Monogrammi e Figure [PDF]

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Zitiervorschau

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Giovanni Anceschi

Monogrammi e figure Teorie e storie della progettazione di arte/atti comunicativi

lacasa

U8~3R

SOMMARIÒ

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Premessa alla seconda edizione

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Monogrammi e figure

81

Definizioni Grafica, 83. Pubblicità, 88. Manifesto, 93.

121

Il campo della grafica Il campo della grafica italiana: storia e problemi, 123. Image: il corpo mistico dell'organizzazione, 160. Etologia dell'image, 172.

185

Piccole storie La parete contesa: il manifesto in azione, 187. Il marchio, 190. Behrens, grafico sistematico, 197. Merci progettuali: il disegno di caratteri, 203. La grafica dei giornali: origini e sviluppi, 215. Rapporto fra grafica e contenuto, 231. Fotografia impaginata, 237. Grafica e circostanze: saggistica illustrata, 241. Grafica e circostanze: tre libri e infiniti criteri, 248.

259

Bibliografia e fonti delle illustrazioni

265

Indice dei nomi

PREMESSA

ALLA SECONDA EDIZIONE

f.

Nel breve saggio illustrato dedicato al marchio che compare in questo libro alla pagina 190) e che compariva identico nella prima edizione) illogotipo Pirelli viene classificato fra i logogrammi puri) e la caratteristica p deformata viene dichiarata come un espediente sin tattico per rendere inconfondibile la scritta. Ma l'affermazione dell' assenza da quel marchio di qualsiasi rimando iconico, che allora ci era parsa perfettamente convincente) nel periodo di tempo intercorso fra quella prima edizione e questa è stata messa in crisi da un)osservazione fatta da uno studente: ovvero) che il tratto distintivo dell)estremo stiramento della parte curva dell' iniziale innegabilmente allude all' elasticità della gomma) quindi nel marchio è presente una componente pittografica. La pertinenza dell' osservazione renderebbe quindi necessario un emendamento del testo. Questo esempio può dare un) idea delle molteplici ragioni che venano di problematicità (e stavo per dire di angoscia) l)evento) in sé piacevole) della riedizione di un libro: dato che) trascorso molto tempo) vengono a proporsi i problemi dell' aggiornamento; anche soltanto gli eventuali progressi ai quali è andata incontro la teoria stessa) esposta nel testo) esigerebbero una riscrittura. Ma) in particolare nel caso di una disciplina come quella che rappresentiamo) che è pur sempre una disciplina del progetto) del disegno) del design, e quindi in una prospettiva di lavoro necessariamente caratterizzata da un atteggiamento antispeciiico, e tuttora impegnata nella ricerca di una compiuta autonomia disciplinare) il problema si fa notevole. Per un approccio che deve porsi all' incrocio di un) infinità di ambiti e di attività) ciascuno dei quali è non solo un universo in espansione) ma possiede anche un background di tradizioni intellettuali che a sua volta rappresenta qualcosa di simile a una miniera) il campo degli aggiornamenti e degli sviluppi costituisce uno smisurato intreccio in movimento. Non credo che ci sia nulla di scandaloso nel riconoscere che si scoprono continuamente nuove regioni disciplinari limitrofe. Per fare un esempio) nell' area di ciò che viene chiamato scrittura) per noi diventa sempre più fruttuoso fare riferimento) in Italia) ad una figura di studioso come Armando Petrucci; e parimenti sempre più fertile) anche proprio per certe affinità di tematica, anche se diverso è l'impianto) diventa frequentare la produzione intellettuale del compianto Giorgio Raimondo Cardona. Qualcosa di simile vale per le tesi di Walter Ong, a proposito del libro) dopo e oltre il contributo di 5. H. Steinberg, l'energetico pensiero di Febvre e Martin o) più recentemente) il grande studio di E.L. Eisenstein.O ancora (stavolta dentro l'orizzonte della tematica delle origini della produzione grafica) accanto a) e dopo il grande abbé Breuil, si consideri la presenza di un autore come LeroiGourhan. Ma per un libro che viene riproposto dopo sette anni) il rimaneggiamento dei testi sarebbe una soluzione troppo drastica e ancora sempre insufficiente. Fra l)altro) quelli trascorsi sono stati sette anni non irrilevanti per la grafica italiana e per la riflessione sulla grafica in Italia: ad esempio) il movimento che si è riconosciuto nella grafica di pubblica utilità è passato dalla prima Biennale di Cattolica (1984) alla

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Premessa

grande mostra «lmages d'utilité publique», tenutasi al Centre Pompidou di Parigi (1988). Ma soprattutto sono nate nel frattempo (entrambe nel 1985), due riviste nel campo della comunicazione visiva italiana, «LineaGrafica» e «Grafica, rivista di teoria, storia e metodologia», e ci sono state un' infinità di iniziative di studio e di riflessione e di discussione dentro e fuori l'istituzione universitaria. Eallora, a proposito del nostro libro, invece di manipolare in funzione di ciò che si è saputo e pensato e di ciò che è successo dopo, si è preferito operare delle aggiunte, che del dopo si avviano a dare conto. Soltanto in due dei testi (le definizioni di «Pubblicità» e di «Grafica») ci si è risolti ad operare delle rielaborazioni. Enon si può negare che le aggiunte siano state corpose e sostanziose: tanto è vero che all' editore ed a me era balenata perfino l'idea di modificare il titolo del libro, pensando lo come qualcosa di nuovo, nel quale rifondere ciò che andava conservato di Monogrammi e figure. Ma ha vinto, e io credo giustamente, la «fedeltà» a quel testo, che ha sviluppato alcune nozioni rivelatesi abbastanza praticabili (e forse, ancor più che a quella di monogramma, penso all' espressione artefatto comunicativo, e all' estensione della teoria evoluzionistica al parco degli oggetti prodotti, con una impostazione che passa per la loro equiparazione a protesi). La prima aggiunta è stata quella di un saggio (ell campo della grafica italiana: storia e problemi») ormai diventato irreperibile, un saggio che va considerato come una sorta di carnet di appunti di storia della recente grafica progettata italiana, pronto per una ulteriore riflessione. La seconda aggiunta riguarda invece due testi che costituiscono due facce di un tema che si collega con la piccola monografia su «Bebrens grafico sistematico», già presente nella prima edizione. I due testi sviluppano, approfondiscono e tentano di generalizzare alcuni spunti in esso presenti, e cioè la teoria dell'Immagine coordinata o image. Una terza aggiunta, che completa invece due altre piccole storie (o piccole monografie) precedenti, e cioè «La grafica dei giornali» e «Fotografia impaginata», è rappresentata da «Rapporto fra grafica e contenuto». Infine, quasi come allegati, abbiamo voluto presentare i due testi che chiudono il volume, non solo a carattere esplicitamente recensorio, ma che non sono stati prodotti dopo la prima edizione, ma addirittura prima. Quindi non è sul piano dell' attua lizzazione che si colloca il loro interesse, ma nel fatto che rappresentano due rilievi metodologici, che, per così dire, nascondono due piccoli studi teorici, dai quali proprio, in qualche modo, è decollata la riflessione di Monogrammi e figure.

MONOGRAMMI E FIGURE

Non si può fare a meno di constatare che il panorama degli studi sui fenomeni della grafica o, più generalmente, delle comunicazioni visive si configura come un paesaggio estremamente articolato e segmentato. La presenza di approcci fortemente orientati in senso ernpirico e specialistico, propriamente tecnico, si accompagna (e spesso si contrappone) a studi di grande respiro (di taglio socio-economico ad esempio, o critico-culturale). Per altro verso ci si trova di fronte a un intreccio di teorizzazioni di tipo analitico o interpretativo (di provenienza semiotica, ovviamente, e delle teorie dell'informazione, ma anche psicologica ecc.) e documentazioni di tipo propositivo (professionali e, al limite, autopromozionali). In qualche modo, malgrado (o forse addirittura a causa di) questo nutritissimo fascio di apporti, va considerata attualmente una certa mancanza di trasparenza e una certa multidirezionale contraddittorietà.

Già sul piano della denomina~mPb;iva

del settore di indagine (o di

attività) sono presenti la nozione di rafic con le sue connotazioni oseremmo dire tradizionalistiche: l'ars graphica), ma anc e la nozione di comunicazioni visive (çonpotata in-s-e " neutrale di u r mitazione del campo deifenomeni inda ati; un termine che ritaglia quelle comunicazioni che si indirizzano a stimolare que ':::aetTI1l1inato ~t-sens-e-ffie è l'occl1io). A queste due nozioni va aggiunto poi il termine di conio anglosasson~ÉYaL design (che potremmo tradurre rogettazione visiva, e che uindi chiaramente tende a co ocare il fenomeno nel quadro de 1'aggru amento delle disci}J.line tl ogettuafi_ accanto al isegno in ustria e a l' c itettura ecc. . . E già queste nozioni si rivelano nei fatti in concorrenza fra loro, secondo implicite o esplicite indicazioni programmatiche. Ad esse si è aggiunta poi anche la nozione di sistemi grafici, che è la denominazione della nostra disciplina, e che può essere intes~ in un'accezione larga e comprensiva, e cioè come la teorizzazione dell'insieme dei metodi e dei SiStemi della pro.Bettazione disomunicEioni visive e cont~ oraneamente come la disci liD-a-/(ferla progettazione di sistemi iù o meno c _ lessi di comunicazione visiva (cioè sistemi di segnaletica, di notazione, di raffigurazione ecc.). Accezione questa che peraltro ingloba quella originaria e ristretta di graphic systems, e cioè lo studio della progettazione e dell'uso di sistemi integrati e altamente tecnologizzati di composizione, impaginazione e stampa. Questo carattere di molteplicità degli approcci, degli indirizzi e delle definizioni di campo non è però qualcosa che si possa interpretare come casuale o accidentale, è anzi, possiamo dirlo con convinzione, qualcosa che sembra connaturato con 1'oggetto di ricerca e con l'ambito di attività. Se tentiamo cioè di delineare un profilo preliminare e sommario dell' oggetto di indagine è difficile, anche se ci si sforzi di I

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·\fonogrammi

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procedere schematicamente, è anzi estremamente difficile sfuggire al meno definitorio e al più aperto dei procedimenti di definizione, e cioè l'elencazione. Questo nostro ipotetico profilo racchiude senz'altro un vasto elenco, una vasta area, nella quale si svolgono una serie di azioni, di procedimenti e di operazioni di cui fanno parte ad esempio quelle del rappresentare e del presentare, del trasrnet- . ~tere e del tradurn;, dell' esporre,.del descrF.rere,del codificare e del simboleggiare. .E.s:iò s~ealizza col tramite di tecniche e' tecnolQgie svariate, servenaosiQr. sistemi e di metodi, ma anche di accorgimenti e di trucchi, ed.avviene con l'aiuto di jtru::.men..!Je af at~ezziprociuttivj, nonché, di macchinari fabbric~!ivi ecc. __ Tutte queste azioni e operazioni confluiscono poi e si coagulano in un oggetto, o meglio, in una serie di oggetti materiali, destinati in prima istanza semplicemente a stimolare gli organi visivi di uno o molti destinatari, e più in generale diretti ad essere da essi per qualche motivo usati o più genericamente fruiti. Il nostro oggetto si compone in realtà di un vastissimo insieme di oggetti prodotti per comunicare: manifesti e cataloghi, inserzioni ed annunci (che possiamo collocare nella rubrica pubblicità), libri e riviste, settimanali e giornali (che possiamo collocare nella categoria grafica editoriale), ma anche tastiere, cruscotti, quadranti, etichette, imballaggi, e cioè parti e componenti comunicative di merci e di oggetti tecnici (la cosiddetta grafica del prodotto). E ancora i caratteri tipografici, i marchi commerciali e istituzionali, le varie segnaletiche (che costituiscono una parte rilevante dei sistemi grafici). Ma anche l'illustrazione divulgativa e scientifica, le tecniche di rappresentazione comuni a tutti i campi progettuali e via dicendo. E un simile elenco non vuole affatto considerarsi esaustivo ... l

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Dando per dimostrata, con questa successione di elenchi solo sommariamente organizzati, la vastità e l'intrinseca complessità della nostra area di ricerca (intesa anche come campo di intreccio di molteplici attività), quello che emerge comunque con notevole chiarezza è il suo essere strettamente connessa, anzi completamente intrecciata fino all'immedesimazione, con la totalità, si può dire, dei tipi di manifestazione della vita associata degli uomini attuali. Non è certo questa la sede per discutere la tesi implicita o esplicitamente manifestata, o meglio sempre più fortemente emergente, in settori culturali di ogni genere, dell' equivalenza fra caratteristiche umane e manifestazioni comunicative. Fra homo sapiens come specie biologica e homo loquens, o communicans (o forse medians), accanto all' homo [aber o abilis. Certo è per noi rilevante in generale constatare, con Maldonado, che «cultura è comunicazione. Ogni oggetto creato dall'uomo, sia che appartenga al suo bagaglio materiale o simbolico, è comunicativo».? Anzi, potremmo quasi aggiungere che buona parte dell'idea che noi abbiamo degli uomini delle varie epoche storiche si configura come l'ipostatizzazione 1 Un' paradigma di questo procedimento preliminare dell' elencazione può essere indicato nella scelta del campo semantico della parola rappresentare presentata in K. Alsleben, Aestetische Re· dundanz, Veri. Schnelle, Quickborn bei Hamburg 1959, e tratta da F. Dornseiff, Der Deutsche Vor,scbatz nach Sachgruppen, Walter de Gruyter und . Co., 1959: «Ritrarre, progettare, acconciare, dar forma, visualizzare, monumento, diva, simbolo, mannequin, pianta, esporre, delineare, contorna-

re, creare, dar vita, presentare, caratterizzare, mimo, preciso, reporter, spiegazione, elenco, statistica, visione d'insieme, cioè, districare, interpretare, tradurre, marcare, tipico, segno, mostra, immagine speculare, aspetto, modello, concreto, apparire, manifestare.» [tr. nostra]. 2 T. Maldonado, «Problemi attuali della comunicazione 1953», in Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974, p. 28.

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di quanto siamo oggi in grado di recepire delle tracce comunicative lasciate dal suo vivere associato. Anche un artista (e studiosokconternporaneo, il Kriwet del movimento Fluxus, arriva senz'altro a sostituire il cagita ergo sum cartesiano con l'affermazione wir existieren weil wir kammunizieren [ 'Slstiamo Rerdie_comuOlc iarnc J, dove è già indicativa la sostituzione del pronome singolare col plurale. E, per confortare questo ruolo coesivo delle strutture comunicative riporta che «l'impero cinese, costituito da una molteplicità di province in cui si parlano lingue diverse, viene unificato da circa 4000 anni da un sistema di scrittura comune a tutti gli uomini». Infatti la caratteristica della scrittura itto rammatica (o ideo rammatica =cinese è proprio quella di costituire un siste a di significazione Indipendente e parallelo a quello delle formazioni fonetiche della lingua parlata. Per cui, appunto, due comunità linguistiche diverse, purché aderiscano ai sistema di notazione, si possono comprendere per iscritto, per così dire, senza minimamente concordare sul piano dell' emissione sonora. Segnalando così la rilevanza politica di questo tipo di fenomeni, nonché la consapevolezza che i poteri politici hanno di tali questioni, Kriwet prosegue col dire che «questa situazione non sarà sostanzialmente modificata nemmeno dalla riduzione, nelle tipografie, del lessico di più di 45.000 segni ideografici precedenti a soli 200 segni, riduzione ordinata a partire dallo febbraio 1956 dal potere statale».' Il nesso fra attività comunicativa, modalità e condizioni del vivere associato dell'uomo viene messo in rilievo ancora da Maldonado, quando afferma: «Ricordiamo che i primi trattati di comunicazione persuasiva - i trattati retorici di Corace e Tisia - possono essere spiegati solo nel contesto delle tirannidi siracusane.» 4 E con un movimento in fondo analogo del pensiero, anche da Levi-Strauss, che in Tristi tropici, ricordando che «l'unico evento storico che coincise con l'avvento della scrittura è la fondazione di città e di regni, in altre parole l'integrazione di un gran numero di individui in un sistema politico e la loro suddivisione in caste e classi», sottolinea da un lato la necessarietà e dall' altro la forza costrittiva dei sistemi simbolici, arrivando ad affermare che «sembra quindi che la scrittura servì allo sfruttamento degli uomini prima che all'illuminazione del loro spirito». E aggiunge, con un salto prospettico, che «gli sforzi sistematici degli stati europei e l'introduzione della scolarizzazione obbligatoria - un obbiettivo che si sviluppò sempre più nel corso del XIX secolo - furono accompagnati dalla estensione del servizio militare e dalla proletarizzazione». 5 L'aspetto socializzante delle strutture comunicazionali è segnalato perfino nella famosa frase di Saussure che determina il numero minimo di partner linguistici: «Il faut au moins deux individus; un seul la langue ne servirait rien.»> E già Wilhelm von Humboldt, nel 1824, perfino in uno scritto tutto linguistico, dedicato alla scrittura alfabetica e ai suoi nessi con la struttura del linguaggio, à

Kriwet, Com. Mix, Die Welt der Schrift und Koln 1972, p. 128-III [tr. nostra]. , 4 T. Maldonado, «Note sulla comunicazione 1961», in Avanguardia e razionalità, cit., p. 130. 5 C. Levi-Strauss, Tristes tropiques, Plon, Paris 1955, pp. 265, 266 (tr, it. Tristi tropici, Il Saggi~ 3

Zeicbenspracbe, Du Mont Schrauberg,

à

tore, Milano 1965). 6 F. de Saussure, Cours de linguistique générale (1908-1909), a cura di R. Gode!, in «Cahiers Ferdinand de Saussure», 15°, Genève 1955, pp. 6-116 (cit. in F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano 1968, p. 55).

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non può prescindere dal fare riferimento a qualche nozione politico-sociale. In una riflessione che, per così dire, anticipa - percorrendole in senso diametralmente opposto -le linee di pensiero di Arnheim sul1!.isual thinking egli afferma: «Illeggere e scrivere alfabeticamente costringe in og-Òtistante àl ri~onoscimento degli elementi fonetici percepibili per l'orecchio e per l'occhio e abitua a una sottile scomposizione e ricomposizione dei medesimi e da ciò generalizza una concezione completa ed esatta della separabilità della lingua nei suoi elementi, appunto nella misura in cui essa è diffusa attraverso l'intera nazione [corsivo nostro].» 7 Resta comunque da considerare, almeno per queste poche citazioni (ma crediamo che ciò possa essere inteso anche molto più in generale), una quasi totale sovrapposizione fra comunicazione verbale e comunicazione tout court. La nostra intenzione non è però quella di una rivendicazione iconocentrica, contrapposta alla visione verbocentrica - quasi iconoclastica - che sembra essere una caratteristica di molti uomini di cultura di oggi. E della quale perfino l'aggressione antigrafica, anzi anti -tipografica mcluhaniana ci pare un esempio rovesciato, in quanto anch' essa mitizzante e sopravvalutante. E nemmeno il nostro problema è quello di una equa o di una più giusta valutazione di questo piuttosto che di quell' organo di senso (la vista contro l'udito, o il tatto ecc.) . .it Come abbiamo accennato, il compito di riequilibrare le sorti della lotta fra l'. eidolon e onoma è stato in un certo senso assunto da Rudolf Arnheim; con un'se-7e~ione però, anzi con l'intento programmatico di rivalutare la percezione visiva come attività conoscitiva. Muovendosi cioè sul piano delle connessioni fra psicologia della conoscenza ed euristica." Ma non è nemmeno questo il senso in cui si indirizza la nostra riflessione. La nostra iniziativa, in coerenza con l'inclinazione progettuale, fabbricativa, operativa, poietica, della nostra disciplina, consiste piuttosto nel considerare il fenomeno comunicativo visivo vedendolo costituito dagli oggetti materiali prodotti che lo compongono. Criticando anzi la nozione stessa di comunicazioni visive in quanto astrazione generica e tendendo a sostituire ad essa, come definizione o indicazione dell' oggetto di indagine, il concetto di artefatto comunicativo. Non solo, ma intendiamo trattare l'insieme degli artefatti comunicativi visivi - anche quelli del passato - attraverso strutture conoscitive di tipo teorico o interpretative in generale; ma anche, anzi forse soprattutto, attraverso l'ottica disciplinare di coloro che questo tipo di oggetti materiali attualmente producono, progettano e fabbricano. Altrove? abbiamo tentato di mettere in guardia contro l'errore anacronistico di usare terminologie recenti per parlare di cose del passato e viceversa. In tale occasione ci riferivamo però ad un uso metaforico e, diremmo, stilistico di tali concetti, che va nettamente distinto da un uso descrittivo e costruttivo. La nozione di artefatto comunicativo non è nell'uso comune, ed è quindi necessario avvicinarla o meglio costruirla per gradi. Per quanto ci riguarda, va certamente fatto riferimento in proposito alle riflessioni di impostazione strutturalista e di meto7 W. von Humboldt, Uber die Bucbstabenschrift und ihrer Zusammenhang mit dem 5prachbau

(conferenza alla Accademia reale delle scienze, Berlino 1824, Verlag Galerie der Spiege1, Koln 1966) [tr. nostra].

8 R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974. 9 Vedi il nostro Behrens grafico sistematico, in questo volume a p. 197.

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dologia di teoria dell'informazione condotte da Abraham A. Moles intorno alla problematica della complessità della civilizzazione tecnica. 10 In queste riflessioni era implicata la concezione che la storia dell'uomo sociale, o comunque lo svolgersi della vita associata degli uomini, sia sempre accompagnata da un parco di oggetti prodotti, che incarnano la mediazione trasformativa tra essi e 1'ambiente che li circonda. E che questo parco di oggetti, questa atmosfera artificiale, può subire contrazioni o espansioni, e tendenzialmente è in espansione. Un altro concetto epistemologicamente importante, sul piano delle fonti da cui ricavare (e quantificare) questo parco oggettuale, era quello di breviaire, inteso come I'insierne delle elencazioni di oggetti (cataloghi, repertori, elenchi merecologici ecc.). In questo testo Moles si concentrava sulla sfera degli oggetti tecnici e degli oggetti d'uso, facendo riferimento solo marginalmente ai fenomeni cornunicazionali. Non è difficile vedere la convergenza fra queste nozioni e quella marxiana di organi produttivi dell'uomo sociale, 11 che Maldonado cita nel finale programmatico del suo saggio sull'iconicità. 12 E aggiunge che certamente in tale concetto non sono comprese solamente le realtà materiali ma anche la realtà comunicativa. Affermazione questa che si può addirittura sviluppare notando che in fondo la distinzione fra realtà produttive materiali e realtà produttive comunicative è di tipo definitorio. Infatti ogni evento o situazione comunicativa si basa su una strumentazione materiale. È evidente che se le ricerche iniziate da Rhine, e attualmente proseguite in molte istituzioni di ricerca, sulla Extra Sensory Perception 1) finissero per dimostrare la possibilità di una comunicazione effettivamente immateriale, ciò aprirebbe un notevole varco in questa concezione. Ma fino ad allora preferiamo richiamare alla memoria la formulazione che dalla tematica della fisicità dell' emissione di messaggi visivi ha dato Kurd Alsleben: «Le immagini sono fasci di segnali luminosi che si offrono all' occhio in parallelo. Nel caso delle proiezioni filmiche si tratta di segnali offerti all' occhio contemporaneamente in parallelo e in serie. I segnali luminosi sono radiazioni elettromagnetiche di lunghezza d'onda determinata che possono venire manipolate, o comunque attivate, col tramite di tecniche fisiche o chimiche (per esempio le immagini televisive e cinematografiche sono prodotte da manipolazioni operate sulla sorgente luminosa), disegni, stampati, pitture ecc. sono prodotti invece da manipolazioni operate sulla superficie riflettente.»:" Ad accompagnare, ma probabilmente addirittura a consentire 1'esistenza delle forme storiche di vita sociale degli uomini, abbiamo dunque un parco di oggetti materiali d'uso quotidiano, di oggetti tecnici per la produzione e infine un parco di oggetti la cui funzione principale è quella di veicolare informazioni, di notificare, ingiungere, persuadere e così via. Questa formulazione tricotomica va però presa con prudenza, in quanto in un certo senso schematica. Essa infatti si presenta con una trasparenza del tutto assente lO A. A. Moles, Theorie der Komplexitiit und der technischen Zivilisation, in «Ulm» (Zeitschrift der Hochschule fur Gestaltung), n. 12-13, marzo 1965. Il K. Marx, Das Kapital, Dietz Verlag, Berlin 1957, I, Libro I, p. 389 (tr, it. di D. Cantimori, Ed. Riuniti, Roma 1970, p. '(2). 12 T. Maldonado, «Appunti sull'iconicità 1974», in Avanguardia e razionalità, cit., pp. 295

sgg. 13 Cfr. J. B. Rhine, Extra Sensory Perception, Bruce Humpries, Boston 1962. 14 K. AIsleben, op. cit., p. 25. Vedi anche E.D. Adrian, I fondamenti fisiologici della percezione, Boringhieri, Torino 1960; A.C.S. Van Heel, S.H.P. Velzel, Che cos' è la luce, Il Saggiatore, Milano 1967; R.L. Gregory, Occhio e Cervello, Il Saggia.tore, Milano 1967.

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nella complessità del reale. Ad esempio: se prendiamo il caso del giornale quotidiano esso è un oggetto materiale comunicativo la cui funzione principale è quella di veicolare informazioni, ma è anche quanto di più simile ad un oggetto d'uso si possa immaginare. Oppure l'orologio da polso: è un oggetto d'uso, che è anche un oggetto tecnico, che è anche un oggetto comunicativo. Eche cosa sono ancora ad esempio la mappa topografica di una città, oppure la brossura di istruzioni per l'uso di un elettrodomestico, o il singolo apparecchio telefonico e la rete dei servizi telefonici, con le guide di consultazione e via dicendo? Per risolvere, almeno sul piano concettuale, questo intreccio di fenomeni, questa unitarietà nella diversificazione, si può fare ricorso al termine generale di artefatto. L'esauriente trattazione di questa nozione fatta da Rossi-Landi mette in rilievo la provenienza paleontologica e archeologica del termine, nella sua determinazione distintiva e definitoria necessaria o «di minima». Che lo intende cioè come formazione materiale in quanto distinta da un oggetto similare formatosi in natura. 15 Ma che soprattutto mette in rilievo, questa volta sul piano sostanziale, il peso della componente lavoro negli artefatti, in contrapposizione alla nozione di attività, la quale potrebbe produrre anche semplicemente tracce inintenzionali. Peraltro, se nel quadro della cultura anglosassone il termine artifact possiede un suo statuto precisato e un ambito d'uso confermato, può esserci utile discuterne l'assunzione in un'area linguistica, per così dire, latina (la questione ricorda per certi versi l'adozione del termine design per progettazione, tanto faticosa prima di arrivare agli attuali distorcenti abusi stilistici). È certo che in molti casi il termine artifact può essere tradotto coll'espressione manufatto: artefatto, come aggettivo, porta con sé connotazioni peggiorative, nel senso di artificioso. Detto questo, non si può però fare a meno di rilevare che se il termine manufatto venisse inteso in senso restrittivo, cioè nel senso di oggetto realizzato con l'uso esclusivo dell'attrezzo mano, ne conseguirebbe che la chiusura del periodo dei puri manufatti potrebbe esser decretata come risalente ad epoche assai remote. La comparsa, ad esempio, della tecnica del tornio come coadiuvante della mo. dellazione manuale di vasi in argilla sembra risalire alla fine del II! millennio a. C. 16 Ma la sostituzione della mano con la prima spatola deve risalire a ben prima. Questo per quanto riguarda la produzione dei cosiddetti oggetti d'uso: per quanto riguarda poi il versante comunicativo, la sostituzione della mano con il primo pennello per cospargere di sostanze coloranti le raffigurazioni che ricoprono le pareti delle caverne risale presumibilmente addirittura all'ultimo periodo della glaciazione, cioè a un periodo che si colloca fra i trentamila e i diecimila anni prima di Cristo. 17 Ma a parte questa considerazione un poco provocatoria, anche l'accezione più tradizionale ed estensiva dell' espressione manufatto lo mette in collegamento con la nozione storica di manifattura. E a questo punto verrebbe escluso ogni accenno di meccanizzazione, con la conseguenza, per la nostra area della produF. Rossi-Landi, op. cit., p. 144 sgg. E. Gavazza, «La lavorazione delle terre», in C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, Mursia, Milano 1973, pp. 86 e 92. 17 H. Breuil, C. Berger-Kircher, «Arte rupe15

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stre franco-canrabrica», in H.G. Bandi et al., Età della pietra, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 29. Cfr. anche C. Dufour Bozzo, «La pittura parietale antica», in C. Maltese, op. cit., pp. 309 sgg.

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zione di oggetti comunicativi, che la Bibbia di Gutenberg resterebbe compresa nell'ambito di indagine, mentre dovrebbe essere espunto ogni libro, periodico o manifesto prodotto con macchine mosse da energia non biologica, come il «Times» di Londra a partire dall'introduzione della prima macchina da stampa a vapore, avvenuta nel 1814.18 L'introduzione del termine artefatto assume dunque anche il carattere di una operazione attiva di generalizzazione terminologica: l'insieme degli artefatti comprende come sottoinsiemi quello dei manufatti e quello dei prodotti industriali. Ed è proprio la nozione di artefatto - nel nostro caso artefatto comunicativo - che ci connette con un ambito di studi i cui diversi filoni si trovano esplicitamente unificati soprattutto intorno alla denominazione del loro oggetto di ricerca e cioè intorno all' espressione cultura materiale. Un profilo esauriente e preciso degli sviluppi e delle linee di interesse della disciplina è stato delineato (e definitivamente introdotto nella cultura italiana) da Diego Moreno e Massimo Quaini nel loro saggio Per una storia della cultura materiale. Dove, in particolare nella parte finale, viene gelosamente difesa la specificità dell' approccio disciplinare contro linee di pensiero apparentemente convergenti ma in sostanza devianti. Come, ad esempio, certi prestiti troppo meccanici dallo strutturalismo o certe influenze destoricizzanti e deterministiche come l'analytical material culture.-1i -"- - - Ma è soprattutto nella voce «Cultura materiale» dell'Enciclopedia Einaudi, ad opera di Bucaille e Pesez, e in particolare nel paragrafo «Tentativo di definizione», che questi interessi e queste propensioni disciplinari, che gli stessi autori chiamano, tattiche e strategie gnoseologiche, comuni ai vari filoni disciplinari (sia alla scuola >---a-n-gIOSaSsone, che ai contributi francesi-che a quelli dell'Europa orientale), vengono delineati con estrema chiarezza e trasparenza. 20 • In primo luogo viene indicato un interesse per la cultura della massa della popolazione, in contrapposizione alla cultura della èlite dei protagonisti. In secondo luogo, una predilezione per i fatti ripetitivi in contrapposizione agli eventi eccezionali e accidentali, in polemica con la storia degli eventi. In terzo luogo, un atteggiamento di sospettosità scientifica nei confronti dei sistemi simbolici e rappresentativi di una determinata cultura, privilegiando cioè gli aspetti che Marx chiamava strutturali: i prodotti, gli strumenti, gli utensili, le tecniche, le tecnologie. E infine, specialmente per quanto riguarda il parco degli artefatti, un atteggiamento di rifiuto per gli oggetti d'arte e di lusso, privilegiando gli artefatti dell'uso normale e quotidiano. Vediamo a questo punto di confrontare con queste indicazioni la posizione di chi come noi è alla ricerca di un oggetto disciplinare che prefigura con la nozione di artefatto comunicativo. Il punto più critico, di eventuale frizione è, ovviamente, quello della contrapposizione struttura-sovrastruttura. Ma solo in apparenza. Qui, infatti, a parte la considerazione teorica che sostituisce il concetto di interazione a quello di causalità o di

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sostituire un organo o una parte corporea mancante o a integrare la funzione quando questa sia gravemente compromessa. Le protesi più comuni sono le protesi dentarie, quelle ortopediche (dette anche arti artificiali) e le protesi acustiche (dette apparecchi acustici)», Grande dizionario medico, Fratelli Fabbri, Milano.

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dal fatto di essere in grado di produrre organi adattivi artificiali (dunque, ancor più un homo abilis che sapiens). E conseguentemente, a vederlo proprio come quella specie di organismo che non deve attendere i lenti processi dell' evoluzione biologica per tentare nuovi schemi adattivi favorevoli alla propria sopravvivenza. Non solo, ma anche in grado di disporre di un set, di un repertorio di organi adattivi occasionali da «indossare» e da «deporre» a seconda delle situazioni contingenti. È ovvio che dobbiamo dunque aspettarci svolgimenti diversi da quelli dell' evoluzione biologica sia sul versante delle modalità di formazione di tali organi, sia sul versante delle modalità di trasmissione ereditaria, di generazione in generazione, di tali adattamenti. L'uomo sembra, per certi versi, comportarsi più come la ideale giraffa di Lamarck " che come i concreti fringuelli e colombi di Darwin. O piuttosto: la costruzione concettuale della dottrina genealogica di Lamarck, costituita da un prodursi di trasformazioni finalizzate degli organi (la giraffa alla quale, grazie al séntiment interieur, si allunga il collo per raggiungere il cibo), e da una trasmissione diretta alla progenie, nella quale le modificazioni si sommano e si stabilizzano, sembrerebbe quasi aver preso a modello proprio la produzione protetica urrlana.60 Gli uomini si costruiscono protesi che permettono loro fare ciò che altrimenti non potrebbero e trasmettono materialmente alla propria progenie tali acquisizioni; e lo possono fare in quanto esse sono artificiali e non biologicamente costitutive. E i loro eredi possono farne uso oppure no; proseguire nell' operazione di potenziamento, differenziazione, specializzazione di esse, oppure lasciarle cadere. Esse entrano comunque a far parte di una sorta di patrimonio che può essere socialmente rivisitato: oppure, possono essere dimenticate, e allora (in certi casi) si può verificare una riscoperta autonoma e indipendente, qualcosa di molto simile a un doppione o a un parallelismo genetico. Le preoccupazioni di Savage dovrebbero essere a questo punto appianate. Sostituendo debitamente organo a organismo, e a quelle di stadi di sviluppo della cultura in generale, la nozione specificata di cultura materiale (sia pure nell' accezione più elastica che abbiamo inteso attribuirle), non dovrebbero più sorgere ostacoli sostanziali al pensare in termini evoluzionistici il processo dello svilupparsi nel tempo di oggetti inanimati prodotti.

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59 «Relativement aux habitudes, il est curieux d'en observer le produit dans la forme particulière et la taille de la girafe Ccarnelo-pardalìs'): on sait que cet animaI, le plus grand des marnrnifères, habite l'intérieur de l'Afrique, et qu'il vir dans des lieux où la terre, presque toujours aride et sans herbage, l' oblige de brouter le feuillage des arbres et de s'efforcer continuellement d'y atteindre. Il est résulté de cette habitude soutenue depuis longtemps, dans tous les individus de la race, que ses jambes de devant sont devenues plus longues que celles de derrière, et que son col s'est tellement allongé, que la girafe, sans se dresser sur ses jambes de derrière, élève sa tète et atteint à six mètres de hauteur (près de vingt pieds)». J.-B. Lamarck, L'Origine des animaux, G. Masson éd., Paris 1892, pp. 79 sgg. 60 Cfr. anche J. Rostand, L'evoluzione, Il

Saggiatore, Milano 1961, p. 38. «Alle trasformazioni evolutive Lamarck attribuisce una duplice causalità: in primo luogo una specie di tendenza innata (séntiment interieur) verso il progresso tendenza sulla quale egli si esprime solo vagamente - e in secondo luogo l'azione delle circostanze ambientali, che a sua volta può manifestarsi in due modi distinti, sia che modifichi direttamente l'organismo sia che lo modifichi attraverso i bisogni che essa stimola e le abitudini e i movimenti che tali bisogni producono. Spinto dalle circostanze ad esplicare una maggiore attività un organo si sviluppa e si ingrandisce, se l'attività si riduce esso si indebolisce e si atrofizza. Per effetto dell'uso o del disuso - dell'esercizio o dell'inattività, - a lungo andare un organo può addirittura formarsi di sana pianta o sparire del tutto».

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Del resto tutto il nostro ragionamento tende a rovesciare l'argomento della peculiarità distintiva degli organismi viventi, ritagliando all'interno di essa la peculiarità specifica degli organismi viventi protesiproduttori. Tale peculiarità è espressa in un contesto decisamente prossimo alla nostra area disciplinare da Jacques Daniel quando afferma: «Le developpement des outils-symboles (écritures) est indissociable de la production des outils concrets (machines produire)»;" ma in maniera ancora più precisa e stringente da Rossi-Landi che dice: «Discutere se e come si siano formati prima i prodotti e gli strumenti fisici quali estensioni del braccio o i segni e le parole quali estensioni della mente è doppiamente assurdo: perché le due cose si sono svolte insieme e perché la mente, fenomeno sociale, è essa stessa quella duplice estensione, si forma con essa.» 62 E nel nostro discorso la mente, intesa non tanto in senso individuale, quanto nel senso collettivo e sociale indicato da Rossi-Landi, può cioè essere considerata il luogo della collocazione, della registrazione del bagaglio protetico di cui dicevamo, e quindi essere intesa come il piano degli svolgimenti della sua trasmissione ereditaria. In quanto è una mente, questa di cui parliamo, che comprende materialmente, ad esempio, tutti gli scritti e i libri e i disegni e le biblioteche, nonché tutti i momenti didattici e formativi, più o meno istituzionalizzati e informali. Il riconoscimento di questa peculiarità ci mette fra l'altro al riparo dall'imboccare (o meglio, dal ripercorrere) la strada di una pura e semplice storia della tecnologia che intenda quest'ultima sostanzialmente come una forza trascendente che produce innovazione per il bene generico della umanità. 63 Un' equiparazione concettuale proprio fra strumenti e organi è esattamente quanto è contenuto, del resto, nella famosa suggestione programmatica di Marxcitata da Maldonado nel già menzionato saggio Appunti sull'iconicità -, nel quale l'ipotesi protetica sembra costantemente latente senza venire espressa. Lamentando l'inesistenza di una storia della tecnologia appunto critica, cioè non neutrale né deterministica, ma legata strettamente alle vicende sociali dell'uomo, Marx dice: «Il Darwin ha diretto l'interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell'uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare?» 64 L'indicazione marxiana è, si può quasi dire, specificata e articolata proprio in direzione protetica da un precursore di questo tipo di riflessioni che, riferendosi al più versatile degli effettori (la mano prensile dotata di pollice opponibile), dice: «La sua mano nuda [dell'uomo], per quanto robusta, infaticabile, duttile possa essere, può fornire solo un numero ristretto di effetti; non può compiere grandi cose senon con l'aiuto degli strumenti e delle regole d'azione. Gli strumenti e le regole à

61 J. Daniel, «Le signe produit et reproduit», in AA.VV., La créativité en noir et blanc, Nouvelles Editions, Paris 1973, p. 107. 62 F. Rossi-Landi, op. cit., p. 17. Vedi anche: A. Lorenzer, Nascita della psiche e materialismo, Laterza, Bari 1976. 63 Vedi, per quanto rigurda una storia della tecnologia non banalmente ottimista, A. J. Forbes, L'uomo fa il mondo, Einaudi, Torino 1961; S. Lilley Storia della tecnica, Einaudi, Torino 1952; ma so-

prattutto W. Leiss, Scienza e dominio, Longanesi, Milano 1976. Vacomunque sempre notata una leggera sottovalutazione dei fenomeni comunicativi. 64 K. Marx, Vas Kapital, cit., I, Libro I, p. 389 (tr, it. di D. Cantimori, Il Capitale, cit., p. 72). La concezione protetica in Marx è resa inequivocabile dalla citazione, sempre nel medesimo contesto del programma di John Wyatt: «una macchina per filare senza dita».

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d'azione sono come muscoli aggiunti alle nostre braccia e delle molle accessorie aggiunte al nostro spirito. »65Protesi, potenziamento e differenziazione sono le nozioni su cui si regge questa affermazione. E si tratta di Diderot nella voce «Arte» dell' Encyclopédie. Il problema di un inquadramento teorico come questo non sembra dunque tanto essere quello di dimostrarne la generalità o l'universalità, quanto piuttosto, . al contrario, quello di riuscire a delimitarne la portata definitoria. Il rischio è quello di finire in una sorta di visione animistica del mondo, una sorta di contromondo disseminato di organi che sorreggono, guidano, afferrano, per così dire per procura. Anche se, proprio a partire da una simile concezione, si potrebbe forse sviluppare una teoria del risparmio gestuale degli strumenti, da affiancare a quella della specializzazione dei loro effetti. E qui, allora, la domanda sarebbe: quanti gesti, quante persone, quanto lavoro sarebbero necessari per espletare direttamente la funzione espletata da un determinato strumento o artefatto? Comunque resta difficile discriminare, per così dire, a priori ciò che è protetico da ciò che non lo è. Affidandoci in questo al proseguimento empirico e particolare delle ricerche, ci limiteremo ad accennare che, comunque, non tutto è protesi. In primo luogo, ovviamente, ciò che non è artefatto non può essere protesi (anche il tutore ligneo di un albero coltivato, è, quando è operante nell'uso, un artefatto). Ma non tutti gli artefatti sono direttamente protesi: semilavorati, pezzi e componenti degli oggetti prodotti, anche proprio dei più strumentali di essi (prima che siano in grado di funzionare), non possono essere definiti tali. Si può quasi dire che una protesi è tale soltanto quando è in funzione. Acquisita, con tutte le circospezioni del caso, questa sorta di legittimazione generale della nostra linea di riflessione, resta comunque invece da avanzare un ragionamento che operi di nuovo in senso inclusivo e ad un tempo specificante. Resta da vedere, cioè, se è praticabile l'uso della nozione, o meglio se la nozione protesi è in grado di abbracciare, di includere, fenomeni e aspetti specificamente relativi alla nostra area disciplinare comunicativa e visiva. Ora, se una protesi è qualunque cosa ci consenta di fare ciò che altrimenti non potremmo (e nella definizione di Eco era contenuto come esempio quello di una protesi eminentemente ricettivo-osservativa come il doppio specchio periscopico, che risolveva cioè il problema di riuscire a vedere qualcosa di altrimenti non visibile), la domanda che emerge è la seguente: possono essere considerate protesi anche quelle attrezzature che consentono di mostrare ciò che altrimenti non sarebbe possibile far vedere? Se dunque è relativamente pacifico il carattere protetico di strumenti e accorgimenti (lente, periscopio, microscopio, telescopio ecc.) che mettono in grado di percepire oggetti, fenomeni, processi che si svolgono al di là dei limiti del presente percettivo;" includendo necessariamente nelle catene dei nessi causali (proiettivi, fisici, chimici ecc.) che ci consentono di farlo tanto le forme di registrazione per così dire definitive o finali (ad esempio, la lastra sensibile ai raggi X), quanto quelle

M.·e M. Bonfantini (a cura di), Antologia di Diderot e D'Alembert, Istituto geografico De Agostini, Novara 1977, p. 30. 65

dell'Encyclopédie

66A.A. Moles, Theorie de l'information et de la pèrception esthétique, Flammarion, Paris 1958.

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intermedie (ad esempio, la pellicola cinematografica a raggi infrarossi);" se tutto questo è relativamente accettabile come protesi, resta da stabilire che cosa dobbiamo dire di quelle attrezzature e di quegli accorgimenti che ci consentono di far vedere ad altri ciò che altrimenti non potrebbero vedere, o ciò che altrimenti non saremino in grado di far vedere loro. E non si tratta qui semplicemente di un rovesciamento, di un'inversione di direzione delle catene di connessioni causali tecnicamente prodotte negli strumenti di osservazione. Ovviamente, ad esempio, ciò che è stato registrato per essere visto è mostrabile. Ma si tratta di indagare intorno all' applicabilità della nozione di protesi ostensiva (accanto a quella osservativa), in tutt' altra direzione. Si tratta di stabilire, ad esempio, se attrezzature del tipo di quelle che vanno sotto il nome professionale di exhibition design, ovvero in generale tutte le tecniche espositive di documenti, reperti, oggetti, possono rientrare nella categoria di protesi ostensiva. O anche, ad esempio, se quella forma di attrezzatura di uso per così dire sociale e impersonale che è il sistema delle affissioni pubbliche di manifesti possa meritare tale denominazione. O ancora, più in generale, che cosa dire di tutti quegli accorgimenti che risolvono il problema di indicare mediatamente (degenerate indices) ciò che per qualche motivo non è possibile indicare direttamente (genuine indicesi;" o, esprimendosi ancora nel linguaggio della cibernetica, cosa dire di quegli organi effettori comunicativi che sono attivati proprio per poter funzionare in assenza dell' organismo, in questo caso ernittenter " Come il cappello piumato del balivo appoggiato sul bastone nella saga di Guglielmo Tell. O un manifesto di chiamata alle armi. O in generale ogni attrezzatura di propagazione comunicativa. Pur tenendo presente il rischio che abbiamo definito animistico e ubiquitario, non ci sembra che sussistano ostacoli sostanziali ad impedire questa estensione concettuale. Comunque, particolarmente interessante si può dimostrare una sommaria discussione di quelle attrezzature di propagazione e diffusione che le teorie della comunicazione assimilano al modello inforrnazionale emittente-canale-ricevente. Una lettura in chiave protetica di questo tipo di attrezzature le può vedere come strumentazioni ostensive (espositive, dimostrative e quindi discorsive e retoriche) e contemporaneamente come strumentazioni osservative (cioè rivelativo-rilevative). Un esempio: in quanto emissione comunicativa, proprio anche materialmente in 67 H. Schober (a cura di), Photographie und Kinematographie, Wesemeyer, Hamburg 1957. Ve-

di in particolare H. Schober, Rontgenpbotograpbic. p. 254 e, interessantissima, nel nostro contesto, la distinzione fra Beweiswert [valore di dimostrazionel, considerato piuttosto relativo a causa della possibilità di manipolazione, e Erkenntnisswert [valore conoscitivo l, valutato come molto elevato per la cinematografia per la possibilità di quest'ultima di funzionare come lente d'ingrandimento temporale [Zeitlupe], e come condensatore temporale [Zeitraffer]: rispettivamente: riprese accelerate e riprese al rallentatore: E. Dunker Hamburg, Die wissenschaftliche Kinematographie, p. 286. 68 Ch. S. Peirce, Selected Writings, J.B. Buchler ed., Routledge and Kegan Paul, London

1956, p. 107. 69 La nozione di effettori che funzionano in assenza degli organismi interessati proviene qui in .maniera molto diretta da Julius E. Lips che la sviluppa in un contesto di cultura materiale primitiva. Egli dice che l'uomo primitivo «costruì una macchina che lavorava per lui in assenza», e si riferisce allo-strumento miracoloso che fu la «trappola per la selvaggina». Lips mette in rilievo - fra l'altroil fatto che la trappola è sostitutiva oltre che dello sforzo fisico e del rischio della cattura anche di una funzione mentale e cioè della pazienza del cacciatore. Interessante anche tutta la tematica degli accorgimenti di mascheramento visivo, e anche olfattiva, delle trappole. J. E. Lips, L'origine delle cose, Sansoni, Firenze 1959, pp. 83 sgg.

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quanto proiezione ottica, il caso appunto di una qualunque proiezione filmica si configura come attivazione di una protesi ostensiva. Mentre in quanto ricezione, che fa un uso rovesciato dei nessi causali tecnici, che risale per così dire a ritroso le catene causali ottiche, fisiche ecc. (dall' occhio, allo schermo, all' obbiettivo del proiettore, alla registrazione sulla pellicola, indietro, attraverso le varie operazioni tecniche e chimiche di riporto e di registrazione, all'immagine latente sulla pellicola impressionata, all' obbiettivo della ripresa, alla scena filmata), la proiezione si fa protesi osservativa. Si noti bene che è proprio nella catena materiale delle operazioni di riporto e di registrazione intermedia, nelle operazioni apparentemente neutrali di manipolazione tecnica, che si incarnano le possibilità - appunto - di manipolazione discorsiva e retorica. Forzando appena, si potrebbe dire che è nella accettazione delle difficoltà tecniche, nel forzoso soprassedere ad una accuratezza dei riporti, nell'ambito marginale dell'imprecisione, che nasce la possibilità della manipolazione intenzionale. Non riuscire e non voler mostrare sembrano cioè legati inmodo piuttosto stretto. Ad ogni modo, una presentazione del problema secondo una tipologia dei generi (o dei tipi di discorso) rende la cosa immediatamente accettabile: un film documentario di entomologia funziona abbastanza evidentemente - addirittura istituzionalmente - come protesi osservativa per il destinatario. Mentre un film fantastico, come quelli di Meliès, sembra relegato nelle condizioni di protesi ostensiva. In realtà, però, anche la più fantastica, la meno documentaria delle proiezioni filmiche gioca sulla più protetica delle caratteristiche della sua ricezione. E ci riferiamo al tratto funzionale che caratterizza ogni buona protesi, e cioè il fatto di fare dimenticare, nell'uso, che la si sta portando. Dopo una fase di adattamento, il fatto di portare gli occhiali viene dimenticato dal miope, così come pochi istanti dopo lo spegnersi delle luci sparisce dalla coscienza dello spettatore la realtà materiale del suo essere seduto in una sala, di avere di fronte uno schermo bidimensionale ecc., per essere sostituita dalla cosiddetta illusione percettiva di stare assistendo, di essere presente all'effettivo svolgersi degli eventi filmati. Non è solo una convenzione appresa ciò che ci fa accettare «quasi sul bordo del mare» la presenza di «quattro arcivescovi vestiti di paramenti liturgici e nello stesso atteggiamento che avrebbero se si trovassero nel coro di una cattedrale». In L'age d'or di Bufiuel questo può avvenirci anche, e soprattutto, perché questa inquadratura è preceduta-da una serie di piani che ci mostrano «uno scorpione (ppp) su una roccia liscia [ ... ] una mano che si accosta cautamente allo scorpione come se volesse prenderlo fra le dita. Lo scorpione agita minacciosamente il pungiglione velenoso». 70 A meno che nella nozione di convenzione non si faccia rientrare tutto questo, la nostra accettazione di ogni possibile narrazione fantastica per immagini proiettate è legata indissolubilmente all'illusione percettiva (o piuttosto alla realtà protetica) di stare assistendo direttamente alla scena filmata. Anzi, sono in particolare il prestigiatore Meliès e tutti i suoi eredi coloro che, sfruttando quei margini di manipolazione che dicevamo, fanno più conto dello sguardo entomologico dello spettatore. Almeno nel senso delladimostrazione

70 L. Bufiuel, 1974, p. 7.

Sette film,

Einaudi,

Torino

della possibilità di una lettura protetica

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degli artefatti (e in particolare di quelli comunicativi, dove addirittura la distinzione fra protesi e artefatto sembra quasi completamente svanire per il carattere istituzionalmente mediale e sostanzialmente strumentale di essi), il nostro ragionamento si può considerare provvisoriamente concluso e possiamo passare a una trattazione specifica delle origini della produzione grafica.

Le origini della produzione grafica Non ho cercato di ricostruire le origini dell' arte. E detto che è venuta dagli immortali, ma nessuno li ha mai visti. HSIEH

HO

(fiorito intorno al 490 d. C.)

Garantitaci almeno per grandi linee la legittimità del nostro interessamento per le origini, o per lo meno certamente giustificata l'intenzione di interrogarle, restano da stabilire i modi o meglio le possibilità di cui disponiamo per farlo. Quello, insomma, che possiamo chiamare il problema delle fonti. Da un lato, evidentemente, la via principale è quella diretta, quella che può essere definita l'analisi documentale. Cioè l'indagine degli artefatti, alla maniera in cui nel campo delle analisi letterarie viene intesa l'analisi testuale. E cioè, nel nostro caso, l'analisi materiale e funzionale degli artefatti comunicativi, come essi si configurano, come sono stati prodotti ecc. In proposito, un primo ordine di problemi è quello più propriamente filologico (riguardante cioè quegli aspetti che garantiscono una sicura collocazione degli artefatti nel tempo e nello spazio, insomma la problernatica dei dati e della loro controllabilità). Questo genere di problemi, a causa della specificità non verbale delle informazioni e dei materiali trattati, a causa dello specifico indirizzo figuraIe dell' area di ricerca, presenta per altro una serie di addentellati che potremmo chiamare più propriamente filoiconici, e che investono cioè gli aspetti del trattamento scientifico . di questo tipo di materiali visivi (dai problemi di schedatura in fase di elaborazione a quelli di citazione in fase di esposizione), per i quali le regole esistenti, relative alla produzione verbale sono parzialmente inadeguate. Ma a parte questo livello che possiamo chiamare di trattamento formale dei materiali, sono da evidenziare gli aspetti sostanziali, o, come si dice, le considerazioni di merito ad essi relative. E qui ci può essere d'aiuto un confronto fra le indicazioni e le pratiche di due filoni di studi che hanno in comune (fra di loro e con noi) l'interesse per le manifestazioni comunicative in quanto insieme di oggetti prodotti, cioè in quanto artefatti. E ci riferiamo da un lato agli studiosi di archeologia, soprattutto quando si occupano di manifestazioni figurative," e dall' altro agli studiosi di ciò che abbiamo chiamato cultura materiale comunicativa. 72 Prima in assoluto come area focale, come momento di concentrazione dell'in71 Questo vale certamente per Bandi, Breuil ecc., op. cit., ma anche più in generale. Cfr. ad es. T. Talbot Rice, Gli sciti, Il Saggiatore, Milano 1958; oppure H. Lhote, Alla scoperta dei tassili, Il Saggia-

tore, Milano 1959. 72 'Benjamin e Fuchs e Grand-Carteret, op. cito

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teresse indagatore, è quella della tecnica esecutiva, nel senso dell' attrezzatura materiale di realizzazione e fabbricazione. E se qualunque relazione archeologica concernente arte fatti pittorici, espletate le questioni informative di collocazione geografica e di datazione, comincia di solito con un capitolo di questo argomento esecutivo, materialistico e produttivo, Walter Benjamin, a proposito dell'arte di massa (che costituisce evidentemente un settore dell' area ricoperta dalla nostra nozione generale di produzione di artefatti comunicativi), dice che lo studio di essa «porta a una revisione del concetto di genio; rispetto all'ispirazione, che concorre al divenire dell' opera d'arte, esso suggerisce di non trascurare il momento dell' esecuzione» ed aggiunge, riferendosi propriamente a quella estensione, a quello sviluppo dell' esecuzione che è la tecnica riproduttiva, che la considerazione di essa «permette di capire come nessun altro campo di indagine l'importanza decisiva della ricezione»." Successivamente gli archeologi trattano il contenuto raffigurativo, la tematica dell' artefatto o del ciclo di artefatti, quello che più in generale si chiama il motivo iconografico. E Benjamin in proposito afferma che « ... l'interpretazione iconografica si dimostra indispensabile non soltanto per lo studio della ricezione e dell' arte di massa: essa è atta a neutralizzare in specie gli abusi a cui ogni formalismo ben presto induce»." Intorno a questo momento espositivo discorsivo e tematico, il predecessore di Benjamin, Eduard Fuchs, aveva del resto espresso constatazioni assai avanzate. Ad esempio, a proposito della caricatura (che noi possiamo indicare come un possibile genere raffigurazionale), Fuchs constata che, in essa «alles nach bestimmten Gesetzen sich bewegt, alles nach klar bewulsten Zielen sich hindrangt, kurz daf es eine ganz eigene Sprache ist die hier geredet wird: eine Sprache rnit eigenen Symbolen und eigener Grammatik»75 [ ... tutto si muove secondo leggi determinate. Tutto si indirizza verso obbiettivi chiaramente consapevoli, insomma che è una lingua del tutto particolare quella che si usa qui: una lingua con suoi propri simboli e una sua propria grammatica]. Distinto dal momento tematico viene poi quello che gli archeologi chiamano il significato degli artefatti e che noi (ma come abbiamo visto anche Fuchs, quando parla di obbiettivi consapevoli, e Benjamin, quando sottolinea l'importanza della ricezione, si muovono nello stesso senso), chiamiamo le loro funzioni d'uso comunicativo. Ecco indicate almeno tre dimensioni tassonomiche, tre distinti ed intrecciati criteri di classificazione e categorizzazione degli aspetti degli artefatti comunicativi. Si tratta di un'indagine dotata, se così si può dire, di due baricentri, l'uno collocato nelle informazioni del passato e l'altro collocato nelle spiegazioni che dal presente vanno a investire il passato. La visuale puramente retrospettiva non è sufficiente. È indispensabile trovare il modo di confrontarla con la visuale prospettiva di coloro che di tali artefatti erano realizzatori e/o committenti. Oltre che, come indica già Benjamin, con la prospettiva per così dire sincronica dei loro effettivi fruitori. 7J «In linea di principio l'opera d'arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta da uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell' arte, dai maestri per diffondere le opere, infine da terzi semplicemente avidi di gua-

dagni». W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, p. 2. 74 W. Benjamin, ivi, p. 44. 75E. Fuchs, Die Karikatur der europiiischen Volker, cit., p. 2.

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Sarebbe, insomma, per lo meno insensato non sfruttare la possibilità di acquisire informazioni sulle regole d'azione - come direbbe Diderot - oltre che decifrandole direttamente dagli artefatti, anche ricavandole dalle manifestazioni verbali degli uomini che li hanno fabbricati. Insomma, in altre parole, non crediamo che Darwin si sarebbe precluso intenzionalmente la possibilità di interrogare, potendolo, i suoi famosi fringuelli. E infatti è in questo contesto che il concetto di funzione si fa significativo. Mentre per il committente, o per il realizzato re, la funzione si comporta come telos, come obbiettivo da raggiungere, il ruolo del fruitore (destinatario effettivo, o conoscitore, o anche critico e teorico) configura la mediazione fra funzioni e aspetti. forse addirittura il vero e proprio trasformarsi storico delle une negli altri. Ed è questo a costituire la base per cui possiamo dire che nel presente funzioni ed aspetti coincidono. 0, più prudente mente, che, per quanto riguarda la complessa attività del fabbricare artefatti comunicativi oggi, la possibilità di realizzare funzioni coincide con la capacità di discrirninarne e strutturarne gli aspetti. Comunque, questo interesse per le manifestazioni dichiarative di artefici, committenti e fruitori tende a metterei al riparo da ogni vizio «purovisibilista», «empirista», «positivista».

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Un corollario di queste considerazioni, in particolare del primo punto, e cioè dell' osservazione diretta o documentale, deve essere di tenore relativizzante. In effetti, nella nostra attuale situazione storico-tecnologica, l'osservazione diretta delle fonti documentali è un evento sporadico e accidentale (quando non si configura come uno straordinario sforzo intenzionale). Nella stragrande maggioranza dei casi noi riceviamo le fonti già in forma mediata. A un primo livello mediate tecnicamente, e cioè riprodotte e stampate: ma anche a un secondo livello ulteriormente filtrate, selezionate nonché decontestualizzate e montate in altri contesti. Nella ricostruzione del nostro metaforico puzzle bisogna sempre tenere presente che solo alcune tessere portano colori vivaci e linee nette, ma che la maggior parte portano colori sbiaditi e linee appena accennate, o sono addirittura sbocconcellate. Prendiamo un caso concreto: di fronte a un' eventuale indagine sull' artefatto manifesto, non prendere in considerazione l'opera di Max Gallo;" bollandola di mancanza di rigore scientifico, sarebbe imprudente per certe scoperte documentali davvero interessanti, dettate proprio da un interesse puntiglioso per il curioso e l'insolito (e inoltre non andrebbero sottovalutate certe qualità piuttosto elevate dell'accuratezza riproduttiva della pubblicazione). Ma sarebbe altrettanto imprudente non tener conto che l'ottica artistica, in cui sono poi trattati gli artefatti nella formula editoriale della pubblicazione stessa, comporta delle conseguenze profonde. Poiché infatti i cartellonisti sono qui sostanzialmente considerati come artisti figurativi, capita che i loro lavori siano amputati delle parti testuali e tipografiche. 76

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Per le origini (cioè per gli inizi della produzione di artefatti comunicativi) questo tipo di problemi assume poi un'incidenza smisurata. E in misura se possibile 76 Vedi il nostro Gralica e circostanze: saggistica illustrata, «Il Verri» (sesta serie), nn. 13-16, 1979, pp. 328-342, qui a p. 241. 77 M. Gallo, I manijesti nella storia e nel cosiume, Mondadori, Milano 1972.

78 Si noti nel caso particolare, che fortunatamente (ma sarebbe meglio dire ovviamente) questo atteggiamento di poetica deljrammento, di stampo crociano, non ha toccato la preziosa appendice storico-critica curata da A. C. Quintavalle.

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ancora più rilevante per quelle che abbiamo chiamato le manifestazioni dichiarative dei produttori. Se già gli arte fatti in quanto tali sono per noi soggetti alle normali mediazioni riproduttive e selettive, per quanto riguarda qualcosa che possa valere come loro descrizione o come manifestazione di intenzioni, per così dire ortocroniche, non possiamo che constatare di esserne totalmente sprovvisti. Se si esclude qualche caso che qualcuno, con un atteggiamento culturale per lo meno paternalistico, ha voluto chiamare di archeologia vivente, non ci è possibile confrontare le realizzazioni protografiche e protoraffigurative con quanto di esse pensavano coloro che le hanno prodotte. Quindi per necessità siamo costretti a fare riferimento a due altri tipi di fonti: da un lato al mito, inteso come memoria storica descrittivo-narrativa, e ancor prima al linguaggio, all'insieme dei linguaggi verbali, intesi invece come memoria designativa o terminologica. E col dire questo ci pare a nostra volta di testimoniare di non essere affetti da nessun pregiudizio materialista volgare e da nessuna idiosincrasia per il verbale o logofobia. Queste ultime considerazioni relative al problema delle fonti ci permettono di esplicitare un'ulteriore motivazione, interna questa volta, e per così dire autoriflessiva, del nostro interessamento per le origini. Si tratta di una motivazione che si ricollega a quanto dicevamo a proposito dell' embrionalità del nostro approccio concettuale. Occuparci delle origini, date le condizioni così critiche dell' acquisìzione di informazioni, deve condurre collateralmente ad un affinamento particolare e a un' elasticità della strumentazione metodologica che ci sarà, probabilmente, utile in futuro.

Le origini nel mito Proprio nel libro per eccellenza, che comincia con: «In principio», nel grande libro sacro della tradizione mitica semita, l'idea del dio artefice ha una posizione centrale. In esso sta scritto: «Poi Iddio disse: facciamo l'uomo alla nostra immagine secondo la nostra somiglianza.» 79 E più oltre sta scritto: «E il signore Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra. »80E sta anche scritto: «Non farai immagine alcuna di ciò che è in cielo o in terra o nelle acque o sotto la terra. »81E ancora: «Ma tu non adorare né servire i loro dei [degli idolatri], non fare quello che essi fanno; distruggili, stritola le loro statue. »82Le operazioni di raffigurazione e di modellazione sono dunque attività divine e strettamente riservate alla divinità. Ed è interessante seguire nella tradizione islamica, senz' altro fra le eredi della giudaica, una delle più fedeli per quanto riguarda queste problematiche, proprio la vicenda dell'interdizione all'immagine. Titus Burkhart riferisce che è a partire dall'idea del dio artefice che per l'uomo raffigurare appunto come dio ha il valore di una bestemmia. E riferisce anche che il divieto mussulmano di raffigurare si struttura però, confrontando si con la dimensione dell' esistenziale e del pratico, in una raffinata casistica di interdizioni e di concessioni. L'immagine piana è tollerata nell' arte profana, il tabù rigoroso riguarda soltanto dio e il volto del profeta, in direzione antifeticista. E probabilmente nello

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Genesi I, 1, 25.

80Ivi, I, 2, 4.

81

Esodo XX, 4.

82Ivi, XXIII, 24.

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stesso senso va inteso il divieto che riguarda invece drasticamente «l'immagine che proietta un' ombra», 83 con una deroga per quanto riguarda soltanto gli animali stilizzati della decorazione architettonica e dell' oreficeria. Burkhart riporta l'aneddoto di un artista recentemente convertito all'Islam che «con Abbas, zio del profeta, si lamentava di non saper più cosa dipingere (o scolpire). Il patriarca gli consigliò di rappresentare delle piante o degli animali fantastici che non esistano in natura». 84 Il ragionamento che sta alla base della prescrizione è molto prossimo all' atteggiamento che riguarda la decorazione astratta (ad esempio, i rosoni geometrici: i tasatir), comunque considerati superiori a qualunque raffigurazione iconica. La domanda è: perché riprodurre quando si può produrre? E in generale l'arte figurativa (o meglio la raffigurazione) è vista come proiezione di un ordine di realtà in un altro. E ciò è considerato, se non come un vero e proprio errore, almeno come un'improprietà o una scorrettezza concettuale che finirebbe per accordare al relativo un' autonomia che non possiede. Da queste descrizioni e prescrizioni, che vanno prese alla lettera, ma anche come sintomi e come indizi, o anche talvolta controinterpretate come lapsus, possiamo ricavare molteplici indicazioni che ci servono. In primis abbiamo un immediato e fortissimo riconoscimento dell'importanza dell'attività raffigurativa (divinità), poi possiamo constatare la consapevolezza del suo carattere fabbricazionale (modellazione), e subito in trasparenza, ma anche molto esplicitamente, leggere una grande attenzione alle sue possibilità manipolatorie sociali (interdizione in chiave anti-idolatra), infine, ma questo nella molto più tarda elaborazione mussulmana, l'indicazione del suo carattere proiettivo in senso lato (la raffigurazione come operazione che attribuisce autonomia al raffigurato). Il mito greco delle origini della raffigurazione è duplice;" ed è rilevante per la tradizione occidentale e umanistica, in quanto è sovente ripreso nella trattatistica, soprattutto rinascimentale, in accompagnamento agli aneddoti che enfatizzano la rnirnesi illusionistica." Nella prima versione, davvero eroica e tragica, è Narciso ad essere considerato il primo pittore. Narciso che muore baciando la propria immagine riflessa sulla superficie di uno specchio d'acqua. Nella seconda, riportata da Plinio il vecchio, inventrice della pittura sarebbe stata invece una donna, di nome Dibutade, figlia di un vasaio di Corinto, che tracciò sul muro i contorni dell' ombra proiettata su di esso dal suo amante che conversava con lei. Ora, la prima versione implica una concezione della raffigurazione che la intende come perfetto e totale (e impossibile!) rilievo duplicativo. La raffigurazione, sembra di leggere fra le righe, è un'operazione che deve perfettamente rilevare (si pensi a ritrarre o al tedesco abbilden) per immediatamente restituire (si pensi all'in-

83 T. Burkhart, Principes de l'ari sacrée, Dervy Livres, Paris 1976, pp. 13 7 sgg. 84 Ivi, p. 140. . ' 85 Riportate entrambe da Hallain che le trae da Leon Battista Alberti; M. Hallain, «La Iigne, débordement et rupture», in: AA.VV., La créativité en noir et blanc, cit., p. 9. 86 Ad esempio la gara fra Zeusi e Parrasio,

dove Zeusi dipinge dell'uva che inganna i passeri, mentre Parrasio dipinge un panneggio che simula così perfettamente un telo steso a coprire un quadro da ingannare lo stesso suo concorrente. Riportata da Baltrusaitis che la trae da Cornelio Agrippa. ]. Baltrusaitis, Anamorjosi, Adelphi, Milano 1969, p. 107. •

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glese rendering O a resa prospetticat, La seconda invece, tanto più umana e veri simile, è però soprattutto più tecnica e operazionale: si consideri 1'operazione materiale del tracciare a partire da un' attrezzatura proiettiva, occasionale e precaria come può esserlo una lampada d'alcova, ma pur sempre un'attrezzatura. E più pragmatistica: senza illudersi di potere appunto rendere tutta la ricchezza fenomenica del raffigurato, ci si accontenta di selezionare almeno il profilo, il che è poi la sostanza di ogni schernatizzazione. Qui però, infine, la raffigurazione è soprattutto concepita come rilevamento in vista di una conservazione nel tempo di essa, risponde cioè a un'istanza di documentazione e registrazione: quando 1'amante non sarà più là, sul muro resterà il suo profilo, in una sorta di memoria materializzata. Può, a questo punto, dimostrarsi di qualche interesse, con un salto prospettivo non indifferente, rilevare come il più tecnoide, e per certi versi il più automatico dei mezzi di produzione di immagini: la fotografia, si possa leggere, fra 1'altro, come la realizzazione dell'intreccio di aspirazioni espresse da entrambi i miti: foto ricordo e souvenir fotografico da un lato, e dall'altro 1'autoscatto, ma soprattutto il più recente trionfo sintetico (un vero e proprio connubio fra Narciso e Dibutade) rappresentato dalle macchine a sviluppo istantaneo Polaroid, Il primo accenno invece all' attività artistica nella letteratura cinese è davvero curioso, e si trova anch' esso in un libro sacro (nel libro terzo degli Analecta di Confucio, VI secolo a. C.) e paragona la pittura alla cosmesi femminile. Ma si tratta di un' espressione metaforica usata per parlare di tutt' altro argomento. Per risalire invece ai miti delle origini della pittura cinese bisogna servirsi di un trattato di Chan Yenytian, fiorito intorno alla fine del IX secolo d. C. 87 Il capitolo intitolato appunto «L'origine dell' arte» è un vero e proprio trattato protostorico o mitico dove si comincia col dire che «il valore dell'arte [ ... ] scaturisce dalla natura stessa». Alle origini vi sono delle vere e proprie comunicazioni divine e cioè «le iscrizioni sui gusci di tartaruga e i disegni presentati dai draghi»," che noi possiamo interpretare come il conferimento di significati alle configurazioni apparentemente ornamentali degli animali e delle piante o il tentativo di leggerle come messaggi. 89 Queste indicazioni sono riferite dal trattatista al periodo «in cui gli uomini facevano il nido sugli alberi e trapanavano il legno» per fare fuoco. Più tardi, nel regno di Huangti, che viene considerato come l'inizio del periodo storico (2698-1598 a. C.), «Tsiang Chieh, che aveva quattro occhi, osservò i fenomeni celesti e copiò impronte di zampette d'uccelli e gusci di tartaruga così fissando le forme e i caratteri della scrittura. La natura non poté più celare i suoi segreti e perciò piovve miglio. Gli spiriti maligni non poterono più tenere nascoste le loro forme e perciò piangevano di notte»." Dopo aver riferito il poetico mito, il redattore del trattato commenta come avremmo quasi esattamente potuto fare noi: «In questo periodo la scrittura non era diversa in sostanza dalla pittura, ma le prime forme furono rozze. La scrittura nacque dal bisogno di esprimere idee, la pittura nacque dal bisogno di rappresentare forme.»?'

87

Lin Yutang (a cura di), Teoria cinese del-

l'arte, Bompiani, Milano 1967. 88 89

Ivi, p. 50. Cfr. catalogo dell' esposizione Ornament

ohne Ornament,

Kunstgewerbe Museum, Zurich,

1965. 90

Lin Yutang, op. cit., p. 50.

91Ibidem.

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T.-·ene poi indicato il regno dell'imperatore Shun (2255-2206 a. C), come il

dell'autonomizzarsi della pittura come raffigurazione mimetica: « ... si foro modelli, si raggiunsero effetti migliori per ciò che riguardava la somiglianza ~ ~ . oggetti raffigurati.» 92 Come del resto conferma un testo di Ts'ao Chih,' artista ce, III ecolo d. C, che addirittura dichiara che «la pittura è uno sviluppo [!] della ~tura pittografica». 93 Sembra dunque che in questa tradizione la mimesi si confi== . come differenziazione e specializzazione dell' originaria attività indistinta, che a -= volta viene fatta derivare dall' attività di interpretare gli indizi naturali. E ancora più avanti, cioè riferendosi ad epoche decisamente storiche, si dice: Quando la dinastia Hsia ebbe fine con il tiranno Chieh, lo storico di corte Chung : o ' presso gli Shang con piante e disegni. Il principe Tan di Yen presentò [carte geografiche come stratagemma di resa] all'imperatore Ch'u che le accettò senza iscutere. Disegni di questo tipo sono il tesoro di una nazione e un mezzo per il controllo della pace.» 94 E infatti accanto a questo tipo di disegni ci sono effettivazaente altri tipi di raffigurazione che, poiché «digrignamo i denti quando vediamo i ritratti di usurpatori e ribelli, ma siamo presi da ammirazione estatica di fronte ai grandi sapienti [...], è evidente che servono a insegnarci qualcosa»," come dice il citato Ts'ao Chih, principe pittore e teorico del III secolo d. C Se qui abbiamo potuto constatare il venirsi producendo di tipologie di raffigurazione, legate, anche piuttosto consapevolmente, a funzionalità e intenzioni comunicative, è alla tradizione induista che dobbiamo una definizione in termini esplicitamente funzionali della raffigurazione nel suo complesso. Guenon riporta: «Un testo vedico fornisce al riguardo un paragone che illumina perfettamente questo ruolo dei simboli e delle forme esteriori in generale: sono come il cavallo che permette a un uomo di compiere un viaggio più rapidamente e con assai minore fatica che se dovesse farlo coi propri mezzi.» 96 Le immagini in generale, statue o pitture, devono dunque essere considerate come supporto e come veicolo, come sussidio coadiuvante . !.....-.A-.rt'· yàmfa ,i;/iA f,anJi1.-

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15. La fabbricazione delle campane in una tavola dell' Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, disegnata da Goussier e incisa da Bénard

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16. La progressiva schematizzazione dei tratti di teste di renna e di capra su utensili appartenenti alla cultura magdaleniana. In basso, le fasi dell' evoluzione dei pittogrammi sumeri verso la scrittura cuneiforme

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17. Ciottoli dipinti del Mesolitico. Il significato di tale decorazione ci è sconosciuto, anche se molte ipotesi propendono per un uso magico

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culto della tradizione alchemica, nelle raffigurazioni schematiche di flusso attualmente usate dalle scienze più avanzate {ad esempio la cibernetica).118 Di nuovo a Baltrusaitis dobbiamo invece l'apertura di un ulteriore filone che a un certo punto si stacca, specializzandola dalla linea evolutiva delle raffigurazioni a morfologia monolineare. Si tratta delle raffigurazioni a morfologia genericamente dendriforme, che Baltrusaitis fa partire da miti orientali di alberi parlanti, e che attraverso gli arabi passano nella cultura raffigurativa medioevale, 119 e poi rinascimentale, 120nelle raffigurazioni di alberi genealogici e, infine, alle raffigurazioni di ogni processo di ramificazione che oggi troviamo nella stampa di divulgazione scientifica. Qui emerge un punto di divergenza del nostro approccio da quello di Maldonado, quando esorta a non occuparsi (come di trivial questions, direbbe Peirce), di quei «proverbiali esempi di fauna mitologica», di quei «mostri docili e condiscendenti che sono i centauri, i pegasi e gli unicorni». 121 Noi intendiamo, invece, entrare risolutamente nella zona di penombra da essi popolata, proprio perché abbiamo la sensazione, confortata da qualche constatazione, che esplorarla riservi alcune produttive sorprese. Raffigurare non vuoI dire soltanto replicare il visibile, più o meno fedelmente, più o meno schematicamente. Raffigurare vuoI dire anche mostrare l'invisibile (la nozione pragmatica di visualizzazione potrebbe essere usata in questo senso). 122Mostrare l'invisibile a sua volta non vuol dire soltanto rendere visibile strumentalmente 118Se per la prima fase dello sviluppo si deve ovviamente fare ricorso anche qui allo studio della von Franz (op. cit.), per il periodo che va dall'Umanesimo fino al Settecento, possiamo costruire uno spezzone di connessione, che consiste nell'allineare in sequenza una serie di raffigurazioni disegnate: ad esempio 1regni della natura e le possibilità dell'uomo, dell'illustratore di Bonvillus, Liber de intellectu, Parigi 1509 (in J. MullerBrockmann, op. cit., p. 81. Poi La scala della città celeste, dell'illustratore di Raimondo Lullo, Liber de ascensu, Valenza 1512 (K. Seligmann, op. cit., p. 32). Poi L'albero seiirotico, dell'illustratore di Paulus Ricius, Porta Lucis, Augsburg 1516 (K. Seligmann, op. cit., p. 354). E ancora L'universo come monocordo, dell'illustrato re di Robert Fludd, Utriusque cosmi bistoria, Oppenheim 1617 (K. Seligmann, op. cit., p. 354). E ancora, Il Systema Sephiroticum, dell'illustratore di Athanasius Kircher, Oedipus Egiptiacus, Roma 1652 (in K. Seligmann, op. cit., p. 345). E infine, Schema ermetico dell'universo, dell'illustratore di Thomas Norton, Musaeum Hermeticum, Frankfurt 1749 (K. Seligmann, op. cit., p.148). Per il balzo all'attualità cibernetica, e in generale schematica, possiamo contare soltanto, finora, su delle somiglianze morfologiche e funzionali che consideriamo rilevantissime. È proba-. bilmente appropriata inoltre la considerazione, in generale, che la tradizione raffigurativa del pensiero mistico e alchimistico ha in comune con le modernissime discipline che fanno uso di diagrammi di flusso, il fatto di avere l'abitudine di lavorare·

concettualmente a livelli di astrazione o di generalizzazione molto elevati. 119 Vedi in particolare la sequenza iconografica Albero della vita e la nascita di Eua, illustrazione dell'Hortus deliciarum, fine del XII secolo, quindi Albero del male, affresco del Trecento ad Hoxne, Suffolk, e Verger de Soulas, Albero del male, Parigi, inizi del Trecento, interessantissimo perché porta cartigli esplicativi alle ramificazioni (J. Baltrusaitis, Medioevo fantastico, cit., p. 140). 120Vedi Arbor affinitatis, xilografia del 1473 (E.H. Gombrich, L'immagine visiva, "Le scienze», n. 61, settembre 1973). Poi Gerolamo da Cremona, Diagramma alchemico dendriforme e Diagramma alcbemico, miniature del Pseudo-Lullus, Trattato alchemico, Firenze 1474 ca. (J. J. Alexander, 1talieniscbe Buchmalerei der Renaissance, Prestel, Munchen 1977, pp. 60 sgg.). 121 T. Maldonado, in Avanguardia e razionalità, cit., p. 266. 122Fra l'altro questa stessa nozione di visualizzazione, e cioè il rendere visibile ciò che esiste ma che non è visibile, è una circostanza storica con origini relativamente precise e individuabili, e collocabili intorno agli inizi del Seicento. Nel secolo cioè dove si viene mettendo in atto la rivoluzione scientifica astronomica, attraverso Keplero e Galileo. Anzi, ci si può domandare se la fiducia di Cartesio nella sensorialità - oltre che alle influenze del pensiero automatico (J. Baltrusaitis, Anamorfosi, cit., pp. 71 sgg.), non sia stata fortemente influenzata anche dal comparire sulla scena scientifi-

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ciò che si presenta nell' esistente, ma vuoI dire anche costruire figure e modelli visibili del possibile, del probabile, dell'ipotetico. Tutta un'area che potremmo chiamare, utilizzando Peirce, ambito rematico'" della raffigurazione e che comprenderebbe anche tutto il settore della rappresentazione progettuale, cioè oltre che la raffigurazione di ciò che potrebbe fantasticamente essere, anche i disegni che sono prefigurazione di ciò che potrà essere fabbricato.!" Sospendiamo ora questa digressione che - ci rendiamo conto - non si configura altro che come una schematicissima e - ci si perdoni l' ossimoro - parziale visione d'insieme, o piuttosto, più realisticamente come un massiccio programma di lavoro, e ritorniamo alle origini degli artefatti comunicativi. Gli uomini preistorici non si sono limitati, ovviamente, a investire della loro attività raffigurativa e configurativa gli spazi dedicati alla vita e al culto, ma hanno ca dell' occhialino per vedere da vicino le cose minime di Galileo, e cioè dalla scoperta di un intero submondo, esistente ma invisibile. Comunque, poco prima dell'edizione della Dioptrique (1637), si ha la prima pubblicazione di figure di esseri viventi e di loro organi separti osservati al microscopio, ad opera di Francesco Stelluti (1630): ape e punteruolo del grano. E di qui parte una corsa alla raffigurazione del sempre più minuto: dalla prima raffigurazione di un acaro da scabbia, Hauptmann (1687), di una pulce e delle sue uova (viste al microscopio da Bonami, 1691), fino agli Animalcula incredibly menute, di un anonimo inglese (1703), e poi gli Animalcules, classificati secondo la tassonomia linneiana da Hill (1762), e infine le raffigurazioni di cocchi e batteri disegnate da Muller (1786). Tutte queste raffigurazioni sono riprodotte nel formidabile libro di Giuseppe Penso, La conquista del mondo invisibile, Feltrinelli, Milano 1973. Queste raffigurazioni, a partire dallo Stelluti, vanno viste però nel loro contesto, e cioè in quella nuova tipologia di pubblicazioni che è il libro scientifico illustrato a stampa. Da notare che le tavole, se pure fondamentali, e valutabili, e effettivamente valutate, come contributo scientifico esse stesse, sono qui, per motivi di economia produttiva collocate generalmente fuori testo, ed associate ad esso attraverso un sistema di richiami, contrariamente a quanto avveniva nel caso della manifattura dei codici miniati precedenti, di zoologia, botanica ecc. che, in genere, integravano le illustrazioni nel testo. È in questo periodo del Seicento che si articola tutto un ventaglio di raffigurazioni adeguate alle diverse discipline. Si veda ad esempio la tavola di ingegneria idraulica dell'illustratore del Discorso sopra la laguna di Venezia (1670 ca.) di Benedetto Castelli, che raccoglie figure geometriche piane e tridimensionali al tratto, prospettive cavaliere e assonometrie assimilate con ombreggiature e senza ombreggia ture, schizzi topografici ecc. Oppure le straordinarie

rappresentazioni di strumenti sperimentali, al tratto e solo leggermente ombreggiate, dell'illustratore delle Esperienze per conoscere se l'acqua si dilati nell'agghiacciare (1667) di Lorenzo Magalotti, accademico del Cimento (rispettivamente Tav. III e Tavv.VI e VII, della pubblicazione: M.L Altieri Biagi, a cura di, Scienziati del Seicento, Rizzoli, Milano 1969). Tutte queste tecniche raffigurative, assieme a quelle di provenienza scenografica, architettonica, propriamente pittorica ecc., sembrano preparare (e comunque vengono tutte adeguatamente applicate) in quel sofisticato risultato di saggistica per immagini che sono le tavole dell' Encyclopédie (si pensi a ben 11 volumi di planches usciti dopo il 1767). Vedi Testa di medusa e sole di mare o Pulce vista al microscopio (Tavv CXIII e CXV disegnate da Martinet e incise da Bénard) per la rappresentazione microscopica; oppure, per il disegno costruttivo, esecutivo, vedi Guanti da donna (Tav. XCVIII, disegnata da Goussier e incisa da Defehrt) ecc. Ma soprattutto vedi la soluzione presentativol impaginativa, che associa solitamente una veduta d'insieme e di ambientazione, raffigurata prospetticamente e disposta in alto nella pagina e sotto la quale trovano posto una articolata serie di raffigurazioni di dettagli, ciascuno raffigurato scegliendo adeguatamente fra diversi sistemi di rappresentazione (assonometria, disegno costruttivo, spaccato ecc.), e diversi metodi di trattamento dell'immagine (al puro tratto, con leggeri accenni di rilievo, con ombre portate ecc.). [Le cifre romane si riferiscono al numero di tavola della pubblicazione Antologia della Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, cit.]. 123

Ch. S. Peirce, op. cit., p. 103 e pp. 115

sgg. 124 Cfr. il nostro Grafica e circostanze: Saggistica illustrata, in «Il Verri» (sesta serie), n. 13-16, 1979, pp. 329-342, in questo volume alla pagina 241 e seguenti.

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sovente apposto segni anche su oggetti isolati. Si pensi ai ciottoli dipinti, dei quali non si conosce la funzione, ma che comunque per il fatto di essere segnati subiscono un cambio di statuto sostanziale: da oggetti naturali diventano artefatti. Dove essi vengono ritrovati vuol dire per noi che là c'era o è passato l' homo sapiens: funzionano insomma ancora oggi per noi come tracce intenzionali, come segnali, cioè come marcature. Ma soprattutto in epoca preistorica la marcatura è caratteristica degli utensili. L'abate Henri Breuil, che nel 1901 iniziò una serie di impressionanti scoperte e di studi preistorici, che ne fanno una figura rilevantissima del settore, si preoccupò fra l'altro di ordinare, secondo il criterio della progressiva semplificazione, le piccole raffigurazioni di animali (soprattutto teste), incise sugli utensili magdaleniani, raccolti in diverse stazioni archeologiche, nell'intento di inferire criteri e principi di darazione.

E se l'ordine diacronico in esse indicato fosse, come pare, esatto, queste tabelle riassuntive+" sarebbero l'impressionante documentazione postuma di un ulteriore laboratorio storico di ricerca, e cioè quello del processo di semplificazione, o meglio di progressiva riduzione del livello di iconicità;':" in direzione della lettera della scrittura. Tale successione è infatti parzialmente sovrapponibile (cioè nella parte cronologicamente iniziale) alla sequenza ordinata, nel senso di una progressiva diagrammatizzazione, che prospetta lo sviluppo della scrittura sumera dallo stadio geroglifico a quello della codificazione per stampigliatura cuneiforme. 127 Si tratta cioè di un sistema di scrittura che, in un certo senso, progressivamente dimentica le origini pittografiche per divenire puramente sillabico. Bisogna però ricordare che qui ormai il contesto culturale è cambiato. Siamo già all' epoca delle prime città, rette da re, preti e commercianti. Dove la scrittura si fa necessaria per tenere registri di conti, per stendere contratti, per stilare e manifestare prescrizioni e decreti. Ed esiste in Mesopotamia, per i membri dell' dite dirigente, uno straordinario strumento personale per firmarli: il sigillo cilindrico inciso, il quale, fatto ruotare sull' argilla morbida del supporto, lascia la sua traccia in rilievo sul documento. 128 E in Egitto, accanto alle monumentali raffigurazioni commemorative, con la scoperti del papiro nascono i primi libri-rotolo. Sempre in Egitto, il bestiame di Stato porta una marchia tura che indica la provincia di appartenenza e un numero. 129 E infine, più avanti, verso l'epoca della XVII dinastia, si danno i primi documenti di una distinzione fra progettazione e esecuzione degli artefatti: gli ostraka che portano studi modulari per la realizzazione monumentale di geroglifici o studi preliminari per pitture parietali ecc. 130 Tracce di altra natura dell' origine pittogrammatica o, come noi diciamo me125 Cfr. tav. Trasformations progressives de tetes de rennes et de cbèures grauées sur des outils de l'epoque magdaléenne J. Daniel, in AA.VV., La Créativité en noir et blanc, cit., p. 108. 126 Cfr. A. A. Moles, Teoria injormazionale dello schema, «Versus», n. 2, marzo 1972.,Cfr. anche fig. 6, (Degrees of iconisation), H. H. J. Eshes, A Semiotic Approach to Communication Design, «The Canadian Journal of Research in Semiotics», voI. IV, n. 3 (spring-surnmer) 1977. 127 Cfr. E. Doblhofer, Segni meravigliosi, La

Scuola, Brescia 1970, pp. 129 e 159 sgg. 128 R. Bosi, L'avventura delle monete, Faenza ed., Faenza 1975, p. 23. Cfr. ancheJ. Muller Brockmann, op. cit., p. 11. 129 Ivi, p. 17. 130 Cfr. EUA, voI. XI, col. 55-62, e tavv. 34, 37,50: voce «Progettazione», di G.c. Argan. Vedi anche A. Parma Armani, «Le prime manifestazioni grafiche», in C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, cit., p. 237.

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diatamente, iconica della scrittura, sembrano essere contenute anche nelle denominazioni delle lettere semitiche: aleph (toro), beth (tenda, casa), daleth (porta), zajin (arma). 131 E perfino nel Futhark delle rune germaniche si può constatare la trasformazione di segni culturali ideografici in alfabetici. Le rune sono un sistema di 24 segni principali, a ognuno dei quali corrisponde un suono, ma ciascuno dei quali conserva un significato simbolico: X corrisponde al suono g, ma significa anche moltiplicazione, accoppiamento; I corrisponde al suono i, ma significa volontà, forza, potere. 132 Questo sommario schizzo del passaggio dalla scrittura prealfabetica a quella alfabetica (dai fenici trasmessa ai popoli semiti in forma consonantica, e poi ai greci che vi aggiunsero le vocali, per giungere ai latini che formarono l'alfabeto che usiamo oggi, dopo qualche ritocco medioevale, cioè la distinzione fra i e j e fra v e u), può essere visto anch' esso come un gigantesco programma storico di ricerche di progettazione visiva, o anche, secondo la nostra impostazione, come una serie di svolgimenti della realizzazione di adattamenti evolutivi. Qui si rilevano però due tendenze, per così dire contrapposte; una tendenza alla contrazione semplificatoria e codificante e una tendenza all' espansione differenziante. O piuttosto, una serie di fattori che agiscono in un senso e, rispettivamente, nell' altro. Da un lato si pensi che sul piano della produzione esecutiva la necessità di miniaturizzazione (più i segni tracciati sono piccoli e più ce ne stanno nell' artefatto), conduce alla semplificazione. Sempre alla semplificazione concorre anche la ripetizione manuale di un segno (la routinizzazione di un gesto), che qui possiamo chiamare una sorta di coazione stenografica alla semplificazione. A tutto questo vanno incontro fattori intenzionali di semplificazione, il cui caso estremo è l'ipercodifica cuneiforme. E a tutto questo ancora fa da supporto, sul piano della ricezione, un progressivo adattamento per apprendimento al riconoscimento. Ma in direzione opposta agiscono altri fattori e soprattutto la necessità di garantire la possibilità al sistema di scrittura di annotare le infinite stimolazioni che provengono dall' esistente. La possibilità di registrare le infinite nuove cose che compaiono, di descrivere gli infiniti nuovi concetti che si fanno strada. E prima diaccettare compiutamente la mediazione arbitraria e la combinatoria pressoché illimitata della notazione fonematica, il metaforico laboratorio di cui parlavamo ha lavorato a più ipotesi di ricerca. Ad esempio, la scrittura geroglifica egizia, decisamente pittografica nelle sue manifestazioni, sembra sia stata in grado di assorbire, a partire dalle origini, un numero sempre crescente di concetti e nozioni senza aumentare illimitatamente illessico dei pittogrammi, ricorrendo a un accorgimento di tipo anagrammatico, che la scuola di grammatologia francese chiama di transfert per omofonia. m Il pittogramma poteva cioè designare una parola parlata priva di rapporto con l'oggetto 131 K. Gerstner, Kompendium [ur Alpbabeten, Niggli, Teufen 1972, p. 18. 132 Ivi, p. 17. m M. Cohen, L'écriture, Éditions Sociales, Paris 1953. In realtà, accanto al transfert per ornofonia, vi è anche la forma del transfert psicologico, o per associazione d'idee, p. 23. Per quanto riguarda quello che noi chiamiamo l'ingresso iconico Cohen dice: «En effet les phonogrammes créés par le

procédé du rebus tr~nsfert ont servi écrire soit des mots qu' on écrivait par ailleurs au moyen des signes-mots, soit surtout des mots pour lesquels aucun signe-rnot avait été créé ou pour lesquels ce signe-mot était tombé en désuetude. », p. 34. Per la problematica della decifrazione della scrittura geroglifica egizia cfr. E. Doblhofer, op. cit., pp. 41 sgg. Per un approccio più interpretativo e introdurtivo vedi anche J. Derrida, De la grammatologie, Mià

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rappresentato purché questa avesse una consonanza omofonica con la prima (come nel caso di bat e bas in francese, I e eye in inglese, b6tte e bòtte o prìncipi e principi in italiano). Ciò che ampliava ulteriormente le possibilità combinatorie, nel senso anche di aggregazioni di più fonemi, consisteva nel fatto che il pittogramma, ormai funzionante come notazione fonematica, aveva carattere consonantico, cioè senza caratterizzazioni vocaliche, come le grafie semite. Questa via di soluzione, che porta comunque alla notazione fonematica, come avvenne poi nella scrittura egizia detta demotica, è molto diversa da quella presa dalla scrittura ideografica cinese. Essa infatti è caratterizzata da una stategia notazionale di tipo costitutivo (cioè i segni elementari, si associano secondo criteri di interpretazione concettuale e comunque persistono a comportarsi in maniera relativamente indipendente dall' emissione verbale sonora). E soprattutto, veniamo a sapere direttamente da Chang Yenytian che «nel Chouli [manuale di calligrafia] si insegnano ai principi i princìpi della formazione dei caratteri: nel terzo principio detto del 'raffigurare forme' si richiama l'idea del disegno». I}4 Sembra quindi che in una forma di scrittura come quella cinese, rigorosamente pittogrammatica, fosse garantito, attraverso il terzo principio, l'ingresso pittografico, cioè mediatamente iconico, relativo ad eventuali ampliamenti del «da scrivere». Il che è probabilmente ciò che ha consentito a questo sistema di scrittura di sopravvivere fino a noi. L'adattamento ambientale del sistema consisteva cioè nella sua facoltà di ampliare costantemente il catalogo dei pittogrammi. Di fatto, come si sa, il lessico cinese ha raggiunto un numero complessivo di più di 45.000 ideogrammi. Dunque una tendenza sistolica, caratterizzata da forze standardizzanti, codificanti, semplificanti, istituzionalizzanti, contrapposta a una tendenza diastolica all'articolazione, particolarizzazione, individualizzazione, differenziazione. Da notare, collateralmente, il fatto che la riproduzione meccanica diretta (il sigillo rotativo mesopotamico) è qui messa al servizio dell' esigenza individualizzante, particolarizzante. Pagato lo scotto anticipato di alcuni adattamenti o predisposizioni alla riproducibilità, il sigillo è uno strumento in grado di ripetere a piacimento una raffigurazione iconica.Alla riproduzione meccanica è qui associata una più sottile e dettagliata qualità riproduttiva di quella tipica della codifica istituzionalizzata cuneiforme. Sono proprio queste caratteristiche della scrittura che ci fanno comprendere che la nostra nozione di partenza, quella generale di artefatto comunicativo, non basta più. Ormai si sono fatte sentire una serie di differenziazioni concettuali e una serie di specificazioni effettive che ci consentono di operare all'interno dell'insieme artefatti comunicativi la distinzione di alcuni sottoinsiemi. Abbiamo visto che già all'interno dell'equipaggiamento dell' homo sapiens, almeno, a partire dal tardo Paleolitico, ci sono oggetti prodotti di due tipi: gli artefatti di uso pratico e gli oggetti di uso comunicativo. Naturalmente, come abbiamo accennato, più che di due tipi chiusi si tratta di due poli di caratterizzazione funzionale degli artefatti: nel senso che fra gli estremi (ad esempio da un lato il focolare e dall' altro forse il ciottolo dipinto=-" diciamo per noi oggi la forchetta e il manifesto), si trova tutta una scala di situazioni intermedie: oggetti di uso pratico e contemporanuit, Paris 1967 (tr, it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1967).

I}4

Lin Yutang, op. cit., p. 51.

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neamente comunicativo, ma anche parti comunicative (unite ma distinte) degli oggetti d'uso. Ad esempio il sito naturale caverna, che si artificializza attraverso l'uso che se ne fa come abitazione e/o luogo cultuale, viene ricoperto di artefatti specificamente comunicativi (le pitture, i graffiti), costituendo un complesso in cui uso e comunicazione sono inscindibili (analogamente, per noi oggi, una sala cinematografica). Oppure, sempre ad esempio, il raschiatoio magdaleniano che si può presentare come artefatto privo di ogni marca tura ma che, quando vi sia incisa una piccola testa di renna o di capra, ci consente di individuare una distinta componente comunicativa (oggi: il marchio di fabbrica e, in generale, quella che Bonsiepe chiama la «grafica del prodotto»). 135 Ma la marcatura pittografica, una volta trasformatasi in geroglifico e poi in lettera alfabetica, pur conservando il carattere di componente costitutiva di un artefatto più complesso (diciamo ad esempio la parola porpora, contenuta in un contratto fra mercanti fenici), acquisisce però una caratteristica nuova. La caratteristica di poter essere utilizzata sostanzialmente immutata in un altro artefatto comunicativo contingente (diciamo una lettera di credito). Nel caso della scrittura ci troviamo cioè di fronte a qualcosa che non è stato prodotto soltanto per essere (con maggiore o minore immediatezza) compreso da altri, né solo per agire in qualche modo su di essi, per esercitare su di essi qualche influenza, ma abbiamo a che fare con qualcosa che è predisposto anche e soprattutto per essere dà questi stessi altri utilizzato in infinite situazioni. Si tratta di qualcosa in cui sono incorporate tutta una serie di conoscenze e di nessi (ad esempio, proprio per la lettera fonogrammatica, tutta la sua storia pittografica) ma che, al nuovo utilizzatore, non sono indispensabili per poterlo usare. Si pensi, per l'attualità, alla totale e sostanzialmente giustificata ignoranza, da parte della maggioranza dei leggenti e degli scriventi di oggi, degli sforzi e delle ricerche dei progettisti di caratteri tipografici. E in particolare ci riferiamo a quegli accorgimenti che si chiamano correzioni percettiue, e cioè a quelle leggerissime modificazioni formali che il disegnatore di caratteri introduce per accrescere la leggibilità, o meglio per trovare un compromesso fra costruzione geometrica propria della predisposizione alla riproducibilità tecnica e proprietà dell' organizzazione sensoriale e percettiva dell' occhio ricettore. Anzi, si può dire che più ci si dimentica nell' avere a che fare con un sistema artificiale di caratteri, di come esso è costruito e via dicendo, e più esso è un buon carattere. Cioè, di nuovo, una tipica indicazione di funzionalità protetica. Ad ogni modo, questa peculiarità dei sistemi di scrittura, che consiste nel garantire la possibilità di riutilizzo e di scambio dei loro elementi, fonogrammatici o pittogrammatici, è consentita più in generale dal progressivo divenire arbitrario del nesso fra rappresentato e rappresentante. Cioè appunto dal passaggio da raffigurazione a notazione. Il che vuol dire però anche passaggio da un' organizzazione sinottica (i cui elementi hanno cioè un comportamento costitutivo), a un'organizzazione sequenziale (i cui elementi hanno cioè un comportamento somrnativol.!" È la calligrafia a fornire l'esempio più evidente della nozione di sommatività, che in essa viene materializzata da quei veri e propri giunti connettivi che sono i

135 136

G. Bonsiepe, op. cit., p. 225. Cfr. T. Maldonado, in Avanguardia

zionalttà, cit., p. 267. e ra-

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filetti o legamenti. E in modo particolarmente esplicito la scrittura calligrafica araba, la quale presenta addirittura ogni segno notazionale consonantico in ben tre versioni: iniziale (cioè priva di giunto diretto a lettere precedenti), centrale (dotata cioè di due giunti uno in avanti e uno all'indietro), e finale (con il solo giunto diretto indietro). 137 Il parallelismo con le pannellature modulari edilizie (dotate di finiture di testa e di giunti intermedi) è ben più che metaforico. In entrambi i casi si tratta di un montaggio di elementi. Nel caso delle scritture prive di legamenti, i cui elementi si trovano isolati e hanno morfologia grossomodo puntiforme, il ruolo di giunzione è espletato invece dal fondo di supporto. O meglio, è affidato a un giunto particolarmente elastico, versatile, adattivo e cioè alla facoltà dell' occhio ricettore di percepire come unità un gruppo di elementi relativamente prossimi (secondo quella che i gestaltisti chiamano legge della vicinanza). 138 D'altro canto, questa soluzione connettiva è davvero brillante, in quanto unisce lasciando materialmente disgiunto, gioca cioè sulla distinzione fra realtà fattuale (cioè materiale, estensionale, fisica) e realtà attuale (e cioè percepita). 139 Infatti si è potuta usare successivamente la seconda caratteristica, e cioè la relativa disgiuntività dello spazio fra le singole lettere, per separare unità superiori come le parole. Possiamo parlare quindi di una vera e propria soluzione di continuità senza contiguità. Ad ogni modo, è il fatto di costituirsi come entità isolate o comunque discriminabili che consente a quelli che potremmo chiamare i monogrammi, 140 di essere adoperati in un altro artefatto comunicativo. 137 Per un differenziato e ampio panorama vedi A. Kathibi, M. Siegelmassi, L'art calligraphique arabe, Ed. du Chène, Paris 1978. 138 Ci riferiamo alle ormai classiche trattazioni, ad esempio, di Kohler, Katz ecc. Cfr. D. Katz, La psicologia della forma, Boringhieri, Torino 1966, pp. 41 sgg. W. Kohler, La psicologia della Cestalt, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 200 sgg. 139 Per un uso analogo al nostro di questa distinzione terminologica, cfr.]. Albers, Interaction of Colors, Yale University Press, New Haven 1975, pp. 73 sgg. In particolare vedi il passaggio: «In dealing with color relativity or color illusion, it is practic al to distinguish factual from actual facts. The data on wave lenght - the result of optical analysis of light spectra - we acknowledge as a fact. This is a factual fact. It means somethingremaining what it is, something probably not undergoing changes. But when we see opaque color as transparent or perceive opacity as translucence, then the optical recetion in our eye has changed in our mind to something different. The same is true when we see 3 colors as 4 or as 2, or 4 colors as 3, when we see flat even colors as intersecting colors and their fluting effect, or when we see distinct 1 - contour boundaries doubled or vibrating or just vanishing. These effects we call actual facts.» Cfr. accanto a questo importante contributo per la fondazione di una specifica disciplina della progettazione visiva, altri contenuti attuali nella medesima area problemati-

ca, provenienti da settori di ricerca psicologica, contenuti nell'utilissima raccolta AA.VV., (a cura di M. Farné), Illusione. e realtà, Le Scienze, Milano 1978 (con testi di Gombrich, Atteneave, Rock, Farné, Metelli ecc.). 140 È necessario coniare o meglio introdurre questo termine in quanto, come si vedrà più oltre, ci serve una espressione per designare qualcosa di molto specifico e preciso. Non era usabile calligramma in quanto non è una caratteristica del metodo tracciante ad essere rilevante. Tipo e tipogramma avrebbe fatto pendere la bilancia troppo in direzione del versante della meccanizzazione fabbrica'tiva. Logogramma o logotipo avrebbe spostato il baricentro concettuale verso il verbale, quando va invece constatata una sostanziale indifferenza del fenomeno nei confronti sia della pittogrammaticità che delÌa fonogrammaticità. Diagramma, per molti versi proponibile, avrebbe associazioni nel senso di raffigurazioni quantitative. Crafema, modellato su morfema, rnonerna, fonema, semema ecc., avrebbe indicato un'unità troppo minima o meglio sarebbe forse adeguato per un'ipotetica unità di tratto e di tracciato. Per monogramma (non priva di interesse la possibilità di usare poligramma per aggregati di unità) le associazioni con quello che abbiamo chiamato marcatura, con il marchio ecc. non sono per nulla negative, anzi benvenute, suggerendo un'uità che veicola già significato, ma di cui il significato è relativamente indifferente.

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Questo avviene materialmente nell'interessante caso marginale dei caratteri di giornale ritagliati per comporre lettere anonime. O sembra anche essersi verificato come prodromo dell'invenzione dei caratteri mobili da stampa: e cioè il ritaglio di singole lettere a partire da matrici xilografiche che portavano testi interi. Per distinguere con maggior precisione fra ciò che può essere definito monogramma, e ciò che non ha diritto a tale definizione, si può fare ricorso al confronto fra il precedente esempio delle lettere anonime e quella tecnica della produzione di immagini che è chiamata collage. La differenza emerge su un piano eminentemente pratico e operativo: mentre i monogrammi tipografici sono facilmente ricomponibili in una unità diversa dal1'originaria, in quanto sono a ciò adattati, o meglio incorporano nella brillante forma che si diceva le giunzioni connettive, per il caso del collage e del fotomontaggio ciascun elemento deve essere sottoposto ad un trattamento ad hoc di ritaglio, sagomatura, cioè di predisposizione alla giunzione (metodo Hartfield). 141 È la differenza che nell' ambito dei giochi di costruzione esiste fra il Meccano, o il più moderno Lego, e il Piccolo falegname. I primi due basati appunto sul principio strutturale sommativo e il terzo sul principio costitutivo. Si noti che esiste una forma di collage in cui il materiale di origine viene scomposto in tessere arbitrarie, piccoli quadretti o strisce sottili, tutte uguali o modulari.!" per poi ricomporle in una nuova immagine. Ma la nuova immagine composita raggiunge un effetto finale, deformato e distorto magari, ma comunque irrimediabilmente sinottico e complessivo (metodo Kolar}!" Si noti che si possono sottoporre a un trattamento che possiamo chiamare di monogrammatizzazione anche unità complesse non necessariamente composte di monogrammi: è quello che succede alla più iconica delle raffigurazioni, alla più irriducibilmente sinottica delle configurazioni, quando deve essere inserita nel processo di impaginazione di un artefatto comunicativo complesso (una rivista, un libro). Le vengono cioè imposti dei giunti, sotto

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141 Vedi W, Herzefelde,]ohn Hartfield, Vero lag der Kunst, Dresden 1971. 142 Vedi: VI. Fuka, Al settimo cielo, sNDK-La Pietra, Praga-Milano 1965. Con una interessante introduzione di G. Rodari. 143 In margine al ragionamento è forse opportuno annotare una considerazione di metodo. Se può apparire curioso fare uso, in un contesto come questo, di un esempio marginale, tratto dalla casistica criminale, come la tecnica della lettera anonima, può forse apparire inadeguato fare riferimento a due artisti (parlare cioè di metodo Hartfield, contrapposto al metodo Kolar del collage). Designare cioè due pratiche tecniche col nome di due artisti, individuali come tali secondo criteri di definizione storici, contemporanei, attuali, Può sembrare quindi leggermente scandaloso considetarli come membri effettivi del grande «laboratorio di ricerca della progettazione visiva» che dicevamo. Ma se da un lato il riferimento corre alla versione «giocosa», non direttamente utilitaria, delle origini della produzione raffigurativa, dall' altro più specificamente, va ricordato il vettore bidirezionale che lega le avanguardie artistiche - quelli

che Massironi chiama gli ambiti dell' arte di ricerca - alla sfera della pratica comunicativa. Ci riferiamo da un lato al fatto molto immediato e concreto della frequente «doppia militanza» degli artisti sui due versanti (ricerca e pratica), e addirittura del coincidere delle due attività (che è proprio il caso di Hartfield), e dall'altro al constatato utilizzo di soluzioni prodotte nel versante artistico da parte del mondo della pratica grafica e pubblicitaria (cfr. L. Pignotti, Le avanguardie espropriare, «D'Ars», nn. 83-84-85, 1977). L'altra strada è quella di negare tutto ciò o meglio di passarlo sotto silenzio, seguendo la strada dell' «ho inventato tutto io», come fa, ad esempio Jacques Bertin, il quale nella sua farraginosa sistematica (che deve la sua frequente citazione in bibliografia ad un titolo alla moda: Sèmiologie graphique, Gauthier-Villars-Mouton, Paris-La Haye 1967) non menziona minimamente le fonti delle sue concezioni, che si devono non esclusivamente, ma certo in gran parte, ad elaborazioni di artisti. In particolare nel capitolo «Les moyens du système graphique», dove le tabelle alle pp. 66 e 68 non sono altro che delle frettolose rnodernizzazioni delle Urtheorien di Klee e Kandinskij.

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forma di margini e riquadrature. Una fotografia impaginata è dunque un nonmonogramma costretto a comportarsi come tale. 144 L'esempio della lettera anonima ci ha presentato un caso di riutilizzo immediato dei monogrammi, ma alle origini della scrittura non si poteva, né avrebbe avuto un senso praticarlo. Si tratta qui invece di un riutilizzo di altro tipo, di un riutilizzo mediato, indiretto, ma che soprattutto non distrugge la fonte: di una vera e propria ri-produzione, nel senso di una rinnovata produzione. Il modello da riprodurre funziona come punzone, il modello appreso funziona come matrice, la gestualità funziona come carattere. Per tradurre il processo calligrafico nel vocabolario o nel lessico della sua condensazione tecnica operata da Gutenberg e dai suoi eredi. Ma possiamo leggere la cosa anche in senso inverso, ossia vedere la tecnologia della stampa come sostituzione potenziale o come modellizzazione materializzante, oltre che di procedimenti operativi, anche di meccanismi mentali. 145 Qui il lavoro gestuale effettivo della mano che regge il pennello intinto nell'inchiostro, o comunque altro strumento tracciante, sarà fornito dall' attivazione di un' altra attrezzatura separata: il torchio stampante. E il risultato di questi procedimenti, cioè la lettera stampata sull'incunabolo, o il geroglifico dipinto sul rotolo di papiro, o il carattere cuneiforme impresso sulla tavoletta d'argilla, torna a esercitare il ruolo di componente comunicativa, integrata ma distinta, sull'artefatto finale. Con tutto questo volevamo, fra l'altro, sottolineare che codificazione, standardizzazione, carattere sistemico delle scritture non possono venire separati dalle condizioni concrete e materiali nelle quali quest'attività si è venuta e si viene realizzando. Scrivere oggi vuol dire stare scrivendo con la stilografica o con la pena a sfera, e che l'uso di uno strumento piuttosto che l'altro comporta cambiamenti nella nostra calligrafia personale. Oppure vuol dire premere i tasti di una macchina dattilografica: un oggetto tecnico che ha preso altre vie evolutive rispetto alla tipografia, inglobando cioè anche l'equivalente dello strumento tracciante. L'esempio della notazione calligrafica araba ci è stato utilissimo per evidenziare la nozione di montaggio implicita nel sistema della scrittura. E in un certo senso i legamenti connettivi fra un segno notazionale e l'altro, quelli che abbiamo chiamato i giunti fattuali, indicano anche appunto che gli elementi base sono distinti: dove c'è un giunto c'è o c'era una separazione. Questo potrebbe condurre a credere che si possa parlare di gradi (o livelli) di monogrammaticità. Cioè di una monogrammaticità perfetta nel caso della nota-

144 Per controllare quanto l'espressione costretta, riferita alla fotografia impaginata, sia poco rnetaforica, vedi il nostro «Fotografia in pagina» in AA. VV., Fotografia e immagine dell'architettura, Galleria d'arte moderna, Bologna 1980, che mette in rilievo le mentalità contrapposte: quella sommativa dell'impaginatore e quella costitutiva del fotografo. 145 In un saggio che costituisce un bilancio e un'indicazione di prospettiva degli studi neurobiologici sui processi del riconoscimento segnico, Otto Grusser ha sistemato in uno schema a quattro fasi la complessità dei processi mentali coinvolti

nella elaborazione degli oggetti esterni. Di fronte a un oggetto esterno le quattro fasi di elaborazioni sono: 1) ricezione/analisi percettiva, 2) sintesi o generazione oggettuale, 3) astrazione e rappresentazione simbolica, 4) azione. Nella terza fase sono esplicitamente indicate, come stazioni processuali, sia la nozione di registrazione [Speicherung] (per noi qui modello appreso), ma soprttutto la nozione di Handlung senttoiirle [progetti d'azione] (per noi gestualttà). O. Grusser, Neurobiologische Grundlagen der Zeichenerkennung, «Sprache im technischen Zeitaltef»,n. 65 (gennaio-marzo), 1978.

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zio ne per lettere e imperfetta nel caso della calligrafia. Noi propendiamo però per giudicare la monogrammaticità come una condizione dicotomica: o c'è o non c'è. Nonché a farla coincidere proprio con la brillante soluzione che dicevamo. A definire la specificità e l'autonomia concettuale della nozione di monogramma ci aiuta infatti quella che potremmo chiamare una prova storica. Prendiamo dunque in considerazione l'invenzione della tipografia a caratteri mobili e cioè quel sistema tecnico di riproduzione della scrittura che consente la «produzione di grandi quantità di singole lettere liberamente associabili in una varietà pressoché infinita di combinazioni». 146 L'invenzione in Occidente si è verificata intorno alla metà del 1400, come sintesi di una serie di conoscenze tecniche e di nozioni operative già note e diffuse. Essa è caratterizzata, come accennavamo, da un sistema a tre fasi: il punzone, inciso una sola volta in rilievo in un metallo duro, il quale veniva coniato in negativo molte volte su una lastra di ottone, forniva una matrice multipla, la quale a sua volta, usata come forma per la colatura a caldo di un metallo tenero, forniva il carattere. Il procedimento lavorativo proseguiva ripetendo l'operazione per tutte le lettere dell'alfabeto. Che erano così pronte per essere composte. In righe, e poi in colonne. E su di esse, trasferite e serrate sul bancale del torchio da stampa, e inchiostrate, veniva deposto il foglio di carta, che vi veniva premuto sopra uniformemente. . Meno noto è che il sistema pare fosse conosciuto in Estremo Oriente già dal 594 d. C. E certamente in Corea, a partire da 1041 d. C.,147era praticato un sistema di composizione a caratteri mobili, di impronta tecnologica assai diversa da quello gutenberghiano (punzone in legno durissimo, matrice in porcellana cotta in forno e carattere in metallo relativamente tenero), ma, come si vede, identico all'altro come principio strutturale. In area mediorientale, invece, non si ha traccia di un sistema e caratteri mobili. Eppure sarebbe per lo meno insensato pensare a un'arretratezza congenita della cultura tecnica araba. Che, anzi, proprio in questo ambito ha funzionato in molti casi come attiva mediatrice fra Estremo Oriente e Occidente (ad esempio la tecnologia di produzione della carta, in sostituzione del papiro e della pergamena), e sul piano delle conoscenze scientifiche chimiche è stata lungamente all'avanguardia. E comunque xilografia e stampa come procedimenti erano noti ed usati in area mediorientale. Dunque il motivo di questa assenza deve essere individuato in un altro ambito problematico, e cioè probabilmente in quello del sistema di scrittura tracciante prevalentemente diffuso prima dell'invenzione. Sintetizziamo dunque le tre situazioni di partenza. Il sistema degli ideogrammi cinesi è a base pittografica per quanto riguarda il nesso notazionale, prevalentemente calligrafico per quanto riguarda la modalità di tracciatura, e strutturalmente organizzato per caratteri isolati e accostati. Il sistema arabo è fonogrammatico per quanto riguarda il nesso notazionale, decisamente calligrafico per modalità di tracciatura e decisamente, in sostanza fattualmente, connesso sul piano della struttura .delle connessioni. E infine il sistema diciamo generalmente occidentale è una notazione compiutamente fonogrammatica, sul piano della tecnica tracciante è sostanzialmente calligrafico, ma se si considera la tecnica 146S. H. Steinberg, op. cit., p. 23. 147J. Muller-Brockrnann, op. cit., p.

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prevalente si può notare che si tratta di una calligrafia che conserva molto nettamente l'origine separata delle singole lettere: i legamenti, quando ci sono, sono embrionali.':" Sembra dunque in primo luogo irrilevante la tecnica di traccia tura precedente e cioè la calligrafia in quanto tale, in qualche misura comune a tutti e tre i sistemi. Sembra inoltre non determinante l'aspetto del nesso notazionale, in quanto i due sistemi, nell' area di diffusione dei quali si è verificata l'invenzione della stampa sono l'uno a base pittografica, l'altro a base fonogrammatica. Mentre, si badi, proprio questi ultimi hanno proprio invece in comune il tratto caratteristico dell' accostamento di caratteri isolati. Infatti la tipografia a caratteri mobili sfrutta precisamente 1'aspetto elastico, percettivo e ambivalente della giunzione monogrammatica. Separando cioè proprio materialmente i caratteri al momento della fabbricazione. Separazione che resta poi impercettibile, o meglio latente, dopo la stampa dell'artefatto finale. Sarà poi l'occhio del lettore ad instaurare, o a reinstaurare, una giunzione che non è contiguità. Senza avere la pretesa di aver stabilito nessi certi fra monogrammaticità e sistema di composizione a caratteri mobili, questo ragionamento ce li propone almeno come fortemente probabili. E comunque ha dato corpo alla nozione di monogramma. Peraltro, a tutt' oggi, la tipografia in caratteri arabi può essere considerata come il risultato di un'artificiosa monogrammatizzazione. Osservando infatti con una lente d'ingrandimento un qualsiasi stampato tipografico in caratteri arabi, si può notare sempre un sottilissimo filo scoperto, una traccia di disgiunzione, fra le estremità di ogni giunto proteso in avanti ed ogni giunto proteso all'indietro, generalmente quasi del tutto cancellato dall'imbeversi d'inchiostro della carta, ma evidenziato a livello macroscopico dalla più piccola imprecisione involontaria di allineamento. Questi fenomeni, che non inficiano minimamente la lettura se non come eventi inaspettati, cioè come disturbi, possono essere visti come la materializzazione della pleonasticità (sul piano strettamente tipografico, beninteso), del sistema di legamenti nel suo insieme. Sembra cioè - per esprimerei con il vocabolario evoluzionistico - che l'adattamento congiuntivo fattuale, estremamente favorevole sul piano, diciamo a medio termine, della realizzazione calligrafica e delle sue implicazioni stenografiche, abbia finito per rivelarsi favorevole a lungo termine, nella prospettiva della riproducibilità tecnica tipografica. Questo è appunto un caso dove si fa significativa la nostra preoccupazione riguardo alle necessità di relativizzare gli aspetti valutativi di un'impostazione evoluzionistica: un carattere adattivo che agisce in senso evolutivo relativamente a un determinato contesto, si può fare involutivo rispetto a un contesto mutato. E il medesimo adattamento può funzionare di nuovo in senso evolutivo quando si riproducono, magari a un diverso livello di scala, condizioni. analoghe alle precedenti. A sua volta, infatti, la tecnologia di giunzione della calligrafia araba, o meglio il suo principio informatore, potrebbe di nuovo rivelarsi come fattore favorevole nei

148 Vedi]. Peignet, De l'écriture à la typograpbie, Gallimard, Paris, pp. 28 sgg.

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confronti di un evolversi ulteriore delle tecniche di riproduzione e di stampa. E di fatto, ad esempio, la versatilità delle tecniche di fotocomposizione, accompagnata dall'accuratezza intrinseca alle tecniche di stampa litografica o offset, sembra perfettamente compatibile con la calligraficità. Se si associa poi questa considerazione al fatto che una serie di studi sulla leggibilità degli stampati, 149 partendo dalla constatazione empirica del fatto che il processo di lettura per un lettore evoluto non avviene per compitazione lineare, ma per percezioni globali successive di blocchi compatti (molte parole su più righe), tendono ad attribuire un'importanza rilevante ad ogni forma di legamento fattuale che favorisca tale compattezza (nella fattispecie, a quegli pseudolegamenti che sono le cosiddette grazie dei caratteri romani), si può forse pronosticare il ritorno di una tendenza calligrafizzante dei sistemi compositivi (o fotocompositivi), nel qual caso il sistema di legamenti arabo si troverebbe avvantaggiato. E accenni di questa tendenza possono venire identificati nell'unificazione in un unico monogramma di gruppi di lettere (i diagrammi, o i trigrammi più frequentemente associati in sequenza nelle varie lingue) constatabili in alcuni disegni di caratteri recenti, come ad esempio i lavori di Scorsone. 150 Un altro ambito di perfetta compatibilità fra morfologia calligrafica e produzione di scrittura può essere indicato da tutte le tecnologie elettroniche per pennello scrivente su schermo fluoresecente. Un esempio concreto in questo senso può essere individuato nella scrittura sperimentale disegnata dall' olandese Wim Krouvel: il Cathode Ray Tube Typesetting System, che presenta similitudini morfologiche sorprendenti proprio con la calligrafia araba. 151 Abbiamo già avuto modo di rilevare il peso del fattore della rapidità esecutiva, a proposito del suo influenzare la semplificazione dei segni calligrafici. Prendiamo ora brevemente in considerazione più in generale questo momento cinetico e in particolare il ruolo da esso giocato nelle catene di produzione di artefatti grafici. Vediamo cioè quali strade, quali fondamentali linee evolutive si aprono per incrementarne la produzione. Il procedimento di copiatura manuale è generalmente lento: si tratta di ripercorrere esattamente la partitura gestuale costituita dal modello da copiare.!" La prima strada evolutiva di incremento è quella tipica della manifattura, e cioè la moltiplicazione della forza lavoro. L'accelerazione consiste nel far avvenire in parallelo molte volte 1'esecuzione della copiatura, il che si ripercuote poi sull' ampliamento della diffusione. E questo si associa, naturalmente, alla divisione e specializzazione e organizzazione del lavoro: «La chaine commence par 1'écriture du texte 149 A cominciare dagli studi pionieristici di D. C. Pateson, M. A. Tinker, 5tudies 01 Typographical Factors lniluencing 5peed 01 Reading: Size 01 Type, «Journal of Applied Psychology», n. XII, 1929; vedi G. W. Ovink, Legibility Athmosphere and Forms o/ Printing Types, A. W. Sigthoff, Leiden 1938; B. Zacharison, 5tudies on the Legibility 01 Printed Text, Almqwist and Wiksell, Stockholm 1965; e ancora H. Spencer, The Visible World, Problems o/ Legibility, Published by Lund Humphries in association with The Royal College of Art, London 1969. Sviluppi degli studi della scuola del Royal College sono constatabili in D. Cranch, A Report on a 5ystem 01 Computer-generated Alpbanume-

ric Cbaracters, Published by Royal College of ArtReadability of Print Research Unit, London 1973. E anche in: H. Spencer, L. Reynolds, and B. Coe, A . Comparison o/ the Effectiveness o/ 5elected Typographic Variations, Published by Royal College of ArtReadability of Print Research Unit, London 1973. 1501- Scorsone, Word Ligatures: Toward the Design 01 new Reading Systems, «Print» USA, n. XXX, 1, 1976. 151 Cfr. K. Gerstner, op. cit., p. 37. 152 Cfr. la tavola esplicativa dei sensi di traeciatura gestuale a p. 35 di ]. Peignot, op. cito

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principal sur une page qui sert de grille, le copiste-maitre d' oeuvre réservant à l' occasio n desblancs annotés rapidement, qui sont ensuite comblés ou décorés par les responsables des notes ou des lettrines, celles-ci pouvant ètre éventuellement enluminées par un autre service, si le livre est destiné à une clientèle plus fortunée», 153 dice Jacques Daniel. A questo indirizzo produttivo di un'esecuzione gestuale e ripetitiva si contrappone la scelta della riproduzione meccanica, già presente nell' antichità protostorica, come abbiamo già visto nel caso del sigillo sumero e mesopotamico, ma anche nel caso del conio di monete, il cui primo esempio si ha in Lidia nel VI secolo a. C. 154 E questa segue un' altra strategia: si paga lo scotto anticipato di un procedimento estremamente lento, come la fabbricazione dello strumento intermedio (cioè l'incisione del punzone del conio, o l'intaglio della matrice del sigillo), per far seguire il veloce e sicuro processo dell'impressione: conio e marcatura. Seguiamo ora questo succedersi di procedimenti lenti e veloci nel già complesso sistema della tipografia: allento processo di fabbricazione del punzone segue il relativamente veloce conio della matrice, e poi l'ancor più veloce fusione del carattere. Quindi al relativamente lento processo di composizione manuale seguirà il veloce processo della stampa. Sembra che questo della celerità possa essere considerato un obbiettivo costante e fondamentale degli adattamenti sisternici delle pro. tesi comunicative, paragonabile alla motilità e alle facoltà locomotorie degli organismi viventi. Nonché una preoccupazione costante dei fabbricanti di tali protesi comunicative e di tali sistemi di adattamenti. Si pensi al tentativo di accelerare la composizione manuale, operato aggiungendo al sistema di caratteri normali un sistema di logotipi, cioè di aggregati di caratteri (digrammi, trigrammi o intere parole) di cui si era constatato empiricamente 1'occorrere con frequenze rilevanti, compiuto per la prima volta nel 1776 da François Barletti-de-Saint-Paul, e poi largamente adottato nella tipografia di grande produzione."? Ma bisogna naturalmente attendere la messa a punto della meccanizzazione della composizione tipografica, culminata nel 1885 con l'invenzione della Linotype, per avere un'accelerazione radicale del processo. 156 E cioè non un potenziamento strutturale, o organizzativo, ma un potenziamento proveniente dallo sfruttamento di nuove modalità di elaborazione energetica. Lasciamo aperto questo importante filone, relativo al problema della produttività grafica (e lo sappiamo importante proprio nel senso della costruzione di una storia critica delle tecnologie comunicative). E ritorniamo a rivolgere l'attenzione sulla nozione strutturale di monogramma. Vediamo ora, per concludere, come la nozione di monogrammaticità, o piuttosto come il monogramma si comporta nei confronti della linearità, così caratteristica della notazione verbale, alla quale il monogramma sembra essere strettamente legato. E, paradossalmente, la monogrammaticità sembra essere invece ad essa indifferente. Sembra infatti che la monogrammaticità debba esclusivamente garantire la possibilità di una o più giunzioni 153 J. Daniel, in AA.VV., La Créativité en noir et blanc, p. 113. . 154 R. Bosi, op. cit., p. 23. 155 Cfr. E. Turner Berry, H. Edrnund Poole, op. cit., p. 182. Cfr. anche L. Davidshofer, W. Zerbe, Satztecbnik und Gestaltung, Bildungsverband

Schweizerischer Buchdrucker, Ziirich 1954, p. 278. 156 Cfr. W. Turner Berry, M. Edrnund Poole, op. cit., p. 256. Cfr. anche L. Davidshofer, W. Zerbe, op. cit., p. 279.

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connettive. In altri termini, possiamo dire che, rispetto al monogramma, la sequenza lineare sembra essere soltanto una delle possibilità storicamente esplorate ed attuate. Se, ad esempio, per la notazione fonogrammatica dell' alfabeto latino l'allineamento dei monogrammi può, fra l'altro, configurarsi come tratto iconico, che imita cioè in qualche modo le modalità sequenziali dell'emissione sonora, o coincide con esse, per la notazione pittogrammatica degli ideogrammi cinesi, invece, l'allineamento dei monogrammi potrebbe avere qualche altro significato, ad esempio quello della semplice indicazione di percorso di lettura. Il monogramma in quanto tale possiede comunque un comportamento relativamente indifferente anche rispetto alla direzione dell' operazione di lettura. Di essa infatti si sono verificate storicamente almeno tre versioni: la lettura dall'alto in basso delle scritture dell'Estremo Oriente, quella da destra a sinistra della scrittura araba e quella da sinistra a destra delle scritture occidentali. Le catene di monogrammi pittografici cinesi possono quindi essere verticali, quelle dei monogrammi fonografici (e a questo punto niente ci impedisce di parlare di micromonogrammi per la notazione letterale occidentale e di macromonogrammi per la notazione calligrafica araba), possono essere orizzontali e fra le due ultime ci può essere una differenza di direzione nella lettura: eppure, purché sia garantita la funzione congiuntival disgiuntiva, in tutti e tre i casi si tratta indubbiamente di monogrammi. Sembra cioè evidenziarsi come caratteristica fondamentale del monogramma esclusivamente quella di garantire la formazione di aggregati per accostamento. Abbiamo già visto, esposta nei termini materiali della posizione tipografica, la possibilità di progressive aggregazioni ortogonali: il singolo monogramma (la lettera), l'aggregato di primo livello o poligramma (la parola), l'aggregato occasionale di secondo livello (la riga), l'aggregato contingente di terzo livello (la colonna di testo), l'aggregato di quarto livello (l'insieme delle colonne in pagina) e così via. Tutte aggregazioni che presuppongono e consentono una modalità di lettura lineare e direzionata. Ma non va dimenticato che è la monogrammaticità a produrre anche forme di aggregazione più elastica, ad esempio quella bidirezionale, sfruttata nella composizione di tabelle, che presuppone e consente quella modalità di lettura incrociata che è la consultazione. O ancora a consentire quella forma di lettura già pseudosinottica caratteristica delle formule matematiche. Si pensi al caso limite delle formule di chimica organica a struttura esagonale. Ed è per lo meno curioso osservare come ai culmini del pensiero astratto la notazione grafica torni per così dire alle origini pittografiche, e il monogramma torni a farsi figura.

Conclusioni provvisorie Partiti con un disegno di vasto respiro, quasi di fondazione disciplinare e di sistemazione e riorganizzazione concettuale, ci ritroviamo a questo punto con un fascio di linee di ricerca e di ipotesi - che speriamo di avere reso plausibili - e con una scoperta, di carattere molto specifico, e di livello molecolare, sin tattico e elementare: il monogramma. Eppure non abbiamo la sensazione di avere disatteso alle nostre intenzioni.

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Infatti non avevamo la pretesa di statuire certezze, bensì certamente quella di costruire strumenti concettuali. Vediamo dunque, a partire dalla nostra osservazione preliminare, e cioè dalla constatazione che originariamente l'equipaggiamento comunicativo delle aggregazioni sociali primitive era composto da pochi esemplari, mentre attualmente gli artefatti comunicativi sono in numero praticamente incornmensurabile; vediamo insomma di stabilire se attraverso questa indagine, compiuta proprio sopra quella fase originaria, abbiamo acquisito qualche conoscenza sul come questo accrescimento si sia potuto verificare. In primo luogo, ci pare di avere ripetutamente potuto constatare che il prodursi della molteplicità si è verificato in direzione di numerose situazioni differenziate. E abbiamo anche potuto osservare il prodursi della variazione degli adattamenti a partire da una condizione meno differenziata. Basti ricordare la nozione del tracciare in comune fra i successivi scrivere e disegnare. Ci pare, in secondo luogo, di avere constatato che la fonte principale della variazione vada individuata in un progressivo arricchirsi dei problemi comunicativi da risolvere, dei bisogni comunicativi da soddisfare e delle intenzioni comunicative da realizzare. Anzi, in un certo senso è stato proprio questo l'ambito più ricco di risultati d'osservazione. La scrittura realizza il bisogno di esprimere idee e la pittura quello di rappresentare forme (secondo il mito cinese). Le raffigurazioni di animali singoli, di gruppi, le scene di caccia rispondono in prima istanza all' esigenza di raffigurare rnimeticarnente il percepito (in accordo col mito di Narciso). Le silhouette, i profili di mani rispondono in prima istanza alla necessità di conservare, registrare, memorizzare materialmente (in accordo col mito di Dibutade), il che si specializza ad esempio nella necessità di annotare informazioni topografiche, che costituiscono la «ricchezza di una nazione e il mezzo per il controllo della pace» (secondo la tradizione della protostoria cinese). Le segnalazioni indicative dei punti vulnerabili della preda e le protoendografie rispondono all' esigenza di «insegnare qualcosa», come dice la tradizione cinese, che specializza questa funzionalità in senso etico a proposito dei ritratti di saggi, o come avviene nella instructio rudium del Medioevo occidentale. Le effigi di prede crivellate di colpi rispondono all' esigenza di influenzare il comportamento collettivo nella caccia. Le protocosmografie rispondono all' esigenza di sintetizzare conoscenze e concezioni complessive del mondo. Ma questo progressivo aumentare degli artefatti non si configura come un generico ampliarsi uniformemente, come un proliferare illimitatamente diastolico. O meglio, se gli artefatti, in quanto organi protetici, continuano sicuramente a proliferare in conformità con l'ampliarsi delle attività umane, è piuttosto sul versante dei metodi esecutivi e dei sistemi di raffigurazione e notazione che si sono potuti constatare fenomeni di tipo selettivo. Cioè estinzioni causate dalla relativa inefficienza di tali sistemi, intesi propriamente come adattamenti specifici di tali organi. O piuttosto, data la peculiarità del meccanismo di trasmissione ereditaria di tali protesi e adattamenti, che consiste in un loro diretto e concreto passare di mano in mano e in un loro depositarsi nella memoria collettiva, senza passare attraverso i complessi meccanismi genetici fisiologici, più che con vere e proprie estinzioni, abbiamo a che fare qui con situazioni di tipo competitivo e di prevalenza temporanea di uno piuttosto che dell'altro adattamento.

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Infatti non avevamo la pretesa di statuire certezze, bensì certamente quella di costruire strumenti concettuali. Vediamo dunque, a partire dalla nostra osservazione preliminare, e cioè dalla constatazione che originariamente 1'equipaggiamento comunicativo delle aggregazioni sociali primitive era composto da pochi esemplari, mentre attualmente gli artefatti comunicativi sono in numero praticamente incommensurabile; vediamo insomma di stabilire se attraverso questa indagine, compiuta proprio sopra quella fase originaria, abbiamo acquisito qualche conoscenza sul come questo accrescimento si sia potuto verificare. In primo luogo, ci pare di avere ripetutamente potuto constatare che il prodursi della molteplicità si è verificato in direzione di numerose situazioni differenziate. E abbiamo anche potuto osservare il prodursi della variazione degli adattamenti a partire da una condizione meno differenziata. Basti ricordare la nozione del tracciare in comune fra i successivi scrivere e disegnare. Ci pare, in secondo luogo, di avere constatato che la fonte principale della variazione vada individuata in un progressivo arricchirsi dei problemi comunicativi da risolvere, dei bisogni comunicativi da soddisfare e delle intenzioni comunicative da realizzare. Anzi, in un certo senso è stato proprio questo l'ambito più ricco di risultati d'osservazione. La scrittura realizza il bisogno di esprimere idee e la pittura quello di rappresentare forme (secondo il mito cinese). Le raffigurazioni di animali singoli, di gruppi, le scene di caccia rispondono in prima istanza all' esigenza di raffigurare mimeticamente il percepito (in accordo col mito di Narciso). Le silhouette, i profili di mani rispondono in prima istanza alla necessità di conservare, registrare, memorizzare materialmente (in accordo col mito di Dibutade), il che si specializza ad esempio nella necessità di annotare informazioni topografiche, che costituiscono la «ricchezza di una nazione e il mezzo per il controllo della pace» (secondo la tradizione della protostoria cinese). Le segnalazioni indicative dei punti vulnerabili della preda e le protoendografie rispondono all'esigenza di «insegnare qualcosa», come dice la tradizione cinese, che specializza questa funzionalità in senso etico a proposito dei ritratti di saggi, o come avviene nella instructio rudium del Medioevo occidentale. Le effigi di prede crivellate di colpi rispondono all' esigenza di influenzare il comportamento collettivo nella caccia. Le protocosmografie rispondono all' esigenza di sintetizzare conoscenze e concezioni complessive del mondo. Ma questo progressivo aumentare degli artefatti non si configura come un generico ampliarsi uniformemente, come un proliferare illimitatamente diastolico. O meglio, se gli artefatti, in quanto organi protetici, continuano sicuramente a proliferare in conformità con l'ampliarsi delle attività umane, è piuttosto sul versante dei metodi esecutivi e dei sistemi di raffigurazione e notazione che si sono potuti constatare fenomeni di tipo selettivo. Cioè estinzioni causate dalla relativa inefficienza di tali sistemi, intesi propriamente come adattamenti specifici di tali organi. O piuttosto, data la peculiarità del meccanismo di trasmissione ereditaria di tali protesi e adattamenti, che consiste in un loro diretto e concreto passare di mano in mano e in un loro depositarsi nella memoria collettiva, senza passare attraverso i complessi meccanismi genetiéi fisiologici, più che con vere e proprie estinzioni, abbiamo a che fare qui con situazioni di tipo competitivo e di prevalenza temporanea di uno piuttosto che dell'altro adattamento.

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Ora, con uno sforzo schematizzante che non può che configurarsi come un costringere dentro a contenitori categoriali fenomeni che in realtà sono largamente intrecciati, ci pare comunque di essere in grado di indicare tre tipi principali di efficienza/inefficienza. Relativa, s'intende, ai contesti variabili dove gli artefatti (o le protesi comunicative) si trovano ad agire o meglio ad essere attivati. In primo luogo, l'efficienza nel preparare e nel predisporre per l'uomo materiali elaborati in arrivo dalla ricchezza fenomenica dell'ambiente esterno. Ambiente fisico, bio tico e anche intraspecifico e cioè sociale e umano, ma nella fattispecie considerato come realtà separata, in qualche modo oggettiva. 157 È in prevalenza il settore di quelle che abbiamo chiamato le protesi monodirezionali osservativo-rivelative. Qui l'efficienza e l'inefficienza si misurano e si giocano sulla relativa capacità di artefatti e sistemi (protesi e adattamenti) di açcogliere, di catturare, di fissare dati, aspetti, configurazioni, morfologie; di registrarli e di predisporli ad una ulteriore agevole ricezione e poi elaborazione. Qui, fra la scrittura da un lato, e tutte le forme di raffigurazione dall'altro (pittoriche, plastiche, disegnative), si manifesta una contrapposizione (che può essere vista come una scelta di linea evolutiva) in direzione di un ulteriore trattamento sommativo e lineare del materiale, o rispettivamente di un ulteriore trattamento o uso sinottico di esso. Le situazioni di ricezione sinottica vedranno tendenzialmente prevalere le seconde sulle prime, e viceversa. Mentre a loro volta, all'interno della raffigurazione in generale, quella che abbiamo chiamato la modalità di rendering (cioè di resa dettagliata e globale: Narciso), contrapposta a quella che possiamo chiamare la modalità di screening (cioè di selezione di particolari tratti significativi o di schematizzazione: Dibutade), sono ancora due scelte preliminari o strategiche rispetto al trattamento di quell' esterno che è là per essere elaborato. Il secondo tipo di efficienza è quello relativo al trasferire, al trasmettere agli altri uomini i materiali così elaborati e filtrati (ma anche, ovviamente, provenienti da altri tipi di elaborazione mentale e percettiva, verificatisi direttamente, prodotti da altri organi di elaborazione). Lo si può considerare a sua volta come una specializzazione del precedente, come un' accentuazione delle caratteristiche di predisposizione all'elaborazione umana: ma d'altro canto questo è l'ambito prevalente di quelle che abbiamo chiamato le protesi monodirezionali ostensive. È un' efficienza, quella ad esse relativa, che si misura nella loro capacità di funzionare come supporto, come veicolo di trasmissione, come attrezzatura di diffusione. Cioè, mentre l'organismo che «indossava» le protesi del tipo precedente eser-: citava un ruolo di osservatore e produttore di semilavorati comunicativi, qui l'organismo funziona come emittente. È insomma un'efficienza, quella di cui qui ci occupiamo, decisamente omogenea a quella studiata dalla teoria dell'informazione. Anche qui abbiamo potuto constatare una situazione competitiva fra le raffigurazioni in generale da un lato e la notazione verbale, nelle sue varie forme (pittografiche e fonografiche), dall' altro. O piuttosto, l'imboccare l'una piuttosto che l'altra strada può essere considerata come una scelta di linea (o di strategia) evolutiva. 157 Vedi la definizione classific;toria di Savage: «Tutti gli organismi vivono in un ambiente costituito dagli aspetti fisici e biotici del loro particolare ecosisterna, e sono adattati in modo estremamente complesso alla risultante dei seguenti fattori

interagenti: A. Ambiente fisico: fattori fisici e chimici B. Ambiente Biotico 1. ambiente extraspecifico: comunità biotica, 2. ambiente interspecifico: popolazione, 3. ambiente interno: individuo». J. M. Savage, op. cit., p. 79.

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In un contesto, ad esempio, in cui la risposta del destinatario deve configurarsi come un' operazione di costruzione e di fabbricazione, deve cioè basarsi su forme, misure, dimensioni ecc., che gli consentano di tagliare, assemblare, disporre elementi ecc., o di stabilire percorsi e rotte da percorrere ecc., la scelta, per così dire, vincente dovrà essere raffigurativa, come si può constatare già negli ostraka progettuali egizi, o nelle prototopograHe ancora egiziane e cinesi. E la competizione cui ci riferiamo è manifestata, sempre nel quadro dello stesso esempio, dal permanere, anche nell'attualità, di quei residui irriducibilmente notazionali che sono le indicazioni in cifre delle misure, la toponomastica ecc. Fondamentale ad esempio, per la trasmissione e la diffusione di comunicazioni e informazioni, è l'inequivocabilità dei simboli. E nella scrittura, nei confronti di questo obbiettivo di efficienza, si manifesta una contrapposizione fra quegli adattamenti stenografici e miniaturizzanti che come abbiamo visto forzano in direzione di una progressiva semplificazione e omogeneizzazione da un lato, e quegli adattamenti attivi non sul versante della produzione, ma questa volta sul versante della ricezione, dall' altro. Si tratta di quelle caratteristiche morfologiche di ciascun elemento che ne favoriscono la distinguibilità (per intenderei ciò che distingue la o dalla x, o più sottilmente la b dalla d, dalla p e dalla q). Va raggiunto insomma un equilibrio di efficienza che si concreta a livello sociale in quella operazione di compromesso che si chiama standardizzazione. Nella calligrafia ciò significa il raggiungimento di norme che consentano la produzione di aggregati testuali composti di elementi gestualmente omogenei (potremmo dire modernamente favorevoli dal punto di vista ergonomico), ma morfologicamente ben distinti (cioè altrettanto favorevoli sul piano dell' ergonomia della ricezione). Abbiamo infine già accennato a un' altra scelta fondamentale di efficienza nella trasmissione. E ci riferiamo a quella della riproduzione (come produzione rinnovata) tipica delle repliche elastiche della scrittura, dove cioè non è indispensabile una perfetta sovrapponibilità fra modello e ripetizione. Essa' si contrappone alla riproduzione meccanica o tecnica, caratterizzata da repliche rigide, o meglio sostanzialmente identiche. Rapidità esecutive (previa una lenta predisposizione) per la riproduzione meccanica ed elasticità di restituzione per la riproduzione manuale sono gli obbiettivi di efficienza contrapposti. Avevamo poc'anzi accennato a una certa difficoltà nell'accertare l'estinzione completa di autentiche protesi comunicative, cioè di veri e propri artefatti in quanto oggetti prodotti: va detto però invece, proprio in questo contesto, il cui argomento è la trasmissione, che una serie di estinzioni si sono nei fatti verificate. E ci riferiamo a quel tipo di artefatti che funzionano proprio come veicolo di trasmissione e di diffusione e come supporto di conservazione di figure e scritture, e nella fattispecie all'estinzione delle tavolette d'argilla sumere, sostituite dai rotoli di papiro egizi, a loro volta sostituiti dall'invenzione magistrale del codex in pergamena che è l'archetipo di tutti i fascicoli e i volumi a più pagine di carta che conosciamo. 158 La complessità dei fattori e delle efficienze in concorrenza coinvolte in un fenomeno come questo meriterebbe uno studio analitico a parte: siamo però convinti che una serie di caratteristiche adattive di tipo molto concreto, come ad esempio la fragilità del ma-

158 «For severa! centuries roll and codex competed with each other, and not before the fourth century did t.blftos "rlf\31nllm",clnfro(" Vc!ttillmo molli.): ']::Pl Cllp\)f.::nfUI tu It511115;;,omlncrucefupcr('lmftfee;cn .rcs,;nP\lccm d(lmitlCtn t'il:b:J nollrie Inll"Qb!lIs,~lltlill(l1ncriSfuieJ.!r6to:t

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24. Il catalogo dei caratteri tipografici di Erhard Rathold, Augusta, aprile 1486

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