Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche
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Zitiervorschau

PUBBLICAZIONI D ELLA C LA SSE D l L E T T E R E E FIL O SO F IA Scu o la N

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ME0EHI2 LA TEORIA PLATONICA DELLE IDEE E LA PARTECIPAZIQNE DELLE COSE EMPIRICHE D ai dialoghi giovanili al Parmenide

SC U O L A N O R M A L E S U P E R IO R E PISA 2 001

PROPRIETÀ L E T T E RARIA RISERVATA

ISBN 88-7642-099-1

K al avrov,

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eTÓv écmv) e senza alcuna eccezione (190e4-192b 8).

(II) II coraggio é una certa forza de lf anima (icapTepta t l ? rrj9 Tuttavia, bisogna almeno aggiungere a questa forza del 1'anima la facolta di giudicare (jie ra (^povTjaecüs-), altrimenti il coraggio rischierebbe di essere ridotto alia stolta temerarietä. E non appare comunque piü coraggioso in battaglia chi si trova in inferior! tä numérica piuttosto che i soldati accorti e giudiziosi che, in previsione dello scontro, si sono preparad adeguatamente e radunati in ampia schiera? In tal caso, e necessario concluderne che non sempre all’intelligenza e alia capacita di giudizio corrisponde altrettanto coraggio ( 19 2 b 9 - 19 3 e5 ).

II. RJFERIMENTO AIXE IDEE NEI DIALOCHJ PLATONICI

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(III) 11 coraggio é una scienza, e precisamente la scienza delle cose temibili e delle cose non temibili (rqv t G>v Seivtov «ai BappaXéwv emaTT|p.r|y). Se pero ilgiudizio sulle cose temibili o non temibili si basa in realtá sull’aspettazione e la previsione di un male o di un bene futuri, questa scienza riguarderá soltanto il futuro e non anche il presente e il passato: conseguentemente o il coraggio é limitato agli awenimenti futuri - e, paradossalmente, non si potrebbe mai essere coraggiosi nel presente oppure coincide con la scienza del bene e del male ingenerale (e non solo delle cose temibili e non temibili), ció che sembra dawero impossibile giacché il coraggio era stato iniziaímente definito come una singóla parte della virtü ([lópioy ev Tujy rfjs“ápcTfjs-)enoncomelavirtünelsuoinsieme(aú|i.Tiaaa áperri, 1 9 4 c7 -1 9 9 e l0 ).

La ricerca si interrompe senza un risultato positivo (199el 1-12). Ancora una voita, e possibile rilevare come alia domanda socratica cosa é (tí étmv) il coraggio?’ si possa rispondere soltanto in virtü di una precedente conoscenza della materia: non a caso, sono proprio due abili militari, Nicia e Lachete, a discutere del coraggio, di cui dovrebbero in qualche modo avere unesperienza diretta. Da tale esperienza non discende tuttavia una definizione soddisfacente: osserviamo allora le ragioni dello scacco. Innanzitutto, per quel che riguarda lo statuto del definiendum, dell’oggetto indicato come contenuto dell5esame, risulta evidente dalle definizioni (I) e (II) che esso é concepito, non diversamente da quanto aweniva nel Carmide, alia maniera di uno stato psico-fisico o, per esprimersi come sopra, di una condizione deU’anima e del corpo: il coraggio consiste nel «restare al proprio posto di combattimento» (I) o in una «forza deü’anima unita alia facoltá di giudizio» (II). Rispetto al Carmide, d’altra parte, viene precisato soltanto che l’oggetto in questione deve rimanere sempre idéntico, indipendentemente dal­ le circostanze in cui si viene a trovare (év tt&o'l totjtols 1 raÚTÓy éoTiv, 191 d i 0- 1 1 ), senza pero che nessuna ulteriore determinazione ne illustri effettivamente la natura essenziale, al punto che, anzi, si rivela forse discutibile parlare di una sua ‘natura essenziale, se non da un punto di vista genericamente semántico. Cosi puré, con­ siderando ora la confutazione opposta a queste definizioni, l’analisi di Socrate si limita a constatare Tassenza del requisito fondamentale della definizione richiesta, quello dell’estensione universale del definiens o, ed é lo stesso, dell’universalitá logxco-semantica del definiendum-. «restare al proprio posto di combattimento», ínfatti,

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FRANCESCO F RO NT F,ROTTA

rappresenta esl us ivamente un p a r t i c o l a r i s s î m o esempio di coraggio e, inoltre, in un’accezione molto ristretta; analogamente, solo in certi casi il coraggio puô essere dawero interpretato come una «forza dell’anima unita alla f a c o l t à di giudizio», dal momento che sembra possibile citare un infmità di circostanze e di situazioni specifiche n e l l ’a m b i t o delle quali una simile definizione manifesta un assoluta inadeguatezza. La definizione (III), come la (IV) del Carmide, chiama in causa, anche se in altro contesto, una forma di scienza e un particolare genere di conoscenza e, nuovamente, la confutazione di So crate non prende ie mosse dalla verifica immediata délia sua universalità, ma dall’esame del suo contenuto e délia sua coerenza logica, con la paradossale conclusione che taie contenuto appare o talmente ristretto da non comprendere tutti i possibili casi ed esempi di corag­ gio; oppure talmente esteso da superare i confini posti alla définizione del coraggio per abbracciare Tintera virtù, contraddicendo cosi il presupposto dell’indagine, che si voleva limitata a una sola parte délia virtù, quella, appunto, che coincide con il coraggio. Il Lachete si chiude10 quindi con questo accenno al problema dell’unità e délia pluralità délia virtù e delle sue parti, un tema non inusuale nei dialoghi definitori, ma affrontato specialmente nel Protagorcù1.

1UPer un’analisi dettagliata della struttura del Lachete e una discussione, ben più approfondita di quella appena abbozzata qui, deila natura del metodo defînîtorio e dei suoi obiettivi, cfr, C h . H . K a h n , Plato's methodology in the Laches, in «RIPh», XL, 1986, 7-21; e soprattutto L.-A. D o r i o n , Platon, Laches dr Euthyphron, traduction inédite, introduction et notes par L.-A. D o r j o n , Paris, GF-Flammarion 1997,15-79. 11 Sulla questione dell’unità e della pluralità della virtù tornero, seppur brevemente, con gli opportuni riferimenti bibliografici nel § 2.5, n. 17. Per il momento, rinvio ancora a L.-A. D o r i o n , Platon, Laches dr Euthyphron cit., 171-178, che ha fomito un esauriente spiegazione del problema come viene soilevato nel Lachete, illustrando i termini del dibattito critico soprattutto attraverso l’analisi degli interventi di G. SANTAS, Socrates at work on virtue an d knowledge in P lato’s Laches, in «RMeta», X XII, 1969, 443-460 (riedito in Thephilosophy o f Socrates: a collection o f criticalesays, ed. by G. V l a s t o s , New York, Doubleday & Anchor 1971, 17 7 -208); G. V l a s t o s , The argument in Laches 19 7 e ff., in G. V l a s t o s , Platonic studies, Princeton, Princeton Univ. Press 1973 (seconda ed.: 1981), 266-269; T. PENNER, What Laches andN icias miss ~ a n d whether Socrates thinks courage merely a p art o f virtue, in «AncPhil», X II, 1992, 1-27.

U. Rl FERM EN TO ALLE IDEE NEI DIALOGHI PIATONÍC1

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2.3 L\ppia maggiore: cosa é il bello? Occorre considerare a questo punto 1’Ippia maggiore, che insieme con XEutifrone rappresenta, come cercheró di mostrare, un passaggio decisivo nelí’elaborazione della teoría delle idee, i cui elementí fondamentali compaiono qui in modo consapevole ed esplicito. In 286c3-e4, dopo alcune battute preliminari, Socrate intro­ duce Toggetto della discussione: egli desidera interrogare il sofista Ippia, per conto di un anonimo interlocutore, per sapere da luí cosa sia il bello (tí ecm tó KaXóv), o piuttosto, per esattezza, il bello 'in sé5 (oútó tó KaXóv). Per precisare la sua richiesta, Socrate fornisce alcuni esempi: se é corretto dire che i giusti sono tali per la giustizia (SiKaiocrwri), i sapienti per la sapíenza (ao(f>ía) e i buoni per il bene (tT¿) o(j.olov Kai TiávTü Tá oata oCTiá ¿cttlv ... (lia iSéa Tá re ávóaLa ávóaia etvai). D i questa idea in sé (ainTiv ... Tqy L8éav) Socrate vuolsentire parlare, in modo che, tenendola come modello, egli possa giudicare sante le azioni che le assomigliano e non sante quelle

14 Cfr. in proposito te brevi, ma efficaci parole di F. T rab atton i, Platone, Roma, Carocci 1998, 119-123. Si vedano pure, rispetto ali’insieme dei dialogo, I, LiJDLUM, The dramatic an d philosophical aspects o f Plato s Hippias maj or, T el Aviv, Thesis - Tel Aviv Univ. 1986; e le diverse sezioni dedicate alYIppia maggiore del volume di H. IELOH, Socratic education in Plato 'searly dialogues, Notre Dame, Univ. ofNotre Dame Press 1986.

IL R JF B R !M E N T O ALLE ID E E NEI DSALOGHl PLA T O N IC !

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che non le assomigliano (xpwiiei'os' airrí) TrapaSdy[j.an, ô (lev ay toioütoí; f| ¿v dr» f] ai» Kai aXXos- t i ç TrpáTTT] cjxj õaiov eivai, o 6 ’ âv [i.f] toloutov, jit) w, 5 d 8- 6 e6 ).

(Ha) II santo è ciò che è caro agli dei (tò Qco^lXe:?). Tuttavia, gli dei si trovano spesso in lire fra loro, c nell’Olimpo, se si deve credere al racconto dei poeti, sorgono non pochi dissidi a causa dei diversi desideri e dei diversi gusti di ciascuno degli dei: secondo questo ragionamento, quindi, ciò che è santo sarebbe a un tempo non santo (o Ti/y^ávei toíjtòv òv òüíòv re Kal àvóaiov), perche gradito solo ad alcuni degli dei e sgradito agli altri (6e l 0 - 8a l 2 ).

(IIb)

II santo è ciò che tutti gli dei approvano e non santo ciò che tutti gli dei disapprovano: cosj vienecorretta la precedente definizione. D ’altro canto, sembra evidente che gli dei approvano ciò che è santo in quanto è santo., mentre ciò che è santo non è santo in quanto è approvato dagli dei: 1’approvazione degli dei non costituisce Tessenza dei santo (tt|v (lev oücríav atrrou), ma una sua affezione (ttqOos- Sé Tt Tie pi a Ü T o ü ), una caratteristica puramente accidentaie (9d 1-1 I b l) .

(III) II santo è il giusto, o, meglio, una parte dei giusto ((ióptov tou Sikoúou tò ftcriov). M a quaie parte? Queila che consiste nel servizio reso agli dei con i sacrifici e con le preghiere, che, pur non essendo certamente utili agli dei - perche gli dei non hanno bisogno di nulla — sono comunque loro graditi. Cosi si torna però alia definizione prima respinta: santo è ciò che è gradito agli dei (1 Ie 4 -1 5 c l0 ).

Socrate vorrebbe proseguire la ricerca, ma Eutifrone, estenuato, si sottrae ( 1 5 cl 1-I6a4). La richiesta definitoria di Socrate a Eutifrone che awia Tindagine dei dialogo è motivata dalla dichiarazione iniziale delfindovino che afferma con forza la propria competenza in materia: egli sa cosa è (tl ècm) il santo e non avrà difficoltà a insegnarlo a Socrate (4e45 a2 ). Come nelYIppia maggiore, anche nç\YEutifrone appare subito chiara nella domanda socratica l’esigenza di un riferimento alio statuto dell’oggetto della definizione che non può limitarsi all’espressione verbale di ciò che la tradizione o il sapere comune pongono come norma o come concetto della santità, ma deve designare la dimensione intrinsecamente oggettiva della santità vale a dire l’essenza stessa del santo (ttiv oucriav auTou). L’obiettivo delfanalisi, secondo 1’intenzione ripetutamente espressa da Socrate (5dl-5; 6d l 0e6 ; l l a 6-b l), è l’idea (iôéa) o la forma in sé (aírrò tò eiôos1) che rimane sempre idêntica in qualunque caso possibile, rispetto a qua-

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FRANCESCO FKONTF.ROTTA

lunque azione e indipendentemente dalle diverse circostanze particolari (ravTÓv koTiv kv rrácn^ irpá^a tò õaiov aírró giútco), ció in virtú di cui le cose santé sono sante (¿5 ttcu/to. rà õaia ocaá écmv), Túnica idea del santo (fiid LSéa aírroO) in ragione delia quale si rende possibile attribuire correttamente la santitá alie cose sante. Elemento nuovo o ulteriore precisazione rispetto all'Ippia maggiore, Tidea del santo costituisce il «modello» (irapáSeiy[ia) universale cui assomigliano di nécessita tutti gli enti o le situazioni particolari di cui si puó predicare la santitá: ecco perché, per essere dawero tale, questo ‘modello’ non puó che rivelarsi santo sempre e universalmente, e non certo santo e non santo alio stesso tempo o santo da un determinato punto di vista e non santo da un altro. L’esigenza di un indicazíone forte della natura oggettiva e dello statuto propriamente ontologico del definiendum si deduce pure, del resto, dalla constatazione che la confutazione cui Socrate sottopone il suo interlocutore tende sostanzialmente a mettere in luce come le defmizioni proposte non riescano adattingereeffettivamenteall’essenza della cosa (rqv otxríav airroti), cogliendo piuttosto, nella migliore delle ipotesi, una sua affezione (iráGos1 Sé t l Trepl aírroü). Insomma, in generale, Eutifrone non supera Támbito delTuniversalita puramente ‘estensionale e ad essa si attiene rigorosamente (cer­ cando dunque una definizione del santo valida estensionaímente per tutti i casi possibili), mentre Socrate desidererebbe conoscere la determinazione ontologica del santo in sé (aspirando quindi alia defi­ nizione che esprime Túnica forma o essenza del santo)15. Non a caso, la definizione (II), che, una volta corretta nella for­ ma (Ilb) la parzialita della forma (Ha), potrebbe forse raggiungere un universalitá di tipo ‘estensionale’, fallisce invece precisamente perché non arriva a individuare quelTente che rappresenta Tessenza della santitá: Socrate non è interessato ad apprendere le azioni o le cose che ottengono Tapprovazione degli dei - giacché non si tratta ai suoi occhi che di una caratteristica secondaria della santitá, un Valore aggiunto’ del tutto accidéntale —ma, propriamente, Tidea del santo. La definizione (I), che identifica il santo con il compor­ tamento tenuto da Eutifrone citando in giudizio il colpevole di un omicidio, risulta assolutamente fuori misura: in primo luogo infat55 Cfr. ancora Ch.H. Kahn, o p . c i t 172-178.

!L. RIFERIMENTO ALLE IDEE NEI DIALOGHI PLATONICI

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ti, essa designa non un ente universale, ma, appunto, un comportamento, del quale fornisce inoltre soltanto un esempio irrimedlabilmente specifico e particolare. Di conseguenza, Socrate e costretto a ricordare ancora una volta al suo awersario che l’oggetto che egli vuole gli sia mostrato e invece la forma o l’essenza del santo, la santita in se. La definizione (III), infine, chesembra collocarsi dapprima in una prospettiva assai promettente in virtu di un suggerimento di Socrate (lle l-1 2 a 2 ), tenta di porre il santo in relazione al giusto, come parte di esso; tuttavia, non appena Socrate restituisce l’iniziativa a Eutifrone chiedendogli quale sia la parte del giusto che corrisponde al santo, l’indovino abbandona subito il piano di riferimento faticosamente conquistato da Socrate, tornando nell’ambito puramente semantico delle sue defmizioni precedenti e affermando che il santo e «quella parte del giusto che si riferisce alia cura degli dei» (12e5-8) e consiste nella pradca dei sacrifici. Cosl facendo, Eutifrone ripiega di fatto sulfindicazione di un insieme di usi e tradizioni, perdendo percio ogni riferimento oggettivo, e la definizione (III) cade sotto le stesse obiezioni rivolte contro la (lib), poiche stabilisce un accordo semantico ed epistemologico, che, per quanto generale, non presuppone pero l’effettiva individuazione delfessenza del santo16. E lecito concluderne che nell’Eutifrone si assiste al tentativo, da parte di Platone, di consolidate’ le conquiste dell'Ippia maggiore. Il metodo definitorio e pienamente dispiegato alia ricerca di un pia­ no di riferimento oggettivo e universale per la formulazione della definizione (o, piu ancora, per la fondazione dell’intera sfera del linguaggio e della conoscenza), che traduce a sua volta l’esigenza di un criterio oggettivo e inconfutabile del comportamento, dell’azione e del giudizio morale - un piano di riferimento che attinga da se stesso la propria auto-evidenza e la propria universalita, contrappo-

16 Per un’analisi dettagliata e ben documentata deWEutifrone rinvio sopractutto al recente L.-A. DORION, Platon, Laches & Euthyphron cit., 179-235; ma cfr. anche G. R e a l e , L Eutifrone, il concetto di santo e la prim a teoriaplatonica delle idee, in «RFN», LI, 1959, 311-333; c . W e l c h , The Euthyphro an d theforms, in «GM», XXII, 1967, 228-244; L. R o s s e t t i , P l a t o n e , Eutifrone, a cura di L. R o s s e t t i , Rotna, Armando 1995; io studio di riferimento ormai classico sulYEutifrone rimane tuttavia quello di R.E. ALLEN, P lato’s Euthyphro an d the earlier theory o f forms, London, Routledge & Kegan Paul 1970.

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FRANCESCO FRONTEROTTA

nendosi cosí victoriosamente alia banalitá dell’opinione comune e a un sapere tradizionale ormai esaurito e privo di efficacia. 2.5 II Protagora e il Me none.- cosa e Lz virtü? II Protagora e il Menone devono essere quasi certamente collocati fra le ultime opere delia giovinezza di Plato ne, perché presentan o una struttura assai piü articolata e complessa dei dialoghi appena considerad, anche se entram bi contengono, n elfam bito di un indagine piü generale dalle molteplici implicazioni filosofiche, il tentativo di giungere alia definizione della virtü e delle sue caratteristiche, secondo uno schema argomentativo che rispecchia in gran parte il método socrático di interrogazione diretta (cosa é [tí éaTij X?’) giá noto dal Carmide, dal Lachete, dalYIppia maggiore e dairEutifrone. Cercheró dunque, per il momento, di mettere in luce questo aspetto. II Protagora prende spunto da una visita ad Atene del grande sofista: tale é la sua fama che tutti desiderano incontrarlo e anche Socrate, in verítá ben piü dubbioso dei suoi concittadini sulla sapienza delfillustre ospite, é costretto da un amico ad andaré ad ascoltarlo e a discutere con lui (3I0a8-3l4c2). Delfampio con­ fronto fra Socrate e Protagora, che é dedicato al problema deU’insegnabilitá della virtü, possono essere estratte qui due sezioni consacrate esplicitamente alia definizione della natura della virtü. (I) L a virtü e u n ’u n ica co sa a cu i si ap plícan o diversi n om i — gíustizia, santitá, tem p eran za, sapienza e cosí vía -

o é invece u na totalitá co m p o sta di partí

differenti? P o ich é P ro ta g o r a o p ta per la secon da alternativa, S ocrate n e d edu ce che gJi uom in i «p artecip an o , ch i di una, chi di u n ’altra di queste partí» fra loro differenti ((j.eTa\a[i.¡3ávov-oi ol tivQpwrroi.

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á\Xo, ol Se dXXo). T u tta v ia , se la gíustizia é qualcosa e n on nulla (SiKmocnji/ri TTpay¡j.á



é cm v f) ouSev iTpay)Lia) ese ¿p recisam en te ció che deve p er definizione

essere giusto (eoTLi'

...

to lo u to v

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SucaiocFwri

an alo g am en te p er la san titá, se esiste (óaLÓTrjTa

olov ...

Slkcilov

e tv a i), e

A v a i) ed é a n c h ’essa

n ecessariam ente santa, bisognerebbe co n clu d ern e, seguendo íJ p rin cip io della diversitá delle v irtü p ro clam ato da P ro tag o ra, ch e la giusdzia, in q u an to n o n co in cid e co n la san titá, n o n é co sa san ta m a em p ia (oijSé Sitcaioaijuri olov 'óglov áXX’ oloy ^.f) o aio v ), e ch e, viceversa, la san titá, in q u an to n o n co in cid e co n la gíustizia, n on é co sa g iu sta m a ingiusta (f) 8 ’ óatónis- olov jar] Síkqlov, áAV aS ix o v ). S ocrate ritien e al co n tra rio che la giustizia sia santa e la san titá giusta (rrjv SLicaLooúvT)v ooLov etvai (cal rr¡v oo-LÓTriTa

S lk g u o v ),

m a p er n o n irritare ii suo

IL RJFERLV1ENTO ALLE ¡DEE NEI DIALOGHI Pl.ATONICI

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interlocutore abbandona la questione. II paradosso si ripropone pero identicamenre rispetto alia tempcranza e alia sapienza (329c2-333b7). (II) Lo stesso interrogativo, rimasto senza risposta, viene piu avanti riproposto da Socrate: la sapienza, la giustizia, il coraggio, la temperanza e la santita sono cinque diversi nomi per un’unica cosa o cinque parti differenti dejia virtu, in possesso, ciascuna, di un'essetiza specifica irriducibile alle altre (uTTOtceirai n ? tStos’ ovoia tcai TTpa.7 |ia ... ouk ov otov to CTepov auTfiv to £repov)? Questa volta Protagora risponde che, benche si tratri di parti diverse della virtu, esse manifestano tuttavia una certa reciproca somiglianza, a eccezione del coraggio che si distingue senza dubbio dalle altre, dal momento che esistono uomini empi, intemperanti, ignoranti e ingiusti, eppure molto coraggiosi. Socrate obietta pero che, se nessuno desidera il male e il dolore e tutti prediligono naturalmente il bene e i piaceri, solo per ignoranza qualcuno si volgerebbe al male, perche chi fosse capace di riconoscere le cosebuone dalle cattive non esiterebbe certo nellascelta. II coraggioso non e dunque tale in quanto affronta imprese dolorose e malvagie —in questo caso si parlerebbe, al limite, di temerarieta, non di coraggio - ma in quanto riesce a distinguere le azioni indegne e spregevoli da quelie valorose e bnone, come la guerra o la morte in difesa della patria; alio stesso modo, dal canto suo, il vile non e vile in quanto compie volontariamente il male, ma solo per ignoranza di do che e buono e onorevole. Il coraggio si rivela essere una forma di scienza, precisamente la scienza delle cose temibili e delle cose non temibili, cosl come la vilta, d’altra parte, e 1’ignoranza riguardo alle stesse cose. Non esistono quindi, nonostante la precedente affermazione di Protagora, uomini ignoranti eppure coraggiosi e anche il coraggio mostra una certa somiglianza rispetto alle altre parti della virtu (349a8-360e5).

Al di la delle conclusioni raggiunte dalla discussione sul terna delFunita della virtu, e della pluralita delle sue parti, il problema fondamentale rimane tuttavia insoluto e non si e definito cosa e (on eariv) la virtu (36lc5). Benche la discussione del Protagora non prenda le mosse dall’usuale richiesta socratica di una definizione, con le diverse proposte formulate in proposito e le loro rispettive confutazioni - dal momento che una definizione vera e propria della virtu non viene neanche suggerita da Protagora ed e Socrate stesso a sollevare la duplice alternativa dell’unita o della pluralita della virtu 17 - il dialogo fornisce a mio awiso, nelle due sezioni considerate, alcune 17 La discussione del problema deH'unita o della pluralita della virtu o, in altri termini, delle relaziom fra le diverse virtu particolari e rispetto alia virtu in generale, caratteristica dei dialoghi platonict giovaniii e intermedi e, parricolarmente, dei dialoghi definito ri, hasuscitato un ampio dibattito fra glistudiosi. Mi limito asegnajare

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FRANCESCO F RONTF.ROTTA

importan ti indicazioni sulio statuto dell’oggetto sottoposto ad analisi, ía virtü appunto, e mi íimiteró a segnalare quest’único aspetto. La virtü, o piuttosto ognuna delle sue parti, é un ‘qualcosa* (npáy[ia) reale e oggettivamente determinato, unessenza (oücría) esistente posta accanto ad altre essenze esistenti, ciascuna essendo specifica CíSlo?), individúale e diversa dalle altre (ouk ov olov tó erepov aúrójy tó eTepoy). Di simili essenze gli enti empirici partecipano (|ieTaAa|i|3ávoim ... toútcov ... ol pev aXXo, oi Sé aXXo), acquistando cosí le caratteristiche corrispondenti, come pure, d’altro can­ to, esse possono partecipare le une delle altre, entrando in possesso delle reciproche determinazioni. Lesempio delle relazioni fra le par ti della virtü é assai chiaro: So crate afferma infatti che, a suo parere, la giustizia é certamente santa e la santita giusta (tt|V SiKaiocnVr¡y oorov etyai Kal tt)^ ÓCTLÓTqTa Sí-Kaioy) e questo, evidentemente, soltanto perché la giustizia partecipa della santita e la santita della giustizia. Infine —ulteriore precisazione rispetto alio statuto logico e ontologico di tali realtá - esse possiedono necessariamente come proprio attributo fondamentale la caratteristica di cui sono Fessenza: la giustizia é dunque giusta (eorty ... toloütov f\ SiKmoowrj olov Slkguov elvai) e la santita santa (aímfj ye r\ oaioTqs1 óaiov) e nessunaltra cosa potrebbe essere detta giusta o santa, se non lo fossero la giustizia o la santita in sé (crxoXfj |ieyTay t l aXXo oaioy eÍT), el p.r| aÜTf| ye q óaiórqs' oaioy ecrTcu)18. qui le due principal] tesi emerse nel confronto degli ultimi decenni: ía tesi (A) delf unita della virtü, che intende ie diverse virtu particolari come altrettante parti inseparabili di un único insieme, in modo che, pur fra loro distinte, esse si rivelano tuttavia inscindibilmente connesse íe une alie altre (cfr. soprattutto i saggi successive di G. V las TOS: The unity o f the virtues in the Protagoras, in «RMeta», XXV, 1972, 4 15-458; riedito inG . VLASTOS, Platonic studies cit., 221-269]; I d ., The argument in Laches 197e ff. cit.; I d ., The Protagoras an d the Laches, in G. V la STOS, Socratic studies, ed. byM .F. B u r n y e a t , Cambridge, Cambridge Univ. Press 1 9 9 4 , 109 - 126 ); ektesi ( B ) dell’identita delia virtü, che concepisce le virtü particolari come espressioni diverse della virtü in quanto tale, cos} riducendole asemplici nomi di un’unicae idéntica reaítá priva di parti (cfr. T . P e n n e r , The unity o f virtue, in «PhR», LXXXII, 1 9 7 3 , 3 5 -68; C.C.W . T a y l o r , Plato's Protagoras, Oxford, Clarendon Press 1976, 103 sgg.; T. I r w i n , Plato's moral theory, Oxford, Clarendon Press 1977, 86-90; M. ScHOPiELD , Aristón o f Chios an d the Unity o f virtue, in «AncPhií», IV, 1984, 83-95; e ancora T . PENNER, What Laches an d Nicias miss —an d whether Socrates thinks courage merely a p a r t o f virtue cit.). 18 L’affermazione per cui ognuna delle ‘essenze’ considerate qui possiede ia caratteristica di cui e, appunto, l’essenza, e puo essere quindi predicata di sé stessa, solleva la delicata questione dell’auto-predicazione, come metteró in luce nel cap. X.

IL RIFERJ MENTO ALLE IDEE NEI D1ALOGH1 PLATONICI

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Passiamo adesso al Menone, che, come il Protagom, offre, nel quadro piü generale di un indagine sulla natura della virtü e sulle sue caratteristiche, alcuni spunti di grande interesse per la questione in esame qui. II dialogo si apre bruscamente suirinterrogativo che Menone rivolge a Socrate: la virtü é insegnabile (SiSolictóv f) dpeTTj)? Socrate si mostra del tutto ignorante in materia, giacché, fra Taltro, afferma di non sapere neanche cosa sia la virtü (otl tto t’ écnr ápeTq). Tocca dunque a Menone illustrare la natura della virtü ed egli elenca un gran numero di virtü specifiche, proprie, ciascuna, di ogni uomo, donna o fanciullo, in ogni circostanza. Non si tratta pero di una definizione della virtü: come per le api, se si vuole identifícame Tessenza (laeXÍTTqs- irepl oíxjLas'), non serve elencarne le differenti specie e le diverse caratteristiche; análoga­ mente, rispetto alia virtü, occorre indicarne Túnica idéntica forma (ev ye t i etSos* rau róv ) e non le sue molteplici manifestazioni (7 0 a l-7 2 d l). Due definizioni sono quindi proposte da Menone. (I) La virtü e la capacita di governare gli uomini. M a sarebbe dawero assurdo ammettere che la virtü degli schiavi o dei ragazzi consista nella capacita di governare i padroni o gli anziani. Si potrebbe forse insistere, sostenendo che la virtü coincide con questa capacita di comandare solo quando si pratichi secondo giustizia e tuttavia, cosí dicendo, si cadrebbe nuovamente nel paradosso della ‘moltiplicazione’ delle virtü, perché la giustizia non é che una singóla parte della virtü. Ora, non é alia molteplicita (els froXXá) che si intendeva arrivare, ma a ció che rimane idéntico al di la di tutti gli elemenci componenti ía molteplicita (tó ém T Taatv t o ú t o l s 1 T a v T Ó v ), vale a dire aila virtü nella sua totalita ( k a T á oXou ... áperfis'), come, per esempio, nel caso delíe figure o dei colorí, che, assai difFerenti gli uni dagli altri, sono comunque qualcosa di único ed idéntico in quanto figura o in quanto colore (7 3 c 6 -7 4 a l0 ). (II) La virtü é il desiderio delle cose belle uníto alia capacita di procurársele. D ’aítra parte, obietta immediatamente Socrate, se íe cose belle sono anche buone e se é impossibile che qualcuno desideri subiré un male, nessuno si distingueradagli altri per vírtü, visto che in tutti gli uominí é presente un uguale desiderio di cose belle e buone; in tal caso, la virtíi consisterá esclusivamente nella capacita di procurarsi dei beni. M a é forse virtuoso procacciarsi ricchezze o qualsiasi altra cosa in modo empio e ingiusto? Pare di no esará perció necessario precisare che la ricerca dei beni dovraessere accompagnatada un atteggiamento giusto e santo. Edecco che, ancora una volta, invece di definire la virtü nella sua totalita (oXov eltráv tt]v áperr|v), se ne son o tróvate, paradossalmente, ie singóle parti (77b2-79c3).

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Nel seguito del dialogo, 1’esame della virtü é abbandonato e, alia conclusione della loro discussione, Socrate e Menone si saranno rivelati incapaci di scoprire cosa essa sia in sé e per sé (aÜTÓ Ka0’ aúró ... t í TTor’eoTiv apcTT), 100b6). Dal punto di vista di questa indagine, il Menone rappresenta per molti aspetti un punto di arrivo su cui occorrera tornare piü ampiamente in seguito19. Basti per ora ricordare che si tratta con ogni verosimiglianza delfultimo dialogo caratterizzato da quei tratti tipici gia rílevati negli altri dialoghi definitori: interrogato da Menone sulfinsegnabilitá della virtü, Socrate capovolge súbito il problema, chiedendo a sua volta a Menone, che é un grande ammiratore e ascoltatore di Gorgia (7 2 c5 -d 2 ) e dovrebbe essere perció esperto della questione, cosa sia (tí cgtiv) la virtü. Conviene osservare intanto come appaia ormai definitivamente stabilito il riferimento oggettivo della ricerca definitoria, che mira all’essenza della cosa cercata e pone come esigenza fondamentale la determinazione del suo statuto ontologico (72 c 5 -d2 ; 75 a4-5): il definiendum é Túnica idéntica forma collocata «al di la» delle sue concrete esemplificazioni particolari (ev yé t i elSo? raÚTÓy ... ém rraaiv to u to lj), un’unitá (ev) essenziale al di la della moltepücitá (tcí rroXXá). Qualí che siano le implicazioni filosofiche di simili assunti, compare per la prima volta esplicitamente nel Menone il principio della netta distinzione fra la forma essenziale di qualcosa e ció di cui é la forma essenziale, dunque fra l’ídea universale e le cose particolari che ne partecipano, la cui relazione é descritta nei termini deU’imducibile opposizione di unitá e moltepücitá20. Proprio il radicale fraintendimento, da parte di Menone, di questa ineludibile dimensione ontologica, che si colloca ancora una volta nel contesto del dilemma dell’unitá e della pluralitá delle vir­ tü21, é la causa del fallimento delle due definizioni proposte. Infatti, in quanto riducono la virtü alia capacita di comandare secondo giustizia (I) o di procurarsi cose buone in modo giusto e santo (II), 19 Cfr. soprattutto il § 2 del cap. III. 20Rispetco aí diversi significad e alie diverse valenze della coppia. di opposti unita/ moltepücitá nel contesto teorico della descrizione platónica delle idee, cfr. soltanto il § 1 del cap. IV e i §§ 2-3 del cap. XII. 21 Cfr. supra, n. 17.

IL RIKERJ M EN TO ALLE IDEE NEI DIALOGHI I’LATONICI

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esse non designano l’essenza o Fidea in sé della virtu, ma soltanto alcuni esempi particolari di comportamento virtuoso, rimanendo prive cosí di qualunque forma di universalitá oggettiva; inoltre, come la confutazione condotta da Socrate mette ben presto in luce, tali defmizioni giungono al limite all’indicazione delle molteplici parti della virtu (come la giustizia e la santitá) e, senza definire la natura essenziale di nessuna, pretendono di definire-Finsieme, la virtu intera, ricorrendo ora all’una ora alFaltra delle sue parti non ancora definite. Ma la conoscenza delFintera virtu in sé precede senza dubbio la determinazione delle relazioni fra le sue parti, mentre il procedimento inverso si rivela certamente errato sul piano metodologico (79b4-c9)22.

2.6 //Cratilo.' i nomi, la definizione e la conoscenza Il Cratilo si distingue dai dialoghi giovanili, ancor piu del Protagora e del Menone, per la complessita e la varietá degli argomenti eke discute e per il legame solo indiretto e implicito con il caratteristico schema di ricerca socrático della definizione delle cose, anche se, come vedremo, questo dialogo conclude in qualche modo il percorso concettuale (e non cronologico) intrapreso nei dialoghi definitori23. L’oggetto dell’analisi é introdotto dal confronto fra le tesi 22 Cfr. il § 2 del cap. II. L ’esame della natura della virtu e delle sue caratteristiche é strettamente connesso, nei Menone (81a5-86c2), all’introduzione della dottrina della reminiscenza dell’anima. Affrontero la quesdone nei dettagli nei § 2 del cap. Ill, mentre, in linea con il tema discusso in queste pagine, mi sono limitato a considerare qui il problema della definizione deña virtü, rispetto alia struttura del método definitorio e alia determinazione dello statuto ontologico dell’oggetto da definiré. 23 Pur sempre nei contesto di uno schema argomentativo in cui a Socrate spetta í’onere di condurre Íl dibattko, interrogando i propri interlocutori e confutandone o precisandone le risposte, 1’Índagine svolta nei Cratilo non é tuttavia propriamente dedicata alia ricerca della definizione di qualcosa, ma all’analisi (solo indirettamente ‘definkoria’) di due tesi contrapposte íntorno alia natura dei nomi - se appaitengano alie cose che nominano per convenzione o per essenza —un’analisi che si immaginagia piuttosto avanzara, quando Socrate interviene nella discussione (3 8 3 a l-3 8 5 b l). Inoltre, la riflessione condotta nei Cratilo conclude e, per cosi dire, completa la serie dei dialoghi definitori — non tanto dal punto di vista cronologico, ció che pare impossibile determinare, quanto piuttosto dal punto di vista del percorso concettuale che vi é compiuto - nella misura in cui si rivolge, piü che alia formulazione di una definizione specifica, alio statuto della definizione in generale attraverso i’esame dei suoi elementi componenri, i nomi, e delle immediate implicazioni logico-linguistiche che un simile problema comporta. In questo senso, come cercheró di mostrare, é

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di Ermogene, che sostiene che la corrispondenza fra i nomi e le cose si basa esclusivamente sulla convenzione e l’accordo (ctuv9tíkt| Kai óp.oXoyia) fra gli uomini, e dell’eracliteo Cratiio, che afferma invece la naturale (^úoei) e necessaria appartenenza dei nomi alie cose nominare (383al-385b l). Gli elementi che emergono nel corso deiresame di questo tema non riguardano il contenuto di una specifica definizione o della conoscenza che di tale definizione pone le condizioni - come aweniva nei dialoghi propriamente definitori considerad fin qui —ma piuttosto la natura dei nomi e del discorso in generale, rispetto al rapporto fra la conoscenza, il linguaggio e il loro contenuto. E in questa ottica, dunque, che bisogna adesso con­ siderare il Cratiio. Socrate, coinvolto nella discussione, affronta subito l’opinione di Ermogene. Se esistono il discorso vero e il discorso falso, Tuno che «dice le cose che sono come sono» (tó ovto. Xéyrj wç ccmv), l’altro che «dice le cose che sono come non sono» ( jà ovia Xéyrj cbç oùk eariv), anche le parti del dis corso saranno affette da verita o falsità e dunque gli stessi nomi, le piii piccoíe fra le parti che compongono il discorso, potranno essere veri o falsi. In tal caso, secondo la tesi di Ermogene, la verita o la falsità dei nomi deriverebbe dall’accordo e dall’opinione soggettiva dei parlant!’ e non certo dall’essenza stessa delle cose, che, a sua volta, priva di qualunque propria consistenza e stabilitá (TLva ¡3c¡3aiÓTr|Ta rf\ç ouatas1), sarebbe soggetta alla valutazione e al giudizio soggettivo degli uo­ mini (lÔLOt aÙTcàv f) oïm a elvaL èmcrra))24. Ma questa posizione è inaccettabile, perché impone un relativismo assoluto che impedilegittimo supporre che Platone intendesse spiegare in che modo e su quale base possa essere correttamente formulata una definizione specifica, tenendo presente laparticolare relazione fra la sfera de! linguaggio nel suo insieme e la realtà deíle cose che sono oggetto di pensiero e discorso. Cfr. soprattutto, in proposito, la conclusione di questo § 2.6 e i §§ 2-3 del cap. II. 24 U n a simîle posizione è ricollegata da Socrate alla dottrina soggettivista di Protagora, per la quale «luomo è misura di tutte le cose» (ttûlv'Uûv xP'HP-áTiov' M^Tpoi' elrai âv'SpwTrov). Per la dottrina di Protagora e la sua presentazione nel Cratilo e negli altri dialoghi platonici, cfr. M. UNTERSTEINER, I sofisti, Milano, Mondadori 19963 (prima edizione: 1948), 1-137; A. SOULEZ, Le dire comme acte du Sophiste. Ou: invention et répudiation p a r Platon de la pragmatique sophistique, in Position de la Sophistique, Colloque de Cerisy, éd. par B . C a s s i n , Paris, Vrin 1986, 53-73; M. N àR C Y , Cratylepar lui-même, in «RPhA», V, 1987, 151-165; A. B üH LER , Protagoras: W ahrnehmungundW ahrheit, in «AZP», XIV, 1989/3, 15-34.

!L FU FER IM EN T O ALLE ID E E N EI D iA L O G H I P L A T O N IC l

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see qualunque distinzione oggettiva, perfino quella universalmente riconosciuta fra bene e male, saggezza e stoltezza. E invece evidente che le cose hanno una propria stabile essenza in virtü della quäle esistono in sé e per sé (a v rà a utúju ovatav exo v rá Tiva ßeßaiov ... Ka0’ aírrà irpòs' Tr|v aíirwv oúcríav). C om e le cose, cosi pure le azioni (irpá^eis') hanno una propria essenza che occorre conoscere se si vuole distinguere un azione giusta e corretta da un azione ingiusta e scorretta: conseguentemente, l’atto del nominare non discende dall’opinione com une o dall’accordo generale, ma dall’es­ senza stessa di ció che è nom inato. Cosa è, infatti, il nome? N on è forse uno strum ento per indicare e identificare Fessenza (ovo|ia âpa SiSaaKaXiKÓi' t í

ècrrtv öpyavov Kal SiaKpiriKÒv rfjs* ou cía?)

delle cose? Precisamente com e la spola del tessuto è lo strumento adatto a tessere e 1’esperto tessitore è colui il quäle conosce il pro­ prio strum ento e il suo uso, anche per i nomi sara esistito un origi­ nario legislatore (vo[xo0éTT|s•) che ha attribuito per primo i nomi alie cose. II falegname, quando costruisce una spola, non prende a modeilo le spole vecchie e orm ai danneggiate, ma quell’idea della spola (¿KeXvo t ó cióos;) che puó essere veramente definita spola in sé’ (aiíTÓ o e u n v KepKÍs“): indipendentemente dal materiale di cui sono com poste e dal tipo di tessuti che meglio tessono, tutte le spole «devono avere l’idea della spola» (rrderas“ S â tò rf\ç KepKÍSoç èX^LV etôos1), quella natura particolare che il falegname pone in esse costruendole (Taínr|V àuoSiSóvai rriv cjjúaiv e iç tò epyov exaorov). Alia stessa maniera, il legislatore prende a modeilo il nome in sé (aÚTÒ éxelvo Ô ecm v ovop.a) e attribuisce a ciascuna cosa il nom e che le com pete secondo la propria essenza, il nome, quindi, che piü si adatta all’essenza della cosa (tò toO ovo^aTos elSoç ... rò TTpoafjKov éraoTtp). Sara poi il tessitore a giudicare il lavoro dei costruttore di spole, in quanto, usando la spola, potrà valutare se «1’idea delia spola è presente» nel materiale del suo strum ento (tò ... elSo? KcpKÍSos- èv òttolwoüv £úXgü K eirm ); e sarà il dialettico, che sa interrogare e rispondere servendosi dei nom i25, a giudicare il

25 G . G i a n n a n t o n í , La dialettica nel Cratilo pkitonico, in «AASM», CII, 19 9 1 , 12 1- 13 4 , ha osservato come si possa coglíere quí un importante muta mento nella concezione platónica del SiaXéyecrôciL e dei SiaXeKTLKÓç: mentre nei primi dialoghi il ‘dialettico’ è colui che semplicemente interroga i propri interlocutor! e conduce con

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legislatore e la sua opera. Ha dunque ragione Cratilo: i nomi appartengono alie cose per natura (aKÓ}ievov, ecm Sé tó KaXov, eotl 8e tó dyaGóv), solo a tali condizioni dunque, la conoscenza esiste ed é realizzabile. Questo é il presupposto ineludibile per ogni discussione relativa alia natura dei no mi, che rimane altrimenti inevitabilmente incerta e oscura (438a2-440e7). Riprenderó Fanalisi del Cratilo nel prossimo capitolo28, prestan­ do particolare attenzione alia questione del rapporto fra la sfera epistemológica e logico-linguistica della conoscenza e del discorso e la sfera ontologica delle realtá che la conoscenza e il discorso assumono come proprio contenuto. D ’altro canto, nelFottica del pro­ blema considerato fin qui, quello dello statuto degli oggetti della definizione —e dunque della conoscenza e del linguaggio da cui la definizione discende - bastera per ora sottolineare le caratterístiche che a tale statuto sono attribuite. Le cose, le azioni e le loro qualitá come si manifestano nelfesperienza comune, mutevoli, in movimento e sempre diverse, hanno una stabile essenza (tlvü f3e(3cuÓTT|Ta Trjs* ouoías*) in quanto si riferiscono, ciascuna, a un’idea in sé (curró tó clSo?), che rappresenta il modello universale cui esse assomigliano come copie e fornisce il criterio per giudicare della correttezza dei nomi e della loro attribuzione. Infatti, é alie idee che i nomi appartengono originariamente e secondo veritá, desenvendóle e raffigurandole come immagini: conseguentemente, solo dalla loro co­ noscenza diretta deriva la legittimitá dei nome e della definizione. In effetti, pur senza esprimersi sulle modalitá di questa conoscenza, il Cratilo ne stabilisce tuttavia chiaramente le condizioni: occorre che le idee siano enti in sé, dunque immobili, immutabili e sempre identici a sé stessi, poiché ció che muta e si trasforma continuamen­ te non solo non é in sé, ma neanche costituisce un qualcosa (tí) determinato che possa essere conosciuto per come é dawero. 2S Cjfr. soprattutto i §§ 2-3 e 5 del cap. II.

IL R IFER liV IEN T O

A LLE ID E E N EI D IA L O G H I l’ L A TO N IC I

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ayTa^ó|iei'a ffoXXá ^aíveaQai emcrrov).

26 E impossibile díscutere qui nel dettaglio ia testimonianza aristotélica (per la quale cfr. soprattutto Metaph. A, 987b 14-18; 990a29~32; 991a2-5; b27-30; M, 1079a32-36; N, 1090b32-35; D e ideis, 78, 16-17; 79, 13-15) che è stata oggetto di un’attenta anahsi da parte di H.F. CHERNISS, The riddle o f the early Academy, Baltimore, John Hopkins Press 1945, 75-78. Cherniss ha dimostrato come le parole dello Stagirita diano adito a diverse interpretazioni: innanzitutto, non è affatto scontato che, trattando della dottrina degli oggetti delle matematiche ‘intermedi’ fra le idee e le cose, Aristotele si riferisca dawero a Platone e non, per esempio, a un altro

LA STRUTTURA DEL M O N D O DELLE IDEE

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do poi all’esposizione della ‘linea, Platone attribuisce senzaitro ai numeri e alle figure, oggetto della geometría e delle matematiche, una posizione in qualche modo intermedia (jieTa^ú, R. VI 51 ld4) fra il sensibile e l’intellegibile, ma non certo sul piano ontologico, bensi soltanto dal punto di vista metodologico o ‘epistemológico’: ad essi é infatti assegnato un genere di conoscenza, per cosí dire, ‘misto’, che, pur rivolgendosi alle idee intellegibiH, procede ipoteticamente servendosi di immagini sensibili. I ji.a0r||j.aTiKd sono pertanto collocati a meta strada fra idee e cose esclusivamente in virtü dell’imperfetta conoscenza da parte del soggetto conoscente e non rispetto alia loro natura e al loro statú to27. Proprio da questa constatazione muove la seconda ipotesi inter­ pretativa relativa alle realtá ‘intermedie’, che non riguarda l’esistenza di enti intermedi fra ie idee e le cose empiriche, ma si limita a dedurre dalla gerarchia metodologica o epistemológica’ dei modi di conoscenza tratteggiata nella ‘linea’ una simile gerarchia ontologica fra le idee, con il presupposto che, se metodi conoscitivi di diverso valore conoscono diversi gruppi di idee, é allora possibile individua­ re un’analoga differenza di valore fra le idee: le idee degli oggetti delie matematiche, contenuto deU’impreciso método ipotetico, sarebbero poste perció al di sotto delle altre idee, indagate compiutamente dalla dialettica28. Conviene rilevare pero che l’anaaccademico (forse Senocrate); inokre, non tutte le indicazioni di Aristotele sembrano artes tare inequivocabilmente l’esistenza di questa doctrina, perché assumono calora un significato piuttosto impreciso e generale. 27 Rinvio nuovamente, per l’analisi della ‘linea’, al § 3 del cap. III. Si consideri inoltre che idee dei numeri e degli elementi geometrici sono ampiamente atiéstate nei dialoghi e in nessun modo distinte dalle altre idee, come ho messo in evidenza nel § 2 di questo cap. IV. 2Í! Cfr. soprattutto F.M . CoFLNi-GRD, Mathematics and. dialectic in the Rep ubiic V I­ VI I cit.; W .D . Ross, op.cit., 94 sgg., 231-274, 279-284; rientrano nelFambito di questo filone interpretativo, almeno per certí aspetti, anche J. CATAN, Plato on noetic intermediaries, in «Apeiron», III, 1 9 6 9 ,1 4 -1 9 ; e S. S c o l n i c o v , On theepistemological significance o f Plato’s theory o f ideal numbers, in «MH», XXVIII, 1971, 72-77. In particolare, Cornfordhasuggerito che Platone pensasse a una netta divisione frale idee dei valori e delle qualitá morali, dominate dall’idea del bene posta come principio etico ‘anipotetico’, e le idee degli oggetti delle matematiche, con al vértice I’idea deli’uno, principio numérico e geométrico anipotetico’. Ross ritiene invece che, pur non sussistendo prove sufficienti in favo re dell’ ipotesi di enti ‘intermedi’ fra le idee e le cose, occorre pero ammettere che, se la ‘linea’ indica procedimenti diversi per lo studio delle realtaideali (il método ipotetico e la dialettica), e «se un método discudio éappropriato

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lisi della linea non conforta neanche una lettura di questo tipo: spiegando la natura della conoscenza intellegibile e dei procedimenti che la caratterizzano (VI 5 10b2), So crate introduce in effetti, dapprima, un método ipotetico inferiore e meno chiaro’, senza attribuirgii inizialmente alcun oggetto specifico. E solo in segui to, e di fronte alia perplessità del suo interlocutore (VI 5 10b 10), che egli iílustra la natura di tale método proponendo il caso dei ‘geometri’ e delle matematiche (VI 510cl-d 3), citato a titolo di semplice esempio chiarificatore (paov toútgjv TTpoeiprjiJ.évwv' ^ia0f| | i .e T p L K ¿ J t ' T e ical | e&.i'): se ne deduce che l’accento non va posto su una disciplina specifica —la geometria, appunto - ma sul método parcicolare che puó appartenere a diverse discipline. Tale método non si rivolgera dunque soltanto agli oggetri delía geometria, ma agli oggetti di tutte le discipline che procedono ipoteticamente. Del resto, nel Fedone (100b 1-7), il procedimento ipotetico èapplicato da Socrate al caso della beliezza e dell’idea del bello, e non agli oggetti della geometria o delle matematiche, in un contesto in cui, pur con la dovuta cautela, non mi pare sia prevista al cuna limitazione all’impiego di questo método. 30 E del resto impossibile citare, contro questa conclusions, Ü passo della Repubblica (V 4 7 7 c1-478b2) in cui Socrate stabilisce il principio secondo il quale «ogni facoltà conoscitiva è diretta per natura a un oggetto diverso» (én’ aXAui àXÀTj S w a iiij TréíJK£v): ¡e ‘facoltà conoscitive’ li chiamate in causa coincidono precisamen­ te con la scienza e con Fopinione, dunque, rispettivamente, con Vintera sezione dell ’in tellegi b tie che conosce le idee e con Viniera sezione delVopinabile che opina le cose empiriche. II pensiero ‘discorsivo’ con il método ipotetico non costituisce perció, di per sé, unafacoltà conoscitiva intermedia (e diretta a idee ‘intermedie’) fra il pensiero t t iv

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LA ST R U TT U R A D EL M O N D O D ELLE ID EE

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\per esempio il beiio in sé (o il triangolo in sé), pub essere conosciuta \ ipoteticamente, attraverso le immagini sensibili della bellezza (o dei triangoli disegnati materialmente), e dialetticamente, in virtu dell’intuizione immediata del bello in sé (o del triangolo in sé) con la successiva ricostruzione dei suoi rapporti con. le altre idee. Le idee degli oggetti delle matematiche non devono dunque essere colloca­ te per nessuna ragíone al di sotto delle altre31. La teoria della linea non fornisce insomma alcuna indicazione in favore dell’esistenza di enti intermedi fra la sfera ideale dell’essere e l’ambito sensibile del divenire: le uniche realtä da Platone espressamente definite «intermedie» (|j.eTa£;i>) si trovano fra l’essere pieno delle idee e l’assoluto non essere di ció che non é affatto e si riducono alia molteplicitä delle cose empiriche, ‘inferiori’ alie idee vera­ mente essenti, ma non coincidenti con la semplice assenza del puro nulla32. Neppure esistono, d’altro canto, idee di maggiore o di mi‘ intuitivo’ (rivolto alie idee ‘piü alte’) e l’opinione (adatta alie cose sensibili): indubbiamente, in virtu del fatto che la sezione dell’intellegibile e la sezione dell’opinabile comprendono al proprio interno procedimenti diversi e di diverso valore, e owio che il grado inferiore della conoscenza intellegibile, il pensiero ‘discorsivo’, e il grado superiore dell’opinione, la credenza, siano fra loro piü vicini degli altri due (e, in tal senso, in qualche modo ‘intermedi’, cfr. R. VI 511 d3-5), ma nulla piü di questo si é autorizzati a supporre. 31 In R. V I 510d 5-511al, Socrate afferma che i ‘geometri’ fanno uso delle immagini sensibili delle figure geometriche nella dimostraztone dei teoremi, pur avendo in mente le forme astratte di quelle figure. Tuttavia, ció implica soltanto che i ‘geometri’ con il loro método hanno bisogno dell’‘aiuto’ delle immagini sensibili, ma nulla induce a ritenere che siano gli oggetti della geometría di per sé a esigere il ricorso alia rappresentazione materiale: l’argomentazionesocraticapone infatti l’accento sulla natura del método e non sullo statute ontologico del suo contenuto. Presumibilmente, il dialetrico con il suo método supremo sarä capace di trattare gli stessi oggetti a un altro e piü alto livelio: il ‘geómetra’ dovra perció, per dimostrare un teorema, tracciare le figure e disegnarle; il dialetrico riuscirä invece a svolgere la dimostrazione rivolgendosi direttamentee intuitivamente alle idee in sé delle figure geometriche e dei numeri. E rimane a questo proposito un’evidente ambiguitä: sara possibile, per esempio, sommare l’idea del due e l’idea del tre o, ancora, dimostrare che l’idea della superficie dell’idea del quadra to corrisponde all’idea del lato moltiplicata per sé stessa? Benché infatti Platone non abbia a mió parere distinto lo statuto degli oggetti delle matema­ tiche da quello delle altre idee, e tuttavia impossibile sfuggire a simiti, bizarri interrogativi. E non é escluso che latestimonianzadi Aristotele (cfr. supra, n. 26) possa essere intesa, piü che come un fraintendimento o una diversa mterpretazione della posizione di Platone, come un tentativo di segnalare queste difficoltä. 32 Cfr. R. V 4 7 8 el-4 7 9 d l e il § 5 del cap. II. Sulla definizione dello statuto ontologico delle cose empiriche in divenire, si vedano i §§ 1 e 3 del cap. V.

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nore valore ontologico rispetto ad altre idee: risultano di maggiore o di minore valore metodologico ed epistemológico le modalita attraverso le quali il soggetto conoscente accede’ alie idee e ne acquista la scienza33. Del resto, in questa prospettiva (non ontológica, ma metodologica o epistemológica), é senza dubbio possibile individuare altre forme di gerarchia fra le idee. ( 1) Sul piano lógico della definizione, le idee possono essere classificate, secondo la loro ‘ampiezza semantica, in uno schema ver ti cale alia cui sommitá si eolio cano le idee piü generali’, che comprendo no sotto di sé, in un ordine progressivo e discendente, le idee meno ‘generali’: per esempio, l’idea di anímale comprenderá sotto di sé l’idea di anímale quadrupede e l’idea di anímale bípede; quest’ultima comprenderá a sua volta l’idea di anímale bidepe privo di ragione e l’idea di animale bípede dotato di ragione e cos'i via34. (2)

Rispetto alia ‘presenza’ delle idee nel mondo empírico, é noto che únicamente al bello in sé, e non alie altre idee, Platone attribuisce la facoltá di manifestarsi in tutto il suo splendore nella sfera sensibile e di rendersi immediatamente percepibile alia vista35.

(3) Dal punto di vista conoscitivo infine, alcune idee si rivelano «suscitatrici d’intelligenza»

(rá

TTapaK\r)TiKá

ttís 1

SiávoiasO, perché, piíi delle altre, si appellano

alia riflessione e al pensiero e ne sollecitano l’intervento36.

Nessuna di queste forme di gerarchia configura pero una gradazione ontologica del mondo delle idee, che sembra perció caratterizzato da una radicale orizzontalita’: non esisterebbero dunque 33 Questa tesi é stata sostenuta da P. S h o r e y , Ideas an d numbers again, in « C P h » , X X II, 1927, 213-218; R, H a c KFORTH, Plato's divided line an d dialectic, in «CQ», X XX V I, 1942, 1-9; H.F. C h e r n is s , Aristotle's criticism o f Plato an d the Academy cit., 479-487; 513-524; Id., The riddle ofthe early Academy cit., 75-78; R.C. C r o s s & A . D . W o o z l e y , PLzto s Republic cit., 231-261; J. A n n a s , On the intermediates, in «AGPh», LVTI, 1975, 146-166; e, in ultimo, da R.D. .M oH R , The number theory in Plato’s Republic V II íüWPhilebus, in «Isis», LXXII, 1981, 620-627. 34 Cfr. il § 2 del cap. II. Si vedano inoltre F . M . CORNFORD, P lato’s theory o f knowledge cit., 2 6 8 - 2 7 3 , e sop rattu tto R .E . A llen , P lato’s Euthyphro an d the earlier theory o f form s cit., 9 1 -9 3 . C o n tro 1’Ípotesi di una gerarchia ‘logico-sem antica’ delle idee si é espresso H . F . CHERNISS, Aristotle’s criticism o f Plato an d the Academy cit., 4 6 4 8 ; Id., The riddle o f the early Academy cit., 4 -6 ; 5 4 . 35 Cfr. Phdr. 250b5-el e i §§ 1-2 del cap. III. 36 Cfr. R. VII 5 2 3 a l 0 -5 2 4 d 5 e il § 1 del cap. III.

LA STRI j T TU R A DEL M O N D O DELLE ¡DEE

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idee che sono di piü o piü realmente (páXXov óvTa) delie altre37. Tuttavia, per accogliere definitivamente una simile conclusione, occorre considerare il problema decisivo della collocazione dell’idea del bene nel sesto e nel settimo libro della Repubblica, giacché proprio il bene sembra h descritto da Platone come in qualche modo piü essente delle altre idee e causa della stessa essenza di ció che é. Inizialmente (VI 504e4-507a5), Socrate intraprende la trattazione del bene, piuttosto enigmáticamente, qualificandola come la «disciplina suprema» (p iy io r o v (láQqiia), poiché «é in virtü dell’idea del bene che le cose giuste o di altra natura divengono utili e giovevoli» (q ro í) áyaQoü IS'éa ... 13 Sfj Kal SÍKaia kgll rSXXa TTpooxpr|CTá|ieva x P ^ M -a Kal ooc^éXip.cx y íy v e r a i) : perfino la conoscenza non ha alcun valore, se non e accompagnata dalla scienza del bene (aveu Se ravrris- [sciL: Tf)9 á y a 0 ou iSéas*] el o tl p-áXiora TaXXa ém oraí|j.e 0 a ... oí)8ev f|ply o^eXos*), né serve a nulla com­ prendere alcunché senza Ü bene (f¡ oleL t l nXéov elva i ...TTotvra TaXXa 0 Kai oùi'iaç, in «VChr», XXIII, 1969, 91-104 (ma si veda anche in proposito infra, n. 47); oppure rispetto all’influenza della concezione platonica del bene nel pensiero moderno: cfr. P. N a t o r p , Platos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Leipzig, Dürr 1903, 188-201; H.M. BAUMGARTNER, Von der Möglichkeit, das Agathon als Prinzip zu denken: Versuch einer transzendentalen Interpretation zu Politeia 509b, in Parousia. Studien zur Philosophie Platons und zur Problem-geschichte der Platonismus. Festgabe für J. Hirschberger, hrsg. von K. FLASCH, Frankfurt, Minerva 1965, 89-101; T . E b e r t , Meinung und Wissen in der Philosophie Platons. Untersuchungen zum Charmides, Menon und Staat, BerlinNew York, De Gruyter 1974, 132-208; R. F e r b e r , Platos Idee des Guten, Sankt Augustin, Academia Verlag 1989, 167-211. Si vedano inoltre i preziosi contributi di G. $lLUTTl,Aldi là della sostanza: ancora su Resp. VI 509b, in «Eienchos», 1 ,1980,225244; L. COULOUBARITSIS, Le caractère mythique de l ’a nalogie du Bien dans République VI, in«Diotima»,XlI, 1984,71-80; S. C u n n in g h a m - P a r É, On Plato’sform o f the Good, in «Gnosis», XII, 1984/3, 94-104; R.B. W il l ia m s o n , Eidos an d Agathon in Plato’s Republic, in « S J R » , XXXIX, 1989-1990/1-2,105-137; D. L a c h t e r m a n , “W hatisthe G ood” o f P lato’s Republic, in «SJR», XXXIX, 1989-1990/1-2, 139-171; W. L e s z l , LUBAN,

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condotta su un piano scientifico e secondo un método razionale universalmente valido e, inversamente, ogni conoscenza risulterà per sua natura orientata eticamente’ e mai moralmente’ neutrale39. Filosofia e costituzione della realtà in Platone cit., 179-192. E assai stimulant!, anche se in un contesto filosofico piu generale, sono le riflessioni di H . - G . G a d a m ER, Die Idee des Guten zwischen Plato und Aristoteles, Heidelberg, Winter 1978. 39 A riprova della diversità fra le posizioni di Platone e dei pensatori posteriori suH’unká o la pluralità delie discipline filosofiche, bastí pensare alia tradizionale suddivisione fra lógica, física ed etica, caratteristica delle dottrine ellenistiche, ma presente, almeno implicitamente, già nelle opere aristoteliche (sulla partizione delle discipline filosofiche nel pensiero post-aristotelicò si veda solo P.O. KRISTELLER, Filosofi greci dell’etá ellenistica, Pisa, Pubbl. delia Scuola Normale Superiore - Classe di Lettere e Filosofia 1991, 16 sgg.). Infatti, già ad Aristo tele sembra sfuggire l’intrinseco nesso fra Fetica e il problema delia conoscenza —stabilito da Placone e dal ‘Socrate’ platonico — che definisce il senso morale della ricerca filosófica o spiega, viceversa, la necessita di determinare un quadro scientifico ben preciso per la formulazione del giudizio morale. Per esempio, nel celebre excursus storico-filosofico contenuto nel libro A della Metafísica, lo Stagirita ricorda (987b 1-4) che «Socrate, abbandonata findagine sulla natura, si rivolse aü’etica per cercare in essa 1’universale (tò Ka0ó\ou £ t )t o w t o s -) e per primo rifletté sul problema della definizione (rrepl ôpiap.âw')». Aristotele descrive insomma la riflessione socratica nei termini di un’analisi scientifica della struttura della definizione e della sua universalità - quindi come una questione lógica e conoscitiva, autonoma e valida di per sé - che Socrate applicò, certo, alia sfera morale, ma applicabile, al limite, anche alie scienze naturali. Tuttavia, secondo la testimonianza dei dialoghi platonici (per i quali si vedano i §§ 2.1-2.6 del cap. I e il § 3 del cap. II), Socrate non distinse davvero l’esigenza morale dalla ricerca dell’ universale, considerándole invece come un problema filosofico único e inscindibile: l’obiettivo di Socrate non sarebbe stato cioé quello di procedere all’indagine etica attraverso lo strumento logico-iinguistico del método definitorio o, inversamente, di formulare i criteri universal! della definizione per rispondere all’esigenza morale; piuttosto, egli avrebbe riconosciuto che il problema logico della definizione ha di per sé un’implicazione morale - perché il fatto stesso di defmire il valore o i criteri del giudizio rappresenta di per sé una conquista morale —e che, d’altro canto, la ricerca morale non puó che awenire nel contesto di un método logico universale e assoluto. Se questo è vero, è opportuno supporre che il ‘Socrate1 platonico e Platone stesso attribuissero all1esame ‘ontologico’ sull’essere e sul non essere e alia definizione ‘epistemológica1 della conoscenza, deiPopinione e dell’ignoranza un intrínseco ed essenziale valore morale; ció che è plenamente e compiutamente è perfetto, ‘bello’ e ‘buono’; ció che parzialmente o assolutamente non è, invece, è imperfetto, ‘manchevolé’ e ‘cattivo’. Analogamente, in una simile prospettiva, l’atto del perfetto e vero conoscere assume la forma di una ‘buona’ azione; fatto dell’ignorare o dell’imperfetto opinare si configura invece come una ‘mancanza1 e una ‘cattiva’ azione. II valore e il significato intrinsecamente morali della ricerca della definizione o della conoscenza sono del resto frequentemente messi in luce nei dialoghi platonici giovanili (cfr. in particolare il § 3 del cap. II zL a. 190b3-e3; H p M a. 286c3-287b3; Euthphr. 5a3-d6; 6d9-e6;A/¿72. 71a3-d8; 89e6-90b4) ematuri (cfr. per esempio Phd. 64a4-68b6; R. VII 5 1 8 b 6 -5 2 1 b ll; Phdr. 248e3-249d3). E questa è anche, come cercheró subito di

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Condotto ail’estremo, questo ragionamento induce a pensare che le scienze naturali —come la biologia, la fisica o l’astronomia —e le stesse discipline matematiche esatte — come l’aritmetica, la geo­ metria o ií calcolo delle armonie musicali - per quanto corrette e ‘produttrici’ di verità, non abbiano aicun significato né alcun valo­ re se non sono poste in relazione con la sfera morale e non mirano in ultima analisx a un obiettivo determinato sul piano etico. Per altro verso, si capisce come la correttezza e la verità della conoscenza e della scienza sollevino un problema morale decisivo nel mo­ mento in cui la differenza fra verità e falsità assume una netta connotazione morale: paradossalmente, e al limite con una certa esagerazione, bisogna riconoscere che, secondo Platone, 1’affermazione ‘due piü due fa quattro’ avrà un valore morale positivo, rappresentando cosi una ‘buona’ azione, mentre l’affermazione ‘due piü due fa cinque’ avrà al contrario un valore morale negativo, rappresentando perciò una ‘cattiva’ azione40. Solo a queste condizioni, credo, diviene possibile comprendere ÍÍ significato delle parole di Socrate, quando sostiene che l’idea del bene rende utili e giovevoli le altre idee (fj [sdi: rou ayaOoO I8éa] mostrare, l’ottica in cui occorre collocare la discussione sull’idea del bene e suite sue relazioni con le altre idee. 40 Dal punto di vista del pensiero moderno, simili affermazioni non hanno evidentemente alcun significato perché il valore di una proposizione scientifica o di una scienza in generale dipende esclusivamente dalla sua verità e correttezza: in questa ottica, ‘due piü due fa quattro’ è una proposizione vera e corretta, mentre 'due piü due fa cinque’ è una proposizione falsa ed erronea, e nessun’aitra considerazione aggiuntiva, specie poi di natura morale, si rivela necessaria. Al limite, di alcune scienze è possibile valutare 1’utilità pratica e concreta, ma non certo sul piano morale: moraü o immorali possono essere le applicazioni di una scienza, ma non Ia scienza in sé e rispetto a sé stessa. Per Platone, invece, i criteri di valutazione di una proposizione scientifica si pongono al di là delia determinazione delia sua verità o falsità. Non solo occotre riconoscere T'orientamento' morale della conoscenza e della scienza in generale, ma questo ‘oríentamento’ morale risulta decisivo e prioritário: la proposizione ‘due piü due fa quattro’ non è soltanto vera e buona, ma soprattutto vera in quanto buona\ la proposizione ‘due piü due fa cinque’ non è soltamos/w e cattiva, ma soprattutto falsa in quanto cattiva. Sebbene ciò possa sembrare paradossale e perfino assurdo per il lettore moderno, questo è il senso dell’intera discussione sul bene condotta nel sesto e nel settimo libro della Repubblica\ il legajme fra la valutazione etica e la verità oggettiva o, addirittura, la preminenza della valutazione etica sulla verità oggettiva di qualunque cosa o del giudizio su qualunque cosa costituisce agli occhi di Platone, come cercherò di metre re in luce, un principio necessário ed evidente.

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Sq Kai SiKaia «ai TaXXa TTpocrxPincrá|_ieva x P 'n °’L!JL il bene non

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saràpiu essente delle altre idee sul piano ontologico, ma>piu degno e piupotente, fornira loro i1 valore e Tessenza morale’41. Gli elementi considerati mi inducono insomma ad accogliere un interpretazione a un tempo teleologica e assiologica del ruolo e della coilocazione del bene nel mondo ideale: I’idea del bene costituisce cosi, da un lato, il fine ultimo dell’agire e del conoscere e, dall’altro, la fonte e l’‘unità di misura del valore morale di tutte le cose. E non certo in chiave irrazionalista o mistica: il bene, come Platone subito precisa, è a sua volta oggetto di conoscenza razionale ( < t t )i ; T d y a G o u Lôéav> wç y iy v o a a K w ^ é v T jv j i è v ôlclvooí), VI 508e4)42. Questa conclusione permette infine di comprendere senza difficoltà I’enigmático riferimento di Socrate, nel corso delia presentazione delia teoria delia ‘linea, airàvuTróôeTos' apxq t o v TravTÓç, il principio primo e immediatamente auto-evidente che determina la verità o la falsità di ogni ipotesi, al quale il díalettico giunge intui­ tivamente e dal quale discende deduttivamente per rendere conto dell’essenza e delia verità di tutte le cose (VI 51 Ib6-c2)43: Tidea del bene, in quanto rappresenta l’origine e il fondamento incondizionato e assoluto del ‘valore’ delle altre idee, si identifica senza dubbio con il principio anipotetico’ dal punto di vista morale; d’altro canto, ciascuna idea, essendo come le altre e altrettanto realmente 41 Espressione moderata di questa tesí è queila di F.M . CORNFORD, Mathematics an d dialectic in ^ R e p u b lic V I-V II cit.; Id., Plato an d Parmenides. Parmenides’ Way o f Truth and Plato’s Parmenides translated with an introduction and a running commentary, London, Rourledge & Kegan Paul 1939, 132: «... whereas you can always ask the reason for a things existence and the answer will be that it exists for the sake of his goodness, you cannot ask for a reason for goodness; the good is an end in itself». Masivedano in proposito an che gli interpret! citatinellasezione (3) della n. 38. 1,2 Un punto debole di questa interpretazione è rappresentato dalla traduzione e dal significato della capitale affermazione di Socrate in VI 509b7-8: t ò eXvai T e m i rf]^ otiatav im’ éKeívou [scil.: rayaQoOj av roiç Trpooetvcn. E evidente che qui viene detto esp licitamente che «Lessere e l’essenza derivano alle idee dal bene in sé» e, sebbene sia possibtle sostenere, come ho fatto, che fessenza’ e f'essere’ coincidono in tal caso con il valore e 1’essenza ‘morale’ delle idee, si tratta tuttavia senza dubbio di una ‘integrazione’ e di una precisazione di non poco conto. Ml pare del resto che questo sia 1’unico modo per comprendere Largomentazione di Platone: che senso avrebbe altrimenti affermare che il bene trasmette Tessere e 1’essenza ontologica alle altre idee, senza essere però esso stesso essenza, ma «al di là dell'essenza per dignità e potenza»? Come potrebbe un ente che non èp iu essente, ma solop iii degno ep iu nobile degli altri, conferire loro 1’essere e 1’essenza in senso proprio? 43 Sul riferimento al principio ‘anipotetico’ nel contesto dell’esposizione della teoria della linea, si Veda soprattutto il § 3 del cap. Ill e le n. 33-34.

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delle altre, é, per sua natura, prima, incondizionata e assoluta e rappresenta perció, in sé e per sé, ii fondamento anipotetico’ di tutto ció che da essa. dipende dal punto di vista ontoiogico44. IÍ dialettico quindi, se vuole ricostruire le relazioni morali’ fra le idee o il loro Valore’ etico, non potra limitarsi a formulare unipotesi iniziale e a procedere da quella nel suo ragionamento, ma dovra accedere intuitivamente ai fondamento morale non ipoterico e pri­ mo’, al bene in sé, per comprendere le modalitá secondo le quali esso conferisce il valore morale alie altre idee e al tutto. Viceversa, se intende individuare le caratteristiche ontologiche5delle idee, per esempio la loro unitá, la loro identitá con sé o la loro reciproca diversitá, senza arenarsi nelFincompleta indagine ipotetica, dovrá rivolgersi intuitivamente al fondamento ontologico non ipotetico e primo’ che attribuisce alie altre idee l’unita, Fidentitá con sé e la diversitá dalFaltro da sé, ossia, rispettivamente, alFidea deíFuno, all’idea delFidentico e alFidea del diverso45. Neanche Farticolata discussione sul bene sembra dunque produrre prove sufficienti dell’esistenza di una gerarchia fra le idee rispetto alia loro essenza e al loro essere46. Lo straordinario rilievo 44 A mia conoscenza, gli unid studiosi che hanno esteso a tutte le idee la definizione e il ruolo di principio ‘anipotetico’ sono K.M. S a y r e , Plato’s analytic method, Chicago-London, Univ. o f Chicago Press 1969, 40-56; R. H a c k f o r t H , P lato’s divided line an d dialectic de.; e H . W . M lLLS, Plato's non-hypothetical startingpoint, in «D U J»,XXXI, 1970,152-3 59. La tendenza interpretativa prevalente é infatti quella di identificare Í1 principio ‘anipotetico’ esclusivamente con I’idea del bene: cfr. per esempio R. R o b i n s o n , Plato’s earlier dialectic cit., 156-160; W . D . Ross, op.cit., 83 sgg.; N. M u r p h y , The interpretation o f Plato s Republic dr., 151-206; R.C. C r o s s & A.D. W o o z l e y , P lato’s Republic cit., 231-261. 45Un esempio di questa indagine dialéctica 'ontologica’ £ contenuto, come é noto, nellaparte centrale del Sofista (cfr. soprattutto 252el-257c4). Per una presentazione sintética della questione si veda VAppendice I, §§ 5-6. 46 Nessuna indicazione nei dialoghi incoraggia del resto a ritenere che Platone abbia stabilito fra i generi ideali una diversitá costitutiva ed ‘essenziale’: al contrario, come abbiamo gia visto (cfr. soprattutto il § 1 di questo cap. IV), il loro statuto é sempre caratterizzato dall’assoluta e indifferenziata omogeneita ontologica e ciascuno diessi, indistintamente, éjiovoeLSes' ov avTÓ kclQ' abrá (Phd. 78d5-6). D ’altro canto, non é meno vero che, nel pensiero di Platone, appare assai netta la tendenza a sovrapporre — e talora persino a far coincidere - la sfera ontologica con quella epistemológica, lógica, etica e cosi via (cfr. anche supra, n. 37), ció che conduce a constatare che, comunque stiano le cose, il particolare accento posto (pur se esclusi­ vamente sul piano teleologico e assiologico) sulla collocazione dell’idea del bene produce un’evidente asimmetria ontologica, un unicum che non ha del resto alcun riscontro

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dato all’idea del bene nei libri centrali della Repubbiica dimostra soltanto che è possibiíe ciassificare le idee secondo un ordine mora­ le verticale’ dominato dal bene in sé: sul piano ontologico, invece, il mondo delle idee rimane rigorosamente omogeneo, uniforme e orizzontale’47.

negli aitri dialoghi platonici. Su questa difficoltà, si veda ancora W . L e s z l , Filosofia e costitiizione della realtà in Platone cit., 179-192. 47 Una posiziöne da considerare a parte ne! dibattito suile realtà ‘intermedie’ fra le idee e le cose e sulla collocazione deü’idea del bene è quella della cosiddecta ‘scuola’ di Tubinga, per la quäle cito soltanto gli esempi più rappresentativi di H J . KRÄMER, Arete bei Platon und Aristoteles. Zum Wesen und zur Geschichte der platonischen Ontologie, Heidelberg, Winter 1959, 13-39, 249-318; I d ., Über den Zusammenhang von Prinzipienlehre und D ialektik bei Platon: zur Definition des Dialektikers Politeia 534b-c, in «Philologus», CX, 1966, 35-70; K. G a ISER, Platons ungeschriebene Lehre. Studien zur systematischen und geschichtlichen Begründung der Wissenschaften in der platonischen Schule, Sturtgard, Klett 1968, soprattutto 39*172; H .j. KrâMEKÎ Eiréicafa Tfjç oùolaç.Z«/)iztoM,PoUteia509b) in roD elXiKpivös“ övtos Te Kai toû TràvTwç fif] ovtos'), sono ç. non sono contemporaneamente ( < T à a i a 0 r j T à > oütgjs* erx€L ch? eivai T e Kai prj elvar ... djia ov T e Kai frq ov), mancano dei requisiti necessari alla vera conoscibilità, mentre possiedono, al contrario, le caratteristiche proprie delf'opinabile: la mutevolezza, la corruttibilità, la forma ‘temporanea’, materiale e solo apparente degli oggetti di opinione7. Ecco perché, in generale, è certo possibile sostenere ehe le cose empiriche divengono sempre (yiyvôpeva pèv dei), mai ehe sono dawero (ovTa 8è ouSénoTe). Il divenire (f) yéveens'; tö yiyvecrôai) è la categoria ontologica ehe, opponendosi all’essere pieno delle idee (to TTavTeXâs’ elvai), désigna e definisce la natura ‘inferiore’ delle cose e il grado di esistenza ehe ad esse conviene: divenire signi­ fies infatti mutare eternamente e continuamente il proprio stato nello spazio e nel tempo attraverso la generazione e la corruzione, la nascita e la morte, in un processo incessante di composizione e decomposizione ehe coinvolge inesorabilmente tutto cio ehe si trova nel mondo sensibile e che, dei mondo sensibile, rappresenta in ultima analisi il principio fondamentale e il carattere distintivo8.

7 Ho cercato di dimostrare e di definire nel dettaglio la stretta corrispondenza fra lo statuto ontologico di un ente e il suo grado di conoscibilità nel § 5 del cap. II. 8 La descrizione piü precisa e dettagliata della natura del divenire degli enti sensibili, in opposizione al vero essere delle idee intellegibili, è presentata nel corso dell’esposizione cosmologica del Timeo (cfr. soprattutto 27d5-29c3; 37e3-38b5; 51e6-52a7): il divenire, che si svolge secondo le categorie temporali dell’'era’, deU’‘e’ e del ‘sarà’ (f)V T £ K a i e a r a i ... kv ™ x p o v w ) , dunque nel movimento continuo dal passato al presente e al futuro, contraddistingue essenzialmente il mondo empirico e tutto ciò che ricade nella sfera sensibile, oggetto di percezione e opinione ( t ò Sè ... aLCT&r]TÓy, yevw\TÒv, TreopT\\iévov à e í, yiyvó\i£vói’ re lv t l v l t ó t t u j K a i T iá X iv èK eíO eu átroXXijpevov, 8ó £ri |ieT’ alaOqaeajs- TTepLXrfrrróv). Sulla questione, in particolare rispetto all’indagine condotta neJ Timeo (che rimane necessariamente ai margini di questa ricerca), si veda ancora L. BtUSSON, Le même et I’a utre dans la structure ontologique du Timée de Platon cit., 178-197; 393-410. Rinvio inoltre a J.A. B r e n t l i n g e R , Particulars in Plato's middle dialogues, in «AGPh», LIV, 1972, 116-152; A. N e h a m a s , Plato on the imperfection o f sensible world, in «APhQ», X II, 1975, 105117; F.C. White, P lato’s theory o f particulars, New York, Arno Press 1981; M.L. McPherRAN, Plato's particulars, in «SJPh», XXVI, 1988, 527-553; M. Frede, Being a n d becoming in Plato, in «OSAPh», Suppl. 1988, 37-52.

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2. La partecipazione delle cose empiriche alíe idee Se le idee esistono esclusivamente in virtù di sé stesse, tanto dal punto di vista ontologico (avendo in sé la propria ragion d’essere), quanto dal punto di vista epistemología) (poiché vengono conosciute direttamente e intuitivamente), le cose empiriche, invece, divengono soltanto ed è pertanto impossibile conoscerle per come sono dawero, in quanto, mutando sempre, possono essere semplicemente percepite o ‘opínate’ nel loro perpetuo trasformarsi e diveñire altro. A questa immagine ontologica bipolare, che descrive staticamente’ l’assoluta e originaria differenza dei due livelli separati del reale, si sovrappone tuttavia, come abbiamo visto nel corso dell’indagine, Fesigenza, per cosí dire, ‘dinamica’ che fra le idee e le cose sussista una reciproca relazione. Infatti, ( 1) occorre che le idee si manifestino in qualche modo nel mondo sensíbile per indurre gli uomini alia vera conoscenza5;

(2) se gli uomini devono poter conoscere le cose empiriche, è necessário che essi conoscano, nelle cose, le proprietà e le caratteristiche che queste traggono imper­ feitamente e parzialmente dalle idee, perché, ín sé stesse, le cose empiriche sono vincolate al puro divenire, inconoscibile e soltanto opinabíle’10;

(3) le cose empiriche acquistano inoltre dalle idee il proprio nome (roÚTwy [seil.: tlùv eiôujy] TTiv' èmûvup.i.cti' ïcrxeiv): come Platone afferma, alíe cose spetta tem­ poráneam ente il nome che appartiene invece eternamente (elç t ò i > àei xpó^ou) alie idee con cui sono poste in relazione e per Fintera durata di questa relazione1

(4)

infme, se le cose empiriche non possiedono di per sé una stabile essenza, bísogna che la ricevano, imperfettamente e parzialmente, dalle idee12.

9 Cfr. il § 1 dei cap. III. 10 Cfr. il § 5 dei cap. II e il § 3 dei cap. III. 11 Cfr. Phd. 78d l0-e2; 102al0-b2; cl0-d 2; 103b6-cl; e2-5. La questione deU’eponimÍa è ripresa da Platone, nel contesto piü ampio delfindagine sulla partecipazione delle cose empiriche alie idee, in Prm. 130e4-131al (cfr. in proposito il § 1 dei cap. V II e ÍI § 3 dei cap. X). 12 Cfr. i §§ 4-5 dei cap. I; il § 1 dei cap, IV e il § 1 di questo cap. V.

LE IDEE E LE CO SE EM PIRICHE

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La relazione fra i livelli del reale è denom inata in gene raie par­ tecipazione’ ([léOe^is'; peTaX-q^iç) o ‘comunicazione’ (Koivou'ia): le cose tmpinche partecipano (fieTéxouaiy; [iCTaXa|ipàvouoxv) dél­ ié idee o comunicano (koivîovoücfiv; Koivwviav ë x oucay) con esse13. Il ‘meccanismo’ délia partecipazione sarà da Platone sottoposto a urianalisi lucida e inflessibile soltanto nel ParmenideH e non a cas o, nel Fedone ( 100 d 3 - 8), Socrate insiste sulla necessità del rapporto partecipativo, lasciando invece volutamente da parte il problema délia sua articolazione e delle sue modalità: T o ü t o Sè ¿ ttX û s- Kai orréxvoüs' Kal ï a w ?

eufjQws' e x M ^ a p ’ è p a u r û , S r i oùk

a\Xo T i rro iâ , airrô KaXov fj ri êfcelvou to û KaXoO e’ÎTe Ttapouaia e’i re Koivcûvia €Ïtë 5ttti Sf] kol owcüç TTpoayevofjivoir 55 où yàp e n to û t o S u axu p iC op ai, àXX'

ô tl



KaXw TTctvra T à KaXà

y iy v e T a i

KaXd.

A questo mi attengo, semplicemente, grossolanamente e forse ingenuamente: che null’altro rende bella una certa cosa se non la presenza o la comunicazione del bello in sé o in qualunque altro modo sia congiunto ad essa; infatti, non prendo una posizione definitiva su taie aspetto, ma soltanto che è in virtù del bello che tutte le cose belle divengono belle. 131 termini p.erdXTitfjts' e Koti'coi'ia, con i verbi peréxen', pieTa\ap(3àt;ai> e KOLWiii/eiv, sono sostanzialmente equivalent! e interscambiabili: essi designano l’atto délia partecipazione in generale, ma non precisano affatto le modalità specifiche del rapporto partecipativo, giacché il loro significato puo essere sia metaforico sia concreto. Del resto, già Aristotele (in Metaph. A, 98 7 b 7 -l4 ; 991a20-22) si esprime senza esitazione sul ‘meccanismo’ délia partecipazione delle cose empiriche aile idee, sottolineandone l’oscurità e qualificandolo come il paradosso fondamentale délia dottrina di Platone (cfr. in proposito il § 5 del cap. VTII e XAppendice III, §§ 1 e 3). 14 Aile critiche sollevate da Parmenide contro la teoria delle idee nel Parmenide è dedicata Tintera Parte seconda di questa ricerca. Sul dilemma della partecipazione delle cose empiriche aile idee si vedano tuttavia in particolare i capp. V III, XI e la Conclusione. 15 II testo di questo passo del Fedone è in parte corrotto. L’edizione Burnet riporta in 100d6 la lezione irpocryei'opéi/r], participio aoristo fem minile del verbo TTpoayLy vo^ou declinato al nominativo singolare: in tal caso, bisogna accordare questo participio con unodeiprecedent!TTapoucrla o KOLVwla etradurre, quasiadsensum: «...null’altro rende bella una certa cosa se non la presenza o la comunicazione del bello in sé o in qualunque altro modo si ponga questa relazione». M i sembra più opportimo (e assai più semplice) accettare la correzioneupoayeyopei'ou (proposta da R . H a c k f o r T H , Plato j'Phaedo cit., adloc., e accolta fra gli altri da Ch.J. R o w e , Plato, Phaedo, by Ch.J. R o w e , Cambridge, Cambridge Univ. Press 1993, 82), participio aoristo neutro dello stesso verbo rrpoaytyvopaL declinato al genitivo singolare, che puo accordarsi con il precedence èiceLvou toû KaXoü (avremo cosl: oùk âXXo ri Ttoieî aÙTÔ KaXàv rj f) ètceluou toû KaXoû cire uapowta d re Kon'owla eïre ottt|8fi Kal ottos' TTpocryeuopei'ou) con la traduzione proposta sopra. Non mi pare invece appropriata la congettura TTpocrayopeuop-éi’T) proposta da Wyttenbach e accolta da aicuni editori.

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L’ipotesi della partecipazione fra le cose empiriche e le idee si basa insomnia suil’esplicito riconoscimento che le idee sono «cio in virtu di cui» (to) le cose empiriche possiedono certe caratteristiche o la «causa» (a ’l T ia ) della loro essenza e delle loro qualita16: tuttavia, un simile assunto rimane evidentemente assai vago e indefinite finche non sia stato precisato come e in quali forme si esplichi effettivamente la causalita delle idee rispetto alle cose. Per il momento, mi limitero quindi a constatare soltanto che nelle opere giovanili, intermedie e della maturita sono ampiamente attestate, Puna accanto all’altra e con pari legittimita, una versione concreta e ‘forte’ e una versione ‘debole’ e sostanzialmente metaforica della Nella sua versione ‘forte’, la partecipazione delle cose empiriche a un’idea implica che l’idea sia «presente» (Trdpeoriv; eveoriv) nelle cose partecipanti o ad esse «aggiunta» (rTpocryev'Ojiev'ri) e che le cose, di conseguenza, «abbiano» (exo w iv) ° «ricevano» (8^xoiyTa0 questa idea: per esempio, tutte le cose empiriche belle si rivelano belle in quanto, essendo il bello in se «presente» in esse o ad esse «aggiunto», «hanno» o «ricevono» la bellezza17. Nella sua versione ‘debole, invece, la partecipazione consiste nella «somiglianza» ( to lo i) to v ... otov ... etvaL; eiicdCav) delle cose empiriche a un idea. In tal caso, le cose si riducono a «copie» o «immagini» (jiLjifijiaTa; elKoves"; o^oiiVara) di quell’idea, che, delle cose, costituisce a sua volta il «modello» originale (TTapd8eLyp.a): per esempio, tutte le cose empiriche sante possono essere definite sante poiche «assomigliano» al santo in se come «copia» al suo «modello» e sono «tali e quali» ad esso18. 16 Per l’impiego di queste espressioni nei dialoghi platonici, cfr. per esempio Hp.M a. 287c l-d3; 289d2-8; Euthphr. Phd. 100c3-d6; 100d6-8; 102cl-d2. Sul ruolo delle idee come ‘cause’ dell’essenza e delle caratteristiche delle cose empiriche e di fondamentale importanza il celeb re saggio di G. V lastos, Reasons an d causes in the Phaedo, in «PhR», LXXVIII, 1969, 291-325 (riedito in Plato I: Metaphysics and epistemology, cit., 132-166; e in G. VLASTOS, Platonic studies cit., 76-110), che discutero approfonditamente nel § 4 del cap. V III. 17A questa concezione ‘forte1della partecipazione fra le cose empiriche e le idee, assai vicina al significato letterale e concreto dei verbi p.erexeu', ¡j.eTa\a|i|3di,a i' e Koi.vweii' (= ‘avere parte in’; ‘essere in comunicazione’ o 'condividere con), si fa riferimento in Hp.M a. 289d2-8; 292c9-d3; 300a9-b2\Euthphr. 5d l-2; Phd. 100d46; 104b6-cl; 104e7-105a5 ; Smp. 211b2-5. L’esempio citato e tratto da Hp.Ma. 292c9-d3; 300a9-b2. 18 Questa concezione ‘debole’ della partecipazione come ‘somiglianza’ delle cose empiriche alle idee e attestata in Euthphr. 6e3-6; Phd. 76d7-e4; R. X 597al-5; Phdr. 250a6-b5; 250el-251a7. L’esempio citato e tratto da Euthphr. 6e3-6.

LE ¡DEE E LE CO SE EM PIRICHE

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Al di la di questa distinzione schematica, nessuna indicazione nei dialoghi induce a propendere per l’una o per l’altra concezione della (ié0e^LS': rimane dunque da capire in che modo le idee possano essere presentí’ nella sfera sensibile o assomigliare’ agli enti spazio-temporali e se non vi sia una reale e profonda contraddizione fra le due diverse modalitá del rapporto partecipativo. Del resto, giá a prima vista, il principio stesso e la possibilita della partecipazione sembrano esposti a non poche difficolta: se ogni idea é l’unitá intellegibile auto-identica ai di la della molteplicita sensibile ( t ó . . . ¿ ttí TTctoiv t o ú t o l s * T a í r r ó v ) 19, come potra essere contemporá­ neamente presente’ in una pluralitá di cose partecipanti? Inoltre, se le cose empiriche in divenire e le idee pienamente essentí sono affette da una radicale e reciproca diversitá ontologica, come potranno assomigliare’ le une alíe altre? E infine, come concillare in generale l’ipotesi di una relazione fra i due mondi, comunque ven­ ga concepita, con l’assunto della loro assoluta separazione? A questi ínterrogativi essenziali e ineludibili cercheró di rispondere piü avanti con gli opportuni riferimenti critici e testuali20.

3. II divenire, l’apparenza e il nulla assoluto Bisogna affrontare brevemente un ultimo problema relativo alía natura e alia condizione del mondo sensibile. Abbiamo visto che, in quanto costituiscono un piano di realtá parallelo e simmetrico alia sfera dei generi, le cose empiriche rappresentano il pendant ontologico delle idee: d’altra parte, divenendo sempre senza essere, devono partecipare delle idee per acquisire un’essenza determinata, ií nome e íe caratteristiche che sono loro normalmente attribuiti

19 Si veda in proposito il § 1 del cap. IV. Cfr. inoltre Men. 75a4-5; R■V 476a47; X 597cl-d 3; Phdr. 2 49b 6-cl; ma soprattutto, come vedremo nel § 1 del cap. VIII e nel § 2 del cap. XII, Prm. 131a7-8; e3-4; 132al-7; Pblb. I4c7-15c3. Come é noto, proprio in questi termini Aristotele introduce (e critica) la posizione di Platone: ammettere l’esistenza delle idee significa porre «un3unitá separata oltre la molteplicita» ( er eul tt o X X o l s 1) , cfr. D e ideis, 80, 8-15; Metaph. A, 990b7-8 sgg.; 991a2; Z, 1040b29 sgg. Su questo aspetto della critica aristotélica a Platone, rinvio a W. L e s z l , II De ideis di Aristotele cit., 141-171, e úYAppendice III, § 2. 20 Per l’analisi e la definizione delle modalitá del rapporto partecipativo fra le cose empiriche e le idee, rinvio ancora al cap. VIII. t ó

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nell’esperienza comune. Ma, al di fuori della relazione con le idee, quale e lo statuto ontologico delle cose empiriche in divenire? La questione e assai piii complessa di quel che potrebbe apparire a prima vista, se, fra gli interpreti, e emersa la tendenza, esplicita o implicita, a ricondurre ii perenne divenire del mondo sensibile nell’ambito del non essere, identificando di conseguenza le cose empi­ riche ‘in se’ con il nulla assoluto. Alcuni studiosi hanno infatti sostenuto la tesi che alle cose appartiene una condizione di pallida e indiretta somiglianza rispetto ai generi, proprio come un ‘riflesso’ o u n ‘ombra’ a cui non si addice in nessun mo do lo statuto di ente neanche minimamente esistente21; secondo altri invece, mentre le idee esistono senzaltro in se e per se (ai;Ta Ka0’airra) e separatamente (xwpis1) dalle cose empiriche22, delle cose e legittimo affermare esclusivamente che sono cio che sono in virtu delle idee (etSeaiv) o rispetto alle idee ('rrpos' el8r\), ma non che esistono separatamente (xwpi.9) dalle idee23. In entrambi i casi, viene suggerita una concezione rigorosamente ‘asimmetrica della relazione fra le idee e le cose empiriche, che induce a considerare Tesistenza e la natura delle cose tout court sempre e sokanto in funzione delle idee: indipendentemente dalle idee e dalla partecipazione ad esse, le cose coinciderebbero percio con il nulla assoluto24. 21 Cfr. specialmente R.E. Ai.LEN , Participation an d predication in Plato’s middle dialogues, in «PhR», LXIX, 1 960,147-164 (riedito in Studies in Plato s metaphysics cit., 43-60, in particolare 56-59). Per una verifies della posizione di Allen rispetto alia relazione fra le idee e le cose, canto dal punto di vista ontologico delia partecipazione, quanto dal punto di vista logico della predicazione, rinvio al § 3 del cap. VTII e al § 3 del cap. X. 22 Sullo statuto ontologico delle idee, cfr. soprattutto il § 1 del cap. IV. 23 II riferimento e in particolare a G. VLASTOS, Separation in Plato cit., 187-196. Tornero con maggiore attenzione sulla tesi di Vlastos, qui appena tratteggiata, nel § 3 del cap. XI. 24 Questa interpretazione presuppone evidentemente una concezione 'estensiva’ del rapporto partecipativo fra le cose empiriche e le idee: attraverso la partecipazione, infatti, le cose acquisterebbero dalle idee non solo un'essenza determinata, il nome e le caratteristiche normalmente attribuiti loro, ma Tesistenza tout court, a ogni livello e in ogni sua forma. Se il mondo sensibile nel suo insieme non e altro che un’‘ombra\ un ‘riflesso1 o un^immagme1 della sfera dei generi e se, come un’ombra, un riflesso o un’immagine, non esiste ‘in s6 e per se’ e ‘separatamenre’ dalle idee, cosa si potra dire dello statuto ontologico delle cose empiriche in divenire, se non che, considerate di per se ed esclusivamente rispetto a se stesse, esse si riducono al nulla assoluto, alia semplice assenza del non essere?

LE IDEE E LE CO SE EM I’IRICHE

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Senza intraprendere per il momento una verifica dettagliata di questa ipotesi interpretativa, delle sue ragioni e delle sue implicazioni25, é necessario rilevare fin d’ora Tambiguitá e la duplicitá essenziale che, nella prospettiva platónica, assumono il concetto di esistenza e il fatto stesso di ‘esistere (o di ‘essere: elvai): se con esistere’ si intende fare riferimento alí’esistenza piena e compiuta delle idee eterne, immobili e immutabili, alíora, indubbiamente, sará impossibile ammettere che íe cose, empiri che esistano dawero, se non, parzialmente e imperfettamente, in virtu delía partecipazione alie idee e come loro ímmagine sfocata e confusa. Tuttavia, F'esistere’ allude puré, secondo Platone, alia condizione di semplice sussistenza degli enti vincolati alia generazione e aíla corruzione, che, pur costituendo una forma ‘bassa’ e forse impropria di esistenza, non si riduce pero all’assoluto non essere. Occorre tenere ben presente questa distinzione visto che Platone, anche quando sottolinea - e perfino enfatizza —la ‘minoritá’ ontoíogica deile cose em­ piriche, affermando che divengono sempre senza essere un V i’ determinato, che si rivelano «manchevoli e imperfette» (é v S e é a T e p a ) rispetto alíe idee26 e che la percezione sensibile ha un valore neanche lontanam ente paragonabile a queílo della conoscenza intellegibiíe delle idee27, anche in tal caso dunque, egíi non giunge mai a sancire Teffettiva coincidenza delle cose con il non essere e con ií puro nulla. Anzi, in R. V 4 7 8 e l-4 7 9 d l, Túnico passo dei dialoghi realmente esplicito in proposito, viene stabilito con chiarezza che la sfera empírica e sensibile occupa di per sé una posizione intermedia e mista fra essere e non essere (0éaiv ... |ieTa£u oúaías' Te Kai rov jj.fi elvai) che non si lascia in nessun modo confondere con il non essere di ció che non é affatto, né daí punto di vista ontologico né daí punto di vista epistemoíogico del genere di co­ noscenza che le si addice. In altre parole, prima di partecipare delle idee (o indipendentemente dalla partecipazione alíe idee), le cose possono essere raffigu-

25 AfFronteró dettagliatamente la questione nel contesto piü ampio dell’indagine sulla dottrina platónica della partecipazione e della predicazione e sul suo signiñcato filosofico nei capp. VIII, X e XI. 26 Cfr. per esempio Cra. 4 3 9 e l-2 ; Pbd. 74a9-75b2; e il § 1 di questo cap. V. 27 Cfr. il § 5 del cap. VIII e il § 3 del cap. IX.

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F R A N ΠS C O FR O N TERO TTA

rate esclusivamente corne un sostrato’ di materia informe e priva di determinazioni, che perô, benché dominato dall’inarrestabile divenire e dalla debole apparenza dei simulacri e delle ombre, non si identifica per questo con la semplice assenza o con il Vuoto’ ontologico délia radicale privazione d’essere28. In virtù. délia partecipazione ai generi ideali e in seguito ad essa, invece, pur rimanendo enti materiali in divenire, soggetti alla nascita e alla morte, alla composizione, alla decomposizione e alla continua trasformazione, le cose empiriche assumono tuttavia, parzialmente e imperfettamente, tutte le determinazioni che derivano loro dalla relazione con le idee e ricevono cosi quella forma solo parzialmente e imperfettamente ordinata che l’esperienza comune riconosce nel mondo sensibile29.

4. Conclusione: la formulazione délia teoria delle idee E opportuno presentare infine una rapida e sintetica ricapitolazione delfindagine svolta in questa Parte prima sull’origine e sul significato délia teoria delle idee attraverso le indicazioni fornite

2S Secondo questa interpretazione, attraverso il rapporta partecipativo le cose traggono dalle idee un’essenza determinata e le loro propriété, ma non l’esistenza tout court, de! resto, da un punto di vista logico e fîlosofico, se le cose empiriche coincidessero con il nulla, come riuscirebbero a parrecipare delle idee? In che modo insomma cio che non è afïatto potrebbe costkuire un ‘qualcosa’ esistente in relazione con le supreme realtà? 29 Le indicazioni più significative in proposito si trovano ancora nel Timeo, dove, per ben cinque volte (27d5-29d3; 48e2-49a6; 50c7-d2; 51e6-52b5; 52d3), Platone descrive ]a struttura e la forma délia realtà nel suo insieme. Senza addentrarmi in un’analisi dettagliata di questi difficili passi, mi limita ad osservare soltanto che mai la sfera empirica viene identificata con la semplice assenza de! non essere e del nulla né è formulata l’ipotesi che essa sia stata creata ex-nihilo: al contrario, bisogna supporte Tesistenza di un ‘sostrato’ materiale informe, caratterizzato essenzialmente dal dive­ nire (ro S è ... aia9r|TÔv, yeFvriTÔF, Trej’ («separazione» o «separatezza»)

l ’eSAM E D E LIA l'E O R IA DELLE IDEE NEL PARM ENIDE

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(3) La realtà delle idee è conosciuta con il ragionamento e con il pensiero (Xoyicr|i¿j; Xóytj) e non con i sensi111.

D ’altra parte, è necessário che, benché originariamente separate, le idee siano presentí (éveîvai) nelle cose empiriche perché si apra il rapporto partecipativo (^é0e£ts') ^ T a X ^ iS “, Koivcovla): le cose partecipano { j i e T é x e t .v , |_ieTaXap,ß