Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia: 1870-1925 [3 ed]
 8831749595, 9788831749596 [PDF]

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Zitiervorschau

Silvio Lanaro

NAZIONE E LAVORO Saggio sulla cultura borghese in Italia 1 8 7 0 -1 9 2 5

Marsilio Editori

© 1979 BY M A R S IL IO E D IT O R I S .P .A . IN V EN E ZIA

Stampa: Tipo-lito Poligrafica Moderna, Padova

ISBN 88-317-4959-5

BIBLIOTECA COM. S. MARTINO tJUma edizione: ottobre 1979 n° R . ».

J'ÙbQ.Q.

TefZa edizione: ottobre 1988

IN D IC E

7 19

Introduzione. Prima del fascismo La nuova patria 19 34 44 59 69

89

Homo faber 89 104 113 130 141

163

Paradossi dell’arretratezza Una favola delle api per un alveare mediterraneo Fare da sé, m a . . . Monsignori e operai, romanzieri e villani Le otto ore del padrone

Uno stato « positivo » 163 173 190 202

219

Per un’Italia « industriale, coloniale e marittima » Dall’hidalgo al wattman Demologia e nativismo Filosofie del numero Scienza delPimperialismo, imperialismo della scienza

L’ideologia dei dazi: ciclo, sviluppo, crisi I molti linguaggi del protezionismo Modernizzazione e autorità Terza età dell’illuminismo?

Pluralismo e società di m assa 219 231 241 255 264 270

Dialoghi sulla fabbrica. . . . . . e dialoghi sul potere Le sorgenti della politica Ancora la razza (e ancora la tradizione) Fra Veblen e Platone II socialismo di tutti

Indice dei nomi

ai miei figli, Nicola e

IN TR O D U ZIO N E. PRIM A D EL FA SCISM O

Spesso, nella carriera di uno studioso, qualche circostanza esterna affretta la conclusione di ricerche che magari si trascinavano stanca­ mente ammucchiando le schede sul tavolo di lavoro. Così è accaduto a me, che appunto da anni andavo raccogliendo notizie sulla lunga m ar­ cia dell’Italia « liberale » verso il regime nazional-corporativo, quando si é accesa nel 1975 la discussione attorno all’Intervista sul fascism o di Renzo De Felice *. Personalmente — ma credo di essermi trovato in compagnia — ho provato allora una sensazione di disagio. L ’occasione mi era sembrata ottima, per stringere le maglie di un’indagine che rischia di diventare dispersiva e per sbugiardare la storiografia neomoderata con il suo fascismo dal volto umano. Le forze scese in campo mi erano parse le più agguerrite, fra le poche di cui oggi dispone una cultura dipendente come la nostra. Gli interventi mi avevano dato l’impressione di una rara tempestività, se si considera la lentezza con cui vengono digerite in Ita­ lia le provocazioni vere o presunte. E invece i risultati, alla resa dei con­ ti, mi si rivelavano modesti: peggio ancora, fuorviami, suscettibili di un arretramento anziché di un avanzamento degli studi, e buoni solo a iso­ lare i tentativi più acuti compiuti negli anni precedenti per impostare un discorso serio sulla « questione fascista ». Vorrei essere chiaro. Non mi riferisco esclusivamente a chi — rin­ correndo De Felice sul terreno di un impoverimento biografico del regime — ha opposto un duce cattivo e truculento a un duce morbido e « italiano »; e nemmeno a chi ha creduto di dissipare l’immagine di un fascismo senza borghesia capitalistica riesumando la salma di monsieur le Capital, onnipossente e onniveggente, che per parlare tutti i dialetti

1 II dibattito si è sviluppato in massima parte fra il luglio e il settembre del 1975: ne dà una bibliografia A. D ’Orsi, I l prof. De Felice e il fascism o, n, Il fascism o al pote­ re, in « Quaderni piacentini », xiv (1975), 57, p. 119.

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finisce col non conoscere nemmeno una lingua e per indossare tutte le maschere col non possedere nemmeno un volto. Mi riferisco a un atteg­ giamento di fondo, presente in quasi tutte le risposte « di sinistra » a De Felice e riassumibile nell’ostinata identificazione della storia del fascismo con la memoria delPantifascismo. Di fronte a chi ha voluto dimostrare che la sua tendenziosissima storia — rievocazione di una vicenda bonaria e casereccia — è in realtà la vera storia del fascismo, cioè l’unica oggi possibile su basi filologica­ mente certe, si è ribadito il rifiuto ideologico del punto di osservazione « afascista », la dichiarazione di illiceità — quanto a modelli generali e a canoni di metodo — delle ipotesi revisioniste che non accolgono il patri­ monio di verità in cui si riconoscono le forze democratiche dell’Italia post-resistenziale. Nulla di male, fino a qui. Anzi. Ma dove sono deposi­ tate, in concreto, le verità che dovrebbero assicurare un salvacondotto allo storico « civile », fissando la soglia oltre la quale diventano legittimi i dissensi? Non nell’estraneità al fascismo e ai suoi disvalori — che è molto più dirimente di quanto può sembrare a prima vista, se appunto del fascismo non si coltiva una visione generica — ma nelle interpreta­ zioni classiche dell’antifascismo militante, da Gobetti a Dorso, da Croce a Sturzo, da Salvemini a Gramsci: in tutto ciò che esse contengono di riducibile a un denominatore comune. Questo denominatore comune, infatti, è stato riproposto con un’ennesima operazione esoreistica e con una secca ripresa — se mi si passa il termine — di ciellenismo storiografico. Lo si reputasse parentesi di barbarie o ultima carta dell’occidente in crisi, figlio degli ambienti conservatori dell’Italia umbertina o dittatura aperta delle holdings finan­ ziarie, « rivoluzione » o « rivelazione », il fascismo è stato dipinto come incarnazione del male storico, segno di caduta del tono di un’intera società, braccio secolare di un capitalismo spurio e miserabile, espres­ sione di un’incapacità delle classi dirigenti a essere modernamente « borghesia » (cioè ad attingere il livello di una mediazione liberale dei rapporti di classe). Ancora recriminazioni e lamentele, insomma: contro il capitalismo che non è stato « moderno » perché non ha saputo essere liberale e democratico, contro il liberalismo e la democrazia perché non hanno fortificato le proprie radici promuovendo una crescita economica degna di questo nome. Ebbene, a me pare che siano maturi i tempi, se non ric­ chissimi gli accertamenti propedeutici, per rompere finalmente la cami­ cia di forza costituita dalla sovrapposizione di pregiudizi etico-politici alla storia delle strutture e delle istituzioni. Se in termini di teoria gene­ rale e di analisi com parata disponiamo delle informazioni indispensabili

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ad ammettere che autoritarismo e m aturità capitalistica possono convi­ vere benissimo 2, perché non diciamo a voce alta — invece di sussurrarlo a mezza bocca, come succede — che il fascismo italiano non nasce dal­ l’arretratezza m a dallo sviluppo, non sale dai precordi di un tardo feu­ dalesimo agricolo e mercantile ma dal cuore del capitalismo moderno, non rappresenta il colpo di coda di una « razza padrona » ma il punto di approdo di una classe dirigente che con tutti i suoi difetti riesce a col­ locare in primo piano i bisogni e le aporie dell’industrializzazione 3? Questo non significa sminuire il carattere oppressivo del « regime », ma piuttosto ricondurlo — anziché a un’astratta disum anità del capitalismo o alla diabolica nequizia dei fascisti — agli attributi salienti di una for­ mazione economico-sociale molto complessa qual’è quella italiana, che fra otto e novecento acquista tutti i requisiti del modo di produzione capitalistico pur mantenendo le peculiarità che le derivano da un’accu­ mulazione « povera », da un inserimento particolare nel mercato inter­ nazionale e da un’espansione accentuatamente guidata dell’apparato produttivo. La « questione fascista » è indissolubilmente congiunta a quella della formazione sociale capitalistica in Italia: meglio, è esattamente la stessa, nel senso che il fascismo rappresenta la cornice ultima di un flusso di modernizzazione. Continuare a tener separati i due aspetti di un medesimo problema, spossessarli della loro reciprocità, pensare sotto sotto che non può esistere sviluppo delle forze produttive — in quantità e in qualità — laddove non si dispensano la giustizia e l’uguaglianza, vuol dire attardarsi nella nostalgia di un modello economico-politico alterna­ tivo (Salvemini a braccetto di Pantaleoni, per capirci, o Einaudi con supplementi di meridionalismo radicale) che non si è m isurato con la storia ma trae plausibilità a posteriori dalle sconcezze di Clio. Se a queste osservazioni compete un minimo di fondamento, si può facilmente rendersi conto del perché in questo saggio sulla cultura bor­

2 Cfr. G. Germani, Autoritarismo, fascism o e classi sociali, Bologna 1975, pp. 219-220 e ss. 3 Qualcuno che parla abbastanza chiaro, ad ogni modo, c’è. Si vedano, al di là delle profonde differenze di retroterra e di intenzioni: E. Fano Damasceni, L a « restaurazione antifascista liberista ». Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, in « Il movimento di liberazione in Italia », xxm (1971), 104, pp. 47-70; P. Ungari, Ideologie giuridiche e strategie istituzionali del fascism o, ora in II regime fascista a cura di A. Aquarone e M. Vernassa, Bologna 1974, pp. 45-56; G. Gualerni, Industria e fascism o, Milano 1976, pp. 19-148; A. Panicali, Bottai: il fascism o come rivoluzione del capitale, Bologna 1978, pp. 7-47.

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ghese io mi sia posto il problema — vecchio, vecchissimo — delle origini del fascismo: non per rilasciare a destra e a m anca certificati di milizia antemarcia, non per riprendere le allegre facezie sul fascismo « peren­ ne », non per avallare concezioni epigenetiche della storia secondo le quali una qualsiasi creatura di ieri è sempre embrionalmente ma com ­ piutamente viva in un qualsiasi grembo dell’altroieri, ma per cercar di dimostrare che una spinta antiliberale e antidemocratica — certo non univoca — è inseparabile dall’affermarsi del capitalismo italiano in ciò che possiede di meno monco e provinciale. N aturalmente non ho la pretesa di cucire le brache al mondo con qualche decina di pagine. Posso solo tentare uno scandaglio — inevita­ bilmente parziale — e scegliere un osservatorio che malgrado l’incom­ piutezza del raggio visivo mi tenga il più possibile al riparo dagli errori (detto altrimenti, parlare di ciò che so o credo di sapere). Per questo mi accosto qui ai problemi generali del capitalismo autoritario scrutandoli attraverso lo specchio della cultura, dell’ideologia, della progettualità delle classi dominanti, fermate nel momento delicato del loro incontro o della loro collisione con la dura materia del sociale. A questo proposito, tuttavia, ritengo necessaria ancora un’avvertenza. Privilegiando le ideo­ logie rispetto alle « strutture » e agli « eventi » non miro a reintrodurre gli alberi genealogici dove si spiega tutto con libri che succhiano i libri o con pensieri che masticano i pensieri. E nemmeno voglio appiattire le diversità più elementari a vantaggio di filiazioni abusive o falsamente anticonformiste. Caso mai cerco di non ridurre la cultura a tabella di ratifica dei dati di fatto generati dall’energia spontanea delle « cose »: rapporti di produzione, istituzioni politiche o alleanze sociali che siano le « cose ». Si può bene accostarsi alla storia di una società anche scri­ vendo la storia della sua cultura « alta », se non ci si limita a ritrarre il modo in cui una classe dirigente pensa a se stessa, o am a raffigurarsi, o si mimetizza e si traveste tutte le volte che bada a strappare una scheg­ gia di consenso alle classi subalterne: nello scarto — che va tenuto pre­ sente — fra i programmi e le realizzazioni, fra ciò che un 'élite vuole creare e ciò che riesce a creare, sta la misura effettiva della conserva­ zione o del cambiamento, per quel tanto (ed è tanto) che dipende dalla volontà di chi detiene le leve del controllo sociale. Perché dovrebbe essere un vezzo colpevole — come talora si insi­ nua — studiare i processi di aggregazione stimolati da progetti in senso lato culturali e attivi a livello di società civile (liberismo e protezionismo, cosmopolitismo e nazionalismo, agriculturismo e industrialismo), e non invece studiare quelli racchiusi nelle « carte » o nell’azione dei partiti politici, che risultano in Italia infinitamente più labili? È curioso che si

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diffidi di una ricostruzione degli ideogrammi capitalistici4 proprio mentre c’è chi si ostina a considerare decisivi i crinali etico-politici, le linee di displuvio che dividono destra e sinistra, cattolici e laici, liberali e democratici, moderati e radicali: magari senza saper uscire dall’imba­ razzo, o addebitando tutto alla debolezza degli uomini e alla trattabilità delle forze, quando urta contro il fatto che destra e sinistra, cattolici e laici, liberali e democratici, moderati e radicali smettono le loro coe­ renze di campo e assecondano o com battono al riparo di altri schieramenti tutte le scelte che incidono profondamente sul destino della società italiana, come l’adozione delle tariffe « mercantiliste » nel 1887, o l’ingresso nelle gare coloniali alla fine del secolo, o la partecipazione alla prima guerra mondiale, o l’avvio della dittatura fascista. Può essere comodo rispondere a chi ti accusa di idealismo « idea­ lista sarai tu », ma è anche incontestabile che la storiografia italiana — nelle occasioni in cui si occupa del rapporto fra cultura e società con­ temporanea — non oltrepassa il racconto delle traversie degli intellettuali come confraternita, come « classe dei colti » che oscilla fra deprecatio temporum e sogno velleitario di addomesticare l’universo piegandolo a un ideale piccolo-borghese di repubblica dei sapienti (Asor Rosa), oppure si accontenta di sezionare le grandi dottrine sistematiche, i castelli speculativi sorretti dallo spirito critico e dalla dignità formale, accompagnandoli nel loro tormentoso impatto con gli interessi e con le classi (Bobbio, G a rin )5. Nessuno di questi approcci valorizza le forme di perorazione pragmatica, di razionalizzazione partigiana del mondo empirico, di tes­ situra incondita ma vigorosa della stereotipia mentale, che sono specialmente utili per capire la storia delle classi dirigenti — come delle classi subalterne, del resto — nei periodi di dinamismo economico-sociale. Certo non sarebbe una lacuna irreparabile se gli Asor Rosa, i Bobbio e i 4 « Una tale linea interpretativa — ha scritto Ernesto Ragionieri riferendosi ai miei studi di qualche anno fa, dove sottintendevo alcune argomentazioni esplicitate qui — rischia l . . .1 di privilegiare quel ruolo degli intellettuali considerati come produttori di idee protagoniste dello sviluppo sociale che essa giustamente denuncia e critica nei liberisti » (E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia Einaudi, iv. D all’unità a oggi, Torino 1976, p. 1941). La scomparsa del destinatario rende pur troppo inutili gli spunti polemici: tuttavia sono certo che Ragionieri, al quale mi ha legato un'amicizia affettuosa, non vorrebbe che attenuassi la vivacità che ha sempre contraddistinto le nostre conversazioni. 3 A. Asor Rosa, La cultura, ivi, pp. 821-1664; N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento, in Storia della letteratura italiana a cura di E. Cecchi e N. Sapegno. ix. Il novecento, Milano 1969, pp. 1 19-228; E. Garin. Intellettuali italiani del X X secolo. Roma 1974.

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Garin ci ragguagliassero in qualche altro modo sulla cultura che ha fun­ zionato da agente colloidale del blocco storico raccoltosi per un secolo intorno alla borghesia italiana. Invece nelle loro ricerche si continua di volta in volta a ripetere o a sottintendere: 1) che una cultura grande-borghese in Italia non è esistita affatto; 2) che è stata solo un calco trasfor­ mistico delle culture di opposizione, frantumate, mitridatizzate e assimi­ late tatticamente alla luce di domande transitorie; 3) che è stata la cul­ tura di Croce e di Gentile, dei quali sappiamo che hanno coagulato tutt’al più una parte degli intellettuali di professione e uno strato minorita­ rio di borghesia redditiera. Su una storia della cultura retrocessa a storia delle dottrine e dei dotti pesa indubbiamente il sedimento umanistico della nostra tradizio­ ne 6, per la quale il demiurgo è pur sempre il filosofo e il letterato, o al massimo lo scienziato che è stato al liceo con il filosofo e l’economista che tiene carteggio col letterato (Vilfredo Pareto, per fare un solo nome, perché viene riverito da Benedetto Croce). Tuttavia non si esce dall'impasse rovesciando specularmente la prospettiva, vale a dire dichia­ rando che l’unificazione culturale della borghesia italiana prom ana da un sapere tecnico-scientifico e giuridico-economico 7. Processi eminen­ temente pratici, come la socializzazione di un sapere elaborato per il dominio prima e più che per la conoscenza, non possono essere istruiti solo da metodologie « materialistiche », per quanto nascano anche queste in funzione del dominio: se un’unificazione si verifica davvero occorre precisare in virtù di quale economia e di quale diritto, con quali contenuti, quali valenze complessive, quali protagonisti e quale attitu­ dine a mobilitare soggetti reali. E ciò com porta per un verso frequentare figure di operatori intellettuali che normalmente non trovano cittadi­ nanza nelle gelose icone del « pensiero », per un altro classificare le infrastrutture mentali — l’immagine proiettiva della nazione, per esem­ pio, del « popolo », del territorio, del lavoro produttivo, dei compiti e delle funzioni dello stato — in cui fermentano molte risposte agli interro­ gativi spalancati davanti a una società e vissuti come problema da una coscienza collettiva8. 6 Non è solo questione di umanesimo degli umanisti, ma anche e soprattutto di umanesimo degli scienziati. Sullo spiritualismo e sul perdurante crocianesimo del m as­ simo esponente dell’aziendalistica italiana — lo stesso che la sottrae ai lacci mor­ tificanti della contabilità e del descrittivismo — cfr. G. Zappa, L e produzioni nell’eco­ nomia delle imprese, Milano 1956, pp. 78-90. 7 È la tesi sostenuta, peraltro con rigore e novità d’impostazione, da G. Are, Economia e politica nell'Italia liberale (1870-1915), Bologna 1974. 8 Restando l’opera citata di Asor Rosa — che nel suo genere è un autentico capo-

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Manovale delle idee, l’intellettuale organico della borghesia italiana somiglia poco al clerc in senso proprio: anche quando conosce il « mestiere » come lui o meglio di lui. Con le sue aspirazioni a un regime di autonomia e di privilegio, infatti, quest’ultimo appartiene per antono­ masia a una casta di sacerdoti della parola, e agisce nel pieno rispetto degli statuti convenzionali dell’arte o della scienza che coltiva. L’altro invece — che pur scrive libri a sua volta, e sa Iddio con quanta facondia, ma è e resta un burocrate ministeriale, un giornalista, un deputato di provincia, un dirigente d’azienda, un prete in vena didascalica, un pro­ fessore universitario — si muove entro un sistema di coordinate comple­ tamente diverso: da un lato un assetto economico e statuale di cui si sente emanazione diretta, dall’altro una serie di sollecitazioni esterne che giustificano il tentativo di decifrare il presente per prevedere il futu­ ro, e di prevedere il futuro per violentare più o meno dolcemente la società9.

lavoro — esclusivamente una storia degli intellettuali e dei « testi », non vi si troverà alcuna attenzione per quel « parlato » ideologico che costituisce il breviario di moltis­ simi comportamenti pratico-politici, e che pur senza ridursi a tecnica ancillare non riesce a organizzarsi in sistema, non dà luogo a un’autocoscienza di « scuola », non sa strutturare i materiali in discipline: la cultura cattolica, p. es., è assente dalle pagine della Storia d ’Italia Einaudi fuorché nel caso in cui 1’« eresia » modernista — indipen­ dentemente dai contenuti e dalla vastità dell’udienza — la codifica e la adegua ai canali accettati dalla comunicazione « intellettuale ». Richiami analoghi ai miei sull’atten­ zione che occorre prestare a una cultura che si riproduce per via orizzontale — soprat­ tutto attraverso i testi scolastici — in A. Balduino, Messaggi e problemi della lettera­ tura contemporanea, Venezia 1976, pp. 238-249, e in S. Romagnoli, Una storia della cultura dell’Italia unita , in « Studi storici » , x v i i i (1977), 2, pp. 27-29. 9 Se ci chiedessimo seriamente quali sono stati i manipolatori dell’opinione pub­ blica italiana, gli educatori di intere leve di politici e di amministratori, i veri maestri di cinque generazioni di borghesi, è probabile che dovremmo rifare alcuni conti dal prin­ cipio. Un solo punto. Nessuno ha ancora intrapreso una ricerca di polso — in questo campo, ch’io sappia, esistono solo i lavori di B. Bongiovanni e F. Levi, L'Università di Torino durante il fascism o. L e facoltà umanistiche e il politecnico, Torino 1976, e N. Siciliani De Cumis, Filosofia e università. Da Labriola a Vailati (1882-1902) con pre­ fazione di E. Garin, Urbino 1975, la cui orbita è tuttavia delimitata sia tematicamente sia cronologicamente — sulla cultura universitaria e sugli orientamenti dei professori, soprattutto di quelli che insegnavano materie tecniche e giuridico-economiche. A quali temi dedicavano i loro corsi? Quali libri facevano leggere ai loro allievi? Quali tesi di laurea assegnavano? Quali contenuti ideologici interlineavano alle loro lezioni e prolu­ sioni? Qual’era la longevità media dei loro trattati, manuali, litografìe, dispense? Quale la composizione sociale del loro pubblico, considerato anche che la popolazione stu­ dentesca —com’è ormai documentato: cfr. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), Bologna 1974 - comprendeva larghi strati di piccola e recentissima borghesia? E ancora: quali erano le clientele che controllavano i concorsi? E di quale natura i rapporti delle cattedre con il mondo delle professioni

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Dunque rivendicando il ruolo dei fossili mentali, o del sapere dif­ fuso amministrato da un’intellettualità funzionaria particolarmente vigile e aggressiva, con questo libro non ho inteso solo penetrare in una dimensione « nascosta » della cultura, sottolineando l’im portanza del binomio tecnica-ideologia contestualmente a quella di una scienza sociale dei professori positivisti capace di prevalere sulla filosofia sociale dei liberi intellettuali idealisti. Mi è sembrato possibile anche individuare i tratti distintivi e il senso generale della strategia borghese in Italia: nazionalista, protezionista, imperialista e tendenzialmente totalitaria fin dai primi anni successivi all’unificazione e fin dagli esordi del processo di sviluppo dell’industria. Nella prim a parte del volume, così, ho analizzato il precoce cre­ puscolo deWepisteme liberale, per usare un termine foucaultiano: a mano a mano che i concetti-guida di « individuo », « popolo », « spirito nazionale », « um anità » — tipici dell’età risorgimentale — vengono sostituiti nel linguaggio corrente come nella prosa colta da quelli di « numero », « folla », « potenza nazionale », « psiche collettiva », l’avvento delle nuove scienze della società condensa teoricamente un nazionalismo residuale che abbrevia tutte le distanze ideologiche ed è pronto in ogni momento a trasform arsi in sintesi politica. M algrado l’esteriorità del rilievo sarebbe già sufficiente osservare che i demografi, i sociologi, gli statistici, i « semiologi » italiani di statura europea sono invariabilmente nazionalisti, protezionisti, imperialisti e a tempo debito fascisti: tuttavia la portata del monopolio culturale da essi esercitato per decenni, e confortato dalle innumerevoli traduzioni in volgare promosse da editori come Bocca o come Treves, appare in luce meridiana solo se si nota che nazionalismo, protezionismo, imperialismo e fascismo — lungi dal presentarsi come scelte ex ante o ex post — sono per loro stru­ menti applicativi nel mondo della prassi delle stesse categorie che presie­ dono all’interpretazione scientifica della realtà. liberali, con il governo, con gli enti locali, con l’imprenditorialità privata, con la burocrazia ministeriale? Rispondere a interrogativi di questo genere sarebbe tutt’altro che irrilevante: nella sua duplice veste di « funzionario » e di « profeta » — penso alle indicazioni di G.L. Mosse sulla Germania guglielmina, in L e origini culturali del terzo Reich, trad. it. di F. Saba-Sardi, Milano 1969, pp. 282-302 — l’accademico è infatti l’esponente più caratteristico di una professionalità altamente integrata, sottratta alle difese e ai filtri corporativi che di regola sono propri dell’intellettualità « militante ». Certo una storia solo istituzionale dell’istruzione superiore (come quella sommaria­ mente abbozzata da M. Rossi, Università e società in Italia alla fine dell”800 con pre­ fazione di A. Santoni Rugiu, Firenze 1976) non può offrire un rendiconto di fenomeni che oltrepassano i confini dell’istituzione e investono il rapporto generale fra produ zione di merci, produzione di cultura e produzione di dominio.

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La seconda parte del lavoro è dedicata al censimento dei detriti del passato — dal ruralismo alla « concezione organica » del potere — che intervengono come elementi attivi in un processo di accumulazione ideologica volto a consolidare le basi materiali del capitalismo. C apita­ lismo ancora una volta « straccione », allora, questo che ricorre a un’archeologia dell’obbedienza e si serve di pedagogie vetero-cattoliche o vetero-hegeliane? Non direi proprio. Si provi un attimo a confrontare — e chiedo scusa per la banalità del paragone — un trend di sviluppo all’innalzamento di una m oderna casa d’abitazione. L’edificio si potrà costruire con cemento, con mattoni di argilla, con assi di legno o addi­ rittura con rottami: le specie adoperate contribuiranno a renderlo più com patto o più resistente all’usura, ma ciò che ne determinerà la desti­ nazione — per esempio una vita domestica confortata dalla separazione funzionale dei locali — sarà un disegno architettonico tradotto in precisi equilibri di masse, strutture portanti, cubature e via seguitando. Ovvia­ mente si porranno in atto varianti costruttive — chiamate però a rispet­ tare alcuni vincoli generali di compatibilità — in relazione alla scelta di materiali come il legno o il cemento: anzi, da un punto di vista proces­ suale saranno proprio esse, le varianti, a definire l’originalità del prodot­ to. Fuor di metafora, ne viene che per gli storici parlare di capitalismo « arretrato » o « avanzato » dovrebbe essere un non senso. Si potrà par­ lare di capitalismo robusto o fragile, collocato in posizione preminente o subalterna nelle pieghe del mercato internazionale, scarsamente o ecces­ sivamente sensibile alle fluttuazioni del ciclo, caratterizzato da un alto o da un basso rapporto fra aree tecnologicamente progredite e aree tecno­ logicamente ritardatarie, e il tutto in ragione dei materiali più o meno scadenti con cui è impastato all’origine: m a « avanzato » esso sarà per il solo fatto di essere capitalismo, cioè modo di produzione diverso e supe­ riore — in quanto nato per liberare nuove forze produttive e per sod­ disfare nuovi bisogni — rispetto a quello che ha sostituito e a cui è lenta­ mente o rapidamente succeduto. Quindi non si darà storia, almeno per le fasi di decollo, né dei materiali in sé né del valore d’uso dell’« edificio », bensì del processo attraverso il quale una gamma di semilavorati — magari sfruttati anteriormente per fini diversi — diventa carne e sangue di una formazione sociale emergente: e siccome ciò che si accumula non è solo il capitale fisso ma anche la forza-lavoro, al par­ co-materiali apparterranno di pieno diritto i modelli di comportamento, che della riproduzione della forza-lavoro sono appunto fattori essenzia­ li. È per caso se idilli agresti, utopie corporative e idealizzazioni della società rurale attirano fra otto e novecento soprattutto gli imprenditori e gli scrittori industrialisti, mentre i proprietari terrieri rinverdiscono gli

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avatars della satira del villano continuando a scagliarsi contro i conta­ dini infidi e disonesti? È per caso se un neo-dispotismo in grado di recu­ perare la statolatria latente in chi ha accolto con tiepidezza l’esperienza liberale si manifesta proprio quando l’industrializzazione reclama forza militare, centralizzazione delle decisioni economiche, stabilità politica e pace fra le classi? Nella terza parte si prendono in esame 1’« ideologia dei dazi » e la stagione delle inchieste, chiavi di volta del passaggio dallo stato garan­ tista, che tutela i diritti dei singoli e gli « spazi » dei cittadini, allo stato « positivo » che tramite mezzi come la politica commerciale e le leggi speciali crea rapporti rigidi fra società civile e istituzioni; vi si affronta inoltre il problema dell’influsso esercitato da fenomeni di lungo e di breve periodo — soprattutto, fra questi, la « rivoluzione » siciliana del 1893 — sulla formazione di un’intellettualità funzionaria per la quale il tasso di modernità del sistema economico deve essere proporzionale al tasso di autoritarismo del sistema politico (poiché nel parlamento si riverberano tutte le piccinerie di una borghesia ancora torpida e retriva — ragionano Francesco Saverio Nitti e i suoi amici — impulso agli investimenti pubblici, imposta progressiva, nazionalizzazione delle fonti di energia, municipalizzazione dei servizi, legislazione sui contratti collettivi di lavoro e riforma del codice civile possono scaturire solo da un rafforzamento delle m agistrature amministrative). Al lettore non sfuggirà che il grande assente, qui, è Giolitti, ritenuto da tempo pressocché immemorabile il grande rinnovatore e « allargatore » dello stato ita­ liano. Ma l’assenza non è polemica, perché una cultura giolittiana — progetto, planimetria di progetti — semplicemente non esiste: perché Giolitti spende un’eredità, giovandosi di commis d'état tutti cresciuti alla scuola crispina, e media l’esistente, componendo provvisoriamente e per virtù di congiuntura alta i contrastanti appetiti degli industriali e degli agrari, della borghesia « liberale » e del proletariato socialista. La cultu­ ra dell’amministrazione, che ne possiede una, non è davvero la sua, e per mediare una cultura non occorre. Alla fine risulta lui, Giolitti, la vera « parentesi » della storia d’Italia; non il fascismo 10.

10 Vedo ora che il mio punto di vista è condiviso da R. Romanelli nelle righe con­ clusive della sua pregevole sintesi L ’Italia liberale (1861-1900), Bologna 1979, p. 391 : « Di fronte a [ ...] realtà sociali complesse ed eterogenee, il regime “giolittiano” avrebbe rinunciato a ispirarsi a modelli culturali precisamente definiti per sperimentare forme di mediazione non dissimili da quelle che già con Depretis avevano garantito stabilità e progresso senza in nulla risolvere le laceranti contraddizioni del paese ».

Introduzione. Prima del fascism o

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Nelle ultime pagine, infine, dove amplio e modifico largamente un articolo comparso nel 1973 n , tento di ricostruire il convulso dibattito politico degli anni del dopoguerra scegliendo un’angolatura di discorso abbastanza inconsueta: la ricognizione di quel conflitto fra piani istitu­ zionali (individualismo e « socialismo », pluralismo e totalitarismo, m ar­ xismo borghese e ideologia del lavoro libero, accensioni aristocratiche e suggestioni tecnocratiche) che a partire dal 1918 polverizza progressi­ vamente le mediazioni del sociale affidate in precedenza ai programmi dei partiti. Il « regime », nel ’25-26, non esce vittorioso solo da un con­ fronto tra fascisti e antifascisti, conservatori e « rivoluzionari », fian­ cheggiatori affabili e oppositori intransigenti, ma anche dallo scontro fra due idee inconciliabili del rapporto fra « pubblico » e « privato », che pure erano germogliate entrambe sul terreno di un legalismo autocratico e che nel quinquennio precedente erano burrascosam ente convissute all’interno dello stesso movimento fascista: la richiesta di uno stato che sia all’occorrenza « violento », ma che si occupi solo di ristabilire le regole del gioco, la concorrenza perfetta, il libero godimento di quei diritti delYhomo oeconomicus che possono esigere un sacrificio delle pre­ rogative del civis (per cui Maffeo Pantaleoni auspica misure capaci di far sì « che gli omicidi vengano condannati, gli aggressori arrestati, i ladri inseguiti, i diffamatori processati, i falsi monetari ricercati ed elimi­ nati, gli incendiari rincorsi, in breve la vita e gli averi tutelati contro ogni forma di violenza privata e ciò da leggi le quali sono reali e esistenti sol­ tanto perché ed in quanto soccorse dalla violenza statale » 12), e l’ansia di perfezionare una macchina program maticamente intenta ad annichi­ lire ogni singolarità e « autonomia » riassorbendo al proprio interno tutte le articolazioni del sociale (per cui Provvido Siliprandi proclama che « uno stato ben costituito è perfetta forma, è limpido specchio del­ l’organica volontà sociale », e quindi « compie esattamente tutto quello che astrattam ente si immagina possa compiere la società » 13).

11 S. Lanaro, Pluralismo e società di massa nel dibattito ideologico del primo dopoguerra (1918-1925), in Luigi Sturzo nella storia d'Italia. A tti del Convegno internazionale di studi promosso dall'Assemblea regionale siciliana (Palermo-Caltagirone, 26-28 novembre 1971), n, Roma 1973, pp. 271-315. 12 M. Pantaleoni, I violenti (1915), in Note in margine della guerra, Bari 1917, pp. 58-59. 13 P. Siliprandi, L'illusione individualista e la crisi della civiltà europea, Torino 1922, pp. 265 e 267.

»

LA NUOVA PA TRIA

1.

Per un ’Italia « industriale, coloniale e marittima » L’Italia è uno dei primi paesi europei (e comunque l’unico della fascia mediterranea) a conoscere lo sviluppo industriale negli anni che vanno dalla grande depressione allo choc del 1929, cioè in un clima di tram onto del liberalismo ottocentesco e di declino generale dell’orizzonte normativo borghese. Sotto i colpi delle crisi cicliche, del socia­ lismo nascente e delle contese per l’accaparram ento dei mercati, in questo periodo crolla dappertutto — in Inghilterra, in Germania, in Francia, negli Stati Uniti — la fede nel capitalismo come habitat del bourgeois citoyen, profeta della pubblica felicità e araldo dell’emancipa­ zione dei popoli. Rinuncia al dominio morale della vita di relazione, e ripiegamento delle grandi spinte verso l’uguaglianza e il progresso civile, corrodono insomma la borghesia occidentale proprio nel momento in cui essa prende a maneggiare strumenti di moltiplicazione della ric­ chezza che erano inconcepibili all’epoca della sua emergenza rivoluzio­ naria Il disincanto, si sa, detta a molti figli dell” 89 e del ’48 pagine di lucido malessere, anche se il mondo della proprietà, del capitale e della divisione del lavoro — per quanto impregnato di violenza — continua a presentarsi loro come l’unico possibile, e diventa un mondo da presi­ diare con spietata razionalità per il semplice motivo che non si può più bonificare con ottimismo umanitario. La coscienza « decadente » innerva alle radici i nuovi avviamenti della cultura. L’unità del sapere si sbriciola: dal tronco morto del diritto costituzionale nascono le scienze della politica, apprestate per giustificare con l’inderogabile logica del-

1 Giudizi di grande finezza e penetrazione, su questo argomento, in E. Galli Della Loggia e R. Romanelli, Età contemporanea: storia del capitalismo o sto­ riografia «volgare »?, in « Quaderni storici », vili (1973), 22, pp. 20-32.

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Yimperium un potere che ha smarrito la via del finalismo, e dalle fonti quasi disseccate dell’economia politica zampillano la sociologia e la sta­ tistica, la psicologia behaviorista e la demografia « di tendenza », vale a dire le scienze sociali deputate a reprimere — tramite un richiamo osses­ sivo all’oggettività delle leggi che le fondano — deviazioni com porta­ mentali di qualsiasi provenienza. Contemporaneam ente si profilano i sintomi di una forte protesta irrazionalistica contro i disastri della tecno­ logia: il mito nativista, con la sua esaltazione delle dimenticate virtù della terra e del sangue, reagisce alla rottura dei legami sociali primari — provocata dall’urbanizzazione e dalla produzione di m assa — e annun­ cia una fuoruscita dalla storia di « valori » che ormai paiono protetti solo dalla physis, dagli stigmi etnici e razziali. Nei paesi industrialmente evoluti la natura irreversibile di questa « crisi » che incombe viene scontata fino all’ultimo. Ciò fa sì che risposta razionalizzatrice e rifiuto vitalistico dell’umanesimo liberale seguano percorsi molto distanziati: dove non esistono scorciatoie, perché i doni dello sviluppo sono già stati spesi, la volontà di costruire una disciplina fattuale dell’anarchia capitalistica appare inconciliabile con il disadattam ento di chi si sente estraneo a una realtà e tuttavia non riesce a superarla — data la propria ostinazione a pensare in termini di valore — senza rifugiarsi nell’utopia, o nella regressione escatologica. In America il movimento conservationist non m ostra zone di contatto con la psicologia comportam entista alla W atson o con la scienza dello shop management alla Taylor e alla Elton M ayo; e cosi in Germania la cul­ tura délYOrganisationsfrage borghese, da Weber a Rathenau, non con­ tam ina i suoi laboratori di tecnica del comando con l’ideologia vòlkisch dei vari Lagarde, Langbehn e Moller van den Bruck. In Italia le cose vanno diversamente. Il fatto che questo paese non sia un ritardatario qualunque, bensì uno dei primi dell’occidente a speri­ mentare incremento dei redditi e dei consumi — e a entrare nell’area delle potenze, sia pure in « sesta » posizione — mentre le leggi dello svi­ luppo non promettono più l’avvento del regno della libertà, crea una situazione per cui tutto lo strumentario culturale nato dalla crisi vi viene adoperato allo scopo di corroborare le flebili spinte verso la crescita, avvertita come traguardo da raggiungere e non come acquisizione da salvaguardare. Qui a partire dagli anni settanta le classi dirigenti, già irretite da compromessi innumerevoli con la tradizione cattolica, elimi­ nano le ultime scorie del loro liberalismo « civile » a mano a m ano che compiono alcune preziose scoperte. E precisamente: 1) che l’industrializzazione capitalistica è la principale garanzia di mantenimento dell’unità nazionale, e quindi del potere di quelle classi —

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borghesia e aristocrazia finanziaria — che hanno maggiormente beneficiato del moto risorgimentale; 2) che essa è tanto più risolutiva quanto più è voluta, e non attesa o delegata agli agenti spontanei del m ercato; 3) che volerla sul serio significa ricorrere con implacabile durezza a misure coercitive sul terreno politico e sociale; 4) che un’attivazione autoritaria delle energie « nazionali » ha bisogno di una corrispondente ideologia « nazionalista », demagogica in tanto in quanto serve — facendo leva su valori condivisi da vasti strati della popolazione — a convalidare una ripartizione ineguale dei sacrifici richiesti dall’accumulazione. Insom m a per la metamorfosi dell’ideologia-madre della borghesia — che da liberale diventa prestissimo nazional-corporativa, e guarda alla nazione come a un aggregato macroeconomico, sintesi vivente delle forze produttive sociali — il fattore chiave è rappresentato dall’ipostasi simultanea e correlata dell’unificazione e dello sviluppo 2: Tesserselo

2 E pensare che il rapporto — nel 1896 — era già stato colto perfettamente da Werner Sombart nel quadro di un’analisi del protezionismo italiano: « L’Italia dal 1860 non era riuscita ad avere un’industria di qualche importanza. Era appunto tale condizione di cose che sempre più largamente si faceva sentire come una lacuna, come una mancanza. Si sentiva il bisogno per l’Italia di qualche cosa che si considerava come sommamente desiderabile, la qualità cioè di stato industriale moderno. Contri­ buire a colmare questa lacuna doveva essere la missione della nuova politica commer­ ciale. Questa adunque, pel suo scopo speciale, è essenzialmente da distinguersi dalla reazione protezionista avvenuta nella maggior parte degli stati europei. Mentre infatti in Europa alla fine del decennio 1860-70 le misure politico-commerciali erano con­ sigliate quasi esclusivamente dalla cura per le industrie esistenti, la causa ultima del movimento protezionista in Italia era il desiderio di creare dal nulla un’industria nazio­ nale. [ ...] I germi delle più importanti industrie che esistevano già in Italia al principio del decennio 1860-1870 non erano menomamente stati disturbati e posti a pericolo dalla concorrenza straniera; l’importazione di prodotti industriali esteri era aumentata durante i due decenni poco più che in proporzione coll’aumento della popolazione; le industrie italiane, nella loro cerchia limitata, avevano potuto estendersi ed allargare qua e là il loro piccolo mercato. Così le lamentanze degli industriali sull’aggravarsi della concorrenza straniera non sarebbero bastate per rendere favorevole alla prote­ zione l’opinione della maggioranza del paese e le classi dirigenti. Ma la fama e la potenza del robusto e vigoroso fratello al di là delle Alpi non lasciavano riposo al popolo italiano. Il ricordo dell’antica grandezza, la prisca importanza, anche come nazione commerciale e manifatturiera, non bastavano più a soddisfare il sentimento d’orgoglio impresso fortemente in tutti. Gli italiani si erano creati, facendo appello a tutte le loro forze, un esercito formidabile ed una flotta potente; ora essi volevano che anche un’industria nazionale fiorisse nel paese, perché essi volevano essere un popolo forte. Ciò che i paesi nordici avevano fatto da un pezzo, ciò che le nazioni occidentali d’Europa avevano fatto nei secoli precedenti e la Germania durante il primo periodo dell’Unione doganale, il promuovere cioè lo sviluppo, l’autonomia e l’invigorimento

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scordato, l’aver giudicato la coppia industrializzazione-identificazione nazionale un accidente che scivola addosso ai « padroni » senza trasfor­ marli — come invece li trasform a — da cima a fondo e da capo a piedi, è forse il demerito principale di una storiografia che è soggiaciuta alle chiusure econometriste nella stessa misura in cui ha subito le sug­ gestioni politocentriche. Ma veniamo agli elementi probatori. Già con le campagne sag­ gistiche di Leone Carpi — un ebreo ferrarese, proprietario fondiario, cospiratore mazziniano, economista, agronomo, statistico e sociologo dilettante di singolarissimo acume 3 — l’attivismo e il lavorismo assur­ gono in Italia a pedagogia nazionale: meglio, i lineamenti di una bat­ taglia diretta a imporre la riforma intellettuale e morale di tutta la società4 — cioè qualcosa che si sente come conseguenza necessaria ma non autom atica del processo risorgimentale — si risolvono nell’impegno per la trasformazione economica di un paese in cui si teme che l’arretra­ tezza travolga anche le conquiste civili della « rivoluzione ». dell’industria nazionale mediante un sistema educativo di dazi protettori, ora doveva farlo l’Italia. Il fatto che le idee protezioniste erano, per cosi dire, nell’aria, che motivi speciali rendevano più grave la concorrenza straniera, forni bensi l’occasione perché appunto in quel tempo l’Italia ponesse mano all’opera grandiosa e la conducesse così rapidamente a termine; ma la vera causa sta nella sua aspirazione alla grandezza nazionale » (W. Sombart, La politica commerciale dell'Italia dall'unificazione del regno, in a a .w ., Politica commerciale dei più importanti stati civili nell’ultimo decen­ nio \Biblioteca dell'economista. Scelta collezione delle più importanti produzioni di economia politica antiche e moderne, italiane e straniere, s. iv diretta da S. Cognetti De Martiis], Torino 1896, pp. 294-295). 3 Cfr. P. Cirella, Cenni biografici su Leone Carpi, Bologna 1893; L. Ravenna, Leone Carpi. Biografia, in « Il vessillo israelitico » , x l v i (1898), pp. 80-82 e 119-122; E. Michel, Carpi Leone, in Dizionario del Risorgimento nazionale dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone a cura di M. Rosi, Milano 1930, p. 571. L’importanza di questa figura — ma di scorcio, limitatamente alla propaganda protezionista e agli attacchi contro l’aristocrazia finanziaria — è stata segnalata da E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Roma 1966, pp. 224-227 e 237-239. Fra le opere princi­ pali — a parte quelle che verranno citate via via — sono da ricordare: Alcune conside­ razioni economiche sulle imposte, sul debito pubblico, sulla tassa delle rendite e sulla ritenzione ne' stipendi, sulla inutilità di un prestabilito sistema di ammortizzazione e sui danni da servire allo studio del bilancio dello stato, Torino 1850; Del credito, delle banche e delle casse di risparmio nei loro rapporti con l ’agricoltura. Con quadri sinot­ tici, Torino 1850; I l Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche di illustri ita­ liani contemporanei per cura di L. Carpi, i-iv, Milano 1884. 4 « Non conviene dimenticare che il valore morale civile e storico di un popolo non scaturisce dal merito eminente di pochi cittadini, ma dall’elevazione morale ed intellettuale della grande maggioranza delle moltitudini » (L. Carpi, L'Italia vivente: aristocrazia di nascita e del denaro, borghesia, clero, burocrazia. Studi sociali, Milano 1878, p. 313).

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Più di ogni altro suo contemporaneo Carpi appare consapevole che lo « sviluppo » — egli stesso adopera il termine in un’accezione pret­ tamente m oderna — costituisce il principale agente di unificazione per un « grande paese esordiente » 5 qual’è l’Italia: L’Italia d’oggidi io me la raffiguro come uno stupendo e solido modello di un grande edificio in legno, ben ideato e ben architettato da chi seppe condurla da Novara a Roma: ma rimane quasi, direi, il più a farsi rispetto all’avvenire, e cioè rimane a costruirlo in pietra adamantina e con cementi invulnerabili, e ciò non può assolutamente conseguirsi senza rendere l’Italia, a qualunque costo e con qualsiasi mezzo, eminentemente industriale e marittima, e proprietaria di colonie territoriali transocea­ niche proprie ( ...] . Lo stato può anche paragonarsi ad una famiglia. Quando in una famiglia, per ¡straordinarie vicende, diminuiscono gli averi e crescono, come di con­ sueto, i dissidi, si riordini pure l’amministrazione, si facciano pure rigorose economie, ma se non si cercano maggior lavoro e nuove fonti di guadagno non saranno che pal­ liativi momentanei: e dopo, riconosciutasi l’inanità e l’insufficienza loro ritornano presto a ribollire ad a rendersi più intensi i dissidi di prima. Altrettanto può dirsi dello stato. [ ...] Nella terra prediletta del solfo, dell’olio, della canepa, del lino, del minerale di ferro, del sai gemma, del sale borace, della seta, del somacco ecc., non possono mancare elementi sicuri per farlo divenire un paese eminentemente industriale e com ­ merciale, detergendolo dalla vergogna di vendere i suoi prodotti grezzi per ricomprarli manu/fatturati, e di aver sempre [ ...] un’importazione che di gran lunga supera l’esportazione6.

Corrispondenza e interrelazione, dunque, fra richiamo patriottico e appello industrialista: con relativi codicilli protezionisti e imperialisti. Eppure ciò che colpisce, di questo program ma, non è tanto la precocità, che nel 1876 poteva non essere più tale per quanto Carpi si fosse espresso in termini analoghi già nel 1865, quando aveva consigliato l’espansione coloniale in Africa ben prima dell’episodio di Assab e quando aveva rivendicato un sistema di tariffe doganali selettive7 mentre Alessandro Rossi era ancora liberista e i primi protezionisti non sapevano immaginare più che le timide compensazioni fiscali di un Cappellari della Colomba 8: ciò che impressiona è il distacco dagli schemi mentali della classe dirigente che si era form ata nel vivo delle lotte per l’unità, e al cui apprendistato Carpi stesso aveva recato un contributo

5 Ivi, p. 325. 6 Programma nazionale proposto da Leone Carpi. Lettere al direttore dell’« A l­ fiere » a Bologna, Bologna 1876, pp. 9-10, 14. 7 L. Carpi, La Spagna e l ’Italia: politica, finanze, beni delle manimorte, banche, agricoltura. Note di viaggio, Torino 1865, p. 107. 8 G. Cappellari Della Colomba, L e imposte di confine, i monopoli governativi e i dazi di consumo in Italia, Firenze 1866; cfr. E. Corbino, Annali dell’economia italia­ na, li, (1871-1880), Città di Castello 1931, dove si dà notizia che Carpi « domandava fin dal 1862 ai dazi doganali i mezzi per restaurare le pubbliche finanze » (p. 175).

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diretto come segretario generale del ministero delle finanze durante la repubblica rom ana del 1849. In Italia l’individualismo e il liberismo — la « filosofia sociale » alla Bentham o alla Stuart Mill — avevano conti­ nuato anche nei primi anni dopo il ’60 a fungere da perni fissi di una cul­ tura modellatasi fin dall’inizio sul pensiero anglo-francese dell’età della restaurazione: per gli allievi di Francesco Ferrara il garantismo è inse­ parabile dall’assolutizzazione della concorrenza, e la prosperità di una nazione non può scaturire da surrettizie operazioni di sostegno — affidate al potere politico — perché deriva spontaneamente da una con­ duzione « sana » (cioè conforme alle buone regole della scienza) delle attività di produzione e di scambio, cosi come il dissesto o la stagna­ zione dipendono dalle « malattie » (cioè dalle azioni trasgressive, dalle infrazioni più o meno deliberate alle « leggi naturali ») di tutto l’orga­ nismo economico o di qualche suo singolo comparto. Carpi investe con irruenza questo bagaglio di certezze « depositate nel dogma ». La sua battaglia contro i « liberisti della cattedra » — « pu­ ritani », « ultronei », « arcadici », « intransigenti », « plagiari », « testerecci » — attinge al repertorio di un linguaggio sanguigno e colorito, ma non si piega mai alle argomentazioni banalmente « pratiche » escogitate dagli imprenditori in nome della « ragion di bottega » o dai socialisti di stato in nome della storicità e multiformità dei sistemi economici: a dot­ trina, secondo lui, si può rispondere solo con dottrina, a sistema solo con sistema, e perciò il principio dell’« aiutare a fare » deve fondarsi su una critica perentoria di tutti i presupposti teorici dell’economia classi­ ca. Anzitutto non è vero, spiega, che senza libertà economica la libertà politica è destinata a sparire: a parte il fatto che le vicende di paesi come l’Inghilterra e POlanda dimostrano che è stato proprio il vincolismo mercantilistico a incubare l’ideologia liberale, una libertà che si configuri sostanzialmente come amministrazione monopolistica di beni capitali rende « i forti sempre più forti » e « gli audaci sempre più audaci », con­ dannando gli esclusi — siano essi uomini o nazioni — alle cupe alterna­ tive dell’« invasione » straniera, della rivoluzione comunista o della dit­ tatura reazionaria. In secondo luogo la coppia dialettica staticità-dinamismo non può essere ridotta alla contrapposizione salute-malattia: perché anche in un corpo robusto molte energie potenziali restano inuti­ lizzate quando non si procede a un « nutrimento » delle membra che abbia per scopo un « sovrappiù » rispetto alla sussistenza9. Questa ideologia dell’accumulazione, apertamente professata, rende il protezionismo di Carpi molto diverso da un espediente di poli­ 9 L. Carpi, L ’Italia vivente. . passim.

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tica finanziaria o da un rimedio invocato come buono per tutti i guai delPeconomia. L’aumento delle tariffe doganali, che « devono essere l’espressione tecnica della differenza che passa fra i fattori economici di una data industria all’interno raffrontata coi fattori economici che ser­ vono ad alimentare una medesima industria all’estero » 10, è solo una delle « riforme » con cui lo stato può « inaugurare nei fatti in Italia un’economia politica nazionale come fece la Germania sulla guida del List » 11: ad esso si debbono aggiungere la gestione pubblica della rete ferroviaria, un’imposta progressiva sul reddito con esenzione delle quote minime, uno sfoltimento degli uffici amministrativi e giudiziari circoscri­ zionali che avvii verso le arti « meccaniche » la m assa degli « azzecca­ garbugli » che vi pullulano parassitariamente, un’organizzazione territo­ riale del credito che mantenga basso il costo del denaro, il privilegio del­ l’emissione accordato per almeno vent’anni a una banca unica centra­ le 12. La negazione del nesso che unisce libertà politica e libertà econo­ mica — o più esattamente il capovolgimento del rapporto, effettuato dichiarando la priorità dei traguardi « mercantili » — com porta un abbandono sostanziale dell’antropologia paleoborghese; il che è tanto più significativo in quanto non proviene dall’esterno ma dall’interno di una tradizione che continua a dirsi liberale, e dall’opera di un uomo che non rinnega il suo passato democratico o la sua simpatia per gli ordini rappresentativi nemmeno quando reclama con impazienza l’avvento di un « uomo di stato di v^sta mente », di un « eletto », di un « moderno Colbert italiano » 13 che sappia impostare una politica di potenza tagliando corto con gli indugi paralizzanti favoriti dall’ortodossia costi­ tuzionale. Per Carpi la ricchezza non è più uno strumento che serve a diffondere una visione del mondo, a connotare socialmente un modello di hum anitas: il consumo, scopo del « progresso », è assunto come 10 Ivi, p. 327; cfr. anche L. Carpi, Delle colonie e dell’emigrazione d ’italiani all'estero sotto l'aspetto dell'industria, commercio ed agricoltura, iv, Milano 1874, pp. 283-286. 11 L. Carpi, L ’Italia vive n te..., p. 335. 12 Su questi problemi, essenzialmente, le forze politiche dovrebbero unirsi o divi­ dersi, traendo esempio dall’Inghilterra dove « tiene il supremo imperio la grande poli­ tica industriale, commerciale e marittimo-coloniale, che non cangia sostanzialmente mai per cangiare di eventi, di ministri e di partiti; questo è quanto io ardentemente desidererei si verificasse in Italia qualora si inaugurasse quell’alta politica industriale, commerciale e marittima-coloniale che io invoco come unico palladio, sine qua non, della nostra esistenza quale grande nazione » (L e riforme. Lettere sei di Leone Carpi al direttore del «Popolo romano», Roma 1877, p. 11). 13 L. Carpi, L ’Italia v iv e n te ..., p. 342.

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meta ultima, come valore in sé. « Il popolo ama la libertà politica e le istituzioni liberali per i vantaggi che ne ritrae, per quelli che spera e per quelli che gradatam ente ottiene: per lui tutto è questione di benessere materiale » 14. A un ostentato economismo si rifà anche la dissacrazione — pos­ siamo appena intuire quanto scandalosa — di un’altra idea corrente nel dizionario della borghesia risorgimentale: il patriottismo di ascendenza sismondiana e giobertiana. La prospettiva di un ripristino del primato italiano, che storicamente competerebbe a chi ha insegnato l’arte e la scienza a tutti i popoli dell’Europa, commuove Carpi men che mediocremente. L ’Italia non è paragonabile alla Francia e all’Inghilter­ ra, la cui floridezza è irraggiungibile: il bel paese deve confrontare i suoi problemi con quelli della Spagna e della Turchia, che gli sono omologhe non solo perché partecipano di una comune telluricità mediterranea — e quindi possiedono una morfologia etnica relativamente uniforme — ma anche e soprattutto perché sono « adolescenti », afflitte da una miseria endemica e da una forte disgregazione culturale. Nelle sue « note » sulla penisola iberica, pubblicate nel 1865, il viaggiatore si profonde in lodi per la politica ecclesiastica del governo spagnolo, che ha consentito un risanamento del bilancio senza alienare allo stato l’appoggio del clero; e in uno studio del 1874 — Delle colonie e dell’emigrazione d ’italiani all’estero, miniera ancora oggi inesauribile di dati e di notizie — propone che in Italia si imitino le soluzioni costruttive e le combines finanziarie adottate in Turchia per ampliare il parco ferroviario in condizioni ambientali infauste 15. Qui la congruenza dei suggerimenti, naturalm en­ te, ha un’im portanza secondaria: ciò che conta è la qualità nuova del­ l’impulso nazionalista, che scaturisce da orientamenti statalisti e « pro­ letari » molto vicini a quelli che nel decennio giolittiano ecciteranno l’interesse per le razze « giovani » — come la giapponese — capaci di ele­

14 Ivi, p. 288. 15 L. Carpi, L a Spagna e l’Italia . . . , pp. 182-183, 199-201, 244-248; Id., Delle colonie e dell'emigrazione . . ., iv, pp. 35-50. Il carattere scopertamente economicistico del patriottismo carpiano, insieme con la carica smitizzatrice e con la simpatia per l’avvenirismo, è confermato da un altro episodio. Nel 1867, subito dopo il disastro di Mentana, il ferrarese suggerisce alle parti politiche di sbarazzarsi di una suggestione retorica qual’è 1’« incubo » di Roma, e consiglia al governo di affidare il ruolo di capi­ tale del regno — se proprio vuol cercare una localizzazione geografica neW'umbilicus Italiae — a un centro giovane e in espansione come la città di Terni, simbolo dell’attivismo imprenditoriale e di un incipiente sviluppo dell’industria elettromeccanica (cfr. L. De Benedetti, Un precursore: Leone Carpi, in « Rivista d’Italia e d’America », h i , 1925, 4, p. 35).

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vare il prodotto nazionale lordo senza contemporaneamente far crescere il reddito prò capite. Mito turco, allora? Mito spagnolo? Senz’altro no. Carpi non pos­ siede né la pazienza né l’astuzia intellettuale che sono indispensabili a chi ordisce tele mitopoietiche. E poi miti del genere, egli se ne rende con­ to, sarebbero architetture bizzarre, per nulla in grado di competere con gli umori che già fermentano nell’idealizzazione della Germania — caratterizzata da motivazioni e da esiti in parte divergenti — o con le attese che lieviteranno di li a poco nella russofilia di Pasquale Turiello e nel culto della vergine America rinnovato da Egisto Rossi dopo il 1880 insieme con l’ammirazione per Vhomestead e per l’ideologia della fron­ tiera l6. Allo scrittore imperialista non sta a cuore l’indicazione di modelli positivi, la cui « perfezione » abbasserebbe oltretutto il quo­ ziente di praticabilità: a lui preme individuare per l’Italia vocazioni nuove e realistiche, segnalare parentele oggettivamente compatibili con un quadro mondiale non più dominato dai grandi stati dell’Europa « ci­ vile » ma dall’oro e dalle merci delle potenze capitalistiche. (E ciò sta­ rebbe a dimostrare — se si volesse tener conto della passione ideologica, sempre fortissima in personaggi del genere — come il passaggio cro­ ciano dalla « poesia » risorgimentale alla « prosa » postunitaria non segni una caduta del tono intellettuale e morale delle classi dirigenti, ma piuttosto un cambiamento di piani, di ruoli e di legittimazione storica da parte di una borghesia nazionale che appare capace di vivere la sua nuova missione con un entusiasmo lontanissimo dallo spleen dei De Sanctis e dei Carducci) n . 16 Cfr. N. Marselli, Gli avvenimenti de11870-71, il, Torino 1871, pp. 198-208; E. Rossi, Gli Stati Uniti e la concorrenza americana. Studi di agricoltura, industria e commercio da un recente viaggio, Firenze 1884, pp. 102 110; P. Turiello, 11 secolo X IX ed altri scritti di politica internazionale e coloniale a cura di C. Curcio, Bologna 1947, pp. 26 e 36; Id., Governo e governati in Italia, i, Bologna 18892, pp. 15-16. Un discorso sugli svolgimenti del nazionalismo esterofilo e imitativo esula dagli scopi di questo lavoro. Varrebbe però la pena di studiare tutti i « miti » che circolano in Ita­ lia nell’età deU’imperialismo partendo dalla constatazione — a mio avviso incontesta­ bile — che l’avversione di origine giobertiana per i popoli « romiti e anacoreti » cambia segno non appena le unità di misura della « grandezza » diventano lo sviluppo dei fat­ tori produttivi, la coesione sociale e istituzionale, la potenza militare come derivato della potenza economica, l’industrialismo come requisito fondamentale dell’espansio­ ne, ecc. ecc.: solo l'affermarsi di un primato dell’« economica » — data la persistenza, e anzi l’intensificazione, del senso comune nazionalista — può infatti spiegare il pas­ saggio dall’immagine dell’Italia « maestra » allo stereotipo dell’Italia « alunna ». 17 La tesi di una generale scontentezza degli intellettuali — non aliena da asten­ sionismo, disimpegno, nevrosi — davanti agli esiti mediocri dell’unificazione, è soste­ nuta da Asor Rosa, L a cultura . . . , pp. 821-839.

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Nazione e lavoro

Solo un’Italia manifatturiera, si diceva, può essere unita e potente. Di qui l’invito al lavoro, requisito essenziale della nuova « gesta », con l’annessa denuncia del « dolce far niente »: una denuncia che per vigore e intensità non ha nulla da invidiare alle perorazioni degli smilesiani come Lessona e StrafTorello. Tuttavia la sottrazione deH’attivismo al suo alveo originario, che resta individualistico e liberista, induce Carpi a non accontentarsi di un’esplorazione della mentalità produttivistica, a non caldeggiare solo la conquista di nuove attitudini psicologiche. Perché « due terzi » degli italiani, egli si dom anda, sono « refrattari al lavoro »? Si è parlato del clima, delle abitudini, dell’educazione molle e scipita, dell’istruzione eccessivamente pedante e classica, del pietismo religioso, delle male arti dei governi più o meno assoluti, più o meno stranieri, il tutto commisto colle fatali tradizioni del dominio e del predominio spagnuolo. [ ...] Ma, a parer mio, vi è ben altro a considera­ re. [ ...] Dove regna sovrana l’atonia nelle industrie e nei commerci, ivi pure signoreg­ gia, con tutte le sue funeste figliazioni, il dolce far niente. Ho riscontrato da ogni parte d’Italia una gradazione mirabile, e di così eloquenti proporzioni, da farmi ritenere quei due termini assolutamente e fatalmente correlativiI8.

Il « dolce far niente » non è un’infermità dello spirito, è una « crit­ togam a sociale »: tant’è vero che non ne sono affetti indistintamente gli italiani, ma soprattutto i redditieri — « i ricchi e gli agiati » che « prefe­ riscono vivere nell’ozio e tenere presso i grandi istituti di credito centi­ naia di milioni a lievissimo interesse, e sovente anche senza interesse, quando non giuocano alla borsa, ciò che è ancora peggio » — e i « bel­ limbusti » della piccola borghesia, « impiegomani », « avvocati », « pro­ curatori », « notai », « medici senza clienti », « proletariato delle intelli­ genze e delle mezze intelligenze ben altrimenti pericoloso del miserando e compassionevole proletariato », « forze perdute », « elementi di disor­ dine »,