero a gustare altre cose. Perciò David, per poter ricevere la forza d’amore della divina unione prometteva a Dio: Custodirò le mie forze per te (Sal. 58, 10), ossia tutte le capacità e gli appetiti e le forze delle mie potenze non volendo impiegarne l’azione ed il gusto in alcun’altra cosa all’infuori di te. 4. Da ciò si potrebbe in qualche modo misurare quanto grande e forte potrà essere l’incendio d’amore nello spirito, nel quale Dio raccoglie tutte le forze, le potenze e gli appetiti del l’anima, sia spirituali che sensibili, affinché tutta questa armo nia concentri forze e virtù nell’amore e così si realizzi davvero il primo precetto, che, nulla rigettando о escludendo dell’uomo e delle sue cose, comanda: Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua mente e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze (Deut. 6, 5).

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5. Poiché dunque in questo incendio d’amore sono raccolti tutti gli appetiti e le forze dell’anima ed essa è ferita e colpita e appassionata in proporzione di questi appetiti e di queste forze, quali pensiamo possano essere i loro movimenti e spostamenti, infiammati e feriti da forte amore, di cui però non posseggono il termine e perciò non ne ricevono soddisfazione, trovandosi anzi nell’oscurità e nel dubbio? Di essi David afferma: Soffrendo la fame come cani s’aggirano per la città e non saziandosi di questo amore vanno urlando e gemendo (Sal. 58, 7, 15-16). Infatti il tocco di questo amore e fuoco divino a tal punto inaridisce lo spirito, a tal punto ne accende il desiderio di soddisfare la sua sete di questo amore divino, che l’anima si rivolge continuamente in se stessa e in mille modi anche in Dio con la fame e la brama del desiderio. David lo fa ben comprendere nel salmo in cui dice: La mia anima è assetata di te, e in quanti modi aspira a te la mia carne! (62, 2), cioè con tutti i suoi desideri. E un’altra versione dice: La mia anima ebbe sete di te, la mia anima si perde e muore per te. 6. Questa è la ragione per cui nel verso l’anima dice: d’amorose ansie e non invece: con ansie infiammata d’amore; perché in tutti i pensieri che ha dentro di sé e in tutte le vicende e i casi che le si offrono in mille modi, essa ama e desidera e soffre nel desiderio, in mille maniere e tempi e luoghi, in nulla riposandosi, sperimentando quest’ansia nella ferita infocata, come fa comprendere il profeta Giobbe (7, 2-4): Come il servo desidera l’ombra e come il mercenario aspetta la fine del suo lavoro, così io ho avuto mesi vuoti e ho contato lunghe notti di travagli. Se mi metterò a dormire dirò: quando mi leverò? E poi aspetterò la sera e sarò pieno di dolori fino alle tenebre della notte. Per quest’anima tutto diventa angusto: non sta in sé né nel cielo né nella terra, e trabocca di dolori fino alle tenebre di cui dice Giobbe; queste tenebre, parlando spiritualmente e secondo il nostro intento, consistono nell’attendere soffrendo senza consolazione di speranza certa di qualche 494

lume e bene spirituale: così ora soffre l’anima. La sua ansia e la sua pena nell’incendio d’amore si fa dunque più grande in quanto è moltiplicata in due direzioni: in quella delle tenebre spirituali nelle quali si vede immersa, afflitta dai loro dubbi e timori, e in quella dell’amore di Dio, che la infiamma e stimola e dalla cui ferita amorosa è ormai meravigliosamente intimorita. 7. Questi due modi di sofferenza sono ben significati da Isaia (26, 9) quando dice: La mia anima ti desidera nella notte, cioè nella miseria, che è il primo modo di sofferenza provocata da questa notte oscura. Ma — soggiunge — nelle mie viscere fino al mattino veglierò per te, che è il secondo modo di patire, cioè nel desiderio e nell’ansia da parte dell’amore nell’intimità dello spirito, ossia nelle affezioni spirituali. Ma fra queste pene oscure e amorose l’anima percepisce nel proprio intimo una certa compagnia e forza che l’assiste e rinvigorisce a tal segno che se le viene a mancare il peso di queste fìtte tenebre spesso si sente sola, vuota e debole. Ciò perché la forza veniva efficacemente trasmessa e comunicata all’anima, che rimaneva passiva, da parte del fuoco tenebroso d’amore che la travolgeva, e quando questo cessa d’investirla vengono rimosse nell’anima anche le tenebre, la forza e il calore d’amore. CAPITOLO 12 Si dice come questa notte orribile sia un purgatorio e come in essa la Sapienza divina illumina in terra gli uomini con la stessa luce con cui purifica e illumina gli angeli in cielo. 1. Da quanto s’è detto comprenderemo come l’oscura notte di fuoco amoroso nell’oscurità tanto purifica quanto infiamma l’anima. Vedremo anche come, allo stesso modo in cui nella vita futura gli spiriti si purificano con fuoco tenebroso materiale, così in questa vita si purificano e si 495

mondano con tenebroso fuoco d’amore spirituale. Questa è infatti la differenza: là si mondano con fuoco e qui si mondano e illuminano solo coll’amore. Questo amore impetrò David (Sal. 50, 12) quando pregò: Cor mundum crea in me, Deus, ecc. Poiché la purezza di cuore non è che l’amore e la grazia di Dio; perciò i puri di cuore sono chiamati beati dal nostro Salvatore (Mt. 5, 8), vale a dire innamorati, perché la beatitudine non si dà che per amore. 2. Geremia mostra chiaramente che l’anima si purifica illuminandosi con questo fuoco di sapienza amorosa — infatti Dio non dà mai la sapienza mistica senza l’amore, in quanto è nell’amore che la infonde —; dice infatti: Mandò il fuoco nelle mie ossa e mi ammaestrò (Lam. 1, 13). E David dice che la sapienza di Dio è argento provato nel fuoco (Sal. 11, 7): ossia, nel fuoco purificatore dell’amore: Infatti questa contemplazione oscura infonde nell’anima, insieme, amore e sapienza, a ciascuno secondo le proprie capacità e necessità, illuminandola e purificandola delle sue ignoranze, come il Savio dice (Ecclesiastico 51, 25-26) essergli accaduto. 3. Ne desumeremo anche che la medesima Sapienza di Dio, che purifica queste anime e le illumina, purifica anche gli angeli dalle loro ignoranze illuminandoli affinché conoscano ciò che prima non conoscevano; infatti la Sapienza deriva da Dio, dalle supreme alle ultime gerarchie, e da queste agli uomini. Perciò nella Scrittura si dice con verità e proprietà che tutte le angeliche azioni e ispirazioni sono sia di Dio che degli angeli, in quanto ordinariamente Dio le comunica per loro tramite ed essi le trasmettono dagli uni agli altri senza indugio, come il raggio di sole attraversa molte vetrate allineate ordinatamente l’una dietro l’altra; e se è vero che per sé il raggio di sole le attraversa tutte, tuttavia è innegabile che ciascuna vetrata lo trasmette e infonde all’altra, modificato secondo la propria natura, e più о meno intensamente a seconda della maggiore о minore vicinanza del sole. 496

4. Ne consegue che gli spiriti superiori e quelli inferiori, quanto più sono vicini a Dio, tanto più vengono purificati e illuminati da una più grande purificazione e che gli ultimi riceveranno questa illuminazione molto più attenuata e remota. Ne consegue inoltre che l’uomo che si trova all’ultimo grado a cui perviene questa divina contemplazione amorosa, allorché Dio gliela concede, la riceverà in modo conforme al proprio essere, cioè in misura molto limitata e con sofferenza. Infatti quando la luce di Dio illumina l’angelo lo rende splendente e soave nell’amore poiché l’angelo è puro spirito, disposto a tale infusione; ma quando tocca l’uomo, che è un essere impuro e debole, inevitabilmente lo illumina ottenebrandolo, come s’è detto, e procurandogli pena e angoscia, come il sole fa con l’occhio cisposo e ammalato: lo innamora con sofferenze e tribolazioni finché questo stesso fuoco d’amore non lo spiritualizzi e affini, purificandolo fino a che possa ricevere soavemente l’unione di questo amoroso influsso come gli angeli e, come diremo, ormai purificato dal Signore. Ma nel frattempo l’anima riceve questa contemplazione e notizia amorosa con l’angustia e l’ansia amorosa di cui stiamo parlando. 5. Non sempre però l’anima va percependo questo incendio ed ansia d’amore; infatti all’inizio della purificazione spirituale il fuoco divino indirizza tutta la sua forza a disseccare e a disporre acconciamente il legno dell’anima piuttosto che a. riscaldarlo; solo con il passare del tempo, quando ormai il fuoco ha riscaldato l’anima, essa spesso avverte questo incendio e calore d’amore. E siccome l’intelletto, mediante queste tenebre, gradualmente si purifica, talvolta accade che questa mistica e amorosa teologia, nell’atto in cui infiamma la volontà, insieme ferisca la potenza dell’intelletto, folgorandola con qualche notizia e illuminazione divina, in modo tanto saporoso e delicato che con il suo aiuto la volontà si infervora meravigliosamente: questo divino fuoco d’amore 497

arde in lei come fiamma viva, senza che la volontà faccia niente di suo, in modo che all’anima sembra un fuoco raggiante, per la viva intelligenza che le trasmette. A questo genere di fiamma allude David in un salmo (38, 4) dicendo: Si riscaldò il mio cuore dentro di me e mentre intendevo un certo fuoco s’accese. 6. L’incendio d’amore con l’unione delle due potenze, intelletto e volontà, che qui si realizza, è per l’anima di grande ricchezza e diletto, in quanto già rappresenta un certo contatto con la Divinità e l’inizio della perfezione della sperata unione d’amore. Ma a tale tocco di sublime sentimento e amore di Dio si giunge solo dopo aver attraversato molti travagli e gran parte della purificazione; mentre per i tocchi di grado inferiore che ordinariamente accadono non è necessaria una purificazione tanto grande. 7. Da quanto abbiamo detto si deduce come nei beni spirituali, da Dio infusi nell’anima che li riceve passivamente, la volontà può ben amare senza che l’intelletto intenda, così come l’intelletto può intendere senza che la volontà ami; infatti, poiché questa notte oscura di contemplazione si sostanzia di luce e d’amore divino come il fuoco si sostanzia di luce e di calore, non è strano che questa luce amorosa, al suo comunicarsi, a volte ferisca più la volontà infiammandola d’amore e lasci all’oscuro l’intelletto senza colpirlo con la sua luce; e altre volte, folgorando il lume dell’intelletto, lasci arida la volontà: così come avviene che si possa ricevere il calore del fuoco senza vederne la luce, oppure anche vederne la luce senza riceverne il calore; e tutto questo il Signore opera e lo infonde a suo piacimento (cfr. I Cor. 12, 11). CAPITOLO 13 Sugli altri gustosi effetti che questa oscura notte di contemplazione produce nell’anima.

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1. Attraverso tali forme dell’incendio amoroso possiamo comprendere alcuni dei saporosi effetti che questa oscura notte di contemplazione va ormai operando nell’anima; infatti, come abbiamo detto, in mezzo a queste oscurità l’anima talvolta viene illuminata e la luce risplende nelle tenebre (Gv. 1, 5): così l’in telligenza mistica viene comunicata all’intelletto, mentre la vo lontà resta arida, voglio dire senza unione attuale d’amore, con una serenità e una semplicità tanto delicata e piacevole al sen tire dell’anima che essa non sa darle un nome, sentendo Dio ora in un modo ora in un altro. 2. A volte, come s’è detto, questa luce ferisce, insieme, anche la volontà e allora l’amore arde in maniera improvvisa, tenera e forte; infatti accade che queste due potenze, intelletto e volontà, si uniscano, e tanto meglio e più perfettamente si uniscono quanto più l’intelletto si va purificando; ma prima di giungere a questo punto è più facile per la volontà sentire il tocco dell’incendio d’amore che per l’intelletto quello dell’intelligenza. 3. Si pone dunque una questione: dal momento che queste potenze si purificano insieme, perché da principio è più facile che la volontà percepisca l’incendio e l’amore della contemplazione purificativa piuttosto che l’intelletto ne percepisca l’intelligenza? Si risponde che l’amore passivo non colpisce la volontà direttamente, poiché questa è libera, mentre l’incendio d’amore piuttosto che atto libero della volontà è passione d’amore; infatti il calore d’amore colpisce la sostanza dell’anima e di conseguenza ne muove passivamente gli affetti. Ecco perché si deve parlare piuttosto di passione d’amore che di atto libero della volontà, il quale proprio in quanto libero è detto atto della volontà. Tuttavia, poiché queste passioni e questi affetti si riconducono alla volontà, allorché l’anima sia resa ardente da alcuni affetti, con verità si riconosce trattarsi della volontà, che infatti in tal modo 499

diventa schiava e perde la sua libertà fino ad essere trascinata dall’impeto e dalla forza della passione. Perciò possiamo dire che questo incendio d’amore è nella volontà, cioè ne infiamma il desiderio, onde possiamo definirla passione d’amore piuttosto che atto libero della volontà. E poiché la passione ricettiva dell’intelletto può ricevere l’intendimento solo in modo nudo e passivo, il che è impossibile se non sia purificato, perciò, prima della purificazione l’anima sente più di rado il tocco dell’intelligenza che non quello della passione d’amore. Infatti per quest’ultimo non è necessario che la volontà sia tanto purificata dalle passioni, dal momento che anche queste l’aiutano a sentire l’amore appassionato. 4. Questa fiamma e sete d’amore, essendo ormai propria dello spirito, è diversissima dall’altra di cui abbiamo parlato a proposito della notte del senso. Infatti se è vero che anche il senso vi prende parte, in quanto non viene meno la sua parte cipazione al travaglio dello spirito, tuttavia la radice e la viva cità della sete d’amore si sente nella parte superiore dell’anima, cioè nello spirito; ed esso a tale punto coglie e percepisce ciò che gli manca e che pur desidera da non dare alcuna importanza a tutte le pene del senso, sebbene siano senza paragone più gravi di quelle sofferte nella prima notte del senso; e questo perché nel suo intimo sa giudicare la mancanza di un bene così grande da non essere paragonabile con nessun altro. 5. Ma conviene osservare che, se pur da principio, quando inizia la notte spirituale, questa fiamma d’amore non si sente, perché il fuoco d’amore non ha ancora cominciato ad operare, tuttavia in cambio Dio dà all’anima un amore estimativo di Dio tanto eccelso che, come abbiamo detto, la maggior sofferenza patita nei travagli di questa notte consiste proprio nell’ansia di pensare d’aver perduto Dio e d’esserne stata abbandonata. Perciò possiamo affermare che dall’inizio di questa notte l’ansia è sempre avvolta da zelo 500

d’amore, ora estimativo ora fiammeggiante. È chiaro che la maggior sofferenza dell’anima in questi travagli è proprio questo dubbio; se infatti potesse esser certa che non è tutto perduto e finito ma che quanto le accade è per il meglio, come di fatto è, e che Dio non è sdegnato, essa non darebbe alcun peso a quelle pene, anzi ne sarebbe contenta sapendo che sono uno strumento di Dio. Infatti è tanto grande l’amore estimativo dell’anima verso Dio, benché sia all’oscuro e non lo senta, che non solo sopporterebbe quelle pene ma sarebbe contenta di morire mille volte pur di piacergli. Quando poi la fiamma incendia l’anima, insieme con la stima che già ha di Dio, suole acquistare tanta forza e vivacità e ansia per lui, comunicatale dal calore d’amore, che con grande ardore e senza guardare a niente, e nulla temendo, nell’impeto e nell’ebrezza dell’amore e del desiderio farebbe cose strane e inusitate, senza badare a quel che fa e in qualsiasi modo le si rappresentassero, pur di incontrare l’oggetto del suo amore. 6. Per questa ragione Maria Maddalena, pur portandosi il peso della reputazione di prima, non badò ai molti uomini, no tabili о meno, presenti al convito, né se fosse о sembrasse op portuno per lei venire a piangere e a spargere lacrime fra i convitati (Lc. 7, 37-38), ma non attese un’ora sola 0 un’altra occasione pur di poter giungere di fronte a colui dal quale la sua anima era stata ferita e infiammata. Con la medesima ebbrezza e audacia d’amore, sapendo che il suo Amato era chiuso nel sepolcro con una grande pietra sigillata e custodita dai soldati — facevano la guardia affinché i discepoli non lo portassero via (Mt 27, 60-66) — non indugiò a riflettere su queste cose ma si affrettò sin là prima dell’alba per cospargerlo di unguenti (Gv. 20, 1). 7. Infine questa ebbrezza e ansia d’amore la spinse a doman dare a colui ch’ella credeva fosse l’ortolano se l’avesse rapito lui dal sepolcro e dove lo avesse posto, per riprenderselo lei (Gv. 20, 15); né stette a riflettere sul fatto 501

che simile domanda sarebbe sembrata strana a chiunque avesse giudizio e ragione, poiché è evidente che chi l’avesse rubato non gliel’avrebbe detto né gliel’avrebbe lasciato portar via. Ma la forza e la veemenza dell’amore è tale che a chi ama tutto sembra possibile e pare che tutti facciano quello che lui fa, perché crede non esservi altro cui poter attendere о da cercare al di fuori di ciò che egli cerca ed ama; gli sembra infatti che nient’altro vi sia da volere о a cui dedicarsi se non quello, e che tutti abbiano quello stesso fine. Perciò, quando la Sposa uscì in cerca del suo amato per le piazze e i dintorni credendo che tutti facessero lo stesso, li pregò, qualora l’avessero incontrato, di dirgli che ella soffriva per amor suo (Cant. 5, 8). Così la forza dell’amore di Maria Maddalena era tale che, se l’ortolano le avesse rivelato il nascondiglio, ella vi si sarebbe recata per portarselo via, qualunque ostacolo potesse esservi. 8. Di questo genere sono dunque le ansie d’amore che l’anima prova quando già è progredita nella purificazione spirituale. Si leva infatti nella notte, ossia in queste tenebre purificative delle affezioni della volontà; e con la stessa ansia e forza con cui la leonessa о l’orsa vanno in cerca dei loro piccoli che le sono stati tolti e non li trova (2 Re 17, 8; Os. 13, 8), quest’anima ferita va in cerca del suo Dio, poiché, trovandosi nelle tenebre, sente d’esserne priva e di star morendo d’amore per lui. Questo è l’amore impaziente nel quale non si può durare a lungo senza ottenerne l’oggetto о morire, quello che Rachele aveva per i figli quando implorava a Giacobbe: Dammi i figli, altrimenti morirò (Gn. 30, 1). 9. Ora però è necessario considerare come l’anima, sentendosi tanto miserabile e indegna di Dio, come appunto le accade in queste tenebre purificative, conservi la forza tanto audace e coraggiosa di aspirare a congiungersi con Dio. La ragione è che proprio l’amore le va concedendo la forza per amarlo davvero, la caratteristica dell’amore essendo 502

quella di voler unirsi e congiungersi, identificarsi e assimilarsi con la cosa amata per perfezionarsi nel bene d’amore; ne consegue che, sebbene l’anima non sia perfetta nell’amore, non essendo ancora giunta all’unione, tuttavia la fame e la sete che essa ha di ciò che le manca, cioè dell’unione, e le forze che l’amore le ha inculcato nella sua volontà rendendola appassionata, la rendono coraggiosa e audace quanto alla volontà infiammata, sebbene secondo l’intelletto ancora oscuro e non illuminato si senta tanto indegna e si riconosca miserabile. 10. Non voglio tralasciare di parlare della causa per la quale questa luce divina, sebbene sia sempre luce per l’anima, allorché la investe non la illumini subito come farà successivamente, anzi, le provochi le tenebre e i travagli di cui s’è detto. In parte ne abbiamo trattato, ma relativamente a questo dettaglio si risponde che le tenebre e gli altri mali che l’anima prova quando la luce divina la investe non sono propri della luce bensì dell’anima stessa, la quale viene illuminata proprio perché li veda. Ne consegue che la luce divina illumina subito l’anima, ma essa da principio non può vedere se non ciò che le è più vicino, e per meglio dire ciò che è in lei, ossia le sue tenebre e le sue miserie, che ormai vede grazie alla misericordia divina e che prima non vedeva perché non ancora colpita da questa luce soprannaturale. Per questa ragione essa da principio non sente che tenebre e mali; ma dopo che si sarà purificata grazie alla cognizione e al sentimento di quei mali, grazie a questa stessa luce avrà occhi per vedere i beni della luce divina; espulse ormai tutte le tenebre e le impressioni dell’anima, appaiono manifestarsi i vantaggi e i grandi beni che l’anima sta conseguendo nella felice notte di contemplazione. 11. Da quanto s’è detto si comprende dunque come Dio, con questo forte ranno e con purga tanto amara, faccia all’anima la grazia di mondarla e di curarla, secondo la parte sensitiva e quella spirituale, da tutti gli affetti e gli abiti 503

imperfetti che aveva in sé su piano temporale e su piano morale, a livello sensitivo, speculativo e spirituale: Dio le oscura le potenze interiori e la vuota di tutto questo, le opprime e inaridisce le affezioni sensitive e spirituali, debilita e assottiglia le forze naturali dell’anima che riguardano le affezioni — cosa che mai l’anima avrebbe potuto conseguire da sé, come diremo —; e in tal modo Dio naturalmente la fa venir meno a tutto ciò che non è Dio, per rivestirla di nuovo, una volta che si sia spogliata e liberata della sua vecchia pelle. Così si rinnoverà come all’aquilala sua gioventù (Sal. 103, 5), restando rivestita dell’uomo nuovo che, come dice l’Apostolo (Ef. 4, 24), è creato secondo Dio. Ciò è appunto illuminare l’intelletto con la luce soprannaturale in modo che, da umano, si faccia divino unendosi con il divino; e ugualmente è informare la volontà di amore divino, in modo che non sia volontà meno che divina, e non ami meno che divinamente, essendo divenuta una cosa sola con la volontà e l’amore divino; e lo stesso accade alla memoria, nonché alle affezioni e agli appetiti, tutti mutati e diretti divinamente secondo Dio. Così quest’anima sarà ormai anima celestiale e più divina che umana. Tutto questo secondo che abbiamo veduto e spiegato, Dio va operandolo nell’anima mediante questa notte, illuminandola e infiammandola divinamente così che la sua ansia è per Dio solo e per nient’altro. Perciò molto giustamente e ragionevolmente l’anima aggiunge subito il terzo verso della strofa, che dice: o felice ventura! CAPITOLO 14 1. Questa felice ventura è tale per il fatto subito spiegato nei versi seguenti: uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata; 504

dove la metafora è suggerita da colui che, per meglio eseguire il suo piano, esce dalla sua casa di notte, al buio, mentre quelli di casa già dormono, affinché nessuno lo disturbi. L’anima deve dunque uscire per compiere un atto tanto eroico e raro quale è quello di unirsi con il suo divino Amato; e questi non si trova se non fuori, nella solitudine; perciò la Sposa desiderava trovarlo solo, dicendo: Chi mi darà, fratello mio, di trovarti fuori solo e di comunicare con te il mio amore? (Cant. 8, 1); è dunque necessario, per conseguire il fine desiderato, che anche l’anima innamorata si comporti così, cioè esca di notte una volta addormentati e quieti tutti i familiari della casa, ossia dopo che siano addormentate e quiete mediante la notte oscura le operazioni basse e le passioni e gli appetiti della sua anima; sono questi la gente di casa che, se sveglia, impedisce all’anima di conseguire i suoi beni e non le consente d’uscire libera dalle sue mani. Sono questi infatti i domestici che il nostro Salvatore nel Vangelo dice essere i nemici dell’uomo (Mt. 10, 36). Perciò è necessario che le loro operazioni con i moti connessi siano addormentate in tale notte, affinché non impediscano all’anima di conseguire i beni soprannaturali dell’unione d’amore con Dio che non può realizzarsi finché essi sono vivi e operanti; infatti ogni loro azione e movimento naturale è d’ostacolo piuttosto che d’aiuto nel ricevere i beni spirituali dell’unione d’amore, in quanto ogni capacità naturale è insufficiente rispetto ai beni soprannaturali che Dio, solo per sua infusione, pone nell’anima in silenzio, passivamente e segretamente. Per riceverli è dunque necessario che tutte le potenze si mantengano e si comportino passivamente, senza intromettervi le loro vili operazioni e le loro misere inclinazioni. 2. Fu perciò veramente felice ventura per quest’anima che in tale notte Dio addormentasse tutte le persone di casa, cioè tutte le potenze, passioni, affetti e appetiti che vivono in lei sensitivamente e spiritualmente, affinché essa, senza essere 505

notata, ossia impedita dalle medesime, giungesse all’unione spirituale del perfetto amore di Dio. Infatti in tale notte tutte quelle cose rimangono addormentate e mortificate e lasciate al buio affinché non sia loro possibile né vedere né sentire secondo la loro bassa natura, che impedirebbe all’anima di uscire fuori di sé, dalla casa della sensualità. 3. Quale felice ventura è per l’anima poter liberarsi della casa della sensualità! A mio parere, questo non si può comprendere se non da parte dell’anima che n’abbia gustato; infatti essa vedrà chiaramente quanto misera era la sua schiavitù e a quante miserie era soggetta allorché subiva l’azione delle proprie potenze e appetiti, e conoscerà come la vita dello spirito sia la vera libertà e ricchezza che comporta beni inestimabili; alcuni dei quali metteremo in luce nelle seguenti strofe, dove con maggior chiarezza si vedrà quanta ragione l’anima abbia di cantare la felice avventura dell’attraversamento dell’orribile notte di cui si è parlato. CAPITOLO 15 Allo scuro e sicura per la segreta scala, travestita, 0 felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. 1. In questa strofa l’anima insiste nel cantare alcune proprietà della notte oscura, confermando la buona ventura che gliene venne. E descrive queste proprietà rispondendo alla sottaciuta obiezione che abbia corso il rischio di perdervisi, per il fatto che in questa notte e oscurità ha attraversato tanto tormento d’angosce, dubbi, timori e orrori. Perciò sostiene che il rischio è impensabile perché, invece, nell’oscurità di questa notte essa ha guadagnato, liberandosi e sfuggendo abilmente ai suoi avversari che le chiudevano 506

sempre il passaggio. Infatti nell’oscurità della notte essa avanza ora con abito mutato, travestita, con le tre livree e i colori dei quali parleremo, e per una scala molto segreta, ignota a tutti quelli di casa; come preciseremo a suo luogo, questa è la viva fede attraverso cui uscì ben occulta e celata, per compiere bene la sua impresa, che non potrebbe ormai essere meglio assicurata, tanto più che, in questa notte purificativa, appetiti, affetti e passioni, ecc. sono addormentati e mortificati e spenti, ché se fossero svegli e vivaci non glielo consentirebbero. Segue dunque il verso che dice: Allo scuro e sicura. CAPITOLO 16 Si spiega come l’anima procedendo alla scuro vada sicura. 1. L’oscurità di cui qui parla l’anima si riferisce, come abbiamo detto, agli appetiti e alle potenze sensitive, interiori e spirituali, poiché in questa notte si oscurano al proprio lume naturale, affinché, purificandosene, possano essere illuminate dal lume soprannaturale. Gli aspetti sensitivi e spirituali se ne stanno infatti addormentati e mortificati senza più gustare nessuna cosa né divina né umana; gli affetti dell’anima, compressi e schiacciati senza poter muoversi verso di essa né appoggiarvisi; l’immaginazione, legata senza possibilità di alcun discorso buono; la memoria è estinta; l’intelletto, ottenebrato, è incapace di capire alcunché; e anche la volontà è arida e angustiata, tutte le sue potenze vuote e inutili, e soprattutto grava sull’anima una densa nube pesante che la tiene angosciata e lontana da Dio. In questo modo, qui, l’anima dice di procedere allo scuro e sicura. 2. La ragione è evidente; infatti normalmente l’anima non erra se non a causa dei propri appetiti о gusti о discorsi о 507

cognizioni о affetti, in quanto di solito vi eccede о ne manca о è variabile о si confonde о inclina verso ciò che non conviene. Perciò, una volta che tutte queste operazioni e movimenti le siano impediti, è chiaro come l’anima sia sicura di non sbagliare a loro proposito, in quanto si libera non solo di sé ma anche degli altri nemici, cioè del mondo e del demonio, i quali, estinte le sue affezioni e operazioni, per nessun’altra via né modo possono farle guerra. 3. Ne consegue che, quanto più l’anima procede allo scuro e vuota delle operazioni naturali, tanto più va sicura; poiché, come dice il profeta (Os. 13, 9), la perdizione proviene all’anima solo da se stessa, ossia dalle sue operazioni e appetiti interiori e sensitivi, e il bene, dice Dio, solo da me. Pertanto, non appena libera dai suoi mali, immediatamente i beni dell’unione con Dio subentrano nei suoi appetiti e potenze, che diventano così divine e celestiali. Perciò se durante queste tenebre l’anima vi rifletterà, riuscirà a capire molto bene quanto poco l’appetito e le potenze si perdono in cose inutili e dannose, e quanto essa sia sicura da vanagloria, superbia e presunzione vana e falsa gioia, e da molte altre cose. Se ne conclude perciò che, camminando allo scuro, l’anima non solo non si perde anzi ne trae grande profitto poiché vi acquista le virtù. 4. Qui sorge però un dubbio: se le cose di Dio di per sé giovano all’anima, se l’avvantaggiano e la rendono sicura, perché in questa notte Dio le oscura anche gli appetiti e le potenze riguardanti queste cose buone, in modo che non possa gustarne né servirsene, come delle altre, anzi talvolta anche meno? Si risponde che è necessario che l’anima resti priva anche delle operazioni e del gusto riguardanti le cose spirituali, in quanto le sue potenze e i suoi appetiti sono ancora molto impuri e bassi e naturali; per cui anche se fosse loro concesso d’assaporare con queste potenze le cose soprannaturali e divine, e di servirsene, non potrebbero riceverle se non a modo proprio, cioè molto basso e naturale. 508

Poiché, come dice il Filosofo, qualunque cosa si riceva la si riceve nel modo di chi la riceve. Poiché dunque queste potenze naturali non hanno né forza né purezza né capacità di poter ricevere e gustare le cose soprannaturali secondo la natura di queste che è divina, bensì solo secondo la propria, che è umana e bassa, è necessario, come abbiamo detto, che vengano oscurate anche riguardo alle cose divine: divezzate e purificate e annichilite con questo criterio superiore, perderanno quel modo basso e umano di ricevere e di operare, così che queste potenze e appetiti dell’anima divengano disposti e preparati a ricevere, sentire e gustare il divino e il soprannaturale in modo alto e sublime, il che non può avvenire se prima non muore l’uomo vecchio (Col. 3, 9). 5. Ne consegue che tutto ciò che è spirituale se non viene comunicato dall’alto del Padre dei lumi (Giac. 1, 17) all’arbitrio e all’appetito umano, quand’anche il gusto e le potenze dell’uomo si esercitassero con Dio e credessero di poterlo gustare molto, non lo gusteranno mai in modo divino e spirituale, bensì in modo umano e naturale, come tutte le altre cose, in quanto i beni non vanno dall’uomo a Dio ma da Dio all’uomo. Se non fosse fuori luogo potremmo a proposito spiegare come molte persone, le cui potenze sono ricche di gusti e affetti e operazioni nei confronti di Dio о delle cose spirituali, s’illuderanno forse che si tratti di qualcosa di soprannaturale e di spirituale, mentre invece non si tratterà che di atti e di appetiti del tutto naturali e umani, che essi coltivano nei confronti delle cose buone esattamente come nei confronti di tutto il resto, per una certa loro naturale facilità di muovere l’appetito e le potenze verso qualsiasi cosa. 6. Ne tratteremo in seguito se ne avremo occasione, indicando alcuni segni mediante i quali distinguere quando i movimenti e gli atti interiori dell’anima in rapporto a Dio siano solo naturali, quando solo spirituali, e quando l’ima e 509

l’altra cosa insieme. Qui basti sapere che, per poter essere mossi da Dio divinamente, gli atti e i movimenti interiori dell’anima debbono anzitutto essere oscurati, addormentati e pacificati naturalmente rispetto a ogni loro capacità e operazione, fino a che queste non vengano meno. 7. Anima spirituale, quando vedrai oscurato il tuo appetito, i tuoi affetti aridi e compressi, e le tue potenze incapaci di qualsiasi esercizio interiore, non appenartene, anzi consideralo una buona sorte; infatti Dio va liberandoti da te stessa togliendoti di mano i tuoi averi; con queste tue potenze, infatti, per bene che t’andasse, a causa della loro impurità e lentezza non potresti agire in modo tanto giusto, perfetto e sicuro, come invece fai ora che Dio t’ha preso per mano e ti guida come un cieco in quelle tenebre, per le quali mai sapresti ben camminare con i tuoi piedi e con l’aiuto dei tuoi occhi, per quanto agilmente potessero servirti. 8. Un’altra causa per cui l’anima, quando cammina così allo scuro, non solo va sicura, ma ne ritrae anche grande vantaggio e profitto, è che comunemente essa riceve nuovi e maggiori benefici donde meno se li aspetta; in genere, anzi, pensa trattarsi di qualcosa in cui le è possibile addirittura perdersi, non avendo mai sperimentato quella novità che la sconcerta, abbacina e distoglie dal precedente modo di procedere; e pensa di perdersi, anziché di battere una via sicura e vantaggiosa, in quanto s’accorge di smarrire quel che sapeva e gustava e di procedere per luoghi ove né sa né gusta. E perciò simile al viandante che per recarsi in nuove terre mai conosciute né sperimentate procede per vie nuove, sconosciute e non sperimentate, non istradato da quanto sapeva ma dall’incerta guida delle parole altrui. Ed è chiaro che costui non potrebbe giungere a nuove terre, né sapere qualcosa di nuovo, se non per vie nuove e sconosciute, lasciate quelle note; e allo stesso modo chi va perfezionandosi in una professione о in un’arte, procede 510

sempre allo scuro non basandosi sul solo sapere acquisito, perché, se non l’oltrepassasse, non ne uscirebbe mai né progredirebbe; allo stesso modo, l’anima trae profitto maggiore quando procede allo scuro e non sapendo. Pertanto, poiché Dio, come abbiamo detto, è il maestro e la guida di questo cieco che è l’anima, compreso ormai quanto ora s’è detto, può in verità rallegrarsi e dire: allo scuro e sicura. 9. Un ‘altra causa ancora per cui l’anima in queste tenebre ha proceduto sicura è che ha camminato soffrendo; infatti il cammino del soffrire è più sicuro e vantaggioso di quello del godere e dell’agire: in primo luogo perché nel soffrire riceve nuove forze da Dio, mentre nell’agire e nel godere l’anima esercita le proprie debolezze e imperfezioni; in secondo luogo perché nel soffrire si esercitano ed acquistano le virtù, e l’anima si purifica divenendo più saggia e prudente. 10. Ma c’è un’altra causa ancora più importante per cui l’anima allo scuro procede sicura; la causa si cela in quella luce о sapienza oscura, in quanto l’oscura notte di contemplazione a tal punto investe di sé e in sé assorbe l’anima e la pone tanto vicina a Dio, che la protegge e libera da tutto ciò che non è Dio. Infatti essendo l’anima curata per conseguire la propria salute, che è Dio stesso, la Maestà divina la tiene a dieta in astinenza da tutte le cose, delle quali perciò perde l’appetito; come quando, per risanare un carissimo infermo di casa, lo si protegge tanto da non lasciargli prender aria, né godere luce, né udire passi e neppure rumori domestici, e gli si somministrano accuratamente cibi assai delicati, più sostanziosi che saporiti. 11. La contemplazione oscura genera nell’anima tutte queste proprietà, e tutte riguardano la sua sicurezza e la sua custodia, poiché essa si trova più vicina a Dio; e quanto più l’anima si avvicina a Dio, per sua debolezza sperimenta tenebre tanto più fitte e tanto più fonda oscurità; come colui 511

che s’avvicinasse di più al sole e al suo splendore procurerebbe maggiori tenebre e sofferenze alla fragile impurità dei propri occhi. Ora, la luce spirituale di Dio è tanto immensa e di tanto trascende l’intelletto naturale che quanto l’anima più vi s’accosta, più l’acceca e l’ottenebra. Per questo motivo nel salmo 17 (v. 12) David dice che Dio pose le tenebre per suo nascondiglio e occultamento e intorno a sé fece una tenda d’acqua tenebrosa nelle nubi dell’aria. Quest’acqua tenebrosa nelle nubi dell’aria è quella contemplazione oscura e la sapienza divina infusa nelle anime, di cui stiamo parlando; esse la percepiscono come cosa che sta vicino a Dio, come tabernacolo ove dimora, allorché egli le unisce maggiormente a sé. Così ciò che in Dio è luce e splendore più alto, per l’uomo è tenebra più oscura, come afferma San Paolo (I Cor. 2, 14) e come anche ribadisce David nello stesso salmo (17, 13): Per lo splendore della sua presenza uscirono fuori nuvole e cateratte, vale a dire per l’intelletto naturale, la cui luce, come dice Isaia nel capitolo 5 (v. 30) obtenebrata est in caligine eius. 12. О misera condizione della vita, in cui si vive in pericoli tanto grandi e con tanta difficoltà si riconosce il vero, poiché ciò che è più chiaro e vero e che più ci conviene è per noi oscuro e dubbioso e dunque lo fuggiamo, per abbracciare e inseguire invece quel che più risplende e sazia il nostro occhio, sebbene sia per noi il peggio che ci fa inciampare ad ogni passo! In quanto grande pericolo e timore vive l’uomo, se la stessa luce naturale dei suoi occhi che dovrebbe guidarlo costituisce invece il primo abbaglio e inganno nel cammino verso Dio, per cui, se vuol vedere con certezza dove andare, è necessario che cammini a occhi chiusi e allo scuro, per procedere sicuro dai nemici familiari della sua casa, cioè dai suoi stessi sensi e potenze! 13. L’anima sta dunque bene qui, nascosta e protetta nell’acqua tenebrosa che è vicina a Dio. Infatti come a Dio serve da tabernacolo e dimora, ugualmente all’anima servirà 512

da protezione e perfetta difesa da se stessa e da tutti i danni delle creature, come abbiamo detto, quantunque essa resti nelle tenebre. A tali cose si riferisce ancora lo stesso David in un altro salmo (30, 21), là dove dice: Li nasconderai nel nascondiglio del tuo volto dal turbamento degli uomini; li proteggerai nel tuo tabernacolo dalla contraddizione delle lingue, espressione che va riferita ad ogni genere di difesa. Infatti essere nascosti nel volto di Dio dal turbamento degli uomini significa essere rinvigoriti mediante questa oscura contemplazione contro tutte le occasioni che possono sopraggiungere da parte degli uomini. Ed essere protetti nel suo tabernacolo dalla contraddizione delle lingue significa che l’anima deve stare immersa in quest’acqua tenebrosa, che è il tabernacolo di cui parla David. L’anima dunque, essendo tutti i suoi appetiti ed affetti divezzati e le sue potenze oscurate, è libera da tutte le imperfezioni contrarie allo spirito, sia della propria carne che delle altre creature. Perciò essa può ben dire d’andare allo scuro e sicura. 14. Un’altra causa non meno efficace della precedente ci fa meglio comprendere perché quest’anima va sicura allo scuro: è la forza che questa oscura, penosa e tenebrosa acqua di Dio comunica subito all’anima; sebbene tenebrosa, è tuttavia sempre acqua e perciò non cessa di ristorare e fortificare l’anima in ciò che più le conviene, sebbene ciò accada allo scuro e con sofferenze. Infatti ben presto l’anima scorge in sé una vera ed efficace determinazione di non far nulla ch’essa conosca essere offesa a Dio, e di non omettere nulla che giudichi in suo servizio; quell’amore oscuro è di fatto in lei congiunto con una preoccupazione e sollecitudine interiore molto vigile nei confronti di quanto farà о non farà per piacere a lui, onde essa scruta in mille modi per vedere se nel suo intimo vi sia stato motivo per spiacergli; e tutto questo fa con maggior cura e sollecitudine di prima, come s’è detto a proposito delle ansie d’amore. Qui infatti tutti gli appetiti e le forze e le potenze dell’anima sono raccolti lontani da tutte le altre cose, e i loro atti e le loro forze sono 513

usati soltanto in ossequio al loro Dio. In tal modo l’anima esce da se stessa e da tutte le cose create verso la dolce e deliziosa unione d’amore con Dio, allo scuro e sicura. CAPITOLO 17 Si spiega come questa contemplazione oscura sia segreta. Per la segreta scala, travestita. 1. È necessario spiegare le tre proprietà riguardanti i tre vocaboli che il presente verso contiene. Due, vale a dire segreta e scala, appartengono alla notte oscura di contemplazione di cui stiamo trattando; la terza, vale a dire travestita, appartiene all’anima a causa del modo da lei usato in questa notte. Quanto alle prime due parole c’è da osservare che in questo verso l’anima chiama scala segreta la notte oscura di contemplazione mediante la quale va uscendo verso l’unione con Dio proprio grazie alle due proprietà qui presenti, vale a dire grazie al fatto che è segreta ed è scala; tratteremo distintamente di ciascuna. 2. In primo luogo l’anima chiama segreta questa contemplazione tenebrosa poiché, come abbiamo già detto, si tratta della teologia mistica che i teologi chiamano sapienza segreta, di cui San Tommaso dice6 che si comunica e infonde nell’anima per mezzo dell’amore, il che accade segretamente e all’oscuro dall’azione dell’intelletto e delle altre potenze. Tali potenze non possono conseguirla da sé, ma è lo Spirito Santo che la introduce e la infonde nell’anima, come dice la Sposa nel Cantico dei cantici (2, 4), senza che essa lo sappia e senza comprendere come ciò accada, e perciò si chiama segreta. E in verità l’anima non è la sola a non capire: nessuno infatti può capire, nemmeno il demonio, in quanto il Maestro che la insegna risiede 514

sostanzialmente nell’anima, dove né il demonio né il senso naturale né l’intelletto possono giungere. 3. Né solo per questo si può chiamare segreta, ma anche per gli effetti che produce nell’anima. Infatti questa sapienza amorosa non è segreta soltanto quando nelle tenebre e nelle angustie della purificazione purga l’anima mentre questa non sa esprimerla; ma anche dopo, nell’illuminazione, allorché questa sapienza si comunica con maggiore chiarezza, permane tanto segreta che l’anima non sa parlare né trovare i termini per esprimerla e nemmeno sente alcun desiderio di esprimerla, né sa trovare modo adeguato per significare una cognizione tanto sublime e un sentimento spirituale tanto delicato. Così, se anche l’anima avesse grande desiderio di parlarne e potesse esprimere molti significati, questa sapienza resterebbe pur sempre segreta e indicibile. Quella sapienza interiore è semplicissima, generale e spirituale, tanto che non è entrata nell’intelletto né si è rivestita di qualche specie о immagine soggetta ai sensi; ne consegue che il senso e l’immaginativa, non essendone stati il tramite, non ne hanno sperimentato né l’abito né il carattere e dunque non sanno darne notizia né immaginarla in modo da poter dirne qualcosa: e ciò, sebbene l’anima sappia chiaramente di comprendere e gustare quella sapienza saporosa e rara. Le accade come a chi veda qualcosa di cui non abbia mai visto nulla di simile: anche se la percepisse e gustasse non saprebbe darle un nome né dire che cosa sia, per quanto tentasse; e se questo accade con cose percepite dai sensi, quanto meno potrà dunque manifestarsi ciò che non è passato attraverso i sensi! Il linguaggio di Dio ha infatti questa proprietà, che essendo tanto spirituale e tanto intimo all’anima, di cui eccede ogni senso, fa subito cessare e ammutolire tutta l’armonia e l’efficienza dei sensi esterni ed interni. 4. Di ciò abbiamo, insieme, testi ed esempi nella divina 515

Scrittura. Geremia dimostrò infatti l’impotenza di manifestare esteriormente quella sapienza e di parlarne allorché, avendogli Dio parlato, non seppe dire se non a, a, a (1, 6). Anche Mosè manifestò la stessa capacità interiore, cioè del senso interno dell’immaginazione, insieme a quella del senso esterno, allorché, davanti a Dio nel roveto (Es. 4, 10), non solo confessò di non saper più parlare bene dopo avergli parlato, ma anche, secondo quanto si dice negli Atti degli Apostoli (7, 32), di non riuscire a riflettere con l’immaginazione interiore, sembrandogli che questa fosse troppo lontana e muta per dar forma a ciò che pur intendeva in Dio, e che anzi gli sembrava di non avere nemmeno la capacità di riceverne alcunché. Poiché dunque la sapienza di questa contemplazione è per l’anima linguaggio di Dio, da puro spirito a spirito puro, ne consegue che tutto ciò che è meno che spirito, come lo sono i sensi, non può riceverlo e perciò le resta segreto, e non lo può esprimere, né vuol farlo, perché non sa come. 5. Possiamo dedurne per quale causa alcuni che percorrono questo cammino, dotati d’animo buono e timorato, mentre vorrebbero dar conto del loro stato a chi li dirige, non sanno né possono farlo; e perciò provano grande ripugnanza a parlarne, specialmente quando la contemplazione è tanto semplice che l’anima stessa a stento la percepisce; sanno solo asserire che la loro anima è soddisfatta, quieta, contenta, che sentono Dio, che a loro parere tutto va bene; ma non possono esprimere ciò che l’anima possiede né troveranno altro che termini generali simili a questi. Diverso è il caso in cui l’anima è toccata da doni particolari, come visioni, sentimenti, ecc., che in genere si ricevono sotto qualche specie cui partecipa il senso: allora infatti se ne può parlare con i criteri propri di quella specie о di altra simile. Ma la capacità di esprimere queste visioni è aliena dalla pura contemplazione, la quale, come abbiamo detto, resta ineffabile e perciò si chiama segreta.

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6. E non solo per questo la sapienza mistica si dice ed è segreta; essa ha anche la proprietà di nascondere in sé l’anima. Infatti, oltre agli effetti ordinari, a volte assorbe l’anima e l’immerge nel suo abisso segreto in maniera tale che essa vede chiaramente di trovarsi lontanissima e remotissima da ogni creatura; le sembra così d’esser posta in una solitudine profondissima e vastissima, dove nessuna creatura umana può giungere, come in un deserto immenso e sconfinato, tanto più dilettevole, saporoso e amoroso, quanto più profondo, vasto e solitario; qui l’anima, vedendosi elevata al di sopra di ogni creatura temporale, s’accorge di essere molto segreta. Quest’abisso di sapienza tanto eleva ed esalta l’anima, ponendola nelle vene della scienza d’amore, da farle conoscere non solo che ogni creatura è a un livello bassissimo rispetto a questo supremo sapere e sentire divino, ma anche quanto bassi e insufficienti e in qualche modo impropri siano tutti i termini e le parole che si usano in questa vita per trattare delle cose divine; e inoltre come sia impossibile, per quanto altamente e saggiamente se ne parli, intendere e sentire come, senza l’illuminazione di questa mistica teologia, il trattare delle cose divine resti a livello dei metodi e dei modi naturali. Mediante la sua illuminazione l’anima comprende dunque che la sapienza non si può raggiungere e nemmeno spiegare con termini ordinari e umani, e perciò a ragione la chiama segreta. 7. La divina contemplazione possiede la proprietà d’essere segreta e di trascendere la capacità naturale non solo perché è soprannaturale ma anche perché è via e guida che conduce l’anima alle perfezioni dell’unione con Dio, verso le quali, trattandosi di cose che umanamente non si conoscono, si deve camminare umanamente non sapendo, e divinamente ignorando. Infatti, parlando misticamente, come facciamo, le perfezioni divine non si conoscono né si comprendono nella loro natura allorché se ne cercano о se ne fruisce, bensì quando si sono trovate e sperimentate. A 517

questo proposito il profeta Baruc dice (3, 31) della Sapienza divina: Non c’è chi possa conoscerne le vie né chi possa concepirne i sentieri. Anche il profeta regale così dice del cammino dell’anima parlando con Dio: I tuoi fulgori illuminarono e fecero risplendere il globo terrestre e la terra s’agitò e tremò. Nel mare è la tua via e i tuoi sentieri fra molte acque e le tue orme non si conosceranno (Sal. 76, 1920). 8. Tutto ciò va riferito, spiritualmente parlando, all’argomento che trattiamo. Infatti gli splendori di Dio che illuminano il globo terrestre raffigurano l’illuminazione che la contemplazione divina produce nelle potenze dell’anima; l’agitarsi e tremare della terra simboleggia la purificazione penosa che si provoca in lei; il dire poi che la via e il cammino di Dio, attraverso cui l’anima va a lui, è nel mare e le sue orme fra molte acque e perciò non si conosceranno, significa che questo cammino per andare a Dio è tanto segreto e occulto per il sentimento dell’anima come per il corpo quello del mare, i cui sentieri e orme non si conoscono. Infatti i passi e le orme che Dio va imprimendo nelle anime che vuole giungano a lui, per renderle grandi nell’unione con la sua Sapienza, hanno la caratteristica di non essere conosciuti. Perciò, rafforzando l’argomento, così si dice nel libro di Giobbe (37, 16): Hai tu forse conosciuto le grandi vie delle nubi o le scienze perfette?; intendendo con ciò le vie e i cammini qui simboleggiati dalle nubi, attraverso i quali Dio va ingrandendo le anime e perfezionandole nella sua sapienza. Si conclude dunque che questa contemplazione, che va guidando l’anima a Dio, è sapienza segreta. CAPITOLO 18 Si spiega come questa sapienza segreta sia anche scala. 1. Resta ora da esaminare la seconda proprietà, vale a dire 518

come questa sapienza segreta sia anche scala. E innanzitutto conviene sapere che per molte ragioni questa segreta contemplazione può essere chiamata scala. In primo luogo perché, come la scala si sale dando la scalata ai beni e ai tesori e alle cose nascoste nelle fortezze, così anche per mezzo di questa segreta contemplazione, senza sapere corne, l’anima dà la scalata ai beni e ai tesori del cielo per conoscerli e possederli. Lo fa ben comprendere il profeta regale quando dice: Beato colui che ha il tuo favore e il tuo aiuto, perché nella valle delle lacrime dispose in cuor suo di salire nel luogo che si è proposto; in tal modo il Signore della legge gli darà la sua benedizione e camminerà di virtù in virtù come di gradino in gradino e in Sion apparirà il Dio degli dèi (Sal. 83, 12-13), il quale è il tesoro della fortezza di Sion, cioè la beatitudine. 2. Possiamo chiamarla scala anche perché, come in una scala mediante gli stessi gradini si può salire e scendere, così questa segreta contemplazione, con le medesime comunicazioni innalza l’anima in Dio e la umilia in se stessa. Infatti le comunicazioni veramente divine hanno la proprietà di elevare e ad un tempo di umiliare l’anima, in quanto su questo cammino il discendere è salire e il salire è discendere, dal momento che chi si umilia sarà innalzato e chi si innalza sarà umiliato (Lc. 14, 11). E oltre al fatto che la virtù dell’umiltà è grandezza in cui l’anima deve esercitarsi, Dio suole far salire l’anima su questa scala affinché discenda, e farla discendere affinché salga, così che si compia quanto dice il Savio (Prov. 18, 12), cioè: Prima di essere innalzata l’anima viene umiliata e prima di essere umiliata viene innalzata. 3. Parlando ora naturalmente, l’anima — tralasciando ciò che è spirituale e non si percepisce —, se vorrà riflettervi, riconoscerà chiaramente quanti alti e bassi patisca, come al godimento della prosperità subito succeda qualche tempesta e travaglio, sicché quella bonaccia le sembra data per 519

prepararla e rinforzarla alla successiva penuria, e come dopo la miseria e la tormenta sopravvengano abbondanza e bonaccia; perciò all’anima sembra d’essere stata posta in quella dura vigilia solo per godere poi quella festa. Questo è il modo ordinario e l’esercizio dello stato di contemplazione, finché non si raggiunge lo stato di quiete: non si rimane mai nel medesimo stato ma è un continuo salire e scendere. 4. E la ragione sta in ciò: siccome lo stato di perfezione, che consiste nel perfetto amore di Dio e nel disprezzo di sé, non può sussistere senza due termini, che sono la conoscenza di Dio e la conoscenza di se stessi, necessariamente l’anima deve eserci tarsi prima nell’uno e poi nell’altro; così Dio ora le fa gustare il primo esaltandola e le fa provare il secondo umiliandola, finché, acquisti gli abiti perfetti, cessi di salire e scendere, essendo per venuta ormai al termine, cioè trovandosi in Dio, che è al cul mine di questa scala, al quale essa s’appoggia come alla propria base. Questa scala di contemplazione, come abbiamo detto, proviene da Dio ed è simoleggiata da quella che Giacobbe vide dormendo, lungo la quale salivano e scendevano gli angeli, da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio, e Dio stava appoggiato alla sua estremità (Gn. 28, 12). La divina Scrittura dice che tutto ciò accadeva di notte, mentre Giacobbe dormiva, per farci comprendere quanto segreto e diverso dal sapere umano sia il cammino della salita a Dio. Ed è chiaro: ordinariamente infatti l’uomo ritiene peggiore ciò che gli è di maggiore profìtto, cioè perdere e annichilire se stesso, mentre reputa migliore ciò che vale di meno, ossia trovare quella propria consolazione e quel proprio gusto, ove generalmente, se vi si affida, più che guadagnare perde. 5. Ma, per parlare ora in modo assai più sostanziale di questa segreta scala di contemplazione, diremo che la proprietà prin cipale per cui la si chiama scala è il fatto che la contemplazione è scienza d’amore: ora, come abbiamo detto, essa è amorosa notizia infusa da Dio che illumina e insieme 520

innamora l’anima, tanto da elevarla di grado in grado fino a Dio suo Creatore, poiché solo l’amore unisce e congiunge l’anima con Dio. Pertanto, per spiegarci più chiaramente, verremo ora abbozzando i gradi di questa scala divina, parlando brevemente dei segni e degli effetti di ciascuno, onde l’anima possa congetturare in quale si trovi. Distingueremo perciò i gradi dai loro effetti, come fanno San Bernardo e San Tommaso; poiché per via naturale non è possibile conoscerli in sé, in quanto, come abbiamo detto, questa scala d’amore è tanto segreta che solo Dio la misura e pesa7. CAPITOLO 19 1. Diciamo dunque che sono dieci i gradi di questa scala d’amore, attraverso i quali dall’uno all’altro l’anima va salendo a Dio. Il primo grado d’amore fa ammalare l’anima fruttuosamente. La Sposa si trova in tale grado allorché dice: Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, che se incontrate il mio Amato gli diciate che sono malata d’amore (Cant. 5, 8). Ma questa infermità non tende alla morte, bensì alla gloria di Dio (Gv. 11, 4), poiché in questa infermità l’anima, per amore di Dio, si libera del peccato e di tutto ciò che non è Dio, come testimonia Davide (Sal. 118, 81) dicendo: La mia anima venne meno, cioè nei confronti di tutte le cose per la tua salvezza. Infatti come il malato perde l’appetito e il gusto di tutti i cibi e muta colore, così anche in questo grado d’amore l’anima perde il gusto e l’appetito di tutte le cose e, come l’amante, cambia i toni e le abitudini della vita passata. L’anima non cade in tale infermità se non le viene inviato dall’alto un eccesso di calore, come David fa capire con il verso (Sal. 67, 10) che dice: Pluviam voluntariam segregabis, Deus, haereditati tuae, et infirmata est, ecc. Questa infermità e questo venir meno a tutte le cose, che è il principio e il primo grado per andare a Dio, li abbiamo già 521

descritti parlando dell’annichilimento in cui l’anima si vede allorché s’avvia a questa scala di purificazione contemplativa, quando non può trovar gusto né appoggio né consolazione né riposo in nessuna cosa. Perciò da questo grado essa comincia subito a salire al secondo. 2. Il secondo grado spinge l’anima a cercare incessantemente Dio. Perciò quando la Sposa, languente nel primo grado d’amore, di notte cercava lo Sposo nel suo letto, non trovandolo disse: Mi leverò e cercherò colui che la mia anima ama (Cant. 3, 2). E l’anima, come abbiamo detto, fa questa sosta — secondo il consiglio di David (Sal. 104, 4): Cercate sempre il volto di Dio — e, cercandolo in tutte le cose, in nessuna si ferma finché non l’ha trovato, come la Sposa che, dopo averne chiesto alle guardie, le lasciò e passò oltre (Cant. 3, 3-4). Similmente Maria Maddalena non si fermò neppure presso gli angeli del sepolcro (Gv. 20, 14). In questo grado l’anima è tanto sollecita da cercar l’Amato in tutte le cose: in tutto ciò che pensa, subito pensa all’Amato; in tutto ciò che dice e fa, si riferisce all’Amato; quando mangia о dorme о veglia о fa qualsiasi cosa, ogni sua sollecitudine è rivolta all’Amato, secondo quanto s’è detto a proposito delle ansie d’amore. Nell’amore tipico di questo grado l’anima va dunque ristabilendosi e acquisendo forze; perciò comincia subito a salire al terzo grado mediante una nuova purificazione nella notte che, come diremo, produce in lei gli effetti che descriveremo. 3. Il terzo grado della scala d’amore spinge l’anima ad operare e le infonde calore affinché non venga meno. Di esso il regale Profeta dice: Beato l’uomo che teme il Signore, poiché desidera molto adempiere i suoi comandamenti (Sal. 111, 1). E se il timore, che è figlio dell’amore, le infonde questo vivo desiderio, che farà l’amore stesso? Infatti in questo grado l’anima giudica piccole le cose grandi che fa per l’Amato, e poche le molte, e breve il lungo tempo che dedica 522

a servirlo, a causa dell’incendio di cui ormai va ardendo. Come a Giacobbe, per la grandezza del suo amore, parevano pochi i sette anni aggiunti agli altri sette in cui dovette servire (Gn. 29, 20). Se tanto poté l’amore di Giacobbe per una creatura, quanto dunque potrà l’amore per il Creatore quando in questo terzo grado s’impossesserà dell’anima? Per il grande amore che ha per Dio in questo grado l’anima s’addolora e soffre grandemente per il poco che fa per Dio e sarebbe consolata se potesse consumarsi mille volte per lui. Perciò si reputa inutile in tutto ciò che fa e le sembra di vivere invano. Di qui le proviene un altro mirabile effetto, cioè ritiene d’essere veramente più cattiva di tutte le altre anime: primo perché l’amore va insegnandole ciò che Dio merita; secondo perché essendo molte le opere che ora compie per Dio e ritenendole tutte manchevoli e imperfette, ne ricaverà confusione e pena, riconoscendo la bassezza del proprio operare rispetto a un Signore tanto eccelso. In questo terzo grado pertanto l’anima è ben lontana dall’aver vanagloria о presunzione о dal condannare gli altri. Tali, e molti altri simili, sono gli effetti che questo grado produce nell’anima, la quale ne acquista spirito e vigore per salire al quarto, che è il seguente. 4. Il quarto grado di questa scala d’amore è quello in cui l’anima, a causa dell’Amato, soffre continuamente senza mai stancarsi. Infatti, come dice Sant’Agostino, l’amore rende quasi nulle tutte le cose grandi e gravi e pesanti8. In questo grado si trova la Sposa, quando, già desiderando l’ultimo, dice allo Sposo: Ponimi come bersaglio sul tuo cuore, come bersaglio nelle tue braccia, perché l’amore, ossia l’atto e l’opera dell’amore, è forte come la morte e l’emulazione è dura e ostinata come l’inferno (Cant. 8, 6). In tale grado lo spirito ha tanta forza da tenere del tutto soggetta la carne e di fatto la tiene in così poco conto come l’albero una sua foglia. In nessun modo l’anima cerca consolazione о gusto, né in Dio né in altro, né va desiderando о pretendendo di 523

chiedere grazie a Dio, in quanto vede chiaramente di riceverne molte; e si preoccupa solo di trovare il modo di piacere a lui e di servirlo in qualche modo, a qualsiasi prezzo, sia per quanto egli merita che per quanto ha ricevuto da lui. Dice allora nel proprio cuore e nel proprio spirito: Dio e Signore mio, quanti sono coloro che vanno cercando in te solo consolazione e gusto ai quali tu concedi grazie e doni, mentre quanto pochi sono coloro che, messo da parte ogni interesse, cercano di piacerti e darti qualcosa con proprio sacrificio! Dio mio, la manchevolezza non consiste certo nel tuo non concedere altre grazie, ma nel non usare quelle ricevute soltanto in tuo servizio, per obbligarti a concedercene continuamente! Questo grado d’amore è molto elevato; infatti poiché ora l’anima segue costantemente Dio con grande e vero amore, patendo con spirito di sofferenza per lui, la Maestà divina le concede spesso e ordinariamente di godere visitandola nello spirito in modo saporoso e dilettevole; giacché l’immenso amore del Verbo Cristo non può soffrire che l’anima da lui amata patisca senza portarle aiuto. Geremia (2, 2) lo conferma dicendo: Mi sono ricordato di te, ha avuto pietà della tua tenera adolescenza quando mi seguivi nel deserto. Sul piano spirituale queste parole significano che qui l’anima procede interiormente distaccata da ogni creatura, senza sostare né riposarsi in alcuna. Questo quarto grado infiamma l’anima e l’accende di tale desiderio di Dio da farla salire al quinto, che è il seguente. 5. Il quinto grado della scala d’amore spinge l’anima a desiderare e bramare Dio impazientemente. In questo grado l’amante con tanta veemenza vuole raggiungere l’Amato e unirsi a lui, che il benché minimo indugio gli sembra lunghissimo, molesto e pesante; pensa sempre d’aver toccato l’Amato, e quando vede frustrato il proprio desiderio, il che accade quasi ogni momento, si strugge nella brama, come dice il Salmista, riferendosi a questo grado: La mia anima brama e si strugge per le dimore del Signore (Sal. 83, 3). A 524

questa altezza l’amante non può se non vedere l’amato о morire; così Rachele, per il grande desiderio di avere figli, disse a Giacobbe suo sposo: Dammi dei figli altrimenti morirò (Gn. 30, 1). In questo stato soffrono la fame come cani e vanno in cerca aggirandosi intorno alla città di Dio (Sal. 58, 7). In questo grado di fame l’anima si nutre d’amore, poiché la sazietà è proporzionata alla fame. In tal modo essa può salire al sesto grado, che produce gli effetti seguenti. CAPITOLO 20 1. Il sesto grado muove l’anima speditamente verso Dio procurandole molti contatti con lui: grazie alla speranza essa procede veloce senza stancarsi e fortificata dall’amore corre leggera. Di questo grado Isaia dice: I santi che sperano in Dio rinnoveranno la loro fortezza, avranno ali d’aquila e voleranno senza stancarsi (Is. 40, 31). Al medesimo grado si riferisce pure il salmo (41, 2) che dice: Come il cervo desidera l’acqua, così la mia anima desidera te, 0 Dio; poiché il cervo quando ha sete corre speditamente verso l’acqua. La causa della speditezza dell’amore tipica dell’anima a questo livello è la carità molto accresciuta in lei, ormai quasi del tutto purificata, come anche si dice nel salmo: Sine iniquitate cucurri (58, 5); e in un altro: Corsi sulla via dei tuoi comandamenti quando dilatasti il mio cuore (118, 32). Così da questo sesto grado si passa al settimo. 2. Il settimo grado di questa scala rende l’anima impetuosamente ardita. L’amore non approfitta più del giudizio per attendere né del consiglio per ritirarsi, né si frena per vergogna, in quanto è resa impetuosamente ardita dai doni ricevuti da Dio. Di qui ciò che dice l’Apostolo (I Cor. 13, 7): La carità tutto crede, tutto spera, tutto può. Di questo grado parlò Mosè quando disse a Dio di perdonare il popolo oppure di cancellare lui dal libro della vita in cui lo aveva scritto. In tale stato l’anima ottiene da Dio tutto ciò che desidera chiedergli; onde David ammonisce (Sal. 36, 4): 525

Dilettati nel Signore e ti darà quello che il tuo cuore chiede. Nel medesimo grado arditamente disse la Sposa (Cant. 1, 1): Osculetur me osculo oris tui. A questo punto non è lecito all’anima essere ardita se non coglie l’interno favore dello scettro del re inclinato verso di lei (Est. 6, 11), affinché non le capiti di cadere dall’alto dei gradini sui quali è già salita e dove deve conservarsi in umiltà. Da questa audacia e dall’aiuto che Dio nel settimo grado dà all’anima affinché divenga impetuosamente ardita nell’amore per lui segue l’ottavo, che consiste nell’impossessarsi dell’Amato e nell’unirsi con lui. 3. L’ottavo grado d’amore consente all’anima d’afferrarsi a Dio e di restarvi unita senza lasciarlo, come dice la Sposa: Trovaicolui che il mio cuore e la mia anima amano, lo presi e non lo lascerò (Cant. 3, 4). In questo grado d’unione l’anima sazia il proprio desiderio, ma non di continuo, poiché alcuni, giunti a porvi il piede, subito lo ritraggono; se infatti questo stato perdurasse, sarebbe in qualche modo la gloria eterna in questa vita; ma l’anima vi resta per breve tempo. Al profeta Daniele (10, 11), in quanto era uomo di desideri, Dio così comandò di arrestarsi a questo livello: Daniele, resta nel tuo grado, perché sei uomo di desideri. Ad esso segue il nono, che, come diremo, è già dei perfetti. 4. Il nono grado d’amore fa sì che l’anima arda con dolcezza. È lo stato dei perfetti che ardono ormai soavemente in Dio, poiché l’ardore soave e dilettevole è generato in loro dallo Spi rito Santo nella loro unione con Dio. Perciò San Gregorio dice degli Apostoli che quando lo Spirito Santo discese visibilmente su di loro interiormente arsero di soave amore9. Non è possibile parlare dei beni e delle ricchezze che l’anima gode in questo grado, e se anche ne scrivessimo molti libri, molto di più resterebbe da dire. Per questo motivo, e per il fatto che più avanti accennerò ancora, qui dirò soltanto che da questo grado si passa al decimo e 526

ultimo della scala d’amore, che non appartiene più a questa vita. 5. Il decimo e ultimo grado della segreta scala d’amore fa sì che l’anima s’assimili totalmente a Dio, per la chiara visione che immediatamente ne ha allorché, giunta in questa vita al nono grado, si separa dal corpo. Costoro, per pochi che siano, essendo ormai del tutto purificati dall’amore, non entrano nel Purgato rio. Perciò San Matteo (5, 8) dice: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt, ecc. Questa visione, come abbiamo detto, genera la totale somiglianza dell’anima con Dio, secondo quanto dice San Giovanni (1 Gv. 3, 2): Sappiamo che diventeremo simili a lui, non in quanto l’anima abbia ad acquistare le perfezioni di Dio, che è impossibile, ma in quanto tutto ciò che essa è sarà simile a Dio, per cui si chiamerà e sarà Dio per partecipazione. 6. Questa è la scala segreta di cui l’anima parla, in questi versi, sebbene in questi gradi più alti non le rimanga più tanto segreta, poiché l’amore ampiamente le si rivela attraverso i grandi effetti che produce in lei. Ma in quest’ultimo grado di chiara visione, che è l’estremo della scala su cui s’appoggia Dio, come abbiamo detto, non ci sono più verità nascoste per l’anima, in forza della sua totale assimilazione; perciò il nostro Salvatore dice (Gv. 16, 23): In quel giorno non mi domanderete niente, ecc. Ma fino a quel giorno, per quanto in alto l’anima si spinga, le resta nascosto qualcosa, in proporzione di quanto le manca all’assimilazione totale con l’essenza divina. In tal modo, mediante questa teologia mistica e questo amore segreto, a poco a poco l’anima esce da tutte le cose e da se stessa e sale verso Dio. L’amore infatti è simile al fuoco, che sempre sale verso l’alto, ardendo d’immergersi nel centro della sua sfera. CAPITOLO 21

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Si spiega la parola «mascherata» e si parla dei colori del travestimento dell’anima in questa notte. 1. Spiegati i motivi per cui l’anima chiama scala segreta questa contemplazione, resta da esaminare la terza parola del verso, vale a dire travestita, per comprendere perché l’anima dica d’essere uscita verso la segreta scala, travestita. 2. Per capir ciò conviene osservare che mascherarsi significa dissimularsi e coprirsi con una veste о un costume diversi dal proprio: о per mostrare esternamente, con quell’abito о costume, la volontà e il desiderio del proprio cuore di conquistare le grazie e l’affetto della persona amata; о anche per nascondersi ai propri emuli e quindi per meglio raggiungere il proprio intento. Perciò si scelgono gli abiti e le divise che meglio rappresentino e significhino l’affetto del proprio cuore, e con i quali sia più facile nascondersi ai propri avversari. 3. Ecco dunque che l’anima, toccata dall’amore di Cristo suo Sposo, desiderando guadagnarne le grazie e la volontà, ne esce travestita con quel costume che più vivamente rappresenti gli affetti del suo spirito e più sia atto a farla andare sicura dai suoi avversari e nemici, cioè il demonio, il mondo e la carne. Perciò la divisa che indossa è di tre colori principali, cioè il bianco, il verde e il rosso, significanti le tre virtù teologali, fede speranza carità, con le quali non solo guadagnerà le grazie e la volontà dell’Amato ma anche camminerà ben protetta e difesa dai suoi tre nemici. Infatti la fede è tunica interiore di candore così vivo da abbagliare l’occhio di ogni intelletto. Perciò quando l’anima è rivestita di fede il demonio non la vede e non riesce a danneggiarla, poiché con la fede, più che con tutte le altre virtù, procede ben riparata dal demonio, il suo nemico più forte e astuto. 4. Perciò San Pietro, per liberarsi dal demonio, non trovò un aiuto più grande quando disse: Cui resistite fortes in fide (1 Piet. 5, 9). Per conseguire la grazia dell’Amato e l’unione 528

con lui l’anima non può vestire migliore tunica e abito interiore del candore della fede, che dà fondamento e origine alle altre virtù; infatti l’Apostolo dice che senza di essa è impossibile piacere a Dio (Eb. 11, 6), mentre con essa è impossibile non piacergli, come promette lo stesso profeta Osea (2, 20): Desponsabo te mihi infide; che significa: Se tu, anima, vuoi unirti in sponsali con me, devi accostarti rivestita interiormente di fede. 5. L’anima già indossava il candido abito della fede allorché usciva dalla notte oscura, camminando, come abbiamo detto, nelle tenebre e nelle angustie interiori, senza che l’intelletto le desse alcun sollievo di luce: né dall’alto, poiché il cielo le sembrava chiuso e Dio nascosto, né dal basso, perché i suoi maestri non la soddisfacevano; perciò soffrì con costanza e perseverò attraversando quei travagli e quelle tribolazioni senza stancarsi e senza venire meno all’Amato; nei travagli infatti e nelle tribolazioni l’Amato prova la sua Sposa, in modo che poi possa pronunciare con verità le parole di David (Sal. 16, 4): Per le parole delle tue labbra sono stata vigilante negli aspri cammini. 6. Sopra la bianca tunica della fede l’anima indossa poi il secondo colore, un vestimento verde che, come s’è detto, indica la virtù della speranza; con questa l’anima si libera e si difende principalmente dal secondo nemico, cioè il mondo. Questo verde di fervida speranza in Dio largisce all’anima vivezza, coraggio e aspirazione alle cose della vita eterna, tali che, a confronto di quanto essa attende di là, tutto il mondo le appare arido, appassito, morto e di nessun valore, come effettivamente è. Così si spoglia e denuda di tutti gli abiti e costumi del mondo, in nulla riponendo il proprio cuore, non sperando affatto qualcosa dal mondo, per vivere rivestita della sola speranza della vita eterna. Levando dunque il cuore alto al di sopra del mondo, questo non solo non può toccarla né avvincerla, ma neppure seguirla con la sua debole vista. 529

7. Con la verde livrea о abito della speranza l’anima procede dunque molto sicura dal secondo nemico che è il mondo. Perciò San Paolo chiama la speranza elmo di salvezza (1 Tess. 5, 8), in quanto è arma che ripara il capo e lo copre, affinché non resti indifeso, eccetto il tratto che le consenta di vedere. Lo stesso fa la speranza, mettendo al riparo tutti i sensi nel capo dell’anima, in modo che non si ingolfino in nessuna cosa del mondo, né resti uno spiraglio attraverso cui qualche saetta del secolo possa ferirla. Le lascia solo la possibilità di vedere, affinché il suo occhio guardi in alto, e non altro; questo è l’ordinario compito della speranza nei confronti dell’anima, far sì che levi lo sguardo solo per vedere Dio; così David dice (Sal. 24, 15) d’aver fatto: Oculi mei semper ad Dominum, senza aspettare alcun bene da altra parte, come dice anche in un altro salmo (122, 2): Come gli occhi della serva si pongono nelle mani della sua signora, così i nostri in Dio nostro Signore, affinché abbia pietà di noi che speriamo in lui. 8. Questa è la funzione della livrea verde, che l’anima guardi sempre a Dio e su nient’altro ponga gli occhi e non s’appaghi che di lui, così da piacere all’Amato tanto da ottenere da lui quanto spera. Perciò lo sposo nei Cantici (4, 9) le dice che con un solo sguardo gli f erì il cuore. Senza la verde livrea della speranza in Dio solo all’anima non sarebbe convenuto uscire con il suo grande desiderio d’amore; niente infatti avrebbe ottenuto se ciò che la muove e la fa vittoriosa è la ferma speranza. 9. Travestita con questa livrea di speranza l’anima va per l’oscura e segreta notte di cui abbiamo parlato, così vuota d’ogni possesso о appoggio che non volge occhi né cura a nient’altro che a Dio, ponendo la bocca nella polvere per vedere se forse vi sia una speranza, secondo l’espressione di Geremia già riferita (Lam. 3, 29). 10. Perché il travestimento sia perfetto, sopra il bianco e il 530

verde della sua divisa l’anima pone un terzo colore, la splendida toga rossa che simboleggia la carità, la terza virtù con la quale non solo aggiunge grazie agli altri due colori, ma a tal punto si eleva da farsi tanto bella e gradita presso Dio che osa dire: Scura è la mia pelle, ma sono bella, figlie di Gerusalemme; perciò il re mi ha amato ponendomi nel suo talamo (Cant. 1,4). Con questa divisa della carità, che ormai è quella dell’amore e accresce l’amore nell’Amato, l’anima non solo si nasconde e si difende dal terzo nemico, la carne — dove c’è vero amore di Dio non entra infatti amore di sé né delle proprie cose —, ma anche corrobora le altre virtù, dando loro vigore e forza in sua difesa e grazia e leggiadria per piacere all’Amato, poiché senza la carità nessuna virtù è preziosa dinanzi a Dio; essa è la porpora della quale si parla nei Cantici (3, 10), su cui Dio posa visitando l’anima. L’anima va rivestita di questa rossa divisa allorché, come s’è spiegato a proposito della prima strofa, esce da sé e da tutte le cose create d’amorose ansie infiammata attraverso la segreta scala della contemplazione per giungere alla perfetta unione d’amore con Dio, sua agognata salvezza. 11. Ecco dunque il travestimento di cui l’anima dice di servirsi nella notte della fede passando per la scala segreta, ed ecco i tre colori che costituiscono un’ottima disposizione affinché l’anima si unisca con Dio con le sue tre potenze, intelletto, memoria e volontà. Infatti la fede rende oscuro e vuoto l’intelletto da ogni sua intellezione naturale disponendolo così ad unirsi con la Sapienza divina. E la speranza vuota e allontana la memoria da ogni possesso di creatura, poiché, come dice San Paolo (Rom. 8, 24), la speranza è di ciò che non si possiede e quindi distacca la memoria da quanto poteva possedere per riporla in ciò che spera. Perciò la sola speranza di Dio dispone con purezza la memoria alla sua unione con lui. La carità, ugualmente, annichila gli affetti e gli appetiti 531

della volontà e li vuota di qualsiasi cosa che non sia Dio per volgerli a lui solo. Proprio perché queste virtù hanno la funzione di distaccare l’anima da tutto ciò che è meno di Dio, hanno il potere di congiungerla con Dio. 12. Se non si procede con l’abito reale di queste tre virtù è impossibile giungere alla perfetta unione d’amore con Dio. Quest’abito e travestimento che l’anima ha usato le è dunque affatto necessario e conveniente per ottenere quanto desiderava, cioè l’amorosa e dilettevole unione con l’Amato. E riuscire a rivestirsene e a perseverare con quell’abito fino al conseguimento della meta tanto desiderata dell’unione d’amore è stata per l’anima gioia grande, onde essa ci dice in questo verso: о felice ventura! CAPITOLO 22 Si spiega il terzo verso della seconda strofa. 1. In verità è stata per l’anima felice ventura riuscire in tanta impresa, quella di uscire, liberandosi dal demonio e dal mondo e dalla propria sensualità, come abbiamo detto, e di conseguire la felice libertà di spirito desiderata da tutti, dopo essersi sollevata dal basso tanto in alto da farsi celeste da terrestre che era, e da umana divina, giungendo ad avere le sue conversazioni nei cieli (Fil. 3, 20), come le accade in questo stato di perfezione, secondo quanto in seguito si dirà, sia pur brevemente. 2. Mi sono proposto principalmente, in quanto era di maggiore importanza, di spiegare questa notte di contemplazione a molte anime che, pur attraversandola, tuttavia non la conoscono, come si dice nel prologo10, e di ciò s’è parlato abbastanza, sebbene sempre in modo inferiore alla realtà; cioè abbiamo detto quanti siano i beni che l’anima 532

vi acquista e quale feliceventura sia per lei attraversarla, affinché, nello spavento per l’orrore di tanti travagli, gli spiriti si rinfranchino con la speranza certa dei beni divini smisuratamente vantaggiosi che vi si conseguono. Inoltre, tutto ciò è stato felice ventura per l’anima anche per quanto essa dice subito dopo nel verso seguente, cioè: allo scuro e celata. CAPITOLO 23 Si parla del mirabile nascondiglio in cui l’anima viene posta in questa notte e si mostra come il demonio non possa entrarvi sebbene possa farlo in altri molto profondi. 1. Celata è come dire nascosta о coperta. Perciò qui l’anima dice d’essere uscita allo scuro e celata, per far intendere più perfettamente la grande sicurezza — espressa nel primo verso di questa strofa — con la quale procede verso l’unione d’amore con Dio mediante questa oscura contemplazione. Dire quindi che l’anima procede allo scuro e celata è come dire che in quanto procede allo scuro, come si è spiegato, va coperta e nascosta al demonio e alle sue astuzie e insidie. 2. Il motivo per cui nell’oscurità di questa contemplazione l’anima va libera e nascosta dalle insidie del demonio sta nel fatto che la contemplazione che vi riceve è infusa in lei passivamente e segretamente, senza alcun intervento dei sensi e delle potenze esteriori e interiori della parte sensitiva. Ne consegue che procede nascosta e libera non solo dall’impedimento che queste potenze possono causarle per loro naturale debolezza, ma anche dal demonio, il quale senza le potenze della parte sensitiva non può raggiungere né conoscere ciò che è nell’anima né ciò che passa in lei. Perciò quanto più la comunicazione è spirituale, interiore e lontana dai sensi, tanto meno il demonio riesce a intenderla. 533

3. Per la sicurezza dell’anima è dunque molto importante che il rapporto interiore con Dio avvenga in modo tale che gli stessi sensi della parte inferiore ne restino allo scuro, digiuni come sono e incapaci di esso: anzitutto affinché la comunicazione spirituale sia più abbondante e la libertà dello spirito non sia impedita dalla fiacchezza della parte sensitiva; in secondo luogo affinché, come abbiamo detto, l’anima proceda più sicura, in quanto il demonio non arriva tanto in profondità. A questo proposito possiamo intendere in senso spirituale l’espressione del nostro Salvatore (Mt. 6, 3): non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra; vale a dire: ciò che è nella parte destra, ossia nella parte superiore e spirituale dell’anima, non lo sappia la sinistra, cioè non sia toccato dalla parte inferiore della tua anima, che è parte sensitiva, ma resti un segreto tra lo spirito e Dio. 4. È vero che spesso, quando nell’anima fervono queste comunicazioni spirituali assai intime e segrete, anche se il demonio non sa quali e come siano, ci si accorge della loro presenza e dei beni che l’anima ne riceve solo per la grande calma e per il silenzio che regnano nei sensi e nella parte sensitiva di alcuni. Allora il demonio, vedendo che può penetrare nell’intimo dell’anima per impedire quelle comunicazioni, fa il possibile per sconvolgere e turbare la parte sensitiva, alla quale può arrivare, ora con dolori, ora con orrori e timori, con l’intento di inquietare e turbare in tal modo la parte superiore e spirituale dell’anima riguardo al bene determinato che essa riceve e gode. Se la comunicazione di questa contemplazione investe puramente e con forza lo spirito, il che accade sovente, gli sforzi del demonio non riescono a perturbarla, anzi l’anima ne riceve nuovo profitto e pace più grande e sicura. Infatti, sentendo la presenza turbatrice del nemico — cosa mirabile! — senza saper come e senza far nulla da parte sua, ella più si addentra nella profondità interiore, certa di trovarvi rifugio più sicuro, lì sapendosi più lontana dal nemico e più nascosta e sentendosi accrescere la pace e la gioia di cui il 534

demonio cerca di privarla. Allora tutto quel timore la sfiora solo dall’esterno, ed essa se ne accorge chiaramente e si rallegra nel vedersi godere della quieta pace e del gusto dello Sposo nascosto, sicurissima che né il mondo né il demonio possono né dargliela né togliergliela; e allora l’anima intende quanto veracemente parli, a questo proposito, la Sposa nei Cantici (3, 7-8): Guardate che sessanta uomini forti attorniano il letto di Salomone, ecc. per timore della notte. L’anima prova questa forza e questa pace anche se spesso all’esterno si sente tormentare la carne e le ossa. 5. Altre volte, quando la comunicazione spirituale non è data in sovrabbondanza allo spirito ma ne è fatto partecipe il senso, il demonio più facilmente riesce a turbare lo spirito e a sconvolgerlo con questi orrori per mezzo dei sensi. Allora sono grandi il tormento e la pena provocati nello spirito, talvolta più grandi di quanto si possa dire: trattandosi di un nudo rapporto da spirito a spirito, il male che lo spirito cattivo provoca in quello buono, cioè nell’anima, quando il turbamento la raggiunge, è intollerabile. Lo dimostra la Sposa nei Cantici (6, ioli) allorché dice che così le accade nel tempo in cui voleva immergersi nell’intimo raccoglimento per godere i suoi beni: Discesi nell’orto delle noci per vedere i pomi delle valli e se fosse fiorita la vigna; senza saperlo la mia anima si conturbò per le quadrighe ossia per i carri e gli strepiti di Aminadah, cioè del demonio. 6. Altre volte, quando la comunicazione avviene mediante un angelo buono, accade che il demonio possa vedere alcune delle grazie che Dio dona all’anima. Infatti quando vengono comunicate per mezzo dell’angelo buono, ordinariamente Dio permette che l’avversario le conosca, sia perché esso possa osteggiarle con tutto quello che può, nei limiti della giustizia, sia perché il demonio non possa accampare alcun diritto obiettando che non gli è stata data la possibilità di conquistare l’anima, come fece nel caso di Giobbe (1, 9-11; 2, 4-8); così sarebbe infatti qualora Dio non consentisse una 535

certa parità fra i contendenti, ossia fra l’angelo buono e quello cattivo, nei confronti dell’anima; in questo modo, invece, la vittoria dell’uno о dell’altro sarà più apprezzata e sarà più premiata l’anima vittoriosa e fedele nella tentazione. 7. E questa — conviene notarlo — è la causa per cui Dio, così come si comporta con l’anima e la guida, allo stesso modo consente al demonio di comportarsi con lei; perciò se l’anima riceve visioni vere mediante l’angelo buono — e in genere sono comunicate con questo mezzo, il quale però raffigura Cristo, che quasi mai appare in persona —, Dio consente anche all’angelo cattivo di rappresentarne false dello stesso genere, cioè verosimili, onde l’anima incauta può facilmente ingannarsi, come di fatto spesso accade. Ve n’è figura nell’Esodo (7, 11-12; 8, 7), là dove si dice che tutti i segni veri mostrati da Mosè venivano ingannevolmente riprodotti dai maghi del Faraone: se faceva uscir fuori rane anch’essi lo facevano, se mutava l’acqua in sangue anch’essi lo mutavano. 8. Ma il demonio non simula solo questo genere di visioni corporee, bensì anche le comunicazioni spirituali, perché riesce a conoscerle attraverso gli angeli che le trasmettono, come ab biamo detto, e allora vi si intromettono e le imitano, in quanto, come dice Giobbe (41, 25), omne sublime videt. Però le visioni e comunicazioni senza forma e senza figura — quali sono quelle proprie dello spirito — il demonio non può imitarle né dar loro una forma come a quelle che si rappresentano mediante qualche specie о figura. Così, per assalire l’anima in modo analogo a quello in cui è visitata, il demonio le rappresenta il suo timore spirituale, al fine di combattere e distruggere beni spirituali con mezzi spirituali. Quando questo accade, nell’atto stesso in cui l’angelo buono sta comunicando all’anima la comunicazione spirituale, ella non può rifugiarsi tanto prontamente nel nascondiglio e nell’occultamento della contemplazione da 536

non essere notata dal demonio, e allora subito questi l’assale con orrori e turbamenti spirituali, a volte molto penosi per lei. Questa volta però l’anima può liberarsene presto, senza rimanere impressionata dall’orrore dello spirito cattivo, raccogliendosi in sé con il favore dell’efficace grazia spirituale che l’angelo buono allora le elargisce. 9. Altre volte prevale il demonio e allora il turbamento e l’orrore invadono l’anima, il che costituisce per lei il tormento più grande che può conoscere in questa vita; infatti, siccome questa orrenda comunicazione passa da spirito a spirito, spo gliata chiaramente da tutto ciò che è corporeo, essa risulta pe nosa sopra ogni senso; e se è vero che nello spirito perdura un poco, ma non molto, altrimenti lo spirito, per la violenta comunicazione dell’altro spirito, uscirebbe dal corpo, tuttavia la memoria che poi le rimane è sufficiente a procurarle una grande sofferenza. 10. Tutto ciò di cui qui abbiamo trattato avviene nell’anima passivamente, senza che essa intervenga sul suo verificarsi о meno. Ma ora è necessario chiarire che quando l’angelo buono concede al demonio il vantaggio di raggiungere l’anima con questo orrore spirituale, ha lo scopo di purificarla e disporia, in forza di questa vigilia spirituale, a qualche grande festa e grazia spirituale: quelle largite da chi mai mortifica se non per dar vita e mai umilia se non per esaltare (1 Re 2, 6-7). Ciò accade quando già da qualche tempo l’anima gode di una mirabile e saporosa contemplazione spirituale, proporzionata alla purificazione tenebrosa e orribile sofferta, e che è talvolta tanto sublime da non potersi esprimere a parole; l’orrore precedente dello spirito cattivo è servito ad affinare tanto lo spirito da renderlo più atto a ricevere questo bene, poiché questo genere di visioni spirituali è più dell’altra vita che di questa e vederne una dispone meglio alle altre. 11. Quanto si è detto riguarda i casi in cui Dio visita 537

l’anima per mezzo dell’angelo buono, allorché, come s’è detto, essa non procede tanto allo scuro e sicura che il nemico non possa raggiungerla. Ma quando la visita Dio stesso direttamente, allora si verifica appieno ciò che è detto nel verso citato, in quanto essa riceve i favori spirituali da Dio totalmente allo scuro e sicura dal nemico. Ciò accade perché la divina Maestà dimora sostanzialmente nell’anima; qui né angelo né demonio possono arrivare a capire ciò che vi accade, né conoscere le intime e segrete comunicazioni che vi avvengono tra lei e Dio. In quanto prodotte dal Signore stesso esse sono totalmente divine e sovrane, tocchi sostanziali di divina unione tra l’anima e Dio; in uno solo di essi l’anima riceve un bene maggiore che in tutto il resto, perché questo è il più alto grado di orazione che esista. 12. Questi sono i tocchi che all’inizio la Sposa chiese nei Cantici (1, 1) allorché disse: Osculetur me osculo oris tui, ecc. Trattandosi appunto di cosa che avviene direttamente tra l’anima e Dio, a cui con tante ansie brama giungere, l’anima stima e desidera uno di questi tocchi della Divinità più d’ogni altra grazia che Dio le faccia. Perciò, quasi insoddisfatta delle molte grazie di cui ha già parlato, nei Cantici chiede questi tocchi divini dicendo: Chi mi darà fratello mio, che io da sola ti trovi fuori mentre succhi il petto di mia madre, perché possa baciarti con la bocca della mia anima e così nessuno possa disprezzarmi e maltrattarmi? (8, i). Con ciò fa comprendere come essa abbia desiderato che la comunicazione sia nota a Dio solo, come abbiamo detto, al di fuori e con esclusione di tutte le creature; questo infatti significano le parole da sola e mentre succhi il latte: disseccando e spegnendo le mammelle degli appetiti e degli affetti della parte sensibile; il che avviene quando, ormai con libertà di spirito, senza che la parte sensitiva possa impedirlo, né il demonio distruggerlo attraverso i sensi, l’anima gode questi beni con gusto e con intima pace. Il demonio allora non oserebbe accostarvisi, non potendo né raggiungerla, né intendere tali tocchi divini 538

dell’amorosa sostanza di Dio nella sostanza dell’anima. 13. A tanto bene nessuno giunge se non attraverso profonda nudità e purificazione e nascondimento spirituale rispetto tutto ciò che è creatura. Il che avviene allo scuro, come ampiamente abbiamo detto prima e successivamente in rapporto all’espres sione contenuta nel verso: celata e di nascosto; in questo na scondimento, come abbiamo appena detto, l’anima va confer mandosi nell’unione amorosa con Dio. Perciò in quel verso canta: allo scuro e celata. 14. Quando accade che quelle grazie vengono concesse all’a nima di nascosto, ossia, come abbiamo detto, solo nello spirito, talvolta l’anima, senza sapere come, vede la propria parte spi rituale e superiore tanto separata e lontana dalla sua stessa parte inferiore e sensibile, da distinguere in sé due parti tanto scisse tra loro, che le sembrano senza rapporto l’una con l’altra, per la lontananza e la separazione che vede fra di esse. In verità in certo modo è così, poiché nelle sue operazioni, ora del tutto spirituali, l’anima non comunica con la parte sensibile. In tal modo l’anima sta facendosi tutta spirituale; e in questo nascondiglio di contemplazione unitiva finisce di liberarsi in sommo grado dalle passioni e dagli appetiti spirituali. Perciò, parlando della sua parte superiore, l’anima dice poi nell’ultimo verso: stando già la mia casa addormentata. CAPITOLO 24 1. Il che è come dire: già trovandosi la parte superiore della mia anima, come quella inferiore, addormentata secondo i suoi appetiti e potenze, uscii verso la divina unione amorosa con Dio.

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2. Infatti l’anima, come s’è detto, è combattuta e purificata in quella guerra della notte oscura in due modi, secondo la parte sensitiva e secondo la parte spirituale, con i relativi sensi, potenze e passioni; similmente in due modi giunge a conseguire la pace e la quiete, ossia secondo la parte sensitiva e secondo la parte spirituale, con tutte le loro potenze e appetiti. Perciò, come s’è già osservato, l’anima ripete due volte questo verso, in questa strofa e nella precedente, per alludere alle due parti dell’anima, spirituale e sensitiva: entrambe, infatti, affinché l’anima possa salire alla divina unione d’amore, debbono anzitutto essere riformate, ordinate e quiete nei riguardi di ciò che è sensitivo e spirituale, in modo conforme allo stato d’innocenza proprio di Adamo. Perciò questo verso, che nella prima strofa va inteso riguardo alla quiete della parte inferiore e sensitiva, nella seconda strofa va riferito particolarmente a quella superiore e spirituale; ecco perché lo ripete due volte. 3. L’anima consegue abitualmente e perfettamente questa quiete della casa spirituale, secondo la condizione di vita che conduce, per mezzo di atti costituiti da tocchi sostanziali d’unione, di cui abbiamo appena parlato, che, in segreto e al riparo dai turbamenti del demonio, dei sensi e delle passioni, è venuta ricevendo dalla Divinità, purificandosi, come dico, e quietandosi, fortificandosi, irrobustendosi, per poter ricevere stabilmente quell’unione, ossia il divino sposalizio tra l’anima e il Figlio di Dio. Appena queste due dimore dell’anima s’acquietano e perfettamente si rinforzano insieme con l’intera loro corte di potenze ed appetiti, immergendoli nel sonno e nel silenzio rispetto a tutte le cose di lassù e di quaggiù, subito la divina Sapienza si unisce all’anima in un nuovo vincolo di possesso d’amore e si compie quanto ella dice nel libro della Sapienza (18, 14-15): Dum quietam silentium tenerent omnia, et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens sermo tuus, Domine, a regalibus sedibus. Lo stesso fa intendere la Sposa nei Cantici quanto dice che, dopo aver oltrepassato coloro 540

che la notte le avevano tolto il manto e l’avevano ferita (5, 7), trovò colui che la sua anima desiderava (3, 4). 4. Non si può giungere a tale unione senza una grande purezza, e questa non si acquista senza una grande nudità da ogni cosa creata né senza viva mortificazione. Il che viene significato dall’espressione togliere il manto alla Sposa e di notte ferirla mentre va in cerca dello Sposo; essa infatti non potrebbe rivestirsi del nuovo mantello richiesto dallo sposalizio senza spogliarsi di quello vecchio. Pertanto chi rifiuta di uscire nella notte in cerca dell’Amato, di spogliarsi delle propria volontà e di mortificarsi, ma lo cerca nel talamo e nelle comodità, come faceva la Sposa, non riuscirà a trovarlo; l’anima dice infatti d’averlo trovato uscendo allo scuro e con ansie d’amore. CAPITOLO 25 Si spiega brevemente la terza strofa. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz ‘altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. 1. Attenendosi ancora alla metafora e alla similitudine della notte fisica, l’anima seguita enumerando e magnificando le ottime qualità della notte spirituale e dice che attraverso essa più rapidamente e con maggiore sicurezza poté conseguire il fine desiderato; e di tale fine enumera qui tre qualità. 2. La prima consiste nel fatto che nella felice notte di contemplazione Dio conduce l’anima per una via contemplativa tanto solitaria e segreta, remota e aliena dal senso che a questo nulla appartiene, né tocco di creatura riesce a raggiungerla tanto da disturbarla e distrarla nel suo 541

cammino dell’unione d’amore. 3. La seconda proprietà è la seguente: a causa delle tenebre spirituali di questa notte, in cui tutte le potenze della parte superiore dell’anima sono allo scuro, l’anima nulla vede né può vedere, e per andare a Dio non si sofferma in nulla che non sia Dio stesso, in quanto procede libera dagli ostacoli delle forme о immagini e dalle apprensioni naturali, che di solito le sono d’impaccio per unirsi all’eterno essere di Dio. 4. La terza consiste nel fatto che se anche l’anima non procede appoggiandosi a qualche particolare lume interiore dell’intelletto e a qualche guida esterna per riceverne soddisfazione nel sublime cammino, poiché queste oscure tenebre l’hanno privata di tutto, tuttavia il solo amore che in tutto questo tempo arde in lei le sollecita il cuore per l’Amato, che le è guida e la spinge dunque al volo verso Dio lungo la via della solitudine, senza che essa sappia come ciò avvenga. Segue il verso: Nella felice notte. 3. Il suppositum è il «tutto individuo», l’essere di una determinatezza nella sua totalità. 4. Dionigi Aeropagita nel De mystica theologia. 5. Si tratta dunque del purgatorio; ne scrive in termini che ricordano quelli del Catecismo de la doctrina cristiana di Gaspar de Astete, suo professore a Medina. 6. Ad esempio nella Summa Theologica, IIa-IIae, q. 45, a. 2. 7. La fonte diretta è però il De dilectione Dei et proximi, attribuito a Tommaso d’Aquino fino a che recentemente se ne è scoperto il vero autore in Helvicus Teutonicus (Helwic de Germar), domenicano del secolo XIII-XIV. 8. Nel Sermo 70 (De Verbis Domini in Evangelium S. Math.), с. 3. 9. Nella Homilia 30 in Evangelium, 1; cfr. Migne, P. L. 76, 1220. 10. Nel prologo della Salita.

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INDICI

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INDICE DEI NOMI I numeri corsivi indicano riferimenti collocati in testi di San Giovanni della Croce. Agamben G., 33. Agostino (S.), 26, 95, 96, 405, 472. Alberto de la Virgen del Carmen, 26. Alonso, 28. Alonso Antona, 30. Alvarez, 17. Andrés de la Incarnación, 16. Aranguren, 25, 29. Aristotele, 155, 179. Arraj, 33. Asín Palacios, 26, 32. Averroè, 10. Avicenna, 10. Ballestero, 31. Baltasar de Jesús, 12. Balthasar, 28. Barth, 12. Baruzi, 24. Baudouin, 28. Benedetto (S.), 233, 356. Benedetto XIII, 22. Bernardo (S.), 117, 192, 470. Bertalia, 27. Blanchard, 30, 31. Boezio, 216, 297. Bonnard, 31. Bord, 25, 33. Boscán, 10. Bossuet, 32. Bouillard, 30. Brice, 30. Bruno de Jeús María, 24, 29. Caldera, 29.

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Camón Aznar, 29. Capánaga, 24. Carmelo de la Cruz, 32. Carlo V, 28. Caro Вaroja, 10, 23. Casero, 31. Chevallier, 25. Cisneros, 10. Claudio de Jesús Crucificado, 31. Clemente X, 22. Colli, 9. Crisógono de Jesús, 24, 29, 33. de Corte, 26. Delaye, 25. del Campo, 28. de Surgy, 30. Diego Evangelista, 21. Dionigi Areopagita, 9, 10, 27, 155, 423. Domínguez Berrueta, 31. Dominici, 33. Doria, 21. d’Ors, 28. Duvivier, 29. Eckhart, 9, 10. Efrén de la Madre de Dios, 24. Elia, 33. Enrico di S. Teresa, 29. Epitteto, 326. Erasmo, 10. Ernst, 27. Eulogio de la Virgen del Carmen, 31. Eulogio de San Juan de la Cruz, 25. Fénelon, 32. Ferdinando di S. Maria, 33. Filippo 11, 10, 19. Florisoone, 24, 28. Forest, 29. Francesco di Sales (S.), 32. Frost, 24. Gabriele di S. Maria Maddalena, 24, 30. Gaitan, 31.

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García Blanco, 28. García Lorca, 27. García Muñoz, 31. Garcilaso, 10. Gardet, 27. Gaspar de Astete, 428. Gaudreau, 27. Giovanna della Croce, 27, 30. Gracián, 19, 21. Graviss, 31. Gregorio Magno (S.), 10, 27, 233, 338, 475. Gregorio di Nissa (S.), 27. Guillén, 28. Guy, 23. Hatzfeld, 26, 28. Hausherr, 32. Helwic de Germar, 470. Hendecourt, 24. Hondet, 28. Huot de Longchamp, 25. Ignazio di Loyola (S.), 32. Jerónimo de San José, 24. Jiménez Duque, 29. José Vicente de la Eucaristía, 31. Juan de Jesús María, 30. Juan José de la Inmaculada, 30. Jung, 13. Krynen, 26, 27. Larrañaga, 32. Lavelle, 30. Le Blond, 31. Le Breton, 26. Leroy, 31. López-Baralt, 33. López Ibor, 31. Lucien-Marie de Saint Joseph, 25, 28, 29. Lucinio del SS. Sacramento, 30. Lucinio Ruano de la Iglesia, 33. Luis de León, 10, 21, 26, 27, 31. Luis de San José, 23.

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Lullo, 26. Lutero, 9, 10, 15. Mallory, 25. Mancho Duque, 27, 29. Marcelo de Niño Jesús, 26, 32. Marco Aurelio, 326. Maritain, 29. Martin, 25. Matías del Niño Jesús, 33. Maumigny, 24. Meier, 25. Menéndez y Pelavo, 10. Mesnard, 32. Migne, 117, 475. Milner, 28. Montinari, 9. Morel, 25. Mouroux, 29. Muñoz Alonso, 31. Nazareno dell’Addolorata, 33 Nazario de Santa Teresa, 27. Nieto, 19. Nietzsche, 9. Nilo di San Brocardo, 30. Orcibal, 27. Origene, 16. Orozco Díaz, 28, 32. Ortega, 24. Oscar, 27. Osuna, 10. Ottonello, 10, 14, 15, 23. Ovidio, 315. Pacho, 10, 12, 25, 30, 32, 33. Pascal, 33. Pastore, 29. Peers, 24. Pepin, 23. Peters, 32. Pio IX, 22. Plotino, 9, 26.

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Quiroga, 23. Revilla, 26. Roy, 32. Ruysbroeck, 26. Ruiz, 11, 25, 26, 30, 33. Sabino de Jesús, 28. Sanchís Alventosa, 26. Sanson, 24, 32. Schatert, 27. Schering, 32. Sciacca, 14. Sebastián de Córdoba, 10. Sega, 19. Seneca, 326. Silesio, 27. Silverio de Santa Teresa, 10, 23, 24, 33. Simeón de la Sagrada Familia, 33. Simone (S.), 356. Steggink, 32. Stein, 24. Sullivan, 27. Tarraeó, 27. Tavera, 32. Teresa d’Avila (S.), 16, 18, 20, 21, 26, 164. Thibon, 9, 32. Tommaso d’Aquino (S.), 26, 190, 222, 233, 268, 285, 325, 464, 470. Tostado, 19. Trueman Dicken, 25. Ugo di S. Vittore, 27. Urbina, 25, 31. Uscatescu, 10. Vallin, 30. Varga, 25. Vargas, 19. Vega, 27. Vincente Rodríguez, 11, 33. Velasco, 23. Vitoria, 10. Vives, 10.

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Waach, 25, 32. Wardropper, 28. Wojtyla, 25.

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INDICE SCRITTURISTICO I numeri fra parentesi indicano le pagine della presente edizione. Genesi (Gn.): 6, 5-7 (217). 11, 7-9 (82). 12, 8 (357). 13, 4 (357). 15, 7-8 (200). 15, 13-16 (200) 16, 3 (357). 17, 1 (260). 19, 24-25 (217) 21, 8 (402). 21, 10 (94). 21, 13 (361). 22, 2 (358). 27, 22 (252). 28, 12 (469). 28, 13-18 (357). 29, 20 (471). 30, 1 (453, 473) 31, 34 (344). 46, 2-4 (200). 49, 4 (112). 49, 32 (200). Esodo (Es.): 3, 2-6 (403). 3-4 (258). 4, 10 (465). 4, 14-15 (225). 7, 11-12 (484). 8, 7 (484). 14, 20 (134). 16, 3 (436).

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16, 3-4 (96). 16, 8-13 (96). 18, 21-22 (227). 24, 12 (358). 27, 8 (99). 32, 22 (234). 34, 3 (97) 34, 5-8 (240). 35, 1-2 (98). Levitico (Lev.): 6, 12-13 (99). 10, 1-2 (99, 351). Numeri (Num.): 11, 4-6 (394). 11, 32-33 (215). 12, 6-8 (186). 22, 7 (305). 22, 20 (334). 22, 20-32 (215). 22, 22-23 (336). Deuteronomio (Dt.): 4, 11 (185). 4, 12 (185). 4, 15 (185). 6, 5 (295, 445). 31, 26 (99). 32, 15 (302, 303, 304,305). Giosuè (Gios.): 6, 17-21 (118). 9, 14 (220). Giudici (Giud.): 2, 2-3 (118). 7, 9-11 (224). 7, 16 (157). 13, 22 (234). 16, 16 (104).

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16, 19 (314). 16, 21 (104). 18, 24 (344). 20, 1-21 (201). 20, 23-25 (201). 28, 34-35 (201). 28, 43-46 (201). 1 Re: 2, 67 (485). 2, 29-30 (209). 3, 10 (262, 274). 4, 12 (274). 5, 2-5 (99). 8, 5-7 (213). 12, 3 (303). 23, 9 (224). 28, 3 (337). 28, 11-15 (215, 338). 2 Re: 14, 25 (300). 17 (453). 3 Re: 8, 12 (157). 11, 4-8 (108). 11, 38 (210). 11-13 (326). 19, 8 (358). 19, 12-13 (234). 19, 13 (154). 21, 21 (208). 21, 27-29 (209). 22, 11 (183). 22, 22 (218-219). 4 Re: 5, 26 (245). 6, 11-12 (245). 2 Cronache (2 Cron.):

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1, 11-12 (360). 20, 3-12 (214). Tobia (Tob.): 6, 18-22 (87). 14, 6 (217). 14, 12-13 (217). Giuditta (Giudit.): 11, 8-12 (217). 1l, 15 (217). Ester (Est.): 6, 11 (474). Giobbe (Giob.): 1, 1-8 (404). 1, 9-11 (483). 1, 29-30 (404). 2, 4-8 (483). 2, 11-13 (83). 3, 24 (439). 6, 6 (173). 7, 2-4 (446). 7, 20 (424). 12, 22 (429). 16, 13-17 (428). 19, 21 (424). 20, 22 (102). 23, 6 (424). 30, 16 (440). 30, 17 (439). 30, 27 (440). 31, 26-28 (330). 37, 16 (467). 38, 1 (157). 38-42 (404). 40, 1 (157). 40, 16 (331). 41, 25 (484). Salmi (Sai.):

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2, 9 (206). 6, 4 (106). 10, 17 (207). 10, 24 (207). 11, 7 (447). 17, 5-7 (425), 17, 10-12 (157). 17, 12 (462). 17, 13 (462). 18, 3 (134). 18, 10-11 (240). 24, 15 (478). 29, 7 (431). 30, 21 (462). 36, 4 (474). 37, 5 (105). 37, 9 (439). 38, 3 (406). 38, 4 (449). 38, 7 (278). 38, 12 (424). 39, 6 (239). 39, 13 (105-106). 41, 2 (474). 41, 3 (400). 45, 11 (182, 340). 48, 17-18 (299, 306). 49, 16-17 (364). 50, 12 (447). 50, 19 (400, 410). 54, 16 (428). 57, 5-6 (316). 57, 9 (106). 57, 10 (107). 58, 5 (474). 58, 7 (446, 473). 58, 10 (113, 295, 445). 58, 15-16 (101, 446). 59, 14 (338). 61, 11 (299, 307). 62, 2 (446). 62, 3 (340, 405). 63, 7 (340). 67, 10 (470).

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67, 34 (260, 363). 68, 2-4 (427). 71, 8 (203-204). 71, 12 (204). 72, 7 (305). 72, 8 (277-278). 72, 21-22 (399). 72, 22 (151, 433). 76, 3-4 (408). 76, 7 (408). 76, 14 (153). 76, 19-20 (467). 77, 30-31 (97, 215). 83, 3 (473). 83, 12-13 (468). 85, 8 (153, 284). 87, 6-8 (425). 87, 9 (426). 87, 16 (90). 96, 2 (423). 101, 8 (178). 101, 27 (311). 103, 5 (455). 104, 4 (471). 111, 1 (471). 112, 7 (404). 113, 8 (91). 117, 12 (103-104). 118, 32 (474). 118, 61 (103). 118, 81 (470). 122, 2 (478). 137 (49 ss.). 137, 6 (153). 138, 11 (135, 284). 138, 12 (429). 142, 3-4 (429). 144, 18-20 (360). 147, 17 (194, 416). Proverbi (Prov.): 8, 4-6 (94-95). 8, 18-21 (94-95).

555

18, 12 (468). 23, 31-32 (315). 24, 16 (115). 27, 19 (244). 30, 15 (113). 31, 30 (92, 310). Ecclesiaste (Ed.): 1, 2 (299). 1, 14 (299). 2, 2 (300, 311). 2, 10 (108). 2, 17 (299). 2, 26 (299). 3, 12 (278). 4, 10-12 (226). 5, 1 (210). 5, 9 (299). 5, 12 (299, 306). 7, 3-5 (301). 8, 4 (260). 10, 1 (330). Cantico dei Cantici (Cant.): 1, 1 (474, 485). 1, 4 (479). 2, 4 (164). 3, 2 (471). 3, 3-4 (471). 3, 4 (475, 488). 3, 7-8 (483). 3, 10 (479). 4, 9 (478). 5, 2 (178). 5, 7 (488). 5, 8 (453, 470). 6, 4 (254, 395). 6, 10-11 (483). 6, 11 (178). 8, 1 (455, 486). 8, 6 (287, 290, 462). Sapienza (Sap.):

556

1, 5 (278, 316). 3, 6 (427). 4, 12 (302). 7, 11 (442). 7, 17-21 (243, 271). 7, 22 (326). 7, 24 (435). 8, 1 (190). 9, 15 (416). 11, 17 (217). 16, 20-21 (97, 394). 16, 21 (436). 18, 14-15 (488). Ecclesiastico: 11, 34 (117). 13, 1 (109). 19, 1 (117). 23, 6 (113). 34, 9-11 (412). 21 (178). 51, 25 (442). 51, 25-26 (448). 51, 29 (442). Isaia (Is.): 1, 23 (304). 3, 12 (312). 6, 2 (145). 6, 2-4 (183). 7, 9 (134). 7, 12 (212). 9, 20 (103). 19, 14 (218). 26, 9 (446). 26, 17-18 (438). 28, 9-11 (202). 28, 19 (404). 29, 8 (102). 57, 2 (220). 40, 18-19 (154). 40, 31 (474). 48, 18 (275).

557

55, 1-2 (104-105). 20 (102). 58, 10 (404). 59, 10 (108). 64, 4 (136, 154, 286, 317, 437). Geremia (Ger.): 1, 6 (465). 1, 11 (183). 2, 2 (473). 2, 13 (100, 102, 305). 2, 24 (102). 2, 25 (102). 3, 20 (279). 4, 10 (203). 4, 23 (91). 8, 15 (203). 20, 7-9 (211). 23, 26 (336). 23, 28-29 (261-262). 23, 32 (336). 31, 18 (412). 45, 3 (246). 49, 16 (332). Lamentazioni (Lam.): 1, 13 (447). 3, 1-3 (429). 3, 9 (432). 3, 17 (439, 440). 3, 29 (433, 479). 3, 44 (432). 3, 47 (211). 4, 1-2 (313). 4, 7-8 (109). Baruc (Bar.): 3, 23 (155). 3, 31 (467). Ezechiele (Ez.):

558

1, 8-9 (297). 8, 10-16 (111). 14, 7-9 (219). 24, 10-11 (427). Daniele (Dan.): 7, 10 (183). 9, 22 (258). 9, 27 (314). 10, 11 (475). Osea (Os.): 2, 14 (274). 2, 20 (477). 13, 8 (453). 13, 9 (458). Giona: 1, 1-3 (211). 2, 1 (425). 4-7 (426). 3, 4 (208, 210). 4, 2-3 (211). 4, 5 (211). 4, 11 (108). Michea (Mie.): 7, 3 (331). Abacuc (Ab.): 2, 1 (289, 404). Matteo (Mt.): 5,3 (332). 5, 8 (447, 475). 6, 2 (329). 6, 3 (330, 482). 6, 7-8, (361-362). 6, 24 (267). 6, 33 (360).

559

7, 3 (376). 7, 6 (100, 287). 7,14 (146, 371, 390, 401). 7, 22-23 (228, 334). 10, 19 (337). 10, 36 (456). 10, 39 (149). 11, 28-29 (105). 11, 30 (149). 12, 30 (117). 36 (309). 13, 22 (299). 13, 31-32 (284). 13, 58 (347). 14, 23 (347, 353). 15, 8 (352). 15, 14 (106, 196). 15, 26 (100). 16, 24 (315). 16, 25 (389). 26 (300). 17, 5 (222). 18, 20 (226). 19, 29 (309, 323). 20, 12 (149). 21, 8-9 (351). 22, 12-13 (351). 23, 5 (328). 23, 15 (300). 24 (376). 24, 19 (113). 25, 1-12 (327, 377). 21 (164). 26, 39 (362). 27, 19 (183). 27, 46 (150). 27, 60-66 (452). Marco (Mc): 8, 34-35 (147-148). 9, 38 (363). Luca (Le):

560

6, 12 (347, 353, 362). 7, 37-38 (452). 8, 12 (332). 8, 14 (299). 9, 54-55 (336). 10, 20 (335). 11, 1-2 (361). 11, 5 (45). 11, 26 (165). 12, 20 (291, 309). 12, 35 (113). 14, 11 (468). 14, 33 (96, 145, 280). 16, 8 (304). 16, 10(307). 16, 19 (320). 18, 1 (361). 18, 11-12 (282, 328, 376). 18, 19 (92). 19, 37-38 (351). 19, 41 (351). 22, 26 (93). 24, 15 (339). 24, 21 (204-205). 24, 25 (205). Giovanni (Gv.): 1, 1 (37 ss.). 1, 2 (123). 1, 5 (91, 450). 1, 13 (141). 1, l8 (154, 285). 3, 5 (41). 3, 6 (324, 384). 4, 23-24 (353, 354). 4, 34 (122). 4, 48 (339). 9, 39 (138). 10, 9 (150). 11, 4 (470). 11, 50 (205). 12, 13 (351). 12, 25 (149).

561

14, 6 (150). 14, 21 (242). 14, 26 (209). 16, 7 (163). 16, 23 (476). 19, 30 (223). 20, 1 (452). 20, 1-10 (339). 20, 14 (471). 20, 15 (452). 20, 17 (163, 165). 20, 19-20 (274). 20, 29 (165, 339). Atti: 1, 6 (205). 2, 1-4 (209). 4, 29-30 (338). 7, 32 (154, 465). 8, 18-19 (305, 337). 13, 27 (204). 17, 29 (168). 19, 15 (363). Romani (Rom.): 1, 22 (93). 1, 28 (306). 2, 21 (363). 8, 14 (272). 8, 24 (144-145, 279, 479) 10, 17 (133, 249, 338). 12, 3 (257). 13, 1 (190). 1 Corinzi (1 Cor.): 2, 1-4 (364). 2, 2 (223). 2, 9 (136, 154, 317). 2, 10 (244, 435). 2, 14 (323, 462). 2, 14-15 (206). 3, 1-2 (194-195).

562

3, l6 (354). 3, 18-19 (93, I56). 6, 17 (269). 7, 27 (301). 7, 29-31 (118, 301). 9-10 (333). 12, 7 (333). 12, 8-10 (244). 12, 10 (242). 12, 11 (450). 13, 1-2 (334). 13,4-7 (283). 13, 7 (474). 13, 10 (157). 13, 11 (193, 420). 2 Corinzi (2 Cor.): 3, 6 (202). 4, 17 (324). 6, 10 (308, 435). 6, 14 (91). 11, 14 (163, 283, 349). 12, 2 (234). 12, 4 (240). 12, 9 (121). Galati (Gal.): 1, 8 (224, 248). 2, 2 (226). 2, 14 (228). 5, 17 (313, 322). Efesini (Ef.): 4, 24 (455). Filippesi (Fil.): 3, 17 (439). 3, 18 (148). 3, 20 (480). Colossesi (Col.):

563

2, 3 (223). 2, 9 (223). 3, 5 (305). 3, 9 (459). 3, 10 (420). 1 Tessalonicesi (1 Tess.): 5, 8 (478). 5, 19 (287). Ebrei (Eb.): 1, 1-2 (221). 11, 1 (144). 11, 6 (136, 156, 477). Giacomo (Giac): 1, 17 (459). 1 Pietro (1 Piet.): 1, 19 (189). 2, 2-3 (375). 5, 9 (477). 2 Pietro (2 Piet): 1, 19 (249). 1 Giovanni (1 Gv.): 3, 2 (475). 4, 12 (154). Apocalisse (Apoc): 10, 9-10 (120). 12,4 (313). 13, 7 (164). 17, 4 (313). 18, 7 (104, 309). 21 (233).

564

INDICE DELLE TAVOLE San Giovanni della Croce in un dipinto su tavola di José Vergara Frontespizio dell, edizione 1618 delle Obras Espirituales Immagine del Monte Carmelo in controfrontespizio alla Subida del Monte Carmelo Pagina iniziale della Subida del Monte Carmelo Atto notarile di fondazione del primo convento riformato fuori di Spagna (Genova, 1o dicembre 1584) Frontespizio della prima edizione italiana delle Opere Spirituali Disegno del Crocifisso e autografo di San Giovanni della Croce Sepolcro di San Giovanni della Croce nella chiesa dei Carmelitani a Segovia

565

Indice Frontespizio Colophon Indice del volume Introduzione

4 5 6 7

Nota biografica Nota bibliografica La presente edizione

18 25 37

Poesie Salita del Monte Carmelo

39 84

Libro primo Libro secondo Libro terzo

92 140 295

Notte Oscura

409

Libro primo Libro secondo

414 460

Indice dei nomi Indice scritturistico Indice delle tavole

544 550 565

566