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Guida al monitoraggio in Area Critica
Quaderni dell’Assistenza in Area Critica A cura di Gian Domenico Giusti e Maria Benetton
GUIDA AL MONITORAGGIO IN AREA CRITICA Quaderni dell’Assistenza in Area Critica A cura di Gian Domenico Giusti e Maria Benetton
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AUTORI
A CURA DI: Gian Domenico Giusti Infermiere presso Azienda Ospedaliero Universitaria di Perugia in UTI (Unità di Terapia Intensiva). Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche. Master I livello in Infermieristica in anestesia e terapia intensiva. Professore a contratto Università degli Studi di Perugia. Autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Membro del Comitato Direttivo Aniarti. Maria Benetton Infermiera presso Azienda ULSS 9 di Treviso. Tutor Corso di laurea in Infermieristica e Professore a contratto Università degli Studi di Padova. Direttore della rivista “SCENARIO. Il nursing nella sopravvivenza”. Autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane. Membro del Comitato Direttivo Aniarti.
HANNO COLLABORATO: Stefano Bambi Infermiere presso Azienda Ospedaliero Universitaria “Careggi” di Firenze. Master I livello in Infermieristica in anestesia e terapia intensiva, Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche, Dottorando di ricerca in scienze infermieristiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Ha lavorato in Pronto Soccorso, attualmente in Terapia Intensiva di emergenza e del trauma. Impegnato nella formazione universitaria in corsi infermieristici di base e post base. Autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Irene Comisso Infermiera presso Azienda Ospedaliero Universitaria di Udine alla Clinica di Anestesia e Rianimazione; Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche; Tutor clinico e didattico presso il Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Udine, con responsabilità di programmazione e gestione dei tirocini in Terapia intensiva e come coordinatore delle mobilità internazionali nell’ambito del programma Erasmus. Ha collaborato in qualità di tutor e di vice-coordinatore al Master in Infermieristica di Area Critica dell’Università degli Studi di Udine. Andrea Gafforelli Infermiere presso Ente Ospedaliero Cantonale, Lugano, in Servizio di Anestesia. Master I livello in “Scienze infermieristiche di Anestesia e Terapia intensiva”, Università degli Studi di Milano-Bicocca, specializzando al secondo anno di anestesia presso la scuola specializzata superiore in cure infermieristiche, Lugano.
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AUTORI
Alberto Lucchini Infermiere coordinatore presso Azienda Ospedaliera S. Gerardo Monza – Università degli Studi di MilanoBicocca in Terapia Intensiva Generale. Coordinatore dell’attività didattica e professore a contratto del Master di I livello in “Scienze infermieristiche di Anestesia e Terapia intensiva”, Università degli Studi di Milano-Bicocca. Autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Membro del Comitato Direttivo di Aniarti. Enrico Lumini Infermiere formatore staff aziendale della formazione universitaria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze. Master in infermieristica in anestesia, cure intensive e palliative, Dottore Magistrale in scienze infermieristiche, dottore di ricerca. Ha lavorato per circa 10 anni in Dipartimento di Emergenza e complessivamente 8 anni tra degenza neurochirurgica e sala operatoria di Neurochirurgia. Dal 2000 Docente a contratto per l’Università degli Studi di Firenze dove insegna Infermieristica Clinica in area critica e metodologia della ricerca. Autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Elisa Mazzoni Infermiera, ha conseguito la Laurea in Infermieristica presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi di approfondimento sul monitoraggio del paziente in Neurorianimazione ed ha progettato un trial clinico per misurare gli effetti delle manovre infermieristiche sul paziente neuroleso. Chiara Peduto Infermiera con perfezionamento in Medicina Tropicale e Cooperazione Internazionale. Ha lavorato per circa 2 anni in Pronto Soccorso, attualmente presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi (Firenze) in Terapia Intensiva di Emergenza e del Trauma da 9 anni; due esperienze di cooperazione internazionale presso il Salam Centre for CardiacSurgery in Khartoum (Sudan) con la ONG Emergency. Referente dal 2009 dei Supporti extra-corporei alla funzionalità respiratoria e cardiaca (ECMO, ECLS) in Terapia Intensiva. Dal 2007 impegnata nella formazione nei corsi di Advanced Life Support(ALS) e Basic Life Support and Defibrillation(BLS-D) per l’istituto Italian Resuscitation Council. Laura Rasero Professore Associato dell’Università degli Studi di Firenze in Scienze Infermieristiche generali, Cliniche e Pediatriche (MED45). Attività clinica infermieristica in area oncoematologica dal 1998 al 2005 presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze. Ha partecipato, in qualità di responsabile co-investigatore, a numerosi studi clinici controllati, condotti secondo le GoodClinicalPractices, sia monocentrici che multicentrici Ha partecipato come componente invitato a numerosi gruppi di lavoro sia Italiani che Regionali. È autore/ coautore di oltre 90 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali tra abstract, articoli originali, libri e capitoli di libro. È Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche e referente del Dottorato di ricerca ad indirizzo infermieristico dell’Università degli Studi di Firenze. Daria Valsecchi Infermiera presso Azienda Ospedaliera Manzoni-Lecco in UOS Pronto Soccorso. Master I livello in “ Scienze infermieristi.
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SOMMARIO
Introduzione – Perché una monografia sul monitoraggio Maria Benetton, Gian Domenico Giusti.............................................................................. » 7 Capitolo I - L’importanza del monitoraggio. L’infermiere tra la persona e la tecnologia Gian Domenico Giusti, Maria Benetton ............................................................................. » 9 Capitolo II - Il monitoraggio emodinamico Irene Comisso ................................................................................................................... » 12 1. Il monitoraggio elettrocardiografico............................................................................. » 13 2. Il monitoraggio delle pressioni cruente......................................................................... » 20 3. Il monitoraggio della gittata cardiaca........................................................................... » 28 4. Il monitoraggio della saturazione venosa di ossigeno ................................................. » 32 Capitolo III - Il monitoraggio respiratorio di base Stefano Bambi, Alberto Lucchini, Andrea Gafforelli, Daria Valsecchi .................................. » 36 1. Valutazione clinica respiratoria del paziente in terapia intensiva.................................. » 36 2. Monitoraggio strumentale........................................................................................... » 43 2.1. La saturimetria ................................................................................................. » 43 2.2. Capnografia e Capnometria............................................................................... » 53 2.3. Monitoraggio emogasanalitico ......................................................................... » 64 3. Monitoraggio in corso di ossigenoterapia ................................................................... » 70 4. Monitoraggio in corso di ventilazione meccanica invasiva .......................................... » 75 5. Monitoraggio in corso di ventilazione meccanica non invasiva.................................... » 115 5.1. CPAP con scafandro .......................................................................................... » 115 5.2. La CPAP di Boussignac .................................................................................... » 120 5.3. La pressione di supporto erogata con la maschera .......................................... » 122 6. Monitoraggi complementari: secrezioni respiratorie .................................................. » 129 6.1. Il loop flusso/volume ......................................................................................... » 130 6.2. Rilevanza della presenza di coarse crackles (crepitii grossolani) ....................... » 131 6.3. Utilizzo delle curve di flusso per identificare i pazienti a rischio ritenzione ....... » 132 7. Monitoraggio e gestione dell’umidificazione dei gas medicali ................................... » 136 8. Monitoraggio durante ECMO Veno-Venoso ................................................................ » 139 5
SOMMARIO
Capitolo IV - Il monitoraggio neurologico Chiara Peduto, Enrico Lumini, Elisa Mazzoni, Laura Rasero .............................................. » 143 Introduzione ....................................................................................................................... » 143 1. Valutazione dello stato mentale................................................................................... » 144 1.1. Monitoraggio dello stato di coscienza............................................................... » 144 1.2. Monitoraggio della sedazione............................................................................ » 148 1.3. Monitoraggio del delirium................................................................................. » 150 2. Valutazione neuromotoria............................................................................................ » 156 2.1. Esame dei nervi cranici..................................................................................... » 156 2.2. Esame dello stato pupillare e dei movimenti oculari......................................... » 159 2.3. Esame del modello respiratorio ........................................................................ » 162 2.4. Valutazione della funzione motoria.................................................................... » 163 2.5. Valutazione della funzione sensitiva.................................................................. » 165 2.6. Valutazione e monitoraggio del dolore.............................................................. » 167 3. Pressione intracranica e perfusione cerebrale............................................................. » 174 3.1. Il monitoraggio della pressione intracranica...................................................... » 178 3.2. Flusso ematico cerebrale e valutazione della capacità di autoregolazione dell’encefalo...................................................................................................... » 186 3.3. Ulteriori componenti del monitoraggio multimodale......................................... » 188
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Introduzione Perché una monografia sul monitoraggio. Il progetto Aniarti “Quaderni dell’Assistenza in Area Critica” Maria Benetton, Gian Domenico Giusti
Per il Congresso Nazionale Aniarti (Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica) 2013 progettammo come dono ai nuovi iscritti, il primo Quaderno dell’Assistenza, una monografia dedicata alle migliori prove di efficacia sulla cura del corpo in area critica. È stata una scelta felice e quel successo ci ha portato alla decisione di continuare il Progetto “Quaderni dell’Assistenza in Area Critica” affrontando ogni anno una tematica diversa. Quest’anno abbiamo deciso per “Il monitoraggio in Area Critica”. Perchè questa scelta, apparentemente banale? Il monitoraggio è probabilmente l’attività che impegna maggiormente l’infermiere qualunque sia l’area intensiva in cui opera. Verrebbe da dire che non esiste area critica senza monitoraggio intensivo. Il monitoraggio non serve per curare, ma fornisce informazioni che permettono o favoriscono la decisione assistenziale, clinica e diagnostico-terapeutica. Rilevando continuamente i dati si riducono i possibili rischi o complicanze cliniche. Il monitoraggio intensivo, e spesso condotto con strumenti sofisticati, è una guida formidabile per gli infermieri ed i medici nella cura dei loro malati. La letteratura conferma che gli eventi avversi, e tra loro il peggiore ed infausto cioè l’arresto cardiocircolatorio, non sono improvvisi ma vengono annunciati dal peggioramento dei parametri vitali fin dalle 6-8 ore precedenti (Hodgetts 2002, Krause 2004, Harrison 2005); ma se questi non vengono monitorizzati, il campanello d’allarme per un pronto intervento al momento giusto, rimane inascoltato. Il monitoraggio è quindi l’attività “salvavita” che permette di fare la differenza nel riconoscere precocemente l’evento avverso e migliorare i risultati finali in termini di morbilità e mortalità. E quindi chiaro quanto sia determinante il ruolo dell’infermiere, sia per quanto riguarda la precisione, accuratezza, perizia nell’uso di strumentazione, ma soprattutto nella perfetta conoscenza ed interpretazione dei paramentri rilevati, rispetto la situazione, per rispondere tempestivamente al deterioramento clinico del paziente. La capacità di gestire la tecnologia è una componente fondamentale e di routine quotidiana per un infermiere di area critica. Ma ciò che qualifica l’infermiere come “competente” è il non perdere di vista il paziente a favore
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Introduzione PERCHÉ UNA MONOGRAFIA SUL MONITORAGGIO
della tecnologia. L’uomo non è l’appendice della macchina ma ben il contrario, l’attrezzatura è collaterale alla cura. Questo è un rischio facile e frequente negli infermieri novizi ma quando c’è una maggiore familiarità e padronanza con l’attrezzatura, l’enfasi lascia il posto all’esperienza e alla consapevolezza dell’esperto, la cui assistenza sarà più incentrata sul paziente e non sulla macchina (Benner, 1992; Cooper 1993; Walter 1995; Alasad, 2002). L’impiego del monitoraggio strumentale standard non esime dalla continua osservazione clinica del paziente (SIIARTI, 2012). Il senso di sicurezza della tecnologia, derivata dall’uso del monitoraggio, va compensato con l’osservazione diretta e il dubbio, espressione della competenza ed esperienza clinica. È necessario equilibrare la tecnologia con cura integrata e globale e armonizzare i segni oggettivi monitorati con la percezione soggettiva del clinico. Guardare oltre la tecnologia per non perdere la capacità di interpretare. Negli ambienti intensivi, ricchi tecnologicamente, gli operatori sanitari “fondono” pazienti e apparecchi in un quadro clinico (Almeruda; 2008). Questo “Quaderno dell’Assistenza in Area Critica” nasce anche con l’intento di aiutare gli infermieri novizi o inesperti a comprendere le modalità di monitoraggio dei più importanti paramentri vitali, acquisendo un corpo sistematico di conoscenze da utilizzare per avere un elevato livello di competenza tecnica; ma è rivolto anche al personale più esperto per verificare le proprie conoscenze, aggiornare i propri saperi, porsi “spunti di riflessione” per l’attività che sta svolgendo. Il testo costruito da infermieri che attraverso l’esperienza nella clinica si dedicano alla ricerca, alla formazione, all’aggiornamento, tratterà alcuni capisaldi del monitoraggio senza la presunzione di esaustività. Dopo un breve approfondimento sul rapporto tra assistito, professionista e monitoraggio, verrà trattato il monitoraggio cardiologico ed emodinamico, quello respiratorio e quello neurologico. Il monitoraggio permette di controllare la persona con maggiore sicurezza rispetto agli standard assistenziali di alcuni anni fa, ma occorre non dimenticare che una visione esclusiva e troppo sicura sull’apparecchiatura rende il malato invisibile e a rischio (Almerud et al., 2008).
BIBLIOGRAFIA Alasad J. (2002), Managing technology in the intensive care unit: the nurses’ experience, Int J Nurs Stud; 39:407-413. Almerud S., Alapack R.J., Fridlund B, Ekebergh M. (2007),Of vigilance and invisibility-being a patient in technological intense environments, Nurs Crit Care; 13(3):151-8. Almerud S., Alapackb R.J., Fridlunda B., Ekeberghc M. (2008), Caught in an artificial split: A phenomenological study of being a caregiver in the technologically intense environment, Intensive Crit Care Nurs; 24:130-136. Benner P., Tanner C., Chesla C. (1992), From beginner to expert: gaining a differentiated clinical world in critical care nursing, ANS Adv Nurs Sci; 14 (3):13-28. Cooper M., (1993), The intersection of technology and care in the ICU, ANS Adv Nurs Sci; 15 (3): 23-32. Gruppo di Studio SIAARTI per la Sicurezza in Anestesia, Standard per il monitoraggio in anestesia, (2012), [online] http://www.siaarti.it/corsi-patrocini/linee-guida-raccomandazioni/ (ultimo accesso 25/8/2014). Harrison G.A., Jacques T.C., Kilborn G., McLaws M.L. (2005), The prevalence of recordings of the signs of critical conditions and emergency responses in hospital wards--the SOCCER study, Resuscitation; 65(2):149-57. Hodgetts T.J., Kenward G., Vlachonikolis I., Payne S., Castle N., Crouch R., Inneson N., Shaikh L. (2002), Incidence, location and reasons for avoidable in-hospital cardiac arrest in a district general hospital, Resuscitation; 54(2):115-23. Kause J., Smith G., Prytherch D., Parr M., Flabouris A., Hillman K. (2004), Intensive Care Society (UK); Australian and New Zealand Intensive Care Society Clinical Trials Group, A comparison of antecedents to cardiac arrests, deaths and emergency intensive care admissions in Australia and New Zealand, and the United Kingdom-the ACADEMIA study, Resuscitation;62(3):275-82. Walter A. (1995), A heideggarian hermeneutic study of the practice of critical care nurses, J Adv Nurs; 21:492-497.
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Capitolo I L’importanza del monitoraggio. L’infermiere tra la persona e la tecnologia Gian Domenico Giusti, Maria Benetton
Il termine “Critical Care Medicine” è stato introdotto alla fine del 1950 all’Università Southern California (USC), dal concetto di immediato pericolo di vita per alcune tipologie di pazienti, i quali possono avere migliori possibilità di sopravvivenza se assistiti costantemente in reparti ospedalieri ad alta tecnologia (con monitoraggio continuo dei segni vitali, dei parametri emodinamici, respiratori, neurologici…), con una nuova generazione di medici specialisti dedicati, infermieri e vari altri professionisti specializzati nelle cure intensive(Ristagno & Weil 2009) (fig. 1). Da allora il miglioramento nella gestione di questi pazienti, è stato accelerato dalla crescita del progresso delle tecnologie che possono essere impiegate, non soltanto in contesti ospedalieri, ma sostanzialmente in qualunque luogo la persona si trovi in situazioni di instabilità e/o criticità vitale (Silvestri, 1990). Una disciplina in così rapido movimento, ha bisogno di continui aggiornamenti da parte del personale, per acquisire nuove conoscenze e competenze garantendo lo “stato dell’arte” necessario al mantenimento della corretta assistenza alla persone (Alasad, 2002). La teoria è un potente strumento di spiegazione e predizione; essa dà forma ai quesiti e consente l’esame sistematico di una serie di eventi (Benner, 2005); l’utilizzo del monitoraggio è vincolato ad alcune conoscenze teoriche che comprendono la gestione dello strumento, la corretta rilevazione e registrazione dei parametri, la giusta interpretazione; la natura scientifica della professione infermieristica, necessita di acquisire un corpo sistematico di conoscenze e un elevato livello di competenza tecnica. Il monitoraggio dei parametri vitali è sempre più presente nelle attività assistenziali e le persone ricoverate negli ospedali per acuti richiedono una grande quantità di distinte attività specialistiche di cui gli infermieri sono tra gli attori principali. Soprattutto se il paziente ha un’alta intensità assistenziale e si trova ricoverato in setting di Area Critica queste attività diventano molto complesse; quotidianamente l’infermiere utilizza autonomamente o in collaborazione con altre professioni, una serie di dispositivi che offrono il monitoraggio dei parametri vitali (monitor), il sostegno delle funzioni vitali (ventilatori automatici, sistemi di emodialisi, sistemi di assistenza circolatoria esterna), management di farmaci e nutrienti (pompe infusionali) e devices per specifiche funzioni (sistemi di raffreddamento/riscaldamento dei pazienti, defibrillatori, pace-makers…). Il risultato della continua ricerca e sviluppo di tecnologie, fanno si che ci sia una rapida evoluzione nella cura dei pazienti, ed un aumento degli stessi con un elevata complessità; l’effetto di un ambiente ospedaliero in rapida evoluzione con veloci modifiche e complesse valutazioni può portare incertezza nel personale per lo svolgimento
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Capitolo I L’IMPORTANZA DEL MONITORAGGIO. L’INFERMIERE TRA LA PERSONA E LA TECNOLOGIA
di pratiche non routinarie (non-routinesess), svolte in modo non sicuro per mancanza di adeguata formazione e training (well-established). L’incertezza delle condizioni dei pazienti critici fanno sì che i loro bisogni non possano essere facilmente previsti, ed i dispositivi non possano essere facilmente adattati a queste esigenze; l’aumento del numero e della complessità della tecnologia, e quindi del monitoraggio, sono in grado di generare errori che a volte nascono dall’agire con troppa sicurezza la quale abbassa la soglia di attenzione verso il rischio. Tuttavia la tecnologia può fornire una serie di risposte che aiutano l’incertezza dei professionisti, offrendo soluzioni a molti problemi e facilitando la pratica infermieristica. In quest’epoca dove c’è un simbiotico rapporto tra la tecnologia e la cura, le Aree Critiche (nell’accezione strutturale di Terapie Intensive, servizi di emergenza intra/extraospedalieri…) rispecchiano questa simbiosi (Almerud et al., 2008); la tecnologia è incorporata nella cura dei pazienti e le terapie intensive si basano molto sulla tecnologia. Allo stesso tempo gli infermieri che assistono persone in Area Critica devono prendersi cura dei bisogni psicosociali sia dell’assistito che della famiglia, considerando il caring come obiettivo del nursing. I termini care e caring stanno diventando dei sinonimi interscambiabili del termine nursing e, sempre più frequentemente, “prendersi cura” (caring) diventa sinonimo di “assistenza infermieristica” (nursing) (Cunico & Saiani, 2011); il caring è una pratica che si realizza attraverso azioni competenti e disponibilità ad occuparsi intenzionalmente della persona assistita. Il nursing è una professione pratica che fornisce attività di assistenza e di supporto, ed accanto ad una dimensione visibile del caring, fatta di azioni (mobilizzazione del paziente, gestione di accessi vascolari, inserimento di sonde e cateteri…), ce n’è una molto più estesa ma poco visibile, fatta di pensieri, valori, emozioni di difficile definizione. Tra i principi del caring c’è la vigilanza che è l’essenza del prendersi cura nell’infermieristica; questa è una competenza intellettuale che si sviluppa con l’esperienza dopo un’attenta formazione. La vigilanza è un processo complesso, che nel monitoraggio dei parametri vitali, trova la sua massima espressione; si costituisce di quattro componenti: attribuire significato a ciò che è e si fa, prevedere gli eventi e calcolare il rischio della situazione, prontezza ad agire in modo appropriato, monitorare i risultati. • Attribuire significato agli eventi significa interpretare quello che è stato visto, sentito, registrato; questo per permettere di decidere quando intervenire e quando quello rilevato rientra nella normalità. Attribuire significato permette al professionista esperto anche di differenziare i segnali significativi da quelli poco rilevanti (falsi allarmi). • Prevedere gli eventi e calcolare il rischio situazionale rappresenta la capacità logica di mettere in sequenza gli eventi/segnali per cercare di capire come sta evolvendo la situazione, cercando di bilanciare le proprie azioni calcolando il giusto rischio/beneficio. • Prontezza ad agire in modo appropriato è collegata al calcolo del rischio; questa espressione descrive la capacità di prepararsi già ad un eventuale complicanza che si può verificare (per esempio la preparazione del materiale per la procedura di intubazione oro tracheale, prima di procedere all’estubazione programmata di un paziente). • Monitoraggio dei risultati è il risultato delle azioni combinate da più professionisti; essendo l’infermiere la figura professionale sempre presente accanto alla persona assistita, è suo compito registrare i risultati degli interventi assistenziali intrapresi anche da altri professionisti, per poi valutarne i risultati i pianificare il percorso terapeutico/assistenziale. La conoscenza clinica si acquisisce con il tempo e frequentemente accade che i professionisti della salute stessi non siano consapevoli dei miglioramenti che hanno ottenuto, ma questi sono evidenti quando anche piccole modifiche fisiologiche nella situazione clinica di un assistito, vengono interpretate correttamente. La padronanza percettiva dipende dal contesto, certe modificazioni sottili acquistano significato solo alla luce della storia precedente e della situazione attuale del paziente. Questa competenza, detta “abilità del
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Capitolo I L’IMPORTANZA DEL MONITORAGGIO. L’INFERMIERE TRA LA PERSONA E LA TECNOLOGIA
conoscitore”, è un aspetto della conoscenza clinica spesso trascurato in favore dell’impegno ad apprendere le ultime procedure tecnologiche. L’attenzione eccessiva all’imparare l’uso di nuove tecnologie diminuisce l’attenzione per l’acquisizione in profondità della capacità di giudizio clinico (Benner, 2005). Comunque bisogna tenere presente che la tecnologia è una parte inscindibile del processo di cura per i pazienti in criticità vitale, la conoscenza delle giuste abilità permette di garantire “cure di qualità” alla cui base ci sono buone conoscenze teoriche, abilità pratiche e competenze relazionali, ed il giusto mix tra questi componenti è fondamentale nelle professioni sanitarie. BIBLIOGRAFIA Alasad J. (2002), Managing technology in the intensive care unit: the nurses’ experience, Int J Nurs Stud 39, 407–413. Almerud S., Alapack R.J., Fridlund B., Ekebergh M. (2008), Caught in an artificial split: A phenomenological study of being a caregiver in the technologically intense environment, Intensive Crit Care Nurs 24, 130–136. Benner P. (2005), L’eccellenza nella pratica clinica dell’infermiere, Ed. McGraw-Hill, Milano. Cunico L., Saiani L., Caring Infermieristico, In Saiani L., Brugnolli A. (2011), Trattato di Cure Infermieristiche, Casa Ed. Sorbona, Napoli. Ristagno G., Weil M.H. (2009), History of Critical Care Medicine: The past, the present and the future, in Gullo A., Besso J., Lumb P.D., Williams G., Intensive and Critical care Medicine, Springer, Milano. Silvestri C., Il concetto di Area Critica, Atti Covegno Aniarti, Regione Lombardia, 1990.
Figura 1 - Interno di una Terapia Intensiva, 1950 Copyright “The National Library of Medicine believes this item to be in the public domain”
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Capitolo II Il monitoraggio emodinamico Irene Comisso
Il monitoraggio emodinamico (ME) è costituito dall’insieme di sistemi utilizzati nel paziente critico per la rilevazione della funzione cardiovascolare del paziente. Nei pazienti critici, il monitoraggio emodinamico ha lo scopo di consentire la valutazione delle funzionalità cardiovascolare (e quindi di individuare condizioni di stabilità/instabilità, di diagnosticare situazioni patologiche e di consentire la diagnosi differenziale tra diverse situazioni di malattia), di intercettare tempestivamente variazioni della stabilità clinica, di valutare l’efficacia delle terapie farmacologiche e non utilizzate. La varietà di tecnologie di monitoraggio è notevolmente aumentata negli ultimi decenni, e ha reso disponibili informazioni che prima erano ottenibili solo con sistemi complessi, spesso gravati nel loro utilizzo da elevati rischi per il paziente. L’impiego di nuove tecnologie di monitoraggio deve sempre tenere conto di quelle che sono le condizioni cliniche del paziente (e quindi dell’appropriatezza di utilizzo), e dell’expertise degli operatori (medici e infermieri) nel posizionamento e gestione dei devices, e soprattutto nell’ottenimento e interpretazione dei dati. Recentemente sono stati proposti degli step di implementazione dei sistemi di monitoraggio in terapia intensiva, rappresentati da: • un livello base, con catetere arterioso e venoso centrale; • un livello intermedio, con monitoraggi a invasività minima o intermedia; • un livello avanzato, rappresentato dal catetere arterioso polmonare. Va inoltre sottolineata l’importanza e diffusione crescente delle metodiche di valutazione ecografica (transtoracica e transesofagea), impiegate per la visualizzazione in tempo reale delle condizioni cinetiche e di riempimento del muscolo cardiaco. A seconda delle caratteristiche considerate, il ME può essere classificato in base a: • invasività, considerata sia in relazione alla necessità di “violare” la barriera cutanea (ad esempio, per l’inserimento di un catetere endovascolare), che in relazione alla sede di posizionamento dei cateteri stessi (ad esempio, in arteria radiale o polmonare). A tale proposito, è intuitivo come un monitoraggio della pressione arteriosa mediante bracciale sia meno invasivo di un monitoraggio cruento mediante catetere endovascolare. Generalmente, l’aumento del livello di invasività consente di ottenere dati più complessi, anche se negli ultimi decenni l’evoluzione dei sistemi di monitoraggio ha consentito la rilevazione di parametri anche avanzati (ad esempio la gittata cardiaca) con sistemi a minore invasività rispetto a quelli tradizionali;
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Capitolo II IL MONITORAGGIO EMODINAMICO
• complessità dei dati forniti; in tal senso, i sistemi di monitoraggio vengono descritti come “di base” (ovvero destinati a tutti i pazienti critici) e avanzati (ovvero, utilizzati solo in situazioni selezionate). Tra i monitoraggi di base vengono generalmente annoverati l’elettrocardiogramma, la saturazione periferica di ossigeno, la pressione arteriosa (generalmente cruenta) e la temperatura corporea (rilevata con sonde cutanee o termistori vescicali); nei pazienti intubati, viene ormai considerato un monitoraggio di base imprescindibile anche quello della CO2 di fine espirio; • continuità delle rilevazioni; in tal senso, i sistemi di monitoraggio possono essere descritti come continui, semicontinui o intermittenti. I monitoraggi continui o semicontinui non richiedono generalmente l’attuazione di particolari manovre da parte degli operatori (se non la taratura dei sistemi a intervalli di tempo prestabiliti); quelli intermittenti comportano la necessità di attivare specifici comandi o di effettuare manovre (ad esempio, la termodiluizione per la rilevazione della gittata cardiaca). Poiché il ME (così come gli altri sistemi di monitoraggio) ha tra le sue funzioni quella di guidare le scelte diagnostiche e terapeutiche, è essenziale che i sistemi utilizzati abbiano caratteristiche di elevata affidabilità, ovvero che i dati ottenuti mediante essi riproducano con il massimo livello di precisione possibile la situazione reale del paziente. Si richiamano a tale proposito i seguenti concetti: • affidabilità, legata alla riproducibilità del risultato utilizzando lo stesso metodo o con metodi diversi • accuratezza, legata alla riduzione dell’errore sistematico nei sistemi di misurazione; • precisione, legata alla riduzione dell’errore casuale nei sistemi di misurazione.
1. IL MONITORAGGIO ELETTROCARDIOGRAFICO Il monitoraggio elettrocardiografico (ECG) consente di visualizzare le variazioni di potenziale elettrico che si verificano durante le fasi del ciclo cardiaco. Il ciclo cardiaco si compone di una fase sistolica e una diastolica, che si alternano a livello di atrio e ventricolo consentendo riempimento e svuotamento della camere cardiache. Essa ha inizio con la generazione di un impulso elettrico a livello del nodo seno-atriale (localizzato nell’atrio destro), che viene poi diffuso al nodo atrio-ventricolare, e di qui, tramite il sistema di conduzione, alle fibre di Purkinjie, a livello ventricolare. La conduzione di questi stimoli dà luogo ad all’alternarsi di fasi di depolarizzazione e ripolarizzazione delle cellule cardiache (ovvero di variazioni di carica elettrica dovute ad una stimolazione): normalmente, infatti, nelle cellule esiste un differenziale di potenziale elettrico (positivo sulla superficie esterna della membrana cellulare e negativo sulla superficie interna); la stimolazione elettrica produce un afflusso di sodio (elettrolita che normalmente è più concentrato all’esterno) verso l’interno della cellula, dando luogo ad una trasformazione (definita come depolarizzazione) di potenziale elettrico all’interno della cellula (da positivo a negativo), che dà luogo ad alterazioni (visibili come onde) a livello elettrocardiografico. Il raggiungimento di un potenziale elettrico positivo all’interno della cellula dà luogo alla fuoriuscita di potassio, che fa tornare il potenziale elettrico intracellulare a valori negativi. In seguito, l’attivazione della pompa sodio-potassio fa rientrare il potassio all’interno della cellula, facendo contemporaneamente fuoriuscire il sodio. In tal modo, la carica cellulare torna negativa, dando così luogo ad una fase di ripolarizzazione. Sul tracciato ECG, la depolarizzazione atriale (e la conseguente contrazione atriale) genera l’onda P, la depolarizzazione ventricolare (e la conseguente contrazione ventricolare) genera il complesso QRS; la ripolarizzazione atriale non è generalmente visibile, mentre la ripolarizzazione ventricolare genera l’onda T.
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Capitolo II IL MONITORAGGIO EMODINAMICO
Figura 1 - Tracciato ECG Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
L’interpretazione del tracciato elettrocardiografico richiede abilità complesse. Quando si osserva un tracciato ECG è possibile visualizzare una linea orizzontale (tra le onde), definita come linea di base. Le onde al di sopra di questa linea sono convenzionalmente positive, quelle al di sotto negative (tale convenzione però non ha a che fare con le differenze di potenziale che si instaurano a livello cellulare). Il tracciato ECG si avvale della lettura dell’attività elettrica in 12 derivazioni, classificate come bipolari e unipolari, a seconda che utilizzino un solo elettrodo o due.
Figura 2 - Posizionamento degli elettrodi per ECG a 12 derivazioni Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
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Le derivazioni bipolari creano un impulso basato su informazioni provenienti da due lati opposti. Le derivazioni unipolari si avvalgono invece di un unico elettrodo registrante e di un elettrodo indifferente. Le derivazioni bipolari (I, II e III) sono quelle rappresentate nel triangolo di Einthoven, e si avvalgono dell’uso di tre elettrodi (su spalla destra, spalla sinistra e gamba sinistra). La linea di congiungimento tra il punto di applicazione di due elettrodi viene definita linea di derivazione. Nella derivazione I l’elettrodo positivo è posto sulla spalla sinistra, quello negativo sulla spalla destra; nella derivazione II l’elettrodo positivo è posto sulla spalla destra, quello positivo sulla gamba sinistra; nella derivazione III l’elettrodo positivo è posto sul braccio sinistro, quello negativo sulla gamba sinistra. Alle derivazioni originarie del triangolo di Einthoven, sono state aggiunte tre derivazioni unipolari utilizzando gli elettrodi posti su spalla destra e sinistra e piede (gamba) destra, e utilizzando come elettrodo di riferimento la bisettrice della linea di giunzione tra gli altri due elettrodi del triangolo. Le tre derivazioni che di ottengono sono chiamate: • Vfoot (Vf): elettrodo esplorante posto sul piede (gamba); elettrodo di riferimento alla bisettrice del punto di giunzione delle spalle; • Vright (Vr): elettrodo esplorante posto sulla spalla destra; elettrodo di riferimento alla bisettrice del punto di giunzione tra spalla sinistra e piede; • Vleft (Vl): elettrodo esplorante posto sulla spalla sinistra; elettrodo di riferimento alla bisettrice del punto di giunzione tra spalla destra e piede. Convenzionalmente, i valori ottenuti su queste derivazioni vengono amplificati (si parla pertanto di AVr, AVf, AVl ); a queste derivazioni ne sono poi state aggiunte altre sei (precordiali, unipolari), che visualizzano l’attività elettrica cardiaca non su un piano frontale ma sagittale (comprendente la parete anteriore del cuore e il lato sinistro). La posizione dei sei elettrodi precordiali è di seguito descritta: • V1: 4° spazio intercostale sulla linea parasternale destra • V2: 4° spazio intercostale sulla linea parasternale sinistra • V3: tra V2 e V4 • V4: 5° spazio intercostale sulla linea emiclaveare sinistra, corrispondente alla punta cardiaca • V5: 5° spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore sinistra • V6: 5° spazio intercostale sulla linea ascellare media sinistra. Il tracciato elettrocardiografico visualizzato assume morfologie differenti nelle 12 derivazioni, a seconda della direzione dell’impulso elettrico e della carica (positiva o negativa) verso cui tale impulso si dirige.
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Figura 3 - Morfologia normale dell’ECG a 12 derivazioni Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
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Concetti base sull’analisi del tracciato elettrocardiografico L’analisi dell’ECG comprende alcuni parametri fondamentali: • la presenza di attività elettrica, • la frequenza cardiaca; • il ritmo e l’ampiezza del complesso QRS; • il rapporto tra onde P e complessi QRS; • l’analisi del tratto ST e dell’onda T. Se al monitor non è osservabile attività elettrica, è possibile che gli elettrodi non siano collegati ai cavi di monitoraggio o che non vi sia una corretta amplificazione del segnale, o ancora che la derivazione selezionata non sia corretta. In questo caso, al monitor si visualizza una traccia perfettamente piatta. Nel caso, invece, di un’asistolia, si è in completa assenza di frequenza cardiaca; al tracciato ECG non si riscontra nessun ritmo, e non sono visibili complessi QRS. Possono essere presenti onde P (se il nodo senoatriale funziona) non seguite da complessi QRS; in questo caso si parla di silenzio ventricolare, o asistolia ventricolare. I protocolli di rianimazione cardiopolmonare prevedono la contemporanea valutazione di attività elettrica e della presenza di un polso centrale; se sono entrambe assenti, ci si trova in una condizione di asistolia, mentre se è presente solo attività elettrica si parla di attività elettrica senza polso (PEA - Pulseless Electrical Activity). In entrambi i casi, sarà necessario procedere con manovre rianimatorie (massaggio cardiaco esterno). Normalmente, la velocità di scorrimento della carta millimetrata su cui viene stampato un tracciato ECG è di 25 mm/s; questo comporta che ogni mm corrisponde a 0.04 s; un tratto di 5mm equivale a 0.2 s. La frequenza cardiaca viene misurata come numero di onde R in un minuto. Il ritmo cardiaco ha origine dal nodo seno-atriale; i ritmi cardiaci possono avere altre origini, ma in questo caso si è in presenza di una condizione aritmica. Il ritmo sinusale è caratterizzato dalla presenza di onde P e complessi QRS con morfologia normale in relazione alla derivazione che viene considerata; inoltre, ogni complesso QRS è preceduto da un’onda P e l’intervallo PR ha durata tra 0.12 e 0.2 secondi. Nel ritmo sinusale, la frequenza cardiaca è compresa tra 60 e 100 battiti/minuto: al di sotto di questi valori si parla di bradicardia sinusale, al di sopra di tachicardia sinusale. La bradicardia sinusale può avere tra le sue cause un aumento dell’attività del sistema nervoso parasimpatico, mentre la tachicardia sinusale un aumento di attività del sistema nervoso simpatico. Nella condizioni di aritmia, si possono distinguere i ritmi atriali, quelli atrio-ventricolari, quelli ventricolari. Tra i principali ritmi atriali, annoveriamo: • i battiti prematuri atriali, ovvero battiti precoci che producono sull’ECG una P di morfologia irregolare; tali battiti sono definiti ectopici poiché originano al di fuori del nodo seno-atriale; normalmente non richiedono trattamento; • il flutter atriale, in cui il tracciato ECG assume la caratteristica morfologia a “dente di sega”, con frequenze atriali fino a 250-300 battiti al minuto; in queste aritmie la maggior parte delle onde P non vengono condotte (generalmente il rapporto di conduzione è di 2:1 o 4:1), e quindi non si registra un corrispondente complesso QRS;
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Figura 4 - Tracciato ECG nel flutter atriale Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
• la fibrillazione atriale, in cui sono presenti impulsi provenienti da più punti sul miocardio, con una frequenza estremamente elevata (anche superiore a 350 impulsi al minuto), che danno luogo ad una contrazione atriale disorganizzata e non efficace; in questa aritmia, non è visibile l’onda P sul tracciato ECG, e la risposta ventricolare varia in relazione alla capacità del nodo atrio-ventricolare di trattenere gli impulsi (si dice che è controllata quando inferiore a 100 battiti/minuto).
Figura 5 - Tracciato ECG nella fibrillazione atriale Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
Tra i principali ritmi atrio-ventricolari, annoveriamo: • i battiti prematuri giunzionali, che originano in prossimità o all’interno del nodo AV; • il ritmo giunzionale, che ha origine nella giunzione atrio-ventricolare (area tra il nodo atrio-ventricolare e il ventricolo); • la tachicardia giunzionale, in cui oltre al ritmo giunzionale si reperta una frequenza superiore ai 100 battiti al minuto. Tra i principali ritmi ventricolari annoveriamo: • i battiti prematuri ventricolari, che originano al di sotto del fascio di His; si presentano al tracciato ECG come complessi QRS allargati; • la tachicardia ventricolare, caratterizzata da una frequenza superiore a 100 battiti al minuto; in questa aritmia, la depolarizzazione non ha luogo a partire dal nodo seno-atriale i complessi QRS sono slargati; quando la tachicardia ventricolare persiste per oltre 30 secondi viene definita sostenuta;
Figura 6 - Tracciato ECG nella tachicardia ventricolare Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
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• la fibrillazione ventricolare, in cui, analogamente a quanto appare per quella atriale, la contrazione ventricolare è disorganizzata e non efficiente; tale aritmia non consente uno svuotamento adeguato del ventricolo e quindi non produce una gittata cardiaca adeguata; insieme alla tachicardia ventricolare, questo ritmo è trattabile con la defibrillazione.
Figura 7 - Tracciato ECG nella fibrillazione ventricolare Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
Il rapporto tra le onde P e i complessi QRS consente di valutare il tempo che l’onda di depolarizzazione atriale impiega per raggiungere i ventricoli e il numero di onde di depolarizzazione atriale cui fanno seguito complessi di depolarizzazione ventricolare. Nel blocco atrioventricolare di primo grado si verifica un aumento della durata del tratto PR al di sopra di 0.2 secondi (durata normale), ma il rapporto di conduzione atrio-ventricolare è di 1:1. Nel blocco atrioventricolare di secondo grado si riscontra un numero di onde P superiore rispetto a quello dei complessi QRS; generalmente, l’intervallo PR aumenta progressivamente fino alla comparsa di un’onda P (normale per morfologia) non seguita da un complesso QRS; successivamente, la durata dell’intervallo PR si riduce, e la sequenza si ripete. Questa variante è nota come blocco atrio-ventricolare tipo Mobitz I; esiste anche una variante Mobitz II, in cui è riscontrabile un QRS allargato, e la mancata conduzione di onde P non è accompagnata dall’allungamento dell’intervallo PR. Questa variante può evolvere verso un blocco atrioventricolare completo. Nel blocco atrioventricolare di terzo grado (che può insorgere come conseguenza di quello di secondo, o in seguito a cardiomiopatie croniche o infarto del miocardio), si assiste ad una dissociazione atrio-ventricolare completa: la frequenza atriale può avere origine dal nodo seno-atriale, o può presentarsi come tachicardia o fibrillazione atriale, quella ventricolare si presenta come un ritmo giunzionale o ventricolare. La frequenza ventricolare è molto ridotta (solitamente inferiore a 60 battiti al minuto).
Figura 8 - Tracciato ECG nel blocco atrioventricolare di III grado Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
Esistono anche difetti di conduzione intraventricolari (blocchi di branca), in cui, a causa di un’anomala conduzione sulla branca destra o sinistra, si verifica un ritardo (fino all’assenza) di depolarizzazione di una parte del muscolo cardiaco ventricolare; in questo caso, la depolarizzazione di uno dei due ventricoli può essere più lenta (blocco incompleto) o essere condotta attraverso il setto interventricolare (blocco completo), dando così luogo ad un allargamento del complesso QRS. Nel blocco completo la durata del QRS è superiore a 0.12 secondi, in quello incompleto è compresa tra 0.1 e 0.12 secondi. L’analisi del tratto ST e dell’onda T è utile nelle condizioni ischemiche del miocardio. Normalmente il tratto ST si trova sulla linea isoelettrica, ma quando si verifica una riduzione dell’apporto ematico alle cellule cardiache
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si assiste a fenomeni di sopra- o sotto-slivellamento del tratto ST (classificate anche come STEMI e NSTEMI), rispettivamente quando la lesione ischemica è a tutto spessore o subendocardica. Questo fenomeno può essere accompagnato anche dall’inversione delle onde T nelle zone interessate dall’ischemia.
Figura 9 - Morfologia normale del segmento ST e dell’onda T Tratta da: Chulay M., Burns S.M. (2011), Manuale di Area Critica. L’essenziale a portata di mano, McGraw-Hill, Milano
2. IL MONITORAGGIO DELLE PRESSIONI CRUENTE La rilevazione delle pressioni cruente avviene attraverso l’inserimento di un catetere all’interno di un vaso (per la rilevazione di pressioni arteriose o venose) o di una cavità (ad esempio per la rilevazione della pressione intracranica o intraddominale), e con il suo collegamento ad un sistema di misurazione manuale o elettronico. I sistemi di misurazione manuale prevedono l’utilizzo di manometri ad acqua. Con tale sistema, il catetere viene collegato (mediante un sistema di tubi) ad un manometro in plastica rigida riempito di soluzione fisiologica; identificando e allineando il sistema al livello corrispondente allo zero (illustrato più avanti), si procede poi a mettere in comunicazione il manometro con il catetere (attraverso un sistema di rubinetti); per il principio dei vasi comunicanti, il livello dell’acqua nel manometro si attesterà al livello della pressione presente all’interno del vaso/cavità, consentendone la determinazione. Si ricorda a tale proposito la relazione 1 cm H2O = 0.73 mm Hg (e 1 mm Hg = 1.36 cm H2O). I sistemi di misurazione elettronica prevedono l’utilizzo di trasduttori di pressione, un tempo riutilizzabili e oggi disponibili come monouso. La funzione del trasduttore è quella di “convertire” l’onda meccanica generata dal flusso ematico e trasmessa al catetere, in un’onda elettrica. Il trasduttore di pressione viene collegato al paziente attraverso un sistema di tubi, e ad una sacca di lavaggio, utilizzata anche per il riempimento del sistema di tubi, poiché la trasmissione del segnale in presenza di aria è viziata da uno smorzamento del segnale che comporta inesattezza nella misurazione. La corretta preparazione e gestione del sistema di trasduzione è fondamentale per l’affidabilità della rilevazione.
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Il sistema di trasduzione delle pressioni si compone di: • un catetere arterioso, di lunghezza e calibro variabile, inserito a livello radiale o femorale (più raramente a livello dell’arteria brachiale); • un tubo semi-rigido che collega il trasduttore al catetere; il tubo è più rigido di quelli utilizzati per le infusioni endovenose, e la sua lunghezza deve essere la minore possibile, in modo da limitare la dispersione del segnale (che esiterebbe in una lettura inaccurata del dato pressorio); sul tubo semirigido sono interposti dei gommini forabili o uno o più rubinetti, utilizzati per l’aspirazione di eventuali bolle d’aria presenti all’interno del sistema o per l’esecuzione di prelievi: l’inserimento del catetere arterioso consente di prelevare sangue arterioso, senza necessità di dover pungere il paziente, ed evitando quindi il disconfort correlato a questo tipo di procedura; questa possibilità rappresenta un vantaggio sia per il monitoraggio dei dati emogasanalitici nei pazienti con problematiche respiratorie, sia di altri parametri ematochimici (elettroliti, glicemia), che vengono controllati frequentemente in terapia intensiva e, se eseguiti su cateteri venosi centrali, possono essere alterati dalla contemporanea presenza di infusioni di cristalloidi o nutrizioni parenterali; • un trasduttore, che converte l’onda pressoria generata dal flusso ematico in un segnale elettrico che può essere visualizzato sul display del monitor; • una sacca (di soluzione fisiologica) di lavaggio, mantenuta a pressione di 300 mmHg attraverso l’utilizzo di un premi sacca, che tramite una valvola alloggiata all’interno del sistema di trasduzione mantiene un flusso continuo di 3-4 ml/h all’interno del sistema, riducendo il rischio di coagulazione del catetere; la pressurizzazione della sacca di lavaggio ha anche lo scopo di contrastare la pressione presente all’interno dei vasi e quindi di evitare il reflusso di sangue; contrariamente a quanto indicato fino a pochi anni fa, non è necessario miscelare eparina all’interno della sacca di lavaggio, poiché questo accorgimento non riduce il rischio di trombosi del catetere; • una valvola “fast flush”, anch’essa alloggiata all’interno del sistema di trasduzione, che consente il lavaggio rapido del sistema (ad esempio per l’esecuzione del test dell’onda quadra o dopo l’esecuzione di prelievi); • un connettore, collegato al cavo di pressione invasiva e quindi al monitor multiparametrico; • un rubinetto, per il collegamento del sistema di trasduzione all’aria ambiente e il conseguente processo di azzeramento. Connettore per sacca di soluzione fisiologica Connettore per cavo di monitoraggio
Connettore luer-lock al catetere intrarterioso
Trasduttore di pressione
Figura 10 - Sistema di trasduzione delle pressioni invasive
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Al fine di evitare l’ingresso di aria all’interno del sistema, è importante rispettare alcuni passaggi: • tutti i componenti del sistema di trasduzione (inclusi eventuali rubinetti) devono essere riempiti con liquido (soluzione fisiologica) in fase di preparazione; se il sistema viene aperto (ad esempio per l’azzeramento del sistema o per effettuare prelievi di sangue) è importante effettuare un lavaggio mediante la valvola “fast flush” presente sul trasduttore; • eventuali bolle d’aria presenti all’interno del sistema devono essere aspirate con una siringa; • i punti di raccordo devono essere stretti accuratamente. Livellamento e azzeramento Nella rilevazione delle pressioni per il monitoraggio emodinamico (e quindi della pressione arteriosa, venosa centrale e polmonare), la rilevazione viene riferita al livello cardiaco (e più precisamente atriale): questo perché uno dei determinanti della pressioni che vengono rilevate è la pressione idrostatica, definita come la pressione esercitata da una colonna di fluido sulle pareti di un contenitore. Il settaggio del sistema di trasduzione richiede quindi l’individuazione di un livello flebostatico (corrispondente alla linea orizzontale che attraversa l’asse flebo statico, ovvero il punto di incrocio tra la linea immaginaria che parte dal 4’ spazio intercostale sulla marginosternale e si prolunga fino all’ascella, e la linea intermedia fra superficie anteriore e posteriore del torace), in corrispondenza del quale viene posto il sistema di trasduzione per eliminare l’effetto della pressione idrostatica. Il livellamento scorretto del sistema di trasduzione produce alterazioni nella rilevazione dei valori pressori pari a 0.73 mm Hg per ogni cm H2O: se il trasduttore è posizionato al di sopra del livello flebostatico, il valore pressorio registrato sarà minore, se è posizionato al di sotto sarà maggiore.
Figura 11 - Corretto livellamento
Il secondo passaggio prevede l’azzeramento del sistema, ovvero l’attribuzione di un “punto zero” (corrispondente alla pressione atmosferica), sopra il quale viene misurata la pressione. Per fare ciò, il trasduttore viene messo in collegamento con l’aria ambiente (utilizzando l’apposito rubinetto a tre vie ed escludendo la linea che collega il trasduttore al paziente) e viene dato il comando di azzeramento al monitor. Questo passaggio consente di associare un valore numerico all’onda di pressione. Accuratezza dei sistemi di misurazione Le misurazioni di pressioni endovascolari vengono utilizzate per la valutazione dell’andamento clinico del paziente, e per adattare i trattamenti terapeutici utilizzati. Pertanto è essenziale testare l’accuratezza dei sistemi di misurazione che vengono utilizzati. I test di risposta dinamica dei sistemi di misurazione delle pressioni vengono utilizzati a tale scopo. Per fare ciò, il sistema viene sottoposto ad una pressione elevata in modo improvviso, utilizzando la valvola fast-flush presente sul trasduttore di pressione. Poiché la sacca di lavaggio viene mantenuta ad una pressione di 300 mmHg, e la scala di visualizzazione della curva pressoria generalmente ha come limite superiore 200 mmHg, un lavaggio rapido di 1-2 secondi produce un grafico (simile ai tre lati di un quadrato, motivo per cui il test viene definito dell’onda quadra) con una fase ascendente
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verticale (quando il flusso viene aperto), una linea piatta (quando il flusso viene mantenuto) e una fase rapida discendente (quando il flusso cessa). L’onda quadra dovrebbe tornare rapidamente alla baseline dopo alcune oscillazioni rapide. Se le oscillazioni sono lente, il sistema è soggetto a un eccesso di smorzamento del segnale (si dice “overdamping”), che ha come effetto una sottostima della pressione sistolica e una sovrastima della pressione diastolica. Al contrario, quando si ha un difetto di smorzamento del segnale (si dice “underdamping”), l’onda quadra sarà seguita da multiple ampie oscillazioni e l’effetto registrato sarà una sovrastima della pressione sistolica e una sottostima della pressione diastolica. La valutazione della risposta dinamica del sistema considera sia la frequenza delle oscillazioni prodotte con il test dell’onda quadra che la loro ampiezza. Per quanto riguarda la frequenza, si considera come ottimale una distanza minima tra le oscillazioni; per l’ampiezza si considera che l’altezza della seconda oscillazione dovrebbe essere all’incirca 1/3 rispetto alla prima. L’eccesso di smorzamento può avere come cause: • utilizzo di tubi non semirigidi (che “disperdono” sulla lunghezza il segnale); • utilizzo di tubi eccessivamente lunghi (non dovrebbero superare i 120 cm); • presenza di bolle d’aria nel sistema; • particolari caratteristiche del catetere (diametro, lunghezza e rigidità). Accorgimenti per il riempimento del sistema di monitoraggio delle pressioni invasive 1. Preparazione del materiale necessario: • kit monouso per trasduzione delle pressioni; • sacca di soluzione fisiologica 0.9%; • premisacca. 2. Riempire il sistema (per rimuovere l’aria): • stringere le connessioni, chiudere la roller-clamp e ruotare il rubinetto in posizione di chiusura verso il paziente (aperto verso l’aria ambiente); • innestare il deflussore nella sacca di soluzione fisiologica; • aprire la roller clamp, riempire la camera di gocciolamento e, utilizzando la valvola fast-flush, riempire il sistema fino al rubinetto posto sul trasduttore; • ruotare il rubinetto in posizione di apertura verso il paziente (chiuso verso l’aria ambiente) e, utilizzando la valvola fast-flush, riempire la restante parte del sistema (dal trasduttore al connettore distale); 3. ispezionare le linee, rimuovere eventuale aria residua utilizzando la valvola fast-flush; 4. inserire la sacca di soluzione fisiologica nel premi sacca e pressurizzare fino a 250-300 mmHg; ricontrollare l’eventuale presenza di aria; 5. effettuare un test di risposta dinamica. Adattato da: Bridges E., (2006), Pulmonary Artery Pressure Monitoring. When, how and what else to use, AACN Advanced Critical Care. Vol. 17, n. 3; 286-305
Definizioni e significato clinico La pressione arteriosa sistemica (PA) è la pressione rilevata all’interno di un vaso arterioso (generalmente radiale o femorale). I cateteri utilizzati a tale scopo variano per lunghezza e calibro (fino a 5-6 Fr per quelli inseriti in arteria femorale). La pressione arteriosa sistemica è la risultante della pressione emodinamica (ovvero quella trasmessa dalla contrazione del ventricolo sinistro), cinetica (connessa al flusso) e idrostatica (connessa alla densità e alla forza di gravità) che viene esercitata sulle pareti del circolo arterioso sistemico. La pressione arteriosa sistolica (PAS -corrispondente al valore pressorio più elevato riscontrato durante il ciclo cardiaco) è influenzata da diversi fattori (tra cui il precarico, lo stroke volume, la velocità di eiezione ventricolare, le resistenze periferiche, la distensibilità vascolare e la viscosità del sangue); la pressione diastolica (PAD - corrispondente al valore pressorio più basso riscontrato durante il ciclo cardiaco) è influenzata dalla viscosità ematica e dalle resistenze sistemiche. La pressione arteriosa media (PAM) viene definita come la pressione media durante il ciclo cardiaco. In condizioni normali, la pressione arteriosa media viene
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mantenuta costante attraverso un sistema di barocettori che controllano il diametro vascolare, al fine di garantire un flusso (e quindi una perfusione) adeguata di organi e tessuti, e, a differenza delle pressioni sistolica e diastolica, non risente delle variazioni legate al sito di misurazione (la pressione sistolica è minore a livello dell’aorta, maggiore in periferia). La pressione arteriosa media può essere calcolata con la formula PAM = (PAS + 2PAD) / 3 poiché normalmente nel ciclo cardiaco la durata della diastole è doppia rispetto a quella della sistole. La pressione venosa centrale (PVC) è la pressione misurata (alla fine della diastole) attraverso un catetere venoso la cui estremità distale è posta in prossimità dell’atrio destro. Generalmente si assume che questa pressione sia sovrapponibile alla pressione in atrio destro alla fine della diastole, e per tale motivo la PVC viene impiegata come indice di precarico. Tuttavia, vi sono numerose condizioni (pneumotorace, emotorace, tamponamenti cardiaco, ventilazione meccanica a pressione positiva, alterazioni della contrattilità cardiaca) che possono alterare la PVC, configurando una situazione in cui l’aumento di pressione non corrisponde ad un aumento di volume. La PVC è la risultante dell’interazione tra la funzionalità cardiaca e il ritorno venoso. Per tale motivo, le situazioni di ipovolemia relativa (come la Capillary Leak Syndrome) o assoluta (come gli stati emorragici o di perdita massiva di liquidi per vomito o diarrea) generalmente si associano a valori di pressione venosa centrale bassa; tuttavia, in queste stesse situazioni, una condizione di aumento della pressione intratoracica può generare valori elevati di PVC che non rispecchiano accuratamente la condizione volemica del paziente. La pressione arteriosa polmonare (PAP) è la pressione rilevata all’interno di una branca dell’arteria polmonare. Per misurarla è necessario l’inserimento di un catetere arterioso polmonare (PAC), introdotto nella pratica clinica a partire dagli anni ’70 e noto anche come catetere di Swan-Ganz, dal nome dei suoi ideatori. È un catetere lungo fino a 110 cm e provvisto di cinque lumi, la cui apertura sul catetere consente il monitoraggio di diversi parametri: • lume prossimale con apertura in atrio destro: utilizzato per la misurazione della pressione venosa centrale e per l’inoculo di indicatore freddo utilizzato per la determinazione della gittata cardiaca; • lume distale con apertura in arteria polmonare: utilizzato per la misurazione della pressione in arteria polmonare e, a palloncino gonfio, della pressione di occlusione dell’arteria polmonare; il lume distale può essere inoltre impiegato per prelevare sangue venoso misto, e determinare il livello di saturazione venosa mista (vedi paragrafo dedicato); • lume per infusioni e somministrazioni di farmaci; • lume per cuffiaggio: utilizzato per l’insufflazione del palloncino posto sulla porzione distale del catetere; • lume del termistore: con apertura in prossimità del palloncino, viene utilizzato per la determinazione della temperatura del sangue, è connesso attraverso un cavo al monitor multiparametrico.
Figura 12 - Catetere di Swan-Ganz Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
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Una delle indicazioni principali per l’inserimento del catetere di Swan-Ganz è la valutazione e gestione dell’ipertensione polmonare e della gittata cardiaca (che però, come descritto nel paragrafo dedicato, può essere rilevata con metodiche a minore invasività). Va sottolineato però come diversi studi e metanalisi non abbiano evidenziato miglioramenti dell’outcome connessi all’impiego di questo device. Il catetere di Swan-Ganz viene posizionato utilizzando un introduttore, inserito per via percutanea (in vena giugulare interna o succlavia) con metodica analoga a quella utilizzata per il posizionamento dei cateteri venosi centrali; alcuni modelli di introduttori sono provvisti di lumi accessori per l’infusione di farmaci e fluidi. La profondità di inserimento del catetere varia ovviamente a seconda del paziente (indicativamente si aggira intorno ai 50 cm), e viene determinata attraverso la presenza di tacche sottili (poste a 10 cm di distanza l’una dall’altra) e grosse (poste a 50 cm di distanza le une dalle altre). Questa procedura è caratterizzata da un alto livello di invasività, e pertanto il paziente deve essere strettamente monitorato (in particolare per la possibile insorgenza di aritmie maligne durante l’attraversamento delle camere cardiache). Inoltre, per l’elevato rischio infettivo connesso al posizionamento del catetere, la procedura va effettuata adottando le misure di barriera massimale; in sede di posizionamento, è anche possibile rivestire con una guaina la porzione di catetere non inserita, in modo da mantenerne la sterilità nel caso in cui sia necessario riposizionare il catetere (ad esempio per una migrazione). Per l’inserimento del catetere di Swan-Ganz è necessario connettere i lumi prossimale e distale a due trasduttori di pressione: la migrazione della punta del catetere attraverso la camere cardiache destre e il suo ingresso in arteria polmonare consentirà infatti la visualizzazione al monitor di forme d’onda specifiche, che sono indispensabili per il corretto posizionamento del catetere.
Figura 13 - Forme d’onda visualizzate durante il posizionamento del catetere di Swan-Ganz Tratta da: Marino P.L., The ICU BOOK, Lippincott Williams & Wilkins, 2007
Una volta posizionato, il catetere consente la visualizzazione continua dell’onda di pressione atriale destra e arteriosa polmonare. In condizioni normali, i valori di PAP sistolica si attestano intorno ai 20-30 mmHg, quelli di PAP diastolica intorno ai 5-10 mmHg, quelli di PAP media sono inferiori ai 20 mmHg; la determinazione della PAP è necessaria per identificare le condizioni di ipertensione polmonare. Poiché il range di valori entro cui si muove la determinazione della PAP è molto minore rispetto a quello della pressione arteriosa sistemica, è intuitivo come uno scorretto livellamento del trasduttore possa produrre dati non corrispondenti alla condizione clinica del paziente. Per tale motivo, il livellamento (e quindi l’azzeramento del trasduttore di pressione) dovrebbe essere effettuato ogni qualvolta che viene modificata la posizione del paziente (vedi figura), e non è raccomandata la rilevazione della PAP quando il paziente si trova in posizione laterale destra o sinistra.
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Il gonfiaggio del palloncino consente di misurare la pressione di incuneamento dell’arteria polmonare (PAWP – Pulmonary Artery Occlusion Pressure o PAWP – Pulmonary Artery Wedge Pressure): il palloncino cuffiato occlude un ramo dell’arteria polmonare, e la pressione che viene trasmessa al trasduttore è quella a valle del palloncino (rilevata dal lume distale): tale pressione è in equilibrio con quella del letto vascolare capillare polmonare, che a sua volta, poiché nel circolo polmonare non sono presenti valvole, riflette la pressione in atrio sinistro. Se non sono presenti patologie a carico della valvola mitrale, si può assumere che tale pressione rifletta la pressione telediastolica in ventricolo sinistro. La pressione di incuneamento viene quindi utilizzata (con i limiti legati alla non linearità della relazione pressione-volume) come indice di precarico del cuore sinistro. La pressione di incuneamento è generalmente compresa tra 4 e 12 mmHg, e valori superiori sono indicativi della comparsa di edema polmonare, che è associato a cause cariogene quando il valore è superiore a 18 mmHg. Oltre che dalle problematiche legate ad azzeramento, livellamento e risposta dinamica del sistema, la determinazione della PAP e della PAOP è influenzata anche dalla zona polmonare dove si posiziona la punte del catetere, dalle variazioni respiratorie e dall’aumento della pressione intrapleurica. In particolare, le misurazioni della PAOP sono più accurate nella zona III (in cui la pressione alveolare è inferiore a quella arteriosa polmonare). Inoltre, la misurazione della PAOP è più accurata nella fase tele-espiratoria, quando l’influenza della pressione intratoracica e dei volumi polmonari sulla traccia pressoria è minima. Il catetere di Swan-Ganz è inoltre impiegato per la determinazione della gittata cardiaca con metodo della termodiluizione (vedi paragrafo dedicato). Forme d’onda All’interno di un vaso arterioso, la forma d’onda individuata è strettamente interconnessa con le fasi del ciclo cardiaco, ed è caratterizzata dalla presenza di una fase ascendente (anacrotica), che ha inizio con l’apertura della valvola aortica, e la cui altezza e pendenza dipendono dallo stroke volume e dalla contrattilità del ventricolo sinistro. La fase ascendente culmina con il picco sistolico, corrispondente alla massima pressione generata dalla contrazione ventricolare, e che corrisponde alla pressione arteriosa sistolica. A questa segue una fase discendente, che ha inizio nella fase tardiva della sistole (quando il flusso ematico ventricolare inizia a diminuire), durante la quale la chiusura della valvola aortica produce la caratteristica incisura dicrota, dopo la quale il livello della pressione si attesta sul valore diastolico. La morfologia delle forme d’onda pressoria arteriosa può variare in base alla sede dove viene rilevata la pressione stessa, poiché all’aumentare della distanza tra il cuore e il punto di rilevazione, aumenta anche l’effetto di riflessione anterograda e retrograda dell’onda pressoria.
Figura 14 - Forme d’onda nei diversi siti di rilevazione della pressione arteriosa Tratta da: Sladen A. & Feinstein, Invasive monitoring and its complications, in Intensive Care Unit. critical Care medicine, 1990 18(12) 1500
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Anche l’età può influenzare la morfologia dell’onda di pressione arteriosa sistolica, dal momento che la riduzione della compliance vascolare correlata all’invecchiamento può ritardare la comparsa del picco di pressione arteriosa e attenuare la curva di pressione diastolica. La forma d’onda della PVC riflette i cambiamenti di pressione che hanno luogo all’interno dell’atrio destro in relazione al flusso sanguigno durante le diverse fasi del ciclo cardiaco. L’onda A si crea dopo l’onda P dell’elettrocardiogramma durante l’intervallo PR. Essa riflette l’aumento di pressione che ha luogo con la contrazione atriale, e per tale motivo può non essere visibile nei soggetti con alterazione della contrattilità atriale (ad esempio nei pazienti con fibrillazione atriale). La PVC viene rilevata a metà della flessione X, poiché questo punto corrisponde sul tracciato elettrocardiografico alla fase di rilassamento atriale. L’onda C si crea alla fine del complesso QRS (quando inizia il tratto ST) sul tracciato elettrocardiografico. Essa riflette la chiusura della valvola tricuspide e può non essere sempre visualizzabile. L’onda V si verifica alla fine dell’onda T sul tracciato elettrocardiografico, e riflette l’aumento della pressione atriale dovuta al suo riempimento. La flessione Y si crea prima dell’onda P sul tracciato elettrocardiografico e riflette l’apertura della valvola tricuspide e il passaggio di sangue dall’atrio al ventricolo prima della contrazione atriale.
Figura 15 - Forma d’onda della pressione venosa centrale Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
Il valore di PVC che viene visualizzato al monitor è ottenuto come media dei valori registrati durante l’intero ciclo cardiaco. Per ottenere misurazioni accurate della PVC è importante registrare questo valore al termine dell’espirazione, in modo da eliminare l’influenza generata dall’aumento della pressione intratoracica. Sarebbe pertanto opportuno utilizzare un tracciato stampato oppure utilizzare la funzione di “congelamento” dell’onda (con l’apposito cursore). Come precedentemente accennato, la PVC va registrata a metà della flessione X, in corrispondenza della fase finale dell’espirazione (sia nei pazienti in respiro spontaneo che in quelli in ventilazione meccanica). La curva della PAP ha una morfologia simile a quella della pressione arteriosa sistemica (rapida ascesa, picco, decremento, incisura dicrota e ritorno ai valori di base).
Figura 16 - Forma d’onda della pressione arteriosa polmonare Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
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Aspetti assistenziali La gestione dei cateteri per monitoraggio segue le indicazioni presenti all’interno delle linee guida dei CDC di Atlanta per quanto concerne la medicazione, la manipolazione dei raccordi e la sostituzione delle linee. La rimozione del catetere arterioso radiale e femorale è normalmente gestita dall’infermiere. Si tratta di una procedura che richiede alcuni accorgimenti, al fine di evitare l’insorgenza di complicanze, in particolare legate ad una compressione non adeguata che può esitare nella formazione di ematomi sottocutanei e pseudoaneurismi. La rimozione del catetere arterioso è indicata in caso di malfunzionamento, impossibilità a prelevare sangue, segni locali di infezione, segni di ipoperfusione a carico dell’arto interessato, e tutte le volte in cui il paziente venga trasferito ad una struttura di cure non intensive. La manovra da garantire dopo la rimozione di catetere arterioso (anche qualora questa avvenga per cause accidentali, ad esempio lo sfilamento durante medicazione o l’autorimozione da parte del paziente) è una adeguata compressione fino a che non si sia arrestato il flusso ematico; per i cateteri radiali, questa manovra può avere una durata di 10 minuti, al termine dei quali viene posizionata una medicazione compressiva; per i cateteri femorali i tempi di compressione sono più lunghi (almeno 30 minuti, ma si può arrivare all’applicazione per alcune ore nel caso di dispositivi meccanici); si può ricorrere a metodiche di compressione manuale o meccanica (ad esempio il Femostop®); le prime comportano l’applicazione di una pressione esercitata sul punto di inserzione con due dita o con il pugno chiuso; le seconde prevedono l’utilizzo di dispositivi dotati di una cuffia (che viene applicata sul punto di inserzione e mantenuta in sede per mezzo di apposite “cinture”, o con sistemi adesivi) al cui interno la pressione viene regolata per mezzo di un manometro; la pressione all’interno della cuffia viene regolata inizialmente ad un livello superiore a quello del paziente, e poi gradualmente ridotta, fino alla rimozione del dispositivo; durante la permanenza in sede del dispositivo di compressione, l’arto interessato viene valutato periodicamente per identificare precocemente segni di ridotta perfusione. Le metodiche manuali sono relativamente poco costose, ma impiegano tempo assistenziale infermieristico e non consentono la valutazione delle pressioni applicate sul sito di inserzione. Le metodiche meccaniche sono relativamente più costose e richiedono un training minimo, ma consentono una valutazione più accurata delle pressioni applicate (e conseguentemente, dell’efficacia della compressione esercitata), e possono comportare un maggiore dolore e disconfort per il paziente (anche perché richiedono l’applicazione per tempi più lunghi rispetto alla compressione manuale). Per quanto riguarda l’insorgenza di complicanze (ematomi, emorragie, pseudoaneurismi), non è stata dimostrata una maggiore efficacia di una metodica rispetto all’altra; tuttavia, va sottolineato che i campioni di pazienti studiati erano generalmente ridotti; inoltre, le metodiche considerate sono state sempre applicate a gruppi di pazienti sottoposti a cateterismo arterioso femorale in seguito a coronarografia; pertanto le conclusioni degli studi considerati sono difficilmente applicabili ai pazienti di terapia intensiva, nei quali la maggiore durata della permanenza del catetere può predisporre a maggiori difficoltà nel raggiungimento dell’emostasi. Nei pazienti studiati, inoltre, non sono stati evidenziati dati di coagulazione (PTT, InR, conta piastrinica) predittivi per l’insorgenza di complicanze.
3. IL MONITORAGGIO DELLA GITTATA CARDIACA La gittata cardiaca è una misura di flusso; essa indica la quantità di sangue espulsa dai ventricoli in un minuto. In un soggetto adulto in condizioni normali, questa determinazione si aggira intorno ai 5 l/min. La gittata cardiaca viene definita come prodotto della frequenza cardiaca e della gittata sistolica (o stroke volume), che generalmente è di 60-100 ml per battito. Il metodo gold standard (rispetto al quale tutte le altre metodiche vengono valutate) per la determinazione della gittata cardiaca si basa sul principio della termodiluizione a freddo (utilizzando un catetere arterioso polmonare), che consiste nell’iniezione di un bolo (a volume predeterminato) di liquido (indicatore) a temperatura data; l’iniezione produce una riduzione di temperatura
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rispetto al suo valore basale; la progressiva dispersione dell’indicatore freddo e il ritorno della temperatura al valore basale sono una funzione della gittata cardiaca. L’iniezione dell’indicatore viene effettuata attraverso il lume prossimale del catetere di Swan-Ganz. La variazione di temperatura viene intercettata dal termistore posto in prossimità del palloncino, e visualizzata come una curva, in cui il tempo è rappresentato sull’asse orizzontale e la temperatura su quello verticale.
Figura 17 - Curva di termodiluizione Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
La curva è caratterizzata da una fase di ascesa rapida, da un picco e da un ritorno più lento al valore basale della temperatura. L’area sotto la curva è inversamente proporzionale al tempo necessario per il ritorno alla temperatura basale: nelle condizioni di aumento della gittata cardiaca, quindi, la pendenza della parte discendente della curva sarà elevata; nelle condizioni di riduzione della gittata cardiaca, la pendenza della parte discendente della curva sarà ridotta.
Figura 18 - Curva di termodiluizione in condizioni di alta e bassa gittata cardiaca Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
Affinché la determinazione della gittata cardiaca sia accurata, è necessario rispettare alcuni principi: • la temperatura di base del paziente deve essere costante; • l’iniezione deve essere fatta a bolo e rapidamente;
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• il volume del bolo (freddo o a temperatura ambiente) deve essere adeguato a produrre una variazione di temperatura significativa; • non deve esservi perdita di indicatore (ad esempio per un inadeguata connessione della siringa ), e questo si deve disperdere completamente; • il flusso ematico deve essere costante. L’accuratezza della misurazione può essere influenzata da condizioni cliniche del paziente: nell’insufficienza tricuspidale, ad esempio, si verifica un flusso anterogrado e retrogrado che può determinare una inadeguata dispersione dell’indicatore freddo. Inoltre, il flusso ematico subisce delle variazioni a seconda del fatto che il paziente sia in ventilazione meccanica o in respiro spontaneo, e durante le fasi del ciclo inspiratorio. L’accuratezza della misurazione è correlata al rispetto di alcuni principi: • temperatura dell’iniettato: la variazione di temperatura osservata è funzione della differenza tra la temperatura corporea del paziente e quella dell’iniettato; l’iniettato può essere utilizzato a temperatura ambiente o precedentemente raffreddato in frigorifero (è fondamentale immettere il dato di temperatura dell’iniettato per il calcolo della gittata cardiaca); nel primo caso saranno necessari volumi maggiori rispetto al secondo; se l’iniettato è freddo, è importante evitarne il riscaldamento (ad esempio tenendo la siringa tra le mani, o lasciandolo a temperatura ambiente per un tempo troppo lungo); • velocità dell’iniezione: deve essere rapida (al massimo 4 secondi per un volume di 10 ml, 2 secondi per un volume di 5 ml); • l’iniezione dell’indicatore deve preferibilmente iniziare durante la fase teleespiratoria. Vengono ottenute 3 o 5 curve di termodiluizione (a tale proposito, si ricorda che sarebbe importante registrare la quantità di liquido iniettato per le determinazioni, particolarmente in pazienti con indicazione alla restrizione di fluidi), e selezionate le 3 con il valore più vicino a quello mediano; il dato di gittata cardiaca viene calcolato come media di questi tre valori. I fattori che influenzano la gittata cardiaca (in particolare che concorrono alla determinazione dello stroke volume) sono il precarico, la contrattilità, il postcarico. Il precarico è riferito alla distensione delle fibre miocardiche alla fine della diastole, ovvero nel momento di massimo riempimento del ventricolo. La distensione delle fibre dipende dal volume di sangue presente, e come tale il precarico dipende dalla volemia del paziente; per la legge di Frank-Starling, la forza di contrazione del ventricolo aumenta con l’aumentare della distensione delle fibre miocardiche; tuttavia, quando il muscolo viene disteso al disopra delle proprie capacità, la contrattilità si riduce. Il precarico è stato storicamente stimato utilizzando misure di pressione; tuttavia va considerato che la relazione pressione-volume a livello cardiaco è di tipo curvilineo e non rettilineo; ciò comporta che, in un ventricolo compliante, in una prima fase aumenti relativamente consistenti di volume producono piccole variazioni di pressione; in un ventricolo non compliante, piccoli aumenti di volume generano maggiori aumenti di pressione (figura). L’introduzione di misure volumetriche attraverso particolari sistemi di monitoraggio ha consentito la determinazione più precisa di indici di precarico. Le più significative sono rappresentate dall’ITBV (Intra Thoracic Blood Volume, corrispondente al volume ematico intratoracico) e dal GEDV (Global End Diastolic Volume, corrispondente al volume ematico delle quattro camere cardiache alla fine della diastole), anch’esse indicizzate sulla superficie corporea del paziente. Questi indici vengono derivati analizzando il tempo di transito delle molecole di indicatore freddo dal punto di iniezione (catetere venoso centrale) al punto di rilevamento della variazione di temperatura (catetere arterioso), e dal tempo di decadimento (rappresentato dalla parte discendente) della curva di termodiluizione. Combinando i volumi ottenuti è possibile calcolare anche il volume di acqua extravascolare polmonare (EVLW - ExtraVascular Lung Water), che rappresenta un indice più affidabile di edema polmonare rispetto alla PAOP; normalmente, l’EVLW è inferiore a 6ml/kg di peso corporeo, quando aumenta l’acqua si raccoglie negli spazi interstiziali polmonari determinando un progressivo peggioramento degli scambi gassosi.
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La contrattilità si riferisce alla capacità delle fibre cardiache di accorciarsi indipendentemente dal precarico e dal postcarico. La contrattilità non può essere misurata direttamente, e pertanto si utilizzano indicatori surrogati come lo stroke volume. La contrattilità può essere migliorata attraverso l’uso di inotropi. Il postcarico viene definito come la resistenza che il cuore deve vincere per eiettare il sangue nel letto vascolare; esso è determinato da numerosi fattori, come il volume di sangue espulso, la dimensione e lo spessore del ventricolo, e le resistenze vascolari. Il postcarico può essere migliorato con l’utilizzo di vasodilatatori. Nella pratica clinica, la gittata cardiaca viene rapportata alla superficie corporea del paziente ottenendo l’indice cardiaco (espresso come l/min/m2), in modo da controllare l’influenza che le dimensioni dei soggetti possono avere sulla determinazione di questo parametro. Alcuni cateteri di Swan-Ganz modificati consentono la determinazione della gittata cardiaca attraverso il metodo della termodiluizione inversa: il principio a cui ci si riferisce è sempre l’equazione di Stewart-Hamilton, tuttavia la temperatura del sangue viene aumentata riscaldando un filamento termico in rame posto sull’estremità distale del catetere. Queste determinazioni vengono realizzate ad intervalli di 3-6 minuti, e pertanto la metodica viene definita come semicontinua; il dato di gittata cardiaca che si ottiene non è contestuale.
Figura 19 - Catetere di Swan-Ganz modificato per la rilevazione della saturazione venosa continua Tratta da: Owen A. (1998), Il monitoraggio in area critica, McGraw-Hill, Milano
Altri metodi per la misurazione della gittata cardiaca L’elevata invasività e i rischi connessi al posizionamento del catetere di Swan-Ganz riducono l’applicazione a pazienti e condizioni molto selezionate. Tuttavia, altre metodiche consentono la determinazione della gittata cardiaca con minori livelli di invasività. Queste metodiche si distinguono per: • continuità della misurazione; • necessità di calibrazione; • invasività; • affidabilità delle misurazioni. Una prima considerazione va fatta sulle metodiche di termodiluizione transpolmonare: esse utilizzano un catetere venoso centrale per l’iniezione del bolo e rilevano la variazione di temperatura con un termistore su un catetere arterioso inserito in un’arteria di grosso calibro (generalmente la femorale o l’ascellare). L’invasività di questa metodica è inferiore (less invasive) rispetto a quella del PAC. L’iniezione di bolo freddo (a volume maggiore rispetto a quella usata con il PAC, poiché la distanza tra il punto di iniezione e quello di rilevazione della variazione di temperatura è maggiore) consente di determinare la gittata cardiaca con l’equazione di
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Stewart-Hamilton; a partire dalla curva ottenuta, il sistema calcola un coefficiente (legato alla compliance dell’aorta) che viene utilizzato per il calcolo della gittata cardiaca in continuo a partire dall’analisi del contorno del polso (ovvero dell’area sotto la curva di pressione arteriosa sistolica). In questo modo, è possibile ottenere misurazioni della gittata cardiaca battito per battito, ed intercettare tempestivamente le sue variazioni. La gittata cardiaca ottenuta con questo tipo di monitoraggio ha evidenziato una eccellente correlazione con quella rilevata mediante PAC tradizionale e modificato. Il monitoraggio presenta tra i suoi vantaggi anche un training relativamente semplice per gli operatori, ed è possibile utilizzarlo in diverse condizioni cliniche (sepsi, ARDS, trapianti). La metodica richiede la ricalibrai zone del sistema nel caso in cui intervengano importanti variazioni della pressione arteriosa del paziente (poiché il dato di gittata cardiaca continua viene derivato dall’analisi della forma d’onda arteriosa). Un’altra metodica per la determinazione della gittata cardiaca continua prevede l’analisi del contorno del polso con l’inserimento di un semplice catetere arterioso (anche a livello radiale). L’invasività in questo caso è ridotta (minimally invasive) e non vi è necessità di calibrazione. Il sistema utilizza un algoritmo per derivare lo stroke volume dall’analisi della forma d’onda arteriosa (a intervalli di 20 secondi). Il dato di gittata cardiaca così ottenuto è continuo, e non richiede calibrazione iniziale. Trattandosi di una metodica non calibrata, la sua affidabilità è minore in condizioni iperdinamiche.
4. IL MONITORAGGIO DELLA SATURAZIONE VENOSA DI OSSIGENO La saturazione venosa di ossigeno è definita come la percentuale di emoglobina saturata da ossigeno a livello del circolo venoso, analogamente a quanto avviene sul distretto arterioso. La valutazione della saturazione venosa di ossigeno è di fondamentale importanza per comprendere il bilancio tra disponibilità e consumo di ossigeno. Essa può essere valutata mediante prelievo ematico per emogasanalisi da catetere venoso centrale (preferibilmente sulla via distale; in questo caso si parla ScvO2) o da catetere di Swan- Ganz (utilizzando il lume della pressione polmonare; in questo caso si parla di SvO2). Quando disponibile, è preferibile la determinazione da catetere di Swan-Ganz, in quanto il prelievo ottenuto assicura la mescolanza di sangue proveniente da tutti i distretti corporei (superiore e inferiore, circolo coronarico); tuttavia, la saturazione venosa centrale di ossigeno rappresenta un ottimo surrogato di quella mista. Attraverso particolari cateteri provvisti di fibre ottiche e inseriti all’interno di un catetere venoso centrale o del catetere di Swan-Ganz, è possibile la visualizzazione continua a monitor dei valori di saturazione venosa centrale, dopo calibrazione in vitro mediante prelievo emogasanalitico. La saturazione venosa di ossigeno rappresenta la quantità di ossigeno che ritorna al cuore dopo che le cellule dei tessuti hanno estratto l’O2 necessario al proprio fabbisogno. Essa è determinata dalla differenza tra l’apporto di ossigeno (Oxygen Delivery - DO2) e il consumo di ossigeno cellulare per il metabolismo aerobio (Oxygen Consumption - VO2). I determinanti della DO2 sono rappresentati da: • gittata cardiaca; • emoglobina; • saturazione arteriosa di ossigeno e pressione parziale di ossigeno nel sangue arterioso. La DO2 viene indicizzata sulla superficie corporea del paziente. Il consumo di ossigeno viene calcolato come prodotto della gittata cardiaca per la differenza tra contenuto arterioso e venoso di ossigeno. Normalmente, la quantità di ossigeno che viene trasportata è di circa 1000 ml al minuto, quella consumata di 250 ml al minuto. La differenza (che rappresenta la riserva venosa di
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ossigeno) serve nel caso di aumenti della richiesta di ossigeno a livello cellulare (ad esempio nelle condizioni di aumentata attività fisica o negli stati ipermetabolici, come in caso di incremento della temperatura). I valori normali di saturazione venosa centrale di ossigeno sono del 70-75%, e rappresentano con buona approssimazione quelli della saturazione venosa mista (che può essere inferiore del 5-7%). La valutazione della saturazione venosa di ossigeno fornisce informazioni sulla necessità di aumentato consumo (in cui i valori riscontrati saranno pertanto inferiori rispetto al normale) o ridotta estrazione a livello periferico (in cui i valori saranno aumentati rispetto al normale). Nel primo caso, verranno attuati interventi per migliorare le capacità del sistema di trasporto (ad esempio, correggendo l’ipossiemia, aumentando il livello di emoglobina, migliorando la funzione di pompa del cuore con l’utilizzo di inotropi). Le condizioni di aumentata saturazione venosa di ossigeno sono quelle in cui la cellula perde la propria capacità estrattiva a causa di un danno cellulare (che evolve poi nel danno d’organo). La saturazione venosa centrale di ossigeno è stata utilizzata, insieme ad altri parametri, come goal terapeutico nell’ottimizzazione emodinamica di pazienti ad alto rischio (sepsi severa e shock settico, postoperati). Negli studi che hanno utilizzato questo approccio, è stata evidenziata una correlazione con la sopravvivenza dei pazienti quando l’ottimizzazione veniva iniziata precocemente, ovvero prima che il danno d’organo che si instaura diventi irreversibile. Tavola “Condizioni cliniche associate con cambiamenti dell’ossigenazione venosa” CAUSE DI RIDUZIONE DELLA SATURAZIONE VENOSA DI OSSIGENO
CAUSE DI AUMENTO DELLA SATURAZIONE VENOSA DI OSSIGENO
Riduzione della disponibilità di ossigeno
Aumento della disponibilità di ossigeno
Riduzione della saturazione di ossigeno
Aumento della saturazione di ossigeno
• Problemi respiratori (edema polmonare, polmonite..) • Embolia polmonare • Alterazioni della ventilazione o della perfusione
• Ossigenoterapia • PEEP • Miglioramento della condizione respiratoria
Riduzione di emoglobina
• Trasfusioni ematiche • Policitemia
• Emorragie • Anemia Riduzione della gittata cardiaca • Aritmie • Shock ipovolemico, cardiogeno • Condizioni ostruttive (tamponamento, pneumotorace iperteso)
Aumento dell’emoglobina
Aumento della gittata cardiaca • Pacing • Fluidoterapia • Somministrazione di inotropi • Vasodilatatori
Aumento del consumo di ossigeno
Riduzione del consumo di ossigeno
• Alcune attività assistenziali (mobilizzazione, tracheoaspirazione) • Ansia, dolore, agitazione • Condizioni di aumento del consumo metabolico (ustioni, trauma, febbre, brivido) • Ipertermia
Riduzioni della necessità cellulare • Ipotermia • Blocco neuromuscolare • Farmaci analgesici, anestetici, sedativi, antipiretici Riduzione dell’apporto cellulare • Vasocostrizione • Coagulazione intravascolare disseminata Riduzione della funzionalità cellulare • Ischemia cellulare, necrosi • Tossicità cellulare
Adattato da Carlson K. (2009), AACN Advanced Critical Care Nursing, Saunders Elsevier, St. Louis
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Considerazioni conclusive L’assistenza al paziente critico non può prescindere dalla conoscenza da parte dell’infermiere dei sistemi di monitoraggio bedside che vengono impiegati. Le indicazioni fornite rappresentano il punto di partenza per arrivare ad una gestione esperta delle tecnologie e delle informazioni da esse derivanti, che deve essere coniugato con l’esperienza quotidiana. Si è scelto di non dedicare particolare attenzione alla descrizione delle singole tecnologie di monitoraggio, ma di sottolineare piuttosto come si sia evoluta la disponibilità, e di come sia cambiato l’approccio al monitoraggio emodinamico, in particolare con l’impiego sempre più diffuso di dati continui e di indici volumetrici. Sebbene la scelta del monitoraggio emodinamico da impiegare sul singolo paziente non rientri tra le decisioni infermieristiche, è importante sottolineare come l’appropriato settaggio delle linee, la corretta rilevazione dei dati (anche attraverso specifiche manovre di misura), la valutazione dei trend e il riconoscimento del deterioramento clinico (anche attraverso l’opportuna impostazione di limiti di allarme) rientrano tra le attività che l’infermiere gestisce quotidianamente in terapia intensiva, e rispetto alle quali conoscenze e competenze devono essere continuamente aggiornate.
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Capitolo II IL MONITORAGGIO EMODINAMICO
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Capitolo III Il monitoraggio respiratorio di base Stefano Bambi, Alberto Lucchini, Andrea Gafforelli, Daria Valsecchi
1. VALUTAZIONE CLINICA RESPIRATORIA DEL PAZIENTE IN TERAPIA INTENSIVA Stefano Bambi, Alberto Lucchini Nonostante che la medicina critica e intensiva siano caratterizzate da un imponente impiego tecnologico in termini di strumentazione diagnostica e terapeutica, il primo approccio alla valutazione del paziente rimane sempre l’esame clinico, che comprende la valutazione dei segni, sintomi e fattori di rischio per i problemi respiratori, e un accurato esame obiettivo. Questo permette anche di evitare di curare le macchine, prima che la persona, in un ambiente dove l’interazione tra questi 2 elementi è peculiare. Naturalmente l’esame obiettivo deve essere preceduto da una raccolta di dati anamnestici inerenti i segni, sintomi, e i fattori di rischio per problemi respiratori; in particolare devono essere esplorati: tosse, escreato, dispnea, sibilo, dolore toracico (tabella 1). Il processo di esame obiettivo del sistema respiratorio comprende: l’ispezione, la palpazione, la percussione e l’auscultazione. L’esame deve essere condotto rispettando la sequenza riportata in figura 1. Ispezione L’ispezione prevede innanzitutto di dividere topograficamente il torace posteriore mediante le linee scapolari destra e sinistra, e la linea vertebrale. Anteriormente si identificano, invece, la linea mediosternale e medioclavicolare di destra e sinistra. Infine, lateralmente si trovano le linee ascellari destre e sinistre (anteriore, media e posteriore). Si osserva la conformazione del torace, la presenza di deformazioni, lesioni, cicatrici e la simmetricità e profondità dell’espansione del torace. Importante il rilievo dell’uso dei muscoli accessori della respirazione (trapezio, sternocleidomastoideo e scaleni) in fase inspiratoria e/o espiratoria. Si tenga presente che l’osservazione del paziente in ventilazione meccanica assume caratteristiche differenti rispetto a quelle della persona a respiro spontaneo. L’asimmetria dell’espansione toracica può esser segno di intubazione del bronco principale, versamento pleurico, atelectasia, consolidamento, lobectomia, pneumotorace e pneumectomia. Il movimento paradosso di una porzione della gabbia toracica, dato da retrazione delle coste in fase inspiratoria e protrusione in espirazione, può esser provocato da volet costale o sternale. L’ispezione inizia con la valutazione della frequenza respiratoria (FR) del paziente, i cui valori normali sono
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
circa 12-20 atti/m’. Accanto alla FR è importante anche osservare il rapporto inspirazione:espirazione (I:E), in genere intorno a 1:2, per permettere la regolare eliminazione della CO2. I pattern respiratori patologici sono riportati in tabella 2. Nel paziente ventilato l’osservazione della FR e del pattern respiratorio possono essere molto influenzati dal grado di supporto ventilatorio offerto. Palpazione La palpazione del torace viene effettuata sistematicamente alla ricerca di asimmetria tra gli emitoraci, affossamenti, deformità, instabilità ossea, crepitii, ed enfisema sottocutaneo. Serve inoltre per elicitare aree di dolore da parte del paziente, se in grado di riferire il sintomo, e per rilevare il fremito vocale tattile (vibrazioni determinate dal passaggio dell’aria attraverso bronchi e polmoni). Vibrazioni più intense in un’area rispetto all’altra suggeriscono la presenza di addensamento parenchimale, mentre se di intensità inferiore, possono indicare versamento pleurico, enfisema polmonare e pneumotorace. L’ostruzione bronchiale o un versamento pleurico massivo determinano, invece, la scarsità o assenza di vibrazioni nelle sedi superiori e posteriori. Nel paziente intubato non si possono eseguire manovre per elicitare il fremito vocale tattile, o la risonanza vocale, a causa della via aerea artificiale attraverso la glottide. Inoltre è difficile verificare con la palpazione l’eventuale presenza di deviazione dell’asse tracheale perché il tubo tende a fare da splint tracheale, a meno che la deviazione non sia estremamente marcata, come nel caso del pneumotorace iperteso Percussione La percussione è limitata nel paziente critico per la difficoltà a mantenere la posizione seduta a 90°, e per la presenza di ferite, linee infusive, accessi vascolari, elettrodi di monitoraggio, o altri dispositivi invasivi o ortopedici. In tabella 3 si riportano i principali rilievi clinici determinati dalla percussione del torace. Auscultazione L’auscultazione non dovrebbe essere effettuata da sopra indumenti per la riduzione della capacità di interpretazione dei suoni e per la possibilità di artefatti. Anche una quota eccessiva di peluria toracica può rendere difficile l’esecuzione dell’esame, simulando crepitii. Viene effettuata sistematicamente secondo lo schema riportato in figura 1. La distinzione tra suoni normali ed avventizi può esser facilitata mantenendo bene adeso alla cute il fonendoscopio e auscultando per ogni sede, una inspirazione ed una espirazione completa. L’auscultazione produce suoni respiratori variabili a seconda della sede in cui viene effettuata: il suono tracheale si apprezza sopra la fossetta sovraclaveare (anteriormente), è di tipo aspro e acuto e ha un tempo inspiratorio uguale a quello espiratorio; il suono bronchiale si apprezza in sede sopraclavicolare bilaterale rispetto ai lati sternali, al di sopra del manubrio sternale, è di tipo forte e acuto ed ha un tempo inspiratorio inferiore a quello espiratorio; il suono broncovescicolare si apprezza anteriormente accanto allo sterno, e posteriormente in sede interscapolare: è di media intensità ed altezza, ed ha uguale tempo inspiratorio ed espiratorio; il suono vescicolare si apprezza sulle restanti sedi toraciche anteriori e posteriori, ha un tono smorzato, basso, e un tempo inspiratorio maggiore di quello espiratorio. Nel paziente in ventilazione meccanica è più frequentemente effettuata anteriormente e lateralmente, mentre dovrebbe esser utilizzata ogni occasione per procedere anche con l’auscultazione delle pareti toraciche posteriori. Per avere la possibilità di reperti più nitidi, è necessario che la cuffia del tubo tracheale sia adeguatamente gonfia, e che non vi sia condensa all’interno del circuito del ventilatore. Le perdite della cuffia del tubo possono simulare il reperto di un sibilo. Il fonendoscopio non dovrebbe toccare il circuito del ventilatore per evitare la trasmissione di suoni che potrebbero essere scambiati per avventizi. I reperti auscultatori per suoni avventizi sono riportati in tabella 4.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Considerazioni particolari • La dispnea, intensa come sensazione soggettiva di difficoltà alla respirazione, è un sintomo e, come tale, quando riferito, deve esser preso in considerazione anche se non vi sono reperti clinici oggettivi. • I segni e sintomi di ipossiemia sono: - irrequietezza, confusione, disorientamento, poi sopore e coma; - dispnea, tachipnea, cianosi; - tachicardia, aritmie; - ipertensione, poi ipotensione fino allo shock, lesione d’organo. • I segni e sintomi di ipercapnia sono: - letargia fino al coma; - vasodilatazione, arrossamento del volto; - bradicardia e disturbi del ritmo; - ipotensione. • La FR è un parametro vitale oggetto di scarsa attenzione e rilevazione, a fronte della sua reale importanza e del valore predittivo che detiene nei confronti delle malattie acute e gravi. • La FR e la SpO2 non sono due parametri intercambiabili, ma necessitano di valutazione integrata: infatti una saturazione nei limiti del normale in aria ambiente può esser mantenuta, in alcuni casi di insufficienza respiratoria iniziale, a prezzo di un aumento della FR. La SpO2 quindi non sostituisce la FR. • Nel paziente a respiro spontaneo senza supporto meccanico della ventilazione, contare gli atti respiratori per un minuto, per avere una FR attendibile. • Non affidarsi ai monitor multiparametrici per monitorizzare la FR, dal momento che il parametro viene derivato dagli elettrodi dell’ECG, ed è molto suscettibile di artefatti di lettura che possono sottostimare o sovrastimare anche in modo importante la reale FR. • Il livello di ossigenazione e di scambi della CO2 influenza notevolmente lo stato di coscienza del paziente. Il monitoraggio respiratorio, richiede quindi particolare attenzione verso il sensorio.
Figura 1 - Sequenza dell’esplorazione delle aree del torace
Tratto da http://nursing-skills.blogspot.it/2014/01/order-of-auscultating-lung-sounds.html#.U3uRU_l_uSo
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Tabella 1 - Raccolta dati anamnestici su segni, sintomi, e fattori di rischio di problemi respiratori Segni e sintomi
Rilievi
Tosse
Durata
Tipologia
Escreato
Significato clinico Acuta
In genere infezione virale o risposta allergie
Cronica
Può essere infausta; possibile segno di malattia da reflusso gastroesofageo, asma, allergie croniche, bronchite, TBC, o cancro. Alcuni farmaci possono determinare la tosse come effetto collaterale (per esempio gli ACE inibitori)
Produttiva
Generalmente indica qualche infezione o processo infiammatorio
Secca o non produttiva
Può indicare una polmonite “atipica”, o versamento pleurico, condizione patologica cardiaca sottostante, o effetto collaterale di radio o chemioterapia
Severità
Accertata mediante scala numerica da 0 a 10, dove possibile. La tosse che aumenta in severità e frequenza di notte può indicare malattia cardiaca sosttostante. La tosse che aumenta dopo i pasti può indicare reflusso gastroesofageo. La tosse che peggiora al risveglio può indicare bronchite, talvolta è chiamata anche “tosse del fumatore”
Durata
Indagare da quanto tempo il paziente manifesta tosse produttiva
Colore
Odore Consistenza
Rosa, schiumoso
Può indicare edema polmonare
Purulento, color ruggine
Può indicare processo virale, o pseudomonas
Giallo, purulento
Può indicare infezione batterica
Nero
Può indicare pneumoconiosi occupazionale o “polmone nero”
Chiaro, mucoso
Quando si presenta perlopiù di mattina può indicare enfisema
Presenza di sangue (emoftoe)
Necessarie ulteriori indagini per verificare se il sangue proviene dai polmoni o dal tratto gastroenterico. Escreato striato di sangue può indicare TBC
Nauseante, putrido
In genere indica un processo infettivo
Fluido
Molto dipendente dallo stato di idratazione del paziente e di umidificazione delle vie aeree
Denso Quantità Dispnea
Possibili processi patologici sottostanti: scompenso cardiaco congestizio, bronchite cronica, asma, enfisema, ostruzione delle vie aeree, TBC, disordini pollmonari HIV correlati, processi infettivi o infiammatori. Modalità di insorgenza
Dolore toracico
Parossistica notturna
Possibile malattia cardiaca sottostante
Ortopnea
Possibile malattia cardiaca sottostante
A riposo
Possibile malattia polmonare o cardiaca sottostante
Da sforzo
Possibile malattia polmonare o cardiaca sottostante
Caratteristiche P: provocato-palliato Q: qualità R: sede e irradiazione S: severità T: tempo di insorgenza e concomitanza segue
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Segni e sintomi
Rilievi
Dolore toracico
Qualità
Significato clinico Opprimente, come una morsa
Probabile origine cardiaca
Variabile in intensità con l’assunzione di cibo o antiacidi
Possibile origine gastrica o esofagea
Urente durante la respirazione
Possibile origine tracheale
Localizzato, ricorrente con la palpazione
Possibile origine dalla gabbia toracica o dalle coste
A pugnalata
Possibile origine pleurica
Incessante, sfiancante, sfumato
Possibile origine da malattie come TBC o cancro
Fattori di rischio
Rilievi
Anamnesi medica
Sintomi attuali Precedenti ricoveri Malattie/condizioni croniche Malattie/condizioni acute al momento della valutazione Allergie Traumi Interventi chirurgici Malattie ereditarie, allergie
Anamnesi sociale
Fumo di sigaretta Fattori di rischio lavorativi Rischio per esposizione ad HIV o TBC Viaggi recenti
Anamnesi farmacologica
Più di 100 farmaci possono avere effetti collaterali su sistema respiratorio
Legenda: TBC – Tubercolosi; ACE – Inibitori dell’enzima convertente l’angiotensina; HIV – Virus dell’Immunodeficienza Umana
Tabella 2 - Pattern respiratori patologici Tipo
Caratteristica
Significato clinico
Apnea
Assenza di respiro
Eccesso di sedazione, analgesia con oppiodi, o somministrazione di miorilassanti; lesioni del sistema nervoso centrale, lesioni vertebromidollari sopra il livello di C4; arresto cardiaco
Tachipnea
FR> 20 atti/m’, regolare
Dolore, febbre, polmonite, edema polmonare, versamento pleurico
Bradipnea
FR< 12 atti/m’, regolare
Eccesso di sedazione, intossicazione da oppiacei, ipertensione intracranica, depressione del sistema nervoso centrale, iperkaliemia, accidenti cerebrovascolari
Iperventilazione
Respiro rapido e superficiale
Ansia, esercizio, malattia metabolica
Ipoventilazione
Respiro molto superficiale
Inspirazione dolorosa, fratture costali
Iperpnea
Aumento della profondità di respiro
Ansia, esercizio, malattia metabolica
Kussmaul
Respiro rapido, profondo, regolare, spesso a bocca aperta
Ansia, chetoacidosi diabetica, acidosi metabolica, avvelenamento, malattia renale
Cheyne-Stokes
Respiro irregolare, gradualmente più veloce e profondo, poi lento e superficiale, per arrivare a periodi di apnea fino anche a 60 secondi
Meningite, tumori o traumi encefalici, uremia, stadi finali dello scompenso cardiaco congestizio cronico, traumi del sistema nervoso centrale
Biot (atassico)
Respirazione irregolare, può esser superficiale, poi lenta, profonda, quindi rapida, con cicli di apnea ripetuti e bruschi
Meningiti, traumi al sistema nervoso centrale, danni encefalici, aumento della pressione intracranica
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Tabella 3 - Rilievi clinici della percussione toracica Suono di percussione
Caratteristica
Significato clinico
Chiaro polmonare
Suono a tamburo, profondo, basso
Polmoni normalmente riempiti d’aria
Iperfonetico
Suono più profondo, più forte di quello chiaro polmonare, in qualche modo musicale, rimbombante
Aumento di aria nel torace, tipicamente nell’enfisema e nello pneumotorace
Ottuso
Suono breve, lieve, sordo, evocato su tessuto denso senza aria
Tumori polmonare, versamento pleurico ingente, addensamento, atelectasia
Ipofonetico
Suono di altezza e intensità media, evocato su tessuto denso, quasi senza aria
Consolidamento del parenchima, sostituzione dell’aria parenchimale con liquido o muco, tipicamente polmonite, edema polmonare, atelectasie
Timpanico
Suono moderatamente lungo, alto, musicale, evocato da tessuti e organi completamente pieni d’aria
Vasto pneumotorace
Tabella 4 - Rilievi clinici dell’auscultazione toracica Suono respiratorio normale/ Caratteristica
Significato clinico
Bronchiale
Nessuno; se udito sui campi polmonari in periferia, indica consolidamento; normalmente gli alveoli riempiti di aria filtrano questo suono evitando che raggiunga la periferia, mentre il consolidamento rende denso il parenchima permettendone la trasmissione del suono in periferia
Broncovescicolare
Nessuno, se udito in periferia, indica consolidamento polmonare
Vescicolare
Se ridotto o assente indica riduzione di emissione di suoni, vedi respiro superficiale, oppure riduzione della trasmissione dei suoni, come nell’iperinflazione o nell’ostruzione parziale, per esempio da muco
Suono respiratorio avventizio/ Caratteristica
Significato clinico
Crepitii – suoni non musicali, intermittenti, di breve durata. Si distinguono in crepitii fini (udibili in inspirazione) e grossolani (udibili in inspirazione e espirazione)
Atelectasie, ritenzione di fluidi nelle vie aeree inferiori (edema polmonare), ritenzione di muco (bronchite, polmonite), fibrosi interstiziale
Sibili – suoni musicali, striduli, fischianti, continui, udibii in inspirazione e/o espirazione
Broncospasmo, asma, ostruzione parziale delle vie aeree da secrezioni, tumori, infiammazione, stenosi, corpi estranei
Ronchi – suoni musicali bassi, continui, tipo gemito, rantolo o russamento. Possono schiarirsi o diminuire con la tosse
Malattie che generano infiammazione delle vie aeree con eccesso di muco come polmonite, bronchite, oppure con eccesso di fluidi, come nell’edema polmonare
Rumori di sfregamento pleurico – suoni grossolani, scricchiolanti, grattanti, come due pezzi di pelle che sfregano insieme. Trattenendo il respiro il suono scompare
Flogosi pleurica, come nella polmonite, pleurite, TBC, infarto polmonare, inserzione di drenaggio toracico
Stridore – suono acuto, continuo, udibile sulle vie aeree superiori
Ostruzione parziale delle vie aeree superiori, come nell’edema laringeo, epiglottite o ostruzione da corpo estraneo
(tratto da Pierce LNB, 2007)
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
2. MONITORAGGIO STRUMENTALE
2.1 La saturimetria Alberto Lucchini, Andrea Gafforelli, Stefano Bambi La pulsossimetria convenzionale è una tecnica continua e non invasiva, basata sull’emissione e la rilevazione di diverse lunghezze d’onda della luce comprese tra i 650 e 940 nm (rosso /infrarosso), attraverso un sito di misurazione, capace di determinare frequenza cardiaca e saturazione di ossigeno. Esistono due metodi per inviare la luce attraverso i siti di misurazione: • La riflessione • La trasmissione Nella tecnica a riflessione l’emettitore e il fotodetettore sono vicini, la luce emessa dall’emettitore rimbalza sul sito di misurazione e viene rilevata dal fotodetettore. Classico esempio di questa tecnica è la saturimetria con sensore frontale. I sensori frontali (fig.1) sono disponibili dalla fine degli anni ‘80, ma non si sono diffusi nell’uso clinico a causa della scarsa affidabilità che mostrano nei pazienti in posizione supina o di Trendelenberg. In queste posizioni la pulsazione venosa può rendere le misurazioni non accurate.
Figura 1 - Sensore frontale
Nella tecnica a trasmissione l’emettitore e il fotodetettore sono opposti, e la luce passa attraverso il sito di misurazione; un esempio di questo metodo è il sensore digitale o il sensore auricolare (fig.2).
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 2 - Sensore riutilizzabile per dito
Per comprendere al meglio il funzionamento della pulsossimetria convenzionale bisogna approfondire alcune tematiche che stanno alla base di tale metodica. Il funzionamento si basa su: • tecniche analitiche • costanti di assorbimento tissutale • quattro assunti base • rapporto segnale/rumore • filtri e algoritmi Tecniche analitiche Le tecniche analitiche su cui si basa la pulsossimetria convenzionale sono : - Spettrometria - Pletismografia L’emoglobina (Hb) ossigenata e deossigenata assorbono differenti quantità di luce rossa o infrarossa. L’Hb ossigenata assorbe più luce infrarossa e permette il passaggio di più luce rossa, mentre l’Hb deossigenata fa esattamente l’opposto. La Spettrometria (figura 3) permette di rilevare il differente assorbimento di luce, determinando un valore numerico di riferimento dal rapporto rosso infrarosso (figura 4).
Figura 3 - Spettrofotometria
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 4 - Rapporto Rosso/Infrarosso
A ogni battito cardiaco corrisponde un valore arterioso pressorio che influisce momentaneamente sul volume arterioso periferico misurato. Questo porta a maggior assorbimento di luce durante l’analisi. La Pletismografia permette la registrazione grafica delle variazioni di volume che un certo distretto corporeo subisce a ogni sistole cardiaca in conseguenza al suo flusso ematico, facilitando la rilevazione della componente pulsatile misurando la variazione della quota di luce dal punto massimo al punto minimo dell’onda di pulsazione. Si noti come l’andamento della pletismografia è molto simile a quella ottenuta da un sensore di pressione invasivo (figura 5).
Figura 5 - Tracce di pletismografia
Questa rassomiglianza ha portato allo sviluppo di un nuovo parametro, il Pleth Variability Index (PVI®), in grado di valutare l’andamento dinamico della curva, e fornire informazioni sullo stato volemico del paziente, guidando in modo accurato e non invasivo il riempimento volemico del paziente. Almeno sei studi, pubblicati sulle più importanti riviste di settore, hanno dimostrato la validità di tale parametro. Costanti di assorbimento tissutale Per una misurazione accurata il saturimetro deve distinguere tra l’assorbimento costante di fondo e i cambiamenti pulsatili causati dalla variazione del volume ematico a ogni battito cardiaco. La costante di fondo è rappresentata dalla quota di luce che i tessuti assorbono dipendentemente dal sito di misurazione. La luce non viene assorbita solo dal sangue arterioso, ma anche da diverse strutture quali: ossa, tegumenti, pigmenti, sangue venoso e una quota dal sangue arterioso non pulsatile (figura 6).
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 6 - Fattori che influenzano l’assorbimento della luce
Per questo motivo i sensori hanno dei range di utilizzo, normalmente espressi in kg, che indicano a quali pazienti possono essere applicati (i range sono sempre riportati sulle confezioni). L’utilizzo di sensori non conformi alla struttura e alla sede di misurazione, comporta l’utilizzo di costanti di calcolo non appropriate, e il dato risultante dalla misurazione non è attendibile. Quattro assunti I dati originali sulla pulsossimetria erano raccolti in condizioni sperimentali e ideali, ed erano basati su quattro assunti di base: Primo assunto: ”La sola componente ematica in grado di assorbire la luce è il sangue arterioso”
Basandosi sul primo assunto, la pulsossimetria convenzionale non considera la pulsazione sanguigna venosa che avviene durante il movimento. In situazioni di buona perfusione il gradiente tra saturazione venosa e arteriosa è lieve, la differenza artefattuale tra saturazione reale e numero risultante dall’averaging (media) è minima (figura 7).
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 7 - Perfusione ottimale
In condizioni critiche l’effetto averaging è più evidente. Infatti, il gradiente tra saturazione venosa e quella arteriosa è maggiore, causando una misurazione con un grado di approssimazione molto elevato, generando falsi allarmi (figura 8).
Figura 8 - Perfusione alterata
Secondo assunto: “Le uniche componenti ematiche in grado di assorbire luce sono ossiemoglobina e deossiemoglobina”
La pulsossimetria convenzionale presume l’assenza di disemoglobine. I pulsossimetri convenzionali non sono in grado di distinguere fra ossiemoglobina, carbossiemoglobina e metaemoglobina e forniscono un dato rappresentativo di tutte l’emoglobine. Infatti, la saturazione dell’ossigeno nel sangue viene definita come la percentuale di molecole di ossiemoglobina calcolata sul totale delle molecole di emoglobina presenti. Per questo motivo si dice che i pulsossimetri misurino la saturazione funzionale, a differenza degli emogasanalizzatori che misurano la saturazione frazionata.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Terzo assunto: “L’unica calibrazione sperimentale va bene per tutte le situazioni”
Le calibrazioni eseguite in fase sperimentale non tenevano conto di variabili che nel quotidiano possono essere frequenti. Per esempio, nei pazienti anemici la lettura della saturazione risulta normale, quando in realtà l’ossigenazione globale del sangue potrebbe risultare bassa. Saturare 100% con 15 g/dl di emoglobina, non è come saturare 100% con 6 g/dl di emoglobina. Le unghie artificiali o con smalto di colore metallico scuro interferiscono con le costanti di assorbimento tissutale e con la ripartizione della luce, ostacolando il lavoro del fotodettettore e generando misurazioni che possono essere poco accurate. Anche la presenza di pigmenti patologici e i farmaci coloranti endovenosi, ostacolano il lavoro della spettrometria generando misurazioni non attendibili, e non erano considerati durante le calibrazioni sperimentali. Il maldestro posizionamento del sensore può provocare l’aumento della pulsazione venosa, mettendo in difficoltà la lettura pletismografica. Qualsiasi variabile che interferisce con le calibrazioni sperimentali può generare valori distorti. Quarto assunto: “Il sito monitorato e il sito misurato sono in equilibrio”
In realtà, con livelli di perfusione molto bassi, è stato osservato un fenomeno chiamato ipossia localizzata. In questa situazione, il flusso di sangue nella sede di misurazione (es. arteria radiale) è più alto rispetto al flusso nella sede monitorata (dito mano). In tale condizione si verifica un aumento dell’estrazione di ossigeno nella sede a flusso più lento; pertanto la saturimetria nella sede monitorata sarà più bassa rispetto a quella della sede di misurazione. I problemi d’ipoperfusione hanno portato allo sviluppo di un nuovo parametro, chiamato indice di perfusione (PI), che segnala la qualità della perfusione vascolare nel sito monitorato. Rapporto segnale/rumore Il rapporto segnale/rumore, spesso abbreviato con la sigla inglese SNR (Signal to Noise Ratio) o S/N anche nell’uso italiano, è una grandezza numerica che mette in relazione la potenza del segnale utile rispetto a quella del rumore in un qualsiasi sistema di acquisizione, elaborazione o trasmissione dell’informazione. In pratica il rumore non è altro che un segnale che interferisce con il segnale rosso/infrarosso proveniente dall’emettitore. Un qualsiasi sistema che debba trasportare o trattare informazioni è affetto da rumore, e tanto maggiore è la potenza di rumore rispetto alla potenza del segnale utile, tanto minore è la qualità risultante. È logico, dunque, aspettarsi che l’SNR sia un parametro di qualità che si cerchi o si tenda in qualche modo a massimizzare o preservare il più possibile. Esistono diverse fonti di rumore, sia interne al sistema che esterne. Tra le fonti più comuni d’interferenza troviamo: 1. Rumore termico 2. Luce solare o artificiale-ambientale molto intensa 3. Movimento del cavo 4. Movimento del paziente (aumento pulsatilità venosa) 5. Apparecchiature elettriche vicine 6. Emettitore e fotodetettore non ben allineati Queste interferenze, hanno reso necessario l’introduzione di filtri e algoritmi, capaci di minimizzare gli artefatti e gestire i dati in maniera più accurata.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Filtri e Algoritmi In elettronica, un filtro è un sistema o dispositivo che realizza delle funzioni di trasformazione o elaborazione di segnali posti al suo ingresso. Ad esempio una sua funzione può essere quella di eliminare determinate bande di frequenza lasciando passare tutte le altre, cosa che si ottiene attenuando le frequenze più alte o più basse di un valore determinato (filtri passa-basso o passa-alto), o quelle comprese in un intervallo prestabilito (filtri passa banda o elimina banda). Nel tentativo di affrontare i problemi d’interferenza-rumore, i produttori di apparecchiature mediche hanno utilizzato filtri passa banda, progettati per consentire solo una finestra fisiologica di interesse, campionando solo segnali presenti in una determinata frequenza desiderata. Con l’avvento del Digital Signal Processing (filtraggio digitale) le prestazioni di filtraggio passa banda sono state migliorate, ma non si era ancora in grado di risolvere il problema del rumore che si verifica all’interno della banda di interesse. Per risolvere anche quest’ultimo problema, sono stati introdotti filtri adattivi, capaci di adattarsi alla variazione delle caratteristiche del segnale e di usare algoritmi multipli per la lettura dello stesso. Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un determinato numero di passaggi. In matematica e informatica un algoritmo è un particolare tipo di procedimento la cui soluzione non è quella ottimale per quel dato problema. Infatti l’algoritmo della pulsossimetria convenzionale, mette in relazione i valori numerici ricavati dalle tecniche analitiche (spettrometria – pletismografia) con dati sperimentali ricavati da volontari, arrivando a determinare un valore che è un’ottima stima della saturazione (figura 9).
Figura 9 - Rapporto R/RI
L’evoluzione tecnologica ha portato a usare algoritmi di lettura sempre più complessi. Esistono algoritmi che utilizzano forme d’onda di pulsazione per i calcoli, e brevetti che utilizzano algoritmi multipli, ipotizzando che sia il sangue arterioso che quello venoso possono muoversi, e utilizzando motori di elaborazione capaci di separare il segnale arterioso dalla sorgente di rumore (compreso il segnale venoso) al fine di misurare l’SpO2 e la frequenza cardiaca in modo accurato anche durante il movimento. L’evoluzione e l’utilizzo di diverse lunghezze d’onda Esiste una grande competizione tra le case produttrici di elettromedicali, soprattutto sulla realizzazione e applicazione di nuovi algoritmi capaci di ridurre i falsi allarmi e di fornire dati più vicini alla reale condizione clinica del paziente anche in presenza di stati di bassa perfusione. Una di queste aziende ha realizzato un
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nuovo metodo di monitorizzazione non invasiva, utilizzando 7 lunghezze d’onda della luce per acquisire i dati costitutivi del sangue. Grazie all’utilizzo di avanzati algoritmi d’elaborazione del segnale e unici filtri adattivi è riuscita a identificare e quantificare le diverse emoglobine. Questa tecnologia, oltre ai classici parametri forniti dalla pulsossimetria convenzionale, riesce a monitorare in modo continuo e non invasivo i seguenti parametri: • SpHb emoglobina • SpCO carbossiemoglobina • SpMet metaemoglobina • PVI Pleth Variabile Index • RRa Acoustic Respiratory rate L’evoluzione tecnologica e la conseguente complessità di funzionamento dei pulsossimetri, ha consentito, passando per la digitalizzazione con filtri adattivi, di arrivare all’utilizzo di 7 lunghezze d’onda della luce per la monitorizzazione multiparametrica del sangue. Luci e ombre I valori evidenziati dalla pulsossimetria convenzionale sono frutto di medie e filtraggi che rappresentano il livello di saturazione dell’emoglobina. Tale tecnica presuppone che il soggetto abbia un adeguato quantitativo di emoglobina, che respiri prevalentemente ossigeno, che abbia un buono stato di perfusione vascolare distrettuale, che non ci siano condizioni cliniche che facciano aumentare la componente pulsatile venosa o alterino le costanti di assorbimento tissutale (es. edema), che il sensore sia applicato correttamente, e che si muova il meno possibile. La conoscenza di queste variabili permette di interpretare al meglio i valori visualizzati al monitor, comprendendo che la SpO2 convenzionale non esprime lo stato di ossigenazione globale del paziente, ma quanto l’emoglobina è “piena” (satura), senza esprimere la quantità di emoglobina, la qualità dell’emoglobina e con che tipo di gas è legata. Il personale sanitario, spesso usa la PO2 arteriosa come indice del contenuto di ossigeno nel sangue. Il contenuto arterioso di ossigeno è dato dalla somma dell’ossigeno trasportato dall’emoglobina e quello disciolto nel plasma (PaO2). L’emoglobina trasporta circa 1,39 ml/g di ossigeno, mentre l’ossigeno disciolto nel plasma è direttamente proporzionale alla sua pressione parziale come descritto dalla seguente equazione: O2 disciolto = 0,003 ml/100 ml/ mm Hg (coefficiente di solubilità dell’ossigeno in ml/mm Hg) x PaO2 Per esempio, se la PO2 è di 100 mm Hg, un litro di sangue conterrà solo 3 ml di O2 disciolto. Studi clinici hanno dimostrato che la SpO2 può essere un indicatore sensibile di alterazione della ventilazione (bassa PaO2) quando i pazienti respirino in aria ambiente ma non quando respirino ossigeno supplementare. Con la somministrazione di ossigeno la SpO2 si sposterà sempre di più lungo il tratto piatto della curva di dissociazione dell’emoglobina (figura 10), pertanto relative ampie variazioni nella PaO2 si accompagneranno a minimi cambiamenti nella SpO2, riducendo la sensibilità della pulsossimetria nell’evidenziare un’inadeguata ventilazione.
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Figura 10 - Curva di dissociazione dell’Emoglobina
Non esistono evidenze che dimostrino la necessità di somministrare ossigeno con valori di SaO2 sopra il 90%, e la supplementazione di ossigeno non è necessaria se la SpO2 in aria ambiente è pari o superiore al 92%. Tuttavia è la concentrazione di emoglobina la principale determinante del contenuto di ossigeno. La concentrazione di O2 disciolto nel plasma è così piccola da poter essere eliminata dall’equazione che descrive il contenuto di O2: Contenuto di O2 = (1,34 x Hb x SaO2) + (0,003 x PaO2) Contenuto di O2 = 1,34 x Hb x SO2 (equazione semplificata) Una riduzione dell’emoglobina del 50% è accompagnata da un’equivalente riduzione del 50% del contenuto arterioso di O2 (CaO2), mentre una riduzione del 50% della PaO2 (da 90 a 45 mm Hg) determina una riduzione del 18% del CaO2. L’anemia ha un impatto molto più importante sull’ossigenazione dell’ipossiemia. Ciò dovrebbe servire a ricordare che non si deve utilizzare la PaO2 per valutare l’ossigenazione arteriosa, ma deve essere impiegata per determinare l’efficienza dello scambio gassoso nei polmoni. Per questi motivi solo i sistemi capaci di visualizzare i parametri ematici riescono a eliminare parte delle ombre che la tecnica convenzionale pone sui pazienti nei quali non si conoscono variabili fondamentali per la determinazione del reale stato di ossigenazione (come per esempio i pazienti che approdano a un pronto soccorso o vengono soccorsi sul territorio). Conclusioni La storia della medicina, indica che l’evoluzione tecnologica ha sempre portato a una riduzione dell’invasività diagnostico-terapeutica e che gli unici veri ostacoli ai cambiamenti sono le abitudini degli operatori, lo scetticismo e la poca comprensione della tecnologia da un punto di vista ingegneristico. La pulsossimetria ha avuto un impatto significativo sul settore medico e ha spinto il progresso di cura dei pazienti in particolari aree quali l’anestesia e l’area critica, per poi espandersi in tutti gli ambiti diventando uno dei parametri più usato in campo clinico. In un articolo di John Severinhaus, dal titolo “Takus Aoyagi:
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Scoperta di pulsossimetria” pubblicato nel 2007, si arriva a conclusione che l’introduzione della pulsossimetria ha coinciso con il 90% di riduzione dei decessi correlati alle pratiche anestesiologiche. L’evoluzione tecnologica e la continua competizione tra le case produttrici di elettromedicali, ha portato alla realizzazione di pulsossimetri sempre più precisi, multiparametrici e con soluzioni ingegneristiche sempre più complesse. La lettura attenta, delle schede tecniche di funzionamento, permette all’operatore di comprendere i punti forti e deboli della tecnologia sulla quale si basa un determinato pulsossimetro, potendo, così, scegliere e utilizzare il più adatto alla tipologia dei pazienti e all’ambiente di lavoro in cui si esercita. Punti Chiave: 1. La tecnologia digitale è superiore alla tecnologia analogica (figura 11) 2. I sensori monopaziente hanno performance superiori a quelli riutilizzabili 3. Utilizzare sempre i sensori in sedi appropriate per il loro utilizzo e per il peso del paziente 4. Nell’adulto preferire l’utilizzo su dito indice, medio ed anulare 5. Ridurre sempre le possibili interferenze 6. Con la tecnologia analogica il movimento degli arti determina artefatti (lettura di un falso flusso pulsatile venoso).
Figura 11 - Differenza nella rilevazione nello stesso sito con la stessa tipologia di sensore monouso collegato ad un sistema analogico versus digitale
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2.2. Capnografia e Capnometria Alberto Lucchini, Daria Valsecchi, Stefano Bambi La capnometria (misurazione e visualizzazione della concentrazione di CO2 espirata come percentuale o come pressione parziale in millimetri di mercurio), meglio conosciuta come end-tidal CO2, fornisce informazioni qualitative sulle onde associate alla ventilazione meccanica e una stima quantitativa della pressione parziale della CO2 espirata. La capnografia è, invece, la registrazione visiva della forma d’onda delle concentrazioni di CO2. La capnografia volumetrica utilizza invece un sensore per la CO2 e un pneumotacografo in combinazione; ciò permette il calcolo del volume netto di CO2 espirata dal paziente (espresso generalmente in mL/min). La normale differenza tra il valore della CO2 ricavato dall’emogasanalisi e l’end-tidal CO2 è approssimativamente di 4-5 mmHg e rappresenta la ventilazione del normale spazio morto. Ci sono tre tipi di dispositivi per la capnografia: il sistema mainstream, il sidestream ed il microstream. La capnografia mainstream (figura 1) è usata nei pazienti intubati. Un sensore riscaldato è posizionato nel circuito ventilatorio tra il tubo endotracheale e il circuito del ventilatore.
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Figura 1 - Sistema mainstream
Il gas espirato fluisce direttamente sopra il sensore fornendo una misurazione quasi istantanea della PETCO2. Gli svantaggi della capnografia mainstream sono il peso del sensore (che aumenta il rischio di estubazione accidentale), lo spazio morto addizionale (sensore) , e la contaminazione del sensore con le secrezioni. Tabella 1 - Vantaggi e svantaggi della tecnologia mainstream Vantaggi • • • • • • •
No tubo di drenaggio No ostruzione No incidenza su pressioni No problemi se cambio di pressione del vapore acqueo Capnogramma non influenzato dalla dispersione gas No ritardo nel dato Utilizzabile in bambini e neonati
Svantaggi • • • • •
Vecchi sensori pesanti e alto spazio morto Influenzabile da secrezioni e condensa Spazio morto in gravissime ARDS Tempo di calibrazione Non utilizzabile in pazienti in O2 terapia e scafandro
Nella capnografia sidestream (figura 2) un piccolo tubo è posizionato tra le vie aeree e i tubi del ventilatore, e una pompa aspira continuamente un campione dal gas espirato.
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Figura 2 - Sistema sidestream
La tecnologia sidestream è molto leggera dal punto di vista del peso, ma può essere ostruita da umidità, espettorato o saliva nella linea di campionamento. Tabella 2 - Vantaggi e svantaggi della tecnologia sidestream Vantaggi • • • •
Di semplice utilizzo Utilizzabile in pazienti in scafandro ed O2 terapia Utilizzabile con le cannule nasali In Sala Operatoria integrato nel monitoraggio dei gas
Svantaggi • • • •
Ritardo nella lettura Ostruzione del tubo Il vapore acqueo influenza/blocca la lettura Necessita di prelievo di un alto volume di gas
Anche la capnografia microstream, come la tecnologia sidestream, può essere utilizzata in pazienti intubati e non. È la più recente tecnologia nel monitoraggio della capnografia e utilizza piccoli fori di campionamento, bassi flussi e bassi volumi. (Zwerneman, 2006). Smalhout, da molti considerato il padre della capnografia clinica, ha definito il capnogramma come “l’ECG della respirazione”. I fattori che possono determinare un aumento dell’EtCO2 sono riassunti in tabella 3.
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Tabella 3 - Cause di incremento dell’EtCO2 Output • Febbre • Ipotermia maligna • Embolia CO2 venosa
Perfusione polmonare • Aumento Portata cardiaca • Aumento della PA
Ventilazione Alveolare • Ipoventilazione • Intubazione bronchiale • Ostruzione delle vie aeree • Rirespirazione
Problemi tecnici • Inadeguato flusso di gas fresco • Perdita nel circuito di ventilazione • Deficit del ventilatore/ valvole
I fattori che possono determinare una riduzione dell’EtCO2 sono riassunti in tabella 4. Tabella 4 - Cause di riduzione dell’EtCO2 Output • Ipotermia
Perfusione polmonare • Portata cardiaca • Ipovolemia • Embolia polmonare • Arresto Cardiaco
Ventilazione Alveolare • Iperventilazione • Apnea • Ostruzione Totale • Estubazione accidentale
Problemi tecnici • Deconnessione del circuito • Deficit del ventilatore/ valvole
In figura 3 è possibile osservare la correlazione tra andamento tipico della capnografia ed i volumi espirati dal paziente.
Figura 3 - Capnogramma e miscelazione dei gas espirati
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In figura 4 è possibile osservare la correlazione tra la capnografia e le curve di pressione nelle vie aeree e di flusso, registrate in un paziente in ventilazione invasiva volumetrica controllata.
Figura 4 - Capnogramma, curva del flusso e della pressione
I capnogrammi devono essere interpretati congiuntamente ad altri rilievi clinici, tuttavia i cambiamenti nell’end-tidal CO2 quasi sempre precedono i cambiamenti nella saturazione di ossigeno, frequenza cardiaca e pressione arteriosa. La capnografia è infatti il più sensibile indicatore che un tubo endotracheale si è mosso o dislocato, individua l’ostruzione acuta delle vie aeree e l’estubazione ipofaringea più rapidamente di quanto facciano il monitoraggio dei segni vitali, o la pulsossimetria continua (Cheifetz et al., 2007). Secondo Delorio (2005), la pulsossimetria potrebbe rimanere nel range normale fino a cinque minuti dopo la cessazione della ventilazione polmonare. La PETCO2 fornisce un pronto riconoscimento dell’edema/spasmo laringeo, dell’ostruzione parziale o totale e dell’inefficace clearance delle vie aeree. In pazienti asmatici l’infermiere può riconoscere il restringimento delle vie aeree e l’efficacia della terapia con broncodilatatori e di altri interventi (Zwerneman, 2006).
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Nelle figure da 5 a 12 sono riportate alcune tracce tipiche relative a scenari clinici in pazienti ventilati sottoposti a monitoraggio dell’EtCO2.
Figura 5 - Capnogramma ed embolo polmonare
Figura 6
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Figura 7
Figura 8
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Figura 9
Figura 10
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Figura 11
Figura 12
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Indicazioni per la terapia intensiva pediatrica Sebbene la capnografia sia utile nella terapia intensiva pediatrica, presenta comunque delle limitazioni. Innanzitutto è disegnata per volumi correnti e frequenze respiratorie relativamente normali, pertanto infanti e neonati in respiro spontaneo che hanno un pattern respiratorio rapido e superficiale spesso mancano della fase di plateau del capnogramma time-based. La traccia è anche influenzata dalle perdite d’aria attorno al tubo endotracheale. Lo spazio morto addizionale, il peso, i problemi meccanici e l’uso di tubi non cuffiati possono limitare il valore della capnografia nei neonati (Thompson et al., 2005). Nei capnometri sidestream applicati ad infanti, i piccoli volumi correnti associati a frequenze d’aspirazione molto alte possono provocare il campionamento sia di gas espirati che di gas freschi della fase inspiratoria, risultando in una diluizione del campione e una sottostima della concentrazione dell’end-tidal CO2 (Sullivan et al., 2005). Recenti studi sulla capnografia mainstream nei neonati non sono stati incoraggianti, e hanno anche riportato elevazioni della PaCO2 dovute a rebreathing in presenza dell’adattatore alle vie aeree. La capnografia microstream, invece, utilizza un flusso di campionamento di 50 ml/min (circa un terzo rispetto ai sidestream convenzionali) ed elimina la competizione per il volume corrente. La fonte di infrarossi è altamente specifica per la CO2 e la cella di campionamento utilizza un volume molto più piccolo (15 μL). Viene così preservata l’accuratezza impedendo al tempo stesso il mix dei piccoli volumi inspiratori ed espiratori osservati nei neonati (Hagerty et al., 2002). Occorre precisare che in infanti e bambini con cardiopatia congenita il monitoraggio transcutaneo della CO2 fornisce una stima più accurata della PaCO2 di quanto faccia il monitoraggio dell’ETCO2. La differenza è maggiore in pazienti di età inferiore ad un anno e in quelli con cianosi (Cheifetz et al., 2007). Tuttavia l’ETCO2 fornisce ulteriori informazioni utili, documentando la posizione intratracheale del tubo e servendo come un monitor addizionale di sicurezza in caso di disconnessione dal ventilatore. Tali caratteristiche addizionali non possono essere fornite da un monitor transcutaneo. Raccomandazioni • L’American Heart Association raccomanda, nel protocollo dell’Advanced Cardiac Life Support, l’utilizzo dei rilevatori della CO2 espirata per confermare la posizione del tubo endotracheale in pazienti con un ritmo che permette la perfusione (classe IIA). • L’American Society of Anasthesiologists ha suggerito che la capnografia sia disponibile per i pazienti con insufficienza ventilatoria acuta in supporto ventilatorio meccanico. • L’American College of Emergency Physicians raccomanda la capnografia come metodo aggiuntivo per assicurare il posizionamento corretto del tubo endotracheale. • L’American Association of Respiratory Care raccomanda l’utilizzo dell’EtCO2 in tutti i pazienti ventilati (2012). Conclusioni Anche se non esistono dati che supportano definitivamente l’uso della capnografia per tutti i pazienti ventilati meccanicamente allo scopo di ottimizzare il supporto ventilatorio meccanico, sembra ragionevole utilizzarla per assicurare l’integrità dell’apparato di ventilazione e del tubo endotracheale. L’estubazione accidentale è un evento potenzialmente letale. È utile ricordare che in una persona adulta la flessione-estensione del capo può spostare il tubo di circa 1.9 cm rispetto alla carena, il movimento laterale di circa 0,7 cm. Il maggior vantaggio della capnometria digitale è la sua capacità di fornire continue letture riguardo l’end-tidal
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CO2, fornendo la garanzia che un tubo endotracheale dislocato venga identificato immediatamente, molto prima che si manifesti la desaturazione (Davis, 2005). Questo è particolarmente importante per i pazienti pediatrici, nei quali le ridotte dimensioni anatomiche delle vie aeree rendono piccoli spostamenti del tubo tracheale (anche solo 0,5 cm), che in un adulto potrebbero essere irrilevanti, pericolosi dal punto di vista della perdita del controllo delle vie aeree. Il rischio di dislocazione è maggiore in presenza di tubi non cuffiati. Usando la capnografia continua, gli eventi critici delle vie aeree possono essere identificati e corretti prima dello sviluppo di ipossia o d’instabilità emodinamica.
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2.3. Monitoraggio emogasanalitico Stefano Bambi, Alberto Lucchini L’emogasanalisi arteriosa (EGA) consiste in un prelievo di sangue arterioso mediante puntura diretta o da sistema catetere-trasduttore-lavaggio in continuo, utilizzando un’apposita siringa contenente un coating di litio eparina liofila bilanciata con calcio. L’emogasanalisi arteriosa permette di rilevare dati per il monitoraggio relativo all’ossigenazione, alla ventilazione, e allo stato metabolico (equilibrio acido base, respirazione cellulare). Inoltre i moderni emogasanalizzatori forniscono il rilievo di altri valori fondamentali per la valutazione continua dei pazienti critici, quali: emoglobina, emoglobine patologiche (carbossiemoglobina, e metaemoglobina), elettroliti, lattati, glicemia. Il prelievo emogasanalitico, quando effettuato su sangue venoso misto o proveniente dalla vena cava superiore in prossimità dell’atrio destro, consente la valutazione della saturazione venosa mista (SvO2) o centrale (ScVO2), fondamentale per la rilevazione di discrepanze a livello della richiesta ed apporto dell’ossigeno tessutale, di cui si rimanda al relativo paragrafo 4 (Il monitoraggio della saturazione venosa di ossigeno, nel capitolo II, Il monitoraggio emodinamico. Indicazioni Le indicazioni all’esecuzione di EGA sono la valutazione della funzione ventilatoria, dell’ossigenazione, della presenza di shunt intrapolmonare, della capacità di trasporto dell’ossigeno e dell’equilibrio acido base. L’EGA permette anche di monitorare il trend dei cambiamenti dei parametri suddetti in corso evoluzione della malattia, di trattamento terapeutico, o valutazione diagnostica. È controindicato inserire nell’emogasanalizzatore prelievi per EGA che contengano bolle d’aria visibili (rischio di riduzione dei valori reali di PaCO2 ed aumento di PaO2), o che superi il periodo di conservazione di 5 minuti a temperatura ambiente, o di 30 minuti a 0-4°C. Interpretazione semplificata dei risultati dell’EGA L’approccio semplificato in 5 punti per la rapida interpretazione dell’EGA, prevede innanzitutto di tenere in considerazione il quadro clinico del paziente, l’anamnesi e i trattamenti e supporti d’organo in corso. Poi, sistematicamente si devono seguire gli step secono le linee guida Advanced Life Support – European Resuscitation Council: 1. Valutazione dell’ossigenazione
Il paziente è ipossico? La PaO2 dovrebbe essere maggiore di 75 mmHg in aria, il rapporto PaO2/FiO2 > 350, ed il gradiente alveolo-arterioso (A-a) inferiore al valore indicato dalla formula A-a=(età in anni:4)+4
2. Determina il pH
Acidosi - pH < 7.35 Alcalosi - pH > 7.45
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3. Valutare la componente respiratoria rispetto ai valori di pH
PaCO2 > 45 mmHg - acidosi respiratoria (oppure compenso respiratorio di alcalosi metabolica) PaCO2 < 35 mmHg - alcalosi respiratoria (oppure compenso respiratorio di acidosi metabolica) Il sistema respiratorio comporta modificazioni rapide del pH (minuti), cambiando velocemente i valori di PaCO2 con l’iper o ipo-ventilazione
4. Valutare la componente metabolica rispetto ai valori di pH
HCO3- < 22 mEq/l (BE < -2) – acidosi metabolica (o compenso renale per alcalosi respiratoria) HCO3 - > 26 mEq/l (BE > +2) – alcalosi metabolica (o compenso renale per acidosi respiratoria) Il sistema renale comporta modificazioni lente del pH (ore, giorni), cambiando gradualmente i valori di HCO3- e BE con l’escrezione o il riassorbimento a livello tubulare
5. Valutare gli elettroliti e i metaboliti
Emoglobina, metaemoglobina, carbossiemoglobina, bilirubina, sodio, potassio, calcio, cloruro, glucosio, lattati
Legenda: EGA – Emogasanalisi arteriosa; F – Femmina, M – Maschio; SVO2 – Saturazione venosa mista; ScVO2 – Saturazione venosa da catetere venoso centrale in vena cava superiore; VN - Valori Normali
Figura 1 - Prelievi emogasanalitici in terapia intensiva
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Tabella 1 - Valori emogasanalitici normali in aria ambiente per persone con età inferiore ai 60 anni Valori di laboratorio del sangue arterioso
Livello del mare (PB 760 mmHg)
1610 mt sopra il livello Valori di laboratorio del sangue venoso misto del mare (PB 629 mmHg)
pH
7.35 – 7.45
7.35 – 7.45
pH
7.34 – 7.37
PaO2
80 – 100 mmHg
65 – 75 mmHg
PVO2
38 – 42 mmHg
SaO2
95% - 100%
95% - 100%
SVO2
60 – 80%
PaCO2
35 – 45 mmHg
35 – 45 mmHg
PVCO2
44 – 46 mmHg
HCO3-
22 – 26 mEq/l
22 – 26 mEq/l
HCO3-
24 – 30 mEq/l
Eccesso di basi (BE)
±2
±2
Eccesso di basi (BE)
Da 0 a + 4
Legenda: HCO3- bicarbonati; PaO2 - pressione parziale dell’ossigeno arterioso; PaCO2 - pressione parziale arteriosa di anidride carbonica; PVCO2 - pressione parziale venosa di anidride carbonica; PVO2 - pressione venosa di ossigeno; SaO2 saturazione arteriosa di ossigeno; SVO2 saturazione venosa di ossigeno
Tabella 2 - Interpretazione semplificata dell’equilibrio acido-base mediante emogasanalisi arteriosa Disturbo Acidosi respiratoria
Stato
pH*
PaCO2
HCO3-
BE
Acuta
45 mm Hg
22-26 mEq/l
±2
Parzialmente compensata
45 mm Hg
>26 mEq/l
>+2
Cronica
7.35 - 7.39
>45 mm Hg
>26 mEq/l
>+2
Acuta
40lt/min). In queste condizioni è necessario l’utilizzo di un umidificatore attivo per trattare i pazienti che necessitano dell’applicazione dell’elmetto per lungo periodo. Esistono delle problematiche tecniche connesse all’utilizzo degli umidificatori attivi durante umidificazione con alti flussi. Il set-up base di questi umidificatori non può essere lo stesso utilizzato in ventilazione invasiva. L’impostazione ideale nel paziente intubato prevede una temperatura della camera di umidificazione a 35° con umidità relativa del 100% ed una temperatura alla fine della linea inspiratoria di 37°. Se utilizzassimo questo set-up il gas arriverebbe nell’elmetto a 37° con l’80% di umidità relativa. Come illustrato da Chiumello, la temperatura dentro un elmetto alimentato da gas medicali senza umidificatore si attesta intorno ai 29-30°. Il gas introdotto a 37° porterebbe immediatamente alla formazione di condensa sul lato interno dell’elmetto con discomfort del paziente. Per questo motivo l’impostazione ideale per la gestione dell’umidificazione in CPAP con elmetto deve mirare all’umidificazione del gas con 100% di umidità relativa alla temperatura presente naturalmente dentro lo scafandro (29-30°). L’umidificatore può essere impostato (se dotato di programmi per la gestione della ventilazione non invasiva) a 28° in uscita dalla camera con 100% di umidità relativa. La temperatura della linea inspiratoria in prossimità dell’elmetto può essere impostata a 30°. In questo modo il gas in uscita dall’umidificatore avrà un contenuto d’acqua proporzionato alla temperatura all’interno dello scafandro. La temperatura crescente nella linea inspiratoria impedirà la formazione di condensa prima dell’ingresso nell’elmetto. Nel caso si stia utilizzando anche un filtro HME per la riduzione del rumore, andrà posizionato tra la fonte del gas e l’ingresso del gas nell’umidificatore (in caso di posizionamento del filtro tra umidificatore ed elmetto tutta l’umidità prodotta si bloccherebbe nel filtro rendendo vana l’umidificazione del gas) figura 2.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 2 - Impostazione umidificazione in NIV
I pazienti che utilizzano un venturimetro come fonte del gas con una FiO2 inferiore al 50% non necessitano di umidificazione in quento parte del flusso del gas è veicolato dall’ambiente esterno con la relativa quota di umidità.
5.2. La CPAP di Boussignac Il sistema che genera la CPAP è una valvola cilindrica che viene poi comunemente applicata al volto del soggetto mediante una tradizionale maschera facciale per ventilazione non invasiva. La PEEP viene generata dal flusso di ossigeno veicolato da un tubo simile a quello fornito con le comuni maschere per ossigenoterapia. Il cuore del sistema si trova inserito nella valvola dove alcuni sottilissimi canali veicolano l’ossigeno causando la formazione di moti turbolenti in grado di generare la pressione positiva continua (PEEP). La PEEP viene generata dalla turbolenza conseguente all’accelerazione del flusso di Ossigeno che passa attraverso i microcanali. Il paziente respira attraverso la valvola pressurizzata dall’ossigeno. Se il flusso inspiratorio del soggetto eccede il flusso di Ossigeno, allora il paziente “raccoglie” aria dall’ambiente attraverso l’orificio principale della valvola. Questo concetto è importante perché spiega la difficoltà di controllare con precisione la FiO2. Uno spaccato della valvola mostra inoltre la presenza di un secondo connettore che può essere utilizzato tanto per dare un supplemento di ossigeno quanto, e più frequentemente, per monitorizzare la PEEP generata dal circuito. L’interfaccia è costituita da una comune maschera facciale fissata in modo standard (figura 3).
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 3 - Broncoscopia attraverso la valvola di Boussignac
La PEEP generata dal sistema Boussignac è flusso-dipendente, dipende cioè dal flusso di ossigeno erogato all’interno del sistema dei microcanali. Nella confezione del prodotto (Templier F. et al., 2003) viene fornito un grafico che rappresenta la relazione fra flusso di O2 erogato e PEEP generata: con un flusso di ossigeno di 15 L/min si genera una PEEP di circa 3 cmH2O, mentre per ottenere 10 cmH2O di PEEP si devono somministrare circa 30 L/min. I punti deboli ed i punti forti del sistema originano dalle caratteristiche tecniche sopradescritte. Il ridotto ingombro e la maneggevolezza sono certamente i vantaggi principali che lo rendono competitivo nei confronti di qualsiasi altro sistema per CPAP, compreso l’elmetto. Situazioni in cui tali caratteristiche sono particolarmente apprezzate potrebbero essere: il soccorso extra-ospedaliero, il Pronto Soccorso ed i reparti di degenza meno evoluti che potrebbero trovare il “device” più allettante dello scafandro. L’impiego della maschera facciale convince facilmente il personale infermieristico, e non, del reparto che in realtà si tratti di un trattamento non molto diverso dalla normale O2 terapia, anche se in realtà è profondamente diverso. Andando più in dettaglio si possono evidenziare alcune insidie, legate all’utilizzo del device: 1. Imprevedibilità della FiO2 2. Iperpressurizzazione della linea dell’ossigeno 3. tollerabilità della maschera facciale 4. condizionamento dei gas inspirati Il punto n. 1 è probabilmente quello clinicamente più rilevante. È difficile stabilire con precisione la FiO2 infatti essa dipende da un lato dal flusso di O2 erogato e dall’altro dal tipo di respirazione del paziente. Quando il flusso inspiratorio del paziente eccede il flusso di O2 allora il soggetto pesca aria dall’ambiente riducendo progressivamente la FiO2.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Risulta evidente come conoscere la FiO2 durante CPAP di Boussignac non sia semplice. Monitorizzare la concentrazione di Ossigeno attraverso il connettore supplementare non garantisce risultati attendibili in relazione alla velocità di campionamento dell’ossimetro che è spesso troppo lenta e non può, quindi, fornirci risultati attendibili. Probabilmente potrebbe essere più accurata la misurazione della FiO2 all’interno della maschera facciale. Per generare la PEEP il sistema Boussignac deve accelerare il flusso dell’O2 facendolo passare attraverso dei microcanali che offrono una grossa resistenza determinando una iperpressurizzazione della linea dell’O2. Questa pressurizzazione raggiunge naturalmente i massimi livelli quando si debbano generare PEEP > 5 cmH2O e sono in grado talvolta di far saltare le connessioni fra ossigeno e gorgogliatori presenti nella maggior parte dei sistemi in uso nei reparti ospedalieri. Per ottenere PEEP> 5 cmH2O occorrono flussi > 15 L/min che i comuni erogatori di ossigeno ospedaliero non consentono; pertanto, per far funzionare correttamente la Boussignac, sono necessari alcuni aggiustamenti ai sistemi per O2 terapia comunemente impiegati. L’applicazione della maschera facciale è spesso tollerata meno del casco dai pazienti con evidente distress respiratorio, richiede un nursing time superiore ed è gravata da maggior insuccesso. Questo è particolarmente vero se si paragona la pressione di supporto erogata con la maschera alla CPAP con elmetto, mentre la tollerabilità e la fattibilità della CPAP di Boussignac è certamente superiore alla pressione di supporto con elmetto. Per ultimo va ricordato che la somministrazione di gas medicali freddi e anidri per periodi prolungati può produrre danni alle vie aeree, secchezza delle fauci, tosse, atelettasie ed aumentato rischio di infezioni. Per tale motivo i gas medicali vanno adeguatamente umidificati e riscaldati anche durante ventilazione non invasiva. Non è possibile umidificare efficacemente l’O2 necessario per far funzionare la Boussignac e quindi, al momento, il sistema di condizionamento suggerito consiste nell’aggiunta di un filtro HME fra la maschera e la valvola di Boussignac. La CPAP di Boussignac è stata anche utilizzata per l’assistenza durante broncoscopia in quanto il foro della valvola consente un agevole passaggio dell’endoscopio, ed in questo caso è certamente più comoda da usare dell’elmetto (Maitre B. et al., 2000)
5.3 La pressione di supporto erogata con la maschera L’applicazione della pressione di supporto in modalità non invasiva può essere ottenuta mediante l’utilizzo di due differenti interfacce: • la maschera facciale • lo scafandro Durante l’applicazione di pressione di supporto, a differenza di quanto avviene nella CPAP a flusso continuo, l’interazione paziente-ventilatore è influenzata dalle perdite aeree presenti nei circuiti di ventilazione non invasiva, e generati dall’impossibilità di sigillare il sistema come avviene per la ventilazione invasiva. La maschera facciale è l’interfaccia ideale per erogare la pressione di supporto in quanto permette di ridurre lo spazio morto e di ottimizzare al meglio il tempo di pressurizzazione del ventilatore a differenza di quanto accade se la pressione di supporto è erogata con l’elemetto (Chiumello et al., 2003). La perdita aerea influenza in modo importante il trigger espiratorio del ventilatore con la possibilità che si perda la sincronizzazione tra paziente e ventilatore.
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La ventilazione in pressione assistita è influenzata da due tipologie di trigger: • Inspiratorio: garantisce la sincronizzazione tra paziente e ventilatore • Espiratorio: determina la fine dell’inspirazione ed il passaggio alla fase espiratoria. Per poter monitorare la costante e continua sincronizzazione, oltre al corretto funzionamento del trigger inspiratorio, deve funzionare in modo ottimale anche il trigger espiratorio. La configurazione standard in ventilazione invasiva e quella di partenza del software NIV, prevede che l’espirazione parta quando si è raggiunto il valore pari al 25% del picco di flusso generato durante l’inspirazione. Se ad esempio si è raggiunto un picco di flusso di 50 lt/min, l’espirazione partirà quando il flusso sarà decelerato fino a 12,5 lt/min (figura 4).
Figura 4 - Curve di pressione e flusso durante ventilazione con PS
Durante la ventilazione in NIV però, a differenza di quanto avviene per la ventilazione invasiva, le perdite potrebbero non permettere una decelerazione del flusso. La perdita agisce come fistola, e la sua presenza genera nel ventilatore un mantenimento del flusso. Questa condizione determina perdita della sincronizzazione in quanto il paziente vorrebbe espirare, ma la valvola espiratoria del ventilatore è chiusa, mentre quella inspiratoria continua ad erogare flusso. Si può giungere alla condizione in cui il apziente, cercando di espirare contro il flusso del ventilatore, si trova costretto ad aumentare il suo lavoro respiratorio, rendendo vano il beneficio della ventiazione con PS.
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La perdita della sincronizzazione determina poi la presenza di atti del paziente non condotti a causa della valvola espiratoria aperta con valvola inspiratoria chiusa (figura 5).
Figura 5 - Curve di pressione e flusso durante ventilazione con PS in maschera facciale
Diventa perciò fondamentale disporre di maschere facciali di diverse forme e misure al fine di ricercare la maschera più adatta per ogni tipologia di paziente. In molte occasioni bastano differenze di pochi centimetri nel supporto erogato per determinare la perdita aerea. L’infermiere deve occuparsi della gestione della maschera. Come primo intervento si dovranno posizionare delle medicazioni di idrocolloide sottile nei punti in cui la maschera aderirà al viso del paziente, con particolare attenzione alla superficie del naso. In caso di pazienti portatori di protesi dentaria, è possibile mantenerla in sede, se è sufficientemente stabile, al fine di ottimizzare la superficie di contatto tra viso e maschera. Per incrementare la tollerabilità del paziente è consigliabile iniziare gradualmente l’erogazione del supporto. Si può procedere con i seguenti steps: • posizionare la maschera sul viso, avendo cura di non stringere subito i lacci della maschera al massimo consentito (in caso di maschere con superficie gonfiabile non inserire il massimo volume consentito); iniziare l’erogazione della sola CPAP con PEEP impostata alla metà del valore che si vuole raggiungere a regime (per esempio se l’obiettivo e 10 cmH20, iniziare con 5 cmH20 – in alcuni casi piccoli incrementi posso determinare l’insorgenza dalle perdite aeree – figura 6). 124
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Figura 6 - Fenomeno di “hang up” (intrappolamento aria)
Verificare l’interazione paziente-ventilatore con le curve flusso-tempo. • Iniziare ad erogare metà del valore di pressione di supporto prestabilito. Verificare il mantenimento della sincronia paziente-ventilatore. • Raggiungere il valore di PEEP precedentemente definito, monitorare il mantenimento della sincronizzazione. Eventualmente incrementare la pressione della maschera e delle cinghie. • Erogare la totalità della pressione di supporto predefinita, monitorando il mantenimento della sincronizzazione. In caso di perdita della sincronizzazione si possono utilizzare i meccanismi di compenso delle perdite presenti sui moderni ventilatori. I moderni ventilatori hanno dei set-up dedicati per la gestione della ventilazione non invasiva. Questi settaggi per la ventilazione non invasiva permettono al ventilatore di compensare il parte le perdite e di erogare flussi di gas maggiori. Inoltre vengono attivati dei meccanismi per la gestione delle perdite. A seconda delle ditte costruttrici è possibile regolare: • Regolazione del trigger espiratorio: alcuni ventilatori consentono di aumentare la soglia del trigger espiratorio rispetto al 25% del picco di flusso inspiratorio impostato per la ventilazione invasiva. Osservando la curva flusso/tempo è possibile avvicinare al punto di perdita la regolazione del trigger espiratorio (figura 7).
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Figura 7 - Regolazione del trigger espiratorio in caso di perdita aerea
• Tempo massimo inspiratorio: a differenza della ventilazione invasiva dove il ciclaggio dell’espirazione è impostato di default al 25% del picco di flusso inspiratorio,quindi sempre regolato dal paziente, in caso di perdite aeree importanti con difficoltosa sincronizzazione paziente ventilatore, è possibile determinare il tempo massimo di erogazione inspiratoria della pressione di supporto. Il tempo inspiratorio massimo deve essere impostato in base alla frequenza respiratoria del paziente. (Esempio: frequenza respiratoria 45 atti/minuto: il tempo inspiratorio massimo va impostato tra 0,45 secondi e 0,60 secondi) (figura 8).
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Figura 8 - Curve di pressione e flusso durante ventilazione con PS in maschera facciale
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6. MONITORAGGI COMPLEMENTARI: SECREZIONI RESPIRATORIE Alberto Lucchini, Stefano Bambi La broncoaspirazione è una manovra essenziale dell’infermieristica in area critica. Le linee guida elaborate dall’American Association of Respiratory Care (AARC) nel 1993, sono state il punto di riferimento per l’esecuzione corretta della procedura. Gli indicatori standard per determinare la necessità di eseguire una manovra di broncoaspirazione, citati in queste linee guida si basavano o sulle aspirazioni preordinate effettuate ad orario, o sul giudizio clinico dell’operatore in merito al deterioramento delle condizioni cliniche del paziente. Nel 2010, l’AARC ha pubblicato le nuove linee guida, i cui punti salienti possono essere così sintetizzati: 1. L’aspirazione endotracheale deve essere eseguita solo in presenza di secrezioni, prima del deterioramento dei parametri respiratori, e non di routine. 2. Utilizzo della pre-ossigenazione del paziente prima della procedura di aspirazione, al fine di evitare un deterioramento clinicamente importante del valore di saturazione di ossigeno (SpO2) in pazienti ipossici. 3. Eseguire la manovra di aspirazione senza scollegare il paziente dal ventilatore (deconnessione) 4. Preferire una aspirazione endotracheale superficiale rispetto all’aspirazione profonda. 5. Non eseguire l’instillazione di soluzione fisiologica prima della manovra di aspirazione. 6. Utilizzare obbligatoriamente un sistema d’aspirazione a circuito chiuso nei pazienti con FiO2 e/o Peep elevate, o a rischio di de-reclutamento polmonare. 7. Utilizzare manovre di reclutamento polmonare con il ventilatore qualora la manovra di aspirazione produca un de-reclutamento. 8. Utilizzare un catetere d’aspirazione che occluda meno del 50% del diametro del tubo endotracheale. Le principali novità riguardano l’elaborazione della diagnosi di “ritenzione di secrezioni bronchiali”. L’intervento infermieristico mirato alla risoluzione di questa diagnosi è l’effettuazione della manovra di bronco aspirazione. Le linee guida suggeriscono che la manovra deve essere effettuata solo quando necessario, cercando di identificare il “timing corretto” per l’esecuzione della procedura. Per “timing corretto” si intende identificare il momento in cui il paziente inizia ad accumulare le secrezioni bronchiali prima che queste possano generare un deterioramento dei parametri respiratori. A tal scopo, le linee guida suggeriscono l’utilizzo di sistemi avanzati di monitoraggio, basati sull’analisi delle curve di ventilazione (loop Flusso/Volume) o l’utilizzo di sistemi basati sull’analisi dei rumori respiratori. La priorità di scelta per gli indicatori di presenza di ritenzione di secrezioni bronchiali è la seguente: 1. Presenza di dente di sega nel loop flusso/volume e/o presenza di “coarse crackles” (crepitii grossolani) 2. Aumento del picco inspiratorio durante ventilazione controllata volumetrica o diminuzione del volume corrente durante ventilazione controllata pressometrica 3. Deterioramento dell’SpO2 o dei parametri emogasanalitici 4. Secrezioni visibili nelle vie aeree 5. Inabilità del paziente nell’espettorazione 6. Sindrome di fatica respiratoria (aumento del lavoro) 7. Sospetto di aspirazione di materiale gastrico
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6.1. Il loop flusso/volume J. Tobin, in uno studio pubblicato nel 1994, fornisce un parametro per la rilevazione del ristagno di secrezioni bronchiali, ovvero l’analisi del loop flusso/volume, che molti ventilatori di ultima generazione offrono sul display dell’apparecchiatura. La presenza di una curva definita “a denti di sega” in questo loop, può significare che si è in presenza di ritenzione di secrezioni bronchiali”. Tobin parte dalla constatazione che nella sua realtà l’esame clinico dei parametri elencati precedentemente ha dato una percentuale di risultati con falsi positivi (pazienti senza secrezioni aspirati inutilmente) e falsi negativi (pazienti con secrezioni non broncoaspirati ) molto più alti (rispettivamente 42% e 43%) rispetto alle curve flusso/volume (rispettivamente 12% e 14%). L’autore conclude che “affidarsi all’esame clinico potrebbe portare ad un’aspirazione non necessaria del paziente senza secrezioni e ad un’aspirazione insufficiente nel paziente con secrezioni”. Inoltre, pur essendo l’analisi del loop flusso volume un indicatore della presenza di secrezioni più attendibile dell’analisi clinica, Tobin sottolinea che “È importante tenere in considerazione la possibilità che la forma ‘a denti di sega’ possa essere un artefatto. Anche acqua nel circuito di un ventilatore può provocare una forma simile, ma i circuiti sono stati attentamente drenati prima di ogni studio”. Nel loop flusso/volume, sull’asse orizzontale troviamo il volume e su quello verticale il flusso (figura 1).
Figura 1 - Loop flusso/volume normale
Il loop rappresenta il ciclo della respirazione (Volume corrente o tidal) . La lettura del grafico parte dal punto 1 e procede in senso orario. All’inizio c’è il flusso inspiratorio (verso l’alto) mentre viene inspirato il volume corrente. Successivamente inizia l’espirazione ed il flusso espiratorio (verso il basso) è misurato in funzione della riduzione del volume corrente. Il ciclo si chiude quando il volume corrente è stato espirato.
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Nel grafico 2 possiamo vedere l’effetto “dente di sega” sulla parte di flusso espiratoria, a testimonianza della presenza di secrezioni bronchiali (figura 2).
Figura 2 - Loop flusso/volume con dente di sega
6.2. Rilevazione della presenza di coarse crackles (crepitii grossolani) Recentemente è stato commercializzato un nuovo device elettromedicale per effettuare la diagnosi di ritenzione di secrezioni bronchiali. Il dispositivo monitorizza il livello sonoro delle secrezioni tracheobronchiali, riconoscendo l’ampiezza del rumore delle secrezioni quando questi sono presenti nelle vie aeree. Il microfono per l’acquisizione del segnale è collegato al paziente tramite un raccordo maschio/femmina passo 22 posizionato tra il tubo endotracheale e la Y del circuito ventilatorio. Nel momento in cui il paziente inizia a ritenere le secrezioni bronchiali, il dispositivo avverte gli operatori tramite un allarme sonoro e visivo che aumenta di intensità proporzionalmente all’aumento del relativo segnale. È possibile anche l’ascultazione diretta dei suoni polmonari grazie alla presenza di cuffie stereo a disposizione degli operatori. La performance del sensore è garantita per 72 ore, dopodiché il sensore deve essere sostituito Nel 2006 per verificare la sensibilità (capacità nel riconoscere la presenza di secrezioni bronchiali quando queste sono presenti nell’albero bronchiale) e la specificità ( capacità di riconoscere l’assenza di secrezioni bronchiali quando queste non siano presenti) di questo device uno studio italiano ha analizzato 500 manovre di broncoaspirazione, in cui il dispositivo era collegato a pazienti ventilati invasivamente. L’apparecchio ha dimostrato una specificità/sensibilità elevata nella diagnosi di ritenzione di secrezioni bronchiali.
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Il device si è dimostrato performante nell’eseguire una diagnosi corretta di assenza di secrezioni ed in pochi casi, meno del 3 % ha effettuato diagnosi non corrette. Questo dispositivo rappresenta un aiuto anche nel percorso educativo degli infermieri neolaureati perché permette di avere un supporto nell’elaborazione della diagnosi di ritenzione di secrezioni bronchiali. Gli autori ritengono che possa essere determinante nel clearing precoce delle vie aeree in pazienti in cui le broncoaspirazioni si devono effettuare esclusivamente in condizione di sicura presenza delle secrezioni (gravi ARDS, pazienti con patologia neurochirurgia con ICP instabile, pazienti con diatesi emorragica).
Figura 3 - Sistema TBA care
6.3. Utilizzo delle curve di flusso per identificare i pazienti a rischio ritenzione I sistemi per broncoaspirare i pazienti si dividono in aperti e chiusi. Con la tecnica aperta, vi è il problema della deconnessione del circuito respiratorio, con sospensione della ventilazione e perdita dei volumi di ventilazione e della PEEP. La tecnica aperta è sicuramente economica, ma può esporre i pazienti con polmoni con compliance ridotte a gravi ripercussioni emodinamiche e respiratorie determinate dalla sospensione della ventilazione. Per ovviare a questi problemi, oramai da più di 20 anni, sono stati introdotti in commercio i sistemi di aspirazione a circuito chiuso. In questi sistemi il sondino di aspirazione è contenuto in una guaina trasparente. Il sondino viene spinto mediante l’utilizzo della guaina nel circuito respiratorio attraverso un sistema valvolato, presente tra la parte finale del tubo endotracheale ed il catetere mounth. La ventilazione non viene sospesa durante la manovra di bronco aspirazione. Il mantenimento dei volumi polmonari, come testimoniato in alcuni studi (Lasocki et al., 2006 - Caramez M.P. et al.) permette di ridurre le complicanze determinate dalla manovra di bronco aspirazione. Pesenti e collaboratori (Pesenti et al., 2002) hanno dimostrato che l’utilizzo di questi sistemi non interferisce con il funzionamento dei moderni ventilatori, anche in presenza di ventilazioni volumetriche controllate.
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Particolare attenzione deve, però, essere posta nell’utilizzo di questi sistemi, quando si affronta il problema della capacità di rimozione delle secrezioni coi sistemi chiusi. La capacità di aspirazione dei sistemi chiusi è sovrapponibile a quella dei sistemi aperti (Blackwood B.,1998 - Noll M.L. et al.,1990). In alcuni pazienti, soprattutto quelli con PEEP superiori a 10 cmH2O, il mantenimento della PEEP può ridurre la motilità delle secrezioni e la conseguente rimozione. L’influenza della ventilazione sulla mobilità delle secrezioni è stata recentemente evidenziata da J.J. Marini e collaboratori. La nostra fisiologia prevede che vi sia una differenza tra il picco di flusso inspiratorio e quello espiratorio, a favore di quest’ultimo. Questa condizione permette la motilità delle secrezioni verso le vie aeree superiori. In caso di aspirazione a circuito aperto, indipendentemente dalla ventilazione adottata, questo rapporto è mantenuto poiché la deconnessione garantisce un flusso aggiuntivo, generato dalla perdita del volume necessario a generare la PEEP. Durante le aspirazioni con circuito chiuso, questo flusso aggiuntivo non è presente, dato che non vi è deconnessione dal ventilatore. Diventa perciò fondamentale determinare quali siano i pazienti, sottoposti a ventilazione controllata, in cui l’utilizzo del sistema di aspirazione chiuso potrebbe generare difficoltà nella rimozione delle secrezioni al fine di adottare accorgimenti specifici per consentire la clearance delle vie aeree. In condizioni di normalità, in ventilazione volumetrica controllata, il picco di flusso inspiratorio (A) è inferiore a quello espiratorio (B), come riportato in figura 4.
Figura 4 - Picco di flusso espiratorio maggiore dell’inspiratorio
In figura 5 è riportato un caso di uguaglianza tra il picco di flusso inspiratorio ed espiratorio, mentre in figura 6 viene evidenziato un caso in cui il flusso inspiratorio è maggiore del flusso espiratorio. Quest’ultima condizione agisce come una pompa pneumatica, impedendo la risalita delle secrezioni e determinandone l’inversione della direzione (le secrezioni vengono spinte verso le basse vie aeree).
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Figura 5 - Picco di flusso espiratorio uguale all’inspiratorio
Figura 6 - Picco di flusso espiratorio minore dell’inspiratorio
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
Al fine di ottenere comunque una efficace rimozione delle secrezioni, nelle situazioni in cui sia difficile rimuovere le secrezioni durante l’utilizzo del sistema chiuso, una delle strategie adottabili, consiste nell’aumentare il numero di passaggi che compongono la manovra di aspirazione al fine di rimuovere tutte le secrezioni presenti (Branson et al., 2007, Marini et al., 2008, Lucchini et al., 2011). Lasocki (Lasocki et al.,2006), dimezzando la PEEP impostata tra un passaggio ed il successivo. In casi estremi il valore della PEEP può essere portato a zero. La parziale riduzione della PEEP genera un flusso espiratorio aggiuntivo, con possibilità di incremento della mobilità delle secrezioni.
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Capitolo III IL MONITORAGGIO RESPIRATORIO DI BASE
7. MONITORAGGIO E GESTIONE DELL’UMIDIFICAZIONE DEI GAS MEDICALI Alberto Lucchini, Stefano Bambi Il paziente portatore di tubo endotracheale o di cannula tracheostomica viene ventilato con dei gas medicali (temperatura