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Italian Pages 1711 Year 2003
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PARTE PRIMA
ELEMENTI DI FISIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA UTILI PER L’ESECUZIONE DELL’ESAME NEUROLOGICO
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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1. La raccolta dell’anamnesi C. Loeb, M. Del Sette
In questi ultimi 30 anni uno straordinario incremento di conoscenze ha profondamente trasformato la neurologia. Questa disciplina veniva spesso considerata, nel passato, un arengo per sottili disquisizioni neuropatologiche e problemi di localizzazione della lesione, mentre scarse o nulle apparivano le possibilità terapeutiche. Oggi un insieme organico di numerose discipline sperimentali e cliniche all’insegna del prefisso “neuro” viene universalmente riconosciuto. Il neurologo può attualmente avvalersi di rilevanti nuove conoscenze e, ad esempio, le ricerche di neurobiologia, neurogenetica, neurofisiologia sperimentale e clinica, neurofarmacologia e, in particolare, gli studi di neuroimmagine (tomografia computerizzata, risonanza magnetica, risonanza magnetica funzionale, tomografia ad emissione di positroni, tomografia ad emissione di fotone singolo) introducono fondamentali apporti diagnostici e terapeutici e aprono nuove prospettive per lo studio dei meccanismi neurali delle funzioni mentali. Si potrebbe, quindi, affrettatamente ritenere che il ruolo clinico, classicamente inteso, sia sorpassato e di non rilevante utilità, anche se le tecniche di supporto informatico e di decisione assistita per l’attività clinica non appaiono ancora utilizzabili. Ma il reperto strumentale richiede sempre, anche quando sembra risolutivo, un ulteriore processo di competente e sperimentata elaborazione clinica. L’articolazione del processo diagnostico in neurologia consta di varie fasi: a) acquisizione dei dati, cioè raccolta delle informazioni che provengono dall’anamnesi spontanea, dall’anamnesi mirata su precise do-
mande dell’esaminatore, dall’esame obiettivo generale e neurologico. b) organizzazione motivata delle informazioni al fine di riconoscere un raggruppamento di sintomi utili per individuare una possibile sede di lesione nel sistema nervoso, e un relativo riconoscimento sindromico. c) elaborazione critica e aggregazione in ipotesi diagnostiche dei dati precedenti, confronto delle diverse ipotesi sulla base di conoscenze cliniche e dell’esperienza personale. Il processo utilizzato per il confronto delle diverse ipotesi viene anche indicato come diagnosi differenziale. d) tentativo di identificare la natura della lesione, le possibili cause della malattia e i relativi meccanismi, avvalendosi delle conoscenze etiologiche e fisiopatologiche e con l’ausilio di indagini complementari . e) determinazione dell’entità del danno funzionale per stabilire il grado di invalidità causato dalla malattia, elemento fondamentale per valutare gli effetti del trattamento e per un giudizio prognostico. L’accurata e paziente raccolta dei dati anamnestici sicuramente rappresenta, ancor oggi, la base fondamentale su cui costruire l’edificio diagnostico. La diagnosi, infatti, si raggiunge elaborando criticamente i dati ottenuti dall’anamnesi, dall’esame obiettivo generale, dall’esame neurologico e dagli esami complementari (esami biochimico-umorali, esami di neurofisiologia clinica, e studi con neuroimmagini). L’indagine anamnestica fornisce un orientamento per identificare gli obbiettivi da approfondire nell’esame neurologico e per procedere, successivamente, alla richiesta mirata degli esami complementari necessari.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il modo di raccogliere l’anamnesi, anche se schematizzabile, è estremamente soggettivo e richiede particolare abilità, elevato livello culturale specialistico ed adeguata esperienza. Non v'è dubbio che una impostazione anamnestica non corretta o imprecisa e frettolosa rappresenta una fonte di errore che si ripercuote su tutto il procedimento diagnostico. Non sarà mai ripetuto abbastanza che l’accurata raccolta dei sintomi della malattia attuale e delle condizioni morbose pregresse è una componente basilare del lavoro medico. Per una adeguata raccolta dei dati anamnestici alcune considerazioni generali devono essere tenute presenti. Fra medico e malato deve svolgersi una conversazione distesa nella quale il medico, pur dirigendone le linee, deve, almeno in un primo tempo, soprattutto ascoltare. L’ammalato deve raggiungere la convinzione che esiste un completo interessamento per la sua persona e per la sua malattia. Bisogna evitare che l’interrogatorio appaia eccessivamente incalzante e che rischi, quindi, di creare un certo imbarazzo e talora una malcelata resistenza e, comunque, sia fonte di ostacoli per una buona relazione medico-malato. Prendere appunti è consigliabile, ma tale attività non deve essere così intensa e continua da generare un certo grado di diffidenza e compromettere la necessaria collaborazione. La verifica delle informazioni è sempre indispensabile e può essere raggiunta attraverso una seconda fonte, rappresentata da parenti o amici, in special modo se vengono sospettate o accertate alterazioni dello stato di coscienza o di funzioni mentali. A questo proposito appare necessario sottolineare che la raccolta dei dati anamnestici da malati neurologici è talora impossibile, proprio per il tipo di patologia di cui soffre il soggetto. Ad esempio, se si tratta di una perdita di coscienza, dovuta a trauma cranico o ad altra patologia, di un disturbo mnesico da trauma cranico o da amnesia globale transitoria, di uno stato di ebbrezza alcolica acuta, il malato non è in grado di dare alcuna informazione, e spes-
so anche familiari, amici, conoscenti o semplici testimoni dell’evento, non riescono a fornire un racconto significativo e utile a fini clinici. Il neurologo, allora, si deve affidare esclusivamente alle ipotesi diagnostiche che possono essere criticamente elaborate sulla base dei dati clinici obiettivi corroborati dagli esami complementari. Molto spesso il medico può interpretare in maniera inesatta quanto ascolta, sia per i termini usati dal malato sia perché è portato a introdurre personali interpretazioni diagnostiche. L’intervista clinica si articola classicamente in anamnesi familiare, personale fisiologica e patologica remota, per giungere infine all’anamnesi patologica prossima. Di regola il malato, soprattutto per attenuare il coinvolgimento emotivo generato dalla malattia, affronta subito la descrizione dei disturbi di cui soffre, e appare necessario e utile accontentarlo. Successivamente si richiederà il racconto delle vicende mediche personali del passato e gli elementi della storia medica familiare, ed ambedue questi aspetti, alla luce della situazione patologica attuale, potranno essere più utilmente indagati. MALATTIA ATTUALE - Dopo la storia liberamente espressa, il malato deve essere sollecitato a chiarire diversi aspetti del racconto con domande precise e semplici, possibilmente corredate da esempi esplicativi. Ad esempio, il soggetto sofferente di cefalea, il quale si presenta affermando di soffrire di “nevralgia”, dovrà chiarire la sede e le caratteristiche del dolore, le modalità di comparsa, la durata, i possibili fattori scatenanti, i farmaci già utilizzati e la loro relativa efficacia. Il malato va incoraggiato ed invitato a spiegare il sintomo con parole proprie, espressione del livello culturale personale e dell’ambiente in cui vive. Un elemento di notevole importanza nella storia neurologica riguarda le modalità di comparsa e l’evoluzione nel tempo dei diversi sintomi, considerato che l’esordio improvviso o
La raccolta dell’anamnesi
lentamente ingravescente di uno stesso sintomo, orienta verso differenti patologie. A titolo esemplificativo basta ricordare che una emiparesi a comparsa improvvisa può indirizzare l’attenzione verso una lesione cerebrale vascolare, mentre una emiparesi a lenta evoluzione permette di raggiungere il sospetto di una neoplasia encefalica, per cui una serie di utili domande supplettive potranno arricchire l’anamnesi mirata. Va comunque ricordato che le informazioni sull’esordio ed il decorso dei sintomi non sono facilmente accessibili, anche per la scarsa obiettività del soggetto coinvolto, il quale spesso stabilisce arbitrariamente un nesso di causalità tra un qualsiasi evento e la comparsa dei sintomi. Se esistono turbe della memoria, come può accadere nel soggetto anziano, una attendibile ricostruzione degli eventi diventa ancora più difficile. Può essere allora utile tentare di ricostruire l’andamento temporale del disturbo, confrontando la differente capacità del soggetto nell’espletare alcune attività oggi rispetto al passato, quando era in buona salute. Ad esempio, informarsi se il soggetto è in grado, come prima della malattia, di camminare e per quanto tempo, o se riesce a salire le scale, se, in una parola, è ancora capace a svolgere le sue abituali attività come nel passato. Ugualmente rilevante è l’informazione sulla distribuzione del disturbo motorio o sensitivo nei vari distretti corporei, elemento cruciale per raggiungere una diagnosi di sede di lesione. Alcuni semplici elementi possono indirizzare l’interrogatorio mirato in maniera utile, ad esempio, un deficit di forza che coinvolge solamente l’arto inferiore indirizzerà le richieste di informazione verso una possibile patologia a livello midollare dorso-lombare, un’emiparesi con disturbi dei nervi cranici dirigerà l’interrogatorio verso una possibile lesione encefalica. Può essere cruciale la corretta interpretazione delle parole del malato, usualmente non solo scarsamente adeguate ma, spesso, fonte di errata comprensione. Non è infrequente, per citare alcuni esempi, che il soggetto affermi di
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aver l’arto “addormentato”, quando è già evidente dalla semplice ispezione visiva la possibile esistenza di un marcato deficit di forza, oppure di lamentare “testa e vista confusa” in caso di diplopia, oppure di riferire un episodio di “malore” quando si è verificata una crisi di perdita di coscienza. Tutte le funzioni neurologiche devono costituire argomento per la richiesta di informazioni anamnestiche mirate: sede e caratteristiche di eventuali dolori spontanei e provocati, motilità e sensibilità nei vari distretti corporei, equilibrio e deambulazione, disturbi sfinterici, sensi specifici, funzioni mentali, specie memoria, linguaggio e stato di coscienza. Spesso il malato giunge all’osservazione provvisto di diagnosi precedentemente emesse, e con risultati di esami di laboratorio più o meno pertinenti. Tali dati devono essere presi in attenta considerazione al termine dell’attuale procedimento diagnostico, prima di prospettare la lista riguardante i necessari esami complementari da eseguire. STORIA FISIOLOGICA - DATI DI PERSONALITÀ E SOCIOAMBIENTALI - L’anamnesi personale fisiologica deve riguardare, specie in neurologia, le caratteristiche del parto e dello sviluppo psico-fisico, l’inserimento scolastico ed il livello di scolarità, la vita sociale e lavorativa, così come la vita affettiva e sessuale, possibile indice di disagio psichico, così come possibili malattie infettive a trasmissione sessuale. Attenzione particolare va riservata al possibile abuso di sostanze alcoliche o di farmaci e all’abitudine al fumo. Infine, informazioni sulle attività lavorative o extralavorative possono avere importanza per possibili patologie tossiche o traumatiche del sistema nervoso, quali malattie professionali, tossicosi, traumatismi sul lavoro o per l’esercizio di attività sportiva. Il malato deve poter ricostruire queste notizie senza fretta, avendo il tempo necessario per fornire l’informazione richiesta, che spesso viene ricavata con qualche difficoltà. In particolare, le informazioni riguardanti gli aspetti più intimi della vita
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
personale, quali adattamento all’ambiente familiare e di lavoro, modalità di reazione ad avvenimenti importanti (quali pubertà, esperienze sessuali, matrimonio, morte di persone care, etc) è preferibile siano richieste alla fine del colloquio o, meglio, dopo la visita, in assenza di altre persone, nell’auspicio che un certo livello di confidenza si possa ritenere instaurato. DATI DELLA STORIA REMOTA- L’anamnesi patologica remota deve riportare gli eventi patologici del passato, con particolare riguardo a precedenti ricoveri, a precedenti terapie mediche o chirurgiche, a pregressi incidenti che possono aver comportato traumi cranici o vertebrali. Sintomi e quadri patologici precedenti, anche apparentemente non correlati con i disturbi attuali, possono portare qualche chiarimento alla patologia attuale. A titolo di esempio: una ipertensione arteriosa di lunga durata può essere associata a una patologia cerebrovascolare, una storia di diabete mellito può essere correlata a una polineuropatia, una neoplasia viscerale può essere causa di metastasi nel sistema nervoso, oppure di una polineuropatia paraneoplastica. Poter valutare con precisione i farmaci precedentemente assunti può aiutare a comprendere i sintomi attuali: una sindrome parkinsoniana può essere dovuta all’assunzione di fenotiazine per lunghi periodi, episodi confusionali nell’anziano possono essere facilitati dall’assunzione di benzodiazepine o antidepressivi, episodi di
caduta a terra possono essere correlati all’uso non controllato di farmaci ipotensivi. DATI FAMILIARI - Molte malattie neurologiche sono ereditarie o familiari, per cui un’accurata ricostruzione della patologia nei familiari ha spesso grande valore diagnostico. Questa parte dell’anamnesi spesso non è agevole, per la dispersione delle notizie nel tempo, per le ridotte conoscenze mediche del passato, per le reticenze del soggetto e dei familiari nei riguardi di malattie neurologiche (ad esempio, epilessia, insufficienza mentale), vissute come onta familiare e spesso tenute nascoste perché gravate da pregiudizi sociali. IN CONCLUSIONE: alla fine della raccolta anamnestica, il medico è in grado di prospettare una serie di ipotesi diagnostiche provvisorie, che possiamo definire “ipotesi diagnostiche anamnestiche”, le quali costituiscono la prima pietra per la costruzione del complesso edificio diagnostico, che dovrà essere proseguito con l’esame obiettivo generale e con l’esame neurologico. Solo al termine di questo percorso potranno essere identificati gli esami complementari biochimico-umorali, gli esami strumentali neurofisiologici e lo studio con neuroimmagine, elementi che permettono di raggiungere la diagnosi. Seguendo questo indirizzo si potrà evitare il ricorso indiscriminato e dispendioso alla diagnostica strumentale immotivata.
Funzione motoria
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2. Funzione motoria G. Abbruzzese
La motilità volontaria e non volontaria (automatica e riflessa) si attua attraverso un’organizzazione nervosa complessa. Esistono due livelli di controllo della funzione motoria: – controllo segmentale del movimento o dell’unità motoria; – controllo encefalico del movimento.
1. Controllo segmentale del movimento: l’unità motoria I corpi cellulari dei neuroni motori che controllano direttamente le fibre del muscolo scheletrico (alfa-motoneuroni) sono localizzati nelle corna anteriori del midollo spinale o nei nuclei motori somatici dei nervi cranici. L’assone di questi neuroni raggiunge la fibra muscolare costituendo con essa un particolare rapporto sinaptico noto come giunzione neuro-muscolare. Ogni fibra muscolare è innervata da un solo alfa-motoneurone, il quale però innerva più fibre muscolari. L’insieme costituito dall’alfa-motoneurone e dalle fibre muscolari da esso innervate è denominato unità motoria. Il rapporto di innervazione esprime il numero di fibre muscolari che compongono l’unità motoria. Tale numero dipende dal muscolo considerato, variando dalle poche unità presenti nei muscoli oculari estrinseci fino alle migliaia presenti nel gastrocnemio. Esso è approssimativamente proporzionale alle dimensioni del muscolo, nel senso che muscoli piccoli sono costituiti da unità motorie formate da poche fibre muscolari, mentre muscoli grandi sono costituiti da unità motorie con rapporto di innervazione elevato.
L’attività dell’unità motoria è controllata sia da strutture superiori (la corteccia cerebrale motoria, attraverso la via cortico-spinale e i nuclei del tronco encefalico, attraverso le vie discendenti del sistema ventro-mediale) sia da afferenze periferiche. L’unità motoria è considerata pertanto la via finale comune della motilità, poichè rappresenta l’ultimo livello comune attraverso cui strutture superiori e periferiche diverse esplicano la loro influenza sul movimento.
I diversi tipi di unità motoria Le fibre muscolari non sono tutte uguali. Alcune appaiono pallide, mentre altre sono di colore rosso scuro, donde la distinzione in fibre bianche e fibre rosse. Le fibre rosse contengono elevate quantità di mitocondri e di mioglobina, una proteina dotata della capacità di fissare l’ossigeno. Queste fibre hanno un metabolismo prevalentemente aerobio, come è testimoniato dall’elevata concentrazione di enzimi ossidativi. Le fibre bianche possiedono meno mitocondri delle fibre rosse ed hanno un metabolismo di tipo anaerobico, che utilizza la scissione del glicogeno in piruvato e lattato a scopo energetico. Le fibre bianche sono molto più grandi delle fibre rosse, si contraggono più velocemente, sviluppando tensioni maggiori. Durante la contrazione esse esauriscono rapidamente i loro substrati energetici, andando facilmente incontro a fatica. Le fibre rosse si contraggono più lentamente sviluppando tensioni minori, ma, in virtù del loro metabolismo di tipo ossidativo, sono più resistenti alla fatica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sulla base di queste caratteristiche metaboliche e funzionali, le fibre muscolari vengono distinte in tre classi: classe I fibre lente ossidative (SO = Slow Oxidative), sono le fibre rosse; classe IIA fibre rapide, ossidative e glicolitiche (FOG = Fast Oxidative Glycolytic), sono fibre con caratteristiche intermedie tra le fibre bianche e quelle rosse; classe IIB fibre rapide glicolitiche (FG = Fast Glycolytic), sono le fibre bianche. Tutte le fibre muscolari di una unità motoria hanno proprietà fisiologiche e biochimiche simili, appartengono cioè alla stessa classe. Esistono pertanto tre gruppi di unità motorie, con caratteristiche funzionali diverse, che riflettono il diverso tipo di fibre muscolari che le compongono. Le unità rapide suscettibili alla fatica (unità FF = Fast Fatiguing) sono costituite da fibre muscolari di classe IIB. Queste unità si rilasciano e si contraggono velocemente, ma si affaticano rapidamente quando vengono stimolate in modo ripetitivo. Generano la maggior parte della forza sviluppata nel corso di una contrazione muscolare. Esistono poi le unità lente resistenti alla fatica (unità S = Slow), costituite da fibre muscolari di classe I. Esse presentano una velocità di contrazione minore e sono estremamente resistenti alla fatica; sviluppano però forze dell’ordine dell’1-10% rispetto a quelle sviluppate dalle unità rapide suscettibili alla fatica. Il terzo tipo è rappresentato dalle unità rapide resistenti alla fatica (unità FR = Fast Resistant), costituite da fibre muscolari di classe IIA, caratterizzate da proprietà intermedie tra quelle degli altri due gruppi. Queste sono resistenti alla fatica quasi come le unità lente, sviluppando però forze pari circa il doppio. I tre tipi di unità motorie, pertanto, differiscono per la diversa suscettibilità alla fatica (che dipende dalla capacità o meno di utilizzare l’ossigeno a scopo energetico) e per la quantità di forza che sono in grado di sviluppare. A questo proposito vale la pena di ricordare che le unità FF sviluppano forze che possono essere 100 volte maggiori rispetto a quelle originate dalle unità S. Ciò dipende dai seguenti fattori: 1) maggiore efficacia, nelle fibre bianche, dei processi di secrezione e riassorbimento degli ioni calcio nel reticolo sarcoplasmatico e maggiore
attività dell’ATPasi, che si traducono in una contrazione più efficace del sarcomero; 2) rapporto di innervazione maggiore nelle fibre bianche; 3) la dimensione della singole fibre muscolari, massima per le fibre rapide suscettibili alla fatica e minima per le fibre lente. Riassumendo, le unità motorie FF sono più grosse delle unità S perché hanno un rapporto di innervazione maggiore e perché sono formate da fibre muscolari più grandi. Le unità FR hanno caratteristiche intermedie.
Le unità motorie dei tre gruppi (S-FR-FF) differiscono tra loro non solo per le fibre muscolari, ma anche per le caratteristiche anatomiche e funzionali dei rispettivi motoneuroni alfa. Le unità motorie grandi sono caratterizzate da un motoneurone grande; le unità motorie piccole sono costituite da un motoneurone piccolo. Ne consegue che i motoneuroni delle unità veloci sono più grandi di quelli delle unità lente. Come vedremo in seguito, questa caratteristica anatomica sta alla base del reclutamento progressivo delle unità motorie nel corso di contrazioni muscolari di intensità crescente. Esistono differenze anche nelle modalità di scarica. I motoneuroni delle unità veloci tendono a generare scariche occasionali di potenziali d’azione ad alta frequenza (30-60 impulsi al secondo), mentre i motoneuroni lenti si caratterizzano per una attività a bassa frequenza relativamente regolare (10-20 impulsi al secondo). Ogni muscolo possiede unità motorie dei tre tipi, in proporzione variabile a seconda della sua specializzazione funzionale. Ad esempio, il muscolo soleo, che ha una funzione essenzialmente posturale, è formato in prevalenza da unità lente. I muscoli oculari estrinseci invece, responsabili dei movimenti rapidi e improvvisi dei globi oculari (saccadi), sono formati in prevalenza da unità rapide.
Gradazione della forza muscolare: modulazione di frequenza e modulazione di reclutamento Quando un motoneurone genera un potenziale d’azione, tutte le fibre muscolari da esso in-
Funzione motoria
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Tabella 2.1 - Correlazione tra tipo di fibra, tipo di unità motrice e dimensione del motoneurone Tipo di fibra muscolare
I SO (Slow Oxidative) Lente, ossidative
IIA FOG (Fast Oxidative Glycolytic) Rapide, ossidative e glicolitiche
IIB FG (Fast Glycolytic) Rapide, glicolitiche
Tipo di unità motoria
S (Slow) Lenta
FR (Fast Resistant) Rapida, resistente alla fatica
FF (Fast Fatiguing) Rapida, suscettibile alla fatica
piccola
intermedia
grande
Dimensione alfamotoneurone
nervate vengono depolarizzate e successivamente si contraggono. L’unità motoria segue quindi il principio del tutto o nulla: o è attivata o non lo è affatto. Non sono possibili situazioni intermedie. Per graduare la forza della contrazione muscolare due meccanismi vengono messi in atto: il reclutamento delle unità motorie, cioè l’aumento o la diminuzione del numero di unità motorie attivate (modulazione di reclutamento) e la variazione della frequenza di scarica delle singole unità motorie (modulazione di frequenza). Il reclutamento delle unità motorie segue un ordine preciso, dato dalle dimensioni del corpo cellulare del motoneurone alfa. Nel corso di contrazioni muscolari di intensità crescente, inizialmente vengono reclutati i motoneuroni piccoli. Successivamente, aumentando l’intensità della contrazione, vengono attivati anche i neuroni più grandi. Ciò significa, per la relazione esistente tra dimensione del motoneurone e dimensione dell’unità motoria, che le unità motorie più piccole, che sviluppano forze lievi ma sono resistenti alla fatica, vengono attivate prima delle unità più grandi. Questo reclutamento in base alle dimensioni prende il nome di principio dimensionale di Henneman, dal neurofisiologo che lo descrisse. Esso è valido sia per l’attivazione volontaria dei motoneuroni che per quella riflessa. Questa modalità di reclutamento delle unità motorie semplifica molto il compito dei centri
superiori nella regolazione della forza muscolare. Per produrre un particolare livello di forza i centri superiori devono solo determinare l’entità dell’eccitamento sinaptico complessivo diretto al pool motoneuronale, senza preoccuparsi di specificare quali motoneuroni, e quindi quali unità motorie, debbano essere attivate. La base biofisica del principio di Henneman risiederebbe nel fatto che i neuroni piccoli presentano una maggiore resistenza d’ingresso alle correnti elettriche sinaptiche. L’ampiezza di un potenziale sinaptico dipende dal prodotto della corrente sinaptica per la resistenza d’ingresso del neurone (legge di Ohm, E = IR). Pertanto, una corrente sinaptica di una data entità determina un potenziale sinaptico più grosso in un neurone piccolo rispetto a quello che induce in un neurone grande. La frequenza di scarica del motoneurone modula la forza di contrazione dell’unità motoria in virtù della sommazione temporale delle tensioni prodotte dalle singole contrazioni. La durata del potenziale d’azione (1-3 ms) è ben inferiore alla durata della scossa muscolare, che comprende il tempo di contrazione e decontrazione muscolare (10-100 ms). Tuttavia, siccome i motoneuroni attivati durante il movimento generano raffiche di potenziali d’azione, separati tra loro da poche decine di ms o anche meno, la fibra muscolare può essere riattivata prima che il suo rilasciamento si sia completato. Se i potenziali d’azione sono sufficiente-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
mente ravvicinati, le forze generate da ogni contrazione muscolare hanno il tempo di sommarsi, raggiungendo valori superiori a quelli determinati da una singola contrazione. Maggiore è la frequenza dei potenziali d’azione, maggiore è la tensione che ne risulta. Se la frequenza è sufficientemente elevata, le tensioni sviluppate da ogni contrazione si fondono fino a formare un plateau, che prende il nome di tetano e rappresenta lo sforzo massimale possibile. Ne consegue che un ulteriore aumento di frequenza non produce alcun incremento di tensione. Esistono importanti differenze nei fenomeni di regolazione della forza tra i muscoli distali e prossimali dell’arto superiore. La modulazione di frequenza è più importante nei muscoli distali, laddove la frequenza di scarica dei motoneuroni varia da un minimo di 9Hz (contrazione lieve) ad un massimo di 40Hz (contrazione massimale). Nei muscoli prossimali la forza della contrazione muscolare dipende in massima parte dalla modulazione del reclutamento. La frequenza dei motoneuroni che innervano questi muscoli varia entro limiti più ristretti, partendo da 10 Hz e non superando, per contrazioni massimali, il valore di 25 Hz. Si ritiene che il motivo delle differenti proporzioni con cui entrano in gioco la modulazione di frequenza e di reclutamento nei muscoli prossimali e distali dipenda dalla specificità del loro ruolo funzionale. Nei muscoli della mano una regolazione della forza basata solo sul reclutamento delle unità motorie non sarebbe sufficientemente accurata per garantire la corretta esecuzione dei compiti motori più fini e complessi, come ad esempio quelli connessi con la scrittura. Bisogna infatti considerare che la regolazione della forza sulla base del reclutamento delle unità motorie non è uniforme, ma procede invece a scalini. L’incremento minimo di forza è rappresentato dal reclutamento di una singola unità motoria e quindi dall’entrata in campo di un numero di fibre muscolari corrispondente al rapporto di innervazione. Ne con-
segue che l’altezza dello scalino dipende dal numero di fibre muscolari che compongono l’unità motoria reclutata. Nei muscoli distali si rende spesso necessario regolare la forza in posizioni intermedie (a metà scalino) e questo è possibile solo modulando la frequenza di scarica delle unità già attivate.
Il controllo riflesso delle unità motorie: la propriocezione muscolare La maggior parte dei muscoli scheletrici è dotata di strutture specializzate denominate fusi neuromuscolari, che hanno il compito di fornire al sistema nervoso centrale informazioni riguardanti la lunghezza del muscolo. I fusi neuromuscolari, così denominati per la loro forma fusale, sono costituiti da 8-12 fibre muscolari contenute in una guaina fibrosa. Tali fibre sono denominate fibre muscolari intrafusali (Fig. 2.1), per distinguerle dalle più numerose fibre extrafusali, che si trovano all’esterno della capsula connettivale che delimita il fuso. Le fibre extrafusali formano la maggior parte del muscolo e sono interamente responsabili della sua forza contrattile. Sia le fibre intrafusali che quelle extrafusali sono situate in parallelo, vale a dire le une a fianco delle altre. La struttura dei fusi è piuttosto complessa (Fig. 2.1). Si distinguono intanto due tipi di fibre intrafusali: fibre a sacco nucleare, con nuclei raggruppati nella porzione centrale e fibre a catena nucleare con nuclei disposti a catena nella porzione centrale, che si presenta in questo caso allungata. Ciascuna fibra intrafusale comprende una porzione centrale o equatoriale, non contrattile, e due porzioni periferiche o polari, contrattili e striate. La parte centrale di ogni fibra intrafusale è avvolta a spirale da una terminazione detta appunto anulospirale o primaria, da cui originano le fibre afferenti primarie del fuso, dette fibre Ia. In posizione paraequatoriale si trovano le terminazioni arborescenti o secon-
Funzione motoria Terminazioni a STRISCIA
Terminazioni a PLACCA
FIBRE NERVOSE FUSI MOTRICI (FIBRE GAMMA)
Terminazioni PRIMARIE (ANULOSPIRALI) C. d. Recettori Primari Sensibili a stiramenti sia statici (TONICI) che dinamici (FASICI)
Terminazioni SECONDARIE (ad ARBORIZZAZIONE FLOREALE) C. d. Recettori Secondari sensibili solo a stiramenti statici (TONICI) Fibre a CATENA NUCLEARE
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Afferenti Ia
Fibre a SACCO NUCLEARE
Fibre NERVOSE AFFERENTI (dal fuso neuromuscolare) Afferenti II
Fig. 2.1 - Struttura del fuso neuro-muscolare: fibre a sacco nucleare e a catena nucleare. Dalle terminazioni primarie anulospirali originano le fibre Ia, che raggiungono gli alfa motoneuroni; dalle terminazioni secondarie, ad arborizzazione floreale, originano le fibre II, che, dal pari, raggiungono gli alfa motoneuroni. Dai motoneuroni gamma partono fibre efferenti verso i poli del fuso (modificata, da J. W. Lance, Neurologia e neurofisiologia clinica, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1973).
darie, da cui partono le fibre afferenti secondarie, dette fibre II. Tali fibre (Ia e II) rappresentano i prolungamenti periferici di neuroni sensitivi, i pirenofori dei quali sono localizzati nei gangli sensitivi, mentre i prolungamenti centrali raggiungono il nevrasse decorrendo attraverso le radici posteriori dei nervi spinali o nei nervi cranici. In virtù della sistemazione in parallelo delle fibre intra ed extra-fusali, quando le fibre extrafusali vengono stirate, e quindi il muscolo si allunga, anche le fibre intrafusali si allungano. L’allungamento delle fibre intrafusali determina la depolarizzazione delle fibre nervose avvolte intorno ad esse (Ia e II). Questo fenomeno è dovuto alla presenza, nelle fibre nervose, di canali ionici ad accesso variabile sensibili allo stiramento, che si aprono cioè in
risposta alla deformazione meccanica della membrana sulla quale sono indovati, determinando la depolarizzazione della membrana cellulare. Pertanto l’allungamento del muscolo, e quindi l’allungamento delle fibre intrafusali, determina l’aumento della frequenza di scarica dei neuroni sensitivi che innervano i fusi. L’accorciamento del muscolo produce al contrario la riduzione della tensione delle fibre intrafusali, con inibizione della frequenza di scarica del fuso. I fusi neuromuscolari sono pertanto gli organi addetti alla rilevazione delle variazioni della lunghezza delle fibre extrafusali (recettori di lunghezza). Le fibre Ia dei fusi neuromuscolari di un muscolo stabiliscono sinapsi eccitatorie con gli alfa-motoneuroni omonimi (che innervano cioè lo stesso muscolo). È questa la base anatomica
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del riflesso monosinaptico da stiramento, caratterizzato per l’appunto da un’unica sinapsi, quella delle fibre Ia sui motoneuroni omonimi. Quando il muscolo viene allungato, i fusi neuromuscolari vengono stirati e quindi generano impulsi che raggiungono i motoneuroni alfa, i quali, a loro volta, inviano impulsi alle fibre muscolari striate che si contraggono. La contrazione delle fibre extrafusali determina l’accorciamento del fuso riducendo l’afflusso di impulsi agli alfa motoneuroni. Analogamente, se il tendine muscolare viene percosso, come si fa per produrre un riflesso osteotendineo, il muscolo viene stirato. Anche in questo caso si provoca una distensione del fuso neuromuscolare, che a sua volta metterà in funzione il meccanismo precedentemente descritto, realizzando un arco diastaltico monosinaptico, costituito da: recettore sensitivo (porzione centrale del fuso); via afferente sensitiva (prolungamento periferico e centrale del neurone gangliare); centro riflesso (corna anteriori del midollo spinale o nuclei motori dei nervi cranici); via efferente motoria (assone del neurone motore) ed infine organo effettore (fibre muscolari extrafusali). Il riflesso da stiramento costituisce un meccanismo finalizzato a mantenere costante la lunghezza muscolare e risulta fondamentale nel mantenimento del tono posturale della muscolatura di sostegno. Se il corpo, durante la stazione eretta, si piega in avanti, i recettori da stiramento dei muscoli della loggia posteriore della gamba vengono stimolati determinando la contrazione di questi stessi muscoli e riportando il corpo nella posizione di equilibrio. Se il corpo si sposta all’indietro, sono i recettori da stiramento dei muscoli della loggia antero-laterale della gamba ad essere stimolati, con conseguente contrazione di questi muscoli e spostamento del corpo in avanti. Le fibre Ia non stabiliscono solamente contatti monosinaptici eccitatori con i motoneuroni omonimi (circuito del riflesso da stiramento, detto anche arco diastaltico del riflesso da sti-
ramento), ma anche contatti disinaptici inibitori con i motoneuroni del muscolo antagonista. In particolare, i messaggi provenienti dai fusi neuromuscolari (input Ia) di un muscolo attivano neuroni inibitori, localizzati nella zona grigia intermedia del midollo spinale, che a loro volta inibiscono gli alfa motoneuroni del muscolo antagonista. Tale meccanismo, grazie al quale durante la contrazione muscolare riflessa (indotta cioè dall’attivazione dei fusi neuromuscolari) i muscoli antagonisti vengono inibiti, prende il nome di inibizione reciproca (Fig. 2.2). L’inibizione reciproca viene utilizzata anche dalle vie nervose discendenti, provenienti dalla corteccia motoria e dai nuclei del tronco encefalico, che controllano i motoneuroni alfa.
Fig. 2.2 - Rappresentazione del circuito per l’inibizione reciproca. Le fibre Ia provenienti dal fuso hanno effetto eccitatorio sugli alfa motoneuroni per i muscoli agonisti ed effetto inibitorio sugli alfa motoneuroni per i muscoli antagonisti.
Funzione motoria
Nel corso della flessione volontaria dell’avambraccio sul braccio, ad esempio, le vie motorie discendenti non attivano soltanto i motoneuroni alfa che controllano i muscoli flessori, ma anche gli interneuroni che inibiscono i motoneuroni alfa dei muscoli estensori. Il significato dell’inibizione reciproca è palese. Basti pensare quanto sarebbe difficoltoso flettere l’articolazione del gomito se i muscoli estensori non si decontraessero. Le connessioni centrali delle afferenze fusali del gruppo II sono meno note e così, di conseguenza, il loro significato funzionale. Classicamente si ritiene che rappresentino una delle afferenze del riflesso flessore. Esse inoltre contribuirebbero all’attivazione degli alfamotoneuroni del muscolo omonimo.
Il fuso neuromuscolare costituisce una formazione del tutto particolare poichè nella stessa struttura sono comprese, oltre alle funzioni di recettore, anche quelle di effettore. Infatti le fibre muscolari intrafusali possiedono una innervazione motoria da parte di neuroni di piccole dimensioni, i pirenofori dei quali sono localizzati nel nevrasse (corna anteriori del midollo spinale e nuclei motori somatici dei nervi cranici) insieme ai corpi cellulari degli alfamotoneuroni. Tali cellule sono denominate motoneuroni gamma, che insieme ai motoneuroni alfa rappresentano i motoneuroni inferiori. Gli assoni dei motoneuroni gamma stabiliscono connessioni sinaptiche con le porzioni polari, contrattili, delle fibre intrafusali. La contrazione delle porzioni polari della fibra intrafusale stira la regione equatoriale non contrattile, inducendo l’eccitazione delle terminazioni sensoriali primarie. Pertanto l’organizzazione motoria centrale (area motoria corticale e strutture del tronco encefalico) può teoricamente realizzare il movimento attraverso due meccanismi: a) agendo direttamente sui motoneuroni alfa; b) agendo sui motoneuroni gamma, i quali, a loro volta, attraverso i fusi neuromuscolari, attivano i motoneuroni alfa (circuito gamma). Sembra però che il movimento volontario, nel-
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l’uomo, sia generalmente ottenuto mediante una attivazione combinata dei motoneuroni alfa e gamma. L’attivazione pura degli alfa motoneuroni sarebbe responsabile delle contrazioni riflesse prodotte da stimoli cutanei e delle contrazioni indotte da stimoli vibratori prolungati in grado di attivare le fibre Ia (riflesso tonico di vibrazione). L’attivazione indipendente dei motoneuroni gamma sarebbe responsabile dell’incremento del riflesso miotattico di un muscolo indotto dalla contrazione di altri gruppi muscolari, fenomeno utilizzato anche nella pratica clinica e denominato manovra di Jendrassik.
Se la contrazione muscolare fosse ottenuta attraverso l’attivazione pura dei motoneuroni alfa, l’accorciamento del muscolo determinerebbe la riduzione della tensione delle fibre intrafusali, rendendole incapaci di rispondere a minimi allungamenti muscolari e conseguentemente il loro ruolo funzionale sarebbe nullo. Invece, la coattivazione dei motoneuroni alfa e gamma fa sì che l’effetto della contrazione extrafusale sia compensato dalla contrazione delle fibre intrafusali, in modo tale che i fusi neuromuscolari possano mantenere la loro funzione di rilevatori delle variazioni di lunghezza anche quando il muscolo si accorcia. Oltre ai fusi muscolari esistono altri tipi di recettori coinvolti nella funzione motoria: recettori tendinei o organi muscolotendinei di Golgi (Fig. 2.3). Si tratta di arborizzazioni nervose situate entro i fasci di fibre collagene del tendine, in prossimità della sua giunzione col muscolo, e circondate da una delicata capsula. Gli organi muscolotendinei sono disposti in serie rispetto alle fibre muscolari extrafusali e sono quindi sensibili ad un aumento di tensione del tendine. Dagli organi tendinei di Golgi partono le fibre afferenti (Ib) che, attraverso un neurone internuciale, producono un effetto inibitorio sugli alfa motoneuroni del muscolo agonista (inibizione autogenetica) e una azione facilitatoria sugli alfa motoneuroni del muscolo antagonista. Questi circuiti hanno il compito di prevenire una eccessiva tensione del muscolo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.3 - Raffigurazione schematica del circuito gamma; le afferenze provenienti dalle terminazioni anulo-spinali raggiungono, attraverso le fibre Ia, decorrenti nelle radici posteriori,gli alfa motoneuroni; dagli alfa motoneuroni partono gli assoni per l’innervazione delle fibre muscolari extrafusali; dai gamma motoneuroni partono le fibre per l’innervazione motoria dei poli del fuso (fibre gamma). È raffigurato anche l’organo tendineo di Golgi che attraverso le fibre Ib raggiunge un neurone intercalare, il quale esercita una funzione inibitoria sull’alfa motoneurone: inibizione autogenetica.
Esiste anche un sistema di autoregolazione, costituito dalle cellule di Renshaw (Fig. 2.4), situate nelle corna anteriori del midollo in prossimità degli alfa motoneuroni. Le cellule di Renshaw ricevono un ramo collaterale dell’assone di un motoneurone alfa e proiettano a loro volta un breve assone sul corpo cellulare dello stesso alfa motoneurone. Questo breve circuito ha funzione inibitoria, denominata inibizione ricorrente, ed entra in attività quando la frequenza di scarica dei motoneuroni alfa raggiunge livelli troppo elevati. Come abbiamo visto, il riflesso da stiramento è monosinaptico. Infatti una sola sinapsi separa la branca afferente dalla branca efferente dell’arco riflesso, senza l’interposizione di alcuna cellula. I riflessi che mediano l’inibizione reci-
Fig. 2.4 - Rappresentazione del circuito delle cellule di Renshaw (R): l’assone del motoneurone alfa invia una collaterale alla cellula di Renshaw, la quale, a sua volta, invia l’assone allo stesso motoneurone alfa, con funzione inibitoria: inibizione ricorrente.
Funzione motoria
proca e quella autogenetica sono invece disinaptici. Due sono le sinapsi che separano la branca afferente da quella efferente dell’arco, mediante l’interposizione di una singola cellula. La maggior parte dei riflessi motori, peraltro, coinvolge più sinapsi, collegate in serie, a livello del nevrasse per cui il riflesso viene denominato polisinaptico. Tipico esempio di riflesso polisinaptico è il riflesso flessorio, caratterizzato dalla retrazione dell’arto in seguito ad uno stimolo doloroso applicato sulla pianta del piede. Il riflesso flessorio è accompagnato da una estensione dell’arto controlaterale, che prende il nome di riflesso estensorio crociato, che ha la funzione di compensare la perdita del sostegno antigravitazionale provocata dall’arto in flessione. Questi riflessi sono facilmente elicitabili nell’animale spinale, dimostrando in tal modo che essi si estrinsecano attraverso archi diastaltici spinali.
Tono muscolare Per tono muscolare si intende la sensazione di resistenza che viene apprezzata dall’esaminatore, quando mobilizza passivamente gli arti o il capo. Tale resistenza all’allungamento passivo del muscolo riconosce una duplice origine: a) in parte deriva dall’elasticità intrinseca dei muscoli, che si comportano come molle; b) in parte è un fenomeno di natura riflessa e dipende dal riflesso di stiramento, descritto nel paragrafo precedente.
Funzione trofica La lesione di una qualunque parte del motoneurone alfa determina una riduzione di volume o atrofia delle fibre muscolari corrispondenti. Ciò dipende non tanto dal non uso (l’atrofia da non uso, infatti, non supera il 25-30%), quanto dalla perdita dell’influenza trofica nor-
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malmente esercitata dall’innervazione motoria da cui dipende il mantenimento del metabolismo e dell’eccitabilità elettrica del muscolo.
2. Controllo encefalico del movimento Le aree motorie della corteccia cerebrale È noto che la stimolazione elettrica di quasi tutte le aree corticali cerebrali è in grado di produrre movimenti. Alcune aree sono caratterizzate però da una soglia elettrica più bassa che nelle altre, per cui intensità di stimolazione minori sono sufficienti per evocare il movimento. Si ritiene che tali aree siano direttamente responsabili del controllo motorio e vengono denominate aree motorie corticali. Esse sono rappresentate dalle aree 4 e 6 di Brodmann (Fig. 2.5). Con intensità di stimolazione più elevate, possono essere evocati effetti motori anche dalle aree postcentrali 1, 2, 3 e 5, che appartengono alla corteccia sensoriale. Il movimento provocato dalla stimolazione elettrica di queste aree è probabilmente mediato da connessioni cortico-corticali dirette alle aree motorie. L’area motoria caratterizzata dalla soglia motoria più bassa è l’area 4, nota come area motoria primaria (M1). Essa corrisponde alla circonvoluzione frontale ascendente localizzata sulla superficie laterale e mediale (lobulo paracentrale) del lobo frontale al davanti della scissura di Rolando, che separa il lobo frontale dal lobo parietale (Fig 2.6 A). Nell’area motoria i gruppi muscolari delle diverse parti del corpo sono rappresentati (rappresentazione somatotopica) in modo che la porzione superiore del giro e quella localizzata nella superficie mediale corrisponde all’arto inferiore, la parte media al tronco ed agli arti superiori e la parte inferiore del giro al capo e
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
A
B
C
Fig. 2.5 - Faccia laterale (A), mediale (B), ventrale (C), dell’emisfero sinistro con indicazione delle aree corticali secondo Brodmann.
alla faccia (Fig 2.7). Un’importante caratteristica della rappresentazione somatotopica nell’area motoria primaria risiede nel fatto che le parti del corpo deputate all’esecuzione di mo-
vimenti fini e complessi, come le mani, ricoprono un’area molto più grande di parti deputate a compiti motori più grossolani, come ad esempio le spalle.
Funzione motoria circonv. frontale ascendente scissura di Rolando circonv. parietale ascendente
circonv. frontale sup.
circonv. parietale sup. circonv. parietale inf. circonv. frontale media
giro sopramarginale giro angolare
circonv. frontale inf. parte triangolare
circonv. occipitale lat.
parte opercolare parte orbitaria scissura di Silvio circonv. temporale sup. circonv. temporale inf. circonv. temporale media A
circonvoluzione circonvoluzione frontale sup. scissura di del cingolo Rolando ginocchio del corpo calloso
lobulo paracentrale precuneo scissura parieto-occipitale cuneo
giro retto scissura calcarina
area paraolfattoria ipofisi setto pellucido
chiasma ottico
lobulo linguale
corpo mammillare B Fig. 2.6 - (segue didascalia)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
C
D
Fig. 2.6 - A) Faccia laterale dell’emisfero sinistro, con indicazione delle circonvoluzioni e delle scissure; B) Faccia mediale dell’emisfero sinistro, con indicazione delle circonvoluzioni e delle scissure; C) Faccia ventrale dell’encefalo, con indicazione di scissure, solchi e circonvoluzioni (giri) (c = circonvoluzione; p = polo; s = scissura; g = giro); D) Rappresentazione dell’origine apparente dei nervi cranici a livello del tronco encefalico.
Recenti dati sperimentali sembrano dimostrare che una singola cellula piramidale contrae rapporti sinaptici con motoneuroni che innervano muscoli diversi. La funzione della cellula corticospinale sarebbe quella di guidare l’attività di unità motorie appartenenti a muscoli a funzione sinergica, al fine di compiere un movimento in una determinata direzione. A livello corticale, quindi, non sarebbero rappresentati i singoli muscoli bensì i vari movimenti possibili.
La stimolazione dell’area motoria primaria non evoca mai movimenti complessi, ma solo scosse muscolari semplici. Generalmente i movimenti degli arti vengono evocati controlateralmente rispetto alla corteccia stimolata, mentre i muscoli assiali del tronco, così come i muscoli masticatori e laringei, vengono attivati anche dalla stimolazione della corteccia ipsilaterale. L’area 6 di Brodmann, denominata area premotoria, è localizzata anteriormente alla corteccia motoria primaria e comprende due regio-
ni funzionalmente distinte: l’area supplementare motoria, che giace nella faccia mediale degli emisferi, immediatamente al davanti dell’area primaria per la gamba, al di sopra del giro cingolato (Fig. 2.8), e la corteccia premotoria, localizzata sulla faccia laterale degli emisferi. In generale la stimolazione dell’area 6 evoca movimenti più complessi di quelli evocati dalla stimolazione dell’area motoria primaria, bilaterali per stimolazione dell’area supplementare motoria e comunque caratterizzati da una soglia elettrica nettamente più elevata. L’area supplementare motoria e la corteccia premotoria ricevono segnali afferenti dai nuclei talamici VA e VL, dalle aree visive, dalle regioni somatosensoriali parietali. Le fibre efferenti sono invece dirette ai centri motori inferiori (troncali e midollari) e alla corteccia motoria primaria.
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Funzione motoria
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Fig. 2.7 - Rappresentazione somatotopica della corteccia motoria.
Fig. 2.8 - Localizzazione dell’area rolandica primaria e dell’area supplementare motoria (faccia mediale, superiormente alla circonvoluzione del cingolo e anteriormente all’area motoria rolandica).
Si ritiene che tali aree siano utilizzate per pianificare sequenze motorie e per integrare le informazioni sensoriali, in modo da ottenere movimenti finalizzati ad uno scopo. L’area
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supplementare motoria sarebbe attiva soprattutto nella pianificazione di sequenze motorie iniziate spontaneamente, indipendentemente cioè da qualunque stimolazione esterna. La corteccia premotoria svolgerebbe invece il suo ruolo nella programmazione di movimenti provocati da stimoli sensoriali. La registrazione dell’attività neuronale in animali svegli, precedentemente addestrati a compiere dei movimenti volontari, ha consentito di documentare un aumento dell’attività di scarica delle cellule dell’area supplementare motoria, circa un secondo prima dell’esecuzione del movimento volontario (Evarts, 1966). È stato inoltre dimostrato, studiando nell’uomo le modificazioni del flusso ematico cerebrale, che l’aumento del flusso nell’area supplementare motoria, nel corso dell’esecuzione di movimenti volontari, è proporzionale alla complessità del movimento eseguito (Roland, 1980). È stato altresì evidenziato che quando il movimento è solamente immaginato l’aumento di flusso riguarda solo l’area supplementare motoria, mentre quando il movimento è realmente eseguito le modificazioni del flusso riguardano anche l’area motoria primaria. Questi dati attestano il coinvolgimento dell’area supplementare motoria nella pianificazione di sequenze motorie complesse e nell’elaborazione del segnale di “via” per il movimento volontario. L’area supplementare motoria, infine, sarebbe coinvolta nel controllo delle modificazioni posturali che si verificano durante il movimento volontario (Massion, 1989).
I neuroni delle aree corticali motorie ricevono informazioni sensitive. Le informazioni provenienti dall’area somestesica primaria sono dirette all’area motoria primaria, mentre quelle provenienti dalla corteccia parietale posteriore giungono principalmente all’area premotoria. Le proiezioni originate dalla corteccia sensitiva primaria sono organizzate topograficamente, in modo che la zona corticale motoria in cui è rappresentata una determinata regione del corpo riceve fibre da quella parte della corteccia sensitiva in cui è rappresentata la stessa regione.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Le interazioni tra le informazioni sensitive e i sistemi motori sono fondamentali per la pianificazione del movimento. È intuitivo che per programmare la sequenza motoria che consente, ad esempio, di afferrare un oggetto, i centri motori devono ricevere informazioni concernenti la posizione dell’arto e dell’oggetto nello spazio. La corteccia parietale posteriore svolgerebbe in tal senso un ruolo integrativo di primaria importanza, ricevendo diversi input sensitivi (provenienti dalla corteccia sensitiva primaria, dalle aree corticali visive ed uditive) ed inviando fibre all’area premotoria. Le cellule della corteccia parietale posteriore aumentano la loro frequenza di scarica durante l’esecuzione dei movimenti volontari. Sono stati identificati, nelle scimmie, neuroni che si attivano solo quando l’animale manipola oggetti per apprezzarne le qualità fisiche e sono pertanto denominati neuroni di manipolazione. Altri neuroni scaricano quando l’animale muove l’arto superiore per raggiungere un oggetto che attira il suo interesse, per cui sono denominati neuroni di proiezione del braccio. Queste cellule avrebbero la funzione di integrare le informazioni sensitive riguardanti le parti corporee dell’animale coinvolte nel movimento con le informazioni spaziali inerenti il bersaglio del movimento stesso.
Le vie motorie discendenti (organizzazione generale) I motoneuroni spinali sono localizzati nella sostanza grigia in due nuclei distinti: mediale e laterale. ll nucleo mediale è costituito dai motoneuroni che innervano i muscoli assiali del collo e del dorso. Il nucleo laterale è costituito dai motoneuroni che innervano la muscolatura degli arti. All’interno del nucleo laterale, i motoneuroni collocati più medialmente innervano i muscoli prossimali degli arti, mentre quelli posti lateralmente innervano i muscoli distali. Questa disposizione mediolaterale dei motoneuroni è fondamentale per comprendere l’organizzazione delle vie motorie discendenti.
Esistono infatti due sistemi di fibre discendenti, che collegano i centri motori superiori (corticali e troncoencefalici) ai motoneuroni inferiori (Lawrence e Kuypers, 1968). Il primo sistema è formato da fibre che decorrono nel cordone laterale del midollo spinale e controllano i motoneuroni situati lateralmente nel grigio midollare, addetti alla innervazione dei muscoli distali. Tale sistema prende il nome di via laterale e comprende il tratto corticospinale laterale e il tratto rubrospinale. Esso è deputato al controllo volontario della muscolatura distale degli arti e dipende strettamente dalla corteccia cerebrale. Il secondo sistema è formato da fibre che decorrono nel cordone ventro-mediale del midollo spinale, destinate ai motoneuroni situati nel nucleo mediale del grigio midollare e nella porzione mediale di quello laterale, che innervano rispettivamente i muscoli assiali e quelli prossimali degli arti. Tale sistema, denominato ventro-mediale, dipende fondamentalmente dal tronco encefalico ed è addetto al controllo della postura e della deambulazione. Il sistema ventro-mediale comprende il tratto cortico-spinale ventrale, il tratto vestibolo-spinale, i tratti reticolo-spinali pontino e bulbare e il tratto tetto-spinale. La corteccia motoria controlla tali sistemi discendenti attraverso fibre corticovestibolari, cortico-reticolari e fibre destinate al collicolo superiore.
Il sistema laterale Comprende il fascio piramidale e il fascio rubrospinale. Il fascio piramidale è costituito da fibre che attraversano le piramidi bulbari (dalle quali il fascio trae il proprio nome), riconoscibili come due ampi rigonfiamenti sulla superficie ventrale del bulbo a livello della giunzione bulbo-midollare. Le fibre del fascio piramidale prendono origine dalla corteccia cerebrale e la maggior parte di esse termina nel midollo spinale. Per
Funzione motoria
tale motivo il fascio piramidale è detto anche fascio cortico-spinale. Vengono comprese nel fascio piramidale anche le fibre destinate ai nuclei motori dei nervi cranici. Tali fibre non sono piramidali, perché non passano attraverso le piramidi bulbari, e non sono neppure corticospinali, perché terminano nel tronco dell’encefalo. Tuttavia si considerano parte del fascio piramidale sulla base di un duplice criterio anatomico (decorrono in stretto contatto con le fibre cortico-spinali, prima di staccarsi da esse per raggiungere i nuclei di destinazione) e funzionale (mettono in contatto diretto i centri motori corticali con i nuclei contenenti i motoneuroni inferiori). Il fascio piramidale è costituito da circa un milione di fibre, due terzi delle quali prendono origine dalle aree motorie corticali (un terzo dall’area 4 e un terzo dall’area 6); il terzo restante origina dalla corteccia somatosensoriale primaria (aree 1, 2, 3) e dalle aree parietali posteriori (aree 5 e 7). Le fibre provenienti dalle aree sensitive afferiscono ai nuclei gracile e cuneato e alle corna posteriori del midollo spinale; esse sono verosimilmente responsabili della modulazione corticifuga della trasmissione sensoriale. Tutte le fibre del fascio piramidale hanno il corpo cellulare nel V strato della corteccia cerebrale. Tali cellule rappresentano il neurone superiore della motilità volontaria, detto anche 1° neurone di moto. Le cellule corticali del V strato, che danno luogo a proiezioni corticofugali, sono denominate, in tutte le aree corticali nelle quali sono presenti, cellule piramidali, per la particolare conformazione del loro pirenoforo. È solo per caso che le fibre delle cellule piramidali, che danno luogo alle proiezioni corticospinali, siano anch’esse denominate piramidali, in virtù del loro decorso attraverso le piramidi bulbari. Riassumendo, il fascio è detto piramidale perché decorre nelle piramidi bulbari (Turk, 1851) e non perché rappresenta le proiezioni dei neuroni piramidali della corteccia cerebrale.
Circa il 90% delle fibre del fascio piramidale ha un diametro che va da 1 a 4 µm e pertanto
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conduce l’impulso nervoso a bassa velocità. Solo il 2% delle fibre ha un diametro assai maggiore, compreso tra 10 e 20 µm. Tali fibre, caratterizzate da una velocità di conduzione che oltrepassa i 60 m/sec, originano probabilmente da cellule piramidali giganti, localizzate nell’area motoria primaria, denominate cellule di Betz. Il 6% delle fibre del fascio piramidale non è mielinizzato; sconosciuta è la loro origine così come la loro funzione. Le fibre del fascio piramidale discendono attraverso la corona radiata e convergono nei 2/3 anteriori del braccio posteriore della capsula interna (Figg. 2.9, 2.10) raggiungendo i 3/5 medi del peduncolo cerebrale, la porzione basale del ponte e le piramidi bulbari. A livello della parte caudale del bulbo, la maggior parte delle fibre si incrocia e raggiunge il lato opposto del midollo spinale decorrendo nel cordone laterale (fascio piramidale crociato o laterale). Le vie piramidali includono, come abbiamo già detto, il «fascio cortico-bulbare» o «fascio genicolato» destinato ai nuclei motori dei nervi cranici (Fig. 2.11). Tali fibre decorrono nella corona radiata, passano attraverso il ginocchio della capsula interna (donde la denominazione di fascio genicolato), la parte più mediale dei 3/5 medi del peduncolo cerebrale per terminare, direttamente o indirettamente, a mezzo di neuroni intercalari, sulle cellule di origine dei nervi cranici del tronco encefalico. La maggioranza delle fibre incrocia il piano mediano, ma una modesta percentuale di fibre raggiunge il nucleo motore dello stesso lato. Molti nuclei dei nervi cranici motori e precisamente i nuclei dei nervi oculomotori (III, IV, VI), i nuclei del V, del VII superiore, il nucleo ambiguo (IX, X, XI), ricevono fibre dall’area motoria di ambedue gli emisferi e usufruiscono pertanto di una innervazione bilaterale. Ne consegue che una lesione unilaterale delle vie corticali discendenti dirette a questi nuclei non produce paralisi, poiché le fibre controlaterali mantengono adeguatamente l’attività motoria.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
capsula interna
nuclei dell’oculomotore mesencefalo
nuclei del trigemino ponte
bulbo
nuclei dell’ipoglosso nucleo ambiguo piramide
midollo cervicale
midollo lombare
Fig. 2.9 - Rappresentazione schematica del decorso della via motoria cortico-spinale. 1: fibre per l’arto inferiore; 2: fibre per il tronco; 3: fibre per l’arto superiore; 4: fibre per i muscoli della faccia; 5: fibre cortico-bulbari; 6: fascio cortico-spinale; 7: decussazione motoria; 8: fascio cortico-spinale diretto.
Funzione motoria Braccio anteriore
N. caudato F. fronto-pontino Radiaz. talamiche anteriori F. genicolato o corticobulbare F. piramidale
Talamo
Putamen Globo pallido Vie corticorubre e corticotegmentali Radiaz. uditive Radiaz. ottiche Braccio posteriore
Fig. 2.10 - Rappresentazione schematica del decorso della via cortico-spinale e cortico-bulbare nella capsula interna.
Fascio cortico-bulbare Nucleo del III Nucleo del IV Nucleo del V Nucleo del VI Nucleo del VII Nucleo ambiguo Nucleo del XII
Fig. 2.11 - Rappresentazione schematica delle modalità con cui il fascio cortico-bulbare termina nei nuclei dei nervi cranici.
Gli assoni del fascio piramidale crociato terminano nella regione dorsolaterale delle corna ventrali del midollo spinale, ove sono situati i motoneuroni che controllano i muscoli distali degli arti, in particolare i flessori. Nel midollo spinale la via piramidale si articola con un nu-
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mero di motoneuroni spinali che, per ciascun lato, ammonta a circa 200.000-250.000. Alcune fibre corticospinali entrano in contatto sinaptico diretto con i motoneuroni alfa, mentre altre li raggiungono indirettamente attraverso interneuroni spinali. Sono i motoneuroni che innervano i muscoli flessori a ricevere il maggior contingente di connessioni monosinaptiche. Le fibre corticospinali, oltre ad eccitare i motoneuroni alfa, hanno proiezioni eccitatorie sugli interneuroni spinali (compresi quelli che mediano l’inibizione reciproca, detti interneuroni Ia), sulle cellule di Renshaw e sui motoneuroni gamma. Nell’uomo e negli altri primati la lesione del fascio piramidale crociato comporta la perdita della capacità di muovere indipendentemente le dita, con conseguente difficoltà nell’esecuzione di compiti motori fini. Il fascio corticospinale è un sistema di fibre filogeneticamente recente. Nell’uomo è formato da circa un milione di fibre, mentre nello scimpanzé è costituito da 800000 fibre, nel macaco da 400000 e nel gatto da 186000. Nel gatto non esistono fibre corticospinali che proiettano direttamente sui motoneuroni alfa. Tali componenti monosinaptiche compaiono solo nelle scimmie e diventano molto più numerose nell’uomo.
Il fascio rubro-spinale è invece più sviluppato nelle scimmie e negli altri mammiferi (ad esempio il gatto) che nell’uomo. Le fibre traggono origine dal nucleo rosso, situato nel mesencefalo, si incrociano poco dopo la loro origine sulla linea mediana, e discendono poi nel cordone laterale del midollo spinale. Tali fibre sono collegate attraverso sinapsi eccitatorie con interneuroni che, a loro volta, eccitano i motoneuroni flessori degli arti. Le cellule d’origine del fascio rubro-spinale ricevono afferenze eccitatorie dalla corteccia motoria e dal cervelletto. Si ritiene che il sistema rubro-spinale o meglio cortico-rubro-spinale duplichi molte delle funzioni del tratto cortico-spinale. A questo proposito appare suggestivo che nell’uomo il con-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
siderevole sviluppo, rispetto agli altri primati, del sistema piramidale coincida con l’ involuzione della via cortico-rubro-spinale.
Il sistema ventro-mediale Il fascio piramidale diretto o fascio corticospinale ventrale è formato dalle fibre del fascio piramidale, che non si decussano a livello delle piramidi bulbari e decorrono nel cordone anteriore del midollo spinale (10-20% delle fibre piramidali). Contrariamente alle fibre del fascio cortico-spinale laterale, le fibre del fascio diretto innervano i motoneuroni dei muscoli assiali di ambo i lati (parte delle fibre si decussa infatti a livello della commessura bianca anteriore del midollo spinale). La via vestibolo-spinale deriva principalmente dal nucleo vestibolare laterale (nucleo di Deiters). È una via pressoché interamente ipsilaterale, che porta le cellule motorie del midollo spinale sotto il controllo del sistema vestibolare. Decorre nel cordone ventrale del midollo spinale e termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia del grigio midollare (localizzata tra la base del corno anteriore e quella del corno posteriore). I nuclei vestibolari ricevono fibre dal labirinto ipsilaterale, attraverso il ramo vestibolare dell’VIII nervo cranico, e dal cervelletto. In particolare la via cerebellovestibolare (che origina direttamente dalle cellule di Purkinje della corteccia del lobo anteriore) esplica una azione inibitoria sul nucleo vestibolare di Deiters. La via vestibolo-spinale produce eccitazione disinaptica dei motoneuroni estensori ed inibizione di quelli flessori. Il fascio reticolo-spinale mediale prende origine dalla formazione reticolare mediale del ponte e decorre ipsilateralmente nel cordone ventrale del midollo spinale. Termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia ed ha una funzione facilitante sul tono muscolare, fornendo input eccitatori ai motoneuroni dei muscoli estensori.
Il fascio reticolo-spinale laterale è formato da assoni che provengono dalla formazione reticolare bulbare (nucleo reticolare gigantocellulare e cellule adiacenti di calibro minore), incrocia la linea mediana e termina sulle porzioni laterali della zona intermedia. Ha un’azione inibitoria sul tono muscolare. Il fascio tetto-spinale origina negli strati profondi del collicolo superiore, è crociato e termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia (prevalentemente nei segmenti cervicali del midollo spinale). Controlla gli spostamenti del capo e degli occhi rispetto a bersagli visivi e uditivi.
I gangli della base I gangli della base sono costituiti dalle seguenti strutture: – il nucleo caudato; – il putamen; – il globo pallido; – il nucleo subtalamico; – la sostanza nera. Tali strutture venivano un tempo considerate facenti parte del sistema extrapiramidale. Tale sistema veniva definito come l’insieme delle vie motorie discendenti escluso il fascio piramidale. Attualmente l’aggettivo extrapiramidale è utilizzato pressoché esclusivamente in ambito clinico, per indicare le malattie dovute all’alterato funzionamento dei gangli della base.
Il nucleo caudato, il putamen e il globo pallido sono situati nella parte centrale del telencefalo, al di sotto degli strati corticali degli emisferi cerebrali, lateralmente al talamo. Nel loro insieme tali nuclei vengono denominati corpo striato, ad indicare che tale struttura è costituita da formazioni grigie intersecate da fasci di fibre nervose. Molti testi, tuttavia, usano il termine nucleo striato per indicare il caudato ed il putamen, filogeneticamente più recenti del pallido. Il braccio anteriore della capsula interna separa il nucleo caudato dal putamen, men-
Funzione motoria ventricolo laterale
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corpo calloso
plesso corioideo nucleo caudato
fornice terzo ventricolo talamo fascio mammillo talamico
massa intermedia capsula interna putamen n. lenticolare globo pallido capsula esterna claustro
{
fascio lenticolare nucleo subtalamico sostanza nera piede del peduncolo corpo mammillare
corno inferiore del ventricolo laterale ippocampo III n. cranico
fossa interpeduncolare
Fig. 2.12 - Sezione frontale dell’encefalo per dimostrare il corpo striato, il nucleo subtalamico, la sostanza nera.
tre il braccio posteriore è posto tra globo pallido e talamo. Il nucleo caudato ed il putamen, vengono denominati neo-striato. Il globo pallido, noto come paleo-striato essendo filogeneticamente più antico del caudato e del putamen, è anche denominato pallidum e comprende un segmento laterale (globo pal-
lido laterale) e uno mediale (globo pallido mediale) separati ad opera di un sistema di fibre denominato lamina midollare mediana (Fig. 2.12 e 2.13). Il nucleo caudato ed il putamen, di derivazione telencefalica, sono identici dal punto di vista citoarchitettonico. Sono caratterizzati da una
girus cinguli polo frontale cavità del setto pellucido ginocchio del corpo calloso circonvoluzione frontale sup. circonvoluzione frontale media testa del nucelo caudato setto pellucido
corno ant. del ventricolo laterale opercolo frontale insula scissura di Silvio
circonvoluzione triangolare opercolo frontale
pallido putamen
capsula esterna claustro capsula estrema
parte talamolenticolare del braccio posteriore della capsula interna parte retrolenticolare del braccio posteriore della capsula interna pulvinar stria terminale fimbria
talamo dorsale massa intermedia coda del nucleo caudato terzo ventricolo abenula epifisi o corpo pineale tubercolo quadrigemello sup. scissura calcarina polo occipitale
ippocampo corno d’Ammone fascia dentata solco fimbriodentato scissura dell’ippocampo
Fig. 2.13 - Sezione orizzontale dell’encefalo per dimostrare le formazioni basali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
struttura omogenea, all’osservazione con il microscopio ottico, e contengono numerosi piccoli neuroni tra cui sono sparse in modo uniforme cellule di grossa taglia. Tali nuclei presentano inoltre connessioni nervose e funzioni simili. Per tale motivo sono probabilmente da considerare come un’unica struttura, separata in due porzioni dalle fibre della capsula interna. Il globo pallido, che deriva dal diencefalo, presenta una citoarchitettonica completamente differente, essendo formato da neuroni fusiformi di grossa taglia, scarsamente addensati. Il nucleo subtalamico è una formazione grigia localizzata nella porzione più caudale del diencefalo, medialmente alla capsula interna, nella zona in cui le fibre si riuniscono a formare il peduncolo cerebrale. La sostanza nera, situata nel mesencefalo, è compresa tra il tegmento ed il peduncolo cerebrale. Essa è divisibile in due zone: la parte ventrale, pallida e citologicamente simile al globo pallido, denominata parte reticolata, ed una parte dorsale, caratterizzata da una pigmentazione scura, nota come parte compatta, costituita da neuroni dopaminergici (la neuromelanina, pigmento nero che conferisce il colore scuro alla sostanza nera, è un polimero della dopamina). Il segmento interno del globo pallido e la parte reticolata della sostanza nera, simili per le loro caratteristiche citologiche e per le loro connessioni, sono da considerare, così come il nucleo caudato ed il putamen, un’unica struttura funzionale. Talvolta il putamen ed il globo pallido vengono denominati globalmente, per il loro aspetto macroscopico, nucleo lenticolare, di cui il putamen occupa il terzo laterale e il globo pallido i due terzi mediali. Tale associazione ha un valore puramente morfologico, essendo priva di alcun significato funzionale.
I gangli della base costituiscono una unità funzionale, nell’ambito della quale è presente una netta compartimentazione dei compiti. Infatti, quasi tutte le fibre destinate ai gangli della base terminano a livello del neostriato (caudato e
putamen), che possiamo pertanto definire il centro di ricezione del sistema. Invece, le principali vie che originano dai gangli della base, raggiungendo altre strutture nervose, prendono origine dal segmento interno del globo pallido e dalla parte reticolata della sostanza nera, che costituiscono così il centro di proiezione del sistema. I principali sistemi di fibre destinate al neostriato provengono dalla corteccia cerebrale, dalla parte compatta della sostanza nera e dal talamo. L’intera corteccia cerebrale (aree motorie, sensitive, associative e limbiche) contribuisce alle proiezioni cortico-striatali. Queste ultime sono arrangiate topograficamente, nel senso che aree specifiche della corteccia cerebrale proiettano ad aree specifiche del neostriato. Le fibre cortico-striatali sono eccitatorie ed utilizzano l’acido glutammico come mediatore chimico dell’impulso nervoso. Le fibre nigro-striatali hanno origine dalla parte compatta della sostanza nera ed utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina. Nel neo-striato sono stati identificati tre gruppi di neuroni: a) interneuroni colinergici; b) neuroni inibitori GABAergici, che contengono anche, come co-trasmettitore, la sostanza P (neuroni GABA P); c) neuroni inibitori GABAergici, contenenti, come co-trasmettitore, encefalina (neuroni GABA Enc). I neuroni GABA P presentano, nella loro membrana, recettori per la dopamina di tipo 1 (D1); la stimolazione di tali recettori ha un’azione eccitatoria sulla funzione cellulare. I neuroni GABA Enc e gli interneuroni colinergici esprimono invece recettori di tipo 2 (D2), la cui attivazione determina inibizione cellulare. L’azione delle fibre dopaminergiche sui neuroni striatali dipende pertanto dal tipo di recettore per la dopamina presente sulla membrana postsinaptica. Le fibre talamo-striatali originano prevalentemente dai nuclei intralaminari del talamo e sono anch’esse organizzate topograficamente. Una notevole percentuale di queste fibre proviene dal nucleo centro-mediano, che a sua volta riceve afferenze dalla corteccia motoria.
Funzione motoria
La principale via efferente che prende origine dal globo pallido mediale e dalla parte reticolata della sostanza nera è destinata al talamo e termina nei nuclei ventrale-anteriore (VA) e ventrale-laterale (VL). Questa via utilizza come trasmettitore l’acido gamma amino-butirrico (GABA) ed è pertanto inibitoria. I nuclei VA e VL, a loro volta, proiettano fibre eccitatorie (glutammatergiche) alla corteccia prefrontale e, soprattutto, alle aree corticali premotorie e motorie (6 e 4 di Brodmann). I gangli della base sono connessi anche ai nuclei troncali mediante fibre pallido-tegmentali, nigro-tettali e nigro-reticolari (Fig. 2.14, 2.15 e 2.16). Le fibre pallido-tegmentali discendono nel tegmento mesencefalico, dove entrano in sinapsi con i neuroni del nucleo tegmentale peduncolo-pontino; quest’ultimo proietterebbe ai nuclei vestibolari e reticolari. Le fibre nigro-tettali terminano nel collicolo superiore, da dove originano i fasci tetto-reticolare e tetto-spinale. Le fibre nigro-reticolari proiettano direttamente alla formazione reticolare, da cui originano le fibre reticolo-spinali.
La compartimentazione funzionale all’interno dei gangli della base implica che il centro di ricezione del sistema (nucleo caudato e putamen) sia collegato al centro di proiezione (globo pallido mediale e parte reticolata della sostanza nera). Recenti ricerche hanno permesso di individuare due vie di collegamento tra i suddetti compartimenti: una “via diretta” e una “via indiretta”. La “via diretta” è formata dai neuroni neostriatali GABA P, che proiettano direttamente alla parte reticolata della sostanza nera e al globo pallido mediale, che vengono inibiti. L’attivazione di tali fibre svincola pertanto i nuclei talamici VA e VL dal controllo inibitorio esercitato dai gangli della base, inducendo così l’attivazione delle proiezioni eccitatorie talamocorticali. La “via indiretta” prende origine dai neuroni neo-striatali GABA Enc, che inibiscono i neuroni
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GABAergici localizzati nel globo pallido laterale. Questi ultimi esercitano un controllo inibitorio sul nucleo subtalamico, i cui neuroni glutammatergici determinano l’eccitazione dei neuroni del globo pallido mediale e della parte reticolata della sostanza nera. Pertanto l’attivazione della “via indiretta”, svincolando il nucleo subtalamico dal controllo inibitorio del globo pallido laterale, induce eccitazione dei neuroni del centro di proiezione, inibendo così le proiezioni eccitatorie talamo-corticali. È opportuno sottolineare che le fibre dopaminergiche nigro-striatali eccitano i neuroni GABA P, mentre inibiscono i neuroni GABA Enc. In tal modo eccitano la “via diretta” ed inibiscono la “via indiretta”, attivando le proiezioni eccitatorie talamo-corticali. Le connessioni nervose dei gangli della base sopra descritte, permettono di speculare sulla loro funzione. I gangli della base ricevono afferenze da tutte le aree della corteccia cerebrale e le ritrasmettono, attraverso il talamo, principalmente all’area premotoria. In tal modo, costituiscono una sorta d’imbuto, che concentra in una zona circoscritta della corteccia cerebrale le afferenze provenienti da tutta la corteccia. La volontà di compiere un movimento è un concetto intimamente connesso a quello di coscienza e pertanto presuppone l’attivazione sinergica di vaste aree della corteccia cerebrale. La pianificazione del movimento e l’elaborazione del segnale di avvio sono affidate principalmente all’area premotoria. I gangli della base, concentrando l’attività diffusa della corteccia nelle aree corticali premotorie, consentirebbero di tradurre la volontà di compiere un movimento nella programmazione e nell’avvio del movimento stesso.
Il cervelletto Per l'anatomia e le funzioni del cervelletto v. pag. 497.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.14 - Schema delle connessioni del sistema extrapiramidale. 1: connessioni intrinseche tra i diversi nuclei del corpo striato. 2: Connessioni cortico-striate. Le fibre provengono dall’area frontale (aree 4-6-8 e corteccia orbitale); parietale (aree 2-5-7); insulare; temporale; cingolata. 3: Connessioni talamo-striate (a sinistra), striato-talamiche (a destra) e talamocorticali (VA e VL proiettano all’area 4 e 6) (CM = nucleo centro-mediano; DM = nucleo dorso-mediale; VL = nucleo ventralelaterale; VA = nucleo ventrale anteriore). 4: Connessioni nigro-striate e cortico-nigriche (a sinistra); e connessioni striatonigriche e nigro-tegmentali (a destra).
Funzione motoria
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Fig. 2.15 - 5: Connessioni striato-subtalamiche e subtalamo-tegmentali (a sinistra); subtalamo-striate (a destra). 6: Connessioni striato rubriche. 7: Vie efferenti del corpo striato: 1: fascicolo pallido-ipotalamico; 2: fascicolo subtalamico e vie subtalamo-tegmentali; 3: ansa lenticolare.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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Fig. 2.16 - Schema delle principali connessioni anatomo-funzionali dei gangli della base.
Esame della funzione motoria Tono muscolare Per esaminare il tono muscolare si osserva preliminarmente l’atteggiamento generale del paziente: la postura del tronco in posizione di riposo, quindi quella del capo, del collo e la postura degli arti, ciascuno in confronto con il lato opposto e con il tronco. Queste osservazioni saranno ripetute con il paziente seduto, in piedi e durante la marcia. In questo modo vengono osservate le risposte dei vari muscoli alla gravità e le variazioni dovute al peso della testa e degli arti. In seguito viene saggiata la resistenza passiva alla mobilizzazione degli arti a livello di ciascuna articolazione. È indispensabile che il paziente sia completamente rilassato e non solo con l’invito a collaborare mantenendo un atteggiamento di abbandono, ma distraendone l’attenzione, ad esempio, interrogandolo su fatti familiari o sulla sua malattia.
Ogni articolazione viene mobilizzata passivamente lungo tutti i suoi assi e ogni movimento (al collo ed ai quattro arti) deve essere ripetuto varie volte, poiché determinati aspetti semeiologici (ad esempio il fenomeno della troclea dentata) non sono immediatamente apprezzabili. La sensazione che si rileva in caso di normotonia è una resistenza molto modesta. Nell’ipertonia, ovviamente, la resistenza aumenta notevolmente, a volte tanto da impedire la mobilizzazione. L’ipertono può essere distribuito preferenzialmente a determinati muscoli, estensori o flessori, oppure a gruppi di muscoli dotati di una specializzazione particolare, ad esempio i muscoli antigravitari. Nell’ipotonia, che semeioticamente risulta di più difficile apprezzamento dell’ipertonia, vi è una maggiore facilità e cedevolezza alla mobilizzazione passiva, le articolazioni possono essere maggiormente iperestese (fenomeno della «iperestensibilità» degli Autori francesi, indice altresì di deficit motorio). Quando gli arti sono
Funzione motoria
lasciati cadere sul piano del letto, quelli dal lato ove esiste ipotonia cadono più pesantemente, oppure quando gli arti sono passivamente agitati (manovra del ballottamento), si osservano escursioni più ampie ed intense dal lato leso. La maggiore o minore ampiezza, la durata, il numero di queste escursioni sono in funzione dell’entità del tono esistente nei muscoli interessati. Per ricercare questo segno è essenziale, come abbiamo detto, che il paziente sia decontratto ma, quando si debbano studiare le oscillazioni agli arti inferiori, è utile fare eseguire anche la manovra di Jendrassik (l’ammalato seduto sul lettino a gambe penzoloni fuori dal letto viene invitato a mantenere il capo esteso, occhi fissi al soffitto, e ad agganciarsi le mani l’una all’altra espletando il massimo della forza). Si imprime alla gamba un movimento di flesso-estensione e questa passivamente continua ad oscillare pendolarmente per un certo tempo. Gli arti superiori sono esaminati a paziente in piedi, imprimendo alle spalle o ai fianchi movimenti dall’indietro all’avanti (o viceversa) alternativamente. Quando esiste una ipotonia il movimento è aumentato in ampiezza, durata e frequenza di oscillazione e la traiettoria non è più rettilinea; nella rigidità di tipo extrapiramidale il movimento è poco ampio e le oscillazioni sono spesso ridotte o addirittura abolite.
Alterazioni del tono muscolare IPERTONIE Si distinguono classicamente, contrapponendone le caratteristiche, la rigidità o ipertonia extrapiramidale, osservabile ad esempio nella malattia di Parkinson, e la spasticità o ipertonia piramidale, osservabile ad esempio nell’emiplegia capsulare. La distinzione fra ipertonia piramidale ed extrapiramidale è fondata su dati anatomo-cli-
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nici. Mentre i caratteri semeiologici di questi due tipi di ipertonie sono netti e precisi, gli schemi e le interpretazioni fisiopatologiche sono più incerti. Infatti, come è già stato detto, gli schemi anatomo-funzionali del sistema piramidale e del sistema extrapiramidale non possono essere ritenuti, al momento attuale, completamente chiariti. Circa l’esistenza di ipertonie di origine muscolare i pareri sono discordi. IPERTONIA PIRAMIDALE L’ipertonia piramidale o spasticità (da non confondere con «spasmo», v. pag. 71) è rappresentata dalla resistenza che si apprezza nella mobilizzazione passiva di arti o segmenti di arti (cioè nello stiramento passivo di un muscolo) e che aumenta proporzionalmente alla velocità di stiramento; tale resistenza, ad un certo livello di stiramento, può cessare all’improvviso (fenomeno del temperino o del coltello a serramanico). L’ipertonia piramidale interessa i muscoli antigravitari e cioè all’arto superiore i muscoli flessori ed i pronatori dell’avambraccio, i flessori del polso e delle dita; all’arto inferiore i muscoli adduttori ed estensori della coscia e della gamba, i flessori plantari del piede e delle dita. L’atteggiamento è pertanto tipico: arto superiore flesso ed intraruotato, arto inferiore esteso con piede equino-varo (Fig. 2.17). L’andatura, considerato l’atteggiamento dell’arto inferiore, è particolare e definita «falciante» poiché nel camminare l’emiparetico effettua con l’arto inferiore un movimento di circonduzione e abduzione a livello dell’articolazione dell’anca per ovviare alla abolizione o riduzione della flessione a livello dell’articolazione del ginocchio. Considerato inoltre che il piede è in flessione plantare, le dita tendono a strisciare contro il suolo. Normalmente l’ipertonia piramidale tende ad instaurarsi 7-15 giorni dopo l’esordio dell’emi-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia fusi neuromuscolari in caso di spasticità (Burke, 1983 e 1988). Esiste attualmente un generale consenso nel ritenere che una ridotta soglia o un’aumentata risposta allo stiramento stiano alla base dell’ipertonia e dell’aumento dei riflessi osteotendinei. Tale fenomeno è principalmente determinato da un’alterata elaborazione dei segnali afferenti al midollo spinale che, unitamente all’alterato controllo sovraspinale può condurre ad una condizione d’ipereccitabilità motoneuronale. La riduzione o la perdita del controllo sopraspinale può intervenire attraverso la variabile compromissione di alcuni meccanismi inibitori: a) inibizione pre-sinaptica Ia, b) inibizione reciproca Ia, c) inibizione non-reciproca Ib, d) inibizione ricorrente. Accanto alle modificazioni neurali dell’eccitabilità del pool motoneuronale, numerosi fattori biomeccanici contribuiscono al fenomeno spasticità: retrazione dei tessuti molli, accorciamento muscolare, modificazioni delle proprietà visco-elastiche muscolari (‘stiffness’). L’ipertonia spastica, inoltre, si associa comunemente ad altri fenomeni (spasmi flessori od estensori, co-contrazione, reazioni associate) che riconoscono meccanismi fisiopatologici diversi. L’interruzione della via piramidale non sembra essere un elemento particolarmente rilevante nella genesi dell’ipertonia spastica (lesioni isolate del fascio piramidale producono esclusivamente una perdita dell’agilità motoria ed una risposta plantare estensoria). Avrebbe, invece, maggiore valore il disequilibrio di due sistemi discendenti, uno inibitorio (via reticolo-spinale dorsale) ed uno eccitatorio (via reticolo-spinale mediale e via vestibolo-spinale) che originano nel tronco encefalico e contraggono sinapsi con il pool interneuronale spinale.
Fig. 2.17 - Atteggiamento di soggetto con emiparesi sinistra da lesione delle vie corticospinali a livello capsulare, sottoposta a rieducazione motoria (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
plegia, ma esistono, d’altra parte, casi che presentano anche permanentemente una netta ipotonia. Altri casi, al contrario, dimostrano fin dai primi momenti un aumento del tono muscolare (ipertonia precoce).L’ipertonia precoce dimostra una intensità molto variabile nel corso dello stesso esame o a distanza di poche ore nello stesso paziente (Fazio, 1942, 1945). L’ipotesi che la spasticità dipenda da una iperattività dei motoneuroni gamma è contraddetta da studi microneurografici che dimostrano la normalità funzionale dei
IPERTONIA EXTRAPIRAMIDALE Le caratteristiche semeiotiche dell’ipertonia extrapiramidale o rigidità, sono nettamente differenziabili da quelle della spasticità piramidale. La rigidità extrapiramidale interessa in egual misura sia i muscoli agonisti che antagonisti, talora con saltuaria prevalenza degli uni o degli altri, per cui la resistenza opposta alla mobilizzazione passiva è sempre eguale dall’inizio alla fine del movimento passivo. Il muscolo passivamente disteso conserva la posizione assunta, rendendo ragione dei termini di «rigidità plastica», flexibilitas cerea, «rigidità a tubo di piombo», impiegati per indicare queste caratteristiche della rigidità extrapiramidale.
Funzione motoria
Durante la mobilizzazione passiva si può osservare un altro particolare fenomeno, tipico nei soggetti affetti da malattia di Parkinson, detto «fenomeno della ruota o troclea dentata» per cui, durante la mobilizzazione passiva si succedono variazioni del tono, dando all’esaminatore la sensazione che a livello dell’articolazione esista una sorta di ruota dentata, che fa subire al movimento passivo arresti corrispondenti alle singole dentellature (fenomeno della ruota dentata di C. Negro, 1901). La rigidità extrapiramidale è associata ad aumento dei riflessi di postura elementari (v. pag. 56); cessa durante il sonno e la narcosi. I meccanismi fisiopatologici che sottendono la rigidità extrapiramidale non sono ancora del tutto noti. La rigidità non è apparentemente causata da un’iperattività dei gamma motoneuroni, ma dipende da una combinazione della difficoltà al rilasciamento dei pazienti con un’abnorme attivazione del riflesso da stiramento. Si ipotizza, secondariamente alla compromissione dei gangli della base, l’esistenza di un alterato controllo corticale dei circuiti segmentali spinali (pool interneuronale Ib), con modificazione dell’attivazione legata allo stiramento muscolare. Il fenomeno della ruota dentata, originariamente attribuito ad una serie di reazioni di allungamento-accorciamento eccessive, si ritiene esprima la sovrapposizione di scariche di attività di un tremore d’azione subclinico (6-8 Hz) sul tono muscolare aumentato.
NEGATIVISMO MOTORIO - PARATONIA Con il termine di negativismo motorio (Gegenhalten di Kleist, 1927) si intende (Fazio, 1945) una modificazione del tono che interviene quando si tenta di mutare, con movimenti passivi, la posizione di segmenti corporei, e che viene avvertita dall’esaminatore come una resistenza che consolida la posizione di partenza e cresce proporzionalmente alla forza impiegata per vincerla. Il negativismo motorio si rileva in una discreta percentuale di casi di apoplessie cerebrali nell’emilato opposto a quello plegico. La paratonia (Dupré, 1925) è l’impossibilità al rilassamento volontario dei muscoli su
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comando. I muscoli sono in uno stato di aumentata tensione muscolare; ai tentativi di muovere passivamente l’arto si incontra una notevole resistenza che tende a mantenere l’arto nella posizione primitiva. L’influenza dell’attenzione sul fenomeno sembra notevole. Alla «prova del braccio morto» (Dupré) l’arto non solo non si rilascia, malgrado l’invito dell’esaminatore, ma si blocca man mano che il soggetto tenta di eseguire l’ordine, mentre in quella del «lancio del braccio» (nell’eseguire il tentativo di lancio) l’arto si blocca in posizioni similcatatoniche. La paratonia si riscontra spesso negli alcoolisti acuti e negli oligofrenici. Anche Kleist, successivamente (1934), aveva individuato questa condizione, denominandola negativismo motorio spontaneo (insorge in assenza di stimoli esterni), in contrapposizione al precedente, o negativismo motorio puro (insorge in rapporto con stimoli esterni). RIGIDITÀ DA DECEREBRAZIONE Nell’animale la sezione del tronco cerebrale a livello intercollicolare, e cioè tra i tubercoli quadrigemini anteriori e posteriori, provoca la comparsa di una rigidità tonica distribuita ai muscoli antigravitari (rigidità da decerebrazione) (Sherrington, 1898). Nell’uomo l’ipertonia estensoria dei 4 arti si accompagna a pronazione e rotazione interna degli arti superiori, ad abduzione e rotazione interna degli arti inferiori. Le dita della mano sono estese in corrispondenza delle articolazioni metacarpo-falangee e flesse in corrispondenza delle articolazioni interfalangee; esiste flessione plantare dei metatarsi e delle falangi ai piedi (Fig. 2.18 A). Molto evidenti sono i riflessi tonici del collo. Una riproduzione parziale degli atteggiamenti tipo rigidità decerebrata si può osservare nei traumatizzati cranici con associati segni di lesione del tronco encefalico, o in traumatizzati con alterazioni osteostrutturali delle prime vertebre cervicali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.18 - (A) Atteggiamento in rigidità decerebrata. (B) Atteggiamento in rigidità decorticata.
Una riproduzione parziale dell’atteggiamento tipo rigidità decerebrata, con andamento accessuale, si osserva nei cosiddetti accessi tonici cerebellari (cerebellar tonic fits degli Autori anglosassoni), in rapporto con un improvviso aumento della tensione intracranica a livello della fossa cranica posteriore. L’episodio, che dura pochi secondi, si manifesta con lieve opistotono, cianosi, disturbi del respiro e talora della coscienza. Talvolta l’episodio è unilaterale e in questo caso omolaterale alla lesione cerebellare. La rigidità decerebrata sembra dovuta all’aumento di attività del nucleo vestibolare laterale, che esercita una spiccata azione facilitatoria sui motoneuroni alfa e gamma ipsilaterali a funzione estensoria, non bilanciata dalla normale opposta azione delle vie rubro-spinali, che facilitano i motoneuroni flessori. L’ablazione del paleocerebello (parte vermiana del lobo anteriore, piramide, uvula e paraflocculo), che esercita una azione inibitoria sul n. vestibolare laterale di Deiters, produce un aumento della rigidità da decerebrazione con opistotono. Al contrario la stimolazione del paleocerebello riduce la rigidità decerebrata. Ma nel mantenimento della rigidità decerebrata hanno anche notevole importanza impulsi afferenti: la rigidità infatti sparisce se sono
state sezionate le radici posteriori. Ciò dimostra che le afferenze fusoriali sono di grande importanza, tanto che spesso si parla, per la rigidità decerebrata, di rigidità gamma, intendendo che l’aumento di eccitabilità dei neuroni gamma produce l’eccitamento degli alfa motoneuroni. D’altra parte la rigidità da decerebrazione ottenuta per legatura delle due arterie carotidi e della basilare (rigidità decerebrata anemica, che produce lesioni di metà cervelletto e di gran parte del ponte) si mantiene anche dopo sezione delle vie radicolari afferenti. Ciò dimostra che gli alfa motoneuroni possono provocare un aumento del tono anche senza il concorso del circuito gamma. Questo rilievo è di notevole importanza clinica poiché dimostra che esistono due vie differenti per aumentare l’eccitabilità degli alfa motoneuroni: una attraverso il circuito gamma ed una indipendente da questa. Le crisi toniche cerebellari devono essere interpretate come episodi transitori di decerebrazione e si manifestano, in genere, in casi di tumore cerebellare. IPERTONIA DA DECORTICAZIONE (RIGIDITÀ DECORTICATA) La rigidità decorticata è rappresentata dal seguente atteggiamento: flessione degli arti superiori che sono addotti; estensione e rotazione interna degli arti inferiori, flessione plantare dei piedi (Fig. 2.18 B). Sperimentalmente questo atteggiamento segue l’ablazione dei lobi frontali o la decerebrazione talamica. Nell’uomo si osserva nelle vaste lesioni che interessano la capsula interna o un emisfero cerebrale, talora con lesioni dei gangli basali e del talamo. Si può ottenere la risposta tipo rigidità decorticata nelle prime ore dopo una lesione cerebrale acuta con l’impiego di stimolazioni nocicettive: compressione della parete superiore dell’orbita, suzione tracheale, o stimolazioni dolorose intense.
Funzione motoria
Negli animali decorticati (animale o preparazione talamica) si possono elicitare particolarmente bene i riflessi posturali (riflessi del collo, riflessi tonici del labirinto, riflessi di raddrizzamento). Crampi muscolari Il crampo è una contrazione muscolare improvvisa, visibile, palpabile, spesso associata a dolore, localizzata in un muscolo o in un gruppo di muscoli per lo più dell’arto inferiore, che può intervenire a riposo o, più frequentemente durante l’attività fisica prolungata od in risposta ad un’intensa contrazione volontaria; si risolve usualmente con il massaggio e lo stiramento del muscolo. Crampi intervengono frequentemente durante la gravidanza, nel raffreddamento, specie in acqua di mare, ma anche in soggetti normali, senza stimolazione alcuna. Del resto l’occasionale esperienza di un crampo è evenienza piuttosto comune. In ambito medico si possono osservare crampi nell’ambito di condizioni cliniche che modificano l’equilibrio idroelettrolitico (ipocalcemia, ipomagnesemia), quali: in seguito a terapia diuretica, per disidratazione, dopo vomito e diarrea, nel mixedema, nell’uremia, dopo dialisi. In neurologia, i crampi possono riscontrarsi in relazione ad un’alterazione funzionale del secondo motoneurone (motoneuroni spinali, nervi periferici), ma anche degli interneuroni spinali o delle fibre muscolari. L’EMG, durante il crampo, dimostra scariche di potenziali di unità motoria ad alta frequenza, spesso con potenziali di fascicolazione all’inizio e alla fine della sequenza elettrica. La genesi del crampo è oscura, ma l’associazione frequente con le malattie del secondo motoneurone e dei nervi periferici è considerata rilevante ai fini dell’interpretazione del fenomeno. La tendenza a manifestare crampi può essere ridotta o prevenuti dall’utilizzo di farmaci stabilizzanti la membrana quali il chinino, la dintoina e specialmente la carbamazepina.
Contrattura tetanica La tossina tetanica blocca l’attività di interneuroni inibitori (cellule di Renshaw ed altri) con conseguente iperattività dei motoneuroni spinali. Nel tetano, quindi l’attività motoria (volontaria o riflessa) evoca contrattura muscolari involontarie, più evidenti a livello della muscolatura masticatoria (trisma) e dei muscoli periorali (riso sardonico) fino ad osservare una rigidità quasi generalizzata, spesso associata ad iperreflessia.
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Sindrome dell’uomo rigido Si tratta di un quadro clinico infrequente, originariamente descritto da Moersch e Woltmann (1956), caratterizzato da una rigidità plastica d’intensità progressiva, localizzata prevalentemente alla muscolatura assiale (dorsale e cervicale) e prossimale degli arti ed, infine, generalizzata. Su questa rigidità s’instaurano crampi e spasmi dolorosi talora d’intensità tale da provocare deformazioni ossee e fratture. Esistono varianti localizzate ad un solo arto o con segni neurologici addizionali (atassia, mioclono, segno di Babinski). Questa sindrome viene attualmente interpretata come un encefalomielite cronica su base autoimmune, in relazione alla presenza di anticorpi diretti contro la glutammico decarbossilasi acida (GAD) nel 60 % circa dei casi e più raramente contro il pancreas (associazione con diabete mellito insulino-dipendente). Il trattamento, quindi, è basato sull’impiego di steroidi, plasmaferesi, e farmaci miorilassanti (benzodiazepine, baclofen).
IPOTONIE L’ipotonia è una riduzione del tono muscolare che può essere osservata a riposo, nel corso del mantenimento di alcune attitudini e durante la contrazione volontaria. In condizioni di riposo si apprezza con la palpazione la consistenza del muscolo e, con la mobilizzazione passiva, l’articolarità, cioè il massimo grado di estensione o flessione raggiungibile da quel determinato segmento d’arto, in altre parole il grado di estremo stiramento possibile (ovviamente ad integrità articolare assoluta). I meccanismi fisiopatologici alla base dell’ipotonia sono quelli già enunciati a proposito del tono muscolare. Appare quindi chiaro che l’ipotonia può essere determinata per lo più dalla lesione dell’arco riflesso elementare (a livello dei motoneuroni o delle radici motorie o a livello delle afferenze sensitive), più raramente dalla lesione di alcune strutture soprasegmentali (midollari od encefaliche) che controllano i motoneuroni alfa e il circuito gamma. L’ipotonia deve essere esplorata a livello segmentario, eventualmente in modo comparativo tra i due lati, nel soggetto a riposo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sul piano semeiotico è utile impiegare la prova del ballottamento che consiste nel provocare movimenti passivi, alternati e molto rapidi (l’esplorazione a livello dell’articolazione della mano è la più facile). Si osserverà la facilità e l’ampiezza con cui si ottiene lo spostamento di segmenti corporei. Clinicamente, quindi, l’ipotonia si riscontra: – nelle lesioni dei nervi periferici (polineuropatie), delle radici e dei tronchi nervosi; – nelle lesioni midollari, sia per lesioni del motoneurone (come nella poliomielite anteriore acuta) sia per lesione dei cordoni posteriori (come nella tabe dorsale). Nei casi di lesione midollare trasversa acuta completa si osserva nello stadio iniziale flaccidità (stadio dello shock spinale). Si ritiene comunemente che lo shock sia dovuto alla scomparsa delle influenze discendenti sui motoneuroni spinali. In particolare è ipotizzato (Illis, 1967) che nei primi due giorni si osservi a livello dei neuroni spinali una disorganizzazione della «zona sinaptica» che riduce il livello di eccitabililità; – nelle lesioni cerebellari (v. pag. 508); – nelle lesioni cerebrali, dove l’ipotonia si può manifestare immediatamente dopo la lesione delle fibre corticofugali. Questo stadio iniziale o stadio dello shock è destinato a durare alcune ore ed eccezionalmente 2-3 giorni. Le cause dell’ipotonia che segue immediatamente una lesione cerebrale improvvisa non sono al momento conosciute; una classica spiegazione si riferisce al concetto di diaschisi di Von Monakow: si tratterebbe di un fenomeno transitorio, che si avvera per perdita della funzione dei centri più elevati, cosicché la loro influenza viene acutamente e improvvisamente a mancare. Fra le cause di ipotonia vanno abitualmente incluse anche le malattie muscolari ancorché, in tal caso, l’ipotonia non dipende da una disfunzione dell’arco riflesso, ma da una ridotta contrattilità delle fibre muscolari ad origine congenita o acquisita.
ALTERAZIONI DEL TONO NELLE SINDROMI MENINGEE Tra i sintomi, espressione di una sofferenza o irritazione delle meningi, devono essere indicati: la cefalea, il vomito, e soprattutto le alterazioni del tono muscolare e dell’atteggiamento. La cefalea ed il vomito possono essere ritenuti generica espressione di un aumento della pressione endocranica (v. pag. 608), mentre le turbe del tono possono essere considerate un elemento specifico dell’irritazione meningea. Appaiono, semeioticamente, come ipertonia o rigidità, maggiormente evidenti ai muscoli nucali o paravertebrali, spesso già evidenti alla osservazione: il capo in iperestensione forzata, il tronco in opistotono ed il decubito tipico, definito «a cane di fucile» (decubito laterale, gambe flesse sulle cosce, cosce flesse sul bacino). Ma non sempre l’atteggiamento del malato è sufficientemente caratteristico e devono allora essere ricercati alcuni segni tipici, definiti «segni meningei»: a) la rigidità nucale, per cui la flessione del capo sul tronco è abolita o ridotta e risveglia acuto dolore; b) il segno di Kernig, che può essere ricercato sia in posizione seduta che sdraiata: in posizione seduta ogni tentativo di estendere le gambe provoca un intenso dolore; in posizione sdraiata il sollevamento della gamba estesa provoca, ad un certo punto, la flessione dell’articolazione del ginocchio che diventerà invincibile e talvolta dolorosa; oppure il sollevamento del tronco eseguito dall’esaminatore, nel tentativo di mettere il paziente seduto, provoca una flessione dell’articolazione del ginocchio e vivo dolore; c) i segni di Brudzinski, che possono essere ricercati in diversi modi: a malato sdraiato sul dorso, flettendo passivamente e completamente la gamba sulla coscia e questa sul bacino, si osserva dal lato opposto un’analoga flessione spontanea dell’arto (Brudzinski controlaterale); oppure flettendo passivamente il capo sul tronco, si ottiene una flessione degli arti inferiori al ginocchio e all’anca (Brudzinski del capo); analoga risposta si ottiene premendo intensamente sul pube del paziente (Brudzinski del pube).
Funzione motoria Il cervello e il midollo spinale sono avvolti da tre membrane: la più esterna è la dura madre, l’intermedia è l’aracnoide, la più interna e sottile e provvista di vasi è la pia madre (Fig. 2.19). La dura madre è formata da tessuto connettivo fibroso. Nel cranio consta di una porzione periostea e di una meningea, mentre nel midollo solo della porzione meningea. La dura spinale forma un sacco che circonda il midollo dal forame magno alla seconda vertebra sacrale. È attaccata ai margini del forame magno e alla superficie interna della 2ª e 3ª vertebra sacrale e diventa continua col periostio della superficie dorsale del coccige come legamento coccigeo. Nel cranio la dura forma la membrana periostea della superficie interna delle ossa craniche. La dura forma anche una membrana per separare gli emisferi (falce cerebrale), il cervello dal cervelletto (tentorio cerebellare) e gli emisferi cerebellari (falce cerebellare). La falce cerebrale va dalla crista galli alla protuberanza occipitale interna dove si continua col tentorio. Contiene, al margine superiore, il seno sagittale superiore e al margine libero il seno sagittale inferiore. Il tentorio origina anteriormente dal margine superiore dell’osso temporale e del processo clinoideo posteriore, lasciando ai margini laterali lo spazio per il seno petroso superiore, e ai margini posteriori lo spazio per il seno trasverso. Nella linea mediana si continua con la falce e forma il seno retto. Nella parte centrale libera esiste un’apertura ovoidale, il forame tentoriale dove passa il tronco encefalico. La falce cerebellare parte dalla cresta occipitale interna e raggiunge il tentorio. La pia madre encefalica ricopre tutta la superficie esterna del cervello e del cervelletto penetrando nei solchi e nelle fessure, contribuisce a formare inoltre il tetto del III e IV ventricolo (tela corioidea). I vasi che riforniscono il cervello ed il midollo attraversano l’aracnoide, e sono ricoperti da fibre collagene e da cellu-
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le mesoteliali piatte. Queste cellule mesoteliali formano, raggiungendo la pia, un cul di sacco, denominato spazio di Virchow-Robin, che è continuo con lo spazio subaracnoideo. La pia è provvista di fori: a livello del IV ventricolo esistono due fori laterali o fori di Magendie e un foro sul tetto o forame di Luschka che permettono il passaggio del liquido cerebrospinale negli spazi subaracnoidei. I legamenti dentati della pia ancorano il midollo alla dura spinale. Lo spazio tra l’aracnoide e la pia è mantenuto da trabecole di tessuto connettivo fibroelastico che vanno dal foglietto interno dell’aracnoide alla pia. Questo spazio definito subaracnoideo contiene il liquido cerebrospinale. In certi punti dove il cervello non segue strettamente il contorno osseo lo spazio subaracnoideo è largo, contiene una notevole quantità di liquor, e viene denominato cisterna. La più vasta cisterna, o cisterna magna, è la cisterna cerebello-midollare, che occupa lo spazio tra la superficie inferiore del cervelletto e la faccia dorsale del bulbo. Altre cisterne sono: la cisterna pontina (ventrale al ponte), la cisterna interpeduncolare (nella fossa interpeduncolare tra i peduncoli cerebrali e il chiasma), la cisterna chiasmatica (anteriormente al chiasma), la cisterna ambiens, che si trova tra i collicoli superiori, lo splenio del corpo calloso e il cervelletto (Fig. 2.20).
Lesioni endocraniche della fossa posteriore (tumori, aracnoiditi, ecc.) e lesioni cerebrali che provocano l’erniazione del cervelletto nel forame tentoriale, sono in grado di realizzare una sindrome di rigidità nucale e segni meningei.
Lobo parietale Corpo calloso
Dura madre Trabecole aracnoidee Corteccia cerebrale
Aracnoide Vena cerebrale Pia madre Spazio di VirchowRobin
Lobo occipitale
Lobo frontale Me se nc efa lo
Cervelletto
Ponte Acquedotto Bulbo
Fig. 2.19 - Rappresentazione schematica delle meningi e dello spazio subaracnoideo.
Fig. 2.20 - Rappresentazione delle cisterne e dei ventricoli. 1: Cisterna ambiens; 2: cisterna magna; 3: cisterna pontina; 4: cisterna interpeduncolare; 5: cisterna chiasmatica; 6: cisterna pericallosa; III: 3° ventricolo; IV: 4° ventricolo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Appare semplicistico interpretare questi segni come atteggiamenti antalgici. La rigidità nucale è una risposta estensoria, ma negli altri segni sopra indicati la risposta flessoria è tipica e dominante. Le risposte flessorie agli arti, osservate nell’irritazione meningea, rappresenterebbero una parte del riflesso flessorio da stimoli nocicettivi o riflesso di allontanamento, risposta primitiva dei vertebrati ad uno stimolo nocicettivo, che può essere provocato dalle stimolazioni di diverse strutture (cavità cranica e grandi cavità sierose, ecc.). La rigidità nucale sarebbe dovuta, secondo Fulton (1951), alla stimolazione delle terminazioni trigeminali a livello della dura madre della base del cervelletto.
lato paretico per movimenti che vengono eseguiti dal lato sano. Se ad esempio il paziente viene invitato a flettere dorsalmente il piede sano contro resistenza, il piede del lato malato esegue una flessione dorsale (sincinesia di raccorciamento crociata). Risposta in flessione plantare del piede paretico si otterrà per invito a flettere plantarmente il piede sano (sincinesia di allungamento crociata). Le sincinesie di coordinazione possono anche essere riflesse quando si manifestano per una risposta muscolare ottenuta in via riflessa (la ricerca del riflesso radioflessore induce oltre alla risposta riflessa una risposta sinergica di flessione delle dita). L’attività motoria involontaria sincinetica è strettamente correlata alla ipertonia piramidale.
MOVIMENTI SINCINETICI (SINCINESIE) Le sincinesie sono movimenti che si manifestano in una parte del corpo nel momento in cui appaiono movimenti riflessi o si eseguono movimenti in altre parti del corpo. Si distinguono classicamente: sincinesie di coordinazione, sincinesie globali, sincinesie di imitazione. Le sincinesie di coordinazione si distinguono in sincinesie omolaterali e controlaterali. Le sincinesie di coordinazione omolaterali sono rappresentate da contrazioni involontarie di gruppi muscolari sinergici omolaterali durante la contrazione volontaria di muscoli paretici. Ad esempio: un paziente non è in grado di effettuare volontariamente la flessione dorsale del piede paretico. Tale movimento si effettua involontariamente durante il tentativo di flessione della coscia sul bacino e della gamba sulla coscia (fenomeno di Strumpell o sincinesia di raccorciamento). Se l’arto paretico è messo in flessione, l’estensione volontaria della coscia provoca un’estensione sincinetica della gamba e del piede e una flessione dorsale delle dita del piede (sincinesia di allungamento). Le sincinesie di coordinazione controlaterali consistono in movimenti che avvengono dal
Le sincinesie globali sono costituite dall’esagerazione della ipertonia piramidale e si manifestano sia nei gruppi muscolari agonisti che antagonisti in malati con lesione della via piramidale, in seguito ad un movimento volontario o automatico (come la tosse, lo starnuto, ecc.) o a uno stimolo doloroso, e consistono in un’accentuata flessione all’arto superiore e in un’accentuata estensione all’arto inferiore, rinforzando, quindi, il grado di ipertonia piramidale. La spiegazione per questi fenomeni è complessa: è probabile che si possa trattare di un aumento globale dell’eccitabilità dei motoneuroni spinali, in rapporto all’ipertonia piramidale. Le sincinesie di imitazione: sono rappresentate da movimenti involontari del lato sano che si producono in occasione di un analogo movimento eseguito dal lato paretico. Le sincinesie che comunemente si ricercano sono le sincinesie di coordinazione omo- e controlaterali e le sincinesie globali che - come è stato detto - si ritrovano nelle lesioni piramidali e rappresentano una modificazione dell’ipertonia piramidale.
Funzione motoria
Esame muscolare intrinseco e relative alterazioni TROFISMO MUSCOLARE La valutazione del trofismo muscolare deve tenere conto di tutte quelle condizioni che possono essere causa di variazioni individuali nelle dimensioni del muscolo. Il sesso, l’età, la costituzione, il tipo di lavoro comunemente eseguito, l’abitudine a determinate pratiche sportive, lo stato generale di nutrizione, possono essere causa di variazioni, anche molto importanti, del trofismo da soggetto a soggetto. È quindi necessaria molta prudenza, associata a notevole esperienza, per poter valutare correttamente o meno la presenza di un disturbo del trofismo muscolare di natura neurogena o muscolare. IPOTROFIA O ATROFIA: definisce una riduzione più o meno intensa della massa muscolare precedentemente esistente. È quindi necessario preventivamente accertarsi che la massa muscolare sia esistita (non è eccezionale, in determinate sedi, una assenza congenita del muscolo o, meno frequentemente, un arresto dello sviluppo muscolare per cause patologiche, ad es. poliomielite sofferta nell’infanzia). È indispensabile, successivamente, sia un confronto con i muscoli vicini e con i muscoli simmetrici del lato opposto, sia un’accurata palpazione del muscolo in stato di riposo e durante contrazione, che permetterà di apprezzare se la riduzione di volume sia in realtà presente e se la consistenza indichi la presenza di eventuale tessuto fibroso nel contesto muscolare. Talora è sufficiente la valutazione derivata dall’ispezione, che potrà evidenziare una variazione del contorno e del volume, ma sarà sempre la misurazione dei perimetri muscolari a convalidare il dato. Benché la misurazione rappresenti l’unica possibilità quantitativa di valutare il grado e l’evoluzione dell’atrofia, non bisogna dimenti-
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care che modeste differenze della circonferenza di determinati muscoli, ad esempio a livello dei gastrocnemi o gruppi muscolari omologhi (destrimani e mancini), possono esistere senza assumere valore patologico. L’atrofia o ipotrofia muscolare è espressione di una malattia muscolare primitiva o di una malattia del neurone periferico (cellule radicolari anteriori, radici anteriori e nervi periferici) ed è sempre associata ad un significativo deficit di forza. Talora la riduzione della forza non è sempre proporzionale al grado di atrofia: in certe affezioni nervose sistemiche la presenza di un notevole grado di atrofia non è associata ad una diminuzione proporzionale della forza. Esiste anche la possibilità che una lesione a livello centrale produca una compromissione del trofismo muscolare. In questo caso l’ipoatrofia muscolare predilige l’arto superiore nella sua estremità distale e talora l’arto inferiore. In genere l’atrofia colpisce i piccoli muscoli della mano (eminenza tenar e ipotenar) e talora i muscoli del cingolo scapolare. Questa atrofia si riscontra nelle lesioni del lobo parietale. Diverse ipotesi sono state emesse per spiegare questo dato di fatto clinico, ma nessuna appare al momento attuale convincente (v. pag. 532). Particolare valore, per la frequenza con cui si riscontra in clinica, assume l’atrofia dei muscoli della mano. Si distingue: – mano a scimmia, quando l’atrofia è localizzata ai muscoli dell’eminenza tenar. L’eminenza tenar racchiude i muscoli breve abduttore, breve flessore, opponente del pollice (innervati perifericamente dal n. mediano e dipendenti dai segmenti midollari C6- C8). Per azione del lungo estensore del pollice, il primo metacarpo si allinea sul piano degli altri metacarpi e mima l’aspetto della mano della scimmia, che come è noto, non ha la possibilità di opporre il pollice alle altre dita. La mano a scimmia può esser dovuta a lesione midollare (segmenti C6 - C8, specie sclerosi laterale amio-
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trofica) o a lesione periferica distale del mediano (specie nei casi di sindrome da compressione a livello del tunnel carpale); – mano ad artiglio cubitale (Fig. 2.21, A). Il nervo ulnare proviene dai segmenti midollari C7 - C8 - T1 ed innerva nell’eminenza ipotenar: l’abduttore, l’opponente, il breve flessore del V dito; tutti gli interossei, il III e IV lombricale, ed inoltre nell’eminenza tenar l’adduttore del pollice (e il capo profondo del breve flessore del pollice). Nella mano ad artiglio esiste ipotrofia dell’eminenza ipotenar e degli interossei, denunciata da 4 solchi profondi tra i metacarpi (Fig. 2.21, B). Per atrofia degli interossei che flettono la prima falange ed estendono le ultime due, si avrà appunto l’atteggiamento inverso (per prevalenza dell’estensore comune), detto ad artiglio: estensione della prima falange e flessione delle ultime due. In un primo stadio, la paresi degli interossei sarà caratterizzata dalla difficoltà di ravvicinare le dita della mano allargata. Le lesioni che possono determinare la mano ad artiglio cubitale sono lesioni midollari (C8 - T1) e lesioni del n. cubitale; – l’associazione di atrofia dei muscoli delle eminenze tenar e ipotenar e degli interossei determina la mano a scimmia con artiglio o mano tipo Aran-Duchenne. Questo tipo di mano si ritrova negli stati avanzati di sclerosi laterale amiotrofica (Fig. 2.21, C); – se l’atrofia della mano Aran-Duchenne è molto avanzata e sono colpiti anche gli estensori e i flessori dell’avambraccio, si parla di mano cadaverica. IPERTROFIA E PSEUDOIPERTROFIA: definisce un aumento di volume della massa muscolare. La tecnica di valutazione è del tutto simile alla precedente. È necessario essere estremamente circospetti poiché, per determinati tipi di attività sportiva e lavorativa, alcuni gruppi muscolari possono risultare apparentemente ipertrofici. Usualmente l’ipertrofia muscolare di un soggetto sano risulterà armonicamente distribuita a tutte le masse muscolari, ma è anche possibile
A
B
C Fig. 2.21 - (A) Mano ad artiglio cubitale. (B) Ipotrofia degli interossei, specie del 1°. (C) Mano tipo Aran-Duchenne.
che soggetti adusi a lavori particolari o esercizi atletici o sportivi speciali dimostrino una ipertrofia localizzata a determinati distretti muscolari. In tutti questi casi all’aumento di volume del muscolo sarà associata una forza notevole.
Funzione motoria
Al contrario, nella pseudoipertrofia, presente in alcune malattie muscolari, si osserverà un aumento di volume particolarmente in alcuni muscoli, gastrocnemi principalmente, ma anche deltoidi, glutei, bicipiti, tanto da simulare grossolanamente, all’ispezione, un aspetto atletico, mentre la forza è ridotta. CONSISTENZA MUSCOLARE Nel normale varia molto da soggetto a soggetto, soprattutto in funzione dell’esercizio cui sono state sottoposte le masse muscolari. Il muscolo denervato offre alla palpazione una sensazione di flaccidità, mentre i muscoli di pazienti affetti da distrofia muscolare, paralisi spastica di Volkmann, ecc., possono presentare una consistenza aumentata, paragonabile a volte alla sensazione di palpare gomma o legno. Il muscolo può essere colpito in tutta la sua estensione, o in maniera parcellare e, in questo caso, è possibile palpare delle strie fibrose longitudinali. La cedevolezza del muscolo può essere saggiata comprimendolo. Poiché comprimendo la massa muscolare viene compressa anche la cute ed il tessuto adiposo sovrastante, è necessario assicurarsi innanzitutto dello stato di queste strutture, perché l’impressione di cedevolezza muscolare che si riceve potrebbe essere falsata. (Se, ad esempio, esiste un edema della cute si può ricevere l’impressione di una maggiore cedevolezza muscolare, mentre il muscolo in realtà è completamente normale). Per evitare errori si apprezzerà prima lo stato della cute e sottocute, prendendo fra due dita una piega della pelle o premendo con un dito la cute su di una superficie ossea (cresta tibiale, ad esempio) e quindi si ripete la manovra sul ventre muscolare. RISPOSTE MUSCOLARI SPECIALI RISPOSTA MIOTONICA: la persistenza di una contrazione muscolare, oltre la norma e comunque diversi secondi dopo la fine della stimola-
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zione che l’ha scatenata, è definita reazione miotonica. Se un soggetto affetto da miotonia stringe il pugno con forza per qualche secondo, non potrà, per quanti sforzi faccia, obbedire immediatamente all’ordine di aprire il pugno. Solo dopo qualche decina di secondi, lentamente, quasi al rallentatore, otterrà il movimento desiderato. La reazione miotonica si osserva usualmente nelle miotonie: può essere tuttavia presente anche in altri quadri, ad es. nelle polineuriti, nella sclerosi laterale amiotrofica, nel mixedema. L’aspetto elettromiografico e i meccanismi fisiopatogenetici responsabili di questo fenomeno sono descritti a pag. 347. MIOTONIA DA PERCUSSIONE (miotonia meccanica): se con un martelletto si percuote brevemente e rapidamente un muscolo si può ottenere una prolungata contrazione. Usualmente si preferisce percuotere l’eminenza tenar, per cui si ottiene una rapida contrazione di opposizione del pollice, che persiste per qualche tempo. La reazione miotonica può essere ottenuta anche da altri muscoli quali il deltoide e i muscoli della lingua. MIOEDEMA: saltuariamente sia in soggetti normali, ma più frequentemente in soggetti affetti da mixedema o da malattie debilitanti, la porzione del muscolo che è stata percossa forma una protrusione, che persiste per alcuni secondi, definita «mioedema». Si differenzia dalla miotonia da percussione per assenza di attivazione elettrica del muscolo. MOVIMENTI MUSCOLARI INTRINSECI I movimenti muscolari intrinseci, cioè piccole contrazioni muscolari spontanee, limitate a parte della massa muscolare, che non causano spostamenti dei segmenti corporei, sono rappresentati dalle fibrillazioni e dalle fascicolazioni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
FIBRILLAZIONI: questo termine designa classicamente contrazioni muscolari parcellari, che si manifestano come contrazione di poche fibre muscolari (v. fascicolazioni). Attualmente sulla base delle conoscenze desunte dall’analisi elettromiografica, il termine «fibrillazione» dovrebbe riferirsi alla contrazione spontanea e indipendente di una singola fibra muscolare, contrazione che non potrà mai essere osservata a cute integra (è discutibile se non siano visibili, ad esempio, attraverso le mucose che ricoprono i muscoli linguali). Il termine fibrillazione nella pratica clinica dovrebbe pertanto essere sostituito dal termine fascicolazione. Le fibrillazioni si manifestano nei muscoli denervati, da 8 a 21 giorni dopo che il muscolo è stato privato della sua innervazione e possono persistere a lungo, anche un anno e più. Come abbiamo detto, le fibrillazioni non possono essere osservate dall’esaminatore, ma solo registrate all’esame elettromiografico. Le fibrillazioni (Denny-Brown e Pennybacker, 1936) sarebbero dovute o ad una più elevata ec-citabilità del sarcolemma o ad una più rapida contrazione di una porzione della fibra muscolare. FASCICOLAZIONI: le fascicolazioni sono contrazioni spontanee, rapide, ripetentesi a intervalli irregolari, parcellari (interessano una piccola parte di muscolo e non comportano spostamenti di segmenti corporei), dovute all’attività di una sola unità motoria o di gruppi di unità motorie: sono avvertite dal soggetto come rapidi ed improvvisi guizzi di una parte del muscolo. Solo nel caso di soggetti pingui e per determinati muscoli l’osservazione delle fascicolazioni può risultare difficile. Il loro rilievo richiede talora alcuni semplici accorgimenti: l’illuminazione deve cadere trasversalmente sui segmenti corporei, ma soprattutto l’ambiente deve essere sufficientemente riscaldato per evitare contrazioni muscolari da freddo. Sono descritte manovre facilitanti, quali tendere oppure inumidire la pelle sopra il muscolo, percuotere il muscolo leggermente con le
dita o con un piccolo martello. Anche un’iniezione di prostigmina, soprattutto nei soggetti sensibili, può avere azione facilitante. Le fascicolazioni possono variare sia in lunghezza che in estensione; nel primo caso la variazione dipenderà soltanto dalla lunghezza della fibra muscolare interessata, nel secondo dal maggior o minor numero di unità motorie eccitate simultaneamente. Le fascicolazioni e le fibrillazioni sono espressione di una scarica di un alfa motoneurone anormale, quando la lesione evolve gradualmente con un decorso prolungato nel tempo. Si ritrova perciò nelle malattie degenerative che ledono l’alfa motoneurone, come la sclerosi laterale amiotrofica, la poliomielite anteriore cronica, talora in casi particolari di tumori a lenta e lunga evoluzione; eccezionalmente nelle malattie delle radici e dei nervi periferici. Le fascicolazioni non hanno invariabilmente un significato patologico: sono state descritte fascicolazioni di genesi non conosciuta e definite «benigne», che si osservano nei muscoli di soggetti affaticati, dopo deprivazione di sonno, o in relazione ad eccessivo consumo di alcool, caffè, nicotina, specie in età giovanile. Naturalmente in questi casi le fascicolazioni sono l’unico segno obiettivo presente. MIOCHIMIE: è un termine con cui oggi si designano almeno tre distinte forme di contrazioni muscolari patologiche: 1) contrazioni di tipo fascicolare, localizzate, ripetitive, piuttosto lente (durata da 2 a 15 secondi). Ne risulta un’ondulazione continua e irregolare. All’elettromiogramma si osserva prolungata e continua attività spontanea di potenziali simili ai potenziali di unità motoria; 2) contrazioni continue e ondulatorie nei muscoli di tutto il corpo che comportano movimenti specie alle dita; all’elettromiografia si osservano potenziali a tipo di multipletta; 3) brevi serie di contrazioni dei muscoli palpebrali (esperienza comune a tutti) e talora dei gastrocnemi, spesso in rapporto con la fa-
Funzione motoria
tica (e spesso denominate mioclonie) che elettromiograficamente, sebbene poco studiate, corrispondono a multiplette, molto localizzate. In sostanza si dovrebbe usare il termine di miochimia per indicare un’attività muscolare di tipo fascicolare ma continua, dovuta, forse, a una abnorme secrezione di acetilcolina a livello della placca motoria. Fra le ipotesi che tentano di spiegare questo tipo di «false fibrillazioni» vengono considerate (Denny-Brown e Pennybacker, 1936): una possibile genesi da spasmo vascolare, un’alterazione della irrorazione vascolare del fascio muscolare, la fatica, la sudorazione eccessiva, alterazioni del metabolismo del sodio.
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Fig. 2.22 - Esame della forza muscolare agli arti superiori: prova di Mingazzini.
Forza muscolare Comprende l’esame della forza muscolare globale, quando si esplora la forza di più gruppi muscolari degli arti superiori o inferiori, e l’esame della forza di ogni singolo muscolo. Per un corretto esame semeiotico è bene prima esaminare la forza muscolare globale e solo in seguito la forza di ogni singolo muscolo. ESAME GLOBALE DELLA FORZA MUSCOLARE Un disturbo della forza muscolare globale può essere messo in luce con le manovre seguenti, specialmente utili nei deficit della forza di genesi piramidale: Segno di Mingazzini agli arti superiori: il malato seduto ad occhi chiusi, viene invitato a protendere le braccia con le palme rivolte verso il pavimento e a mantenere questa posizione per 3-4 minuti (Fig. 2.22). In questa posizione l’arto paretico lentamente inizia ad abbassarsi per il deficit degli estensori. Ovviamente il deficit può anche avere una distribuzione bilaterale. Qualora il deficit motorio sia estremamente modesto, soltanto le dita della mano o la mano tenderanno ad abbassarsi, o l’arto lieve-
mente abbassato viene richiamato alla posizione di partenza, cosicché si possono osservare, continue, lente oscillazioni. Segno della pronazione: il malato è posto nella posizione precedente, ma le palme delle mani sono rivolte verso l’alto. Nelle lesioni piramidali, lentamente la mano paretica, ed in seguito il braccio, si portano in pronazione, perché i muscoli supinatori all’arto superiore sono, insieme con altri gruppi muscolari, primitivamente colpiti, e pertanto si evidenzia l’azione prevalente dei pronatori (Fig. 2.23). Segno della mano cava: segno molto precoce di lesione piramidale, per alcuni Autori (Garcin, 1955); viene ricercato nel seguente modo: il malato, seduto, tiene gli avambracci flessi a circa 90 gradi, la faccia palmare delle mani in avanti, le dita divaricate con forza. In caso patologico, si osserva che, a causa della adduzione del pollice, il palmo della mano si incava perché il pollice e l’eminenza tenar sono portati in avanti e in dentro. Il deficit di forza degli estensori del pollice (che provocano abduzione ed estensione) presente in questi casi, evidenzia l’azione non contrastata dell’adduttore breve del pollice (Fig. 2.24).
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Fig. 2.23 - Segno della pronazione.
Fig. 2.25 - Prova di Mingazzini agli arti inferiori.
Segno di Barré: il malato è posto bocconi sul letto, le cosce lievemente divaricate e le gambe flesse ad angolo retto sulle cosce. L’arto leso inizierà lentamente a cadere, nonostante che, a volte, si osservi la contrazione dei muscoli della zampa d’oca (semitendinoso, gracile, sartorio) che tentano di opporsi alla caduta. Esplora la forza del bicipite femorale, del semitendinoso e del semimembranoso (Fig. 2.26). ESAME SEGMENTALE DELLA FORZA MUSCOLARE
Fig. 2.24 - Segno della mano cava sinistra.
La forza impiegata in una contrazione muscolare volontaria o attiva può essere esami-
Segno di Mingazzini agli arti inferiori: il malato è posto in posizione supina, le cosce sono flesse a 90 gradi sul tronco e le gambe formano un angolo retto con le cosce. Dal lato della lesione (nel caso di una lesione unilaterale) si potrà osservare sia un lento e progressivo abbassamento dell’arto, sia una serie di oscillazioni che, aumentando progressivamente di ampiezza, esitano in una caduta dell’arto sul piano del letto. Questa prova esplora i muscoli ileo-psoas e gli estensori della gamba sulla coscia (Fig. 2.25).
Fig. 2.26 - Prova di Barré.
Funzione motoria
nata facendo compiere un movimento contro resistenza imposta dall’esaminatore. Quando però la forza del soggetto appare di grado già molto modesto sarà utile esaminare il movimento contro gravità o addirittura a gravità eliminata. Il movimento contro gravità è quello spontaneo senza l’imposizione di una resistenza attiva, quello a gravità eliminata si avvera quando lo spostamento del segmento corporeo avviene in un piano in cui la gravità è eliminata (il malato viene posto, ad esempio, in decubito laterale ed il movimento eseguito su un piano orizzontale). Per poter eseguire un corretto esame segmentale della forza è ovviamente necessaria una buona conoscenza della disposizione anatomica dei singoli muscoli e del tipo di movimento che essi consentono: conoscere cioè quali gruppi muscolari concorrono all’esecuzione del movimento, quale nervo sia responsabile dell’innervazione di quel muscolo, ed infine quali radici o segmenti midollari concorrano alla formazione di quel nervo periferico. Solo con questo bagaglio di conoscenze sarà possibile correttamente diagnosticare le lesioni di un nervo periferico, dei plessi, delle radici o del midollo. L’esaminatore dovrà decidere se la forza è conservata, se vi è paralisi o paresi, se vi sono movimenti muscolari percettibili, se esistono movimenti contro gravità o contro resistenza. Mentre si esegue l’esame, la parte del corpo da esplorare deve essere posta in posizione tale da permettere un’azione diretta del muscolo ed impedire l’azione di gruppi muscolari sinergici: così se si vuole esaminare la parte distale di un segmento corporeo, bisognerà impedire che la contrazione di gruppi muscolari prossimali compensi in parte la deficienza di forza del movimento dei gruppi muscolari distali. L’intensità della contrazione del muscolo in esame viene accertata con la palpazione del ventre muscolare. Con questi metodi, osservazione e palpazione, è possibile valutare correttamente la forza muscolare senza l’aiuto di particolari strumenti. Solo in casi speciali, soprattutto quando si desiderano dati quantitativi, è possibile usare il dinamometro, peraltro di utilità limitata a pochi gruppi di muscoli. È quindi necessario possedere determinati criteri per designare vari gradi di forza muscolare, riconoscibili anche da altri esaminatori in controlli successivi.
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La seguente quantificazione ad uso clinico della forza muscolare (Medical Research Council, 1962) appare tutt’oggi molto utile: 0: nessuna contrazione muscolare; 1: accenno a contrazione o apprezzamento di contrazione alla palpazione senza spostamento di segmenti ossei; 2: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei a gravità eliminata; 3: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei contro gravità, ma non contro resistenza; 4: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei anche contro un certo grado di resistenza; 5: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei contro il massimo della resistenza. In un esame neurologico non è necessario esaminare la forza di tutti i muscoli, ma piuttosto di un limitato numero di gruppi muscolari di particolare importanza. Per l’esecuzione dell’esame è necessaria una buona collaborazione, che può mancare in caso di disturbi della coscienza o di disturbi psichici, per cui l’esame non potrà essere eseguito. In questo caso si potrà ottenere solo una grossolana informazione dalla osservazione globale dell’atteggiamento o dei movimenti eseguiti: se l’arto o gli arti sono mossi spontaneamente, se a stimoli intensi o modesti l’arto viene allontanato, se entrambi gli arti sollevati cadono sul piano del letto nello stesso modo, se offrono resistenza alla caduta, ecc. Benché un esame dettagliato della forza segmentale venga eseguito soltanto se esiste un quesito specifico, ad esempio una lesione periferica, esistono alcuni muscoli, od alcuni gruppi muscolari ad azione sinergica, che vengono costantemente esaminati nel corso di un esame neurologico, poiché permettono una sufficiente valutazione della forza muscolare distrettuale. Riferiremo pertanto brevemente sulla tecnica adatta per esaminare questi muscoli o gruppi muscolari.
a) Arti inferiori M. estensore lungo dell’alluce (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere l’alluce contro resistenza; il tendine può essere apprezzato con la palpazione. M. estensore breve delle dita (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere l’alluce contro resistenza; il muscolo può essere apprezzato palpatoriamente anteriormente al malleolo esterno. M. estensore lungo delle dita (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere le dita contro resistenza; il tendine può essere apprezzato con la palpazione. M. tibiale anteriore (L4-L5, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere il piede contro resistenza; la contrazione del muscolo può essere apprezzata palpatoriamente.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
M. gastrocnemio (S1-S2, n. sciatico) si invita il paziente a flettere plantarmente il piede contro resistenza: il muscolo può essere apprezzato palpatoriamente. Mm. flessori della gamba sulla coscia (muscoli bicipite femorale, semitendinoso e semimembranoso, L4-L5-S1-S2, n. sciatico) il paziente è in decubito prono e cerca di flettere la gamba sulla coscia contro resistenza. Mm. estensori della gamba sulla coscia (quadricipite femorale: L2-L3-L4, n femorale), il paziente in decubito supino cerca di estendere la gamba sulla coscia. M. ileo-psoas (L1-L2-L3, n. femorale), il paziente è in decubito supino. La coscia è flessa a 90 gradi sul bacino e sostenuta dall’esaminatore; il paziente cerca di flettere la coscia sul bacino contro resistenza. Mm. adduttori (L2-L3-L4, n. otturatorio), il paziente è in decubito supino, a ginocchio esteso e cerca di addurre gli arti contro resistenza.
b) Arti superiori M. trapezio (C3-C4, n. accessorio spinale) per esaminare la parte superiore del muscolo il paziente è seduto e cerca di elevare la spalla contro resistenza: per esaminare la parte inferiore del muscolo cerca di portare la spalla posteriormente contro resistenza. M. dentato (C5-C6-C7, n. toracico lungo) il paziente è in piedi e spinge con gli arti superiori estesi contro il muro. Le scapole non devono allontanarsi con il loro margine mediale dalla parete toracica; il muscolo può essere palpato sulla faccia esterna delle coste. M. sopraspinoso (C5, n. soprascapolare) e sottospinoso (C5-C6, n. soprascapolare) il paziente è in piedi e per l’esame del muscolo sopraspinoso cerca di abdurre l’arto esteso contro resistenza; per l’esame del muscolo sottospinoso il paziente cerca di extraruotare contro resistenza l’arto superiore flesso a 90 gradi. M. deltoide (C5-C6, n. circonflesso), il paziente abduce l’arto esteso e cerca di mantenerlo a 45 gradi contro resistenza. M. bicipite (C5-C6, n. muscolo cutaneo), il paziente cerca di flettere l’avambraccio supinato contro resistenza. M. tricipite (C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di estendere l’avambraccio sul braccio contro resistenza. M. brachioradiale (C5-C6, n. radiale), il paziente cerca di flettere l’avambraccio, in posizione media tra pronazione e supinazione, contro resistenza. Mm. estensori delle dita (m. estensore radiale del carpo C6-C7, n. radiale, m. estensore delle dita, m. estensore ulnare del carpo; C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di estendere il polso o le dita contro resistenza.
M. flessore radiale del carpo (C6-C7-C8, n mediano) m. flessore superficiale delle dita (C7-C8-T1, n. mediano), m. flessore profondo I-II dito (C8-T1, n. mediano) III-IV dito (C8-T1, n. ulnare) il paziente cerca di flettere il polso o le dita contro resistenza. Mm. interossei (dorsali e palmari; C8-T1, n. ulnare), il paziente cerca di addurre e/o abdurre le dita contro resistenza tenendo il palmo della mano e le dita appoggiate a piatto sopra una superficie. M. opponente del pollice (C8-T1, n. mediano), il paziente cerca di portare, contro resistenza, la punta del pollice a contatto con quella del mignolo. M. abduttore lungo del pollice (C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di abdurre il pollice in direzione radiale. M. abduttore breve del pollice (C8-T1, n. mediano), il paziente cerca di abdurre in direzione palmare il pollice contro resistenza. M. abduttore del mignolo (C8-T1, n. ulnare) il paziente cerca di abdurre il mignolo contro resistenza tenendo il dorso della mano e le dita appoggiate a piatto sopra una superficie. M. opponente del mignolo (C8-T1, n. ulnare), a dita estese il paziente cerca di atteggiare il palmo della mano a coppa e di portare il mignolo davanti alle altre dita.
I riflessi I riflessi, che comunemente vengono ricercati nella pratica clinica, sono rappresentati da una contrazione muscolare involontaria ottenuta per appropriata stimolazione di una determinata struttura sensitiva. La base anatomica della attività riflessa è - come abbiamo visto (v. pag. 10) - l’arco diastaltico che elementarmente è composto dal recettore sensitivo, dalla via afferente sensitiva, dal neurone motore, dalla via efferente motoria ed infine dall’organo effettore (cioè il muscolo) (Fig. 2.3). Lo studio dei riflessi è di estremo valore nella pratica neurologica poiché fornisce informazioni obbiettive e, in una certa misura, anche quantificabili: può permettere di stabilire l’integrità o l’alterazione in un determinato segmento midollare (quello a cui appartiene l’arco diastaltico) e può fornire utili elementi per un giudizio sull’evoluzione di un quadro morboso (ad esempio, ripristino di un riflesso prima assente nelle lesioni periferiche, ecc.).
Funzione motoria
CLASSIFICAZIONE I riflessi si possono suddividere in due gruppi: Riflessi fisiologici: presenti in ogni soggetto normale e che, nelle diverse lesioni del sistema nervoso, sono suscettibili di modificazioni quantitative: iperreflessia, iporeflessia o areflessia. Riflessi patologici: non presenti nel soggetto normale, ed espressione di lesioni del sistema nervoso. RIFLESSI FISIOLOGICI Si suddividono in riflessi profondi o propriocettivi e riflessi superficiali o esterocettivi. Riflessi profondi. – Rappresentano la risposta motoria ottenuta per stimolazione dei fusi neuromuscolari. Sinonimi devono intendersi i termini di riflessi propriocettivi o riflessi tendinei e osteoperiostei, riflessi miotattici, riflessi di stiramento. Le tecniche neurofisiologiche cliniche permettono la stimolazione elettrica selettiva delle fibre afferenti e quindi consentono di ottenere la contrazione riflessa del muscolo senza aver provocato una stimolazione degli organi fusali. Questo riflesso miotattico artificiale fu descritto per la prima volta da P. Hoffmann e denominato comunemente riflesso H.
Il riflesso, provocato dalla percussione del martelletto sul tendine dei diversi muscoli è un riflesso propriocettivo di allungamento fasico. Con la percussione del tendine, cioè, si provoca un brusco allungamento del muscolo; per stiramento delle grosse fibre intrafusali a «sacco nucleare», ne risulta una eccitazione delle terminazioni primarie anulo-spirali, da cui parte una scarica afferente che, con le fibre Ia, raggiunge direttamente gli alfa-moto-neuroni, i cui impulsi attraverso la via efferente delle radici anteriori, mettono in azione le fibre muscolari extrafusali dello stesso muscolo agonista determinandone una contrazione rapida (contrazione fasica). Questa cessa bruscamente
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in quanto la stessa contrazione muscolo-tendinea eccita i recettori tendinei di Golgi che, attraverso le fibre afferenti Ib, inibiscono l’agonista con conseguente rilasciamento del muscolo stesso.
I riflessi profondi od osteo-tendinei sono perciò dei riflessi monosinaptici e unisegmentali e ognuno di essi ha un centro proprio situato in un determinato segmento midollare. Riflessi superficiali o esterocettivi. – Le afferenze da recettori esterocettivi (in particolar modo quelle attivate da stimoli cutanei), che agiscono sui motoneuroni, sono messe in gioco soprattutto dagli stimoli che risultano «nocivi» per l’organismo (riflessi nocicettivi). Riflesso esterocettivo o riflesso F (di Foerster) sono sinonimi. La stimolazione eccita in primo luogo i motoneuroni dei muscoli flessori, ciò che determina, da un punto di vista finalistico, la retrazione dell’arto e l’allontanamento dallo stimolo nocivo. Un riflesso esterocettivo può essere scatenato da una eccitazione che proviene dalle più diverse regioni sensitive. A differenza dei riflessi profondi che sono monosinaptici i riflessi superficiali sono polisinaptici e plurisegmentali. L’attivazione dell’arco riflesso, infatti, prima di raggiungere i motoneuroni, utilizzerebbe numerosi interneuroni specie ascendenti che sposterebbero il centro riflesso a monte del segmento midollare interessato, cioè a livelli sopraspinali ed anche, per taluno, corticali. In questo modo sarebbe spiegata l’assenza dei riflessi addominali nelle lesioni emisferiche della via corticospinale. Ma l’articolazione sinaptica dei riflessi addominali a livello corticale non sembra accettabile sulla base di ricerche più recenti, le quali dimostrerebbero che i riflessi addominali sono riflessi polisinaptici spinali. La scomparsa del riflesso per lesione piramidale sarebbe quindi dovuta alla diminuita eccitabilità del centro spinale.
RIFLESSI PROFONDI (TAB. 2.2) Il necessario completo rilasciamento muscolare non è facile da ottenere soprattutto in soggetti emotivi. Più che il generico invito a «es-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.2. - Riflessi profondi e superficiali. Riflessi
Centro
Nervo afferente
Nervo efferente
Riflessi profondi Masseterino Bicipitale Tricipitale Radio-flessore Cubito-pronatore Patellare o Rotuleo Achilleo Medio-plantare
Ponte C5-C6 C6-C7 C5-C6 C8-T1 L2-L3-L4 L5-S1-S2 L5-S1-S2
V sensitivo Muscolo-cutaneo Radiale Radiale Mediano Femorale Tibiale Tibiale
V motorio Muscolo-cutaneo Radiale Radiale Mediano Femorale Tibiale Tibiale
Riflessi superficiali Corneale Faringeo Addominale superiore Addominale medio Addominale inferiore Cremasterico Cutaneo plantare Anale
Ponte Bulbo T7-T9 T9-T11 T11-T12 L1-L2 L5-S1-S2 S4-S5
V IX Intercostali Intercostali Intercostali Femorale Tibiale Pudendo
VII IX-X Intercostali Intercostali Intercostali Genito-femorale Tibiale Pudendo
ser rilassato», a «non contrarre i muscoli» è utile distrarre l’attenzione del soggetto. Molto spesso non si ottiene la risposta riflessa poiché il muscolo non è posto nel grado ottimale di tensione muscolare, cioè in modo che risulti ne poco né troppo stirato. Qualora non si ottenga il riflesso, si varierà la posizione degli arti sino a trovare la posizione ottimale. Lo stimolo sarà applicato a mezzo del martello con un colpo breve e secco. Quando il riflesso è presente e vivace, è sufficiente un martello piccolo, ma quando il riflesso è torpido è meglio usare un martello con la testa grossa e pesante ed un manico lungo e flessibile per ottenere uno stimolo più intenso. A volte pur avendo correttamente eseguito la manovra, il riflesso non risulta elicitabile: prima di affermarne l’assenza, è necessario, tuttavia, ricorrere ai vari metodi di rinforzo che attuano la contrazione di muscoli non interessati nel riflesso.
Ad esempio, quando si debbano esaminare i riflessi degli arti inferiori si invita il paziente ad eseguire la manovra di Jendrassik1 (il soggetto tenta con forza di divaricare le mani avvinghiate), oppure a stringere i denti con forza, ed a spingere violentemente gli arti superiori l’uno contro l’altro. Esaminando i riflessi degli arti superiori si inviterà il paziente a stringere forte il pugno controlaterale e addurre con forza le gambe, ecc. Ciononostante, il miglior metodo di rinforzo sembra essere una modesta contrazione del muscolo esaminato. Dopo aver ottenuto i riflessi, eventualmente ricorrendo a questi accorgimenti, è necessario valutarne l’intensità. Alcuni AA. preferiscono adottare un termine descrittivo: normali, dimi1
Il meccanismo della manovra di Jendrassik è stato oggetto di recenti studi. La manovra produrrebbe un aumento dell'attività del sistema gamma efferente per cui la soglia dell'arco riflesso sarebbe diminuita.
Funzione motoria
nuiti, assenti, aumentati, molto vivaci (o policinetici). Altri preferiscono un termine grafico, un numero con il segno positivo o negativo, uno 0 o vari segni di +. Questa quantificazione non è ovviamente obiettiva, e può avere valore soltanto se i dati sono ottenuti dallo stesso esaminatore. Elenchiamo adesso i principali riflessi, quelli cioè che è utile ricercare nel corso di un esame neurologico (Tab. 2.2). Riflesso masseterino (sinonimo r. mandibolare). Arco afferente: n. trigemino; arco efferente: n. trigemino. Si applica un leggero colpo di martelletto o sul dito, posto sul mento del paziente, o su un abbassalingua posto sull’arcata dentaria inferiore. La contrazione del massetere causa la chiusura della bocca, mantenuta in posizione di leggera apertura. Riflesso bicipitale (C5-C6; n. muscolo-cutaneo). Si può eseguire sia a paziente seduto che supino: nel primo caso gli arti superiori saranno appoggiati sulle cosce del paziente, nel secondo sul ventre. Lo stimolo viene applicato sul pollice dell’esaminatore, posto sul tendine del bicipite al gomito. Si ottiene una flessione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso tricipitale (C6-C7; n. radiale). La sede di percussione è sull’inserzione omerale del tricipite, circa 3-4 centimetri al di sopra del gomito, per evitare di provocare il riflesso olecranico (che provoca flessione dell’avambraccio sul braccio). L’arto del paziente può essere posto nella stessa posizione in cui si ottiene il r. bicipitale, oppure l’esaminatore sostiene il braccio del paziente, che è flesso al gomito, lo eleva e lo abduce. In questo modo è più facile osservare il movimento di estensione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso radio-flessore (sinonimo r. radiale periosteo; C5-C6; n. radiale). Gli arti superiori
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del paziente vengono posti come per l’esame del r. bicipitale, lo stimolo viene portato sul margine laterale della parte distale del radio. Si ottiene la flessione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso cubito-pronatore (sinonimo r. pronatore; C8-T1; n. mediano). L’arto superiore del paziente è posto nella stessa posizione nella quale si elicita il riflesso radio-flessore. Lo stimolo viene applicato sulla superficie dorsale dell’apofisi distale dell’ulna. Si ottiene un movimento di pronazione dell’avambraccio. Riflesso flessore comune delle dita (C7-C8-T1; n. mediano ed ulnare). Per evocarlo si pone la mano in semisupinazione appoggiata sul ginocchio del paziente seduto; il dito medio e l’indice dell’esaminatore, posti trasversalmente sulle dita del paziente, vengono percossi dal martelletto. Si ottiene una flessione di tutte le dita della mano. Riflessi addominali profondi (T1-T2; n. intercostali medio e inferiore). Si percuote il margine inferiore dell’ultima costa e si avverte, con la mano posta sulla parete addominale, la contrazione dei muscoli retti dell’addome. Riflesso rotuleo (sinonimo r. del quadricipite femorale, r. patellare; L2-L3-L4; n. femorale). La tecnica per la provocazione varia a seconda che il paziente sia seduto o sdraiato: quando il paziente è seduto sul bordo del letto con le gambe penzolanti, lo stimolo viene applicato sul tendine sottorotuleo; quando il soggetto è sdraiato, l’esaminatore pone un braccio sotto le ginocchia del paziente e le solleva leggermente causando così una modesta flessione e, applicando lo stimolo come nel caso precedente, si ottiene l’estensione della gamba sulla coscia. Si può ottenere il riflesso (cosiddetto riflesso soprarotuleo) percuotendo direttamente sopra la rotula del paziente seduto, o, nel paziente sdraiato, stirando verso il basso, con un dito dispo-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
sto trasversalmente, la rotula e quindi percuotendo il dito dall’alto verso il basso. Si ottiene una contrazione del quadricipite che provoca un rapido spostamento della rotula verso l’alto.
minatore, consistente nella flessione plantare delle dita del piede.
Riflesso achilleo e r. medio-plantare (sinonimo r. del gastrocnemio e r. del soleo; L5-S1-S2; n. tibiale). Per la esecuzione del r. achilleo il punto di percussione è il tendine di Achille, mentre per l’esecuzione del r. medio-plantare deve essere percossa la pianta del piede sul margine laterale, alla sua metà circa. Il paziente può essere posto seduto con le gambe penzoloni, inginocchiato, sdraiato. Si ottiene una flessione plantare del piede.
Lo stimolo portato a contatto della cute e delle mucose, può essere quanto mai vario: toccare con cotone, con un piccolo pezzo di carta, oppure strisciare, pungere, ecc.
Riflesso degli adduttori (L2-L3-L4; n. cutaneo-mediale, n. otturatore). Il paziente in decubito supino mantiene gli arti inferiori semiflessi ed abdotti: viene percosso il condilo mediale del femore. Si ottiene una risposta di adduzione dell’arto. Sempre nell’ambito dei riflessi profondi accenniamo a due riflessi che da vari Autori sono ritenuti patologici, mentre in realtà non assumono significato patologico se riscontrati isolamente. Riflesso flessore delle dita: si provoca comunemente seguendo la tecnica di Hoffmann: l’esaminatore stringe con due dita della mano sinistra la seconda falange del dito medio del paziente: con il pollice dell’altra mano pizzica, a mo’ di chitarra, la terza falange dello stesso dito medio del soggetto in esame. A tale manovra fa seguito normalmente la flessione delle altre dita, pollice compreso; quando questa risposta è vivace ed associata ad iperreflessia generalizzata o monolaterale esprime una compromissione del sistema piramidale. Segno di Rossolimo: è un riflesso patologico provocabile con diverse manovre, usualmente con l’improvvisa percussione delle dita del piede del paziente da parte delle dita dell’esa-
RIFLESSI SUPERFICIALI (TAB. 2.2).
Riflesso corneale (afferenza V, efferenza VII; centro: ponte). Stimolando leggermente la cornea con un batuffolo di cotone, portato in direzione lateromediale dall’esterno del campo visivo mentre il paziente viene invitato a guardare dalla parte opposta, si ottiene una contrazione dell’orbicolare delle palpebre con ammiccamento. Riflesso faringeo (afferenza, efferenza: IXX; centro: bulbo). Stimolando la parete posteriore del faringe con un abbassalingua o con qualsiasi altro oggetto, si ottiene la contrazione dei mm. faringei. Riflessi addominali (sup. T7-T9, medio T9T11, inferiore T11-T12). Lo stato dell’addome (condizioni della cute, adipe, muscoli) condiziona l’estrinsecazione del riflesso in soggetti ricchi di adipe o in donne che abbiano partorito più volte, casi in cui difficilmente potranno essere ottenuti i riflessi addominali. A soggetto completamente rilasciato, con i muscoli addominali completamente detesi, l’esaminatore striscia, con una punta smussa, obliquamente dall’esterno all’interno o dall’interno all’esterno sulla cute dell’addome. Si distinguono i riflessi addominali superiore, medio ed inferiore. I riflessi addominali rivestono una certa importanza poiché sono spesso assenti negli stadi iniziali della sclerosi multipla e diminuiti o assenti unilateralmente nel caso di lesioni piramidali a livello encefalico. Riflesso cremasterico (L1-L2). Viene stimolata la cute della faccia mediale della coscia, alla
Funzione motoria
radice dell’arto, strisciando con una punta smussa per ottenere una contrazione del m. cremastere e quindi un sollevamento del testicolo. Riflesso anale (dello sfintere esterno o volontario: S4-S5). Si stimola con una punta smussa la cute perianale e si ottiene come risposta la contrazione dello sfintere esterno. Riflesso bulbo-cavernoso (S3-S4). Si ottiene stimolando la cute della parte anteriore del pene o pungendo lievemente il glande. Si apprezzerà la contrazione del m. bulbo-cavernoso alla base del pene. Riflesso cutaneo-plantare (L5-S 1-S 2). Per stimolazione, con una punta smussa, della cute della porzione centrale della pianta del piede ascendendo dal calcagno alle dita, si ottiene la flessione plantare delle dita. MODIFICAZIONI QUANTITATIVE DEI RIFLESSI PROFONDI
– IPOREFLESSIA O AREFLESSIA: la riduzione o abolizione dei riflessi profondi può essere dovuta a: a) alterazione o abolizione della conduzione dell’impulso attraverso l’arco riflesso e quindi per lesione della via afferente, del neurone intercalare, della via efferente; b) lesioni midollari e cerebrali quando si manifestino improvvisamente. L’areflessia in questi casi è transitoria e attribuita allo stato di shock spinale o al fenomeno di diaschisi. – RIFLESSI PENDOLARI: è una modalità particolare di risposta dei riflessi profondi, che si mette in evidenza per il riflesso rotuleo e tricipitale. La risposta che si ottiene per un singolo stimolo è costituita da una serie di oscillazioni pendolari del segmento di arto. I riflessi pendolari si riscontrano soprattutto nei malati cerebellari e la loro estrinsecazione è in rapporto con l’ipotonia.
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– IPERREFLESSIA: l’esagerazione dei riflessi profondi si dimostra con la velocità e l’intensità della contrazione e l’ampiezza del movimento riflesso. I riflessi sono detti trepidanti o policinetici o polifasici, quando un singolo stimolo dà luogo ad un accenno di risposta multipla, che si può poi concretare in una risposta ripetitiva vera e propria, cioè nel clono. Clono: con questo termine si intende una serie ritmica di contrazioni muscolari scatenate da una brusca e protratta tensione del tendine. Tale fenomeno, osservabile in condizioni fisiologiche solo in stato di fatica muscolare o di viziata tensione di un muscolo, si provoca facilmente quando i riflessi tendinei sono accentuati in conseguenza di una lesione piramidale. Il clono del piede è provocabile con una brusca flessione dorsale del piede; quello della rotula con un brusco spostamento verso il basso della rotula; quello del polso con una brusca estensione del polso. In relazione alla sua durata il clono può essere definito come ‘esauribile’ od ‘inesauribile’. L’iperreflessia profonda è dovuta a: a) lesione della via piramidale; b) condizioni come la tetania, il tetano, l’avvelenamento da stricnina. RIFLESSI PATOLOGICI Compaiono soltanto in concomitanza con malattie del sistema nervoso. Segno di Babinski: si ottiene strisciando con una punta smussa lungo il bordo esterno del piede e quindi verso l’alluce tracciando una linea trasversale alla base delle dita. In caso di positività si ottiene l’estensione dorsale dell’alluce e l’abduzione delle dita (cosiddetto segno del ventaglio di Dupré) (Fig. 2.27 B). Esistono numerosissime modalità per provocare l’estensione delle dita del piede e quindi
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.27 - Indicazione della sede di stimolazione per ottenere il segno di Chaddock (A) e il segno di Babinski (B). La freccia verticale indica la sede di stimolazione per il riflesso cutaneo-plantare.
moltissimi segni con relativa eponimia. Nella pratica clinica è utile conoscerne alcuni: Segno di Oppenheim: strisciamento con forza della cute della parte anteriore della gamba tra il ginocchio e la caviglia, facendo scorrere tra il pollice e la nocca dell’indice la cresta tibiale. Segno di Chaddock: strisciamento con una punta smussa intorno al malleolo esterno, iniziando posteriormente e proseguendo lungo il margine esterno del piede (Fig. 2.27 A). Segno di Gonda: rapida e forzata flessione delle ultime due dita. Segno di Gordon: compressione violenta delle masse muscolari del polpaccio. Segno di Schaefer: violenta compressione digitale del tendine di Achille. Il segno di Babinski è considerato classicamente come il segno più attendibile di lesione delle vie piramidali.
La risposta plantare patologica, cioè l’inversione del riflesso cutaneo-plantare o segno di Babinski, rappresenterebbe una parte del cosiddetto riflesso in flessione [flessione della coscia sul bacino, della gamba sulla coscia, del piede sulla gamba e delle dita (nello scimpanzé e nell’uomo si aggiunge l’estensione dell’alluce2)] che rappresenta la risposta riflessa in rapporto a stimoli nocicettivi con finalità di evitare o allontanare lo stimolo dannoso. La corteccia motoria e la via piramidale manterrebbero un’azione soppressoria sul riflesso in flessione per cui, in caso di lesione piramidale, la risposta patologica verrebbe a manifestarsi. La normale risposta in flessione si manifesta tra il I e il II anno di vita; nei primi mesi quindi, la risposta alla stimolazione cutanea della pianta del piede è in estensione. La variazione della risposta, in altri termini, correla bene con il periodo di mielinizzazione del tratto piramidale e con il concomitante sviluppo dei movimenti fini delle dita. La risposta plantare estensoria (segno di Babinski) è indicativa, quindi, di una lesione del sistema piramidale in grado di svincolare gli alfa-motoneuroni del muscolo estensore dell’alluce dal controllo esercitato dalla corteccia motoria. La presenza di questo segno non dipende dalla gravità della lesione del sistema piramidale: lesioni certe delle fibre cortico-spinali possono non accompagnarsi alla presenza del segno di Babinski, come spesso accade nella sclerosi laterale amiotrofica, mentre il segno può essere talvolta presente in pazienti che non presentano una franca ipostenia dell’arto inferiore. In generale, il segno di Babinski viene posto in relazione alla compromissione del contingente neo-cortico-spinale, cioè la via che dalle cellule di Betz dell’area 4 arriva ai motoneuroni
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In realtà la dorsiflessione dell’alluce rappresenta fisiologicamente un movimento flessorio, anche se i muscoli in azione sono indicati come estensori. Al contrario la flessione plantare delle dita del piede è in realtà un’estensione (Brain e Wilkinson, 1959). Secondo Sherrington (1910) infatti, i muscoli dell’arto inferiore possono essere classificati in funzione della loro partecipazione al riflesso in flessione e alle differenti fasi della marcia: in questi casi il flessore dell’alluce che produce una flessione plantare, fa parte funzionalmente del gruppo degli estensori, l’estensore dell’alluce che produce una flessione dorsale fa parte funzionalmente del gruppo dei flessori.
Funzione motoria spinali. Il segno clinico che più frequentemente si associa alla risposta plantare estensoria è la perdita della capacità di eseguire movimenti fini del piede, presente nel 92 % dei pazienti con segno di Babinski (Van Gijn, 1978). Inoltre, il segno di Babinski può essere presente anche in assenza di lesioni anatomiche delle fibre piramidali, esprimendo una compromissione funzionale del sistema cortico-spinale (ipoglicemia, anestesia generale, somministrazione di sostanze ipnotiche, periodo postcritico di una crisi epilettica, ecc.).
RIFLESSI PRIMITIVI I riflessi primitivi, normalmente presenti nel neonato o nella primissima infanzia, possono presentarsi nell’adulto in caso di patologia cerebrale diffusa. I principali riflessi primitivi utilizzati nella pratica clinica sono: – Riflesso del muso: protrusione delle labbra (per contrazione del m. orbicolare della bocca) in seguito a percussione con il martello delle labbra stesse. – Riflesso glabellare: contrazione bilaterale dell’orbicolare delle palpebre per percussione sulla glabella; ha valore patologico quando persiste in seguito a stimolazioni ripetute («glabellare inestinguibile»). – Riflesso di suzione: stimoli tattili sulle labbra determinano una risposta di succhiamento. – Riflesso corneo-mandibolare: contrazione dei muscoli pterigoidei per stimolazione della cornea con un batuffolo di cotone. – Riflesso di prensione forzata: stimoli tattili sul palmo della mano con le dita (o con oggetti) determinano chiusura della mano. – Riflesso palmomentoniero (di Marinesco-Radovici): contrazione dei muscoli mentonieri ipsilaterali per stimolazione (strisciamento con una punta smussa) dell’eminenza tenar di una mano. Si ritrova in una percentuale variabile di soggetti normali, ma si deve ritenere patologico in base alla soglia di comparsa, alla sua riproducibilità, alla diffusione della zona reflessogena. Alcuni clinici lo considerano patologico solo se unilaterale.
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Esprime l’esistenza di una lesione soprasegmentale del sistema motorio e rappresenterebbe la componente precoce di un riflesso nocicettivo generale (Dehen e coll., 1974). – Riflesso di inseguimento: il paziente segue con le mani, o con il capo, gli oggetti che gli vengono avvicinati. RIFLESSI DI AUTOMATISMO SPINALE (sinonimo: riflessi di difesa, riflessi massivi, riflessi nocicettivi). Si tratta della risposta in flessione dell’arto inferiore (flessione della coscia sul bacino, della gamba sulla coscia, del piede sulla gamba) per stimoli in genere dolorosi portati all’estremità distale dell’arto, espressione della completa e massiva risposta in flessione ad uno stimolo nocicettivo. Si possono riscontrare per lesioni encefaliche con disturbi piramidali, ma sono particolarmente evidenti nelle lesioni midollari trasverse in cui l’area reflessogena è enormemente estesa e dove lo stimolo che li provoca può anche essere un semplice stimolo tattile. In soggetti paraplegici è possibile stabilire il livello inferiore della lesione midollare (Babinski e Jervoski, 1909) perchè questa concorda con il limite superiore della zona cutanea in cui la stimolazione causa ancora il riflesso di difesa, mentre il limite superiore della lesione è fornito dal livello di anestesia. Nei paraplegici il riflesso di accorciamento o di triplice retrazione dell’arto con risposta in flessione si può accompagnare alla contrazione delle pareti addominali, evacuazione della vescica e del retto, sudorazione e orripilazione («Mass reflex o di flessione massiva» di Riddoch). Il riflesso di allungamento è molto più raro del precedente. Si ottiene per stimolazione della parte alta della coscia o della parte bassa del ventre con una risposta in estensione dell’arto. Riflesso di allungamento crociato: rarissimo. Si pone un arto in estensione e l’altro in semi-
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flessione: provocando nell’arto in estensione la triplice retrazione, si osserva l’estensione dell’arto controlaterale. Si ritrova nelle paraplegie, specialmente nelle forme cutaneo-riflesse. INVERSIONE DEI RIFLESSI Un riflesso si dice invertito quando in luogo della risposta muscolare riflessa che si ottiene normalmente, la percussione tendinea provoca la contrazione di un muscolo antagonista. Per esempio, la percussione del tendine del muscolo tricipite, anziché provocare come di norma il riflesso tricipitale con estensione dell’avambraccio, può essere seguita da una risposta paradossa di flessione dell’avambraccio. Perché questo avvenga sono necessarie due condizioni: che manchi del tutto la normale contrazione riflessa del muscolo tricipite, e che questa sia sostituita da una contrazione del bicipite (inversione del riflesso tricipitale). Analogo è il fenomeno di «inversione del riflesso radiale» descritto da Babinski: la percussione dell’apofisi stiloide del radio, invece di determinare flessione dell’avambraccio sul braccio per contrazione riflessa del muscolo brachioradiale, provoca solo una flessione delle dita. Anche il riflesso rotuleo può essere invertito e in questo caso si ottiene una flessione anziché un’estensione della gamba. Classicamente si ritiene che il fenomeno sia dovuto ad una lesione intramidollare e alla diffusione dell’eccitamento reflessogeno ai metameri superiori o inferiori. Clinicamente l’inversione dei riflessi si può osservare in lesioni dell’arco diastaltico, senza interessamento del midollo. Secondo alcuni Autori, l’inversione ha lo stesso significato clinico dell’abolizione del riflesso: l’elicitazione del riflesso desiderato è impossibile, ma lo stimolo può essere in grado, seppure applicato in sede non usuale, di provocare un altro riflesso osteotendineo, la cui area di elicitazione è, nel caso particolare, allargata.
Iniziativa motoria, motilità automatica e associata È possibile osservare in alcuni pazienti un indebolimento ed impoverimento dell’iniziativa motoria e dell’attività automatica e associata, senza che esistano disturbi motori di tipo piramidale. L’iniziativa motoria, substrato indispensabile per l’effettuazione del movimento volontario, rappresenta la capacità di iniziare il movimento e di correttamente orientare reazioni motorie istintive e riflesse. La motilità automatica e associata è rappresentata da un gran numero di movimenti che si compiono in maniera automatica (e quindi non volontariamente) spesso in associazione con movimenti volontari: movimenti del tronco e degli arti durante la marcia; movimenti del capo e degli occhi verso la sorgente di un rumore; movimenti della muscolatura mimica facciale che tendono ad esprimere stati d’animo e a sottolineare atteggiamenti motori; gesticolazione che accompagna la conversazione. Le alterazioni di questo tipo di attività motoria sono tipiche dei quadri morbosi da lesioni del sistema extrapiramidale. Le turbe dell’iniziativa motoria e della motilità automatica e associata possono essere così indicate: 1) catalessia e catatonia; 2) acinesia, ipocinesia, bradicinesia; 3) disturbi del linguaggio; 4) disturbi della mimica. CATALESSIA E CATATONIA. – Per catatonia s’intende la protratta conservazione di posizioni e di atteggiamenti spontaneamente assunti dal paziente, per catalessia la conservazione nel tempo di posizioni impresse ed imposte dall’esaminatore (De Lisi, 1935). Quindi, mentre un atteggiamento catatonico è apprezzato passivamente dall’esaminatore, un atteggiamento catalettico viene ricercato, alzando ad esempio un arto del paziente e osservando come questa posizione venga mantenuta per un certo tempo. Quando la catalessia è molto
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intensa, possono essere imposte all’arto del paziente posizioni abnormi, bizzarre, scomode e tali da giustificare il termine di flexibilitas cerea alla possibilità di imporre al paziente i più diversi atteggiamenti, quasi si trattasse di operare con cera da modellare. La catatonia si ritrova con modalità paradigmatiche nel «sintomo del guanciale psichico» dei parkinsoniani: il paziente sdraiato, con il capo semiflesso sul tronco, come se fosse sostenuto da un guanciale, lasciato a sè mantiene questa posizione per lungo tempo. Gli stessi termini (catatonia e catalessia) sono anche impiegati in psichiatria, con significato parzialmente analogo. Tuttavia, invece di «catatonia», si preferisce, in psicopatologia, il termine più globale di «sindrome catatonica», caratterizzata da aspetti estremi di negativismo e passività (catatonia, ecoprassia, ecolalia ed ecomimia), e da stereotipie mimiche, gestuali, fasiche. Questi quadri si riscontrano principalmente in stati tossici acuti e nella schizofrenia.
alla rigidità; attualmente (anche in relazione agli effetti delle terapie farmacologiche e chirurgiche) si ipotizza che tali fenomeni abbiano una genesi indipendente ed esprimano la deficitaria facilitazione talamo-corticale delle aree corticali deputate alla programmazione (in particolare, l’area supplementare motoria) ed all’esecuzione del movimento (aree motorie primarie)(v. pag. 526)
ACINESIA, IPOCINESIA, BRADICINESIA. – Acinesia significa l’assenza o l’estrema povertà di movimenti spontanei (ad esempio, nella gesticolazione o nella mimica) o associati (ad esempio, movimenti pendolari degli arti nella marcia). Tale condizione si accompagna, spesso, a difficoltà dell’inizio del movimento («della messa in moto») ed è associata ad una riduzione nell’ampiezza del movimento (ipocinesia) quale si manifesta nell’andatura a piccoli passi o nella micrografia. La bradicinesia ,infine, indica una particolare lentezza nell’esecuzione del movimento volontario (De Lisi, 1935) e si caratterizza per la particolare estrema difficoltà nel passaggio rapido da una sequenza motoria ad un’altra (movimenti sequenziali) e per la perdita o riduzione del ritmo di esecuzione di tali sequenze (perdita della «melodia cinetica»). Per molto tempo si è ritenuto che l’acinesia e la bradicinesia fossero strettamente correlate
DISTURBI DELLA PAROLA. – I disturbi dell’iniziativa motoria si possono esprimere anche nell’ambito dell’articolazione della parola (disartria). Ci riferiamo a ciò che si osserva in alcune malattie extrapiramidali, fra cui il morbo di Wilson. Questi malati, pur non presentando turbe fasiche (comprensione, lettura e scrittura, linguaggio interno conservati), dimostrano una progressiva limitazione del linguaggio parlato fino alla totale abolizione. Altre turbe del linguaggio in rapporto con l’ipocinesia consistono in: monotonia del linguaggio, mancanza della cadenza con cui viene data enfasi al discorso e, talora, palilalia, cioè ripetizione, anche per 15 o 20 volte, dell’ultima parola o sillaba pronunciata. Anche per la parola può essere dimostrata una cinesia paradossa (tachifemia).
L’acatisia è invece l’impossibilità di conservare a lungo una determinata posizione e la necessità di muovere anche frequentemente segmenti di arto o tutto il corpo. Un elemento singolare che si riscontra nelle sindromi parkinsoniane è dato dal fatto che mentre l’atto motorio risulta generalmente lento, impacciato, estremamente povero, alcune attività complesse possono essere eseguite correttamente o meglio sono eseguite più rapidamente: tipica è la possibilità di correre con notevole celerità (cinesia paradossa).
DISTURBI DELLA MIMICA. – I movimenti mimici espressione di un particolare stato d’animo o di
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un’emozione, possono dimostrare alterazioni definite come: amimia, ipermimia, paramimia, riso e pianto spastico. – Amimia o ipomimia: con questi termini s’intende la perdita o la riduzione dell’espressione del viso, con povertà o assenza dei movimenti emozionali ed espressivi della faccia, in assenza, come è ovvio, di lesioni del nervo facciale, unilaterali o bilaterali. La dissociazione tra innervazione facciale volontaria e emozionale è infatti molto chiara anche se non facile ne è la spiegazione. Il riso o il sorriso spontaneo, determinato da un’emozione, è ovviamente ben differente dal riso o dal sorriso di circostanza. Quest’ultimo necessita l’integrità del facciale mentre il primo utilizzerebbe vie efferenti pallido-ipotalamiche (v. pag. ??). L’amimia appare tipicamente e precocemente nella sindrome parkinsoniana, ed è da considerare espressione dell’acinesia. – Ipermimia: con questo termine possono essere definiti quei movimenti rapidi e grotteschi a tipo di smorfia (grimaces degli AA. francesi) che compaiono in vari quadri morbosi (lesione del pallido, sclerosi a placche, ecc.). – Paramimia o mimica discordante: sono espressioni mimiche inadeguate o addirittura discordanti con la situazione emotiva che le ha suscitate. Questi disturbi sono tipici di ammalati psichici, ma osservabili anche in ammalati neurologici con lesioni del sistema extrapiramidale. – Riso e pianto spastico: le modalità di comparsa e cessazione, solitamente improvvisa o spastica, le caratteristiche del riso e del pianto disordinato ed irrefrenabile, a volte lamentoso, l’assenza di un’adeguata motivazione ne costituiscono la caratteristica. Si tratta quindi di pazienti nei quali, improvvisamente e con caratteristiche esplosive, si scatena il riso o il pianto, senza uno stimolo emozionale adeguato talora anzi in rapporto con uno stimolo che dovrebbe suscitare una manifestazione mimica opposta (riso o pianto paradosso). Facilmente
il paziente può passare dal pianto al riso, iniziando con uno e finendo con l’altro. Il riso e il pianto spastico si ritrovano soprattutto nella sindrome pseudobulbare, nella sclerosi in placche e dovrebbero essere interpretati come perdita del controllo corticale che normalmente inibisce impulsi emozionali involontari.
Alterazioni della regolazione delle posizioni corporee La regolazione delle posizioni e degli atteggiamenti di parti corporee o del corpo in toto (De Lisi, 1935) è controllata da riflessi di natura propriocettiva o riflessi posturali che si integrano a differenti livelli del nevrasse e in cui il sistema extrapiramidale gioca un ruolo fondamentale. Clinicamente sono di interesse relativo, ma è fondamentale il loro rilievo per l’interpretazione del meccanismo impiegato dal sistema nervoso nel mantenimento della postura. I riflessi posturali si distinguono in riflessi posturali locali, segmentali e generali. I riflessi posturali locali sono rappresentati dai riflessi di stiramento o riflessi miotattici che nascono dal muscolo stesso. La contrazione del quadricipite femorale, ad esempio, per stimolazione della pianta del piede (reazione positiva di sostegno) contribuisce a mantenere l’arto rigido e quindi, in via riflessa, la stazione eretta. Ma per poter compiere un movimento volontario, ad es. nella marcia, deve intervenire una reazione di sostegno negativa, che ugualmente origina dagli organi propriocettivi muscolari quando si verifica la flessione plantare del piede con l’arto sollevato dal terreno. Si ha cioè l’inibizione del riflesso miotattico per poter effettuare il movimento volontario. I riflessi posturali segmentali si manifestano negli arti controlaterali, sempre per stimoli di origine muscolare propriocettiva. Il riflesso di estensione crociata appare in un arto inferiore se uno stimolo doloroso è applicato all’altro arto inferiore che si retrae (riflesso nocicettivo in flessione). La reazione estensoria permette quindi la stazione eretta su un solo arto. Le reazioni statiche generali (riflessi tonici del collo e riflessi tonici labirintici) riguardano alcuni riflessi che si articolano a livello del tronco encefalico. I riflessi tonici del collo sono reazioni posturali che si manifestano in seguito a modificazioni della posizione
Funzione motoria del capo rispetto al tronco. Le afferenze partono dai recettori delle articolazioni delle prime vertebre cervicali e dai propriocettori dei muscoli del collo e raggiungono attraverso le prime tre radici cervicali posteriori, i neuroni intercalari situati a livello del I e II segmento cervicale. La rotazione laterale della testa verso sinistra, ad esempio, provoca un aumento del tono estensorio dell’arto superiore verso cui è rivolto il mento e aumento del tono flessorio dell’arto cui è rivolto l’occipite, facendo assumere la cosiddetta posizione da schermitore (Fig. 2.28). La flessione dorsale del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti superiori e del tono flessorio agli arti inferiori, raffigurando l’atteggiamento dell’uomo che guarda verso l’alto, mentre la flessione ventrale del capo fa assumere l’atteggiamento opposto, tipico di un uomo che da posizioni sopraelevate guarda verso il basso (Fig. 2.29). I riflessi tonici labirintici dipendono dalla stimolazione delle strutture otolitiche dell’utriculo (e forse del sacculo) in rapporto col movimento nello spazio, e non devono essere confusi con i riflessi vestibolari. I riflessi tonici labirintici si dimostrano quando la posizione della testa e del corpo è modificata sul piano orizzontale, senza che esista modificazione della posizione del capo rispetto al corpo. Si studiano negli animali: se l’animale è in posizione prona gli arti si flettono.
Fig. 2.28 - Riflessi tonici del collo: la rotazione del capo verso sinistra provoca aumento del tono estensorio dell’arto superiore, verso cui è rivolto il mento, e aumento del tono flessorio dell’arto verso cui è rivolto l’occipite: posizione da schermitore.
Fig. 2.29 - Riflessi tonici del collo: la flessione ventrale del capo provoca aumento del tono flessorio agli arti superiori ed estensorio agli arti inferiori.
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In termini generali, lo studio dei riflessi posturali è difficile quando il sistema motorio funziona normalmente; le diverse sezioni trasverse (ed in particolare quella al di sopra del nucleo rosso, o preparazione mesencefalica) consentono la liberazione dei riflessi posturali, che risultano esagerati. I riflessi tonici labirintici ed i riflessi tonici del collo si integrano reciprocamente. Infatti i riflessi labirintici agiscono in base al presupposto che il capo abbia una posizione costante rispetto al corpo, e ciò è garantito dai riflessi tonici del collo. Va infine sottolineato che esiste un contributo importante degli impulsi visivi nel mantenimento dell’equilibrio.
Semeioticamente i riflessi di postura sono contrazioni toniche più o meno durature che si determinano, in condizioni fisiologiche, in alcuni muscoli quando si porta passivamente un segmento di arto in una determinata posizione, causando quindi un accorciamento o stiramento del corpo muscolare. I riflessi di postura che si ricercano in clinica sono due: il riflesso di postura del piede (Foix) o contrazione paradossa del tibiale (Westphal) e il riflesso di postura del bicipite. Il primo si ricerca nel paziente supino, imponendo al piede movimenti passivi di flessione dorsale che provocano la contrazione del tibiale anteriore. Il riflesso di postura del bicipite si ricerca a soggetto seduto con il braccio sostenuto a livello dell’articolazione del gomito: con i movimenti di flessione dell’avambraccio si ottiene una contrazione del bicipite. I riflessi di postura aumentano di intensità soprattutto nelle sindromi extrapiramidali. I riflessi tonici del collo (riflessi di Magnus e De Klejn), chiaramente osservabili nell’animale, sono fisiologici nell’uomo fino a 6 mesi d’età: a paziente supino la deviazione laterale del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti del lato verso cui è rivolto il mento, e aumento del tono flessorio agli arti del lato verso cui è rivolto l’occipite. In questo modo il soggetto assume la cosiddetta «posizione da schermitore», infatti l’arto verso cui guarda il viso è esteso, come se avesse nella mano un fioretto, mentre il controlaterale è flesso (Fig. 2.28).
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Anche il semplice piegamento del capo può scatenare questi riflessi e in questo caso si ottiene un aumento del tono flessorio negli arti verso cui è piegato il capo. La dorsiflessione del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti superiori e di quello flessorio agli inferiori, raffigurando l’atteggiamento di un animale che guarda verso l’alto; al contrario la ventroflessione provoca un aumento del tono flessorio agli arti superiori ed estensorio agli inferiori, posizione di un animale che da una posizione sopraelevata guarda verso il basso (Fulton, 1949) (Fig. 2.29). La persistenza dei riflessi tonici del collo nei bambini al di sopra dei 6 mesi indica che il controllo sui riflessi del tronco encefalico non è compiuto e che probabilmente il bambino mostrerà deficit permanenti motori. I riflessi di raddrizzamento nell’uomo possono essere ricercati imprimendo ad un soggetto in piedi, a gambe unite, una leggera spinta dall’avanti all’indietro, al fine di esplorare le reazioni sincinetiche e automatiche che si oppongono ad una spinta. Alterazioni nella manovra della spinta sono state riscontrate in sindromi extrapiramidali. A proposito dei riflessi di raddrizzamento, è necessario ricordare brevemente il fenomeno di prensione forzata. Infatti fra gli atti motori che i primati usano per raddrizzarsi, «la prensione» risulta di notevole importanza. Il fenomeno di prensione forzata si presenta quando stimolando la regione palmare, specie fra pollice e indice, per mezzo di un oggetto a punta smussa o con un dito, si ottiene la forzata prensione per involontaria chiusura della mano, tanto che il soggetto non è più capace di abbandonare volontariamente la presa. Il fenomeno è fisiologico nei primati e nell’uomo durante i primi anni di vita e rappresenterebbe una reazione di raddrizzamento, scatenata da stimoli a partenza dal corpo e che agiscono sul corpo stesso. Sembra che anche le strutture extrapiramidali basali possano essere implicate nel determinismo del fenomeno. Sul piano finalistico sembrerebbe lecito interpretare il fenomeno come tentativo di assicurare un completo e duraturo afferramento dell’infante alla madre, afferramento che è di importanza vitale nella scimmia ed assai minore nell’uomo.
Il fenomeno, patologico nell’uomo adulto e particolarmente evidente se si ricerca in decubito laterale, (con il lato affetto libero dal piano del letto), sarebbe da imputare alla lesione dell’area supplementare motoria. Analogo significato semeiologico e funzionale ha i1 riflesso di prensione forzata delle dita del piede (flessione ed adduzione delle dita del piede per stimolazione della parte distale della pianta). Tra gli atteggiamenti anomali segnaliamo la mano a «posizione interossea» dei parkinsoniani (flessione leggera del polso, dita iperestese, addotte e flesse in corrispondenza dell’ultima falange, pollice addotto) e la mano en patte de canard («flessa a zampa di anitra»: flessa al polso e con dita iperestese e abdotte) di certi atetosici. Tra gli atteggiamenti anomali generali del corpo descriviamo: l’atteggiamento flessorio dei parkinsoniani (capo flesso, dorso curvo, arti inferiori un po’ flessi) e alcuni atteggiamenti particolari di ammalati di morbo di Wilson e definite da De Lisi «pose ginniche» (Figg. 2.30; 2.31).
Movimenti involontari patologici (ipercinesie) G. Abbruzzese Con questo termine generale si definisce un gruppo eterogeneo di disturbi del movimento, caratterizzati da contrazioni muscolari involontarie (cioè non sopprimibili dalla volontà) con distribuzione topografica variabile, che generano movimenti semplici o complessi, inadeguati e apparentemente afinalistici. I «movimenti involontari patologici» sono da sempre considerati espressione di una sofferenza anatomica o funzionale dei gangli della base, nonostante le loro basi fisiopatologiche restino in larga parte speculative e le correlazioni anatomo-cliniche risultino soltanto parziali (De Long, 1990). Tuttavia, le recenti acquisizioni biochimico-farmacologiche (inclusi i modelli sperimentali e l’osservazione di forme iatrogene) ed i dati derivati dagli studi fisiopatologici con l’utilizzazione della tomografia ad emissione di positroni (PET), hanno avvalorato questa attribuzione.
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Fig. 2.30 - Atteggiamenti del corpo e degli arti in un gruppo di soggetti affetti da Morbo di Parkinson (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
Fig. 2.31 - Atteggiamenti assunti da malati di Morbo di Wilson: fissità di alcune posizioni corporee (disegno dall’originale di De Lisi, in: A. Ceconi e F. Micheli “Medicina Interna”, Torino, Minerva Medica, 1943).
zazione diagnostica può comportare erronee interpretazioni. Nonostante l’ausilio delle valutazioni neurofisiologiche o delle modificazioni farmacologicamente indotte, l’osservazione clinica resta tuttora il principale approccio diagnostico a questi disturbi. I criteri descrittivi semeiologici tengono in considerazione: a) i parametri spazio-temporali del movimento (ampiezza, durata, velocità, ritmo), b) la distribuzione topografica (prossimale-distale, focale-diffusa), c) i muscoli coinvolti (agonisti, antagonisti, sinergisti), d) l’influenza di fattori esterni (riposo, sonno, emozioni, motilità volontaria, atteggiamento posturale). I principali tipi di movimenti involontari patologici sono rappresentati da: corea, atetosi, ballismo, tremori, mioclonie, reazioni di soprassalto, distonie, discinesie, tic.
L’eziologia può risultare spesso sconosciuta (forme essenziali o idiopatiche) o dipendere da cause note (forme secondarie o sintomatiche). Spesso bizzarri e polimorfi, i movimenti involontari patologici risultano, talora, difficili da classificare e l’inaccuratezza nella categoriz-
MOVIMENTI COREICI. – Si tratta di movimenti rapidi, di breve durata ed ampiezza variabile, improvvisi ed imprevedibili, irregolari ed asimmetrici, che si presentano isolatamente od in sequenze casuali in qualsiasi parte del corpo, pur prediligendo le sedi più distali, il collo e la muscolatura mimica. In alcune condizioni ap-
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paiono più scattanti (Corea di Sydenham), in altre assumono un aspetto più lento e fluente (Corea di Huntington). Lo spettro dei movimenti coreici è estremamente ampio: corrugamento del sopracciglio, ammiccamento palpebrale, protrusione della lingua, increspamento delle labbra; flesso-estensione, rotazione, reclinazione o rovesciamento del capo; innalzamento ed adduzione delle spalle; inarcamento del tronco; dondolamento del bacino; flesso-estensione delle dita della mano o del piede; flesso-estensione, prono-supinazione del polso e della caviglia. Quando il quadro clinico è conclamato, il paziente presenta movimenti continui, fluttuanti da una parte all’altra del corpo (quasi una danza, dal termine greco «coreia»), che gli fanno assumere espressioni grottesche o un atteggiamento «clownesco». I movimenti coreici, che inizialmente possono essere inseriti in una sequenza motoria finalizzata (paracinesie), finiscono con l’interferire con la motilità volontaria compromettendo, ad esempio, l’uso corretto delle mani, la deambulazione ed anche la fonazione e la deglutizione. Sono usualmente associati ad ipotonia, accentuati dalle emozioni e scompaiono durante il sonno; possono essere attenuati, anche drasticamente, dai farmaci antagonisti della dopamina che causano una deplezione presinaptica di dopamina (tetrabenazina: 75-150 mg/die) o bloccano i recettori dopaminergici postsinaptici (cloropromazina: 75-300 mg/die; aloperidolo: 2-10 mg/die) ed in minor misura anche dai cosiddetti neurolettici ‘atipici’ (clozapina, olanzapina, quetiapina). Dal punto di vista EMG, i movimenti sono caratterizzati da un quadro variabile sia per l’ordine di attivazione che per la durata delle scariche EMG, più frequentemente con conservazione dell’innervazione reciproca. I movimenti coreici sono il segno dominante di a) diverse condizioni cliniche a decorso acuto, la principale delle quali è rappresentata dalla Corea di Sydenham, e b) della corea cro-
nica degenerativa o malattia di Huntington (Tab. 2.3). La lesione anatomica responsabile dei movimenti coreici interessa il corpo striato, in particolare il nucleo caudato (segmento cefalico) ove si rileva perdita neuronale e gliosi reattiva. MOVIMENTI ATETOSICI. – Sono movimenti involontari lenti, aritmici, continui e protratti nel tempo, di modesta ampiezza. Predominano alle estremità e sono particolarmente pronunciati agli arti superiori (flesso-estensione e adduzione-abduzione delle dita e della mano), ove realizzano posture bizzarre che ricordano i movimenti striscianti dei tentacoli del polipo o i movimenti delle dita delle danzatrici giavanesi. Possono, tuttavia, localizzarsi anche al settore cranico (faccia, lingua). I movimenti atetosici si osservano sia a riposo che nel mantenimento di specifiche attitudini o nel corso del movimento volontario; si accentuano con le emozioni, scompaiono nel sonno. Rispetto ai movimenti coreici appaiono più lenti, ma meno variabili: la distinzione tra questi due tipi di movimenti patologici, tuttavia, non è sempre agevole, anche perchè possono coesistere nelle forme di «coreo-atetosi» (Tab. 2.3). L’analisi elettrofisiologica dimostra caratteristiche simili a quelle delle distonie con la presenza di una contemporanea attivazione EMG dei muscoli agonisti ed antagonisti, seppur continuamente variabile nel tempo. L’identificazione del ruolo dei gangli basali nella patogenesi dell’atetosi risale alle osservazioni di C. Vogt e O. Vogt (1920) che ne descrissero l’associazione con lo status marmoratus e con lo status dismielinisatus dello striato. Le lesioni responsabili sono localizzate prevalentemente nel neostriato (putamen) e, meno frequentemente, nel pallido e possono far seguito ad encefalopatie neo-perinatali (atetosi doppia congenita), malattie eredo-degenerative (tra cui l’atrofia pallidale progressiva di van Bogaert) o essere secondarie a cause tossiche-metaboliche e, soprattutto, vascolari (atetosi post-emi-
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Tabella 2.3.- Classificazione eziologica delle coree (modificata da Shoulson, 1986). Ereditarie: – Malattia di Huntington – Corea benigna ereditaria – Neuroacantocitosi – Coreo-atetosi parossistiche (chinesigeniche e non) – Degenerazioni SNC (atrofia olivo-ponto-cerebellare, atassia teleangectasica, calcificazione dei gangli della base) – Disturbi neurometabolici (malattia di Wilson, malattia di Leigh, malattie lisosomiali) Infettive – – – –
o immunologiche: Corea di Sydenham Encefalite letargica Post-infettive e post-encefalitiche Immunomediate (LES, porpora di Schönlein-Henoch, sindrome di Beçhet)
Da farmaci e tossici: – Neurolettici, antiparkinsoniani, fenitoina, anfetamine, triciclici, contraccettivi orali – Alcool, monossido di carbonio, manganese, mercurio Endocrine e metaboliche: – Ipertiroidismo, iper-ipoparatiroidismo, corea delle gravide – Ipo-ipernatriemia, ipo-iperglicemia, encefalopatie epatiche e renali Vascolari (emicorea o coreo-atetosi) : – Lesioni ischemiche o emorragiche dei gangli della base, malformazioni artero-venose – Policitemia vera – Emicrania – Ematomi subdurali ed epidurali (post-traumatici)
plegiche). I movimenti atetosici possono essere attenuati dall’impiego di farmaci neurolettici: perfenazina (8-12 mg/die), pimozide (4-12 mg/ die), aloperidolo (8-12 mg/die). Occorre ricordare che quadri simil-atetosici (pseudoatetosi o atetosi sensoriale) possono riscontrarsi in pazienti con disturbi della sensibilità profonda (in particolare del senso di posizione) di diversa origine (malattie demielinizzanti, ecc.).
MOVIMENTI BALLICI. – Sono movimenti improvvisi, rapidi, aritmici, relativamente stereotipati, caratterizzati da una notevole ampiezza e da una cospicua energia potenziale. Generalmente si localizzano ad un emilato (emiballi-
smo), coinvolgendo prevalentemente la muscolatura prossimale, e sono evidenti soprattutto all’arto superiore ove determinano peculiari atteggiamenti posturali, per cui il paziente dà l’impressione di lanciare un oggetto con forza, quasi fosse un discobolo o un lanciatore di peso. Talora il movimento è localizzato ad un solo arto (monoballismo) ed è stato descritto, seppur estremamente raro, un ballismo bilaterale (biballismo o paraballismo). Il movimento è aumentato dalle emozioni e dallo sforzo fisico, ed abolito durante il sonno. La registrazione EMG dimostra la presenza di scariche di attivazione muscolare sincrone nei muscoli agonisti ed antagonisti, analoga-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
mente a quanto si osserva nelle distonie ed atetosi. La lesione responsabile dei movimenti ballici è usualmente situata nel nucleo subtalamico di Luys controlaterale: in genere si tratta di lesioni vascolari di tipo ischemico o emorragico, più raramente focali di altra natura (tumori, ascessi, malformazioni arterovenose, placche di demielinizzazione). Quadri clinici caratterizzati da movimenti ballici sono stati descritti, tuttavia, in rapporto a lesioni iuxta-Luysiane, tali da interrompere le connessioni associative con il pallido, ed anche a livello dello striato e del talamo. L’evoluzione clinica delle forme vascolari è, di solito, spontaneamente migliorativa nell’arco di 3-6 mesi; nelle fasi acute, i movimenti possono essere attenuati con l’impiego di farmaci neurolettici (perfenazina 8-12 mg/die; aloperidolo 812 mg/die). Occasionalmente, tuttavia, nei casi contraddistinti da una particolare intensità dei movimenti involontari e dalla scarsa risposta alle terapie farmacologiche è stata utilizzata la lesione, per via stereotassica, del nucleo talamico ventralis intermedius (Grossman, 1988). TREMORI. – Rappresentano il più comune dei movimenti involontari patologici e consistono in oscillazioni ritmiche (più o meno continue e regolari) di un segmento corporeo attorno al proprio piano di equilibrio, prodotte dalla contrazione di tipo alternante o sincrono di muscoli antagonisti ad innervazione reciproca. Il tremore si manifesta in conseguenza della sincronizzazione di più unità motorie che deriva dalle complesse interazioni tra l’attività autonoma di «oscillatori» situati nel sistema nervoso centrale (talamo, cervelletto) e l’influenza dei fenomeni di risonanza che si sviluppano nei circuiti periferici a feedback (Marsden, 1984). I tremori possono essere descritti in termini di frequenza, ampiezza, morfologia. La loro classificazione è sempre stata oggetto di accese controversie. Il criterio cui solitamente si fa riferimento prende in considerazione la condi-
zione posturale o l’attività motoria che ne determina più frequentemente la comparsa. In base a tale criterio, i tremori sono stati recentemente (Deuschl et al., 1998) suddivisi in a) tremore a riposo, e b) tremore d’azione, quest’ultimo comprendente le seguenti forme: 1. tremore posturale (posizione-specifico e posizione-indipendente), 2. tremore cinetico (semplice, intenzionale, compito-specifico, isometrico). Le principali cause di tremore sono indicate nella Tab. 2.4. Il tremore a riposo si manifesta in assenza di attività motoria, quando il relativo segmento corporeo è a totale riposo, mentre si attenua (o scompare) durante l’esecuzione di un movimento volontario o il mantenimento di una postura; la sua ampiezza è accentuata dalle emozioni e dallo stress, scompare durante il sonno. Si tratta di un tremore ritmico, regolare, a bassa frequenza (4-6 Hz. o scosse al secondo). Si localizza prevalentemente ai settori distali degli arti, in particolare alla mano (flesso-estensione, prono-supinazione) ove determina aspetti particolari (movimenti tipo «contar monete» o «confezionare pillole»). Può interessare anche il capo (labbra, mandibola) e, nelle forme più gravi, diffondersi a tutto il corpo. Questo tipo di tremore è classicamente espressione della malattia idiopatica di Parkinson, di cui rappresenta il sintomo di esordio (per lo più unilaterale) nel 60-70 % circa dei casi, per poi associarsi agli altri segni tipici della malattia. La registrazione EMG dimostra una contrazione alternante, ritmica dei muscoli agonistiantagonisti con frequenza compresa tra 4-6 Hz. (Fig. 2.32, A). I tremori d’azione compaiono durante la contrazione volontaria di uno o più muscoli, mentre sono assenti in condizioni di riposo. Possono quindi manifestarsi durante il mantenimento volontario di una specifica posizione o atteggiamento (posturale), talora con esacerbazione in posizioni specifiche, o durante l’esecuzione di movi-
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Tabella 2.4 – Classificazione eziologica dei tremori (modificata da Deuschl et al., 1998)
1.
2.
3.
4.
Malattia
Tipo di tremore
Malattie idiopatiche, degenerative ed ereditarie – Malattia di Parkinson – Parkinsonismo giovanile – Atrofia multisistemica – Malattia di Wilson – Atrofia pallidale progressiva – Malattia di Huntington
R-P R-P R-P-C R-P-C R R-P-C
– – – – – – – – –
R-C C P-C P P R-P P R-P-C P-C
Malattia di Fahr Coreo-atetosi parossistiche Sindrome di Ramsay-Hunt Atassia teleangectasia Distonia generalizzata Distonia levodopa-responsiva Distonie focali (torcicollo spasmodico, sindrome di Meige) Tremore essenziale Sindrome di Klinefelter
Malattie infiammatorie, neoplastiche e vascolari – Sclerosi multipla – Neurolue – Neuroborreliosi – HIV – Tumori, cisti – Ematomi, Malformazioni vascolari – Lesioni cerebrovascolari – Traumi
R-P-C R-P-C R - P -C P R-P-C R-P-C R-P-C R-P-C
Malattie metaboliche – Ipertiroidismo – Iperparatiroidismo – Ipomagnesemia – Ipocalcemia – Ipoglicemia – Encefalopatia epatica, degenerazione epato-cerebrale – Insufficienza renale – Carenza vitamina B12
P R-P R-P R-C P P-C P-C R-P-C
Neuropatie periferiche – Charcot-Marie-Tooth – Neuropatie demielinizzanti – Sindrome di Guillain-Barrè – Gammopatie monoclonali (IgM, IgG) – Distrofia simpatico-riflessa – Malassorbimento – Polineuropatie metaboliche
P-C P-C P-C P P P P (continua tabella 2.4)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
(Segue tabella 2.4)
5.
6.
Malattia
Tipo di tremore
Tossici e farmaci – Nicotina – Alcool – Cianuro – Mercurio, piombo, manganese, arsenico, ossido di carbonio – Neurolettici, Reserpina, Tetrabenazina, Metoclopramide – Litio – Triciclici – Cocaina – Simpaticomimetici, beta2-agonisti – Teofillina, Caffeina, Dopamina – Steroidi – Valproato – Amiodarone, Mexiletina, Procainamide – Citostatici, Ciclosporina – Ormoni tiroidei
P P-C P R-P-C R-P R-P-C P P P-C P R-P P P P-C P
Altri – Emozione, Fatica, Raffreddamento – Sindromi da astinenza – Psicogeno
P P-C R-P-C
R = Riposo, P = Posturale, C = Cinetico
menti volontari (cinetico), indirizzati o no ad un bersaglio preciso o parte di un compito specifico. Il tremore ‘posturale’ è spesso responsabile di una importante disabilità, oltre che dell’imbarazzo sociale che caratterizza anche il tremore a riposo. Si tratta di movimenti oscillatori rapidi, spesso irregolari, di ampiezza variabile, con un’ampia banda di frequenze (5-20 Hz.) più elevata rispetto a quella del tremore a riposo, che possono localizzarsi agli arti (sia nei settori distali che prossimali), ma anche al capo ed al tronco. A differenza del tremore a riposo parkinsoniano, la registrazione EMG dimostra solitamente la presenza di scariche sincrone nei muscoli agonisti ed antagonisti (Fig. 2.32, B). Questo tipo di tremore può riscontrarsi in molte condizioni differenti sia dal punto di vista eziopatogenetico che clinico (Tab. 2.4).
Il tremore fisiologico è generalmente presente in tutti gli individui normali a livello di ciascuna articolazione o muscolo che è libero di oscillare, ma a causa della sua ampiezza assai ridotta è molto difficile da apprezzare ad occhio nudo. Può essere evidenziato strumentalmente (quadro EMG di tipo alternante) e la sua frequenza dominante, maggiore nei settori distali rispetto a quelli prossimali è compresa tra 5-15 Hz. e varia in funzione dell’età (tra 6-10 Hz. prima dei 9 anni e dopo i 50 anni, superiore ai 10 Hz. tra 15-45 anni). Il tremore fisiologico è espressione dell’influenza di diversi fattori che concorrono a generare un’attività oscillatoria ritmica, quali: a) le oscillazioni legate al battito cardiaco, b) la frequenza iniziale di scarica delle unità motorie di circa 8 Hz., c) la frequenza naturale di risonanza meccanica degli arti protesi, tra 812 Hz., d) le oscillazioni intorno a 10 Hz., legate al-
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Il tremore essenziale presenta per lo più caratteristiche di tipo posturale, anche se meno frequentemente può essere osservato in condizioni cinetiche o di riposo. Diversi tipi di tremore sono stati descritti in associazione con neuropatie periferiche ereditarie o acquisite (c.d. tremore neuropatico). Il tremore, prevalentemente posturale, irregolare, può essere localizzato nei settori prossimali o distali con frequenza 3-10 Hz. L’origine di tale tremore è tuttora oggetto di discussione. Tra le forme di neuropatia in cui più frequentemente è riscontrabile tremore vanno ricordate: HMSN tipo I (v.pag. …), polineuropatie demielinizzanti croniche (v.pag. …), neuropatie paraproteinemiche (v.pag. …), neuropatie dismetaboliche (diabetica, uremica, porfirica) (v.pag. …), neuropatie da farmaci (amiodarone, citostatici). Il trattamento sintomatico (propranololo, gabapentin) può talora risultare utile. Fig. 2.32 - Registrazione elettromiografica di superficie dai muscoli flessori (1) ed estensori (2) del polso in un paziente con tremore «a riposo» parkinsoniano (A) ed in un paziente con tremore essenziale (B). Si noti: in A la presenza di scariche EMG alternanti nei due muscoli (con frequenza pari a circa 6 cicli per secondo), in B la presenza di scariche EMG sincrone nei due muscoli (con frequenza pari a 8 cicli per secondo).
l’instabilità dei servomeccanismi del circuito riflesso miotattico.
In diverse condizioni è possibile osservare un’accentuazione del tremore fisiologico, caratterizzata da un incremento della sua ampiezza (senza variazioni della frequenza tipica): ciò si verifica negli stati ansioso-emotivi, nell’affaticamento e in condizioni caratterizzate da un’aumentata attività beta-adrenergica periferica (tireotossicosi, ipoglicemia, feocromocitoma, farmaci beta-stimolanti). In questi casi, quindi, il tremore può essere controllato dalla somministrazione di farmaci beta-bloccanti (propranololo).
Nelle lesioni paleo-cerebellari può manifestarsi un tremore posturale, assente a riposo, caratterizzato da oscillazioni a bassa cadenza (4-5 Hz.) degli arti superiori indotte da una contrazione di tipo alternante (c.d. «tremore statico» di Holmes, 1922). Questo tipo di tremore può localizzarsi anche al capo («tremore di affermazione») ed al tronco. Tremori con caratteristiche di tipo posturale possono osservarsi, inoltre, nel morbo di Wilson ed in corso di encefalopatie epatiche acquisite (spesso in associazione ad aspetti di tipo cinetico): la localizzazione è prevalentemente distale agli arti superiori, ove si manifestano movimenti di flesso-estensione del polso, descritti come «a battito d’ala» (flapping tremor), che possono estendersi all’intero arto. Attualmente si ritiene che questo tipo di movimento sia prodotto, in larga parte, da brevi cadute del tono posturale (con transitoria cessazione dell’attività EMG), per cui viene considerato espressione di una forma di mioclonia negativa (v. «asterixis», pag. 66).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il tremore cinetico può essere osservato durante l’esecuzione di compiti motori semplici (ad esempio, movimenti rapidi alternati) o complessi, in particolare, durante l’esecuzione di movimenti ampi, ma diretti con precisione ad un «bersaglio» (ad esempio: nel portare un bicchiere alla bocca; durante la prova indice-naso, v. pag. 81). Assente a riposo e, spesso, nelle fasi iniziali del movimento, compare e si accentua progressivamente mano a mano che il movimento richiede aggiustamenti progressivi ed il «bersaglio» sta per essere raggiunto, interessando sia la muscolatura distale che prossimale. In conseguenza del tremore il movimento volontario appare come discontinuo, interrotto da scatti e riprese che avvengono bruscamente ed irregolarmente, con un’ampiezza variabile. Questa condizione va distinta dalle mioclonie d’azione e dall’atassia. Il quadro EMG è caratterizzato da scariche alternanti nei muscoli antagonisti, irregolari, con frequenza 4-5 Hz. Questo tipo di tremore si osserva tipicamente nei disturbi neo-cerebellari (lesione dei nuclei dentato ed interposito o dei peduncoli cerebellari superiori), la cui eziopatogenesi è frequentemente legata alla patologia demielinizzante (sclerosi multipla). Tremori analoghi si possono riscontrare nelle sindromi troncali (anche post-traumatiche). Non esiste alcuna terapia farmacologica sicuramente documentata per il tremore cinetico, anche se sono stati segnalati singoli casi rispondenti ai farmaci.
Alcune forme di tremore risultano non facilmente classificabili, in considerazione del fatto che possono manifestarsi e persistere in tutte le condizioni. Lesioni mesencefaliche con interessamento del nucleo rosso o delle connessioni dentatotalamiche possono dare origine ad un tremore («rubrale» o mesencefalico) (4 Hz.) che accomuna caratteristiche semeiotiche dei tre tipi
principali (presente a riposo, si accentua in condizioni posturali e cinetiche). Anche i tremori indotti da farmaci o che compaiono in seguito all’ingestione o inalazione di sostanze tossiche (mercurio, piombo, arsenico, manganese, fosforo, ossido di carbonio) presentano solitamente caratteristiche variabili. MIOCLONIE. – Le mioclonie sono una manifestazione comune a numerose condizioni morbose neurologiche e fra tutti i disturbi del movimento risultano certamente uno dei più difficili da classificare: esistono, infatti, molti tipi di mioclonie e spesso non si riscontrano fattori eziologici, fisiopatologici o clinico-terapeutici che le accomunino. La mioclonia può essere definita come un movimento involontario, rapido ed improvviso, espressione di una breve contrazione muscolare analoga a quella ottenibile mediante stimolazione elettrica di un tronco nervoso periferico (Marsden et al., 1981). Questa definizione va, in realtà, allargata per comprendere anche il fenomeno della «asterixis» che consiste in una breve inibizione della contrazione muscolare (potenzialmente responsabile di una caduta del tono posturale) e può essere considerata una forma di mioclonia negativa. Le mioclonie possono assumere aspetti molto variabili, tali da porre problemi di diagnosi differenziale rispetto ad altri movimenti involontari patologici (tics, corea, distonia, tremore posturale). Dal punto di vista semeiologico possono essere descritte in base alla: – distribuzione spaziale: a) focali (interessano una sola regione corporea, anche in modo parcellare, con o senza spostamento di segmento); b) segmentali (interessano due o più regioni contigue); c) multifocali; d) generalizzate o massive; – distribuzione temporale: a) intermittenti o permanenti; b) ritmiche o aritmiche; c) sincrone o asincrone; – modalità di comparsa: a) spontanee; b) riflesse stimolo-dipendenti, indotte da improv-
Funzione motoria
vise stimolazioni visive, uditive, esterocettive o propriocettive; c) d’azione o intenzione, che si manifestano durante una contrazione muscolare (movimento volontario o mantenimento di una postura) o, perfino, in rapporto all’intenzione di muovere. Le mioclonie possono essere espressione di un’ampia varietà di condizioni patologiche interessanti l’encefalo, ma anche il midollo ed il sistema nervoso periferico, di cui possono rappresentare uno degli aspetti più caratteristici, ma non necessariamente quello prevalente (c.d. «sindromi miocloniche»), o costituire, invece, l’elemento clinico dominante («mioclono» p.d.). Tale eterogeneità clinica si riflette nelle classificazioni eziologiche proposte (Tab. 2.5) che distinguono le mioclonie in: a. Fisiologiche, che si osservano in individui del tutto normali, tipiche quelle dell’addormentamento (De Lisi, 1932); b. Essenziali, ad eziologia ignota, prive di un preciso substrato neuropatologico e senza altri segni neurologici associati; c. Epilettiche (in cui le manifestazioni comiziali sono l’aspetto dominante del quadro clinico, in assenza di una sicura encefalopatia); d. Sintomatiche (espressione di una encefalopatia diffusa o focale, a carattere progressivo o stazionario). La distribuzione neuropatologica delle lesioni responsabili dei fenomeni mioclonici può non coincidere con la sede della scarica nervosa che determina la contrazione muscolare involontaria. L’analisi elettrofisiologica può, tuttavia, contribuire all’identificazione dei meccanismi fisiopatologici responsabili delle mioclonie tramite: la registrazione dell’attività EMG dei muscoli coinvolti al fine di definire la durata e l’ordine di attivazione EMG ed i rapporti tra muscoli agonisti-antagonisti; la registrazione dell’attività EEG temporizzata con la scarica EMG al fine di definire i rapporti temporali tra eventi EMG ed EEG; lo studio dei fenomeni associati alle mioclonie indotte in via riflessa (potenziali evocati somestesici, riflesso C). Sulla base dei dati clinici ed elettrofisiologici, Obeso et al. (1988) hanno proposto una classificazione fisiopatologica delle mioclonie: 1. Mioclonie corticali (a distribuzione prevalentemente focale, distale) espressione dell’attività anomala
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di un focolaio, sito nella corteccia sensitivo-motoria, trasmessa al midollo spinale attraverso la via piramidale. Le scariche EMG di breve durata, 10-50 millisecondi, presentano un ordine di attivazione discendente e sono precedute, a breve latenza, da un correlato EEG focale. L’ampiezza dei potenziali evocati somestesici è solitamente aumentata («potenziali giganti»). 2. Mioclonie sottocorticali (a distribuzione prevalentemente generalizzata, prossimale) in cui l’attività patologica origina da strutture poste tra la corteccia cerebrale ed il midollo spinale (in particolare, dal nucleo giganto-cellulare della formazione reticolare del tronco). Le scariche EMG di durata superiore ai 100 millisecondi indicano un ordine di attivazione ascendente lungo il tronco e discendente lungo il midollo, in assenza di correlati EEG. 3. Mioclonie cortico-sottocorticali (a distribuzione multifocale o generalizzata), espressione di una scarica corticale diffusa tramite vie cortico-reticolo-spinali o dell’attività di focolai sottocorticali a proiezione corticale. Le scariche EMG, tipicamente sincrone e di durata variabile tra 10-100 millisecondi, possono essere precedute da potenziali EEG bilaterali. 4. Mioclonie spinali e periferiche (a distribuzione focale o segmentale), caratterizzate da scariche EMG sincrone e ritmiche, di durata superiore a 100 millisecondi, ovviamente senza alcun correlato EEG. Esprimono l’iperfunzione di sistemi neuronali spinali o propriospinali, anche secondaria a lesioni radicolari o plessuali. Dati farmacologici clinici e sperimentali depongono per il coinvolgimento di diversi neurotrasmettitori (serotonina, GABA, aminoacidi eccitatori, dopamina, acetilcolina, neuropeptidi) (Pranzatelli e Snodgrass, 1985) nella genesi delle mioclonie. Tra i farmaci più efficaci nel controllo delle mioclonie vanno considerati: a. gli agonisti serotoninergici, precursori (5-idrossitriptofano: 150-1000 mg/die in associazione con carbidopa) ed inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (fluoxetina: 20-40 mg/die), attivi in particolare nelle forme di mioclono d’azione post-anossico, b. gli agonisti GABAergici (clonazepam: 4-10 mg/die; sodio valproato: 150-3000 mg/die; primidone: 500-750 mg/die), indicati nelle epilessie miocloniche. Risultati clinici favorevoli sono stati occasionalmente descritti con il piracetam (10-24 g/die) e gli agonisti dopaminergici (lisuride: 1-6 mg/die).
REAZIONI DI SOPRASSALTO. – La reazione di soprassalto (startle response) consiste in una risposta motoria generalizzata, di natura riflessa polisinaptica, evocabile in tutte le specie di mammiferi. Si manifesta in seguito a stimoli
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.5 - Classificazione eziologica delle mioclonie (modificata da Fahn e coll., 1986). 1. Mioclonie – – –
Fisiologiche ipniche e/o notturne singhiozzo da stress, ansia, fatica
2. Mioclonie Essenziali – familiari (ereditarietà autosomica dominante) – sporadiche 3. Mioclonie Epilettiche A. Forme frammentarie: – mioclonie epilettiche isolate – epilessia parziale continua – mioclono idiopatico stimolo-dipendente – mioclono fotosensibile – assenze miocloniche del “piccolo male” B. Epilessie miocloniche infantili: – spasmi infantili – epilessia astatica mioclonica (Lennox-Gastaut) – epilessia mioclonica criptogenetica (Aicardi) – epilessia mioclonica del risveglio (Janz) C. Epilessia familiare mioclonica benigna (Rabot) D. Epilessia mioclonica progressiva (Unverricht-Lundborg) 4. Mioclonie Sintomatiche A. Malattie da accumulo: malattia con corpi di Lafora, lipidosi, ceroidolipofuscinosi, sialidosi B. Degenerazioni spino-cerebellari: sindrome di Ramsay-Hunt, atassia di Friedreich, atassia-teleangectasia C. Malattie degenerative dei gangli basali: morbo di Wilson, distonia, malattia di Hallervorden-Spatz, sindrome di Steele-Richardson-Olszewski, malattia di Huntington, morbo di Parkinson, degenerazioni cortico-basali, degenerazioni pallidali, atrofie multisistemiche D. Encefalopatie mitocondriali E. Demenze: malattia di Alzheimer, malattia di Creutzfeldt-Jacob F.
Encefalopatie virali: encefalite letargica, encefalite herpetica, encefaliti postinfettive, encefaliti da arbovirus, panencefalite sclerosante subacuta
G. Encefalopatie metaboliche: insufficienza epatica, insufficienza renale, sindrome dialitica, iponatriemia, ipoglicemia, iperglicemia non chetogena, carenze carbossilasi, encefalopatia mioclonica infantile H. Encefalopatie tossiche: da bismuto, da metalli pesanti, da DDT, da metil-bromuro, da farmaci (inclusi triciclici e levodopa) I.
Encefalopatie da agenti fisici: post-ipossica, post-traumatica, da calore, da folgorazione, da trauma decompressivo
L. Danno cerebrale focale: esiti ictus, traumi, tumori, talamotomia, lesioni spinali, lesioni olivo-dentate (mioclono palatale)
Funzione motoria
(per lo più acustici) inattesi e nell’uomo è rappresentata da un rapido ammiccamento, cui fanno seguito (con latenza crescente) una smorfia del viso, la flessione del capo, l’abduzione delle spalle, la flessione dei gomiti, la pronazione degli avambracci e, talora, la flessione del tronco (in avanti), delle anche e delle ginocchia. Possono essere presenti, inoltre, manifestazioni vegetative (tachicardia, apnea) e reazioni emozionali. È stato dimostrato nell’animale che la componente più precoce della reazione di soprassalto a stimoli acustici è generata a livello del tronco encefalico e trasmessa attraverso vie reticolo-spinali (Davis et al., 1982). La risposta, inoltre, è tipicamente caratterizzata da fenomeni di abitudine (precoce o tardiva), sensibilizzazione e potenziamento.
La normale reazione di soprassalto è sufficientemente rapida da poter essere considerata una forma di «mioclono fisiologico». In alcuni individui, tuttavia, può verificarsi un’esagerazione patologica della reazione di soprassalto, sospettabile ogniqualvolta la risposta motoria assuma caratteristiche di particolare violenza e complessità o si manifesti in seguito a stimoli di scarsa intensità. Le sindromi cliniche caratterizzate da una accentuazione patologica della reazione di soprassalto appaiono di difficile classificazione in rapporto all’incertezza circa i meccanismi fisiopatologici ed il substrato anatomico e vengono, solitamente, accomunate sotto la definizione di «iperecplessia». Questa condizione comprende, quindi, sia forme ereditarie che sintomatiche. L’iperecplessia ereditaria (autosomica dominante) può esordire nell’infanzia con ipertonia flessoria diffusa e mioclonie notturne ad andamento spontaneamente migliorativo. Persistono, invece, reazioni di soprassalto di intensità variabile, ma talora tale da compromettere la deambulazione e causare improvvise cadute a terra. La sintomatologia risponde positivamente al trattamento con clonazepam. Sindromi iperecplessiche possono manifestarsi come espressione sintomatica di: lesioni troncali (infiammatorie, emorragiche), encefalopatia ipossica-ischemica, cause psicogene, intossicazione farmacologica (cocaina, anfetamine), sindrome di Gilles de la Tourette (Matsumoto e Hallett, 1994).
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Una condizione nosografica autonoma è costituita dalla c.d. «epilessia da soprassalto» consistente in crisi comiziali, scatenate da stimolazioni improvvise e precedute da una reazione di soprassalto, che si manifestano in soggetti con encefalopatia diffusa.
DISTONIE. Con questo termine si definisce un disturbo caratterizzato da contrazioni muscolari involontarie toniche, protratte nel tempo, che possono interessare diverse parti del corpo (faccia, capo, tronco, arti), responsabili di movimenti ripetitivi, per lo più a carattere torsionale, o di posture anomale. Va sottolineato, tuttavia, che il termine «distonia», oltre che in senso semeiologico, viene oggi abitualmente utilizzato per indicare una specifica condizione morbosa (inizialmente descritta da Oppenheim nel 1911 come dystonia muscolorum deformans) che costituisce un’entità sindromica attribuibile a numerose cause (Tab. 2.6).
Le posture distoniche, spesso accompagnate da una sensazione soggettiva di irrigidimento muscolare, si localizzano prevalentemente agli arti, sia prossimalmente che distalmente, ed al tronco; sono scatenate o aggravate dai movimenti volontari e presentano una durata variabile da pochi minuti a molte ore. I movimenti distonici, usualmente lenti, possono talora assumere una particolare rapidità (del tutto simile alle mioclonie) od associarsi a movimenti ritmici («tremore distonico»), rendendo difficile l’identificazione semeiologica. Sono aggravati dall’affaticamento o dalle emozioni e ridotti dal rilassamento, l’ipnosi, il sonno. Possono essere indotti dai movimenti volontari e manifestarsi in rapporto ad attività motorie specifiche («distonia di azione») ed essere attenuati, o temporaneamente aboliti da specifiche manovre tattili o propriocettive («gesti antagonisti»). Inizialmente limitati a pochi gruppi muscolari, i movimenti distonici tendono ad aumentare di intensità e ad interessare la muscolatura adiacente, determinando la comparsa degli specifici aspetti torsionali. Dal punto di vista topografico le distonie possono essere distinte in: a. focali, che interes-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.6 - Distonie: classificazione eziologica (modificata da Jankovic e Fahn, 1987). 1. Forme Primarie o Idiopatiche A. Familiari – Distonia generalizzata ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, eterosomica X recessiva) B. Familiari o Sporadiche – Distonia con fluttuazioni diurne (sensibile alla levodopa) – Distonia parossistica (cinesigenica e non cinesigenica) – Parkinsonismo distonico C. Sporadiche – Generalizzate, Segmentali, Focali, Multifocali (distonia cervicale o torcicollo spasmodico, distonie o crampi occupazionali, distonia oromandibolare, blefarospasmo, distonia laringea o disfonia spasmodica, distonia faringea, distonia linguale) 2. Forme Secondarie o Sintomatiche A. In corso di malattie neurologiche degenerative: – Morbo di Wilson – Malattia di Huntington – Malattia di Steele-Richardson-Olszewski – Atrofia pallidale progressiva – Malattia di Hallervorden-Spatz – Malattia di Joseph – Atassia-teleangectasia – Neuroacantocitosi – Sindrome di Rett – Malattia da inclusioni intraneurali – Necrosi striatale bilaterale infantile – Calcificazioni familiari dei gangli basali B. In corso di malattie metaboliche: – Alterazioni del metabolismo proteico (acidemia glutarica, aciduria metilmalonica, omocistinuria, malattia di Hartnup, tirosinosi) – Alterazioni del metabolismo lipidico (leucodistrofia metacromatica, ceroido-lipofuscinosi, gangliosidosi GM1-GM2, lipidosi distonica giovanile) – Alterazioni metaboliche diverse (sindrome di Leigh, malattia di Leber ed encefalopatie mitocondriali, sindrome di Lesh-Nyhan, carenza di vitamina E) C. Da cause specifiche – Danno cerebrale perinatale (ipossia, ittero nucleare) – Infezioni (encefaliti virali, encefalite letargica, tubercolosi, sindrome di Reye, malattia di Jakob-Creutzfeldt, sifilide, AIDS) – Traumi cranici e periferici – Dislocazione atlanto-epistrofea, sublussazione – Ischemie cerebrali focali – Tumori cerebrali – Malformazioni arterovenose – Mielinolisi pontina centrale – Sostanze tossiche (manganese, ossido di carbonio, disolfuro di carbonio, metanolo) – Farmaci (neurolettici, metoclopramide, levodopa, bromocriptina, ergotaminici, anticomiziali) D. Forme Psicogene
Funzione motoria
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I fenomeni distonici possono essere caratterizzati da quadri EMG diversi: a) attività continua della durata di 2-30 secondi, interrotta da brevi periodi di inattività; b) attività più breve, fino a 2 secondi, spesso ripetitiva e ritmica («mioritmia»); c) attività di breve durata, 100-300 millisecondi, simile a quella delle mioclonie. I movimenti distonici sono caratterizzati da una coattivazione simultanea dei muscoli agonisti-antagonisti e dalla diffusione dell’attivazione EMG a muscoli lontani non impegnati direttamente nel movimento (overflow).
Fig. 2.33 - Atteggiamento assunto per distonia di torsione (torcicollo spasmodico) (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
sano una sola parte del corpo; b. segmentali (cranio-cervicali, assiali, brachiali, crurali) (Fig. 2.33); c. generalizzate, che consistono nella combinazione di una distonia segmentale crurale con segni distonici di qualunque altro segmento; d. multifocali, in cui sono coinvolte due parti non contigue del corpo; e. emidistonia, in cui sono colpiti i due arti ipsilaterali. Movimenti involontari o posture anomale di natura distonica possono essere osservati in molte condizioni morbose neurologiche (Tab. 2.6), di cui le forme «idiopatiche» rappresentano solo una parte. Gli studi neuropatologici in soggetti con forme distoniche idiopatiche non hanno evidenziato alterazioni specifiche, mentre nella maggioranza delle forme secondarie è stata individuata una lesione del nucleo lenticolare con interessamento prevalente del putamen.
Il trattamento farmacologico delle distonie risulta scarsamente efficace (fa eccezione la distonia levodopasensibile). Tra le molte sostanze farmacologiche utilizzate (benzodiazepine, neurolettici, dopaminergici) i risultati migliori sono stati ottenuti con l’impiego di farmaci anticolinergici a dosi elevate (triesifenidile, 20-50 mg/die) tali, tuttavia, da rendere spesso precaria la tollerabilità. Il trattamento di scelta delle principali forme di distonia focale viene attualmente individuato nell’infiltrazione locale con la tossina botulinica A (v. pag….). Il termine «spasmo», un tempo ampiamente utilizzato per indicare anche manifestazioni di tipo distonico (ad esempio, «spasmo di torsione»), è oggi ritenuto generico ed ambiguo. Il suo impiego è limitato, attualmente, ad alcune specifiche condizioni morbose, quali: spasmo faciale, spasmo tetanico, spasmo nella tetania, spasmi nella ‘sindrome dell’uomo rigido’ (v. pag. 35), spasmi infantili nella sindrome di West. Spasmo faciale. Si tratta di una condizione caratterizzata da contrazioni involontarie (toniche o cloniche) che interessano unilateralmente (‘emispasmo’) la muscolature innervata dal nervo faciale, sia superiore (muscoli orbicolare dell’occhio, frontale, corrugatore del sopracciglio) sia inferiore ( muscoli zigomatico, buccinatore, elevatore dell’angolo della bocca, quadrato del mento, platisma). Solo eccezionalmente sono stati descritti casi bilaterali. Tale condizione deve essere distinta dai movimenti sincinetici che possono fare seguito ad una paresi del VII nervo cranico (v. pag. 275). Si ritiene che, nella maggioranza dei casi, la causa sia costituita da un ‘conflitto nervo-vascolare’ (talora, evidenziabile tramite studio di angio-risonanza), per cui sono stati proposti interventi chirurgici di micro-decompressione. Tuttavia, lo spasmo del faciale può essere efficacemen-
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te controllato tramite l’infiltrazione locale di tossina botulinica (Berardelli et al., 1997). Spasmo tetanico. Può essere generalizzato o localizzato, continuo o discontinuo. Generalmente inizia ai muscoli masticatori (trisma), quindi interessa i muscoli facciali (risus sardonicus), il collo (rotazione del capo), il tronco (opistotono), ecc. L’interpretazione neurofisiologica di questa contrattura è già stata accennata nel capitolo delle alterazioni del tono muscolare (v. pag. 35). Spasmo nella tetania. È causato dalla ipocalcemia e dalla alcalosi e si manifesta essenzialmente alla muscolatura delle estremità (da cui la dizione di «spasmo carpo-pedale»). Quando si manifesta all’arto superiore, si osserva classicamente la «mano da ostetrico» con polso in flessione, pollice addotto, dita unite e flesse all’articolazione metacarpo-falangea. Caratteristica è la ipereccitabilità dei nervi periferici alla stimolazione meccanica, a cui conseguono contratture. Su questo fenomeno si basano i segni clinici da ricercare per svelare una tetania latente: segno di Chvostek, percuotendo a livello dell’apofisi zigomatica (3 cm al davanti del condotto uditivo esterno) si ottiene la contrazione dei muscoli facciali; segno di Lust, percuotendo il nervo sciatico-popliteo esterno a livello della testa del perone si ottiene la contrazione dei muscoli peronei; segno di Trousseau, applicando al braccio del paziente con un manicotto di sfingomanometro una pressione di poco superiore a quella arteriosa massima si ottiene uno spasmo della mano. Caratteristica è, nei periodi intercritici della tetania, la registrazione elettromiografica di particolari potenziali («doppiette», «triplette», «multiplette», le cui singole componenti sono più brevi della durata del potenziale di unità motoria ma più lunghe di quello di fibrillazione), presenti occasionalmente a riposo ed in genere indotti dalla iperventilazione o dall’ischemia. Sindrome dell’uomo rigido (v. pag. 35). In questo quadro clinico, la sintomatologia è caratterizzata da crampi muscolari dolorosi e spasmi della muscolatutra paraspinale che possono causare una lordosi secondaria. Gli spasmi dolorosi possono essere provocati dall’attività motoria o dallo stress. Gli studi neurofisiologici hanno documentato un’iperattività delle unità motorie che si ritiene dipenda dalla disinibizione delle vie discendenti desinate alle cellule di Renshaw.
DISCINESIA. Questo termine viene utilizzato, non senza qualche ambiguità, nella letteratura anglosassone come sinonimo di «movimenti involontari patologici» (Marsden, 1986), oppu-
re ad indicare alcuni tipi di disturbi del movimento indotti farmacologicamente. In senso restrittivo il termine va riferito a movimenti involontari, rapidi, aritmici, di aspetto simile ai movimenti coreici ma da questi distinguibili per l’andamento ripetitivo e stereotipato, che colpiscono la muscolatura del volto e in particolare la regione bucco-linguale: movimenti di protrusione della lingua, masticazione, suzione, schiocco delle labbra e smorfie talora grottesche. Scompaiono nel sonno, sono influenzati dalle emozioni e dal grado di attenzione del soggetto (che può esercitarne un parziale controllo volontario). Le discinesie possono essere distinte in primarie (assai rare che insorgono, senza causa apparente, in soggetti spesso edentuli, specie di sesso femminile, dopo i 50 anni di età) e secondarie, usualmente indicate come «discinesie tardive», che si osservano in circa il 20 % dei pazienti affetti da malattie mentali e sottoposti a trattamento cronico con farmaci neurolettici. Le discinesie tardive sono spesso caratterizzate, oltre che dalla usuale localizzazione alla regione bucco-linguale, anche da movimenti stereotipati di altre parti corporee (oscillazione del tronco, tamburellamento delle dita delle mani o dei piedi) e, talora, ad altri segni dell’impregnazione da neurolettici (fenomeni distonici, segni parkinsoniani). La denominazione «tardive» si riferisce al fatto che queste complicanze si manifestano dopo un prolungato periodo di trattamento con neurolettici (in genere molti mesi), talora, anche dopo un intervallo libero dalla sospensione del trattamento. I rapporti cronologici con il trattamento hanno sollevato qualche dubbio circa l’ipotesi che le discinesie tardive siano causate da una iperattività funzionale nigrostriatale, successiva all’ipersensibilità dei recettori dopaminergici indotta dal trattamento con neurolettici (Klawans, 1973). Il trattamento delle discinesie tardive si basa, quando possibile, sulla sospensione dell’agente causale neurolettico; tale misura, tuttavia, può rivelarsi inefficace in
Funzione motoria un’elevata percentuale di casi. Strategie alternative includono: la deplezione presinaptica di dopamina (reserpina: 6 mg/die); l’impiego di neurolettici con minor affinità per i recettori striatali D2 (clozapina, olanzapina, quetiapina); l’utilizzazione di farmaci dopaminomimetici (apomorfina, bromocriptina). Sconsigliabile l’uso degli anticolinergici o l’incremento del dosaggio dei farmaci neurolettici responsabili (nonostante l’iniziale effetto benefico).
Il termine «discinesie» viene utilizzato, infine, ad indicare i movimenti involontari patologici che compaiono nei pazienti affetti da malattia di Parkinson (o sindromi parkinsoniane) in rapporto al trattamento con levodopa. Tali discinesie rappresentano uno degli aspetti caratteristici della «sindrome da trattamento prolungato con levodopa» (v. pag. ???). TIC. Si tratta di movimenti improvvisi, rapidi e stereotipati, che si ripetono ad intervalli irregolari ed imitano movimenti coordinati, determinando azioni gestuali o posture forzate con modalità compulsive. I pazienti avvertono spesso un impulso irresistibile ad eseguire il movimento «ticcoso», la cui esecuzione è seguita da una sensazione di sollievo (riduzione dell’ansia e della tensione interna). I tic possono, quindi, essere soppressi volontariamente per un breve e variabile periodo di tempo, ma ciò si verifica a spese di un aumento della tensione interna. Fortemente influenzati dallo stato emozionale del soggetto, i tic possono persistere nel sonno. Il riscontro di un parziale controllo volontario dei tic ha condotto a formulare l’ipotesi di un’origine psicogena di questo disturbo. Attualmente numerose evidenze cliniche e sperimentali suggeriscono una genesi organica dei tic (che sarebbero generati da strutture sottocorticali tramite meccanismi che coinvolgono il sistema dopaminergico), anche se questa teoria non è universalmente accettata. Dal punto di vista semeiologico possono essere distinti in 1) motori e fonici (vocali), 2) semplici e complessi.
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I tic motori semplici sono costituiti da brevi ed irregolari contrazioni muscolari di isolati segmenti corporei (in particolare: le palpebre, la muscolatura facciale, il collo, le spalle), mentre i tic motori complessi sono rappresentati da movimenti coordinati che coinvolgono in modo sinergistico numerosi gruppi muscolari. I tic fonici, semplici e complessi, comprendono un’ampia varietà di suoni, rumori inarticolati e fonemi. Il più noto, ma non sempre il più frequente, dei tic vocali complessi è il fenomeno della «coprolalia», per cui il paziente pronunzia parole oscene, spesso gergali o abbreviate. Una grande varietà di altre manifestazioni motorie si possono associare ai tic: comportamenti ossessivi e compulsivi, coproprassia (eseguire gesti osceni), ecoprassia ed ecolalia (imitare gesti o suoni), iperattività motoria con deficit attenzionali, auto-mutilazioni. Le cause dei tic sono molteplici (Tab. 2.7); per lo più si tratta di condizioni idiopatiche, in larga maggioranza infantili, in cui i maschi sono colpiti più frequentemente delle donne e le manifestazioni cliniche presentano un ampio spettro di gravità e complessità. La sindrome di Gilles de la Tourette esordisce nell’infanzia o adolescenza con tic motori che interessano il settore cranico. Successivamente si sviluppa un’eterogenea produzione di tic vocali e gestuali, semplici o complessi, che possono imitare pressochè qualsiasi movimento o espressione umana. Il decorso cronico è caratterizzato dalla variabilità delle manifestazioni ticcose e dalla tendenza ciclica a periodiche remissioni e riacerbazioni; la malattia raggiunge la sua massima espressione durante l’adolescenza ed una limitata percentuale di pazienti presenta una remissione completa durante la pubertà. I tic si associano ad alterazioni comportamentali (difficoltà attenzionali con basso rendimento scolastico, comportamenti ossessivo-compulsivi) che spesso rappresentano il principale problema sociale. La causa della sindrome di Gilles de la Tourette è sconosciuta: il riscontro di un’elevata incidenza di familiari affetti ha fatto ipotizzare una possibile ereditarietà autosomico dominante con penetranza legata al sesso, ma fattori non genetici (stress materno, ipertermia, infezioni) svolgono verosimilmente un ruolo rilevante. Anche il substrato anatomico risulta incerto e
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Tabella 2.7. - Classificazione eziologica dei tic. Idiopatici: Tic semplici transitori dell’infanzia (durata < 1 anno) Tic semplici o complessi persistenti dell’infanzia Tic semplici o complessi cronici Tic senili Sindrome di Gilles de la Tourette Secondari o acquisiti: Post-infettivi (post-encefalitici, encefalite letargica, corea di Sydenham, malattia di Jacob-Creutzfeldt) Post-traumatici Post-lesioni vascolari Da farmaci: stimolanti (anfetamine, metilfenidato), levodopa, neurolettici, antiepilettici (carbamazepina, dintoina, fenobarbitale) Da intossicazione con monossido di carbonio Da alterazioni cromosomiche In corso di malattie degenerative (malattia di Huntington, neuroacantocitosi, distonie)
sembra costituito da un’alterazione di circuiti frontali sottocorticali (è stata descritta, inoltre, una riduzione volumetrica del putamen e del nucleo lenticolare).
Il trattamento farmacologico è basato sulla utilizzazione di antagonisti della dopamina (aloperidolo, fenotiazine, pimozide); il loro impiego non è privo di possibili complicanze (parkinsonizzazione, discinesie tardive), per cui in considerazione dell’età dei pazienti e del decorso cronico vengono preferiti, nelle forme iniziali o lievi, approcci farmacologici diversi (clonidina, clonazepam, tossina botulinica).
Considerazioni conclusive sui disturbi della motilità I. – Alterazioni del livello spino-muscolare e piramidale
centrale», «primo motoneurone» e «neurone motore superiore»). La via motoria che dai nuclei motori spinali o dai nuclei motori dei nervi cranici raggiunge il muscolo è indicata come via motoria periferica («neurone motore periferico», «secondo motoneurone» o «neurone motore inferiore»). Gli elementi semeiotici descritti sinora permettono di distinguere, quando si osserva una riduzione o un’abolizione della motilità volontaria (denominata rispettivamente paresi o plegia), se si tratta di una lesione del neurone motore centrale o del neurone periferico, proponendo già all’inizio una diagnosi di sede di lesione a livello delle strutture nervose deputate alla motilità volontaria. Le caratteristiche semeiotiche della paralisi o paresi da lesione del neurone motore centrale o periferico sono le seguenti: PARALISI DA LESIONE DEL NEURONE MOTORE CENTRALE (PARALISI CENTRALE)
A – Paralisi centrale e paralisi periferica La via motoria, che dalla corteccia raggiunge i nuclei motori spinali o i nuclei dei nervi cranici motori, è indicata complessivamente come via motoria centrale («neurone motore
1) la paralisi o paresi interessa molti gruppi muscolari e mai un muscolo isolato; 2) il tono muscolare è aumentato e presenta le tipiche caratteristiche piramidali (spasticità o ipertonia spastica);
Funzione motoria
3) i riflessi profondi sono aumentati, talora con risposta multipla (trepidanti o policinetici) fino all’eventuale comparsa di cloni; i riflessi superficiali sono assenti o diminuiti dal lato della lesione; sono presenti riflessi patologici (segno di Babinski, ecc.); 4) l’atrofia è assente o molto modesta (da ascrivere al non uso, salvo talora per le lesioni parietali, come descritto precedentemente); 5) movimenti sincinetici o sincinesie possono esistere nei muscoli paralizzati. PARALISI DA LESIONE DEL NEURONE MOTORE PERIFERICO (PARALISI PERIFERICA) 1) la paralisi può interessare muscoli isolati o gruppi di muscoli; 2) il tono muscolare è ridotto; 3) i riflessi profondi sono diminuiti o assenti; quelli superficiali possono pure essere assenti o diminuiti. Non sono presenti riflessi patologici; 4) l’atrofia è marcata e localizzata ai gruppi muscolari paralizzati; 5) le fascicolazioni sono spesso presenti; 6) fenomeni vasomotori sono presenti in maniera molto netta; 7) i movimenti sincinetici (sincinesie) sono assenti; 8) l’elettromiografia dimostra una completa o parziale denervazione. PARALISI DA LESIONE MUSCOLARE 1) il deficit di forza di norma interessa, in maniera simmetrica, gruppi muscolari con maggior compromissione di quelli prossimali; è, tuttavia possibile una distribuzione distale (anche asimmetrica) ed un interessamento selettivo ‘focale’; 2) i riflessi profondi possono essere diminuiti o assenti, sempre in proporzione al deficit di forza; 3) il tono muscolare ha un comportamento consensuale a quello dei riflessi;
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4) l’atrofia muscolare è sempre presente ed in alcune forme può prevalere sull’ipostenia; un ingrossamento muscolare (“pseudoipertrofia”) è presente in alcune miopatie; 5) le sensibilità non sono compromesse; 6) le fascicolazioni sono di norma assenti; è possibile la presenza di miotonia; 7) l’elettromiografia dimostra alterazioni ‘miogene’.
B – Aspetti semeiotico-clinici dei disturbi della motilità volontaria Emiplegia o emiparesi: questo termine definisce un’abolizione o diminuzione della motilità volontaria che interessa una metà del corpo, determinata da una lesione delle vie piramidali a livello dell’emisfero cerebrale controlaterale o del tronco encefalico o a livello dei primi segmenti cervicali. Una lesione corticale che comprenda tutta la superficie motoria dell’area 4, compreso il lobulo paracentrale, è praticamente impossibile. La tipica emiparesi capsulare presenta alcune caratteristiche particolari: a) i muscoli delle due metà del corpo, che usualmente agiscono insieme (ad esempio orbicolare delle palpebre, muscoli laringei, muscoli intercostali, ecc.) non sono paralizzati poiché i nuclei motori del tronco possiedono un’innervazione cerebrale bilaterale; b) i muscoli del facciale inferiore risultano ipostenici all’emilato paretico durante la contrazione volontaria, ma non per quella mimica, presente ad esempio in stati emozionali; c) alcuni gruppi muscolari risultano particolarmente colpiti: i peronei, i flessori del ginocchio e della coscia, i rotatori esterni e gli adduttori del braccio, gli estensori delle dita, polso, gomito ed i supinatori dell’avambraccio. L’azione dei muscoli antagonisti e la distribuzione dell’ipertonia piramidale causano la tipica postura dell’emiplegico: l’arto inferiore è esteso alla coscia e alla gamba, il piede è equino-varo, il braccio è addotto e intraruotato, le
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dita, il polso ed il gomito sono flessi, l’avambraccio e la mano sono pronati (Fig. 2.17). La somma delle attitudini ora descritte è causa dell’atteggiamento assunto dal paziente emiparetico e dell’andatura, detta “falciante”. Infatti la mancata flessione della coscia sul bacino e della gamba sulla coscia obbliga il paziente a fare perno sull’articolazione dell’anca e a far compiere un movimento di semicerchio all’arto paretico. Possono tuttavia esistere emiparesi con caratteristiche diverse, in rapporto con la sede della lesione. Una lesione a livello del tronco dell’encefalo è causa di una sindrome alterna, cioè emiparesi brachio-crurale e controlateralmente paresi di uno o più nervi cranici. Quando la lesione sia presente al di sotto dell’incrocio delle piramidi si verifica la cosiddetta emiplegia o emiparesi spinale, cioè una emiplegia o emiparesi brachio-crurale omolaterale alla lesione. Monoplegia o monoparesi: il deficit motorio è localizzato ad un solo arto (superiore o inferiore) e può dimostrare caratteristiche centrali o periferiche. Una monoplegia di natura centrale è dovuta ad una lesione circoscritta corticale (assai raramente, midollare). Nelle monoparesi o monoplegie da lesione corticale è caratteristico l’interessamento prevalente delle parti distali degli arti, e talora paralisi o paresi solo di alcuni gruppi muscolari, che mimano una distribuzione radicolare. Si parla allora di paralisi centrale di tipo pseudoradicolare, poiché possono essere interessati i muscoli innervati dal nervo ulnare (mm. interossei, eminenza ipotenar, adduttore del pollice) e più raramente quelli innervati dal radiale e dal mediano. All’arto inferiore è più frequente la sindrome pseudoradicolare lombo-sacrale. Le monoplegie di natura periferica possono essere dovute a lesioni midollari, delle radici, dei plessi o, più raramente, di un gruppo di nervi periferici.
Tetraplegia e tetraparesi: esprime l’abolizione o riduzione della motilità volontaria localizzata ai quattro arti (è anche definita quadriplegia e quadriparesi). La lesione responsabile di una tetraparesi può essere localizzata a livello encefalico, midollare o periferico. In pratica la tetraparesi o tetraplegia si ritrova comunemente per lesioni midollari. Se la lesione è localizzata a livello del midollo cervicale alto (C2-C4, al di sopra del rigonfiamento cervicale) la quadriparesi o quadriplegia presenta tutti i caratteri della paresi piramidale con ipertonia, iperreflessia profonda e segno di Babinski. Se la lesione è localizzata a livello del midollo cervicale inferiore (C5C8) i segni piramidali sono presenti agli arti inferiori, mentre agli arti superiori coesistono, con prevalenza diversa a seconda dei casi, segni piramidali e segni di compromissione del neurone periferico (atrofia, specie distale, a livello della mano, iporeflessia) per lesione delle cellule radicolari anteriori. In questi casi, comunque, si associano spesso alterazioni della sensibilità e segni di sofferenza del n. frenico (C4-C5) con singhiozzo, paresi del diaframma e turbe del respiro. La lesione midollare può essere dovuta a trauma, compressione midollare da tumore o da malattie vertebrali, ma anche a malattie degenerative quali, ad esempio, la sclerosi laterale amiotrofica. Le lesioni encefaliche capaci di dar luogo a una quadriparesi sono state ritrovate eccezionalmente, a livello del piede del ponte, in genere per cause vascolari (trombosi dell’arteria basilare). Più spesso, forse, la lesione pontina è limitata e dà luogo solo ad una paraparesi. Nella sindrome pseudobulbare, dovuta a lesioni vascolari lacunari diffuse ai due emisferi, si può osservare una compromissione piramidale ai quattro arti, anche se nettamente più marcata agli arti inferiori. Si associano turbe della deglutizione, disartria e crisi di riso e pianto spastico. Disturbi piramidali ai quattro arti si ritrovano anche nelle paralisi cerebrali infantili (emiplegia doppia congenita).
Funzione motoria
Le lesioni periferiche capaci di dar luogo a una tetraparesi sono rappresentate dalle polineuropatie e dalle poliradiculoneuropatie. Le caratteristiche cliniche, sono quelle di una lesione del motoneurone periferico con ipotonia e ipo o areflessia. Bisogna tuttavia rilevare che in questi casi, il deficit motorio, in genere, prevale alle estremità distali degli arti con tendenza a risalire verso le porzioni prossimali; talora il disturbo prevale agli arti inferiori. Il disturbo motorio è spesso associato a turbe sensitive soggettive e obiettive e, talora, a turbe vasomotorie. Paraplegia e paraparesi: definisce l’abolizione o riduzione della motilità volontaria localizzata ai due arti superiori o ai due arti inferiori (paraplegia o paraparesi superiore o inferiore). Per consuetudine tuttavia con il termine paraplegia o paraparesi si intende l’abolizione o riduzione della motilità volontaria ai due arti inferiori. La lesione responsabile di una paraplegia può essere localizzata a livello encefalico, midollare o periferico. Nelle paraplegie encefaliche la lesione occupa la regione del lobulo paracentrale bilateralmente. La paraplegia midollare, inizialmente ipotonica, gradualmente diventa ipertonica e si distingue in: paraplegia in estensione e paraplegia in flessione. La paraplegia in estensione è caratterizzata da un ipertono che colpisce tutti i muscoli, sia flessori che estensori, per cui gli arti sono estesi, addotti, con il piede in equinismo o varismo. I riflessi profondi sono nettamente aumentati, mentre quelli di automatismo midollare sono poco evidenti (paraplegia tendineo-riflessa). La paraplegia in flessione è caratterizzata dalla ipertonia dei muscoli flessori, per cui gli arti inferiori sono flessi, le cosce sul bacino, le gambe sulle cosce, il piede sulla gamba. I riflessi profondi, al contrario del quadro preceden-
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te, sono diminuiti, mentre quelli di automatismo midollare sono nettamente aumentati (paraplegia cutaneo-riflessa). Secondo Fulton (1951), la paraplegia in flessione esprime una transezione spinale completa, mentre la paraplegia in estensione indica che il midollo non è stato completamente interrotto. Osservazioni effettuate su paraplegici traumatici dell’ultimo conflitto mondiale e sopravvissuti grazie alle moderne terapie permettono di affermare che il tipo di paraplegia dipende dal numero dei segmenti midollari esistenti nel tratto di midollo spinale isolato da influenze superiori. Maggiore è il numero dei segmenti midollari nel tratto di midollo isolato, più frequente è la paraplegia in flessione (Pollock e coll., 1951). Le paraplegie periferiche possono essere dovute a una lesione del motoneurone midollare, (in questo caso la distribuzione del deficit motorio e della amiotrofia è ineguale e incompleta, come, ad esempio, nella poliomielite acuta), o delle radici e dei nervi (come, ad esempio, nelle poliradicoliti o poliradicoloneuropatie). Diplegia: con questo termine si intende una paralisi di due parti simmetriche del corpo. La diplegia può essere causata da lesioni bilaterali e simmetriche degli emisferi cerebrali o del tronco encefalico. Da sottolineare la diplegia scapolo-crurale, forma piuttosto rara, costituita da paralisi bilaterale e simmetrica degli arti inferiori, del torace e della parte prossimale degli arti superiori, causata da una insufficienza circolatoria nel territorio cerebrale irrorato dalle due arterie cerebrali anteriori.
II. – Alterazioni del livello extrapiramidale I diversi segni o sintomi espressione clinica di una lesione del sistema extrapiramidale sono
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rappresentati da: ipertonia extrapiramidale o rigidità, disturbi dell’iniziativa motoria, della motilità automatica e associata, alterazioni delle posizioni corporee, movimenti involontari patologici. Dalla varia associazione di questi segni in determinati quadri clinici, sono state, specie nel recente passato, tratteggiate differenti sindromi extrapiramidali. Si può distinguere, infatti, la sindrome acinetico-ipertonica, caratterizzata appunto da acinesia e rigidità, dalle sindromi ipercinetiche, caratterizzate da movimenti involontari patologici. È chiaro che queste denominazioni hanno un valore puramente descrittivo, senza nessuna implicazione anatomoclinica e servono pertanto a riassumere sotto una etichetta, non sempre valida a dire il vero, gli aspetti caratteristici di un multiforme quadro clinico; la sindrome acineticoipertonica, infatti, sta ad indicare gli aspetti prevalenti della malattia di Parkinson, ma la definizione diventa insufficiente se sono presenti anche tremori. Esiste, inoltre, anche una distinzione sindromica con supposti riferimenti anatomo-clinici e funzionali. La sindrome paleostriata o sindrome strionigrica sarebbe caratterizzata da sintomi del m. di Parkinson, mentre la sindrome neostriata sarebbe caratterizzata da movimenti involontari patologici. Questa distinzione appare troppo schematica per essere accettata. Allo stato attuale delle conoscenze non sembra quindi possibile stabilire un raggruppamento sindromico con motivazioni anatomo-cliniche. Si potrà, molto più semplicemente, procedere ad una elencazione descrittiva di quadri clinici e precisamente: a) sindromi acinetico-ipertoniche (parkinsoniane) (v. pag. ???); b) sindromi con movimenti involontari patologici o ipercinetiche (coreiche, distoniche, ecc.) (v. pag. 59, 69); c) sindrome wilsoniana (v. pag. ???).
4. Organizzazione per il controllo e la regolazione del movimento: la coordinazione motoria (livello cerebellare) Col termine coordinazione motoria si intende la capacità di compiere, con armonia e adeguata misura, movimenti complessi che implicano la contrazione simultanea e sincrona di diversi gruppi muscolari ad azione agonista, antagonista e sinergica. I disturbi della coordinazione possono essere distinti in statici e dinamici: la coordinazione statica si esamina nella stazione eretta; la coordinazione dinamica si esamina nel movimento degli arti o di segmenti di arti e nella marcia. Il termine atassia è praticamente sinonimo di incoordinazione motoria e si riferisce specialmente alla statica e alla dinamica nella marcia (atassia statica e atassia dinamica); le prove per esplorare l’armonica esecuzione di movimenti segmentali agli arti sono invece usualmente indicate come prove per la coordinazione segmentale. La coordinazione motoria si esprime, in genere, come attività non cosciente. Il movimento è certamente dovuto alla messa in moto di meccanismi motori volontari, ma la ripetizione sorvegliata e corretta crea un movimento che seppure strettamente collegato con un’attività volontaria diventa stereotipato. Comunque, sia che l’azione motoria sia volontaria o automatica, la coordinazione interviene, in gran parte, indipendentemente dalla volontà 3. La coordinazione dei movimenti è regolata da tre sistemi: – il cervelletto, la cui lesione determina una incoordinazione che possiamo definire primaria, poiché dipende esclusivamente dalla funzione cerebellare; 3 Per certe attività sportive, ad es., anche la funzione di coordinazione motoria di base o «automatica» può essere convenientemente e sapientemente indirizzata e corretta.
Funzione motoria
– il sistema sensitivo, che trasporta le informazioni afferenti attraverso le vie della sensibilità profonda. Oltre agli impulsi sensitivi coscienti, anche le afferenze propriocettive incoscienti, trasportate dai fasci spinocerebellari diretti e crociati convogliano adatte informazioni al cervelletto. Le alterazioni di questi fasci, come ad esempio nel morbo di Friedreich o in altre lesioni spinali, comportano la comparsa di atassia; – l’apparato vestibolare e visivo regolano l’equilibrio e comportano, se alterati, instabilità nella stazione eretta e deviazioni vettoriali che interferiscono nella coordinazione dei movimenti. Anche l’organo della vista ha un ruolo di controllo, spesso inconscio. Ma questi due fattori (vestibolo e vista) hanno importanza relativa poiché soggetti con distruzione dei labirinti o soggetti ciechi possono mantenere la stazione eretta e deambulare. A dire il vero i soggetti con lesioni vestibolari non presentano genuini disturbi della coordinazione. Un disturbo della coordinazione quindi si può manifestare per alterazioni cerebellari, delle vie afferenti sensitive coscienti e incoscienti, ma anche per alterazioni cerebrali, in particolare, per alterazioni frontali, temporali, callose e parietali. Le turbe atassiche per lesioni frontali e callose si dovrebbero ascrivere a lesione delle vie fronto-ponto-cerebellari, mentre quelle da lesioni temporali riscontrate in casi di tumori sarebbero forse dovute agli effetti dell’ipertensione endocranica sul cervelletto. L’atassia parietale dovrebbe, invece, essere ascritta ai concomitanti disturbi della sensibilità profonda, trattandosi quindi di una atassia sensitiva. Le premesse anatomiche e le informazioni fisiopatologiche utili per approfondire il problema della coordinazione del movimento, devono riferirsi, dopo quanto è stato ora accennato, primariamente alla funzione cerebellare, ma anche alla funzione sensitiva e alla funzione cerebrale corticale. Pertanto rimandiamo il lettore a pag. 497 per il cervelletto e le sindro-
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mi cerebellari; a pag. 85 per la funzione sensitiva; a pag. 511 per le funzioni cerebrali emisferiche.
Esame della coordinazione motoria Già la semplice osservazione del comportamento del malato può fornire elementi utili a stabilire se esistono turbe atassiche. Si annoti quindi come il paziente esegue gli atti della vita quotidiana e, in particolare, come si siede o si alza da una sedia, quale postura mantiene mentre è seduto ed è in piedi, com’è la sua andatura; come esegue movimenti quali portare un bicchiere alla bocca, abbottonarsi la camicia o la giacca, annodarsi il laccio delle scarpe. In particolare si osservi se esiste armonia nell’esecuzione del movimento, se l’atto sia quantitativamente e qualitativamente adatto allo scopo (troppo o poco ampio, troppo o poco veloce), se esistano titubanze o incertezze, ecc. Le prove semeiotiche atte ad evidenziare un disturbo della coordinazione dei movimenti vengono suddivise in: A) prove per la coordinazione del corpo in toto (equilibrio e marcia); B) prove per la coordinazione segmentaria o degli arti. A) COORDINAZIONE DEL CORPO IN TOTO (EQUILIBRIO E MARCIA) Gli eventuali disturbi vengono osservati nel mantenimento di specifiche posture, nella stazione eretta (atassia statica) e nella marcia (atassia dinamica). Per il mantenimento della postura si esamina il paziente sdraiato e seduto, per evidenziare le eventuali oscillazioni del capo e del corpo, l’impossibilità a stare seduto, la mancata fissazione di gruppi muscolari del dorso e dei cingoli scapolari o pelvici, presenti in casi con gravi turbe della coordinazione. Nella stazione eretta è possibile cogliere alterazioni anche in casi con modeste turbe atas-
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siche. La prova di Romberg è particolarmente utile a questo scopo: il paziente viene posto sull’attenti, con le punte dei piedi unite; successivamente lo si invita a chiudere gli occhi. Se il corpo del paziente tende ad oscillare, giungendo talora, alla chiusura degli occhi, sino alla caduta, il fenomeno di Romberg è positivo. Nel malato cerebellare il fenomeno di Romberg è negativo, poiché il paziente oscilla già ad occhi aperti e l’equilibrio non viene significativamente peggiorato dalla chiusura degli occhi. Si deve inoltre esplorare la funzione sinergica cioè la sinergia muscolare o capacità di correttamente aggiustare il livello di contrazione nei vari muscoli che partecipano al movimento. Come abbiamo visto un determinato movimento complesso comporta la contrazione sincrona e armonica di differenti gruppi muscolari: l’esecuzione di un movimento in stadi isolati e successivi caratterizza l’asinergia (scomposizione dei movimenti). L’asinergia della stazione eretta esprime l’alterata ripartizione e adattamento del tono posturale e si dimostra invitando il paziente ad inclinare il tronco all’indietro: nel soggetto normale ciò è possibile poiché il movimento si associa alla flessione degli arti inferiori, cioè alla contrazione sinergica dei flessori degli arti inferiori, mentre il paziente cerebellare cade all’indietro e la prova è quindi positiva per mancanza appunto della flessione agli arti inferiori. Per quanto riguarda la marcia si distinguono: – Atassia cerebellare: l’andatura è a base allargata, le braccia a bilanciere, l’ammalato avanza con incertezza e con pulsioni laterali brusche che lo fanno proseguire a zig zag e mima, come si suol dire, l’andatura dell’ubriaco, rischiando di cadere. Il fenomeno di Romberg è negativo. Nelle lesioni cerebellari unilaterali la deviazione si manifesta sempre verso il lato cerebellare affetto, con brusche lateropulsioni. La grande asinergia di Babinski o asinergia della marcia si evidenzia con la prova seguen-
te: il paziente, posto col dorso al muro e invitato ad iniziare la marcia, solleva l’arto inferiore ma non associa questo movimento allo spostamento del tronco in avanti per cui, essendo il baricentro del corpo spostato all’indietro egli tende a cadere. L’asinergia della marcia comunque è di osservazione piuttosto rara. – Atassia per turbe della sensibilità profonda: si designa in genere col termine di atassia tabetica ma è presente anche in altre condizioni cliniche. L’atassia tabetica, per lesioni dei cordoni posteriori è caratterizzata dal brusco lancio delle gambe in avanti, dalla pesante ricaduta del tallone sul suolo e dall’assiduo controllo della vista sui movimenti degli arti. In sostanza e nei casi osservabili oggi, di certo meno gravi di quelli del passato, il disturbo è rappresentato da tallonamento, dalla mancanza di misura nel lanciare gli arti in avanti e dalla positività del fenomeno di Romberg. Nelle lesioni midollari l’atassia spesso non è pura, ma associata a turbe piramidali. Nelle lesioni radicolari e dei nervi periferici si può manifestare un’atassia analoga a quella della tabe dorsale (pseudotabe periferica: nelle polineuropatie, e nella poliradiculoneurite di Guillain Barré). Il fenomeno di Romberg è positivo. Nelle lesioni cerebrali e nelle lesioni talamiche riscontriamo atassia della marcia per turbe della sensibilità profonda. In questo caso la turba atassica è unilaterale (crociata rispetto alla sede della lesione) e di entità modesta. – Atassia per turbe labirintiche: le turbe dell’equilibrio di origine labirintica, spesso indicate come atassia labirintica, sono alterazioni puramente statiche dell’equilibrio e della marcia, e mancano sempre segni di incoordinazione segmentale. Il labirintico presenta un equilibrio instabile, divarica i piedi per aumentare la base di appoggio ma, segno distintivo capitale, ha un fenomeno di Romberg positivo. La perdita di equilibrio per chiusura degli occhi non è imme-
Funzione motoria
diata ma avviene dopo circa una dozzina di secondi e sempre verso un determinato lato (lateropulsione). Il labirintico non può, come il cerebellare, seguire una linea retta, devia lateralmente, ma sempre nello stesso senso, dalla parte del labirinto malato. La marcia eseguita verso l’avanti e verso l’indietro per 8-10 passi, ad occhi chiusi, disegna i raggi di una stella (marcia a stella). – Atassia cerebrale (frontale, callosa, temporale): mentre l’atassia parietale è una vera atassia per turbe della sensibilità profonda, il termine atassia frontale, callosa e temporale è da alcuni ritenuto improprio, e a maggior ragione quello di atassia cerebrale, anche se entrato nell’uso comune. Nel caso dell’atassia frontale e callosa si osserva un difetto di equilibrio nella marcia e nella stazione eretta con tendenza alla retro- e lateropulsione. La atassia temporale sarebbe anch’essa del tipo ora descritto. B) COORDINAZIONE SEGMENTARIA O DEGLI ARTI Viene esaminata con prove codificate che permettono di mettere in evidenza: la dismetria, l’asinergia, l’adiadococinesia. 1) La dismetria, che traduce l’incapacità di regolare l’intensità e la durata dell’attività motoria in rapporto allo scopo da raggiungere, può essere evidenziata da diverse prove. Per gli arti superiori: – Prova indice-naso: si invita il paziente ad occhi aperti e ad occhi chiusi ad abdurre completamente il braccio e quindi a toccare leggermente e con precisione la punta del naso; questa manovra deve essere eseguita più volte, rapidamente, sia con un braccio che con l’altro. – Prova indice-fronte-naso-mento: il soggetto dovrà toccare tre parti del viso (fronte, naso e mento) invece del solo naso. – Prova indice-orecchio: ha le stesse caratteristiche di esecuzione della precedente.
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– Prova dito-paziente – dito-esaminatore: si invita il paziente a toccare il dito dell’esaminatore che viene spostato di volta in volta. – Prova della prensione (o prova del bicchiere): se si invita un paziente a prendere un bicchiere pieno d’acqua a metà e a portarlo alle labbra per bere. Per gli arti inferiori: – Prova calcagno-ginocchio: il paziente deve toccare con il calcagno il ginocchio dell’arto opposto, ad occhi aperti e ad occhi chiusi. Una variante di questa prova consiste nell’ordinare al paziente di colpire ripetutamente con una serie di piccoli colpi il ginocchio, dopo averlo raggiunto. – Prova calcagno-tibia strisciata: il paziente è invitato a strisciare leggermente il tallone lungo la cresta della tibia fino al dorso del piede. – Prova dito-paziente – dito-esaminatore: analoga a quella eseguita agli arti superiori, il paziente cercherà di toccare con il suo alluce il dito dell’esaminatore che viene spostato di volta in volta. Se esiste un disturbo della coordinazione, il movimento, in tutte queste prove, è eseguito in maniera scorretta: la mira non è raggiunta (dismetria), o è raggiunta con troppa forza e quindi superata (ipermetria), oppure in vicinanza della meta il dito o il calcagno si arrestano o rallentano l’atto motorio (braditeleocinesia). Si potrà anche notare che il movimento viene eseguito con minore rapidità, particolarmente all’inizio del movimento (ritardo dell’inizio del movimento), e con una serie successiva di irregolari contrazioni (discontinuità del movimento). 2) L’asinergia, che abbiamo già studiato a proposito della stazione eretta e della marcia, può anche manifestarsi a livello di movimenti segmentali degli arti. Il movimento globale può essere scomposto in movimenti parziali, in tempi
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diversi, per difetto di sinergia tra i diversi movimenti che compongono l’atto nel suo insieme. L’asinergia segmentale o piccola asinergia di Babinski si mette in evidenza con diverse prove: – il soggetto seduto è invitato a toccare con la punta del piede un oggetto posto a circa 50 cm dal suolo, pochi centimetri distante dal ginocchio. L’asinergico, invece di compiere simultaneamente la flessione della coscia e della gamba, prima flette la coscia e poi estende la gamba, oltrepassando spesso l’oggetto; – il soggetto asinergico dimostra la scomposizione del movimento nell’esecuzione delle prove di coordinazione segmentale precedentemente descritte. Tutte queste prove possono essere positive da un solo lato realizzando una emiasinergia che esprime una lesione cerebellare omolaterale. L’asinergia globale o grande asinergia può essere evidenziata invitando il soggetto, disteso sul letto a braccia conserte, a mettersi seduto senza aiutarsi con gli arti superiori. Il soggetto normale esegue la prova contraendo i muscoli che fissano gli arti inferiori al letto; l’asinergico solleva, anche smodatamente, gli arti inferiori mentre non riesce a sollevare il dorso. Si noti tuttavia che soggetti normali, specie anziani, hanno difficoltà ad assumere la posizione seduta senza aiutarsi con gli arti superiori. 3) La diadococinesia esplora la capacità di eseguire movimenti volontari rapidi e alternativi. La perdita di questa possibilità, denominata adiadococinesia, si esplora con le seguenti prove: – prova di pronazione-supinazione delle mani: il soggetto è seduto e, poste sulle ginocchia le mani, esegue rapidi movimenti alternativi di prono-supinazione. Se esiste adiadococinesia si osserverà che il malato non riesce, già dopo alcuni movimenti, a mantenere il ritmo e l’alternanza della successione; – prova delle marionette: il soggetto seduto di fronte all’esaminatore, con le braccia addot-
te, gli avambracci flessi sul braccio e palme delle mani in avanti, esegue, al comando, rapidi movimenti alternati di prono-supinazione. Quando il malato non può abbandonare il letto, lo si invita a estendere le braccia e a compiere gli stessi rapidi movimenti alternati di pronosupinazione. La prova si considera positiva quando il paziente non è in grado di mantenere il ritmo e l’alternanza delle successioni motorie. L’adiadococinesia può essere anche evidenziata facendo eseguire movimenti quali: battere le mani, scrivere a macchina, segnare il passo. Le prove per l’adiadococinesia saranno particolarmente dimostrative se la lesione è unilaterale. Appare ovvio che molte delle prove sopraelencate sono in grado di mettere in evidenza globalmente turbe dismetriche, asinergiche e adiadococinetiche. Un esempio particolare è dato dalle turbe della scrittura. La scrittura, che utilizza una successione di movimenti alternativi particolarmente precisi e regolari, dimostra molto bene l’esistenza di turbe della coordinazione. Se il malato è invitato a tracciare linee orizzontali in successione sovrapposta tra due limiti verticali, segnati dall’esaminatore, molte linee oltrepasseranno o non raggiungeranno il limite verticale e la linea sarà intercisa (iperipometria, dismetria, asinergia, adiadococinesia, braditeleocinesia). Altri segni, che si possono riscontrare in un malato con turbe della coordinazione, fanno parte delle sindromi cerebellari e saranno pertanto descritti a pag. 497. Ci riferiamo ai seguenti segni: – disturbi del tono: ipotonia e passività (prova del ballottamento, prova di Holmes, riflessi pendolari); ipertonia nella reazione di sostegno; turbe dell’atteggiamento (asimmetrie di posizione); – ipostenia; – tremori; – disartria, con parola scandita ed esplosiva (v. pag. 126).
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Funzioni sensitive
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3. Funzioni sensitive A. Seitun
Il termine sensibilità indica genericamente la capacità di avvertire sensazioni spontanee o prodotte da stimoli somatici superficiali (esterocettivi cutanei e mucosi), profondi (propriocettivi sottocutanei e muscolo-scheletrici) e viscerali (enterocettivi). Lo studio delle funzioni sensitivo-sensoriali coscienti, compete alla psicofisica, branca della psicologia sperimentale che studia la percezione di uno stimolo usando mezzi che ne permettano l’oggettivazione e la valutazione in termini matematico-statistici. Qualunque esperienza sensitiva, infatti, altro non è che un fenomeno soggettivo, la cui occorrenza e le cui caratteristiche possono rimanere confinate all’individuo ed alla sua soggettività, oppure prestarsi ad una oggettivazione indiretta mediante l’impiego di idonee strategie. Nella terminologia neurologica, si trova molto spesso usata la distinzione fra sensibilità soggettive, riferentesi a sensazioni non correlabili ad alcun oggetto, e sensibilità oggettive, riguardanti l’intera gamma delle normali sensazioni che sono riconosciute o percepite come derivanti da oggetti (stimoli)1 . Le sensibilità soggettive, quindi, si riferiscono per traslato ed in senso metonimico a sensazioni spontanee inusuali ed a contenuto qualitativamente e quantitativamente abnorme, quali parestesie, prurito e dolore, esperienze soggettive definibili in modo più semplice e chiaro come «sintomi sensitivi positivi» (Baker, 2000). Circa la sensibilità dolorifica o nocicettiva, è fin d’ora opportuno anticipare che essa può essere indagata oggettivamente solo utilizzando stimoli puntiformi meccanici 1
La percezione di un oggetto reale in assenza dello stesso è un fenomeno psicopatologico definito allucinazione.
o termici capaci di evocare dolore locale immediato rapidamente evanescente (rapido). Il dolore diffuso, lentamente ingravescente e duraturo (lento o cronico) che accompagna ogni lesione tissutale di una certa importanza e può persistere anche a lungo dopo l’avvenuta riparazione dei tessuti, è invece un’esperienza tipicamente individuale e soggettiva, non quantificabile in termini psicofisici convenzionali. L’esperienza dolorosa può però essere obbiettivata tramite neuroimmagini funzionali (PET, fMRI).
Le sensibilità oggettive si riferiscono alla percezione degli usuali stimoli esterni o interni al corpo, e sono quindi indagabili in termini di stimolo-risposta. Si distinguono sensibilità superficiali (o esterocettive), profonde (o propriocettive), complesse (o combinate) e viscerali (o enterocettive) (Tab. 3.1). La valutazione psicofisica delle sensibilità oggettive richiede l’integrità dello stato di coscienza della persona esaminata e la capacità di fornire risposte adeguate, soprattutto durante la ricerca della soglia percettiva, convenzionalmente rapportabile all’intensità di stimolazione che riesce a produrre il 50% di risposte positive. La soglia è un parametro fondamentale, essendo molto stabile nonostante le fluttuazioni del tempo di reazione semplice del soggetto. A questo riguardo, esistono tre principali strategie: 1) il metodo dei limiti, basato sull’uso di stimoli di intensità crescente fino al raggiungimento della loro percezione, comunicata di volta in volta dal soggetto; 2) il metodo della scelta forzata, indipendente dal tempo di reazione ma ben più ponderoso, dato che solo a posteriori si deve indicare quale stimolo è stato percepito in una batteria di cinque differenti stimoli somministrati a caso; ed infine 3) il metodo misto 4-2-1, preciso come il precedente ma di più agevole applicazione, in cui la soglia percettiva viene progressivamente approssimata mediante sequenze di stimoli scalari di intensità oscillante attorno ad essa (Dyck et al., 1993). È bene sottolineare che l’applicazione di questi metodi, soprattutto gli ultimi due, rientra nell’ambito dell’estesiometria quantitativa, richiedente specifica prepara-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 3.1 - Classificazione delle sensibilità. Sensibilità elementari
Sensibilità complesse o combinate (epicritiche)
Superficiali
Profonde (propriocettive)
1. Tattile
cute glabra cute pilifera
1. Batiestesia e chinestesia 2. Bariestesia 3. Pallestesia
2. Termica
caldo freddo
3. Dolorifica
meccanica termica chimica
1. Discriminazione tattile e dolorifica 2. Topoestesia 3. Grafoestesia o dermolessia 4. Stereoestesia
meccanica termica chimica Sensibilità viscerale
zione e strumentazioni sofisticate (commercialmente disponibili per lo studio della sensibilità termica e dolorifica). Solo in tal modo diventa possibile identificare o quantificare deficit sensitivi sfuggenti o dubbi all’esplorazione delle sensibilità effettuata secondo le usuali metodiche semeiotico-cliniche (vedi oltre).
La sensibilità superficiale comprende tre differenti modalità somestesiche esplorabili in termini di qualità, intensità, durata, localizzazione ed estensione spaziale dello stimolo: 1) sensibilità tattile (meccanoestesia della cute glabra e pelosa, della cornea e delle mucose); 2) sensibilità termica (termoestesia per caldo e freddo) e 3) sensibilità dolorifica superficiale (puntoria). Ciascuna di esse è mediata da specifici recettori e trasportata con alta conservazione somatotopica alla corteccia sensitiva da specifiche vie nervose afferenti. La sensibilità profonda comprende: 1) sensibilità al movimento (chinestesia) ed alla posizione dei segmenti corporei (batiestesia); 2) sensibilità alla pressione ed al peso (bariestesia); 3) sensibilità alla vibrazione (pallestesia); 4) sensibilità dolorifica profonda. Anche per queste sensibilità, esistono recettori sensitivi specifici, sottocutanei, osteo-articolari, muscolari e tendinei, e relative vie nervose afferenti somatotopicamente arrangiate.
Le sensibilità complesse, o combinate o associate, derivano da un’attivazione simultanea di varie modalità somestesiche estero- e propriocettive, e comprendono in particolare: 1) sensibilità epicritica tattile e dolorifica, o capacità di discriminare spazialmente due stimoli meccanici tattili2 applicati simultaneamente su punti vicini della cute; 2) grafoestesia o dermolessia, o capacità di identificare tattilmente simboli grafici tracciati sulla cute; 3) stereoestesia3 , o capacità di percepire dimensioni e forma tridimensionale degli oggetti manipolati. Queste sensibilità integrano più di una classe recettoriale e più di una via sensitiva alla volta, e riflettono le continue interazioni che esistono fra le diverse modalità sensitive ad ogni livello del nevrasse (spinale, bulbare, talamico e corticale). La sensibilità viscerale, o enterocettiva, è stata poco indagata sotto il profilo psicofisico nel-
2
Anche gli stimoli termici e dolorifici possono essere utilizzati, ma non hanno rilevanza semeiotico-clinica. 3 Si preferisce questo termine a quello di stereognosia poiché quest’ultimo si riferisce alla mera capacità di riconoscere il significato simbolico utilizzatorio di un oggetto manipolato, del quale si abbia ovviamente una corretta rappresentazione stereopercettiva (DeJong, 1969). La astereognosia o stereoagnosia ha origine corticale ed è anche definita «asimbolia tattile» (v. pag. 113, 157).
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l’uomo per ovvie difficoltà. Esistono tuttavia evidenze che la assimilano per certi versi alla sensibilità dei tessuti profondi, capace di fornire solo una limitata gamma di percezioni sensitive (trazione, compressione, dolore). Lo stiramento viscerale (capsule, fascie, ligamenti, sierose, pareti vascolari etc.) comporta indistinte e diffuse sensazioni di distensione, gonfiore, costrizione a carattere spesso sgradevole o francamente doloroso, tipicamente accompagnate da un corteo di risposte vegetative molto evidente.
Proprietà anatomiche e neurobiologiche del sistema sensitivo Le vie sensitive iniziano dai recettori, propaggini terminali specializzate di assoni sensitivi periferici (neuroni di 1° ordine), che collegano l’estrema periferia del corpo con il midollo spinale. Nel nevrasse, le informazioni sensitive sono elaborate in parte nel midollo, in parte nel bulbo, ritrasmesse al talamo attraverso neuroni di 2° ordine (rispettivamente lemniscali e spinotalamici), ed infine trasportate nella corteccia sensitiva attraverso neuroni di 3° ordine (talamocorticali). Questa semplicità è più apparente che reale, e seppur accettabile a scopo didattico, non rende giustizia alla notevole complessità dei circuiti intraspinali e delle loro proiezioni rostrocaudali al tronco encefalico ed al talamo (Wall e Melzack, 1989). Il sistema sensitivo è somatotopicamente organizzato in modo assai preciso, ma ciò non basterebbe di per sé a fornire alla neocorteccia un’equivalente rappresentazione del flusso di eventi sensitivi occorrenti alla superficie ed all’interno del soma. Tale scopo è raggiunto grazie alla presenza di potenti sistemi satelliti di enfasi del segnale, basati sulla continua competizione di un messaggio in transito con tutti quelli provenienti dalle zone adiacenti, e sulla soppressione dei segnali non prioritari. Questa selezione, operante in ogni stazione sinaptica, è basata su meccanismi lo-
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cali di inibizione laterale e di eccitazione ricorrente (feed-back) o afferente (feed-forward) e nelle stazioni sottocorticali, anche su meccanismi di inibizione presinaptica. In tal modo, dalla prima all’ultima stazione sinaptica è possibile mantenere rapporti segnale/rumore straordinariamente elevati (Kandel et al., 2000). A differenza dei sistemi sensoriali, il trasporto delle informazioni dalla periferia recettoriale al midollo spinale segue percorsi molto lunghi ed intricati attraverso nervi periferici, plessi sensitivi, nervi spinali e radici dorsali. Le rispettive lesioni si manifestano con una sintomatologia sensitiva variabile in rapporto alla sede. Ogni nervo sensitivo, infatti, è dotato di territori di distribuzione differenti per ogni tipo di sensibilità, massimi per le sensibilità profonde, intermedi per la sensibilità tattile, minimi per la sensibilità termica e dolorifica, che si sovrappongono ai territori sensitivi circostanti. Sulla cute, la sovrapposizione risulta quindi massima per il territorio tattile rispetto a quello termico e dolorifico, a cui si riferiscono essenzialmente i confini dei territori sensitivi dei vari nervi cutanei (Fig. 3.6–3.7). Analoghe caratteristiche presentano i territori sensitivi delle radici dorsali (Fig. 3.9–3.10). Ogni radice convoglia in un dato segmento midollare (metamero4 ) assoni provenienti da precisi distretti cutanei (dermatomeri), muscolari (miomeri), osteo-articolari (scleromeri) e viscerali fra essi solo in parte sovrapposti. L’area dermatomerica è quella meno estesa ma ha il grande vantaggio di essere precisamente delineata sulla cute come una striscia di zebra. Ogni radice dorsale si distribuisce ad almeno tre metameri. Ogni metamero, quindi, si trova complessivamente innervato dalle fibre provenienti almeno da tre radici (ramo principale di quella corrispondente e rami provenienti dalle due radici adiacenti). 4
Anatomicamente, per metamero s’intende il segmento midollare relativo ad una coppia di radici anteriori e posteriori, e compreso fra due piani di sezione ideali tracciati a metà fra queste radici e quelle immediatamente sopra e sottostanti.
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Storicamente, Sherrington (1898) fu il primo a dimostrare nella scimmia mediante il “metodo della sensibità residua” che i dermatomeri cutanei adiacenti sono più o meno sovrapposti. A partire dal 1911, lo studio di malati sottoposti a sezione o asportazione di una o più radici permise di tracciare una mappa della distribuzione radicolare sensitiva (Foerster, 1911; Foerster, 1933), nonostante il metodo fosse stato considerato inadeguato da Déjérine (1914). Fra i metodi alternativi impiegati (stricnina locale, stimolazione antidromica, studio della distribuzione delle vescicole erpetiche) uno in particolare, basato sull’anestesia locale di gangli delle radici dorsali in soggetti normali (Keegan e Garrett, 1948) permise in seguito di ottenere una mappa dermatomerica soddisfacente a scopo clinico (Hansen e Schliack, 1962) (Fig. 3.8, 3.9). Le varie assunzioni di cui sopra, tuttavia, non possono oggi considerarsi né assolute né statiche, poiché l’innervazione sensitiva dei tessuti rimane un fenomeno plastico, non solo nel corso dello sviluppo, ma anche nella successiva vita postnatale. La sovrapposizione dei territori sensitivi, neuroperiferici e radicolari, è regolata nella vita post-natale da neurotrofine, quali ad es. NT-3 (Ritter et al., 2001). Inoltre, i fenomeni di reinnervazione conseguenti a danno di fibre sensitive periferiche occorrono non solo in periferia, ove le preesistenti distribuzioni sensitive possono essere topograficamente e qualitativamente rimaneggiate, ma anche nel midollo spinale, in corrispondenza delle stazioni sinaptiche. A livelli superiori (talamo, corteccia cerebrale), il rimaneggiamento assume un carattere puramente plastico, comportando espansione o coartazione funzionale di aree sensitive in assenza di modificazioni morfo-strutturali apprezzabili. Il ruolo di tali fenomeni, documentabili anche nell’uomo mediante PET, fMRI e stimolazione magnetica corticale, sembra non meno importante del danno di per sé, soprattutto nella genesi del dolore cronico.
Recettori Storicamente, il problema dell’origine delle diverse modalità sensitive è stato uno degli aspetti piu dibattuti e controversi della fisiologia sensoriale. La “legge delle energie nervose specifiche” enunciata da J. Müller (1826) ma proprio da lui intesa in puri termini di “energie sensoriali”, sarebbe poi stata accettata come tale - e con preciso riferimento a recettori e vie sensitive specifiche anziché ad energie stimolanti - grazie soprattutto ai contributi fondamentali di altri assai meno noti suoi contemporanei, quali Blix, Donaldsson e Goldscheider (Norrsell et al., 1999).
A lungo si è discusso sulla specificità o meno dei recettori somestesici e delle relative vie afferenti. A partire dalla fine degli anni ’60, l’avvento della microneurografia applicata sperimentalmente all’uomo ha permesso di dimostrare in maniera inequivocabile che la qualità della percezione somestesica dipende dal tipo di recettore o rispettivo assone stimolati, e non dalla frequenza di stimolazione, responsabile quest’ultima solo dell’intensità della percezione (sommazione temporale) (Vallbo et al., 1984). Ulteriori incrementi dell’intensità percettiva possono quindi raggiungersi solo reclutando tutti i recettori derivanti da un singolo assone sensitivo o ulteriori unità sensitive (sommazione spaziale). I dati attuali indicano che ogni unità sensitiva risponde fisiologicamente a quell’unico tipo di stimolo cui essa è particolarmente sensibile («stimolo adeguato»). Ciò non esclude che certe particolari formazioni recettoriali dotate di innervazione multipla, come ad es. i corpuscoli di Meissner, possano fornire risposte qualitativamente dissimili da quelle fisiologiche qualora siano abnormemente stimolati. I recettori somestesici possono assumere l’aspetto di terminazioni capsulate, ben individuabili come formazioni organizzate e con massima densità nelle aree più sensibili del corpo (mano) oppure corrispondere a terminazioni libere, ubiquitarie e percentualmente dominanti (Fig. 3.1). La depolarizzazione graduale della membrana recettoriale causata dallo stimolo si propaga in senso ortodromico ed in direzione prossimale. Nelle fibre mieliniche, questa depolarizzazione modula le oscillazioni spontanee del potenziale di membrana del primo nodo di Ranvier raggiunto, il quale funge da trasduttore voltaggio/frequenza, modificando fasicamente la propria scarica spontanea. Nelle fibre C amieliniche dolorifiche, caratterizzate da una propagazione per contiguità del potenziale d’azione e da una scarica a riposo virtualmente assente, la codifica degli stimoli nocicettivi non è altrettanto modulabile, poiché il danno tissutale produce in queste fibre una scarica tonica che persiste molto a lungo.
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I messaggi sensitivi risalgono lungo l’intero ramo cosiddetto “centrifugo” del neurone a T del ganglio dorsale, attraversando nervo periferico e plessi fino a raggiungere il soma e a propagarsi contemporaneamente nel ramo assonale centripeto (per le fibre C di calibro generalmente inferiore), che penetra come radice dorsale nel solco dorso-laterale del midollo spinale.
Fig. 3.1 - Aspetto e struttura di alcuni tipi di recettori sensitivi. 1: Terminazioni libere (nocicettori = dolore; termocettori = caldo, freddo). 2: Corpuscoli del Pacini (propriocettori sottocutanei = pallestesia, pressione profonda). 3: Corpuscoli di Meissner (meccanocettori = papille dermiche, campo recettivo tattile di 0,2-0,5 mm). 4: Clave di Krause (meccanocettori = mucose). 5: Corpuscoli di Ruffini (meccanocettori da stiramento = pressione, posizione angolare). 6: Dischi di Merkel (meccanocettori = valli dermiche, campo recettivo tattile di 2-4 mm).
Si distinguono tre classi di recettori: meccanocettori, termocettori, nocicettori. La maggioranza dei meccanocettori deriva da grosse fibre mieliniche, mentre termocettori, nocicettori ed alcuni meccanocettori sensibili a lievi pressioni sulla cute ed al movimento dei peli, derivano da piccoli assoni mielinici o amielinici. La classificazione delle fibre nervose periferiche in rapporto al loro diametro, velocità di conduzione e funzione sono riportate in Tab 3. 2. A seconda della loro morfologia e del loro rivestimento, i recettori somestesici dimostrano campi recettivi larghi o ristretti, bassa o alta soglia, e rapido o lento adattamento agli stimoli,
Tabella 3.2 - Denominazione, velocità di conduzione, diametro e funzione delle fibre nervose periferiche. Denominazione
Diametro (mm)
Velocità (m·sec-1)
Funzione
Mieliniche Aα
Gruppo Ia Gruppo Ib
20 - 12
120 - 70
Efferenti motrici extrafusali Afferenti propriocettive (terminazioni anulospirali intrafusali) Afferenti propriocettive (organi muscolo-tendinei di Golgi)
Aβ
Gruppo II
12 - 5
70 - 30
Afferenti dai meccanocettori cutanei tattili e pressori Afferenti propriocettive dalle terminazioni floreali intrafusali
7-4
35 - 25
Efferenti motrici intrafusali (dai γ-motoneuroni)
5-1
30 - 5
Afferenti cutanee termoestesiche al freddo Afferenti cutanee e muscolari per il dolore rapido (meccano-nocicettori)
3
15 - 3
Efferenti vegetative pregangliari
1,5 - 0,2
2 - 0,5
Afferenti cutanee termocettive per il caldo ad alta soglia Afferenti cutanee e muscolari: nocicettori polimodali (dolore cronico o lento) Efferenti ortosimpatiche post-gangliari
Aγ Aδ
Gruppo III
B Amieliniche C
Gruppo IV
Costante approssimativa di Hursch: velocità di conduzione = diametro assonale x 6 (fino ad Aδ)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
intendendosi per adattamento5 la progressiva riduzione della risposta a stimoli continui di intensità costante (a tipo onda quadra prolungata). 1.– Meccanocettori. Il ruolo di questi recettori è piuttosto complesso (Johnson, 2001). Si distinguono in esterocettivi (superficiali) e propriocettivi (profondi). I meccanocettori esterocettivi della cute glabra (presenti anche nelle mucose) sono responsabili del tatto a finalità esplorative, essendo altamente rappresentati sulle superfici palmari, soprattutto in corrispondenza della mano e dei polpastrelli delle dita. Funzionalmente si distinguono recettori ad adattamento rapido (corpuscoli di Meissner: apice delle papille dermiche; bulbi terminali di Krause: mucose; corpuscoli di Pacini: derma profondo; terminazioni del bulbo del pelo: cute pilifera) e recettori ad adattamento lento (dischi di Merkel: vallate dermiche e mucose; corpuscoli di Ruffini: matrice connettivale sottocutanea). I corpuscoli di Meissner sono situati all’apice delle papille dermiche ed appaiono come piccole strutture ovoidali innervate da una decina di terminazioni assoniche meccanocettive Aa-Ab a bassa soglia avvolte da terminazioni di fibre C, entrambe dotate di recettori o peptidi a chiara funzione nocicettiva (Pare et al., 2001). Normalmente fungono come meccanocettori a campo recettivo ristretto (1-3 mm) ed adattamento rapido (possono trasferire informazioni fino a frequenze di 150 Hz). Nell’uomo, l’attivazione di un singolo corpuscolo mediante un breve singolo microstimolo meccanico causa una superficiale e ben distinta percezione tattile puntiforme quale può essere prodotta da una zampa di formica, esattamente riproducibile mediante stimolazione sogliare al polso dell’assone corrispondente. Aumentando l’intensità dello stimolo, tuttavia, la sensazione tattile si trasforma in sensazione puntiforme intensamente dolorosa (probabilmente per una duplice funzione del corpuscolo, meccano e
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Da non confondere con accomodazione, o proprietà delle membrane eccitabili, massima negli assoni, di tollerare incrementi depolarizzanti più o meno ripidi (a tipo onda triangolare o trapezoidale) senza generare potenziali d’azione. L’abitudine è invece un fenomeno prettamente psichico, caratterizzato da una progressiva riduzione di risposta in caso di stimoli ripetitivi e monotoni.
nocicettiva). L’elevata densità dei corpuscoli di Meissner sui polpastrelli delle dita permette inoltre di codificare spazialmente nel tempo e mappare a livello microgeometrico le caratteristiche superficiali degli oggetti lievemente strisciati sull’epidermide (ad es. maggiore o minore ruvidità) (Srinivasan et al., 1990). I corpuscoli di Pacini (o di Vater-Pacini, o di GolgiMazzoni) sono situati nel derma e nel sottocutaneo, sono meccanocettori a bassa soglia, adattamento rapido e campo recettivo largo. Sono estremamente sensibili anche a minime sollecitazioni meccaniche vibratorie, con picco di sensibilità massimo attorno ai 200 Hertz. Assieme ai corpuscoli di Meissner contribuiscono a fornire informazioni sulla superficie degli oggetti, specie se in spostamento rapido, sulle vibrazioni anche minime degli oggetti toccati o impugnati e sulla situazione dinamica delle superfici d’appoggio. I dischi di Merkel si presentano come terminali di numerose ed estese ramificazioni di singoli assoni. Isolatamente, essi presentano campi recettivi tattili vasti (36 mm) ad adattamento lento, risultando capaci di rispondere a pressioni superficiali prolungate e circoscritte. L’attivazione di più dischi della stessa unità permette una codifica complessa delle informazioni cutanee, tale da fornire informazioni sulle caratteristiche morfologiche degli oggetti appoggiati e spostati lateralmente sulla cute (estensione, spigolosità, curvatura, etc.). Si ritiene che la loro alta densità in aree cutanee speciali a basso spessore, quali labbra, capezzolo, genitali ed anche in molte mucose sia responsabile di percezioni diffuse a carattere intrinsecamente piacevole (piacere sessuale), ma tali da assumere carattere opposto al di là di un certo livello di stimolazione. I corpuscoli di Ruffini sono meccanocettori ad alta soglia, campo recettivo vasto, adattamento lento e rispondono preferenzialmente agli spostamenti tangenziali della cute sui piani sottostanti. L’applicazione di singoli stimoli sul relativo assone non produce tuttavia alcuna percezione tattile.
L’apparato tattile del volto e della cute pilifera è costituito da dischi di Merkel, corpuscoli di Pacini e Ruffini, e terminazioni lanceolate a bassa soglia e rapido adattamento avvolgenti il bulbo pilifero emanate in numero variabile (1030) da fibre Aβ, dotate di uno specifico canale del sodio, BNC1 (Price et al., 2000), ed infine da abbondanti terminazioni meccanocettive a bassa soglia di fibre C, producenti scariche ritardate e prolungate sotto stimoli pressori con-
Funzioni sensitive
tinuativi lievi. Queste ultime hanno permesso di postulare che nell’uomo esiste, accanto al sistema tattile superficiale rapido delle estese regioni pilifere, un secondo sistema tattile “lento”, molto esteso sul corpo, possibilmente coinvolto nell’elaborazione emotivo-affettiva dei contatti cutanei persistenti (Vallbo et al., 1999). I meccanocettori propriocettivi, o propriocettori, sono terminazioni più o meno capsulate e specializzate presenti nei muscoli striati (fusi neuromuscolari: terminazioni anulo-spirali di assoni Ia delle miofibre a sacco nucleare e terminazioni floreali di assoni II nelle miofibre a catena nucleare; fascie e perimisio: terminazioni libere) nei tendini (organi muscolo-tendinei di Golgi: terminazioni Ib) nel sottocutaneo periarticolare (corpuscoli di Ruffini) e nell’apparato articolare (meccanocettori di I-II-III tipo). Globalmente più rappresentati dei recettori superficiali, i propriocettori producono scariche afferenti che in gran parte sono destinate alla regolazione preconscia o inconscia dei meccanismi posturali statici e dinamici a carattere riflesso. Essi contribuiscono in maniera rilevante all’esplorazione tattile spaziale ed allo sviluppo ed al mantenimento delle sensibilità complesse o combinate. L’insieme dei dispositivi di cui sopra non chiarisce perché la vasta gamma di sensazioni tattili che si è in grado di provare comprenda anche un versante emotivamente sgradevole, sconfinante nel dolore vero e proprio. Una spiegazione può forse derivare dalla recente scoperta che in differenti tipi di terminazioni specializzate somato-sensitive è presente un particolare canale cationico DRASIC appartenente alla famiglia DEG/ENaC che, attraverso la probabile formazione di canali eteromultimerici, riduce la risposta a stimoli tattili lievi liberando quella a stimoli meccano-termo e chemonocicettivi o viceversa, come dimostrato nell’animale -/- (Price et al., 2001).
2.– Termocettori. I termocettori cutanei e mucosi si presentano come terminali di ramificazioni (6-12) di singoli assoni, e sono distinguibili in recettori al caldo (confine dermo-epi-
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dermico, range da 32 °C a 43 °C) ed al freddo (derma profondo, range da 32 °C a 10 °C) (Julius e Basbaum, 2001). Nella cute si intercalano fra loro distribuendosi in maniera tipicamente puntiforme, ma senza alcuna sovrapposizione («spots» con campo recettivo di 1-2 mm). Rispondono selettivamente a modificazioni termiche puntiformi, la cui intensità sogliare percettiva è tuttavia assai superiore a quella dimostrabile mediante attivazione di tutti i recettori di una stessa unità termopercettiva (sommazione spaziale locale). Per tale motivo, l’esplorazione termoestesica utilizza termosonde di adeguata superficie (3-9 cm2). In corrispondenza delle zone a massima densità recettoriale quali punta della lingua e labbra, ove la temperatura cutanea media s’aggira sui 35 °C, la soglia differenziale media al caldo corrisponde nell’uomo a circa + 0,6°C, e quella al freddo ad appena -0,18°C. I valori crescono progressivamente spostandosi in sedi a minore densità recettoriale (ad es. dorso degli arti). La depolarizzazione dei recettori al caldo dipenderebbe da un’iniziale apertura di canali per il Ca2+ sensibili all’innalzamento termico (35 °C → 42 °C) seguita da apertura dei canali del Na+ V-dipendenti (Gotoh et al., 1998; Adair, 1999). La depolarizzazione dei recettori al freddo, invece, è stata attribuita ad un’inibizione della Na+/K+-ATPasi, ad un blocco di una conduttanza al K+, e più recentemente, ad un’apertura dei canali del Ca2+ sensibili all’abbassamento termico (35 °C → 20 °C), senza evidente contributo di conduttanze al Na+ (Reid e Flonta, 2001; Suto e Gotoh, 1999). Entrambe le unità sensitive richiedono quindi l’attivazione di correnti del Ca2+, e non a caso quindi si contraddistinguono per una ricca dotazione della proteina chelante il Ca2+ calbindina, il che potrebbe rendere ragione delle rispettive capacità di adattamento e dei curiosi fenomeni di isteresi termopercettiva. Del tutto recentemente, è stata descritta una sottopopolazione di neuroni ganglionari responsivi al freddo che esprime uno speciale membro della sottofamiglia “lunga” (capostipite melastatina) delle proteine TRP denominato TRPM8, attivato sia dal freddo che dal prototipo delle sostanze rinfrescanti, il mentolo (Peier et al., 2002). Incidentalmente, le aree a maggior densità termocettoriale (volto, labbra, sfinteri) possono spontaneamente attivarsi anche in assenza di stimoli termici generando percezioni termiche puramente soggettive, qualora vari
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
perifericamente la concentrazione del Ca2+ extracellulare (ipocalcemia transitoria, ad es. in corso di iperventilazione = sensazione di freddo; ipercalcemia transitoria, ad es. per somministrazione endovenosa di calcio gluconato = sensazione di caldo) (Adair, 1999).
3.– Nocicettori. I nocicettori sono sottili digitazioni assoniche amieliniche libere di fibre Ad (gruppo III, 30%) e C (gruppo IV, 70%), che usano come neurotrasmettitore glutammato, in associazione o meno ad uno o più neuropeptidi (SP, CGRP). La loro membrana è dotata di una varietà di differenti canali del Na+, fra cui alcuni non-inattivanti (tetrodotossino-resistenti), la cui espressione genica può essere rapidamente e selettivamente amplificata in seguito ad un danno dell’estrema periferia, contribuendo ai fenomeni di ipersensibilizzazione recettoriale. I nocicettori Ad comprendono recettori a bassa o ad alta soglia che rispondono a stimoli meccanici, termici ed anche chimici con breve latenza (tipo I) o lunga latenza (tipo II). La loro stimolazione produce dolore rapido puntorio o bruciante, ben localizzato ed a carattere transitorio. Gli assoni C terminano con nocicettori che rispondono ad un solo tipo di stimolo (unimodali) o a due o più tipi (polimodali), e sono responsabili delle qualità lente, brucianti del dolore. La neurobiologia del sistema nocifensivo e del dolore è un argomento molto complesso e di ardua semplificazione (Caterina e Julius, 1999; Cesare e McNaughton, 1997). Molti nocicettori sono bi- o polimodali, altri unimodali. Si distinguono meccano-nocicettori a bassa ed alta soglia, dotati di canali del Na+ attivati da pressioni lesive; termo-nocicettori ad alta soglia, dotati di canali del Na+ attivabili selettivamente da temperature lesive superiori a 42 - 43°C; chemi-nocicettori, attivati da variazioni di pH e da una varietà di sostanze chimiche. a) Un primo, principale gruppo di fibre C contiene neuropeptidi pro-infiammatori (sostanza P, CGRP) e termina negli strati più esterni del corno posteriore (lamina I e II esterna), connettendosi con i neuroni spinotalamici. Queste fibre, che esprimono preferenzialmente canali del Na+ sensibili al calore nocivo, sono anche sensibili ad una
varietà di molecole nocive prodotte dal danno tissutale (citochine, serotonina, istammina), ed al pH acido, e sembrano candidate al ruolo di nocicettori responsabili del dolore somatico infiammatorio. b) Un secondo gruppo non peptidergico, ma esprimente carboidrati leganti l’isolectina IB4 e dotato di fosfatasi acida fluoruro resistente, termina nella lamina II di Rexed del corno posteriore del midollo connettendosi principalmente ad interneuroni. Queste fibre esprimono il recettore trKA per le neurotrofine (NGF, e dopo lo sviluppo, GDNF) e recettori per la bradichinina (B1), rapidamente inducibili da interleuchine IL-1B e IL-8. Questi ultimi appaiono selettivamente coinvolti nella genesi dei fenomeni di prolungata iperalgesia dopo danno nervoso (Pesquero et al., 2000), ed appaiono quindi candidati al ruolo di nocicettori responsabili del dolore da lesione del nervo (dolore neuropatico) (Stucky et al., 2001). c) Entrambi i gruppi esprimono una particolare varietà di canali del Ca2+ non selettivi appartenenti alla seconda sottofamiglia (TRPV) delle sei che costituiscono la superfamiglia delle proteine TRP6 (Montell, 2001), in particolare il canale vanilloide VR1, che è attivato dalla capsaicina (principio attivo pungente della paprika) o da variazioni acide del pH (< 5,8) (Caterina e Julius, 2001; Cesare et al., 1999) ed è bloccato dal freddo (T < 14°C) (Babes et al., 2002). Un canale strutturalmente analogo (VRL-1), che è insensibile a capsaicina e protoni H+, ma è attivato da T° nocive (> 43 °C), è espresso selettivamente da nocicettori Aδ. Differenti combinazioni di altri tipi di recettori si esprimono nell’eterogenea popolazione C, distribuendosi in maniera ubiquitaria, o risultando selettivamente espressi in precise sottopopolazioni: recettori cannabinoidi (CB1) strettamente omologhi, ma ad azione opposta a quelli VR1 sensibili alla capsaicina; neurochininici (NK1); nucleotidici (sensibili all’ATP ed a funzione metabotropica tramite attivazione della PKC); GABAergici; prostaglandinici E2 (la cui attivazione riduce la soglia d’apertura in vari tipi di canali del Na+); adrenergici (specie α1, ma anche α2 ed imidazolinici I2, descritti nelle terminazioni centrali delle fibre C). La maggior parte delle fibre C è dotata di espansioni rotondeggianti che contengono neuropeptidi (soprattutto SP) sotto forma vescicolare. Essi possono essere rilasciati per esocitosi non solo nel midollo, potenziando la
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«transient receptor proteins» responsabili dell’ingresso “capacitativo” del Ca 2+, tutte dotate di 3-4 sequenze di ankirina ed operanti attraverso l’attivazione di PLC (DAG/IP3).
Funzioni sensitive trasmissione sinaptica glutammatergica dei segnali dolorosi, ma anche in periferia, ove innescano risposte difensive flogistiche asettiche attraverso un meccanismo asinaptico di “trasmissione di volume”. L’esocitosi periferica di SP conseguente ad intensa e prolungata scarica di fibre C causa una complessa cascata di eventi: permeabilizzazione vascolare, attivazione della chemotassi neutrofila e macrofagica con rapida espressione di nitrossido, attivazione mastocitaria con liberazione di istamina, attivazione di terminazioni di altre fibre C. Nella cute, questa reazione è inizialmente localizzata, ma tende poi ad estendersi, sia per diffusione di SP, che per invasione antidromica di tutte le altre diramazioni terminali quiescenti dell’assone C attivato in uno dei suoi rami, con il risultato di un’ulteriore rilascio di SP nel tessuto. Nella cute, il fenomeno è descritto come “axon flare” o “riflesso assonico antidromico”, e si rivela con arrossamento, aumento di temperatura, iperalgesia ed edema attorno all’area lesa. Nei tessuti profondi, specie in corrispondenza dei vasi, l’insieme di questi eventi causa edema della parete e vasoparalisi, fenomeni alla base della cefalea vasomotoria (v. pag. 000).
L’attivazione dei nocicettori C, normalmente silenti, produce differenti qualità di dolore in rapporto all’intensità, al tipo di stimolo ed al tessuto in cui esso è applicato, ad esempio: nella cute, dolore urente o sordo; nei muscoli, lancinante e crampiforme; nei visceri, dapprima sensazioni tensive con nausea, quindi dolore sordo, gravativo, diffuso, infine costrittivo (angina), lacerante (aneurisma aortico), urente (gastro-esofageo, vescicale ed uretrale), trafittivo (colica renale ed epatica) (v. pag. 101). Per concludere, sembrerebbe ingiusto lasciare l’impressione che sia essenzialmente l’estrema periferia, con la sua vasta e complessa dotazione di sistemi nocifensivi, il principale o unico responsabile del fenomeno “dolore”. Tralasciando il dettaglio che questo imponente armamentario algogeno è in realtà espresso dall’intero neurone sensitivo di 1° ordine in tutte le sue propaggini, periferiche e centrali, a monte di esso esistono approntati altrettanti meccanismi di modulazione dei messaggi dolorosi, uno
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dei quali rappresentato da DREAM, repressore del gene codificante per la prodinorfina/proteina C-fos. DREAM frena il controllo dinorfinico k-oppioide nel midollo spinale: in caso di DREAM (– / –), l’aumento di precursore/oppioide endogeno diventa talmente critico da bloccare le risposte spinali comportamentali ad ogni tipo di dolore, somatico e viscerale (Cheng et al., 2002; Costigan e Woolf, 2002; Craig et al., 2002). Ignoriamo ancora quanti altri meccanismi analoghi esistano, e come possano essere spontaneamente o farmacologicamente modulati per prevenire il dolore inutile.
Vie sensitive afferenti Le vie sensitive periferiche sono costituite dal ramo centrifugo dei neuroni pseudo-unipolari a T dei gangli delle radici dorsali o dei gangli sensitivi craniali di 1° ordine. Comprendono assoni mielinici con diametro e velocità di conduzione ampiamente distribuiti, e da un’assoluta maggioranza (70%) di assoni amielinici C (Tab. 3.2). Il ramo radicolare centripeto, usualmente di calibro inferiore (soprattutto nelle fibre C) decorre nelle radici dorsali che penetrano nel solco dorsolaterale nel midollo. Ogni neurone ganglionare rappresenta un’unità somestesica di 1° ordine (Fig. 3.2). Il successivo destino delle afferenze sentive dal corpo è affidato a due distinti sistemi ascendenti: il sistema lemniscale (o delle colonne dorsali- lemnisco mediale) ed il sistema spinotalamico. Le afferenze sensitive dal volto sono affidate in maniera analoga al sistema trigeminale. Le afferenze tattili superficiali Aβ terminano nella III-IV lamina di Rexed del corno posteriore. Le afferenze termiche mieliniche Aδ (freddo) e C (caldo) terminano esclusivamente nella zona marginale di Waldeyer (lamina I di Rexed), come dimostrato dalla distribuzione dell’immunoreattività per la calbindina. La maggior parte delle afferenze dolorifiche (Aδ-C) attraversano e innervano omolateralmente la zona marginale di Waldeyer (lamina I)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e terminano in massima parte nella sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II esterna ed interna, come dimostrato per alcune sottopopolazioni ricche di tiammina-monofosfatasi) ed anche nella lamina V. Un altro contingente di fibre penetra più ventralmente, innervando la porzione mediale delle corna anteriori (lamina VIII) ed il grigio centrale (lamina X) (Fig. 3.2).
Colonne Dorsali - Sistema lemniscale S. Tattile epicritica, vibratoria, profonda S. dolorifica lenta Aδ-C Aδ
Le terminazioni sinaptiche delle fibre C, normalmente silenti, sotto scarica intensa rilasciano oltre a glutammato anche SP ed altri neuropeptidi, alcuni dei quali, come la SP, amplificano grandemente l’azione eccitatoria di quest’ultimo. Ciò comporta l’innesco della cascata di eventi pre- e postsinaptici responsabile del potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica. Questo fenomeno, noto per la sua importanza nei processi di memorizzazione, appare in gran misura responsabile del dolore cronico postlesionale, ad es. postoperatorio, che può essere prevenuto - o grandemente attenuato - dal blocco anestetico completo delle afferenze nocicettive periferiche prima dell’intervento (anestesia tronculare, epidurale, spinale).
S. dolorifica lenta
Aα-β Aβ
Sistema lemniscale S. tattile superficiale
F. Spinotalamico dorsolaterale S. termica S. dolorifica rapida
F. Spinotalamico ventromediale
Fig. 3.2 - Decorso e terminazione nelle corna posteriori degli assoni di 1° ordine termici, dolorifici e tattili (modificata da Wall e Melzack, 1989). Notare che le colonne dorsali trasportano, oltre ad afferenze tattili epicritiche e profonde (A), anche afferenze dolorifiche viscerali (E). La sensibilità dolorifica somatica lenta è trasportata sia dalla via paleospinotalamica (X) che dal fascio neo-spinotalamico dorsolaterale, che convoglia nella sua porzione più dorsale anche la sensibilità termica. La sensibilità tattile superficiale è trasportata dal fascio spinotalamico ventrolaterale (B). Abbreviazioni: I-II-III-IV-V-VI, X= lamine di Rexed; X= area della sostanza grigia periependimale (in grigio).
I rami centripeti dei neuroni ganglionati a T di I° ordine sono eccitatori e rilasciano glutammato. Le rispettive terminazioni sinaptiche intraspinali esprimono numerosi tipi di recettori, principalmente glutammatergici non-NMDA (AMPA-Kainato), GABAA-B, oppioidi e serotoninergici, che appaiono coinvolti in complessi fenomeni di modulazione presinaptica (depolarizzazione GABAA mediata a causa di un gradiente del Cl- invertito, con conseguente minor ampiezza del potenziale d’azione e minore rilascio di neurotrasmettitore; iperpolarizzazione con inibizione dell’esocitosi per attivazione dei 5-HT e dei µ-recettori oppioidi).
Il sistema lemniscale, o via spinobulbotalamica, è stato probabilmente il sistema afferente sensitivo più indagato nel passato (Norton e Kruger, 1973). Infatti, è costituito da fasci ben localizzati di fibre relativamente omogenee e ad elevata velocità di conduzione e da strutture nucleari e rappresentazioni corticali ben definite, agevolmente indagabili sia nell’animale che nell’uomo mediante tecniche elettrofisiologiche. Il sistema lemniscale utilizza le colonne dorsali del midollo spinale quale primo tratto di transito delle informazioni inviate da tutte le classi di meccanocettori cutanei e profondi, e di parte consistente delle informazioni nocicettive viscerali omolaterali, ed il lemnisco mediale come secondo tratto crociato per il loro trasferimento al talamo sensitivo controlaterale. Esso è il principale responsabile dei processi di elaborazione sottocorticale della sensibilità tattile a carattere esplorativo-cognitivo (epicritica, localizzatoria, complessa), integrando afferenze tattili superficiali con afferenze profonde a carattere propriocettivo. Anatomicamente, le afferenze di 1° ordine coinvolte in queste sensibilità penetrano nel midollo attraverso la porzione mediale della radice dorsale, quindi entrano a fare parte, direttamente o indirettamente, del sistema delle
Funzioni sensitive
colonne dorsali. Queste sono infatti formate da due contingenti di fibre, rispettivamente di 1° e 2° ordine. parte mediale della radice dorsale f. gracile f. cuneato tratto di Lissauer parte laterale della radice dorsale cellule sost. gelatinosa di Rolando e cellule funicolari dorsali
f. spino-talamico dorso-laterale f. spino-talamico ventrale
A
Parietale ascendente
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1.– Fibre ascendenti di 1° ordine. Rappresentano il principale contingente ascendente dorsale, e corrispondono al ramo principale delle fibre radicolari Aβ meccano-propriocettive, che una volta raggiunta la colonna dorsale omolaterale (e solo in minima misura quella controlaterale) forniscono collaterali alle corna posteriori ed ai metameri sottostanti. Ad ogni metamero, le fibre che entrano nelle colonne dorsali tendono a sospingere medialmente quelle ascese dai metameri sottostanti. Esiste quindi una precisa disposizione somatotopica in senso mediolaterale secondo l’ordine: fibre sacrali, lombari, toraciche e cervicali (Fig. 3.3, 3.4 e 3.5), riscontrabile anche nelle successive proiezioni lemniscali. A livello cervico-toracico i contingenti a provenienza sacrale, lombare e toracica inferiore sono ragguppati in un fascio mediale, il fascicolo gracile di Goll, lateralmente separato tramite un sepimento gliale sagittale dai contingenti più laterali a provenienza toracica superiore e cervicale, costituenti il fascicolo cuneato di Burdach. Raggiunta la porzione dorsomediale del bulbo, le fibre terminano nei rispettivi nuclei (mediale di Goll e laterale di Burdach), da cui originano assoni di 2° ordine (fibre arcuate interne a decorso ventromediale) che si incrociano e decorrono come lemnisco mediale in un’area triangolare paramediana situata dorsalmente al fascio piramidale.
Talamo (VPL)
Ponte
1 2 midollo cervicale
S L T C
fasci di Goll e Burdach 1
midollo lombare
S
midollo sacrale
L
T C
CTL
fascio piramidale
B Fig. 3.3 - A. Schema delle modalità di entrata e divisione della radice dorsale nel midollo: la porzione mediale della radice forma direttamente i fasci gracile e cuneato; una parte della porzione mediale e la porzione laterale innervano i neuroni di 2° ordine da cui originano i fasci spinotalamici. B. Schema del decorso delle vie spinotalamiche: 1. fascio spinotalamico ventromediale (sensibilità tattile); 2. fascio spinotalamico dorsolaterale (sensibilità termo-dolorifica); S.L.T.C.: disposizione somatotopica nel fascio spinotalamico (S: fibre sacrali; L: fibre lombari; T: fibre toraciche; C: fibre cervicali).
C T L S
fascio spino-talamico
Fig. 3.4 - Disposizione somatotopica delle fibre della colonna dorsale, opposta a quelle del fascio piramidale e del fascio spinotalamico, fra loro simili (C: cervicale; T: toracico; L: lombare; S: sacrale)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Parietale ascendente
2.– Fibre ascendenti di 2° ordine. Costituiscono tre contingenti minoritari a funzione specializzata, che originano da gruppi neuronali midollari innervati da specifiche afferenze sensitive.
Talamo (VPL)
Ponte
3 4 Bulbo
5 2 C8 1 S1
Fig. 3.5 - Schema delle vie della sensibilità profonda e della sensibilità tattile discriminativa. 1: Fibre del fascicolo gracile; 2: fibre del fascicolo cuneato; 3: nucleo gracile; 4: nucleo cuneato; 5: lemnisco mediale.
In entrambi i fasci, l’arrangiamento somatotopico è simboleggiato da una figura umana semieretta, con le proiezioni relative al volto disposte più medialmente, e quelle sacrali lateralmente. Tale disposizione si accentua nel ponte e nel mesencefalo, ove il lemnisco mediale si lateralizza nelle regioni dorsali avvicinandosi gradualmente al fascio spinotalamico (lemnisco spinale). Nel diencefalo, i due contingenti lemniscali progressivamente si confondono e si distribuiscono senza embricarsi al complesso ventrobasale del talamo (nucleo ventroposterolaterale o VPL). Dal VPL originano assoni di 3° ordine che dapprima attraversano compattamente il terzo posteriore del braccio posteriore della capsula interna, quindi ascendono nella corona radiata come radiazioni talamiche, ed infine terminano nella corteccia parietale sensitiva (IV strato di S1, circonvoluzione parietale ascendente) (Fig. 3.3, B e 3.4).
a) Le afferenze propriocettive dai fusi neuromuscolari (Ia-II) ed organi muscolo-tendinei (Ib) dirette alle corna anteriori ed altre afferenze meccanocettive dalle articolazioni e dalla cute, raggiunta la base del corno posteriore (lamina VI-VIII), innervano direttamente o tramite collaterali il nucleo dorsale (o colonna di Clarke) da cui origina il fascio spinocerebellare dorsale (diretto o omolaterale). All’istmo cervico-bulbare, questo fascio entra nel peduncolo cerebellare inferiore emettendo rami ascendenti che raggiungono il cosiddetto nucleo Z, situato rostralmente rispetto ai nuclei di Goll e di Burdach. Le proiezioni di 3° ordine del nucleo Z entrano infine a far parte del lemnisco mediale. b) Parte delle afferenze sensitive cervicali di 1° ordine, provenienti soprattutto dalla mano, è destinata a neuroni della lamina IV del corno posteriore, dotati di campo recettivo tattile ed anche dolorifico. Le rispettive proiezioni di 2° ordine risalgono omolateralmente nella parte più dorsale della colonna laterale fino a raggiungere il nucleo cervicale laterale (situato nei metameri C1-C2, lateralmente e caudalmente rispetto al nucleo del fascicolo cuneato). Le proiezioni di questo nucleo seguono lo stesso destino della via lemniscale, costituendo quella che è nota come via spinocervicotalamica. La via è presente nei mammiferi ed anche nell’uomo, ed appare di potenziale rilevanza nell’elaborazione delle informazioni stereoestesiche (Weidenfeld et al., 1988). c) Un terzo contingente di afferenze sensitive di 1° ordine è costituito da fibre C a funzione nocicettiva viscerale. Esse originano da piccoli somi a T dei gangli dorsali, che innervano sensitivamente gli organi della cavità pelvica ed addominale, ed il cui ramo centripeto decorre nella radice dorsale frammisto alle altre afferenze somestesiche. Parte rilevante di queste afferenze termina su specifici neuroni della sostanza grigia periependimale (lamina X), i cui assoni di 2° ordine entrano a far parte della colonna dorsale omolaterale decorrendo in due sottili fasci laminari sagittali, uno estremamente mediale al confine con la scissura intermedia (afferenze sacrali), l’altro lateralmente adiacente al sepimento intermedio che divide il fascio di Goll dal fascio di Burdach (afferenze mediotoraciche) (Fig. 3.2).
Funzioni sensitive
I due fasci laminari terminano infine negli stessi nuclei di Goll e di Burdach, e le informazioni viscerali che trasportano seguono lo stesso destino delle altre informazioni lemniscali, raggiungendo il nucleo VPL del talamo, e da esso la corteccia sensitiva. È quasi certo che la piuttosto grossolana somatotopia di questa via non contempli chiare distinzioni di lato, inutili essendo la maggior parte dei visceri impari, e ciò sembra documentato dal massiccio effetto antalgico prodotto da lesioni circoscritte cordonali, che necessariamente devono essere bilaterali per sopprimere il dolore cronico intrattabile di genesi neoplastica (Willis et al., 1999). La restante parte innerva lamine profonde, le cui proiezioni di 2° ordine entrano a far parte del fascio spinotalamico.
Sistema spinotalamico Convoglia la sensibilità termica e dolorifica del corpo, parte della sensibilità tattile superficiale indiscriminata e parte della sensibilità dolorifica viscerale, ed è attivato da afferenze AβAδ-C che decorrono nella porzione laterale delle radici dorsali. È formato da proiezioni crociate di 2° ordine dirette al talamo sensitivo e da proiezioni mono e multisinaptiche ascendenti al tronco dell’encefalo. L’organizzazione sinaptica intramidollare è più complessa e le vie di proiezione meno definite rispetto al sistema lemniscale. 1.– Proiezioni spinotalamiche di 2° ordine. Indicate anche come via neospinotalamica, originano da preferenziali lamine del corno posteriore del midollo, s’incrociano nella commissura bianca ventrale ed ascendono nel quadrante ventrale controlaterale del midollo come fascio spinotalamico (Fig. 3.2, 3.3, 3.4 e 3.5). Esso comprende una porzione dorsolaterale, convogliante la sensibilità termica e dolorifica dell’emisoma controlaterale, che si estende obliqua-
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mente in una porzione ventromediale (o anteromediale), convogliante informazioni dolorifiche ed anche tattili non discriminative prevalentemente dall’emisoma controlaterale (83% crociate, 17% dirette). Poiché le fibre che s’incrociano tendono a sospingere lateralmente quelle già crociate ascendenti dai metameri sottostanti, il fascio spinotalamico risulta somatotopicamente arrangiato in maniera analoga al fascio corticospinale ed in maniera opposta alle colonne dorsali, secondo il seguente ordine medio-laterale: cervicale, toracico, lombare e sacrale. Sul piano funzionale, la maggior parte delle unità spinotalamiche risponde a stimoli meccanonocicettivi, ed una larga parte anche termonocicettivi; molte unità, inoltre, rispondono anche a stimoli tattili innocui, ed alcune quasi preferenzialmente ad essi. Esistono infine unità attivate dalla stimolazione dei muscoli, delle articolazioni e dei visceri. Nel tronco dell’encefalo, il fascio spinotalamico (denominato anche lemnisco spinale) decorre lateralmente all’oliva inferiore, e nel tratto ponto-mesencefalico fiancheggia dorsalmente il lemnisco mediale prima di terminare con esso, senza sovrapposizione, nel talamo sensitivo.
Il contingente (o fascio) spinotalamico dorsale, originato dalle lamine più superficiali del corno posteriore, convoglia le afferenze sensitive a campo recettivo ristretto ai nuclei talamici specifici VPL (dolorifiche ed in una certa misura anche tattili) ed al nucleo ventrale posteriore VP (in particolare, alla porzione ventrale mediale postero-orale o VMpo) (termiche). Tale contingente permette la percezione somatotopica e discriminativa del dolore e della temperatura cutanei. Il contingente (o fascio) spinotalamico ventrale, originato dalle lamine più profonde, convoglia prevalentemente le afferenze multimodali a campo recettivo vasto (spesso esteso all’intero emivolto o all’emisoma controlaterale), e si distribuisce anche al talamo mediale, specie ai nuclei centrale laterale, centromediano e parafascicolare (Fig. 3.3 B), che ricevono anche le informazioni spinotalamiche viscerali. La
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sensibilità tattile e dolorifica superficiale convogliata da tale contingente è quindi poco precisa e localizzata, e si presta inoltre ad errori interpretativi («dolore riferito»). 2.– Proiezioni ascendenti mono e multisinaptiche extratalamiche. Indicate anche come via paleospinotalamica, originano dalle lamine di Rexed profonde (Fig. 3.2), decorrono più medialmente e si distribuiscono in gran parte alla formazione reticolare troncoencefalica connessa ai nuclei talamici mediani aspecifici a proiezione diffusa. Esse comprendono: a) proiezioni al tronco dell’encefalo: tratto spinomesencefalico, dalle lamine I e IV-V a vari nuclei del tetto mesencefalico, al grigio periacqueduttale (PAG) ed al nucleo cuneiforme; tratto spinoreticolare, formato da proiezioni delle lamine VII-VIII-X e da collaterali spinotalamiche dirette a molti nuclei reticolari troncoencefalici, quali laterale e para-gigantocellulare del bulbo, reticolare caudale e dorsale del ponte, locus subcoeruleus e coeruleus, nucleo di Kölliker-Fuse e parabrachiale del passaggio ponto-mesencefalico. Queste vie sembrano principalmente responsabili dell’attivazione di risposte avversive e dei meccanismi di controllo discendente endogeno del dolore, dei meccanismi risveglianti e di orientamento, e dei meccanismi di adattamento omeostatico vegetativo. b) proiezioni limbiche: multisinaptiche (via spinoreticolo-talamo-limbica); monosinaptiche, proiettanti dalle stesse aree spinali all’ipotalamo mediale e laterale ed al nucleo centrale dell’amigdala. Queste ultime vie sono essenzialmente coinvolte nelle risposte neuroendocrine e nell’elaborazione emotivo-affettiva del dolore cronico.
Secondo un’idea ormai consolidata (Bishop, 1959) il “cuore” reticolare midollare (grigio periependimale) rappresenterebbe il punto di partenza della via paleo-spinotalamica, ascendente tramite connessioni multisinaptiche fino al diencefalo (complesso nucleare posteriore e nuclei talamici mediani a proiezione diffusa) e responsabile del dolore diffuso, persistente ed a forte impatto sulla sfera emozionale.
Nel corso dell’evoluzione, si sarebbe poi gradualmente sviluppata la via neo-spinotalamica (dorsolaterale ed ventromediale), responsabile soprattutto degli aspetti immediati, qualitativi e localizzatori della percezione dolorosa. Tale distinzione è ancor oggi molto usata perché è indubbiamente comoda a scopo didattico, anche se, come si è visto, nel fascio spinotalamico dorsolaterale decorrono anche proiezioni dal grigio centrale, ed emerga sempre più chiaramente che le lamine I-II-V da cui origina sono coinvolte in quella serie di fenomeni plastici che caratterizzano l’insorgenza dei dolori cronici più comuni (post-lesionali). Essa, tuttavia, dovrebbe essere ridiscussa, per il fatto che in alcune specie di una stessa classe la via paleo-spinotalamica è assente, mentre in altre specie è ben rappresentato (Kevetter e Willis, 1984).
Le sensibilità trasportate dal sistema spinotalamico (termica, dolorifica, tattile e viscerale) presentano aspetti peculiari. Sensibilità termica.– Utilizza una distinta via ricca di calbindina e di neuropeptide CGRP, immunocitochimicamente mappata sia nel primate che nell’uomo (Blomqvist et al., 2000). Le afferenze termoestesiche di 1° ordine terminano nella lamina I - lamina II esterna delle corna posteriori. Da queste lamine originano proiezioni termoestesiche di 2° ordine che s’incrociano nella commissura bianca anteriore e raggiungono alcuni metameri sopra la porzione più dorsale del fascio spinotalamico dorsolaterale, distribuendosi infine al nucleo VM (ventralis medialis) del talamo (e, più specificatamente alla porzione posterooralis del VMpo e in minor misura ad altre aree del nucleo ventrale posteriore). Da qui originano proiezioni massive verso l’area immediatamente retro-gustativa della corteccia dell’insula omolaterale, ove qualità termiche e gustative degli alimenti possono facilmente integrarsi ed assumere, grazie alle connessioni con la corteccia limbica, significato emotivo (Blomqvist et al., 2000). La particolare convergenza nei nuclei VMpo e PO di afferenze dolorifiche, termiche (in misura notevole da mano e regione bucco-labiale) e vegetative vagali (dal nucleo del tratto solitario e parabrachiale) spiega perché nell’uomo la microstimolazione di quest’area causi un insieme di intense sensazioni termiche, dolorose e viscerali, e la sua lesione focale (così come quella della corteccia insulare innervata dagli stessi nuclei) produca un’ipoestesia termodolorifica a predilezione cheiro-orale preludente alla comparsa nelle stesse sedi di dolore centrale (v. pag. 560).
Funzioni sensitive Sensibilità dolorifica.– Le vie centrali della sensibilità dolorifica sono anatomicamente le vie sensitive più complesse in assoluto, specie a livello intraspinale (Willis e Westlund, 1997). Come è stato già detto, le informazioni nocicettive sono convogliate da fibre Aδ e C del nervo spinale7. Queste fibre in gran parte terminano nelle lamine di Rexed più superficiali (soprattutto lamina I e II), ed innervano non solo i neuroni spinotalamici di 2° ordine (lamina II esterna), ma anche numerosi interneuroni della sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II). In questa ristretta area, i fenomeni di inibizione laterale sono meno marcati rispetto al sistema lemniscale, ma esistono importanti interazioni segmentali multimodali sia fra afferenze tattili/propriocettive ed afferenze dolorifiche, che fra afferenze tattili e viscerali (vedi fenomeno del «dolore riferito», pag. 99). Il quadro è reso ancora più complesso dalla commistione di un’innervazione discendente deputata al controllo endogeno del dolore (Fig. 3.7). Le proiezioni spinotalamiche sono inoltre multiple: i nuclei talamici specifici, localmente modulati con meccanismo a feed-back negativo dal nucleo reticolare del talamo, trasferiscono in modo rapido e somatotopicamente organizzato le informazioni spinotalamiche alla corteccia sensitiva primaria (S1); i nuclei talamici mediani a proiezione diffusa, attivati da afferenze dolorifiche spinotalamiche multisinaptiche, mantengono in allerta l’intera corteccia circa la presenza di un “danno” periferico. Sensibilità tattile.– Riguarda principalmente le informazioni tattili provenienti da recettori cutanei ad adattamento lento e campo recettivo vasto, che di per sé sono in grado di fornire soltanto sensazioni di pressione o di toccamento diffuso e poco localizzato. Queste afferenze, entrate nel corrispondente metamero, emettono collaterali che raggiungono verticalmente alcuni metameri sopra- e sottostanti (2-6), ed infine terminano sui neuroni del nucleo proprio del corno posteriore (III e soprattutto IV-V lamine di Rexed). Questi ultimi inviano proiezioni di 2° ordine che s’incrociano nella commissura anteriore, raccogliendosi nella porzione ventromediale (o anteroventrale) del fascio spinotalamico, adiacente alle emergenze radicolari anteriori (Fig. 3.3, A). Anche in questo caso, un modesto contingente ascende direttamente senza incrociarsi. L’importanza delle informazioni spinotalamiche nella funzione tattile non è stata mai chiaramente appurata. Evidenze indirette, derivanti da sezione dell’intero fascio (trattotomia antero-laterale usata in passato per alleviare
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Esse comprendono anche fibre amieliniche C che provvedono all’innervazione dolorifica delle radici anteriori, della dura madre ventrale e dei relativi vasi (Groen et al., 1988).
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il dolore neoplastico cronico), o viceversa, da lesione massiva delle colonne dorsali, permettono tuttavia di attribuire le qualità somatotopiche, discriminative e direzionali degli stimoli tattili al sistema lemniscale, mentre le altre qualità più grossolane sono in gran parte condivise. Sensibilità viscerale.– Le afferenze viscerali sono in massima parte rappresentate da fibre amieliniche C, ma anche da piccole fibre mieliniche Aδ ( provenienti ad es. dal cuore o dai reni), a funzione nocicettiva viscerale dominante, ma non è chiaro quante di esse si prestino anche al trasporto di informazioni “meccaniche” o “termiche” a carattere non doloroso. Nel midollo, queste afferenze utilizzano almeno due percorsi per giungere al talamo: il sistema colonne dorsali-lemnisco mediale già descritto (v. pag. 94) ed il sistema spinotalamico. Il contingente spinotalamico viscerale nasce da gruppi di neuroni delle lamine III-IV-V immediatamente adiacenti, in senso rostrocaudale, a gruppi di neuroni spinotalamici a dominante attivazione tattile dalle porzioni distali di un arto (Hobbs et al., 1992). Il significato di questa dualità (lemniscale e spinotalamica) nel trasporto del dolore viscerale è ancora incerto. Entrambe le vie, tuttavia, mantengono stretti rapporti di contiguità con la via tattile e ne condividono le stazioni sinaptiche. Ciò si presta ad ulteriori speculazioni sui fenomeni di dolore «riferito», usualmente attribuiti alla «convergenza» su di uno stesso neurone spinale di afferenze cutanee, muscolari e viscerali dai corrispondente territori periferici. La percezione del dolore riferito potrebbe infatti non dipendere solo da questa convergenza spinale, ma anche da meccanismi d’integrazione sensitiva occorrenti a livello superiore, ad es. nei nuclei specifici bulbari e talamici del sistema lemniscale. Diventa più chiaro, quindi, perché la stimolazione intensa di un viscere, soprattutto se ripetuta più volte, provochi un dolore riferito a cute e muscoli grossolanamente sovrastanti e non accada mai il processo inverso. Essendo la corteccia parietale caratterizzata da una dominante e ben definita rappresentazione della sensibilità cutanea, peraltro rintracciabile anche nel talamo sottostante, questa potrebbe sempre essere utilizzata all’occorrenza ed in condizioni estreme, per dar voce ad una rappresentazione viscerale di per sé molto modesta.
Nel sistema spinotalamico, le seguenti peculiarità neuroanatomiche appaiono di particolare rilevanza clinica: 1.- l’arrangiamento somatotopico delle fibre, con gradiente in senso medio-laterale cervicotoraco-lombo-sacrale (Fig. 3.4). Questa dispo-
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sizione spiega perché le lesioni intramidollari centrali, tipicamente la siringomielia, causino anestesie “sospese” caratterizzate da dissociazione “termodolorifica” delle sensibilità, ovvero anestesia termodolorifica con conservazione della sensibilità tattile. Infatti, l’espansione centrale della cavità siringomielica tende a comprimere le fibre che stanno attraversando la commessura bianca anteriore per portarsi al fascio spino-talamico dorso-laterale e a danneggiare simultaneamente il contingente spinoreticolare. L’anestesia termodolorifica è globale (il malato non s’accorge né del dolore immediato, né di quello tardivo secondario a lesioni cutanee accidentali, ad es. bruciature), ha un carattere tipicamente «sospeso» (solo le fibre che s’incrociano sono lese, mentre sono risparmiate sia quelle dei metameri sottostanti, ormai decussate e lateralizzate, sia quelle sovrastanti la lesione) ed è bilaterale, ma spesso asimmetrica. Eccezioni che confermano la regola sono rappresentate dall’ipoestesia termodolorifica isolata controlaterale con livello metamerico, causata da un tumore extramidollare che comprime dall’esterno il fascio spinotalamico dorsolaterale. 2.- la biforcazione verticale degli assoni termodolorifici nel tratto di Lissauer, con innervazione metamerica multipla delle lamine di Rexed I-II sopra- e sottostanti. Ciò potrebbe spiegare l’iperestesia, l’iperalgesia e l’allodinia osservabili nei dermatomeri immediatamente sovrastanti un metamero midollare leso (v. pag. 102) 3.- l’incrociamento in salita degli assoni spinotalamici di 2° ordine, il cui ingresso nel fascio spinotalamico si completa uno o più metameri al di sopra della loro origine, con discrepanze di un metamero nel tratto medio-toracico e di due - cinque metameri nel tratto cervicale. Ciò spiega perché la sindrome da emisezione midollare trasversa di Brown-Séquard (v. pag. 468) comporti omolateralmente una sottile fascia di anestesia superficiale “sospesa” (per distruzione dei neuroni spinotalamici) e controla-
teralmente, un’anestesia termodolorifica con margine superiore situato alcuni metameri al di sotto di quello leso (per interruzione dei contingenti spino-talamici ascendenti già decussati e lateralizzati). SISTEMA TRIGEMINALE La sensibilità superficiale del viso (Fig. 3.6), delle mucose del naso, di parte della cavità orale e della cornea è convogliata dai recettori cutanei e mucosi innervati dal nervo trigemino (V). I neuroni ganglionari a T di 1° ordine relativi a queste sensibilità sono contenuti nel ganglio semilunare di Gasser, che giace nel cavo di Meckel ed è rivestito dalla dura madre della base cranica. I rispettivi rami assonali centrifughi formano tre distinti nervi, l’oftalmico, il mascellare ed il mandibolare destinati alla faccia, mentre in prolungamenti centripeti si raccolgono in un unico tronco, la radice principale del V. Raggiunta la porzione dor-
Talamo VPM
Lemnisco trigeminale
Radice ascendente del V° Branca oftalmica Branca mandibolare Branca mascellare Nucleo sensitivo principale del V°
Radice discendente del V°
Fig. 3.6 - Schema del decorso delle vie trigeminali e del lemnisco trigeminale.
Funzioni sensitive
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solaterale del ponte, un certo contingente assonale si distribuisce al nucleo sensitivo principale pontino del V, mentre gli altri discendono caudalmente nella porzione più latero-esterna del bulbo, raggiungendo i primi segmenti cervicali come radice discendente. Quest’ultima avvolge dall’esterno ed innerva in maniera somatotopicamente arrangiata il corrispettivo nucleo (nucleo della radice discendente del V), costituito in senso cranio-caudale da vari sub-nuclei specializzati. Il nucleo principale pontino è essenzialmente preposto alla trasmissione della sensibilità tattile, il nucleo della radice discendente alla sensibilità termodolorifica. Gli assoni di 2° ordine, originati dal nucleo principale e dal nucleo della radice discendente, s’incrociano ed ascendono in due contingenti globalmente denominati lemnisco trigeminale fino a raggiungere il nucleo ventro-postero-mediale (VPM) del talamo, e, limitatamente alla sensibilità termica e dolorifica, i nuclei VMpo e parafascicolare. Le proiezioni di 3° ordine del VPM decorrono assieme alle altre proiezioni talamocorticali sensitive nella capsula interna e corona radiata per raggiungere infine la circonvoluzione parietale ascendente (corteccia post-centrale). I rami assonali centrifughi propriocettivi, innervanti i muscoli facciali e masticatori, decorrono nel ganglio di Gasser e nella radice principale del V, quindi, una volta penetrati nel ponte, ascendono fino ai rispettivi somi d’origine, situati nel nucleo mesencefalico del V. Questa rappresenta un’eccezione piuttosto unica, riscontrabile soltanto nel sistema trigeminale, che va sottolineata: il soma del neurone propriocettivo a T non risiede nel ganglio di Gasser, ma in una colonna nucleare dorsale subependimale mesencefalo-pontina. I rami centripeti di questi neuroni trigeminali proiettano principalmente al nucleo motore del V (pontino), ma anche a molte altre stutture troncoencefaliche ed al cervelletto.
– le vie sono in massima parte crociate, per cui le informazioni sensitive provenienti da un emisoma sono convogliate all’emisfero opposto; – le vie sono somatotopicamente organizzate, dotate in ogni stazione sinaptica di circuiti locali di potenziamento del rapporto segnale/ rumore, e di meccanismi segmentali e sovrasegmentali di controllo; – in larga misura, anche sul piano anatomico, le diverse modalità sensitive si mantengono separate. Il sistema lemniscale conduce la maggior parte delle informazioni tattili epicritiche e propriocettive muscolo-scheletriche, e parte delle informazioni nocicettive viscerali. Il sistema spinotalamico trasporta le informazioni termiche, le informazioni dolorifiche superficiali e profonde, e parte delle informazioni tattili cutanee e nocicettive viscerali. L’integrazione talamica delle varie afferenze sensitive permette la percezione immediata e la localizzazione spaziale precisa degli stimoli, la loro identificazione qualitativa (nucleo VPL), la percezione del dolore tardivo conseguente a stimoli lesivi (nuclei talamici posteriori, corteccia retro-insulare) e la risposta emozionale a questo tipo di dolore (nuclei talamici intralaminari, corteccia cingolata anteriore).
In sintesi, le principali caratteristiche anatomiche delle vie somatosensitive possono essere così riassunte:
Alterazioni della sensibilità soggettiva (Sintomi sensitivi positivi)
– la via somatosensitiva è costituita in massima parte da tre ordini di neuroni ascendenti: a) 1° ordine, con soma nei gangli dorsali o nei corrispondenti gangli dei nervi cranici sensitivi (V-IX-X); b) 2° ordine, con soma situato nel bulbo (sistema lemniscale) o nella sostanza grigia del midollo (sistema spinotalamico); c) 3° ordine, con soma situato nel talamo sensitivo (principalmente nucleo VPL);
IL DOLORE Per la corretta comprensione dei fenomeni clinici e fisiopatologici relativi al dolore è indispensabile premettere le definizioni di alcuni termini (Merskey e Bogduk, 1994): – Dolore: esperienza sensoriale ed emozionale sgradevole, associata a danno tissutale reale o potenziale, o comunque descritta in tal senso.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– Disestesia: sensazione spiacevole o anche dolorosa abnorme che colora parestesie spontanee o evocate (vedi oltre). Disestesia è quindi un termine piuttosto generico, riferibile ad una grande varietà di dolori causati da stimoli periferici o insorgenti spontaneamente. Nella definizione di disestesia occorre porre attenzione all’aggettivo «abnorme»: un dolore con caratteristiche disestesiche è un dolore inusuale, «strano», che il paziente difficilmente ha avvertito in precedenza. Si tratta di dolori a tipo scossa elettrica, urenti, a puntura di spillo, avvertiti sempre nel territorio di innervazione di un nervo o di una o più radici. – Iperestesia: aumentata sensibilità ad uno stimolo. Si usa per indicare in senso generale una diminuzione della soglia ad uno stimolo (tattile, termico, dolorifico), oppure per definire l’aumentata risposta ad uno stimolo che viene riconosciuto normalmente. Casi particolari di iperestesia sono l’allodinia e l’iperalgesia. – Iperalgesia: percezione, sproporzionata in eccesso, di uno stimolo doloroso. Lo stimolo viene quindi qualificato correttamente come doloroso, ma la sua quantificazione in termini di intensità è erronea. – Allodinia: è la percezione di dolore, anche intenso, in risposta a stimoli normalmente non dolorosi, specie tattili. Si tratta quindi di un errore nell’identificazione della qualità dello stimolo. Nella sua genesi è stata invocata la reinnervazione della lamina II, parzialmente deprivata per lesione neuroperiferica di afferenze Aδ-C, da parte di fibre afferenti mieliniche di grosso calibro, o un’ipersensibilizzazione dei neuroni spino-talamici ad ampia dinamica (sensibili cioè a stimoli nocivi e non nocivi), per potenziamento a lungo termine NMDA-mediato. Quest’ultima ipotesi, che si adatterebbe particolarmente ai casi in cui iperalgesia ed allodinia coesistono, trova supporto sperimentale nel fatto che l’allodinia da danno neuroperiferico è preceduta da una marcata e selettiva espressione della subunità α2-delta del canale del Ca2+ voltaggio-dipendente di tipo L nei rispettivi neuroni ganglionari (Luo et al., 2001). Ciò può spiegare l’efficacia antidolorifica
del gabapentin, nuovo farmaco antiepilettico selettivo per tale subunità.
– Alloestesia: è la percezione di dolore superficiale in un’area normoestesica differente da quella ipoestesica stimolata. Può assumere carattere controlaterale, nel qual caso è più correttamente definita allochiria. È attribuita alla conduzione del messaggio nocicettivo attraverso il contingente ascendente omolaterale del tratto spinoreticolare – Iperpatia: è una sindrome caratterizzata da un’aumentata soglia agli stimoli dolorosi, non percepiti come tali sino a quando non raggiungono una data intensità o una data frequenza di ripetizione; successivamente ed improvvisamente, gli stimoli sono percepiti in modo marcatamente esagerato, con forte componente psico-affettiva. Sono presenti anche erronee identificazioni e localizzazioni dello stimolo. In senso generale, il dolore può rappresentare una manifestazione puramente biologica, e segnalare con la sua presenza l’esistenza di un danno tissutale, oppure derivare da un’abnorme elaborazione psico-affettiva di situazioni somatiche ed anche non somatiche, vissute ed interpretate dal soggetto in termini dolorosi. Il dolore psichico, ad es. da separazione o lutto da perdita, può avere componenti somatiche, ma queste rimangono quasi sempre prive di quel particolare contenuto di corporeità che contraddistingue il dolore fisico. Quest’ultimo, in condizioni normali, funge da «campanello di allarme» per avvertire l’individuo che esiste un danno tissutale, o un imminente pericolo di tale danno. A differenza tuttavia dei comuni sistemi di allarme, che possono essere disattivati una volta assolto il loro compito, il dolore causato da danno dei tessuti somatici tende a mantenersi nel tempo e, in caso di danno delle fibre nervose o del SNC centrale, a trasformarsi in un dolore cronico o «dolore inutile».
Funzioni sensitive
A questo proposito, il SNC è dotato di almeno due differenti sistemi di controllo del dolore ben integrati fra loro, uno rapido, basato su meccanismi intraspinali metamerici «teoria del controllo a cancello» (Melzack e Wall, 1965), l’altro più lento, basato su meccanismi riflessi discendenti multisinaptici attivati dallo stesso dolore («controllo endogeno del dolore», Basbaum e Fields, 1978). Le differenze fra i due meccanismi sono numerose, ma quella più saliente è rappresentata dalla differente suscettibilità al naloxone, antagonista oppiode a vasto spettro: il controllo metamerico è naloxone-indipendente, mentre il controllo endogeno è in gran misura naloxone-dipendente (Fig. 3.7). 1.– Teoria del controllo a cancello (Wall, 1989). Si riferisce in senso stretto ai sistemi rapidi di elaborazione e controllo della trasmissione sensitiva intraspinale, e contempla quattro componenti: a) interazione funzionale fra afferenze a conduzione rapida (Aβ) e lenta (Aδ-C), dimostrata dall’inibizione rapida del dolore per stimolazione ripetitiva di fibre Aβ-δ afferenti allo stesso livello metamerico fino al raggiungimento di dolore puntorio (stimolazione periferica transcutanea dell’area algica); b) ricca dotazione di interneuroni nel corno posteriore, specie nelle lamine I-II; c) controllo centrale delle stesse aree da parte di efferenze discendenti (dai metameri spinali più craniali, dai nuclei di Goll e di Burdach, dai nuclei del rafe e locus coeruleus, dal tetto mesencefalico, dall’ipotalamo, dal n. parafascicolare del talamo, dalla corteccia fronto-parietale e da collaterali piramidali, etc.); d) neuroni spinotalamici di proiezione, deputati all’elaborazione sinaptica e trasmissione del messaggio doloroso, suscettibili di modificazioni plastiche (Fig. 3.7). In caso di danni tissutali, soprattutto profondi, la prolungata scarica delle fibre C produce, probabilmente attraverso meccanismi di potenziamento a lungo termine, una diffusa ipereccitabilità dei neuroni spinotalamici, con allargamento dei loro campi recettivi, ed insorgenza di iperalgesia, allodinia e dolore riferito. Se è invece un nervo ad essere colpito (traumi, neuropatie), la degenerazione parziale delle sinapsi afferenti di 1° ordine può causare abnorme ipereccitabilità spinotalamica ed interneuronale per cause presinaptiche (attivazione dei recettori bradichininici B1 delle fibre C IL-B4 positive, normalmente inattivi) e postsinaptiche (neo-assemblamento dei recettori al glutammato in regioni di membrana prive di sinapsi). Questi fenomeni locali possono essere ulteriormente peggiorati dalla formazione di
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Fig. 3.7 - Schema dell’innervazione dei neuroni spinotalamici dolorifici (STn) nelle lamine I-II di Rexed delle corna posteriori del midollo spinale. Notare la dotazione di interneuroni (cellule ad “isola”) eccitatori (in grigio) ed inibitori (in nero), che modulano l’eccitabilità di interneuroni eccitatori effettori (cellule a “stelo”, S). Gli assoni C eccitano i neuroni STn sia direttamente che tramite gli interneuroni a stelo (S), che possono essere inibiti da interneuroni GABAergici e glicinergici (GLY) attivati da una un’intensa scarica degli assoni Aβ–δ (teoria del cancello). Le afferenze algogene spino-mesencefaliche al grigio periacqueduttale (PAG) attivano i nuclei bulbari del rafe magno (NRM) e para-gigantocellulare (NRpg). Questi, tramite il fascio discendente dorso-laterale spinale (FDL), inibiscono direttamente o tramite un interneurone encefalinergico (E) i neuroni STn. Abbreviazioni: 5-HT= serotonina; E= interneurone encefalinergico; FDL = fascio dorso-laterale; GD = ganglio dorsale; GABA = acido γ-amino-butirrico; GLU = glutammato; GLY = glicina; δ-κ-µ = recettori oppioidi; NA = noradrenalina; NRM = n. del rafe magno; NRpg= nucleo paragigantocellulare; PAG = grigio periacqueduttale; TAL = talamo (modificato, da Wall e Melzack, 1989).
efapsi8 periferiche fra terminazioni C neoformate nei tessuti dalle fibre C integre (Fig. 3.7), e da proliferazione abnorme di fibre C ortosimpatiche sia a livello periferico che attorno ai somi dei neuroni ganglionari. Ciò spiegherebbe il fenomeno noto come causalgia, caratterizzato da intenso dolore cronico di tipo neuropatico associato a turbe vegetative periferiche, insensibile alla morfina, ma attenuabile all’arto superiore mediante blocco farmacologico adrenergico (infiltrazioni del ganglio stellato, perfusione locale intra-arteriosa). 8
Il termine efapsi indica un contatto non sinaptico fra due assoni contigui capace di causare la propagazione del un potenziale d’azione da un assone all’altro in senso mono- o bidirezionale (diafonia).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
2.– Controllo endogeno oppioide, serotoninergico e noradrenergico (Fields e Basbaum, 1989) (Fig. 3.7). I principali sistemi discendenti di controllo nascono da specifici nuclei troncoencefalici fra loro connessi, e principalmente, in senso cranio-caudale, sostanza grigia periacquedottale mesencefalica (PAG), nucleo del rafe magno bulbare (NRM) e nucleo para-gigantoreticolare bulbare (NRpg). La stimolazione elettrica della PAG o del NRM provoca potente analgesia naloxone-dipendente per inibizione della trasmissione dolorifica a livello spinale. In condizioni fisiologiche, la PAG può essere attivata dalle afferenze nocicettive che ascendono nel tratto spinomesencefalico. La PAG, a sua volta, invia efferenze discendenti ai neuroni serotoninergici del NRM ed ai neuroni noradrenergici del NRpg, le cui proiezioni discendenti decorrono come sottile fascio dorso-laterale subpiale nella parte più dorsolaterale del midollo e terminano nel corno posteriore in corrispondenza della sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II). Sia PAG che sostanza gelatinosa sono densamente dotate di recettori oppioidi (µ, δ, κ), serotoninergici e noradrenergici e sintetizzano intensivamente oppioidi endogeni (leucina- e metionina-enkefalina, β-endorfina, dinorfina, endomorfina). La morfina endogena (endomorfina) ed esogena, così come i suoi analoghi sintetici, sono potenti analgesici che si legano ai recettori oppioidi di queste aree ed esercitano una funzione globalmente inibitoria. Tale azione può essere bloccata da antagonisti esogeni quali ad es. il naloxone, o anche endogeni, quali il peptide CGRP, liberato nelle lamine I-II del midollo dalle afferenze nocicettive C IL-B4 negative. Nelle stesse aree, anche serotonina e noradrenalina esercitano funzione inibitoria tramite specifici recettori.
In condizioni di corretto funzionamento delle vie nervose, i sistemi di controllo delle afferenze nocicettive possono essere talmente efficaci da rendere inavvertito anche un dolore conseguente a gravi traumatismi. Condizioni di stress fisico e particolari atteggiamenti psicologici possono sicuramente mettere in atto sistemi di controllo. Ne sono esempi ben conosciuti le analgesie che si verificano in casi di ferite riportate in combattimento, nel corso di eventi sportivi e in occasione di particolari cerimonie religiose svolte da alcune comunità primitive. In conclusione, la presenza di una percezione dolorifica dipende dalla prevalenza che i sistemi di attivazione nocicettiva hanno su quelli di inibizione, e la assenza di dolore è dovuta alla
condizione inversa. La condizione di «non dolore» è quindi, sempre e comunque, una condizione attiva, collegata al corretto funzionamento del sistema nervoso centrale. È facilmente comprensibile come lesioni del sistema nervoso centrale possano interferire con il corretto equilibrio dei due sistemi e dar luogo a sindromi in cui il dolore viene avvertito anche in completa assenza di stimoli esterni. Si tratta del dolore patologico, che ha perso il significato di «campanello d’allarme». Il dolore è caratterizzato da qualità, intensità, localizzazione spaziale e temporale, circostanze scatenanti, aggravanti ed allevianti e l’analisi delle varie caratteristiche è di importanza determinante per una corretta diagnosi. A questo scopo sono stati preparati vari questionari in cui sono raccolti i numerosissimi termini che il paziente puo utilizzare per descrivere il dolore. Il più conosciuto ed applicato in campo internazionale è il McGill Pain Questionnaire, tradotto ormai in molte lingue, che riporta ben 78 possibili aggettivazioni suddivise in 20 gruppi. In ogni caso, anche in assenza di questionari specifici, è possibile raccogliere notizie abbastanza accurate osservando alcune semplici regole. Occorre dapprima annotare la localizzazione del dolore su di un disegno del corpo umano, successivamente si definiscono le caratteristiche temporali, con la distinzione fondamentale tra dolori parossistici e non parossistici o persistenti, e fra dolori acuti e cronici. Gli aggettivi «parossistico» e «persistente» si riferiscono al singolo attacco, oppure, se gli attacchi non sono distinguibili l’uno dall’altro, all’andamento del dolore nell’ambito delle 24 ore. Un parossismo solitamente ha la durata di pochi secondi o minuti, mentre il dolore persistente è presente per ore, più o meno con la medesima intensità. L’acuzie e la cronicità si riferiscono invece alla durata globale della malattia. Si puo quindi dire, ad esempio, che la nevralgia trigeminale è caratterizzata da dolore parossistico e da una
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condizione cronica. Al contrario, la sciatalgia è un dolore persistente, ma, nei casi più favorevoli, la condizione è fortunatamente acuta. Per quanto riguarda la qualità del dolore, dovrà essere lo stesso esaminatore a suggerire i termini e a chiedere al paziente come si adattino a quanto percepito. Qualità comuni sono quelle del dolore di tipo urente, gravativo, o con caratteristiche folgoranti (a tipo scossa elettrica). L’intensità è difficilmente valutabile; un criterio utile è quello di chiedere al paziente se al momento della visita il dolore è presente, per verificare se esiste una proporzione tra quanto riferito verbalmente ed eventuali atteggiamenti antalgici o di sofferenza. Inoltre è essenziale comprendere se e quanto il dolore interferisce con l’attività lavorativa o generale. Numerose sono le malattie o affezioni del sistema nervoso che possono provocare l’insorgenza di dolore, spesso con caratteristiche abbastanza definite. Sul piano fisiopatogenetico, si possono distinguere almeno tre grandi categorie di dolore: somatogeno, neurogeno e centrale.
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1.– Dolore somatogeno. Deriva dall’attivazione dei nocicettori periferici, causata da lesioni superficiali o profonde del corpo, e contempla sia il dolore immediato e rapido che si prova al momento del danno (ad es. taglio accidentale), sia il dolore tardivo, lento e cronico, che ad esso fa seguito. Questo tipo di dolore non è di specifico interesse neurologico.
raffiche, costituendo una crisi perdurante alcuni minuti. Le crisi sono usualmente seguite da modesta dolenzia diffusa che tende rapidamente a svanire, tendono a ripetersi più volte spontaneamente, e sono anche tipicamente scatenate da lievi stimolazioni cutanee tattili o termiche di particolari aree cutanee o «zone trigger» incluse nel territorio ove il dolore proietta. Sono assenti di regola deficit sensitivi e manifestazioni flogistiche periferiche primitive o secondarie. Questo tipo di dolore assomiglia alla violenta fitta dolorosa indotta da una stimolazione elettrica o meccanica soprasogliare di gruppi compatti di nocicettori (ad es. polpa dentaria), di un tronco nervoso sensitivo (ad es. nervo ulnare al gomito per urto accidentale), di una radice dorsale (ad es. per accidentale sfioramento durante una rachicentesi), ed anche dei suoi prolungamenti all’ingresso o dentro al midollo spinale (vedi ad es. fibre delle colonne dorsali e relativo segno di Lhérmitte). È insensibile ad oppiacei ed antidolorifici non oppioidi, ma prevenibile ed attenuabile solo da farmaci antiepilettici (fenitoina, carbamazepina, lamotrigina, topiramato, etc.). Le nevralgie intese come entità cliniche a sé stanti sembrano appannaggio pressoché esclusivo dei nervi cranici sensitivi (soprattutto V, v. pag. 266), essendo di fatto scomparsa la possibilità di osservare le violente crisi nevralgiche (dolori folgoranti) a distribuzione radicolare e gli equivalenti accessuali viscerali (crisi vegetative) descritti in passato nella tabe dosale.
2.– Dolore neurogeno. Si riferisce genericamente ai due differenti tipi di dolore con cui si manifesta la sofferenza o il danno delle fibre sensitive periferiche, rispettivamente dolore nevralgico e dolore neuropatico. a) Dolore nevralgico (da sofferenza delle fibre nervose). È un dolore parossistico folgorante, acutissimo e di brevissima durata, irradiato nel territorio di un nervo o di una radice, che compare all’improvviso e si sussegue in brevi
Il dolore nevralgico si ritiene dipenda da scariche ectopiche massive producentisi in corrispondenza di ristrette aree demielinizzate di assoni Aβ-Aδ, la cui conduzione è rallentata in maniera minima ed inapparente (Calvin et al., 1982; Calvin et al., 1977; Hilton et al., 1994). In corrispondenza della radice del V, ove gli assoni non adeguatamente protetti sono particolarmente vulnerabili a compressioni vascolari anche modeste («conflitto neuro-vascolare»), vi sarebbe anche una maggiore la probabilità di formazione di contatti efaptici (Burchiel, 1980). Sebbene la coesistenza di un’alterata elaborazione sinaptica centrale dei messaggi sensitivi periferici non pos-
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sa essere esclusa (Bowsher, 1997; Fromm et al., 1984), essa rimane non adeguatamente dimostrata. Il fatto che tipici attacchi scatenati da stimoli acustici siano stati osservati - e solo per alcuni giorni - in un paziente con lesione demielinizzante pontina del lemnisco laterale e dell’adiacente via trigeminale (Hartmann et al., 1999), e soprattutto l’immediata scomparsa della nevralgia in seguito ad intervento decompressivo (come si verifica anche nello speculare - e fisiopatogeneticamente analogo - fenomeno dell’emispasmo facciale), mantengono l’ipotesi “assonale” in assoluto primo piano (Broggi et al., 2000).
b) Dolore neuropatico (da lesione delle fibre nervose). Il dolore neuropatico è la più importante e frequente causa di dolore cronico non somatico o viscerale, e può insorgere in seguito a lesione di radici nervose e di nervi periferici, settore craniale incluso (Burchiel, 1993). È poco sensibile agli oppioidi, ed è assai poco sensibile anche agli antidolorifici non oppioidi. È caratterizzato da sensazioni urenti, talora anche intensamente puntorie, o crampiformi e costrittive, a carattere persistente, ma suscettibili di esacerbazione da parte di stimoli periferici o movimenti degli arti, con distribuzione limitata al territorio di una radice (v. pag. 000) o di un singolo nervo, oppure diffusa agli arti, specie alla loro estremità distale (polineuropatie croniche). Coesiste di regola un deficit di una o più sensibilità obbiettive nello stesso territorio doloroso. Il dolore neuropatico è molto spesso accompagnato da iperalgesia o allodinia. Qualora sia associato ad importanti manifestazioni vegetative di tipo ortosimpatico (turbe della sudorazione, della vasomotilità cutanea, della piloerezione) si configura il quadro più complesso della cosiddetta «causalgia», entità clinica per molti aspetti sfuggente, sostenuta soprattutto dalla risposta, talora spettacolare, al blocco dei gangli prevertebrali ortosimpatici o al trattamento locale con antagonisti adrenergici. Il dolore da lesione spinale presenta caratteristiche simili a quello neuropatico, ma essendo causato quasi sempre da lesioni traumatiche del midollo, specie a livello dorso-lombare, si distribuisce diffusamente a vaste aree del cor-
po (arti inferiori, addome), e talvolta si può associare a sensazioni intensamente dolorose tipo «arto fantasma», simili a quelle che possono insorgere negli amputati ma assai meno distinte. Tali sensazioni sarebbero presenti in circa un terzo dei casi con sezione anatomica completa o parziale del midollo. c) Dolore «centrale» (da lesioni cerebrali). Si manifesta quasi sempre nell’ambito di sindromi causate da lesioni cerebrovascolari circoscritte. Il termine dolore «centrale» è sinonimo di tali sindromi, e non comprende i dolori di origine spinale (Merskey e Bogduk, 1994). Sicuramente la piu conosciuta è la sindrome talamica di Déjerine e Roussy, la prima sindrome dolorosa di origine cerebrale ad essere descritta, anche se non la più frequente, dovuta ad una lesione talamica parcellare, ed associata ad altri segni e sintomi neurologici di tipo sensitivo e motorio (v. pag. 560, 562). I1 dolore è di tipo persistente, di qualità urente, talvolta terebrante o lancinante, e si manifesta tipicamente con le caratteristiche dell’allodinia e dell’iperpatia, localizzandosi nelle aree del corpo colpite da ipoestesia termodolorifica a distanza di qualche tempo dall’incidente vascolare. Si distribuisce tipicamente alla porzione inferiore del volto ed alla mano (distribuzione «cheiro-orale»), ma può interessare anche aree più vaste, fino ad un intero emisoma. Sintomatologia dolorosa analoga, pur se accompagnata da diversi segni e sintomi neurologici, si verifica per lesioni delle vie sensitive caudalmente o rostralmente al talamo. Si parla, in tali casi, di sindromi «pseudotalamiche». Occorre sottolineare il fatto che nel caso di lesioni troncali con interessamento dei nuclei trigeminali, l’ipoestesia ed il dolore che si localizzano alla faccia occorrono nel lato opposto rispetto al resto del soma, seguendo la regola generale delle «sindromi alterne». Nell’ambito di queste ultime, la sindrome di Wallenberg, causata da lesione laterale bulbare, è spesso accompagnata da dolore centrale (v. pag. 486).
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Un paragrafo a parte merita la sclerosi multipla, in cui il dolore assume aspetti proteiformi come la malattia che ne sta alla base. Dolore e Sclerosi Multipla. Le manifestazioni dolorose più note sono i dolori parossistici, che possono assumere i seguenti aspetti: a) nevralgia trigeminale: è indistinguibile dalla nevralgia «essenziale», se non per l’età di insorgenza (giovanile), la frequente bilateralità e l’eventuale presenza di altri segni della malattia; b) segno di Lhérmitte: sono sensazioni folgoranti a tipo «scossa elettrica» a carattere per lo più sgradevole ma, talora, anche intensamente doloroso, che si irradiano lungo il corpo e gli arti in seguito a movimenti di flessione del capo. Il segno è presente in circa il 40% dei malati con sclerosi multipla; c) dolori urenti parossistici: piuttosto rari come sintomo isolato, si manifestano in modo stereotipato nello stesso individuo, coinvolgendo solitamente il segmento di un arto; d) crisi toniche: consistono nella contrazione di gruppi muscolari di un arto accompagnata da dolori crampiformi, e sono una delle manifestazioni più intense e fastidiose della malattia, specie nelle localizzazioni spinali a decorso ingravescente progressivo. Esistono inoltre dolori persistenti, fra i quali il più comune e refrattario più di altri alla terapia è di tipo urente o gravativo (30% dei casi), irradiato agli arti inferiori, e si aggrava di notte, con il calore, e con le variazioni atmosferiche. Quasi tutti coloro che lamentano questo tipo di dolore hanno qualche segno di coinvolgimento dei tratti spinotalamici o delle colonne dorsali. Esiste un altro tipo di dolore persistente, decisamente più raro, ma molto più rilevante del precedente, con caratteristiche di violenta «scossa elettrica» irradiata a tronco ed arti. Altro dolore di tipo persistente è quello che accompagna la neurite ottica: esso è localizzato ai globi oculari o alla regione orbito-frontale,
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ed è esacerbato dai movimenti oculari. Nonostante questo dolore sia molto comune, spesso può essere di entità modesta e non riferito dal paziente. LE PARESTESIE Le parestesie sono percezioni abnormi, spontanee o anche evocate, usualmente riferite come sensazioni di formicolio, di puntura di spillo, di costrizione o fasciatura, di acqua che scorre, di intorpidimento o addormentamento. Se assumono carattere molto fastidioso o francamente doloroso, dovrebbero più appropriatamente definirsi «disestesie». Le parestesie possono essere prodotte sia da scariche spontanee abnormi ectopicamente generate lungo il decorso di assoni mielinici sensitivi periferici o centrali, sia da analoghe scariche abnormi originate da focolai irritativi corticali. Di per sé, quindi, esse non forniscono specifiche indicazioni né sul tipo né sulla sede di un’eventuale patologia nervosa in atto. Gli unici elementi utili ai fini diagnostici sono la localizzazione ed il contesto clinico in cui esse si verificano. 1.- Genesi assonale ectopica. Adrian per primo descrisse nel 1930 l’occorrenza spontanea di scariche ectopiche in un nervo sensitivo sezionato (“injury discharges”) (Adrian, 1930). Questa abnorme attività può assumere tre aspetti: 1) scarica continua di impulsi a frequenza elevata (> 150 Hertz), 2) scarica irregolare a frequenza minore e 3) scarica in brevi raffiche ripetitive ad alta frequenza. In assenza di danno, scariche ectopiche possono essere indotte nelle fibre sensitive mieliniche periferiche e con minor facilità nelle fibre mieliniche motorie - da quattro manovre: a) iperventilazione (o alternativamente ipocalcemia), b) ischemia, c) riperfusione post-ischemica e d) tetanizzazione prolungata. L’alcalosi respiratoria indotta da iperventilazione, e comunque una ridotta disponibilità degli ioni liberi Ca2+, aumenta selettivamente la conduttanza del Na+ attraverso canali non inattivanti, mentre la depolarizzazione della membrana prodotta da ischemia aumenta la conduttanza di tutti i tipi di canali del Na+. In entrambi i casi, l’attivazione simultanea di conduttanze per il K+ rapide e lente porta ad un progressivo ac-
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cumulo di K+ nello spazio periassonale submielinico degli internodi. Poiché l’accumulo non può essere rapidamente compensato dalla pompa Na+/K+, il gradiente elettrochimico del K+ si riduce fino ad invertirsi ed a causare un influsso di K+ tale da innescare scariche ripetitive ad alta frequenza coincidenti con le sensazioni parestesiche (o le fascicolazioni). Questa fase di depolarizzazione dell’internodo (flip) si alterna ad una fase polarizzata silente (flop) in maniera ciclica, probabilmente per una disomogenea distribuzione del K+ extracellullare lungo l’assolemma internodale. Le parestesie post-ischemiche e post-tetaniche tendono così ad assumere l’aspetto di scosse o vibrazioni elettriche intense ad elevata frequenza, assomigliando ad “injury discharges” di tipo III. Nella patologia demielinizzante delle fibre sensitive periferiche e lemniscali a rapida velocità di conduzione, è stato invece osservato che l’assolemma privo di guaina mielinica non solo rallenta o anche blocca la propagazione dei potenziali d’azione, ma diventa anche sede di oscillazioni depolarizzanti periodiche a tipo “pacemaker”, suscettibili di propagarsi elettrotonicamente fino al primo internodo indenne ed ivi generare scariche spontanee continue a 5-20 Hertz. Tali oscillazioni sembrano dipendere dall’esposizione, o neo-espressione, di classi di canali del Na+ non inattivanti (principale candidato il canale Na v1.6) (Baker, 2000). Questo meccanismo, che potrebbe forse anche valere per le fibre talamo-corticali, non ne escluderebbe di per sé altri, fra cui il salto di potenziali d’azione fra fibre demielinizzate contigue (trasmissione efaptica). In entrambi i casi, le afferenze periferiche possono modulare i fenomeni assonali locali inducendo, o amplificando, la scarica assonale ectopica responsabile delle parestesie. 2.- Genesi corticale. Essenzialmente due sono i meccanismi corticali capaci di generare scariche spontanee a frequenza sostenuta: l’epilettogenesi focale (v. pag. 000), e la «spreading depression» di Leão (v. pag. 000). In entrambi i casi, la diffusione della scarica dal focolaio iniziale alle rappresentazioni somatotopiche contigue della corteccia sensitiva primaria (S1) si può tradurre in parestesie migranti con maggior espressività, e probabilità di localizzazione, nei territori del corpo più estesamente rappresentati (volto, mano, piede).
Cause banali, non patologiche, di parestesie a genesi periferica sono rappresentate dalla compressione meccanica di un tronco nervoso (è esperienza comune quella delle parestesie nel territorio dei nervi ulnare, sciatico o peroneo a
seguito di malposizionamento degli arti, che possono allarmare solo i bambini ancora ignari del fenomeno). L’ischemia, l’ipocapnia e l’ipocalcemia sono altre cause funzionali piuttosto frequenti. Le parestesie da sofferenza neuroperiferica sono di solito bilaterali e diffuse, limitate all’estremità distale degli arti (polineuropatie) o confinate nel territorio di una o più radici spinali, di un plesso o di un singolo nervo, e tendono ad assumere un carattere persistente. In caso di assonotmesi, esse possono essere facilmente evocate dalla compressione del nervo in corrispondenza della regione rigenerante (segno di Tinel). Tale segno può essere utile per controllare nel tempo il progressivo allungamento del moncone prossimale rigenerato. Le parestesie da sofferenza del SNC sono tipicamente accessuali, di breve durata (al massimo 15'-20'), e si localizzano unilateralmente al volto o ad un arto con distribuzione nettamente diversa rispetto alle lesioni periferiche. Le lesioni parietali o anche talamiche, ad esempio, possono manifestarsi con tipiche parestesie cheiro-orali transitorie, sia nell’epilessia parziale a sintomatologia elementare sensitiva (v. pag. 000), sia nell’aura sensitiva emicranica (v. pag. 000). Nelle lesioni demielinizzanti delle colonne dorsali, invece, la distribuzione delle parestesie è generalmente bilaterale, l’insorgenza è evocata da flessioni anche modeste del capo o addirittura spontanea, e la diffusione cranio-caudale è istantanea (v. pag. 115???). IL PRURITO Il prurito è una sensazione anomala, fastidiosa, attenuata dal grattamento (cosa che non accade con le parestesie o le disestesie). Dipende da irritazione dei nocicettori (C e forse anche Aδ) superficiali epidermici e delle zone cutanee di transizione con le mucose. A differenza del dolore, non può essere evocato dalla stimolazione dei nocicettori profondi.
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Come possa avvenire la distinzione tra prurito e dolore, trasportati entrambi dalla stessa via, non è ben chiaro, e nemmeno è chiaro perché il sollievo del grattamento tenda facilmente a trasformarsi in una specie di dolore epidermico urente. Il prurito dipende quasi sempre da affezioni dermatologiche, indicando un’irritazione dell’estrema periferia sensitiva. Per questo motivo, è molto difficile che un prurito localizzato, distribuito ad es. in una sottile banda toracica, faccia pensare ad un Herpes Zoster in fase iniziale, o ad un’irritazione radicolare di altra genesi. Può anche essere una manifestazione parossistica della sclerosi multipla, ove tuttavia rimane un sintomo di contorno. Può infine dipendere da cause sistemiche (reazione allergica precoce a farmaci) e manifestarsi in particolari sedi del corpo. In questo caso, l’ipotesi di un’irritazione parziale dei chemi-nocicettori superficiali causata da bradichinina, istammina e prostaglandina (PgE2) rilasciate nei tessuti come conseguenza di reazioni IgE-mediate, o prodotta da irritanti esogeni penetrati per via transcutanea (sostanze urticanti), è quella più verisimile, dato che, a parte gli anestetici da contatto, anche i farmaci antistaminici ed antinfiammatori locali riescono ad attenuare il prurito a genesi periferica. INSENSIBILITÀ CONGENITA AL DOLORE CON ANIDROSI (NEUROPATIA EREDITARIA SENSITIVO-AUTONOMICA DI TIPO V) È una rara affezione geneticamente determinata e con esordio nell’infanzia, caratterizzata da episodi febbrili ricorrenti, anidrosi, assenza di reazioni agli stimoli dolorosi, comportamento automutilatorio e ritardo mentale. È causata da mutazioni del gene TRKA (NTRK1), cromosoma 1(1q21-q22), che codifica per un recettore tirosin-chinasico ad alta affinità (TrkA) per la neurotrofina NGF, essenziale per la crescita dei neuriti e per la sopravvivenza dei neuroni di 1° ordine sensitivi e dei neuroni simpatici (Indo et
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al., 1996; Mardy et al., 1999; Indo, 2001) (v. pag. 000). Il fenotipo clinico include anche un coinvolgimento multisistemico, con fratture ossee a lenta saldatura, artropatia di Charcot, assenza di sostanza P nella cute e nelle articolazioni con depapuperamento dei piccoli neuroni ganglionari sensitivi di 1° ordine (fibre C), cheratiti, ulcerazioni endo-orali da masticazione e lesioni cutanee di tipo autolesivo (inconscia), anormalità immunologiche e stato infiammatorio cronico sfociante in amiloidosi sistemica (Toscano et al., 2000). La malattia, come già nel 1983 sottolineò Dick et al., non è un’affezione a sé stante, denominata insensibilità o indifferenza congenita al dolore, ma una particolare varietà di neuropatia ereditaria sensitivo-autonomica (tipo V) (v. pag. 000). ASIMBOLIA AL DOLORE (SINDROME DI SHILDERSTENGEL) Non meno rara della precedente, è un’affezione caratterizzata dall’incapacità non tanto a percepire gli stimoli dolorosi, quanto a riconoscerne gli aspetti simbolici ed a mettere quindi in atto comportamenti adeguati per evitarli. Si tratta dunque di una particolare forma di agnosia al dolore (analgognosia) o anche di aprassognosia, considerando la mancata realizzazione di comportamenti e gesti autoprotettivi congrui. In 6 malati cerebrovascolari colpiti dal disturbo, è stato osservato che le sensibilità, ivi compresa quella dolorifica, erano rimaste integre, ma mancavano le normali risposte antinocicettive di evitamento ed a carattere difensivo, comprese quelle alla minaccia verbale (Berthier et al., 1988). In questi malati, ed in un successivo caso analogo (Masson et al., 1991), esisteva una lesione coinvolgente la corteccia dell’insula, per cui è molto probabile che l’asimbolia al dolore rappresenti un fenomeno da disconnessione sensitivo-limbica, come originariamente prospettato da Geschwind.
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Alterazioni della sensibilità oggettiva Un deficit obbiettivo delle sensibilità può essere parziale (ipoestesia) o completo (anestesia); inoltre può coinvolgere tutte le forme di sensibilità (globale), o interessare selettivamente o prevalentemente alcune sensibilità con conservazione di altre (dissociato). In quest’ultimo caso è possibile osservare: – anestesia superficiale con conservazione delle sensibilità profonde, frequentemente riscontrabile nelle lesioni periferiche; – dissociazione di tipo siringomielico, ovvero anestesia termodolorifica con conservazione delle sensibilità profonde, per lesioni del fascio spinotalamico dorsolaterale; – dissociazione di tipo tabetico, cioè anestesia profonda e tattile discriminativa con conservazione delle sensibilità superficiali, per lesione delle colonne dorsali (non da tutti ammessa). La paradossale coesistenza di dolore cronico a carattere neuropatico distribuito all’interno di un territorio ipoestesico è un’evenienza abbastanza rara definita «anestesia dolorosa». È spiegata dal fatto che il territorio dermatomerico e neuroperiferico tattile sono più estesi - e perifericamente più embricati a quelli circostanti - dei corrispettivi territori termici e dolorifici.
Esame della sensibilità Poiché l’indagine estesiometrica richiede l’attenzione e la piena collaborazione del paziente per un un periodo di tempo non irrilevante, essa dovrebbe essere effettuata all’inizio dell’esame neurologico o rimandata al momento in cui il paziente è riposato. È buona norma, comunque, eseguire un rapido esame orientativo di tutte le sensibilità già nella prima visita, anche se il paziente non lamenta alcun tipo di disturbo sensitivo. In caso contrario, è fondamentale raccogliere preliminar-
mente il maggior numero di informazioni in merito, onde procedere ad un esame delle sensibilità mirato ed approfondito sugli aspetti pertinenti al problema. II soggetto deve tenere sempre gli occhi chiusi, e fornire, appena avvertito lo stimolo, risposte immediate semplici: «sì», oppure comunicare il tipo di sensazione avvertito: toccare (cotone), pungere (spillo), caldo o freddo. La ripetizione dello stimolo dev’essere casuale, onde evitare cali di attenzione e risposte di tipo automatico, frequenti nel caso di lunghe e monotone sequenze di stimolazione. L’esame contempla l’esplorazione di tutta la superficie corporea, volto incluso, e tiene conto non solo delle risposte mancate o errate, ma anche di eventuali ritardi nel fornire la risposta (latenza aumentata) e di eventuali ulteriori commenti (ad es. insorgenza di sintomi positivi). Le modeste variazioni interindividuali di soglia percettiva descritte nell’invecchiamento non comportano di solito alcun deficit sensitivo, fatta eccezione per le sensibilità profonde dell’estremità distale degli arti inferiori: nell’anziano, infatti, pallestesia e riflesso achilleo possono rivelarsi ridotti o del tutto assenti (v. pag. 451).
Esame delle sensibilità superficiali SENSIBILITÀ TATTILE.— Si possono utilizzare stimoli tattili puntiformi, come una punta di matita appoggiata sulla cute o in maniera più rigorosa inflettendo su essa setole di Von Frey9 (ed in tal caso esplorare prevalentemente i meccanocettori rapidi a campo recettivo ristretto, quali i corpuscoli di Meissner) oppure stimoli tattili non puntiformi, ricorrendo ad es. ad un batuffolo di cotone, ad un pennellino di setola 9
Le originali setole di crine usate da von Frey sono state attualmente sostituite dai monofilamenti di Semmes-Weinstein a punta smussa, la cui flessione sotto appoggio produce pressioni puntiformi costanti proporzionali al diametro dei filamenti, calibrati secondo una progressione scalare logaritmica.
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morbida o ad una sottile striscia di carta (inglobando così anche i recettori più lenti ed a campo recettivo più vasto, maggiormente rappresentati nelle regioni cutanee pilifere). L’esplorazione della sensibilità tattile corneale richiede tassativamente l’uso di un fine batuffolo di cotone sterile. SENSIBILITÀ DOLORIFICA.— Si usa un semplice spillo sterile, da gettare al termine dell’esame, ponendo attenzione a non procurare ferite di sorta (comune evenienza con aghi taglienti ipodermici). Il malato informa l’esaminatore se - e quando - sente pungere, e se in una certa area cutanea egli avverte la puntura in modo diverso (ad es. più intensa, o più debole, come se la punta fosse diventata smussa, ecc.). Nella successiva delimitazione di queste aree, generalmente più precisa iniziando la stimolazione a partire dal centro, il paziente deve segnalare se - e quando - avverte «cambiamenti» nella percezione dello stimolo doloroso. Quando si desidera esaminare rapidamente il malato può essere utile adottare, come suggerito da Wartemberg, una rotella da sarto. In questo modo è possibile, passando rapidamente la ruota sulla cute del malato, esaminare tutta la superficie corporea e poi soffermarsi nei punti sui quali lo stimolo è avvertito meno intensamente. SENSIBILITÀ TERMICA.— Si utilizzano due provette da 100 ml a vetro spesso, asciutte, contenenti rispettivamente acqua fredda (5-10 °C) ed acqua calda (38-42 °C)10 , il cui fondo è alternativamente appoggiato sull’intera superficie cutanea del paziente. Egli deve contestualmente rispondere «caldo» o «freddo» a seconda della sensazione avvertita. Viene quindi annotata la correttezza delle risposte, la loro latenza e le eventuali indecisioni di scelta, indicative di una lieve ipoestesia termica altrimenti inapparente. 10
Si utilizzano queste temperature estreme poiché la reale T della superficie del vetro è sempre leggermente inferiore a quella dell’acqua a causa della dispersione termica nell’ambiente.
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Esame delle sensibilità profonde SENSIBILITÀ AL MOVIMENTO O CHINESTESIA. — Il paziente dev’essere sdraiato, rilassato e stare ad occhi chiusi. Si afferra lateralmente la parte centrale, lontana dalle articolazioni, di un dito del piede, o della mano del malato e lo si sposta in una posizione determinata, in flessione dorsale o plantare. Il paziente deve riferire se ha sentito muovere ed in quale direzione (verso l’alto o il basso), ed infine in quale posizione è posto il suo dito, o anche imitarla con il corrispondente dito dell’altro arto. Il posizionamento passivo dev’essere effettuato delicatamente, per evitare che il paziente si aiuti con movimenti attivi per riconoscere la vera posizione imposta. Dati sperimentali ottenuti nel primate indicano che il test è sensibile ad una lesione delle colonne dorsali solo quando lo spostamento angolare è modesto (>14°) e la velocità di spostamento bassa (>7° sec-1) (Glendinning e Vierck, 1993). Poiché la stimolazione delle dita del piede, scarsamente rappresentati a livello corticale, comporta frequenti errori nel loro riconoscimento, è prudenziale ritenere validi solo i risultati ottenuti con l’alluce. SENSIBILITÀ
ALLA POSIZIONE E LOCALIZZAZIONE
SPAZIALE O BATIESTESIA. — La sensibilità alla po-
sizione si esplora con le prove cosiddette «d’imitazione», indispensabili per le grandi articolazioni. Dopo aver posizionato passivamente un arto inferiore del paziente sul piano del letto, il paziente è invitato a disporre l’arto controlaterale in maniera speculare e simmetrica. La prova viene ripetuta più volte alternando il lato e quindi applicata anche ai segmenti distali ed alle dita. L’identificazione della localizzazione spaziale di un arto si effettua sia all’arto superiore che inferiore, dislocati passivamente dall’esaminatore e poi mantenuti fermi in una certa posizione. Il paziente deve quindi afferrarsi il pollice (o l’alluce) con la mano controlaterale, dapprima aiutandosi con la vista, quindi ad occhi chiu-
112
Elementi di fisiopatologia e semeiologia
si. L’arto utilizzato per raggiungere il bersaglio deve ovviamente essere dotato di normale motilità e forza. La prova è ripetuta tre-quattro volte per parte da entrambi i lati per confermare l’esistenza di eventuali errori. Come regola, un errore ad occhi chiusi correggibile dalla vista indica un deficit sensitivo profondo all’arto “bersaglio”, attribuibile a danno di un punto qualunque (ipsi o controlaterale) della rispettiva via sensitiva lemniscale. Errori sia ad occhi aperti che ad occhi chiusi indicano invece un disturbo della coordinazione di tipo cerebellare (non correggibile dalla vista). In pratica, il fatto che, ad esempio, l’arto superiore destro non venga raggiunto correttamente ad occhi chiusi, può dipendere sia da lesioni ipsilaterali (neuropatie periferiche o danno della colonna dorsale di destra) che da lesioni controlaterali (danno del lemnisco mediale, del nucleo VPL del talamo, o della corteccia parietale sensitiva di sinistra) (Hirayama et al., 1999). Gli errori rivelati del test di localizzazione spaziale si associano di regola ad errori nelle prove di imitazione e localizzazione spaziale tattile (vedi oltre), e non si riscontrano mai nell’ipo- anestesia termodolorifica isolata di un arto. Il test di localizzazione spaziale ha significato analogo alla prova di Romberg (v. pag. 000), fondamentale per discriminare rapidamente la natura di eventuali disturbi della statica. In questa prova, basata sul mantenimento della stazione eretta a basi quanto più possibile ravvicinate, la chiusura degli occhi non peggiora sensibilmente la statica in caso di atassia cerebellare. Al contrario, l’eliminazione del controllo visivo causa caduta immediata polidirezionale in caso di atassia sensitiva di tipo tabetico, e caduta ritardata unidirezionale in caso di atassia o disequilibrio vestibolare. SENSIBILITÀ VIBRATORIA (PALLESTESIA).— Si utilizza un diapason a 128 (C0) o 256 (C1) vibrazioni al secondo (ottave della nota Do). Dopo
essersi assicurati che il paziente non possa udire il suono dello strumento che vibra, si appoggia il diapason dapprima sulla fronte, in modo che il paziente possa riconoscere il tipo di sensazione provocata, invitandolo a riferire se «sente vibrare» o «non sente vibrare». Quindi si sposta il diapason su prominenze ossee (quali malleoli, rotule, pube, spine iliache, capitello radiale, gomito, ecc.). Il malato deve comunicare se avverte lo stimolo, ed in caso positivo, segnalare quando cessa di avvertirlo, ed inoltre, se lo percepisce nuovamente spostando velocemente il diapason in sedi simmetriche (o altrove). Diventa così possibile evidenziare asimmetrie della pallestesia altrimenti difficilmente documentabili. Alcuni diapason sono forniti di un dispositivo ottico che permette di valutare continuamente l’intensità della vibrazione, e quindi di quantificare approssimativamente i valori sogliari per ogni sede esplorata. SENSIBILITÀ ALLA PRESSIONE (BARESTESIA).— I1 malato deve riconoscere l’entità della pressione esercitata sulla cute da un peso, o dalle dita dell’esaminatore, o meglio da un barestesimetro, apparecchio dotato di indice graduato che consente la quantificazione della reale pressione d’appoggio. I dati desumibili dall’esame di questa sensibilità non consentono deduzioni cliniche di reale interesse. S ENSIBILITÀ D OLORIFICA P ROFONDA .— Si esplora stringendo fortemente i muscoli (ad es., trapezio superiore, tricipite, gastrocnemi), i tendini oppure comprimendo i nervi nel loro decorso superficiale. Ricordiamo a questo proposito il segno di Abadie (assenza di dolore alla compressione del tendine d’Achille) ed il segno di Biernacki (assenza di dolore alla pressione del nervo ulnare). Non vi è accordo circa le vie midollari che trasportano il dolore profondo, anche se generalmente si suppone che corrispondano al fascio spinotalamico dorsolaterale.
Funzioni sensitive
Esame delle sensibilità complesse o combinate Comprende le seguenti prove: DISCRIMINAZIONE SPAZIALE TATTILE E DOLORIFIPresuppone una corretta percezione di stimoli singoli, e si esplora mediante il compasso di Weber, che permette di applicare simultaneamente due stimoli cutanei a distanza variabile fra loro. Allargando progressivamente il compasso, si misura la distanza minima corripondente alla percezione di due stimoli distinti. La sensibilità discriminativa, inversamente proporzionale alla distanza minima compatibile con la doppia percezione, è minima al tronco ed arti (4-6 centimetri), intermedia sul dorso della mano (1-2 cm) e massima in corrispondenza dei polpastrelli delle dita (1-3 millimetri). CA .—
DISCRIMINAZIONE DI DUE STIMOLI SIMULTANEI SIMMETRICI O ASIMMETRICI (TATTILI, DOLORIFICI, TERMICI). — Si esplora come sopra, ma applicando simultaneamente due stimoli su punti simmetrici del corpo, o anche su due differenti punti di uno stesso emisoma. Nel caso di due stimoli simmetrici, ciascuno dei quali sia isolatamente ben percepito, può accadere che il soggetto ne avverta uno solo, usualmente in maniera fluttuante. Tale fenomeno, definito «estinzione sensitiva» da Bender (1945) o «inattenzione tattile» da Critchley (1949) (per citare solo i termini più conosciuti), è quasi sempre transitorio, e tipicamente caratterizza lesioni circostritte della corteccia parietale controlaterale in fase di regressione. È assai probabile che dipenda da uno sbilanciamento funzionale - via corpo calloso - fra i corrispondenti punti somatotopici della corteccia parietale, potendo essere indotto ad es. a destra per lesione parietale sinistra, quindi a sinistra per una successiva lesione parietale destra. In questo caso, l’estinzione sensitiva rientrerebbe, assieme ad altri disturbi analoghi (motori, visivi, uditivi), nell’ambito dei deficit unilaterali dell’attenzione spaziale da lesione parietale
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(emidisattenzione). Nel caso di due stimoli applicati sullo stesso arto o anche emisoma, quello più prossimale ha maggior probabilità di essere “estinto” di quello distale, essendo favorito da una rappresentazione corticale e da una ridondanza percettiva più ampie. LOCALIZZAZIONE CUTANEA TATTILE O TOPOESTESIA. I1 soggetto tocca con un dito, e ad occhi chiusi, l’esatto punto della cute precedentemente toccato dall’esaminatore. RICONOSCIMENTO
DI SIMBOLI TATTILI (GRAFOE-
STESIA O DERMOLESSIA).
— Il soggetto deve riconoscere ad occhi chiusi in quale direzione si sposta un oggetto smusso strisciato sulla cute (dorso della mano, del piede, cosce, addome, torace) e simboli grafici semplici (quali la lettera « o» ed «i», segni aritmetici come +, – , x o geometrici, ad es. quadrato, triangolo, ecc.) analogamente tracciati. Tali prove sono molto sensibili al danno delle afferenze meccanocettive a vasto campo recettivo (dischi di Merkel, corpuscoli di Ruffini). RICONOSCIMENTO
TATTILE DELLE QUALITÀ MA-
TERICHE E SPAZIALI DEGLI OGGETTI (ILOESTESIA E STEREOESTESIA).—
Il soggetto è invitato a descrivere le proprietà materiche e spaziali semplici e complesse di un oggetto che egli può palpare ed esplorare col tatto ad occhi chiusi dapprima usando una mano, quindi entrambe. Si notano quindi le risposte circa il tipo di superficie (liscia, rugosa, abrasiva etc..), consistenza (dura, morbido-elastica etc…), spigolosità (presenza o meno di angoli solidi o curvature), dimensioni (piccolo, medio, grande) e forma (allungata, rotondeggiante etc.). È utile annotare anche la destrezza, il modo più o meno accurato e la forza con cui il paziente palpa l’oggetto: in caso di grave ipoestesia profonda, oggetti fragili o delicati possono andare anche distrutti. Come oggetti si possono usare quelli più comuni, come chiavi, matite, penne, piccoli barattoli o palline, a patto che non si approfitti di in-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
formazioni accessorie (ad es. mazzo di chiavi che tintinna, scatola di carta che scricchiola). L’impiego di una batteria di oggetti solidi appositamente preparati permette di esplorare separatamente l’iloestesia (riconoscimento della superficie materica dell’oggetto, o “texture”) e la stereoestesia o morfoestesia (apprezzamento delle differenze di forma). L’iloestesia si valuta: con una serie di tests di resistenza o serie duro-morbido; con una serie di tests di rugosità o serie rugoso-liscio; con una serie di tests di peso, presentando una serie di oggetti di volume identico e di peso differente (apprezzamento della differenza di peso). La stereoestesia si valuta ponendo in mano oggetti di legno di differente forma geometrica (cubi, piramidi, cilindri, ecc.). Se esiste difficoltà a descriverne correttamente la forma, si invita ad identificare la copia dell’oggetto in una serie di doppi esposta. Qualora le sensibilità superficiali, profonde e la stereoestesia siano conservate, ma il significato utilizzatorio dei comuni oggetti sfugga al paziente, emerge l’ipotesi di un mancato riconoscimento simbolico dell’insieme dei messaggi somestesici percepiti, disturbo definito stereoagnosia o «asimbolia tattile» (v. pag. 000).
Sindromi sensitive topografiche SINDROMI PERIFERICHE. La distribuzione del deficit sensitivo varia sensibilmente in rapporto alla sede della lesione. 1. –Lesione delle terminazioni. Di riscontro comune nelle cicatrici post-operatorie, ove può residuare una circoscritta area di anestesia per sezione di fascicoli subdermici, accompagna ogni grave lesione cutanea (ad es. ustioni di III grado) manifestandosi in fase acuta con anestesia globale della zona lesa. Una seconda causa, rilevante soprattutto per vaste regioni del sudest continentale, è rappresentata dalla neuro-
patia leprosa, che può esordire con lesione di piccoli fascicoli subdermici producendo chiazze cutanee, spesso anche acromiche, di anestesia termo-dolorifica circondate da cute normale (distribuzione a “pelle di leopardo”). Una terza causa è rappresentata da alcune neuropatie latenti ad esordio subclinico estremamente distale (Khalili et al., 2001; Lauria, 1999). 2. –Lesioni dei nervi. Si devono distinguere le lesioni tronculari (di un singolo nervo o più nervi) dalle lesioni diffuse: a) la lesione tronculare completa, usualmente di natura traumatica, comporta ipo-anestesia cutanea globale localizzata nel territorio d’innervazione del nervo leso (Figg. 3.8–3.9). In questo territorio, si può mappare una porzione centrale (o distale) globalmente anestesica (zona autonoma), circondata da un’area ipoestesica in cui il deficit termodolorifico è più marcato ed esteso di quello tattile (zona marginale). La demarcazione fra area ipoestesica termodolorifica e cute normale è generalmente agevole. Le lesioni incomplete comportano ipoestesia associata a parestesie, disestesie o manifestazioni dolorose (v. pag. 000), spesso associate a turbe vegetative e trofiche (causalgia, distrofia simpatica riflessa). In caso di lesione di un nervo misto, si associa una paralisi muscolare di tipo periferico (caratterizzata da amiotrofia ed areflessia). Le cause più comuni sono traumatiche (da ferita o intrappolamento, vedi ad es. lesione del nervo mediano al polso nell’ambito di una sindrome del tunnel carpale (v. pag. 000). Le mononeuropatie multiple, o multineuropatie (v. pag. 000), producono quadri variabili in rapporto al momento evolutivo della malattia sistemica da cui dipendono. Inizialmente, infatti, la distribuzione del quadro ipo-anestetico corrisponde a quella di un singolo nervo, quindi a quella tipicamente asimmetrica e dispersa di più nervi spesso non contigui, tendendo infine a riprodurre la distribuzione bilaterale tipica delle polineuropatie.
Funzioni sensitive
Trigemino (V° n. cranico) Plesso cervicale Branche superficiali
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Branca oftalmica Branca mascellare Branca mandibolare
Grande auricolare C2, 3 Nervo cutaneo del collo (branca trasversa) C2, 3 Branche sopraclavicolari C3, 4
Branca perforante lat. Branca perforante ant. Nervo circonflesso (ascellare) Nervo intercosto-omerale (intercosto-brachiale) Nervo cutaneo int. (mediale) Branca cutanea del nervo muscolo-cutaneo (N. cut. lat. antibrachii)
Nervo intercostale D2, 12
Plesso brachiale
Ramo genitoperineale
Cutaneo post. del braccio
Nervo dorsale del pene
Nervo radiale Branca superficiale Nervo mediano Nervo ulnare
Plesso lombare
Nervo ileo-inguinale Nervo genito-crurale (genito-femorale) Cutaneo laterale della coscia Rami cutanei mediali e Nervo (crurale) intermedi femorale Nervo safeno lungo (safeno)
Ramo perineale Nervo otturatorio
Cutaneo laterale della gamba N. sciatico Plesso sacrale
Muscolo cutaneo (peroneo superficiale)
Popliteo est. Tibiale anteriore (peroneo profondo; per la piccola area triangolare dietro il 1° (peroneo spazio interdigitale) comune) N. sciatico
Nervo safeno breve (surale)
Popliteo interno (tibiale)
Nervo plantare interno
Fig. 3.8 - Distribuzioni sensitive cutanee dei nervi periferici (superficie ventrale del corpo).
b) le lesioni diffuse dei nervi si manifestano con una sofferenza bilaterale sincrona e simmetrica degli assoni più lunghi, configurando un quadro clinico di polineuropatia (v. pag. 000). Tale apparente predilezione può attribuirsi sia ad una maggiore probabilità di danno cumulativo da demielinizzazione segmentale a distribuzione casuale, sia ad una precarietà distale di-
rettamente proporzionale alla lunghezza di percorso del traffico molecolare dal soma alla periferia e viceversa. Agli arti, il deficit sensitivo è bilaterale, più marcato all’estremità distale (soprattutto agli arti inferiori) e si riduce progressivamente in senso prossimale fino a sfumare nella cute normale. Possono essere preferenzialmente colpi-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia Br. oftalmica Br. mascellare Trigemino - 5° paio cranico Br. mandibolare Br. mastoidea C2,3 Br. gr. auricolare C2,3 Plesso cerv. superf. Nervo occipitaleC2 C3 Br. post. C4 C5,8 Sopraclavicolare C3,4 (Pl. cerv. sup.) Fibre mediali Br. cut. med. D1,7 Rami post. dei N. dorsali (toracici) Br. cut. lat. D 8,12
Br. perfor. lat dei N. intercostali Br. cut. int. e est. del N. radiale Cut. int. (med.) del braccio Intercosto-omerale (intercosto-brachiale) Nervo muscolo cutaneo
Tibiale posteriore
Nervo safeno lungo (safeno) Cutaneo mediale
Plantare laterale
Plantare mediale
Nervo mediano Nervo ulnare, br, cut. dorsali Br. glutea del 12° intercostale Br. perforante del N. ileo-ipogastrico Br. glutea sup. L1,3 Br. lat. dei rami post. Br. glutea media L4,5 dei N. lomb. e sacr. Br. med. dei rami post. dei N. lomb. e sacr.L1-S6 Br. perforante cutanea Pl. pudendo post. della coscia Cutaneo lat. della coscia Nervo otturatorio Plesso Cutaneo mediale Crurale ant. lombare (femorale) N. safeno lungo Cutaneo post. della coscia Peroneo superf. Popliteo esterno Safeno breve (N. peroneo comune) (surale) Tibiale posteriore Popliteo interno Plantare laterale (tibiale) Plesso sacrale
Safeno breve (surale) Plantare laterale
Popliteo interno (tibiale)
Branca ant. del radiale
Fig. 3.9 - Distribuzioni sensitive cutanee dei nervi periferici (superficie dorsale del corpo).
te sia le sensibilità superficiali che profonde, possono coesistere parestesie o manifestazioni dolorose, e può associarsi (ma anche mancare del tutto) un deficit motorio periferico distale ad analoga distribuzione diffusa. L’ipoestesia è distribuita tipicamente «a stivale», «a calza» o «a guanto» (Fig. 3.10A). Al tronco, nelle forme più gravi, può coesistere un deficit sensitivo mediano distribuito «a goccia», più vasto nelle regioni addominali inferiori per la maggior obliquità (e quindi lunghezza) dei rispettivi nervi sensitivi.
Al capo, analoghe considerazioni valgono per le polineuropatie craniali (v. pag. 000). Le poliradicoloneuropatie si presentano con quadri acuti di grave ipo- anestesia bilaterale dell’estremità degli arti, rapidamente ascendente in senso disto-prossimale fino ad interessare la radice degli arti, il tronco e talora anche il territorio craniale, associata a paralisi flaccida nelle stesse regioni (v. pag. 000). A volte, tuttavia, il deficit sensitivo si manifesta simultaneamente nei settori prossimali e distali.
Funzioni sensitive
117
SINDROME GANGLIONARE. Ad esclusione della neuronopatia erpetica da virus HVZ (Herpes Zoster), la patologia ganglionare primitiva è di per sé diffusa ed interessa prevalentemente i neuroni a maggior diametro ed alta velocità di conduzione. Si manifesta con un quadro generalizzato di dissociazione tabetica delle sensibilità (ipoestesia ed areflessia profonde) a distribuzione polineuropatica. Le cause più comuni sono quelle dismetaboliche (alte dosi di vit. B6 o piridossina; amiloidosi; m. di Tangier), autoimmuni-paraneoplastiche e tossiche (antiblastici, specie cisplatino).
Fig. 3.10 - A: Distribuzione dell’anestesia a calza e a guanto. B1-B2: distribuzione dell’anestesia a tipo sospeso. C1C2: distribuzione dell’anestesia nelle lesioni midollari trasverse a livello cervicale inferiore e C3, a livello lombare alto.
3. –Lesioni dei plessi. La lesione dei tronchi di un plesso (v. pag. 000) comporta quadri ipoanestesici variabili in rapporto al plesso colpito ed all’estensione del danno. Le lesioni del plesso cervicale si manifestano infatti con distribuzioni simil-tronculari, quelle del plesso brachiale con distribuzioni miste, in parte d’aspetto tronculare, in parte radicolare, localizzate alla spalla-segmenti prossimali del braccio (porzione superiore del plesso), ai settori medi dell’arto superiore (porzione media del plesso), o alla mano, margine ulnare dell’arto, ascella e parte del torace alto (porzione inferiore del plesso). Nelle lesioni del plesso lombosacrale, la distribuzione del deficit sensitivo è invece similradicolare.
SINDROME RADICOLARE. La distribuzione dei disturbi sensitivi è tipicamente dermatomerica («a zebra»). La sofferenza irritativa, usualmente con componente flogistica, di una singola radice (sia dorsale che ventrale) si manifesta con sintomi sensitivi positivi, rappresentati in ordine di gravità da parestesie, disestesie o dolore di tipo neuropatico spesso associato ad iperalgesia ed allodinia, localizzati in corrispondenza del rispettivo dermatomero ( Fig. 3.11–3.12). Tali sintomi possono talvolta estendersi, ed addirittura predominare, nelle strutture profonde del corrispondente miomero o scleromero (ad es. muscoli della natica e posteriori della coscia, o articolazione coxo-femorale nella sciatica da ernia discale). Essi sono quasi sempre accentuati dagli aumenti di pressione endoaddominale (tosse, starnuto, manovra di Valsalva), dalle manovre di stiramento delle radici (Lasègue) e dalla compressione lungo il decorso del nervo o dei nervi originati dalla radice. È importante ricordare che l’insorgenza di un dolore a distribuzione simil-dermatomerica in certe regioni del corpo (quali ad es. margine ulnare dell’arto superiore, torace, addome) talora non dipende da un’irritazione radicolare, ma da lesione di visceri innervati dalla radice sospetta («dolore riferito»). La lesione di una singola radice dorsale produce gli stessi sintomi sensitivi di cui sopra,
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 3.11 - A. Distribuzione sensitiva cutanea radicolare (faccia anteriore). B. Distribuzione sensitiva cutanea radicolare (faccia posteriore).
Fig. 3.12 - A. Limiti dei dermatomeri cervicali, dorsali, sacrali, in posizione quadrupedale. B. Dermatomeri a livello perineale.
Funzioni sensitive
quasi sempre dominanti su quelli deficitari sensitivi, rappresentati da ipoestesia superficiale prevalentemente termodolorifica, più evidente nelle porzioni distali del dermatomero. Un esempio paradigmatico è rappresentato dall’Herpes Zooster, il cui esordio può essere identificato valorizzando la distribuzione dermatomerica del prurito, delle parestesie e del dolore, sintomi che possono precedere anche di molti giorni la tipica eruzione vescicolare, l’ipoestesia termodolorifica, l’iperalgesia ed allodinia che contraddistinguono la malattia conclamata (Haanpaa et al., 1999). Se sono lese due o più radici dorsali adiacenti, l’ipoestesia è più grave, a carattere globale ed a chiara distribuzione dermatomerica. Se è lesa isolatamente o in associazione una radice anteriore (ad es. per compressione da ernia discale), il dolore radicolare s’accompagna ad un deficit motorio di tipo periferico. SINDROME MIDOLLARE. A seconda della sede ed estensione delle lesioni, si possono osservare differenti quadri ipo- anestesici, schematizzati in Fig. 3. 10 C ed in Fig. 3.13. 1. –Lesioni extramidollari: una compressione unilaterale estrinseca può causare ipoestesia termodolorifica controlaterale limitata ai segmenti più caudali per danno preferenziale delle fibre spinotalamiche più esterne (Fig. 3.4). Una compressione agente in senso dorso-ventrale tende più facilmente a produrre turbe della sensibilità profonda per compressione delle colonne dorsali contro il canale rachideo. Si tratta in genere di lesioni extramidollari aventi caratteristiche di massa occupante spazio (tumori; patologia vertebrale, degli spazi epidurali e del disco intervertebrale, ecc.). 2. –Lesioni endomidollari: possono interessare la porzione centrale del midollo, e produrre quadri di anestesia termodolorifica «sospesa» per danno delle fibre spinotalamiche decussanti (dissociazione siringomielica, Fig. 3.10
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B); oppure le colonne dorsali, e manifestarsi con parestesie a tipo scossa elettrica, dolori parossistici folgoranti, e deficit selettivo delle sensibilità profonde (dissociazione di tipo tabetico, riscontrabile, oltre che nella tabe dorsale, anche nella sindrome neuroanemica o sclerosi combinata dorsolaterale, e nella sclerosi multipla). Secondo alcuni Autori, la lesione delle colonne dorsali può anche comportare una modesta riduzione della sensibilità tattile superficiale, documentabile sotto forma di aumento dei valori sogliari. La sindrome da sezione midollare completa da gravi traumi o processi infiammatori spinali (mielopatia acuta trasversa), comporta paraplegia, paralisi sfinterica ed anestesia globale bilaterale al di sotto del metamero leso. Nella fase acuta, l’anestesia è spesso sovrastata da una sottile banda di iperalgesia o allodinia, per ipersensibilizzazione dei metameri adiacenti. La sindrome da emisezione spinale, o sindrome di Brown-Séquard, si manifesta nei settori del corpo sottostanti alla lesione con i seguenti disturbi: omolateralmente, una sottile banda di anestesia globale sospesa, talora con segni di denervazione muscolare in corrispondenza del metamero leso, anestesia profonda in tutti i metameri sottostanti e paresi spastica; controlateralmente, anestesia termodolorifica con margine superiore 2-4 dermatomeri al di sotto del metamero leso (Fig. 3.13). Talora coesistono iperalgesia o algodinia al di sopra di uno o entrambi i margini ipoestesici, ed alloestesia (per stimolazione dolorifica dell’area cutanea anestetica). Nelle lesioni incomplete, tali da risparmiare sufficientemente la forza muscolare all’arto inferiore, l’anestesia profonda può manifestarsi anche come atassia sensitiva nell’ambito di una paresi atasso-spastica. SINDROMI LICO .—Sono
SENSITIVE DEL TRONCO ENCEFA -
descritte dettagliatamente nell’ambito delle sindromi troncali (v. pag. 475).
120
Elementi di fisiopatologia e semeiologia Emisfero destro Emisfero sinistro
spesso più grave in queste stesse aree. Nelle fasi acute, l’ipoestesia può essere globale, con recupero maggiore per la sensibilità tattile e profonda. Spesso l’ipoestesia presenta carattere dissociato termo-dolorifico, e talora si associa a disturbi del gusto e a turbe del movimento della mano di tipo coreo-atetosico. A distanza di tempo, le aree ipoestesiche diventano sede di dolore spontaneo con caratteristiche iperpatiche: la soglia e la latenza sensitiva sono innalzate, e la percezione del dolore prolungata (v. pag. 560). La spiegazione del dolore talamico è incerta. Classicamente si sono ipotizzati fenomeni di liberazione intratalamici, per interruzione delle proiezioni inibitorie dal nucleo reticolare del talamo ai nuclei VPL-VPM. Attualmente si ritiene che dipenda da una lesione delle vie spinotalamiche responsabili del dolore rapido, capace di liberare l’attività del sistema del dolore lento, proiettante ai nuclei intralaminari ed ai nuclei posteriori.
SINDROMI CORTICALI - Le afferenze somestesiche talamocorticali ascendono alla corteccia granulare colonnare postcentrale o postrolandica ipsilaterale (circonvoluzione parietale ascendente), corrispondente all’area sensitiva primaria o SI (Kaas e Collins, 2001). Fig. 3.13 - Sindrome d’emisezione spinale o di BrownSéquard. L= livello di emisezione medio-toracica. 1 = fascio spinotalamico (in tratteggio sopra la sezione); 2 = colonne dorsali (in nero) e lemnisco mediale (in tratteggio); 3 = fascio corticospinale (in tratteggio sotto la sezione); 4 = monoplegia spastica con anestesia profonda; 5 = anestesia superficiale termodolorifica.
SINDROME TALAMICA.— È causata da lesioni ischemiche parcellari nel territorio dei rami talamogenicolati dell’a. cerebrale posteriore, che coinvolgono più o meno estesamente i nuclei talamici sensitivi VPL-VPM e complesso nucleare posteriore (v. pag. 556). In questi gruppi nucleari la rappresentazione della mano e del volto sono molto estese ed adiacenti, specie pollice e labbra, per cui l’ipoestesia controlaterale conseguente a lesione talamica è molto
Nelle aree 3a-3b-1-2 di Brodmann (corrispondenti ad SI), si realizza una precisa, quadruplice e parallela mappatura dell’intera superficie dell’emisoma controlaterale secondo aree di dimensioni proporzionali alla ricchezza d’innervazione periferica (massima su dita e palmo della mano, occhio, labbra, lingua) (Fig. 3.14– 3.15). Si rappresenta il principale, se non esclusivo, centro di elaborazione dei messaggi convogliati dal lemnisco mediale. Il ruolo di SI nell’elaborazione delle informazioni spinotalamiche sembra invece limitato agli aspetti puramente discriminativi e localizzatori della sensibilità cutanea dolorifica puntoria e probabilmente anche termica. SI invia proiezioni controlaterali all’area SI omologa (via corpo calloso), ai nuclei di Goll, di Burdach, laterale cervicale e nucleo proprio del corno posteriore del midollo; inoltre, proiezioni omolaterali al nucleo VPL del talamo, allo striato e all'area sensitiva secondaria SII (Fig. 3.15) (Disbrow et al., 2000). Non è chiaro se le altre aree
CC E SU
Tronco A Ga nca mb a
SE
In Po dic O llic e Na cch e so i Fa cc ia Lab bro sup erio re Labbra
Collo Testa Spalla Braccio Gomito ccio bra Avam o Pols
E ON SI
A ITIV NS
no Ma olo ign re M ula io An ed M
S
Funzioni sensitive
Di
ta
de
de Pie de e i lp
ali
nit
Ge
Labbro inferiore Denti, gengive, mandibola Lingua Gola e interno della bocca Visceri addominali
Fig. 3.14 - Rappresentazione della distribuzione somatotopica al livello dell’area sensitive primaria (circonvoluzione parietale ascendente).
Area supplementare motoria Area motoria I
Area supplementare sensitiva Area sensitiva I
Area sensitiva II Fig. 3.15 - Rappresentazione schematica della topografia delle aree cerebrali sensitive: area primaria (I), area secondaria (II), area supplementare (parte posteriore del lobulo paracentrale e precuneo). Per paragone, sono indicate anche le aree motorie.
multisensoriali secondarie (uditivo-somestesiche) descritte nel primate sul labbro inferiore della scissura di Silvio esistano anche nell’uomo. Infine, SI ed SII inviano proiezioni ipsilaterali sia all’area precentrale frontale 4, sia alle aree parietali associative 5 e 7, ove i messaggi somestesici possono essere confrontati con altre informazioni (stimoli visivi o anche «rappresentazioni mentali» del soggetto, ad esempio).
121
In conclusione, SI, ed anche SII possono considerarsi sofisticati analizzatori in parallelo che permettono l’estrinsecarsi di percezioni somestesiche complesse, epicritiche o combinate, ed inoltre possono continuamente modulare sia i messaggi afferenti sensitivi, sia la funzione motoria connessa all’attività gestuale esplorativa. Le lesioni di SI causano un’ipoestesia controlaterale più o meno grave che predilige volto (regione periorale) ed estremità distale degli arti. Il deficit sensitivo ha spesso estensione limitata, presentandosi a volte con una distribuzione pseudoradicolare: alla mano, ad es., può simulare una lesione della radice dorsale C8. Fra le varie modalità sensitive, quelle più colpite sono le sensibilità profonde (specie chinestesia e batiestesia), e soprattutto le sensibilità combinate (topoestesia, grafoestesia, discriminazione tattile, stereoestesia) con conseguente instabilità motoria della mano di tipo atassico sensitivo ed incapacità alla manipolazione ed utilizzo degli oggetti («mano parietale» o «useless hand»). Le sensibilità superficiali sono relativamente risparmiate, e comunque tendono a normalizzarsi più rapidamente. Nella fase iniziale di recupero, il deficit sensitivo può essere transitoriamente caratterizzato dal fenomeno dell’estinzione tattile. Le lesioni a carattere irritativo possono produrre sintomi sensitivi soggettivi parossistici di breve durata, quali parestesie o disestesie tipo formicolio, scossa elettrica o anche puntura di spillo. Come è già stato detto, questi fenomeni possono configurare una crisi epilettica parziale a sintomatologia elementare sensitiva, con o senza marcia Jacksoniana, e, nel caso assai più raro di sensazioni di movimento in un certo distretto corporeo, una crisi chinestesica (v. pag. 000). Fenomeni analoghi, ad estensione molto più lenta e durata maggiore (fino a 15-20') possono dipendere invece da una «spreading depression» parietale ad innesco emicranico, ischemico o lesionale (Loeb, 1998).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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Funzioni nervose superiori
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4. Funzioni nervose superiori Il linguaggio e le sue alterazioni C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
Il linguaggio è lo strumento attraverso il quale avviene la comunicazione, grazie alla possibilità di produrre e comprendere espressioni simboliche, costituite da sequenze intellegibili di suoni articolati, segni grafici e gestuali. L’eloquio si riferisce alla semplice espressione verbale, alle sue modalità di esecuzione e tiene conto delle caratteristiche dei suoni verbali, indipendentemente dal loro significato; presuppone la normale capacità di fonazione, processo mediante il quale la vibrazione delle corde vocali genera la voce, e di articolazione, processo con cui la voce assume le differenti qualità fonetiche dei suoni vocalici o consonantici. La produzione verbale richiede la preliminare selezione dei vocaboli che vengono combinati secondo opportune regole grammaticali e sintattiche. La parola nella sua precisa forma scritta o verbale costituisce il “lessico di emissione” o “lessico fonologico di emissione”, poichè si basa sulla struttura del suono della parola. In questo «magazzino» sarebbe concentrato non solo l’insieme delle informazioni riguardanti le singole parole, sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi, preposizioni, ecc., ma anche la rappresentazione dei singoli fonemi, vale a dire i componenti sonori (consonanti o vocali) di ciascuna parola. In un successivo stadio, fonologico, verrebbe pianificata la corretta sequenza delle parole, identificata la giusta successione dei suoni nel loro interno, elaborati i programmi dei movimenti adatti a fornire le connotazioni acustiche di ciascun suono, e le sue eventuali modificazioni a seconda del contesto, come accade, ad esempio, per il differente suono della g nelle parole gente e ghiro. L’ultimo stadio, fonetico, implica l’utilizzo di regole articolatorie che consentono la traduzione della forma fonologica in una serie di comandi per l’attivazione delle strutture neuromuscolari che controllano l’apparato bucco-fonatorio, responsabile della produzione verbale definitiva. L’eloquio esprime il risultato dell’attivazione
di questi due ultimi stadi che determinano gli aspetti non linguistici della produzione verbale. Il linguaggio vocale è strettamente connesso con il linguaggio gestuale e, quindi, l’espressione verbale e la capacità di comprendere le parole non rappresentano l’unica via per comunicare. I sordomuti possono diventare “afasici” quando sono incapaci di comunicare gestualmente per una lesione dell’emisfero dominante. Linguaggio e significato del gesto sarebbero dipendenti dall’attività di analoghe strutture, capaci di codificare il significato dei simboli impiegati. Il disturbo denominato “aprassia di fonazione”, che, in genere, coesiste con l’afasia, specie motoria, è caratterizzato da disprosodia (alterazione del ritmo, della melodia, dell’intonazione della parola e della frase) e da alterazioni dell’articolazione (sforzo nel ricercare la sequenza articolatoria necessaria, con frequenti autocorrezioni, turbe non costanti della ripetizione della stessa parola, particolare difficoltà ad iniziare il discorso) per cui la maggioranza degli autori ritiene che si tratti di un disturbo articolatorio e non fasico.
Posto che non vi siano deficit visivi ed acustici, che le capacità intellettive e la coscienza siano sufficientemente conservate, le alterazioni più comuni della voce, dell’eloquio e del linguaggio sono rappresentate rispettivamente dalla disfonia, dalla disartria e dall’afasia. La disfonia consiste nell’alterazione delle qualità della voce ed è generalmente secondaria a un danno nervoso periferico (lesione del nervo laringeo, del facciale e del trigemino bilateralmente, ecc.), anche se può essere osservata in corso di lesione centrale, in particolare dei gangli della base. La disartria è dovuta all’alterazione dei meccanismi motori che garantiscono l’articolazione dei suoni e la normalità dell’eloquio. L’afasia è l’incapacità di elaborare il linguaggio e, quindi, di produrre e comprendere i messaggi verbali, traducendo pensieri e stati d’ani-
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mo in sequenze significative di tipo sonoro, grafico o gestuale, e viceversa.
Le alterazioni che provocano disartria possono essere così distinte:
DISARTRIA – Rappresenta una turba dell’espressione articolatoria di sequenze verbali già programmate, per alterazione dei meccanismi nervosi centrali e periferici che regolano e coordinano l’attività delle strutture foneticoarticolatorie periferiche. Il disturbo può essere tanto grave da compromettere l’articolazione della parola, come accade nell’anartria, in cui l’eloquio risulta incomprensibile. La disartria va distinta dalle dislalie che includono una serie di turbe del linguaggio dovute ad alterazioni muscolari, lesioni dell’apparato osseo-facciale o cause psicogene (ad es. balbuzie) in assenza di danni neurologici centrali. Va, altresì, distinta dalla disfonia (voce bitonale, rinolalia, ecc.) e dall’afonia in cui l’alterazione della normale dinamica delle corde vocali modifica timbro, volume e tono della voce.
1) Lesioni bilaterali delle vie cortico-bulbari. La lesione bilaterale delle vie cortico-bulbari, che tipicamente si verifica per lesioni ischemiche bilaterali, come nella sindrome pseudobulbare, determina diffusa ipostenia e spasticità, con difficoltà nella produzione e nell’articolazione dei suoni. La compromissione bilaterale dei nuclei dei nervi cranici, coinvolti nel controllo delle strutture vocali, e cioè i nuclei del V, del VII, del IX, del X e del XII si esprime con l’ipostenia della muscolatura bucco-facciale e si accompagna ad atrofia (come accade nella sclerosi laterale amiotrofica). La disartria, in entrambe le condizioni, si accompagna a disfagia. Qualunque sia il tipo di lesione, i movimenti articolatori, gravemente ipocinetici, impediscono la corretta differenziazione dei singoli suoni fonemici, soprattutto consonantici, e la parola diventa «abburattata» (buratto = setaccio usato per separare la farina dalla crusca) dato che le singole sillabe, mal separate, coartate e sovrapposte, risultano difficilmente riconoscibili.
L’articolazione della parola talora è alterata in alcune sindromi afasiche, ad es. nell’afasia di Broca; tuttavia, mentre nella disartria le alterazioni dell’eloquio sono uniformi, relativamente insensibili allo stato emotivo del paziente e scarsamente influenzate dalla complessità e della difficoltà del compito verbale, nell’afasia la prestazione è assai variabile e le espressioni verbali, precocemente apprese ed automatizzate (ad es. le serie corrispondenti all’alfabeto, i giorni della settimana, i mesi dell’anno, ecc.), sono meno compromesse di quanto non si rilevi nel corso della conversazione ove, peraltro, prestazioni verbali relativamente elementari possono risultare risparmiate. Inoltre, gli errori fasici sono prevalentemente legati all’erronea programmazione della sequenza dei fonemi, mentre quelli disartrici sono caratterizzati da un’alterata modalità di realizzazione del suono, che è a tal punto distorto, da assumere connotazioni completamente nuove ed inesistenti nel sistema linguistico del paziente.
La semeiotica della disartria si basa sull’analisi del linguaggio spontaneo e sulla ripetizione di parole test che abbiano segmenti tali da mettere alla prova l’agilità articolatoria del paziente (splendido, strepito, broncio, extra-territorialità).
2) Lesioni bilaterali del secondo neurone di moto. Nel caso di lesione del secondo motoneurone il deficit articolatorio varia a seconda della distribuzione del danno ai differenti nervi cranici: se la lesione coinvolge il IX e X il deficit può essere prevalentemente (a) laringeo, con disfonia ed alterazione del volume e del timbro della voce che è ridotta ad un flebile sussurro, o (b) velofaringeo con ipernasalità dovuta ad emissione della voce per via nasale a causa dell’ipostenia dei muscoli del velo faringeo; se la lesione coinvolge il V, VII, XII il deficit è prevalentemente orale, con imprecisa articolazione delle consonanti per l’ipostenia dei muscoli linguali ed oro-facciali. Si può riscontrare in traumi cranici chiusi, nella sindrome di Guillain Barrè e nella miastenia e in lesioni ischemiche localizzate nel tronco encefalico.
Funzioni nervose superiori
3) Lesioni dei gangli della base. Le modificazioni articolatorie secondarie a lesioni del sistema extrapiramidale possono essere espressione dell’alterato tono posturale, dell’acinesia, del tremore o dei movimenti patologici dei muscoli del sistema fonatorio. Lesioni localizzate al caudato e al putamen, determinano quadri clinici diversi da lesioni del pallido e della substantia nigra. Nelle lesioni caudate e putaminali il deficit è determinato da movimenti involontari ed alterazioni posturali che interrompono i movimenti fonatori provocando, ad esempio, una improvvisa protrusione della lingua, una contrazione laringea, una smorfia facciale o, ancora, un’inattesa rotazione del capo. Si riscontra soprattutto nella corea di Huntington. Se la lesione è pallido-nigrica la rigidità della muscolatura, la riduzione dell’ampiezza dei movimenti ed il tremore determinano voce monotona con tonalità incolore e spesso tremula, difficoltà ad iniziare la frase con ripetizione, frequentemente reiterata, dell’ultima sillaba della parola (palilalia). L’emissione verbale è usualmente lenta ed esitante (bradilalia) anche se può essere interrotta da un’accelerazione improvvisa (tachifemia parossistica), che costituisce un esempio di cinesia paradossa. Si ritrova soprattutto nel morbo di Parkinson. 4) Lesioni cerebellari. – Le turbe cerebellari che danno luogo ad incoordinazione con atassia ed asinergia dei muscoli impegnati nell’articolazione del linguaggio, producono imprevedibili errori di sincronizzazione, ampiezza e direzione del movimento. La perdita dell’intonazione delle parole e della frase produce un linguaggio interciso e scandito; talora dopo una breve incertezza la produzione orale assume vigore e tono sproporzionati, in una sorta di «esplosione vocale» o linguaggio esplosivo. La proposta di distinguere i diversi tipi di disartria in: disartria flaccida (da lesione del secondo motoneurone), disartria spastica (da lesione delle vie cortico-bulbari), disartria atassica (da lesione cerebellare), disartria iper-
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cinetica (da lesione soprattutto della sostanza nera), disartria ipocinetica (da lesione dello striato, specie del caudato) (Duffy, 1995) non sembra fornire un reale vantaggio rispetto alla classificazione riportata e riferita alla sede di lesione.
AFASIA – L’afasia può essere definita un’alterazione dell’uso dei simboli verbali, in assenza di gravi turbe dell’intelligenza e di disfunzioni degli apparati sensoriali o motori. Ne consegue una compromissione del linguaggio caratterizzata da errori dell’espressione orale, disturbi della comprensione e difficoltà di reperimento dei vocaboli. L’afasia si manifesta per lesioni di specifiche aree perisilviane dell’emisfero «dominante», in soggetti che hanno già l’uso della parola e deve essere, pertanto, distinta dai difetti di sviluppo del linguaggio rilevabili in età evolutiva. Lo studio dell’afasia fornisce le basi delle conoscenze attuali sull’organizzazione morfofunzionale del linguaggio. In linea di massima si tratta di un disturbo che coinvolge più modalità linguistiche simultaneamente, associandosi a disturbi della lettura e della scrittura, a differenza della disartria che, essendo un disturbo esclusivamente motorio ed esecutivo, colpisce solo l’espressione verbale. L’afasia si distingue altresì dalla completa perdita del linguaggio o mutismo, determinata da un danno cerebrale diffuso quale si verifica in corso di grave trauma cranico o di sindrome apallica. Nelle prime fasi di una lesione focale acuta, si può avere un quadro di grave inibizione della produzione verbale che, tuttavia, rapidamente regredisce per lasciare spazio a disturbi propriamente fasici. I disturbi fasici nei bilingui che imparano due lingue nello stesso periodo di tempo sono simili, mentre si riscontrano maggiori differenze nel grado di afasia tra le due lingue quando l’apprendimento è avvenuto in tempi diversi. Il deficit fasico può comparire in forma accessuale in corso di crisi epilettiche o emicraniche ed in questo caso il disturbo si manifesta a coscienza integra come arresto dell’eloquio in presenza di una comprensione sostanzialmente inalterata. È opportuno ricordare che il termine “afemia “, oggi scarsamente utilizzato, dovrebbe identificare malati che presentano un linguaggio non fluente con comprensione e scrittura normali. L’afemia sarebbe da considerare un disturbo motorio della fonazione e non un disturbo fasico.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Analisi semeiotica dei disturbi fasici Le alterazioni dell’espressione verbale hanno caratteristiche, natura e gravità estremamente variabili; in alcuni casi il disturbo è tanto rilevante da rappresentare l’aspetto predominante, mentre in altri è meno evidente e si può accompagnare ad alterazioni della ripetizione, comprensione orale, lettura e scrittura per dar luogo a una serie di sindromi afasiche, correlate con la localizzazione della lesione. I disturbi che descriveremo sono presenti in tutti i sistemi linguistici e si associano variamente dando luogo a differenti quadri clinici o sindromi afasiche. Negli ultimi decenni la definizione di questi quadri è stata arricchita dal contributo della neurolinguistica che, applicando modelli e metodologie proprie, ha permesso di precisare il significato dei diversi sintomi. Tuttavia, l’approccio neurolinguistico che, incidentalmente, ha contribuito a dimostrare l’elevata variabilità del linguaggio afasico, integra ma non sostituisce la nosografia delle sindromi afasiche, il cui rilievo clinico-prognostico viene così confermato.
I disturbi fasici, variabili nei diversi quadri clinici e mutevoli, anche nello stesso paziente, vengono esaminati sia conversando con il soggetto su temi liberi sia con appositi tests. Se il linguaggio spontaneo è limitato sarà opportuno sollecitare il paziente mediante semplici domande che consentano di ottenere una risposta articolata piuttosto che monosillabica, chiedendo notizie sull’attività lavorativa, sul decorso della malattia, o la descrizione di compiti usuali quali il radersi o il preparare una pietanza. La somministrazione di tests si propone di quantificare gli aspetti più importanti della compromissione linguistica. A questo scopo esistono esami standardizzati, quali la versione italiana dell’Aachen Aphasic Test, che consente di confrontare il risultato individuale sia con la prestazione di soggetti normali che con quella di pazienti afasici, in modo da individuare la presenza di deficit del linguaggio e da determinarne l’entità, anche se la validità e l’affidabilità dei vari tests standardizzati va criticamente valutata. La valutazione del deficit del linguaggio può essere completata esaminando la capacità di comunicare nelle situazioni quotidiane, a prescindere dal sistema - verba-
le, gestuale o mimico - impiegato. In tutti i casi il soggetto dovrà essere posto il più possibile a proprio agio, dato che le prestazioni risentono notevolmente dello stato emotivo. Si dovrà individuare accuratamente la presenza di disturbi cognitivi, che possono alterare il risultato della prestazione verbale in assenza di afasia, conducendo ad errate conclusioni diagnostiche. Ad esempio, la presenza di disturbi gnosici può interferire con le prestazioni che richiedano il riconoscimento visivo, come la denominazione di immagini o l’indicazione di oggetti designati verbalmente dall’esaminatore. In questo caso si richiederà la descrizione gestuale e mimica dell’uso di oggetti e del significato di immagini che il soggetto non riesce a denominare o indicare. Analogamente, nella prova di esecuzione di ordini, è opportuno escludere l’esistenza di disturbi prassici, che potrebbero alterare la prestazione, indipendentemente dalla comprensione. L’analisi della prestazione può trovare un utile completamento nella somministrazione di tests psicometrici di tipo non verbale (ad es. le Matrici Progressive Colorate di Raven) che possono fornire indicazioni sull’eventuale difetto intellettivo, la cui entità non è necessariamente correlata al disturbo linguistico.
Uno schema elementare di esame del linguaggio analizza: l’espressione orale, la ripetizione, la comprensione orale, la lettura e la scrittura. Espressione orale Si valuta nel corso di una conversazione libera, su temi di diversa difficoltà, e facendo eseguire prove di denominazione di immagini o di oggetti, di descrizione di scene complesse, di costruzione di frasi a partire da due o tre vocaboli e richiedendo la formulazione di serie automatiche. I disturbi dell’espressione orale sono rappresentati da alterazioni della struttura della parola o della frase e da modificazioni della fluenza. ALTERAZIONI DELLA STRUTTURA DELLA PAROLA Il disturbo fasico può dar luogo ad errori fonologici e fonetici. Gli errori fonologici, o parafasie fonemiche, si manifestano nell’incapacità a selezionare i
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suoni fonemici nella giusta sequenza, in assenza di disturbi di articolazione (tata invece di casa o talovo invece di tavolo). Le parafasie fonemiche o letterali possono essere di 4 tipi: a) sostituzioni, per cui un segmento sonoro è scambiato con un altro (ferra per terra); b) semplificazioni con soppressione di un segmento o di una sillaba (ippotami invece di ippopotami); c) addizioni, con aggiunta di uno o più suoni in posizione errata (papra per papa); d) spostamenti, che includono metatesi, caratterizzate da trasposizioni di lettere nella stessa parola (sucido invece di sudicio) e da assimilazioni con trasformazione di suoni sonori, come p,t,v, nei corrispondenti suoni sordi b,d,f e viceversa (pampino per bambino). Le parafasie fonemiche emergono con estrema variabilità in ogni aspetto della produzione verbale, coinvolgendo sia l’eloquio spontaneo che la ripetizione e la denominazione. Gli errori fonetici, o parafasie fonetiche, riflettono, invece, l’alterazione dei programmi che traducono la rappresentazione fonologica di una parola in movimenti articolatori. Le difficoltà di articolazione si manifestano con distorsioni delle caratteristiche acustiche dei singoli suoni vocalici o consonantici, e con la modificata intonazione della parola. Nelle forme più gravi si realizza il quadro della «disintegrazione fonetica», in cui, alla perdita della programmazione motoria dei suoni verbali, si aggiungono paresi, alterazioni della coordinazione e del tono delle strutture fonatorie. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato da un eloquio estremamente laborioso e dall’evidente sforzo del paziente di produrre il corretto suono o la giusta sequenza sonora. Nonostante i vari tentativi di aggiustamento il discorso risulta caratterizzato da distorsioni cui si associano omissioni, sostituzioni, addizioni, ecc., e ogni correzione fallisce, producendo nuovi errori fonetici in un frustrante e continuo tentativo di approssimare la corretta rappresentazione della parola cui il paziente non riesce ad approdare. Questa alterazione può variare a seconda della condi-
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zione emotiva e dipende dal tipo di prestazione richiesta; migliora quando si tratta di serie linguistiche precocemente apprese e altamente automatizzate (ad es. modi di intercalare, bestemmie, preghiere, ecc.) e peggiora con la difficoltà del compito. ALTERAZIONI DELLA STRUTTURA DELLA FRASE Nel linguaggio afasico è possibile distinguere un disturbo di contiguità, consistente nell’incapacità ad ordinare sul piano grammaticale e sintattico vocaboli correttamente selezionati, da un disturbo di selezione, caratterizzato da difficoltà a scegliere le parole appropriate, e da produzioni verbali abnormi. Disturbi di contiguità – Le più tipiche manifestazioni sono rappresentate dall’agrammatismo e dal paragrammatismo. L’agrammatismo consiste nell’incapacità di utilizzare correttamente le norme grammaticali, e deriva sia dall’uso improprio che dall’assenza delle parti invariabili del discorso quali preposizioni, congiunzioni, avverbi, dei verbi ausiliari e dei suffissi che consentono di coniugare i verbi, e di modificare numero (singolare o plurale) e genere (maschile o femminile) dei sostantivi. I più comuni errori grammaticali sono caratterizzati da a) omissioni e sostituzioni di articoli, preposizioni, congiunzioni e pronomi personali; b) sostituzioni di forme verbali; c) perdita di costruzioni sintattiche coordinate e subordinate; d) alterazione della melodia del linguaggio dovuta alla segmentazione errata delle parole nell’interno della frase; e) mancata comprensione dei termini grammaticali e delle inflessioni che da essi derivano; f) uso di frasi non complete e mescolanza di forme grammaticali diverse. Questi disturbi si manifestano con la produzione di frasi telegrafiche (ad es. Luca andare casa, invece di Luca è andato a casa) in cui si ha la caduta dell’ausiliare e della preposizione e la trasformazione del verbo all’infinito. Pick (1905) che per primo affrontò il tema dal punto di vista linguistico, ipotizzò che nell’elaborazione del linguaggio esistesse una fase preliminare necessaria alla formulazione dello schema della frase nella quale verrebbero successivamente inserite le parole secondo le norme sintattiche e grammaticali. L’agrammatismo rappre-
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senterebbe una regressione dalla fase della completa e corretta formulazione sintattica alla fase dello schema preliminare. Qualunque sia l’interpretazione, il paziente agrammatico perde la capacità di manipolare la struttura grammaticale della frase, pur essendo relativamente risparmiata la disponibilità di vocaboli e la capacità di usarli in modo corretto.
Il paragrammatismo è caratterizzato da una forma sintattica relativamente preservata, con una abbondante produzione di elementi grammaticali e strutture sintattiche usate in maniera inappropriata, come è il caso di questa sequenza: «quando la papà anda in casa trova tutto con disordine ...» in cui l’articolo e la preposizione sono utilizzati erroneamente ed il verbo è coniugato, ma in maniera sbagliata. Disturbi di selezione – Il deficit fasico si associa, pressoché regolarmente, ad una grave riduzione della quantità di parole disponibili, dando luogo ad un disturbo definito anomia, cioè incapacità di evocare intenzionalmente un vocabolo sia nell’eloquio spontaneo che nelle prove tests. Il disturbo non è specifico e un certo numero di condizioni morbose (stati confusionali, demenze e situazioni psicopatologiche di vario tipo) possono accompagnarsi ad anomia. L’esistenza di anomia, apprezzabile nel corso del linguaggio spontaneo può essere meglio valutata nel corso del test di denominazione in cui si richiede di produrre i nomi di una serie di immagini o di oggetti presentati visivamente o attraverso altre modalità sensoriali. L’anomia afasica è molto variabile: l’impossibilità a reperire una parola in un determinato contesto, può scomparire nel linguaggio colloquiale o sotto una spinta emotiva particolarmente forte, ad es. il paziente riesce a dare il buongiorno all’arrivo del medico, ma non dietro comando. È questo un esempio di dissociazione automatico-volontaria che sottolinea il ruolo emotivo nella produzione verbale, anche in condizioni di notevole riduzione del repertorio lessicale. L’anomia afasica dipende dalla compromissione di fattori diversi ed è correlata alla localizzazione della lesione. In particolare, lesioni temporali si associano ad un’estrema povertà lessicale e le difficoltà di reperimento dei vocaboli danno luogo a sostituzioni con parole passepartout o circonlocuzioni che falliscono lo scopo, producendo il quadro clinico dell’afasia anomica o amnestica (v. pag. 142).
Esistono forme di anomia specifiche per determinate categorie di vocaboli (ad es. i colori) e per alcune modalità di presentazione. Tra queste va segnalata l’afasia ottica di Freund, in cui il disturbo è rappresentato dalla dissociazione tra denominazione di stimoli visivi, alterata pur in presenza di un normale riconoscimento, e denominazione di stimoli tattili e uditivi, sostanzialmente normale.
Il disturbo di selezione si può anche manifestare con produzioni verbali abnormi che includono: stereotipie, parafasie, neologismi. Le stereotipie verbali sono emissioni ricorrenti costituite da una sillaba, una parola o una frase più o meno significativa che viene ripetuta iterativamente, spesso in maniera involontaria. Questo tipo di emissione, frequentemente osservabile nello stadio acuto di sindromi afasiche gravi, si associa ad un grave disturbo della capacità di produrre parole, per cui ogni tentativo di comunicare dà luogo alla loro comparsa, quasi sempre rapida ed esplosiva. Talora perdono il carattere di emissione involontaria per acquistare tonalità affettive ed intonazioni variabili a seconda delle circostanze, costituendo l’unico mezzo verbale che consente al paziente di esprimere emozioni e stati d’animo, anche se in modo inadeguato ed elementare. Le parafasie rappresentano sostituzioni di suoni o parole per un difetto di selezione, e si distinguono in parafasie fonemiche o letterali già descritte (v. pag. 129) e parafasie semantiche o verbali. Le parafasie semantiche o verbali sostituiscono un vocabolo con un altro incongruo, ma presente nella lingua in cui si esprime il paziente. La parafasia può essere legata alla stessa classe semantica della parola bersaglio, come accade usando «cane» per «gatto», entrambi i sostantivi rappresentando nomi di animali; o può essere costituita da una parola che non ha alcun legame semantico o formale con la parola bersaglio. Le parafasie verbali possono complicarsi con parafasie fonemiche come accade, ad esempio, nel caso in cui si sostituisce la parola «mela» con «arancio», e poi l’alterata sequenza fonemica di arancio produce il neologismo «rncio».
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I neologismi sono sostituzioni di parole con altre inesistenti nella lingua del paziente e, pertanto, prive di significato. La frequenza di questi elementi può essere tale da determinare la comparsa di gergofasia a sua volta distinta in gergo fonemico e gergo semantico. In entrambi i casi il discorso non è comprensibile, anche se scorre con estrema fluidità, dando l’impressione che il soggetto padroneggi perfettamente un linguaggio solo a lui noto. Nel gergo fonemico esiste un’espressione verbigerante di serie sillabiche prive di significato, ottenute combinando in modo inconsuetamente rapido un numero di fonemi molto limitato. Il gergo semantico indica la successione incontrollata di parafasie verbali frammiste a neologismi che trasformano il discorso in un’insalata di parole. ALTERAZIONI DELLA FLUENZA VERBALE I fenomeni sopradescritti si accompagnano ad un’alterazione della fluenza, interferendo con la scorrevolezza del linguaggio spontaneo. Il giudizio sulla fluenza del linguaggio si fonda sulla velocità dell’emissione verbale, la lunghezza delle frasi, la prosodia o melodia del discorso, la presenza e natura di pause ed inceppi, la ricchezza di parole significative (sostantivi e verbi) rispetto a quelle non significative (preposizioni, congiunzioni, avverbi); inoltre il diverso grado di fluenza si accompagna ad una differente consapevolezza del disturbo. La maggior parte dei pazienti afasici può essere distinta in due gruppi, definiti rispettivamente afasici non fluenti ed afasici fluenti. La distinzione basata sulla fluenza è parallela a quella tra disturbi fonologici e fonetici e tra agrammatismo e paragrammatismo; la presenza di disturbi fonologici e di paragrammatismo è più frequente negli afasici fluenti mentre disturbi fonetici ed agrammatismo sono caratteristici degli afasici non fluenti. I due gruppi corrispondono ad una diversa localizzazione della lesione encefalica che nel primo caso è pre-rolandica e nel secondo caso post-rolandica (Fig. 4.1).
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AFASIA NON FLUENTE – Il linguaggio è caratterizzato dalla marcata riduzione della velocità del discorso, che spesso scende al di sotto delle dieci parole per minuto, e dall’aumento dello sforzo per produrre e associare singoli fonemi o parole. Le frasi sono spesso limitate a poche parole separate da inceppi e pause, determinate dalla difficoltà di produrre la corretta sequenza fonemica o verbale. I disturbi dell’articolazione della parola sono assai frequenti anche se la ridotta fluenza può essere dovuta alla difficoltà di procedere da una parola all’altra o da un raggruppamento verbale al successivo. Talora l’emissione è distorta nel ritmo o nella melodia e presenta modificazioni della cadenza che costituiscono il quadro clinico della disprosodia. L’afasico non fluente ha consapevolezza del proprio deficit e delle difficoltà insormontabili che incontra nel comunicare il proprio pensiero. Ciò può dare origine, nei casi più gravi, a «reazioni catastrofiche», vere crisi di disperazione di fronte alla propria incapacità a superare le difficoltà verbali. AFASIA FLUENTE – L’emissione verbale presenta caratteristiche opposte, dal momento che la quantità di parole prodotte nell’unità di tempo è normale o decisamente superiore alla norma. La relativa carenza di parole significative rispetto alle non significative (avverbi, congiunzioni, ecc.) caratterizza la produzione verbale che, a dispetto della sovrabbondanza, consente solo un minimo scambio di informazioni: il discorso risulta «vuoto» ossia privo di contenuti informativi. La comunicazione verbale può essere, inoltre gravemente compromessa da parafasie e neologismi che possono essere tanto abbondanti da giungere alla gergofasia. Non esiste alcuna difficoltà o sforzo evidente nell’eloquio e nella sua articolazione; la linea melodica del discorso è normale. Il disturbo predominante è rappresentato da alterazioni del-
Fig. 4. 1 - Lesione pre-rolandica: afasie non fluenti; lesione post-rolandica: afasie fluenti.
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la produzione lessicale con riduzione della capacità di comunicare verbalmente. Gli eventuali inceppi sembrano riflettere un deficit d’accesso ad una particolare parola e questa difficoltà dà luogo a circonlocuzioni o perifrasi costituite da verbigerazioni abbondanti, prive di significato. A differenza dell’afasico non fluente, il paziente è spesso privo di consapevolezza del proprio deficit e del fatto che l’interlocutore non riesce a comprendere il suo linguaggio.
Le lesioni responsabili delle sindromi con alterata ripetizione sarebbero localizzate nelle aree perisilviane, immediatamente circostanti la scissura di Silvio, mentre le sindromi che presentano una normale ripetizione sarebbero dovute a lesioni delle aree marginali, situate perifericamente, attorno alle zone perisilviane (Fig. 4.2).
Ripetizione La ripetizione, testata proponendo parole di differente lunghezza, neologismi e frasi di crescente complessità, può essere alterata per varie cause. Quando esiste un difetto di comprensione, come nel caso estremo della sordità verbale pura (v. pag. 143), il soggetto riesce a ripetere solo un limitato numero di elementi che identifica come suoni verbali. Il disturbo della ripetizione può essere legato ad un’alterazione dell’articolazione, presentando le medesime distorsioni del linguaggio spontaneo. D’altro canto, la ripetizione è una funzione indipendente dai restanti aspetti linguistici e, come tale, è servita da strutture specifiche. In alcuni soggetti risulta sproporzionatamente compromessa rispetto al deficit della comprensione e dell’espressione verbale. In altri casi la capacità di ripetere è pressoché intatta, malgrado la grave compromissione della comprensione orale e la normale, ma incontrollata, abilità di ripetere può interferire con il linguaggio spontaneo, determinando frequenti ecolalie, rappresentate dalla ripetizione irrefrenabile di frasi o, più spesso, frammenti di frasi e parole appena pronunciate dall’esaminatore. L’abilità di ripetere correttamente numeri, parole e frasi costituisce una funzione di cui si tiene specifico conto nel classificare le sindromi afasiche. È possibile, infatti, distinguere sindromi afasiche con disturbi della ripetizione (afasia di Broca, di Wernicke, di conduzione, globale, sordità verbale pura) e senza disturbi della ripetizione (afasia transcorticale motoria, transcorticale sensoriale, transcorticale mista, anomia e afasie sottocorticali). Questa distinzione corrisponderebbe, secondo il modello classico, ad una diversa localizzazione della lesione.
Fig. 4. 2 - La lesione delle aree silviane (in bianco) dà luogo ad afasie con alterazione della ripetizione; quella delle aree marginali (tratteggiate) è seguita da afasia senza disturbo della ripetizione.
Comprensione orale Viene valutata chiedendo al soggetto di eseguire ordini di varia complessità e di indicare immagini ed oggetti su designazione orale, avendo preliminarmente esclusa la presenza di disturbi del riconoscimento visivo. Nel test dei gettoni (De Renzi e Vignolo, 1962), comunemente impiegato per esaminare questo deficit, le difficoltà di comprensione vengono graduate introducendo elementi che aggiungono complessità all’ordine con il quale si richiede al paziente di manipolare gettoni di differente grandezza, forma e colore. Dapprima si chiederà, ad esempio, di toccare «un gettone grande», quindi «un gettone grande, tondo», poi ancora «un gettone grande, tondo e giallo», ecc. Nei casi più gravi il paziente non riesce a comprendere gli ordini più semplici e può ripetere una stessa azione, nonostante l’ordine sia stato modificato (perseverazione). Sarà necessario escludere l’eventuale presenza di deficit mnesici,
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che potrebbe alterare la prestazione in assenza di alterazioni della comprensione verbale. La comprensione uditiva non è un fenomeno unitario dipendendo da eventi di differente natura, acustici, fonemici, semantici e sintattici. Tutti i modelli proposti per chiarire i momenti essenziali della comprensione orale hanno in comune i seguenti elementi: a) rilevazione della natura verbale del segnale acustico, b) identificazione delle unità di suono (fonemi) che hanno significato linguistico o percezione fonemica, c) raggruppamento di sequenze fonemiche chiaramente identificabili come parole, significative o non, per consentire la comprensione lessicale e semantica, d) identificazione delle interazioni esistenti tra parole significative nell’ambito di una struttura grammaticale e sintattica caratteristica di un certo sistema linguistico in modo da garantire la comprensione sintattica. Il contesto in cui si presentano le anomalie della comprensione orale - in particolare la variabile concomitanza di disturbi della ripetizione e della comprensione dello scritto - conferma la complessità del deficit. Ad esempio, il relativo risparmio della ripetizione, associato a grave compromissione della comprensione orale e scritta, sembra dimostrare che il paziente è in grado di ricevere con sufficiente chiarezza i messaggi verbo-acustici, ma non riesce ad estrarre il significato dalle sequenze verbali. Altre situazioni, infine, caratterizzate da un deficit parallelo e grave delle tre funzioni - comprensione orale, ripetizione e comprensione dello scritto - suggeriscono l’esistenza di una alterazione globale della capacità di analizzare il linguaggio.
In generale gli afasici con disturbi di comprensione orale, non presentano difficoltà nella rilevazione di semplici toni acustici, anche se l’alterazione può comparire con l’aumento della frequenza dei segnali uditivi; ciò è particolarmente evidente nella sordità verbale pura, dove la difficoltà di comprensione è tanto maggiore quanto più è alta la velocità del messaggio verbale. Nulla conferma che il deficit di comprensione orale possa dipendere dalla difficoltà di discriminare i fonemi, ad es. p da b, t da d, tanto più che, sia nei soggetti normali che negli afasici, il riconoscimento delle normali differenze fonemiche sembra basarsi piuttosto sulla conoscenza semantica, cioè sull’identificazione del significato della parola. È, infatti, più age-
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vole discriminare i suoni di parole di senso compiuto che i neologismi. Anche se componenti semantiche e struttura sintattica e grammaticale si integrano nell’ambito di una frase per renderne comprensibile il contenuto, i due elementi sono tenuti distinti sul piano semeiologico. Quadri afasici possono caratterizzarsi per la presenza di un’alterata capacità di comprendere le caratteristiche sintattiche e grammaticali del discorso, mentre la comprensione del significato lessicale può essere relativamente risparmiata. Viceversa, lesioni corticali diffuse, responsabili di quadri di grave demenza, si possono associare ad una compromissione semantica, senza, peraltro, alterare la capacità di comprendere le caratteristiche sintattiche e grammaticali del discorso. Lettura Con il termine di alessia si indica sia l’incapacità a comprendere lo scritto che la difficoltà a leggere ad alta voce; i due disturbi devono, tuttavia, essere distinti dal momento che esistono pazienti in grado di comprendere un testo scritto, pur non essendo capaci di leggere ad alta voce e viceversa. L’alessia presuppone che il soggetto abbia acquisito la capacità di leggere e, quindi, va distinta dalla dislessia che si riferisce all’incapacità di apprendere la lettura per varie cause patologiche, insorte nell’età evolutiva. Il disturbo, valutato mediante l’esecuzione di ordini scritti o l’indicazione di oggetti richiesta per iscritto, può essere dovuta ad incapacità a comprendere singole lettere (alessia letterale) o parole (alessia verbale). La comprensione dello scritto è strettamente correlata al grado di integrità della comprensione orale e dipende dalla possibilità di trasferire le informazioni visuo-grafiche alle aree corticali deputate al processo linguistico. Pertanto, ad eccezione della sordità verbale pura, quadri di afasia con alterazione della comprensione orale si associano frequentemente a deficit della comprensione dello scritto. D’altro canto una grave compromissione della capacità di comprendere lo scrit-
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to può associarsi ad un risparmio relativo o addirittura ad una completa integrità della comprensione orale. È il caso dell’alessia con agrafia, in cui il disturbo coinvolge comprensione dello scritto e scrittura anche se può associarsi a lievi disturbi dell’espressione e della comprensione del linguaggio e a sindrome di Gerstmann (v. pag. 160). Analogamente, nell’alessia senza agrafia, sindrome spesso considerata di natura agnosica, il disturbo è limitato alla sola comprensione dello scritto in assenza di deficit dell’espressione grafica o di disturbi delle altre funzioni linguistiche.
Scrittura Disturbi della scrittura che non siano dovuti a deficit puramente motori (emiplegia, rigidità extrapiramidale, atassia cerebellare, distonie) sono indicati con il termine di agrafia. La definizione del disturbo presuppone l’avvenuta acquisizione della capacità di scrivere. L’analisi della scrittura prevede la valutazione della scrittura spontanea, dettata e copiata. Poiché la scrittura mette in moto meccanismi diversi, esistono differenti quadri clinici: agrafia afasica, quando è associata a disturbi linguistici, agrafia aprassica associata a compromissione di prestazioni gestuali, agrafia spaziale associata a deficit dell’orientamento spaziale ed infine una agrafia pura, quando il disturbo dell’espressione scritta appare del tutto isolato. Nell’agrafia afasica si ha un sovvertimento della capacità di combinare correttamente i simboli grafici, di per sé correttamente eseguiti. Le modificazioni dello scritto hanno una forte analogia con le parafasie dell’espressione orale e sono caratterizzate da sostituzioni di lettere, sillabe e parole che danno luogo a paragrafie (letterali, sillabiche, verbali), neologismi e, nei casi più gravi, a gergografia. Si possono associare perseverazioni di una o più parole ed errori grammaticali o sintattici. Quando l’alterazione è particolarmente grave, le scritture spontanea e dettata sono completamente assenti, e risulta possibile solo la copia servile in cui il paziente, incapace a trascrivere un testo nel normale corsivo, è costretto a “disegnare” i singoli caratteri grafici copiando l’originale. Nell’agrafia aprassica l’alterazione interessa il segno grafico in tutte le modalità e consiste in realizzazioni informi, costituite da pochi segni (scrittura a cerchi) iterativamente ripetuti.
Aspetti non verbali della comunicazione orale La comunicazione include elementi non linguistici che possono essere compromessi in corso di afasia, anche se meno di quanto avviene a livello sintattico e semantico. La prosodia, ossia il ritmo, la melodia e l’intonazione della frase, sottolinea questi differenti aspetti a seconda che si tratti di prosodia affettiva o pragmatica. La prosodia affettiva dà il colorito affettivo alla comunicazione quando si vogliano esprimere emozioni o sentimenti quali ira, gioia, tristezza, etc. La prosodia pragmatica sottolinea le indicazioni contenute nel discorso quando, ad esempio, si fa un’affermazione o, invece, si esclama, si interroga, si ordina, si sollecita, etc. La prosodia può altresì avere una valenza linguistica laddove consente di modificare il significato della frase modulando accenti e pause del discorso. È il caso della frase latina «ibis redibis non morieris in bello» che ha un significato ambivalente, a seconda che la pausa (segnata dalla virgola) segua il redibis («ibis redibis, non morieris in bello»: andrai tornerai, non morrai in guerra) o il successivo non («ibis redibis non, morieris in bello»: andrai non tornerai, morrai in guerra). La prosodia affettiva è in genere compromessa da lesioni emisferiche destre; mentre lesioni dell’emisfero sinistro possono interferire con gli aspetti pragmatici o linguistici della prosodia ed il soggetto può essere scambiato per uno straniero. È possibile che l’afasia si associ ad altri disturbi cognitivi che ricordano quadri demenziali, in parte legati alla presenza di deficit di comprensione orale, superati i quali l’afasico può fornire buone prestazioni, in parte dovuti alla generale difficoltà degli afasici di manipolare il materiale verbale. Infatti quando si impieghino prove che richiedono la soluzione di tests non-verbali, ad esempio la prova delle Matrici Colorate di Raven, la prestazione degli afasici è generalmente sovrapponibile a
Funzioni nervose superiori quella dei cerebrolesi non-afasici. Anche se il decadimento mentale, che colpisce sia prove verbali che non verbali, può complicarsi con deficit fasici, i difetti linguistici e le alterazioni cognitive devono essere considerati separatamente. L’afasia può associarsi ad aprassia bucco-linguofacciale tanto più frequentemente quanto più grave è il disturbo fasico. I due deficit sono indipendenti, come dimostra la differente velocità di recupero della funzione; è ,infatti, possibile che in un paziente, inizialmente afasico ed aprassico, il disturbo del linguaggio persista ben oltre la guarigione del secondo.
La rappresentazione cerebrale della funzione fasica È ormai largamente accettato che il comportamento e, quindi, anche il linguaggio siano correlati con la struttura e la fisiologia della corteccia cerebrale. Fin da quando Paul Broca (1863) sottolineò l’associazione fra lesione del piede della terza circonvoluzione frontale sinistra e disturbo fasico, la localizzazione cerebrale delle aree del linguaggio e la relativa organizzazione sono state e, tuttora sono, oggetto di ricerca. Per un lungo periodo, sulla base delle correlazioni anatomo-cliniche più significative è stata postulata l’esistenza di «centri corticali», opportunamente localizzati, ciascuno selettivamente responsabile di isolate funzioni linguistiche. Nel modello classico di Wernicke e Lichteim il messaggio orale produce la sollecitazione di immagini verbo-acustiche che ne permettono la comprensione; se dal polo verbo-acustico le immagini vengono trasmesse alla regione motoria, inducono la elaborazione di immagini verbo-motorie che si trasformano in parole. Il centro verbo-acustico garantisce l’assenza di intrusioni parafasiche nel linguaggio e controlla le informazioni provenienti dalle aree di associazione visiva consentendo la lettura. Il modello, nella sua semplicità, identifica due poli, con specifiche differenze funzionali, l’uno localizzato anteriormente, l’altro posteriormente. Anche se oggetto di critiche, tra le prime quella di Freud (1891) che sottolineava l’evidente ipersemplificazione del modello, continua ad essere la base di molte analisi contemporanee perché, meglio di altri, riflette la realtà clinica. Tuttavia, l’eccessivo schematismo della localizzazione di «centri» corticali mal si adatta alla complessità dei disturbi, e ai processi di integrazione tra aree cerebrali diverse per la stessa funzione del linguaggio.
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A conferma di questa impostazione possiamo dire che solo raramente è possibile ottenere una correlazione diretta ed univoca tra segno clinico e lesione di un’area specifica. In effetti l'identificazione della sede di una lesione cerebrale, sia alle neuroimmagini che all’autopsia, non permette di affermare che la funzione cognitiva alterata abbia la sua genesi in quell’area. La lesione può risparmiare la prestazione ai tests, ma ciò non implica che l’area danneggiata sia irrilevante per la funzione esaminata. Al contrario il danno anatomico può modificare il compito cognitivo esaminato, ma ciò non significa che quella determinata area sia l’unica con valore critico per quella funzione (Chow, 1967). Il rilievo che ogni atto cognitivo, anche semplice ed elementare, si accompagni all’attivazione di regioni cerebrali diverse è stato recentemente confermato dagli studi del flusso ematico e del metabolismo cerebrale. Ad esempio, anche produzioni verbali semplici e stereotipate attivano più aree cerebrali simultaneamente. La funzione del linguaggio non sembra, quindi, localizzata in un’area specifica e circoscritta, ma appare, piuttosto, il risultato dell’attività di raggruppamenti neuronali localizzati in diverse aree cerebrali corticali e sottocorticali strettamente interconnesse da una rete neurale complessa, realizzando un sistema spazialmente distribuito. La sede della lesione, quindi, non proverebbe l’esistenza di «centri» del linguaggio, ma identificherebbe semplicemente la maglia in cui l’interruzione del sistema è in grado di determinare la comparsa di un segno clinico. D’altra parte, già Jackson alla fine dell’ottocento (1878) affemava che individuare le aree lese nei disturbi del linguaggio è cosa ben diversa dall’identificare le strutture che elaborano il linguaggio: è improprio inferire la funzione da un sintomo.
Dall’analisi della sede di lesione encefalica negli afasici discende la definizione di dominanza emisferica e l’identificazione di strutture che, con ruoli differenti, partecipano alla funzione linguistica. Dominanza emisferica Il concetto di dominanza non implica che un emisfero governa l’altro, controllandone l’attività, né che un emisfero presiede in maniera esclusiva a singole funzioni integrative, come sembrava suggerire l’affermazione secondo la quale «è cruciale per il linguaggio nei destrimani l’emisfero sinistro, e nei mancini l’emisfero destro». Si riferisce, piuttosto, alla specializ-
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zazione di ciascun emisfero per alcune funzioni e prevede una differente organizzazione anatomo-funzionale, pur modulata da una continua integrazione reciproca. Se le turbe fasiche e prassiche si verificano per lesione dell’emisfero sinistro, le turbe dell’orientamento visuospaziale (v. pag. 157) sono più frequenti per lesione dell’emisfero destro. La dominanza, quindi, implica un diverso grado di lateralizzazione di alcune funzioni cognitive che, come accade per il linguaggio, sono rappresentate in maniera asimmetrica nei due emisferi. Anche se è oggi ammessa una associazione tra preferenza manuale e lateralizzazione per il linguaggio, il rapporto tra i due parametri è tutt’altro che semplice e diretto, come dimostra lo studio dei disturbi del linguaggio nei mancini. Le lesioni cerebrali che determinano afasia sono localizzate nell’emisfero sinistro nella quasi totalità dei destrimani ed approssimativamente nel 60% dei mancini o ambidestri. Solo in una piccola percentuale dei destrimani, valutata tra l% e il 5%, l’afasia può essere dovuta ad una lesione emisferica destra; in questo caso si parla di afasia crociata. Queste indicazioni sono confermate dai risultati del test di Wada-Rasmussen, effettuato in pazienti neurochirurgici allo scopo di individuare l’emisfero dominante per il linguaggio prima di procedere ad interventi demolitori in caso di neoplasia cerebrale (Milner, 1994). Il test consiste nell’introduzione intracarotidea di Amytal sodico che determina il temporaneo arresto della produzione verbale, se l’emisfero è rilevante per il linguaggio. Per inattivazione dell’emisfero sinistro il linguaggio si modifica nella quasi totalità dei destrimani e nel 69% dei mancini ove si riscontra una frequente rappresentazione bilaterale del linguaggio. In circa il 15% dei pazienti mancini, infatti, l’iniezione dell’uno o dell’altro emisfero non produce significative alterazioni del linguaggio; nel restante 16% l’emisfero dominante è il destro.
La lateralizzazione per il linguaggio non è solo un fatto funzionale, ma ha anche un substrato anatomico, come dimostra la maggior estensione, rispetto all’emisfero controlaterale, delle aree citoarchitettoniche corrispondenti ai centri del linguaggio. Il rilievo si adatta anche ai neonati e dimostra che la lateralizzazione cerebrale del linguaggio è geneticamente acquisita. È comunemente accettato che ad uno stadio di equipo-
tenzialità dei due emisferi faccia seguito, verso il 3°- 4° anno di vita, il processo di specializzazione dell’emisfero dominante, dovuto, probabilmente, alla maggiore prontezza ed efficienza nell’acquisire funzioni linguistiche. Verso il 12°15° anno il processo è praticamente concluso e l’emisfero dominante assume il suo ruolo definitivo. Infatti fino all’età di 10 anni l’emisferectomia sinistra, in pazienti affetti da epilessia ribelle ai trattamenti medici, si accompagna ad un pressoché completo recupero del linguaggio, e d’altra parte, solo raramente, lesioni dell’area del linguaggio in età infantile producono quadri di afasia permanente. Il tipo di afasia è influenzato dall’età, ed è assai difficile osservare quadri di afasia fluente nell’infanzia dove, invece, prevalgono disturbi di tipo non-fluente.
Le aree del linguaggio In adulti destrimani si distingue nell’emisfero sinistro, dominante per il linguaggio, un’area centrale situata in regione perisilviana e costituita dalle strutture riferite più avanti (a,c,d), la cui distruzione determina pressoché costantemente afasia, ed un’area marginale, che comprende le restanti aree e la cui lesione non determina necessariamente la comparsa di afasia, anche se spesso si associa a disturbi del linguaggio (Fig. 4. 2). All’interno delle aree perisilviane le regioni situate anteriormente o posteriormente alla scissura di Rolando (Fig. 4. 1) si caratterizzano per una diversa specializzazione funzionale. Una lesione delle strutture pre-rolandiche determina la comparsa di afasia non fluente, una lesione delle strutture post-rolandiche si associa alla comparsa di afasia fluente, con variabile grado di alterazione della comprensione. Nell’ambito di questa organizzazione il modello classico identifica quali strutture responsabili delle funzioni del linguaggio, le seguenti regioni, tutte localizzate, nell’emisfero di sinistra (tranne la corteccia uditiva di destra, riportata in d):
Funzioni nervose superiori
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e) il terzo inferiore della corteccia motoria e somatosensoriale, nella regione rolandica, che presiede alla funzione dei muscoli utilizzati per l’espressione verbale; f) il giro angolare (area 39 di Brodmann), il giro sopramarginale (area 40 di Brodmann) e le loro connessioni con il lobo limbico (Fig. 4. 3).
A
La ricerca neuropsicologica e gli studi con neuroimmagini, attualmente condotti molto spesso in associazione, hanno permesso di ampliare notevolmente le nostre conoscenze individuando le diverse strutture che intervengono nella produzione e nella comprensione del linguaggio. Un breve riassunto di questi dati viene fornito nei paragrafi seguenti. Produzione di Parole e Frasi - Fluidità
B
Fig. 4. 3 (A e B) - Le aree la cui lesione determina afasia, sono individuate nella faccia laterale e mediale dell’emisfero; l’area 6 (faccia mediale) rappresenta la sede responsabile solo di una inibizione grave dell’eloquio.
a) l’area anteriore o di Broca (area 44 di Brodmann), localizzata a livello dell’opercolo rolandico, corrispondente al piede della terza circonvoluzione frontale, provvede alla produzione del linguaggio; b) l’area posteriore o di Wernicke, (area 22 di Brodmann), situata nel terzo posteriore della prima circonvoluzione temporale e parte della seconda circonvoluzione temporale, deputata alla comprensione del linguaggio. c) il fascicolo arcuato, via di connessione che unisce l’area di Broca e di Wernicke decorrendo nella profondità del giro sopramarginale e dell’insula; d) le due corteccie uditive primarie e le vie di connessione interemisferiche;
L’area anteriore, attiva per la produzione del linguaggio, include a sinistra oltre all’area 44 e 45, anche aree più anteriori, quale l’area frontale dorsolaterale (aree 9,10, 46) (v. pag. 518). L’area di Broca, quindi, fa parte di un sistema che implica l’attività di una vasta area frontale e ha la capacità di rendere operative diverse aree associate. La fluidità del linguaggio è in rapporto con l’integrità delle aree frontali inferiori e posteriori, comprese le sottostanti aree sottocorticali, oltre alle aree corticali e sottocorticali a livello rolandico. L’area frontale dorsolaterale esplica la sua funzione nella produzione e nel monitoraggio di un discorso di lunga durata, coordinando l’emissione di espressioni verbali che durano nel tempo (narrazioni, ripetizione di una storia, etc). Le strutture mediali del lobo frontale (incluse l’area supplementare motoria e la parte anteriore del giro cingolato) hanno un ruolo nell’iniziare e nel mantenere il flusso verbale,e nel controllo delle emozioni e dell’attenzione. La lesione di queste aree non determinerebbe un quadro afasico, ma produrrebbe vari gradi di acinesia e impossibilità ad emettere le parole, riducendo, in tal modo, la capacità di comunicare per via verbale, gestuale e mimica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Le aree anteriori del lobo temporale (aree 20, 21 e 38 di Brodmann), hanno la funzione di reperire parole, in assenza di alterazioni fonemiche e fonetiche o di deficit grammaticali. La lesione del polo temporale (area 38) determinerebbe l’incapacità di rievocare nomi propri (sostantivi che identificano luoghi e persone uniche) senza interessare i nomi comuni (sostantivi che identificano categorie ad es. libro, tavolo, etc). Quando invece la lesione coinvolge le aree 20 e 21 il difetto si verifica sia per i nomi comuni che per i nomi propri. In entrambi i casi è conservata l’abilità di reperire altri tipi di parole, quali aggettivi, verbi, funtori grammaticali, etc. Esistono, infatti, casi clinici che dimostrano deficit dissociati nel produrre parole di categorie affini, ad esempio un malato è in grado di denominare concetti animati e non concetti inanimati, di indicare nomi di frutta ma non di vegetali, di esprimere nomi geografici ma non di altre categorie affini etc. Questi rilievi dimostrano che reti neurali diverse provvedono ad attività fasiche affini e possono fornire supporto alla concezione che il cervello funzioni per moduli distribuiti in aree anche distanti. Comprensione delle Parole e Frasi L’area posteriore, attiva per la comprensione del linguaggio, non include solo l’area 22. Il disturbo nella comprensione delle singole parole, con la compromissione isolata della ritenzione immediata della parola udita, è indicato come alterazione della “memoria verbale uditiva immediata”, ed è dovuto a lesione della circonvoluzione sopramarginale posteriore sinistra (area 39) e della circonvoluzione temporale superiore (area 22), aree in cui ha sede il “lessico fonologico di emissione”. Il deficit nella comprensione delle parole di contenuto è associato a lesione della parte posteriore della circonvoluzione temporale superiore (area 22) e parietale inferiore (area 40). Se la lesione è più ampia e coinvolge anche l’area 37, maggiore è il deficit di comprensione semantica.
Analogamente a quanto descritto più sopra per la produzione del linguaggio, esistono casi che dimostrano aspetti dissociati della comprensione in rapporto alla categoria delle parole. È possibile riscontrare malati con dissociazione tra comprensione ortografica (parola scritta) e fonologica (parola udita), dissociazione nella comprensione dei nomi propri oppure dei nomi comuni, dissociazione nella capacità di definire concetti animati o inanimati. Questi rilievi corroborano,anche per la comprensione, l’esistenza di circuiti neurali diversi per funzioni del tutto affini. Lesioni della testa del nucleo caudato e della regione anteriore della capsula interna dell’emisfero sinistro possono determinare un particolare tipo di afasia che, non rientrando nelle classiche categorie, viene considerata atipica, anche per la variabilità dei sintomi nei diversi casi, attribuita, in via presuntiva, a diversi fattori. È caratterizzata da un linguaggio abbastanza fluente, ma particolarmente stringato, con un certo grado di anomia, dalla presenza di parafasie e, specialmente, da disturbi fonetico-articolatori, mentre la comprensione è, usualmente, abbastanza buona. La lesione delle restanti parti del nucleo caudato di sinistra e quella del nucleo controlaterale non producono afasia. Lesione di nuclei talamici. L’importanza dei nuclei antero-laterali del talamo di sinistra, che frequentemente si accompagna a disfonia con alterazioni del volume della voce, determinerebbe un’afasia di tipo transcorticale sensoriale con produzione fluente, alterata comprensione e normale ripetizione. Funzione dell’emisfero non dominante L’emisfero non dominante sembra avere una propria parte in un limitato numero di operazioni verbali, evidenziabili in condizioni patologiche. Nei pochi casi di emisferectomia sinistra riportati, viene registrata la presenza di un linguaggio automatico ed emozionale, rappresentato da brevi espressioni comuni o ripetutamen-
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te apprese, le quali rappresentano la capacità linguistica dell’emisfero destro. L’analisi dell’evoluzione dei quadri clinici, ha dimostrato che, anche dopo lesione dell’emisfero sinistro, l’emisfero non-dominante partecipa in maniera rilevante alla ripresa delle capacità di elaborazione del linguaggio. La lesione dell’emisfero minore è responsabile di difficoltà dell’articolazione, della prosodia e del reperimento di vocaboli.
Le sindromi afasiche I disturbi fasici possono variamente associarsi in una serie di sindromi abbastanza ben codificate e correlate alla localizzazione della lesione. Per un riassunto schematico degli aspetti clinici delle maggiori sindromi afasiche vedere la Tabella 4.1. AFASIA DI BROCA – Il linguaggio spontaneo, non fluente, è caratterizzato da una produzione verbale scarsa, male articolata, assai laboriosa, costituita da frasi molto brevi, in genere singo-
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li vocaboli, con segni di agrammatismo. Nei casi più gravi l’espressione verbale è abolita o ridotta a poche stereotipie verbali; nei casi più lievi il disturbo espressivo può essere limitato ad una disprosodia. L’espressione verbale ed i disturbi dell’articolazione migliorano nelle serie automatiche (contare, ripetere l’alfabeto, ecc.). Il soggetto è consapevole della propria incapacità e, spesso, dopo ripetuti tentativi la frustrazione si accompagna a reazioni depressive, talora assai intense, definite «reazioni catastrofiche», nel cui contesto possono comparire espressioni (bestemmie, frasi gergali, esclamazioni, ecc.) correttamente formulate. Questa produzione verbale che riguarda materiale automatizzato, perché appreso da tempo e frequentemente ripetuto o perché strettamente connesso con situazioni emozionali, rivelerebbe le capacità dell’emisfero destro, in cui sarebbero localizzati i meccanismi per il linguaggio automatico. La ripetizione, sempre alterata, è caratterizzata da disturbi analoghi a quelli dell’espressione orale, e costituisce un elemento costitutivo della sindrome che, per questo motivo, si distingue dall’afasia transcorticale motoria.
Tabella 4. 1 - Le maggiori sindromi afasiche. Sindromi
Fluenza
Reperimento vocaboli
Parafasie fonemiche semantiche
Comprensione orale
BROCA
non fluente
alterato
frequenti
assenti
abbastanza buona
alterata
20
fluente
alterato
frequenti
frequenti
gravemente alterata
alterata
20
non fluente
alterato
frequenti
assenti
gravemente alterata
alterata
20
CONDUZIONE
fluente
variabile
assai freq. rare
abbastanza buona
gravem. alterata
9
AMNESTICA
fluente
alterato
assenti
assenti
normale
normale
8
non fluente
normale
rare
assenti
normale
normale
4
fluente
alterato
frequenti
frequenti
gravemente alterata
normale
2
WERNICKE GLOBALE
Ripetizione Frequenza %
TRANSCORTICALE MOTORIA SENSORIALE
Una parte degli afasici, stimata approssimativamente nel 15% (Benton, 1979), sfugge alla classificazione, presentando caratteristiche che impediscono una sicura attribuzione ad una sindrome clinica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La comprensione orale è variamente deficitaria ma possibile e, talora, abbastanza buona. In genere la lettura ad alta voce è alterata, pur essendo il soggetto in grado di comprendere lo scritto. La scrittura è gravemente compromessa, più di quanto non sia giustificato dall’impiego della mano sinistra, reso necessario dalla frequente associazione di emiplegia facio-brachiocrurale destra. La lesione responsabile delle forme più gravi si estende ben oltre l’area di Broca, coinvolgendo le parti inferiori della circonvoluzione rolandica, il polo temporale ed il cosiddetto quadrilatero di Pierre Marie, che include la sostanza bianca della parte anteriore del lobo dell’insula fino al putamen. La dimensione della lesione è un fattore prognostico importante ed il protrarsi dei sintomi dipende dall’estensione del danno. Se la lesione è localizzata all’area di Broca (piede della terza circonvoluzione frontale) si determina un quadro di afasia minore, caratterizzato da disturbi dell’espressione orale con disprosodia, errori fonetici, ecc., rapidamente reversibili (Fig. 4.4). L’afasia di Broca si accompagna ad altri segni neurologici di compromissione focale encefalica. Assai frequente la presenza di una sindrome piramidale destra, con emiplegia facio-brachio-crurale, talora dissociata per
Fig. 4. 4 - Sede della lesione classicamente ritenuta responsabile dell’afasia di Broca: piede della III circonvoluzione frontale.
il prevalere del disturbo motorio al settore facciale inferiore ed all’arto superiore; può coesistere deviazione del capo e degli occhi verso il lato della lesione. Abbastanza comune la presenza di aprassia bucco-linguo-facciale, mentre più rara è l’associazione con aprassia ideomotoria del lato sinistro. Meno frequenti i deficit sensoriali, in particolare i deficit visivi campimetrici che, in genere, sono in rapporto con lesioni in sede posteriore a quelle coinvolte nell’afasia di Broca.
AFASIA DI WERNICKE – Il linguaggio spontaneo è scorrevole, spesso sovrabbondante e logorroico, ma il discorso è nella gran maggioranza dei casi incomprensibile per la caotica mescolanza di parafasie letterali e verbali, neologismi e, talora, aspetti gergofasici. In questo contesto la produzione parafasica permette di distinguere almeno due modalità di produzione verbale, che spesso possono coesistere nello stesso paziente, alternandosi in maniera imprevedibile. In particolare, l’eloquio, comprensibile nei suoi tratti generali, può essere caratterizzato dalla prevalenza di parafasie fonemiche e semantiche, con relativo risparmio della struttura sintattica, talora distorta per l’inappropriato uso delle forme grammaticali (paragrammatismo); oppure l’espressione orale può dimostrare un’abbondante produzione gergofasica, generalmente neologistica e risultare completamente «vuota» di significato, ed il soggetto si esprime con neologismi, quasi fossero il suo linguaggio nativo. La sovrabbondante quantità della produzione verbale è caratteristica e suggerisce la presenza di un fenomeno di disinibizione, associato al ridotto controllo della produzione verbale per deficit di comprensione orale. In tutti i casi la prosodia è corretta, l’espressione è ricca di inflessioni, la mimica e la gestualità sono adeguate, il soggetto è totalmente privo di consapevolezza del proprio disturbo e non si preoccupa di non riuscire a comunicare con l’interlocutore. La comprensione orale e la ripetizione sono sempre notevolmente alterate. La lettura ad alta voce è disturbata, mentre la comprensione dello scritto è variamente compromessa. L’entità di quest’ultimo deficit non corrisponde necessaria-
Funzioni nervose superiori
mente a quello della comprensione orale e può essere relativamente modesto in situazioni cliniche che si avvicinano alla sindrome della sordità verbale pura (v. pag. 143). La scrittura è gravemente alterata. L’afasia di Wernicke è in rapporto con una lesione localizzata al terzo posteriore della 1ª e 2ª circonvoluzione temporale o area di Wernicke (area 22), spesso con estensione all’opercolo parietale, parte del giro angolare e sopramarginale (Fig. 4.5). La sintomatologia neurologica associata è spesso assai povera, potendo coesistere disturbi delle sensibilità (emiipoestesia) e, più raramente, deficit piramidali (emiparesi), spesso transitori; con una certa frequenza sono presenti disturbi visivi, quali emianopsia laterale omonima destra o quadrantanopsia superiore destra per danno alle fibre temporali delle radiazioni ottiche. L’assenza di segni neurologici può dar luogo ad errori diagnostici per la difficoltà di differenziare questa sindrome da un quadro demenziale, negli anziani, o da una sindrome psicotica, nei giovani.
AFASIA DI CONDUZIONE – La sua esistenza, postulata da Wernicke, è stata ampiamente documentata, ma talora non è considerata forma autonoma, ma uno stadio di regressione dell’afasia di Wernicke. Il disturbo, attribuito ad un’alterazione della memoria a breve termine, sottolinea la stretta connessione che esiste tra funzione linguistica e memoria.
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In presenza di una comprensione orale relativamente risparmiata, la ripetizione è impossibile o, comunque, più compromessa del linguaggio spontaneo. L’eloquio fluente, è spesso interrotto dalla presenza di anomie, difficoltà che il paziente tenta di superare mediante «frasi fatte», pronunciate con una corretta intonazione e linea melodica e con abbondanza di parafasie fonemiche. La comprensione può essere alterata, anche se meno di quanto accade nel corso dell’afasia di Wernicke. In base alla gravità dei deficit espressivi e comprensivi si distinguono due forme, l’una con lesioni anteriori, in cui prevalgono le difficoltà espressive e parafasiche; l’altra con lesioni più posteriori caratterizzata dalla prevalenza di disturbi della comprensione. La lettura ad alta voce e la scrittura sono spesso gravemente alterate rispetto alla comprensione scritta, relativamente indenne. La lesione responsabile è localizzata in profondità nella parte posteriore della regione perisilviana, coinvolgendo il fascicolo arcuato, o in superficie, a livello della parte inferiore del giro sopramarginale o area 40. Recentemente è stata sottolineata l’importanza della corteccia insulare nella trasmissione delle “immagini acustiche” dei suoni verbali ai meccanismi motori. L’afasia di conduzione può associarsi ad una varietà di segni focali. Rara la presenza di segni della serie piramidale, frequentemente transitori; variabile l’entità di segni sensitivi, spesso rappresentati da deficit di tipo pseudoradicolare, indicativi di lesione parietale e delle vie talamo-corticali; possibile la presenza di emianopsia laterale omonima destra, o, più frequentemente, quadrantanopsia inferiore per lesione delle porzioni superiori delle radiazioni ottiche. Frequente è l’associazione con aprassia ideomotoria o con aprassia bucco-linguo-facciale.
Fig. 4. 5 - Sede della lesione classicamente ritenuta responsabile dell’afasia di Wernicke: terzo posteriore delle circonvoluzioni temporali superiore e media.
AFASIA GLOBALE – La sindrome è dominata da eloquio non fluente con gravi alterazioni della comprensione orale.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il linguaggio spontaneo è notevolmente ridotto, talora abolito; usualmente si osserva la capacità di produrre sillabe o frammenti verbali in maniera stereotipata. In taluni casi il paziente riesce a dare ai pochi frammenti residui del linguaggio una inflessione apparentemente adeguata al contesto o un’intonazione coerente con il proprio stato d’animo per cui è possibile percepire se il paziente intende esprimere domanda, approvazione, rabbia o tristezza. I disturbi dell’articolazione del linguaggio sono gravi fino a raggiungere la sindrome di disintegrazione fonetica. La comprensione è pressoché totalmente abolita, così come la ripetizione. La lesione include l’intera area centrale del linguaggio nell’emisfero dominante per cui, semplificando, l’afasia globale può essere considerata un quadro in cui entrambi i poli del linguaggio, anteriore e posteriore, sono lesi. Tuttavia, la TC ha dimostrato che la sindrome può essere determinata anche da lesioni più circoscritte, situate nella regione insulo-lenticolare, che non interessano l’area di Wernicke. I segni neurologici associati sono rappresentati da una grave sindrome piramidale con emiplegia facio-brachiocrurale destra, frequentemente associata a emianopsia laterale omonima destra.
AFASIA TRANSCORTICALE – Il gruppo delle afasie transcorticali comprende tre sindromi, caratterizzate da relativo risparmio della ripetizione. Afasia Transcorticale Motoria – Consiste in una elettiva compromissione dell’iniziativa verbale con relativo risparmio delle altre funzioni linguistiche, per cui il paziente sembra aver perso ogni interesse a comunicare verbalmente. L’eloquio è estremamente ridotto con comprensione orale e ripetizione pressoché indenni. Possono essere presenti disturbi dell’articolazione del linguaggio, ma l’espressione è più spesso caratterizzata da un andamento balbettante e sillabico, con evidente perdita della linea melodica, dei nessi grammaticali e sintattici (agrammatismo). La lettura ad alta voce, così come la scrittura sono deficitarie, mentre la comprensione dello scritto è pressoché normale. La sintomatologia associata, simile a quella descritta per l’afasia di Broca, è per lo più rappresentata da una
sindrome piramidale destra con emiparesi o emiplegia. La lesione è localizzata nelle aree premotorie o prefrontali situate attorno all’area di Broca; talvolta questa zona viene risparmiata e il danno coinvolge le strutture mediali e parasaggitali superiori del lobo frontale (area supplementare motoria), nel territorio di irrorazione dell’arteria cerebrale anteriore. Afasia Transcorticale Sensoriale – Il linguaggio spontaneo è fluente, caratterizzato spesso dalla frequenza di parafasie semantiche e neologismi che lo rendono incomprensibile; frequentemente si osserva gergofasia fonemica per cui l’espressione verbale risulta costituita da una verbigerazione irrefrenabile. Gravemente compromessa la comprensione orale, in evidente contrasto con la facilità e la precisione con cui il paziente può ripetere le frasi all’esaminatore; frequenti sono le ecolalie per cui il malato ripete parole e frasi dell’esaminatore. La ripetizione quasi perfetta indicherebbe una condizione di integrità delle strutture responsabili della decifrazione dei messaggi verbo-acustici; l’impossibilità di associare questi ultimi al relativo significato sarebbe responsabile della grave alterazione della comprensione orale. La lettura ad alta voce può essere conservata, mentre la comprensione dello scritto e la scrittura sono gravemente danneggiate. L’afasia transcorticale sensoriale raramente si associa a disturbi della serie piramidale o a ipoestesia: più frequentemente si accompagna a deficit del campo visivo, sia di tipo emianoptico che quadrantanopsico. La sede della lesione è mal definita ed in genere è localizzata nella area del linguaggio in regione parietale o temporale o in entrambe; recentemente la dissociazione tra ripetizione e comprensione orale è stata dimostrata anche in corso di lesioni talamiche posteriori. Afasia Transcorticale Mista – Identificata anche come sindrome da «isolamento» dell’area del linguaggio, si tratta di una disturbo grave caratterizzato da una notevole compromissione della comprensione e dell’espressione orale in presenza di una buona capacità di ripetere. Il soggetto può non essere in grado di comunicare verbalmente né comprendere, pur essendo capace di riprodurre le parole di un motivo ascoltato alla radio, e di ripetere quanto è stato detto poco prima dall’esaminatore. La lesione responsabile è in genere situata in aree cortico-sottocorticali, attorno all’area del linguaggio che, pertanto, risulterebbe isolata dalla restante corteccia cerebrale. AFASIA ANOMICA – È caratterizzata da una marcata incapacità a reperire parole, non identificabile con la semplice anomia presente in tutte le sindromi afasiche, per cui l’espressione verbale, apparentemente facile e fluente,
Funzioni nervose superiori è completamente «vuota» di informazioni; ciò dipende dalla povertà di parole significative (sostantivi) e dalla loro sostituzione con parole passe-partout (raramente parafasie). In pratica il paziente si arresta frequentemente, comunica all’esaminatore la sua difficoltà a «trovare la parola» che non «viene più in mente», anche se è «sulla punta della lingua» e tenta di superare lo scoglio con parole generiche (coso, roba, affare) o con circonlocuzioni che finiscono col determinare nuove difficoltà di reperimento di vocaboli in una catena inarrestabile di tentativi perifrasici inconcludenti. La comprensione è per lo più normale; la ripetizione orale, la lettura e la scrittura sono normali. La localizzazione della lesione è diversa, dimostrando che l’anomia e le difficoltà di reperimento di parole possono essere determinate dalla compromissione di diverse regioni cerebrali. L’afasia anomica può essere osservata per lesione dell’area di Broca, dello striato, dell’insula, del talamo, ma le aree che più frequentemente sembrano essere coinvolte sono rappresentate dal giro angolare e dalla circonvoluzione temporale inferiore. ALESSIA CON AGRAFIA – Il disturbo riguarda la comprensione dello scritto e la scrittura, mentre il linguaggio spontaneo e la comprensione sono relativamente risparmiati. La localizzazione anatomica è di solito il giro angolare o piega curva (area 39) dell’emisfero sinistro, il che spiega come si trovino spesso associati altri sintomi parietali tra cui acalculia e aprassia costruttiva.
Afasie pure Si tratta di sindromi cliniche rare, caratterizzate dalla compromissione di un aspetto isolato del linguaggio con completa integrità delle restanti funzioni. AFASIA MOTORIA PURA – È un disturbo dell’articolazione della parola per lesione corticale, consistente in una sindrome di disintegrazione fonemica di varia entità, in assenza di disturbi della comprensione orale e scritta e, in particolare, in assenza di deficit della scrittura. La ripetizione mostra lo stesso tipo di disturbo del linguaggio spontaneo. Si può associare ad aprassia buccolinguo-facciale. Generalmente non viene considerato un disturbo fasico, dal momento che la scrittura è indenne e la comprensione mantenuta e, in caso di miglioramento, si dimostra una buona capacità di selezione di vocaboli e di forme sintattiche.
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SORDITÀ VERBALE PURA E SORDITÀ CORTICALE – La comprensione orale è alterata in presenza di una normale comprensione dello scritto. La ripetizione, così come la scrittura sotto dettatura, è impossibile, mentre scrittura spontanea e copiata sono risparmiate. Il malato riconosce i suoni ambientali, mentre i suoni verbali hanno perso ogni familiarità o connotazione linguistica ed il suo comportamento è simile a quello di un sordo. L’audiometria tonale e la localizzazione spaziale del suono sono normali. Occasionalmente il paziente riesce a percepire e a ripetere parole isolate, dimostrando una buona comprensione del loro significato e suggerendo che il disturbo sia a livello delle strutture che analizzano il messaggio verbo-acustico. Il linguaggio spontaneo presenta lievi disturbi parafasici, per mancato controllo dell’emissione verbale da parte dell’analizzatore acustico. La lesione è, in genere, bilaterale e coinvolge entrambi il lobi temporali. ALESSIA SENZA AGRAFIA – Il disturbo riguarda unicamente la comprensione dello scritto che può essere nella forma di alessia letterale o verbale. Non esistono, quindi, alterazioni del linguaggio spontaneo, ripetizione e comprensione orale; la scrittura è possibile, tranne per la copia che viene effettuata in maniera servile. Si associa ad emianopsia laterale omonima destra e ad anomia per i colori. La sindrome è legata invariabilmente a lesione delle aree mediali del lobo occipitale e dello splenio del corpo calloso, determinando un isolamento delle aree visive dell’emisfero destro dalle strutture del linguaggio controlaterali. AGRAFIA PURA – Il disturbo consiste in una grave forma di agrafia in assenza di afasia, alessia e aprassia. Si tratta di una forma molto rara. Un centro per la scrittura, classicamente localizzato nel piede della seconda circonvoluzione frontale (Exner, 1881), non viene attualmente riconosciuto. La sede della lesione in casi di agrafia pura non ha il conforto di un controllo neuropatologico ma, solo un controllo CT che localizza la lesione nell’area perisilviana posteriore (Rosati e De Bastiani, 1979).
Alterazioni del linguaggio in corso di demenza Il linguaggio può essere significativamente, anche se non necessariamente, compromesso in corso di demenza ed in questo caso il disturbo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
fasico presenta caratteristiche abbastanza peculiari, giustificate dai concomitanti difetti cognitivi (v. pag. 000). L’aspetto dominante è costituito dalla difficoltà di reperimento di parole che, presente sporadicamente nelle prime fasi, può diventare assai grave, causando l’interruzione delle frasi che vengono lasciate tronche ed incomplete: l’espressione verbale, sempre alterata, è in genere fluente. La comprensione verbale viene lentamente compromessa ed il deficit coinvolge anche gli aspetti non verbali del discorso, per cui la possibilità di comunicazione è notevolmente impoverita, le frasi, prive di contenuto, propongono una sorta di insalata di parole e le risposte, incongrue, non hanno alcun nesso con la domanda posta. Rispetto al disturbo del linguaggio in corso di lesioni focali, il quadro clinico è caratterizzato da una maggiore fluenza verbale e da un più grave deficit della comprensione. Nella malattia di Alzheimer il deterioramento del linguaggio procede secondo una sequenza abbastanza costante: dapprima compaiono disturbi anomici, che danno luogo ad inceppi e a sostituzioni parafasiche prevalentemente verbali e neologistiche; successivamente compare un’afasia transcorticale, con lievi disturbi della comprensione, qualche ecolalia ed espressione saltuariamente gergofasica. Quando comprensione e ripetizione sono più gravemente compromesse, il quadro clinico assume le caratteristiche di un’afasia di Wernicke, con sovrabbondante produzione gergofasica. In fase terminale si possono avere perseverazioni sillabiche, risa inappropriate, riduzioni significative dell’emissione verbale fino al mutismo; rari i disturbi agrammatici e l’afasia di Broca. Se l’afasia evolve parallelamente ai restanti segni di compromissione cognitiva, esistono quadri clinici in cui il progressivo deterioramento del linguaggio rappresenta l’unico segno clinico, salvo cedere il passo, a distanza di anni dall’esordio, ad un quadro di demenza a lenta evoluzione. A differenza di quanto avviene nelle
restanti forme di demenza, si ha un relativo risparmio dell’autonomia, che consente al paziente di effettuare, in modo sufficientemente adeguato, le comuni attività della vita quotidiana. Il quadro clinico che va sotto il nome di afasia progressiva primaria è caratterizzato soprattutto da anomia e parafasie fonemiche, cui si associa in misura meno evidente e variabile il difetto delle altre aree del linguaggio.
La riabilitazione dell’afasia Se la malattia che ha causato il disturbo del linguaggio non è progressiva, come in caso di ictus e di trauma cranico o dopo l’escissione di un tumore benigno, l’afasico deve essere sottoposto a trattamento. L’efficacia del trattamento è tuttora questione aperta e la risposta è difficile, poiché il risultato può essere influenzato da differenti fattori quali il tipo, la gravità e la natura della lesione. Ad esempio l’afasia post-traumatica ha prognosi migliore dell’afasia da lesione cerebrovascolare, ed, in genere, il trattamento è meno efficace quanto maggiore è la gravità dei disturbi. Inoltre le possibilità di ripresa sono correlate al livello di intelligenza, alle preesistenti capacità di comunicazione e alle condizioni dello stato timico, poiché la presenza di aspetti depressivi riduce la possibilità di ripresa, positivamente influenzata dal diretto impegno del paziente e da un forte supporto dei familiari. Infine, l’evoluzione del quadro clinico e l’efficacia del trattamento dipendono dalla presenza di alterazioni non direttamente correlate con il disturbo del linguaggio, quali i deficit percettivi, visivi o uditivi, e le alterazioni dell’attenzione o della memoria. Riferimenti bibliografici BABINSKI J.: Contribution a l’ètude des troubles mentaux dans l’hémiplégie cérébrale. Revue Neurologique 27, 845-847, 1914.
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5. Funzioni nervose superiori Aprassia. Agnosia. Disturbi dell’esplorazione spaziale e dello schema corporeo C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
Aprassia L’aprassia consiste nell’incapacità di compiere intenzionalmente, con la normale destrezza, sequenze motorie significative (gesti) e non significative, in assenza di disturbi motori, cioè deficit della motilità, della coordinazione, del tono muscolare, e di movimenti involontari patologici. L’aprassia è, dunque, un disturbo dell’organizzazione del movimento, in soggetto con funzione motoria integra, senza turbe psichiche, disturbi di comprensione del linguaggio, deficit di riconoscimento. Prima di analizzare in dettaglio i dati clinici, è opportuno considerare alcuni aspetti della gestualità. Quando apriamo e chiudiamo ripetutamente la mano, eseguiamo semplicemente una successione alternata di movimenti opposti e, quindi, un “gesto non significativo”. La stessa sequenza, effettuata per salutare una persona costituisce un “gesto significativo”, cioè un atto motorio con contenuto espressivo. I gesti significativi sono il frutto di apprendimento, per cui una successione ordinata e costante di movimenti, assume un significato finalistico o si carica di un valore simbolico. Nel tempo queste azioni divengono sempre più indipendenti dalla volontà per cui il gesto che dapprima richiede un controllo attento, procederà successivamente preciso e sicuro. Così, ad esempio, i gesti che compie l’automobilista, la dattilografa, il pianista, incerti agli inizi quando sono controllati dalla volontà, diventano rapidi e precisi quando hanno acquistato la loro autonomia. Si distinguono: 1) gesti transitivi, legati alla manipolazione di oggetti (usare le forbici, accendere un fiammifero, ecc.) e 2) gesti intransitivi, distinguibili in: (a) gesti mimici, espressivi dello stato d’animo, che coinvolgono l’espressione del viso e gli arti, ad es. gesti di minaccia, di rabbia, di disappunto, etc; (b) gesti simbolici, come il saluto militare, il segno della croce, etc; (c) gesti non significativi, senza riscontro nella vita di relazione, come, ad es. quando si chieda di spostare alternativamente due
dita poste sul tavolo o sollevare il braccio in maniera da portare la mano sul capo.
L’esecuzione di un gesto richiede il preliminare richiamo alla memoria della sua configurazione generale e la successiva trasformazione in una serie di comandi codificati da trasmettere ai centri motori. L’alterazione di questi stadi dà luogo a due differenti quadri clinici, l’aprassia ideatoria, in cui la programmazione è assente e il soggetto «non sa cosa fare»; l’aprassia ideomotoria in cui il programma del gesto è alterato ed il malato, pur sapendo che cosa fare, “non sa come farlo” (De Renzi e Faglioni, 1999). Nello stesso soggetto si possono trovare aspetti di aprassia ideatoria e ideomotoria, ma la distinzione è giustificata dal fatto che i due quadri clinici possono esistere indipendentemente l’uno dall’altro. I disturbi prassici sono molto variabili e raramente compaiono nell’attività di tutti i giorni, pur essendo frequentemente presenti, come dimostra il fatto che circa un terzo dei malati affetti da lesione emisferica sinistra presenta questo disturbo. In realtà, l’aprassia è caratterizzata dal massimo grado di dissociazione automatico-volontaria per cui uno stesso gesto, impossibile quando deve esser effettuato su comando o su imitazione, può essere eseguito automaticamente, come accade per una sequenza già appresa che si svolga nel suo contesto naturale. Così un soggetto, incapace di «soffiare» su richiesta, può dimostrare di saper compiere la stessa azione quando gli viene presentato un fiammifero acceso; o, ancora, può essere in grado di protrudere la lingua per inumidire un francobollo ed affrancare una lettera, pur non riu-
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scendo a fare lo stesso gesto su comando. Per questi motivi l’aprassia viene considerata un disturbo del gesto intenzionale. La dissociazione automatico-volontaria non è esclusiva caratteristica dell’aprassia. Il sorriso che segue una «battuta» faceta o una situazione divertente, è cosa diversa dallo stirare volontariamente le labbra. Un’ampia documentazione indica che il controllo di questi due tipi di movimenti, spontanei e volontari, ha una differente localizzazione cerebrale. La lesione del piede della circonvoluzione frontale ascendente comporta una paralisi controlaterale facciale di tipo centrale che, tuttavia, può significativamente ridursi durante il sorriso, il pianto, ecc. D’altro canto, lesioni del giro cingolato anteriore o dell’area motoria supplementare possono ridurre o abolire i movimenti mimici emotivi, a motilità volontaria indenne. I disturbi prassici non ostacolano l’esecuzione delle attività della vita quotidiana, ampiamente automatizzate, e si associano a generale compromissione della destrezza e della precisione dei movimenti non significativi, compromissione tanto più evidente quanto più la sequenza motoria è lunga, complessa e nuova per il soggetto. Il termine « aprassia », coniato da Liepmann ai primi del secolo (1908), è stato successivamente attribuito a una serie di disturbi di natura diversa, quali l’aprassia costruttiva e dell’abbigliamento, generalmente considerati espressione di un disturbo visuo-spaziale. Ciò nonostante queste forme saranno trattate in questo capitolo, considerata la abituale collocazione sotto il termine di aprassia. Controverso è, infine, l’uso del termine aprassia per disturbi quali l’aprassia della marcia e dello sguardo. L’aprassia della marcia consiste in una diminuzione o perdita della facoltà di utilizzare convenientemente gli arti inferiori nella marcia, nonostante l’assenza di paresi, atassia o disturbi motori funzionali. Il malato che, a letto o in posizione seduta può muovere senza difficoltà le
gambe, resta con i piedi incollati al suolo, incapace ad accennare al passo quando deve camminare. L’aspetto aprassico è legato alla variabilità del disturbo che, presente all’inizio della marcia, può ridursi quando il paziente abbia preso velocità, per ricomparire sia in maniera del tutto imprevedibile sia nell’avvicinarsi a passaggi più o meno difficoltosi come l’attraversare una porta, il salire un gradino, etc. Questo disturbo che viene considerato espressione di alterazione del tono e della postura, si verifica per lesioni cortico-sottocorticali ed é frequentemente, ma non necessariamente, associato alla sindrome parkinsoniana. Nel caso dell’aprassia dello sguardo il malato è incapace di effettuare movimenti oculari intenzionali e di mantenere la fissazione di una mira pur essendo in grado di muovere lo sguardo in ogni direzione. Invece di guardare nel punto indicato dall’esaminatore egli sbarra gli occhi, fissa in tutt’altra direzione, per poi continuare a muovere gli occhi in maniera casuale; la fissazione della mira, talora raggiunta in maniera accidentale, viene tenuta solo per pochi attimi.
Analisi semeiotica Prima di procedere all’esame semeiotico per disturbi prassici, deve essere esclusa l’esistenza sia di deficit fasici di comprensione, che possono determinare difficoltà nell’esecuzione di comandi verbali, sia deficit gnosici che, interferendo con il riconoscimento percettivo, possono causare disturbi nell’utilizzazione degli oggetti. Una serie di prove assai semplici esplorano la motilità gestuale nei diversi settori del corpo, viso, arti, tronco. Per il settore cranico si chiede al paziente di aprire e chiudere gli occhi, guardare in alto, aggrottare la fronte, annuire o far cenni di negazione con il capo, mostrare la lingua, fischiare, sbadigliare, cercare di leccare il labbro, dare un bacio, schioccare la lingua, raschiare la gola, soffiare. A livello degli arti si fanno eseguire gesti significativi transitivi, quali usare il martello, lo spazzolino da denti, le forbici, la gomma da cancellare, ecc., e intransitivi, come il segno della croce, il saluto militare, fare ciao o minacciare qualcuno con la mano, fare marameo, dare un buffetto, fare la lettera «O» con le dita, ecc. Per i gesti non significati-
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vi si invita a unire pollice ed indice per formare un cerchio o muovere alternativamente le dita, tenute verticalmente, sul tavolo. Le prove devono essere effettuate su comando verbale e su imitazione, dal momento che il deficit può essere strettamente dipendente dalla modalità impiegata per elicitare la risposta motoria. Alterazioni prassiche evidenti su comando verbale possono scomparire quando il gesto viene eseguito su imitazione. Si possono, peraltro, usare differenti modalità, tattile piuttosto che visiva o viceversa, per richiedere al paziente di manipolare un oggetto. Posto che non vi siano disturbi gnosici, si può osservare che il gesto evocabile correttamente per via tattile non lo è per via visiva o viceversa. La valutazione finale deve considerare non solo se la richiesta dell’esaminatore è portata a termine, ma anche le modalità con cui il gesto è effettuato. Si deve, inoltre valutare l’esistenza di dissociazione automatico-volontaria, il ruolo dell’emozione e la diversità delle prestazioni su comando verbale o su imitazione. Il gesto nel malato con disturbi prassici potrà : a) risultare incerto, goffo, intercalato da pause o inceppi, pur conservando i suoi tratti fondamentali; b) contenere elementi estranei o mancare di alcune sequenze fondamentali; c) essere sostituito del tutto o in parte da movimenti privi di significato o da gesti corretti privi, tuttavia, di relazione con la sequenza richiesta; d) essere complicato dalla presenza di perseverazioni; e) essere caratterizzato da una errata successione degli atti che compongono la sequenza gestuale, quali si succedono nel tagliare una fetta di pane o accendere una candela con fiammiferi, ecc. Aprassia ideomotoria Consiste in un’alterazione dei gesti intransitivi sia significativi che non significativi in assenza di paralisi o atassia dell’arto esaminato. Il disturbo è assai più evidente quando si tratta di azioni non abituali, mentre i gesti automati-
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ci sono in gran parte o totalmente risparmiati. Il soggetto è in grado di descrivere la sequenza gestuale, pur non riuscendo ad effettuarla su comando, mentre i gesti transitivi, di utilizzazione o manipolazione degli oggetti, sono conservati. Tra gli errori più comuni dell’aprassico ideomotorio sono frequenti le perseverazioni, rappresentate dalla tendenza a ripetere in maniera casuale ed iterativa movimenti o parte di movimenti che appartengono ad un’azione precedente; il gesto può essere sostituito da una sequenza di significato più o meno riconoscibile. Dovendo eseguire il saluto militare il soggetto può fare il gesto di marameo o, alternativamente, sbarrare gli occhi, aprire la bocca, piegare indietro la testa e toccare successivamente il collo, la bocca e la fronte. Infine il gesto, riconoscibile nelle sue linee generali, può risultare fortemente deformato per l’esistenza di movimenti parassiti o per errori di direzione del movimento. Ad esempio, nel fare il saluto militare il malato può iniziare appoggiando la mano a piatto sulla bocca o sulla nuca, riuscendo a realizzare il gesto richiesto solo dopo successive approssimazioni; oppure il soggetto, invitato ad eseguire il segno della croce, si porta la mano verso il viso, si tocca la guancia ed infine riesce ad eseguire quanto è stato richiesto tra incertezze, arresti imbarazzati e pause. L’aprassico ideomotorio ha spesso consapevolezza dei propri errori e si sforza, talvolta inutilmente, di realizzare correttamente il gesto ordinato . Il tipo di errore nell’aprassia ideomotoria e la conservata capacità di descrivere le sequenze che costituiscono il gesto, suggeriscono che il soggetto è in grado di progettare adeguatamente il piano dell’azione da svolgere, ma non è capace di trasferire il progetto motorio alle strutture esecutive. L’aprassia ideomotoria consiste, quindi, in un disturbo dell’organizzazione intenzionale di una sequenza motoria, mentre la programmazione non sembra alterata. Il disturbo è usualmente bilaterale e colpisce prevalentemente gli arti, ma anche il tronco e il
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settore cranico. In quest’ultimo caso, può colpire i movimenti dello sguardo, coinvolgendo il settore faciale superiore (con incapacità,ad es., a corrugare la fronte) o la regione faciale inferiore ( dando luogo ad aprassia bucco-linguofaciale), o entrambi. L’aprassia ideomotoria può essere occasionalmente unilaterale ed in questo caso è, in genere, localizzata agli arti di sinistra e solo eccezionalmente sono interessati gli arti di destra. Nel caso che la lesione emisferica sinistra comporti un disturbo fasico grave e una emiplegia destra, la realizzazione del gesto sia su comando che su imitazione diviene, ovviamente, impossibile.
L’autonomia dell’aprassia ideatoria è stata più volte posta in discussione dal momento che può essere associata a deterioramento intellettuale ed essere ritenuta espressione di disturbi mentali di tipo mnesico-attentivo, una sorta di demenza focale che colpisce settori specializzati delle attività della vita di relazione. Le acquisizioni più recenti dimostrano che il deterioramento mentale non si associa necessariamente ad aprassia ideatoria e il disturbo, pertanto, non può essere considerata una manifestazione di demenza. Anche il rapporto fra le due forme di aprassia è oggetto di discussione. L’aprassia ideatoria potrebbe essere considerata uno stadio avanzato dell’aprassia ideomotoria che, se particolarmente grave, coinvolgerebbe persino i gesti più automatizzati che implicano l’uso di oggetti. In realtà, dato che è possibile identificare malati in cui sono isolatamente compromessi gesti transitivi e gesti intransitivi, è ragionevole mantenere la distinzione tra aprassia ideomotoria ed aprassia ideatoria.
Aprassia ideatoria Aprassia bucco-linguo-faciale Consiste nell’impossibilità di manipolare ed utilizzare gli oggetti e si riferisce, quindi, quasi esclusivamente all’esecuzione di gesti transitivi, in particolare quelli che prevedono l’esecuzione di sequenze prolungate di atti motori. Il disturbo è sempre bilaterale. L’aprassia ideatoria è caratterizzata da un vero e proprio «deragliamento del gesto», tanto più vistoso quanto più numerose sono le tappe della sequenza motoria. L’aprassico ideatorio non è in grado di fornire una descrizione dell’azione richiesta e di programmare la corretta successione degli atti motori, nonostante che la motilità segmentale sia assolutamente corretta. Quando si chiede al malato di utilizzare lo spazzolino da denti, può accadere che il soggetto si fermi alle prime tappe dell’organizzazione gestuale (ad es. si limiti a porre la pasta dentifricia sullo spazzolino), oppure, bruciando ogni tappa, strofini i denti con il solo spazzolino; oppure, invertendo l’ordine della sequenza, strofini i denti con il tubo del dentifricio, oppure, modificando uno degli atti motori già compiuti con gesti estranei alla consegna, spazzoli i vestiti con lo spazzolino, oppure, facendo diventare irterativo uno degli atti motori già compiuti, inumidisca continuamente lo spazzolino sotto il rubinetto.
Consiste nell’impossibilità di compiere su comando movimenti gestuali con la bocca, la lingua e la muscolatura faciale inferiore, mentre gli stessi movimenti possono essere eseguiti spontaneamente. Il malato, su richiesta, non è in grado di protrudere la lingua, leccarsi le labbra, schioccare la lingua contro il palato, raschiarsi la gola, fare l’atto di succhiare, sbuffare o fischiare. Tuttavia, gli stessi soggetti, sotto la sollecitazione derivante dalla situazione contingente o da un particolare stato d’animo, sono in grado di protrudere senza difficoltà la lingua per inumidire un francobollo o leccarsi le labbra, masticare, tossire, sbuffare, ridere o piangere. Assai frequente è l’associazione dell’aprassia bucco-linguo-faciale con l’afasia, soprattutto non fluente. Questa osservazione ha suggerito l’opinione che i disturbi dell’articolazione della parola, caratteristici di questi malati, fossero legati non già ad un difetto di ordine linguistico, quanto ad un difetto prassico dell’apparato articolatorio-fonatorio. Tuttavia, poiché l’associazione fra disturbi dell’articolazione della parola e aprassia bucco-linguo-faciale non è obbligatoria e l’evoluzione clinica è diversa, si
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può ritenere che i due quadri siano indipendenti e che la loro frequente combinazione sia dovuta alla lesione di strutture diverse, ma adiacenti. Aprassia motoria (innervatoria o melocinetica) Descritta come aprassia di esecuzione pura, è la forma più discussa. In effetti, la localizzazione unilaterale, con interessamento prevalente dell’attività manuale, l’assenza di dissociazione tra atti volontari ed automatici, la corretta capacità di progettare ciascuna azione unitamente alla limitazione nell’esecuzione dei movimenti, specie di quelli più complessi, la rendono difficilmente differenziabile da una paresi, cui viene spesso assimilata. A differenza della paresi, tuttavia, non esiste ipostenia, e la riduzione della spontaneità e dell’iniziativa motoria, unitamente alla compromissione pressoché esclusiva della motilità fine, dà un aspetto impacciato ai movimenti dell’arto superiore e della mano. L’aspetto semeiologico è quello di un disturbo di esecuzione, senza errori di omissione, senza perseverazioni, nè deformazione o confusione di atti motori, mentre è presente un rallentamento motorio con impossibilità ad effettuare sequenze di atti in rapida successione ed impaccio nei movimenti. Il malato affetto da aprassia motoria risulta maldestro in atti come strofinare l’uno contro l’altro il pollice e l’indice, flettere ripetutamente l’indice per chiamare qualcuno, voltare una pagina di un libro, girare un interruttore, ecc. Questo tipo di aprassia, sufficientemente rara, è descritta soprattutto nei quadri di degenerazione cortico-basale. Correlazioni anatomo-cliniche I dati disponibili indicano che l’aprassia ideatoria, l’aprassia ideo-motoria e l’aprassia bucco-linguo-faciale sono determinate da lesio-
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ni localizzate nell’emisfero di sinistra, anche se l’aprassia ideatoria è spesso espressione di lesioni diffuse, frequentemente bilaterali. Liepmann (1900) per primo, dimostrò l’importanza dell’emisfero sinistro per le attività gestuali di ambedue le mani, documentando che in una serie di lesioni cerebrali unilaterali, l’aprassia era presente nel 50% circa nelle lesioni sinistre, ed in nessun caso nelle lesioni destre. Da allora il risultato è stato ripetutamente confermato, e si ritiene che, nel destrimane, l’emisfero sinistro sia dominante per la gestualità. Si tratta di una dominanza meno assoluta di quella per il linguaggio, e numerosi dati clinici dimostrano che anche l’emisfero minore gioca il suo ruolo, tanto che le forme più gravi e permanenti di aprassia si associano a lesioni di entrambi gli emisferi. L’aprassia è, in genere, più grave per gli arti di destra rispetto a quelli di sinistra, quasi che questi ultimi possano giovarsi di un sufficiente controllo da parte dell’emisfero minore la cui lesione può determinare rare ma sicure alterazioni gestuali. I due emisferi si scambiano i ruoli nel caso di soggetti mancini nei quali è possibile dimostrare la frequente comparsa di aprassia per lesioni emisferiche destre. In questi casi la dominanza dell’emisfero destro per la gestualità può essere dissociata da quella per il linguaggio, per cui si possono avere aprassici con e senza disturbi fasici. L’ipotesi classica ritiene che il ruolo dell’emisfero dominante per il gesto sia quello di determinare la corretta sequenza degli atti motori, e che l’aprassia consista nell’incapacità di tradurre il progetto del movimento in un'ordinata successione di comandi per gli effettori muscolari. In realtà, i gesti compiuti dagli aprassici sono dominati da movimenti erronei e perseverazioni per cui il difetto sembra consistere nell’incapacità di scegliere i movimenti opportuni per attuare il gesto desiderato.
A differenza di precedenti ipotesi che consideravano la programmazione dei gesti una caratteristica diffusa all’intera corteccia dell’emisfero sinistro, oggi si ritiene che lobo parietale inferiore, corteccia premotoria e alcuni
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nuclei profondi, come il lenticolare, le aree talamiche più anteriori ed il putamen, siano le strutture più direttamente coinvolte nell’organizzazione del gesto. Il lobo parietale inferiore, con il giro sopramarginale, il giro angolare e la sostanza bianca sottostante, sembra essere l’area più importante e la sua lesione è fondamentale per la comparsa dell’aprassia ideomotoria ed ideatoria. Il danno dell’area premotoria e delle strutture profonde correlate è invece in genere responsabile della comparsa di aprassia motoria. Il fatto che i due emisferi abbiano un diverso peso nell’organizzazione del gesto comporta l’esistenza di connessioni che consentano uno scambio continuo di informazioni da un emisfero all’altro. Il corpo calloso rappresenta la via di connessione interemisferica più importante e la sua lesione dà luogo ad aprassia con caratteristiche miste, sia ideatorie che ideomotorie. L’aprassia in questo caso è limitata agli arti di sinistra dal momento che la lesione callosa blocca il flusso delle informazioni relative alla gestualità dall’emisfero sinistro, dominante, alle strutture emisferiche destre, subordinate. In sintesi: l’organizzazione della gestualità, secondo gli studi di correlazione anatomoclinica in casi di disturbo prassico, dipenderebbe da un’area principale a sede parietale, connessa con strutture frontali premotorie ipsilaterali e, attraverso il corpo calloso, con strutture corrispondenti nell’emisfero destro. La lesione dell’area parietale dà luogo ad un’aprassia bilaterale, mentre il danno frontale è più comunemente associato alla comparsa di aprassia sinistra, come accade anche per lesione del corpo calloso. Lesioni emisferiche destre a livello del corpo calloso interrompono il flusso di informazione provenienti da sinistra e determinano l’impossibilità di eseguire ordini verbali con la mano sinistra, mentre gli stessi ordini sono eseguiti con la mano destra. Il fenomeno è attribuito alla disconnessione tra l’emisfero sinistro, addetto alla comprensione dell’ordine verbale, e l’emi-
sfero destro che provvede alla motilità della mano controlaterale. Nel caso di lesioni selettive l’aprassia della mano sinistra, rilevabile su comando verbale, può scomparire quando il malato compie sequenze motorie su imitazione. La rilevanza che la dissociazione automatico-volontaria ha nel quadro aprassico, induce alcuni ricercatori a postulare una diversa organizzazione del gesto, a seconda che la sequenza motoria sia ormai automatizzata, o sia di recente acquisizione e richieda un costante controllo del risultato ed un monitoraggio attento degli eventuali errori. Nel primo caso si può parlare di comportamento “predittivo”, caratterizzato dalla prevalente presenza di gesti e movimenti pre-programmati; nel secondo di comportamento “responsivo” per il quale è necessaria una continua comparazione con i dati dell’esperienza sensoriale e con la programmazione iniziale del movimento. I due comportamenti corrisponderebbero a differenti sistemi corticali: il sistema mediale è costituito dalla corteccia frontoparietale mediale, dal lobulo parietale superiore, da formazioni sottocorticali (pallido, putamen, sostanza nera) e, specialmente, dalle aree motorie supplementari; il sistema laterale è formato dall’area frontoparieto-temporale laterale, l’area premotoria ventro-laterale, le aree sensoriali secondarie e le aree di associazione, e in particolare dal lobulo parietale inferiore. I due sistemi sarebbero attivati da differenti forme di gestualità: il sistema mediale controllerebbe l’esecuzione di sequenze motorie organizzate su motivazioni e regole soggettive, il sistema laterale sarebbe coinvolto nell’apprendimento di nuovi comportamenti motori (Goldberg, 1985). Il flusso ematico regionale aumenterebbe nel sistema mediale quando il malato esegue, o anche solo immagina, sequenze motorie già apprese e ampiamente utilizzate nel passato, mentre aumenterebbe nel sistema laterale quando la sequenza dei movimenti necessita di un continuo controllo e monitoraggio dalla periferia sensoriale (ad es. informazioni visive) (Roland et al., 1980, 1982).
In sommario, si può proporre, seguendo De Renzi e Faglioni (1999), il seguente schema : – l’aprassia ideomotoria è un’alterazione dei gesti intransitivi significativi e non significativi, il malato ”sa cosa deve fare” per realizzare il compito richiesto, ma fallisce perché “ non sa come fare”. Il disturbo è in genere bilaterale, e la lesione responsabile è localizzata nella regione parietale inferiore dell’emisfero sinistro; in
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rari casi, l’aprassia è unilaterale, e la lesione è localizzata nell’area premotoria sinistra o nel corpo calloso e nelle sue radiazioni; – l’aprassia ideatoria è un’alterazione della rievocazione del gesto da compiere: il malato “non sa come fare” il gesto.La lesione ha sede nell’area parietale sinistra, ma frequentemente il danno, molto esteso, coinvolge altre aree dell’emisfero dominante e, talora, è bilaterale. – l’aprassia bucco-linguo-facciale è dovuta a lesioni dell’opercolo rolandico di sinistra anche se, frequentemente, il danno si estende fino al piede della prima e seconda circonvoluzione frontale, giustificando la frequente associazione con afasia non fluente e paralisi faciale centrale. È anche possibile che l’aprassia buccolinguo-facciale sia dovuta a una disconnessione tra le aree posteriori del linguaggio e l’area di associazione premotoria, poiché può essere associata a quadri di afasia di conduzione, attribuita a lesioni dell’opercolo parietale o della sostanza bianca sottostante.
Aprassia costruttiva Si tratta di un disturbo della capacità di combinare ed organizzare singole parti di un disegno in un insieme ordinato, sotto la guida della vista, in malati senza alterazioni della percezione della forma e della discriminazione visiva. L’alterazione si manifesta quando si richiede al malato di disegnare, copiare o, ancora, quando si propongono compiti di costruzione mediante cubi di legno o facili «puzzles». Nelle forme più lievi può manifestarsi semplicemente con l’incapacità di riprodurre immagini elementari in prospettiva,ad es. il disegno di un cubo; in altri casi si evidenzia con l’impossibilità di copiare semplici immagini bidimensionali, quali un martello, una bottiglia o una casa. Infine, nelle situazioni di maggiore gravità il paziente non è in grado di riprodurre alcuna forma e riesce a realizzare solo segni
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amorfi, privi di connessione tra di loro e senza relazione o somiglianza con il disegno richiesto. Analoghi disturbi si verificano quando si invita il soggetto a costruire una qualsivoglia forma mediante bastoncini ( o fiammiferi) o elementi di un qualunque gioco di costruzioni. Frequentemente si accompagna ad alterazioni della scrittura. Abbastanza caratteristico è il fenomeno del «closing-in» o giustapposizione della copia al modello, per cui alla richiesta di copiare un disegno o una costruzione bi o tridimensionale, gli elementi della copia vengono sovrapposti a quelli del modello. Non è chiaro se il disturbo visuo-costruttivo debba essere considerato la conseguenza a livello motorio di un difetto generale del pensiero spaziale. Non tutti gli aprassici costruttivi presentano alterazioni visuo-spaziali che, quando presenti, sono costituiti da deficit della localizzazione nello spazio extrapersonale, eminattenzione, disturbi della memoria topografica, etc. In questo caso, il tipo di errori compiuti conferma l’esistenza di una profonda compromissione della capacità di manipolare i dati spaziali; il paziente può riuscire a copiare la configurazione generale del modello tridimensionale, pur compiendo errori di rotazione di uno o più elementi della costruzione o può, altresì, ignorare una metà del disegno o della costruzione, suggerendo l’esistenza di eminattenzione. Lo stesso fenomeno del «closing-in» deriva dall’incapacità di valutare le relazioni spaziali esistenti tra modello e copia. Si distinguono, pertanto due forme di aprassia costruttiva: – l’aprassia da lesione emisferica destra che dipende da una difettosa analisi percettiva dei rapporti visuo-spaziali. Il disegno del soggetto è caratterizzato da perdita dei rapporti di continuità fra i vari elementi, con cattivo orientamento ed omissioni nella metà sinistra della copia, senza una visione di insieme. – l’aprassia da lesione emisferica sinistra è imputabile a difficoltà di carattere motorio o esecutivo. Il disegno è ipersemplificato, primi-
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tivo, formato da un minor numero di elementi, organizzati lentamente, con evidente difficoltà e sforzo. Tuttavia, questo approccio non è da tutti accettato per cui, al momento, è impossibile risalire in presenza di disturbi costruttivi, alla localizzazione del lato della lesione. In generale, si può affermare che l’aprassia costruttiva tende ad essere leggermente più frequente e più grave in caso di lesione emisferica sinistra e, indipendentemente dall’emisfero leso, la sua presenza è più probabile per lesioni posteriori che anteriori. In questo caso entrambi i gruppi di cerebrolesi presentano una relazione costante tra difetti visuo-costruttivi e visuo-percettivi. L’aprassia costruttiva spesso si associa a un deterioramento mentale globale, e l’associazione è generalmente più frequente per lesione emisferica sinistra. Aprassia dell’abbigliamento Consiste in un’elettiva incapacità ad eseguire correttamente gli atti appropriati a vestirsi, cioè nell’impossibilità di indossare correttamente gli indumenti, in assenza di alterazioni prassiche di tipo ideatorio o ideomotorio. Nei casi più lievi il problema viene superato dopo una serie di tentativi infruttuosi; in altre situazioni gli atti necessari ad indossare un abito o un capo d’abbigliamento costituiscono una difficoltà insormontabile. Il malato manipola gli abiti in maniera inadeguata e talora, pur orientandoli in modo corretto, non riesce ad organizzare i gesti necessari per adeguare i segmenti del corpo alla posizione dei vestiti e viceversa. Altre volte, prende gli indumenti alla rovescia, infila gli arti in parti errate del vestito, non riesce ad annodare le stringhe delle scarpe, calza le scarpe alla rovescia, attorciglia la cravatta anziché annodarla, ecc. L’aprassia dell’abbigliamento, cioè la perdita di automaticità dei gesti associati all’atto del vestire è assai rara e si associa frequentemen-
te a disturbi sensoriali, alterazioni della valutazione spaziale e disturbi dello schema corporeo, caratteristici delle lesioni dell’emisfero destro. Talvolta il disturbo dell’abbigliamento si associa ad emisomatoagnosia ed eminattenzione per la metà sinistra dello spazio. In questo caso il comportamento è caratterizzato da errori riguardanti la metà sinistra del corpo; ad es. il paziente dimentica di infilare il braccio nella manica o la gamba nei pantaloni. Altre volte il disturbo è bilaterale, e si collega ad una più generale incapacità ad analizzare e guidare i movimenti nello spazio, analogamente a quanto accade nel corso di turbe visuopercettive e visuo-costruttive.
Agnosie Il termine agnosia, introdotto da Freud nel 1891, si riferisce classicamente ad un disturbo del riconoscimento di stimoli sensoriali, dovuto a una lesione cerebrale, in assenza di turbe percettive, intellettive o fasiche. Potremmo avere tante forme di agnosia quante sono le modalità dell’esperienza sensoriale, ma, per alcuni sensi specifici, come il gusto e l’olfatto, non è possibile, sul piano clinico, differenziare il deficit sensoriale dal disturbo gnosico, per cui si distinguono solamente tre forme: l’agnosia visiva, l’agnosia uditiva e l’agnosia tattile. Agnosia visiva Si tratta di un disturbo del riconoscimento degli stimoli visivi, dovuto a lesione delle regioni temporo-parieto-occipitali dei due emisferi. Il deficit, comunque, non è riconducibile a disturbi della percezione visiva, dal momento che il quadro clinico è diverso da quello che può essere determinato dalla somma delle alterazioni del campo visivo, dell’acuità visiva, del senso cromatico.
Funzioni nervose superiori Munk per primo dimostrò sperimentalmente, nel cane, la possibilità di ottenere, per ablazione di entrambi i lobi occipitali, un disturbo del riconoscimento visivo, apparentemente dissociato da turbe percettive, e definì questa condizione «cecità psichica». L’animale, pur essendo in grado di evitare gli ostacoli e di fissare gli oggetti, sembrava aver perso la capacità di afferrarne il significato. Non riusciva, ad esempio, a riconoscere il padrone se non quando ne udiva la voce e appariva indifferente di fronte a un pezzo di carne fino a quando non poteva annusarlo.
I disturbi di riconoscimento visivo possono compromettere selettivamente alcune categorie di stimoli per cui si può avere agnosia per gli oggetti e per le immagini, agnosia per le fisionomie, agnosia per i colori, agnosia per le forme geometriche, agnosia per i simboli grafici (il mancato riconoscimento della scrittura è già stato riportato nell’alessia senza agrafia, v. pag. 134). La possibilità di un coinvolgimento isolato di differenti categorie di stimoli (oggetti, immagini, facce, parole, etc) suggerisce l’ipotesi che il processo del riconoscimento si realizzi in strutture anatomiche almeno in parte diverse. D’altra parte il processo di riconoscimento potrebbe realizzarsi con modalità differenti se l’immagine viene percepita globalmente oppure se vengono analizzati i singoli elementi che la compongono. Una faccia è identificata nel suo insieme e una parola viene analizzata nelle sue componenti; ciò indica una strategia di analisi diversa e selettivamente vulnerabile. La lesione interesserebbe l’una o l’altra modalità di elaborazione dando luogo, nel primo caso, ad agnosia per le facce, nel secondo, ad un’alterazione del riconoscimento delle parole e delle immagini. Entrambe le ipotesi poggiano sull’esistenza di una specializzazione emisferica, per cui l’emisfero destro sembra avere un ruolo più importante nell’identificazione delle facce, mentre il sinistro sarebbe più specificamente correlato con l’identificazione di parole.
1) AGNOSIA PER GLI OGGETTI E PER LE IMMAGINI. Lissauer (1890) osservò due gruppi di malati: coloro che erano incapaci di percepire e discriminare un oggetto e coloro che, malgrado una corretta percezione, erano incapaci di riconoscere l’oggetto, per cui propose la distinzione, tuttora accettata, di una forma appercettiva,
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in cui esiste compromissione percettiva, e di una forma associativa senza tali turbe. L’agnosia appercettiva si manifesta con il mancato riconoscimento di immagini od oggetti, in presenza di una normale capacità di valutarne le qualità percettive semplici (forma, dimensioni, contorni, luminosità etc) . Il malato manifesta incapacità a discriminare immagini differenti, ad accoppiare figure o oggetti simili, copiare forme geometriche semplici, seguirne il contorno, organizzare i dati percettivi in una rappresentazione distinta dallo sfondo. L’agnosia simultanea (simultanagnosia), cioè l’incapacità di cogliere il significato complessivo di una scena o di una immagine è tuttora oggetto di discussione. Il termine è da molti considerato erroneo e il disturbo dovrebbe essere riferito a un deficit dell’attenzione spaziale e si ritrova nella sindrome di Balint. Il malato descrive l’immagine presentata separando i diversi componenti e perdendo il significato complessivo. Ad esempio, in una figura test come quella del “ladro di cioccolatini”, ove la scena rappresenta un bimbo che cade da una seggiola mentre cerca di prendere dei cioccolatini da un armadio, attirando l’attenzione della madre, raffigurata mentre lava i piatti, il malato non riesce a cogliere l’insieme dell’azione, ma riesce ad identificar solo i singoli componenti: il bimbo, l’armadio, la donna, il lavello, la seggiola etc. Il malato è in grado di copiare accuratamente i disegni anche se la copia è servile, lenta, faticosa, quasi avesse difficoltà ad integrare i vari particolari, interni ed esterni, di una rappresentazione costituita da numerosi elementi.
L’agnosia associativa è caratterizzata dalla incapacità di riconoscere visivamente un'immagine o un oggetto pur essendo normali il linguaggio e le capacità di denominare oggetti percepiti per via tattile. Il malato è incapace di riconoscere l’oggetto attraverso la via visiva, di definirne le modalità di utilizzazione, di indicare un oggetto nominato dall’esaminatore, ma è in grado di seguire i contorni di un’immagine, di accoppiare figure simili, copiare forme di varia complessità, associare figure dello stesso oggetto prese da differenti prospettive, individuare le componenti di disegni sovrapposti e di
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identificarli anche se tracciati con un contorno incompleto. Quella dell’agnosico associativo può essere considerata, dunque, una esperienza percettiva normale “priva di ogni significato”. In alcuni malati i segni dell’agnosia associativa si associano a segni appercettivi. Malati con agnosia appercettiva hanno la lesione nelle aree occipito-temporali bilateralmente, benchè in alcuni casi la lesione sia stata reperita nell’emisfero destro. L’etiologia è varia : avvelenamento da CO, traumi cranici, infarti bilaterali, intossicazione da mercurio. Anche nell’agnosia associativa la lesione, quasi invariabilmente, ha sede in regione occipitotemporale bilateralmente, ma talora anche solo a sinistra. La causa più comune è un infarto nel territorio della cerebrale posteriore. L’impossibilità di denominare un oggetto presentato per via visiva, mentre è conservato, invece, il riconoscimento per via uditiva e tattile caratterizza “l’afasia ottica”, termine introdotto da Freund (1899). Le differenze tra afasia ottica e agnosia associativa devono essere vagliate con molta cautela considerato che una lesione mediale occipito-temporale sinistra (ad es. dovuta a infarto nel territorio della cerebrale posteriore) può essere responsabile di una agnosia associativa e di una afasia ottica. La differrenza tra i due quadri sarebbe piuttosto quantitativa e non qualitativa, tanto è vero che alcuni malati con agnosia associativa possono evolvere verso un quadro di afasia ottica (De Renzi,1999).
2) AGNOSIA PER LE FISIONOMIE (PROSOPOAGNOSIA) Il disturbo è rappresentato dall’incapacità di identificare le facce dei familiari o, comunque, di persone note la cui identificazione è, peraltro, possibile sulla base di elementi estranei alla fisionomia, ad esempio la statura, gli abiti, gli occhiali e, soprattutto, la voce, che viene immediatamente riconosciuta. In genere è mantenuta la capacità di riconoscere le caratteristiche generali del volto, ad esempio se si tratta di un viso maschile o femminile, e di valutare l’espressione mimica, ad esempio se esprime gioia o dolore. Nei casi gravi anche il proprio viso riflesso allo specchio non viene identificato. Nella maggioranza dei casi ambedue le aree occipito-temporali partecipano al processo di ri-
conoscimento di un viso, sebbene venga riconosciuta una prevalenza dell’emisfero destro. L’amigdala gioca un ruolo importante nel riconoscimento dell’espressione emozionale del viso. Si deve distinguere la capacità di identificare il viso di persone note e di persone ignote, poiché queste due possibilità possono essere alterate indipendentemente l’una dall’altra, e la lesione sarebbe, in questo caso, localizzata nell’emisfero destro. 3) DISTURBI DEL RICONOSCIMENTO DEI COLORI Questa denominazione raggruppa una serie di disturbi differenti, caratterizzati da difficoltà nel riconoscimento o nella utilizzazione dei colori a seguito di danno cerebrale, correlabili a turbe percettive, associative, linguistiche. a) I disturbi percettivi includono la discromatopsia e la acromatopsia centrale acquisita. La discromatopsia è una ridotta capacità di distinguere i colori che appaiono pallidi (desaturati) o offuscati; l’acromatopsia è la totale incapacità di distinguere i colori,e il mondo appare in bianco e nero o in varie sfumature di grigio. L’esame clinico dimostra che il malato è incapace di appaiare serie di colori differenti e cade nelle prove di valutazione del senso cromatico (vari tests possono essere impiegati: test di Ishihara, test di Hardy-Rand-Ritter, test di Farnsworth). Questi malati hanno spesso alterazioni del campo visivo, consistenti in una quadrantopsia bilaterale superiore. La lesione ha sede nel giro linguale e fusiforme bilateralmente. b) I disturbi associativi, sono di due tipi: – l’anomia per i colori, incapacità di denominare e indicare su richiesta verbale i colori che, peraltro, vengono discriminati correttamente. Il disturbo, che sembra essere specifico e indipendente dall’esistenza di afasia, è stato rilevato in casi di «alessia senza agrafia». – l’amnesia per i colori incapacità a rievocare il colore di un oggetto, associare ad ele-
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menti caratteristici (ad es. sangue, erba, cielo, neve, etc.) il colore corrispondente, colorare immagini in bianco e nero,o, infine, indicare figure di oggetti colorati in modo errato. Il disturbo associativo si accompagna a segni di lesione emisferica sinistra, e in particolare ad afasia. 4) AGNOSIA ACUSTICA È l’incapacità a riconoscere suoni significativi non verbali in assenza di alterazioni della percezione uditiva elementare. La forma isolata è molto rara e usualmente, il quadro si ritrova associato a disturbi del linguaggio. L’agnosia uditiva può, schematicamente, esprimersi in tre forme: un’agnosia uditiva globale, nella quale i rumori, i suoni musicali e le parole non sono più identificati; un’agnosia per i suoni non verbali (sordità psichica); un’agnosia per i soli suoni musicali, definita amusia sensoriale. L’agnosia per i soli simboli verbali si identifica con la «sordità verbale pura» (v. pag. 143). Nell’agnosia uditiva globale i disturbi fasici dominano la scena, per cui gli aspetti agnosici non verbali appaiono del tutto accessori. La dicotomia fra forma appercettiva e forma associativa sembra applicabile anche all’agnosia per i suoni non verbali. Nel primo caso, il disturbo compromette la possibilità di riconoscere un suono isolato, impedendo di associarlo con uno identico; nel secondo caso il malato è in grado di discriminare i diversi rumori e di riconoscere suoni identici ma non può associare il suono alla rappresentazione dell’oggetto cui corrisponde. La differenza sembra correlata ad una diversa sede della lesione che sarebbe localizzata nell’emisfero destro nella forma appercettiva e nel sinistro nella forma associativa.
5) AGNOSIA TATTILE L’agnosia tattile è una condizione per cui gli oggetti non sono riconosciuti attraverso la modalità tattile in presenza di normali sensibilità superficiali e profonde. In particolare, se la morfognosia, cioè il riconoscimento della forma di un oggetto e l’ilognosia, cioè il riconoscimento delle qualità fisiche dell’oggetto, sono conservate e il malato non è in grado di riconoscere l’oggetto, allora si deve ritenere che esista una agnosia tattile. L’agnosia tattile rappresenta un disturbo eccezionale, ma alcuni casi sono stati descritti. La lesione responsabile ha sede nell’area postero-inferiore del lobo parietale controlaterale alla mano interessata.
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Disturbi dell’esplorazione spaziale Questi disturbi possono interessare lo spazio extrapersonale o lo spazio personale. Le turbe dello spazio extrapersonale riguardano fenomeni patologici di natura diversa e variamente associati che hanno in comune la difficoltà a manipolare le informazioni spaziali derivanti dall’ambiente esterno. Le turbe dello spazio personale si riferiscono al proprio spazio corporeo o al riconoscimento di parti di esso. Il termine agnosia,già applicato a questi disturbi (agnosia spaziale), risulta inappropriato poichè, alla luce della definizione data in precedenza, identifica un errore di riconoscimento di dati percettivi provenienti da uno specifico canale sensoriale. Nella patologia dell’esplorazione spaziale sono coinvolti oltre alle informazioni fornite dal canale visivo che, pure, sono preponderanti, altre modalità sensoriali (tatto, propriocezione, udito), componenti motorie (motilità dello sguardo e degli arti) e capacità intellettuali.
A. Disturbi dello spazio extrapersonale Seguendo la classificazione proposta da Benton (1980), ci limiteremo ad esaminare le alterazioni visuo-spaziali, tralasciando i disturbi grafomotori di natura spaziale e le alterazioni visuocostruttive, queste ultime descritte nel capitolo dell’aprassia costruttiva (v. pag. 153). Nei soggetti con alterazioni visuospaziali la lesione è situata nell’area temporo-parieto-occipitale, soprattutto dell’emisfero destro e talora bilateralmente. 1) DISTURBI DELLA LOCALIZZAZIONE NELLO SPAZIO Spesso si associano a disturbi della valutazione della direzione, della distanza e della stereopsi. Nelle forme più gravi questi errori si riflettono nel comportamento del soggetto, il quale urta contro gli ostacoli perché non sa localizzarli o perchè ha perso la visione stereoscopica. Un malato, descritto da Hécaen ed Angelergues, guardando dalla finestra aveva l’impressione di vedere tutto come in una superfi-
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cie piana e giudicava vicina una casa situata ad oltre 80 metri. Nei casi più lievi gli errori possono essere dimostrati con test che consentano di esaminare la capacità di valutare le distanze (ad es. unire con una linea due punti, segnare il punto di mezzo di una linea o il centro di un cerchio, ecc.), l’orientamento di linee o le dimensioni relative (ad es. stimare la lunghezza relativa di due linee, ecc.). I malati con questi disturbi sono frequentemente portatori di una lesione temporo-parieto-occipitale destra. 2) DISTURBI DELL’ORIENTAMENTO TOPOGRAFICO L’alterazione più tipica consiste nella difficoltà o impossibilità a descrivere le caratteristiche spaziali di ambienti familiari. Nelle forme più lievi il disturbo si limita all’incapacità di indicare la disposizione dei mobili nella stanza d’ospedale, o nella stanza dove ripetutamente è stato sottoposto a tests. Nelle forme più conclamate si ha perdita della memoria topografica, cioè incapacità ad orientarsi in luoghi già noti, descrivere mentalmente o tracciare sulla carta un itinerario, disegnare la pianta del proprio appartamento o del proprio quartiere. Questi malati non sanno più ritrovare il proprio letto, la strada che porta ad edifici pubblici ben noti nella città di residenza (ospedale, stazione, chiesa), per il venir meno del ricordo o del riconoscimento dei punti di repere visivi che, consapevolmente o automaticamente, guidano il soggetto nei suoi spostamenti. Questi disturbi sembrano in relazione con un’incapacità mnesica, per cui risulta impossibile la «rappresentazione» o «rivisualizzazione» degli elementi fondamentali delle configurazioni topografiche. Non è infrequente che questi malati falliscano nelle prove che richiedono la rievocazione mnemonica di nozioni topografiche consolidate (ad es. riconoscere da cartoline luoghi famosi, localizzare sulla carta d’Italia le città più importanti),dimostrando un’amnesia selettiva considerato che altre capacità mnesiche sono conservate. Non può essere esclusa, tuttavia, l’esistenza di disturbi percet-
tivi, i quali possono impedire l’analisi di elementi rilevanti della configurazione spaziale, considerato che turbe della localizzazione extracorporea, emidisattenzione ed agnosia visiva possono produrre difficoltà d’orientamento. I due quadri vanno opportunamente identificati e differenziati. La lesione sembra esser localizzata nelle aree posteriori dell’emisfero destro o in regione parieto-occipitale bilateralmente. 3) NEGLIGENZA SPAZIALE UNILATERALE (EMIDISATTENZIONE) È il disturbo spaziale più frequente ed è caratterizzato dalla incapacità di indirizzare l’attenzione ad una metà dello spazio, qualunque sia la direzione del punto di fissazione. Il difetto si riferisce usualmente alla metà sinistra ed è in rapporto con lesioni temporo-parietooccipitali dell’emisfero destro. In considerazione del fatto che la negligenza spaziale unilaterale colpisce prevalentemente la metà sinistra, il malato ignora tutto ciò che è situato alla sinistra del punto centrale della visione quando si muove nell’ambiente, nelle prove di lettura e di costruzione. La negligenza spaziale unilaterale si associa frequentemente ad emianopsia, ma non ne è la conseguenza. Infatti gli emianoptici apprendono in breve tempo che il difetto può essere compensato da movimenti dello sguardo che permettono di fornire informazioni di ambedue le metà dello spazio, mentre i malati con emidisattenzione hanno limitata e scarsa tendenza a volgere lo sguardo in direzione dell’emispazio ignorato. Nelle forme lievi il difetto è rilevabile solo nel disegno e nella lettura: il soggetto utilizza unicamente la parte destra del foglio, i disegni risultano incompleti nella metà sinistra, e la riproduzione di un modello riguarda solo la parte destra. Nei casi gravi il malato ignora tutti gli oggetti che si trovano alla sua sinistra, urta contro gli ostacoli che incontra a sinistra, non riesce a percorrere un tragitto che richieda di svoltare a sinistra; se gli viene rivolta una do-
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manda da un interlocutore situato alla sua sinistra si rivolge , nella risposta, a chi si trova alla sua destra. La negligenza spaziale unilaterale frequentemente coinvolge oltre la sfera visiva, anche l’esplorazione tattile e uditiva nello spazio e, talvolta, è associata ad alterazioni nel riconoscimento della metà del proprio corpo (emisomatoagnosia) (v. pag. 160). 4) SINDROME DI BALINT È caratterizzata dai seguenti sintomi: 1) difetti di attenzione visiva per gli stimoli extramaculari («debolezza dello sguardo periferico» di Kleist) così che, anche in assenza di alterata percezione periferica, si ha in pratica un restringimento del campo visivo. Pertanto, questi malati non sono in grado di vedere due stimoli simultaneamente presentati, ad es. due figure disegnate nello stesso foglio, una circonferenza ed il punto segnato al centro di essa, ecc.; 2) aprassia dello sguardo, cioè incapacità ad orientare lo sguardo verso un punto che si trovi nel campo visivo periferico, pur essendo la motilità oculare volontaria apparentemente integra. Il disturbo è dominato dalla dissociazione tra la sostanziale normalità dei movimenti automatici dello sguardo, presenti in tutte le direzioni, ed il grave disturbo dei movimenti volontari che risultano gravemente compromessi; 3) atassia ottica, disturbo della coordinazione visuomotoria, consistente in grossolani errori di direzione che il soggetto compie nel tentativo di raggiungere con la mano una mira o un oggetto. Il disturbo può estendersi a tutto il campo visivo o solo a un emicampo, e può interessare un solo arto superiore o entrambi. 4) non costanti disturbi della valutazione delle distanze possono essere associati alla triade sintomatica sopra indicata. Le lesioni responsabili della sindrome di Balint hanno sede nella regione occipito-parietale bilateralmente.
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B. Disturbi dello spazio personale e dello schema corporeo La formulazione del concetto di schema corporeo è nata dalla necessità di inquadrare una serie di osservazioni neurologiche e psichiatriche assai difficilmente interpretabili se non ammettendo l’esistenza di un «modello interno» o «schema corporeo» cui sarebbero riferiti i dati percettivi, le reazioni motorie ed i giudizi di identità e unità somatica. Lo schema corporeo, fondato sulle continue informazioni provenienti dai vari apparati sensoriali, si trasformerebbe in esperienza cosciente del proprio corpo attraverso un processo di integrazione delle informazioni sensoriali con fattori più propriamente immaginativi ed intellettivi. L’esistenza di questo «modello di sé» garantirebbe la coscienza della propria unità, la rappresentazione tridimensionale del corpo, la consapevolezza immediata della sua posizione e di quella che i diversi segmenti occupano nello spazio nel succedersi degli atti motori. Il concetto di «schema corporeo» fu formulato in neurologia per la prima volta da Pick (1908), il quale attribuì ad una sua alterazione l’impossibilità di alcuni malati a localizzare parti del proprio corpo (autotopognosia) e ad avere una corretta «immagine spaziale di sé». Anton (1899), del resto, aveva descritto malati che, nonostante un pressocché normale stato intellettivo, ignoravano o negavano la propria emiplegia e Babinski (1914), commentando casi analoghi, sottolineava che le turbe sensitive, di per sè, non potevano spiegare tale disturbo, suggerendo la compromissione di una specifica funzione cerebrale. Head (1920), infine, postulò l’esistenza di «modelli» o «schemi corporei» derivati dalla elaborazione centrale delle informazioni posturali, propriocettive e somatosensoriali. Il fenomeno dell’arto fantasma, cioè la constatazione che soggetti sottoposti all’amputazione di un arto avvertono disturbi sensitivi (caldo, freddo, senso di pesantezza etc) e sopratutto un dolore violento e insopportabile localizzato nel segmento amputato, quasi fosse ancora presente, ha particolarmente attratto l’attenzione sulle problematiche dello schema corporeo. Incidentalmente sarà utile osservare che l’arto fantasma dopo amputazione si può osservare solo al di là dei 6-8 anni di età, favorendo l’ipotesi che il processo di riconoscimento ed espe-
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rienza del proprio corpo richiede l’integrazione di aree cerebrali diverse e un’attività funzionale che si sviluppa solo dopo una certa età. Nonostante l’interesse che il problema ha sempre suscitato, il concetto di schema corporeo non è mai stato definito in maniera univoca, anche se esso facilita la comprensione di una serie di disturbi causati da una lesione cerebrale. È tuttavia oggetto di discussione se il disturbo abbia una sua autonomia, dipendendo dal difetto di una funzione specifica, o rifletta la presenza di disturbi concomitanti, ad es. del linguaggio e dell’orientamento spaziale.
I disturbi dello schema corporeo possono essere positivi, quando vi sia l’illusione dell’esistenza di parti del proprio corpo non più presenti perché, ad es. amputate, o negativi quando esiste una mancata consapevolezza di specifiche regioni del corpo. In questo caso il disturbo, secondario a lesione cerebrale, può essere bilaterale come nel caso dell’autotopognosia e della sindrome di Gerstmann o unilaterale come nel caso dell’emisomatoagnosia. 1) AUTOTOPOAGNOSIA È l’impossibilità di indicare parti sia del proprio corpo che di quello altrui; generalmente il disturbo è bilaterale, e meno marcato per le parti mediane del corpo. Il deficit, indipendente dalla presenza di alterazioni della comprensione orale, si può osservare sia per comandi verbali che non verbali. Il malato è incapace di denominare parti del corpo (la spalla, il gomito, il ginocchio, ecc.) indicate dall’esaminatore, di identificarle su denominazione, di indicare il punto toccato dall’esaminatore sul proprio corpo o su un disegno. Il difetto che si osserva soprattutto in condizioni test e non crea particolari difficoltà nella vita quotidiana, è dovuto a lesione del lobo parietale sinistro. È più facilmente osservabile in corso di neoplasie piuttosto che nelle lesioni vascolari, probabilmente perché nelle lesioni vascolari il disturbo fasico, spesso presente, maschera il disturbo autotopognosico. Il fenomeno della “ mano aliena “ o “mano estranea” (solo ad occhi chiusi, il malato non riconosce come pro-
pria la mano o una sua parte stretta dall’altra mano, non è un disturbo autotopognosico e verrà discusso a proposito della sindrome callosa (v. pag. 000).
2) SINDROME DI GERSTMANN È rappresentata da: agnosia digitale, disconoscimento fra destra e sinistra, acalculia e agrafia pura. Un sintomo non essenziale ma assai frequentemente associato, è l’aprassia costruttiva del tipo descritto nei cerebrolesi sinistri (v. pag. 153). L’agnosia digitale può essere definita come l’incapacità di distinguere, denominare e mostrare le dita della mano propria ed altrui. Si esamina usando prove verbali, ad es. il malato è invitato ad indicare il dito denominato dall’esaminatore, e prove non verbali in cui il soggetto è invitato a identificare le dita toccate dall’esaminatore su una immagine schematica della mano. Il disorientamento destra-sinistra consiste nell’incapacità di distinguere tra il lato destro e quello sinistro del proprio corpo o di quello dell’osservatore. L’acalculia consiste nell’ incapacità ad effettuare operazioni aritmetiche, ed è prevalentemente di tipo spaziale, cioè con difficoltà e alterato incolonnamento delle cifre e conseguenti errori di calcolo. L’agrafia, il sintomo più costante della sindrome, è «pura», non legata cioè ad alessia né a disturbi del linguaggio interno. L’autonomia della sindrome di Gerstmann è stata, negli ultimi anni, messa in dubbio, a causa della sua frequente associazione con altri disturbi neuropsicologici, ma, oggi, la sua validità appare accettata. Comunque l’associazione di almeno tre dei segni caratteristici della sindrome, ha un buon valore localizzatorio, essendo correlata con una lesione nel giro angolare o piega-curva del lobo parietale sinistro (Denes, 1999). 3) EMISOMATOAGNOSIA Si tratta della perdita della coscienza di appartenenza di metà del proprio corpo, che non viene più avvertita come parte integrante dell’unità somatica. Il disturbo riguarda il distret-
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to corporeo controlaterale alla lesione, che è localizzata nel lobo parietale destro, a livello del giro sopramarginale e angolare. A differenza delle alterazioni dello schema corporeo riferite a lesione dell’emisfero sinistro, ove il deficit è evidenziabile solo con i test, il disturbo si manifesta molto chiaramente nel comportamento, e il malato agisce come se effettivamente gli mancasse metà del proprio corpo. Il soggetto può essere consapevole o inconsapevole del proprio disturbo; infatti, può riferire di avere la sensazione di aver perso la percezione della propria metà del corpo, pur sapendo che ciò non corrisponde alla realtà oppure non presta alcuna attenzione alla metà del corpo asomatognosica e, quindi, non rade la metà sinistra della faccia, non sistema correttamente la stanghetta degli occhiali sull’orecchio sinistro, ecc. L’emisomatoagnosia può essere accompagnata da una serie di disturbi che in genere vengono riferiti alla sfera affettiva. Si può osservare anosognosia caratterizzata da negazione o misconoscimento di un deficit grave di una funzione motoria o sensitiva, ecc., ed in genere si riferisce all’emiplegia: il malato ignora la paralisi e può sostenere che l’arto plegico che l’esaminatore gli mostra non è il suo (somatoparafrenia). L’anosognosia può prevalere su altri segni clinici dovuti a lesioni posteriori, come nella Sindrome di Anton-Babinski, in cui la negazione di malattia accompagna la comparsa di cecità corticale, e nella Sindrome di DideBotcazo, nella quale ai precedenti sintomi si aggiunge la presenza di amnesia dovuta a lesione delle strutture temporali mesiali. Nei casi più lievi si osservano quadri di anosodiaforia, che consiste in una indifferenza verso il disturbo o nella minimizzazione della sua gravità. Se la paralisi non è completa il paziente può mostrare negligenza per l’emilato paretico, con riduzione dell’uso degli arti paretici, quasi non fossero i suoi. Questi disturbi possono associarsi alla comparsa di illusioni ed allucinazioni sensoriali, tra cui vanno ricor-
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date: a) alloestesia: per cui uno stimolo applicato su un lato del corpo viene localizzato sul lato opposto, in genere in una zona simmetrica; b) allucinazioni cenestesiche: quando esiste negazione dell’emiplegia, il malato, richiesto di muovere gli arti plegici, ritiene di averli spostati ed asserisce quindi, senza alcun dubbio, di aver eseguito l’ordine.
L’evoluzione clinica di questi quadri è diversa: nella maggioranza dei casi (traumi, lesioni vascolari) si assiste ad un lento riadattamento, per cui il soggetto prende gradualmente coscienza del deficit e critica le illusioni e le allucinazioni sensoriali, raggiungendo frequentemente un parziale recupero; altre volte (nel caso di tumori e processi degenerativi) il peggioramento è progressivo, talora associato a decadimento mentale. Ciò vale soprattutto per i disturbi emisomatognosici in senso stretto; quando ad essi si accompagnano dolore, angoscia, arto fantasma, emidisattenzione o anosodiaforia è possibile che siano coinvolte altre strutture, ad es. talamiche o talamo-parietali. Ajuriaguerra e Hécaen (1964) distinguono le osservazioni anatomiche della letteratura in tre gruppi: lesioni corticali, lesioni sottocorticali, e infine un terzo gruppo con lesioni corticali e sottocorticali; le lesioni talamiche sembrano provocare, secondo questi AA., il senso di assenza, di estraneità o di non appartenenza dell’emicorpo o di un suo segmento.
4) SINDROME DELL’ARTO FANTASMA Il disturbo, indipendente da turbe psichiche o cognitive, si manifesta in seguito ad amputazione di una parte del corpo, in genere un arto (ma anche il seno per la donna, e i genitali per l’uomo), e consiste nella impressione soggettiva che una parte del corpo amputata sia ancora presente. Si può, inoltre, manifestare in seguito a lesione delle vie sensoriali periferiche o centrali, ed allora dà luogo all’erronea sensazione di poter controllare gli stimoli provenienti della regione del corpo deafferentata. La sindrome viene considerata una prova cruciale dell’esistenza della rappresentazione mentale dello schema corporeo. Il disturbo è estremamente realistico e il malato può erroneamente attribuire ogni sorta di
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sensazione, ad es. freddo, caldo, pesantezza, leggerezza o, ancora, comparsa di crampi, parestesie e dolori, a regioni specifiche dell’arto mancante; la sensazione di integrità può essere così vivida che il soggetto, immaginando di poter muovere l’arto amputato, ad es. la gamba, può cadere e procurarsi lesioni. La sindrome si può accompagnare a una sintomatologia dolorosa estremamente violenta e persistente, e spesso si ritrovano neuromi delle terminazioni nervose del moncone, ma anche la loro rimozione chirurgica è spesso senza effetto. Nei casi in cui il dolore è assente o scarso, la sensazione fantasma tende con il tempo a diventare meno continua, fino a scomparire gradualmente. L’esistenza di una conoscenza implicita del proprio corpo, precedente la rappresentazione dell’immagine del corpo attribuita agli adulti, viene suggerita dalla capacità che i neonati possiedono di imitare i movimenti e dalla constatazione che l’arto fantasma si può osservare, in seguito ad amputazione, solo dopo i 6-8 anni di età (Berlucchi e Aglioti, 1997).
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6. Funzioni nervose superiori Le funzioni intellettive o mentali. Le sindromi psicorganiche C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
La valutazione clinica delle funzioni intellettive (attenzione, percezione, coscienza, memoria, affettività, pensiero, intelligenza,) rappresenta una tappa importante dell’esame neurologico, sia perchè disturbi di queste funzioni si associano con una certa frequenza a molte malattie neurologiche, sia perché, non raramente, alcune malattie neurologiche debuttano con disturbi mentali e, solo successivamente, compaiono sintomi neurologici. In questo capitolo vengono sommariamente indicate le alterazioni delle funzioni intellettive che possono essere causate da una lesione cerebrale organica, con lo scopo di fornire alcune informazioni semeiotico-cliniche di base che sono necessarie per affrontare adeguatamente un gruppo abbastanza numeroso di malati neurologici. Quest’area di conoscenze è strettamente collegata con lo studio delle malattie mentali e per l’esecuzione di un esame psichico completo e per lo studio specifico degli aspetti psicopatologici si rimanda ai trattati di Psichiatria. Atteggiamento e comportamento I dati relativi potranno essere raccolti osservando il comportamento e le modalità di contatto del soggetto con il medico e, soprattutto, interrogando i famigliari e gli amici per ottenere informazioni, per quanto possibile accurate, sul comportamento del malato in famiglia e nell’ambiente di lavoro. Spesso alcune notizie vengono spontaneamente fornite dai parenti, sia perchè le modificazioni del comportamento sono avvenute in maniera repentina, sia perchè la loro evidenza colpisce particolarmente l’attenzione.
Inizialmente, è l’aspetto generale del soggetto, cioè l’espressione mimica e l’attitudine generale del corpo, che deve essere osservato. L’espressione mimica potrà apparire indifferente oppure intonata all’euforia o alla tristezza. Mentre l’amimia può essere espressione sia di disturbi extrapiramidali che di gravi turbe psicotiche, una mimica non adeguata alla situazione (mimica discordante) si può osservare soprattutto in malati psichici, ma anche in pazienti neurologici (pseudobulbari). Al contrario una risposta mimica particolarmente accentuata deve essere sempre considerata espressione di una reazione emotiva esagerata, ad es. in soggetti con lesioni prefrontali. L’atteggiamento posturale è spesso in relazione con lo stato generale sia fisico che mentale, o più particolarmente con il fattore affettivo. Ad esempio, è classico affermare che un atteggiamento dimesso, a testa bassa, con fronte corrugata, corpo piegato in avanti e spalle cadenti, può essere espressione di una malattia depressiva, mentre l’ iperattività con mimica perplesso-attonita si può riscontrare in soggetti che soffrono di una psicosi organica acuta. L’attività può essere ridotta nel rallentamento motorio, abolita nel blocco psicomotorio; in opposizione a quanto richiesto dall’esaminatore nel negativismo. Al contrario, l’attività può essere aumentata, oppure può consistere in una rapida successione di azioni o di atti motori spesso senza carattere finalistico, o in una serie di atti che, per quanto finalistici, risultano scarsamente concludenti (affaccendamento inoperoso) o infine, si può osservare una ripetizione di movimenti sempre uguali (stereotipia).
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Il linguaggio spontaneo può essere povero o ricco di contenuti. Il malato può quindi essere inaccessibile o scarsamente accessibile, sia perchè rifiuta il colloquio (negativismo) o perché è confuso o reticente (dissimula le proprie idee e sentimenti), sia perchè il linguaggio è vischioso e prolisso (difficoltà a trovare le espressioni, ripetizioni, abbondanti giri di parole). Al contrario il discorso può essere particolarmente fluente, accelerato e si può giungere alla verborrea e ideorrea (espressività verbale e ideatoria non contenibile e particolarmente abbondante). Il problema degli istinti e del comportamento istintivo non può essere affrontato in questa sede. Molti fenomeni cosiddetti istintivi cioè innati, sembrano in effetti dovuti all’apprendimento, anche se avvenuto in tempo brevissimo. Sembra accertato che molte attività considerate istintive richiedono in realtà, anche nell’uomo, un certo grado di apprendimento. La discussione tra genesi psichica e genesi organica degli istinti è antica: lo stesso Freud scriveva che l’istinto appare come un concetto di frontiera tra l’attività mentale e quella somatica. La neuropsicologia moderna ha mostrato che la lesione di alcune strutture, come il sistema limbico e in particolare il complesso amigdaloideo, è in grado di provocare alterazione di diverse attività istintive, anche se si deve ovviamente tener conto della motivazione e degli aspetti emozionali connessi ad un determinato comportamento istintivo.
Attenzione Si distingue un’attenzione globale o diffusa e una attenzione selettiva. L’attenzione globale si riferisce ad un generico stato di disponibilità all’ambiente, (“arousal“, termine inglese, spesso utilizzato anche in testi italiani), per qualsiasi tipo di stimolo percebile, associato al processo di attivazione della corteccia cerebrale da parte dei sistemi a proiezione diffusa (v. pag. 000). L’attenzione globale può essere modificata dalla riduzione del livello di coscienza in condizioni fisiologiche, come accade nella sonnolenza, o in stati patologici come si verifica nel coma leggero (v. pag. 000).
L’attenzione selettiva si distingue in : attenzione spontanea o riflessa, che si manifesta con l’interesse spontaneo verso determinati obiettivi, e attenzione volontaria o conativa, che orienta, con sforzo e impegno particolare, verso obiettivi specifici e predeterminati, anche in rapporto con canali sensoriali diversi (attenzione visiva, uditiva, etc). L’attenzione conativa, quindi, dirige e seleziona i processi mentali, avendo la funzione di proteggere dalle interferenze esterne e interne, quando il soggetto è intento a svolgere un compito che richiede un impegno cognitivo o comportamentale specifico. I disturbi dell’attenzione possono essere osservati durante la raccolta dell’anamnesi, durante l’esame neurologico, nell’intervista psichiatrica, e tests neuro-psicologici specifici (ripetizione di numeri, ritrovamento di lettere o numeri bersaglio, Trail Making Test, etc.) possono essere utilizzati per documentarli in modo obbiettivo e ripetibile. I disturbi dell’attenzione sono tipicamente presenti nelle sindromi confusionali acute (v. pag. 000), nelle demenze, nelle sindromi frontali di natura diversa e spesso nelle sindromi post-traumatiche craniche, e, ovviamente, in numerose malattie mentali. Le formazioni corticali implicate nella funzione attentiva sarebbero sulla base di studi di risonanza magnetica funzionale: la corteccia frontale (area prefrontale dorso-laterale), la corteccia parietale postero-inferiore, la circonvoluzione del cingolo, con il contributo di alcune formazioni sottocorticali: il collicolo superiore, il pulvinar, il corpo striato e la formazione reticolare troncoencefalica (v. pag. 479). Funzione percettiva La percezione è espressione di un’attività che integra numerose e complesse funzioni per raggiungere il riconoscimento della realtà esterna. Infatti la funzione percettiva include l’organizzazione dei dati forniti dai canali sensitivo-sensoriali, il confronto con esperienze precedenti,
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l’integrazione con processi rappresentativi. Anche altre funzioni quali lo stato affettivo e le attitudini personali o acquisite intervengono nell’elaborazione percettiva. Le alterazioni della percezione comprendono: alterazioni quantitative, sia nel senso di esagerazione delle caratteristiche sensitive o sensoriali (amplificazione, ad es., dei rumori), sia nel senso di diminuzione (riduzione, ad es., delle sensazioni gustative e dolorifiche nei depressi), oppure qualitative (alterazioni della percezione dei colori, ad es. nelle intossicazioni da farmaci). Ma le alterazioni più importanti nell’ambito psicopatologico sono rappresentate dal falsamento delle percezioni. Le illusioni rappresentano un disturbo percettivo per cui elementi esterni si fondono con elementi psichici soggettivi e la percezione della realtà diventa inadeguata (percezione inadeguata dell’oggetto). Le illusioni, frequenti anche nei soggetti normali, possono essere dovute a disturbi attentivi, a particolari stati affettivi (illusioni olotimiche; ad es. falso riconoscimento per strada di una persona che si attende con particolare ansia). Le paraeidolie rappresentano la possibilità, presente anche nei soggetti normali, di strutturare, a figura formale significativa, materiale indistinto (macchie sul pavimento strutturate come volto, ecc.). Le allucinazioni consistono nella percezione di un oggetto senza stimoli sensoriali adeguati (percezioni senza oggetto), evento non sottoposto a critica e non correggibile da parte del soggetto. Le allucinazioni si distinguono, in base all’apparato psicosensoriale interessato, in allucinazioni uditive, visive, olfattive, gustative, cenestesiche . Le allucinazioni possono essere elementari, complesse o combinate. Allucinazioni uditive elementari sono la percezione di rumori, ronzii, fischi, ecc.; le allucinazioni complesse sono rappresentate dalla percezione di parole (voci, per lo più bisbigliate o sussurate, ma ben
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comprensibili), talora alterate (allucinazioni parafasiche) o da frasi o interi discorsi, che possono impartire ordini (allucinazioni imperative) o consigli (allucinazioni teleologiche). Si può anche verificare un colloquio a più voci (quando il malato sente diverse voci), o la ripetizione sonora del pensiero (il malato sente il proprio pensiero espresso ad alta voce) o il commento sonoro degli atti (le voci commentano approvando o più spesso disapprovando le azioni del soggetto). Le allucinazioni visive possono essere elementari (visione di scintille, lampi luminosi, ecc.) oppure complesse (il soggetto vede persone, cose o animali) e anche strutturate come una visione scenica. Si possono verificare allucinazioni caratterizzate dalla percezione di oggetti ingranditi (macropsia), o rimpiccioliti (micropsia o allucinazioni lillipuziane), deformati (dismorfopsia), lontani (teleopsia) o multipli (poliopsia). Le allucinazioni possono essere proiettate al di fuori del campo visivo (allucinazioni extracampine). Le allucinazioni cenestesiche investono la cenestesi, termine piuttosto mal definito che indica quell’insieme di sensazioni coscienti ed incoscienti, che derivano dal proprio corpo e che determinano il senso di benessere o malessere, genericamente e globalmente inteso. Distinguiamo allucinazioni somestesiche: il corpo brucia (allucinazioni termiche), il corpo è pervaso da una scossa elettrica (allucinazioni aptiche), oppure è bagnato (allucinazioni idriche); allucinazioni per avvenimenti somatici imposti (in genere nella sfera sessuale: le donne si sentono violentate, gli uomini affermano di sentirsi imporre un eccitamento sessuale); allucinazioni di trasformazione somatica: il corpo è raggrinzito, rigonfiato, di vetro, di pietra, ecc., l’intestino è posseduto da un serpente, ecc. (allucinazioni zoopatiche interne). Le pseudoallucinazioni o allucinazioni psichiche sono allucinazioni in cui manca la proiezione spaziale sensoriale (si tratta di voci interne, immagini dietro gli occhi, ecc.) e si ri-
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trovano in malati psichici, specie nella schizofrenia. Le allucinosi sono fenomeni allucinatori, generalmente visivi, raramente uditivi, di cui il soggetto riconosce il carattere abnorme e che pertanto critica. Le allucinazioni riflesse sono quelle stimolate da una percezione reale e ad essa connessa (sentendo abbaiare, il soggetto ha l’allucinazione visiva di un cane, ecc.). Le allucinazioni combinate presentano l’intervento di almeno due canali percettivi: il soggetto vede persone e le sente parlare. Allucinazioni in diversi quadri patologici. Le allucinazioni si riscontrano nelle malattie mentali (specie nella schizofrenia), in reazioni psicogene acute, in certe melanconie deliranti e nelle psicosi alcoliche (il soggetto «vede» piccoli animali: allucinazioni zooptiche o microzooptiche). In questa sede dobbiamo sottolineare l’esistenza di allucinazioni in diverse malattie neurologiche organiche, cioè allucinazioni, in genere visive, dovute a un processo organico diffuso o focale dell’encefalo. In particolare, fenomeni allucinatori di diverso tipo, più frequentemente allucinazioni olfattive e gustative, in malati con lesione temporale (v. pag. 537) e in epilettici temporali (v. pag. 544), fenomeni allucinatori visivi, in genere di tipo elementare, ma anche allucinazioni visive complesse (v. pag. 492) in soggetti portatori di lesioni occipito-temporali. Lesioni mesencefaliche paramediane rostrali possono essere associate ad allucinosi visive, talora quasi di tipo filmico, con scene complesse e mutevoli, denominate “allucinosi peduncolari". Il disturbo è molto raro e il suo significato localizzatorio è incerto e, comunque, ancora in discussione (v. pag. 000). Le allucinosi rivestirebbero un certo grado di similarità con le allucinazioni ipnagogiche, che compaiono durante la fase di addormentamento, e con le allucinazioni ipnopompiche,che compaiono al momento del risveglio (v. pag. 000).
Stato di coscienza Per l’importanza che assumono in patologia neurologica la turbe di coscienza sarà dedicato a questo argomento un intero capitolo, cui si rimanda (v. pag. 633). Funzioni intellettive Una lesione organica può comportare una riduzione o una modificazione delle funzioni intellettive tradizionalmente rappresentate e valutate in maniera indipendente l’una dalle altre e distinte usualmente in apprendimento e memoria, pensiero, giudizio e critica, intelligenza, affettività. Questa classica suddivisione, esprime una semplificazione di un problema complesso, poiché le singole attività sono tra loro strettamente connesse e interdipendenti e l’attività psichica appare un’entità da prendere in esame globalmente. Tuttavia, e specialmente per gli aspetti di patologia psichiatrica che vengono definiti organici, una delimitazione appare possibile e comunque particolarmente utile sul piano pratico-clinico e didattico. APPRENDIMENTO E MEMORIA – L’acquisizione di nuove informazioni è strettamente correlata alla memoria, cioè alla possibilità di immagazzinare e rievocare ciò che è stato appreso. L’apprendimento si svela con la capacità di memorizzare, poiché ricordiamo solo ciò che abbiamo appreso. Le variabili che influiscono sull’apprendimento riguardano: le caratteristiche del materiale da apprendere, le modalità con le quali viene esercitato l’apprendimento, ed infine le caratteristiche e le motivazioni personali di colui che apprende. Il fattore cruciale per ogni soggetto che vuole apprendere è rappresentato dal fattore motivazionale perchè senza l’intenzione di apprendere è raro ottenere un risultato. L’apprendimento è il processo per cui le informazioni vengono trasferite dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine, e impli-
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ca un consolidamento della traccia mnesica, ottenuta consapevolmente con un impegno motivazionale e uno sforzo attentivo, oppure, per compiti e capacità pratiche, raggiunte, come vedremo, anche in modo inconsapevole. La codificazione dell’informazione può avvenire a diversi livelli. La parola “verde”, ad esempio, può essere codificata come sequenza di suoni, a livello fonologico, come può fare uno straniero che conosce poco la lingua italiana. Si può, invece, astrarre il significato in quanto colore e la parola potrà anche essere associata a una serie di ricordi e di emozioni che il colore e le sue tonalità suscitano, ad es. il colore dei campi, la visione della campagna e la sensazione di pace e tranquillità, etc. Maggiore è il numero dei livelli di codifica e di associazione cui l’informazione (in questo caso la parola “verde”) dà luogo, migliore è la sua memorizzazione.
La memoria è la capacità di codificare, conservare, consolidare, immagazzinare ed infine rievocare informazioni ed esperienze derivate dall’ambiente e dall’attività di pensiero. La memoria, usualmente ritenuta una funzione singola o unitaria, è costituita da differenti e specifiche attività mnesiche elaborate in stadi successivi e distinti. Lesioni cerebrali localizzate in sedi diverse possono determinare compromissioni selettive della memoria, cioè alcune funzioni mnesiche possono essere conservate ed altre possono essere ridotte o annullate. La dimostrazione di questa affermazione è fornita da molti casi clinici e in particolare dal noto e ampiamente studiato malato HM (Scoville e Milner, 1957) sottoposto a lobectomia temporale bilaterale, inclusa l’asportazione di entrambi gli ippocampi, per una grave forma di epilessia. Dopo l’intervento chirurgico il malato era in grado di apprendere e ritenere nuove capacità pratiche e di ricordare eventi verificatisi molti anni prima, ma era incapace di ricordare nuove informazioni ed eventi in corso di svolgimento o accaduti solo poche ore prima. L’apprendimento può verificarsi in maniera consapevole realizzando la memoria esplicita, oppure in maniera inconsapevole quando riguarda attività, compiti e abilità pratiche, realizzando la memoria implicita.
MEMORIA ESPLICITA – La memoria esplicita o dichiarativa si distingue in: memoria semantica e memoria episodica.
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La memoria semantica contiene le informazioni relative al nostro patrimonio di conoscenze e include il significato delle parole, le regole grammaticali e sintattiche, le regole del calcolo. Queste informazioni sono indipendenti da un contesto temporale o spaziale e rispecchiano il significato concettuale delle acquisizione accumulate e quindi si riferiscono a una generalizzazione delle informazioni. Ad esempio: una tazza è riconosciuta come tazza, indipendentemente da forma, dimensioni, decorazioni , elementi che possono renderle estremamente diverse tra loro. Infatti, al processo di elaborazione mentale viene fornita l’evocazione di una rappresentazione interna, depositata nel magazzino della memoria a lungo termine. La memoria episodica si riferisce ai ricordi coscienti di esperienze passate e si distingue in memoria biografica, che mantiene i ricordi personali, e memoria prospettica che riguarda la memoria delle azioni da intraprendere nel futuro e l’apprendimento didattico. L’attività funzionale della memoria esplicita è in rapporto con il fattore temporale, e si riconosce una memoria a breve termine (o memoria primaria) ed una memoria a lungo termine (o memoria secondaria). La memoria a breve termine ha la possibilità di richiamare l’informazione immediatamente dopo la sua presentazione e possiede una limitata capacità di immagazzinamento. Esistono diverse forme di memoria a breve termine ed una memoria a brevissimo termine sarebbe la memoria visiva o iconica, ritenute in rapporto al persistere delle immagini retiniche postume, e la memoria uditiva o ecoica, in rapporto con le caratteristiche funzionali del complesso cocleare. La memoria a breve termine rappresenta uno stadio in cui l’informazione viene temporaneamente ritenuta, in rapporto al fattore attenzione e al significato emotivo per il soggetto. La memoria a breve termine ha un magazzino di limitata capacità (non più di 7 unità o item) e
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durata, ma consente di integrare i dati raccolti con i ricordi della personale esperienza e con le informazioni che continuano ad affluire dall’esterno, realizzando la funzione che è stata definita “memoria di lavoro”. La memoria a breve termine, come memoria di lavoro, può essere considerata un sistema di confronto dinamico dei dati e consente una continuità temporale e spaziale tra l’esperienza passata e l’azione attuale. La sua importanza risulta evidente se si pensa, ad esempio, alla condizione in cui si cerca di capire un discorso il cui senso sarà chiarito solo alla fine. Nella frase: “egli si rivolse al giudice e protestò energicamente, dicendo che il suo avversario violava le regole usando una racchetta da tennis con le corde tese in modo illecito” è difficile dire, prima della fine della frase, se la scena si svolge su un campo da tennis o in tribunale. Per poter giungere a questa conclusione bisogna che il materiale venga ritenuto per breve tempo nel magazzino e confrontato con gli altri elementi man mano che vengono percepiti. Una qualche forma di memorizzazione temporanea è necessaria per una grande varietà di compiti, come l’aritmetica mentale, il ragionamento e la soluzione di problemi. Anche se intesa come processo unitario, la memoria di lavoro opererebbe come una serie di subsistemi controllati da un sistema esecutivo di limitata capacità, direttamente sotto il controllo dell’attenzione. In particolare esisterebbero due sistemi principali: a) utilizzazione del materiale verbale (loop fonetico-articolatorio) testabile formalmente con il digit span), b) utilizzazione del materiale visuo-spaziale ( cosidetto taccuino visuospaziale, testabile formalmente con il test di Corsi). Questi due sistemi sarebbero sotto il controllo e l’effetto integratore di un “sistema supervisore centrale”.
In sommario: la memoria a breve termine, utilizzata come memoria di lavoro, ha la funzione di acquisire e mantenere l’informazione e di usarla per guidare il comportamento anche senza aiuto e indicazioni esterne. Attraverso processi mentali di consolidamento (ad es. la ripetizione evidente o silente), si produce una continua reiterazione della traccia mnesica che aumenta la probabilità di passare alla fase successiva di immagazzinamento e, quindi, di apprendimento e ricordo.
L’elaborazione dell’informazione audio e visuo-spaziale della memoria di lavoro sembra, sulla base di studi con RM funzionale, che attivi la corteccia prefrontale dorsolaterale (aree di Brodmann : 9-10-46 e parte dell’area 8 e 47) (v. pag. 518) e la corteccia parietale posteriore, oltre ad altre aree in rapporto con compiti spaziali e non spaziali. La memoria di lavoro è primariamente coinvolta nell’attività che si riferisce alle “funzioni esecutive”, termine recentemente introdotto che si riferisce alle attività rivolte alla risoluzione di nuovi problemi, alla capacità di identificare nuovi obbiettivi e di modificare i propri piani, se necessario, al controllo dei diversi compiti da eseguire, alla modificazione del comportamento in rapporto alla situazione ambientale, all’organizzazione di nuovi schemi per un nuovo comportamento. Questa funzione sarebbe svolta da un complesso circuito che coinvolge la regione prefrontale dorsolaterale e le relative connessioni: testa del caudato e quindi parte del pallido e della sostanza nera e di qui i nuclei talamici anteriori e dorso-mediali (DeLong, 2000) (v. pag.518).
La memoria a lungo termine è in grado di richiamare l’informazione dopo un intervallo di tempo lungo, durante il quale l’attenzione del soggetto è stata focalizzata su altri diversi obbiettivi, e possiede una capacità di immagazzinamento molto vasta. Memoria recente e memoria remota sono termini generici, talora impiegati per indicare ricordi immagazzinati nelle ultime ore, giorni, settimane o mesi rispetto a ricordi che si riferiscono a molti anni precedenti, ed anche all’adolescenza o all’infanzia. Ma non sono riscontrabili limiti temporali precisi per qualificarli, perché non esistono tracce di discontinuità temporale dei ricordi. La distinzione viene utilizzata tuttavia, per le modificazioni che si riscontrano in rapporto con l’età, considerato che i ricordi identificabili come remoti risultano più stabili dei ricordi recenti nei soggetti anziani.
MEMORIA IMPLICITA – La memoria implicita si riferisce alla possibilità di adempiere un compito, di eseguire una serie di azioni anche particolarmente complicate, di mettere in atto abilità manuali, apprese nel tempo, in parte senza rendersene conto e quindi inconsciamente. I fattori
Funzioni nervose superiori
che la possono realizzare sono rappresentati dal condizionamento, dall’innesco visuo-spaziale e verbale, e dalla memoria procedurale, responsabile del deposito di informazioni sul modo di procedere in diverse circostanze e con quel determinato materiale. Questo tipo di memoria non può essere evocato coscientemente in nessun altro modo che con l’esecuzione di quella determinata procedura, essendo la descrizione verbale parziale e incompleta. Basti pensare, in effetti, ad azioni e comportamenti della nostra vita quotidiana: guidare l’automobile, andare in bicicletta, scrivere a macchina, o anche azioni più elaborate, come suonare il piano o il violino. Si tratta quindi di un apprendimento di compiti percettivo-motori non accessibili alla coscienza. Ad esempio, alcuni pazienti non ricordano nulla di eventi passati o della loro vita personale, ma sono in grado di vestirsi, di mangiare, di eseguire attività motorie abituali, cioè di eseguire atti che implicano apprendimenti e che sono divenuti procedure quotidiane abituali. All’opposto sono stati descritti malati di corea di Huntington, in cui queste attività sono specificamente compromesse, mentre la memoria esplicita è relativamente risparmiata o molto meno colpita. Il ruolo della memoria implicita o procedurale, per molti decenni ignorata, può servire a predisporre nuove modalità di intervento per la neuroriabilitazione e, specificamente, per la riabilitazione della memoria. OBLIO E AMNESIA. L’oblio in un soggetto normale si riferisce alla perdita delle informazioni acquisite ed è in rapporto con diversi fattori, a parte le cause patologiche, di cui ricordiamo tra i più rilevanti, il significato personale attribuito all’informazione, l’età avanzata, l’abbondante affluenza di nuove informazioni, responsabili di un processo di interferenza con i ricordi acquisiti. Nel malato con lesioni cerebrali la memoria può essere gravemente danneggiata in assenza di altri disturbi cognitivi realizzando i seguenti deficit amnestici:
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– amnesia anterograda, incapacità a fissare e acquisire nuovi ricordi, come accade tipicamente nei traumi cranici, ma anche nelle psicosi organiche, – amnesia retrograda, incapacità a ricordare avvenimenti accaduti prima dell’instaurazione del quadro patologico, come si osserva nei traumi cranici, in casi di patologia da agenti tossici. Talora il disturbo è misto antero-retrogrado. Va precisato che il termine “amnesia lacunare”, specialmente utilizzato in passato, si riferisce a disturbi di memoria per periodi di tempo ben delimitati e include, quindi, i deficit esclusivamente anterogradi oppure retrogradi, – amnesia selettiva, cioè deficit mnesici selettivi per informazioni verbali e non verbali. Malati sottoposti a lobectomia temporale sinistra hanno difficoltà a ritenere materiale verbale, mentre i lobectomizzati temporali destri hanno difficoltà a ritenere informazioni non verbali (ad esempio, richiamo e riconoscimento di visi). Le strutture interessate sono individuate nel giro fusiforme bilateralmente e nella popolazione neuronale che si trova nella profondità del solco temporale superiore a destra, anche se non è ancora definito se la memoria per gli oggetti e la memoria per le facce sia mediata da strutture cerebrali almeno in parte diverse, – amnesia globale che interessa sia i ricordi recenti che i ricordi antichi, come accade nel decorso delle demenze primarie (v. pag. 000). Nel quadro denominato “amnesia globale transitoria “ (v. pag. 000), la caratteristica essenziale è la limitata durata nel tempo di amnesia prevalentemente anterograda (impossibilità di fissare nuove informazioni) associata ad amnesia per il passato recente con variabile estensione temporale (da qualche ora a qualche anno). – amnesia sistematica o elettiva, riferita al mancato ricordo di un avvenimento o serie di avvenimenti legati a situazioni psicodinamiche, per cui il quadro, molto spesso transitorio, è anche indicato come amnesia psicogena. Le turbe qualitative della memoria comprendenti le illusioni del ricordo o allomnesie, le
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
allucinazioni del ricordo o paramnesie si osservano prevalentemente in malati psichici. Le confabulazioni , falsi ricordi che riempiono lacune mnesiche, si ritrovano in soggetti dementi (v. pag. 000), nella sindrome di Korsakoff (v. pag. 000) e talora anche in patologie diverse con lesione diencefalica (v. pag. 561, demenza talamica). A REE MNESICA.
CEREBRALI ATTIVATE DALLA FUNZIONE
L’utilizzazione delle tecniche di neuroimmagine funzionale ha permesso di raggiungere risultati di rilievo in questo campo rispetto ai dati desunti dagli studi neuropsicologici in malati neurologici o in epilettici dopo interventi neurochirurgici. La memoria di lavoro, cui compete un ruolo specifico nell’apprendimento della lettura, nell’acquisizione del vocabolario e nella comprensione (elaborazione dell’informazione audio e visuo-spaziale), rende attive, sulla base di studi con RM funzionale, le regioni prefrontali, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale (aree di Brodmann: 9-10-12-46) (v. pag. 518) e la corteccia parietale posteriore, oltre ad altre aree in rapporto con compiti spaziali e non spaziali. Le funzioni di memoria a lungo termine sono localizzate in multiple aree cerebrali, anche se i dati attuali non devono ancora essere ritenuti definitivi. La memoria esplicita rende attive le aree temporali mediali bilateralmente, cioè l’ippocampo e le circonvoluzioni paraippocampiche (v. pag. 535). L’amigdala ha importanza solo perché codifica gli stimoli emotivi e fornisce il significato dell’evento che verrà immagazzinato. La memoria episodica attiva l’ippocampo, ma anche la corteccia prefrontale, il giro anteriore del cingolo, la regione del cuneo e precuneo, la corteccia parietale inferiore. Anche il diencefalo e specialmente i nuclei dorsolaterali del talamo, i corpi mammillari e i tratti mamillo-talamici, se lesi bilateralmente, produrrebbero alterazioni nell’immagazzinamento e nella
codificazione dei dati. Il materiale dichiarativo codificato in prima istanza in queste formazioni, verrebbe successivamente distribuito in varie aree della corteccia frontale, temporale e parieto-occipitale. Sulla base dei dati neuropsicologici si ritiene che esistano subsistemi parzialmente indipendenti per ogni specifica funzione (codificazione, immagazzinamento, richiamo) e per le categorie degli elementi da ritenere (oggetti concreti, componenti astratte, colori, facce, etc). ATTIVITÀ NEURALE E MEMORIA. I meccanismi neuromolecolari alla base della memoria sono stati individuati per la memoria a breve termine, in meccanismi spazio-temporali di eccitazione neuronica di per sé labili, mentre per la memoria a lungo termine viene prevista la formazione di nuove proteine e modificazioni funzionali più durature nel tempo (Kandel, 2000). Le attuali conoscenze indicano che i differenti tipi di memoria sono espressione di meccanismi nervosi diversi e, come vedremo, anche di localizzazioni cerebrali diverse. I meccanismi per la memoria a breve termine sono stati individuati in circuiti nervosi detti riverberanti, perchè partono da una cellula nervosa o da un gruppo cellulare e, dopo un tragitto relativamente breve, che può comportare la messa in attività di altre cellule e assoni, ritorna alla cellula o al gruppo cellulare di partenza. Questo meccanismo caratterizzato dalla presenza di uno stimolo in un circuito chiuso potrebbe soddisfare le caratteristiche della memoria a breve termine specialmente per quanto riguarda la labilità e la transitorietà del fenomeno. Sono state elaborate, sulla base di ricerche sperimentali, anche altre ipotesi le quali ritengono che la memoria a breve termine sarebbe innescata dalla produzione di un neurotrasmettitore, responsabile di una serie di eventi che inducono la fosforilazione delle proteine, capace di produrre una modificazione sinaptica a breve termine. I meccanismi messi in opera per consentire la memoria a lungo termine differiscono da quelli per la memoria a breve termine per un fatto essenziale, caratterizzato dalla formazione di nuove proteine. Nella memorizzazione a lungo termine si verifica la formazione di nuove proteine attraverso passaggi ancora sconosciuti, anche se
Funzioni nervose superiori è stata prospettata la sequenza rappresentata dalla trascrizione del DNA in mRNA e la traduzione del mRNA in proteine. In sintesi, i neurotrasmettitori attivano una cascata di eventi che portano, attraverso processi in parte noti, in parte ancora sconosciuti, all’aumento di eccitabilità, fosforilazione di proteine e complessi proteici esistenti oppure formazione di nuove proteine e complessi proteici e potenziamento delle connessioni sinaptiche. Si ipotizza anche che la memoria esplicita sia in rapporto con il fenomeno indicato come “potenziamento a lungo termine “ (LTP) a livello dei neuroni dell’ippocampo. L’attivazione di questi neuroni, ottenuta con una stimolazione ad alta frequenza (40-100 Hz) può produrre un aumento della funzione sinaptica per un tempo molto lungo, che può essere di ore o anche di giorni.
PENSIERO – Rappresenta una funzione per cui il soggetto, attraverso particolari modalità operative, riconosce la realtà, la utilizza con processi di astrazione e di sintesi, forma idee, raffronta diversi contenuti ideatori col ragionamento e ne critica i risultati allo scopo di risolvere compiti specifici, che si era proposto. La delimitazione tra pensiero e intelligenza è ovviamente illusoria, poiché la generale capacità di adattamento a nuovi compiti e a nuovi problemi rappresenta sia una possibile definizione dell’intelligenza sia una caratteristica del pensiero. Nei disturbi formali del pensiero si riscontra: la fuga delle idee, propria degli stati maniacali; rallentamento o inibizione del pensiero, propria degli stati depressivi; la dissociazione, propria degli schizofrenici, e l’incoerenza, propria dei malati confusi. I disturbi formali del pensiero includono anche il pensiero concreto (incapacità ad operare astrazioni con accentuato riferimento alla concretezza degli oggetti) frequente negli schizofrenici, come il deragliamento del pensiero in cui i collegamenti associativi sono alterati e talora non comprensibili. Nelle sindromi demenziali si osserva un impoverimento delle idee, e soprattutto l’incapacità di operare contemporaneamente con idee e rappresentazioni differenti, per cui una rappresentazione permane a lungo quale contenuto predominante del pensiero e diminuisce il nu-
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mero di idee di cui si può disporre contemporaneamente. Le turbe del corso del pensiero sono rappresentate dall’accelerazione e dal rallentamento. Il più rapido fluire della successione delle idee si osserva anche in soggetti normali in particolari stati emotivi o nell’ebbrezza alcolica leggera. L’accelerazione patologica si riscontra, in diversi gradi, nello stato subeuforico e nello stato maniacale, nella mania grave, con la «fuga delle idee» associata a logorrea o verborrea marcata. Accanto alla produzione ideatoria e verbale esagerata si riscontra anche una motilità e una mimica esuberante e instabile, tanto da arrivare all’agitazione motoria; la fuga delle idee, la logorrea e l’agitazione motoria caratterizzano la sindrome di agitazione psicomotoria. L’attività ideatoria ed anche quella motoria possono essere rallentate, tanto da giungere ad un grado di inerzia o di inibizione per cui la semplice risposta ad una domanda è difficile e sembra che il paziente debba superare un grosso ostacolo. Ai gradi estremi si raggiunge l’arresto o blocco psicomotorio, e il soggetto allora è immobile, non parla spontaneamente nè risponde alle domande. La dissociazione ideatoria, che ritroviamo nel pensiero schizofrenico, esprime una sconnessione e un allentamento dei legami dell’associazione delle idee, cioè di quelle qualità che rendono il corso delle idee logicamente conseguente e finalisticamente diretto. L’espressione verbale di questo tipo di ideazione patologica si traduce, all’estremo limite, nell’insalata di parole e frequentemente in un discorso incoerente, molto spesso oscuro, allusivo e difficilmente comprensibile. Nel soggetto schizofrenico poi, il fluire del pensiero può dimostrare un intoppo, cioè un’improvvisa interruzione, che il soggetto vive come l’impressione di un vuoto, ed altri aspetti (come il deragliamento, l’iperinclusività, il pensiero circostanziato, ecc.) per cui si rimanda ai manuali di psichiatria. Nelle malattie mentali, i disturbi del contenuto del pensiero realizzano:
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– le idee prevalenti, idee o gruppi di idee che assumono, per effetto del tono affettivo particolare, preponderanza marcata nel pensiero del soggetto; – le idee deliranti, idee morbose non correggibili dalla critica e dal giudizio, spesso alimentate da percezioni e intuizioni deliranti. Il delirio può essere lucido o confuso, in rapporto allo stato di coscienza; oppure primitivo o secondario, a seconda che sia inderivabile oppure in rapporto a disturbi affettivi o psicosensoriali; strutturato o non strutturato, a seconda se assume precisa configurazione e stabilità, o rimane labile e meno consistente nel tema. Il pensiero compulsivo o ossessivo (anancasmo) indica un’idea o una rappresentazione mentale, intrinsecamente normale, che in maniera incoercibile e persistente disturba il normale flusso ideatorio, nonostante che il soggetto la critichi come abnorme e tenti, seppure senza successo, di liberarsene (parassitismo psicologico). Si distinguono ossessioni ideatorie (tendenza irresistibile a fare somme, ecc.), ossessioni impulsive (il soggetto teme di dover eseguire azioni immorali o assurde, come bestemmiare in chiesa, ecc.). Il soggetto può sentirsi obbligato a compiere azioni (atti compulsivi) che può riconoscere assurde, deve ripetere certi atti (controllare se la porta è chiusa, lavarsi ripetutamente le mani, talora per ore, ecc.) che costituiscono i cerimoniali o rituali (coazioni motorie). La fobia invece è definita come un timore patologico associato a uno stato affettivo penosamente vissuto, riferito a un oggetto o ad una situazione (fobie d’arrossire, fobie per luoghi chiusi, per le malattie, ecc. denominate ereutofobia, claustrofobia, nosofobia, ecc.). L’ossessione si riscontra tipicamente nel gruppo di malattie indicate come neurosi, ma anche nelle distimie e in certi tipi di psicosi organiche da lesione temporale. La fobia non rappresenta un aspetto patologico del pensiero, ma è un disturbo d’ansia. Tuttavia, considerato che è spesso associata a turbe ossessive, realizzando quadri
denominati nevrosi fobico-ossessiva, viene inclusa in questo paragrafo. INTELLIGENZA – L’intelligenza non è definibile o misurabile in sé, ma nella prestazione che il soggetto fornisce, che deve essere, oltre che adeguata, raggiunta in economia. L’intelligenza include, quindi, la capacità di risolvere i problemi, cioè la capacità di utilizzare, in modo appropriato allo scopo, gli elementi del pensiero necessari per impostare e risolvere adeguatamente l’adattamento alle situazioni, oltre alla capacità verbale. In sostanza l’intelligenza riguarda la possibilità di indirizzare verso una scelta precisa e adeguata al problema da affrontare, diverse funzioni che costituiscono la premessa dell’intelligenza, cioè capacità d’apprendimento, memoria, attività ideatoria. Gardner (1983) ritiene che esistano diversi tipi di intelligenza: l’intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale (per l’arte, la navigazione etc), l’intelligenza corporeo-cinestesica (propria di danzatori, atleti, artigiani provetti), intelligenza personale tipo A (sensibilità nel riguardo degli altri), intelligenza personale tipo B (conoscenza e consapevolezza di sé). Del resto è stata anche usata la denominazione di “intelligenza pratica”, cioè la capacità di identificare gli aspetti essenziali di una situazione, di individuare la via adeguata per raggiungere uno scopo, di avere una varietà di interessi per il mondo. Il livello d’intelligenza emerge in parte dall’osservazione, ma può essere valutato più oggettivamente e meglio quantificato con l’uso di tests mentali per l’intelligenza (ad es.: Test di Wechsler-Bellevue per gli adulti; v. pag. 182). Il deficit d’intelligenza congenito o insorgente nella prima età evolutiva, denominato frenastenia o oligofrenia, deve esser distinto dal deficit di intelligenza che colpisce un soggetto adulto con intelligenza già sviluppata che viene denominato demenza. Le demenze sono dovute a cause organiche e dimostrano un deficit delle prestazioni intel-
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lettive, per cui, almeno all’inizio, solo le attività quotidiane più banali possono essere compiute, ma per nuovi compiti, prima correttamente affrontati, il comportamento è inadeguato o errato o di rinuncia. È questo il quadro che appare nella demenza paralitica (v. pag. 000) e nel gruppo delle demenze (v. pag. 000). Talora, nella fase iniziale, prevale in maniera molto appariscente il disturbo mnesico e il quadro viene denominato “presbiofrenia”. Tuttavia, accanto all’evidente deficit mnesico, spesso si associano confabulazioni e impoverimento del patrimonio ideativo e delle capacità critiche. Il termine deterioramento mentale dovrebbe riferirsi alla compromissione dell’attività intellettuale evidenziata dai tests per l’intelligenza (che riportano appunto il quoziente di deterioramento), ma è spesso impiegato come sinonimo di demenza. Il ritardo mentale riguarda il deficit intellettivo che si manifesta durante lo sviluppo, ma a cui oggi viene anche aggiunto il deficit di adattamento (indipendenza, autonomia) e manifestazioni associate (alterazioni neurologiche e internistiche proprie della malattia responsabile del ritardo mentale e alterazioni comportamentali). AFFETTIVITÀ – La terminologia utilizzata è spesso ambigua e diversa secondo gli Autori, specie in rapporto alla lingua utilizzata e, pertanto, ci atteniamo ai termini classicamente utilizzati da Jaspers (1946) e da Schneider (1967). L’affettività indica «il colorito soggettivo» dei processi psichici e quindi la risonanza piacevole o spiacevole, soggettivamente esperita, in rapporto con la realtà vissuta. Lo stato affettivo può essere manifestato in maniera diversa: da comportamenti motori a processi vegetativi, dalle modalità del ricordare e del pensare all’azione volontaria. L’affettività comprende classicamente le emozioni, i sentimenti, l’umore e viene tenuta distinta dai processi intellettivi, anche se è sempre con essi molto strettamente collegata.
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L’emozione è uno stato d’animo reattivo a stimoli intero- o esterocettivi, di intensità marcata, a presentazione improvvisa, di breve durata, accompagnato da fenomeni vegetativi (rossore al viso, aumento della pressione arteriosa, tachicardia, stimolo a defecare etc.). Le emozioni possono essere espresse dal nostro comportamento e dalla mimica. I sentimenti rappresentano stati affettivi abbastanza persistenti nel tempo, che possono essere legati ad avvenimenti esterni ma, forse più spesso, sono in rapporto con situazioni puramente psichiche e quindi connessi con l’attività di pensiero, con la memoria e con l’evocazione di rappresentazioni. L’umore definisce il durevole colorito di fondo di tutti i sentimenti di un determinato soggetto e viene allora inteso come “temperamento”, ma, usualmente, il termine viene impiegato per indicare uno stato affettivo temporaneo e variabile che rappresenta il risultato, soggettivamente esperito, della somma di tutti i sentimenti in un determinato stato di coscienza. Lo stato depressivo consiste nel vivere la propria esperienza con una tonalità affettiva pervasa dalla tristezza, dal dolore, dalla disperazione. Lo stato ansioso o ansia può essere definito come un sentimento di attesa di un pericolo vitale, imminente; se accompagnato da sintomi somatici (sensazione di oppressione toracica) si definisce angoscia. Nella depressione il corso delle idee è inibito e possono esistere idee deliranti (di rovina, di colpa, di autoaccusa, ecc.). L’apatia rappresenta una mancanza marcata di interessi, una indifferenza verso l’ambiente e la propria persona, una sorta di assenza o riduzione della risonanza affettiva che rende il soggetto freddo e staccato. L’apatia si osserva anche in malattie psichiche di genesi organica (sindromi demenziali). Se il tono affettivo è esaltato si ha euforia o subeuforia: il mondo e l’esistenza sono vissuti con particolare vivacità e con tono piacevole. La mania rappresenta il polo euforico della psicosi
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ciclotimica (alternanza di depressione e mania), ma può anche manifestarsi, in altre malattie, come espressione di uno stato affettivo esaltato e rappresenta allora «lo stato maniforme». Il tono dell’umore è esaltato, euforico; i processi ideativi accelerati sino a raggiungere la fuga delle idee, la spinta vitale abnormemente vivace per cui il soggetto è particolarmente attivo, anche se con modalità che non conducono ad un risultato utile. Un misto di indifferenza e di fatua euforia con tendenza al motteggio (moria) si puo osservare nelle lesioni organiche cerebrali focali. Per labilità emotiva si intende una rapida e anormale mutevolezza affettiva, facilità nel passaggio dal riso al pianto e specialmente incontinenza emotiva, cioè reazioni emotive che si manifestano per avvenimenti di scarsa importanza e che il soggetto non riesce a controllare. Oltre allo studio clinico del soggetto può essere indicato avvalersi di tests utili per sondare la sfera affettiva. La personalità La personalità, termine ampiamente discusso nel suo significato e quindi molto diversamente definito, può essere intesa come l’insieme dell’attività di pensiero, affetti e comportamento che l’individuo abitualmente esprime nel suo incessante impegno di adattamento alla realtà. Personalità è spesso usato come sinonimo di carattere, mentre il temperamento rappresenta lo stato affettivo durevole della personalità, cioè l’insieme degli aspetti fondamentali affettivo-emotivi che contraddistinguono un soggetto nell’adattamento alla realtà. Ogni malattia mentale altera la personalità, ma possono essere particolarmente evidenti e clinicamente importanti le alterazioni della personalità nelle sindromi psicorganiche (v. pag. 175). Oltre alle modificazioni della personalità riscontrabili nelle malattie mentali o nei disturbi psicorganici, esistono disturbi duraturi della
personalità a etiogenesi sconosciuta, che, classicamente, erano intesi come deviazioni dalla norma statistica. Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV) i disturbi di personalità vengono distinti in diversi gruppi («Disturbo antisociale di personalità», «Disturbi borderline di personalità» , «Disturbo istrionico di personalità», «Disturbo narcisistico di personalità», ecc) e la loro trattazione riguarda i testi di psichiatria.
Sindromi psichiche da patologia cerebrale o internistica o sindromi psicorganiche Si tratta di sindromi psichiche, transitorie o permanenti, causate da patologia cerebrale o internistica, con caratteristiche cliniche ben differenti da quelle delle malattie mentali primarie. Varie terminologie sono state utilizzate per denominarle, tra cui più recentemente: sindromi cerebrali organiche ; disturbi mentali organici (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, III edizione o DSM III, 1980). Questa terminologia non è riportata nella edizione più recente (DSM IV, 1994), poiché, viene affermato, si potrebbe erroneamente ritenere che le malattie mentali «non organiche» possano non avere un substrato biologico. Nel recente passato la denominazione «Sindromi psicorganiche» (Bleuler, 1957), era usualmente impiegata, ed ancor oggi appare particolarmente utile per indicare sul piano clinico, le sindromi psichiche dovute a lesione cerebrale organica, a patologia internistica, a intossicazioni esogene. La dimostrazione del rapporto causale tra la patologia cerebrale e internistica rilevata e la sintomatologia psichica deve essere concordemente avvalorata dai seguenti elementi: a) accurata valutazione diagnostica della lesione causale sulla base dei dati anamnestici,
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dell’esame obbiettivo generale e neurologico, dei dati di laboratorio e dei dati di neuroimmagine; b) valutazione del rapporto temporale tra evento patologico e sintomatologia psicorganica, valutando l’associazione temporale tra debutto, esacerbazione, eventuale remissione della sindrome psichica e malattia neurologica o internistica causale. Ovviamente anche l’impossibilità, sulla base dei sintomi riscontrati, a formulare una diagnosi di malattia mentale primaria può, in determinati casi, avere un ruolo aggiuntivo di appoggio diagnostico. Come vedremo, infatti, la sintomatologia psicorganica ha, quasi nella totalità dei casi, caratteristiche specifiche e non confondibili. Le sindromi psicorganiche si possono distinguere in quattro gruppi : 1) Sindrome confusionale 2) Sindrome demenziale 3) Sindrome amnestica 4) Sindrome con disturbi di personalità (Sindrome organica di personalità). È indispensabile, tuttavia, sottolineare che, in rapporto alla patologia determinante, i quadri possono sovrapporsi e associarsi, per cui, ad esempio, una sindrome demenziale, una sindrome amnestica e una sindrome con disturbi di personalità potranno essere associate ad uno stato confusionale, una sindrome confusionale potrà regredire e rivelare l’esistenza di una sottostante sindrome demenziale, oppure ancora una sindrome confusionale potrà evolvere in uno stato di coma e, in rapporto alla malattia causale, perfino al decesso. Le cause delle sindromi psicorganiche sono da ricercare nella più varia patologia cerebrale, nella patologia internistica dei vari organi e apparati e nella patologia tossica esogena, particolarmente alcool, sostanze psicoattive e droghe. Al termine della descrizione di ogni sindrome, verranno indicate le cause possibili del disturbo. Anche se ciò comporta qualche ripetizione, permette di attirare l’attenzione su alcune
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patologie che più frequentemente sono responsabili delle sindromi descritte. Sindrome confusionale o stato confusionale acuto Questa sindrome è, specie negli USA, indicatata come «delirium», termine che può creare difficoltà, poiché «delirio», nella psichiatria italiana, ha un significato diverso e ben definito (v. pag. 172), ed è in contrasto con la tradizione europea che si riallaccia allo «Stato confusionale» di Chaslin (1895), termine del resto utilizzato anche in recenti trattati inglesi (Walton, 1993). La sindrome confusionale, caratterizzata da turbe di coscienza, con alterazioni dell’attenzione e della memoria, disorientamento temporospaziale e per le persone, pensiero incoerente, allucinazioni uditive e visive, turbe del ciclo sonno-veglia, con andamento tumultuoso e oscillante nel tempo è riportata a pag. 634. Lo stato confusionale acuto è determinato da: a) patologia cerebrale primaria: – traumi cranici, ematomi subdurali – sindrome di ipertensione endocranica, tumori cerebrali – encefaliti, meningiti – malattie cerebrovascolari – fase ictale e post-ictale dell’epilessia (la sindrome è transitoria) b) patologia internistica: – malattie infettive e infiammatorie (batteriche, virali, protozoarie, fungine etc.) a partenza da vari organi e apparati (polmoni, apparato gastroenterico, apparato urogenitale etc.) – malattie cardiovascolari (infarti, aritmie, collasso cardiaco) – malattie metaboliche: ipo-iperglicemia, uremia, insufficienza epatica, alterazione idroelettrolitiche – malattie endocrine: tiroide, paratiroide, m. di Addison
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c) intossicazioni: esogene: alcolismo, farmaci psicotropi, digitale, cimetidina, anticolinergici, anticonvulsivi; uso di sostanze psicoattive ( cocaina, eroina, anfetamine, miscele di sostanze diverse).
b) intossicazioni (avvelenamento da monossido di carbonio); abuso di sostanze tossiche (soprattutto alcool); sovradosaggio di farmaci sedativi, ipnotici, ansiolitici; uso di sostanze psicoattive.
Sindrome demenziale
Sindrome organica di personalità
La sindrome demenziale, caratterizzata da disturbi mnesici a breve e lungo termine, turbe delle funzioni simboliche, turbe del pensiero, turbe affettive e della personalità, e le relative cause sono riportate a pag. 000-000.
La sindrome rappresenta una netta e persistente modificazione delle precedenti caratteristiche di personalità. Soggetti, precedentemente attivi e impegnati, appaiono inerti, incuranti dei propri compiti familiari e sociali, dell’igiene personale e si dimostrano apatici e abulici. Il comportamento può esser scarsamente controllato, risultandone una condotta impulsiva, con frequenti scoppi di aggressività e di collera non motivati. Gli istinti possono essere ridotti o intensificati, soprattutto quelli elementari, quali sonno, fame, sete, sessualità, per cui si può osservare bulimia o anoressia, insonnia o sonnolenza, inversione del ritmo sonno-veglia (insonnia notturna con bulimia e sonnolenza diurna), ipererotismo con tentativi di compiere atti sessuali in tempi e luoghi non adatti. L’affettività è labile, instabile e si può estrinsecare con aspetti depressivi oppure subeuforici; l’ideazione è caratterizzata da diffidenza e sospettosità, senza giungere a una completa struttura delirante. Alcuni Autori (Kleist, 1934) ritengono che per lesioni frontali e temporali esistano alterazioni da ritenere specifiche. I tumori frontali, pertanto, sarebbero caratterizzati da modificazioni dell’umore, associate a puerili spiritosaggini, grossolane facezie (denominate «moria»), in contrasto con un assoluto disinteresse nei riguardi del proprio stato, del proprio lavoro, della propria famiglia, con incapacità a rappresentarsi il futuro. Il soggetto è trascurato, espansivo in maniera incongrua, ha atteggiamenti megalomanici oppure manca completamente di iniziativa. Nei tumori temporali il malato è instabile,
Sindrome amnestica Si tratta di una sintomatologia consistente esclusivamente in turbe mnesiche, per la memoria a breve e lungo termine, di grado piuttosto rilevante e comunque tali da causare una riduzione della capacità di prestazione nel lavoro, nell’ambito sociale e familiare. Possono essere presenti confabulazioni che tendono a scomparire nel tempo. I disturbi sono più evidenti per i compiti che richiedono memorizzazione spontanea e, in rapporto con la sede di lesione cerebrale, possono prevalere per stimoli verbali o visivi e per i ricordi recenti. Si possono associare anche un disorientamento per spazio e tempo, scarsa iniziativa e apatia (v. pag. 169). Ma il soggetto non è consapevole di tali disturbi, e usualmente non riconosce di averli. Il decorso è in rapporto con la malattia causale e il disturbo può essere transitorio o cronico, o anche ricorrente. Le cause responsabili di una sindrome amnestica sono: a) patologia cerebrale: traumi cranici (anche per interventi neurochirurgici); malattie cerebrovascolari (specie infarto nel territorio dell’art. cerebrale posteriore) (v. pag. 000) e ipossia cerebrale diffusa;
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aggressivo e può compiere atti violenti e si possono associare quadri deliranti simil-schizofrenici. Molti Autori ritengono, invece, che i sintomi psichici siano sostenuti, almeno al debutto, dalle caratteristiche di personalità del soggetto, dalla rapidità di evoluzione della lesione, dalla presenza di una sindrome di ipertensione endocranica, dalla sede della lesione nell’emisfero dominante, piuttosto che essere in diretto rapporto con una specifica localizzazione. Le cause che sostengono la comparsa della sindrome organica di personalità sono rappresentate da: a) tumori cerebrali; c) traumi cranici, con lesioni cerebrali parenchimali o con ematoma subdurale; d) epilessia temporale, nel periodo intercritico; e) encefalopatie infettive e infiammatorie (in particolare HIV); f) assunzione continuata di sostanze psicoattive; e più raramente da: g) malattie neurologiche con evoluzione cronica (sclerosi multipla, corea di Huntington); h) patologia endocrina (tiroidea e surrenalica); i) patologia cerebrale autoimmune (lupus eritematoso). Riassumendo: i sintomi della sindrome organica di personalità sono rappresentati da: – apatia e indifferenza di grado rilevante, – instabilità affettiva con disturbi depressivi o ipomanici e marcata irritabilità, – ricorrenti episodi di aggressività; turbe comportamentali con scarso controllo degli impulsi (atti sessuali compiuti in luoghi e tempi sconvenienti rispetto al giudizio sociale), – turbe del pensiero con ideazione caratterizzata da diffidenza e sospettosità.
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La valutazione neuropsicologica Carlo Serrati
La valutazione neuropsicologica consiste nell’esame delle funzioni cognitive, e si estende alla valutazione degli aspetti emozionali e del comportamento sociale. In passato i test neuropsicologici rappresentavano strumenti di valutazione elettiva delle disfunzioni cerebrali. In alcune condizioni morbose essi rimangono tuttora lo strumento diagnostico principale, anche se il recente avvento delle tecniche di neuroimmagine ha cambiato la prospettiva dell’attività neuropsicologica, volgendola anche alla elucidazione delle specifiche relazioni tra cervello e comportamento, fino alle conseguenze psicosociali del danno cerebrale. In generale, ad un laboratorio di neuropsicologia accedono tre categorie di soggetti: – coloro che soffrono di un danno cerebrale noto, nei quali la valutazione neuropsicologica fornisce informazioni essenziali sulla natura e la gravità dei problemi funzionali, fondamentali ai fini di un programma riabilitativo o di recupero socio-lavorativo del malato. – coloro che presentano fattori di rischio noti per un possibile danno cerebrale, del quale una variazione comportamentale o un disturbo cognitivo potrebbero essere spia (ad esempio, disturbi dell’attenzione successivi ad un trauma cranico). In questo gruppo si inserisce anche il problema, ancora relativamente trascurato, delle relazioni tra malattie internistiche e funzioni cognitive. – coloro che, pur senza evidenti fattori di rischio o cause identificabili di danno cerebrale, presentano una modificazione comportamentale o un disturbo anche solo soggettivo che possono generare il sospetto clinico di una sofferenza organica dell’encefalo, eventualmente in fase di esordio. Il caso paradigmatico è la valutazione in fase iniziale di una demenza e la diagnosi differenziale con le sindromi depressive, tutt’altro che agevole nella pratica clinica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La valutazione nella pratica clinica Un importante problema preliminare è la selezione dei soggetti che hanno probabilità di trarre vantaggio dalla somministrazione dei test neuropsicologici. Spesso infatti le richieste vengono formulate con modalità aspecifiche e senza interazione con chi dovrà valutare la prova neuropsicologica. Talora la valutazione neuropsicologica finisce, in realtà, per sostituire la valutazione clinico-anamnestica che dovrebbe essere effettuata dal medico nel corso della visita. La valutazione mediante test dovrebbe essere sempre preceduta da un’analisi clinico-anamnestica da parte di chi scriverà il referto finale, nel quale si integreranno l’impressione clinica ed i dati qualitativi e quantitativi dei test. È importante illustrare al malato lo scopo della valutazione neuropsicologica, precisando che la scoperta o la conferma di eventuali “punti deboli” è la premessa per una corretta terapia o un adeguato programma riabilitativo. È opportuno che la valutazione neuropsicologica vera e propria sia preceduta dalla raccolta dei dati anamnestici effettuata dal neurologo, con particolare riferimento al motivo della valutazione ed alla descrizione del problema diagnostico. A questa fase preliminare fa seguito un’intervista mirata e sistematica sulle funzioni cognitive, secondo uno schema strutturato con il malato e, se possibile, anche con un familiare. L’insieme dei dati raccolti produce un protocollo di valutazione che, pur seguendo linee guida generali, risulta mirato per ogni singolo soggetto; in altre parole, la scelta dei test è guidata da un’ipotesi eziologica sui disturbi cognitivi da accertare. Questo approccio è preferibile all’uso sistematico di batterie fisse di test, spesso dispendiose in termini di tempo e di risorse umane. Una preliminare suddivisione delle funzioni cognitive, in apparenza piuttosto grossolana ma molto utile nella pratica clinica, distingue: – funzioni distribuite (ad esempio: orientamento, attenzione, memoria)
– funzioni localizzate (ad esempio: linguaggio); Una successiva importante distinzione riguarda gli effetti di un danno a livello corticale e sottocorticale: – le lesioni corticali, delle quali la malattia di Alzheimer è esempio tipico, si caratterizzano per deficit isolati delle singole funzioni corticali. – le lesioni sottocorticali (ad esempio, del talamo e dei nuclei della base) possono essere espresse dalla perdita o dalla riduzione dell’integrazione e dell’organizzazione delle funzioni corticali.
Principali test neuropsicologici in relazione alle diverse funzioni cognitive FUNZIONI DISTRIBUITE (a) Orientamento: in genere non si utilizzano test strutturati. Il Mini Mental State Examination (MMSE) (v. pag. 000) presenta una sezione iniziale che valuta l’orientamento nel tempo (data, giorno della settimana, mese, stagione, anno) e nello spazio (edificio, piano, città, regione, stato). (b) Attenzione: tra i test strutturati si ricordano il Digit Span (ripetizione seriale di numeri in quantità crescente), le Matrici Attentive (segnare in una matrice di numeri alcuni numeri indicati all’inizio del test); il PASAT (viene richiesto di sommare coppie di numeri presentati verbalmente, in rapida successione: ad esempio nella sequenza 1 – 3 – 2 – 9…, il soggetto risponde 4 dopo 1 – 3, 5 dopo il 2, 11 dopo il 9 e così via); il Trail Making Test (si richiede di unire a penna in sequenza alternata lettere e numeri in successione). Nel MMSE, l’attenzione ed il calcolo vengono testati sottraendo ripetutamente 7 a partire da 100. (c) Memoria: la capacità di apprendere nuove informazioni (memoria anterograda) viene testata sul piano verbale chiedendo di ripetere liste di parole più o meno complesse, o un rac-
Funzioni nervose superiori
contino strutturato (test di memoria logica). Nel MMSE si richiede di ripetere tre parole immediatamente (memoria a breve termine), e poi di rievocarle dopo un compito distraente (memoria a lungo termine o di rievocazione). La memoria visuospaziale viene testata chiedendo di ridisegnare, dopo un intervallo di tempo, figure complesse precedentemente copiate (ad es. Figura di Rey); questa forma di memoria non viene testata nel MMSE. La memoria retrograda, che riguarda informazioni strutturate, è difficile da valutare con test formali. Esistono, comunque, test che valutano informazioni autobiografiche (memoria episodica) o test di memoria semantica, raramente applicati nella pratica clinica. (d) Funzioni frontali: Il MMSE non testa specificamente le funzioni frontali; disturbi lievi (v. pag. 000) spesso possono sfuggire se non sono indagati specificamente. I test utilizzati per indagare queste funzioni comprendono: – Stime cognitive, con le quali si richiede al soggetto una serie di valutazioni quantitative effettuate con l’approssimazione del “buon senso” (ad esempio: quanti cammelli ci sono in Italia?). – Giudizi di somiglianza/diversità (ad esempio, che cosa hanno in comune una pera e una mela?). – Capacità astrattiva, che in genere viene testata con l’interpretazione di proverbi o la critica di storie assurde. – Iniziativa verbale, che viene testata con i test di fluenza verbale. Si distinguono fluenze semantiche (ad esempio, dire tutti i nomi di animale che vengono in mente in un minuto) e fonemiche (ad esempio, dire in un minuto tutti i nomi di oggetti che iniziano per “F”). Il test è particolarmente sensibile alle lesioni delle connessioni tra nuclei della base e lobi frontali. – Flessibilità di pensiero e formazione di concetti, vengono testate, ad esempio, con il Wisconsin Card Sorting Test. Si richiede all’individuo di classificare stimoli successivi presentati con carte secondo categorie predefinite;
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la scelta della categoria è assunta dall’esaminatore che non la comunica, ma che volta per volta informa il soggetto della correttezza o meno della scelta. Il compito del soggetto è trovare il criterio corretto per tentativi successivi. L’esaminatore, dopo un po’, cambierà il criterio, costringendo il soggetto ad individuarlo nuovamente senza perseverare nel precedente. Funzioni localizzate EMISFERO DOMINANTE Linguaggio. La valutazione del linguaggio, ed in particolare la capacità di comprensione, può inficiare la somministrazione di qualunque test e quindi, almeno in termini grossolani, dovrebbe precederne la somministrazione. Il linguaggio spontaneo viene valutato nel corso dell’intervista; esistono schemi strutturati che consentono di quantificare gli errori (Aachener test, ad esempio); in questa fase è altresì opportuno testare la capacità comunicativa (utilizzando ad esempio la Scala di Goodglass Kaplan). Le singole funzioni linguistiche possono essere poi testate con prove di: – denominazione (ad esempio, nominare alcuni oggetti) – ripetizione (ripetere una frase complessa, ad es. “niente se, ma o però”) – comprensione (ad es. chiedere al soggetto di eseguire un compito in tre fasi “prenda questo foglio, lo pieghi e lo metta sul pavimento”; si possono utilizzare test strutturati complessi come il Test dei Gettoni) – lettura (si chiede al soggetto di leggere parole o frasi strutturate) – scrittura (si chiede al soggetto di scrivere una frase anche semplice). Esistono, inoltre, test strutturati, particolarmente complessi, che consentono di valutare deficit fini del linguaggio e di categorizzarli adeguatamente (A.A.T., B.A.D.A.).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Emisfero non dominante
Interpretazione dei test neuropsicologici
Le lesioni dell’emisfero non dominante di lieve intensità, se non ricercate specificamente, possono passare inosservate. Le capacità visuo-costruttive possono essere formalmente testate con la copia di disegni (ad esempio, con la Figura complessa di Rey, che consente di quantificare la prestazione secondo tarature precise). Nel MMSE si richiede di copiare due pentagoni che si intersecano. Le capacità attentive per lo spazio vengono testate con batterie apposite (BIT, Behavioural Inattentive Test), che valutano sia aspetti formali (es. cancellazione di linee) che possibili ricadute nella vita quotidiana. Alcune forme di agnosia, infine, si prestano particolarmente a test specificatamente strutturati (ad es. Test di riconoscimento di visi di Benton, per la prosopoagnosia).
Presupposto indispensabile per l’attendibilità del risultato dei test neuropsicologici è la collaborazione attiva del soggetto. Nell’interpretazione dei test devono essere tenuti presenti alcuni aspetti critici: a) Si devono usare test costruiti secondo criteri neuropsicologici precisi ed esplicitati, di cui sia disponibile una taratura; in altre parole ogni test dovrebbe consentire di confrontare la prestazione del singolo malato con quelle di una popolazione di soggetti sani, di equivalente classe di età e scolarità. In tale modo al risultato del test può essere attribuito un “punteggio equivalente”, che esprime l’entità dello scostamento della prestazione individuale dalla media della popolazione di riferimento. In una distribuzione normale delle prestazioni, generalmente, si considerano patologiche quelle inferiori a due volte la deviazione standard o al 5° percentile. b) L’età e la scolarità influenzano fortemente le prestazioni; anche dopo le opportune correzioni dei valori grezzi dei punteggi, queste due variabili vanno sempre considerate nella stesura del referto finale. c) La motivazione è un elemento critico; alcuni neuropsicologi ritengono di poter individuare profili tipici per un deficit di motivazione. In generale, tuttavia, l’osservazione clinica è più attendibile. d) L’abitudine ad eseguire prestazioni cognitive sotto stress può fornire prestazioni falsamente negative. e) Deficit visivi ed uditivi, se non segnalati, possono portare ad interpretazioni aberranti dei test. f) I quadri depressivi possono alterare fortemente le prestazioni cognitive. Anche se esistono profili neuropsicologici significativi in tal senso (dissociazioni nelle prestazioni tra i diversi subtest, incongruenze etc), il giudizio clinico resta della massima importanza. g) La valutazione degli aspetti qualitativi dei singoli test è comunque fondamentale (ad esem-
TEST DI STATO MENTALE Il termine, non felicissimo, fa riferimento a test comprensivi della maggior parte delle funzioni precedentemente descritte. Il più utilizzato è il già citato Mini Mental State Examination (v. Tab. 6.1) È un test semplice, di rapida somministrazione e con elevata concordanza tra operatori diversi; i limiti del test sono un certo sbilanciamento verso le funzioni linguistiche, e la possibilità di falsi positivi per danni funzionali lievi, spesso dell’emisfero non dominante, ed anche di falsi negativi considerato che il test non esplora le funzioni frontali. Il punteggio totale è di 30/30. Va sottolineato che i punteggi non esprimono misure lineari, per cui, ad esempio, un punteggio di 20/30 non significa deterioramento cognitivo di 1/3 per cui è importante precisare la distribuzione delle prestazioni patologiche in rapporto ai singoli subtest.
Funzioni nervose superiori
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Tabella 6.1. MINI-MENTAL STATE MMSE
❑
Test somministrabile
EVALUATION
SI
❑
NO
In che anno siamo? (0-1) In che stagione siamo? (0-1) In che mese siamo? (0-1) Mi dica la data di oggi? (0-1) Che giorno della settimana è oggi? (0-1) Mi diva in che Nazione siamo? (0-1) In quale regione italiana siamo? (0-1) In quale città ci troviamo? (0-1) Mi dica il nome del luogo dove ci troviamo? (0-1) A che piano siamo? (0-1) Far ripetere: “pane, casa, gatto”. La prima ripetizione dà adito al punteggio. Ripetere finché il soggetto esegue correttamente, max 6 volte (0-3) Far contare a ritroso da 100 togliendo 7 per 5 volte 93 ❑ 86 ❑ 79 ❑ 72 ❑ 65 ❑ (se non completa questa prova, allora far sillabare all'indietro la parola Mondo (0-5) O ❑ D ❑ N ❑ O ❑ M ❑ Chiedere la ripetizione dei tre soggetti precedenti (0-3) Mostrare un orologio e una matita ciedendo diodirne il nome (0-2) Ripetra questa frase: “tigre contro tigre” (0-1) Prenda questo foglio con la mano destra, lo pieghi e lo metta sul tavolo (0-3) Legga ed esegua quanto scritto su questo foglio (chiuda gli occhi) (0-1) Scriva una frase (deve contenere soggetto e verbo) (0-1) Copi questo disegno (pentagoni intrecciati) (0-1) Punteggio massimo totale = 30 Punteggio totale Punteggio totale corretto per età e scolarità
AGGIUSTAMENTO DEL
MMSE PER CLASSI
DI ETÀ
ED EDUCAZIONE NELLA POPOLAZIONE ITALIANA
Intervallo di età Anni di scolarizzazione 0-4 5-7 8-12 13-17
❑
❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑
Tabella 6.1bis COEFFICIENTI DI
❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
+0,4 -1,1 -2,0 -2,8
+0,7 -0,7 -1,6 -2,3
+1,0 -0,3 -1,0 -1,7
+1,5 +0,4 -0,3 -0,9
+2,2 +1,4 +0,8 +0,3
Il coefficiente va aggiunto (o sottratto) al punteggio grezzo del Mmse per ottenere il punteggio aggiustato.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
pio: individuazione di attività confabulatoria al Test del Raccontino). Stesura del referto L’attività di refertazione è particolarmente impegnativa dovendo unificare in modo critico i dati raccolti dall’intervista clinica con i dati qualitativi e quantitativi dei test. Spesso, infatti, è proprio la contraddittorietà della prestazione ai test rispetto ai dati clinici, oppure, all’opposto, la sua coerenza, a consentire di risolvere il problema diagnostico. In secondo luogo, benché la responsabilità diagnostica spetti in ultima analisi al clinico che ha richiesto la valutazione neuropsicologica, quest’ultima assume un peso decisivo in alcune condizioni morbose (ad esempio, diagnosi precoce di demenza). In terzo luogo, la valutazione neuropsicologica è essenziale per indirizzare il malato ad uno specifico programma riabilitativo. Infine, la valutazione neuropsicologica assume spesso un rilevante valore medico–legale; in quest’ambito, si tende ancora ad utilizzare in modo eccessivo e spesso improprio il W.A.I.S. (Wechsler Adult Intelligent Scale). Il test, che è uno dei più noti “test di intelligenza”, nel suo punteggio totale quantifica un livello di generica efficienza mentale, ma consente poche inferenze sul piano neuropsicologico. Il test può avere una limitata utilità in quelle situazioni medico-legali nelle quali è richiesto di accertare le generiche capacità intellettuali del soggetto (ad esempio in rapporto a quesiti sulla capacità di intendere e di volere in materia penale o sulla capacità di agire in materia civile), ma il suo impiego non è appropriato per stabilire le caratteristiche e l’entità di un danno cognitivo conseguente ad una lesione cerebrale, per esempio di tipo traumatico. Un referto di esame neuropsicologico dovrebbe perciò contenere i seguenti elementi: a) una sintesi del problema diagnostico;
b) una tabella riassuntiva dei test eseguiti, con l’indicazione quanto meno dei punteggi grezzi; c) una breve conclusione, con indicazioni diagnostiche più precise possibili (ad esempio, diagnosi di sindrome; esclusione di attribuzione del problema ad aspetti depressivi e/o funzionali; etc.); d) un giudizio sull’opportunità di controlli a distanza di tempo in caso di dubbio.
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Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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7. Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali C. Loeb
Nervi cranici GENERALITÀ I nervi cranici sono 12, anche se il primo (nervo olfattorio) ed il secondo (nervo ottico) non possono essere considerati propriamente nervi, ma sono piuttosto estroflessioni cerebrali. Mentre nel midollo spinale esistono quattro categorie di fibre: le fibre efferenti distinte in somatiche e viscerali, le fibre afferenti distinte in somatiche e viscerali, le fibre dei nervi cranici presentano qualche ulteriore particolarità. I nuclei e le fibre efferenti che si distribuiscono ai muscoli striati sono indicate come fibre e nuclei somatici efferenti generali (nuclei del III, IV, VI, XI, XII nervo cranico). Le cellule di questi nuclei sono morfologicamente analoghe alle cellule delle corna anteriori del midollo. Lateralmente ai nuclei somatici efferenti generali si trovano altre due categorie di nuclei efferenti. Le fibre dei nuclei che si trovano nella colonna mediale si distribuiscono a muscoli striati sviluppati dagli archi branchiali e cioè muscoli masticatori e in più ventre anteriore del digastrico e miloioideo (primo arco branchiale); muscoli mimici e in più ventre posteriore del digastrico e stiloioideo (secondo arco branchiale); muscoli del faringe e del laringe (terzo e quarto arco branchiale). I nuclei sono quelli del V, VII paio dei nervi cranici e il nucleo ambiguo, e forse l’XI. Questi nuclei e fibre costituiscono la porzione somatica efferente speciale. Le fibre che nascono dalla colonna grigia situata più lateralmente alla precedente, rappre-
sentano le vie efferenti viscerali generali. Si tratta del n. di Edinger Westphal del III, del n. salivatorio superiore (VII paio) e salivatorio inferiore (IX paio) e del n. motore dorsale del vago (X paio): innervano muscoli lisci e ghiandole (lacrimali e salivari). Le vie afferenti che raggiungono la colonna grigia, lateralmente al solco limitante interno, sono definite viscerali generali afferenti. Tale colonna grigia è il nucleo del tratto solitario, che si estende lungo tutto il bulbo e che riceve fibre che passano attraverso il n. intermediario, il IX, il X. Le fibre che convogliano stimoli gustativi sono indicate come afferenti viscerali speciali, altre che convogliano impulsi viscerali sono indicate come viscerali afferenti generali. I nuclei che ricevono vie afferenti somatiche generali si trovano nella porzione più laterale del tegmento e si riferiscono a fibre che trasportano la sensibilità cutanea superficiale (e forse profonda) e giungono ai nuclei sensitivi del V paio. I nuclei che ricevono vie vestibolari e cocleari sono indicati come nuclei e fibre somatiche afferenti speciali. Riassumendo si può quindi osservare che i nuclei motori (efferenti) sono disposti medialmente, mentre i nuclei sensitivi (afferenti) sono localizzati lateralmente (Fig. 7.1). In senso medio-laterale, avremo perciò: A. Nuclei e vie efferenti 1. Somatiche generali per i muscoli striati (III-IV-VI-XI - branca spinale - XII paio di nervi cranici)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
2. Viscerali SPECIALI, per i muscoli derivati da: 1° arco branchiale (muscoli masticatori; ventre anteriore digastrico; miloioideo) (V paio) 2° arco branchiale (muscoli mimici; ventre posteriore vie efferenti digastrico; stiloioideo) (VII paio) 3°- 4° arco branchiale (muscoli del faringe e laringe) (IX-X-XI paio di nervi cranici – nucleo ambiguo) GENERALI, per muscoli lisci e ghiandole (lacrimali e salivari) (III, nucleo di Edinger Westphal; VII, nucleo salivatorio superiore; XI, nucleo salivatorio inferiore; X, nucleo motore dorsale). B. Nuclei e vie afferenti 1. Viscerali SPECIALI: convogliano stimoli gustativi (VIIIX-X paio) GENERALI: convogliano stimoli dalla porzione posteriore della lingua (IX), dal faringe, laringe, trachea, esofago, visceri toracici e addominali (IX paio; X paio) 2. Somatiche SPECIALI: convogliano stimoli acustici e dai canali semicircolari (VIII paio) GENERALI: convogliano stimoli dalla cute e dalle mucose a livello del capo (V-VII paio e in parte IX e X) (e per stimoli propriocettivi III- IV-V paio)
Il capitolo sui nervi cranici è stato organizzato tenendo contro di un criterio eminentemente funzionale. Comprende quindi 1) le funzioni e le alterazioni dell’olfatto e del gusto che coinvolgono il primo nervo cranico o nervo olfattorio e parzialmente i nervi cranici V, VII, X e XI; 2) la neuroftalmologia in cui vengono descritte la funzione visiva e l’oculomozione (nervi cranici II, III, IV, VI); 3) la neurotologia che descrive i sistemi uditivo e vestibolare (VIII nervo cranico); 4) la descrizione sistematica delle funzioni dei nervi cranici V, VII, X, XI e XII; 6) le lesioni combinate dei nervi cranici.
I Sensi Chimici: Olfatto e Gusto A. Seitun Olfatto e gusto sono accomunati da qualità uniche nell’ambito dei sistemi sensoriali dell’uomo. Entrambi i sensi permettono di avvertire e riconoscere la presenza di esigue tracce di molecole volatili (cavità nasale → odori) o in soluzione (cavità orale → sapori) attraverso sen-
Fig. 7.1 - Rappresentazione schematica dei nuclei di origine dei nervi cranici sulla faccia dorsale (A) e laterale (B) del tronco cerebrale (da C. Loeb, «Trattato Italiano di Medicina Interna», USES, Firenze, 1974).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
sibilissimi chemorecettori di cellule altamente specializzate, ma a ciclo vitale paradossalmente effimero (olfattive: 30-60 giorni; gustative: 10 giorni), in palese contrasto con il principio di perennità di ogni altra cellula nervosa. L’opportunità di accomunare olfatto e gusto in un unico capitolo non è dettata solo da questioni di affinità neurobiologica, piuttosto dal fatto che questi sensi armonicamente regolano le scelte edoniche oro-alimentari, le pulsioni ed il comportamento, preparano l’apparato digerente alla digestione dei cibi, e permettono anche l’unica possibile difesa da sostanze tossiche (veleni alimentari o ambientali) o pericoli imminenti (odore di fumo) altrimenti non percepibili. Lo strategico posizionamento di olfatto e gusto in sedi anatomiche molto vicine, strettamente connesse per via aerea (rinofaringe – cavità nasali) ed accomunate da una ricca innervazione sensitiva mucosa (trigeminale), non sembra affatto casuale, poiché permette di fondere aromi, sapori e sensazioni tattili e termiche in un’unica esperienza percettiva impregnata di significati emozionali e di ricordi, che globalmente – ed impropriamente – siamo abituati a definire “gusto” dei cibi. Il significato e l’ulteriore elaborazione fantastico-rievocativa di questa esperienza può essere straordinariamente variabile, ed è stato finora una specie di leit-motif di molta grande letteratura. L’incredibile dipanarsi dei ricordi nella “A la recherche du temp perdu” di Proust, innescato dalla semplice degustazione di un cucchiaino di thé con una briciola di madeleine (“Du côté de chez Swann”, 1913), è più che sufficiente a giustificare l’affermazione che “nulla può far rivivere il passato meglio degli odori” (Vladimir Nabokov). È altresì vero che nella nostra vita quotidiana, sempre più cerebrale poiché basata su vista ed udito, le sensazioni olfattive e gustative spesso si fermano a semplici impressioni di «gradevolezza» o «sgradevolezza» (o meglio, disgusto). Il modo con cui si per-
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cepiscono gli odori ed i sapori, così come il significato estetico e di piacere o dispiacere che viene loro attribuito, dipende molto anche dal contesto sociale ed intellettuale nel quale si è cresciuti (Jha, 1999), e ciò sta alla base di molte curiose differenze etniche, tipicamente espresse nell’uso - o rifiuto - gastronomico di aromi, spezie, varietà di cibo1 . L’impatto di questi sensi sulla vita istintivo-affettiva è noto fin dall’antichità, ma è stato portato agli estremi letterari solo recentemente (“Colui che domina gli odori domina il cuore degli uomini”, Süskind 1985). Curiosamente trascurata è invece l’impenetrabilità delle memorie olfattive e gustative come tali agli sforzi del nostro ricordo (“la memoria può riportare in vita qualunque tipo di ricordo, salvo quello degli odori”, Vladimir Nabokov). La spiegazione di questi e molti altri aspetti soggettivi della nostra esperienza chemio-sensoriale è stata finora alquanto elusiva, non andando oltre alla constatazione che olfatto e gusto hanno come principale epicentro anatomo-funzionale l’allocortex (o archicortex) del sistema limbico anziché la neocorteccia.
L’integrarsi e fondersi delle due sensazioni in un’unica complessa esperienza sensoriale si può perdere anche per isolate disfunzioni olfattive o del gustative, che difficilmente sono riconosciute come tali da chi per la prima volta le esperimenta, e che non sono nemmeno facilmente quantificabili in maniera obbiettiva. In questi casi, non vi è da sorprendersi se il disturbo più comunemente riferito consiste in una perdita di “appetibilità” dei cibi (diventati privi di “gusto”) o in una generale disappetenza, di per sé piuttosto aspecifica se non corredata di ulteriori, più precise informazioni. Il neurologo è raramente interpellato per primo per disturbi dell’olfatto o del gusto, poiché i malati, attraverso il medico di famiglia o direttamente, quasi sempre si rivolgono – e rimangono in carico –all’otorinolaringoiatra. La mancanza di sollecitazioni ha condizionato nel tempo una diffusa mancanza d’interesse e di cultu1
In Cina, ad esempio, si pensa che bere latte faccia emanare odori sgradevoli, ed è forse per questo motivo che nella sterminata gastronomia cinese non viene proposto alcun latticino.
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ra della comunità neurologica verso questi disturbi, rafforzando l’opinione che spetti ad altri occuparsene. È appena il caso di sottolineare che i disturbi chemopercettivi non sono dissimili da quelli visuo- ed audiopercettivi (vedi Neurooftalmologia e Neurootologia), ed implicano altrettante competenze specialistiche multisciplinari, nell’ottica di risolvere nella maniera cooperativa più colta, efficiente e rapida i problemi chemosensoriali che possono affliggere un soggetto altrimenti sano.
Olfatto (I - Nervo olfattivo - Sistema Vomero-Nasale - Nervo Cranico 0) In media, una persona impiega 5 secondi per respirare, 2 secondi per inspirare e 3 per espirare. In un anno, respiriamo mediamente 6.307.200 volte, e ad ogni respiro, siamo in grado di avvertire migliaia di odori, e di distinguerne fino a 5000 differenti tipi (Buck, 2000a,b). L’olfatto è 10 volte più sensibile del gusto, ma nonostante sia un senso incredibilmente preciso, non permette di comunicare tutte le varie sfumature di un odore a chi non l’abbia già provato2. A parte i gemelli monozigoti, ciascuno di noi ha anche un proprio “odore” impalpabile unico, geneticamente codificato e simile ad una vera e propria impronta digitale da noi stessi riconoscibile (Lord e Kasprzak, 1989) e capace di attivare nell’altro sesso specifiche aree cerebrali, come è stato recentemente dimostrato mediante la PET (Savic et al., 2001b; Sobel e Brown, 2001). Tale proprietà, ben sviluppata nel mondo animale macrosmatico e globalmente riferibile a specifiche miscele di «feromoni» (cfr. Weller, 1998) nell’uomo sembra essere correlata al biotipo MHC-HLA, ed avere specularmente, in altre persone della stessa specie, ma di sesso opposto, un corrispettivo corredo di recettori olfattivi per il suo riconoscimento. 2
La scarsità del vocabolario odoroso dipende dalla difficoltà a rievocare la sensazione di un odore dal suo eventuale nome.
Quindi, l’olfatto ingloba un “sesto senso” inconscio, che nella specie umana appare in qualche modo coinvolto in preferenze e selezioni biosessuali sottilmente finalizzate alla scelta di idonei istotipi (Jacob et al., 2002). Il corrispettivo sistema anatomico utilizza una via olfattiva accessoria, costituita dal sistema dell’organo vomero-nasale (VNO) (Keverne, 1999) e dal sistema di rilascio gonadotropinico GnRH (o LHRH) costituito dal nervus terminalis, detto anche Nervo Cranico 0 (zero). Storicamente, il sistema olfattivo si è prestato più d’ogni altro allo studio neuromorfologico mediante metodi di impregnazione argentica, grazie alla sua citoarchitettonica laminare abbastanza semplice ed alla presenza di tipi neuronali ben distinguibili fra loro, contribuendo in maniera fondamentale all’elaborazione della classica «dottrina del neurone» (Cajal, 1911, 1955). Questo periodo di grande interesse, compreso nel periodo fra fine dell’800 e primo ‘900, fu seguito da un periodo di relativo silenzio fino agli anni ’50-’60, quando la moderna neurofisiologia e la microscopia elettronica permisero di intuire che la semplicità strutturale del sistema olfattivo era solo apparente, e che la sua organizzazione funzionale andava ben oltre lo schema della dottrina del neurone come era stata formulata in semplici termini di “modello motoneuronale” (Shepherd, 1974). Nel ventennio successivo, evidenze ultrastrutturali, neuroanatomiche, elettrofisiologiche e neurochimiche contribuirono a rafforzare ulteriormente questo sospetto, senza permettere, tuttavia, di formulare ipotesi attendibili su come riusciamo a percepire e distinguere migliaia di differenti odori. Complessivamente, non v’è dubbio che il sistema olfattivo sia stato il sistema sensoriale più a lungo negletto, sia sul piano sperimentale che clinico, e che i suoi segreti abbiano dovuto attendere fino al 1991 per cominciare ad essere tumultuosamente svelati.
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Infatti, è solo a partire dall’identificazione della grande famiglia multigenica dei recettori olfattivi (siglati OR) avvenuta circa dieci anni fa (Buck e Axel, 1991; Buck, 1996, 2000a,b; Mombaerts, 1999a,b,c, 2001; Zoxulya et al., 2001; Zhang e Firestein, 2002)3 che si è rapidamente attivata in questo senso la ricerca multidisciplinare di base coinvolgendo anche il gusto, per cui questi due sensi chimici, olfatto e gusto, trovano finalmente adeguata collocazione nell’ambito delle Neuroscienze. Aspetti neuroanatomici 1. – MUCOSA OLFATTIVA E PROIEZIONI DI 1° ORDINE a) Sistema olfattivo propriamente detto. La via olfattiva nasce da specifici neuroni bipolari chemosensibili situati nella mucosa olfattiva della porzione supero-posteriore della cavità nasale, ove essa si estende in senso medio-laterale dal terzo superiore della mucosa del setto nasale fino alla superficie del turbinato superiore (Fig. 7.2). Fig. 7.3 - Distribuzione dell’epitelio olfattorio nella parete laterale (A) e nella parete mediale (B) delle fosse nasali.
Fig. 7.2 - Localizzazione della mucosa olfattiva nella cavità nasale. VNO= organo vomero-nasale.
Il neuroepitelio olfattivo4 occupa circa 5 cm2 della mucosa nasale, distinguendosi visivamente dalla mucosa respiratoria (rossastra) per un tipico colore giallastro causato da un particolare pigmento, la cui assenza si correla all’anosmia che accompagna l’albinismo (Fig. 7.3). In esso si riconoscono tre differenti tipi cellulari: a)
3
Vedi database on-line dello Human Brain Project USA al sito http://senselab.med.yale.edu/senselab/ORDB/default.asp 4 Verrà usato arbitrariamente solo il termine olfattivo, anziché olfattorio (usato nella lingua anglosassone).
neuroni sensoriali olfattivi (da 6 a 20 milioni per lato), b) cellule di supporto simil-gliali frammiste ad esse, principalmente deputate a mantenere l’omeostasi del [K+]e e c) cellule staminali basali, deputate alla rigenerazione dei neuroni sensoriali olfattivi perduti per apoptosi. Le terminazioni trigeminali diffuse, in buona parte chemocettive, contribuiscono alla percezione chemoestesica di esili tracce di molecole volatili irritanti, a cui rispondono rilasciando localmente neuropeptidi (ad esempio SP) responsabili di immediata irritazione locale (ipersecrezione mucosa, edema) e, per via riflessa, di starnuto. Il numero totale dei neuroni sensoriali olfattivi varia ampiamente in rapporto alla sensibilità olfattiva di ciascuna specie: da 40 milioni dell’uomo si sale a 100 milioni del coniglio ed a un miliardo del cane. I neuroni olfattivi (neuroni di 1° ordine) sono esili cellule bipolari con soma di 40-50 µm di diametro, che perifericamente si estende in un dendrita periferico (diametro 1µm) dotato all’estremità di 5-20 delicate ciglia immobili protrudenti per 100-150 µm nel muco superficiale, e centralmente in un prolungamento assonale centripeto amielinico molto sottile (0,1-0,2 µ) che converge con altri in piccoli fascicoli (fila olfactoria) avvolti da particolari cellule gliali di rivestimento mielinico, simili alle cellule di Schwann, ma a differenza di
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esse penetranti nel SNC ed esprimenti marcata azione neurotrofica. L’estrema compattezza delle varie fibre all’interno dei fascicoli, costituenti nel loro insieme il I nervo cranico, ha permesso recentemente di postulare l’esistenza di interazioni efaptiche fra gli assoni di I° ordine quale peculiare modalità fisiologica di modulazione dei segnali olfattivi (Bokil et al, 2001). Dopo avere attraversato la dura madre di cui è rivestita la lamina cribrosa dell’etmoide, i fascicoli provenienti dalla mucosa olfattiva raggiungono la porzione orbitaria del bulbo olfattivo, organo pari adagiato sulla lamina cribrosa, penetrano nel suo strato più superficiale (1° strato delle fibre olfattive) e terminano nello strato immediatamente sottostante in corrispondenza di glomeruli sinaptici (2° strato glomerulare) (Fig. 7.4). b) Sistema Vomero-Nasale. Istologicamente simile, anche se per vari aspetti differente, appare la mucosa dell’organo vomero-nasale di Jakobson (VNO), struttura tubulare contenente muco situata su entrambi i lati della porzione antero-inferiore del setto nasale (Fig. 7.2), deputata esclusivamente alla trasduzione dei segnali sessuali portati dai cosiddetti «feromoni», steroidi volatili ad azione attrattiva specifica solo per l’altro sesso (vedi oltre). Ben sviluppato nei vertebrati macrosmatici, il VNO è rinoscopicamente dimostrabile uni- o bilateralmente nel 73% almeno degli esseri umani (Trotier et al., 2000), sotto forma di un abbozzo rudimentale tubuliforme di lunghezza variabile da 3 a 23 mm (media 7 mm) e diametro di 1 mm, lievemente obliquo verso il basso, aprentesi in una piccola cavità anteriore non sempre facilmente riconoscibile in vivo (Abolmaali et al., 2001). La sua posizione è assai variabile, ma più frequentemente si trova alla base della porzione più anteriore del setto nasale, aggettante al di sopra del cercine corrispondente alla cartilagine vomero-nasale (anteriormente ed obliquamente frapposta fra cartilagine del setto e vomere sottostante) (Fig. 7.2). La mucosa del VNO è formata da un epitelio pseudo-stratificato, in cui si aprono in prossimità del lume ghiandole mucipare settali (Bhatnagar e Smith, 2001; Smith et al., 2001). L’esistenza del VNO nell’uomo è stata a lungo messa in discussione, anche perché si tratta di una piccola struttura soggetta a modificazioni di volume tali da impedirne molto spesso la dimostrazione in un singolo esame (Trotier et al., 2000; Abolmaali et al., 2001), e l’importanza del suo ruolo modulatorio neuroendocrino è ancora dibattuta (cfr. Buck, 2000b; Trotier et al., 2000; Doty, 2001; Meredith, 2001). Il neuroepitelio del VNO è dotato superficialmente di microvilli, anziché di ciglia; i suoi fini assoni si raccolgono in fascicoli che raggiungono il bulbo olfattivo, per
terminare nella sua porzione dorso-posteriore o bulbo olfattivo accessorio, struttura ben evidente nei vertebrati macrosmatici ma alquanto discussa nell’uomo. c) Sistema del Nervo Terminale(NT) o Nervo Cranico 0. È un sistema assai poco noto, descritto un secolo fa nello squalo come nervo isolato, ma presente nella mucosa olfattiva di tutti i vertebrati ed anche nell’uomo (Fuller e Burger, 1990; Wirsig-Wiechmann, 2001). È costituito da cellule della porzione più rostrale della cresta neurale, originariamente adiacenti ai progenitori delle cellule dell’ipofisi anteriore, in parte rimaste in sede nella cavità nasale, in parte migrate nel telencefalo basale attraverso il nervo terminale. Quest’ultimo è formato da una catena di somi ganglionari contenenti ormone rilasciante gonadotropine (GnRH) frammisti a processi distali e prossimali, dotati di varicosità che indicano capacità di rilascio e trasmissione di volume. Nei mammiferi, tali catene neuronali si trovano prefernzialmente associate ai fascicoli nervosi del sistema VNO (WirsigWiechmann, 2001). Nell’uomo, il sistema NT è bilateralmente presente sotto forma di un microscopico plesso di fascicoli nervosi periferici amielinici subaracnoidei ricoprenti il giro retto della superficie orbitaria dei lobi frontali. Il plesso si forma a livello della lamina cribriforme dell’etmoide e si estende posteriormente in prossimità del trigono olfattivo, del giro olfattivo mediale e della lamina terminale (Fuller e Burger, 1990). La funzione del sistema NT non è chemosensoriale, bensì modulatoria della chemorecezione, conscia ed inconscia. d) Connessioni nel bulbo olfattivo e proiezioni di 2° ordine (Fig. 7.4). Gli assoni olfattivi e vomero-nasali terminano con digitazioni sinaptiche nei glomeruli, formati dalle arborizzazioni dendritiche di tre singoli diversi tipi di neuroni: cellule a pennacchio (3° strato plessiforme esterno), cellule mitrali (4° strato delle cellule mitrali di Golgi) ed interneuroni periglomerulari. Quest’ultimi formano localmente sinapsi asso-dendritiche con gli assoni olfattivi afferenti di 1° ordine e sinapsi dendrodendritiche sui dendriti mitrali, ed inviano un corto assone ai glomeruli adiacenti per formare sinapsi inibitorie GABAergiche asso-dendritiche sui rispettivi dendriti mitrali. Negli stessi strati terminano anche assoni ascendenti diretti, provenienti dal nucleo olfattivo anteriore e dal nucleo del braccio orizzontale della banda diagonale di Broca ipsilaterali, ed assoni crociati, provenienti via commissura anteriore dal nucleo olfattivo anteriore dell’altro lato (Fig. 7.4 e 7.5). Le cellule mitrali sono grandi neuroni a morfologia piramidale dotati di un dendrita apicale principale a decorso radiale (400-600 µm) che si arborizza e termina
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Fig. 7.4 - Schema semplificato dell’organizzazione neuronale e delle connessioni sinaptiche nel bulbo olfattivo. Notare la convergenza di più assoni olfattivi di 1° ordine della stessa classe (nero, grigio, bianco), provenienti da da aree lontane, sullo stesso glomerulo sinaptico, ove esse innervano, assieme alle terminazioni assonali dei neuroni periglomerulari inibitori, i dendriti apicali delle cellule mitrali ed a pennacchio. Non sono riportate le cellule gliali della mucosa olfattiva e l’innervazione afferente extra-mucosa.
nello strato dei glomeruli, e di estesi dendriti basali secondari, poco ramificati, che si estendono trasversalmente per circa 600 µm nello strato plessiforme esterno. L’elaborazione dei segnali olfattivi avviene nelle cellule mitrali ed a pennacchio (neuroni di proiezione molto simili e definite anche cellule mitrali «in miniatura») ed utilizza, oltre agli interneuroni periglomerulari superficiali ad assone corto, anche i granuli, il cui soma è situato nel 5° e penultimo strato granulare, essendo il 6° strato costituito da glia limitante ed ependima. Ciò vale anche per la porzione dorsale, occupata dal bulbo olfattivo accessorio. I granuli sono elementi cellulari del tutto unici, poiché mancano di un vero e proprio assone, ed inoltre, in analogia ai neuroni sensoriali di I° ordine, hanno un ciclo vitale analogo e scompaiono per apoptosi. Ma ciò non è tutto. Il loro rinnovamento, infatti, è reso possibile da progenitori staminali indifferenziati non locali, ma situati nella zona sub-ventricolare anteriore, capaci di migrare rostralmente fino al bulbo olfattivo ed a rimpiazzare con esattezza gli elementi mancanti (Gheusi et al., 2000). Lo stesso fenomeno, presente anche nella specie umana (Bernier, 2000), vede coinvolti anche gli interneuroni periglomerulari, ed accomuna i granuli del sistema olfattivo ai granuli del giro dentato ippocampale, appartenente all’interconnesso sistema limbico.
Funzionalmente, i granuli sono cellule GABAergiche inserite in un circuito a «feed-back» negativo: sono eccitati sia dalle cellule mitrali, attraverso loro collaterali assoniche ricorrenti e sinapsi dendro-dendritiche, che dai vari tipi di assoni ascendenti sopra descritti, ed inibiscono non solo la stessa cellula mitrale da cui sono innervati, ma anche quelle circostanti con cui formano sinapsi dendro-dendritiche. La peculiarità delle interazioni dendrodendritiche multiple e bidirezionali del bulbo olfattivo, già osservata 30 anni fa (Shepherd, 1974-1998), emerge anche da una serie di recenti evidenze sulle particolari caratteristiche dei meccanismi di trasmissione localmente presenti, GABAergici (Isaacson, 2001) glutamatergici e nitrossido-dipendenti, la cui descrizione dettagliata esula da questa trattazione5. È possibile comunque intuire il ruolo di potenziamento reciproco dei due bulbi olfattivi nella prima elaborazione dei segnali sensoriali in arrivo (attraverso una vera e propria “scultura” funzionale delle zone attive omologhe), ed anche il ruolo modulante dei segnali afferenti al bulbo olfattivo dal telencefalo basale, capace di enfatizzare - o mitigare - gli odori in rapporto alle necessità istintuali-comportamentali del momento. 5
Molto utile al riguardo è il database on-line dello Human Brain Project USA al sito: http://senselab.med.yale.edu/senselab/
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Le proiezioni efferenti di 2° ordine sono rappresentate dagli assoni delle cellule a pennacchio e dalle cellule mitrali che si raccolgono nel tratto olfattivo, prolungamento a sezione prismatica (30-35 mm), adagiato sul corrispondente solco della faccia orbitale del lobo frontale (Fig. 7.5). In sintesi, il bulbo olfattivo presenta un’organizzazione simil-corticale piuttosto complessa, ma molto più rudimentale e filogeneticamente più antica rispetto ad ogni altro tipo di corteccia, per cui può essere giustamente considerato come una protrusione estrema di archicortex (allocortex) dal SNC. A questo proposito, il paragone che viene fatto con la retina, anch’essa un’estroflessione periferica del SNC, è piuttosto grossolano ed improprio poiché la retina non ha alcuna organizzazione corticale. Il paragone, quindi, vale solo limitatamente al fatto che i somi dei neuroni sensoriali di 2° ordine presenti in entrambe le strutture (rispettivamente cellule ganglionari della retina e cellule mitrali), in tutti gli altri sistemi sensoriali e sensitivi sono situati all’interno del SNC. e) Aree olfattive primarie. L’avamposto rostrale estremo è rappresentato dal nucleo olfattivo anteriore, contenuto all’interno del tratto olfattivo (Fig. 7.5). Esso è innervato dalla maggior parte degli assoni delle cellule a pennacchio, ed a sua volta proietta assoni che contribuiscono a formare la radice mediale del tratto. Questo contingente di fibre si incrocia ad ansa nella commissura anteriore formando una specie di chiasma (chiasma olfattivo), e decorre nel tratto olfattivo dell’altro lato per raggiungere infine il bulbo controlaterale.
All’estremità posteriore del solco, il tratto olfattivo si appiattisce e si divide in due strie olfattive, una mediale e l’altra, più voluminosa, laterale. Esse delimitano uno spazio triangolare o trigono olfattivo, la cui base si estende nel tubercolo olfattivo, che nell’uomo corrisponde alla sostanza perforata anteriore (corteccia orbito-frontale). Il tubercolo olfattivo rappresenta il secondo avamposto delle aree olfattive primarie: infatti, contiene un nucleo (nucleo del tubercolo olfattivo) che riceve proiezioni dalle cellule mitrali (ma anche dalle cellule a pennacchio), ed a sua volta proietta, attraverso la stria laterale, alle aree olfattive secondarie, ed attraverso la stria mediale, ai nuclei del setto pellucido e, molto probabilmente, anche ai nuclei dell’abenula (via stria midollare). Infine, il principale contingente delle proiezioni olfattive di 2° ordine, proveniente essenzialmente dalle cellule mitrali e decorrenti nella stria laterale (ed in minor misura, mediale), si distribuisce a tre vicine aree temporali archicorticali di transizione costituenti il lobulo piriforme: corteccia prepiriforme, corteccia peri-amigdaloidea o nucleo cortico-mediale dell’amigdala (settore antero-superiore dell’uncus dell’ippocampo, ed all’area entorinale (area 28 di Brodman), situata nella parte anteriore del giro paraippocampale (Brodal, 1981). f) Aree olfattive secondarie. Le proiezioni efferenti dalle cinque aree olfattive primarie convergono in parte su comuni aree secondarie, rappresentate dal nucleo dorsale mediale del talamo e dalla corteccia prefrontale, in parte raggiungono aree specifiche: dal nucleo corticomediale dell’amigdala → nucleo baso-laterale dell’amigdala → ipotalamo e bulbo olfattivo; dalla corteccia entorinale
Fig. 7.5 - Schema semplificato delle principali proiezioni di 2° ordine dal bulbo olfattivo alle aree olfattive primarie, e da queste alle aree olfattive secondarie (frecce).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali (area 28) → uncus dell’ippocampo, amigdala e probabilmente anche circonvoluzioni dell’insula. Le connessioni di queste aree con altre o con il bulbo olfattivo sono illustrate in Fig. 7.5. Ulteriori dettagli sull’organizzazione funzionale di queste strutture limbiche sono forniti a pag. 534) Un recente studio PET non ha dimostrato alcuna differenza anatomo-funzionale olfattiva fra maschio e femmina, essendo in entrambi attivate bilateralmente corteccia piriforme, amigdala ed insula (Bengtsonn et al., 2001). g) Sistema Vomero-Nasale (VNO). Le proiezioni mitrali del sistema VNO provenienti dal bulbo olfattivo accessorio raggiungono quasi esclusivamente l’ipotalamo, sia direttamente (Firestein, 2001) che attraverso la mediazione dei nuclei amigdaloidei proiettanti principalmente su di esso. Un recente studio funzionale nell’uomo ha dimostrato nella femmina olfattivamente stimolata con derivati androgenici un’attivazione ipotalamica con epicentro nei nuclei preottico e ventromediale, e nel maschio stimolato con composti estrogenici, un’analoga attivazione nei nuclei paraventricolare e dorso-mediale (Savic et al., 2001b). Esistono inoltre retro-proiezioni dall’amigdala al bulbo olfattivo accessorio. Ciò s’accorda con un coinvolgimento del sistema VNO nella biologia comportamentale dell’attaccamento (infantile ed adulto) e della riproduzione attraverso comunicazioni feromonali volatili, sessualmente orientate e specifiche, ma inodori ed inconscie.
Aspetti neurofisiologici e neurobiologici 1.– Muco olfattivo. La mucosa olfattiva contiene particolari ghiandole tubulari o tubuloalveolari (g. di Bowmann), deputate alla produzione di uno speciale muco contenente lattoferrina e particolari «lipocaline», glicoproteine specificamente deputate a catturare e trasportare in fase acquosa molecole idrofobiche di vario tipo. In particolare, le lipocaline espresse nella sfera “orale” dell’uomo6 (mucosa olfattiva, apparato salivare, polmoni) corrispondono alle «odorant binding proteins» (OBP-IIa) (Lacazette et al., 2000), che facilitano il trasporto e la presentazione delle molecole odorose ai recettori delle ciglia olfattive e fungono anche da tampone in caso di loro eccesso, evitando la saturazione dei recettori. Il muco è anche ricco di IgA-IgM e lisozima per bloccare i germi patogeni all’esterno del cranio. Nel sistema VNO esistono analoghe lipocaline per la veicolazione dei feromoni o «vomeromoduline» (afrodisina nel criceto, Briand et al., 2000). 6
Un secondo gruppo di lipocaline (OBP-IIb), è espresso dalla sfera genitale (specie prostata e mammella)
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2.– Recettori olfattivi (OR). L’usuale risposta dei neuroni sensoriali ad un odore consiste in una depolarizzazione apicale che si traduce in una generazione di potenziali d’azione in corrispondenza del cono d’emergenza dell’assone. La depolarizzazione può essere elettrofisologicamente registrata anche nell’uomo mediante elettrodi di superficie (elettro-olfattogramma), ma la tecnica è complessa e rimane di appannaggio prettamente sperimentale. Il numero di neuroni attivati è proporzionale alla concentrazione delle molecole odorose: ma ciò si traduce in sensazioni più intense solo fino ad un certo punto, oltre il quale la sensazione si può modificare anche drasticamente sul piano qualitativo7. Complessivamente, in molti eucarioti i geni che codificano per le proteine OR costituiscono il 4% del rispettivo genoma (Firestein, 2001). I recettori olfattivi sono proteine etero-trimeriche dotate di sette domini transmembrana, sito di riconoscimento esterno, e sito di accoppiamento interno a G-proteine (Buck e Axel, 1991; Dryer e Berghard, 1999; Mombarts, 1999c). A differenza del sistema visivo, ove sono sufficienti tre sole classi di fotorecettori (per il blu, il verde e per il rosso), il sistema olfattivo utilizza un elevato numero di recettori olfattivi (OR) codificati da altrettanti geni appartenenti a 228 famiglie, distribuiti in 27 gruppi su quasi tutti i cromosomi, specie l’11 (il 20 e l’Y ne sono apparentemente privi). Il numero degli OR identificati è salito rapidamente fino ad oggi: da una stima nei roditori (macrosmatici) di almeno 1000 OR, e nell’uomo (microsmatico) di 500-750 OR (Mombaerts, 1999b), si è giunti fino a stimarne 1296 sia nel topo che nell’uomo (Zhang e Firestein, 2002). Nell’uomo, tuttavia, solo il 3035% dei geni OR è capace di esprimersi, essendo i due terzi degli OR umani «pseudo-geni» formati dalla fusione di due geni o da sequenze nucleotidiche inattive (Mombaerts, 1999b; Glusman et al., 2001; Zozulya et al., 2001; Crasto C. et al., 2002; Zhang e Firestein, 2002)8. Sebbene il quadro generale sia piuttosto intricato e suscettibile di ulteriori precisazioni, si può ritenere pari a 347 il numero dei geni OR umani pienamente funzionanti (Zozulya et al., 2001). La trasduzione del segnale chimico comporta un distacco della G-proteina dal recettore → interazione della G-proteina con la limitrofa adenilil-ciclasi III → produzione di cAMP → attivazione di canali cationici (Na+Ca2+) → depolarizzazione → generazione di potenziali
7
È noto che odori ripugnanti possono trasformarsi in fragranze quando siano opportunamente diluiti nell’aria: il muschio, ad esempio, la cui soglia percettiva (fragranza gradevole) corrisponde a 4·10-5mg·l-1 (aria). 8 Al sito: http://senselab.med.yale.edu/senselab/ORDB/default.asp è disponibile il database completo delle sequenze delle proteine OR.
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d’azione assonici. Coesistono altri meccanismi di trasduzione in cascata, basati sulla formazione di inositolo(1,4,5)-trifosfato (IP3), cGMP e monossido di carbonio (CO). I neuroni olfattivi sono caratterizzati da «adattamento» rapido, dipendente da una desensitizzazione del recettore per fosforilazione, e da aggiustamento della sensibilità dei canali cationici ai livelli medi di cAMP sub-membrana. 3.– Recettori feromonali del VNO. Nel ratto, il sistema VNO è dotato di due famiglie recettoriali, V1R e V2R, ciascuna comprendente approssimativamente 100 geni espressi su una vasta gamma di cromosomi, e nell’uomo del solo V1R, ma solo con il 52-59% di identità e con un’alta percentuale di sequenze inattive (pseudogeni) (Giorgi et al., 2000). I recettori VR hanno sequenze non correlate con quelle OR, solo raramente espresse dai neuroni di 1° ordine VNO, ma sono costituiti da proteine dotate di sette domini transmembrana accoppiate a due differenti G-proteine. La distribuzione spaziale dei V1RV2R differisce da quella degli OR, poiché nella mucosa del VNO i neuroni sensoriali si dispongono in due pseudo-strati paralleli, esprimenti quello superficiale la proteina Gαi2, quello profondo la proteina Gαo. Nell’uomo, i ligandi putativi di questi recettori sono probabilmente molteplici, e principalmente prodotti da particolari zone del corpo maschile (ascelle: androstadienone) o femminile (vagina: «copuline» o derivati estro-progestinici). È anche probabile che esistano proiezioni differenziate dal sistema VNO all’amigdala ed all’ipotalamo in funzione delle differenti classi recettoriali, come suggerito dalle differenti risposte osservate in seguito a stimolazione feromonale (Monti-Bloch et al., 1998; Grosser et al., 2000; Savic et al., 2001b). 4.– Recettori GnRH. Sono presenti sia nel neuroepitelio olfattivo propriamente detto che feromonale, e sono attivati dal GnRH secreto dal sistema NT, ove la trasduzione del segnale avviene in cascata tramite G-proteine transmembrana, attivazione di fosfolipasi C e formazione di IP3 quale secondo messaggero. Nel sistema NT, l’esocitosi di GnRH si traduce in una modulazione autocrina dell’attività «pace-maker» della stessa cellula e paracrina dell’attività delle cellule circostanti secondo un meccanismo bifasico (transitoria inibizione seguita da prolungato aumento di scarica) (Abe e Oka, 2000). L’attività spontanea dei neuroni NT è inoltre modulata dal numerose proiezioni centrali e periferiche, anche trigeminali (Yamamoto e Ito, 2000). Nella femmina, l’attivazione del sistema NT all’inizio della fase luteale (ovulazione) comporta non solo un potenziamento dell’acuità olfattiva, ma anche una maggior gradevolezza dei messaggi feromonali maschili, inducendo risveglio sessuale finalizzato ad un comporta-
mento copulatorio centrato sul momento più favorevole per la fecondazione (Wirsig-Wiechmann, 2001). Ciò è probabile che avvenga anche nella specie umana, ove sono state documentate variazioni della sensibilità olfattiva correlate al ciclo mestruale (con maggior sensibilità nella fase luteale: Pause et al, 1996) ed in gravidanza, ove l’aumento dell’acuità olfattiva garantirebbe nel primo trimestre risposte avversive nei confronti di sostanze potenzialmente dannose per la gestazione ed il feto (Kolble et al., 2001). Ogni gene olfattivo attivo si esprime solo nello 0,1% delle cellule neuroepiteliali olfattive, per cui si può concludere che ognuna di esse è dotata di un solo tipo di proteina recettoriale. Dato il breve ciclo vitale di queste cellule (come è già stato detto, destinate a scomparire per apoptosi), il posto lasciato vuoto viene colmato da una nuova: quest’ultima non solo riesce ad esprimere la stessa proteina, ma nell’inviare il proprio assone al bulbo olfattivo, riesce addirittura a connettersi con il glomerulo sinaptico lasciato vacante. Come ciò possa avvenire resta tuttora un affascinante mistero. Spazialmente, i neuroni dotati dello stesso OR sono segregati in una sola zona della mucosa olfattiva, ove sono intercalati a neuroni dotati di altri OR: esistono almeno quattro grossolane aree neuroepiteliali che proiettano a differenti aree del bulbo olfattivo, garantendo con questo tipo di arrangiamento altamente distribuito una conservazione dell’olfatto anche in caso di lesioni di buona parte del neuroepitelio sensoriale. In ciascun glomerulo, 200-500 assoni provenienti da vaste aree della mucosa olfattiva convergono su 20-50 dendriti di neuroni di proiezione di 2° ordine (cellule a pennacchio e mitrali): ciò permette una drastica riduzione (circa 100 volte) del numero dei neuroni deputati alla trasmissione del segnale, e garantisce nel contempo la loro attivazione da parte di stimoli odorosi applicati su disparati punti della mucosa. I meccanismi di identificazione di una molecola odorosa sono piuttosto intricati e di non facile comprensione. a) Ogni singolo OR riconosce molecole odorose multiple di massa superiore a 500, ed ogni molecola è riconosciuto da OR multipli, per cui differenti molecole sono riconosciute da differenti combinazioni di OR. Il sistema olfattivo, quindi, usa uno schema di codifica recettoriale di tipo combinatorio per identificare ogni tipo di odore. Ciò spiega perché il “codice” – e quindi l’odore – di una molecola odorosa possano modificarsi in rapporto a minime variazioni della sua struttura chimica o, alternativamente, in rapporto a variazioni della sua concentrazione nell’aria (Malnic et al., 1999). A seconda della propria dotazione di differenti OR, ogni cellula neurosen-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali soriale olfattiva risponde con elevata specificità e sensibilità a precisi gruppi funzionali di un certo composto odoroso, ma presenta anche un’elevata tolleranza e capacità di risposta anche per gruppi chimici di altro tipo, caratteristici di altri composti: tale strategia permette all’apparato olfattivo di essere altamente discriminativo e, nello stesso tempo, capace di riconoscere alcune migliaia di differenti odori (Araneda et al., 2000). L’identità di una molecola odorosa implica quindi una codifica multipla di certi suoi epitopi da parte di un certo numero di classi recettoriali, permettendo così di raggiungere elevatissimi gradi di discriminazione molecolare, fino al limite estremo del riconoscimento degli enantiomeri di una stessa molecola. Nell’uomo, tale capacità consente di distinguere l’isomero (R) dall’isomero (L) di almeno 100 coppie di essenze chirali, in base a sottili differenze della qualità o dell’intensità dell’odore percepito (Ohloff, 1994), ma nei mammiferi inferiori si estende ulteriormente a molti altri enantiomeri che l’uomo non riesce a distinguere («optical imaging»: Xu, 2001; Rubin e Katz, 2001)9 . b) Gli assoni dei neuroni sensoriali sensibili ad uno stesso stimolo convergono su pochi glomeruli, che nel bulbo olfattivo curiosamente conservano la stessa posizione in differenti specie animali, e selettivamente si attivano ogni volta per lo stesso stimolo odoroso, come è stato possibile dimostrare nel ratto stimolato con isoamilacetato e limonene anche mediante fMRI (Xu et al, 2000). Come corollario di questa disposizione somatotopica, se uno stimolo odoroso riesce ad attivare molti glomeruli, esso necessariamente deve avere attivato molti differenti tipi di neuroni sensoriali. Se invece è il singolo glomerulo ad essere attivato da differenti stimoli odorosi, questi devono necessariamente essere stati riconosciuti dallo stesso neurone sensoriale olfattivo. In termini più semplici e sintetici, ciascun recettore olfattivo fornisce un tassello di quel codice ultimo che, come un’impronta digitale, contraddistingue una grande varietà di molecole odorose. Ne consegue che il bulbo olfattivo è cablato secondo un’organizzazione “parallela” non tanto in funzione degli odori (che sono soltanto sensazioni olfattive “finali”), quanto in funzione delle caratteristiche chimico-steriche comuni a molecole odorose anche fortemente eterogenee fra loro. La successiva elaborazione centrale, come dimostrato mediante la PET, avviene attraverso l’attivazione di
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Per ulteriori informazioni a riguardo: http://www.leffingwell.com/chirality/chirality.htm
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aree primarie, secondarie e di associazione secondo un’organizzazione anche “gerarchica”, sensibilmente variabile a seconda del compito olfattivo assegnato (Savic et al., 2000; Savic, 2001a).
Esame della funzione olfattiva La ricchezza di informazioni di base emergente dalle premesse di cui sopra contrasta in maniera stridente con la relativa povertà di mezzi clinico-strumentali concretamente utilizzabili in ambiente neurologico per esplorare la funzione olfattiva. La semplice olfattometria qualitativa, ovvero il riconoscimento di aromi già conosciuti tramite inalazione in una narice per volta (ad esempio, il caffè, la menta, la canfora, il petrolio, il muschio artificiale) serve assai poco, e pressoché solo a confermare – senza pretese di vera obbiettività – ciò che è già ovvio o al massimo ad escludere grossolane simulazioni (alternando essenze aromatiche a sostanze irritanti come l’ammoniaca o l’aceto). L’elettro-olfattografia ed i potenziali evocati olfattivi sono rimasti confinati alla ricerca sperimentale di pochi laboratori e non hanno avuto, né in Italia né altrove, il successo e la popolarità dell’elettro-retinografia e dei potenziali evocati visivi. La ultradecennale arretratezza delle conoscenze di base sul sistema olfattivo, e la povertà di ricerche cliniche in tema, tumultuosamente corrette solo in quest’ultimo decennio, hanno condizionato un atteggiamento di vero e proprio “neglect” neurologico diffuso, che solo a partire dal 1984 si è progressivamente corretto, dal Nord America all’Europa, grazie all’introduzione ed alla disponibilità di nuovi metodi olfattometrici standardizzati, primo dei quali l’UPSIT (University of Pennsylvania Smell Identification Test) (Doty et al., 1984). In accordo, nel 1999 è stato proposto alla comunità medica italiana un accurato protocollo standard per l’esame dell’olfatto, del quale vengono di seguito riportati i parametri essenziali (Parola e Liberini, 1999).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.1 – Intervista strutturata per la valutazione dell’olfatto. Dati personali
Stile di vita
Anamnesi
Disturbi olfattivi
Disturbi gustativi
Genere (sesso)
Fumo
M. naso M. seni paranasali
Modalità d’insorgenza
Modalità d’insorgenza
Età
Sostanze d’abuso
M. neurologiche
Durata
Durata
Cultura etnica
Esposizione a tossici ambientali
Disturbi psichiatrici
Andamento temporale
Andamento temporale
Livello d’educazione
Uso di profumi
Disturbi metabolici
Sensibilità agli odori
Sensibilità ai gusti: salato-acido dolce-amaro
Preferenza manuale
Assunzione di farmaci
Intervista anamnestica Precede l’esame olfattometrico vero e proprio, e viene condotta secondo quanto riportato nella tabella 7.1. È così possibile tener conto dei fattori che più influenzano l’olfatto, quali sesso, età, professione e fumo, ed inoltre di accertare le modalità d’insorgenza, di evoluzione e durata del disturbo olfattivo, la concomitanza con traumi cranici, l’avvio di terapie o le esposizioni accidentali o professionali ad inalanti esogeni, e l’eventuale coesistenza di disturbi neuro-psichiatrici, di affezioni locali o generali e di disturbi gustativi. Successivamente viene effettuata l’indagine olfattometrica vera e propria, che si struttura secondo paradigmi di complessità crescente in rapporto alle particolari necessità di ogni singolo paziente. Valutazione olfattometrica MODALITÀ DI STIMOLAZIONE. La stimolazione comporta l’annusamento del vapore emanato da soluzioni con concentrazioni scalari di una sostanza odorosa attraverso entrambe le narici, o attraverso una narice per volta (essendo l’altra otturata mediante nastro adesivo). Il secondo metodo (unirinale) è molto più lento ma anche
Perversioni olfattive
Perversioni gustative
Odore avvertito Effetto dell’ammoniaca
Gusto avvertito
più preciso, e comunque indispensabile per localizzare un deficit olfattivo unilaterale. IDENTIFICAZIONE DELLA SOGLIA OLFATTIVA. La soglia è definita dalla concentrazione molare minima di sostanza odorosa (o “odorante”) cui corrisponde, per inalazione dei vapori, una percezione del rispettivo aroma, ed è un indice convenzionale dell’acuità olfattiva. L’eventualità di una coattivazione trigeminale può essere esclusa impiegando un odorante “puro” quale l’alcool fenil-etilico10 . L’odorante è diluito in acqua bidistillata, o meglio ultrapura (Millipore-Q) in 14 concentrazioni 0,5 log scalari comprese fra 1 – 10-7 M, e la soluzione posta in flaconi con apertura di 2,5 cm di diametro. In ogni prova, il soggetto deve annusare ad occhi bendati due flaconi, uno dei quali contenente solo il solvente (acqua), e dire quale dei due evoca in lui la sensazione più forte. L’identificazione della soglia chemopercettiva trigeminale (ammoniaca, acido formico) può essere utile in caso di iposmia post-traumatica per documentare la frequente coesistenza di un deficit trigeminale, generalmente assente o molto modesto nella patologia rino-sinusitica (Gudziol et al., 2001): perciò, l’impiego di irritanti trigeminali a scopo medico-legale (per documentare
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Phenylethyl alcohol, PEA (Carlo Erba o Sigma-Aldrich-Fluka).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.2 – Punteggi di identificazione olfattiva nel test del CA-SIT nella popolazione italiana. Probabile simulazione
Anosmia totale
Microsmia grave
Microsmia moderata
Microsmia lieve
Normosmia
00 – 04
05 – 15
16 – 19
20 – 23
24 – 27
28 – 34
Anosmia: perdita completa della capacità a percepire le sensazioni qualitative degli odori. Microsmia: perdita parziale della capacità a percepire le sensazioni qualitative degli odori. Tabella 7.3 – Coppie di aromi consigliati per il test di discriminazione olfattiva. Paia simili
Paia dissimili
γ-dodecalattone – Aldeide C-14 Citronellil acetato – Citronellil butirrato Cinnamil propionato – Cinnamil butirrato Estratto di limone – Citral rettificato
Anetolo – Benzil butirrato Fenetil alcool – Eptanolo Olio di garofano – Solfuro d’allile Acido butirrico – Eugenolo
eventuali tentativi di frode) perde molto del suo significato in caso di trauma cranico.
dall’80% dei soggetti normali. I relativi punteggi tarati sono espressi in Tab. 7.2.
IDENTIFICAZIONE DEGLI ODORI. Comporta una stimolazione olfattiva soprasogliare e tre possibili tipi di risposte: denominazione dell’odore, risposta «sì-no» circa il nome suggerito, e risposta a scelta multipla, con scelta di un nome fra quelli elencati per ciascun odore. L’UPSIT (Sensonics, Haddon Heights, N.J., USA) appartiene a quest’ultima categoria, implicando la scelta forzata di un nome fra quattro suggeriti per ciascun stimolo olfattivo (il soggetto deve rispondere comunque, anche se non avverte odore), ed è basato sull’annusamento di 40 aromi microincapsulati e stampati a 10 per volta su quattro differenti foglietti secondo una tecnica definibile come «gratta-eannusa»11 . Poiché sei di questi 40 aromi sono relativamente sconosciuti Italia, nel nostro paese è da usarsi il test culturalmente adattato CASIT, che comprende 34 aromi riconoscibili
DISCRIMINAZIONE DEGLI ODORI. La capacità di decidere se due odori sono gli stessi o differiscono fra loro si esplora per ogni narice con 16 coppie di odori, di cui 8 paia simili e 8 dissimili, presentati nell’ambito di ciascun paio in rapida successione mediante un piccolo tampone imbevuto di essenza, con intervallo di almeno 20 secondi fra differenti paia. Il soggetto deve annusare una sola volta e rispondere se i due odori sono identici o differiscono fra loro, o alternativamente, qualora si trovi incerto, indovinare. In base alle risposte ottenute, si calcola il rapporto percentuale di quelle corrette su quelle errate. Le sostanze che si impiegano in questo test sono riportate in Tab. 7.3.
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Analoga a quella ben nota del «gratta-e-vinci». In versioni più ridotte, è stato proposto in passato come auto-test di svago perfino da riviste femminili a larga tiratura.
MEMORIA DEGLI ODORI. La capacità mnesica per gli odori condivide con la memoria visiva e verbale lo stesso utilizzo di parole (codici verbali) ogniqualvolta un odore abbia una chiara denominazione (ad esempio odore di menta), ma ciò non è essenziale quando si tratta di dimostrare di avere già avvertito un odore inusuale privo di un nome preciso (ad esempio l’epta-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
nolo). Viene testata chiedendo al soggetto di annusare con entrambe le narici 10 aromi differenti per 5 secondi, con intervallo di presentazione di 20 secondi. A distanza di tempo (minuti, ore o giorni dopo), il soggetto deve analogamente annusare 5 degli aromi precedenti intercalati a caso fra 5 nuovi, e identificare quali egli ricorda di avere già percepito. Il punteggio corrisponde alla differenza fra risposte corrette ed errate e varia da 10 a –10. Lo studio della memoria olfattiva, verbale e non verbale, richiede l’impiego di sostanze odoranti riconoscibili in base ad un nome chiaro e ben identificabile nel linguaggio corrente (quasi sempre riferito all’oggetto in cui sono contenute), e di sostanze sprovviste di tale nome (e quindi identificabili solo in funzione di un astratto nome chimico, ma prive di correlati con oggetti del mondo circostante). In ogni caso, l’interpretazione dei risultati ottenuti con questi tipi di test dovrebbe sempre avvenire nell’ambito di uno studio neuropsicologico più o meno allargato e mirato sui problemi posti da ciascun paziente. In linea generale, la misura dell’acuità olfattiva (soglia) rappresenta il parametro di base per ogni tipo di disturbo dell’olfatto, a cui associare gli altri test isolatamente o in associazione fra loro a seconda che si tratti di patologia neurodegenerativa (demenze, m. di Parkinson, etc.), neurologica focale (traumatica, neoplastica, epilessia del lobo temporale), psichiatrica (schizofrenia, parafrenia), periferica (nasale/paranasale) o di problematiche medico-legali (Parola e Liberini, 1999). A questo riguardo, vale la spesa sottolineare che l’enigma dell’asserita maggior sensibilità olfattiva femminile non sembra giustificato da una più bassa soglia agli odori, poiché questa non differisce significativamente fra i due sessi; piuttosto, sembra dipendere da una maggior capacità di identificazione e discriminazione olfattiva indipendente dal livello di intelligenza (Segal et al., 1995; Brand e Millot, 2001).
ALTRI TEST OLFATTOMETRICI Recentemente è diventata disponibile una versione ridotta dell’UPSIT a validità multi-culturale (12 aromi, CC-SIT) (Doty et al., 1996), che permette di effettuare il test di identificazione olfattiva in meno di 6 minuti, ed anche una miniversione tascabile a 3 odori per l’esame neurologico di routine (PST). Test simili al CC-SIT, altamente concordanti con l’UPSIT o il CC-SIT ed adattati per l’Europa, si basano sull’impiego di kit portatili relativamente poco costosi quali la batteria “Sniffin’ Sticks”, costituito da 7 pennarelli con differenti odori che permettono la valutazione della soglia olfattiva e l’effettuazione dei test di identificazione e discriminazione (Kobal et al., 1996; Wolfensberger et al., 2000), e “Le Nez du Vin”, kit analogo alla batteria precedente, formato da sei differenti aromi, originariamente progettato per gli allievi «sommeliers» (McMahon e Scadding, 1996). INDAGINI ELETTROFISIOLOGICHE. Sono rappresentate dall’elettro-olfattogramma e dai potenziali chemiosensoriali evento–correlati (CSERP), entrambi tipi d’indagine praticabili solo in alcuni laboratori specializzati, e finora utilizzati quasi esclusivamente a scopo sperimentale (Pause et al., 1996; Pause e Krauel, 2000).
Disturbi dell’Olfatto La loro prevalenza è molto più alta di quanto si possa immaginare: in Italia, circa 500.000 persone (0,87% dell’intera popolazione) sono colpite da disturbi olfattivi (Parola e Liberini, 1999). In accordo a Victor (2001), si possono suddividere in quattro categorie: a) disturbi quantitativi, sotto forma di deficit (completo: anosmia; parziale: iposmia o microsmia) o, assai più raramente, di aumento dell’acuità olfattiva; b) disturbi qualitativi, sotto forma di distorsioni o perversioni (disosmia) o di illusioni olfattive (paro-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
smia); c) disturbi psico-olfattivi, sotto forma di allucinazioni o deliri a contenuto olfattivo; d) disturbi simbolici (agnosia olfattiva). Disturbi quantitativi IPOSMIA (MICROSMIA) ED ANOSMIA. Indicano una diminuzione o perdita dell’olfatto12 . Sono i disturbi più frequenti, che possono passare inosservati se unilaterali, ed invece essere vissuti come perdita congiunta dell’olfatto e del gusto quando sono bilaterali. Sul piano patogenetico possono riconoscersi tre principali cause di ipo- anosmia: patologia primitiva del neuroepitelio olfattivo, patologia centrale (dei sistemi di conduzione) e patologia geneticamente determinata (Tab. 7.4). Come si può osservare, il primo gruppo ingloba la patologia locale dell’apparato nasale e paranasale responsabile di deficit olfattivi tradizionalmente attribuiti ad un ostacolato afflusso di aria alla mucosa olfattiva (dogma «ostruttivo»). A parte la comune constatazione che l’iposmia causata dal semplice raffreddore è poco sensibile alle usuali terapie disostruenti locali o generali (vasocostrittori, FANS, mucolitici) che ripristinano la pervietà aerea dell’intera cavità nasale, l’evidenza di un frequente, incompleto recupero olfattivo dopo guarigione da affezioni rino-sinusitiche trova spiegazione nell’evidenza istologica di un danno neuro-olfattivo più o meno rilevante o anche permanente, qualora vi sia stata perdita delle cellule staminali basali (Doty e Mishra, 2001). Perciò, il fattore ostruttivo va considerato un fattore di aggravamento importante ma secondario. Una delle più vaste casistiche esistenti sull’argomento ha dimostrato che nei due terzi dei casi di ipo- anosmia il disturbo dipende da 12
Non esistono finora dati riguardanti possibili deficit della sensibilità olfattiva ai feromoni nell’uomo.
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una patologia nasale e paranasale (infezioni virali incluse) o da trauma cranico (Hendriks, 1988). In particolare, la prevalenza del disturbo olfattivo appare correlata all’entità del trauma subito: 0% (traumi minori senza disturbo di coscienza), 5% (traumi minori con disturbo di coscienza < 1 ora), 15-19% (traumi moderati con disturbo di coscienza da 1 a 24 ore), 2430% (traumi maggiori con disturbo di coscienza > 24 ore) (v. pag. 000). Nel 66,8% dei casi si tratta di un’anosmia permanente, che in massima parte (87,3%) fa seguito a traumi cranici maggiori causati da impatto occipitale o anche temporo-parietale, sedi particolarmente rischiose per lesioni da contraccolpo in fossa cranica anteriore (Doty et al., 1997; Biacabe et al., 2000). L’ipo- anosmia può dipendere sia da lesioni dei filamenti olfattivi nel loro passaggio attraverso la lamina cribrosa dell’etmoide, sia da contusioni dei bulbi o tratti olfattivi, o del trigono olfattivo, o delle regioni orbito-frontali. Ciò spiega la frequente associazione fra anosmia post-traumatica e problematiche sociolavorative importanti, connesse non solo ad esclusioni professionali specifiche (profumieri, cuochi, «sommeliers», ecc.), ma spesso anche a perdite motivazionali sul lavoro inquadrabili nell’ambito di una sindrome orbito-frontale (Varney, 1988) (v. pag. 523). Una riduzione bilaterale dell’olfatto si instaura nella settima decade di vita in entrambi i sessi, ma si accentua progressivamente soprattutto nel maschio: lo stesso periodo d’età coincide con una maggior incidenza di varie forme di patologia neurodegenerativa, molte delle quali caratterizzate da marcata e precoce iposmia (ad esempio malattia di Alzheimer e di Parkinson), a genesi non chiara, ma potenzialmente attribuibile al progressivo depauperamento neuronale delle aree olfattive primarie o delle rispettive aree di proiezione associative. Al contrario, i vari parametri olfattivi risultano normali nell’anoressia nervosa, ove l’av-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.4 – Cause di ipo –anosmia. Patologia neuroepiteliale
Patologia centrale (o di conduzione)
Patologia genetica
Riniti e rino–sinusiti allergiche e vasomotorie batteriche virali adeno-rinovirus, influenza, HSV1, epatite Poliposi nasale Abuso di vasocostrittori Rinite cronica atrofica Fumo di tabacco (intenso) Radioterapia locale Da tossici esogeni solventi organici (benzene) metalli polveri industriali contenenti metalli: Al, As, Bi, Cd, Co, Cr, Hg, Mn, Ni, Zn (Sunderman, 2001) cocaina oppiacei corticosteroidi * immunosoppressori antiblastici aminoglicosidi tetracicline L-DOPA Carenziale Ipovitaminosi A Ipovitaminosi B1 (S. di Wernicke–Korsakoff) Ipocorticosurrenalismo Ipotiroidismo Insufficienza epatica Insufficienza renale Estesioneuroblastoma (estremamente raro)
Traumi cranici Frattura lamina cribrosa Da trazione – contusione Masse occupanti spazio Meningiomi della doccia olfattiva soprasellari della piccola ala dello sfenoide Gliomi orbito–frontali del chiasma e n. ottico temporo–basali mediali Osteomi del tetto orbitario Ascessi del lobo frontale Neoplasie ipofisarie Aneurismi a. cerebrale anteriore a. comunicante anteriore Meningoencefalocele anteriore M. neurodegenerative m. di Alzheimer m. di Pick demenza a corpi di Lewy s. di Down (fase tardiva) m. di Parkinson (idiopatica) m. di Parkinson (famigliare) corea di Huntington Parkinson-Dementia complex (Guam) SLA-Dementia complex (Guam) SLA Sclerosi Multipla Emorragia subaracnoidea Meningiti croniche Interventi neurochirurgici Tumori Epilessia temporale
Sindrome di Kallman (anosmia congenita per agenesia del neuro-epitelio e dei bulbi olfattivi con ipogonadismo ipo-gonadotropo) Sindrome di Turner Albinismo Anosmia specifica
* Solo l’abuso cronico, poiché una breve terapia corticosteroidea locale è utile e consigliabile nell’iposmia rinogenica (Golding-Wood et al., 1996).
versione verso i cibi potrebbe indurre a sospettare un deficit olfattivo primitivo o anche secondario, causato cioè da grave carenza alimentare (Kopala et al., 1995).
Un particolare, piuttosto infrequente tipo di deficit olfattivo è rappresentato dalla cosiddetta «anosmia specifica», cioè una selettiva mancanza di olfatto per una sostanza o un’intera
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
classe di sostanze odorose con olfatto altrimenti normale (Amoore, 1967). Paragonabile alla cecità per i colori, il disturbo ha base genetica, derivando dalla mancanza di recettori olfattivi specifici per una certa sostanza volatile (Griff e Reed, 1995). Secondo alcuni (Moller et al., 1999), il disturbo sembrerebbe curabile mediante ripetute esposizioni all’odore non percepito. Una riduzione unilaterale dell’olfatto può riscontrarsi tipicamente nella patologia espansiva della fossa cranica anteriore (neoplasie, aneurismi dell’a. carotide interna), ove può occasionalmente arricchire una sindrome di Foster-Kennedy (v. pag. 525), e nell’epilessia temporale, in cui l’iposmia può dipendere da un’estensione del focolaio lesionale alle aree olfattive, o rappresentare l’esito di un intervento neurochirurgico di exeresi. In questi casi, la presenza di un’iposmia unilaterale può essere riconosciuta solo effettuanto i vari test olfattometrici per via monorinale. IPEROSMIA. Indica un abnorme aumento della percezione olfattiva verso gli odori in genere. Contraddistingue essenzialmente le crisi più violente di emicrania (ove si associa a nausea ed a vomito) e le meningiti acute, ove costituisce un segno irritativo di significato analogo all’iper- disestesia superficiale ed alla foto- e fonofobia spesso coesistenti. Disturbi qualitativi DISOSMIE. Sono distorsioni percettive a carattere fastidioso o sgradevole che si manifestano in presenza di comuni stimoli odorosi. Tipicamente riguardano l’odore dei cibi, olfattivamente percepiti come disgustosi o nauseabondi, e possono configurare in casi estremi una globale «cacosmia», spesso associata ad un’analoga modificazione della percezione gustativa («cacogeusia»).
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In certe forme particolari di patologia rinosinusitica (ozena, empiema dei seni paranasali) con produzione locale di secreti ad odore particolarmente sgradevole, è probabile che le disosmie o la cacosmia dipendano da un danno delle ciglia olfattive o da una saturazione dei rispettivi recettori. Manifestazioni disosmiche possono insorgere anche per lesioni incomplete del bulbo olfattivo, causate da traumi, compressioni o esposizione a vapori – o assunzione – di sostanze tossiche. Esistono infine casi a genesi oscura, che riguardano persone anziane (ed in cui, a parte l’età, non si trovano altre possibili cause), o che si associano ad una evidente sintomatologia ansioso-depressiva: in questo caso, il disturbo spesso recede spontaneamente a distanza di tempo, senza che siano emerse motivazioni plausibili del disturbo (quali ipovitaminosi, uso di alcuni farmaci, patologia dentaria, abuso di fumo etc.). P AROSMIE . Sono percezioni spontanee di odori inusuali, non riferibili ad alcun odore noto, che compaiono in assenza di stimoli odorosi. Consistono nella percezione, spesso a carattere accessuale e di breve durata, di odori forti, sgradevoli e mal definibili a parole dal paziente, quali ad esempio odore di cavolo o uovo marcio, di zolfo, di copertone d’auto o rifiuti incendiati, etc. Queste manifestazioni dispercettive, talora associate o seguite da una breve, parziale compromissione della coscienza, configurano le cosiddette crisi epilettiche «olfattive» o «uncinate» del lobo temporale, in quanto prodotte dall’attivazione della corteccia olfattiva primaria (corteccia prepiriforme ed uncus dell’ippocampo) (v. pag. 537). Disturbi psico-olfattivi Sono costituiti dalle allucinazioni olfattive, percezioni spontanee altamente realistiche di
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
odori esistenti ben noti, contraddistinte dall’assenza di una stimolazione odorosa. Possono avere genesi epilettica e, come le parosmie, dipendere dall’attivazione di aree corticali olfattive quali corteccia prepiriforme ed uncus dell’ippocampo. Alternativamente, possono rappresentare frammenti psicosensoriali proiettati dal paziente su sé stesso o all’esterno, nell’ambito di un delirio di riferimento sensitivo o di una psicosi dissociativa (parafrenia tardiva e schizofrenia). Nel primo caso, di solito il paziente avverte odori emananti dal proprio corpo che nessun altro percepisce, ma che egli ritiene tali da pregiudicare ogni rapporto con gli altri, per cui è spinto ad interminabili lavacri e ad esagerato o abnorme uso di detergenti. Coesiste quasi sempre una condizione depressiva che peggiora una struttura di personalità ossessivo-fobica. Nel secondo caso, il paziente avverte odori particolari provenienti da una sorgente esterna, quali esalazioni di gas, solventi o fumi industriali, che ritiene appositamente procurati da altri a suo esclusivo dispetto o danno. Come in ogni altro delirio, anche in queste circostanze esiste un’incrollabile certezza sulla realtà dei fenomeni percettivi allucinatori e sul significato soggettivo del loro vissuto, benché non esistano prove a sostegno. Non è chiaro se vi sia una base biologica delle allucinazioni olfattive, anche se ciò è probabile, almeno limitatamente nella schizofrenia. Infatti, in una vasta casistica (Kopala et al., 1994) allucinazioni olfattive erano presenti nel 34,6% dei soggetti schizofrenici, nel 19% dei soggetti affetti da depressione maggiore e nel 29% dei soggetti con disturbi del comportamento oro-alimentare, ma solo nel gruppo degli schizofrenici si poteva dimostrare la coesistenza di un generico disturbo dell’identificazione olfattiva. L’inquadramento ed il trattamento di queste forme è di competenza psichiatrica, e contempla l’impiego di terapie mirate principalmen-
te sui sintomi distimici (antidepressivi-ansiolitici) o deliranti-allucinatori (neurolettici maggiori). Occasionali allucinazioni olfattive sono eccezionalmente riferite anche nelle fasi evolutive della m. di Alzheimer e nella sindrome da astinenza alcoolica (entrambe condizioni che contemplano riduzione dell’acuità olfattiva).
Disturbi simbolici Analogamente agli altri sistemi sensoriali, anche l’olfatto soggiace alla possibilità di un’errata elaborazione simbolica dei segnali da parte delle aree corticali deputate all’attribuzione ed alla rievocazione dei nomi o al riconoscimento del significato simbolico dei messaggi in arrivo. La dimostrazione di un’agnosia agli odori, ovvero incapacità ad identificare o denominare correttamente dati aromi può essere sospettata in base ai risultati del test UPSIT (test di identificazione degli odori). Conviene precisare, peraltro, che questo test risente particolarmente delle capacità lessicali e verbali del soggetto, e può risultare alterato non tanto per un disturbo della sfera olfattiva, quanto per la coesistenza di un disturbo fasico, quale ad esempio l’anomia che frequentemente contraddistingue l’esordio di una demenza. In questi casi, l’UPSIT dovrebbe essere sostituito da un test analogo basato sull’identificazione di figure (PIT): ad esempio di frutti (arancio, banana), cibi (pizza, cioccolata), solventi (benzina, trementina). Analogamente, i test di discriminazione e di memoria degli odori risentono notevolmente delle capacità attentivo-mnesiche di cui ciascun soggetto dispone, per cui, come concetto di base, la valutazione psicometrica olfattiva dovrebbe avvenire nell’ambito più generale di un bilancio neuropsicologico completo (v. pag. 000).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Gusto (V - Nervo linguale; VII - Nervo intermediario; IX - Nervo glossofaringeo; X - Nervo vago) Il senso del gusto è principalmente deputato ad identificare la qualità degli alimenti da ingerire. Per quanto possa essere aiutata da olfatto e vista, la ricognizione e selezione finale del cibo si affida alla trasduzione chemocettiva intraorale, che ha principalmente sede nell’apparato gustativo della lingua, e, in misura del tutto accessoria, del palato, della faringe e dell’epiglottide. Poiché il transito di un alimento dal cavo orale alla porzione superiore dell’esofago è piuttosto veloce, specie per i cibi liquidi ed a nutrizione già avviata, il rischio che parti di cibo invisibilmente avariate e possibilmente tossiche siano per sbaglio ingerite può essere minimizzato solo attraverso un controllo gustativo continuo, inserito in un circuito riflesso a velocità d’intervento sufficientemente rapida. Nelle decisioni gustative, implicanti un significato di vita o di morte, l’uomo risulta circa tre volte più veloce del topo, impiegando solo 50 msec per bloccare la deglutizione di un alimento dal gusto sospetto (Delconte et al., 1992). Il gusto, quindi, costituisce in primo luogo un apparato di difesa, inducendo risposte di avversione per quei cibi che visualmente ed olfattivamente appaiono seducenti, ma che alla scansione chimica si rivelano veri e propri «trojans»13 : il “troppo” salato o acido evocano immagini di composti avariati e dannosi, mentre l’amaro è indispensabile per riconoscere ed evitare alcaloidi vegetali ed altre tossine ambientali potenzialmente mortali. Per contro, l’abilità ad identificare sostanze alimentari dolci è particolarmente importante nella ricerca di cibi ricchi di carboidrati con alto valore nutritivo (Margolskee, 2002). In tal
modo, il gusto diventa anche fonte di ineguagliabile piacere, fondamentale per motivare dopo la nascita l’attaccamento al seno materno (Steiner et al., 2001), e successivamente garantire la qualità della vita (Lindemann, 2001), non solo in termini puramente edonici, ma anche sociali, permettendo quella speciale convivialità orale essenziale per ogni genuino rapporto d’intimità, sia nei primati che nell’uomo. Antropologicamente, esistono evidenze circa un’evoluzione parallela dell’acuità gustativa per due raggruppamenti di gusti primari: per le sostanze vegetali dolci (gradevoli) e per quelle amare o ricche di tannini (sgradevoli). L’apprezzamento del gusto salato, e la corrispettiva minor acuità, sarebbe invece una risposta culturalmente acquisita in tempi recenti (Hladik et al, 2002). L’apparato gustativo, a differenza di quello olfattivo, non risponde alle molecole volatili, ma alle molecole in soluzione, fenomeno che è fisiologicamente garantito dalla continua produzione di saliva; inoltre, è perifericamente distribuito su una superficie molto più estesa. La differenza più evidente fra i due apparati sta però nella rispettiva sensibilità agli stimoli chimici, straordinariamente superiore per quelli olfattivi (molti dei quali capaci di farsi percepire persino a diluizioni di 1·10–9 di fronte ad un massimo di 3,376·10–3 per l’amaro della chinina solfato) e nel numero di sostanze riconosciute: migliaia di odori contro solo sei gusti di base, di cui quattro classici (il dolce, l’amaro, il salato e l’acido), e due di recente inclusione, rispettivamente l’umami14 o gusto di l-glutammato monosodico (il “sapido” del piatto giapponese “dashi”, degli intingoli e salse cinesi e dei brodi concentrati di carne) (Faurion, 1991; Lindemann, 2000; Yamaguchi e Ninomiya, 2000), ed il “grasso” (Margolskee, 2002).
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13
Cavalli di Troia, termine informatico usato per definire piccoli programmi nocivi mascherati sotto nomi allettanti.
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Dispiace che la patria di Brillat-Savarin, del «consommé» e di salse «haute cuisine» ed anche il famoso estratto di carne «deutsche» non abbiano avuto la benché minima considerazione nel mondo scientifico anglosassone.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.6 - Aree gustative della lingua, territori d’innervazione, papille e calici gustativi e zone di maggior sensibilità per i gusti di base.
Esistono spiegazioni di ordine anatomico: di fronte a 40 milioni di cellule olfattive, esprimenti complessivamente molte centinaia di differenti classi recettoriali, vi sono solo 5-10 milioni di equivalenti cellule gustative, dotate di pochissime classi recettoriali. Fortunatamente, le combinazioni gustative possibili risultano in realtà più numerose di quanto ci si potrebbe attendere da così pochi gusti–base: il problema principale, quindi, è di natura eminentemente lessicale, essendo il vocabolario occidentale particolarmente povero di parole atte a descrivere l’intera gamma dei sapori che a tavola siamo in grado di percepire. Aspetti neuroanatomici 1. – Mucosa, calici e cellule gustative. La via gustativa nasce da specifiche cellule recettoriali che complessivamente formano l’organo del gusto, rappresentato dai calici o gemme o bottoni gustativi (Fig. 7.6). Descritti da Loven e Schwalbe nel 1868, i calici sono microscopiche formazioni sferiche o ovoidali morfologicamente paragonabili a palloncini o meglio, a minuscole bottiglie rigonfie annidate nello spessore dell’epitelio (altezza 70-80 µm, larghezza 35-50 µm), con base appoggiata al derma e collo terminante alla superficie libera della mucosa con un piccolo «poro gustativo» (diametro 3-4 µm).
Su un totale di circa 10.000 calici, 9000 si concentrano sul dorso della lingua in corrispondenza delle papille gustative, ed in particolare: a) in numero scarso (da 1 a 5) nelle papille fungiformi, piccole escrescenze protrudenti dalla mucosa dei 2/3 laterali e punta della lingua (dominio del nervo intermediario, VII); b) in numero molto più alto (centinaia: 150 o più) nelle papille foliate, invaginate nella mucosa e disposte in fila lungo i bordi laterali del 1/3 posteriore della lingua; c) nelle grandi papille circumvallate (o vallate), invaginate e circondate da un vallo più profondo, situate nel 1/3 posteriore della lingua e costituenti la V linguale (dominio del nervo glossofaringeo, IX) (Fig. 7.6). I restanti calici (circa 1.000) si distribuiscono al palato molle attorno all’ugola, agli archi palatini, alla faringe (dominio dei nervi glossofaringeo e vago, IX-X). Una piccola quota di essi, priva di rilievo funzionale anche perché destinata a scomparire nella prima infanzia, si ritrova sulla faccia laringea (o posteriore) dell’epiglottide e sulle pieghe ariteno-epiglottiche (nervo vago, X). Ghiandole sierose annesse alle papille contribuiscono alla formazione di saliva all’interno del vallo peripapillare. I calici sono così costituiti (Fig. 7.6): a) all’esterno, da cellule epiteliali di sostegno, allungate ed a faccia concavo-convessa, che delimitano il poro gustativo; b) all’interno, da cellule neuro-epiteliali fusiformi disposte a doga di botte, alquanto ispessite in corrispondenza del nucleo ed interconnesse da giunzioni serrate16 , che ter16
Tali giunzioni ostacolano la diffusione passiva dei sali alle regioni basali, in proporzione al loro peso ed ingombro sterico.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali minano perifericamente con microvilli simili a ciglia protrudenti nel poro gustativo; c) al confine dermico, da piccole cellule basali rotondeggianti indifferenziate d’aspetto staminale (precursori), che incessantemente generano nuovi elementi neuro-epiteliali. Il neuro-epitelio, infatti, ha un ciclo vitale piuttosto breve (attorno ai 10 giorni), ed istologicamente risulta formato da una minoranza di cellule scure, iperdense (probabilmente in fase degenerativa per apoptosi) alternate ad una maggioranza di cellule chiare o intermedie. Le cellule neuro-epiteliali non sono neuroni, poiché mancano di dendriti e di assone, ed avendo vita effimera, devono essere continuamente rinnovati. Analogamente al neuro-epitelio olfattivo, ogni nuova cellula esprime il corredo recettoriale – e si connette con le stesse terminazioni assoniche – di quella scomparsa che va a sostituire (Ganchrow, 2000). Le cellule gustative, tuttavia, sono capaci di generare potenziali d’azione come i neuroni, ed inoltre formano, in corrispondenza di accumuli di vescicole di aspetto “presinaptico” situati al loro polo baso-laterale, numerosi contatti presinaptici con espansioni dei rami centrifughi di neuroni ganglionari a T gustativi, del tutto analoghi a quelli sensitivi di 1° ordine dei gangli dorsali. Ogni cellula neuro-epiteliale è presinaptica non solo rispetto a molte terminazioni di una stessa fibra ganglionare, ma in parte anche alle diramazioni collaterali di altre fibre ganglionari preferenzialmente terminanti su altri elementi. 2.– Proiezioni gustative di 1° ordine. Il decorso centripeto fino al soma delle fibre gustative provenienti dai due terzi anteriori della lingua è anatomicamente complicato ed ancor oggi poco chiaro nell’uomo, non solo per l’impossibilità ad identificare quali siano i contingenti di fibre che decorrono nei rami anastomotici, ma anche per le variazione anatomiche esistenti fra persona e persona. È diffusamente accettato, comunque, che i due terzi anteriori antistanti la V linguale (papille fungiformi) siano principalmente innervati da fibre afferenti al SNC che ascendono nella corda del timpano, raggiungono il rispettivo soma nel ganglio genicolato e da qui entrano a far parte del tratto prossimale del nervo intermediario di Wrisberg (nervo intermedio-facciale, VII) per penetrare nel solco bolbo-pontino in corrispondenza dell’ala cinerea (tratto o fascicolo solitario) e terminare infine nell’area gustativa bulbare, o porzione rostrale del nucleo del tratto solitario, aggettante lateralmente sul pavimento del IV ventricolo (tuber cinereum) (Fig. 7.7, 7.8, 7.9). È possibile che un certo contingente raggiunga il ganglio genicolato tramite un’anastomosi fra corda del
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timpano e nervo grande petroso superficiale, ed un altro contingente ascenda inizialmente nel nervo linguale (ramo del nervo mandibolare, III branca del trigemino,V) e solo successivamente, tramite un ramo anastomotico, raggiunga la corda del timpano. Simile destino hanno le fibre che innervano il palato molle, ascendenti attraverso il nervo grande petroso superficiale al ganglio genicolato (VII). Al contrario, il terzo posteriore della lingua (papille foliate e circumvallate) è innervato da fibre gustative ganglionari centrifughe che, ascendendo nella branca linguale del nervo glossofaringeo (IX) raggiungono i rispettivi somi nel ganglio petroso (Andersch, 1791) e decorrendo come rami centripeti nella radice del IX nervo, poi si distaccano per entrare nell’area gustativa bulbare (Bradley et al., 1996) (Fig. 7.8 e 7.9). Le restanti regioni retro-linguali sono innervate nella faringe dai nervi IX e X (vago) attraverso il plesso faringeo, e nella laringe, dal nervo laringeo superiore (X nervo): le fibre gustative ganglionari centrifughe, dopo aver raggiunto i rispettivi somi, situati rispettivamente nel ganglio petroso (IX nervo) e nel ganglio nodoso (X nervo), si estendono in rami centripeti lungo le radici di questi nervi per terminare anch’esse nell’area gustativa bulbare (Fig. 7.8 e 7.9). 3.– Proiezioni gustative di 2° e 3° ordine. Le vie centrali del gusto sono ancor oggi poco conosciute nell’uomo (Brodal, 1981; Norgren, 1990), e ciò che la recente letteratura riporta al riguardo è basato sullo studio anatomo-funzionale in RM di singoli casi con lesioni focali del tronco, del talamo o della corteccia (SanchezJuan e Combarros, 2001). Le proiezioni di 2° ordine dei neuroni dell’area gustativa bulbo-pontina (nucleo del tratto solitario) ascendono ipsilateralmente nel tratto tegmentale centrale bulbopontino, posto dorsalmente al lemnisco mediale, e sono di tre tipi: segmentali, solitario-talamiche e solitarioparabrachiali. a) Le proiezioni segmentali innervano vari nuclei del tronco encefalico: nucleo dorsale motore del X, nucleo ambiguo, nuclei salivatori, nuclei del V e del VII, e rappresentano l’arco afferente di vari meccanismi vegetativi e motori riflessi, quali ad esempio, salivazione, masticazione, deglutizione e vomito. b) Le proiezioni solitario-talamiche risalgono ipsilateralmente fino al ponte-mesencefalo, quindi in gran parte si incrociano in un tratto compreso fra mesencefalo e parte mediale del VPM (Onoda e Ikeda, 1999), e terminano controlateralmente nella porzione più mediale
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.7 - Schema della distribuzione delle vie vasodilatatorie, secretrici ghiandolari e delle vie gustative del n. intermediario di Wrisberg.
(parvicellulare) del nucleo talamico VPM (Fig. 7.9). Le proiezioni di 3° ordine di questo subnucleo raggiungono la corteccia gustativa primaria corrispondente, situata nel territorio di confine fra porzione anteriore dell’insula ed opercolo parietale. Non è chiaro se esistano contingenti che seguono il decorso del lemnisco mediale (Fig. 7.11) e contingenti che non s’incrociano: tali possibilità, suggerite soprattutto in passato, oggi sembrano assai remote. Pertanto, l’ageusia di un’intera emilingua (emiageusia) può dipendere: i) da una lesione focale ipsilaterale del tronco encefalico, oppure ii) da una lesione focale controlaterale del talamo, dell’adiacente capsula interna o della corteccia gustativa primaria opercolo-insulare. c) Le proiezioni solitario-parabrachiali terminano nella porzione mediale del nucleo parabrachiale pontomesencefalico, disposto ventralmente attorno al braccio congiuntivo di ogni lato. Il nucleo parabrachiale invia proiezioni rostro-ventrali di 3° ordine sia all’ipotalamo, deputate alla regolazione di funzioni vegetative quali ad
esempio l’appetito e la sete, sia alle regioni olfattive del sistema limbico (area prepiriforme, uncus dell’ippocampo). In tali sedi avviene quella speciale integrazione degli odori e dei sapori che permette di apprezzare il “gusto” dei cibi sotto il profilo edonico e contemporaneamente di impedire l’ingestione di sostanze tossiche (Reilly, 1999).
Aspetti neurofisiologici e neurobiologici 1.– Recettori e meccanismi di trasduzione degli stimoli gustativi. Le quattro qualità gustative basali (salato, dolce, amaro, acido) sono percepite ubiquitariamente sulla lingua, ma con maggior facilità in corrispondenza di specifiche regioni, ove ogni unità sensitiva reagisce a tutti e quattro gli stimoli, ma con soglia particolarmente bassa per uno stimolo specifico: apice della lingua (dol-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.8 - Via gustativa: fibre a partenza dal terzo posteriore della lingua (n. glosso-faringeo) e fibre a partenza dai due terzi anteriori della lingua, ove tre possibili vie A, B, C, sono indicate. A) Attraverso la corda del timpano, il ganglio genicolato e l’intermediario di Wrisberg si raggiunge il n. del fascicolo solitario; B) attraverso la corda del timpano, il ganglio genicolato, il n. grande petroso superficiale, il ganglio sfenopalatino, il ganglio di Gasser, il V paio, si raggiunge il n. del fascicolo solitario; C) attraverso il n. linguale, il ganglio di Gasser, il V paio si raggiunge il n. del fascicolo solitario. V-VII-IX-X: nervi cranici. 1°, 2°, 3°: branche del trigemino.
Fig. 7.9 - Schema delle vie gustative centrali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
ce), V-linguale (amaro), bordi laterali anteriori (salato), bordi laterali posteriori (acido). Per ogni tipo di stimolo gustativo esiste uno specifico meccanismo di trasduzione, ma la stessa sensazione può essere evocata da due differenti stimoli (ad esempio, il gusto acido prodotto da protoni [H+] può essere potenziato da anioni organici, quali lattato– o meglio ancora, citrato–). Inoltre, i meccanismi trasduttivi per la stessa sostanza stimolante possono sensibilmente differire fra le diverse specie di vertebrati. In accordo a Buck (2000b) e Margolskee (2002), i meccanismi molecolari responsabili dei gusti base seguono questa sequenza generale: interazione delle sostanze stimolanti con recettori situati sulla superficie apicale (microvilli) → depolarizzazione → generazione di potenziali d’azione → ingresso (o liberazione intracellulare) di Ca2+ → rilascio di neurotrasmettitori dalla superficie basale → attivazione sinaptica delle fibre di 1° ordine. Sia i recettori gustativi con relative G-proteine, che i meccanismi di trasduzione intracellulare del segnale chimico attraverso secondi e terzi messaggeri, tentativamente sintetizzata in Tab. 7.5, rappresentano argomenti molto complessi e non ancora completamente conosciuti (Kinnamon, 2000; Margolskee, 2002). Come è possibile osservare, esistono due classi multigeniche di recettori accoppiati a differenti G-proteine (gustducine, molto simili alla transducina dei coni retinici), T1R per il gusto dolce e T2R (o TRB) per il gusto amaro. In particolare: a) la prima classe è caratterizzata da tre tipi di recettore, T1R (1-3), di cui la forma T1R3, corrispondente al locus Sac sul cromosoma 4, è la principale responsabile per la sensibilità ai dolcificanti naturali ed artificiali, quali la saccarina (Sainz et al. 2001), ed è espressa sulle papille fungiformi, ed anche sulle papille circumvallate e foliate. La formazione di eterodimeri (T1R1/T1R2, T1R2/T1R3) e l’associazione a isoforme di gustducina sarebbero responsabili della differente sensibilità finale ai differenti dolcificanti. Sorprendentemente, oltre a permettere il riconoscimento delle sostanze dolci, l’etero-dimero T1R1/T1R3 permetterebbe anche quello del gusto umami, cioè del lglutammato ed l-aspartato. Recenti evidenze di non age-
vole comprensione, infatti, dimostrano che questi l-aminoacidi producono una selettiva attivazione, nettamente potenziata da 5'-ribonucleotidi (IMP-GMP), dell’eterodimero formato dal recettore T1R1 (dotato di sequenze identiche a quelle del recettore metabotropico per il lglutammato (mGluR1) e dal recettore T1R3, qualora entrambi siano espressi in cellule dotate di particolari Gproteine, quali ad esempio Gα15 (Li et al., 2002). Ma ciò non è tutto (Nelson et al., 2002): l’etero-dimero T1R1/T1R3 funzionerebbe non tanto come recettore specifico per l-glutammato/l-aspartato (con relativo gusto umami), ma come generico sensore della maggior parte di altri 20 l-aminoacidi dotati di sapore piacevole (dolce o umami-simile). Sequenze aminoacidiche di T1R1/T1R3, differenti da specie a specie, spiegherebbero le preferenze di gusto nell’ambito di queste molecole, essenziali sia come precursori biosintetici, che come fonte d’energia. Questa selettività del senso del gusto probabilmente comporta rilevanti implicazioni di carattere evoluzionistico. Rigorosamente stereospecifica ed assente per i d-isomeri, essa tuttavia differisce da quella olfattiva, capace di distinguere gli isomeri chirali della stessa molecola in base ad una differente intensità o qualità percettiva. Il gusto umami, inoltre, è garantito anche da un secondo meccansimo di trasduzione, basato sull’attivazione di recettori metabotropici per il glutammato/aspartato di tipo mGlu-R4 (sensibili a l-2-amino-4-fosfono-butirrato o L-AP4), cui fa seguito in cascata una riduzione del cAMP submembrana (Chaudhari e Roper, 1998; Chaudari et al., 2000) ed una facilitata apertura dei canali Na+ e Ca2+ c-AMP-dipendenti. b) La seconda classe T2R/TRB (amaro) comprende una famiglia di 40-80 recettori associati ad a-gustducina o anche ad altre sue isoforme, espresse nel 15-20% delle cellule neuro-epiteliali delle papille circumvallate e foliate e del palato, ma soltanto in pochissime cellule delle papille fungiformi (Adler et al., 2000). Poiché un largo repertorio di questi recettori è espresso nella stessa cellula, diventa facile spiegarsi perché un uniforme gusto amaro sia prodotto da così tante sostanze tossiche strutturalmente eterogenee, ed anche prive di correlato fra loro (Chandrashekar et al., 2000).
2.– Saliva ed apparato gustativo. La funzione salivare è strettamente legata a quella gustativa, e le rispettive interazioni, non ancora completamente conosciute, possono essere così riassunte (Spielman, 1990): a) Interazioni saliva–stimoli gustativi. La dotazione ionica della saliva è critica per la trasduzione dei segnali fisiologici: la presenza di bicarbonati, infatti, attenua il
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.5 – Principali meccanismi recettoriali e di trasduzione intracellulare degli stimoli gustativi (aggiornati al 2002). Recettori Salato
Acido
Dolce
Stimolo
Eventi molecolari intracellulari
NaCl
canali Na+ → ingresso Na+ (apicale/ basale) → depolarizzazione → esocitosi
KCl
canali K+ → ingresso K+ (apicale) → depolarizzazione basale → esocitosi
HCl
canali Na+ (amiloride sensibili) → ingresso H+ → depolarizzazione → esocitosi
Citrato–
canali K+ (apicali) → blocco → depolarizzazione → esocitosi
T1R1-T1R2 Zucchero
attivazione adenilil-ciclasi → aumento cAMP → fosforilazione (PKA) ed inibizione
T1R2-T1R3
dei canali basolaterali K+ → depolarizzazione → ingresso di Ca2+ → → esocitosi
T1R3 Amaro T2R/TRB
Dolcificanti
attivazione fosfolipasi PLC → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ →
Denatonio
gustducina (Gα → attivazione di fosfodiesterasi (PDE1A) → riduzione cAMP →
Propiltiouracile → disinibizione canali (Ca2+, K+) cAMP dipendenti → ingresso di Ca2+ → → esocitosi gustducina (Gβ3, Gγ13) → PLCβ2 → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ →
Umami mGLU-R4
Chinina
blocco di canali K+ apicali e relativa corrente d’uscita → depolarizzazione → esocitosi
GLU/ASP
gustducina (?)→ attivazione di fosfodiesterasi → riduzione cAMP →
c-AMP/IP3
→ disinibizione canali (Ca2+, K+) cAMP dipendenti (?)→ ingresso di Ca2+ → → esocitosi
T1R1-T1R3 idem + L-AP4 gustducina (Gα15) → attivazione fosfolipasi → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ → (mGLU-R1)
gusto acido, mentre quella di glutammato tende a potenziare il gusto sapido (umami); inoltre, è il contenuto in Na+ della saliva, normalmente privo di correlato gustativo, a determinare la soglia per l’apprezzamento del salato. Analogamente, ogni sostanza escreta nella saliva o trasportata in essa dall’apparato dentale (ad esempio farmaci, ioni metallici, derivati della degradazione di residui alimentari, etc.) è teoricamente in grado di modificare in maniera anche sostanziale la soglia percettiva per uno o più gusti base, o di creare distorsioni percettive (disgeusia). La presenza nella saliva di lipocaline quali le hOBPIIa (componenti del muco olfattivo già descritte a pag. 000) permette inoltre la solubilizzazione e presentazione ai recettori gustativi di molecole idrofobiche “grasse”, responsabili di quell’attraente ed indefinibile sapore aggiuntivo che caratterizza ogni alimento ricco in lipidi. b) Interazioni stimoli gustativi–saliva. La produzione e la composizione della saliva sono influenzate dal tipo
degli stimoli gustativi. Generalmente, il massimo flusso con più elevata concentrazione di Na+ è prodotto dagli acidi organici (da acido citrico o acetico), mentre la più alta concentrazione di proteine e Ca2+ è prodotta dal sale comune e dal l-glutammato monosodico (Horio e Kawamura, 1989) La relativa proporzione delle varie proteine salivari, comunque, rimane fisiologicamente invariata ed indipendente dal tipo di stimolo.
3.– Apprendimento e modulazione dei gusti. La diffusa accettazione dei quattro gusti di base nasce dalla certezza, mai contestata, che possono essere percepiti da tutti, sia pure con modeste variazioni interindividuali. I nuovi due gusti, l’umami ed il “grasso”, sono ancor oggi accettati con riserva, anche da chi vi crede. Molto probabilmente, il motivo sta nel fatto che sono entrambi molto allettanti e piacevoli, ma
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
poco nettamente delineati da un punto di vista qualitativo, e che non tutte le cucine ne fanno lo stesso uso. Il fatto che solo il 73% delle persone riesca a distinguere il gusto umami dal gusto salato, suggerendo che le altre abbiano un’ageusia specifica per il glutammato (Lugaz et al., 2002), sembra piuttosto ridimensionato dalla dimostrazione che tale deficit selettivo scompare facilmente, solo che si assaggi dadi al l-glutammato per un po’ di giorni (Kobayashi e Kennedy, 2002). Ciò va pienamente d’accordo con la dimostrazione neurofisiologica nel primate di un epicentro corticale per il gusto umami differente da quello dei gusti classici, essendo situato in un’area gustativa secondaria della corteccia orbito-frontale, area in cui è possibile un netto potenziamento da parte di altri specifici gusti (5'-inosina monofosfato) o odori (aglio), così come una loro marcata attenuazione a sazietà raggiunta (Rolls, 2000).
In conclusione, così come per gli odori, anche per i sapori ed i gusti non è tanto l’attrezzatura che sembra difettare, quanto l’abitudine ad usarla. 4.– Elaborazione del codice neurale. Il paradigma dei quattro gusti di base indurrebbe a pensare che vi siano linee privilegiate per ciascuno di essi (teoria quadripartita delle “labelled-lines”). L’insieme delle evidenze psicofisiche ed elettrofisiologiche finora raccolte depone piuttosto per l’esistenza di qualità gustative che vanno ben al di là di una scarsa manciata di gusti. L’attivazione iniziale di un vasto numero di differenti recettori, canali ionici e secondi messaggeri, comporterebbe piuttosto l’insorgenza di specifici, differenti “pattern” di scarica attraverso l’intera matrice neuronale del sistema gustativo (teoria “across-fiber”). In altre parole, i neuroni non sarebbero programmati per elaborare una particolare sensazione, ma per operare in rete con gli altri nella codifica dei vari sapori (Schiffman, 2000). 5.– Interazioni fra sistema gustativo e sistema trigeminale somestesico endo-orale. La densa innervazione tattile, termica, dolorifica e vegetativa (eccitosecretiva e vasomotoria)
delle mucose chemosensoriali da parte del nervo trigemino permette di modulare finemente la sensibilità agli stimoli olfattivi e gustativi attraverso un controllo locale delle secrezioni mucose e del flusso arteriolo-capillare. Stimoli sensitivi endo-nasali ed endo-orali, inoltre, accompagnano costantemente quelli sensoriali nella loro elaborazione ad ogni livello del SNC. Limitatamente all’aspetto puramente percettivo (e tralasciando quindi le attività riflesse quali ad esempio la congestione nasale riflessa, lo starnuto, la nausea ed il vomito), l’esperienza finale olfattiva e gustativa risulta sempre arricchita di qualità non sensoriali, come per esempio il caldo, il freddo, la consistenza o la fluidità, e non ultimo, anche le proprietà “irritanti” dei cibi, erroneamente attribuite al senso del gusto. La diffusa abitudine, specie nei climi caldi, di condire gli alimenti con paprika piccante o con spezie analoghe, quali ad esempio lo zenzero, di per sé essenzialmente prive di odore e sapore, basterebbe da sola ad attestare l’esistenza - o una forte necessità - di un’elaborazione sensitivo-sensoriale centrale congiunta17 . Vi sono peraltro sufficienti evidenze neuroanatomiche che sostengono quest’idea, almeno limitatamente al gusto, poiché l’approdo finale dei messaggi talamo-corticali termici e dolorifici avviene, vedi caso, in un’area insulare immediatamente retrostante a quella che riceve i messaggi gustativi (porzione anteriore dell’insula) (v. pag. 542). ESAME DELLA FUNZIONE GUSTATIVA Prevede l’effettuazione di un’intervista anamnestica come per l’olfatto (v. pag. 196) seguita da prove di semplice identificazione dello stimolo gustativo. Sfortunatamente mancano ancora metodi standardizzati analoghi a quelli olfattometrici precedentemente esposti per quantificare la soglia e le capacità di discrimi17
Analogamente alla consonanza «son et lumière», direbbero i sacerdoti del culto della temperatura di vini.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nazione e di memorizzazione degli stimoli gustativi, e, come per l’olfatto, l’impiego di tecniche elettrofisiologiche rimane essenzialmente sperimentale e confinato all’ambito di pochi laboratori specializzati. Diversi fattori possono interferire con l’esame del gusto: un’adeguata collaborazione da parte del paziente, la progressiva riduzione con l’età delle cellule e delle papille gustative, il differente apprezzamento simbolico dei sapori in rapporto alle abitudini ed alla cultura etnica. L’esame si effettua stimolando vari punti dei due terzi anteriori e del terzo posteriore della lingua, sia a sinistra che a destra. Poiché gli stimoli chimici sotto forma liquida tendono a diffondere rapidamente, è preferibile utilizzare sostanze chimiche solide in minima quantità, tali da formare una soluzione concentrata pressoché solo nel punto di contatto, applicate mediante un piccolo tampone leggermente inumidito. Alternativamente, possono essere applicati, con una sottile pinza, piccoli dischi di carta da filtro imbevuti di soluzioni concentrate, oppure, qualora si voglia testare la soglia gustativa, di soluzioni a concentrazioni log-scalari (NaCl: 2,57,5-15%; acido citrico: 1,5-5-10%; glucosio: 110-40%; chinina-HCl: 0,035-0,075-0,5%). Il soggetto non deve parlare, essere in grado di mantenere la lingua protrusa immobile, appoggiata su una garza, e di indicare, sulle figure o sui nomi rappresentativi di ciascun gusto che gli vengono mostrati, quello corrispondente alla sensazione che di volta in volta prova. Dopo ogni applicazione, la lingua dev’essere accuratamente pulita con un tampone o, meglio ancora, sciaquata con acqua. Le sostanze usate per la stimolazione sono classicamente: zucchero (dolce), sale comune o NaCl (salato), acido citrico (acido) e chinino solfato (amaro). La stimolazione con acido citrico può essere sostituita da una stimolazione galvanica mediante comuni pile connesse tramite potenziometro ed interruttore a due elettrodi applicati l’uno in un punto indifferente della mucosa orale (negativo), l’altro su differenti punti del dorso della lingua (positivo). Idonee apparecchiature predisposte per erogare correnti costanti sono necessarie per effettuare l’elettrogustometria quantitativa.
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In caso di deficit bilaterale, può essere utile valutare globalmente la sensibilità gustativa residua del paziente invitandolo ad assaggiare direttamente in bocca le soluzioni di ogni sostanza.
Alterazioni del gusto IPOGEUSIA ED AGEUSIA Definiscono rispettivamente la riduzione e la perdita completa della sensibilità gustativa. In mancanza di una classificazione universalmente accettata delle cause di ipo- ageusia, si propone tentativamente la seguente Tabella riassuntiva (Tab. 7.6). 1. –L’ipo-ageusia da cause non neurologiche è spesso associata a disgeusia ed è diffusa all’intera mucosa gustativa. Tralasciando l’azione lesiva di fumo di tabacco ed infezioni oro-faringee e delle prime vie aeree, una causa abbastanza comune di ipo- disgeusia è l’uso cronico di farmaci a larga diffusione. In questi casi, il disturbo può non solo compromettere la qualità della vita, ma anche comportare una scarsa «compliance» terapeutica da parte del paziente. I quadri farmaco-iatrogeni si osservano generalmente in soggetti di età media attorno ai 50 anni di ambo i sessi (58% femmine), nei quali la sospensione del trattamento usualmente si associa a regressione del disturbo gustativo, che si completa, però, solo nel 60% circa dei casi (Ratrema et al., 2001). Una possibile spiegazione dell’ipogeusia da farmaci può essere ricercata nell’azione chelante svolta da alcuni di essi su metalli divalenti come il rame e lo zinco (vedi ad esempio D-penicillamina). Lo zinco, in particolare, è un cofattore essenziale per oltre 300 funzioni enzimatiche, per la sintesi del DNA e l’espressione genomica, per la difesa immunitaria, per il trofismo della cute, delle mucose e degli epiteli chemosensoriali, ed assieme al rame, è essenziale per il funzionamento della Cu2+/Zn2+-superossido-dismutasi18. Il fabbisogno alimentare di zinco, pari
18
Ridotta, incidentalmente, nella malattia di Parkinson, ove sono stati descritti importanti disturbi olfattivi e anche gustativi.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
nell’adulto a 15 mg al giorno, è normalmente soddisfatto dalla comune alimentazione basata su cereali, legumi, noci, latticini, carne e pesce, ma può aumentare in gravidanza, o l’apporto diventare insufficiente per cause alimentari, malassorbimento o patologia sistemica grave. Lo zinco, infine è cruciale per la conduzione di una normale gravidanza e per un corretto sviluppo fetale, e successivamente, per un normale sviluppo infantile (Prasad, 1996).
avanzata oltre 30 anni fa (Henkin e Bradley, 1970) poco prima della descrizione di un’allora nuova «sindrome di ipogeusia idiopatica con disgeusia, iposmia e disosmia» (Henkin et al., 1971), si è rafforzata via via fino ad oggi, anche per merito di una progressiva serie di ricerche effettuate dagli stessi e da altri Autori.
L’ipotesi di un cruciale coinvolgimento dello zinco nella funzione gustativa ed anche olfattiva,
In sintesi, è stato dimostrato che il 3% delle proteine secrete nella saliva dalla parotide è rappresentato dalla
Tabella 7.6 – Principali cause di alterazione del gusto *. 1. - Cause non neurologiche
2. - Cause neurologiche
1. Fumo di tabacco (specie sigaro, pipa)
1. Periferiche Lesioni del V – nervo linguale Interventi odontostomatologici e maxillo-facciali Intubazione tracheale Poliradicoloneuropatia di Guillain Barré Neuropatie sensitive Lesioni gasseriane (terapia della nevralgia del trigemino) Lesioni del VII intermediario – corda del timpano Paralisi di Bell Traumi facio-cervicali Aneurisma dissecante carotide interna extracranica Neoplasie Lesioni IX-(X) (foro lacero posteriore) Tumori (neoplasie, iperplasie linfonodali) Traumi
2. Patologia infettiva del cavo orale e prime vie aeree Virale (Adeno, rino ed influenza-virus; Herpes simplex) Batterica (sialoadeniti) Fungina (candidiasi orale) 3. Patologia salivatoria Sindrome di Sjögren (“sicca syndrome”) Sclerodermia Fibrosi cistica Radioterapia 4. Farmaci (oltre 250), ma soprattutto: ACE-inibitori, ipocolesterolemizzanti orali, antistaminici, D-penicillamina, inibitori dell’anidrasi carbonica (Diamox), imidazolici ed imidazolinici (metimazolo, carbimazolo, metronidazolo, zopiclone), captopril, calcio-antagonisti, psicofarmaci, chinoloni, macrolidi 5. Patologia tossico-carenziale Malnutrizione e celiachia Insufficienza renale ed epatica Ipovitaminosi A e B Deficit di zinco e di ferro Cachessia neoplastica 6. Patologia endocrinologica Iper– o ipocorticosurrenalismo Panipopituitarismo Ipotiroidismo Pseudoipoparatiroidismo Diabete mellito 7. Patologia psichiatrica Depressione Schizofrenia * modificata da Sanchez-Juan e Combarros, 2001.
2. Centrali Troncoencefaliche Lesioni vascolari Sclerosi multipla Malattia di Parkinson Talamiche Neoplasie Sclerosi multipla Lesioni vascolari Corticali Sclerosi temporale mesiale (in associazione ad epilessia) Lesioni vascolari Neoplasie 3. A topografía indeterminata Traumi cranici maggiori Neuropatia sensitivo- autonomica ereditaria tipo III (sindrome di Riley-Day)
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali “gustina”, Zn2+-metalloproteina di 37 kD corrispondente all’isoforma VI dell’anidrasi carbonica (CAVI-gustina), capace di attivare una fosfodiesterasi Ca2+-calmodulino-dipendente (Thatcher et al., 1998) e probabilmente anche fattore trofico per la mucosa neuro-epiteliale. Infatti, in malati con sindrome influenzale complicata con ipogeusia, disgeusia, iposmia e disosmia, è stata osservata una riduzione dei tassi di Zn2+ urinari, ematici e salivari associata ad una riduzione dei tassi salivari di CAVI-gustina e ad evidenti segni di danno morfostrutturale dei calici gustativi delle papille circumvallate (Henkin et al., 1999a). Il fatto che l’insieme dei disturbi sensoriali e delle alterazioni biochimico-strutturali migliorasse in oltre il 70% dei malati dopo trattamento per 4-6 mesi con 100 mg/pro die (in dosi refratte ripetute) di sali di zinco (solfato), ha indotto a concludere che lo zinco attiva l’espressione genica (e probabilmente l’attività specifica e la secrezione) di CAVI-gustina nella saliva, e che essa è fondamentale per il processo di rinnovamento del neuroepitelio gustativo attivando i precursori staminali basali. Le mancate risposte terapeutiche possono dipendere o da una zinco-resistenza, o da un’inattivazione della CAVI-gustina da eccessiva sialilazione dell’enzima (Henkin et al., 1999b).
Supporto all’ipotesi di un deficit di zinco/ CAVI-gustina quale principale causa (o via finale comune) di ipo-disgeusie ed ipo- disosmie di varia natura deriva anche dall’evidenza che la profilassi o la terapia con zinco è efficace nel migliorare o prevenire l’ipo- disgeusia da psicofarmaci (Stoll e Oepen, 1994) o da irradiazione del capo e del collo (Ripamonti et al., 1998), e che il trattamento con zinco riduce i sintomi neurosensoriali deficitari e la durata del comune raffreddore, come è risultato da una revisione critica di numerosi studi randomizzati effettuati a questo riguardo (Marshall, 1998). 2. –L’ipo-ageusia da cause neurologiche si manifesta con ipo-ageusia localizzata ad un’emilingua, o a porzioni di lingua, salvo alcune eccezioni (contusioni cerebrali bilaterali, neuropatie sensitive). Il seguente semplice schema illustra gli elementi di base che servono per una diagnosi di sede lesionale (Tab. 7.7). DISGEUSIE E PARAGEUSIE. –Indicano rispettivamente distorsioni delle sensazioni gustative evo-
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cate dai normali cibi, il cui sapore è percepito come sgradevole (fino alla cacogeusia), e percezioni abnormi di sapori strani ed inusuali, non evocati da alcun stimolo e spesso a carattere accessuale. Il disturbo è di solito percepito se sufficientemente intenso o bilaterale. La disgeusia, come l’ipogeusia, può dipendere innanzi tutto dal fumo (specie di tabacchi forti da sigaro o pipa) e da cause locali odontostomatologiche, ad esempio infiammazioni acute e croniche del cavo orale e le otturazioni o protesi di differenti metalli (con produzione di effetti galvanici). Altre cause da ricercare sono l’eccessivo uso locale di disinfettanti ad azione ossidante (acqua ossigenata, soluzioni iodate, clorexidina, sbiancanti dello smalto), l’uso topico di sostanze ad azione antisettica tannante (antrachinonici, sali di argento e, paradossalmente, anche di zinco) e l’assunzione di certi farmaci (Tab. 7.6). Quadri di dominante disgeusia, spesso associata a disosmia, possono insorgere nell’età avanzata, apparentemente senza causa, oppure accompagnarsi a quadri depressivi o psicotici, ove diventa pressoché impossibile stabilire se il disturbo in realtà non dipenda dal trattamento psicofarmacologico, spesso già da tempo in atto, o anche dall’età e dalle abitudini alimentari. A scanso di errori, in ognuna di queste situazioni l’ipotesi carenziale ipovitaminosica o da deficit di zinco (più sopra descritta) dovrebbe essere seriamente considerata, ed eventualmente provata una terapia integrativa con zinco solfato per un adeguato periodo di tempo. Ipo- disgeusia causata da un aneurisma dissecante della carotide interna extracranica con effetto massa è stata descritta isolatamente (3% dei casi, per interessamento della corda del timpano) o in associazione a deficit unilaterale di uno o più nervi cranici (17% dei casi) (Mokri et al., 1996): tali sintomi, associati (83% dei casi) o meno che siano ad emicrania omolaterale, hanno un importante valore patognomonico predittivo, sollecitando una dirimente esplorazione eco-doppler dei vari tronchi sovra-aortici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.7 – Diagnosi di sede nell’ageusia da lesioni neurologiche focali. Ageusia localizzata a:
Territorio d’innervazione
Strutture lese
emilingua
nervi VII-(V)-IX
Tronco (bulbo-ponte dorsale): nucleo del tratto solitario* Talamo: VPM mediale Corteccia: area opercolo-insulare
due terzi anteriori
nervi VII–(V)
Nervo intermedio-facciale (VII) Ganglio genicolato Corda del timpano N. linguale (V)
terzo posteriore
nervo IX
Nervo glossofaringeo (IX) Ganglio petroso
* La possibilità di una lesione isolata e selettiva del nucleo del tratto solitario è da alcuni messa in discussione (Victor, 2001).
Le parageusie sono quasi sempre di natura epilettica, quasi mai hanno un contenuto percettivo piacevole, ed esprimono l’attivazione parossistica focale delle aree corticali gustative primarie o secondarie. ALLUCINAZIONI GUSTATIVE. Corrispondono a percezioni gustative altamente realistiche prive d’oggetto, e possono rappresentare sia un sintomo psichico positivo nelle forme di schizofrenia produttiva, sia un sintomo epilettico da interessamento di aree associative, qualora la loro insorgenza sia repentina e la loro durata breve. In questo caso, valgono le stesse considerazioni già esposte a proposito delle allucinazioni olfattive (v. pag. 201).
Neuroftalmologia E. Favale La neuroftalmologia studia le alterazioni della funzione visiva e della motilità oculare (intrinseca ed estrinseca) di interesse neurologico.
Vie ottiche Dati anatomici Il nervo ottico (così come il nervo olfattivo) deve essere considerato come una estroflessione cerebrale, poiché la retina è in realtà una evaginazione dell’emisfero cerebrale, sviluppata nella vita fetale dalla vescicola ottica. La retina infatti è formata da cellule nervose, divise in dieci strati (Fig. 7.10). Le cellule sensoriali sono rappresentate dai coni e dai bastoncelli: i primi si trovano isolati nella fovea e predominano sui secondi nella restante parte della macula lutea, mentre in tutta la superficie retinica circostante sono più numerosi i bastoncelli. La macula lutea è la zona di maggior acuità visiva mentre la papilla ottica, priva di organi sensoriali, non ha capacità visive e si esprime nel campo visivo come una macchia cieca. I dendriti delle cellule bipolari dello strato nucleare interno (VI strato), diretti verso l’esterno, entrano in connessione sinaptica con i recettori visivi, i coni e i bastoncelli. Gli assoni delle cellule bipolari, diretti centralmente, entrano in connessione sinaptica con le cellule gangliari dell’VIII strato, i cui assoni a loro volta, dopo avere attraversato lo strato fibrillare della
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Fig. 7.10 - Struttura della retina. 1: epitelio pigmentato; 2: coni e bastoncelli; 3: membrana limitante esterna; 4: strato dei granuli esterni; 5: strato plessiforme esterno; 6: strato dei granuli interni con a, b, e, cellule bipolari; 7: strato plessiforme interno; 8: strato delle cellule ganglionari (g, h, i); 9: strato delle fibre ottiche (con cellule di Muller); 10: membrana limitante interna. Le frecce indicano la direzione seguita dall’impulso nervoso.
retina, perforano la sclerotica a livello della papilla ottica e costituiscono il nervo ottico. LE VIE OTTICHE.– Dalle cellule gangliari retiniche nasce quindi la via ottica che attraverso il nervo ottico, il chiasma, il tratto ottico, il corpo genicolato laterale e le radiazioni ottiche raggiunge la corteccia striata del lobo occipitale (Fig. 7.11). Il nervo ottico che corre posteriormente attraverso l’orbita, ed entra nella cavità cranica attraverso il forame ottico ove, a circa 1 cm di distanza dal bulbo, è accompagnato, sulla sua superficie superiore, dall’a. oftalmica, e si unisce quindi al n. ottico controlaterale formando il chiasma ottico. Il chiasma ottico, situato dorsalmente alla sella turcica, è costituito dall’unione dei due nervi ottici, e dà origine ai due tratti ottici.
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Fig. 7.11 - Schema del decorso delle vie ottiche.
La superficie dorsale contrae rapporto con il pavimento del terzo ventricolo, la superficie ventrale con la tenda dell’ipofisi e il solco chiasmatico. Il margine anteriore si trova sulla tenda dell’ipofisi e sul solco chiasmatico, mentre il margine posteriore prende contatto con il peduncolo ipofisario. Lateralmente il chiasma contrae rapporti con le due arterie carotidi interne, che decorrono appunto lungo i due margini laterali e con le due cerebrali anteriori, che spesso si curvano a gomito sulla superficie superiore del chiasma o passano al di sopra dei due nervi ottici e sono collegate fra loro dalla comunicante anteriore (Fig. 7.12).
Il tratto ottico collega il chiasma con il corpo genicolato laterale. Alcuni gruppi di fibre, come vedremo (v. pag. 216), non entrano nel corpo genicolato, ma raggiungono il collicolo superiore e il tetto mesencefalico attraverso il braccio quadrigemino superiore e costituiscono la base anatomica per l’estrinsecazione del riflesso pupillare.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.12 - Relazioni anatomiche del chiasma ottico con l’arteria carotide interna.
Il corpo genicolato laterale, di forma ovoidale, situato ventrolateralmente al pulvinar è formato da strati alternati di sostanza grigia e bianca e costituisce, col corpo genicolato mediale, il metatalamo. Il corpo genicolato laterale rappresenta la stazione finale per le fibre del tratto ottico e costituisce pertanto un centro visivo primario. Le radiazioni ottiche, o fascio genicolatocalcarino, si estendono dal corpo genicolato laterale alla corteccia occipitale (area striata o area 17), stazione di arrivo del sistema ottico che occupa il labbro superiore ed il labbro inferiore della scissura calcarina. Lungo tutto il sistema ottico e cioè retina, chiasma, tratto ottico, corpo genicolato laterale, radiazioni ottiche, corteccia striata, esiste una localizzazione punto a punto, per cui una determinata, anche piccola porzione retinica, possiede in tutto il sistema una localizzazione precisa e determinata (Fig. 7.13). Come vedremo, la metà nasale della retina vede la metà temporale del campo visivo e, viceversa, la metà temporale della retina vede la metà nasale del campo visivo. Nel nervo ottico le fibre di provenienza retinica, già a breve distanza dal globo oculare, si dispongono in vari fasci ben distinti da un pun-
to di vista funzionale: il fascio papillo-maculare, proveniente dalla macula, occupa la porzione centrale del nervo, il fascio temporale proveniente dalla metà temporale della retina, si dispone nella porzione laterale, ed il fascio nasale, proveniente dalla metà nasale della retina, è collocato nella porzione mediale del nervo. Le fibre provenienti dai quadranti inferiori della retina sono situate inferiormente, quelle provenienti dai quadranti retinici superiori superiormente. In corrispondenza dell’angolo anteriore del chiasma le fibre provenienti dalla metà temporale della retina si portano nella porzione laterale del tratto ottico omolaterale senza incrociarsi, mentre le fibre provenienti dalla metà nasale della retina si incrociano nel corpo del chiasma formando un’ampia ansa e quindi si portano nella porzione mediale del tratto ottico controlaterale. La porzione di retina situata in corrispondenza del polo posteriore dell’occhio è altamente differenziata poichè fornisce l’acuità visiva più elevata: quest’area, di colore giallo all’oftalmoscopio, è la macchia lutea o area maculare. Ha la dimensione della papilla ottica e il suo centro, o fovea centrale, si trova circa a tre diametri dalla papilla, temporalmente. Le fibre nervose che originano dalle cellule gangliari della macula costituiscono il fascio papillo-maculare. Le fibre papillo-maculari occupanti la parte centrale del nervo ottico, si dividono a loro volta in due gruppi: le temporali che si portano nel tratto ottico omolaterale senza subire incrociamento, e le nasali che si portano nel tratto ottico controlaterale, incrociando la linea mediana nella porzione più posteriore e dorsale del chiasma. Le fibre maculari sembrano pertanto formare un «chiasma nel chiasma», situato appunto posteriormente, nel contesto del chiasma ottico. Nel chiasma si incrociano anche le fibre per il riflesso fotomotore, che poi si continuano nei tratti ottici controlaterali.
Ogni tratto ottico, che origina dall’angolo posteriore del chiasma, risulta così costituito da fibre provenienti dalla metà temporale della retina dello stesso lato e dalla metà nasale della
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.13 - Le vie ottiche: schema della modalità di distribuzione delle fibre ottiche dalla retina alla corteccia striata.
retina del lato opposto, la cui destinazione è suddivisa come segue: a) il contingente numericamente e funzionalmente più importante che termina nel nucleo
genicolato laterale, da dove la via prosegue con le radiazioni ottiche sino all’area striata; b) un secondo contingente che salta il genicolato laterale e termina nel collicolo superiore;
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
c) un terzo contingente che, così come il precedente, salta il genicolato laterale e termina nella regione pretettale del mesencefalo. La disposizione delle fibre di provenienza retinica presenta alcune particolarità a livello del corpo genicolato laterale. Infatti, nel processo di sviluppo dei centri visivi, il corpo genicolato laterale ha subito una rotazione di 90 gradi. Per questo motivo, mentre in tutto il sistema ottico le fibre retiniche dorsali o superiori hanno posizione dorsale e quelle ventrali o inferiori posizione ventrale, nel corpo genicolato laterale le fibre retiniche provenienti dalle porzioni superiori hanno posizione mediale e quelle provenienti dalle porzioni ventrali o inferiori si trovano lateralmente. Anche la localizzazione delle fibre maculari è ben definita (Fig. 7.13). Le radiazioni ottiche comprendono tre fasci principali: i fasci dorsale e laterale che attraversano i lobi parietale e temporale e il fascio ventrale che circonda il corno temporale del ventricolo laterale. La disposizione delle fibre nelle radiazioni ottiche permette di distinguere una porzione centrale, che contiene le fibre maculari, una porzione superiore che rappresenta i quadranti superiori della retina, e una porzione inferiore che rappresenta i quadranti inferiori della retina. A livello della corteccia striata (area visiva primaria o area 17) esiste una somatotopia ben definita: nella metà anteriore del labbro superiore della scissura calcarina di ciascun lato terminano le fibre provenienti dai quadranti retinici superiori, nella metà anteriore del labbro inferiore terminano le fibre provenienti dai quadranti retinici inferiori. Una precisa somatotopia esiste anche per i contigenti di fibre maculari: alla metà posteriore del labbro superiore terminano le fibre maculari provenienti dai quadranti superiori, mentre nella metà posteriore del labbro inferiore terminano le fibre provenienti dai quadranti inferiori. Conviene infine ricordare che nell’area striata si verifica la fusione delle afferenze delle emiretine omologhe.
La scissura calcarina inizia ventralmente allo splenio del corpo calloso e si estende lungo tutta la superficie mediale del lobo occipitale, ove separa la circonvoluzione del cuneo da quella del lobulo linguale. La scissura calcarina comprende una porzione rostrale, che si dirige verso l’alto fino ad incontrare la scissura parieto-occipitale, e una porzione posteriore che raggiunge il polo occipitale e talora si estende anche sulla superficie dorso-laterale del lobo occipitale. La struttura dell’area striata è brevemente indicata a pag. 214, 543.
In sintesi, l’emicampo visivo sinistro di ciascun occhio è rappresentato nel corpo genicolato destro e nella corteccia visiva del lobo occipitale destro; la metà superiore del campo visivo è rappresentata nella porzione laterale del corpo genicolato e nel labbro inferiore della scissura calcarina (l’opposto vale rispettivamente per l’emicampo visivo destro e per la metà inferiore del campo visivo). Oltre alle vie di collegamento tra la retina e l’area striata vanno ricordati: a) il collicolo superiore, posto sul tetto del mesencefalo, caratterizzato da una struttura laminata che riceve, oltre alle proiezioni retiniche, afferenze somatiche ed acustiche. Invia proiezioni ascendenti al pulvinar, alle aree prestriate (aree 18 e 19) e ai campi oculomotori frontali (aree 8, 6 e 4), e proiezioni discendenti alle strutture oculomotrici del tronco; b) la regione pretettale, posta alla giunzione tra mesencefalo e talamo, che riceve fibre retiniche ed è connessa con i centri della motilità oculare (III nervo cranico ed ipotalamo); invia inoltre proiezioni ai nuclei vestibolari. Sul piano operativo si possono identificare tre sistemi funzionali con diverse attribuzioni: a) il sistema genicolo-striato deputato alla discriminazione cosciente della realtà visiva (“che cosa sto guardando?”). Possiede, come già indicato, una precisa organizzazione topografica, che si mantiene dalla retina alla corteccia striata, dove la realtà visiva è analizzata in parallelo da colonne cellulari che esplorano separatamente l’orientamento direzionale degli stimoli, il movimento dello stimolo, il colore, e prov-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
vedono a fondere le afferenze dei due occhi consentendo di percepire la profondità di campo; b) il sistema collicolo-peristriato (o secondo sistema visivo), deputato al rilevamento di eventi improvvisi e alla scelta degli stimoli cui il sistema genicolo-striato deve dare priorità di analisi (“dove devo guardare?”). Controlla anche i movimenti oculari in risposta a stimoli sensoriali e, dopo lesioni del sistema striato, è in grado di localizzare in maniera incosciente la posizione di stimoli apparsi nel campo visivo cieco; c) la regione pretettale deputata alla regolazione riflessa del calibro della pupilla e alla stabilizzazione degli occhi, allorché il capo compie movimenti uniformi. SOMMARIO
SULLA VASCOLARIZZAZIONE DELLE VIE OTTI-
CHE.– Il nervo ottico, nella sua porzione orbitale è irrorato
dall’arteria oftalmica, ramo della carotide interna; nelle altre porzioni (intracanalicolare e intracranica) riceve piccoli rami dalla carotide interna ed anche dalla cerebrale anteriore e comunicante anteriore. Il chiasma è irrorato da rami della carotide interna e della comunicante anteriore e, talora, della corioidea anteriore, della comunicante posteriore e della cerebrale media. Il tratto ottico riceve rami arteriosi dall’arteria corioidea anteriore. Il corpo genicolato laterale riceve rami arteriosi dall’arteria corioidea anteriore nella porzione laterale, e dall’arteria corioidea posteriore (ramo della cerebrale posteriore) nella porzione mediale. Le radiazioni ottiche sono irrorate dall’arteria cerebrale media e, nella porzione ventrale, dalla cerebrale posteriore. L’area striata è vascolarizzata da rami della cerebrale posteriore. Va ricordato, inoltre, che alcuni rami della cerebrale media, a livello della convessità dorsale occipitale, raggiungono l’area striata costituendo così un potenziale circolo collaterale.
Esame della funzione visiva Devono essere esaminate l’acutezza visiva, il campo visivo, e, a mezzo dell’oftalmoscopio, la papilla ottica e la superficie retinica. Tutti questi dati vengono rilevati con maggior precisione e completezza dall’oftalmologo, ma anche il
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neurologo deve essere in grado di riconoscere alcuni aspetti di particolare rilevanza neurologica.
Esame dell’acuità visiva Viene usualmente esaminata per mezzo delle tavole internazionali decimali, costituite da 10 serie di lettere di grandezza decrescente. Queste tavole (ottotipi) permettono di valutare l’acutezza visiva per la visione a distanza. Le tavole, poste ad una distanza fissa di 5 metri, sono calcolate in modo tale che la grandezza del carattere più piccolo corrisponda ad una acutezza visiva V = 10/10, mentre il carattere più grande a V = 1/ 10; i caratteri intermedi corrispondono a una differenza di acuità visiva pari a un decimo. Se un soggetto per leggere il primo rigo (V = 1/10) deve avvicinarsi a m 2,50, avrà V = 1/20; in linea generale vale la formula V = d/D, cioè l’acutezza visiva è data dal rapporto fra la distanza (d) alla quale viene effettivamente riconosciuta una lettera e la distanza (D) a cui dovrebbe essere riconosciuta da un occhio normale. Per mezzo di tavole adatte, è possibile valutare anche l’acuità visiva per vicino. Una diminuzione dell’acuità visiva può essere causata da: 1) errori di rifrazione (miopia, ipermetropia, astigmatismo, cheratocono); 2) opacità dell’apparato ottico (cicatrici corneali, cataratta, ecc.); 3) difetti dell’apparato di percezione (dalla retina alla corteccia visiva).
Esame del campo visivo (perimetria o campimetria) A fini pratici si definisce Campo Visivo (CV) quella porzione di spazio esterno percepito dalla retina di un occhio immobile in posizione primaria. Le dimensioni del CV monoculare espresse in ampiezza angolare sono pari rispettivamente a 60° verso l’alto (limite imposto dall’arcata sopracigliare), 70° verso il basso (li-
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mite imposto dal margine orbitario inferiore), 60° internamente (limite imposto dal naso), 90° esternamente (lo spazio più libero da ostacoli, la cui ampiezza si avvicina a quella del CV assoluto) (Fig 7.14). L’estensione del CV binoculare sul piano orizzontale è di circa 30° più ampia del campo visivo monoculare ma la sua esplorazione non presenta alcun interesse diagnostico. I limiti assoluti del campo visivo monoculare vengono determinati utilizzando uno stimolo luminoso sovramassimale e la sua forma (proiettata su un apposito diagramma) appare grossolanamente ovalare (Fig. 7.14). La sensibilità luminosa della retina aumenta progressivamente dalla periferia al centro del CV. Tale aumento è espresso efficacemente dalla cosiddetta isola della visione, consistente in una rappresentazione tridimensionale del CV, che appare come un cono la cui base corrisponde alla estensione massima dello spazio percepito dalla retina e la cui altezza esprime il progressivo aumento della sensibilità luminosa man mano che dalla periferia, ove la sensibilità luminosa è minima, ci si avvicina alla vetta dell’isola (che corrisponde alla fovea, o punto
Fig. 7.14 - Limiti assoluti del campo visivo di un occhio destro. La macchia cieca è situata tra i 10 e i 15°.
di fissazione), ove la sensibilità è massima (Fig. 7.15A). La superficie laterale dell’isola riproduce plasticamente il degradare della sensibilità dal centro alla periferia esterna del CV. Le linee di uguale altitudine della mappa dell’isola, infine, corrispondono ai profili delle zone di uguale sensibilità della retina, o isoptere (v. oltre). Nella routine clinica tradizionale l’esame del campo visivo si basa sulla determinazione della sensibilità retinica alla luce in un numero di punti sufficientemente rappresentativo: l’unione di tutti i punti della retina aventi la stessa sensibilità consente di tracciare linee chiuse concentriche dette isoptere. A circa 15° di distanza dalla vetta (dal lato temporale) dell’isola della visione, è riconoscibile una sorta di “pozzo” che dalla superficie dell’isola scende fino al livello del “mare della cecità” (Fig. 7.15A): esso corrisponde alla papilla ottica e viene definito macchia cieca (la papilla, infatti, è priva di recettori). La posizione della macchia cieca è rappresentata nella figura 7.16 come una chiazza nera. La ricerca di eventuali difetti del CV è essenziale ai fini della localizzazione di una lesione delle vie ottiche. La determinazione del campo visivo si fonda su: a) la misurazione della sensibilità luminosa della retina in un numero sufficientemente rappresentativo di punti; b) la quantificazione del grado di perdita di sensibilità nei punti eventualmente difettosi; c) la rappresentazione su apposito diagramma del grado di sensibilità luminosa di ogni punto esaminato. Prima dell’avvento delle neuroimmagini lo studio del CV era uno strumento insostituibile nella diagnostica strumentale delle lesioni delle vie ottiche posteriori (chiasmatiche e retrochiasmatiche). L’introduzione della perimetria computerizzata (vedi oltre), peraltro, ha ridato significato allo studio del CV nella diagnostica delle lesioni delle vie ottiche anteriori (retina e nervo ottico). Le procedure per la determinazione del CV secondo il metodo tradizionale possono essere più o meno sofisticate. Al limite l’esame del CV
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.15 - A) Rappresentazione altimetrica dell’isola della visione di Traquair. B) Perimetria statica con il profilo del meridiano orizzontale che passa per la fovea e la macchia cieca.
po’ essere eseguito anche manualmente al letto del malato, paragonando il CV del paziente a quello dell’esaminatore. In particolare esaminatore e paziente devono porsi uno di fronte all’altro a circa 1 metro di distanza, tenendo un occhio chiuso e fissandosi nell’occhio corrispondente. A questo punto l’esaminatore avvicina la mano a metà strada tre sé ed il malato e la sposta dalla periferia al centro del CV lungo un adeguato numero di meridiani, avendo preventivamente chiesto al soggetto di segnalare immediatamente il momento in cui percepisce lo stimolo. Un metodo ancora più grossolano consiste nel chiedere al paziente di contare le dita dell’esaminatore nei quattro quadranti del CV oppure, più semplicemente, di paragonare la nitidezza delle dita o di un oggetto rosso presentati simultaneamente nei quadranti nasali e temporali, sia superiori che inferiori.
Laddove sia possibile esaminare il paziente in un luogo opportunamente attrezzato si utilizzerà, invece, un campimetro vero e proprio. In termini generali la perimetria (o campimetria) può essere: – statica, quando studia la sensibilità allo stimolo luminoso di punti ben determinati della retina. Il parametro variabile è la luminanza dello stimolo; – cinetica, quando studia la sensibilità alla luce dei vari punti del CV, rilevata mentre la mira che ha luminanza e dimensioni note si sposta dalla periferia verso il centro (Fig. 7.16). Prima dell’avvento della perimetria computerizzata l’esaminatore si limitava a riportare su un apposito diagramma le linee di isosensibilità (o isoptere) tracciate dal perimetrista utilizzando mire di luminosità variabile la cui comparsa doveva essere segnalata dal soggetto, essendo
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l’occhio fisso su un punto centrale. A questo scopo, per molto tempo è stato usato il campimetro di Goldmann consistente in una calotta emisferica a luminosità controllata sulla quale sono proiettate mire di grandezza e luminosità graduabili; il soggetto fissa una mira centrale. Spostando le mire dalla periferia al centro si costruisce la campimetria classica o dinamica (Fig. 7.16) con l’isoptera periferica ed almeno 3 isoptere centrali. Viceversa, mantenendo ferma la mira ed aumentando progressivamente la luminosità si costruisce un profilo di sensibilità o campimetria statica; l’esame viene effettuato lungo il meridiano orizzontale che passa per la fovea e la macchia cieca (Fig. 7.15 B) e il profilo ottenuto è paragonabile ad una sezione altimetrica dell’isola della visione di Traquair. Nei casi in cui l’interesse diagnostico prevalente riguardi le parti più centrali del CV (fino a 20-25° dal centro), si preferisce utilizzare lo schermo di Bjerrum, superficie piana che consente di esplorare la zona centrale del campo e di realizzare così una mappa dettagliata di eventuali difetti centrali. La campimetria manuale è stata per molto tempo la procedura di gran lunga dominante, anche perché la sua interpretazione era piutto-
sto agevole; bastava infatti una rapida ispezione del tracciato per stabilire se le isoptere avevano o meno ampiezza e morfologia normali sempre che l’esame, completamente gestito dall’esaminatore, fosse tecnicamente attendibile. Con l’avvento della perimetria computerizzata i ruoli si sono invertiti, nel senso che l’esame è gestito dal computer ed al perimetrista spetta esclusivamente il compito di scegliere di volta in volta il programma di esame più adatto ed interpretare correttamente la grande mole di dati grafici, simbolici e numerici che compaiono sul tracciato perimetrico che, contrariamente alla perimetria manuale, va oltre la capacità di comprensione del medico profano. Senza entrare in eccessivi particolari basti ricordare che la perimetria computerizzata (o automatica) è così chiamata in quanto la gestione dei parametri di stimolazione è controllata automaticamente da un calcolatore elettronico. Ogni programma comprende tre componenti: la strategia, il pattern e la rappresentazione dei risultati. La strategia è il procedimento seguito dal programma per la determinazione della soglia; il pattern è la griglia dei punti che il programma intende esplorare (ovvero il loro numero e la loro distribuzione); la rappresentazione
Fig. 7.16 - Campo visivo normale al peimetro di Goldmann (occhio destro e occhio sinistro).
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è la modalità di registrazione dei dati sotto forma di mappe, tracciati o altre forme grafiche. La perimetria computerizzata presenta diversi vantaggi rispetto alla perimetria tradizionale effettuata con il campimetro di Goldmann che, fino al 1980, è stato considerato lo strumento di riferimento in tutto il mondo. Fra i vantaggi della perimetria automatica va ricordata anzitutto la migliore verifica della collaborazione del paziente grazie al controllo automatico della fissazione (essenziale ai fini della corretta esecuzione dell’esame). Senza contare che, grazie al collegamento con il computer, è possibile archiviare i dati ed effettuare analisi statistiche ed epidemiologihe; è possibile inoltre effettuare un confronto automatico fra risposte fornite nel corso dello stesso esame o di esami successivi. I limiti della metodica possono risiedere nella lunga durata della procedura che può affaticare eccessivamente il paziente. L’altro svantaggio è la mancanza di standardizzazione tra i vari strumenti, donde la difficoltà di confronto fra esami ottenuti con perimetri diversi (es: l’Octopus rispetto all’Hunphrey), ovviata solo parzialmente da programmi e tavole di conversione, che peraltro possono risentire anche di variazioni individuali legate al diametro pupillare, alla trasparenza dei mezzi diottrici e ad altri fattori. Per tutti questi motivi, considerato che i malati neurologici sono spesso incapaci di collaborare adeguatamente ad un esame campimetrico particolarmente minuzioso, molti ritengono che sia ancora giustificato fare ricorso al perimetro di Goldmann. I difetti campimetrici sono fondamentalmente di due tipi: gli scotomi e le emianopsie.
soluti), oppure come un’area vista in bianco e nero (scotomi relativi), o ancora come un’area di abbagliamento (scotomi scintillanti), tipici dell’aura emicranica. Topograficamente lo scotoma può essere: • centrale se occupa la porzione centrale del campo visivo e provoca una riduzione del visus; compare nella patologia della regione maculare e nelle lesioni del nervo ottico che interessano il fascio maculopapillare; • paracentrale se occupa le immediate vicinanza della regione centrale ed è dovuto a patologie della retina perimaculare; un tipo particolare di scotoma paracentrale è dato dall’ingrandimento della macchia cieca, che compare nell’edema della papilla ottica; • centrocecale se occupa la regione centrale inglobando nell’area difettuale la macchia cieca, di solito ingrandita: è tipico delle lesioni infiammatorie o ischemiche della testa del nervo ottico, che ledono il fascio maculopapillare e rendono edematosa la papilla ottica; • periferico se occupa una zona periferica, di solito a causa di patologie focali della retina; • concentrico se il campo visivo appare concentricamente ristretto; è tipico della retinopatia pigmentosa; • altitudinale se occupa la metà superiore o inferiore del campo visivo, rispetto al meridiano orizzontale che passa per la fovea: è di solito monoculare, per occlusione dei rami inferiori o superiori dell’arteria centrale della retina; talora è bilaterale (ed allora più propriamente può essere definito emianopsia altitudinale) e dipende da compressioni estese del chiasma o da lesioni bilaterali della corteccia striata limitate alle zone sovrastanti o sottostanti la scissura calcarina.
Scotomi ed emianopsie
Le emianopsie sono difetti del campo visivo unilaterali o bilaterali, dovuti a lesioni chiasmatiche o retrochiasmatiche. Il difetto campimetrico le cui caratteristiche variano a seconda che la lesione interessi il chiasma, il tratto ottico, il corpo genicolato laterale, le radiazioni ottiche o l’area striata, interessa metà del campo visi-
Gli scotomi possono essere definiti difetti del campo visivo, di cui il paziente si rende conto solo quando interessano la regione maculare o quando diventano molto estesi. Possono essere percepiti come una macchia nera (scotomi as-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
vo per lo più di entrambi gli occhi. Il difetto può essere eteronimo (in genere indicativo di una lesione chiasmatica, vedi oltre), cioè interessare le due metà temporali (emianopsie bitemporali) o le due metà nasali (emianopsie binasali) del campo visivo; oppure omonimo, cioè riguardare le due porzioni di destra o di sinistra (emianopsie laterali, in genere indicative di una lesione retrochiasmatica, vedi oltre) del campo visivo. Più rare sono le emianopsie altitudinali (vedi oltre) in cui il difetto visivo riguarda la metà superiore o inferiore di entrambi i campi visivi. Il difetto può essere completo cioè occupare interamente due emicampi, o incompleto ed occuparne solo una porzione. La quadrantopsia o emianopsia quadrantica è un difetto incompleto che riguarda quadranti omonimi o eteronimi dei due occhi. Infine un difetto incompleto può essere congruo, cioè simmetrico nei due occhi, oppure incongruo, cioè più esteso in uno dei due occhi.
Esame oftalmoscopico È di importanza fondamentale per evidenziare un edema della papilla ottica, un’atrofia ottica e, in genere, alterazioni della retina e dei vasi arteriosi e venosi. L’esame viene eseguito con un oftalmoscopio, ed è bene che, per una visione panoramica del fondo, sia stata dilatata farmacologicamente la pupilla. Attualmente esistono sostanze (omatropina 1 %, tropamide 0,5 %, fenilefrina 10 %) che agiscono rapidamente e che causano midriasi e disturbi dell’accomodazione soltanto per poche ore. L’uso di queste sostanze dovrebbe essere evitato in pazienti affetti da glaucoma ad angolo chiuso. Per l’esame della papilla ottica il p. deve guardare all’infinito; per l’esame della macula verso la luce dello strumento. Gli eventuali difetti del visus dell’esaminatore possono essere corretti dalle lenti dell’oftalmoscopio.
Durante l’esame del fundus bisognerà osservare, per i semplici fini neurologici: 1) IL COLORE DELLA PAPILLA OTTICA: normalmente rosa pallido o giallo chiaro, diventa grigio o bianco-madreperlaceo nell’atrofia, rosso o grigio-rossastro nell’edema. 2) I MARGINI DELLA PAPILLA OTTICA: sono ben definiti, ma quello nasale può essere fisiologicamente un po’ sfumato; è fortemente sfumato o addirittura non riconoscibile nella papilla da stasi. 3) STATO DELLA SUPERFICIE PAPILLARE: normalmente è pianeggiante o più o meno ombelicato al centro (escavazione fisiologica della papilla, che talora può essere molto accentuata). L’escavazione può accentuarsi nel glaucoma, o al contrario la papilla può essere sporgente (edema della papilla) nelle neuriti ottiche bulbari o nella stasi papillare (papilla da stasi). 4) STATO DEI VASI: si deve osservare se esiste vasocostrizione oppure vasodilatazione. È importante il confronto fra il calibro delle vene equello dell arterie (normalmente in rapporto è di 3 a 2) poichè una dilatazione, o una tortuosità, delle vene può essere espressione di stasi iniziale. Osservare anche se è presente il fenomeno dell’incrocio arterovenoso (segno di GunnSalus o schiacciamento delle vene nel punto d’incrocio con le arterie). 5) PERIFERIA DEL FONDO OCULARE: oltre ai caratteri della papilla ottica, l’esame oftalmoscopico può dimostrare: emorragie peripapillari e periarteriose; depositi di colesterina; segni di retinopatia diabetica e albuminurica; tubercoli coroideali; calcificazioni toxoplasmosiche e vari altri aspetti. Importanza notevole assume l’osservazione dei vasi arteriosi per la diagnosi di retinopatia ipertensiva. Le alterazioni osservabili sono: presenza di riflessi (bianco, dorato, rameico), tortuosità dei vasi, a volte a cavaturac-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
ciolo, restringimento e sclerosi dei vasi, fenomeni di incrocio artero-venoso, essudato cotonoso ed emorragie retiniche.
Patologia della retina Esiste una vasta gamma di malattie neurologiche (oltre ad alcune malattie internistiche suscettibili di complicanze neurologiche come, ad esempio, l’ipertensione arteriosa ed il diabete) che possono manifestarsi con sintomi (riduzione dell’acuità visiva) o segni (difetti campimetrici e/o particolari alterazioni del fondo dell’occhio) di sofferenza della retina. Per quanto concerne le retinopatie dovute a patologie internistiche, possibilmente responsabili di complicanze neurologiche, meritano particolare menzione: – la retinopatia ipertensiva, classicamente suddivisa in quattro stadi evolutivi: a) restringimento diffuso delle arterie; b) restringimenti focali con irregolarità di calibro; c) comparsa di essudati ed emorragie; d) edema della papilla; – la retinopatia diabetica, caratterizzata da tortuosità dei vasi arteriosi, dilatazioni focali dei capillari, che appaiono come punti rossi (microaneurismi), emorragie retiniche e preretiniche anche di grosse dimensioni, essudati cerei di aspetto puntuto o a fiocco di cotone, più abbondanti nella regione maculare. Sia nella forma ipertensiva che nella forma diabetica la riduzione dell’acuità visiva è legata alla patologia maculare. Le patologie più strettamente neurologiche associate a compromissione della retina comprendono anzitutto le amaurosi transitorie che possono coinvolgere in parte o in toto il campo visivo di un occhio a causa di una stenosi emboligena della carotide (comune o interna) e, meno spesso, in occasione di una crisi di emicrania retinica, per cui si rinvia ai rispettivi capitoli (v. pag. 000 e pag. 000). Esiste poi una serie di malattie neurologiche di tipo:
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– metabolico (es.: Adrenoleucodistrofia), – mitocondriale (es.: Sindrome di KearnsSayre), – neurocutaneo (es.: Sclerosi Tuberosa), – degenerativo (es.: Atassie cerebellari), che possono associarsi a retinopatia pigmentosa o degenerazione maculare (con tipico reperto di macula “rosso ciliegia”), che costituiscono altrettante cause di riduzione cronica dell’acuità visiva. Anche a questo proposito il lettore è rinviato ai rispettivi capitoli. In termini generali si può affermare che le patologie precedentemente elencate si accompagnano a difetti campimetrici polimorfi (uni o bilaterali), scotoma centrale, restringimento concentrico del campo visivo o, addirittura, ad una cecità totale. Abitualmente si ritiene che la diagnosi di queste alterazioni retiniche sia relativamente agevole, in quanto esse sono direttamente osservabili con l’oftalmoscopio. In realtà la valutazione di questi quadri richiede una particolare competenza oftalmologica o, meglio ancora, neuroftalmologica, per cui è sempre opportuno rivolgersi a centri diagnostici specializzati.
Patologia del nervo ottico Una neuropatia ottica determina riduzione dell’acuità visiva e della visione dei colori, difetti del campo visivo che interessano quasi sempre la visione centrale (ovvero uno scotoma centrale) o addirittura una cecità completa. Coesistono quasi sempre alterazioni della papilla ottica, a meno che non si tratti di una neurite retrobulbare in fase iniziale (vedi oltre). Le neuropatie ottiche possono essere unilaterali (es.: la neuropatia ottica ischemica) o bilaterali (es.: le neuropatie ottiche tossiche e carenziali); in particolare si distinguono: neuropatie demielinizzanti, ischemiche, parainfettive, tossiche, carenziali, eredofamiliari, compressive.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La papilla da stasi non rappresenta una neuropatia ottica in senso stretto ma più semplicemente un edema passivo della papilla (quasi sempre bilaterale) secondario ad uno stato di ipertensione endocranica di qualsivoglia origine (tumorale o non tumorale). In effetti, a differenza di tutte le altre malattie del nervo ottico, la papilla da stasi non si associa a riduzione dell’acuità visiva per cui, in presenza di una papilla edematosa accompagnata a diminuzione del visus si deve pensare non già ad un edema passivo, bensì ad una papillite da neurite ottica bulbare o ad una neuropatia da infarto della testa del nervo ottico (o neuropatia ottica ischemica anteriore). Solo in caso di papilla da stasi di vecchia data, quando subentra una atrofia ottica secondaria (vedi oltre), si possono manifestare difetti visivi eventualmente culminanti in una cecità completa. Le neuropatie ottiche di interesse prevalentemente neurologico comprendono: a) la neurite ottica, b) la neuropatia ischemica anteriore, c) le neuropatie carenziali, d) le neuropatie tossiche, e) le neuropatie eredofamiliari , f) le neuropatie compressive. Un paragrafo a parte sarà dedicato al concetto di atrofia ottica “primaria” e “secondaria”. A. NEURITE OTTICA. – È caratterizzata da una rapida diminuzione dell’acuità visiva uni o, più raramente bilaterale (contemporaneamente o, più spesso, in tempi successivi), che colpisce soprattutto gli adolescenti ed i giovani adulti e può condurre nel giro di pochi giorni (o addirittura di ore) alla cecità completa. Questa sintomatologia è determinata da una demielinizzazione del nervo ottico, la cui causa più comune (almeno per quanto concerne la forma retrobulbare) è costituita dalla sclerosi multipla. I casi di neurite ottica che non sfociano in questa malattia neanche a distanza di 15 o 20 anni, sarebbero dovuti ad una patologia demielinizzante post-infettiva. Gli stretti rapporti patogenetici tra neurite ottica e sclerosi multipla sono documentati dal fatto che:
a) circa il 50 % dei pazienti colpiti da neurite ottica sviluppa una sclerosi multipla nel giro di 5 anni; b) in circa il 15 % dei pazienti affetti da sclerosi multipla è possibile accertare che la malattia esordisce con una neurite ottica retrobulbare. Per ulteriori particolari si rimanda al capitolo sulla sclerosi multipla (v. pag. 000). Il possibile ruolo eziologico di processi morbosi a carico dei seni paranasali è stato, con gli anni, notevolmente ridimensionato; e, comunque, il relativo meccanismo patogenetico non è stato ancora chiarito. Infine i casi di “neurite ottica” tradizionalmente attribuiti a cause tossiche saranno trattati separatamente. Nei casi più gravi l’esito anatomico di una neurite ottica è rappresentato da una cicatrice gliale più o meno estesa. In oltre i 2/3 dei casi, tuttavia, si verifica un recupero completo della funzione visiva. Tale recupero può avvenire spontaneamente o, meglio ancora, dopo somministrazione endovenosa di alte dosi di corticosteroidi. La via orale, al contrario, favorirebbe le ricadute che, peraltro, possono verificarsi anche senza apparenti motivi. All’esame oftalmoscopico la papilla ottica può apparire perfettamente normale (se il nervo è stato colpito nel suo segmento retrobulbare) oppure, più raramente, presentarsi edematosa (se è stata colpita la testa del nervo): a seconda del caso si parla rispettivamente di neurite ottica retrobulbare oppure di neurite ottica bulbare o papillite. Il differente aspetto oftalmoscopico dipende dal fatto che nella forma bulbare si verifica una compromissione contemporanea del nervo e dei vasi, mentre nella forma retrobulbare sia la papilla che la retina restano normalmente vascolarizzate e, pertanto, il fondo dell’occhio può apparire normale, anche per molto tempo. Dopo un periodo di tempo alquanto variabile la forma retrobulbare si accompagna ad un pallore della metà temporale della papilla (ove penetra il fascio maculo-papillare) mentre nella forma bulbare si instaura spesso una atrofia ottica secondaria (v. pag. 228).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
In entrambi casi il fascio maculo-papillare è precocemente compromesso per cui, oltre alla diminuzione del visus, è possibile apprezzare la presenza di uno scotoma centrale. Durante la fase acuta, inoltre, il paziente può accusare un dolore alla compressione del bulbo oculare e durante i movimenti dell’occhio. Il riflesso pupillare alla luce, infine, appare diminuito. Il liquor può risultare normale oppure dimostrare una pleiocitosi linfocitaria (da 10 a 100 elementi), oltre ad un aumento delle proteine totali e delle gammagobuline, con presenza di bande oligoclonali. B. NEUROPATIA OTTICA ISCHEMICA ANTERIORE. – Negli ultracinquantenni l’infarto della testa del nervo ottico viene considerata la causa principale di perdita monoculare della vista a carattere persistente. Il deficit visivo può insorgere in maniera subitanea oppure nel giro di pochi giorni. In circa 1/3 dei casi (specie se si tratta di soggetti ipotesi o diabetici) anche l’altro occhio può essere colpito in un secondo tempo. Abitualmente non vengono riportati sintomi premonitori o episodi di amaurosi transitoria. La neuropatia ottica ischemica può essere provocata da aterosclerosi (ed essere scatenata da uno stato di shock) oppure da un processo vasculitico (in primis l’arterite temporale a cellule giganti o malattia di Horton). In ogni caso l’esame oftalmoscopico rivela un edema della papilla, con piccole emorragie a fiamma, che evolve in una atrofia ottica nel giro di 4-8 settimane. La diagnosi differenziale rispetto alla neurite ottica bulbare si basa sull’età (invariabilmente più avanzata), sulla mancanza di dolore e sul difetto campimetrico (classicamente di tipo altitudinale). Solo le forme vasculitiche sono suscettibili di un trattamento terapeutico (somministrazione prolungata di corticosteroidi). Per completezza va ricordato che, oltre alla neuropatia ischemica anteriore (bulbare) esiste anche una neuropatia ischemica posteriore (retrobulbare), generalmente su base vasculitica.
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C. NEUROPATIE OTTICHE CARENZIALI. – Sono caratterizzate da una compromissione bilaterale dell’acuità visiva con scotoma centrale o centro-cecale. Insorgono prevalentemente negli alcoolisti cronici a causa della malnutrizione (molto comune in questi soggetti) e traggono beneficio dalla somministrazione di vitamine del gruppo B, oltre che da un apporto calorico adeguato. Le probabilità di successo di questo trattamento dipendono soprattutto dalla sua tempestività. Infatti, se l’intervento è tardivo, residueranno difetti irreversibili della visione centrale in ambedue gli occhi, unitamente ad un pallore temporale delle papille ottiche. Poiché molto spesso questi soggetti sono anche forti fumatori, si usa parlare di ambliopia “alcool-tabagica” benché in realtà si tratti di una neuropatia ottica nutrizionale. In effetti quadri clinici del tutto analoghi possono verificarsi in soggetti globalmente denutriti o carenti di vitamina B12, non necessariamente dediti all’alcool o al fumo. Per completezza va ricordato inoltre che molti testi includono erroneamente tuttora le neuropatie ottiche carenziali tra le neuriti ottiche. D. NEUROPATIE OTTICHE TOSSICHE. – Così come le neuropatie carenziali, anche le neuropatie tossiche si manifestano con un difetto bilaterale dell’acuità visiva associato ad una atrofia ottica primaria (v. pag. 228). Un quadro particolarmente drammatico, tristemente noto anche in Italia, può essere causato dall’intossicazione da alcool metilico o metanolo, in cui la compromissione dell’acuità visiva si sviluppa in maniera improvvisa ed è sostenuta da estesi scotomi centrali bilaterali. Un quadro analogo, ad evoluzione subacuta, può verificarsi, non solo per cause tossiche, ma anche per somministrazione prolungata (a scopo terapeutico) di farmaci come l’isoniazide, il cloramfenicolo, l’etambutolo, la streptomicina, la clorpropamide, la clorochina, il clioquinol oltre a vari prodotti ergotaminici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
E. NEUROPATIE OTTICHE EREDOFAMILAIRI. – L’esempio più emblematico è costituito dalla neuropatia ottica ereditaria di Leber, una malattia eredofamiliare che provoca degenerazione degli assoni e della mielina del nervo ottico. Si sviluppa preferenzialmente nei maschi, nella seconda e terza decade di vita, con un deficit visivo ad esordio subacuto che conduce, nel giro di pochi mesi, ad una grave riduzione bilaterale dell’acuità visiva che appare soprattutto compromessa a livello centrale, mentre la porzione più periferica può essere risparmiata, almeno parzialmente. L’esame oftalmoscopico rivela una atrofia ottica primaria. Un quadro del tutto simile alla neuropatia ottica di Leber può manifestarsi in associazione con una serie di malattie degenerative “classiche”, tipo la malattia di Friedreich, di Pierre Marie, di CharcotMarie-Tooth. Per ulteriori notizie in merito si rinvia ai relativi capitoli. F. NEUROPATIE OTTICHE COMPRESSIVE. – Sono causate da svariati tipi di tumori (gliomi, meningiomi, craniofaringiomi, metastasi) che, esercitando una azione compressiva sul nervo ottico (e, quasi sempre anche sul chiasma) possono produrre difetti campimetrici tipo scotomi unitamente ad atrofia ottica. In altri casi (sarcoidosi, granulomatosi di Wegener, leucemie, linfomi) l’effetto della lesione sul nervo ottico è duplice (compressivo ed infiltrativo). Un caso del tutto particolare è rappresentato dalla sindrome di Foster-Kennedy, caratterizzata dalla associazione di una atrofia ottica primaria (vedi oltre) in un occhio con papilla da stasi dal lato opposto. Questa sindrome viene attribuita all’effetto della compressione diretta da parte del tumore sul nervo ottico ipsilaterale e della ipertensione endocranica associata sul nervo ottico controlaterale. Ciò non toglie che reperti oftalmoscopici del tutto analoghi si verifichino in associazione con neuriti ottiche o con neuropatie ottiche ischemiche, laddove la sofferenza del nervo si sviluppi bilateralmente ma in tempi successivi.
Prima di concludere conviene ricordare che a) la neurite ottica (A) rappresenta la neuropatia ottica di gran lunga più importante sul piano pratico, almeno dal punto di vista neurologico; b) l’eventualità per cui le altre neuropatie ottiche appena elencate (B, C, D, E e F) possano mimare una neurite ottica è improbabile ma non impossibile (Martinelli, Bianchi Marzoli, 2001); ne consegue che c) nei casi in cui i dubbi persistano nonostante i vari approfondimenti diagnostici, è indispensabile seguire l’evoluzione della sintomatologia anche per lunghi periodi, in considerazione della diversa portata delle rispettive implicazioni prognostiche. ATROFIA OTTICA. – La degenerazione degli assoni del nervo ottico determina oltre ad un quadro clinico caratterizzato da una riduzione ingravescente dell’acuità visiva (talora sino alla cecità), un progressivo sbiancamento della papilla ottica con alcune peculiarità del reperto oftalmoscopico che consentono di distinguere due forme di atrofia ottica: l’atrofia ottica primaria e l’atrofia ottica secondaria. L’atrofia ottica primaria può essere legata a patologie che agiscono sulla porzione retrobulbare degli assoni (come nella neurite ottica retrobulbare), oppure svilupparsi “primitivamente” (come nella malattia di Leber). In ambedue i casi la papilla appare pallida e presenta un aspetto madreperlaceo. Inoltre l’escavazione fisiologica della papilla risulta più ampia ed i margini si caratterizzano per l’estrema nettezza. I vasi arteriosi sono assottigliati ed i vasellini che irrorano la papilla appaiono meno numerosi. Se la degenerazione assonale è limitata al fascio maculo-papillare (come spesso accade nella neurite ottica retrobulbare), l’atrofia è circoscritta alla metà temporale del nervo ottico, ove transita il contingente di fibre proveniente dalla macula. Questo dato oftalmoscopico, peraltro, deve essere sempre valutato con cautela , in quanto la porzione temporale della papilla è normalmente più pallida di quella nasale. L’atrofia ottica secondaria è classicamente considerata l’esito di un edema papillare prolungato, quale che sia la sua origine (infiammatoria, ischemica o da stasi). In tutti questi casi la papilla è pallida e presenta una tonalità grigiastra. Inoltre, l’escavazione fisiologica risulta obliterata ed i margini della papilla appaiono mal delimitati rispetto alla retina circostante.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Patologia delle vie ottiche chiasmatiche e retro-chiasmatiche
solitamente asimmetrica), atrofia ottica e riduzione del riflesso pupillare alla luce.
Lesione del chiasma. – È tipicamente caratterizzata da una emianopsia eteronima. La varietà di gran lunga più frequente è l’emianopsia bitemporale, abitualmente dovuta ad un adenoma ipofisario. Altre possibili cause di emianopsia bitemporale sono rappresentate da lesioni espansive soprasellari o parasellari tipo meningiomi o craniofaringiomi. Il difetto campimetrico bitemporale, dovuto ad interruzione delle fibre provenienti dalle metà nasali delle retine, ben difficilmente appare simmetrico. In certi casi, inoltre, il difetto campimetrico può insorgere unilateralmente (emianopsia temporale unilaterale), per poi estendersi anche al lato opposto. Molto meno frequente è l’emianopsia eteronima binasale dovuta all’interessamento delle fibre provenienti dalle metà temporali delle retine, che decorrono (senza incrociarsi) nelle porzioni laterali del chiasma. A differenza di quanto accade per le emianopsie eteronime temporali in cui la varietà bilaterale è più frequente di quella unilaterale, nelle emianopsie nasali la forma unilaterale è più comune di quella bilaterale. Quest’ultima può essere causata da aneurismi bilaterali della carotide, da infarti chiasmatici o anche da lesioni demielinizzanti (neurite ottico-chiasmatica). Premesso che: a) le fibre provenienti dai quadranti nasali inferiori delle retine decorrono nella porzione ventrale del chiasma, a differenza delle fibre provenienti dai quadranti nasali superiori che decorrono nella porzione dorsale; b) le compressioni chiasmatiche dal basso sono molto più frequenti delle compressioni dall’alto; si può correttamente affermare che nelle emianopsie bitemporali i difetti altitudinali superiori, peraltro infrequenti, sono più comuni dei difetti altitudinali inferiori. Ancora va ricordato che, oltre al difetto campimetrico, le lesioni del chiasma provocano caduta dell’acuità visiva (uni o bilaterale,
Lesione del tratto ottico. – Una lesione delle vie ottiche retrochiasmatiche determina un difetto emianoptico interessante, per ciascun occhio, l’emicampo visivo controlaterale alla lesione (emianopsia laterale omonima), con caratteristiche in molti casi peculiari a seconda della sede della lesione. Una lesione della banderella ottica determina una emianopsia laterale omonima, che si differenzia da quella per lesioni genicolate e sopragenicolate per il fatto di essere incongrua, per l’assenza del riflesso pupillare emianoptico di Wernicke e per la conservazione del nistagmo optocinetico (Fig. 7.17). Si tratta per lo più di patologie tumorali, più rare le sindromi demielinizzanti. Lesione del corpo genicolato laterale. – Assai rare in forma isolata, producono emianopsie a quadrante (lesione genicolata mediale destra = emianopsia a quadrante inferiore sinistra; lesione genicolata laterale destra = emianopsia a quadrante superiore sinistra) (Fig. 7.17). Le cause più frequenti sono l’occlusione dell’arteria cerebrale posteriore e i tumori. Lesione delle radiazioni ottiche. – Se la lesione è limitata si possono anche osservare emianopsie quadrantiche e precisamente: a quadrante superiore, per lesioni temporali (interessamento del fascio ventrale delle radiazioni ottiche, che si porta al labbro inferiore della scissura calcarina); a quadrante inferiore, per lesioni parietali (fascio dorsale, che si porta al labbro superiore). Si può osservare anche, per lesioni più vaste, una emianopsia laterale omonima completa, con visione maculare risparmiata (Fig. 7.17). Gli infarti ed i processi espansivi del lobo temporale e parietale sono le patologie più frequenti. Lesione dell’area striata. – La lesione dell’intera area visiva primaria (area 17) di un lato,
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Fig. 7.17 - Alterazione del campo visivo in rapporto alla sede di lesione lungo le vie ottiche.
dà luogo ad una emianopsia laterale omonima controlaterale interessante anche la visione maculare; se la metà più prossima al polo occipitale è risparmiata, la visione maculare è conservata anche nel campo emianoptico. Se la lesione interessa soltanto il labbro superiore od inferiore della scissura calcarina di un lato si osserva una emianopsia a quadrante controlaterale, rispettivamente inferiore o superiore.
L’emianopsia laterale omonima, da lesione dell’area visiva, presenta alcune caratteristiche che la differenziano da quella dovuta a lesione delle radiazioni ottiche (Fig. 7.17). Nelle lesioni situate in prossimità del polo occipitale può essere infatti conservato un certo grado di visione periferica e risparmiata la visione maculare. Il risparmio della visione maculare è stato attribuito a vari meccanismi: a) rappresentazione corticale della macula molto
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
estesa e bilaterale; b) vascolarizzazione dell’area di proiezione maculare proveniente da due sorgenti arteriose; c) possibilità che una zona dell’area striata risparmiata assuma funzioni maculari (pseudo-macula). Se la lesione è situata nelle porzioni anteriori dell’area visiva si osserva una precoce compromissione della visione dei colori (emiacromatopsia). Una lesione bilaterale del labbro superiore della scissura calcarina dà luogo ad una emianopsia altitudinale o orizzontale della metà inferiore dei campi visivi, mentre una lesione bilaterale del labbro inferiore della scissura calcarina dà luogo a una emianopsia altitudinale orizzontale della metà superiore dei campi visivi. Ciò può verificarsi per infarti bilaterali nel territorio della arteria cerebrale posteriore, ma è opportuno ricordare che la causa più frequente di emianopsia altitudinale (monoculare) è la neuropatia ottica ischemica. Una lesione bilaterale della porzione più anteriore dell’area striata dà luogo ad emianopsia doppia con risparmio bilaterale della visione maculare (visione a cannocchiale); un quadro analogo si può osservare tuttavia anche per lesione bilaterale delle radiazioni ottiche, per il possibile risparmio delle fibre maculari che, nel portarsi al polo occipitale, decorrono più superficialmente. Una lesione che interessi bilateralmente la corteccia striata determina una cecità completa detta «cecità corticale», caratterizzata da integrità dell’apparato oculare, conservazione del riflesso fotomotore, assenza del nistagmo optocinetico. Si può concludere che: a) le lesioni prechiasmatiche causano difetti visivi in un solo occhio; b) le lesioni chiasmatiche, in genere, causano difetti eteronimi del campo visivo bilateralmente; c) le lesioni retrochiasmatiche causano difetti dell’emicampo visivo controlaterale di tipo omonimo in entrambi gli occhi, congruo o incongruo.
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Da un punto di vista pratico conviene sottolineare, inoltre, che: – le emianopsie omonime sono di gran lunga più frequenti di quelle eteronime, ma la loro ricerca potrebbe essere superflua (o tecnicamente impossibile) per la coesistenza di altri segni di sofferenza cerebrale; – tra le emianopsie eteronime quelle bitemporali sono assai più frequenti delle binasali; – la ricerca di una emianopsia eteronima è essenziale ogni qual volta si sospetti la presenza di una lesione sellare o iuxtasellare. In ogni caso è indubbio che una emianopsia, sia essa omonima o eteronima, indica sempre l’esistenza di una lesione intracranica.
Motilità oculare Concetti generali I movimenti di ciascun globo oculare sono affidati a sei muscoli (retto laterale, retto mediale, retto superiore, retto inferiore, obliquo superiore, obliquo inferiore) innervati da tre nervi cranici (III, IV e VI). È opportuno sottolineare che i muscoli oculomotori non possono essere contratti singolarmente in quanto l’azione di ciascun muscolo è inscindibilmente coordinata con quella di altri muscoli ad opera di sistemi oculomotori sopranucleari che saranno descritti successivamente. Ne consegue che il contributo dei singoli muscoli alla motilità dei globi oculari può essere extrapolato solo indirettamente sulla base della fenomenologia deficitaria collegata, caratterizzata fondamentalmente da a) deviazione del globo oculare nello sguardo diretto (strabismo paralitico), dovuta alla prevalenza del muscolo antagonista; b) limitazione (o addirittura abolizione) del movimento dell’occhio nella direzione del muscolo agonista; c) diplopia: a causa del disallineamento dei globi oculari, l’immagine di un oggetto cadrà in punti non corrispondenti della retina (nell’occhio
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sano l’immagine cade sulla fovea, mentre nell’occhio paretico l’immagine cade al di fuori della fovea) per cui, venendo a mancare la fusione delle immagini, l’oggetto apparirà sdoppiato. In tal caso, per attenuare la diplopia, il soggetto tende istintivamente a deviare il capo nella direzione di azione del muscolo paretico. Le due immagini possono essere situate su un piano orizzontale, verticale o obliquo. Se la diplopia è orizzontale i muscoli paretici possono essere solo due: il retto laterale o il retto mediale. Se la diplopia è verticale o obliqua è interessato almeno uno degli altri 4 muscoli. Si definisce immagine vera quella percepita dall’occhio sano e immagine falsa quella percepita dall’occhio paretico. L’immagine falsa si distingue dall’immagine vera in quanto, non essendo proiettata sulla fovea, presenta contorni meno nitidi. A volte il soggetto riferisce non già di vedere “doppio”, bensì di vedere “male” o “annebbiato”, in tale caso basterà chiedere al paziente di guardare l’immagine con un occhio alla volta per scoprire (se il soggetto non lo ha già fatto per conto proprio) la vera natura di tale annebbiamento. Come risulterà più chiaramente in seguito, la diplopia è un sintomo importante potenzialmente riferibile a svariate patologie. Un caso del tutto particolare è rappresentato dalla diplopia monoculare in cui, a differenza della diplopia binoculare di cui si è appena parlato, lo sdoppiamento dell’immagine persiste anche con la chiusura di un occhio. L’eventualità più frequente è rappresentata da un disturbo psicogeno, ma talora, specie in casi di patologia oculistica, è possibile che si realizzi una autentica diplopia monoculare. Ciò può avvenire per: a) alterazioni corneali (cheratocono), b) sublussazione del cristallino o cataratta combinata, c) corpo estraneo nel vitreo, d) oscillopsia monoculare (in caso di nistagmo). L’esame della motilità oculare si esegue invitando il soggetto a spostare volontariamente lo sguardo nelle diverse direzioni (movimenti saccadici) oppure a seguire una mira che si sposta nel campo visivo (movimenti di inseguimen-
to). Se il deficit del muscolo è completo, la prova di inseguimento di una mira permette di individuare il movimento oculare abolito e quindi di identificare il muscolo leso. Contestualmente il paziente accuserà diplopia che, peraltro, potrebbe essere riferita anche in assenza di un visibile disallineamento dei globi oculari. In tal caso, per individuare il muscolo paretico, potranno essere impiegate alcune particolari strategie. Esemplificando, laddove il paziente accusi diplopia nei movimenti orizzontali, in assenza di un evidente strabismo, sarà opportuno: 1) identificare la posizione di massima diplopia, assumendo che la distanza tra le due immagini (vera e falsa) è tanto maggiore quanto più viene impegnato il muscolo paretico, per cui, in caso di deficit del muscolo retto laterale di destra, la distanza tra le due immagini aumenta nello sguardo verso destra e diminuisce o si annulla nello sguardo verso sinistra: in tal caso si parla di diplopia omonima. Nella situazione speculare (deficit del retto mediale di destra) al contrario, la distanza tra le due immagini aumenta nello sguardo verso sinistra e diminuisce o si annulla nello sguardo verso destra: in questo caso si parla di diplopia eteronima. Riassumendo, a seconda che il lato dell’occhio paretico coincida o meno con quello della direzione dello sguardo in cui compare (o aumenta) la diplopia, si parla rispettivamente di diplopia omonima o di diplopia eteronima; 2) identificare l’occhio in cui ha origine l’immagine falsa (che deve essere ricercata nella posizione di massima diplopia) facendo chiudere alternativamente i due occhi. Esemplificando, qualora si tratti di un deficit del muscolo abduttore dell’occhio destro, la chiusura dell’occhio omolaterale determinerà la scomparsa dell’immagine indistinta, mentre la chiusura dell’altro occhio provocherà la scomparsa dell’immagine nitida. Per facilitare l’identificazione dell’immagine falsa (e quindi dell’occhio paretico), potrà essere utile porre un vetro rosso di fronte a uno dei due occhi.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Riassumendo, dato un paziente diplopico in cui: a) la posizione degli occhi in cui la separazione delle immagini è maggiore nello sguardo laterale verso sinistra; b) chiudendo l’occhio destro scompare l’immagine nitida, mentre chiudendo l’occhio sinistro scompare l’immagine indistinta; si può ragionevolmente concludere che l’occhio paretico è il sinistro ed il muscolo deficitario il retto laterale sinistro. In caso di incertezza, converrà rivolgersi all’oftalmologo che utilizzerà particolari strategie, come la prova di Borsotti ed il test di Hess. I termini strabismo ed eterotropia sono sinonimi. Infatti si definisce eterotropia qualsiasi deviazione dell’asse visivo di un occhio dal punto di fissazione (exotropia, occhio deviato all’esterno; esotropia, all’interno; ipertropia, in alto; ipotropia, in basso). L’eterotropia può essere «paralitica» cioè causata da una lesione dei nervi oculomotori o dei muscoli oculari estrinseci, oppure «non paralitica» cioè dovuta ad alterazioni che interferiscono con la visione centrale di un occhio (errori di rifrazione, opacamento corneale, lesioni maculari, ecc.), definite usualmente eterotropie concomitanti. Nello strabismo non paralitico l’angolo di deviazione degli assi oculari si mantiene costante in tutte le direzioni dello sguardo (strabismo concomitante), mentre nello strabismo paralitico l’angolo varia, come abbiamo visto, a seconda della direzione dello sguardo; inoltre non vi è diplopia, in quanto il conflitto fra le due immagini viene risolto a livello corticale, con l’esclusione di un occhio; se la condizione non viene adeguatamente trattata si giunge alla perdita definitiva dell’acuità visiva di un occhio (ambliopia ex anopsia). L’occhio “escluso” mostra retina, papilla e riflessi pupillari normali, ma percepisce soltanto la luce. Il trattamento palliativo consiste nell’occlusione alternata di un occhio; quello definitivo nella correzione chirurgica. Conviene ricordare, infine, che la diplopia è caratteristica dei disturbi della motilità oculare “elementare” sia essa dovuta a lesioni dei muscoli o dei nervi oculomotori, mentre non si verifica nei disturbi della motilità oculare “co-
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niugata” da lesione dei sistemi oculomotori sopranucleari (vedi oltre). I muscoli oculomotori Come si è detto precedentemente, ciascun occhio è fornito di 4 muscoli retti e di 2 muscoli obliqui (Fig. 7.18), le cui rispettive azioni sono schematizzate nella figura (Fig. 7.19). Le azioni dei muscoli oculomotori si possono così sintetizzare: • il retto laterale ruota l’occhio orizzontalmente all’esterno • il retto mediale ruota l’occhio orizzontalmente all’interno • il retto superiore ruota in alto l’occhio abdotto • l’obliquo inferiore (o piccolo obliquo) ruota in alto l’occhio addotto • il retto inferiore ruota in basso l’occhio abdotto • l’obliquo superiore (o grande obliquo) ruota in basso l’occhio addotto. Nei movimenti dello sguardo un muscolo di un occhio agisce in modo sinergico con un muscolo dell’altro occhio, con cui forma una coppia di agonisti. In particolare:
Fig. 7.18 - Muscoli oculomotori: con l’eccezione dei muscoli retto laterale e obliquo superiore, sono tutti innervati dal III paio di nervi cranici.
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Fig. 7.19 - Rappresentazione schematica dell’azione dei singoli muscoli oculomotori.
– il retto laterale di un occhio ed il retto mediale dell’altro occhio agiscono in coppia nello sguardo orizzontale verso destra e verso sinistra; – la coppia per lo sguardo verso l’alto e lateralmente è costituita dal retto superiore di un occhio e dall’obliquo inferiore dell’altro occhio; – la coppia per lo sguardo verso il basso e lateralmente è formata dal retto inferiore di un occhio e dall’obliquo superiore dell’altro occhio. In altre parole, mentre i movimenti coniugati di lateralità sono affidati a 2 muscoli (uno per occhio), i movimenti coniugati di verticalità richiedono l’intervento di 4 muscoli (due per occhio), sia per lo sguardo verso l’alto che verso il basso.
bra, retto superiore, retto mediale, retto inferiore, obliquo inferiore (o piccolo obliquo). Con il III nervo decorrono anche le fibre parasimpatiche pupillocostrittrici, che originano dal nucleo di Edinger-Westphal e innervano lo sfintere dell’iride (Fig. 7.20, 7.21, 7.22, 7.23). Il IV nervo cranico (trocleare) prende origine da un nucleo mesencefalico, posto caudalmente a quello del III. Si porta in alto circondando la sostanza grigia centrale e si decussa con quello dell’altro lato nel tetto del mesencefalo, emergendo dietro ai collicoli inferiori. Si porta in avanti e, dopo aver circondato il mesencefalo, percorre lo spazio subaracnoideo della base, attraversa il seno cavernoso e penetra nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Innerva il muscolo obliquo superiore (o grande obliquo) (Fig. 7.23, 7.24).
I nervi oculomotori Il III nervo cranico (oculomotore comune) origina da un nucleo situato nel mesencefalo, sotto la sostanza grigia periacqueduttale, all’altezza del tubercolo quadrigemino superiore. Il nervo emerge dal mesencefalo nello spazio interpeduncolare, entra nel seno cavernoso (assieme al IV al VI e alla branca oftalmica del V) ed esce dal cranio attraverso la fessura sfenoidale superiore. Nella cavità orbitaria si distribuisce ai seguenti muscoli: elevatore della palpe-
Fig. 7.20 - Nucleo di origine del n. oculomotore comune (III paio).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.24 - Nucleo d’origine del n. trocleare (IV paio) nel mesencefalo. Fig. 7.21 - Rapporti del III paio con l’arteria cerebrale posteriore e l’arteria cerebellare superiore.
Il VI nervo cranico (abducente) origina da un nucleo situato nel ponte, in posizione paramediana, in prossimità del nucleo del VII. Emerge dal solco bulbo-pontino, risale lungo il clivus, scavalca l’apice della rocca ed entra nel seno cavernoso, da cui fuoriesce per penetrare nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Innerva il muscolo retto laterale (Fig. 7.25).
I Sistemi Oculomotori sopranucleari
Fig. 7.22 - Rapporti del III paio col legamento clino-petroso. 1: Nervo ottico; 2: carotide interna; 3: n. oculomotore (III paio); 4: n. trocleare (IV paio); 5: n. abducente (VI paio); 6: n. trigemino (V paio); 7: tenda dell’ipofisi; 8: legamento clinopetroso.
Fig. 7.23 - Rapporti tra le diverse strutture contenute nel seno cavernoso.
L’uomo utilizza movimenti oculari rapidi, chiamati saccadi, per portare una immagine sulla fovea, mentre per il suo mantenimento in
Fig. 7.25 - Nucleo d’origine del n. abducente (VI paio) e del facciale (VII paio) nel ponte.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
questa regione sfrutta un movimento lento detto di inseguimento. Considerato che l’immagine può muoversi obliquamente, orizzontalmente o verticalmente, gli occhi devono compiere movimenti simultanei nella sua stessa direzione che vengono chiamati movimenti coniugati o versioni. Se l’immagine inseguita si avvicina o si allontana, i relativi movimenti oculari non sono più coniugati e si chiamano vergenze. Oltre a mantenere fissa l’immagine foveale, i sistemi oculomotori sopranucleari devono provvedere a compensare le oscillazioni del tronco e della testa grazie al sistema vestibolare ed otticocinetico. SISTEMA SACCADICO Le saccadi sono movimenti veloci, sia volontari che involontari, diretti verso l’immagine di un oggetto visto alla periferia del campo visivo che suscita l’interesse dell’osservatore. La saccade consiste in un movimento di ampiezza appropriata, di velocità proporzionale a questa, con un tempo di latenza di circa 200 msec. Durante i movimenti saccadici la visione non subisce alcuna modificazione. Le saccadi possono essere evocate anche da stimoli non visivi quali ad esempio stimoli uditivi, il sonno (fase REM) e la stimolazione vestibolare (fase rapida del nistagmo). Non è noto quale sia il sistema di controllo dell’intensità e della durata delle saccadi. Tuttavia è certo che le saccadi verticali sono mediate da un generatore mesencefalico e quelle orizzontali da un generatore pontino (v. pag. 237). Esistono poi neuroni tonici, localizzati nella sostanza reticolare del ponte e del bulbo, che provvedono al mantenimento della posizione dell’occhio nell’orbita. Da ricordare inoltre, le cellule cosiddette di pausa site nel ponte che non scaricano durante la saccade. Le proiezioni corticali responsabili dei movimenti saccadici provengono dall’area 8 e raggiungono il generatore pontino controlaterale, per i movimenti dello sguardo verso il lato opposto; e quello mesencefalico per il movimenti verti-
cali, sia direttamente che tramite il collicolo superiore cui fanno capo anche gli impulsi afferenti responsabili dei movimenti saccadici riflessi. SISTEMA DI INSEGUIMENTO I movimenti oculari di inseguimento permettono il mantenimento di una immagine in movimento sulla fovea (riflesso di fissazione) e vengono programmati a livello delle aree corticali occipito-parietali 18 e 19 da cui partono impulsi diretti agli effettori (o generatori) comuni (v. pag. 545). I movimenti di inseguimento sono di origine riflessa e, a differenza dei movimenti saccadici, non possono seguire mire che si spostano con velocità superiore a 30° - 50° sec. SISTEMA DI VERGENZA I movimenti di vergenza permettono la stereopsi e, in un certo senso, prevengono la diplopia. Infatti, lo sfuocamento dell’immagine e la sua rappresentazione in punti retinici non corrispondenti (disparità retinica) determinano movimenti accomodativi e fusionali di vergenza. La vergenza accomodativa può essere indotta modificando la distanza di fissazione di una mira osservata con l’occhio controlaterale; quella fusionale ponendo un prisma davanti ad un occhio durante la osservazione binoculare di una mira fissa. Questi movimenti, volontari o riflessi, sono molto lenti (circa 10°/sec) e sono mediati, almeno in parte, dagli stessi neuroni motori preposti alle versioni. Gli impulsi responsabili delle vergenze partono dalle aree occipito-parietali e, tramite la formazione reticolare, raggiungono i motoneuroni dei retti mediali o dei retti laterali. SISTEMA VESTIBOLARE E OTTICOCINETICO Coordina la cooperazione tra i movimenti degli occhi e quelli della testa, grazie a riflessi cervico-oculari (collo-occhio), vestibolo-cervi-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
cali (testa-collo) e vestibolo-oculari (testa-occhio). Questi ultimi sono i più importanti e permettono la stabilizzazione della posizione degli occhi nello spazio durante la rotazione del capo, mantenendo la linea di fissazione costante. Il riflesso vestibolo-oculare è mediato dai canali semicircolari in modo che se è stimolato il canale anteriore è inibito quello posteriore e viceversa. Vi sono tre canali semicircolari: l’orizzontale, l’anteriore ed il posteriore. Ciascun canale stimola prevalentemente due muscoli extraoculari: quello orizzontale eccita il muscolo retto mediale omolaterale ed il retto laterale controlaterale; il canale anteriore sollecita il retto superiore omolaterale ed l’obliquo inferiore controlaterale; il canale posteriore stimola l’obliquo superiore omolaterale ed il sinergista controlaterale cioè il retto inferiore. I segnali provenienti dai canali semicircolari e dagli otoliti sono trasmessi ai nuclei vestibolari e da qui a) per i movimenti orizzontali al nucleo dell’oculomotore omolaterale ed attraverso il fascicolo longitudinale mediale al nucleo dell’abducente controlaterale; b) per i movimenti oculari verticali e torsionali ai nuclei del trocleare e dell’oculomotore omolaterali e sempre attraverso il fascicolo longitudinale mediale al nucleo dell’oculomotore controlaterale. Sia la stimolazione del sistema vestibolare che di quello ottico-cinetico determina l’insorgenza di un movimento oscillatorio involontario oculare caratterizzato da una fase lenta seguita da una fase rapida in direzione opposta, detto nistagmo. Quest’ultimo può essere orizzontale, verticale o torsionale, mono o binoculare e, a seconda dei casi, si definisce coniugato (se le fasi lente di ciascun occhio sono della stessa ampiezza e nella stessa direzione ) o dissociato (se le fasi lente hanno direzione e/o ampiezze differenti). In particolare se una persona, in cui il riflesso di fissazione sia stato inibito ponendole davanti agli occhi lenti che impediscono la visione distinta (occhiali di Frenzel), viene fatta sedere su una poltrona rotante, si osserverà la
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comparsa di un movimento compensatorio degli occhi della stessa velocità angolare della poltrona, ma in direzione opposta rispetto alla rotazione del capo, fino a quando la posizione diviene troppo eccentrica per cui si verificherà una scossa rapida nel senso della rotazione del capo tendente a riportare gli occhi in posizione primaria di sguardo. Questa sequenza di eventi corrisponde al nistagmo vestibolare in cui il movimento lento è di origine vestibolare e la scossa rapida è una saccade di origine corticale. Un mezzo per stimolare separatamente i due labirinti è rappresentato dall’irrigazione calorica. La fissazione visiva riduce o abolisce questa forma di nistagmo. Se invece si provoca il riflesso di fissazione in un soggetto normale con una successione di strisce chiare e scure in movimento (tamburo rotante), si evoca il cosiddetto nistagno optocinetico che potrà essere orizzontale o verticale, a seconda della direzione degli stimoli visivi. Un tipico esempio di nistagmo optocinetico orizzontale si può osservare in un individuo che guarda fuori dal finestrino di un treno in movimento: in tal caso gli occhi inseguono lentamente una mira fino a quando questa esce dal campo visivo per cui subentra un movimento compensatorio che riporta l’immagine sulla fovea, in modo che la sequenza possa riprendere. La ricerca del nistagmo optocinetico può essere utile a fini diagnostici. EFFETTORI (O GENERATORI) COMUNI I sistemi precedentemente descritti usufruiscono di effettori neuronali comuni situati nel ponte e nel mesencefalo bilateralmente. I neuroni che li compongono sono eccitatori o inibitori, ad azione fasica o tonica. I neuroni fasici scaricano durante i movimenti rapidi, mentre quelli tonici intervengono durante i movimenti lenti. Il generatore pontino (o nucleo parabducente) si trova accanto al nucleo dell’abducente, è connesso al nucleo del VI omolaterale e del III controlaterale, ed elabora i movimenti di sguardo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
omolaterali attivando i motoneuroni del muscolo retto laterale omolaterale e del muscolo retto mediale controlaterale. Il generatore mesencefalico si trova nel nucleo interstiziale, è connesso bilateralmente con i nuclei del III e del IV e coordina i movimenti di verticalità attivando i motoneuroni dei muscoli retti verticali ed obliqui.
Le sindromi da lesione dei nervi oculomotori In termini generali, si può ritenere che data una popolazione di casi con lesione dei nervi oculomotori, nel 50% sia colpito il nervo oculomotore comune, nel 40% il nervo abducente, e solo nel 10% il nervo trocleare. Nervo oculomotore comune. - Se la paralisi è completa il paziente presenta: a) ptosi palpebrale (paralisi dell’elevatore), b) strabismo divergente (exotropia) per paresi del retto mediale e prevalenza del retto laterale, innervato dal VI, c) difetto di rotazione dell’occhio verso l’interno, l’alto e il basso (per la paresi del retto mediale, retto superiore, obliquo inferiore e retto inferiore), d) diplopia orizzontale nella posizione primaria dello sguardo, che diventa massima nello sguardo orizzontale verso il lato opposto, campo d’azione del retto mediale paretico (diplopia eteronima), e) midriasi fissa omolaterale, per paralisi del parasimpatico pupillo-costrittore. Le cause più importanti di paralisi dell’oculomotore comune sono: – oftalmoplegia diabetica (con frequente risparmio della componente intrinseca); – lesioni nucleari: infarti, malattie demielinizzanti, tumori (metastatici); – lesioni delle fibre intraparenchimali: infarti (sindromi alterne mesencefaliche) e, raramente, tumori; – lesioni a livello interpeduncolare: aneurismi, traumi, meningiti, emorragie subaracnoidee; – lesioni a livello del seno cavernoso: aneurismi, tumori (meningiomi, tumori extrasellari, metastasi);
– lesioni a livello dell’orbita: traumi, tumori. Poiché la miastenia (talora anche la miopatia distiroidea) possono mimare vari tipi di paresi oculari, il test al Tensilon (v. pag. 0000) e i tests di funzionalità tiroidea devono essere eseguiti in tutti i pazienti con pupille normali.
Nervo trocleare. - La paralisi del IV è caratterizzata dai seguenti disturbi: a) inclinazione compensatoria della testa verso il lato opposto rispetto all’occhio affetto, b) slivellamento dei globi oculari sul piano orizzontale con lieve elevazione di quello affetto (prevalenza dell’obliquo inferiore, con rotazione dell’occhio in alto all’interno), c) difetto di rotazione dell’occhio in basso e all’esterno, d) diplopia verticale massima nello sguardo in basso e verso il lato opposto al muscolo paretico. Le paresi isolate del IV paio sono meno frequenti delle paresi degli altri nervi oculomotori. Le cause più comuni sono: – traumi cranici (la paresi può essere bilaterale); – diabete (specie negli anziani); – infarti mesencefalici; – patologia del seno cavernoso e/o fessura orbitale superiore; – patologia orbitale; Anche in questo caso, poiché la miastenia (talora anche la miopatia distiroidea) possono presentarsi con paresi oculari di vario tipo, il test al Tensilon (v. pag. 000) e i tests di funzionalità tiroidea devono essere eseguiti nei soggetti con paresi del IV paio.
Nervo abducente. - La paralisi del VI si manifesta con i seguenti disturbi: a) strabismo convergente (esotropia), per paresi del retto laterale e prevalenza del retto mediale b) difetto di rotazione dell’occhio verso l’esterno, sul piano orizzontale, c) diplopia orizzontale, che diventa massima nello sguardo diretto verso il lato dell’occhio affetto (diplopia omonima). Le cause più comuni di una paralisi del VI paio sono: – diabete; – sindrome da ipertensione endocranica;
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali – sindromi pontine (infarto, tumore, malattie demielinizzanti) e, meno frequentemente, sindromi dell’angolo ponto-cerebellare; – sindromi da lesione della fossa media (tumori); – sindromi del seno cavernoso e della fessura orbitale superiore; – sindromi del clivus (tumori nasofaringei). Anche per la paralisi del VI, la miastenia e la miopatia distiroidea devono essere prese in considerazione, eventualmente con esecuzione del test al Tensilon (v. pag. 000) e dei tests di funzionalità tiroidea.
Riassumendo, le cause della paralisi dei nervi oculomotori sono molto numerose e possono essere localizzate in varie sedi: • a livello del tronco encefalico, ove i nuclei oculomotori e/o il tratto intrassiale del nervo possono essere colpiti da tumori, infiammazioni, infarti. Spesso esiste una emiplegia controlaterale (sindromi alterne di Weber o di MillardGubler); • davanti al tronco, ove i nervi possono essere interessati da tumori, aneurismi della basilare, meningiti croniche della base (sarcoidosi, carcinomatosi); • nel seno cavernoso e nella fessura sfenoidale superiore, ove le lesioni più comuni sono i tumori e gli aneurismi. Conviene ricordare, infine, che nelle persone anziane, paralisi isolate di nervi oculomotori (soprattutto del III) sono spesso causate da ischemia dei tronchi nervosi, su base aterosclerotica o diabetica. Queste forme sono abitualmente benigne.
Le sindromi da paralisi combinate dei muscoli oculomotori Possono dipendere sia da patologie dei nervi che da patologie dei muscoli. FORME NEUROGENE Le paralisi combinate dei nervi oculomotori sono quasi sempre unilaterali e sono causate da
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lesioni non diverse da quelle che possono dare paralisi isolate. Il quadro clinico comprende segni di paralisi dei muscoli innervati dai tre nervi oculomotori, con o senza interessamento della pupilla. L’oftalmoplegia può associarsi a difetto visivo per lesione del nervo ottico (lesioni orbitarie o della fessura sfenoidale), ad esoftalmo, a disturbi nel territorio della branca oftalmica del V. Se l’oftalmoplegia si associa a dolore dentro o attorno all’occhio, si parla di “oftalmoplegia dolorosa”, una sindrome che riconosce svariate eziologie. La Sindrome di Tolosa-Hunt è una varietà di oftalmoplegia dolorosa , che esordisce in modo acuto, tende a regredire spontaneamente o con terapia cortisonica, ma può recidivare omo- o controlateralmente. È sostenuta da un processo infiammatorio granulomatoso non specifico, localizzato nel seno cavernoso e nell’avventizia della carotide. Se lo stesso processo si localizza nell’orbita, si realizza il cosiddetto “pseudotumor orbitae” con oftalmoplegia dolorosa ed esoftalmo marcato. FORME MIOGENE Miopatia distiroidea. - È la causa più comune di diplopia cronica nell’età media e senile. L’ipertiroidismo produce alterazioni dei muscoli extraoculari, che vanno incontro a retrazione fibrotica: ne consegue una limitazione della rotazione oculare nella direzione opposta a quella del muscolo retratto, che può simulare una paresi del muscolo antagonista. Tutti i muscoli estrinseci dei due occhi possono essere colpiti in varie combinazioni, realizzando oftalmoplegie complesse, non riconducibili a lesioni dei nervi oculomotori. All’oftalmoplegia si associano segni evocatori di ipertiroidismo a livello oculare: esoftalmo, retrazione della palpebra superiore che non segue l’occhio nello sguardo verso il basso (Segno di Graefe), edema palpebrale, iperemia congiuntivale nei punti di inserzione dei muscoli oculomotori. Molti malati presentano
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segni biologici di ipertiroidismo (T3-T4 elevati), ma alcuni sono eutiroidei. L’ecografia dei muscoli oculomotori è un utile esame diagnostico che ha sostituito il test di rotazione forzata dei globi, in passato utilizzato per la diagnosi di miopatia distiroidea. Altre patologie miogene. – Per i disturbi della motilità oculare in corso di distrofie muscolari o di patologie mitocondriali (tra cui merita particolare menzione la c.d. oftalmoplegia esterna progressiva) il lettore è rinviato ai capitoli dedicati a queste malattie (v. pag. 000). Va infine ricordato che la miastenia oculare è una delle cause più comuni di diplopia cronica. Alterazioni della motilità oculare coniugata Paralisi dello sguardo orizzontale. - Depone per la presenza di una lesione della via cortico-nucleare addetta ai movimenti saccadici (volontari) in un punto compreso fra la corteccia frontale (area 8) ed il ponte19. Ai fini della localizzazione della lesione ha grande valore il rapporto fra il lato della paralisi dello sguardo e quella dell’emiplegia, abitualmente associata. In particolare: a) se la lesione è emisferica, è paralizzato lo sguardo verso il lato opposto alla lesione e c’è una deviazione tonica degli occhi verso lo stesso lato della lesione per cui lo sguardo è deviato verso il lato opposto all’emiplegia. b) Se la lesione è pontina, è paralizzato lo sguardo verso il lato della lesione e c’è una deviazione tonica degli occhi verso il lato opposto per cui lo sguardo è deviato verso il lato dell’emiplegia.
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La lesione dell’area oculomotoria occipitale non altera i movimenti saccadici (volontari) bensì i movimenti di inseguimento che possono risultare limitati in ambedue le direzioni, ma in misura maggiore allorchè gli occhi devono seguire una mira che si sposta verso il lato della lesione.
Fig. 7.26 - Deviazione oculare coniugata sul piano orizzontale causata da lesione emisferica e da lesione pontina.
Il deficit da lesione emisferica è abitualmente dovuto a patologie cerebrovascolari acute (ischemiche o emorragiche), tende a risolversi nel giro di pochi giorni e la sua eventuale persistenza ha un significato prognostico sfavorevole. La paralisi dello sguardo orizzontale da lesione pontina, in genere, è molto più grave e duratura che nei danni emisferici (Fig. 7.26). Paralisi dello sguardo verticale. - Le lesioni cerebrali emisferiche unilaterali non interferiscono con i movimenti di verticalità in quanto le relative vie discendenti sono bilaterali. La paralisi dello sguardo associato verso l’alto e/o verso il basso (la paralisi verso l’alto è più comune) è determinata da una lesione a livello della porzione rostrale del tetto mesencefalico. Le paralisi dello sguardo coniugato verso il basso sono estremamente rare e si riscontrano per lesioni mesencefaliche bilaterali in aree dorsomediali al nucleo rosso.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
La sindrome di Parinaud consiste in un’alterazione della motilità coniugata verso l’alto e talora verso il basso, cui si possono eventualmente associare alterazioni pupillari (midriasi con pupille non reagenti alla luce, ma reagenti alla accomodazione), retrazione palpebrale o ptosi, nistagmo retrattorio ed edema papillare. La sindrome è ritenuta patognomonica di tumori dei tubercoli quadrigemini, ma è osservabile in tutte le lesioni che provocano un’alterazione dell’area pretettale, con particolare frequenza in caso di tumori epifisari o di lesioni vascolari localizzate. Paralisi internucleare. - È una forma disconiugata di paralisi dello sguardo orizzontale dovuta alla compromissione del normale sinergismo fra il retto mediale di un lato ed il retto laterale del lato opposto. Questo sinergismo è assicurato da un sistema di controllo che collega il nucleo del VI di un lato al nucleo del III del lato opposto. Le fibre internucleari partono dalla formazione reticolare pontina paramediana (FRPP) adiacente al nucleo del VI, percorrono il fascicolo longitudinale mediale (FLM), incrociano la linea mediana, e terminano nella porzione del nucleo del III che innerva il retto mediale. La lesione del FLM causa una oftalmoplegia internucleare ben riconoscibile in quanto nello sguardo laterale un occhio non può essere addotto, mentre l’altro viene abdotto ma presenta ampie scosse di nistagmo. La lesione è omolaterale all’occhio che non adduce. La condizione simula una paresi del retto mediale, la cui integrità è però dimostrata dal fatto che la convergenza dei due occhi è normale. Le cause più comuni di oftalmoplegia internucleare sono la sclerosi a placche, gli infarti ed i tumori del tronco encefalico. La classica distinzione fra oftaloplegia internucleare anteriore e posteriore non ha significato clinico. Sindrome “one and half” (uno e mezzo). Può essere considerata come la combinazione tra una paralisi orizzontale ed una paralisi inter-
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nucleare, ed è dovuta ad una lesione che, oltre a distruggere il generatore pontino (di cui si è parlato a proposito degli effettori comuni), ingloba anche il fascicolo longitudinale mediale omolaterale. L’occhio del lato leso non è in grado di abdurre a causa della paralisi orizzontale, né di addurre a causa della paralisi internucleare (“uno”); mentre l’occhio del lato opposto non adduce per la paralisi orizzontale (“mezzo”) e presenta un nistagmo in abduzione per la paralisi internucleare. Le cause più frequenti sono la sclerosi multipla e, nell’anziano, la malattia cerebrovascolare. Paralisi globale dello sguardo. - L’impossibilità, peraltro rara come fenomeno isolato, a dirigere lo sguardo in qualunque direzione può dipendere da numerose cause, fra cui la Sindrome di Guillain-Barrè e le varie forme di oftalmoplegia cronica esterna progressiva, in primis la sindrome di Kearns-Sayre per cui si rinvia al capitolo delle malattie mitocondriali. Se il soggetto è anziano, va considerata la possibilità di una paralisi sopranucleare progressiva. Se è un alcoolista, potrebbe trattarsi di una encefalopatia di Wernicke.
Motilità palpebrale È affidata al III (muscolo elevatore della palpebra superiore) e al VII (muscolo orbicolare dell’occhio) nervo cranico. L’ampiezza della rima palpebrale può essere aumentata, a causa di una paralisi del muscolo orbicolare dell’occhio con abbassamento della palpebra inferiore (ad esempio in caso di paralisi del VII di tipo periferico con lagoftalmo), oppure diminuita, per la presenza di una ptosi della palpebra superiore dovuta ad una paralisi del muscolo elevatore della palpebra, innervato dal III nervo cranico. A questo proposito va ricordato che una sorta di ptosi o – più propriamente – un restringimento della
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rima palpebrale, può essere determinato da una paralisi del muscolo tarsale (di Müller), un muscolo liscio inserito nelle fibre striate dell’elevatore della palpebra e sul tarso della palpebra superiore, innervato dal simpatico cervicale, che contribuisce al sollevamento della palpebra. Questa “ptosi”, associata a miosi ed enoftalmo, configura la sindrome di BernardHorner (v. pag. 245). Le cause più comuni di ptosi unilaterale della palpebra superiore sono rappresentate da una lesione parziale del III nervo cranico e da una miastenia che, peraltro, può essere responsabile anche di una ptosi bilaterale. Quest’ultima, a sua volta, può anche essere dovuta ad una miopatia iniziale (tipo oftalmoplegia esterna progressiva). Fra le cause di alterazione della motilità palpebrale vanno ancora ricordati: – il blefarospasmo (v. pag. 000) che consiste nella chiusura forzata delle palpebre per una contrazione intermittente o relativamente duratura del muscolo orbicolare; – l’aprassia delle palpebre, un raro disturbo caratterizzato dall’impossibilità ad aprire le palpebre dietro comando; – l’allargamento della rima palpebrale per contrazione tonica dei muscoli lisci della palpebra superiore può dipendere da irritazione del simpatico (associato a midriasi ed esoftalmo configura la sindrome di Pourfur du Petit), oppure dalla presenza di un gozzo esoftalmico; – la retrazione spastica e la retrazione tonica palpebrale possono verificarsi sia nel gozzo esoftalmico, che nelle lesioni, in genere tumorali, del mesencefalo. Se il segno è bilaterale si tratta, con notevole probabilità di lesioni mesencefaliche.
Motilità pupillare La motilità pupillare (o motilità oculare intrinseca) è affidata a due muscoli lisci: – lo sfintere dell’iride a forma di cercine, a innervazione parasimpatica che costringe la pupilla (miosi);
– il dilatatore dell’iride disposto a raggiera, a innervazione ortosimpatica, che dilata la pupilla (midriasi). Il diametro pupillare varia normalmente da 2 a 5 mm ed è maggiore nell’età giovanile. Una riduzione del diametro < 2 mm viene definita miosi, un aumento del diametro > 6 mm midriasi. Le pupille normali sono circolari (isocicliche) e di pari diametro (isocoriche). Anisociclia pupillare: in situazioni patologiche quali postumi di lesioni infiammatorie dell’iride, tabe dorsale, paralisi progressiva, o anche alterazioni congenite, il contorno della pupilla può presentare forme diverse (ovale, a goccia, irregolare) o anisociclia. Anisocoria pupillare: la variazione unilaterale di diametro può dipendere sia da una irritazione che da un deficit delle vie deputate alla motilità pupillare. È opportuno tuttavia sottolineare che circa il 20 % della popolazione può presentare una lieve anisocoria in cui, peraltro, la differenza tra i due diametri pupillari resta costante nelle varie condizioni di illuminazione e le reazioni pupillari alla luce e all’accomodazione-convergenza sono normali. In questi casi si parla di anisocoria essenziale. Il valore delle indicazioni fornite dall’esame delle pupille discende dal fatto che le vie della motilità pupillare coprono un lungo percorso attraverso il sistema nervoso centrale, spesso in stretta continuità con le strutture addette alla regolazione dello stato di vigilanza, senza contare che le vie pupillari sono assai resistenti ai danni metabolici. In termini generali, il riscontro di alterazioni pupillari può essere indicativo di una lesione strutturale sia del sistema nervoso centrale che periferico. Nel corso di alcune intossicazioni, infine, le pupille possono presentare modificazioni caratteristiche. – La via simpatica pupillare prende origine da un centro situato nell’ipotalamo posteriore (di Karpus-Kreidl), scende lungo il tronco encefalico e termina a livello dei segmenti C8D2 (centro di Budge), da cui parte il secondo neurone della via simpatica pupillare che esce
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
dal midollo con le radici anteriori C8-D2, risale lungo la catena simpatica paravertebrale del torace e del collo e termina nel ganglio cervicale superiore, sotto la base del cranio. Dal ganglio cervicale superiore prende origine il terzo neurone simpatico, che accompagna la carotide interna nel cranio e, nella fossa cranica media, si unisce alla branca oftalmica del quinto, con la quale penetra nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Le fibre si staccano dalla branca oftalmica come nervi ciliari lunghi, raggiungono il polo posteriore del globo ed infine il muscolo dilatatore della pupilla ed il muscolo tarsale (Fig. 7.27). Vanno considerati infine altri due contingenti: uno raggiunge il globo seguendo l’arteria oftalmica, ramo della
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carotide interna, l’altro (formato da fibre ortosimpatiche sudomotorie e vasomotorie, destinate alle ghiandole sudoripare e alle diramazioni vasali della faccia) segue la carotide esterna. – La via parasimpatica pupillare prende origine dal nucleo di Edinger-Westphal, situato nel mesencefalo, dorsalmente e rostralmente al nucleo del III. Le fibre pupillomotrici accompagnano il III nervo fino all’orbita e terminano nel ganglio ciliare, da cui parte il secondo neurone parasimpatico, che raggiunge l’occhio ed innerva il muscolo costrittore della pupilla ed il muscolo ciliare (posto nel corpo ciliare) cui spetta la regolazione del potere convergente del cristallino per la visione da vicino (accomodazione). RISPOSTE PUPILLARI FISIOLOGICHE
Fig. 7.27 - Le vie pupillari dilatatrici.
– Riflesso fotomotore: si ricerca ponendo il p. in una stanza scarsamente illuminata e, dopo aver atteso per un tempo sufficiente, portando davanti all’occhio del paziente una sorgente luminosa. La via afferente del riflesso fotomotore prende origine dalla retina e segue la via ottica sino al tratto ottico, lo abbandona prima del corpo genicolato laterale e raggiunge in nucleo pretettale. Da esso gli impulsi (via efferente) sono inviati al nucleo di Edinger-Westphal dei due lati, le cui fibre raggiungono il ganglio ciliare e, da qui, attraverso i nervi ciliari brevi, il muscolo costrittore dell’iride dei due occhi, determinando una miosi sia nell’occhio che è stato illuminato (riflesso fotomotore diretto) che nell’occhio controlaterale (riflesso fotomotore consensuale) (Fig. 7.28). – Riflesso di accomodazione-convergenza: si ricerca invitando il soggetto a fissare un oggetto lontano qualche decina di metri e successivamente a fissare un oggetto o il dito dell’esaminatore posto a circa 20-30 cm di distanza. Abitualmente si porta il paziente davanti ad una finestra e si fa fissare prima un oggetto a distanza e successivamente un punto della finestra, posto che siano il più possibile sulla stessa li-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.28 - Le vie del riflesso pupillare alla luce
nea di sguardo. La visione per vicino comporta un restringimento della pupilla. In sintesi questo riflesso comporta una triplice reazione (convergenza degli assi oculari, accomodazione e miosi) la cui insorgenza presuppone una attivazione delle aree striate e peristriate ad opera delle afferenze visive, cui fa seguito una risposta corticifuga diretta alla regione pretettale (Fig. 7.29). In realtà le afferenze visive non sono necessarie alla risposta pupillare: quest’ultima, infatti, si può osservare anche nei ciechi quando effettuano uno sforzo di convergenza. – Riflesso cilio-spinale: è provocato da stimoli dolorosi nella parte superiore del corpo e consiste in una lieve midriasi dovuta ad una inibizione del nucleo di Edinger-Westphal, ma soprattutto ad una attivazione del centro ciliospinale di Budge.
Fig. 7.29 - Via pupillare per l’accomodazione per vicino.
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RISPOSTE PUPILLARI AI FARMACI La pupilla si dilata per effetto di farmaci che stimolano il sistema simpatico (adrenalina, anfetamina, cocaina) o che bloccano il parasimpatico (atropina, omatropina, scopolamina). Al contrario, la pupilla si costringe sia per effetto di farmaci che stimolano il parasimpatico (pilocarpina, muscarina, acetilcolina) o che bloccano il simpatico (derivati dalla segale cornuta). L’azione di alcuni farmaci nella cosiddetta «prova dei colliri», viene utilizzata a scopo diagnostico per stabilire se le modificazioni del diametro pupillare sono di origine simpatica o parasimpatica. Una midriasi, ad esempio, può essere espressione sia di una lesione parasimpatica che di una irritazione simpatica. L’uso di farmaci stimolanti o bloccanti le due componenti vegetative permette di precisare la diagnosi (v. pag. 667). Può essere utile ricordare che la variazione del diametro pupillare rappresenta un ausilio nella
valutazione di uno stato di coma dovuto a farmaci o sostanze psicoattive: miosi si associa ad intossicazione da morfina o eroina, inibitori dell’aceticolinesterasi, reserpina o meprobamato; midriasi ad intossicazione da fenotiazine (cloropromazina), triciclici, cocaina, tossina botulinica, alcaloidi della belladonna. La tabella 7.8 elenca i principali farmaci che possono modificare il diametro pupillare unitamente al rispettivo effetto ed al relativo meccanismo d’azione. ALTERAZIONI PUPILLARI DI INTERESSE NEUROLOGICO – Miosi unilaterale: si osserva, associata a restringimento della rima palpebrale, per paralisi del muscolo tarsale, nelle lesioni unilaterali della via ortosimpatica (Sindrome di BernardHorner). L’enoftalmo, classicamente incluso nella sindrome, sarebbe solo apparente. Possono associarsi anidrosi e vasodilatazione dell’emifaccia ispilaterale. Le lesioni responsabili di una sindrome di Bernard-Horner possono essere
Tabella 7.8 - Reattività farmacologica delle pupille Farmaco
Meccanismo d’azione
Effetto
Pilocarpina Metacolina
stimolazione dei recettori colinergici stimolazione dei recettori colinergici
miosi miosi
Fisostigmina Neostigmina Edrofonio
inibizione dell’acetil-colinesterasi inibizione dell’acetil-colinesterasi inibizione dell’acetil-colinesterasi
miosi miosi miosi
Ergotamina Timololo
blocco dei recettori adrenergici blocco dei recettori adrenergici
miosi miosi
Adrenalina Efedrina
stimolazione dei recettori adrenergici stimolazione dei recettori adrenergici
midriasi midriasi
Idrossianfetamina
liberazione di adrenalina dalle terminazioni adrenergiche
midriasi
Cocaina
blocco della captazione di adrenalina dalle terminazioni adrenergiche
midriasi
Atropina Omoatropina Scopolamina Tropicamide
blocco blocco blocco blocco
midriasi midriasi midriasi midriasi
dei dei dei dei
recettori recettori recettori recettori
colinergici colinergici colinergici colinergici
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situate nell’ipotalamo, nel tronco encefalico, nel midollo cervicale, nel torace, nel collo, alla base del cranio, e nell’orbita, dato il lungo e complesso decorso della via simpatica pupillare. Il riscontro della sindrome isolata ha quindi scarso valore localizzatorio. Anche la natura delle lesioni è molto varia: bisogna però tener presente che in circa un terzo dei casi la sindrome è sostenuta da un tumore, localizzato di solito nel torace o nel collo. Altre cause comuni sono i traumi, gli infarti latero-bulbari (sindrome di Wallenberg) e, almeno sino a qualche tempo fa, l’arteriografia della carotide per puntura diretta (lesione del simpatico pericarotideo). La presenza di segni di interessamento delle vie lunghe e/o di nervi cranici depone per una lesione centrale; l’effetto dell’instillazione di un collirio di idrossi-anfetamina all’1% sul diametro pupillare consente di distinguere le lesioni pregangliari da quelle post-gangliari: solo nel primo caso, infatti, si osserva midriasi. – Miosi bilaterale: si osserva nelle lesioni bilaterali del diencefalo, del ponte e del bulbo, che mettono fuori funzione la via ortosimpatica, e nell’intossicazione da oppiacei: le pupille possono raggiungere dimensioni inferiori al millimetro (pupille a punta di spillo). – Midriasi unilaterale: è caratteristica delle lesioni del III nervo cranico. Una midriasi unilaterale da irritazione del simpatico, di cui si è parlato in precedenza, deve considerarsi eccezionale. – Midriasi bilaterale: si osserva nelle lesioni del tegmento mesencefalico, che interrompono la via del riflesso alla luce, nelle lesioni bilaterali del III che interrompono la via parasimpatica; nella morte cerebrale le pupille tendono alla midriasi unicamente per un effetto elastico. Si osserva inoltre nelle intossicazioni da cocaina e da atropina. REAZIONI PUPILLARI PATOLOGICHE Vanno ricordati soprattutto i seguenti fenomeni:
Perdita del riflesso alla luce: può dipendere da lesioni della branca afferente o efferente. La lesione del nervo ottico interrompe la branca afferente: l’illuminazione dell’occhio leso non provoca risposta in nessuno dei due occhi, mentre la risposta è bilateralmente normale illuminando l’occhio sano; è una prova molto sensibile del danno del fascio maculo-papillare. Lesioni bilaterali delle vie ottiche pregenicolate causano l’assenza bilaterale del riflesso fotomotore, permettendo di differenziare le cecità “anteriori” da quelle corticali, in cui il riflesso è normale, avendo le fibre pupillomotrici abbandonato la via ottica prima del corpo genicolato laterale. La lesione del III interrompe invece la branca efferente del riflesso e abolisce la risposta pupillare dal lato leso, quale sia l’occhio illuminato. – Fenomeno di Argyll-Robertson: è pressocché patognomonico della lue del sistema nervoso, ma si può osservare anche nelle lesioni compressive della regione pretettale. Le pupille sono miotiche e, talora, anisocoriche e anisocicliche, non reagiscono alla luce ma reagiscono normalmente all’accomodazione. La lesione è localizzata nella regione pretettale e interrompe bilateralmente la via afferente del riflesso fotomotore, risparmiando le vie discendenti dalla corteccia responsabili dell’accomodazione. – Pupilla tonica di Adie: compare in età giovanile, di solito nel sesso femminile, quasi sempre da un lato solo. La pupilla appare midriatica a normale illuminazione e non risponde alla luce; dopo prolungata esposizione a luce intensa può mostrare una lieve riduzione di calibro, ma di solito le variazioni sono minime. Reagisce invece all’accomodazione con una miosi intensa, ma la risposta è lenta, tonica e persistente; mostra inoltre una caratteristica ipersensibilità ai farmaci parasimpaticomimetici (l’instillazione di pilocarpina allo 0,125% produce una rapida costrizione della pupilla tonica mentre non modifica una pupilla normale). In circa la metà dei
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali Tabella 7.9 - Motilità pupillare. ALTERAZIONI DELLA PUPILLA A RIPOSO MIDRIASI BILATERALE – congenita; giovani adulti con simpaticotonia; portatori di lenti a contatto – tossico-farmacologica (belladonna, triciclici, cocaina, tossina botulinica) – lesioni mesencefaliche – sindrome di Miller Fisher ed alcune polineuropatie autonomiche MIOSI BILATERALE – età avanzata – lesioni pontine – tossico-farmacologica (pilocarpina, morfinoderivati, organofosforici) ANISOCORIA MIDRIASI – paralisi del terzo nervo cranico; segno di ernia uncale o di emorragia subaracnoidea – pupilla tonica (sindrome di Adie) – emicrania oftalmoplegica – traumi (frammenti di corpo estraneo) – infiammazioni locali (presenza di sinechie) – applicazione unilaterale di farmaci midriatici MIOSI – sindrome di Bernard-Horner – farmaci ad azione miotica (pilocarpina) – iriditi ALTERAZIONI DEL RIFLESSO ALLA LUCE ED ALLA ACCOMODAZIONE - CONVERGENZA – lesioni dell’area afferente (cioè del nervo ottico); le lesioni retrogenicolate non causano alterazioni del riflesso fotomotore – lesione della porzione efferente (cioè del nervo oculomotore) – ganglionite ciliare acuta DISSOCIAZIONE TRA RIFLESSO PUPILLARE ALLA LUCE (assente) E ACCOMODAZIONE - CONVERGENZA (conservato) – con lieve miosi (segno di Argyll - Robertson): neurolue, diabete – con lieve midriasi: neurolue, lesioni pretettali, atrofie ottiche bilaterali.
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casi i riflessi achillei e rotulei sono assenti. La lesione consiste in un danno acuto del ganglio ciliare, seguito da una reinnervazione incompleta del muscolo sfintere dell’iride da parte di fibre destinate al muscolo ciliare; le fibre muscolari non reinnervate sviluppano una ipersensibilità da denervazione all’acetilcolina. La causa è ignota ma la condizione è benigna. Pupille toniche bilaterali possono essere associate a polineuropatie di varia natura (diabetiche, infettive, etc.). Non va dimenticato, infine, che la presenza di una midriasi bilaterale isolata con perdita del riflesso fotomotore potrebbe dipendere dall’instillazione locale di atropina o dall’assunzione di farmaci (anticolinergici) per via generale. Sono state segnalate anche transitorie midriasi unilaterali o bilaterali con riduzione della risposta alla luce per l’utilizzo di preparati antichinetosi per via transdermica. Una illustrazione schematica delle alterazioni della motilità pupillare è contenuta nella tabella 7.9.
Neurootologia M. Del Sette La neurootologia è quella branca della neurologia che studia le funzioni dell’udito e dell’equilibrio, e le complesse interazioni tra queste ed altre funzioni neurologiche (vista, coordinazione motoria, sensibilità profonda). Il sistema cocleare e quello vestibolare sono accomunati dalla loro sede anatomica nell’orecchio interno, situato nella rocca petrosa dell’osso temporale, dove sono localizzate la branca cocleare e la branca vestibolare dell’8° paio dei nervi cranici (nervo statoacustico o nervo acustico).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sistema vestibolare Anatomia Il ganglio di Scarpa, situato nel meato acustico interno, è formato dai neuroni sensitivi, il cui prolungamento centrale si porta come nervo vestibolare ai nuclei vestibolari, ed il cui prolungamento periferico raggiunge il labirinto membranoso (vie afferenti somatiche speciali). IL LABIRINTO (FIG. 7.30) Il labirinto è costituito da tre canali semicircolari (orizzontale, verticale e laterale), orientati nelle tre direzioni dello spazio, dal sacculo e dall’utricolo, che è in comunicazione con il dotto endolinfatico. L’endolinfa è contenuta all’interno del labirinto membranoso, e la perilinfa separa il labirinto membranoso dal periostio del labirinto osseo. L’epitelio sensitivo si trova nell’ampolla di ogni canale semicircolare (cresta acustica) e nella macula del sacculo e dell’utricolo. Le cellule dell’epitelio sensoriale del sacculo e dell’utricolo sono coperte da una massa gelatinosa che contiene dei prismi di carbonato di calcio (otoliti). Lo stimolo adeguato per l’epitelio sensoriale dell’utricolo e del sacculo è rappresentato dal movimento degli otoliti,
determinato, a sua volta, dai movimenti del capo. Le cellule delle creste ampollari sono invece stimolate dai movimenti dell’endolinfa, in rapporto con l’accelerazione o la decelerazione angolare del capo. I NUCLEI E LE VIE VESTIBOLARI CENTRALI (FIG. 7.31 E 7.32) I nuclei vestibolari sono il nucleo superiore o di Bechterew, il nucleo laterale o di Deiters, il nucleo mediale o di Schwalbe e il nucleo discendente o spinale. Si trovano nel bulbo, ad eccezione del nucleo superiore, che è situato nel ponte. Accanto a questi nuclei principali esistono altri nuclei minori, la cui descrizione va oltre gli obiettivi di questo trattato. Il nervo vestibolare, prima di raggiungere i nuclei, si divide in una branca ascendente ed una discendente. I nuclei vestibolari sono a loro volta connessi con il midollo spinale (a), il cervelletto (b), alcuni nuclei tronco-encefalici e la formazione reticolare (c, d); vi sono poi vie sopravestibolari, dai nuclei vestibolari alla corteccia (e), e fibre dai nuclei vestibolari alle cellule sensitive (f). In particolare si riconoscono: a) le connessioni con il midollo spinale, che avvengono tramite il fascio vestibolo-spinale laterale, che dal nucleo di Deiters ipsilaterale ar-
Fig. 7.30- Vie vestibolari: dalla periferia ai nuclei vestibolari bulbari (per confronto è schematizzata anche la via cocleare).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.31 - a. Vie vestibolo-spinali. b. Alcune connessioni tra i nuclei vestibolari e il cervelletto; connessioni tra i nuclei vestibolari e i nuclei oculomotori attraverso il cervelletto.
riva a livello sacrale, e con il fascio vestibolospinale mediale, che dal nucleo vestibolare mediale discende fino ai primi segmenti toracici omo- e controlaterali. Le vie spino-vestibolari, in parte collaterali dei fasci spino-cerebellari, terminano nel nucleo laterale e nel nucleo inferiore o spinale; b) le connessioni con il cervelletto, che si realizzano attraverso vie vestibolo-cerebellari, che raggiungono il lobo flocculo-nodulare omolaterale ed il nucleo del tetto omo- e controla-
terale. Dai nuclei del tetto partono le vie cerebello-vestibolari, in parte dirette ed in parte crociate, che proiettano ai nuclei vestibolare laterale, superiore e spinale. Il lobo flocculo-nodulare, invece, invia solo uno scarso contingente di fibre ai nuclei vestibolari; c) le connessioni con i nuclei dei nervi oculomotori, tramite il fascicolo longitudinale mediale; d) le connessioni con la formazione reticolare e con il nucleo del nervo vago (Fig. 7.32);
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.32 - Relazione tra il sistema vestibolare e la formazione reticolare; schema di alcuni archi di riflessi viscerali eccitati dalla stimolazione vestibolare.
e) le vie sopravestibolari, dai nuclei vestibolari alla corteccia cerebrale adiacente all’area acustica (aree 41 e 42 di Brodmann), al lobo parietale ed al lobo frontale; f) le connessioni efferenti, che vanno dai nuclei vestibolari all’epitelio sensoriale del labirinto. Fisiologia I riflessi vestibolari hanno la funzione di provocare aggiustamenti della posizione del capo e degli occhi rispetto al tronco, sia in posizione statica che durante il movimento. Si distinguono: 1) riflessi vestibolo-oculari: consentono la deviazione coniugata degli occhi in risposta al movimento del capo; per esempio, la rotazione del capo verso destra attiva il canale semicircolare orizzontale di destra ed inibisce il contro-
laterale, determinando la contrazione del retto laterale di sinistra e del retto mediale di destra: il risultato sarà la rotazione degli occhi verso sinistra, necessaria per il mantenimento della fissazione oculare. Ogni canale semicircolare regola i movimenti oculari sullo stesso piano del canale attivato (legge di Flourens): in particolare, il movimento dell’endolinfa verso l’ampolla (movimento ampullipeto) comporta un’eccitazione del labirinto, mentre un movimento ampullifugo ha un effetto inibitorio. I riflessi vestibolo-oculari hanno importanti implicazioni cliniche, e sono alla base del nistagmo e delle reazioni alle prove caloriche; 2) riflessi vestibolocervicali: orientano la posizione del collo durante l’inclinazione del capo, con significato compensatorio; ad esempio, la rotazione del capo verso destra attiva lo sternocleidomastoideo omolaterale, che riporta il capo in posizione di partenza;
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
3) riflessi vestibolospinali: adattano la posizione degli arti in rapporto a quella del capo; ad esempio, la posizione prona aumenta il tono flessorio degli arti, mentre quella supina aumenta il tono estensorio; 4) riflessi cervicospinali: prendono origine dai recettori propriocettivi della muscolatura paravertebrale: la rotazione del capo verso un lato comporta una estensione degli arti omolaterali e la flessione degli arti controlaterali. In condizioni normali i riflessi cervico-spinali sono mascherati dalla presenza dei riflessi labirintici. A loro volta, i riflessi vestibolocervicali e vestibolospinali sono inibiti da influenze sopravestibolari, e sono riconoscibili solo nel neonato o nelle condizioni in cui le influenze corticali inibitorie sono ridotte (ad es. nei danni diffusi della corteccia cerebrale per malattie degenerative corticali). Un danno a carico del labirinto o delle vie vestibolari si traduce in una alterazione dei riflessi fisiologici, con comparsa di caratteristiche alterazioni della postura (asimmetrie di posizione) e della motilità oculare (nistagmo). L’alterata percezione soggettiva dei rapporti tra il proprio corpo e lo spazio circostante comporta il sintomo soggettivo della vertigine, spesso associata a malessere generale e nausea. Va comunque segnalato che il sistema vestibolare possiede grandi capacità di adattamento nel tempo, così che spesso i sintomi sono evidenti solo in caso di danno vestibolare acuto, mentre nelle malattie a decorso lento vi è un adattamento, con sintomi più sfumati, o con una riduzione dell’entità dei sintomi nel tempo. VERTIGINI FISIOLOGICHE Si tratta di condizioni fisiologiche, in cui la discrepanza tra le informazioni provenienti dai differenti canali sensoriali può determinare il sintomo vertiginoso, con significative differenze interindividuali. 1. Chinetosi: è la sensazione vertiginosa, spesso associata a nausea, provocata da stimola-
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zione ripetitiva dei recettori labirintici per accelerazioni e decelerazioni del capo. Classicamente aumentano se il campo visivo non cambia, come nel cosiddetto “mal di mare”, “mal d’auto”, accentuati nel chiuso di una cabina, o nella lettura durante un viaggio in auto. Il sintomo vertiginoso viene invece attenuato dalla fissazione di una mira, con ristabilimento della congruità tra le informazioni di movimento provenienti dal labirinto e quelle visive. Un tipo di vertigine analoga è quella che deriva dalla visione di un oggetto in rapido movimento mentre si è fermi: la discrepanza tra informazione visiva di movimento e quella propriocettiva e vestibolare si traduce in vertigine. 2. Vertigini da grandi altezze: derivano dal contrasto tra la percezione propriocettiva e visiva del movimento relativo della base di appoggio ad ogni piccolo movimento del capo, e l’apparente fissità dello sfondo, che sembra immobile a causa della grande distanza rispetto al soggetto. La discrepanza tra le informazioni propriocettive, visive e labirintiche comporta il sintomo vertiginoso, attenuato dalla fissazione di un oggetto vicino.
Esame clinico ANAMNESI DEL SOGGETTO CON SINTOMI VESTIBOLARI La storia clinica del soggetto con sintomi vestibolari deve sempre specificare la durata, la episodicità o cronicità dei disturbi, la presenza di sintomi associati, come disturbi dell’udito, della vista, della sensibilità o della motilità, cefalea. Il sintomo vertiginoso deve essere descritto nelle sue caratteristiche, e differenziato da altre sensazioni soggettive più correttamente definibili come “capogiri”, “disequilibrio”, “sensazione di testa vuota” (lightheadness degli autori anglosassoni). Talora il “capogiro” rientra nel contesto di una serie di sintomi riferibili ad un disturbo d’ansia; in questi casi spesso è possibile provocare il sintomo invitan-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
do la persona ad iperventilare per alcuni minuti. Lo storiografo deve inoltre accertare eventuali precedenti quali traumi cranici, immersioni subacquee, uso di particolari farmaci (come gli aminoglicosidi), malattie sistemiche. ESAME OBIETTIVO GENERALE Il soggetto che accusa una sintomatologia vertiginosa deve essere valutato innanzitutto sul piano generale, rivolgendo particolare attenzione al sistema cardiovascolare: a questo scopo è utile la misurazione dei valori pressori in clinostatismo ed in ortostatismo, per accertare l’eventuale presenza di ipotensione ortostatica; inoltre, se la sensazione di “capogiro” si associa a riduzione del livello di vigilanza, è utile ricercare possibili alterazioni del ritmo cardiaco, o patologie ostruttive dei vasi epiaortici. ESAME NEUROVESTIBOLARE L’esame del soggetto con vertigine consente di analizzare le caratteristiche della vertigine, e di rilevare la presenza di nistagmo e di asimmetrie di posizione. L’analisi di questi elementi consente di formulare la diagnosi di “sindrome vestibolare periferica” o “armonica”, cui classicamente si contrappone la “sindrome vestibolare centrale”. 1. Vertigine: la vertigine propriamente detta consiste in una illusione di spostamento del proprio corpo o del capo nello spazio, oppure di spostamento dell’ambiente circostante rispetto al proprio corpo. Tali sensazioni dipendono dalla presenza di informazioni sensoriali discordanti (labirintiche, visive, propriocettive) circa la posizione del capo e del corpo nello spazio. Generalmente le vertigini si associano a nausea (per le connessioni tra le vie vestibolari ed i centri neurovegetativi), nistagmo e atassia vestibolare (per le connessioni tra le vie vestibolari, i centri oculomotori e le vie vestibolo-spinali). Abitualmente si distinguono le vertigini sogget-
tive (sensazione di spostamento del corpo rispetto all’ambiente) dalle vertigini oggettive (sensazione di spostamento dell’ambiente rispetto al corpo), anche se tale distinzione ha poca rilevanza sul piano clinico. 2. Nistagmo: si tratta di movimenti oculari coniugati, involontari e ritmici, consistenti in una oscillazione lenta, di allontanamento del globo oculare dalla posizione centrale, ed in una oscillazione rapida, di ritorno del globo oculare alla posizione di sguardo diretto. Convenzionalmente si dice che il nistagmo “batte” nella direzione della scossa rapida. Del nistagmo vanno precisate le seguenti caratteristiche: piano (nistagmo orizzontale, verticale, rotatorio, obliquo, retrattorio), direzione della scossa rapida (nistagmo battente a destra, a sinistra, in alto o in basso), grado. Classicamente si distinguono 3 gradi di nistagmo, in particolare si parla di primo grado se il nistagmo che è assente nello sguardo diretto compare solo quando lo sguardo si allontana dalla linea mediana di 30-50° verso la direzione della scossa rapida; secondo grado, quando il nistagmo, presente già a riposo, si accentua con lo sguardo diretto verso la scossa rapida; terzo grado, quando il nistagmo è presente già nello sguardo diretto, e permane in tutte le direzioni dello sguardo (Fig. 7.33). Il nistagmo va esaminato a soggetto seduto, gli occhi in posizione di sguardo diretto, facendo quindi seguire una mira (in genere il dito indice dell’esaminatore, a 20 cm circa dal volto del soggetto) che si sposta nelle varie direzioni dello spazio. Da segnalare che il nistagmo che si osserva nella posizione di lateralità estrema dello sguardo è fisiologico. Il nistagmo di origine centrale è accentuato dalla fissazione, per cui il metodo descritto è il più adatto per evidenziare tale fenomeno. Il nistagmo di origine labirintica è invece accentuato dalla soppressione delle afferenze visive, per cui si utilizzano occhiali con lenti di -20 diottrie (occhiali di Frenzel), che impediscono la fissazione ed ingrandiscono l’occhio. Un metodo particolarmente sensibile per esaminare le caratteristiche del nistagmo è l’esame del fondo dell’occhio, con
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Fig. 7.33 - Gradi del nistagmo. I grado: quando il nistagmo si dimostra con i globi oculari deviati dalla linea mediana tra 30-50°; II grado: quando il nistagmo esiste nello sguardo diretto e si accentua nella direzione della scossa rapida; III grado: quando il nistagmo esiste nello sguardo diretto e permane in tutte le direzioni dello sguardo.
l’altro occhio chiuso: la papilla ottica presenterà movimenti con direzione opposta a quella del segmento anteriore dell’occhio (ad esempio, se la direzione della scossa rapida della papilla è verso destra, vuol dire che la direzione della scossa rapida del globo è verso sinistra, e pertanto si dirà che il soggetto presenta un nistagmo orizzontale battente a sinistra). La registrazione dei movimenti oculari durante il nistagmo è oggi enormemente perfezionata, grazie all’uso dell’elettronistagmografia (ENG), che registra le modificazioni del dipolo retino-corneale durante i movimenti oculari. Il nistagmo può essere di origine oculare, vestibolare periferica o da lesione del sistema nervoso centrale. a) Nistagmo di origine oculare: si tratta del nistagmo optocinetico, che compare fisiologicamente quando una successione di oggetti in rapido movimento attraversa il campo visivo, oppure quando il soggetto si muove in relazione ad una serie di oggetti fissi (ad es. guardando fuori da un veicolo in movimento). Nella prati-
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ca clinica, la ricerca del nistagmo optocinetico viene effettuata mediante un tamburo rotante, o una striscia di stoffa a bande bianche e nere, che dovranno scorrere a velocità costante davanti agli occhi del paziente. Si ottiene così un movimento lento degli occhi in direzione del movimento delle bande, seguito da una scossa rapida di ritorno in direzione opposta. Il meccanismo di questo tipo di nistagmo è complesso e, siccome richiede l’integrità della corteccia visiva, ne consegue che la sua presenza dimostra che il soggetto non è cieco, mentre la sua assenza depone per l’esistenza di una lesione a livello della corteccia occipitale. b) Nistagmo di origine vestibolare periferica: si tratta di un nistagmo abitualmente orizzontale, talora con componente rotatoria, di grado variabile dal 1° al 3°, inserito nel contesto di una sindrome vestibolare armonica (vedi oltre). c) Nistagmo da lesione del sistema nervoso centrale: è dovuto a lesioni localizzate a livello del tronco encefalico o del cervelletto, e può essere orizzontale o verticale, raramente rotatorio, usualmente di 2° o 3°grado. Più persistente nel tempo del nistagmo di origine labirintica, il nistagmo di origine centrale può presentare alcune caratteristiche che consentono spesso di localizzare la lesione responsabile (Tab. 7.10). Oltre al nistagmo propriamente detto, vanno ricordati alcuni tipi di movimenti oculari patologici, che possono manifestarsi nelle lesioni del tronco encefalico e del cervelletto: – opsoclono: consiste in movimenti oculari continui, in tutte le direzioni dello sguardo, raccolti in episodi accessuali, con periodi intervallari di quiescenza. Si può osservare nelle encefaliti del tronco; – “ocular bobbing”: movimenti oculari rapidi verso il basso, con ritorno lento verso l’alto, oltre la linea mediana. Si osserva nelle lesioni acute pontine, ed ha un significato prognostico sfavorevole. Analogo significato hanno le cosiddette “square wave jerks”, scosse orizzontali seguite da una breve fissazione dello sguardo in
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.10 - Caratteristiche del nistagmo di origine centrale in rapporto alla sede di lesione. Sede della lesione
Direzione del nistagmo
Caratteristiche particolari
Bulbare Pontina laterale
Rotatorio Orizzontale
Pontina paramediana Mesencefalica (tettale) Cerebellare laterale Cerebellare diffusa
Orizzontale Retrattorio Orizzontale (batte verso la lesione) Tutte le direzioni (fase lenta verso il centro)
Si può associare a paralisi oculare coniugata Si può associare a paralisi internucleare
posizione di lateralità e ritorno lento alla posizione di sguardo diretto; – dismetria oculare: si tratta di movimenti incoordinati oculari, con superamento del bersaglio visivo e progressivo avvicinamento a questo. Ha lo stesso significato della dismetria degli arti con ipermetria, ed esprime la presenza di una lesione acuta emisferica cerebellare. Un altro tipo di movimento oculare patologico che si osserva nelle lesioni cerebellari acute è rappresentato dal nistagmo altalenante, dove un occhio si muove ritmicamente verso l’alto e l’altro verso il basso; – nistagmo pendolare: si tratta di movimenti simmetrici e ripetitivi, con la stessa velocità nelle due direzioni dello spazio. Si osserva nei difetti visivi congeniti gravi (per fissazione oculare imperfetta) o anche, indipendentemente dalla presenza di difetti visivi, alla nascita (nistagmo congenito, sporadico o ereditario), oppure verso il 4°-12° mese di vita (spasmus nutans, con prognosi benigna).
deviazione lenta verso una determinata direzione, di uno o di entrambi gli indici. La prova deve essere ripetuta più volte e, se riproducibile, si dirà che vi è la “deviazione degli indici verso destra (o verso sinistra)”. La prova di Romberg viene effettuata con il soggetto in posizione eretta, le braccia lungo i fianchi, gli occhi aperti, di fronte all’esaminatore. Se la chiusura degli occhi determina uno sbandamento uni- o polidirezionale, con tendenza alla caduta, si dice che la “prova di Romberg è positiva, con tendenza alla caduta verso destra (o verso sinistra, o polidirezionale)”. Infine il soggetto con sindrome vestibolare periferica presenterà un’alterazione della marcia, con lateropulsione. La prova della marcia a stella viene effettuata facendo compiere al soggetto ad occhi chiusi tre passi avanti e tre passi indietro: in caso di sindrome vestibolare periferica il soggetto devierà sempre verso la stessa direzione, mostrando la tendenza a ruotare su se stesso, e pertanto tracciando i raggi di una stella sul pavimento.
3. Asimmetrie di posizione: Si valutano con la “prova degli indici” e la “prova di Romberg”. La prima viene effettuata con il soggetto in posizione seduta, ad occhi chiusi, gli arti superiori protesi e gli indici puntati in avanti; l’esaminatore è di fronte, con gli indici puntati su quelli del soggetto: in caso di positività si osserva la
ESAMI STRUMENTALI Le prove abitualmente effettuate nel soggetto con vertigini sono le prove caloriche e la prova rotatoria. 1. Prove caloriche: si tratta test che hanno l’obiettivo di stimolare uno dei canali semicir-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
colari (usualmente quello orizzontale), mediante l’introduzione di acqua a temperatura differente da quella corporea (più bassa o più alta). Il soggetto viene posto in posizione seduta con il capo reclinato indietro di 60°, in modo da verticalizzare il canale semicircolare orizzontale. L’irrigazione del condotto uditivo esterno con acqua calda (50-200 ml di acqua a 45°C circa) fa risalire l’endolinfa verso l’ampolla, situata superiormente; la stimolazione dell’ampolla comporta fisiologicamente la deviazione tonica degli occhi verso il lato opposto a quello stimolato. L’irrigazione con acqua fredda (30° circa) determina la reazione opposta (endolinfa in direzione ampullifuga, con deviazione tonica degli occhi verso il lato stimolato). In ambedue i casi la deviazione tonica è seguita, nel soggetto vigile, dal nistagmo, con scossa rapida controlaterale. La prova calorica va quindi valutata esaminando le risposte dei due lati, studiati separatamente. Si possono verificare complessivamente tre situazioni: a) ipereccitabilità labirintica: caratterizzata da un nistagmo abnormemente protratto, talora accompagnato da nausea e vertigine, che compare dopo stimolazione di un solo labirinto. Questa risposta indica un aumento di eccitabilità del labirinto affetto, usualmente in corso di patologie acute, specie infiammatorie, dell’orecchio interno. b) paresi labirintica: è la condizione opposta, in cui la risposta alla stimolazione calorica dal lato affetto è ridotta o abolita. Tale risposta si osserva soprattutto nelle patologie non acute dell’orecchio interno o del nervo acustico. c) preponderanza direzionale: è caratterizzata dalla prevalenza monodirezionale del nistagmo da un lato rispetto all’altro, indipendentemente dal lato stimolato. Compare frequentemente nelle lesioni centrali delle vie vestibolari, ed è pertanto la condizione di maggiore interesse per il neurologo. 2. Prova rotatoria: il soggetto viene posto a sedere su una sedia girevole, con il capo flesso in avanti di 30°. Dopo 10 rotazioni effettuate in
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20 secondi, la sedia viene arrestata bruscamente: la brusca decelerazione si ripercuote sul canale semicircolare orizzontale, determinando la comparsa di nistagmo con fase lenta nella direzione della rotazione, e scossa rapida in direzione opposta. Normalmente il nistagmo si esaurisce in qualche minuto, dopo di che il test viene effettuato con rotazione della sedia nell’altra direzione. È opportuno precisare che la prova rotatoria non consente la valutazione separata dei due labirinti, poiché la decelerazione si ripercuote, con effetto inverso, su entrambi i labirinti.
Sindromi vestibolari La valutazione delle caratteristiche della vertigine, del nistagmo, delle asimmetrie di posizione e l’analisi dei risultati dei test diagnostici consente di distinguere una sindrome vestibolare periferica da una sindrome vestibolare centrale: 1. Sindrome vestibolare periferica: dovuta a lesioni delle strutture del labirinto, viene anche detta sindrome vestibolare armonica, poiché i segni sono tutti congrui con il lato del labirinto danneggiato: infatti la deviazione degli indici, la tendenza alla caduta alla prova di Romberg, la deviazione del corpo nella marcia e la fase lenta del nistagmo avvengono tutti nella stessa direzione (mentre il nistagmo “batte” controlateralmente agli altri segni di deviazione assiale del corpo). La vertigine può essere accompagnata da nausea e da disturbi uditivi. 2. Sindrome vestibolare centrale: la lesione delle vie vestibolari centrali comporta segni che sono disarmonici nella direzione e nella entità: vi può essere, ad esempio, un nistagmo di terzo grado, con componente rotatoria, accompagnato da modesta deviazione degli indici, talora in assenza di vertigine, di nausea, di disturbi uditivi. Sono spesso presenti altri segni neurologici, espressione di danno di strutture nervo-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
se contigue ai centri vestibolari (segni cerebellari, deficit di altri nervi cranici).
Patologia vestibolare VERTIGINE DI ORIGINE PERIFERICA 1. Vestibulopatia periferica: comprende la “neuronite vestibolare”, la “labirintite” e la “neurolabirintite”; la preferenza verso una dizione che non implichi necessariamente una genesi infiammatoria deriva dal fatto che raramente è possibile documentare l’origine flogistica della vertigine. Si tratta di una malattia episodica, caratterizzata dalla comparsa improvvisa di vertigine, che può protrarsi per ore o giorni, con le caratteristiche di sindrome vestibolare armonica, spesso associata a nausea e vomito; i sintomi possono essere scatenati da bruschi spostamenti del capo. Talvolta si associa un deficit dell’udito. L’episodio vertiginoso si risolve nell’arco di alcuni giorni, ma vi è tendenza alla recidiva, spesso con modificazione delle caratteristiche del sintomo vertiginoso, che da vera e propria vertigine può assumere le caratteristiche di “instabilità posturale”, o “disequilibrio”, probabilmente anche grazie a meccanismi di compenso centrale. L’evidenza di un andamento talora epidemico o stagionale ha fatto ipotizzare una genesi infettiva della vestibulopatia, anche se questo è dimostrabile solo nel caso in cui la sindrome vertiginosa periferica si associ ad una infezione da Herpes Zoster, insieme al dolore auricolare ed alla tipica eruzione vescicolare in corrispondenza dell’orecchio esterno: l’associazione di questi sintomi con la paresi del 7° nervo cranico di tipo periferico configura la sindrome di Ramsay Hunt (v. pag. 277). 2. Vertigine posizionale benigna: si tratta di una sindrome vestibolare periferica, che colpisce soggetti di età media, con comparsa di vertigine di breve durata (20-30 secondi), a seguito di cambiamenti di posizione del capo, come
durante l’atto di sdraiarsi o di cambiare posizione nel letto. La vertigine ed il nistagmo possono essere provocati con la manovra di Hallpike: il soggetto, in posizione seduta, viene rapidamente adagiato sul piano orizzontale, con il capo fuori dal lettino di visita, iperesteso e ruotato da un lato. Dopo una latenza variabile (da 1 a 40 secondi) compaiono nistagmo e vertigine, che si estinguono nell’arco di alcune decine di secondi. L’esecuzione ripetuta del test consente di verificare il fenomeno dell’affaticamento, con progressiva attenuazione della sintomatologia. La vertigine posizionale benigna può essere causata dalla cupololitiasi, cioè dalla deposizione di sali di calcio in corrispondenza delle cupole dei canali semicircolari, oppure essere conseguenza di traumi cranici con concussione vestibolare. La prognosi è generalmente buona ed i sintomi si risolvono spontaneamente nell’arco di poche settimane. In alcuni casi vi è una risposta positiva al trattamento con esercizi di desensibilizzazione, che consistono in manovre di provocazione della sintomatologia con movimenti ripetuti del capo, allo scopo di “affaticare” il vestibolo affetto, riducendo progressivamente la frequenza e l’intensità degli attacchi vertiginosi. La vertigine posizionale benigna, di origine periferica, va differenziata dalla vertigine posizionale di origine centrale, in cui episodi con caratteristiche “posizionali” possono essere causati da malattie che coinvolgono il sistema nervoso centrale, come le neoplasie della fossa cranica posteriore. Le caratteristiche differenziali della vertigine posizionale periferica e centrale sono elencate nella tabella 7.11. 3. Vertigine di origine tossica: Gli agenti più frequentemente responsabili di un danno vestibolare sono gli antibiotici aminoglicosidici, in particolare streptomicina e gentamicina, mentre kanamicina, tobramicina e neomicina colpiscono maggiormente la componente cocleare dell’8° nervo cranico. I test vestibolari documentano un progressivo e irreversibile danno vestibolare bilaterale. Il danno da aminoglico-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.11 - Caratteristiche differenziali della vertigine posizionale (V.P.) in rapporto alla sede del danno Sintomi o segni
V.P. Periferica
V.P. Centrale
Latenza Durata Intensità Direzione nistagmo Faticabilità
1-40 sec. meno di 1 minuto elevata fissa, orizzontale presente
immediata persistente modesta variabile assente
sidi va differenziato da quello, generalmente transitorio, causato da altre sostanze vestibulotossiche (alcool, analgesici, antimalarici, anticonvulsivanti, ipnotici, antiipertensivi, antiaritmici, agenti antineoplastici). 4. Sindrome di Ménière: si tratta di attacchi acuti caratterizzati da vertigine, acufeni, ipoacusia, sensazione di “oppressione” auricolare. La crisi in genere inizia con una sensazione di pressione all’interno di un singolo orecchio, con successivo sviluppo di vertigine, acufeni (spesso a tipo “rombo”) e malessere generale crescente, fino ad un picco, con successiva risoluzione spontanea. I sintomi soggettivi sono molto intensi, e talvolta il soggetto può anche presentare caduta a terra, peraltro senza alterazioni dello stato di coscienza. Nel corso del tempo le vertigini si riducono di intensità, mentre si sviluppa una progressiva ipoacusia. La sindrome di Ménière è dovuta ad una idrope endolinfatica, con incremento del volume del liquido endolinfatico e conseguente distensione del canale. La maggior parte dei casi è idiopatica, anche se in alcuni soggetti è ipotizzabile un meccanismo infettivo virale o batterico; la comparsa di una sindrome di Ménière dopo un trauma cranico deve fare sospettare la presenza di una fistola perilinfatica, con passaggio patologico di perilinfa dall’orecchio interno all’orecchio medio. Il trattamento si avvale di farmaci diuretici, con lo scopo di ridurre la tensione derivante dall’idrope endolinfatica, e di farmaci sintomatici antivertiginosi; la fistola perilinfatica può essere oggetto di correzione chirurgica.
VERTIGINE DI ORIGINE CENTRALE A rigore di termini, le lesioni del nervo acustico dovrebbero essere incluse tra le cause di vertigini periferiche, in quanto il nervo è extraassiale. Tuttavia, sia la letteratura otoiatrica che quella neurologica classificano tali lesioni tra le cause di vertigine di origine centrale, che pertanto comprendono quelle causate da lesioni della componente vestibolare dell’8° paio dei nervi cranici, dei nuclei vestibolari, o delle loro vie associative centrali (vie cerebellari, visive, sensitive). Le vertigini di origine centrale sono decisamente più rare di quelle di origine periferica, rappresentando solo il 10% circa di tutte le vertigini e si caratterizzano per una minore intensità del sintomo vertiginoso, e per la possibile associazione con segni di danno neurologico a focolaio. 1. Lesioni cerebrovascolari tronco-encefaliche: un episodio cerebrovascolare, transitorio o stabilizzato, nel territorio vascolare vertebro-basilare può determinare la comparsa di vertigine, associata ad altri sintomi o segni quali deficit campimetrici, diplopia, disartria, atassia, deficit di forza o disturbi sensitivi agli arti o nel distretto craniale, talora nell’ambito di una sindrome alterna. La presenza di dolore latero-cervicale spontaneo o post-traumatico in concomitanza con l’esordio dei sintomi deve fare sospettare una dissezione dell’arteria vertebrale. La comparsa improvvisa di ipoacusia unilaterale associata a vertigine si osserva nelle lesioni infartuali nel territorio di distribuzione dell’arteria uditiva in-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
terna. La vertigine improvvisa, con caratteristiche simil-periferiche, può essere inoltre il sintomo di esordio di un infarto cerebellare nel territorio della arteria cerebellare postero-inferiore, o di un’emorragia cerebellare emisferica. In questi casi, le caratteristiche del nistagmo aiutano a differenziare il quadro da quello di una vestibulopatia periferica, dove il nistagmo è sempre unidirezionale, battente dalla parte opposta a quella del labirinto leso, mentre nella lesione acuta cerebellare è a direzione variabile, e si accentua con lo sguardo verso il lato del cervelletto colpito; si associano ovviamente i segni di danno emisferico cerebellare. Va ricordato infine che l’insorgenza improvvisa di vertigine in assenza di altri sintomi è raramente espressione di patologia cerebrovascolare. 2. Sclerosi multipla: una lesione demielinizzante tronco-encefalica con coinvolgimento delle vie vestibolari può manifestarsi con una sintomatologia vertiginosa, generalmente associata ad altri sintomi o segni di lesione del sistema nervoso centrale, con andamento remittente. 3. Tumori dell’angolo ponto-cerebellare e della fossa cranica posteriore: il più comune è il neurinoma dell’acustico, dove la proliferazione delle cellule di Schwann avviene usualmente nella porzione del nervo acustico che decorre all’interno del condotto uditivo interno: i sintomi si sviluppano lentamente nel tempo e comprendono, oltre alle vertigini (che sono spesso compensate e non costituiscono un sintomo preminente), ipoacusia, lesione del 7° e del 5° paio dei nervi cranici, segni di compressione del cervelletto e del tronco encefalico. Nelle fasi avanzate si può sviluppare anche una sindrome da ipertensione endocranica. Oltre al neurinoma (o schwannoma) dell’acustico, altre neoplasie (meningiomi, tumori epidermoidi e metastasi) possono svilupparsi in corrispondenza dell’angolo ponto-cerebellare. Anche le neoplasie di origine astrocitaria a sede troncoencefalica o cerebellare possono dare segno di sé con sintomi di tipo vertiginoso.
4. Neuropatie craniali: anche le multineuropatie craniali che talora insorgono nell’ambito di vasculiti, sarcoidosi, carcinomatosi meningee, possono danneggiare, tra gli altri, il nervo acustico e dare segno di sé con sintomatologia vertiginosa. La sindrome di Cogan rientra in queste multineuropatie, ed è caratterizzata da una cheratite associata a vertigine, tinnito, atassia, nistagmo ed ipoacusia progressiva. 5. Sindromi comiziali: crisi epilettiche con focolaio temporale possono talvolta essere causa di episodi accessuali vertiginosi. In tal caso la storia clinica rivela spesso la coesistenza, durante la crisi, di altri sintomi, come una riduzione del livello di vigilanza, la presenza di movimenti automatici, di angosciosa partecipazione emotiva, di allucinazioni uditive e visive complesse; oppure si tratta di episodi di perdita di coscienza preceduti da un’aura vertiginosa (v. pag. 000).
Sistema cocleare Anatomia Il nervo cocleare nasce dalle cellule del ganglio spirale, situate nella coclea, e trasmette gli stimoli acustici (vie afferenti somatiche speciali). Il prolungamento periferico del neurone gangliare termina nell’organo spirale del Corti, mentre il prolungamento centrale percorre il condotto uditivo interno, insieme al nervo vestibolare, e raggiunge i nuclei cocleari, situati nel bulbo, a livello della transizione bulbopontina, lateralmente al corpo restiforme (Fig. 7.34 e 7.35). La coclea, organo periferico dell’udito, è formata da tre canali paralleli avvolti a spirale, di cui due (il canale superiore o scala del vestibolo, chiuso dalla finestra ovale, ed il canale inferiore o scala del timpano, chiuso dalla finestra rotonda) contengono la perilinfa; mentre il terzo (canale intermedio o scala media, a sezione triangolare, il cui pavimento è detto membrana
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
A
B Fig. 7.34 - A. Schema dell’orecchio interno: le aree di epitelio sensoriale sono punteggiate. B. Schema raffigurante il ganglio del Corti e origine del n. cocleare; il ganglio di Scarpa e origine del n. vestibolare.
basale) contiene endolinfa. L’organo del Corti si trova sulla membrana basale: le cellule sensoriali sono dotate di ciglia, e circondate da cellule di sostegno, disposte in un’unica fila interna lungo il dotto cocleare, ed in tre file esterne. Tra la fila interna e le fila esterne si trova il tunnel del Corti, attraversato da fibre che giungono alle cellule ciliate esterne. Le ciglia delle cellule sensoriali entrano in contatto con la membrana tettoria, una massa gelatinosa ancorata all’angolo interno della scala media. Nell’organo del Corti è riconoscibile una localizzazione tonotopica: i toni alti sono registrati dalle cellule situate nella porzione basale del dotto cocleare, i toni bassi dalle cellule situate nella
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porzione apicale del dotto. Le fibre del nervo cocleare penetrano nel tronco encefalico a livello del solco bulbo-protuberenziale, e giungono ai nuclei cocleari, dorsale e ventrale. Dai nuclei le vie sopranucleari proseguono come corpo trapezoide, costituito da fibre che si incrociano a livello del ponte ed ascendono come lemnisco laterale, che termina nel collicolo inferiore ed in parte nel corpo genicolato mediale. A livello del collicolo inferiore, dove si trovano i neuroni di terzo ordine, la connessione tra i due lati è assicurata dalla commessura collicolare inferiore: pertanto, gli impulsi uditivi provenienti da un orecchio giungono ad entrambi i collicoli inferiori. Ne consegue che una lesione sopranucleare monolaterale non determina sordità. Le fibre provenienti dal collicolo inferiore terminano nel corpo genicolato mediale, dove l’organizzazione tonotopica è tale per cui le fibre che conducono le basse frequenze raggiungono la parte laterale, mentre quelle per le alte frequenze terminano medialmente. Dal corpo genicolato mediale partono fibre che giungono alla corteccia cerebrale a livello della prima circonvoluzione temporale (giro temporale traverso, aree 41 e 42 di Brodmann), dove l’organizzazione tonotopica è sempre riconoscibile. Oltre alla via ascendente uditiva crociata (con incrociamento a livello del corpo trapezoide), esiste una via ascendente omolaterale, che proietta dai nuclei cocleari al nucleo olivare superiore ed al collicolo superiore, e quindi alla corteccia temporale omolaterale. Vanno ricordate, infine, le vie centrifughe cortico-olivari ed olivococleari, che terminano sulle cellule recettoriali della coclea, con probabile funzione di modulazione centrale dell’attenzione uditiva selettiva. Fisiologia I suoni vengono definiti in termini di frequenza (misurata in cicli/sec. o Hertz) e di intensità (espressa in Decibel, dB); i suoni percepibili dall’orecchio umano rientrano in un intervallo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.35 - Vie cocleari: dai nuclei cocleari dorsale e ventrale (bulbo) ascendono le vie acustiche centrali, che raggiungono la corteccia temporale.
di frequenze compreso fra 20 e 20.000 Hz. I suoni giungono al condotto uditivo esterno e vengono trasmessi dal timpano alla finestra ovale tramite la catena ossiculare (martello, incudine e staffa). Questa fase è detta della conduzione aerea. I “riflessi acustici”, per cui i muscoli stapedio (innervato dal 7° nervo cranico) e tensore del timpano (innervato dal 5° nervo
cranico) possono ridurre l’ampiezza della vibrazione della catena ossiculare, difendendo la coclea da stimoli troppo intensi e prolungati. Il principale centro riflesso è rappresentato dal collicolo inferiore. Vi è poi una conduzione ossea, dovuta alla vibrazione diretta delle strutture ossee, particolarmente importante come via alternativa, in
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
presenza di un danno alle strutture che consentono la trasmissione aerea del suono. La vibrazione della finestra ovale viene trasmessa alla perilinfa, come onda meccanica che risale e fa a sua volta oscillare la scala media. Ogni frequenza fa risuonare un preciso tratto della membrana basale della scala media, attivando così le cellule recettoriali corrispondenti. Il recettore fornisce quindi informazioni sulla frequenza del suono (sede delle cellule attivate) e sulla intensità del suono (numero di cellule attivate). Le vie acustiche trasportano l’impulso alla corteccia, ove viene decodificato. La bilateralità della rappresentazione delle vie acustiche, oltre a rappresentare una ridondanza che garantisce la trasmissione dell’impulso in caso di lesione centrale monolaterale, consente la localizzazione dello stimolo uditivo nello spazio.
Esame clinico ANAMNESI DEL SOGGETTO CON DISTURBI DELL’UDITO I sintomi più comuni in caso di lesione della via uditiva sono l’ipoacusia (si parla di sordità per i gradi di ipoacusia più elevati) ed il tinnito (detto anche acufene), che è una sensazione uditiva in assenza di stimoli. È sempre utile ricostruire la durata del sintomo, le modalità di esordio, le particolari condizioni che lo aggravano o al contrario lo alleviano. Utile inoltre raccogliere informazioni sulla presenza di disturbi analoghi in altri membri della famiglia, sull’attività lavorativa del soggetto (ad esempio in prossimità di macchinari rumorosi) e sulle attività del tempo libero (ad esempio la caccia). Va segnalata, infine, la possibilità che il soggetto lamenti un deficit inesistente della funzione uditiva, allo scopo di usufruire di vantaggi sul piano personale, assicurativo o lavorativo; in questi casi una valutazione obiettiva con test specifici consente di identificare l’inconsistenza o l’amplificazione del sintomo riferito.
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Esame otologico Il soggetto sano è in grado di udire da ogni orecchio la voce sussurrata fino ad una distanza di 6 metri. Una prima grossolana valutazione di un deficit di tale capacità va effettuata chiedendo al soggetto di discriminare la voce dell’esaminatore a distanze progressivamente maggiori. L’esame otoscopico consente di rilevare l’integrità della membrana timpanica e l’eventuale presenza di cerume che occlude anche parzialmente il condotto uditivo esterno. Si descrivono classicamente tre tipi di ipoacusia, definiti rispettivamente di trasmissione (o di conduzione), di percezione (o sensoriale) e neurale. a) L’ipoacusia di trasmissione è dovuta a lesioni dell’orecchio medio, per compromissione della trasmissione dell’energia sonora dal timpano alla finestra ovale. La percezione dei suoni per via aerea è compromessa, mentre è relativamente aumentata la trasmissione per via ossea, per l’aumentata rigidità della catena ossiculare; b) L’ipoacusia di percezione (sensoriale) è dovuta a lesioni delle cellule sensoriali della coclea. Il suono è condotto normalmente fino al recettore, ma il danno cocleare ne impedisce la codificazione. I suoni sono uditi meno sia per via aerea sia per via ossea, ed il deficit riguarda soprattutto i suoni acuti. Il fenomeno del “reclutamento” (per cui all’aumentare dell’intensità del suono un maggior numero di cellule sensoriali viene attivato) consente una percezione uditiva simmetrica, pur persistendo la difficoltà nella discriminazione verbale dal lato leso; c) L’ipoacusia neurale o retrococleare consegue ad un danno del nervo cocleare, con compromissione sia della trasmissione aerea che di quella ossea, specie per i toni acuti. In questo caso però, a differenza dell’ipoacusia sensoriale, dovuta a lesioni cocleari, l’aumento dell’intensità del suono non comporta un miglioramento percettivo, e non si verifica pertanto il fenomeno del “reclutamento”, donde la persistenza
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
della differente sensibilità tra i due lati anche con l’aumentare dell’intensità dello stimolo sonoro. La classificazione del tipo di ipoacusia rappresenta uno dei principali obiettivi dell’esame clinico e strumentale del soggetto ipoacusico. A questo scopo si procede a una serie di test clinici che utilizzano il diapason a 512 Hz (il diapason a 128 o 256 Hz, usualmente utilizzato nell’esplorazione della pallestesia, non deve essere utilizzato, perché lo stimolo vibratorio può essere erroneamente interpretato come suono dal soggetto esaminato). 1. Test di Weber: il diapason viene fatto vibrare e quindi appoggiato al vertice del capo, chiedendo al soggetto da quale lato provenga il suono: nel soggetto normoacusico (a) non vi è lateralizzazione dello stimolo, a differenza di quanto avviene nel soggetto con ipoacusia di trasmissione (b), ove lo stimolo viene lateralizzato verso il lato dove è presente il danno della conduzione aerea, a causa della prevalenza della conduzione ossea; oppure nel soggetto con ipoacusia sensoriale (c), in cui lo stimolo è lateralizzato verso l’orecchio sano. 2. Test di Rinne: si esamina un orecchio alla volta, occludendo il condotto uditivo esterno controlaterale all’orecchio esaminato. Il diapason è tenuto appoggiato alla mastoide fino a quando il soggetto afferma di non udirne più il suono; a questo punto viene avvicinato all’orecchio, a circa 2 cm dal condotto uditivo esterno. In tal caso il soggetto sano avverte ancora il suono, poiché la conduzione aerea è maggiore di quella ossea, mentre in presenza di ipoacusia di trasmissione il suono non viene percepito per via aerea, poiché questa è meno efficiente della via ossea (Rinne negativo). Nelle ipoacusie di percezione, il test ha esito analogo al soggetto sano (Rinne positivo). 3. Test di Schwabach: si basa sul confronto fra la percezione del suono prodotto dal diapason appoggiato sulla mastoide del paziente con l’analoga percezione dell’esaminatore, supposto normoacusico. Dapprima il diapason viene
appoggiato sulla mastoide del soggetto esaminato, e, quando la percezione del suono si è esaurita, sulla mastoide dell’esaminatore; quindi la prova è ripetuta, con il diapason posizionato inizialmente sulla mastoide dell’esaminatore. In presenza di una ipoacusia di trasmissione, il malato percepisce il suono per via ossea più a lungo dell’esaminatore. ESAMI STRUMENTALI Si tratta di test di competenza audiologica più che neurologica, anche se spesso il neurologo è chiamato ad emettere un parere clinico che tenga conto anche dell’esito di tali accertamenti. Audiometria tonale: comporta la somministrazione, all’interno di una cabina audiologica, di suoni puri di frequenze differenti, erogati con una cuffia o con un vibratore sulla mastoide. L’intensità minima percepita dal soggetto esaminato è definita intensità sogliare, e varia a seconda della frequenza. Viene così costruita una curva per ogni orecchio, detta audiogramma, dove l’ascissa rappresenta la frequenza in Hz e l’ordinata l’intensità in dB necessaria per la percezione del suono a quella determinata frequenza (Fig. 7.36). In presenza di ipoacusia, la curva corrispondente alla trasmissione aerea, così come quella corrispondente alla trasmissione ossea, presentano una “caduta” per i toni corrispondenti. Dall’esame dell’audiogramma si può quindi formulare la diagnosi di: a) ipoacusia di trasmissione, dove è presente una curva patologica per la conduzione aerea con normale trasmissione ossea (e compromissione maggiore per i toni bassi) (Fig. 7.36 A); b) ipoacusia di percezione, con compromissione della percezione sia per via aerea che per via ossea (Fig. 7.36 B); c) ipoacusia mista, come si osserva ad esempio nell’otosclerosi (Fig. 7.36 C). Nel corso dell’esame audiometrico si può effettuare inoltre il test di Fowler o del “reclu-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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tamento”, per cui all’aumento dell’intensità del suono la sensazione può aumentare (reclutamento positivo, nella ipoacusia cocleare) o restare immutata (reclutamento negativo, nella ipoacusia retrococleare). La prova di Lüscher esamina, per ciascuna frequenza, qual è il più piccolo aumento di intensità che il soggetto riesce a discriminare. Il valore di questa soglia differenziale cala con il crescere dell’intensità, ma in presenza di lesione cocleare si assiste ad un ulteriore abbassamento: questo fenomeno si spiega con il fatto che piccoli incrementi di intensità dei suoni comportano un reclutamento maggiore nell’orecchio con difetto cocleare che nell’orecchio sano. Nel soggetto sano la soglia va da 0.75 a 1.5 dB. La prova di Lüscher si definisce positiva quando la soglia discriminante è inferiore a 0.5 dB. Timpanometria: si tratta di una tecnica che valuta i cambiamenti dell’impedenza acustica del timpano conseguenti a modifiche della pressione aerea nel condotto uditivo esterno. L’impedenza acustica è la resistenza del sistema dell’orecchio medio al passaggio del suono. Un aumento dell’impedenza acustica comporta una ridotta trasmissione dell’impulso sonoro, ed è riferibile a patologie del timpano o dell’orecchio medio. Potenziali evocati uditivi: (v. pag. 361) rappresentano una metodica particolarmente utile per la diagnosi di sede di lesione in caso di ipoacusia neurale. Se la prima onda è normale in latenza ed ampiezza, e la terza e le successive sono meno ampie e più ritardate, si può ipotizzare una lesione del nervo acustico, come si osserva ad esempio nel neurinoma del nervo acustico. Fig. 7.36 - Esempi di audiogramma patologico (linea continua = via aerea; linea interrotta = via ossea). A) Sordità di trasmissione: riduzione della conduzione per via aerea, più accentuata per i toni gravi. B) Sordità di percezione: riduzione della conduzione per via aerea e per via ossea; le curve praticamente coincidono. Per la via aerea la caduta si accentua per i toni acuti. C) Sordità mista: riduzione delle conduzione per via aerea e per via ossea, più accentuata per la via aerea. La conduzione ossea (cioè ad orecchio otturato) è nettamente inferiore a quella del soggetto normale.
Patologia del sistema cocleare Ipoacusie di trasmissione: si realizzano per danno dell’orecchio medio, in presenza di integrità della coclea e del nervo cocleare. Le cause più frequenti sono rappresentate da difetti
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
congeniti dell’orecchio esterno, otite media, tappo di cerume, rottura della membrana timpanica, traumi a carico della catena ossiculare, otosclerosi. Nell’adulto la causa più frequente è l’otosclerosi, malattia genetica a trasmissione autosomica dominante con penetranza variabile, che comporta una iperproduzione ossea attorno alla finestra ovale, con irrigidimento progressivo, fino alla immobilizzazione, della staffa; nelle fasi avanzate della malattia l’ipoacusia diviene di tipo misto, poiché si associa una ipoacusia sensoriale. L’ipoacusia di trasmissione in genere risponde al trattamento medico o chirurgico e coinvolge caratteristicamente molte frequenze, per cui la curva audiometrica risulta tipicamente “piatta” (Fig. 7.36 A), anche se talora possono essere prevalentemente interessate le frequenze più basse. Rispetto agli altri deficit uditivi, nell’ipoacusia di trasmissione la discriminazione verbale è relativamente conservata. Il soggetto affetto spesso si esprime a voce bassa, poiché la buona trasmissione ossea consente di percepire la propria voce ad una buon volume; un’altra caratteristica dell’ipoacusia di trasmissione è la
migliore percezione della voce umana in ambienti rumorosi, probabilmente per l’incremento del volume sonoro della voce dovuto all’elevato rumore di fondo (paracusia di Willis). Va comunque ricordato che le caratteristiche descritte sono soggette a notevoli variazioni, a seconda dell’entità del deficit, della mono- o bilateralità dell’ipoacusia, delle caratteristiche individuali. Frequentemente si associa tinnito, usualmente di bassa frequenza (v. pag. 265). La semiologia clinica e strumentale differenziale tra i differenti tipi di ipoacusia sono descritte nella tabella 7.12. Ipoacusie di percezione: si intende classicamente per ipoacusia o sordità di percezione quella conseguente ad un danno cocleare, essendo le strutture anatomiche pre-cocleari integre. Le forme congenite sono dovute ad aplasia della coclea o a un danno verificatosi durante la vita intrauterina (ad es. nel corso di rosolia). Le forme perinatali sono spesso dovute a trauma cocleare da parto. Le forme acquisite dell’infanzia possono derivare da estensione all’orecchio interno di un’otite media complicata, mentre
Tabella 7.12 - Caratteristiche semeiologiche dei differenti tipi di ipoacusia.
Frequenze compromesse Trasmissione aerea Trasmissione ossea Test di Weber Test di Rinne Test di Schwabach Audiometria tonale Test di Fowler (reclutamento) Test di Luscher Timpanometria Potenziali evocati uditivi
Ipoacusia di trasmissione
Ipoacusia di percezione (cocleare)
Ipoacusia neurale (retrococleare)
alte compromessa migliorata lateralizza lato affetto – allungato caduta via aerea –
Basse compromessa compromessa lateralizza lato sano + accorciato caduta via aerea e ossea +
basse compromessa compromessa lateralizza lato sano – accorciato caduta via aerea e ossea –
– alterata Latenza onda 1: +++ Morfologia: normale
+ normale Latenza onda 1:+ Morfologia normale
– normale Latenza: onde 1 e 3 +++ Morfologia alterata onde3-5
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nell’adulto la causa più frequente è il trauma acustico prolungato, professionale o extralavorativo. Altre cause apprezzabili nell’adulto sono i traumi cranici, le malattie vascolari, la degenerazione cocleare senile (presbioacusia), il danno da sostanze tossiche (salicilati, chinino, aminoglicosidi, diuretici dell’ansa). Il soggetto con ipoacusia di percezione si esprime tipicamente con un volume di voce più alto della norma, poiché la trasmissione ossea è ridotta, e la percezione soggettiva della propria voce dà l’impressione di un volume apparentemente troppo basso per essere udito dall’interlocutore. Le difficoltà di udito aumentano in ambienti rumorosi. Il deficit riguarda tutte le frequenze, ma può essere maggiore per le frequenze più elevate, consentendo così una preservata comprensione della voce umana, che utilizza frequenze più basse (Fig. 7.36 B). È tipicamente presente il fenomeno del “reclutamento”, per cui l’aumento di intensità del suono comporta un miglioramento della percezione dall’orecchio affetto. Il tinnito, quando presente, riguarda le frequenze alte (fischio, campanello…). Le ipoacusie di percezione possono trarre beneficio dall’utilizzo di apparecchi di amplificazione acustica. Va comunque ricordato che spesso può coesistere una ipoacusia di trasmissione con una ipoacusia percettiva (Fig. 7.36 C). Ipoacusie neurali: Per ipoacusie neurali si intendono le forme dovute a danno del nervo acustico a sede retrococleare, per neuropatie ereditarie, meningiti croniche dalla base cranica, lesioni demielinizzanti a livello dell’ingresso del nervo acustico nel tronco encefalico, neoplasie intracraniche. Tra i tumori, la sede di gran lunga più frequente è l’angolo ponto-cerebellare, dove si possono sviluppare meningiomi, colesteatomi, neurinomi del nervo acustico (v. pag. 000). L’audiometria mostra un deficit tipicamente percettivo, con assenza del fenomeno del “reclutamento”, ma non sempre agevolmente differenziabile dalla ipoacusia percettiva di
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origine cocleare. I potenziali evocati acustici possono essere di aiuto, contribuendo a localizzare la sede della lesione. Ipoacusie centrali: molto rare, grazie alla bilateralità delle proiezioni sopranucleari, si possono osservare in corso di lesioni del tronco piuttosto vaste o nelle lesioni bilaterali delle radiazioni acustiche o della corteccia temporale. IL TINNITO Viene definito come una sensazione soggettiva di rumore, che può avere differenti caratteristiche di intensità e di frequenza, da frequenze basse (rombo, tuono) a frequenze più alte (soffio, fischio, cinguettio, campanello…); spesso si associa a ipoacusia o sordità. I soggetti con ipoacusia di trasmissione presentano più frequentemente tinnito a bassa frequenza, a differenza dei soggetti con ipoacusia percettiva, in cui il tinnito copre frequenze più elevate. Fa eccezione la sindrome di Ménière, dove il tinnito ha le tipiche caratteristiche di “rombo” a bassa frequenza. Non è infrequente che, con il peggiorare dell’ipoacusia, il tinnito tenda a diminuire di intensità. Talora il sintomo è riportato come costante, più spesso come un fenomeno intermittente, e l’intensità può essere tale da interferire con le usuali attività e compromettere significativamente la qualità della vita della persona. Si tratta di un sintomo molto aspecifico, che può essere espressione di patologie molto differenti, per cui un attento e completo esame neurologico e neuro-otologico è sempre d’obbligo nel soggetto che lamenta tinnito. Nei soggetti con funzione uditiva e test audiometrici normali va ipotizzata l’origine psichica del disturbo, o l’origine tossica, da farmaci che non compromettono la funzione uditiva (chinidina, indometacina, carbamazepina, levodopa, propranololo, aminofillina). Oltre al tinnito descritto, detto anche “soggettivo”, esiste il più raro tinnito “oggettivo”, in cui
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
il rumore è percepito non solo dal paziente, ma anche dall’esaminatore. Tale condizione si realizza ad esempio nelle malformazioni arterovenose o nelle stenosi dei vasi sopraaortici, dove il suono è sincrono con il polso ed è percepibile al fonendoscopio come rumore di “soffio”. Un altro esempio di tinnito obiettivo, di origine meccanica, è quello che si può rilevare nei soggetti con mioclono palatale. Il trattamento del tinnito comporta la rimozione, ove possibile, della causa sottostante. Laddove questo non sia possibile, il trattamento sintomatico del tinnito soggettivo può essere di carattere farmacologico (carbamazepina, benzodiazepine, antidepressivi), o fisico (biofeedback).
Il nucleo motore del V paio è situato nella parte media del ponte in posizione dorso-laterale, medialmente al nucleo sensitivo principale (Fig. 7.37). Le fibre escono dalla parte laterale del ponte distinte dalla porzione sensitiva, formando la radice motoria, che macroscopicamente si congiunge alla più grossa radice sensitiva a circa 1 cm di distanza dal ponte. Raggiungono la periferia unite alle fibre sensitive della 3ª branca mandibolare e forniscono rami motori ai muscoli massetere, temporale e pterigoidei interno ed esterno. Innervano anche il muscolo tensore del timpano, il tensore del palato, il miloioideo ed il ventre anteriore del m. digastrico.
V. N. trigemino
NUCLEI E VIE AFFERENTI SOMATICHE GENERALI.– Le cellule d’origine del trigemino sensitivo si trovano nel ganglio semilunare o di Gasser, situato nella superficie dorsale della piramide
C. Loeb Il trigemino è un nervo misto sensitivo-motore che, per mezzo delle sue tre branche periferiche: oftalmica, mascellare, mandibolare (di qui la sua denominazione), provvede all’innervazione motrice dei muscoli masticatori e all’innervazione sensitiva della cute della faccia, della congiuntiva, del globo oculare inclusa la cornea, delle meningi della fossa cranica anteriore e media, del tentorio del cervelletto, delle pareti dei vasi del poligono di Willis, della mucosa buccale, dei due terzi anteriori della lingua, della mucosa dei seni frontali e mascellari, dei denti e della mucosa nasale. NUCLEI E VIE EFFERENTI SOMATICHE SPECIALI. – La via sopranucleare nasce nella porzione inferiore dell’area precentrale, attraversa la capsula interna in corrispondenza del ginocchio, decorre nella porzione mediale dei tre-quinti medi del peduncolo cerebrale (via cortico-bulbare) e discende in prossimità del lemnisco mediale per raggiungere, nella porzione dorso-laterale del ponte, il nucleo motore del trigemino omo- e controlaterale (Fig. 2.14).
Fig. 7.37 - Disegno schematico raffigurante il nucleo del V paio motorio (nel ponte) e sensitivo.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
petrosa in prossimità dell’apice. Dalle cellule del ganglio si dipartono: 1) una branca centrale che entra nella parte laterale del ponte (ventralmente e distinta dalla branca motrice), che costituisce la radice sensitiva retrogasseriana, e che raggiunge i nuclei sensitivi; 2) una branca che raggiunge la periferia attraverso i tre nervi oftalmico, mascellare e mandibolare. I nuclei sensitivi del trigemino sono costituiti da tre porzioni differenti: il nucleo mesencefalico, il nucleo sensitivo principale (pontino) e il nucleo del tratto spinale o della radice discendente (Fig. 3.6 e Fig. 7.37). Le fibre appartenenti ai gruppi Ia, Ib e II provenienti dai propriocettori (fusi neuromuscolari, recettori articolari) terminano nel nucleo mesencefalico.
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Le grosse e medie fibre mielinizzate (A alfa e beta) provenienti dalla cute e recanti la sensibilità da meccanocettori cutanei a bassa soglia terminano nel nucleo sensitivo principale (pontino) con una precisa proiezione somatotopica. Le fibre più sottili (A delta e C), provenienti principalmente da nocicettori e termocettori, terminano nel nucleo del tratto spinale, che si estende lunbo il bulbo sino ai primi segmenti cervicali, costituendo un proseguimento delle lamine dorsali del corno posteriore del midollo spinale. La porzione più caudale del nucleo del tratto spinale del trigemino riceve anche fibre provenienti dalle radici dorsali dei primi segmenti cervicali e ciò potrebbe spiegare l’irradiazione del dolore trigeminale ad aree non innervate dal V.
Fig. 7.38 - Schema del decorso e distribuzione delle tre branche periferiche del n. trigemino (V paio).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
frontali). La dura è innervata dal trigemino, salvo a livello della fossa cranica posteriore ove l’innervazione è dipendente dal X. Bisogna inoltre aggiungere che l’organizzazione funzionale e le connessioni anatomiche dei nuclei sensitivi del trigemino sembrano particolarmente complesse e non ancora del tutto chiarite.
Esame della funzione del V paio
Fig. 7.39 - Topografia sensitiva periferica del capo.
La porzione o branca periferica che trae la sua origine dalle cellule del ganglio di Gasser, si divide in tre nervi: il n. oftalmico, il n. mascellare e il n. mandibolare, che lasciano la cavità cranica attraverso la fessura orbitale superiore (n. oftalmico), il forame rotondo (n. mascellare) e il forame ovale (n. mandibolare) (Fig. 7.38). La distribuzione cutanea è dimostrata nella Fig. 7.39. Si osservi che il nervo mandibolare ha la sua distribuzione inferiore diversi centimetri al di sopra del margine della mandibola e che la conca auricolare è innervata dal VII (n. intermediario) e dal X (Fig. 7.49) (v. pag. 283). Si deve sottolineare che le diverse aree cutanee di distribuzione sono molto scarsamente sovrapposte e i confini con l’area di distribuzione dei nervi spinali sono molto netti. Alla branca oftalmica è associato il ganglio ciliare, alla branca mascellare il ganglio sfenopalatino, alla branca mandibolare il ganglio otico; queste strutture sono in rapporto con le funzioni vegetative (secrezione lacrimale, mucosa, salivare, l’innervazione della mucosa nasale, della cavità orale, dei seni mascellari e
L’esame della funzione motoria consiste nel testare l’efficienza dei muscoli masticatori (temporale, massetere, pterigoidei interno ed esterno): si ordina al paziente di chiudere fortemente la bocca e si apprezza palpatoriamente la contrazione del temporale e del massetere; tentando di aprire la bocca, se ne valuta la forza; lo spostamento laterale della mandibola permette di apprezzare la funzione degli pterigoidei. Se l’ipostenia è unilaterale, difficilmente il paziente la avverte spontaneamente, ed è quindi importante effettuare le specifiche prove di forza appena descritte. L’esame della funzione sensitiva consiste nel valutare, con la tecnica già descritta nell’esame della funzione sensitiva, la sensibilità tattile, termica e dolorifica. Una serie di riflessi che hanno come branca afferente il trigemino e come branca efferente lo stesso trigemino o altri nervi cranici, permettono di esaminare clinicamente o strumentalmente la via trigeminale e alcune delle sue connessioni. I riflessi più importanti elicitabili sia clinicamente (per la tecnica di esecuzione, v. pag. 49) sono: 1) il riflesso masseterino (v. pag. 49) in cui le strutture implicate sono: fibre afferenti trigeminali propriocettive della branca mandibolare, nucleo sensitivo mesencefalico, nucleo motore del trigemino (attraversamento di una sola sinapsi), radice motoria e nervi motori periferici trigeminali. 2) il riflesso di ammiccamento o blink reflex (valutazione clinica e strumentale) (v. pag.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
276, 358): afferenti esterocettive, nucleo sensitivo principale, nucleo del nervo faciale dello stesso lato (per la parte precoce del riflesso, o R1); la parte tardiva del riflesso (R2) è mediata dall’attivazione del nucleo trigeminale spinale con proiezioni su i nuclei del nervo faciale ipsi e contro-laterali. 3) Il riflesso corneale (v. pag. 50) (valutazione clinica e strumentale): afferenti nocicettive, nucleo spinale trigeminale, nucleo del nervo faciale ipsi e contro-laterale. L’attività riflessa elicitabile solo con mezzi strumentali si riferisce a: – riflesso inibitorio masseterino (anche indicato come periodo silente della muscolatura masticatoria): afferenze esterocettive dalla II e III branca trigeminale, nucleo spinale trigeminale con proiezioni ipsi e contro-laterali al nucleo motore trigeminale. – riflessi trigemino-cervicali afferenti nocicettive, nucleo motore trigeminale ipsi e controlaterale attraverso vari interneuroni. È anche possibile valutare la conduzione delle fibre afferenti trigeminali per mezzo dei potenziali evocati trigeminali precoci.
Sintomatologia da lesione delle vie trigeminali TRIGEMINO MOTORIO Le lesioni sopranucleari che distruggono le vie cortico-bulbari, destinate al nucleo motorio, producono raramente sintomi, poichè il nucleo motorio, nella maggior parte degli individui, riceve fibre cortico-bulbari dai due emisferi. Nei rari casi in cui le fibre cortico-bulbari provengono esclusivamente dall’emisfero controlaterale, si manifesta, solitamente assieme ad una emiparesi dovuta a lesione capsulare, ipostenia della muscolatura masticatoria. Se la lesione interessa le vie cortico-bulbari bilateralmente si ha un
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disturbo della masticazione come nella paralisi pseudobulbare. L’accentuazione del riflesso masseterino è caratteristica dell’interessamento sopranucleare bilaterale, come avviene nella paralisi pseudobulbare. Per lesioni del nucleo motore e della branca motoria si osserva paralisi periferica dei muscoli innervati: atrofia delle regioni sopra e sottozigomatiche e della guancia; minor validità nella masticazione; minor resistenza alla palpazione del pavimento della bocca per atrofia dei muscoli miloioideo e del ventre anteriore del digastrico; a bocca aperta la mandibola devia dal lato paralizzato per azione dei muscoli pterigoidei del lato opposto e non può essere spostata verso il lato sano; il riflesso masseterino è assente dal lato leso. La paralisi del muscolo peristafilino esterno provoca un abbassamento del pilastro posteriore del velo palatino ed una modesta deviazione dell’ugola dal lato sano; la paralisi del muscolo tensore del timpano può causare ipoacusia. Nella lesione bilaterale della branca motrice la mandibola è cadente ed immobile, la masticazione è impossibile e la saliva scola attraverso la bocca aperta. La mancanza del riflesso masseterino ed i segni di paralisi periferica differenziano questo quadro di paralisi nucleare da un analogo quadro di paralisi sopranucleare del trigemino. Si può in quest’ultimo caso dimostrare il fenomeno sincinetico palpebra-mandibola, cioè la contrazione forzata dell’orbicolare della palpebra si associa al movimento laterale della mandibola verso il lato opposto. Le lesioni nucleari possono essere dovute a malattie vascolari o tumorali, quelle del nervo periferico saranno indicate a proposito del trigemino sensitivo. TRIGEMINO SENSITIVO La lesione può interessare i nuclei sensitivi, il ganglio di Gasser, le tre branche periferiche.
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Fig. 7.40 - Topografia sensitiva cutanea nucleare del trigemino (disposizione cosiddetta a cipolla).
LESIONE NUCLEARE. – Il disturbo della sensibilità (specie per il caldo e freddo) riguarda la faccia con una disposizione peculiare concentrica o disposizione a cipolla (Fig. 7.40). Il disturbo della sensibilità è localizzato alla fronte per lesioni della porzione caudale del n. principale e della radice discendente, alla regione temporale e alle palpebre per lesioni della porzione più rostrale del n. principale, al naso e alla guancia per lesione della porzione più anteriore. Le cause più comuni di lesione sono: siringobulbia, trombosi dell’arteria cerebellare posteroinferiore, tumori del tronco encefalico. LESIONE DEL GANGLIO DI GASSER E DELLA RADIIl disturbo della sensibilità interessa tutto il territorio delle tre branche realizzando un’anestesia totale omolaterale, associata a paralisi trigeminale motoria nel caso sia coinvolta anche la radice motoria contigua. Si osserva anestesia cutanea dell’emifaccia dalla fronte al mento e della mucosa del naso, bocca, tonsille, pilastro posteriore del faringe e due terzi anteriori della lingua (solo sensibilità tattile). Saltuariamente può manifestarsi una cheratite neuroparalitica.
CE RETROGASSERIANA.–
Le cause più comuni di lesione sono: malattie infiammatorie o tumorali in aree contigue, e talora tumori dello stesso ganglio. In questi casi il dolore è distribuito nell’area delle tre branche associato ad anestesia totale e ad assenza di zone «trigger». Intossicazioni da solventi organici, soprattutto il tricloroetilene, possono provocare una lesione elettiva della porzione sensitiva del trigemino a livello della radice retrogasseriana. Malattie sistemiche del connettivo, come il lupus erythematosus, la dermatomiosite, la sclerodermia e la sindrome di Sjögren possono essere le cause di una neuropatia trigeminale che si manifesta principalmente sotto forma di deficit sensitivo localizzata ad una o più branche trigeminali, spesso bilateralmente, anche se in modo asimmetrico. La neuropatia non si accompagna quasi mai a dolore, ma sono presenti tormentose parestesie. Talvolta la neuropatia di tipo sensitivo si può manifestare anche in maniera apparentemente “primitiva” e può essere accompagnata da interessamento della parte motoria, con atrofia dei muscoli masticatori e persino delle strutture ossee faciali. LESIONI DELLE TRE BRANCHE PERIFERICHE a) Branca oftalmica La lesione della branca oftalmica comporta anestesia nel territorio corrispondente cioè: la fronte, l’occhio, la palpebra superiore, la mucosa dei seni frontali e del naso (salvo la parte più laterale in corrispondenza della narice) (Fig. 7.39); perdita del riflesso corneale e congiuntivale e del riflesso oculocardiaco; rimane la secrezione lacrimale. Si può manifestare inoltre cheratite paralitica, per l’assenza dei riflessi corneale e di ammiccamento che hanno funzione di protezione dell’occhio. La fotofobia, cioè intolleranza e dolore all’esposizione degli occhi alla luce, si può riscontrare quando è lesa la branca oftalmica o in altre condizioni quali malattie del segmento an-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Il nervo nasociliare fornisce rami per l’area delle cellule etmoidali posteriori e per il seno sfenoidale (nervo etmoidale); rami per la mucosa nasale anteriore e attraverso il ramo nasale esterno per la cute della punta del naso; e un ramo per il ganglio ciliare. Il ganglio ciliare, situato all’apice dell’orbita, è un ganglio parasimpatico associato alla 1ª branca del trigemino. Riceve rami dal III paio, dal n. nasociliare (V paio), e rami simpatici dal plesso cavernoso; invia rami allo sfintere irideo (come nervi ciliari brevi).
b) Branca mascellare
Fig. 7.41 - Topografia sensitiva del trigemino nel cavo buccale.
teriore dell’occhio (congiuntiviti, cheratiti, iriti, iridocicliti, opacità corneali, del cristallino e del vitreo). È tipica in alcune malattie neurologiche quali emicrania, meningite, emorragia subaracnoidea, ed ancora si ritrova nell’acrodinia e nell’acromegalia. La fotofobia potrebbe rappresentare, in caso di malattie extraoculari, un esempio di dolore riferito che utilizza le vie trigeminali e i meccanismi centrali del trigemino sensitivo. Il riflesso oculo-cardiaco o di Dagnini-Ascher consiste in bradicardia, nausea e fenomeni presincopali o sincopali per compressione dei bulbi oculari. L’arco afferente utilizza la branca oftalmica e i sintomi che si manifestano sono dovuti alle connessioni nucleari col vago. La branca oftalmica, prima di abbandonare il seno cavernoso si divide in tre rami: nervo lacrimale, nervo frontale, nervo nasociliare o ciliare (Fig. 7.38). Il nervo lacrimale raggiunge la ghiandola lacrimale. Il nervo frontale si divide in diverse branche, la più importante delle quali emerge sulla fronte attraverso il forame (o incisura) sopraorbitale e fornisce la sensibilità alla cute della fronte.
La lesione di questa branca comporta anestesia nel territorio corrispondente (Figg. 7.39) e cioè: la cute della guancia e del labbro superiore, parte della regione temporale, la palpebra inferiore, la cute della porzione laterale del naso in corrispondenza della narice, parte della mucosa del naso, le radici dentali superiori, il nasofaringe, il seno mascellare, il palato molle, le tonsille e la mucosa del palato. Il n. mascellare si divide in diverse branche: nervo meningeo medio; nervi sfenopalatini, che formano la via afferente del ganglio sfenopalatino o di Meckel; n. alveolare superiore; n. zigomatico che invia anastomosi al n. lacrimale. Il ganglio sfenopalatino è situato nella parte superiore della fossa pterigoidea. L’apporto sensitivo è costituito dai rami sfenopalatini; la via motoria proviene dal ganglio genicolato del facciale attraverso il nervo grande petroso superficiale; l’apporto simpatico proviene dal plesso carotideo. Le fibre in partenza dal ganglio vanno al faringe, al palato molle e duro, alle tonsille, alla mucosa del turbinato superiore e medio, alle ghiandole lacrimali, al periostio orbitario.
c) Branca mandibolare La lesione della branca mandibolare comporta anestesia nell’area corrispondente (Fig. 7.39) e cioè: parte della cute, della mucosa della guancia e del labbro inferiore, la parte superiore della cute dell’orecchio, la parte superiore della cute del meato acustico, la membrana timpanica, la parotide, e la parte temporale inferiore della cute del capo, i due terzi
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
anteriori della lingua, le radici dentali inferiori (Fig. 7.41). Il ganglio otico, situato al di sotto del foro ovale, riceve vie parasimpatiche attraverso il nervo piccolo petroso superficiale; vie sensitive dal nervo mandibolare, e vie simpatiche dal plesso meningeo; invia fibre ad azione secretoria attraverso il nervo auricolo-temporale alla parotide.
Lesioni delle branche trigeminali, in sommario, possono essere causate da: a) tumori, con compressioni o infiltrazioni lungo tutto il decorso. A livello del mento, sono frequenti le lesioni metastatiche da tumore polmonare o mammario (lesione del nervo alveolare inferiore); a livello della guancia, può essere frequentemente riferita una storia di carcinoma cutaneo a cellule squamose; b) traumi: specie del nervo sovraorbitario ed infraorbitario; c) patologia infettiva, più frequentemente da herpes simplex ed herpes zoster. La branca del V più frequentemente colpita è quella oftalmica. d) lesioni con azione compressiva moderata (piccoli tumori a lento accrescimento, vasi tortuosi- conflitto neuro-vascolare), o in grado di disturbare la conduzione (piccole placche di demielinizzazione in malati di
sclerosi multipla) della radice retrogasseriana nel suo punto di ingresso nel ponte (“root entry zone”) meritano un cenno a parte. Infatti queste lesioni non sono in grado di provocare una ipoestesia, ma causano una alterazione nella modalità di scarica delle fibre afferenti, e ciò si traduce, clinicamente, in una caratteristica sindrome dolorosa, denominata “nevralgia trigeminale” o “tic douloureux” (v. pag . 000).
VII. N. faciale e n. intermediario di Wrisberg C. Loeb Il nervo faciale e il n. intermediario di Wrisberg, talora trattati separatamente, costituiscono un nervo misto denominato nervo intermediario-facciale. Il nervo faciale propriamente detto costituisce la parte motoria, il nervo intermediario la parte sensitiva. Il nucleo del nervo faciale è situato nel terzo inferiore del ponte, medialmente alla radice discendente del V (Fig. 7.42). Le fibre, uscite dal
Fig. 7.42 - Schema, in sezione frontale, della sede dei nuclei del n. facciale (VII paio) e del n. abducente (VI paio) nel ponte, e del decorso intrapontino delle loro fibre.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nucleo, si radunano in un fascio che, diretto dorsalmente, compie una curva attorno al nucleo del VI nervo cranico sotto il pavimento del IV ventricolo (cosiddetto ginocchio del nervo facciale) e fuoriesce dalla faccia ventrale del ponte in corrispondenza del solco bulbo-protuberenziale al di sopra e lateralmente all’oliva bulbare (vie efferenti somatiche speciali). Il tronco del nervo faciale, accollato all’VIII paio, attraversa l’angolo ponto-cerebellare, penetra, tramite il foro acustico interno, nel canale del faciale, scavato nella rocca petrosa, lo percorre in tutta la sua lunghezza e fuoriesce dal cranio attraverso il foro stilomastoideo. Durante il percorso intrapetroso fornisce rami al muscolo stapedio e, in corrispondenza della porzione terminale del canale faciale, allo stiloioideo e al ventre posteriore del digastrico; il tronco del nervo, attraversata la parotide, si divide in due rami che si distribuiscono a tutti i muscoli della faccia (escluso l’elevatore della palpebra superiore ed i muscoli masticatori) ed al platisma (Fig. 7.43). In clinica si distingue la paresi del «faciale superiore» e la paresi del «faciale inferiore»: i muscoli innervati da una porzione ben delimitata del nucleo del faciale (la parte intermedia) cioè il muscolo frontale, il corrugatore del sopracciglio e l’orbicolare delle palpebre, rappresentano i muscoli innervati dal «faciale superiore»; i muscoli innervati dal gruppo cellulare laterale, cioè quelli della parte inferiore della faccia (zigomatico, elevatore delle labbra, orbicolare delle labbra, buccinatore, risorio, quadrato del labbro superiore, quadrato del mento, platisma) rappresentano il «faciale inferiore». L’importanza di questa distinzione è in rapporto con le connessioni sopranucleari del nucleo del faciale. La via sopranucleare del faciale inizia dalla porzione inferiore della circonvoluzione precentrale, decorre nel ginocchio della capsula interna, nella parte media del peduncolo cerebrale e, come fascio cortico-bulbare (Fig. 2.11), attraversa il tegmento per portarsi al nucleo del VII
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controlaterale per la muscolatura dei due terzi inferiori della faccia, ai nuclei omo e controlaterali per quanto riguarda la muscolatura del terzo superiore della faccia (muscoli frontale, orbicolare delle palpebre, corrugatore del sopracciglio). Il «faciale superiore» ha quindi una innervazione sopranucleare bilaterale e il «faciale inferiore» solamente un’innervazione sopranucleare controlaterale. Pertanto la paralisi faciale dovuta a lesione delle vie sopranucleari colpisce esclusivamente i muscoli dei due terzi inferiori della faccia, e la paralisi si definisce «centrale», mentre la paralisi faciale dovuta a lesioni del nucleo o del nervo colpisce tutti i muscoli innervati dal faciale e la paralisi si definisce «periferica» 20. Il nervo intermediario di Wrisberg nasce dalle cellule del ganglio genicolato, situato nel canale di Falloppio: i prolungamenti centrali si portano al nucleo del fascicolo solitario del bulbo, i prolungamenti periferici hanno funzione gustativa (vie afferenti viscerali speciali), stimolano la secrezione salivare, lacrimale (vie efferenti viscerali generali) e hanno funzione sensitiva (vie afferenti somatiche generali) (Fig. 7.7). La funzione gustativa si riferisce ai due terzi anteriori della lingua. La funzione dell’intermediario nel gusto è stata discussa ed è ancora controversa. Ciò dipende da diversi fattori che interferiscono con l’esame del gusto: la collaborazione del p., il fatto che con l’età le papille gustative diminuiscono, la constatazione che il senso del gusto può essere differentemente apprezzato da ciascuno. Le fibre gustative, che
20
Alcuni Autori (in particolare otorinolaringoiatri, vedi Legent et al., 1976) ritengono che le fibre radicolari del n. facciale subiscano un incrociamento parziale prima dell’origine apparente del nervo, e quindi indicano in questa particolarità anatomica la ragione delle differenze semeiotiche tra paralisi centrale e periferica. Anche Bairati (1961 e 1975) dà notizia di questa discussione, che, peraltro, non è menzionata nei più autorevoli testi di neuroanatomia e neurologia.
Fig. 7.43 - Origine, decorso, distribuzione del n. facciale (VII paio).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
dipartono dai due terzi anteriori della lingua, si raccolgono nel nervo linguale (ramo della branca mandibolare del V paio) e poi nella corda del timpano (ramo del VII paio) e raggiungono il nucleo del tratto solitario, situato nel pavimento del IV ventricolo a livello del ponte e del bulbo. Le fibre che stimolano la secrezione lacrimale originano nel nucleo salivatorio superiore del VII e attraverso il nervo intermediario raggiungono il ganglio genicolato, di qui entrano nel nervo petroso superficiale, e terminano al ganglio sfeno-palatino. Da questo, attraverso il ramo zigomatico (branca mascellare del V paio), il nervo zigomatico-temporale e il nervo lacrimale innervano le ghiandole lacrimali provocando vasodilatazione e secrezione lacrimale. Accanto all’innervazione parasimpatica, ora descritta, esiste una innervazione simpatica che origina dalla colonna intermedio-laterale dei segmenti T1 e T2 e attraverso il tronco simpatico raggiunge il ganglio cervicale superiore, il plesso carotideo e le ghiandole salivari provocando vasocostrizione e riduzione della secrezione. Le fibre che stimolano la secrezione salivare originano dal nucleo salivatorio superiore del VII e attraverso il nervo intermediario, raggiungono il ganglio genicolato. Di qui percorrono il fascio del nervo facciale che, al di sotto del forame stilomastoideo, abbandonano per immettersi nella corda del timpano e poi nel n. linguale, ramo del V paio, e raggiungono il ganglio sottomascellare da cui si distribuiscono alle ghiandole sottomascellari e sottolinguali, con azione vasodilatatoria ed eccito-secretiva. Accanto alla innervazione parasimpatica ora descritta, esiste un’innervazione simpatica, le cui fibre originano dalla colonna intermedio-laterale dei primi segmenti toracici, arrivano al ganglio cervicale superiore e di qui alle ghiandole, con azione vasocostrittrice e iposecretiva. Gli impulsi sensitivi somatici dalla cute dell’orecchio esterno, dal meato uditivo esterno e dalla membrana timpanica (zona di Ramsay Hunt) decorrono lungo vie nervose che non possono essere facilmente schematizzate per l’ampia variabilità individuale, dovuta alle differenze dell’area di distribuzione periferica che si sono andate realizzando nella scala dei vertebrati fino all’uomo. Concorrerebbero all’innervazione sensitiva: rami sensitivi del n. intermediario; la branca auricolare del vago; il nervo auricolo-temporale del trigemino; forse rami sensitivi del glossofaringeo. Una schematizzazione abbastanza comune (e da noi, al momento, adottata) riferisce l’area cutanea della conca auricolare innervata da: rami sensitivi somatici dell’intermediario, che raggiungono il ganglio genicolato, da dove i rami
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centripeti pervengono alla radice discendente del V paio; ramo sensitivo somatico del vago (n. auricolare), che raggiunge il ganglio giugulare, da dove i rami centripeti raggiungono la radice discendente del V paio (Fig. 7.49).
Esame della funzione del n. faciale Per eliminare ripetizioni, la semeiotica verrà trattata nel paragrafo seguente. SINTOMATOLOGIA DA LESIONE DEL N. FACIALE Paralisi periferica. – È dovuta a lesioni che colpiscono il nucleo del nervo nel ponte (disturbi vascolari, tumori, poliomielite) o il tronco del nervo nel suo decorso nella fossa posteriore (tumori dell’angolo ponto-cerebellare), nel canale dell’osso temporale (traumi, processi infiammatori), al di fuori del cranio (alterazioni della ghiandola parotide, lesioni traumatiche). L’ispezione mostra spianamento delle rughe della fronte, impossibilità a chiudere le palpebre (lagoftalmo), mancanza dell’ammiccamento, perdita di lacrime lungo la guancia, poichè l’eversione della palpebra inferiore e l’allontanamento del punctum della congiuntiva impediscono l’assorbimento delle stesse; spianamento del solco naso-genieno, scomparsa del solco naso-labiale, abbassamento dell’angolo delle labbra, mancanza di espressione nell’emifaccia colpita, abbassamento della parte posteriore della lingua nel cavo orale dal lato leso per paralisi del ventre posteriore del digastrico. Il soggetto non è capace, dal lato paretico, di corrugare la fronte, di chiudere la rima palpebrale, di gonfiare la gota, di fischiare; l’espressione faciale risulta distorta nel sorridere e nel piangere, i cibi solidi si raccolgono tra guancia e gengiva ed i liquidi scolano lungo l’angolo della bocca. L’esame della funzionalità dei muscoli innervati dal VII si attua con le seguenti modalità: – muscolo frontale: il malato tenta di aprire gli occhi, tenuti chiusi dalle dita dell’esaminatore; si
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dimostra, con questa manovra, una contrazione massimale poiché il frontale è un muscolo ad azione sinergica con l’elevatore della palpebra; – orbicolare della palpebra: il soggetto deve chiudere gli occhi tenuti aperti dalle dita dell’esaminatore; non si avverte dal lato paretico la vibrazione, dovuta alla contrazione dell’orbicolare (segno della vibrazione delle palpebre); nel tentativo di chiudere gli occhi dal lato paretico, per diminuzione della contrazione dell’orbicolare, le ciglia sporgono di più che dalla parte sana (segno di Souques). Nel tentativo di chiudere gli occhi si mettono in evidenza particolari fenomeni che riconoscono la loro origine nella sincinesia tra l’orbicolare dell’occhio ed alcuni muscoli innervati dall’oculomotore, che esistono anche nel soggetto normale, ma che acquistano nella paralisi dell’orbicolare particolare rilievo semeiotico. Nel caso di paresi dell’orbicolare prevale l’azione del muscolo sincinetico innervato dal III paio; il più comune di questi fenomeni è il fenomeno di Bell che consiste nella rotazione verso l’alto e leggermente all’esterno del globo oculare nel tentativo di chiudere gli occhi (sincinesia tra orbicolare e retto superiore); nello sguardo forzato verso l’alto il globo oculare dal lato della paresi si sposta apparentemente più in alto e più in fuori (fenomeno ipercinetico di Negro o sincinesia tra orbicolare e retto superiore); nello sguardo verso il basso e successiva chiusura degli occhi, si osserva dal lato deficitario una marcata contrazione dell’elevatore della palpebra superiore che, per la mancata contrazione dell’orbicolare, fa rilievo al di sotto della cute (fenomeno di Dutemps e Cestan, o sincinesia tra orbicolare ed elevatore della palpebra superiore). Per esaminare la muscolatura della parte inferiore del viso si invita il paziente a compiere alcuni semplici movimenti: stirare gli angoli della bocca come per sorridere o per mostrare i denti; protrudere le labbra, fischiare, gonfiare le gote. L’accumulo di cibo nella guancia rivela la paralisi del buccinatore, che rende anche difficile spegnere una candela.
Per esaminare la funzionalità del platisma, si invita il paziente ad abbassare il mento verso il torace contro resistenza; in tal caso la contrazione delle fibre del platisma non si evidenzia dal lato paretico. I principali riflessi mediati dal nervo faciale sono: – il riflesso naso-lacrimale: le lacrime sono prodotte dalla stimolazione della mucosa nasale. Via afferente il trigemino, centro pontino, via efferente il n. grande petroso. – il riflesso corneale: contrazione dell'orbicolare delle palpebre per stimolazione della cornea. Via afferente I° branca del V, centro pontino, via efferente il VII (v. pag. 000). Assente nelle paralisi periferiche del VII. – il riflesso di ammiccamento (riflesso glabellare; in inglese: “blink reflex”): contrazione dell'orbicolare delle palpebre evocato da stimoli tattili, visivi, acustici. Vie afferenti esterocettive diverse, nucleo sensitivo principale del V, nucleo del nervo faciale dello stesso lato (per la parte precoce del riflesso, o R1). La parte tardiva del riflesso (R2) è mediata dall'attivazione del nucleo trigeminale spinale con proiezione bilaterale sui nuclei del nervo faciale (v. pag. 358). Assente nelle paralisi periferiche del VII. Nei soggetti comatosi o scarsamente cooperativi si può ottenere la contrazione dei muscoli innervati dal facciale con uno stimolo doloroso, quale la compressione forzata con i pollici degli apici delle mastoidi o dei processi stiloidei (manovra di Foix), oppure con la ricerca del «fenomeno bulbo-mimico» di Modenesi-De Lisi: la compressione dei bulbi oculari provoca una contrazione dei muscoli del faciale inferiore (riflesso trigemino-facciale). Quando la paralisi del faciale è di vecchia data si possono mettere in evidenza movimenti associati intrafaciali, cioè movimenti associati tra i muscoli innervati dal faciale e dovuti alla incapacità di contrarre separatamente ogni singolo muscolo: nel chiudere l’occhio si porta in alto l’angolo della bocca e viceversa, oppure nel chiudere l’occhio si ha contrazione del muscolo mentoniero (movimenti associati spontanei); nel provo-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali care il riflesso dell’orbicolare dell’occhio, si ha anche contrazione del platisma (movimenti associati provocati). I movimenti associati, come abbiamo già detto, sono dovuti al fatto che talora, nel processo riparativo, le fibre rigenerando possono contrarre connessioni diverse da quelle normali. Raramente nei periodi di ricupero di una paralisi del faciale si osserva il «fenomeno delle lacrime di coccodrillo», per cui l’introduzione in bocca di cibi molto sapidi produce un’abbondante lacrimazione. Il fenomeno trova la sua spiegazione nell’ipotesi che fibre destinate alla secrezione delle ghiandole salivari si saldino nel moncone periferico del nervo con fibre destinate alla secrezione delle ghiandole lacrimali. I movimenti associati intrafacciali suddescritti si manifestano anche nello spasmo del faciale idiopatico, dove si può anche osservare un movimento associato oculoauricolare: guardando forzatamente verso il lato opposto dello spasmo del faciale, si osserva uno spostamento verso l’indietro ed il basso dell’orecchio per contrazione del piccolo muscolo trasverso dell’orecchio innervato dal nervo faciale. Lo spasmo faciale può essere una sequela della paralisi del VII o comparire in maniera primitiva. Consiste inizialmente in una fine ed intermittente contrazione dell’orbicolare delle palpebre, che progressivamente si estende a tutti i muscoli innervati dal VII ed in particolar modo ai mm. retrattori dell’angolo della bocca (m. zigomatico, m. quadrato del labbro superiore). Nei casi più gravi tutta la muscolatura facciale è interessata.
DIAGNOSI TOPOGRAFICA NELLE PARALISI PERIFERICHE DEL FACIALE. – La lesione isolata del nucleo motorio del VII è estremamente rara e di regola associata alla compromissione di altri nervi cranici (VI paio) e di altre strutture intrapontine, senza turbe del gusto. La lesione in genere oltre al nucleo si estende alle fibre ed è rappresentata da lesioni vascolari ischemiche o da processi espansivi tumorali, ma anche da sclerosi a placche e da sarcoidosi. Anche nelle lesioni del nervo nella cavità cranica si osservano sempre altri segni associati come nella sindrome dell’angolo ponto-cerebellare. Nelle lesioni localizzate nel tratto compreso tra il foro acustico interno ed il ganglio genicolato, al deficit del faciale si associano compromissione dell’acustico, disturbi del gusto nei
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due terzi anteriori della lingua e della secrezione lacrimale e salivare. Nelle lesioni del canale del faciale i disturbi del gusto e della secrezione salivare esistono o meno a seconda che la lesione avvenga prima o dopo il punto di distacco della corda del timpano; se la lesione avviene a monte del ramo dello stapedio esiste, per paralisi di questo muscolo, un aumento dell’acutezza uditiva (iperacusia), specialmente per i toni bassi; se la lesione è a valle del foro stilo-mastoideo si osserva soltanto paralisi della muscolatura della faccia, che sarà parziale qualora la lesione sia a valle della divisione nelle due branche, superiore ed inferiore. Deficit delle sensibilità sono clinicamente evidenti in rari casi. Fenomeni sensitivi irritativi si riscontrano nella nevralgia del ganglio genicolato di Ramsay-Hunt. Compare spesso dopo un herpes zoster otico con eruzione a localizzazione nella conca auricolare e talora in un’area ristretta posteriormente al padiglione auricolare, qualche volta associata o seguita da una paralisi periferica del faciale. La sindrome consiste in attacchi dolorosi a tipo urente o a tipo di coltellata che si presentano con modalità intermittenti, localizzate a livello della conca e nella profondità del meato acustico. I dolori che talora si rilevano nella paralisi del faciale periferico a livello auricolare sarebbero dovuti a compromissione delle fibre sensitive. La paralisi periferica del faciale è in genere attribuibile ad una forma idiopatica, la cosiddetta paralisi a «frigore» di Bell (v. pag. 0000). Altre cause sono rappresentate da infezioni mastoidee, lesioni traumatiche, herpes zoster oticus; lesioni bilaterali sono relativamente frequenti nella sindrome di Guillain Barré (e variante di Miller Fisher) e nella borrelliosi (v. pag. 000). PARALISI CENTRALE – v. pag. 74.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
IX. N. glosso-faringeo C. Loeb Il n. glosso-faringeo ha funzioni efferenti somatiche speciali e viscerali generali; funzioni afferenti, viscerali speciali e generali, e somatiche generali. VIE EFFERENTI Fig. 7.45 - Componenti efferenti del n. glosso-faringeo (IX paio).
Le fibre efferenti fuoriescono dal bulbo nel solco dorsale all’oliva inferiore, attraversano il forame giugulare, discendono nella parete laterale del faringe. 1) Somatica speciale Le fibre derivano dal n. ambiguo (Fig. 7.44), situato nel bulbo medialmente alla radice discendente del V e al suo nucleo. Il nucleo ambiguo è un nucleo efferente viscerale speciale per il IX, X e XI paio dei nervi cranici.
Le fibre appartenenti al glosso-faringeo innervano il muscolo stilofaringeo che forma la parete laterale e superiore del faringe e insieme con le fibre del vago concorrono alla formazione del plesso faringeo, in cui si trovano anche fibre simpatiche che provengono dal simpatico cervicale (per la parte muscolare liscia). Si afferma spesso che il glosso-faringeo innerva il m. costrittore superiore del faringe, che permetterebbe la deglutizione dei cibi solidi. In effetti il plesso faringeo è formato da molte componenti, e in gran parte, dal vago, e non sembra possibile attribuire al glosso-faringeo l’innervazione del costrittore superiore. 2) Viscerale generale Le fibre nascono dal nucleo salivatorio inferiore e raggiungono il ganglio otico; fibre postgangliari a funzione secretoria e vasodilatatoria arrivano alla parotide (Fig. 7.45). VIE AFFERENTI 1) Viscerale speciale
Fig. 7.44 - Raffigurazione schematica del nucleo ambiguo nei primati. (Ridisegnato da Crosby, Humphrey, Lauer, Correlative Anatomy of the Nervous System, MacMillan, London, 1962).
Trasporta stimoli gustativi; le cellule di origine sono situate nel ganglio petroso o di Andersch o inferiore. La branca centrale costituisce un fascio, situato lateralmente al n. motore dorsale del vago, detto fascicolo o tratto solitario
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
che termina nel nucleo del tratto solitario. Di qui le fibre raggiungerebbero il talamo (parte mediale del n. ventrale posteriore), probabilmente attraverso il lemnisco mediale e i corpi mammillari (via gustativa secondaria). La branca periferica innerva il terzo posteriore della lingua, compreso il V linguale, e costituisce la via gustativa afferente (Figg. 7.8, 7.9). 2) Viscerale generale Trasporta impulsi sensitivi dalla porzione posteriore della lingua, dalla regione tonsillare, dalla tuba di Eustachio, dalla porzione nasale e orale del faringe e dal seno carotideo. Le cellule di origine si trovano nel ganglio petroso o inferiore situato a livello del forame giugulare. La branca centrale entra a far parte del tratto solitario e termina nel nucleo del tratto solitario (Fig. 7.9). 3) Somatica generale Vie somatiche generali afferenti sarebbero costituite da fibre che concorrono all’innervazione cutanea dell’orecchio. Le cellule di origine sono nel ganglio petroso superiore, la cui branca centrale raggiunge la radice discendente del V. Talora queste vie somatiche generali afferenti mancano.
Esame della funzione del glosso-faringeo La stimolazione della parete posteriore del faringe (con un bastoncino avvolto alla sua estremità da un batuffolo di cotone, oppure con lo stesso abbassalingua) provoca normalmente una contrazione del costrittore superiore, talora accompagnata da un conato di vomito (riflesso faringeo). Benché classicamente si ritenga che nel caso di lesione del nervo glosso-faringeo sia maggiormente perturbata la deglutizione per i solidi e nelle lesioni del n. vago, quella per i liquidi, per i motivi anatomici già ricordati (formazione del plesso faringeo) la deglutizione può
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essere esaminata sia facendo inghiottire un cibo solido che un liquido. Per dimostrare la funzionalità del muscolo costrittore superiore del faringe (anche se è discutibile la sua innervazione da parte del glossofaringeo) si chiede al soggetto, a bocca aperta e lingua abbassata, di emettere lungamente il suono della vocale «a». In caso di paralisi unilaterale del costrittore superiore la parete posteriore del lato leso si muove trasversalmente verso il lato sano, producendo un movimento a tipo tendina che scorre («segno della tendina» di Vernet). Lo stimolo per il riflesso faringeo utilizza le vie afferenti viscerali generali del IX, raggiunge il nucleo solitario e, attraverso neuroni intercalari, il nucleo ambiguo. Si ottiene quindi attraverso il plesso faringeo (IX e X paio) la contrazione del costrittore superiore del faringe e la chiusura dell’epiglottide. L’intervento della nausea e del vomito implica la messa in azione del n. motore dorsale del vago e di vie simpatiche. Per esaminare se è conservato il gusto al terzo posteriore della lingua si procede come già illustrato (v. pag. 210).
Sintomatologia da lesione del n. glosso-faringeo La lesione unilaterale produce la paralisi monolaterale del movimento di elevazione del faringe (muscolo stilo-faringeo) nonchè la scomparsa omolaterale del riflesso faringeo e la emianestesia del terzo posteriore della lingua, del faringe e del palato (Fig. 7.46). Si associa inoltre anestesia nella zona attorno al meato acustico esterno. Nelle lesioni del tronco nervoso l’ageusia è limitata al terzo posteriore della lingua, mentre nelle lesioni del fascicolo solitario l’ageusia interessa tutta l’emilingua omolaterale. La lesione sopranucleare, sempre bilaterale, si verifica soprattutto nella paralisi pseudobulbare, o sindrome soprabulbare (v. pag. 000).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e funzioni afferenti: somatiche, viscerali speciali e generali. Al nervo vago è associata la cosiddetta branca interna dell’XI o accessorio. L’XI infatti è classicamente descritto composto di due parti: branca esterna o n. accessorio propriamente detto e branca interna. La fusione delle due branche avviene a livello del forame giugulare, ma poco dopo si assiste alla nuova divisione tra ramo esterno o accessorio e ramo interno che si associa al n. vago.
VIE EFFERENTI Fig. 7.46- Territorio sensitivo del n. glosso-faringeo (IX paio) e del n. vago (X paio) a livello delle fauci.
Le lesioni nucleari intrabulbari si ritrovano nella sclerosi laterale amiotrofica, nelle lesioni demielinizzanti, nelle lesioni vascolari, in cui si associano altri segni. Le lesioni del nervo glossofaringeo si verificano nella sindrome dell’angolo ponto-cerebellare, nelle lesioni del forame giugulare (tumori glomici, fratture della base), nelle lesioni retrofaringee e dello spazio retroparotideo, nella «nevralgia del glosso-faringeo» (v. pag. 000). Il glosso-faringeo ed il vago sono intimamente correlati sia a livello centrale che nei territori di innervazione periferica ed entrambi svolgono una funzione di vasoregolazione (v. pag. 000).
Funzione del gusto (v. pag. 211-223)
X. N. vago C. Loeb Il n. vago è un nervo misto; ha funzioni efferenti: somatiche speciali e viscerali generali;
1) Somatica speciale Le fibre originano dal n. ambiguo e in particolare dalla parte intermedia e più estesa del complesso nucleare, emergono dal solco retroolivare (dell’oliva inferiore) e contribuiscono, in associazione col n. glosso-faringeo, alla costituzione del plesso faringeo (v. IX paio), e alla innervazione del palato molle, del laringe e dei muscoli laringei (Fig. 7.47). Il palato molle è costituito dai muscoli peristafilino interno e palato-stafilino che hanno funzione di elevatori del velo palatino e dell’ugola. Il laringe possiede, attraverso i muscoli e le corde vocali una funzione respiratoria e fonatoria. Gruppi muscolari sinergici regolano la sua azione: muscoli adduttori o costrittori (cricoaritenoidei laterali; tiroaritenoidei), muscoli abduttori o dilatatori (cricoaritenoidei posteriori), muscoli tensori delle corde vocali (cricotiroidei). Il nervo laringeo superiore che si stacca dalla parte superiore del ganglio plessiforme innerva il muscolo cricotiroideo, mentre il n. laringeo inferiore, che si stacca dal tronco del vago a livello della parte alta del torace (circondando quello di destra l’arteria succlavia e quello di sinistra l’arco aortico) innerva tutti i restanti muscoli laringei (Fig. 7.48).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.47 - Schema delle componenti del n. vago (X paio). Componenti afferenti somatiche per il tratto spinale e il nucleo del X; componenti afferenti viscerali speciali per il nucleo del fascicolo solitario. Le componenti efferenti provengono dal n. ambiguo (viscerali speciali) e dal n. motore dorsale del X (viscerali generali).
2) Viscerale generale
VIE AFFERENTI
Le fibre nascono dal n. motore dorsale situato a livello bulbare lateralmente al nucleo del XII, sotto il pavimento del IV ventricolo. Il nucleo contiene le cellule di origine delle fibre pregangliari dell’accessorio e del vago che terminano nei gangli dei plessi periferici come rami toracici e addominali: a) plesso faringeo, che fornisce rami alle ghiandole faringee e alle fibre muscolari lisce dell’esofago a funzione secretoria e motoria; b) plesso bronchiale e polmonare, che forniscono rami a funzione motoria e forse secretoria alla trachea, bronchi e polmoni; c) plesso cardiaco, che fornisce rami per il tessuto muscolare degli atrii e dei ventricoli; d) plesso gastrico, che fornisce rami allo stomaco; e) plesso epatico, che fornisce rami al fegato e alla cistifellea; f) plesso celiaco; rami vagali, insieme a rami simpatici, forniscono fibre al duodeno, pancreas e intestino fino al colon trasverso (Figg. 7.47, 7.48).
1) Somatica generale Le fibre afferenti a funzione somatica nascono dal ganglio giugulare o superiore. La branca periferica si porta attraverso il ramo auricolare del vago all’area cutanea attorno al meato acustico esterno (conca del padiglione auricolare) (Fig. 7.49). La branca centrale raggiunge la radice spinale o radice discendente del V. Esisterebbero anche afferenze somatiche propriocettive vagali (specie provenienti dai muscoli laringei) che terminerebbero nel n. ambiguo. 2) Viscerale speciale Il vago fornisce poche fibre ai bottoni gustativi dell’epiglottide. Le fibre nascono dal ganglio nodoso o inferiore; la branca centrale va al fascicolo solitario. La funzione gusta-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
tiva del vago è di scarsissima importanza clinica. 3) Viscerale generale Tutti gli organi che ricevono innervazione vagale efferente inviano impulsi afferenti al centro, attraverso fibre che originano dal ganglio nodoso o inferiore. La branca centrale va a costituire il fascicolo solitario e termina nel nucleo del fascicolo solitario, che si trova lateralmente al n. motore dorsale (Fig. 7.47). Questa via afferente viscerale generale costituisce la porzione afferente dell’arco riflesso viscerale vagale.
Il tronco del nervo lascia il bulbo a livello della fossetta retroolivare e fuoriesce dal cranio attraverso il foro giugulare. A livello del ganglio nodoso riceve le fibre della radice cranica dell’XI, discende lungo il collo unitamente al n. accessorio ed alla vena giugulare interna ed è quindi incrociato dal nervo ipoglosso che si porta alla lingua. Seguendo quindi la parete latero-posteriore della trachea giunge ai bronchi cui invia i primi rami, forma poi il plesso esofageo; attraversa il diaframma, costituisce il plesso gastrico, per portarsi infine al ganglio celiaco e ai visceri. Le fibre sopranucleari per il n. ambiguo provengono dall’opercolo rolandico, decorrono nel
Fig. 7.48 - Innervazione viscerale speciale e viscerale generale del n. vago.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
ginocchio della capsula interna, nella parte media del peduncolo cerebrale, e come fascio cortico-bulbare, terminano appunto al nucleo ambiguo omo- e controlaterale. Sono state ipotizzate nell’uomo e dimostrate nell’animale fibre sopranucleari per il nucleo motore dorsale, d’origine ipotalamica con funzioni vegetative di controllo.
Esame della funzione del vago L’esame si riferisce quasi esclusivamente alla componente efferente viscerale speciale e generale (motrice) e afferente somatica (sensitiva cutanea), poichè la funzione vegetativa è completamente integrata nella funzione del sistema vegetativo. L’esame dei muscoli del palato molle viene eseguito invitando il paziente ad emettere suoni prolungati (ad esempio «a»). Normalmente il palato molle e l’ugola si sollevano, ma in caso di lesione unilaterale si osserva il mancato sollevamento del lato leso e la deviazione
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dell’ugola verso il lato sano. Nelle lesioni bilaterali il palato molle non si solleva, manca il riflesso del velo palatino (toccando lievemente il palato molle si ottiene una contrazione ed elevazione dello stesso), vi è rigurgito dei cibi nel naso, specie per i liquidi, poichè il palato molle non occlude il naso-faringe, e per gli stessi motivi la voce assume un timbro nasale (rinolalia). L’esame dei muscoli faringei dimostra un abbassamento della parete faringea e l’assenza di riflesso. Vi è anche disfagia più intensa per i liquidi che per i solidi e spesso per quelli semisolidi come la purea, ecc. L’esame dei muscoli laringei deve essere eseguito a mezzo della laringoscopia. Quando la lesione è completa, la corda vocale è, in genere, in posizione intermedia tra l’adduzione e l’abduzione (posizione cadaverica) e la voce è disfonica. Il disturbo sensitivo si ricerca a livello del palato, faringe, laringe e della conca auricolare (Figg. 7.46 - 7.49).
Fig. 7.49 - A) Anatomia descrittiva del padiglione dell’orecchio. B) Schematizzazione proposta per l’innervazione sensitiva del padiglione dell’orecchio (vedi pag.191).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sintomatologia da lesione del vago La lesione bilaterale del vago determina la morte immediata. La lesione unilaterale produce paralisi ipsilaterale dei muscoli del palato, del laringe e del faringe (emiplegia faringo-laringo-palatina). Il palato molle si presenta abbassato dal lato leso per cui la voce ha un timbro nasale; nella emissione forzata di vocali aperte il faringe presenta uno spostamento verso il lato sano «segno della tendina o di Vernet». La corda vocale ipsilaterale all’esame laringoscopico è in posizione cadaverica e la voce è disfonica (sindrome del n. laringeo inferiore). Se la lesione del vago è parziale può interessare solo il muscolo adduttore della corda vocale. Sempre nelle lesioni unilaterali si può verificare tachicardia e diminuzione della frequenza respiratoria. Si noterà anche anestesia dell’emipalato, emifaringe ed emilaringe omolaterali (per cui dallo stesso lato della lesione del vago saranno aboliti il riflesso palatino o faringeo) e della conca del padiglione auricolare. Nelle lesioni sopranucleari una lesione bilaterale si traduce in una sindrome soprabulbare con disfagia e disartria. Le lesioni nucleari sono causate da patologie ischemiche (v. sindrome laterale bulbare, pag. 486), tumorali o degenerative (sclerosi laterale amiotrofica) e di regola sono associate a segni di compromissione delle strutture circostanti. Nelle lesioni della fossa posteriore (sindrome di Guillain-Barré, tumori del glomo giugulare o metastatici) il vago può essere colpito all’emergenza bulbare, insieme al IX, XI e XII nervo cranico. Il tronco nervoso può essere colpito a livello del collo e del torace per processi espansivi (tumori, aneurismi, linfonodi) o traumi. La lesione del nervo laringeo ricorrente è causata da un aneurisma dell’arco aortico, da linfonodi metastatici o tumori mediastinici; la voce è classicamente bitonale, oltre che ridotta
nel volume e stridula nelle fasi inspiratorie, per paresi di una corda vocale.
XI. N. accessorio spinale C. Loeb È un nervo esclusivamente efferente somatico (motorio). Il nucleo dell’accessorio consta di due parti nettamente divise: una parte situata nel bulbo, appartenente al nucleo ambiguo (Fig. 7.44), la quale dà origine alle fibre accessorie del vago (parte craniale); una parte accessoria spinale (radice spinale) che origina da un nucleo proprio (forse continuazione caudale del nucleo ambiguo) situato nelle corna anteriori del midollo cervicale da C1 a C5-C6 (Fig. 7.50). La porzione accessoria spinale, fuoriuscita dal midollo, si porta in alto decorrendo nello
Fig. 7.50 - Schema delle componenti del n. accessorio spinale (XI paio).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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speco vertebrale, entra quindi nel cranio attraverso il forame occipitale e si accolla alla porzione accessoria del vago. Le due porzioni, spinale e craniale, formano quindi il tronco dell’XI che esce dalla cavità cranica attraverso il foro giugulare, insieme col vago. Il nervo quindi, si suddivide in un ramo interno, costituito dalla parte craniale accessoria, associato al vago e già descritto; e in un ramo esterno, parte spinale, che, seguendo la vena giugulare, si porta ad innervare il muscolo sternocleidomastoideo e la parte superiore del trapezio. In particolare, al trapezio giungono fibre della porzione caudale del nucleo spinale, e allo sternocleidomastoideo fibre della porzione rostrale di tale nucleo.
Lo sternocleidomastoideo ha la funzione di far ruotare lateralmente il capo e, in caso di paralisi unilaterale, la rotazione del capo contro resistenza permette di palpare una netta diminuzione di consistenza a livello dell’inserzione sternale del muscolo (fenomeno della corda di Babinski) (Fig. 7.51). Il trapezio ha la funzione di elevare e spostare all’indietro la spalla; si esamina facendo sollevare la spalla contro resistenza, oppure invitando il paziente ad estendere gli arti superiori davanti a sé, un po’ sotto la linea orizzontale facendo combaciare il palmo delle due mani. In caso di lesione unilaterale il paziente non può sollevare le spalle ed inoltre, eseguendo la manovra sopradescritta, le dita della mano del lato affetto si portano più avanti della mano del lato sano.
Esame della funzione dell’accessorio
Sintomatologia da lesione del nervo accessorio-spinale
Le manovre semeiotiche qui riferite esplorano soltanto il ramo esterno (spinale), poiché quello interno che si accolla al vago, viene ovviamente esaminato con quello.
Fig. 7.51 - Assenza, visibile all’ispezione, del corpo muscolare dello sternocleidomastoideo e del trapezio per lesioni dell’accessorio spinale di destra.
La lesione sopranucleare determina soltanto un lieve abbassamento della spalla controlaterale, per paresi del trapezio. La lesione nucleare provoca paralisi ed atrofia dei due muscoli innervati determinando un caratteristico appiattimento del profilo della spalla ed un aumento della profondità della fossetta sopraclaveare omolaterale (segno di Sicard). La parte inferiore del trapezio innervata dal quarto e quinto nervo cervicale è indenne. La lesione bilaterale dell’XI determina una caduta all’indietro della testa per deficienza dei due muscoli sternocleidomastoidei. Nelle lesioni sopranucleari, il trapezio è paretico dal lato plegico nelle lesioni emisferiche; crisi epilettiche focali (area 8 e 9 in particolare) possono determinare rotazione del capo controlateralmente alla lesione. La lesione nucleare presenta frequenti associazioni di segni bulbari o cervicali alti (siringomielia e tumori); sono presenti atrofia e fascicolazioni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
A livello del collo, la lesione dell’accessorio è conseguenza di complicazioni chirurgiche, di traumi, di radioterapia. Una lesione bilaterale del trapezio si riscontra nella miastenia grave, nella polimiosite ed in alcune distrofie muscolari.
XII. N. ipoglosso C. Loeb È un nervo efferente somatico (a funzione motoria per i muscoli della lingua). Il nucleo dell’ipoglosso è situato a livello bulbare al di sotto del pavimento del IV ventricolo, vicino alla linea mediana. Le fibre che originano dal nucleo si portano ventralmente, accollate alla parte esterna del lemnisco mediale, e fuoriescono dal bulbo a livello del solco laterale anteriore tra la piramide e l’oliva (Fig. 7.52).
Il nervo esce dal cranio attraverso il forame condiloideo, si porta verso il basso formando un arco a convessità caudale e durante il suo decorso verso la radice della lingua emette alcune collaterali che anastomizzandosi con fibre del vago, del ramo linguale del V e dei primi nervi cervicali, costituiscono l’ansa dell’ipoglosso, da cui partono fibre per l’innervazione dei muscoli sottoioidei (sternoioideo, sternotiroideo, omoioideo). Il nucleo dell’ipoglosso consiste di distinti raggruppamenti cellulari per ogni singolo muscolo (distribuzione somatotopica) le cui fibre efferenti si distribuiscono alla muscolatura intrinseca dell’emilingua corrispondente e ai muscoli stiloglosso, ioglosso e genioglosso. Il muscolo genioglosso, con le sue fibre che si incrociano sulla linea mediana, permette la protrusione della lingua. Se la sua azione viene a mancare unilateralmente la lingua protrusa sarà deviata. Le fibre sopranucleari dell’ipoglosso provengono dalla parte più caudale dell’area motrice centrale (opercolo rolandico), attraversano il ginocchio della capsula interna e la parte media del peduncolo cerebrale e, come via corticobulbare, si portano ai nuclei dell’ipoglosso omo e controlaterale. Il nervo ipoglosso convoglia anche fibre simpatiche a funzione vaso-costrittrice, che raggiungono il nervo attraverso un’anastomosi che proviene dal ganglio cervicale superiore o dal plesso carotideo.
Esame della funzione dell’ipoglosso
Fig. 7.52 - Schema dell’origine e dell’innervazione periferica del nervo ipoglosso (XII paio).
Consiste nella valutazione della funzione motoria della lingua. L’esame della lingua nel cavo orale ci può informare se esiste deviazione, se vi siano segni di atrofia, se siano presenti fibrillazioni o fascicolazioni. L’eventuale palpazione permette di apprezzarne la consistenza e valutare meglio la presenza di una sospetta atrofia. Si invita quindi il paziente a protrudere la lingua, ad eseguire movimenti di lateralità verso
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
l’alto e il basso e a spingere la lingua contro la parete interna della guancia, a bocca chiusa. La forza con cui vengono eseguiti questi movimenti può essere valutata anche contro resistenza. In caso di lesione unilaterale del XII, la lingua in posizione di riposo sul pavimento buccale, appare mediana con la punta deviata verso il lato sano, per azione del muscolo stiloglosso che «tira» verso il lato sano. Al contrario la lingua protrusa devia verso il lato della lesione per azione del muscolo genio-glosso controlaterale, che «spinge» l’emilingua all’infuori.
Sintomatologia da lesione del n. ipoglosso La lesione sopranucleare non produce atrofia, la lingua protrusa devia semplicemente dal lato opposto alla lesione sopranucleare, a causa dell’azione del muscolo genioglosso ipsilaterale (non leso poiché riceve un’innervazione dall’emisfero controlaterale) che come abbiamo visto «spinge» l’emilingua verso il lato opposto (Fig. 7.53).
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Nella lesione nucleare, l’emilingua corrispondente diventa atrofica, raggrinzita, flaccida e presenta fascicolazioni. La paralisi nucleare bilaterale determina atrofia, fascicolazioni e disturbi della motilità a carico di tutta la lingua con conseguente compromissione dell’articolazione della parola e del primo tempo della deglutizione. La lesione nucleare si distinguerebbe, secondo alcuni AA., dalla lesione delle radici del nervo perchè nel primo caso è compromesso anche il muscolo orbicolare della bocca; sembra infatti che la parte superiore del nucleo dell’ipoglosso fornisca al nervo facciale fibre destinate a tale muscolo 21. Le lesioni sopranucleari sono rappresentate da lesioni delle vie cortico-bulbari e la lingua devia verso il lato plegico; nella sindrome soprabulbare la lesione è bilaterale. La causa è spesso di genesi vascolare e sono presenti segni associati da lesione di vie lunghe (emiplegia brachio-crurale controlaterale e perdita del senso di posizione e vibratorio controlaterali). A livello periferico, il XII presenta spesso lesioni combinate con altri nervi cranici (IX, X), dovute soprattutto a tumori o traumi.
Sommario dei dati essenziali sulla funzione dei nervi cranici I. NERVO OLFATTORIO Dall’epitelio olfattorio nelle cavità nasali, partono fibre che raggiungono il bulbo olfattorio, di qui attraverso la stria olfattoria la-
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Fig. 7.53 - In caso di paresi sopranucleare del XII, la lingua protrusa devia verso il lato opposto alla lesione, per azione del muscolo genio-glosso ipsilaterale.
Esistono alcune situazioni che potrebbero simulare una lesione del n. ipoglosso. L’aprassia della lingua è presente quando il malato, pur comprendendo l’ordine, non riesce volontariamente a protrudere o a muovere la lingua mentre questa può compiere movimenti automatici di leccamento (scatenati da zucchero sulle labbra o dalla presentazione di un francobollo).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
terale raggiungono la corteccia del giro ippocampale e l’uncus dell’ippocampo (area olfattiva primaria). (L’area olfattiva primaria è in connessione con il n. medio-dorsale del talamo, il n. amigdaloideo basolaterale, l’area entorinale e la porzione rostro-caudale dell’ipotalamo). Funzione: olfattiva. II. NERVO OTTICO Dalle cellule gangliari della retina il nervo ottico raggiunge il chiasma. Qui le fibre si decussano, ma solo in parte e precisamente le fibre provenienti dalla metà nasale di ciascuna retina. Dopo il chiasma le fibre proseguono come tratto ottico e raggiungono il corpo genicolato laterale e di qui, attraverso le radiazioni ottiche, la corteccia striata, nella superficie mediale del lobo occipitale. Funzione: visiva. III. NERVO OCULOMOTORE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO MESENCEFALICO) Origine apparente alla superficie mediale del peduncolo cerebrale. È costituito da: A. – Vie efferenti somatiche: origine reale nei nuclei del n. oculomotore (tegmento mesencefalico) dello stesso lato e in parte del lato opposto. Funzione: innervazione di tutti i muscoli oculomotori estrinseci, salvo il retto laterale e l’obliquo superiore. B. – Vie efferenti viscerali generali: dal n. di Edinger Westphal si raggiunge il ganglio ciliare e di qui con le fibre post-gangliari (nervi ciliari brevi) i muscoli intrinseci oculari. Funzione: costrizione del muscolo sfintere irideo. (Fibre afferenti somatiche generali: a funzione propriocettiva, con partenza dai muscoli oculari).
IV. NERVO TROCLEARE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO MESENCEFALICO) Origine apparente: velo midollare anteriore (l’unico nervo cranico con origine apparente sulla superficie dorsale). A. – Fibre efferenti somatiche: dal nucleo trocleare nel tegmento mesencefalico le fibre terminano nel muscolo obliquo superiore (anche qui esisterebbero fibre propriocettive afferenti). Funzione: innervazione del muscolo obliquo superiore o grande obliquo. V. NERVO TRIGEMINO (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO PONTINO) Origine apparente a livello della superficie laterale della porzione mediana del ponte. A. – Vie afferenti somatiche generali: cellule di origine nel ganglio di Gasser (cellule a T), branca periferica alla cute della faccia e del capo anteriormente ad una verticale passante per il meato acustico, branca centrale al nucleo sensitivo principale nel ponte e alla radice discendente. (Esistono fibre somatiche generali che probabilmente dal n. mesencefalico raggiungono i muscoli masticatori, con funzioni propriocettive). Funzione: sensibilità superficiale alla cute della faccia e del capo. B. – Vie efferenti somatiche speciali: dalle cellule del nucleo motorio, nel ponte, le fibre vanno ad innervare i muscoli masticatori (temporale, massetere, pterigoideo interno ed esterno). Funzione: innervazione muscoli masticatori. VI. NERVO ABDUCENTE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO PONTINO) Origine apparente al margine caudale del ponte. A. – Vie efferenti somatiche: il nucleo d’origine si trova nel ponte e le fibre raggiungono il
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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muscolo retto laterale dell’occhio. (Esistono fibre afferenti propriocettive). Funzione: innervazione del muscolo retto laterale.
vanno al nucleo del fascicolo solitario, i prolungamenti periferici alla cute del padiglione auricolare. Funzione: sensibilità padiglione auricolare.
VII. NERVO FACIALE E INTERMEDIARIO DI WRISBERG (NUCLEI DI ORIGINE A LIVELLO PONTINO)
VIII. NERVO ACUSTICO (COCLEO-VESTIBOLARE) (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE; N. VEST. SUP.: PONTE)
Origine apparente al margine inferiore del ponte. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: cellule di origine dal n. del faciale, nel ponte; le fibre vanno ad innervare i muscoli della faccia (m. frontale, orbicolare della palpebra superiore e tutti i muscoli della faccia, escluso il massetere, ed inoltre il platisma, il ventre posteriore del digastrico e lo stiloioideo). Funzione: innervazione dei muscoli della faccia (con esclusione dei muscoli masticatori); – viscerali generali: le cellule d’origine sono rappresentate dal n. salivatorio superiore, situato alla giunzione bulbo-pontina. Attraverso il nervo intermediario e la corda del timpano, le fibre raggiungono il ganglio sottomascellare provvedendo all’innervazione delle ghiandole salivatorie sottomascellari e sublinguali; attraverso il nervo intermediario, il ganglio genicolato, il ganglio sfenopalatino, il nervo zigomatico e il nervo lacrimale, le fibre giungono alle ghiandole lacrimali. Funzione: azione eccitosecretiva delle ghiandole salivari e lacrimali. B. – Vie afferenti: – viscerali speciali: origine dalle cellule del ganglio genicolato. Ramo periferico attraverso la corda del timpano e il n. linguale ai due terzi anteriori della lingua, per funzione gustativa. Ramo centrale attraverso l’intermediario al nucleo del tratto solitario, a livello bulbare. Funzione: gustativa nei due terzi anteriori della lingua. – somatiche generali: dalle cellule a T del ganglio genicolato, i prolungamenti centrali
Origine apparente al margine laterale inferiore del ponte. Nervo cocleare. – Vie afferenti speciali somatiche. Nascono dalle cellule a T del ganglio spirale della coclea. Ramo periferico all’organo spirale del Corti, ramo centrale ai nuclei cocleari ventrali e dorsali. Di qui, attraverso il corpo genicolato mediale, alla circonvoluzione temporale (giro temporale trasverso). Funzione: udito. Nervo vestibolare. – Vie afferenti speciali somatiche. Dal ganglio vestibolare di Scarpa si diparte un ramo periferico per l’epitelio sensoriale del labirinto e un ramo centrale che raggiunge i nuclei vestibolari, a loro volta connessi con il cervelletto, nuclei del tronco cerebrale, formazione reticolare, midollo spinale. Dai nn. vestibolari si originerebbero vie sopranucleari che raggiungono il lobo temporale. Funzione: via afferente fondamentale per i movimenti oculari riflessi, e modificazioni riflesse del tono muscolare in rapporto alla posizione del capo. IX. NERVO GLOSSO-FARINGEO (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE) Origine apparente dal solco laterale posteriore del bulbo. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: dal nucleo di origine (nucleo ambiguo) le fibre si portano al muscolo stilofaringeo, e con le fibre del vago costitui-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
scono il plesso faringeo (per i mm. costrittori del faringe); Funzione: contrazione dei muscoli stilofaringeo, costrittore superiore del faringe; – viscerali generali: originano dal n. salivatorio inferiore nel bulbo e attraverso il ganglio otico raggiungono la parotide. Funzione: secrezione ghiandola parotide. B. – Vie afferenti: – viscerali speciali: originano dal ganglio petroso o di Andersch, il cui ramo centrale raggiunge il nucleo del tratto solitario e di qui il talamo ventrale postero-mediale e i corpi mammillari. Il ramo periferico raggiunge il terzo posteriore della lingua (via gustativa). Funzione: gusto per il terzo posteriore della lingua; – viscerali generali: dal ganglio petroso la branca centrale va al n. del tratto solitario, la branca periferica trasporta impulsi sensitivi dalla porzione posteriore della lingua, porzione nasale e orale del faringe, regione tonsillare. Funzione: sensibilità porzione posteriore della lingua, regione tonsillare, area nasale e faringea orale. X. NERVO VAGO Origine apparente dal solco postero-laterale del bulbo. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: dal n. ambiguo nel bulbo, contribuiscono con il IX alla costituzione del plesso faringeo per i mm. costrittori del faringe (superiore, medio e inferiore), del palato molle (m. peristafilino e palato-stafilino che elevano il velo palatino e l’ugola) e del laringe. Funzione: contrazione dei muscoli costrittori del faringe, dei muscoli del palato molle e del laringe; – viscerali generali. Le fibre nascono dal n. motore dorsale del vago, a livello bulbare, e raggiungono i gangli dei plessi periferici come rami toracici (plesso faringeo, bronchiale, cardiaco, gastrico, epatico).
Funzione: attività vegetativa. B. – Vie afferenti: – somatica generale. Dal ganglio giugulare la branca periferica raggiunge l’area cutanea attorno al meato acustico esterno (conca del padiglione auricolare); la branca centrale raggiunge la radice discendente del V. Funzione: sensibilità conca del padiglione auricolare; – viscerale generale. Tutti gli organi che ricevono innervazione efferente inviano impulsi centripeti attraverso fibre che rappresentano la branca periferica del ganglio nodoso. La branca centrale termina al n. del fascicolo solitario. Funzione: attività vegetativa. XI. NERVO ACCESSORIO SPINALE (NUCLEO D’ORIGINE: COLONNA GRIGIA DA C1 A C6) Origine apparente dal solco postero-laterale del bulbo. La porzione craniale si associa alle vie efferenti del vago. A. – Vie efferenti: – somatiche: la porzione spinale origina in un nucleo situato nelle corna anteriori di C1-C5-C6 e raggiunge il m. sternocleidomastoideo e la porzione superiore del trapezio. Funzione: contrazione muscoli sternocleidomastoideo e trapezio. XII. NERVO IPOGLOSSO (NUCLEO D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE) Origine apparente dal solco laterale anteriore. A. – Vie efferenti: – somatiche: dal nucleo a livello bulbare originano fibre che innervano i muscoli sottoioidei (ventre posteriore del digastrico, sternoioideo, sternotiroideo, omoioideo; tiroioideo) e della lingua (stiloglosso, genioglosso, ioglosso). Funzione: contrazione muscoli sottoioidei e della lingua.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Lesioni combinate dei nervi cranici Verranno brevemente indicate in questo paragrafo le lesioni combinate per lesione periferica, rimandando al capitolo sulle sindromi del tronco encefalico altri quadri da lesione dei nuclei, delle vie sopranucleari o delle fibre periferiche nel loro breve tragitto intraparenchimale. – SINDROME
DELLA PARETE LATERALE DEL SENO
CAVERNOSO. – Nella varietà posteriore sono lesi il
VI, il IV ed il III e le branche sensitive del V, nella varietà media ed anteriore, oltre i tre nervi oculomotori, sono lese solo la prima e raramente la seconda branca del trigemino. L’occhio può mostrare segni di tumefazione da ridotto ritorno venoso dall’orbita al seno cavernoso. La causa va ricercata in tumori ipofisari, meningiomi infraclinoidei, aneurismi della carotide interna, trombosi del seno cavernoso (Fig. 7.54), fistola carotido-cavernosa spontanea o traumatica. La dia-
Fig. 7.54 - Schema della disposizione topografica dei nervi cranici a livello del seno cavernoso.
gnosi differenziale si pone anche con la sindrome di Tolosa-Hunt, patologia infiammatoria retrorbitaria che risponde alla terapia steroidea. – SINDROME DEL FORO LACERO ANTERIORE. – Coincide con la sindrome precedente cui si aggiunge la compromissione del nervo grande petroso superficiale che si manifesta con la lacrimazione intensa e precoce (Fig. 7.55).
Fig. 7.55 - A sinistra: nervi cranici visti sulla base cranica; a destra: in evidenza i fori della base cranica attraverso cui passano i nervi cranici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– SINDROME DELLA FESSURA SFENOIDALE. – Caratterizzata dalla lesione del III, IV e VI e della branca oftalmica del trigemino. Si osserva in fratture della piccola ala dello sfenoide, aneurismi carotidei, tumori, specie meningiomi (Fig. 7.55). – SINDROME DELL’APICE ORBITARIO. – Oltre al III, al IV e VI e prima branca del trigemino è presente anche compromissione del nervo ottico con amaurosi progressiva ed atrofia ottica. Si osserva per cause simili alle precedenti (Fig. 7.55). – SINDROME PARASELLARE. – Attualmente la sindrome della fessura sfenoidale o dell’apice orbitario, di genesi non traumatica, è appunto definita sindrome parasellare o oftalmoplegia dolorosa. Ha netta prevalenza femminile, nell’età media o matura, modalità d’insorgenza acuta; consiste in un deficit dei nn. cranici dal II al VI con dolore fronto-orbitario che spesso costituisce il primo sintomo.
È dovuta a genesi vascolare, infiammatoria, diabetica, tumorale (Fig. 7.55). – SINDROME DI GARCIN. – Lesione unilaterale di gran parte dei nervi cranici (dal III al XII). Talora tutti i nervi cranici di un lato sono interessati (Fig. 7.56). In genere è dovuta ad un sarcoma della base o ad un tumore infiltrante della rinofaringe. – SINDROME DI GRADENIGO (sindrome dell’apice della rocca). – È caratterizzata da paralisi del VI e da lesione del trigemino che causa una nevralgia atipica. È conseguenza di un’alterazione infiammatoria (otite purulenta) o di una frattura dell’apice della rocca (Fig. 7.56). Ha un elevato valore localizzatorio ma è oggi estremamente rara. – SINDROME DELL’ANGOLO PONTO-CEREBELLARE. – Consiste in lesione dell’VIII, del V e del VII paio dei nervi cranici cui si aggiungono, in genere successivamente, segni cerebellari (v. pag. 000).
Fig. 7.56 - I nervi cranici visti sulla base dell’encefalo.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Nello stadio successivo, si aggiunge la lesione del nervo abducente e, a causa della compressione sul ponte, atassia omolaterale; a questo punto il paziente lamenta costantemente una intensa cefalea. La sindrome è dovuta a lesioni espansive, in genere tumorali (neurinoma dell’acustico, meningioma, cisti epidermoidi). – SINDROME DI TAPIA. – Si riferisce a paralisi del X e del XII, e talora dell’XI. La lesione colpisce l’ipoglosso e il vago nel punto in cui i due nervi si incrociano nel triangolo faringo-mascellare, al di sotto del ganglio plessiforme (da cui emergono i rami faringei). Si ha quindi emiparesi linguale e paralisi del n. laringeo ricorrente con voce bitonale (Fig. 7.56). La lesione è in genere di genesi traumatica. – SINDROME DEL FORO LACERO POSTERIORE O DI VERNET. – Sono lesi il IX, X, XI paio, che fuoriescono dal cranio attraverso il foro lacero posteriore. La sintomatologia è costituita da emi-anestesia del palato, faringe e laringe, paralisi della corda vocale e del palato, del trapezio e dello sternocleidomastoideo, perdita del gusto nel terzo posteriore della lingua. La genesi è in genere da ascrivere a traumi o a tumori del glomo giugulare (Fig. 7.55). – SINDROME DI SICARD-COLLET.– Per lesione del condilo e del foro lacero posteriore aggiunge alla sindrome precedente di Vernet anche il XII paio con emiparesi linguale. Anche questa sindrome è in genere dovuta a traumi o ferite d’arma da fuoco (Fig. 7.55). – SINDROME DI VILLARET. – Consiste in una sindrome di Sicard-Collet (IX, X, XI, XII) che estendendosi allo spazio retroparotideo, interessa il simpatico cervicale e comporta una sindrome di Claude Bernard-Horner (miosi, enoftalmo, restringimento della rima palpebrale) (Fig. 7.55). La genesi è in genere traumatica, ma anche tumorale.
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Nervi spinali La funzione e la patologia dei nervi spinali sono trattate a pag. 000
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Funzioni del sistema nervoso vegetativo
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8. Anatomia e funzioni del sistema nervoso vegetativo A. Schenone
La definizione di sistema nervoso vegetativo, spesso indicato come «sistema autonomo» o «sistema simpatico» o «sistema nervoso involontario», non è semplice. Il sistema nervoso vegetativo, che può essere considerato parte sia del sistema nervoso centrale che del sistema nervoso periferico, ha la funzione di regolare l’attività degli organi viscerali e di controllare l’omeostasi interna. È quindi un sistema essenzialmente efferente che innerva i muscoli lisci, il muscolo cardiaco, le ghiandole (Pick, 1970). Sebbene il sistema nervoso vegetativo sia classicamente considerato un sistema efferente puro o motorio, esso comprende anche fibre afferenti rappresentate dalla branca periferica dei prolungamenti a T dei gangli spinali, che ricevono informazioni dai recettori viscerali. Il prolungamento centrale entra nel midollo attraverso le radici posteriori (Fig. 8.1) e veicola le informazioni relative alle funzioni viscerali ai centri vegetativi nel sistema nervoso centrale.
Fig. 8.1 - Arco riflesso simpatico con fibre afferenti e fibre efferenti pre- e post-gangliari.
Attraverso questa via si realizzano i riflessi vegetativi che garantiscono risposte, talora anche molto rapide, a modificazioni dell’ambiente interno e assicurano il mantenimento dell’omeostasi viscerale. Il sistema efferente vegetativo è costituito da centri localizzati nel sistema nervoso centrale (tronco encefalico e midollo spinale), detti neuroni pregangliari che, attraverso l’assone, detto fibra pregangliare, stabiliscono un contatto sinaptico con neuroni postgangliari localizzati al di fuori del sistema nervoso centrale, nei gangli simpatici o direttamente nella parete dei visceri da loro innervati. Il sistema nervoso vegetativo si distingue in sistema simpatico o ortosimpatico e sistema parasimpatico (Shields, 1993).
Sistema simpatico I corpi cellulari dei neuroni pregangliari che compongono il sistema simpatico efferente sono localizzati nelle corna intermediolaterali del midollo spinale toracico e dei due primi segmenti lombari. Le fibre pre-gangliari (mielinizzate) escono dal midollo attraverso le radici anteriori e quindi, mediante i rami comunicanti bianchi, raggiungono la catena gangliare posta simmetricamente ai lati della colonna vertebrale (gangli paravertebrali) ove contraggono sinapsi con i neuroni di secondo ordine (neuroni postgangliari). La catena gangliare di ogni lato comprende 3 gangli cervicali, 10-12 gangli toracici, 3-5 gangli lombari e 4-5 gangli sacrali (Fig. 8.2). Le fibre pregangliari talvolta contrag-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 8.2 - Innervazione smpatica differente
gono sinapsi con neuroni postgangliari localizzati in gangli adiacenti al loro livello di uscita, ma più spesso si distribuiscono a gangli di segmenti superiori o inferiori. Ciascuna fibra pregangliare contrae tipicamente sinapsi con più neuroni postgangliari. Da questi ultimi neuroni partono gli assoni postgangliari (amielinici) che vanno a costituire i rami comunicanti grigi e
garantiscono l’innervazione di vasi, ghiandole sudoripare, follicoli piliferi e strutture viscerali attraverso la catena simpatica o mediante plessi nervosi (Low e Dyck, 1977). Alcune fibre pregangliari non contraggono sinapsi nei gangli simpatici ma in gangli successivi. Infatti tutte le fibre pregangliari per i visceri addominali e pelvici si portano attraverso i nervi splancnici
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
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a tre gangli prevertebrali (preaortici), ai gangli celiaci e ai gangli mesenterici, superiore e inferiore, con cui contraggono sinapsi e da cui partono fibre postgangliari che contribuiscono a formare i plessi ipogastrico, splancnico e mesenterico per l’innervazione di ghiandole, vasi e muscoli lisci degli organi addominali e pelvici (Fig. 8.2). Infine va ricordata la peculiare innervazione ortosimpatica della midollare surrenale, che riceve le fibre simpatiche pregangliari attraverso i nervi splancnici e secerne direttamente i mediatori chimici (adrenalina e noradrenalina) nel torrente circolatorio. In un certo senso la midollare surrenale può quindi essere considerata un ganglio simpatico che libera neurotrasmettitori nel sangue per assicurare, in condizioni di emergenza, una risposta simpatica rapida e diffusa.
Sistema parasimpatico Anche il sistema efferente parasimpatico, come quello ortosimpatico, comprende due neuroni, uno posto nel sistema nervoso centrale (neurone pregangliare) ed uno nei gangli periferici (neurone postgangliare). Tuttavia, i gangli parasimpatici, a differenza di quelli ortosimpatici, sono localizzati in stretta vicinanza con l’organo bersaglio. Il sistema parasimpatico si distingue in due sezioni: craniale e sacrale (Fig. 8.3). La sezione craniale è costituita da neuroni situati nel tronco dell’encefalo, i cui cilindrassi o fibre pregangliari raggiungono la periferia attraverso il III, VII (intermediario), IX, X, XI paio dei nervi cranici (Loewy, 1990a). In particolare si distingue: – parasimpatico mesencefalico: i neuroni pregangliari sono localizzati nel nucleo di Edinger-Westphal (III paio); le fibre pregangliari dalle vie del III paio che raggiungono il ganglio ciliare; le vie postgangliari che, come nervi ciliari brevi, innervano il muscolo ciliare
Fig. 8.3 - Raffigurazione topografica dei centri simpatici e parasimpatici.
e il muscolo irideo con funzione costrittiva (sfintere irideo); – parasimpatico ponto-bulbare: i neuroni pregangliari sono contenuti nei nuclei: 1) salivatorio superiore (alcuni distinguono il nucleo salivatorio superiore dal nucleo lacrimatorio) situato a livello della giunzione ponto-bulbare che dà origine a fibre pregangliari che viaggiano nel nervo faciale; 2) salivatorio inferiore le cui fibre pregangliari lasciano il tronco encefalico con il nervo glossofaringeo; 3) ambiguo e motore dorsale del vago da cui originano fibre pregangliari che emergono dal tronco encefalico con il nervo vago. Il parasimpatico ponto-bulbare provvede così all’innervazione delle ghiandole lacrimali
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e salivari (sottolinguale e sottomascellare) e dei vasi e delle ghiandole del palato (VII paio); all’innervazione secretoria della ghiandola parotide (IX paio) e delle ghiandole rinofaringee (VII paio) e faringee (X paio); all’innervazione, attraverso il nervo vago, delle fibre muscolari lisce dell’esofago (plesso faringeo); dei bronchi e dei polmoni (plesso bronchiale); del muscolo cardiaco (plesso cardia-
co); dello stomaco (plesso gastrico); del fegato e della cistifellea (plesso epatico); del duodeno, pancreas, intestino fino al colon trasverso (plesso celiaco), con associata funzione vaso-attiva e secretoria (Fig. 8.4). – Parasimpatico sacrale: è costituito da neuroni pregangliari posti alla base delle corna anteriori del midollo sacrale, i cui cilin-
Fig.8.4 - Innervazione parasimpatica efferente.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
drassi escono attraverso la seconda, terza , quarta radice anteriore. I neuroni postgangliari sono localizzati nei gangli del plesso ipogastrico; le fibre postgangliari costituiscono i nervi pelvici. In particolare le fibre postgangliari portano (Fig. 8.4): a) impulsi motori per il colon discendente, il retto, l’ano, la vescica ed alcuni muscoli dei genitali esterni; b) impulsi inibitori per gli sfinteri interni dell’ano, della vescica e dell’uretra; c) impulsi secretori per la prostata e le ghiandole di Bartolini e Cowper; d) impulsi vasodilatatori per il retto, l’ano ed i genitali esterni (vasodilatazione dei corpi cavernosi o nervi erigentes).
Organizzazione centrale delle funzioni viscerali In generale si ritiene che la integrazione sovraspinale delle funzioni vegetative sia espletata da una interazione piuttosto complessa fra strutture situate a vari livelli del nevrasse comprendenti il nucleo del tratto solitario, il nucleo ambiguo, il nucleo motore dorsale del vago, i nuclei dorsali del rafe, i nuclei della formazione reticolare bulbare, il locus coeruleus, l’ipotalamo, il sistema limbico e le corteccie sensitiva e motoria (Loewy, 1990b). A. LIVELLO CORTICALE Le funzioni vegetative sono diffusamente rappresentate nella corteccia cerebrale ma non esistono aree ben definite da cui si possa, sperimentalmente, evocare attività vegetative. Nell’uomo sono state dimostrate rappresentazioni corticali di funzioni viscerali nella circonvoluzione frontale ascendente, nella parietale ascendente, nella corteccia insulare e nell’area paracentrale frontale. Si tratta di dilatazione pupillare per stimolazione dell’area frontale per i movimenti coniugati, o di lacrimazione per l’area frontale immediatamente prossima all’area oculomotoria, o di salivazione per aree prossime a quelle della rappre-
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sentazione motoria per labbra, lingua e muscoli masticatori. Inoltre la stimolazione di zone corticali dell’area motoria per gli arti, produce vasodilatazione, sudorazione e piloerezione. In altri termini a livello corticale l’attività vegetativa appare come funzione associata e sussidiaria di attività motorie. Anche a livello limbico (v. pag. 535), la parte filogeneticamente più antica della corteccia cerebrale, le funzioni viscerali sono intimamente connesse a funzioni somatiche. Basterà qui ricordare che nel giro dell’ippocampo, nel lobo temporale anteriore, nel giro del cingolo, nel lobo orbitale e nell’insula esistono vie che in parte attivano e in parte inibiscono funzioni somatiche e visceromotrici. Quest’area controlla la respirazione e tutti i meccanismi viscero e somatomotori in rapporto con l’espressione emotiva. Il sistema limbico regola l’adattamento del comportamento alimentare, sessuale ed emozionale. La corteccia cerebrale inoltre esercita attività vegetative attraverso vie corticofugali, tra cui ricordiamo: – vie che dall’area frontale premotoria (area 6) raggiungono i corpi mammillari, l’ipotalamo postero-laterale; i nuclei ventromediali ipotalamici bilateralmente (raggiunti anche dalla corteccia orbitale, area 13); – vie che dall’area frontale (aree 8 e 10) vanno al nucleo sopraottico con funzione attivante; – vie che dalle aree frontali (aree 6, 8, 9, 10, 11) raggiungono il talamo dorsomediale; – vie che dal giro cingolato (aree 23-24) raggiungono con funzioni attivanti i corpi mammillari, le regioni settali, l’ipotalamo anteriore e il tegmento mesencefalico attraverso il fornice; – vie cortico-pontine, dai campi prefrontali (aree 46) al ponte e al bulbo, con funzioni viscerali.
B. LIVELLO IPOTALAMICO Gli aspetti anatomici e funzionali dell’ipotalamo sono descritti a pag. …. Basterà quindi ricordare, in sintesi, che l’organizzazione funzionale ipotalamo-ipofisaria opera in stretta cooperazione con la formazione reticolare caudalmente e il sistema limbico rostralmente per coordinare comportamenti istintivi viscerali e somatici. Si possono distinguere: – funzioni che incrementano l’attività motoria, sensitiva e psichica (reazioni ergotrope di Hess). Le reazioni istintive di aggressività, di preparazione al combattimento coinvolgono attività viscerali e somatiche integrate a livello dell’ipotalamo postero-ventrale e mediate dal sistema simpatico. Se gli stimoli nocivi ambientali o del mezzo interno diventano troppo intensi o prolungati (freddo, dolore, fame, ecc.) entrano in gioco anche meccanismi umorali, quali l’ormone adrenocorticotropo del lobo an-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
teriore dell’ipofisi e l’ormone glicocorticoide dei surreni. La regolazione neuroumorale è utilizzata per la cosiddetta reazione di adattamento di Selye; – funzioni che consistono in un’attivazione selettiva viscerale per restituire energia al mezzo interno cellulare (reazione trofotropica di Hess). Le attività funzionali che intervengono durante la digestione, le mestruazioni, la gravidanza sono mediate dal sistema parasimpatico e da attività ormonali (pancreas e insulina); – funzioni tendenti a proteggere il mezzo interno da turbe elettrolitiche (perdita di Na+), da perdita di acqua, da ritenzione di calore (reazioni endofilattiche di Hess). Queste attività sono dovute al nucleo sopraottico e preottico in associazione con il lobo posteriore dell’ipofisi (attraverso secrezione di vasopressina e antidiuretina) e i surreni (attraverso la secrezione di aldosterone). Altre funzioni endofilattiche sono rappresentate dai riflessi vasodepressori, dalla minzione e defecazione che impediscono la sovradistensione dei visceri, e sono dovute ad attività delle porzioni oro-medio-ventrali dell’ipotalamo, in associazione con il rinencefalo basale e il tetto.
C. LIVELLO ROMBOMESENCEFALICO Questo livello è soprattutto in rapporto con la regolazione omeostatica. L’omeostasi rappresenta il mantenimento delle condizioni ottimali del mezzo interno («milieu interieur» di Claude Bernard). Il mezzo interno è mantenuto in condizioni ottimali innanzitutto da un adeguato flusso sanguigno [convoglia O2 e nutrimento alle cellule, trasporta i prodotti di escrezione (CO2 eliminato attraverso i polmoni; metaboliti vari eliminati attraverso il rene)]. L’apparato escretorio regola la concentrazione degli ioni e il volume dello spazio extracellulare (stabilizzazione del pH del sangue e tessuti; pressione osmotica). La funzione vasocostrittiva e vasodilatatoria nella cute, e la funzione sudoripara permettono il mantenimento della temperatura. Alcuni riflessi proteggono le mucose orofaringee e il canale respiratorio, regolano l’attività circolatoria (riflessi depressori) e l’apparato digestivo ed escretorio (vomito, defecazione, minzione).
D. NUCLEO DEL TRATTO SOLITARIO Anche il nucleo del tratto solitario ha rilevanti funzioni di integrazione nell’attività vegetativa. Riceve afferenze dai baro e chemocettori arteriosi (aorta, seno carotideo e grosse arterie) e da molte regioni del sistema nervoso
centrale (aree corticali, midollo spinale e cervelletto) e invia efferenze a strutture diverse: ipotalamo e nucleo amigdaloideo, bulbo e nucleo ambiguo, nucleo dorsale del vago, midollo spinale (Jordan e Spyer, 1986).
Neurotrasmettitori, recettori e sistema nervoso vegetativo L’acetilcolina (v. pag. 706) è il neurotrasmettitore che media la funzione di tutte le fibre pregangliari, sia orto che parasimpatiche. Inoltre l’acetilcolina funge anche da neurotrasmettitore per le fibre postgangliari parasimpatiche. Le fibre postgangliari ortosimpatiche utilizzano la noradrenalina come mediatore chimico. In realtà ciò non è sempre vero: infatti le fibre postgangliari ortsimpatiche che innervano le ghiandole sudoripare sono colinergiche. Come già detto, il sistema parasimpatico utilizza per la trasmissione sinaptica nei gangli, nelle fibre pregangliari e nelle fibre postgangliari l’acetilcolina, che è inattivata dall’acetilcolinesterasi. I recettori per l’acetilcolina sono indicati come muscarinici e nicotinici, a seconda che mimino rispettivamente l’azione della nicotina o della muscarina. I recettori post-gangliari sono muscarinici; l’effetto della loro azione è antagonizzato dalla atropina. Sono stati descritti almeno cinque recettori muscarinici (M1, M2, M3, M4 e M5). A livello gangliare (ed a livello muscolare) i recettori sono di tipo nicotinico e sono bloccati dalla tubocurarina. A livello gangliare l’azione dell’acetilcolina è integrata da numerosi peptidi (sostanza P, enkefaline, somatostatina, VIP). La noradrenalina è il mediatore chimico delle fibre postgangliari ortosimpatiche. La sua azione avviene mediante legame a recettori specifici, di cui si distinguono almeno due tipi: alfa e beta. Gli alfa-recettori mediano la vasocostrizione, il rilasciamento dei muscoli intestinali, la dilatazione della pupilla; i beta recettori mediano la vasodilatazione (specie nei muscoli), il rilassamento bronchiale e l’aumento della fre-
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
quenza e della contrattilità cardiaca. In questo ambito si individuano ulteriori sottotipi di recettori: gli alfa 1, generalmente postsinaptici ed eccitatori; gli alfa 2, principalmente presinaptici ed inibitori. Dal punto di vista biochimico l’attivazione degli alfa 1 determina aumento dell’AMP ciclico, mentre quella degli alfa 2 comporta una ridotta sintesi di AMP ciclico. La stimolazione dei recettori alfa 1 provoca rilasciamento della muscolatura gastrointestinale, aumento della attività secretoria delle ghiandole salivari e sudoripare, effetto inotropo positivo a livello cardiaco e attivazione della glicogenolisi. I recettori alfa 2, se stimolati, riducono il rilascio di noradrenalina ed hanno pertanto una funzione inibitoria sulla funzione ortosimpatica. Anche i recettori beta possono essere divisi in tre sottotipi: beta 1, beta 2 e beta 3 (non ben definiti). I beta 1, hanno importanti effetti a livello del cuore, ove regolano la frequenza e la contrattilità; inoltre stimolano la lipolisi ed il rilascio di renina dal rene. I recettori beta 2 hanno una rilevante azione di rilasciamento sulla muscolatura liscia, soprattutto bronchiale; inoltre stimolano secrezione di amilasi delle ghiandole salivari, gluconeogenesi e glicogenolisi. La fenossibenzamina ed il propranololo sono tipici esempi di bloccanti rispettivamente degli alfa e dei beta recettori. Bisogna tuttavia sottolineare che la distinzione in fibre postgangliari colinergiche e adrenergiche non corrisponde completamente alla suddivisione anatomica di sistema parasimpatico e simpatico. Infatti le ghiandole sudoripare, che appartengono al simpatico, hanno una mediazione colinergica, così come l’azione vasodilatatoria nei muscoli scheletrici per stimolazione simpatica è mediata dall’acetilcolina attraverso fibre simpatiche. Si afferma anche, comunemente, che il parasimpatico aumenta l’attività (motilità, secrezione) mentre il simpatico ha azione opposta o inibitoria. Anche questo non è completamente vero. Se tipicamente, a livello gastrico, la stimolazione parasimpatica aumenta la peristalsi e la secrezione gastrica e il
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simpatico la inibisce, gran parte delle ghiandole dell’apparato digerente e le ghiandole sudoripare non hanno innervazione doppia, ma solo una innervazione con mediatore colinergico. In conclusione: la noradrenalina è il mediatore delle sinapsi postgangliari simpatiche. Neuroni inibitori adrenergici controllano la trasmissione a livello pregangliare. L’acetilcolina è il mediatore delle sinapsi postgangliari parasimpatiche, delle sinapsi pregangliari simpatiche e parasimpatiche, delle sinapsi neuromuscolari. Si parla spesso in clinica di «tono vegetativo», di soggetti simpatico-tonici e vago-tonici, e, ancor più frequentemente, di «distonia neurovegetativa», terminologie che devono essere abbandonate in quanto prive di fondamento sperimentale o clinico. È possibile, invece, reperire una preponderante attività parasimpatica o simpatica in un dato organo. Conviene aggiungere, infine, che: – il simpatico è un sistema più lento del parasimpatico. Infatti le fibre postgangliari parasimpatiche sono brevi, mentre quelle simpatiche sono lunghe; – il sistema adrenergico ha un’azione diffusa, mentre il sistema colinergico ha un’azione localizzata alla regione ove viene liberato il mediatore; – la noradrenalina non è solo un mediatore ma anche un ormone, poiché è secreta dalla midollare del surrene. L’acetilcolina è invece solo un mediatore. In sintesi, il sistema nervoso vegetativo consente risposte rapide ed efficaci alle variazioni ambientali ed è composto dai due sistemi simpatico e parasimpatico con due sezioni: craniale e sacrale. L’attività di questi due sistemi, che rappresentano l’efferenza del sistema nervoso vegetativo, è integrata dalle afferenze sensitive viscerali (nucleo del tratto solitario), dall’ipotalamo e dalle strutture corticali (sistema limbico).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Innervazione di organi e sistemi viscerali FUNZIONI CARDIACHE; REAZIONI VASOMOTORIE: PRESSO E CHEMOCETTORI SENO-CAROTIDEI E AORTICI a) L’innervazione motoria del muscolo cardiaco è simpatica e parasimpatica. La sezione simpatica ha origine dalle cellule della colonna intermedio-laterale tra T2 e T5. Le fibre pregangliari raggiungono i gangli cervicali inferiore (o stellato), medio e superiore od anche gangli sottoposti; le vie postgangliari costituiscono i nervi cardiaci e raggiungono i plessi cardiaci (superficiale, localizzato nella concavità dell’arco aortico; profondo, localizzato al di sopra della biforcazione dell’arteria polmonare, anteriormente al tratto inferiore della trachea). I plessi cardiaci che ricevono rami simpatici e vagali, e
costituiscono una rete nervosa intricata, si distribuiscono poi all’aorta, ai plessi coronarici (ed anche ai polmoni, al tratto inferiore della trachea, e ai bronchi). La sezione parasimpatica origina dal nucleo motore dorsale del X, prosegue nel nervo vago (rami cardiaci superiore, medio, inferiore). Le fibre postgangliari iniziano da gangli terminali localizzati nei plessi coronarici. Le fibre viscerali afferenti sono rappresentate dai nervi cardiaci simpatici e parasimpatici. Le afferenze simpatiche raggiungono il midollo attraverso il ganglio cervicale medio e inferiore e i nervi cardiaci toracici, i quali ultimi, a sinistra, trasportano impulsi dolorosi (donde la topografia del dolore anginoso: aree precordiali e margine ulnare del braccio). Le afferenze attraverso il vago sono utilizzate solo per riflessi cardiaci e vascolari (Fig. 8.5). La stimolazione simpatica produce tachicardia, quella vagale bradicardia. Sembra che l’orecchietta e il fascio atrioventricolare abbiano innervazione vagale e simpa-
Fig. 8.5 - Vie viscerali afferenti simpatiche e parasimpatiche.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo tica, mentre i ventricoli avrebbero solo innervazione simpatica. Il nodo seno-auricolare ha innervazione prevalente dal vago di destra. b) Reazioni e riflessi vasomotori; presso e chemocettori seno-carotidei e aortici. Le fibre vasomotorie appartengono al sistema simpatico, agiscono generalmente come vasocostrittrici e gli impulsi sono mediati dalla noradrenalina. Provengono dalle fibre postgangliari dei rami comunicanti grigi e attraverso i nervi vasorum giungono alle tuniche muscolari e alla tunica avventiziale delle arterie, arteriole e venule. I capillari invece possono modificare il loro calibro indipendentemente dalle arterie e in rapporto con fattori chimici. L’aumento della tensione del CO2 e la riduzione del pH, per aumento dell’attività metabolica tissutale, è seguita da vasodilatazione. Vasodilatazione si ha anche per azione dell’istamina. La presenza di fibre ad azione vasodilatante è discussa. Sicuramente esse sono presenti nella corda del timpano e nelle fibre parasimpatiche per gli organi genitali esterni; il mediatore sinaptico è l’acetilcolina. Alcune fibre, che raggiungono i vasi nei muscoli scheletrici, appartenenti al simpatico, ma utilizzanti il mediatore colinergico, hanno azione vasodilatatrice. I riflessi vasomotori rivestono una particolare importanza poichè contribuiscono al mantenimento dei valori della pressione arteriosa e alla distribuzione del sangue nei differenti organi. Riflessi vasomotori spinali si possono dimostrare quando si osserva che il raffreddamento di una mano è accompagnato da fenomeni vasomotori in ambedue le mani. Altri riflessi vasomotori utilizzano archi riflessi a livello spinale. c) Il mantenimento di valori costanti della pressione arteriosa rappresenta una fondamentale funzione omeostatica atta ad assicurare un flusso costante agli organi, specie al cuore e al cervello. Questo scopo è ottenuto con un’accurata regolazione, i cui aspetti periferici sono rappresentati da tre aree recettrici: la zona del seno carotideo, la zona dell’atrio destro all’entrata della vena cava inferiore ed il tessuto adiacente dell’auricola; l’arco aortico e l’atrio sinistro. Il seno carotideo, area localizzata alla biforcazione della carotide comune come dilatazione della parete arteriosa, è fornito di organi recettori che rispondono allo stiramento e alla stimolazione chimica (baro e chemorecettori). Analogamente esistono baro e chemorecettori a livello dell’arco aortico. Le fibre afferenti dai recettori seno-carotidei (baro e chemorecettori) viaggiano lungo il nervo del seno (o nervo di Hering), ramo del glosso-faringeo e raggiungono il nucleo del fascicolo solitario, che a sua volta ha connessioni col nucleo motore dorsale del vago. I recettori dell’arco aortico utilizzano rami vagali afferenti e rag-
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giungono il nucleo del fascicolo solitario e quindi il nucleo motore dorsale del vago. Qualora si verifichi un innalzamento della pressione arteriosa, la zona cardioaortica agisce determinando diminuzione della frequenza del polso, diminuzione del volume minuto, vasodilatazione periferica e quindi diminuzione della pressione arteriosa; viceversa nel caso di ipotensione. Analogamente la zona posta nel cuore destro provoca una diminuzione della pressione, e viceversa nel caso di ipotensione. L’azione del seno carotideo può essere considerata simile a quella della zona cardio-aortica: i barocettori inviano stimoli, in caso di aumento di pressione, al centro vagale inibitore ed inoltre inibiscono il centro cardioacceleratore simpatico; la caduta della pressione è anche dovuta a vasodilatazione venosa ed arteriosa. L’azione del seno carotideo sulla circolazione cerebrale appare molto diversa da quella esercitata sulla circolazione sistemica: infatti, quando la pressione arteriosa diminuisce, si verifica una vasocostrizione periferica, ed una vasodilatazione a livello cerebrale che produce una deviazione del sangue dai territori periferici a quelli cerebrali; l’effetto è contrario in caso di aumento di pressione. A questo tipo di regolazione contribuiscono non solo il seno carotideo ma forse, secondo alcuni AA., anche riflessi vasomotori locali cerebrali originati soprattutto a livello dell’arteria meningea media (riflesso meningeo di Schneider). Tuttavia è necessario sottolineare che le risposte vasomotorie cerebrali osservate dai diversi Autori, sono conseguenza delle variazioni della pressione di perfusione e non di un’azione diretta del seno carotideo sulle arterie cerebrali. Se questo meccanismo di controllo è alterato (soggetti sottoposti ad interventi di denervazione seno-carotidea a scopo terapeutico) si osserva un’ipertensione generale transitoria, una modesta riduzione delle resistenze periferiche, un aumento di flusso cerebrale e del consumo di O 2. I recettori della zona cardio-aortica contribuiscono anche alla regolazione della respirazione poichè, come è noto, esiste una interrelazione fra questa e la circolazione: un aumento della pressione arteriosa produce, tramite la zona cardio-aortica, una inibizione della respirazione e viceversa; una diminuzione di flusso cerebrale è causa di iperpnea e viceversa. Le zone ora descritte posseggono, oltre ai pressocettori, chemocettori, specie a livello del glomo carotideo, sensibili a variazioni emato-chimiche, particolarmente alle variazioni della tensione di CO2 e di O2. La zona reflessogena del seno carotideo concorre a rendere operanti gli adattamenti cardiovascolari necessari nei cambiamenti di posizione del capo e del corpo. Nel passaggio dalla posizione sdraiata all’ortostatismo, per
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
la forza di gravità, tende a crearsi uno sfavorevole gradiente pressorio che rapidamente provoca un modesto calo tensorio sufficiente a stimolare il seno carotideo. Si produce allora una vasocostrizione splancnica, un aumento della frequenza cardiaca e del volume minuto che tendono ad impedire o a ridurre la caduta tensoria. L’alterazione di questo meccanismo può essere responsabile di una crisi sincopale. Gli effetti della compressione manuale del seno carotideo sono noti da lungo tempo, e particolarmente interessanti appaiono in caso di iperreflettività sinusale. La compressione, infatti, può provocare in alcuni soggetti un notevole rallentamento cardiaco, una caduta della pressione arteriosa e in alcuni casi una perdita di coscienza (sincope seno-carotidea, v. pag. ….).
FUNZIONE PILOMOTRICE E RIFLESSI PILOMOTORI Le fibre pregangliari hanno origine dalla colonna intermedio-laterale del midollo, dal primo segmento dorsale al terzo segmento lombare, raggiungono non solo il ganglio simpatico corrispondente ma anche gangli sovra e sottoposti. Di qui escono le fibre postgangliari per i muscoli pilomotori. I muscoli pilomotori situati sulla tunica esterna del follicolo del pelo, al di sotto delle ghiandole sebacee e sullo strato più superficiale del derma, quando si contraggono producono per spostamento dei follicoli e delle ghiandole, l’aspetto cutaneo noto come pelle anserina. I muscoli pilomotori sono eccitati dal freddo, da rumori fastidiosi e da stati emotivi. L’erezione del pelo è mediata da un arco riflesso con neurone intercalare nel midollo spinale. Alcune regioni sono più sensibili per l’eccitazione del riflesso; specie la regione ascellare, l’addome, la cute lungo la colonna vertebrale; la nuca e la regione posteriore del padiglione auricolare sono le regioni di scelta per l’estrinsecazione del riflesso. L’eccitamento unilaterale provoca orripilazione uni e omolaterale per un’area estesa a tutto l’emicorpo o a una regione limitata. La pelle anserina è poco evidente sul volto; nel resto del corpo esiste una propagazione dall’alto al basso; spesso il riflesso è molto fugace. Nelle lesioni spinali (situate tra T1 e L2) il riflesso si arresta al territorio cutaneo corrispondente al segmento spinale leso. Poichè le fibre simpatiche di diversi segmenti midollari raggiungono un solo ganglio, il riflesso pilomotore, se provocato da stimolazione nucale, non si arresta a livello dei disturbi sensitivi, ma discende di alcuni segmenti. Se provocato da stimolazione lombare ascende di alcuni dermatomeri. Le lesioni dei rami comunicanti e dei gangli si accompagnano a modificazioni del riflesso pilomotore. Dopo estirpazione del ganglio stellato la piloerezione è assente nella faccia, braccio e regione del collo omolaterale.
Nelle lesioni del nervo periferico il riflesso è assente in un’area sovrapponibile all’area di anestesia. Persiste invece la reazione locale alle eccitazioni dirette (riflesso pilomotore locale). La stimolazione farad