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Italian Pages 183 Year 2009
Per una donna c'è una sola cosa peggiore della crisi dei trentanni: quella dei trentacinque. Geppi, attrice comica, donna con una vita sentimentale apparentemente appagante, lo sa bene. È in notevole ritardo sui suoi progetti di vita e dopo due anni di relazione a distanza si trova ancora alle prese con Michele, conosciuto in Meglio donna che male accompagnata. Intelligente, ironico e abbastanza in carriera, senza ex fidanzate psicolabili nell'armadio, quest'uomo sembra avere tutti i requisiti per renderla madre e moglie. Nota stonata di questo romantico fidanza-mento il fatto che Michele non ha mai pronunciato le parole "io", "te", "per sempre", "bambini" nella stessa frase; e a Geppi questa mancanza di progettualità comincia a pesare. Lui, a Las Vegas per questioni di lavoro, le ha appena fatto recapitare un biglietto aereo per raggiungerlo, accompagnato da tre invitanti parole: "Vola da me". Quale destinazione, poi, meglio di Las Vegas per capire se questa relazione è un bluff oppure no? Nella capitale del vizio, però, fa la sua comparsa un terzo giocatore che prende malignamente le sembianze di una notevole, competitiva e sfrontata architetto di venticinque anni, Erika, figlia del padrone dell'azienda di cui Michele è il miglior interior designer. Dall'indesiderato ménage à trois si snoda una bizzarra avventura amorosa, fatta di allegre strategie di seduzione, slanci d'affetto e pensieri di violenza pura. Per fortuna, Geppi non è sola. Al suo fianco, come sempre, ci sono Stefania e Lucia, le amiche d'infanzia trapiantate come lei a Milano dalla Sardegna. Saranno proprio loro a supportarla in questa lotta, tra incontri con personaggi assurdi e sconvolgimenti nel quadrilatero più trendy mai concepito: Milano, Austin, Las Vegas e Macomer. In copertina: Foto ©Efrem Raimondi
***Regina Bianca***
«Meglio un uomo oggi» di Geppi Cucciari Mondolibri S.p.A. Finito di stampare nel mese di luglio 2009 per conto di MONDOLIBRI S.p.A., Milano presso MONDADORI PRINTING S.p.A. Stabilimento N.S.M. - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy Fresca come Sophie Kinsella, brillante come Sex and the City al Martini dry, Geppi Cucciari diverte, coinvolge e svela quant'è faticoso, al giorno d'oggi, trovare un uomo e condurlo all'altare senza ricorrere all'ipnosi. Geppi Cucciari (Cagliari, 1973) è attrice comica di Tv e cinema. Da quattro anni tiene una rubrica sul settimanale "Donna Moderna". Per Kowalski ha pubblicato Meglio donna che male accompagnata. ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGETTO GRAFICO: NADIA MORELLI
Geppi Cucciari
Meglio un uomo oggi
© 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Edizione Mondolibri S.p.A., Milano su licenza Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano www.mondolibri.it
Meglio un uomo oggi
A Itria, Giorgio, Carlo, Franco e Rosaria: hanno messo al mondo chi ha reso più bello il mio. E a mio marito, ovunque sia.
Secondo la tradizione popolare diversi elementi hanno un ruolo importante il giorno del matrimonio. Assolta la pratica relativa al rinvenimento dell'uomo da maritare, la sposa per essere certa di essere baciata dalla fortuna dovrebbe indossare una cosa blu, una prestata, una nuova e una vecchia. Se il giorno del matrimonio di una donna è talmente atteso da farle rischiare che la cosa vecchia sia proprio lei, tutto può sembrare diverso.
Uno La sera del nostro appuntamento arrivo quasi puntuale al ristorante in cui Lucia e Stefania mi aspettano. Sono sedute l'una di fronte all'altra, a un tavolo appartato, mute e con espressione quaresimale. Le mie amiche, sarde come me e come me a Milano da anni, sembrano una coppia di fidanzati in crisi fuori a cena al ristorante, che aprono la bocca solo per mangiare e parlare col cameriere. Appoggio il sacchettino di plastica della farmacia sulla tovaglia. Lucia non lo degna di uno sguardo, si limita a fissare il vuoto. E vuoti sono i due cestini del pane di fronte a Stefania, testimonianza del fatto che a lei neppure le preoccupazioni tolgono l'appetito. Anzi: noto che non disdegna di inumidirsi il dito e picchiettarlo sul tavolo per farci restare attaccati i semi di sesamo sparsi sulla tovaglia, e mangiare pure quelli. Con un inconfondibile, secco movimento laterale della testa faccio loro cenno di seguirmi. Ci chiudiamo nell'antibagno: una cosa normale, per tre donne con un problema. Sbatto la porta in faccia a una ragazza che tenta di entrare e restiamo sole. «Ma scusate, siete sicure che sia il caso di farlo qui, nel bagno di un ristorante... non sarebbe meglio andare a casa?» commento incerta. «Senti, non so tu, ma io non resisto più. Vi ho aspettato perché da sola non ce l'avrei mai fatta, ma ora basta» risponde Lucia. «Per carità, Stefi, apri quella busta...» «Come volete.» Stefi afferra il pacchetto e inizia a scartarlo, e mette subito da parte l'aria mèlo per intraprendere un percorso un po' leggero. «Signora, in cambio di questa busta io le offro un bel vaso cinese...» «Stefi! A parte che non è una busta, e poi non vedi com'è agitata?» La rimprovero per evitare che Lucia le metta le mani al collo, e mi accontento di ridere sotto i baffi (e vorrei fosse solo un modo di dire).
Stefi si pente subito: «Hai ragione, scusa Luci». Luci, stizzita, le strappa di mano la confezione e me la porge. Io non tergiverso, la apro, estraggo lo stick e lo porgo a Lucia. Lei lo prende ed entra in bagno. Cerco di tranquillizzarla: «Stai calma, sai già come si usa, no? Allora, devi fare la...» «Sì, so cosa devo fare, grazie» mi interrompe lapidaria lei. «Torno subito.» Mentre Lucia si apparta, Stefania mormora: «Io sarei felicissima!» poi prende le istruzioni e inizia a leggere ad alta voce: «Allora, vediamo un po'... il test identifica nell'urina un ormone che il corpo produce durante la gravidanza, la... gonadotropina corionica umana, già dal primo giorno di ritardo del ciclo e quindi a pochi giorni dal concepimento... Interessante...» Poi, rivolta verso la porta del bagno, alzando il tono di voce: «Luciaaa, tu lo sai quando avete concepito?». «La smetti di gridare, Stefania?» strilla lei da dietro la porta. Stefania continua abbassando il volume, ma neanche tanto: «Allora, in pratica... una tacca verticale vuol dire che rimani da sola, due che noi siamo zie! Che bello! Come lo chiamiamo? Annibale? No, anche se è promettente... Magari meglio un nome francese tipo Jéròme, quello di Primi baci... elegante e discreto, che dite? A me piacciono i nomi strani...» La ignoro e mi concentro su Lucia che esce dal bagno, posa lo stick sul lavabo e si accende una sigaretta. «Ahi ahi, signorina! Con quelle hai chiuso d'ora in poi, fanno male alla mamma e al bambino, dammi qua! E poi in bagno non si fuma, non sei mica al liceo» continua Stefania strappandole la sigaretta di mano e spegnendola sotto l'acqua del rubinetto. «La prossima volta che lo fai, ti spacco la faccia» la minaccia Lucia. Stefi la liquida senza ulteriori spiegazioni e mi vedo costretta a intervenire per tentare di ripristinare un clima di serenità.
«Ehi, Gabibbo, a chi vuoi spaccare la faccia? E poi sappilo... ha ragione Stefania, devi stare attenta nel caso tu sia... insomma... Niente fumo e dieta ferrea. Se no finisci come mia madre. Quando mi aspettava ha messo su ventun chili, poi sono nata, ne ha persi otto, e gli altri sono restati a me.» Stefania, come di consueto, complica le cose. «Lucia, ti piace Eleonora come nome, in onore della nostra regina di Arborea?» propone, facendo riferimento alla più celebre e determinata tra le donne di Sardegna. «Andatevene! Ma non eravate qui per calmarmi? Non so nemmeno se sono incinta e voi mi state facendo diventare isterica. E poi, a te chi ti ha detto che è un maschio?» «Stefi, ha ragione Lucia, smettila... è questione di secondi, ormai» e mi avvicino allo stick studiandolo con rispettosa partecipazione. «Basta, non dite più niente... oh santi numi. E se fosse positivo... come lo dico a Tommaso?» esclama Lucia accasciandosi su una sedia. «Be', potresti regalargli un ciuccio» le risponde Stefania con un'euforia totalmente fuori luogo. «O mettergli in tasca un sonaglietto o, senti questa, è stupenda, l'ho vista in un film: porti a tavola un piatto con sopra la calotta d'argento e sotto gli fai trovare il test di gravidanza positivo, non è romanticissimo?» «Stefi... per favore» la interrompo io, mentre Lucia la fulmina con lo sguardo. «Non credo intendesse questo...» Solo Stefi, dominata dal suo enorme desiderio di avere un bimbo accanto (anche non suo), sembra non capire la gravità della situazione. Al momento c'è poco da abbandonarsi a entusiasmi legati all'eventuale maternità. Lucia, da qualche mese, ha avuto il classicissimo ritorno di fiamma per il vecchio fidanzatine del liceo. Lui, arrivato a Milano per lavoro, ha avuto qualche problema ad ambientarsi. Lei gli ha dato una mano a trovare casa, gli ha consigliato un panettiere di fiducia e gli è stata molto vicina. Anche troppo evidentemente. Nonostante si conoscano da vent'anni, l'idea di fare un figlio insieme in questo momento è remota, per entrambi.
«Lucia, sono passati tre minuti, vado?» chiedo avvicinandomi al piccolo oracolo. «Vai» dice lei sospirando, ma non ho ancora fat¬to un passo che la sento gridare: «No! Un attimo! Mi promettete che mi aiuterete, mi starete vicine e accorrerete se piangerà tutta la notte?». «Solo se tu prometti che non parlerai tutto il tempo di meteorismo della creaturina, di consistenza delle feci e di prezzo del latte artificiale... E poi smettila, non siamo in clinica allo scadere del nono mese; hai un ritardo di quindici giorni, vedrai che andrà tutto bene. Tra l'altro, scusa se te lo faccio notare: le donne incinte, lo dicono tutti, sono più belle del solito, invece... insomma, stai tranquilla.» Prima che lei possa ribattere, con passo fulmineo afferro il test e guardo la fatidica finestrella. Incredibile come un piccolo segmento azzurrognolo sia in grado di cambiare radicalmente la vita di una donna...e di un uomo, peraltro in questo momento ignaro di tutto e probabilmente disteso sul divano di i asa sua a guardare Prison Break. Lucia mi guarda implorante e Stefania, come al solito, è ipereccitata e sorridente. Non tergiverso: «Amica mia, tu non sarai madre, non a breve intendo, o naturalmente tu, Stefi, non sarai zia.» Lucia resta impietrita. Ma non sei contenta? Meglio così, no?» le faccio io stupita. Ancora nessuna reazione. «Lucia! Lucia! Ti prego, dì qualcosa!» «Avevo pure trovato il nome definitivo: Eusebio...» sussurra Stefania che ormai parla da sola. «Sì sì certo, meglio così... però un po' mi dispiace... in fondo.» «Ti dispiace cosa? Stai vaneggiando, dev'essere il calo di zuccheri, andiamo a mangiare, vedrai che torni in te... ti ricordo che abbiamo sempre detto: prima un marito, poi un figlio, no?» La trascino fuori dal bagno e riprendiamo posto al tavolo cercando di darci un tono.
Lo stress accumulato si scioglie, lascia spazio a un sano appetito e riusciamo a distrarci e a parlare d'altro. «E quindi domani la signora parte...» riprende Lucia mentre si gode il tiramisù della casa. «Eh già, un giorno qui, un giorno là, come una rappresentante.» «Non sei contenta di rivedere Michele?» mi chiede Stefi. «Sì, ma è chiaro che così è tutto bello: ci vediamo sempre poco e in posti meravigliosi. Ci sono tante cose che non so di lui, e lui non sa come sono io nella vita quotidiana... Ignora che non sono capace di programmare il videoregistratore, che quando esco di casa torno indietro almeno una volta perché ho dimenticato qualcosa e che faccio sempre scadere le bollette. Ci sono uomini che per cose del genere possono diventare pazzi...» «Goditi questi giorni. Avrai tempo di pensarci; ora cerca di partire tranquilla» mi consiglia Lucia. «E tu cerca di non farti mettere incinta davvero prima del mio rientro. Hai mai sentito parlare di contraccezione?» «Stupida...» Ci salutiamo poco prima di mezzanotte, io il mattino dopo ho un volo da Milano Malpensa per Las Vegas, dove in questo momento si trova appunto l'uomo entrato da più di un anno nella mia vita, per caso, e poi invitato a restare. Una gita fuori porta per me sarebbe stata più che sufficiente, ma lui da qualche tempo, per lavoro, è nella terra natale di Paolino Paperino, e alcuni giorni fa mi ha fatto un'offerta impossibile da rifiutare: un biglietto prepagato accompagnato solo dalla frase "Vola da me, ti aspetto". Potrei mai deluderlo? Questo significa per me anche un'altra valigia da preparare, un altro aereo da prendere e, in prospettiva, un altro hotel dove dimenticare qualche mio effetto personale. Guidando verso casa nel placido traffico apprezzo la quiete che Milano possiede solo di notte, d'estate e durante le vacanze di Natale.
Quando la città è vuota e silenziosa il suo fascino si fa avanti con eleganza discreta; in più, se guidi senza temere che una macchina ti centri o un pedone ti compaia davanti dal nulla, hai anche modo di riflettere. Così mi ritrovo a pensare che forse a Lucia questa gravidanza non sarebbe poi dispiaciuta così tanto. Eppure fra noi tre è sempre sembrata la meno interessata all'argomento figli. Stefania, una volta, in un eccesso di lungimiranza, ha comprato una tuti¬na bianca 0-3 mesi, e io da parte mia ho già scelto il nome del primogenito, ma fino a oggi tutte e tre abbiamo sempre incontrato uomini ancora troppo figli per diventare padri. Certo, se l'esito del test fosse stato positivo avremmo dovuto procurarci un ettolitro di ansiolitici per il padre di Lucia, prima di comunicargli la notizia. Nei paesi di poco più di diecimila abitanti (in Sardegna, e non solo) una figlia incinta senza marito è sempre una notizia di bellezza opinabile. I nostri genitori ci avevano rese partecipi di come, a cascata, tutte le nostre compagne di scuola rimaste in Sardegna si erano già sposate e avevano già messo al mondo dei figli. Alcune si erano pure già separate, e mentre loro sbrigavano i carteggi del loro primo divorzio, nessuna di noi tre era mai giunta neppure alle pubblicazioni in Comune. Lucia, dopo lunghi e brevi affaire intrattenuti con uomini sentimentalmente non disponibili, si era ritrovata stupita al punto di partenza, dividendo i suoi giorni e le sue notti in compagnia del primo uomo di cui si era innamorata e con cui aveva festeggiato il diploma liceale. Dopo diciannove anni da quell'estate, quello stesso uomo le aveva fatto accarezzare per qualche minuto l'idea di poter essere anche il primo a renderla madre. A giudicare dalla sua reazione, e visto il suo timore di aver iniziato la discesa in picchiata verso i quaranta, questa possibilità non le aveva fatto poi così tanta paura. Anzi. Questa eventualità porta pure me a pormi tante graziose domande. Cosa sarei disposta realmente a fare io per mettere su famiglia e, soprattutto, per tenermela? A cosa davvero potrei rinunciare per il mio principe della collina?
Prima sembrava tutto così facile: le donne erano nubili o coniugate. Ci si fidanzava, ci si sposava e poi si creava una famiglia. Adesso tutto è molto più complicato. Si può essere tante cose: fidanzate semplici o conviventi, separate in casa o in attesa di divorzio, mogli con o senza rito religioso, signore o signorine. Io appartengo ancora alla categoria delle signorine che non vogliono essere chiamate signore solo perché "signorina" sembra desueto. Non lo è affatto. Già è tutto così difficile, ci manca pure si mettano in giro voci tendenziose e false. Io sono una signorina. E non voglio un compagno - troppo partigiano - o un partner troppo commerciale - e neppure un adolescenziale boyfriend. Voglio soltanto un uomo che desideri le stesse cose che voglio io e che decida di averle con me. È Michele costui? 0 invece lui sta bene così e "non si sente di fare progetti perché preferisce vivere alla giornata"- frase che tutti gli uomini hanno pronunciato almeno una volta provocando innegabili scompensi nella vita delle donne cui questa frase era rivolta. Tergiversa? Cerca consapevolezze? Tituba? Riflette? Non parla di figli perché è troppo presto o perché è troppo tardi? E io che faccio? Vivo o vegeto? I miei pensieri burrascosi si fanno sempre più temporaleschi e infine arrivano alla conclusione di sempre. C'è solo una cosa peggiore di avere trentacinque anni ed essere single: avere trentacinque anni e stare con un uomo che trova l'idea di un figlio attraente quanto quella di seguire un corso serale di uncinetto. Se sei sola e non hai quello che vuoi, conosci almeno il motivo del tuo dispiacere. Ma se non hai quello che vuoi anche con qualcuno accanto, la faccenda diventa più delicata. Michele non lo sa, ma lui è come la certosa spalmatale, e ha una scadenza. Se entro la fine dell'anno non usa nella stessa frase le parole "nozze", "insieme" e "per sempre", io getto la spugna. Mi riservo di stabilire più in là con quanto vigore scagliarla, e dove.
E se con Michele ho dubbi spazio-temporali, c'è un lato della mia vita che non mi procura alcuna incertezza e riguardo al quale posso usare l'espressione "per sempre", senza timore di smentite. Le mie amiche, quelle sì che sono per sempre. Secondo alcuni gli amici si vedono solo nel momento del bisogno, quando la vita smette di sorridere e la buona sorte volge il suo sguardo altrove. Capita a tutti di sentirsi baciati dalla fortuna quanto il dolce Remi, celebre homeless dalle caviglie molto gonfie e proprietario di Joli Coeur, l'unica scimmietta morta di broncopolmonite nonostante un carinissimo cappottino regimental. Ma l'amicizia è ben altro. Le amiche si riconoscono quando tutto va bene, quando sei felice come pensavi non fosse neppure possibile, ed è evidente che loro sono davvero in grado di dividere questa gioia con te. Partecipiamo delle rispettive soddisfazioni, ci dividiamo le preoccupazioni e siamo capaci di rimproverarci l'una con l'altra senza contraccolpi per l'auto-stima. Loro sono nel mio presente e hanno un posto speciale nei miei ricordi. Entrambe molto più graziose, padrone di due tipi di fascino diverso, indipendenti economicamente ed emotivamente. Lucia, donna intensa nei contenuti fisici e non, con quell'anno in più di me che me l'ha fatta sempre vivere come la sorella maggiore mai avuta. Stefania, dolce, sognante, bionda, alta, magra e nonostante tutto quésto adorabile. Qualche anno fa, giocando insieme al celebre "Nomi-città-fioricantanti", abbiamo aggiunto la voce "Cose fatte insieme". Ho incorniciato e appeso in soggiorno quei foglietti; sembrano le memorie di tre quindicenni mescolate al curriculum di esperte malviventi. È risultato che insieme abbiamo: danzato, mangiato, nuotato, viaggiato, lavato la macchina, cantato, cucinato, fatto la spesa, visto film strappalacrime. Ma anche: mentito, malmenato a Ferragosto un giovine reo di averci gavettonate, occultato cibo in un albergo di lusso, osteggiato fidanzamenti, teso trappole per vendicare ingiustizie sentimentali e ordito trame ai danni di ex fidanzati ingrati. Ogni definizione è valsa dieci punti. Le risposte non si sono mai sovrapposte. Solo la lettera "R" ci ha dovuto far accontentare di cinque punti. Tutte e tre abbiamo scritto "riso molto".
Lucia e Stefania sono amiche con tutte le lettere maiuscole. Tra noi c'è un profondo rispetto e sono sicura che non mi pugnalerebbero mai alle spalle, stringendomi in un finto abbraccio degno di Stephanie Forrester il giorno del settimo matrimonio di Brooke Logan con Ridge Marone, il figlio da lei concepito in una notte di bagordi con Massimo. Tra noi la parola invidia non esiste, non litighiamo mai né alziamo la voce l'una con l'altra, a parte quando Lucia sbarca con un solo paio di scarpe adorabili, risultanti poi pagate sette euro in un mercatino della Bassa Brianza, senza comprarne un paio pure per noi. Ringrazio ogni giorno il cielo per avermele mandate. Milano senza di loro sarebbe stata l'unica città di pianura piena di faticosissime salite.
Due Avete mai provato l'esperienza di avere un aereo che parte alle sei e trenta del mattino, puntare la sveglia, non sentirla - oppure sentirla e spegnerla nel dormiveglia (eventualità che si equivalgono) - e riaprire gli occhi alle sei e trenta precise, realizzando così che, mentre nel vostro aereo le hostess sorridono mostrando le quattro uscite di sicurezza, voi non siete ancora al primo caffè nella vostra cucina? Io sì. Da allora, ogni volta che ho un volo di primo mattino passo tutta la notte svegliandomi a intervalli di venti minuti, col cuore in gola, sognando aerei, elicotteri, idrovolanti, mongolfiere e ogni altro genere di velivoli che decollano senza di me verso mete incantate. Per non correre rischi inutili, con un anticipo altrettanto inutile e le occhiaie delle grandi occasioni, io e il mio taxi dal nome vincente Aquila 13 - facciamo la nostra comparsa a Malpensa 2. Mi dirigo con sicumera al check-in sperando che tutto vada per il meglio: se viaggi da sola la qualità della trasvolata è più che mai riposta nelle mani del destino. Puoi trovare un vicino di posto piacente e simpatico, ma anche uno che soffre di solitudine, vede in te l'amico che non ha mai avuto e ti snocciola aneddoti che datano dalla sua adolescenza in poi. L'elemento peggiore in cui posso incappare personalmente è il tipo petulante che mastica il chewing-gum con la bocca aperta: pochi minuti dopo il decollo si realizzano gli estremi per soffocarlo col giubbotto salvagente. Un'alternativa meno cruenta è puntargli contro la gola, mentre dorme, i bocchettoni dell'aria condizionata, per farlo risvegliare afono. Se anche mi dovessero beccare, sarebbe legittima difesa. L'aereo porta con sé anche un altro vantaggio, ultimo flebile baluardo del potenziale silenzio dopo la conquista anche delle linee metropolitane milanesi da parte dei ripetitori: resta l'unico posto al mondo dove ancora non si viene disturbati da suonerie polifoniche con tamburi e clavicembali, miagolii molesti, canzoni da rassegna neomelodica.
A parte questo, un viaggio in aereo, soprattutto se transoceanico, può essere una dura prova. Ti ricorda che la vita è difficile ed è fatta di continue scelte. Ti fanno tutti un sacco di domande a soluzione binaria e devi prendere di continuo piccole e grandi decisioni: prima classe o seconda, finestrino o corridoio, caffè o tè, snack dolce o salato, menu pollo o pesce, documentario sui ponti in Tibet o esilarante edizione polacca di Scherzi a parte? Inoltre - per chi come me sa a memoria le prime quattro serie di Lost - la sindrome da volo Oceanie 815 è sempre in agguato. Mi accomodo al mio posto, in attesa di conoscere l'esito del totovicino, e inizio a guardarmi attorno. È bene inquadrare tutto l'equipaggio: personale di bordo e passeggeri potrebbero essere le ultime persone che mi frequentano o diventare i miei compagni su un'isola sperduta per il resto della vita. Cerco di individuare l'equivalente di Jack, il medico eroe che salva tutti, ma noto con dolore che nessuno presenta la benché minima somiglianza né con lui né con Sawyer, grande attore con ancora più grande muscolatura, che solo a vederlo dà quella pazza idea di poter spaccare in due una noce di cocco con la semplice contrazione dei pettorali. Il toto-vicino si conclude con l'unica fattispecie in grado di far vacillare il mio spiccatissimo (e autoalimentato) senso materno: prendono posto accanto a me una donna con un bambino prepotente, entrambi con tono di voce tipico di chi convive con un nonno. Dal look della giovane madre si evince subito la sua appartenenza a quella categoria di persone che usano lo specchio solo per truccarsi e non per darsi uno sguardo dalla vita in giù prima di uscire di casa. O magari un sortilegio ha reso fatato quello del lato interno del suo armadio e lei si percepisce diversamente, alta e magra, come nella casa degli specchi dei luna park. Non riesco a immaginare altri motivi per cui lei debba andare in giro con quei pantaloni a vita bassa, abbinati probabilmente alla sua statura, e quella maglia corta. I pantaloni le stringono all'altezza dell'ombelico, creandole temo anche dei problemi digestivi, e la pancia è sblusata con gusto.
Il giovanissimo esemplare maschile, sei anni suonati, a occhio, è vestito con maggior sobrietà della madre (non che ci voglia molto) e si agita entusiasta e scoordinato nel corridoio centrale. È carino e consapevole che i suoi sorrisi aprono le porte del cuore. Ma di entrare nel mio non se ne parla perché il suo esordio con me non è tra i più concilianti: «Tu sei quella grassa senza fidanzato della TV, vero? Mio padre dice che non capisci niente, che lui non è come dici tu, e che la mamma è fortunata.» Gli sorrido più arresa che convinta, mentre la "fortunata" cerca di sistemare nell'apposita cappelliera i bagagli a mano e mi guarda divertita: «Scusalo, sai, ha una lingua...» ma noto subito che l'impertinenza del minorenne è per lei fonte di grande orgoglio, perché ritenuta sinonimo di intelligenza. Equivoco in cui cadono in molti, anche da adulti. «Non ti preoccupare» sdrammatizzo.
Non parlerà per tutto il volo, vero? Ma lei ci tiene a far bella figura e non molla: «Salutala bene, Marco Junior.»
Marco Junior? Ah già, Marco Senior dev'essere quel misogino maschilista del padre. «Buongiorno signora, noi andiamo da mio padre, allora forse anche tu vai da tuo marito?»
Sì, ma lui non lo sa ancora... «Non proprio, vado un po' in vacanza...» «Ma le vacanze non si fanno da soli.» «Sì, ma anche un po' di solitudine non fa male, sai? Solo chi sta bene con se stesso può star bene con gli altri.»
Ma... che fai, filosofeggi con un mocciosetto sfacciato?
Fortunatamente la madre dell'enfant prodige interrompe questa analisi psicologica e, con la complicità di una PlayStation portatile, lo distrae e mi lascia ai miei passatempi da viaggio. Dopo otto ore di volo, due film e un pasto infausto, due parole crociate a schema libero, una cornice con¬centrica e un bersaglio, realizzo che mancano ancora tre ore all'atterraggio. Per distrarmi prendo il Moleskine che ho sempre con me, e decido di fare una cosa che non ha nessun senso, ma che in quel momento trovo stuzzicante: stilare l'ipotetica lista degli invitati al mio matrimonio, per valutarne numero e tipologia. Come da piccola mi trovavo a scrivere il mio nome seguito dal cognome del ragazzo che mi interessava - sperando di diventare la signora Smeraldi, o Valuti, o Orefici, e non la moglie di un Cagazia, Merdini o Pillittu - mi addentro in questo viaggio nel futuro, conscia sì del fatto che non ci sia alcun matrimonio in vista, ma non per questo privo di enfasi. Prendo un foglio, lo divido verticalmente in due, a destra scrivo il nome della sposa, a sinistra quel¬lo dello sposo. Dopo un elenco di tutti i parenti di primo grado e una lista dei classici amici sia miei sia di famiglia - che sarei costretta a invitare per non dare una scudisciata alla vita sociale dei miei genitori - mi concentro sulle testimoni: Lucia +1 e Stefania +1. Il famoso "+1" che qualche tempo prima ci aveva tanto messo in crisi. Colpa della nostra amica Monica, rimasta a vivere in Sardegna che, zitta zitta, aveva fissato le nozze con uno dei pochi scapoli appetibili del paese, invitandoci a presenziare con i nostri accompagnatori. Questo aveva attivato in noi un meccanismo di rivalsa, per cui - pur non possedendolo - avevamo in tutti i modi tentato di trovare un boy-friend che venisse con noi alla cerimonia. Dopo qualche abbaglio, per Lucia e Stefania si era risolto tutto in un nulla di fatto. Io invece, aiutata dalla sorte, avevo fatto un incontro irresistibile: italico maschio peninsulare di trentotto anni, automunito, contribuente eccellente (interior designer) e soprattutto libero e con un cuore capiente.
Tra l'altro, il matrimonio di Monica in realtà non era stato celebrato: il giorno delle nozze lo sposo, di fronte a due famiglie allibite e una sposa furente, si era dato alla macchia, per poi tornare implorante da lei dopo qualche tempo e, non senza fatica, convincerla a stare a sentirlo. Le ultime notizie ce li davano ancora in trattative. Di certo, a giudicare dall'invito che ci era giunto a casa in occasione delle nozze, la cerimonia sfumata sarebbe stata senza dubbio memorabile. La partecipazione era adornata da due tenerissimi coniglietti con le sembianze degli sposi. Gli oggetti scelti per la lista di nozze (tra cui spiccavano un mezzobusto in gesso e una lampada alta un metro fatta solo di conchiglie) erano un altro indice che la convinzione non fosse l'unico elemento a essere mancato a quella coppia. Anche la sobrietà era stata tenuta a distanza. Tra l'altro, in perfetto stile paesano, al pranzo di nozze erano state invitate quattrocentocinquanta persone, per evitare di offendere parenti fino al settimo grado e compari vari. Di solito quei matrimoni sono infiniti, contemplano sia balli di gruppo latinoamericani sia folkloristici sardi, prevedono il taglio della cravatta dello sposo (sordido espediente grazie al quale in cambio di un frammento di seta della medesima, gli invitati sono tenuti a versare un ulteriore dono alla coppia). Nel peggiore dei casi, questi cerimoniali si concludono col celebre e grezzissimo "piatto della sposa". Dietro questo dolce appellativo si nasconde un rito barbaro: alla fine del pasto, un gruppo di facinorosi cugini e vari amici dello sposo, di certo già oltremodo etilici, nel fragore di una sala vociante, conduce davanti alla sposa un vassoio coperto da un tovagliolo. La sposa lo solleva per svelare con finta sorpresa una composizione degna di Arcimboldo, il celebre artista che creava visi e corpi umani accostando frutta e verdura. Il punto è che qui non viene richiamato un corpo umano, ma una parte di esso, maschile precisamente, per evocare il quale bastano due mele e una cucurbitacea. Gli invitati uomini di questo ridono inspiegabilmente e parecchio, e le donne fingono uno sdegno disincantato.
Visto che Monica e Marino si stavano riavvicinando, temevo che questo siparietto fosse solo rimandato. Quindi Monica, al mio matrimonio, verrà forse con il suo +1 redivivo. Per le altre... ho qualche dubbio: su Stefi più che su Lucia, la quale in questo momento ha qualche chance di presentarsi alle mie ipotetiche nozze con al braccio qualcosa di diverso da una cocorita. Figlio sospeso a parte, lei e Tommaso, entrambi avvocati, hanno cominciato nell'ultimo periodo a passare assieme tutte le pause pranzo, poi le cene, e da lì alle prime colazioni il passo è stato breve. Per Stefania invece niente di nuovo all'orizzonte, da tanto tempo. Solo precariato sentimentale, un sacco di libri da recensire per la rivista per cui lavora, e poi moltissimi, variegati corsi: per ceramista, decoratrice d'interni, intarsiatrice di pasta di sale e altri ancora. Tra i corsisti ha sempre e solo trovato tante altre donne, iscrittesi per incontrare un uomo. Le uniche conseguenze tangibili di questi suoi hobby: dopo qualche lezione, io e Lucia ci aggiudicavamo un portagioie intarsiato, una damina in mollica, o ci dovevamo rassegnare a lasciarle disporre i mobili di casa nostra secondo la filosofia Feng Shui. Ripongo la lista e mi addormento avvolta nella coperta in pile. Dopo undici ore di volo, ho la schiena come al solito a pezzi, le gambe come quelle della sora Leila e un impellente bisogno di mettere tra me e Marco Junior quanti più chilometri possibile. L'hostess, con voce suadente, ci comunica che abbiamo iniziato la discesa verso l'aeroporto McCarran di Las Vegas, e a nome del capitano e di tutto l'equipaggio ci augura il consueto piacevole soggiorno. Per renderlo tale sarebbe necessario un fisiatra se-minudo desideroso di rimettermi a posto i lombi mentre attendo di recuperare le valigie. L'unico muscolo che non mi fa male è il cuore. Per ora.
Tre What happens in Vegas, stays in Vegas. Quello che succede a Las
Vegas, rimane a Las Vegas: un modo di dire come un altro. Come l'apocalittico "Vedi Napoli e poi muori", o il contraddittorio "Chi va a Roma perde la poltrona". Un'espressione americana che testimonia come Las Vegas sia il leggendario luogo dove tutto può succedere e dove anche l'impossibile può prendere forma. Non è garantito per quanto tempo questa forma verrà mantenuta, ma se non si hanno pretese di un futuro solido, Las Vegas è perfetta. Nei miei ricordi adolescenziali questa meta non era abbinata tanto al gioco d'azzardo, quanto ai matrimoni lampo. La risposta d'oltreoceano alla fuitina italiana era Las Vegas. Da Capitol a Quando si ama, le coppie che avevano fretta di sposarsi, in barba a modulistiche varie e tradizionali pubblicazioni, andavano a Las Vegas davanti a un giudice di pace con due sconosciuti come testimoni, e convolavano. Memorie del passato a parte, finalmente sono qui. Dopo aver recuperato la mia valigia, la prima tappa è naturalmente alla toilette; davanti allo specchio cerco di limitare i danni che undici ore di volo hanno lasciato sul mio viso. Le perfide luci sono impietose. Non vedo Michele da ventiquattro giorni, quattro ore e alcuni minuti. Sarà molto difficile portarmi a casa il "Non ti ricordavo così bella" che avevo ipotizzato. Da lui mi separa solo quella vetrata e ho la faccia tutta spettinata... Attingo al beauty-case d'emergenza, la piccola scatola con al suo interno un po' di bellezza sfusa, esattamente quello che mi ci vuole. Fosse così facile portarsi appresso una confezione che ne contenga un pizzico... In dieci minuti mi rendo riconoscibile almeno a me stessa, e vado. Una volta nella sala d'attesa dell'aeroporto mi guardo intorno alla ricerca del suo sguardo. Troppa gente... coppie che si ricompongono, gruppi turistici che cercano di capire a quale desk rivolgersi, e decine di hostess con in mano cartelli recanti nomi di diverse nazionalità. L'aeroporto di Las Vegas non sembra un Linate qualsiasi.
Già dalla sala "Arrivai" si capisce che aria tira. Oltre i soliti negozi di souvenir, ristoranti, bar vari che propongono caffè e cappuccini in inspiegabili venticinque versioni, c'è una piccola variante: ci sono slot machi¬ne ovunque. Ti tentano coi loro colori e suoni ancor prima che tu esca dall'aerostazione. E poi le pareti sono tappezzate di locandine che pubblicizzano tutti gli spettacoli e gli show che animeranno le note notti lasveghiane. L'occhio di Céline Dion ammicca dall'alto invitando al Caesar's Palace, Jerry Seinfeld replica tra due settimane e pure il Cirque du Soleil campeggia un po' ovunque. Tutto molto bello, non c'è dubbio, ma l'unico spettacolo cui sono interessata al momento è Michele. Mi si avvicina un distinto signore che mi sorride e mi dice: «Miss Cucciari?» «Sì. Cioè... Yes.» «I was sent from mister Germogli.»
Oddio, Michele manda un altro a lasciarmi per lui, come alle scuole medie; non ha avuto neppure il coraggio, adesso questo tizio mi dirà che Michele pensa io sia una persona meravigliosa, ma tiene troppo a me per non lasciarmi andare... che è meglio così per entrambi... e che ha capito tutto troppo tardi quando ormai ero già salita su quell'aereo. «He's sorry, but he couldn't be here in time to pick you up, so please follow me, you'll see him later at the hotel.» L'emissario parla lentamente perché informato sul livello non eccelso del mio inglese, ma non riesco ad ascoltarlo senza aggrottare la fronte e alzare il labbro superiore lasciando la bocca aperta. Mi illudo che fare la faccia da idiota mi permetta di capirlo meglio. Punta anche sul più immediato linguaggio del corpo e mi prende la valigia facendomi cenno di seguirlo. Comunque, tutto mi è chiaro: Michele mi aspetta in albergo e mi chiede di seguire quest'uomo. Solo un contrattempo, quindi... Naturalmente una donna in questi casi propende per il peggio e mostra la sua dramma-dipendenza.
Non è venuto perché non sono abbastanza importante: quale lavoro non può essere interrotto per portare dei fiori a una che per te ha attraversato l'oceano? Cado nel vortice uterino di pensieri secondo cui un uomo realmente innamorato dovrebbe fare per la sua donna tutto, ma proprio tutto quello che lei farebbe per lui. Ma quando mai? Questa proporzione amorosa non è così precisa, e ima parte di me lo sa, ma non ne è convinta fino in fondo. Non riesco a fare a meno di investigare con l'autista. «Sorry for the disturb...» «At what time will I see Michele?» «Everything takes time, madame.» «But sure!» rispondo fintamente fiduciosa. Lui mi rivolge un composto sorriso, ma è chiaro che sta pensando che sono una cretina.
Ecco. Credo abbia detto: "Per ogni cosa ci vuole tempo". Ci mancava solo l'autista con filosofia orientale, calmo e rasserenante. L'unica cosa orientale che possiedo è un calendario in bambù donatomi nel ristorante cinese sotto casa. Consapevole di non avere scelta, lo seguo fino alla macchina, dove prendo posto vagamente offesa. Venti minuti più tardi, dopo aver percorso strade larghe e periferiche con tante ville su due piani con giardinetto prospiciente, imbocchiamo la Strip di Las Vegas, una delle vie più luccicanti del globo, in cui troneggiano in formato ridotto monumenti di tutto il mondo e di tutte le epoche. Nel raggio di poco più di un chilometro si fa il giro del mondo: si alternano lo skyline di New York, la Torre Eiffel, una piramide, alcuni resti dell'antico impero romano e piazza San Marco con tanto di gondole e gondolieri.
Alberghi giganteschi, torri, grattacieli e insegne colorate, con una foschia perenne tipica da deserto con cactus, ma che io in realtà non trovo diversa da quella che si leva da piazzale Loreto, a Milano, nel mese di agosto. L'autista mi scarica davanti all'hotel in cui Michele mi sta aspettando, il Bellagio, che, nonostante sia uno dei più prestigiosi di Las Vegas, costa sempre meno di un tre stelle in zona Fiera a Milano durante l'Esposizione nazionale dell'Arredobagno. Scendo dall'auto e mi dirigo verso la hall, dove è impossibile non notare pendere dal soffitto un coloratissimo tripudio floro-vivaistico in vetro di Murano che definire semplicemente "lampadario" potrebbe risultare offensivo nei confronti del suo generoso ideatore. La sua dimensione è però in linea con tutto ciò che gli sta attorno. Tutto qui è enorme, a dimostrazione del fatto che il Bellagio, come l'intera Las Vegas del resto, è stato progettato da uomini: le dimensioni qui contano. E parecchio. Alla conciergerie ancora una volta faccio sfoggio del mio inglese con inflessione isolana, ma riesco a consegnare il passaporto e sbrigare le minime formalità dell'accoglienza senza che la signorina sospetti che ho studiato francese sia alle medie sia al liceo. Mentre il sorridente cameriere mi accompagna in camera, resto subito colpita dal fatto che di fronte al banco della reception, al Bellagio come in tutti gli alberghi locali, non ci sia la sala TV ma il casinò. Passo in mezzo a centinaia di slot machine come oll'aeroporto, circondata da tavoli verdi dove pensionati mal vestiti si giocano le loro mensilità alla roulette e al black-jack. In sottofondo un continuo tintinnare d i monetine, testimonianza del fatto che in quel momento milioni di dollari stanno cambiando proprietario. E sono solo le cinque del pomeriggio. Arrivo nella mia camera: bella, grande e con una vetrata che dà sull'attrazione principale dell'hotel Bellagio, una sorta di riproduzione dell'omonima località (il lago di Como), che a partire dalle sei ogni mezz'ora si anima di giochi d'acqua e luce parecchio elaborati... che naturalmente nella vera Bellagio non esistono.
La prima tappa, appena entro nella camera di un albergo di lusso, è ovviamente in bagno, per constatare quanti e quali prodotti la direzione mette a disposizione dei suoi ospiti, annusare i campioni di bagnoschiuma, capire se il vanity-set contempla anche lo struccante mini, delizia e simbolo di grande cura dei dettagli. Ed è lì, attaccato sullo specchio, che trovo un biglietto con scritto il mio nome. Benvenuta nella capitale del vizio, mia cara. Apri l'armadio, c'è un vestito per te. Con delle scarpe. Li ho scelti io. Indossali, alle 8 p.m. sarò lì. Non vedo l'ora.
Oh, che cosa romantica... lui che ha scelto un vestito per me, e pure le scarpe, che cosa potrei desiderare più di questa forma passiva di shopping? La mia mente vola. Lo immagino in un negozio, che girovaga confuso tra mille stand, alle prese con una suadente commessa che tenta di sedurlo mentre lui sceglie l'abito per me. Per me. "Esperto com'è di stoffe e tessuti, il vestito sarà bellissimo" penso. Corro verso l'armadio, lo apro e subito mi balza agli occhi una sorta di tunica dai colori sgargianti su sfondo d'oro sbrilluccicante, ma non mi soffermo perché penso sia la bizzarra vestaglia che l'hotel offre ai suoi ospiti. Decido lì per lì che quella non la ruberò. Apro tutte le ante cercando meglio, ma noto con orrore che quello è l'unico appendiabiti impegnato...
Oh santo cielo. Torno sui miei passi e tiro fuori l'orrenda veste per osservarla meglio: una tunica alla romana con spalline invisibili, stretta sotto il seno, di un tessuto appena più elaborato del petrolio puro. Il classico modello che sta bene solo a chi, per cena, succhia una ghianda. "Mannaggia a me e a quando gli ho mentito sulla taglia" penso io mentre mi slogo la scapola tentando di insinuarmi nelle poco accoglienti spire di una taglia 44.
Trattenendo il fiato alla Majorca in assetto variabile, riesco anche ad allacciare la perfida fila di sei bottoni laterali. L'orribile abito tira dappertutto, non azzardo neppure il tentativo di sedermi: sono pronta a tutto tranne che vedere un bottone raggiungere la velocità del suono e incrinare il cristallo della vetrata. Mi guardo allo specchio e rabbrividisco: sul seno si propone quel classico effetto Tini Cansino in Drive In. Il fianco generoso ricorda una ragazza Cin Cin, ma nel complesso, vista la predominanza del colore dorato e tenuto conto della capigliatura scura, direi che somiglio a un Ferrerò Rocher rovesciato. Provo le scarpe, ballerine rasoterra che metterei solo in casi estremi, quali spesa mercatale mattutina o capatina dal giornalaio.
Cosa devo fare? Ma ci sarà un motivo se il quaranta per cento dei vestiti appesi nell'armadio di una donna sono neri. Il suo gesto è così
elegante e romantico, come posso non ricompensarlo? Ci resterebbe male. Be', forse sempre meno di me se al primo passo l'abito si aprisse in due come un cocomero a Ferragosto. Temo, fra l'altro, di creare un pesante precedente: gli uomini, dopo anche un solo tentativo di sorpresa non riuscita, trovano in questo l'alibi per non provarci mai più con la giustificazione: "Tanto non riesco mai ad accontentarti...". Ci vuole molta prudenza, qui. Mentre sono lì davanti allo specchio decido di chiamare, anzi di video-chiamare Lucia. Prima avrei dovuto affrontare la fatica di trovare vocaboli adatti a descrivere il mio aspetto. Adesso, grazie a una piccola videocamera, sono sollevata dallo sforzo dialettico. L'utilità è oggettiva: posso dare a Lucia la possibilità di comprendere davvero la gravità della situazione. Ma questa nuova possibilità svela anche l'altro lato della medaglia, un lato in cui la tecnologia si è mostrata nostra assoluta nemica, pretendendo che sull'altare della comunicazione fosse immolata la fantasia.
Ora, a causa dei videofonini, risulta molto più difficile affrontare una conversazione galante con un uomo lontano e parlargli con voce roca del tuo nuovo reggicalze nero fiammante mentre arrotoli l'elastico del tubolare bianco con striscia blu e rossa che porti senza disagi. Al momento, invece, il mio disagio è poderoso anche senza tubolari, e sentire la voce di Lucia porta a un crollo immediato. Basta il suo: «Ciao, com'è andato il viaggio?» perché io inizi a piagnucolare. «Ma Lucia, chi se ne frega del viaggio... guarda qua...» e con la videocamera del telefono le mostro il mostro che mi sento. «Mmh... bello... andate a un ballo in maschera? Da cosa ti sei vestita?» «Lucia! Macché ballo in maschera... Credo dovrebbe essere una sorpresa...» «Una bella sorpresa davvero...» «Smettila, voglio dire che Michele mi ha fatto trovare tutto nell'armadio, ha comprato tutto lui.» «Carino è stato di sicuro, ma non ti si può guardare. Cosa fai ora?» «A parte togliermelo, intendi?» «Se ci riesci... potrebbe essere un inizio...» «Per ricominciare a respirare di sicuro.» Il telefono della camera squilla e ci interrompe. «Luci, mi stanno chiamando, ti devo lasciare... Scusami, non ti ho neanche chiesto come stai... Novità? Sei una madre o no?» «Mah, guarda, ancora niente... forse dovrei rifare il test...» «No, forse devi cominciare a prendere la pillola, dài, stai tranquilla, vedrai che è solo un ritardo. Sarà la tensione. Amica mia, ci sentiamo presto. Mi mancate tanto, saluta Stefi.»
Raggiungo il telefono camminando a piccolissimi passi, tanto che una geisha di Saigon mi fa un baffo (e anche qui, l'espressione è fuori luogo solo grazie alla poderosa ed estirpante seduta dall'estetista prima della mia partenza). Sollevo la cornetta: «Hallo?» «Welcome to fabulous Las Vegas» mi sento augurare dalla voce di Michele. «Ciao... dove sei? Quando ti vedo? Dove mi porti? Perché non sei venuto a prendermi?» «Quante domande... Hai indossato l'abito che ho scelto per te?» «Sì...» «Come ti sta?» «Benino...» «Non avevo dubbi... sarai bellissima.» «Mah, veramente...» «Cosa c'è? Non ti piace il vestito?» «Certo che mi piace, è bellissimo... solo che...» «Solo che?» «No... è che...» ma mentre cerco le parole lo sento sogghignare divertito. «Ma tu stai ridendo?» «In realtà sì. Secondo te avrei mai voluto vederti vestita così? Ero curioso di capire fino a che punto saresti arrivata. Apri il primo cassetto e prendi la scatola che c'è dentro. Ti vengo a prendere alle otto...» «Ti farò pentire di questo.» «Lo so.» «Comunque sappi che non per tutte avrei fatto seduta doppia di shopping solo per gioco.» «Quindi sono una donna fortunata.»
«Be', sì... certe attenzioni non le dedico a tutte.» «Solo a me?» «Solo a te» mi risponde lui, e usa un tono così caldo che io decido arbitrariamente non sia una risposta legata solo all'abito, ma alla promessa di un amore sempiterno. Mi precipito verso il cassetto e apro la scatola: contiene un vestito bellissimo, nero ringraziando il cielo, che a un primo sguardo sembra di una taglia ragionevole. Che allocca sono. Cedere così. Ma quest'ometto ha qualcosa, l'ho capito quasi subito, appena ci sono inciampata sopra. A vent'anni mi innamoravo di un uomo per come era, adesso, nel mezzo del cammin della mia vita, mi innamoro di come mi fa sentire. E Michele mi fa felice, in questo nostro viaggio insieme mi fa sentire qualche volta capogita, qualche altra semplice passeggera. E mentre alterna in me queste due sensazioni con equilibrio, scioglie tutte le riserve accumulate in anni sentimentalmente attivi, ma oggettivamente fallimentari. È fascinoso, determinato, galante, ride delle stesse cose che trovo divertenti pure io, e sa sempre di buono. Siamo affini. Da uno così accetto anche di essere teneramente buggerata. "Che stronzo" penso, mentre mi libero dalla trappola d'oro e mi infilo un intramontabile e rassicurante tubino. Scende morbido anche lungo le braccia, scongiurando l'indelicato effetto salume a metà avambraccio, e una graziosa sottogonna incorporata regala serenità alle mie curve. Le scarpe che lo accompagnano sono eleganti quan¬to il tacco che le sorregge. Mi guardo allo specchio. Ecco, adesso si ragiona. Mentre io cercavo di mediare le mie scelte col suo discutibile gusto in fatto di moda, lui pensava tran-quillamente ad altro sapendo che il problema non esisteva. Un classico: una donna in crisi di nervi - del tutto evitabile - e un uomo che non si preoccupa mi¬nimamente di scongiurarla.
Quattro Se una donna desidera fortemente un figlio o se, al contrario, teme di essere rimasta incinta, ha la sensazione che il suo mondo venga immediatamente popolato da una moltitudine di femmine gravide e bambini molto piccoli che emettono grida i cui decibel sono direttamente proporzionali ai giorni di ritardo. Ovunque lei vada, dalla posta alla farmacia, al bar o al supermercato, ma anche per strada, nota solo ragazze col pancione, giovani madri alle prese con neo¬nati voraci e ciucci che volano, avvolti in manufatti donati da premurose nonne che hanno aspettato anche troppo prima di prendere in braccio il loro primo nipote. In realtà le giovani madri c'erano anche prima, ma Lucia ha cominciato a notarle solo di recente, da quando le sue percezioni avevano iniziato a essere sfalsate dalle sue paure. Da qualche giorno entrata in questo universo e ormai al ventiduesimo giorno di ritardo, decide di fare il secondo test. Questa volta da sola, dopo il lavoro, con la massima calma. "Attendere tre minuti prima di leggere il risultato" chiarisce l'ormai familiare bugiardino. Tre minuti. Tre minuti che la separano dalla verità, nell'unica occasione in cui, nonostante ciò di cui alcuni uomini sono convinti riguardo a certe loro prestazioni, questo breve lasso di tempo può davvero sembrare infinito. La sua casa, di solito ordinata ai limiti della maniacalità, è stranamente sottosopra. I maglioni riposti nell'armadio per sfumatura di colore, le confezioni di prodotti alimentari disposte nella credenza in base alla data di scadenza e i volumi allineati nella libreria per argomenti e autori sembrano un vago ricordo. Innervosita anche dal saggio tentativo di smettere di fumare, stempera la sua tensione dedicandosi a pacchi di caramelle gommose e chili di Chupa Chups, cosa gradita anche dal buon vecchio Kojak.
In quel contesto da alloggio universitario, lei, in grado di tollerare di avere sporca la coscienza, ma mai il pavimento dell'ingresso, è davvero una nota stonata. Sul tavolino davanti a lei, carte appallottolate, quo-tidiani vari e tazze da tè vuote, sono la testimonianza della sua fase delicata. Entra nel bagno e ne esce dopo quattro minuti esatti. Si sistema sul divano del soggiorno senza dire una parola; chiama Tommaso, gli intima di raggiungerla subito e lo aspetta seduta. Al buio. Come il killer Leon. Per ingannare l'attesa e rifuggire dal secondo chilo di Rotelle Haribo telefona a Stefania per confrontarsi. Stefania è la persona giusta con cui parlare in caso di tensioni, problemi, esondazioni, cataclismi naturali ed eruzioni vulcaniche. Per lei tutto si può affrontare e risolvere, e in caso estremo di impotenza, il massimo del suo sconforto si traduce nel fare spallucce: quello che non può cambiare, lo accetta. Serena e rassegnata. Se fosse rimasta vittima del disastro di Pompei, decine di archeologi avrebbero discusso anni per dare un'interpretazione logica dei celebri resti della giovane donna sorridente con braccia piegate, mani aperte volte verso l'alto e collo incassato. Naturale, quindi, che la notizia vissuta da Lucia con paura e tensione per lei sia una grande e fantastica novella da festeggiare. «Che bello, Lucia, finalmente un bambino tra noi! Era ora, no?» «Al momento è solo dentro di me... ho tanta paura... non so neppure come dirlo a Tommaso.» «Magari ne sarà entusiasta...» «Stefi, che cosa dici? In questo momento sarebbe entusiasta di un gratta e vinci milionario, non di un figlio... non ne abbiamo mai parlato.» «E chi lo può sapere, allora? Come glielo vuoi dire? Scommetto che l'idea del pacchetto con il ciuccio non ti sembra più così male, eh? Pensavo di usarla io un giorno, ma se vuoi te la regalo.»
«Stefi... Io non so neppure da dove cominciare.» «Be', allora comincia dall'inizio!» «In che senso?» «Parti dal vostro primo incontro in quarta liceo, ricordagli il vostro primo bacio, di come avete sempre fantasticato di mettere su famiglia...» «Ma cosa c'entra?» «L'ho letto su un libro... l'approccio graduale in questi casi è fondamentale... devi risvegliare in lui l'entusiasmo che avevate a sedici anni. Tira fuori le promesse fatte davanti a una gazzosa ai giardini pubblici e tutte le cose che lui ti diceva... Siete stati fidanzati cinque anni, ne avrai di cose da dire, no?» «Mah... Che libro è?» «Che importanza ha? Dice che le notizie che cambiano la vita vanno date in un contesto sereno e con gradualità, per non traumatizzare il soggetto. Serenità e ricordi, sono queste le parole d'ordine, chiaro?» «Sì certo... perché presto sarà solo un ricordo la serenità di una vita senza un nanerottolo che grida perché ha fame, e poi perché vuole uscire a fare tardi, e poi perché vuole il motorino, e magari, dopo che avrò sacrificato la vita per lui, quando avrò sessantanni mi metterà in un ospizio.» «Mi sa che stai correndo un po' troppo. Non ha neanche un nome e già ti stai lamentando. E poi abbassa la voce e non parlare male di lui, che poi si offende.» «Stefi, è grande come un cece, non ha ancora le orecchie.» «Sappi che anche quando è solo un cece, sente la sua mamma.» «Va bene, ora mi scuso col cece.» «Ben fatto, cara, ora datti una rinfrescata e aspetta Tommaso. E mi raccomando: moooolto tatto.»
Stefania, come talvolta capita, ha perfettamente ragione: la cosa migliore è dargli la notizia senza trauma-tizzarlo. Dopo aver riattaccato con Stefi, ancora dubbiosa, Lucia si alza e, rivolta agli scaffali del soggiorno, accenna qualche simulazione di discorso, ripercorrendo mentalmente i suoi primi cinque anni con Tommaso, ripensando all'incapacità che avevano avuto di gestire i problemi che si erano presentati, e il dolore di entrambi quando lei aveva deciso di trasferirsi a Milano. Poi gli anni lontani, e la gelosia che si era trasformata in un senso di possesso vagamente surreale, per cui alla fine lei non aveva più voluto sapere niente di lui e l'aveva lasciato con una scusa banale. E poi, dopo un lungo silenzio, il loro incontro a Milano. Lui che con la morte nel cuore aveva lasciato la Sardegna dopo la fine di una storia lunghissima. E a tutti e due era sembrato di non essersi mai persi. Lucia non ha più dubbi: è tutto come dice Stefania, il passato a volte serve a dare nuovo lustro al presente. Due persone adulte sono in grado di affrontare un cambiamento di programma. Serenità e ricordi. In quest'ordine. Dopo mezz'ora Tommaso arriva. Lucia apre la porta e prima ancora che entri, orfana di ogni buon proposito, esplode in un secco: «Sono incinta.» Tutti i suoi diplomatici propositi naufragano. Tommaso assume la tipica espressione da cane di marmo all'ingresso di una villa. «In che senso?» chiede, esitante e improvvisamente pallido. «Quanti sensi conosci?» gli risponde Lucia ironica, ma non troppo. «Ma sei sicura?» ribatte Tommaso timoroso, lasciando cadere la sua borsa per terra e chiudendosi la porta alle spalle. Lucia si precipita in bagno, e si rimaterializza da¬vanti a lui con in mano ben tre test di gravidanza. «Sono sicura!» risponde porgendoglieli.
Tommaso però non si sente di escludere nessuna strada possa rappresentare un'alternativa alla realtà che si va profilando. «Ma non sarebbe meglio rifare il test per bene dal medico?» propone. «Tommaso, ne ho fatti tre. Sono tutti e tre positivi.» «Sì, sì, ho capito.» Guarda Lucia. È chiaro come lei si aspetti da lui una reazione che non sia possibile rinfacciargli per il resto della sua vita. Lui coglie. «Scusa Lucia, lasciami un attimo per realizzare...» «Siamo riusciti a evitare una gravidanza anche nella nostra stagione amorosa automobilistica a ventanni, e ora...» «Hai ragione...» «Cosa facciamo Tommaso?» gli chiede Lucia abbassando per la prima volta le difese da quando lui è entrato in casa. «Prima fammi almeno togliere la giacca» le chiede Tommaso. Lei si incammina verso il soggiorno, facendosi strada tra le scarpe usate negli ultimi giorni e abbandonate per terra, da quando ha abbandonato pure l'abitudine di farle tornare nella loro scatola di provenienza alla fine della giornata. "Veramente è proprio perché gliel'ho sempre fatta togliere che siamo in questa situazione..." commenta lei tra sé. Ancora sotto choc, Tommaso si dirige verso il frigorifero e prende una bottiglia di birra. Lucia lo guarda cercando di capire quali emozioni lo attraversino, ma lui appare impenetrabile. E se fuori sfoggia un atteggiamento sicuro e aggressivo, dentro è la tempesta. Tempesta che si placa davanti a un disarmante Tommaso che rompe il silenzio con: «E come lo chiamiamo?» «Oh, no, pure tu come Stefi, che cosa avete tutti? Insomma, Tommaso, hai sentito bene? Un figlio, capisci, un figlio? Non ne avevamo mai parlato, se non vent'anni fa! Come lo dico ai miei? E come faccio sul lavoro, non è certamente il momento adatto... e tu? Ma non dici niente?» Tommaso le si avvicina e l'abbraccia.
«Sì lo so... però... Oddio, un bambino... io padre... io? E tu madre? Oddio, questo sì che è più difficile da immaginare. Ma come stai? Vieni qui, dài, siediti... Devi stare a riposo... Hai voglia di qualcosa in particolare?» «Sì, di spaccarti la faccia, se non la smetti di trattarmi così... Tommaso, per favore, sarò incinta da neanche due mesi. Il cece non ha le orecchie, io sono sempre la stessa, e sto bene, chiaro?» Tommaso le si riavvicina e le prende la mano, e Lucia, impaurita e insicura, inizia a piangere. «Non fare così. Ce la faremo, e poi non è vero che non ne avevamo mai parlato... ti ricordi la nostra prima sera insieme a Cagliari, quando ci siamo iscritti all'università?» Così Tommaso, l'uomo più metodico, preciso e amante dei programmi che io conosca, lo stesso che durante le gite scolastiche al liceo teneva sempre nello zaino anche un piccolo kit per la sopravvivenza e un mini estintore, fronteggia senza perdere la calma l'incognita più grande che possa travolgere la vita di un essere umano. La notizia l'ha sconvolto, ma gli ha anche mostrato una possibilità cui non aveva mai pensato davvero. Non di recente. Molte coppie stabili discutono mesi per valutare se sia arrivato il momento giusto per cercare di avere un figlio. E per infiniti e più o meno validi motivi, questo momento sembra non essere mai abbastanza perfetto. Questo figlio non ha aspettato. Li ha cercati, e li ha trovati. Seduto ai piedi di Lucia, Tommaso tira fuori tutte le loro incoscienti promesse, con tutta la serenità di cui è capace, e senza neppure aver parlato con Stefania. Lucia continua a piangere, ma sempre più per la commozione che per il terrore, quando si rende conto che lui, ricordandole che l'aveva lasciato solo perché era arrivato in ritardo a un appuntamento, inizia ad accarezzarle la pancia. Col tempo, lui imparerà ad apprezzare uno dei grandi vantaggi della gravidanza: potrà smettere di trattenerla.
Cinque Per la prima volta in vita mia sono pronta mezz'ora prima del tempo. Alle otto meno un quarto - dopo aver perso i sensi per qualche ora nel vano tentativo di assorbire il jet lag - tento di convincere il mio corpo che non sono le cinque del mattino. Sono già vestita, truccata e, evento non esattamente scontato, oltremodo ben pettinata. Io e Michele viviamo lontani e ci vediamo non più di una settimana al mese. Questo fa sì che la mia attenzione al dettaglio non sia ancora scesa sotto il livello di guardia. Non mi lia mai vista vestita come una profuga, non conosce il mio look casalingo da mimo con fascia in testa alla Navratilova e non ha mai osservato pinze con fiore in plastica germogliare da una mezza coda. Il cedimento ai maggior agi di una vita domestica dimessa non è ancora sopraggiunto. Ci si vende inizialmente sempre per qualcosa che non si è. Le prime volte che si frequenta un uomo mantenere sembianze femminili in casa è fondamentale, le tute da Super Pippo restano celate e le mise da pernottamento sono ancora accettabili. Si va a letto con una camicia da notte e non abbigliate da maratoneta. I centimetri di corpo scoperti di una donna tendono a diminuire in misura direttamente proporzionale alla solidità del rapporto. Quanto più il rapporto si cementa, più una donna ricomincia a coprirsi. Noi siamo ancora lontani da questo. Non gli ho neppure ancora servito gli avanzi del giorno prima, né ho mai deciso che per una volta quella macchia di vino sulla tovaglia si potesse coprire con il cestino portapane. Non abbiamo mai litigato per niente che fosse legato alla vita insieme: mai la minima discussione per la tazzina col fondo del caffè lasciata al mattino nel lavello a incrostarsi, neanche farci entrare un po' d'acqua possa rendere impossibile leggere dentro il futuro. Per ora sono sempre riuscita a resistere al forte impulso di sparecchiare prima che lui finisse di mangiare la frutta portandogli via tutto da sotto il naso come fa mia madre con mio padre.
Ancora nessuna disputa riguardante un asciugamano bagnato buttato sul letto appena rifatto, o per l'imballo in carta di una confezione famiglia di yogurt vuota abbandonata in frigo dopo aver mangiato l'ultimo vasetto. Sempre e solo vacanze, in cui la gioia di scoprire ogni volta qualcosa l'uno dell'altro ha sempre preso il sopravvento sulla gestione di una casa, di un armadio, di un primo cassetto del trumeau. Quest'ultimo pensiero mi spinge a verificare se davvero nei comodini degli alberghi americani c'è la Bibbia. Alle 20.05 devo abbandonare la lettura della Holy Bible foderata in sintetico azzurro, libro della Genesi, che naturalmente anche nella sua versione alberghiera americana inizia con la celebre "In the beginning God created the Heaven and the Earth", perché bussano alla porta. Sarà Michele, penso. Mi precipito, ma negli ultimi passi rallento l'andatura garibaldina per non dargli l'idea di essere troppo ansiosa di rivederlo, e soprattutto perché il rumore sordo e minaccioso dei miei talloni che percuotono la moquette provoca quel simpatico effetto Godzilla che in casi come questi è meglio evitare. Apro la porta e lui è lì. Bello - non so se in maniera assoluta, ma di sicuro per me - e sorridente, ben vestito e profumato. Perdo l'aplomb che mi ero ripromessa di mantenere e gli butto le braccia al collo. Realizzo con gioia di essere esattamente dove vorrei essere, circostanza che a chi è nostalgico e pensieroso come me non capita spesso; normalmente c'è sempre un altrove dove potrei precipitarmi per salvare me stessa o qualcun altro dal clas-sicamente vaginale, perenne senso di inadeguatezza. Dopo dieci secondi di silenzio, Michele mi allontana un attimo da sé per guardarmi meglio: «Be', il nero ti dona... ma sei sicura che il vestito in seta dorata non ti stesse anche meglio?» «Ero irresistibile.» «Lo posso solo immaginare.»
«Idiota... Ho fame.» «Strano...» «Molta!» «Stranissimo.» «Dove andiamo a nutrirci?» «Mi segua, regina di Las Vegas, questa serata è per lei.» Così, io e il mio tubino nero salpiamo verso la notte del Ne vada. Pochi minuti più tardi prendiamo posto a un tavolo in un angolo del ristorante Picasso, una delle attrazioni culinarie del Bellagio. Il nome non è dovuto solo all'atmosfera spagnoleggiante cui contribuiscono i colori della carta da parati, ma alla presenza di otto quadri originali di Picasso appesi alle pareti, peraltro senza alcun vetro né protezione. Afferro il menu, vorrei ordinare qualsiasi cosa, ma alcuni dettagli mi sfuggono. Non permetto che sia lui a scegliere, ma gli chiedo di intercedere per me a livello linguistico con l'ossequioso e svolazzante cameriere. Inizia così la mia fase investigativa nei confronti della lista e avvio pesanti iniziative volte a modificare alcuni aspetti delle portate - peculiarità, questa, particolarmente invisa all'altro sesso. Vorrei il salmone, sì, ma solo se è freschissimo, senza aglio, ben cotto e non coi fagioli con cui secondo lo chef andrebbe accompagnato, ma su un letto di zucchine alla piastra. Bene anche lo sformato di patate, ma solo dopo essermi assicurata che non ci siano cipolle, rosmarino, pepe nero, mostarda e l'onnipresente burro. Michele sfodera il suo inglese disinvolto e traduce i miei quesiti al gargon che dubbio dopo dubbio smette di amarmi, soprattutto quando, senza ricorrere a Michele, gli faccio notare che è sleale proporre le potatoes tra le scelte dei vegetables e che sarebbe molto bello se le patate fossero verdure e non meno dietetici tuberi densi di amido.
Dopo aver annotato tutto, e finto di capire e convenire che io abbia ragione (come con le esaurite, però), finalmente, si licenzia da noi. «Sono la cliente che tutti vorrebbero, non trovi?» «Stavo per farti notare la stessa cosa.» «È che il momento dell'ordinazione è importante.» «Come no... dillo a quel povero ragazzo.» «Ma tu da che parte stai?» «Dalla tua, non è chiaro?» «Tu pensi che io sia pallosetta. Non è vero, sono solo una con le idee chiare.» «Mettiamola così.» «Va be'. Rompo... ma con eleganza, no?» «Quella non ti manca...»
Vuole chiudere in bellezza... ma non sono convinta, scatta il Trivial Geppi. «Davvero pensi che io sia pallosa?» «Ma cosa dici, amore?» risponde lui prendendo il bicchiere di vino e proponendo un brindisi.
Il tono è troppo ironico.
«Non cambiare argomento. Se sei convinto che io lo sia ora che non mi vedi mai, chissà cosa penseresti se stessimo di più insieme.» «Tu mi piaci molto. E lo sai.» «Non credere di cavartela con l'adulazione... Già che ci siamo, dovresti sapere anche altre cose.» «Tipo?» «Sono sbadata.» «Lo so.» «Dimentico le cose.» «Lo so.» «Quelle che non dimentico, le perdo.» «Sì sì, lo immagino.» «Perdo anche gli aerei e i treni.» «E sono sicuro che torni indietro ogni volta che esci ili casa, anche se sei in ritardissimo.»
Allora lo sa! «I miei fratelli non mi sopportano per questo.» «Ma ti tengono lo stesso, no?»
«Be', non mi hanno ancora lasciato in una piazzola dell'Autogrill.» «E io gliene sono grato.» «Ok. Però sappi che l'adulazione funziona solo in caso di giocose scaramucce come queste.» «Conto di continuare a adularti, almeno ogni tanto» risponde quasi serio. «Ora stai esagerando...» «Dici?» «Dico.» Lo bacio, mi sembra un buon modo per suggellare il fatto che siamo d'accordo. Ci interrompe un grazioso salmone scozzese che troneggia al centro di un piatto gigantesco, con pennacchio di erba cipollina sulla testa. Accetto la sfida e lo faccio mio, mentre Michele si dedica a un'aragosta in salsa americana. Sono felice. Sono una sarda felice che mangia un salmone scozzese in un ristorante spagnolo nell'America occidentale, con l'unico italiano che desidera davanti a sé. Dopo un caffè americano, e dopo aver provato la tentazione di ammazzare l'americano che l'ha preparato, con le palpebre trapuntate di velluto mi alzo e biascico un lascivo: «Andiamo a dormire?». Michele sorride malizioso, come se gli avessi chiesto di chiuderci nella stanza d'albergo, gettare la chiave nella fontana dell'hotel e vivere di amore e cibo del frigobar per giorni e giorni. In realtà gli sfugge che di solito, se una donna dice: "Andiamo a dormire", intende precisamente questo. Dentro di me ho il fuso orario della Mesopotamia e l'unico desiderio che mi pervade è quello di dormire tredici ore di seguito ed essere svegliata il mattino dopo da un cameriere minuscolo che passa sotto la porta (per evitarmi il trauma di sentire bussare) con un vassoio colmo di
uova strapazzate, pancake, sciroppo d'acero e burro d'arachidi da spalmare su fette di pane calde. A ventuno minuti dal dessert con la più alta percentuale di grassi vegetali mai creato nella storia della cucina mondiale, e coi sensi annebbiati, ho modo di dimostrargli quanto possa essere di parola una donna. E mentre Michele sta ancora svitando il tappino del dentifricio, io scivolo con determinazione verso la fase delta del mio primo sonno. Il forfait sul talamo per stanchezza fisica della parte femminile della coppia è una consuetudine. Il classico mal di testa forse è stato sostituito con una certa credibilità dal fisiologico sonno. Gli uomini lo sanno, e trovano questa un'inclinazione deprecabile, ma inevitabile. A ruoli invertiti, la reazione delle donne non è quasi mai così diplomatica. Essere rifiutata per spossatezza dal proprio uomo, è di solito preludio di una reazione tragica. Per molte mogli questo è solo indice del fatto che un tradimento è in atto o è stato appena perpetrato. Un'amica di mia madre ci aveva raccontato di aver sentito quando era una bimba una conversazione tra i suoi genitori: «Non importa dove ti viene fame, basta che mangi a casa» aveva detto la madre a suo padre. Lui aveva riso. Lei lo sapeva benissimo: chi non cena a casa, ha fatto uno spuntino fuori pasto. Nell'era moderna in molti li chiamano "aperitivi rinforzati", ma temo che da allora le cose non siano cambiate affatto.
Sei Il giorno dopo è il classico perfect day. Colazione abbondante, insieme, con tanto di lettura del "Las Vegas Journal", quotidiano locale. Dimentico per un attimo che Nicola, il mio dietologo, per colazione mi ha concesso solo latte totalmente scremato e cinque biscottini gustosi appena meno della segatura, e mi rendo disponibile a un costruttivo dialogo con uova strapazzate, pancetta, mini salsicce, milk shake e spremute di mirtillo. «Ecco, è così che si entra in contatto con le culture lontane!» grido io raggiante mentre mi accingo a giustiziare la seconda scodella di un alimento che non saprei neppure identificare. Costante presenza nei film americani, di solito servito con cucchiarelle di legno, è cremoso come il purè, ma ha un colore più intenso. «Ma cos'è questa delizia?» «Christmas Pudding: mais con latte, burro, panna e zucchero» risponde Michele. Guardo un po' perplessa sia lui che la ciotola e poi la poso dolente. «Non si può mangiare una cosa che contenga quattro ingredienti del genere. Tutti quanti insieme, per giunta. Basta con la colazione. Mi preparo e andiamo a fare un giro?» «Va bene, bellina, ti aspetto di sotto. Fai con calma, vado a dare uno sguardo ai lavori giù al ristorante.» Mi dà un bacio. E mi lascia andare a prepararmi. Da sola. Senza un orario da rispettare. Lo amo. Lo ripago per la fiducia con una (relativamente) solerte ridiscesa nella hall dell'hotel, e di lì in poi sono solo ore liete. Passeggiamo sotto il sole rovente del Nevada, trentasette gradi e il sessantasette per cento di umidità, alternando coraggiosi tratti all'aria aperta con ancor più audaci tappe nei vari centri commerciali, refrigerati da generosi impianti di condizionamento. Chiacchieriamo, parliamo, insceniamo finti scontri solo per il piacere di chiarirli.
Lui non si lamenta neppure quando io, cedendo alle lusinghe del cambio favorevole, abbandono a metà i discorsi ed entro di soppiatto in qualche negozio a comprare souvenir con inciso o smerigliato sopra il nome della città. Oggettivamente brutti. «Cos'hai preso stavolta?» «Delle tazze con la scritta "Las Vegas Forever".» «Imperdibili.» «Lo so, ora possono sembrare kitsch, ma avranno vita lunga e verranno rivalutate.» «Certo, il mondo non è ancora pronto per loro, vero?» «Anche Galileo all'inizio non fu creduto.» «Se lo dici tu. » «A proposito di tazze, lo sai che quando bevo il caffè qualche volta mi parte il mignolo alto?» «Non è bello, ma cosa c'entra?» «Niente, mi è venuto in mente ora... Voglio che tu conosca i miei difetti e impari ad accettarli, e siccome ci vediamo poco, mi vedo costretta a parlartene. Si chiama onestà.» Non risponde neppure e mi tira a sé. «Questa one¬stà va premiata.» Pur di non discutere, gli uomini cambiano, in base alle loro possibilità, donna, città o almeno stanza. Michele fortunatamente sceglie una quarta strada, meno battuta purtroppo: mi fa un regalo. Il mio dono prende vita a fine serata nel teatro del Bellagio, dove il Cirque du Soleil si esibisce e dove ho finalmente modo di affrancarmi - a distanza di anni - il ai miei cupi ricordi circensi. Il circo mi aveva sempre intristita. Non so dire che iosa mi facesse struggere di più, se il clown che rovesciava un secchio di coriandoli in testa al ragioniere seduto in prima fila, il "giro allo zoo" alla fine i dello spettacolo o la temibile foto con lo scimpanzé in braccio.
Ne ho parecchi, di questi scatti, e credo tutti con lo stesso scimpanzé: siamo cresciuti insieme. Qualche foto dimostra addirittura che nella fascia d'età tra i nove e i dodici anni ci sono stati momenti in cui lui mi superava in fascino e io in peluria. Coi clown, d'altra parte, ho da sempre un rapporto conflittuale, ed è senza dubbio ironico che io sia finita a fare un mestiere simile al loro, ma solo vestita un po' meglio. Ma seduta accanto a Michele in quelle due poltroncine, basculanti per rendere più agevole il godimento degli acrobati appesi alla struttura sopra il palco, non ho più pensieri tristi. Anzi, con la complicità di questo gaudioso florilegio di musica e bicipiti, voci angeliche e deltoidi, in cui tutto è di grandiosa bellezza e potenza, aggiungo una foto mentale nel rullino dei miei ricordi e guardo Michele parzialmente commossa, certa che lui colga almeno un paio delle romantiche sfumature che mi animano. «Pop corn?» fa lui, porgendomi un bicchierone delle dimensioni di un secchiello da spiaggia, con la bocca bianca di sale. Ne prendo una manciata, disillusa, e la butto giù con tre sorsi di aranciata, brindando tra me e me alla dipartita del romanticismo, forse non ancora morto, ma di sicuro appena messo in prognosi riservata da un bicchiere di mais saltato. All'uscita dal teatro, dopo la tappa obbligatoria nel negozio del Cirque a prendere calamite da frigo da regalare a tutti, incappiamo in un prototipo di coppia appartenente alla tipica fauna da casinò: due sposi festanti e visibilmente ubriachi, con manipolo di amici e parenti altrettanto alticci al seguito, si dirigono schiamazzando verso il sushi-bar dell'hotel. Io li guardo incuriosita. Chiaramente il loro non è il classico matrimonio celebrato per un colpo di testa dopo un martini di troppo. I due non vanno in giro sventolando il loro "Wedding's certificate" vestiti come se fossero andati alla Posta a pagare la bolletta del gas. Questi le nozze le hanno programmate, almeno un po': lui non sfoggia sandali francescani in pelle marrone su calza in spugna bianca, e lei indossa un vero, ancorché terribile, abito da sposa
caratterizzato da sbuffi sulle braccia e trine varie, in cui neanche Samantha Fox ai tempi di Touch me avrebbe accettato di infilarsi. In più, la ragazza ha incorniciato il visino rubicondo con un disinvolto diadema in simil zirconi. Anche gli invitati mostrano, a loro modo, di non essere stati colti di sorpresa: è tutto un fioccare di cappelli piumati, completi animalier e tubini confettati. E gridano. Tutti, e troppo. lo non voglio gente così al mio matrimonio. Quando sposi un uomo sposi pure la sua famiglia. Ne sono convinta al punto che lasciai un fidanzato dopo un pranzo familiare perché tutti strillavano e uno zio di primo grado, dopo una vittoria di Valentino Rossi sul traguardo, si era alzato rivolgendo una plateale e sonora stecca in direzione del televisore proferendo una squisita esclamazione in lingua sarda intellegibile anche per chi sardo non è: «Nèèè, attaccati a su gazzu». A dispetto dell'aspetto, comunque, i due sposi che abbiamo davanti sembrano felici, e mentre io e Michele li guardiamo divertiti, dentro di me ricominciano i pensieri che di solito sono l'anticamera della malinconia da meteoropatica. Il timore di "accontentarsi", vero terrore delle donne moderne, non è solo quello di finire con un uomo stupido e insignificante, ma anche di stare con uno meraviglioso che, per ragioni più o meno valide, non ti dà quello che vuoi. È questo ciò che sto facendo io? La mia attesa infinita ha davvero un senso o anch'io, col passare del tempo, farò sempre più fatica a rinunciare ai pochi ma sostanziali benefici che comporta il vivere da sola? Michele è l'uomo con cui farò le caldarroste a Natale, a casa? Perché non si inginocchia e non mi implora di stare insieme per sempre adesso, fugando una volta per tutte le mie ambasce? Lui, che nel mio sorrisetto amarognolo legge solo un po' di stanchezza fisica, mi abbraccia e commenta il diadema della sposa. «Anche tu ti metterai la coroncina?» «Solo se tu ti metti il bolero» gli rispondo con la consueta allegrezza standard. Intristirsi per una cerimonia è veramente patetico.
«Andiamo a vedere la cappella dove ci si sposa» propone lui entusiasta.
Fai pure... scherza col fuoco. Mi prende per mano e seguiamo le indicazioni per la "Chapel" del Bellagio. Arriviamo in un atrio dove altre coppie assortite nei modi più inaspettati fanno la fila per scambiarsi promesse eterne davanti a uno sconosciuto. Riusciamo anche a sbirciare dentro una cappella. Ovunque lampadari in vetro soffiato e fiori veri talmente sgargianti da sembrare finti. Alle pareti colori tenui e non meno di quaranta chilometri di tendaggi vari a cascata davanti alle finestre. Molte di queste coppie non convalideranno le nozze una volta tornate al loro paese, e sarà come se si fossero sposate a Topolinia, però sembrano felici lo stesso. Michele si allontana un attimo e torna con un catalogo capace di toglierci ogni curiosità; ci sediamo sulla panchina intarsiata in alabastro bianco e lo sfogliamo insieme. Si può noleggiare e prenotare qualsiasi cosa possa essere utile nei cinque minuti da trascorrere davanti al celebrante e anche per l'eventuale ricevimento: smoking, velo, scarpe di vernice, fedi, bomboniere e il buffet, dal menu con champagne ed escargot a quello con cheeseburger e Coca maxi. In quel momento esce dalla cappella un'altra cop¬pia, che incede con allegria nella nostra direzione. Italiani anche loro, si comportano nella modalità tipica dei connazionali all'estero. Ci riconoscono dall'abbigliamento e, anche se probabilmente nel loro condominio non salutano neppure la signora Sanna elei terzo piano, ci riservano una calda accoglienza e si fermano a chiacchierare con noi. Nel giro di pochi minuti i convenevoli ci sfuggono di mano e da un breve augurio finiamo per diventare gli invitati d'onore - gli unici, più che altro - al loro matrimonio. I novelli sposi Alessandro e Luciana, di Senigallia, fidanzati da quattro anni, ci raccontano di aver ceduto alle lusinghe delle nozze
lampo romanticamente ispirati da Elvis the Pelvis. Lo sposo ci mostra con orgoglio gli stivali a punta bianchi che gli ha regalalo la sua ragazza. «Stupendi...» mento educatamente io. Lei si vendica, inconsapevole dei miei pensieri malvagi sul suo gusto, un istante dopo. «Voi, invece, quando vi sposate?» «Guarda, basta mia madre a farmi questa domanda ogni due mesi, ci manchi solo tu. Su... andate a festeggiare. Del resto è la vostra prima notte di nozze, non la vorrete passare con noi?» «Ma almeno un brindisi insieme, non c'è neppure un nostro parente. Che fretta c'è?» insiste Luciana. «L'ho già castigata nel pomeriggio... Ma se stasera sentirete qualcuno gridare "Sì! sì!" da una stanza, almeno voi sapete chi è» aggiunge strizzando l'occhio con un pizzico di orgoglio l'elegantissimo Alessandro. Mi consolo nel cogliere un minimo di imbarazzato stupore anche in Michele per questa gradevole confessione, mentre lei invece, già conscia di essersi unita a un uomo con un umorismo da caserma, ride e gli dà un buffetto sulla guancia. «Sapete che la maggior parte della gente incontra la persona che sposerà ai matrimoni altrui? Magari il nostro vi porta fortuna» esclama la sposa alzando il suo calice. «Non credo che questo incontro sia omologabile, noi ci conoscevamo già» rispondo io per evitare ulteriori richieste di risposte serie. Rassegnati, ci uniamo ai festeggiamenti del dopocena sul terrazzo del Bellagio - noto più precisamente come "terrazza da sogno", una distesa di pregiato marmo italiano che si infrange su balconate a colonna e su composizioni floreali amazzoniche con vista privilegiata sul lago fasullo - dove, complici i mojito che scorrono copiosi, assisto impotente all'avvio della fase di regressione adolescenziale tipica anche del maschio intelligente, se in compagnia. Al terzo drink Michele inizia a trovare Alessandro divertente e al quarto si sganasciano insieme per le sue uscite degne di Landò Buzzanca nel
Gatto mammone. Mi oppongo al quinto bicchiere, prima che partano rime sconce e gare di rutti. Ci salutiamo con trasporto alle tre del mattino, e ci scambiamo anche i numeri di telefono. Con la certezza che tra appena un anno, sfogliando la rubrica del cellulare, troveremo un "Alessandro Senigallia" cui non riusciremo a dare un perché. A suggello di questa bella serata, Alessandro allunga a Michele una fiche da venticinque dollari, nello stesso modo discreto con cui mia nonna mi passava la minibanconota da cinquecento lire per le cingomme. «La vostra bomboniera...» Dà di gomito a Michele e poi va via, con lei che starnazza giuliva. «Be', visto che non ho spazio per un nuovo soprammobile che ne dici se ce la giochiamo secca alla roulette?» propongo. «Andiamo» risponde Michele senza pensarci. Torniamo nella zona casinò e dopo aver individuto il tavolo gestito dal croupier con la faccia più rassicurante, a colpi d'anca ci insinuiamo accanto a giovani rampolli e audaci anziani che sfidano la sorte assistiti da svariati portafortuna - alcuni anche minorenni, forse. Con decisione prendo la fiche dalle mani di Michele; lui mi rivolge uno sguardo fiero come uno dei trecento fighi di Sparta, e io poso la fiche sul 23. Secco. Come il numero di Michael Jordan, come il film che non sapremo mai perché Jim Carrey ha accettato di interpretare, come la data del nostro primo bacio, di cui non mi chiedo nemmeno se lui si ricordi. Niente cavalli, carré o sestine. O perdiamo tutto o vinciamo ottocentocinquanta dollari. Il croupier lancia la pallina e dà un colpo di polso da maestro alla roulette. Ci guardiamo fiduciosi, il croupier alza la mano aperta e liturgicamente pronuncia: «No more bets, please.»
Osserviamo la pallina vorticare, poi rallentare e fermarsi. Sul 44. Immobile. Il croupier, rivelatosi meno rassicurante di quanto sperassimo, con la spatoletta si porta via la nostra bomboniera e mi guarda con aria di sufficienza. «Come la mia taglia, che coincidenza.» «Bugiarda...» «Cafone.» Tra un paio di finte recriminazioni e qualche bacio vero ci dirigiamo verso l'ascensore, quando lui riceve un SMS dal suo capo. Lo legge, sbuffa e mi stringe ancora più forte. «C'è un piccolo cambiamento di programma.» «Amo gli imprevisti, fin da quando giocavo a Monopoli» gli rispondo io ancora tranquilla. Nei mesi successivi avrei avuto tempo e modo di rim-piangere amaramente quell'affermazione.
Sette Trascorriamo altri due meravigliosi giorni nella mirabolante e viziosa città che non dorme mai. Dopodiché, a causa del fatidico imprevisto lavorativo di Michele, mi ritrovo nuovamente a prendere posto su un aereo. Ma questa volta, almeno, con lui. Destinazione Austin, Texas: la terra della perfida Alexis e di J.R. «Perché continuiamo a cambiare città, o meglio Stato, ogni tre giorni? Hai nemici pericolosi?» «No, sono molto amato, lo sai...» «Da me oggi un po' meno, mi hai fatto alzare di nuovo alle sette.» «Mi farò perdonare...» «Non ne dubito. Ma perché sei così misterioso e non mi dici cosa stiamo andando a fare in Texas?» «Non sono misterioso, è che non voglio annoiarti con le mie questioni di lavoro.» «Ah ho capito, se mi dici troppo, poi mi devi uccidere. Voi trafficanti di tende siete torbidi e pericolosi.» «Non sono un trafficante di tende... E poi, non sei curiosa di vedere il Texas? Vedrai, ti piacerà: ci sono i Ranger, gli armadilli e i cowboy.» «Bene... E i negozi?» «Belli.» «Me lo farò piacere, allora.» Come al solito in aereo inganno il tempo con attività di vario genere: seguo con le cuffiette monouso Cars e mi chiedo come abbia fatto fino a quel momento a vivere senza una macchina rosso fuoco, giochiamo a Scarabeo tascabile, e con mia grande soddisfazione riesco finalmente a comporre parole più complesse di "tana", "topo" e "neo". Fedele alla linea già intrapresa in hotel a Las Vegas, e posseduta dall'italica attitudine allo scrocco, depredo il kit da viaggio fornitomi dall'affabile hostess e indosso con piacere la mascherina da
Zorro: protegge gli occhi dalla luce e dà quel tocco supplementare da donna manager che attraversa in lungo e in largo il mondo. A otto ore dal mio addio al Bellagio mi ritrovo in un'altra camera d'albergo a fare la solita perlustrazione. La minacciosa testa di toro appesa nella pur elegante hall del Driskill mi aveva intimorito, ma fortunatamente gli arredi della camera non sono abbinati al trofeo di caccia. Nessuna scena bucolica o pittura rupestre alle pareti. La camera è ariosa e chiara e il letto a baldacchino è posto davanti a una portafinestra enorme affacciata su un giardino ben curato. Purtroppo anche a questo hotel è sfuggita la fantastica invenzione nota col simpatico sostantivo "tapparella", e so già che le prime luci dell'alba si faranno beffe di quelle tendine. Il bagno è spazioso e i prodotti offerti gentilmente agli ospiti hanno un buon odore. Meno gentile il pensiero di far trovare agli ospiti sotto il lavabo una bi¬lancia, che mi guarda dal basso verso l'alto, ma senza nessuna umiltà. La ignoro e mi dedico alle mie valigie, che già dopo la prima tappa a Las Vegas avevo faticato a richiudere. Guardandole, temo il momento in cui andrò via da qui, soprattutto in caso di acquisti texani. Occupo lo stand apposito in cui i bastimenti vanno adagiati, due sedie e il divano ai piedi del letto, lasciando a Michele una minuscola poltrona laterale, come al solito. Accendo la TV, che offre i consueti canali locali e la lista di film per adulti, accessorio accolto di solito dalla clientela maschile con lo stesso giubilo che le donne riservano al centro benessere. Michele si è già cambiato e sta per uscire. «Vado a lavorare, ma torno presto e ti porto a cena. Mi aspettano al centro congressi in cui dobbiamo ristrutturare due sale, Erika è già lì» dice distrattamente mentre riordina i documenti che deve portare con sé. «Con la c o con la k? E soprattutto, chi è?» «È la figlia del mio capo, te ne avevo già parlato. Si è appena laureata in architettura; questo è il primo progetto importante che il
padre le ha affidato e mi ha chiesto se le posso dare una mano a impostarlo. Ecco perché siamo dovuti partire all'improvviso, sembra sia in difficoltà.» «Quindi è per colpa sua che io sto girando più Stati di un candidato in corsa per la Casa Bianca?» «Be', è la sua unica figlia, lui vuole andare in pensione. E credo voglia capire se può lasciare le cose in mano a lei serenamente, e poi...» «E poi cosa?» lo incalzo io. «No, niente.» «Non mi fare diventare isterica, lo sai che non si dice mai no, niente dopo che si è lasciata una frase a metà. E poi cosa?» «Davvero, preferisco aspettare un po' prima di dirtelo...» «Michele!» «E va bene.» Michele fa un sospiro e mi si siede vicino. «Allora, prima di partire per Las Vegas ho visto il dottor Delmonte, il mio capo. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha spiegato che vorrebbe lasciare il suo posto alla figlia e nominare me amministratore delegato della società... Questo vorrebbe dire finalmente smettere di viaggiare così tanto e fermarmi a Milano.» Esplodo in un urlo di gioia: «Ma davvero?». «Ma davvero» mi risponde lui. «Però credo che prima voglia capire se Erika sia in grado di sostituire me. Così poi...» «Così poi?» «Così poi magari riesco a realizzare i sogni di una giovane, brillante, affascinante attrice...» «E pure i tuoi, spero...» «Pure i miei.» I baci dopo frasi come questa hanno sempre un sapore migliore. Lo accompagno alla porta e, prima ci i aprirla, gli chiedo inquisitoria:
«Ma com'è questa Erika?» «Che ne so, com'è...» risponde lui con ostentata sufficienza. «Come, che ne sai? È carina o no?» «Carina?» ripete lui con tono interrogativo. «Mah, non lo so, non l'ho mai guardata, la conosco da quando era una ragazzina, lavoro per il padre da dodici anni. È normale, direi... E poi amo te e solo te.» «Bravo, bella risposta.» «Mi dispiace lasciarti sola.» «Non resterò sola. Vado a cercarmi un guardaboschi, sai che ho sempre avuto un debole per i tipi alla Chuck Norris, e poi mi faccio accompagnare a fare shopping a cavallo.» Mi sorride e se ne va. E io penso che tutte le mie domande della notte prima davanti all'improbabile coppia di sposi, dopo due anni in cui mi è sembrato di stare con un marinaio dell'Amerigo Vespucci, forse stanno per avere una risposta. Rinvigorita da questi nuovi pensieri felici, con il ricordo delle baluginanti notti di Las Vegas ancora fresco nella memoria, mi trovo nell'ampia, calda e disciplinatissima vita texana. Passare da Sin City, la capitale del peccato, l'unico Stato americano in cui la prostituzione è legale, al Texas come lasciare Sbirulino per fidanzarsi con Hulk. Ma nel mio viaggio alla conquista del Texas ho modo di scoprire, dopo solo mezz'ora di passeggiata in centro, quanto questa terra sia luminosa e ospitile. Strade molto larghe accolgono villette su due o tre piani, simili a quelle della famiglia Simpson. Automobili gigantesche sono parcheggiate davanti ai garage con la porta in legno, e le celebri cassette della posta in metallo contraddistinte dalla cinematografica bandierina rossa troneggiano all'imboccatura del vialetto. Non mancano neppure molte case delimitate dalle altrettanto note staccionate di pino dipinte a mano da un qualsiasi Karate Kid contemporaneo.
E poi ci sono le donne locali: in città le abitanti medie sono floride e in carne, ed è molto facile incontrare parecchie di loro che all'alta moda sembrano decisamente aver preferito l'alta pasticceria. A loro spese hanno già scoperto quanto il burro d'arachidi sia più calorico della Nutella. Fare shopping si rivela qui un'esperienza liberatoria: per via di questo diffuso amore per i peccati di gola, anche i negozi di abbigliamento hanno dovuto adeguarsi. Già nel primo negozio capisco che tira un'aria nuova. Chiedo di provare il vestito che ho visto in vetrina. La mia 46 diventa qui un'innocente e più che diffusa "8", e non è la taglia più grande disponibile. In questo fantastico negozio si arriva a contemplare allegramente fino alla taglia 52 senza pregiudizi stilistici di sorta. La commessa sorridente è avvezza a interagire con donne simili a me, fatte più per essere spogliate che vestite, al contrario delle solite sotto la 42, e non mi guarda come se avessi chiesto un cesto di lumache fresche in calzoleria, ma ribatte con un garbato: «Just a moment». Felice come una bimba la mattina di Natale vago da uno scaffale all'altro, e provo di tutto. Spettacolo nello spettacolo, la commessa mi accompagna al camerino, mi chiede come mi chiamo e scrive il mio nome sulla targa dorata ovale affissa al centro della porta. Mi sento la regina del cubicolo. Dopo due ore saluto la commessa Naomi, che è diventata nel frattempo la mia migliore amica texana, e torno verso l'albergo con tre sacchetti giganti al braccio. Nella hall, vicino al toro e alle sue corna, e già vedo in questo torbidi presagi, incappo in Michele che parla con Barbie manager, una piacente bambolina coi capelli chiari raccolti in uno chignon, gli occhi verdi nascosti da un paio di occhiali da porno-segretaria e un completo blu scuro. Ridono.
Ma cosa ridono? Spero che nei passi che mi separano da loro io riesca a liberarmi dall'espressione truce che sento di avere in viso. Michele mi vede e subito mi viene incontro.
«Ciao amorino, vedo che ti sei trovata bene in centro. » «Eh, sì» rispondo io un po' asciutta. Raggiungiamo la smilza e lui procede con le presentazioni: «Erika, questa è Geppi, la mia fidanzata.» «Ciao, Erika» le dico col sorriso migliore che posso, stringendole la mano.
Molto bene, questo avanzo di passerella è Erika. Mi sembra evidente che non è più una ragazzina da qualche anno... "Non l'ho mai guardata" ha detto Michele... Certo... che bisogno c'è di guardarla? Chi non la noterebbe, questa qua... «Ciao, molto piacere, finalmente ti conosco, ho sentito tanto parlare di te» le dico falsa, sperando che Michele colga la neppure troppa stizza. «Spero bene» ribatte fintamente lusingata. «Allora, come va questo nuovo lavoro?» «Mah, sono molto spaventata, ci sono tante cose a cui pensare!» risponde lei. «Meno male che c'è Michele, è tutto così complicato, senza di lui non saprei proprio come fare.» Gli lancia uno sguardo che non dovrebbe, con quelle ciglia lunghe circa ventisette centimetri. «Ti capisco, siamo in due qui» e rido nervosamente e da sola. «Vero, tesoro?» rilancio dando una gomitata non simbolica nel fianco di Michele. «Certo» fa lui, interrompendo il momento di silenzio, e portandosi la mano sul costato. «Be', Erika, io e Geppi adesso andiamo a cena, noi ci vediamo domani alle dieci, va bene?» «Agli ordini, capo» risponde lei mettendosi sull'attenti. E ride.
Ma sei cretina che sbatti pure i talloni? Cosa c'è da ridere? Ma io ti tiro i capelli, ti sciolgo lo chignon, mi lecco il dito e te lo passo sulle
lenti degli occhiali... No, un attimo non posso, è la figlia del capo... Se questa diventa brava Michele torna a Milano. Ci vuole autocontrollo. Le stritolo la mano, ma con espressione pacifica: «Allora buon lavoro, Erika, in bocca al lupo» e rivolta a Michele per mostrare una certa superiorità e controllo della situazione: «E tu non metterla troppo sotto, eh?»
Ma che espressione ambigua... Ma come mi è venuta in mente? «A presto, allora.» Ci saluta e se ne va sculettando. Michele mi prende per mano e andiamo verso la nostra camera. Lo lascio fare perché sono sicura che lei è rimasta lì a guardarci andare via e il solo pensiero che ci veda discutere mi è insopportabile. Ma appena lei è fuori portata, parto. Mi sforzo di tenere basso il tono di voce riservandomi eventualmente di gridare solo in un secondo momento. «Scusa un attimo... ma secondo te quella là è "normale"?» Michele, sapendo che qualsiasi cosa dica potrebbe essere usata contro di lui, teme di dare la risposta sbagliata e si rifugia subito nella tecnica del minimizzatore professionista. «In che senso? Ma cosa me ne importa poi di com'è? Te l'ho detto, per me non esiste come donna, è solo la figlia del mio capo, e tra l'altro ti ricordo che rappresenta l'unico modo che ho per tornare a Milano. Lo sai pure tu.» Lo guardo, anzi lo scruto, più che altro tento di leggergli le intenzioni in faccia, e così, a prima vista, sembra sincero. Ma mi fa infuriare pensare che forse ha deciso di non avvertirmi di proposito, rimandando il più possibile la mia scoperta dell'avvenenza della sciampista. Non senza fatica, cerco di non sbottare e non dare troppa importanza alla giovane. «Mah... sarà... hai ragione... quindi non fa niente, se lei è una ventenne strafiga.» «Esatto, non fa niente» risponde lui sospirando. «Allora vedi! Lo ammetti che è una strafiga?»
Lui non ha nessuna intenzione di litigare e sa bene i he discutere animatamente da soli è impossibile, quindi passa alla fase due, quella del ruffiano adulatore. «Allora... ammetto che amo di te anche questo lato alla Perry Mason, ma mi oppongo alle tue obiezioni, il fatto non sussiste e mi vorrei ritirare per deliberare... Vieni qui...» Smetto di fare la gelosa nevrotica, funestata dalle mie nuove prese di coscienza. «Passerai tanto tempo, con quella lì...» «Sì, ma vestito e infelice.» La tensione drammaturgica da me orchestrata si infrange sul fallimentare tentativo di trattenere una risata. E lui vede la breccia in cui insinuarsi. «Stai cedendo?» «Forse...» Si avvicina. Lo respingo, ma senza essere molto convincente, o meglio senza voler essere molto convincente. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è trascorrere una delle poche serate insieme discutendo e parlando di un'altra donna, per quanto carina sia lei, cieco si mostri lui e desiderosa di metterle le mani addosso sappia bene di essere io. Mi torna alla mente l'immagine di quella coppia che una volta vidi salutarsi all'aeroporto e di cui origliai il commiato. Lei, in partenza, piangeva disperata nell'incavo del collo di lui, biascicando lamentosa. Aveva tentato anche la carta dell'umorismo emotivo, usando l'insopportabile voce da bimba e ipotizzando giocosa: «Magari sarai contento che sto partendo, vero?» Lui, accarezzandole la testa l'aveva rassicurata: «Non dirlo neppure per scherzo, ssshhh.» Ma dopo l'ultima chiamata del volo, dopo che lei era corsa via strofinandosi il naso ormai fucsia con il sedicesimo fazzoletto di carta,
lui si era voltato alzando gli occhi al cielo ed era andato via con un'enormi' nuvoletta fumettistica che gli galleggiava sopra la testa: "Grazie a Dio se n'è andata". Decido quindi di interpretare la parte della fidanzata fiduciosa che non ha niente da temere, anche perché sento che lui è sincero. Certo, ho visto come lo guardava lei. E, al contrario degli uomini che sentono odore di bruciato solo quando hanno la coda in fiamme, io trovo già inequivocabile il suo modo di porsi. Nessun dubbio: Erika con la kappa per noi sarà una dolorosa spina nel fianko.
Otto Dopo giorni così rutilanti ed emotivamente faticosi tornare a Milano è una prospettiva molto più accattivante di quanto credessi. Le tazze di Las Vegas e un termos con la scritta "Cold Texas" non sono l'unica rosa di cui in Italia non si sarebbe sentita la mancanza: sapere che il mio fidanzato andrà in giro per il mondo con una cui non affiderei neppure il filarino di un'acerrima nemica non è proprio il souvenir dagli USA che avrei voluto per me. Cosa può distrarmi dal pensiero di loro due che lavorano insieme come Ric e Gian, Gigi e Andrea, Gaspare e Zuzzurro? Sapere che al mio arrivo a Linate non devo fare la fila per prendere un taxi, passando tra le forche di chi mormora con aria di cospirazione: "Città?" come li stesse offrendo del crack, sarebbe già un'ottima notizia. Ma essere certa di potermi dirigere con passo deciso verso l'angolo consueto dove Stefi e Lucia sono ad attendermi, non ha prezzo. Sono stravolta. Durante la trasvolata la mia fervida immaginazione, sostenuta da uno sperimentato pessimismo leopardiano, ha sondato e ipotizzato qualunque possibilità. Ho valutato seriamente l'eventualità che Michele abbia subito un lavaggio del cervello. La mia mente ha generato immagini vivide, terribili e chiare fin nei dettagli più torbidi: lui e la giovinetta, dopo aver siglato un contratto multimilionario con qualche cliente, vengono uniti in matrimonio. In qualche incubo sono comparsi a piedi nudi sulla spiaggia di Honolulu. Il loro officiante era il proprietario di Fantasilandia, aiutato dal fidato nano Tattoo che suonava l'organo. Mi lascio alle spalle il lunghissimo viaggio-incubo e rimetto piede nella mia patria d'origine più o meno nello stesso momento in cui Michele ed Erika, dopo un bell'Austin-Houston-Pechino-Hanoi, raggiungono la via della seta in Vietnam, alla ricerca di organze e filati rarissimi. Recupero il bagaglio dal nastro e, come di consueto, stimo rassegnata con un rapido sguardo i danni provocati alla mia valigia durante il trasporto. È decisamente peggiorata rispetto al giorno della
mia partenza solo dieci giorni prima. Ha messo su dieci chili e resta chiusa contro ogni legge della fisica. Non senza fatica, la tiro giù dal nastro trasportatore. Varcata la soglia della porta scorrevole, le vedo su bito: Stefania ha in mano un mazzo di fiori preso si curamente al distributore automatico cui ricorrono i fidanzati romantici ma ritardatari. Lucia è la prima ad individuarmi e mi viene incontro sorridente. A giudicare dagli abbracci che ci scambiamo si potrebbe pensare che io sia la cugina nata in Australia dagli zii emigrati lì per aprire una gelateria, e che questo sia il primo incontro dopo anni di epistole e fotografie, non dopo un viaggio di dieci giorni. «Che bello che siate venute! Come state? Mi portate a casa? Ho bisogno di mangiare della pasta. Troppi giorni senza mi debilitano.» «Ma certo» risponde Stefania. «Lucia ti voleva pure preparare uno sformato di quelli che piacciono a te, però poi...» «Però poi non ho fatto in tempo» finisce Lucia decisa. «Non c'è problema, andiamo da me e cucino un piatto di pasta al sugo, o al ragù, tanto ho entrambe lei cose nel congelatore, vi va? Basta che ci sia formaggio, tanto formaggio...» «Io ci sto» risponde Stefi. Lucia è meno entusiasta all'idea, anzi è chiaramente pervasa da un conato, giusto il tempo di dire: «Scusate un attimo» e corre verso i bagni. «Le fa questo effetto l'idea del mio manicaretto?» chiedo a Stefania. «No, non sei tu.» «Poverina, allora sarà qualcosa che ha mangiato.» «No, no, sarà qualcosa che ha fatto» si lascia scappare Stefi. «In che senso?» La guardo in faccia e lei - che al posto di suor Lucia a Fatima avrebbe di sicuro fugato i dubbi di tutta la comunità cattolica al
massimo dopo dieci minuti dal rientro dal piccolo monte - mi prende per un braccio e mi trascina verso il bagno: «Andiamo da lei, ha bisogno di noi.» Il senso di questa affermazione si chiarisce nel giro di pochi secondi nel bagno dell'aeroporto, con Lucia che si appoggia a un lavabo un po' sconvolta. Le vado subito incontro e cerco di capire come sta. «Luci, stai bene? Che cosa succede? Non farmi preoccupare!» «Ho rifatto il test di gravidanza.» «Cosa mi stai dicendo, Luci?» temo già ciò che stanno per sentire le mie orecchie. «Ho già fatto anche le analisi del sangue...» «Incinta?! Lucia, non mi starai dicendo che sei incinta?» In quel momento entra la donna delle pulizie, che inchioda a un millimetro da noi col carrello dei suoi prodotti igienizzanti. Avendo colto il senso del mio quesito si mette pure lei ad aspettare una risposta con credibile impazienza. Lucia fissa per un attimo me, poi la signora, che risponde con un movimento laterale del mento come dire: "E allora?" e scivola infine su Stefania, che si insapona le mani per la quarta volta in dieci minuti. Come risposta Lucia si porta la mano alla bocca, riapre la porta della ritirata e se la chiude alle spalle. «Bastava anche un sì» mormoro tra me e me, mentre la signora urla un tradizionale «Tanti auguri e figli maschi» a Lucia, e se ne va. Al contrario della solita chiusura di serata in qualche bistrò, come ama chiamarli Stefi, a mangiare un piatto di salumi e formaggio e bere un bicchiere d i vino tutte insieme, ci troviamo a casa di Lucia davanti a un passato di verdure. Stefania ormai da qual che giorno sta affiancando Lucia in questa nuova avventura, dispensandole preziose informazioni di continuo.
«Queste a foglia verde sono ricche di vitamine A, B, e C» ci informa Stefania, «mentre i meloni e le albicocche sono fonte di carotene, utilissimo per le gestanti.» Mentre ci dedichiamo alle verdure, apprendo anche che Tommaso vive la nuova situazione con serenità, o perlomeno è stato in grado di nascondere bene il suo choc. Lucia ci racconta di come pure lei sia rimasta colpita dall'aplomb anglosassone mostrato da Tommaso. Ancora nessuna lite provocata da questo nuovo stato delle cose, solo qualche piccola discussione causata dall'incapacità di Tommaso di distinguere le premure dalle paranoie allarmistiche. «Non vuole che sollevi pesi oltre i due chili e preferirebbe non guidassi la bici. Gli dico sempre che sono incinta, non malata, ma lui è sempre dubbioso sulle licenze che potrei avere.» «Fagli leggere questi volumetti, magari ridimensiona le sue paure» suggerisce Stefi. Scopriamo così da dove estrapola tutte queste pillole di saggezza: dalla borsa salta fuori il suo primo dono legato all'arri¬vo del pargolo, ovvero una serie di libercoli sulla maternità dai titoli più disparati: Io e la mia gravidanza, Mamme oggi, L'attesa dell'attesa. Io e Lucia iniziamo a sfogliarli, ma lei si lascia subito assorbire dalla lettura, alzando il naso solo per lare domande e valutare il grado di affidabilità degli sludi riportati. «Luci, i tuoi capezzoli si sono inturgiditi e hanno assunto un colore più scuro?» Ovviamente Lucia la guarda rassegnata e non le risponde. Lei non molla. «Ah! Vedi Luci, qui lo dice... le donne incinte hanno i capelli e la pelle più luminosi... tu come ti senti?» Lucia continua a non rispondere, e io leggo cose che è meglio lei non sappia, non ancora perlomeno. Stando a questo libro, dal sesto mese in poi sembra si possa parlare di catastrofe psicofisica: macchie scure sul viso, respirazione difficoltosa, compressione dello stomaco, problemi di digestione.
Stefi però insiste: «Luci, piangi per un nonnulla? Qui dice anche che chi è un tipo concreto potrebbe diventare in questo periodo un po' sentimentale, e chi è tranquillo, invece, un po' irascibile». «E come diventa chi è irascibile anche senza essere incinta?» chiedo io. «Fammi controllare...» risponde Stefi, e si concentra sulla lettura. Scuoto la testa. Quando Stefi è così rapita da quello che fa distoglierla è impossibile. Una domanda mi frulla in testa, e non riesco più ad aspettare: «L'hai detto ai tuoi, Lucia?» «No, non so come fare. E poi come posso per telefono?» Il padre di Lucia è un uomo severo e tradizionale, grande lavoratore e grande amante degli hobby più disparati: coltivare la vigna, imbottigliare il vino, produrre piccole quantità d'olio a uso familiare, insaccare salumi vari, vedere i figli sposarsi prima di moltiplicarsi. Anche nei piccoli paesi le cose stanno cambiando, peggiorando direbbero in molti, ma nella nostra ridente Macomer è prassi diffusa lasciare la casa pa¬terna per andare a vivere non col fidanzato, ma col legittimo consorte. Per motivi matematico-sociali è d'altro canto sempre bene che la sposa non si faccia vedere spingere una carrozzina prima di nove mesi e un giorno dalla data delle nozze. Non accenno a questi temi, ma mi mostro fiduciosa. «Be', certo, è meglio che tu vada lì.» «Mio padre... mio padre...» continua a ripetere lei stringendosi il viso tra le mani. «Hai ragione. Gli verrà un collasso... Poi però magari, una volta dimesso dall'ospedale, troverà il lato positivo...» le dico provando a tranquillizzarla. «Esattamente, quale lato positivo c'è nel fatto che una trentacinquenne nubile rimanga incinta del fidanzato lasciato
diciassette anni prima, e che ha ricominciato a frequentare da pochi mesi?» «Ma non vederla così...» sdrammatizzo io arrampicandomi con destrezza su imponenti vetrate. «Diciamo che tu sei una donna matura adulta e indipendente che affronta... con un uomo con cui ha condiviso le prime esperienze sessuali... e che quindi conosce profondamente, uno dei momenti più delicati della vita di una donna. E poi puoi aspettare un po' prima di vuotare il sacco. Tanto la pancia ancora non si vede.» Stefania ci interrompe. «Allora, Luci, secondo i miei calcoli tu dovresti essere circa nell'ottava settimana: tutto combacia, è da qualche tempo infatti che ha iniziato a comparire la nausea, accompagnata da sonnolenza e vomito. Ma non ti preoccupare, questi effetti indesiderati dovrebbero svanire entro la dodicesima... però accidenti, qui dice anche che potrebbero essere sostituiti da altri sintomi non meno fastidiosi come prurito e crampi agli arti inferiori.» «E cos'è, un terzino?» commento io, mentre Lucia, di fronte a questa sequela minacciosa, affonda il viso tra le ginocchia. Questi libri sono sì utili, ma contengono anche notizie che se snocciolate così, una dopo l'altra, possono avere effetti controproducenti. «Stefi, chiudi in bellezza, leggi almeno una notizia carina, stai spaventando la mamma.» «Sì, sì, allora senti qui: potresti entrare anche in una fase che ha un nome bellissimo. Si chiama stato gastronomico sognante.» «Oh, brava Stefi, questa dev'essere una cosa bella... leggi.» «Allora: vivrai un cambiamento disordinato dei desideri alimentari. Rifiuterai con disgusto cibi che prima amavi. Aumenterà la voglia di cose particolarmente dolci o particolarmente salate, o magari acide, che prima non apprezzavi affatto.» «Ma Stefania, questa ti sembra una bella notizia?» la rimprovera subito Lucia.
Fortunatamente suona il citofono e Stefi coglie la via di fuga precipitandosi a vedere chi è. «È Tommaso!» urla Stefi dal corridoio. «Ma Luci, non ha ancora le chiavi di casa?» «Eh no, mi sembrava troppo presto per darglie le...» «Giusto. Prima un figlio, poi le chiavi... C'è una certa logica, no?» «Andatevene» risponde lei ridendo. Tommaso entra in casa con il suo solito sorriso apei to, subito si avvicina a Lucia e la bacia premuroso. «E bravo Tommaso!» gli dice Stefi, mettendo una mano sulla spalla al futuro padre. «Chi l'avrebbe mai detto?» Lui cambia espressione: «Perché scusa, non pensavi fossi in grado di fare un figlio?». «Nooo!» chiarisce subito lei realizzando il significato delle sue parole un attimo dopo averle pronunciate, come al solito. «Volevo solo dire che non ci aspettavamo... questo... tutto questo, intendo.» «Più che altro da Lucia» rilancio io provando a levarla dall'imbarazzo. «Ha già avuto il suo secondo crollo della fertilità, eppure...» «Pensa ai tuoi di crolli» ribatte lei dalla poltrona. «Sarà una mamma dolcissima...» dico a Stefi portandola via. Questa volta nessuno ci accompagna alla porta, ma prima di chiudercela dietro facciamo in tempo a dar loro uno sguardo: lui le massaggia la schiena e lei sembra tranquilla. Al momento Lucia è decisamente in buone mani, e finché non capita nelle vicinanze di quelle del padre non avrà niente da temere.
Nove Torno a casa avvolta dal profumo dolciastro che proviene dalle gerbere portatemi in dono dalle mie amiche e, nonostante l'aria tiepida da estate incipiente, mi viene in mente il ponte dei Morti. Succede ogni volta che mi ritrovo in presenza di fiori odorosi o quando sento aleggiare il tipico aroma di cera che brucia. Per me, i simboli assoluti del romanticismo sono leciti a questa solenne e mesta ricorrenza, forse per via dei numerosi viaggi verso Luogosanto, paese di cui mio padre è originario e da lui eletto capoluogo della vera Gallura, nonché sede della tomba di famiglia verso cui venivo tradotta senza il mio assenso durante gli anni degli studi elementari. La mia vita non è stata ancora abbastanza romantica perché io possa affrancarmi completamente da questa suggestione. Dopo aver riposto i fiori in un vaso, io e i miei fantasmi, sia del passato sia del presente, ci ritroviamo a guardare la TV nel mio letto, con accanto alcune famiglie di zanzare, una delle poche cose che l'estate milanese ha in comune con quella sarda - oltre l'afa soffocante. Io sono gestita, come di consueto, dalla mia insonnia genetica e potente, peggiorata dal trauma da fuso orario e dalle mie inquietudini altalenanti e minacciose. Lucia madre, Michele in giro per il globo senza di me, Lucia che vomita nei bagni dell'aeroporto, Erika che in minigonna fa cadere documenti e li raccoglie sinuosa davanti a Michele mostrando le cosce fasciate da un collant quindici denari, Lucia che non sa come dire a suo padre che non è più vergine, il padre che le toglie il cognome, Michele che si di¬strae un attimo e si ritrova la squinzia al collo come un boa di pitone. Odio non avere il controllo della situazione. Basta. Decido di chiamarlo. Sicuramente sentire la sua voce scioglierà i miei dubbi. Sono le tre di notte in centro a Milano e le nove del mattino nel Vietnam. Anche lui, probabilmente un po' stordito dal lungo viaggio e dal jet-lag, sarà già o ancora sveglio. Digito il numero, e dopo quattro squilli risponde una donna.
Cosa ci fa una donna alle nove del mattino col suo telefono in mano, per tutti i numi del cielo? Penso subito a Barbie, che con un babydoll in pelle borchiato si aggira nella sua camera d'albergo ricordandogli di firmare degli importanti documenti, e il movimento dei miei ventricoli subisce un'accelerata. Prendo qualche secondo di vantaggio per escogitare un piano difensivo. Ripeto: «Pronto?» a mia volta, simulando problemi sulla linea, ipotesi più che plausibile, visto che si trovano a trentamila chilometri da me. L'infame è decisamente più reattiva. «Geppi, sei tu? Ciao, sono Erika, sai, io e Michi siamo qui a fare colazione e lui si è allontanato per qualche istante. Gli dico che hai chiamato.»
Michi? Colazione?! Non devo mostrarle il fianco. Ostento tranquillità, al telefono è più facile. «Ma certo... allora digli che tanto sono sveglia, e che aspetto la sua chiamata.» «Va bene, tra un po' abbiamo una riunione coi proprietari dell'opificio, ma prima i nostri referenti locali hanno deciso di portarci alle terme o qualcosa di simile, a fare, non so, non ho capito... tipo un bagno turco, la doccia scozzese o un massaggio tailandese.» E ride. Ride molto, la smilza, come il primo giorno che l'ho conosciuta. Qualcuno deve averla convinta che quando ride è più graziosa. E poi continua. «Ci vogliono viziare un po' prima che cominciamo a lavorare. Sai, anche Michi è molto stanco.»
Ancora Michi? "Ci" stanno viziando cosa significa? Parli come il mago Otelma che si dà del noi, o cosa? E poi, il bagno turco non è quello che si fa seminudi e durante il quale si suda e la pelle brilla imperlata di rivoli umidi? Ma tu, lurida agente provocatrice, come ci vai vestita nel bagno turco? E poi che diavolo ci fanno due italiani,
questi due italiani soprattutto, in un bagno turco? Sembra l'inizio di una barzelletta multietnica e sarebbe quasi interessante, se non fosse che io non sono nel cast, e che odio le barzellette. La calma è la virtù dei forti, e io sono in grado di essere forte, calma e altresì virtuosa, con sfumature di spietatezza. Lei però mi precede e dà un'irritante accelerata. «Dovresti essere qui, è un posto romanticissimo e bellissimo.» «Magari vi raggiungo. Chi lo sa...» Devo sopprimere ogni mio istinto, non è necessario sappia cosa le farei se piombassi lì davvero. «Va bene, allora dico a Michele che hai chiamato.» «Perfetto, allora grazie e buon bagno.»
Che tu possa passare alla storia come la prima persona che affoga in una doccia. Ecco la conferma che l'unico filato che interessi Erika è quello della ragnatela che sta preparando e in cui intende avvolgere Michele. Sono fuori di me e non so che cosa fare. Questo rapporto aeroportuale è difficile già di suo, ci mancano solo simili difficoltà supplementari. Avevo sempre saputo che le relazioni a distanza sopravvivono a fatica, ma fino a quel momento avevo sempre trovato abbastanza semplice avere un fidanzato con molti punti sulle tessere fedeltà delle compagnie aeree. Mi ritrovo ora per la prima volta a pensare che possa es sere più fedele alle compagnie che a me. I rapporti a distanza piacciono decisamente più agli uomini che alle donne. Così loro hanno gli spazi esistenziali non troppo violati e la certezza di avere qualcuna che li aspetti O da aspettare. Per una donna è tutto più delicato: rinunciare al controllo capillare non è affatto facile. La fiducia qui assume un ruolo delicato, ma ci sarà pur un motivo se tutti pensano che i marinai abbiano da sempre
avuto una donna in ogni porto. Perché nessuno si è mai chiesto cosa combinano le mogli dei marinai rimaste a casa? Al momento sono la moglie bigia di un marinaio che si accompagna a una mozza coi tacchi. Nell'attesa che richiami faccio un po' di zapping, veloce e nevrotico come solo agli uomini della mia famiglia ho visto fare: quaranta canali in quaranta secondi senza avere la minima idea di quel che gli sta passando davanti agli occhi, per poi finire ipnotizzati dalla prima schermata di Sky e da quella musica trionfale che lieve aver ispirato più di qualche follia domestica. Poi, grazie al fatto che siamo già nel mese di giugno di palinsesti sembrano studiati da Nunzio Filogamo, ini fermo e lascio che il nostalgico passato prenda il sopravvento sul preoccupante presente. Le note serie TV con cui le ragazze dai quarant'anni in giù sono cresciute vivono all'alba rinnovati fasti. Loro c'erano prima. Molto prima che le casalinghe fossero così disperate, qualche lustro in anticipo su Will and Grace, che ha sancito i vantaggi dell'avere un amico gay, e quando ancora non si sperava di incontrare in ospedale un medico come George Clooney, loro c'erano già. Davanti a Spazio: 1999 e all'astronave Luna con decimazione Base lunare Alpha, in simil marzapane, e alle immagini di un allunaggio talmente dubbio che pure mio nipote di sei anni faticherebbe a crederlo reale, mi commuovo rivedendo uno dei personaggi che più mi affascinava da bambina. Maya, la fidanzata di Tony, con le sue sopracciglia di praline di cioccolato e il suo utilissimo superpotere oculistco, la capacità di trasformarsi alla bisogna in animale o mostro galattico, dopo un primo piano sulla cornea. Un calcolo approssimato mi fa realizzare che la prima volta che ho visto decollare quell'astronave avevo dodici anni. Dodici. E ora ne ho quasi il triplo. Il triplo... Le dodicenni moderne crescono con altri riferimenti: per loro l'unica e sola Carrie è quella di Sex and the City, non l'incendiaria
con lo sguardo assassino di Stephen King. Conoscono a malapena Fonzie, Ricky Cunningham, Potsie, Ralph e Sottiletta, ma sono pazzi di Rachel, Ross e Monica, non conoscono i gemelli Brenda e Brandon Walsh di Beverly Hills 90210, ma sanno tutto di Orange County e
Dawson's Creek.
I nostri punti di riferimento erano di certo meno glamour, ma non per questo meno attraenti ai nostri ingenui occhi. Wow, inizia Tre nipoti e un maggiordomo: dal passato spuntano Cissy, Buffy e Jody, coi capelli biondi e crespi, zio Bill e il fidato French, il maggiordomo che tutti noi avremmo voluto da piccoli per giocarci insieme, e che vorremmo da grandi per intrattenere i nostri figli. Me lo gusto nostalgica, nonostante dialoghi e problematiche siano senza dubbio superati almeno quanto le loro acconciature e i loro arredi. Controllo l'ora, sul cellulare ovviamente, visto che ormai gli orologi sono oggetti in via d'estinzione, come il telefono in bachelite con la ghiera rotante, gli hula hop e i tamburelli d'estate in spiaggia. Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Sono le quattro. Mi accerto che il telefono riceva, non si sa mai. Lo spengo. Lo riaccendo. A volte i messaggi si smarriscono nell'etere, restano intrappolati nella rete. Per sicurezza, chiamo il centro servizi con una scusa per verificare che il telefono sia a posto. Lo è, ma non squilla. Dannati cellulari e maledette siano tutte le ripercussioni che hanno avuto sul fertile territorio delle paranoie femminili. I produttori di questi piccoli diabolici oggetti hanno mostrato grande comprensione per queste esigenze femminili. La personalizzazione dei toni, sia delle chiamate che degli SMS, serve proprio a evitare delusioni. Conosci il mittente del messaggio nel momento in cui ti arriva. Di recente ho acquistato un telefonino nuovo e ho chiesto al giovane venditore se il modello che mi stava proponendo aveva questa funzione. Mi ha guardato come se fossi una pazza, ma è del resto
innegabile che le donne scrivano molti più SMS degli uomini. Le tariffe promozionali per scambiarsene fino allo sfinimento sono fatte apposta per noi, che amiamo inquinarci a vicenda il telefono con messaggi (anche inutili) a cascata. Gli uomini non sempre rispondono e quasi mai usano tutti i centottanta caratteri a loro disposizione, ma io non sopporto di essere ignorata via SMS, per me tutti i messaggi necessitano di una risposta sempre, divento nevrotica in caso di assenza di risposta in condizioni normali. Figuriamoci adesso. Non può non richiamare. Cerco di darmi delle spiegazioni, non tutte caratterizzate da fortissima plausibilità... Forse il suo telefono non ha campo... Forse si è scaricato oppure è esploso mentre consultava la rubrica, può succedere no? Ecco perché non richiama. Sfamo il mio appetito di attenzioni amorose con snack retroattivi leggendo gli SMS di Michele dell'ultimo periodo: è un fioccare di dolci tenerezze e ironiche buonenotti. Purtroppo alcuni messaggi finiscono con puntini di sospensione, così amati dagli uomini e, al contempo, adatti a mandare in crisi qualsiasi tipo di donna. Stiamo ore a domandarci di cosa esattamente possano essere preludio, sforzandoci di capire cosa il loro autore volesse sottintendere esattamente. Di regola non voleva dire proprio nulla: semplicemente ignora il valore della punteggiatura, non sapeva come chiudere il suo pensiero. Rileggendoli sognante concludo che Michele è un consumatore moderato di punteggiatura inutile. Le energie positive, però, non smuovono niente: lui non chiama. Starà facendosi massaggiare con delle pietre laviche incandescenti mentre Erika se ne nasconde un paio addosso e lo sfida a trovarle, cose così. La odio. Mi odio. Sono patetica. Prendo il computer e mi collego a internet, guardo la posta, metto nel cestino le catene di sant'Antonio secondo cui se mando questo messaggio a trenta persone mi arriverà una bella notizia entro sette giorni. Al momento escludo l'arrivo di una lieta novella e reputo più probabile una telefonata come quella di The Ring, in cui una persona affetta da forte raucedine mi comunicherà che entro sette giorni il mio fidanzato giacerà con un'altra.
Visto che ci sono, incuriosita dalle immagini delle serie appena riassaporate, vado su YouTube a cercare i video relativi a Tre nipoti
e un maggiordomo.
Non si rivela una buona idea. In rete scopro che l'attrice che interpretava la piccola Buffy ci ha lasciati, giovanissima, da qualche anno. E purtroppo non è la sola. Con lei lo zio Bill, il maggiordomo, e anche altri piccoli e grandi interpreti di fondanti riferimenti socioculturali per chi come me è nata negli anni Settanta: ci guardano dal cielo anche il papà di Baby in Dirty Dancing, il biondino che leggeva il libro de La storia infinita nella soffitta della sua scuola, Kimberly, la sorella del piccolo Arnold e pure Tattoo, che nei miei incubi a occhi aperti di solo qualche ora prima suonava la marcia nuziale durante l'immaginario matrimonio di Michele ed Erika. Una strage. Spengo il computer e torno a guardare la TV. Mi addormento vagamente amareggiata ripensando a Jody e Buffy che battibeccano per qualcosa riguardante la signora Beasley, la bambola orribile di cui la piccola con i codini era tanto fiera. E l'imperfetto qui - ahimè - è d'obbligo. Mi sveglio otto tormentate ore dopo, allungo la mano verso il comodino e prendo il cellulare. Nessuna chiamata senza risposta, nessun messaggio. Non ho ancora fatto colazione, praticamente non ho ancora aperto gli occhi, e sono già furiosa, o meglio: offesa. Dio sa di cosa è capace una donna offesa, quanto a lungo può decidere di rimanerlo, e quanto minuziosi possano essere i dettagli dei capi d'accusa elencati nell'esaltante momento dello scontro finale.
Dieci Alcune dicerie infondate messe in giro da maschi sono volte a farci credere che, in caso di nervosismo femminile, solo loro possiedono la cosa capace di riconciliarci col mondo. E abbastanza evidente che questo ragionamento vale per loro, e non per le donne. A calmare noi servono beni più o meno durevoli, ma comunque tangibili, cui possiamo provvedere anche da sole: scarpe, libri, DVD, fiori, piccoli e grandi oggetti con poteri arredanti. O, in alternativa, altri articoli, misurabili in purezza, durezza e carati, che, se acquistati autonomamente, rischiano di perdere parte del loro appeal. Nel caso specifico, ciò che rasserena me è il pacco i he arriva da casa mia, o meglio: il Pacco. Non c'è sardo fuori sede, siciliano o nativo di qualsiasi regione ila Roma in giù, che periodicamente non si veda recapitare una scatola di cartone chiusa col nastro adesivo a banda larga marrone, pieno di amore e colesterolo, sempre in quest'ordine. Per quel che riguarda me e il mio carico, alcuni ali-menti sono degli immancabili classici: formaggi freschi, stagionati o spalmabili, dolci tipici - tilicche, pardule, pirichitti, gueffus - e verdura di stagione piantata, coltivata e raccolta da Masuccio, il fraterno e poliedrico amico d'infanzia di mio padre, che quando dice: "Vado a prendere la verdura" intende: "Vado a coglierla nel mio orto dove piantai io stesso dei semi mesi fa". Gli aromi che si sprigionano mentre smuovo le libagioni mi giungono come ventate di gioia capaci di smorzare il mio disappunto e la mia irritazione, scomodando un inevitabile retrogusto nostalgico. Noi sardi siamo meridionali anomali per via dell'elemento insulare, e credo che tutti quelli che hanno amici isolani, quale che sia l'isola di provenienza, abbiano notato quanto sia forte il legame di chi vive lontano con la sua casa, i suoi luoghi e la sua famiglia. Saranno retaggi legati al mare, che separa e unisce i sardi dal resto del mondo e che ha da sempre reso ancor più nostalgici i nostri commiati. In Sardegna è ancora molto normale vedere i parenti o gli amici da cui si è appena stati ospiti diventare piccoli sull'uscio di
casa, mentre ci si allontana in macchina. Si sbracciano in affettuosi saluti finché l'orizzonte non inghiotte la vettura. Solo se è meridionale anche chi parte, la rispost.i ai saluti sarà corredata da ritmiche strombazzate di clacson e non solo da più discreti movimenti degli arti superiori. I miei primi ricordi di fuga dalla Sardegna sono le gati alle navi coi nomi dei poeti, che lente e possen ti lasciavano il porto di Olbia dirette verso le sponde laziali, cariche di passeggeri chiusi nelle accoglienti: sime cabine da quattro, con lenzuola rigide e copri te di dubbia fattura. Nonostante io non sia poi così antica, allora evidentemente non c'era ancora la filodiffusione, e si veniva svegliati da un addetto di bordo che passava nei corridoi bussando con forza a tutte le porte, lesionandosi le nocche e perdendo la voce a furia di urlare: "Civitavecchia". Qualche istante dopo i passeggeri si ritrovano, tutti lesi e ancora spaventati da quelle urla, nel salone bar della nave, a fare colazione con caffè orribili e croissant in palissandro fresco. Il mio Pacco, invece, è appena giunto comodamente in aereo, e come di consueto contiene solo buon cibo, ma in questi anni lombardi ho visto cose abbastanza inaudite. Il mio compagno del liceo Jaime, anche lui milanesi per motivi universitari, ha sempre ricevuto dalla madre articoli che sarebbe stato lecito spedire al figlio al fronte in Russia, non a uno studente universitario a Milano negli anni Novanta: dentifricio, saponette, Scottex, sacchetti della spesa usati, bagnoschiuma da mille lire, Oro Saiwa, il tutto in una confezione matrioska a prova di metal detector. In un'occasione èra spuntata anche una bottiglia del cordialissimo Glen Grant, e alle di lui domande sulla presenza di quel whisky scozzese la madre non nveva mai saputo rispondere. C'è da dire che lei è la stessa donna che il giorno di Ferragosto di qualche anno fa ha invitato a pranzo me e Lucia nella casa al mare e ci ha servito la polenta con sugo di salsiccia il finocchietto selvatico, nonostante i trentasei gradi all'ombra.
Ripongo i cibi, chiamo mamma, lei mi chiede come di consueto che tempo fa, cosa sto facendo e, dopo una pausa lunghissima in cui la immagino allungare il collo, mi domanda con tono preoccupato anche chi è la persona che sta parlando in casa mia. Mia madre è una grande donna con un udito non all'altezza di tale grandezza e che definirei senza esitazioni "selettivo". Quando sono a casa dai miei, di norma lei non sente il telefono che suona fino all'ottavo squillo, ma riesce a captare le mie conversazioni telefoniche anche da stanza a stanza sfoderando sensi bionici da far invidia a Jamie Sommers dopo l'incidente col paracadute. Quando parliamo tra noi al telefono invece non sente, inventa e azzarda intuizioni sonore inesistenti. Comunque, la ringrazio, le spiego che c'è molto caldo e che le voci che sente provengono dalla radio e non da invitati risvegliatisi sul tappeto di casa mia dopo una notte di bagordi. Poi parlo col mio amato babbino, che non gradisce molto stare al telefono, ma si sforza e sfodera tutto il suo amore per me conversando più di sette secondi netti. Anche grazie a loro, un po' più serena del risveglio, compongo il numero di Michele. Dopo sei squilli sento la sua voce, che invece di tributarmi il saluto che mi aspetto, suona spiccia: «Scusa, sono in riunione, dimmi tutto.» Se c'è una cosa che può mandare all'aria ogni mia prestazione telefonica è questo imperativo: "dimmi L'effetto consolatorio del Pacco è già svanito. «No, niente... ho solo da chiederti, c'è una qualche ragione per cui hai deciso che richiamarmi ieri fosse superfluo?» «Ma che domanda è?» «Aspettavo mi richiamassi, ho parlato con Erika ieri notte. Lo sai che mi preoccupo.» Diciamo così... «Ma veramente sono io che aspettavo la tua chiamata, lei mi ha detto che avresti richiamato tu.»
Quella ha riferito di proposito un messaggio sbagliato? O ha capito male e io sono davvero paranoica? Oppure mi sono espressa in modo non chiaro? Se faccio altre domande a lui, darà la colpa solo alla mia gelosia. In questi casi meglio accertarsi prima di lanciare delle accuse. «E poi ascolta... ne parliamo dopo, sto lavorando. Stai tranquilla.»
Dopo un "dimmi", ecco un bel "stai tranquilla", ci manca solo "salvati almeno tu finché sei in tempo". «A dopo» gli rispondo io, per la prima volta con tono gelido. «Non salutarmi così, salutami bene...» «Non ho voglia. Erika è una stronza. Non so com'è che ancora non te ne sei accorto.»
Dannati moti istintivi. Lo sento sbuffare e immagino la sua espressione spazientita. Sono certa che lei sia vicino a lui e colga qualche frammento della nostra discussione, e questo mi fa diventare ancora più isterica. Da buon rappresentante del genere maschile, Michele odia passare per quello che non ha capito, poi non tollera le critiche nette e preferisce, in questi casi, ritirarsi. Da parte mia, non sopporto l'abbandono del tatami da parte del mio avversario dialettico, ma sono costretta ad assistervi mio malgrado. «Ancora con questa storia? Ora devo andare.» Il suo tono non mi piace affatto. «Vai.» Vai, davvero. Non è ancora mezzogiorno e i pacchi sono già due. Riattacco e cerco di riflettere. Come si può passare dalle prove di luna di miele a questo niente? Perché il fatto che la bionda spietata abbia di proposito omesso la verità basta a farmi sentire così furente con lui?
E quanto sono disposta a lasciarmi intossicare da un tizio che è nell'altro emisfero a comprare foulard, accompagnato da una giovane rampolla con mire che solo un cieco non noterebbe? Mi sento come una donna che sopporta i tradimenti del marito per anni e anni, e poi lo pianta in asso perché non ha ritirato il piumone in lavanderia. Capita a molte, soprattutto alle più pazienti, di esaurire di botto la pazienza, e l'evento scatenante talvolta è un episodio di gravità irrisoria rispetto a quelli sopportati fino a quel momento. Stamattina, per la prima volta, dopo due anni passati come Penelope a filare, inizio a dubitare che davvero ne valga ancora la pena. Non sono solo gelosa, sono stufa. Mi trovo all'improvviso a desiderare meno tutto quello che mi sono da sempre augurata per noi, perché pensare di essere l'unica a volerlo, fa sembrare tutto meno romantico. Le parole dette a Las Vegas mi sembrano vuote e inutili. Per lui questo mio atteggiamento è un problema, e com'è risaputo all'altra metà del cielo i problemi non piacciono. Alle donne sì, invece... Se i vapori dei ravioli vietnamiti gli hanno dato alla testa, io non so cosa farci. Qualche volta l'ostacolo più grande alla tua tranquillità è proprio quello che te la dovrebbe garantire; meglio mettere subito a fuoco le cose - rifletto tra me e me - che rischiare di incappare più in là in un eventuale episodio di strabismo coniugale. Non voglio rischiare di ritrovarmi un marito che, beccato in flagranza di reato e vestito solo della propria vergogna, si scrolli di dosso la sua amante azzardando anche un: "Amore, non è come pensi, posso spiegarti tutto". In preda a questi pensieri mi rendo presentabile e vado al lavoro. Stefania mi accompagna, come fa spesso quando è libera e io ho un impegno.
Il mio essere un'artista tonda a tutto tondo mi porta questa sera a prendere parte a una convention, uno di quegli incontri privati organizzati da aziende di vario genere che festeggiano anniversari, salutano nuovi amministratori delegati o presentano nuovi prodotti alla stampa e ai loro agenti. Questi incontri hanno inizio con l'apertura dei lavori, in cui la società organizzatrice, nel migliore dei casi, decide in maniera semplice di spiegare ai convenuti il motivo dell'incontro: un breve discorso del dirigente di turno accompagnato dalla proiezione di qualche foto o lucido darà lumi sullo stato del mercato, i risultati ottenuti durante l'anno o le caratteristiche degli ultimi prodotti proposti. In altri casi, uomini con abiti cuciti su misura confondono la platea durante il loro speech (discorso), puntando il focus (attenzione) sullo sviluppo del brand (marchio) e il suo target (clientela), senza ignorare il trend (tendenza) dei loro competitor (concorrenti). Il coffee-break (pausa caffè) è di regola il momento preferito di questi assembramenti, anche se spesso entrambe le tipologie di incontri si concludono con una cena e uno spettacolo. Il caso vuole che proprio oggi si tratti di una presentazione un po' bizzarra: una florida società operante, tra gli altri, anche in un settore legato ai bisogni delle coppie, ha infatti deciso che è un peccato recarsi in farmacia per comprare solo antipiretici e fasce renali privandosi della possibilità di fare propri anche oggetti che non si faticherebbe a definire "simulatori di emozioni". Questi articoli non sanno aggiustare una tapparella, né ti fanno gli auguri il giorno del tuo compleanno, non tagliano il prato né ti spostano la piattaia se hai voglia di nuove soluzioni per i tuoi interni, ma hanno di sicuro altri vantaggi. Sono ricaricabili, garantiti due anni, non hanno madri che ti vogliono in segnare a stirare, e il rischio che flirtino con una col lega di lavoro è molto basso. Con Stefania, che non si vuole perdere questo spettacolo per niente al mondo, raggiungo il luogo dove si svolgerà la serata. E un'elegante discoteca nel centro di Milano, riorganizzata per l'occasione. Dopo essermi sincerata che il palco sia a posto e il microfono ben regolato, mi precipito incapricciata a guardare gli accattivanti articoli. Sbircio tre teche giganti e trasparenti al cui centro troneggiano, intoccabili,
altrettanti oggetti dalle svariate ma inequivocabili fogge, color grigio metallizzato e blu cobalto. Gli invitati li osservano con invidia in qualche caso, orrore in altri, e in altri ancora con uno stato d'animo che non esiterei a chiamare nostalgia. Il materiale in questione si presterebbe a commenti da bar, ma chi ha organizzato la serata ha chiesto che io mi accosti all'argomento con candore virginale, e io intendo accontentarlo. Salgo sul piccolo palco e per mezz'ora, con stupore fanciullesco, interagisco con una platea di giornalisti incuriositi, che questa volta più di altre si dichiarano speranzosi di ricevere un campione omaggio. Sottolineo però, con buona pace dei presenti, che i venti minuti consecutivi di durata previsti per l'anello vibrante, uno dei prodotti presentati quel pomeriggio, capace di regalare estasi agli amanti in cerca di nuove emozioni, sono solo indicativi. In alcuni casi, fantascienza. Dopo i saluti di rito con gli organizzatori, io e Stefi ci congediamo, e prima di andare via lei prende dall'alzatina in cristallo posta all'ingresso una manciata degli unici anelli che gli uomini comprano senza timori. Gliel'ho sempre visto fare con le caramelle, mai con dei sex-toys. «Vai a sapere» dice giustificandosi. Quando intuisce il mio desiderio di tornare a casa,visto il mio animo cupo, decide che non posso passare da sola questa serata e, dopo avermi esposto i suoi programmi, mi ritrovo a pensare la stessa cosa di lei. Mi faccio così trascinare, senza nascondere il mio disinteresse, a uno speed date. Venti miniappuntamenti tra quaranta sconosciuti della durata di cinque minuti, per parlarsi, sedursi con uno sguardo, un gesto, una promessa di assunzione a tempo indeterminato presso un parente. È la quarta volta che Stefania si iscrive, e che paga pure la quota di partecipazione, ma non ha mai avuto il coraggio di entrare.
Una volta giunte nel locale, un ristorante in periferia noto più che altro per le sue grigliate di carne, facciamo il nostro ingresso in un atrio dove gli astanti tentano di portarsi avanti col lavoro scambiandosi fuori concorso sguardi ammiccanti. Stefania va al banchetto di accoglienza mentre io, in quanto non iscritta, mi accomodo al bancone del bar. Mi sento una mamma che porta la figlia a danza o a judo. Visto il mio umore è decisamente meglio che io non partecipi. Non avendo neppure sfogato la mia rabbia, e covandola ancora come una laboriosa gallina, correrei il rischio di fare venti scenate a venti sconosciuti. Pagando trenta euro, tra l'altro. Scruto i partecipanti: non sembrano neppure tutti fatti dallo stesso Dio. Le donne, come di consueto, sono mediamente carine, aiutate dal trucco, dal look, dall'orgoglio e dal pensiero che arriva un momento in cui ogni serata può essere quella della svolta. Sarebbe un vero peccato presentarsi all'appuntamento col proprio destino vestite in modo approssimativo e con un completo intimo spezzato. Tra gli uomini spicca in particolare uno che sembra uscito da I ragazzi della terza C, con Chicco Lazzaretti e Bruno Sacchi. Temo che da un momento all'altro dichiari aperta la serata "in nome dei Duran Duran e con l'appoggio di Scialpi". Indossa una felpa Americanino, jeans E1 Charro e ai piedi nientemeno che le Vans senza lacci. Non le vedevo dai tempi del liceo. Lo guardo incuriosita e divertita. Non lo so ancora, ma sono sensazioni che con il tempo svaniranno vedendolo, in futuro, al fianco di Stefania, l'unica donna che riuscirà a rimorchiare quella sera. Torno a casa a notte fonda, ma prima di andare a dormire, mossa da un afflato di nostalgia canaglia, riaccendo il computer e decido di scrivere una mail a Michele. Rassicurante e con velleità conciliatorie. Mi spiace per oggi. Mi manchi e talvolta stare lontani non è facile. Ti penso sempre... tutte le volte che il tuo telefono non squilla, sono io che non ti chiamo.A dopo, bellamore.
Metto il rancore nel cestino e invio.
Undici Primo mattino di tre giorni dopo. Casa mia. Alla mia mail ancora nessuna risposta. Per noi che eravamo soliti sentirci ogni giorno, questo è quantomeno sospetto. Visto che escludo il pre¬maturo trapasso, cos'è successo? Fa l'offeso? Lui fa l'offeso con me, regina delle offese? Non capita spesso di pensare che qualcosa ti stia completamente sfuggendo di mano. Non ho idea di cosa fare per evitare questo principio di ammutinamento amoroso improvviso. Qui ricorrono gli estremi di un reato: sparizione volontaria con pesantissime aggravanti. Il rapporto amoroso era in avanzato stato di avviamento; l'imputato (Michele) ha rivelato la sua natura perversa agendo per un motivo turpe e ignobile (Erika), commettendo un crimine (fuga ingiustificata) per coprirne un altro (tradimento). Non ci sarà pietà in aula. Lui non è più lo screensaver del mio cuore. Il suo telefono è stra-morto. La possibilità di sinistri con lui drammatico protagonista o altre catastrofiche ipotesi è remota, perché tengo sotto continua osservazione la cronaca locale sul sito Vietnamtourism.com. Mi sembra assurdo che proprio lui vada ad aumentare il numero di quella nuova tipologia di uomo che sta prendendo piede nella società, il soggetto Copperfield, che dopo pochi appuntamenti dall'esito magari non eccellente, ma comunque positivo, dopo essersi congedato con un propositivo: "Ci sentiamo in questi giorni", sparisce nel nulla. Non si fa più vivo, né risponde più al telefono. Nascondere l'identificativo del chiamante digitando #31# prima del suo numero non serve: quelli come lui alle telefonate anonime non rispondono da anni. Si smaterializzano, inghiottiti dalle sabbie mobili del disinteresse, fagocitati dalla codardia e sostenuti dalla superficialità, inconsapevoli che pure per darsi alla macchia sarebbe necessario utilizzare dello stile. E che diamine, un po' di fantasia almeno: in quei casi una bugia è concessa, sempre meglio di queste fughe senza neppure una giustificazione anche fantasiosa. Va bene (quasi) tutto: un trasferimento lavorativo, una promozione, una ex fidanzata tornata sui suoi passi, un fratello con problemi economici, un
principio di bancarotta fraudolenta o altre menzogne a sfondo familiar lavorativo. Le donne odiano essere ignorate, preferiscono essere scaricate con un motivo qualunque, da analizzare poi con calma in compagnia delle amiche. I maghi della sparizione dovrebbero imparare da un'altra categoria ricca di inventiva, i "mariti in pro¬cinto di separazione", che spesso incontrano donne talmente in crisi da credere a tutti i loro ciclici ultimatum, mostrandosi incapaci di assestare loro un montante anche all'ennesimo: "Ti giuro, domani le dico di noi". Ma Michele? Sparire in questo modo, dopo una relazione così serena, senza neppure un accenno di giustificazione non si può: non è accettabile, è vietato, maleducato. Una maleducazione reiterata che dopo un'ulteriore settimana di silenzio si mostrerà per quello che è: solo il preludio del niente più assoluto, che mi lascerà piena di domande e rabbia, senza fiducia, senza risposte. E soprattutto senza fidanzato. Vietnam, ore 19 - In viaggio da Hanoi a Ha Long. Dentro una macchina, davanti a un computer portatile aperto sulla pagina di Outlook Express di Michele, a cui aveva iniziato ad avere accesso fin dai giorni ad Austin per motivi di lavoro, una donna senza scrupoli trama nell'ombra e aspetta il momento giusto per completare il suo malefico piano. Tre giorni esatti prima, il lavoro di Michele ed Erika aveva avuto un'insperata e velocissima impennata: un centro benessere di Ha Long, meravigliosa baia nel Nord del Vietnam composta da tremila isole e faraglioni gettati nel mare, aveva commissionato alla strana coppia un'urgente e fulminea ristrutturazione. Costretti in poche ore alla partenza, si erano divisi i compiti, e la serpe era stata incaricata di avvisare tutti i contatti della rubrica di Michele - me compresa che a causa di questo spostamento il telefono avrebbe avuto qualche problema di ricezione per alcuni giorni. Quando la vipera era entrata nella rubrica di posta elettronica, i miei vicini di casella - il geometra Gesualdi, che mi precede, e il dottor Gigi Pansera, che mi segue - erano stati gentilmente compresi nel gruppo dei destinatari. Io, altrettanto gentilmente, "dimenticata".
In compenso, la biscia aveva informato Michele di una mia insistente telefonata in cui spiegavo che pure io sarei partita qualche giorno per lavoro. "Tanto meglio che in questi giorni siete irraggiungibili pure voi" avrei aggiunto, chiarendo che ci saremmo sentiti con tutta calma la settimana dopo. La piccola rettile non si era risparmiata poi di sfoggiare le sue doti d'improvvisazione riferendo a Michele che durante la telefonata le sarei sembrata strana (aggettivo ibrido) e distante (aggettivo infido). Nel frattempo la pronipote del serpente verduraio aveva fatto sparire nel cestino informatico la mia mail conciliatoria e si era presa la briga, e di certo il gusto, di inventare e inviarmi la risposta di Michele. A misura di essere strisciante. Cara Geppi, può sembrare strano talvolta non trovare neppure le parole per dire ciò che ci si agita dentro, senza temere di fare del male. La discussione di ieri mi ha fatto riflettere, tu non ti fidi di me. E l'immensità di questi posti mi ha messo in crisi. Non so più quello che voglio. Forse un po'di silenzio farà spazio dentro me a nuove certezze. Lasciami un po'di tempo per capire cosa c'è che non va. Scusami, ti saluto. Michele
Ma non è tutto. La hacker Erika non aveva cercato di scardinare i sistemi informatici della Banca d'Italia, ma aveva fatto ben peggio. Per essere certa di avere una settimana senza le mie interruzioni, e con lui magari deluso e inacidito, aveva concluso il suo piano con un'opera da maestro. Aveva aperto una casella di posta col nomignolo che - l'aveva carpito - lui usava con me, e da Trilli_ [email protected] gli aveva scritto un'altra mail. Caro Michele, ti scrivo da un indirizzo che non uso quasi mai perché ho avuto problemi col mio PC e ho perso tutte le password. Sono stanca di chiedermi in ogni momento dove sei e cosa fai. Sentiamoci direttamente quando torni per capire dove stiamo andando, così non va bene. Per ora buon lavoro.
Aveva aspettato solo che le circostanze rendessero naturale il suo ritrovamento per poter valutare la reazione di Michele. Più o meno nel momento in cui io controllavo per l'ennesima volta il sito di cronaca vietnamita lei, certa che lui non stesse guardando, con il suo indice perfetto intarsiato in una french-manicure con tip da ma¬nuale, inviava questa mail all'indirizzo di Michele.
Lui stava ascoltando l'iPod pensieroso, con un fondo d'amarezza, e le aveva chiesto di controllare se ci fossero messaggi privati per lui. Lei si era presa qualche secondo, e poi era partita con la subdola messinscena. «Ah sì, c'è una mail di tuo padre, e una di... Trilli_ Frilli, può essere?» Lui era scattato e le aveva strappato di mano il PC. Del resto era assolutamente plausibile che io avessi avuto problemi con le password. Da bimba dimenticavo la combinazione dei lucchetti dei diari segreti, da grande le password. Anche questa è una forma di coerenza. Lei di sicuro era riuscita a cogliere pure questo elemento, e non si era privata di ricorrervi. Leggendo la mail, aveva cambiato espressione e le aveva reso il PC in malomodo, senza trattenere un: «Non basta mai, quello che faccio». «Come?» aveva detto lei con finta noncuranza. «Pensavo a voce alta, scusa...» Il godimento dell'invertebrata è scontato, la sua perfidia senza prezzo, la mia fino ad allora costante dedizione improvvisamente svalutata. È chiaro che una così non si pone il problema di cosa possa succedere nel caso le sue magagne vengano alla luce. La bestia ha un piano audace e preciso. Spera che, una volta arginata me con questi mezzucci, potrà avere un po' di tempo per sedurre Michele e proporsi come valida alternativa all'anziana pazza. Che sarei io. Reputa che alla fine di tutto, tra qualche mese, le sarà addirittura possibile confessare e ridere insieme a lui di queste piccole bugie, facendolo crollare ai suoi piedi persuaso dalla sua grande determinazione. Non stronzaggine, no, determinazione. Aveva messo gli occhi addosso a Michele fin dalla prima volta che l'aveva visto nell'ufficio del padre, quando aveva solo quindici anni e lui le aveva dato un buffetto sulla guancia. Lei, sopravvalutando il gesto e cogliendovi gli estremi del più classico CBCR (Cresci Bene Che Ripasso), aveva deciso che un giorno se lo sarebbe ve¬nuta a riprendere. Quel giorno era arrivato.
Può bastare la lucida freddezza di una donna senza ritegno a giustificare l'arrendevolezza di un uomo senza dubbi apparenti? Sta accadendo esattamente ciò che temevo. Non bisogna mai parlare di certe cose, nemmeno con se stessi, perché se no poi accadono veramente. Come se parlarne le scomodasse. E purtroppo, manco a dirlo, questo discorso si rivela statisticamente valido solo per quelle brutte. Stefania. Happy hour più cena. Ristorante Coniglio Bianco, navigli milanesi. La sera successiva allo speed date Stefi concede il suo primo appuntamento alla risposta (sbagliata) italiana a Falco, l'indimenticato interprete di Rock me Amadeus, di cui il suo pretendente è, manco a dirlo, un fan sfegatato. Moro, alto e dallo sguardo intenso, appassionato di musica e libri che vende nel negozio dall'irresistibile nome "Dica 33 giri", di cui è proprietario insieme al suo amico d'infanzia, Pietro l'ha conquistata con la sua pare inenarrabile dolcezza e il suo umorismo contagioso. Contagioso, dice lei, ma più che come il sorriso di un bimbo, io direi come la pertosse. Di solito dopo una delle sue agghiaccianti battute, una volta constatata la reazione imbarazzata dei perplessi interlocutori, accompagna la sua perla di allegria con quel movimento rotatorio di indice e pollice che secondo lui dovrebbe aiutare a collegare i percorsi comici. Tra l'altro, dal modo in cui si veste, sembra che gli ultimi vent'anni per lui siano trascorsi invano: il look della prima sera non era casuale, lui veste così abitualmente. Il suo armadio non ha subito molte rivoluzioni stilistiche e tutto quello che c'è entrato negli ultimi anni viene al massimo da aste on line o mercati dell'usato. Il fatto che allo stesso uomo a cui piacciono quelle mise orripilanti piaccia pure lei, sembra non offenderla, né farle mettere in discussione i suoi gusti. Il suo modo di parlare è in linea con il resto. Lui non darebbe mai un pugno in faccia, ma farebbe uno spaccatesta alla Antonio Inoki; davanti a una meraviglia di qualsiasi genere esclama: "Che togo!" e se una situazione non lo convince, come il Dogui, il commendatore milanese dei film natalizi - che Dio l'abbia in gloria - urla: "N.C.S. (Non Ci Siamo)!". Uscire insieme a lui equivale a un viaggio nel tempo. Ma per Stefi, cresciuta mangiando i Tegolini quando erano
ancora quadrati, scartando i Quality Street a cominciare da quelli verdi lunghi, consultando I Quindici, Il tesoro e Conoscere per le ricerche di scienze alle medie; per lei, che conserva ancora la collezione delle gomme del Mulino Bianco, che si è formata sessualmente e sentimentalmente sfogliando periodici cult, dal cattolico "Primavera" al più emancipato "Ragazza In" senza disdegnare l'audace "Rosa Shocking , a lei, che tuttora si profuma con Lou Lou, quest'uomo appare irresistibile. Stefania trascorre una serata fantastica. Lui è dolce e attento, lei ride sentendo il nome del suo amico malavitoso italoamericano che smercia giochi di società, Jo Cattolo; trova divertente perfino quello del suo commercialista arabo Ali Quota, e non storce il naso neppure per la boutade dello squalo che dopo cena per digerire beve il cal-amaro. E via col gesto della mano. In pochi giorni sarà pazza di lui. Conquistata dalla sua voce baritonale e calda capace di dare dignità alle sue battute orripilanti, Stefi conferma che davvero le donne cercano un uomo in grado di farle ridere, ma solo a un patto: che non le facciano ridere esattamente in tutti gli ambienti della casa. Pietro, infatti, una volta abbandonato il salotto dove si propone come abile intrattenitore, smessi i suoi abiti da 80's-victim e guadagnata la camera da letto, si trasforma in un amante appassionato, attento, senza tempo né età. E Stefi, con il più che mai appropriato brano The Final Countdown degli Europe in sottofondo, apprezza. Bagno di Lucia, dopo cena. Ormai la gestante passa in bagno parecchio del suo scarso tempo libero. Si spoglia, si guarda allo specchio, si mette di profilo, tira ancor di più fuori la pancia, si gira per osservare meglio il lato B, poi solleva il seno dolente. Si avvicina ancora di più allo specchio e si guarda la pelle del viso. Quella davvero sta migliorando, ma Lucia teme che il suo corpo prenda la tangente, nonostante le poderose nausee mattutine grazie alle quali, non solo non ha messo su chili, ma anzi si sente lievemente più leggera. In ufficio non ha ancora detto niente. C'è la possibilità che di li a poco diventi socia dello studio e teme che questa inattesa gravidanza possa crearle problemi. Alla faccia della
lotta alla discriminazione sul lavoro, sa bene che - a parte la normativa e le sue presunte tutele – i conti vanno fatti con la vita reale. Ha visto colleghe rientrare dalla maternità e trovare la scrivania usata come deposito, coperta di carteggi altrui, derubate di tutta la cancelleria, e accolte dai colleghi con espressione compassionevole e inequivocabile... "Chi glielio dice, ora, che anche senza di lei qui la baracca va Avanti lo stesso?" Le previsioni del manuale di Stefania si stanno avverando: si sente particolarmente suscettibile e si commuove con facilità a qualsiasi pen¬siero riguardante il futuro. La culla da comprare, le notti da gestire, l'allattamento, il corredino da orga¬nizzare e, soprattutto, lo scottante tema del pater fa- milias. Non il padre del bambino, ma il suo, ancora sereno e ignaro di tutto. E in quel bagno, Lucia continua a cercare il coraggio di affrontarlo, ipotizzando un dopo pranzo con annesso digestivo dolce come una bacca di mirto e amarissimo come l'ineluttabile realtà. Viste le sue discutibili doti diplomatiche, non è da escludere che scelga un beffardo: «Ciao, nonno io e te dobbiamo parlare». Tommaso, tragitto casa sua - casa di Lucia. Un altro quasi padre, decisamente più consapevole dello stato di Lucia, si sta a sua volta arrovellando con altri pensieri. Sono in grado di diventare genitore? Imparerò come prenderlo in braccio o il piccolo erede mi rovinerà sul pavimento prima del compimento del primo mese? E con Lucia, le cose come si evolveranno? Siamo appena tornati insieme e già ci siamo trovati a ragionare per tre, ce la faremo? Al momento lui continua a stare a casa sua, facendo il pendolare tra la sua dimora e quella di Lucia, dove gli è stato appena concesso, in via straordinaria, un cassetto per i suoi effetti personali della stessa grandezza di quello riservato ai medicinali. Si sente come un'aspirina. Effervescente. Tommaso sta attraversando il classico periodo in cui il futuro padre viene completamente ignorato nei suoi bisogni e nelle sue necessità da chiunque gli stia vicino. Nessuno gli domanda più come sta, i pensieri di tutti vanno innanzitutto a Lucia che, da parte sua, gli ha fatto notare più volte che non gli costerebbe proprio niente, se non gli dispiace troppo, essere soltanto comprensivo ma non debole, presente ma non pressante, deciso ma non autoritario, sensuale ma non troppo erotico.
In quei casi lui la guarda basito e annuisce. Cerca di rendersi utile anche dedicandosi ad attività in grado più che altro di appagare unicamente il suo temibile istinto organizzativo. Compila decine di foglietti con tutti i numeri utili: quello dell'ospedale più vicino, del ginecologo, del dentista e dell'elettrauto (unica figura professionale non appartenente al corpo medico presente nella lista). Ogni volta che Lucia se ne trova uno in tasca o nella borsa che porta con sé in tribunale, sorride rassegnata. Ma non sempre è così dolce, e lui è costretto a occuparsi di qualsiasi cosa, oberato dalle commissioni, vessato dai capricci della futura madre, costretto a cacce al tesoro per soddisfare voglie che - lui pensa senza potersi permettere di dirlo perché verrebbe accusato di egoismo - prescindono dalla gravidanza. Basta che ci sia da fare una cosa non fondamentale, ma di sicuro pallosa, che toccherà senza dubbio a lui occuparsene. E lui diventerà all'occorrenza autista, cuoco, bricoleur, massaggiatore, tuttofare, ma mai, ancora mai, l'unica cosa che avrebbe voluto iniziare a sembrare: un convinto - anche più della madre, per ora - ed emozionato genitore.
Dodici A due settimane dal ritrovamento della mail di Michele inviata dalla iena, catalogata come prova a carico sotto il nome di "Reperto A", il mio sguardo inizia a farsi meno vitreo. Ricomincio anche a essere in grado di affrontare conversazioni diverse dall'ennesima rilettura delle mosse di Michele con crisi di nervi annessa. Devo ammettere di aver preso in considerazione molteplici possibilità: il mio debole per i torbidi misteri mi ha portato anche a ipotizzare che la scelta linguistica della mail, tanto stranamente scontata e tanto distante dai normali scritti del mio fidanzato, nascondesse una richiesta d'aiuto in codice. Del resto, se mi chiamasse Stefania dicendo: "Sai, il mio gattino Gabrielito oggi ha mangiato una razione doppia di crocchette al salmone" mi preoccuperei subito, immaginandola con una Colt puntata alla tempia da un malvivente senza scrupoli. Una come lei, terrorizzata dai gatti da quando il micio più buono del mondo le ha sfregiato il bel visino all'età di otto anni, non potrebbe mai pronunciare una frase come quella senza destare sospetti. Ma le parole di Michele non lasciano molte aree di dubbio aperte e un chiarimento al telefono risulta impossibile: il suo non è mai raggiungibile. Nei miei primi giorni di ripresa, Lucia, ormai alla fine del terzo mese di gravidanza, decide di rientro dal rassicurante appuntamento con la sua ginecologa, secondo cui tutto sta procedendo più che bene, che il momento di rendere partecipe delle ultime novità la sua famiglia non è più rinviabile. Fin qui aveva rimandato, sperando di stare meglio, e anche se le nausee mattutine non erano scomparse del tutto, si era decisa. Mi aveva telefonato un pomeriggio, al rientro dall'ufficio: «Tommaso ci raggiunge in un secondo momento, così parliamo finalmente alle nostre famiglie dell'embrione di ormai quasi cinque centimetri, ma intanto partiamo io e te, subito. Come Thelma e Louise». Un invito avventuroso e irresistibile. Il giorno dopo saltiamo su un aereo che ci porta a Cagliari. Fortunatamente i piloti non hanno studiato la geografia sulla mappa
del Risiko, in cui la nostra bella isola, trattata alla stregua di Atlantide, non compare. Dopo qualche ora mi trovo a bordo di una macchina a noleggio e percorro la Carlo Felice, risposta sarda alla Salerno-Reggio Calabria e principale, nonché unica, arteria isolana. Destinazione Macomer: piccola cittadina quasi al centro dell'isola, 563 metri sul livello del mare, dodicimila abitanti circa, un solo calzolaio, ma non meno di quaranta bar, dove poter sorseggiare già dal mattino presto una birretta Ichnusa con la stessa disinvoltura con cui altrove si ordina un latte macchiato. Battuta da venti che curvano gli alberi, Macomer è c ruciale anche in quanto snodo ferroviario fondamentale nell'efficiente sistema dei trasporti sardi. Partendo dalla stazione si può ancora provare l'ebbrezza di salire su treni unici, come il vagone che compone il convoglio e soprattutto come il binario su cui scorrono. In settantadue minuti, dopo solo dodici fermate in luoghi dai nomi esotici come Birori, Bortigali, Silanus, Lei, Bolotana, Tirso, Orotelli e Pratosardo, si può percorrere la distanza record di ben quarantotto chilometri e trovarsi nientemeno che a Nuoro. Certo, meglio effettuare il viaggio della speranza in un giorno feriale, perché recarsi in uno di questi luoghi nel weekend significa farlo a bordo di un pullman sostitutivo, con fermata non proprio in paese, ma al bivio. Peggio di così è concepibile solo la discesa dal pullman alla Hazzard, col passeggero costretto a rotolare, al seguito dei propri bagagli, da un mezzo che non si ferma, ma si limita a rallentare. Uno dei motivi che ha reso celebre Macomer è il fatto di essere la sede della caserma Bechi Luserna, fino al 2001 unico centro di addestramento militare della Sardegna. Ho ricordi d'infanzia dell'arrivo ciclico, più o meno ogni quarantacinque giorni, di circa ottocento reclute disorientate, alcune letteralmente strappate alle loro vite in città e catapultate in una realtà molto diversa, costrette a marciare per svariate ore al giorno, a sparare e tirare bombe a mano. Di sicuro la maggior parte di loro ha vissuto quei ventotto giorni di corso come un vero trauma, ma per la popolazione femminile
sessualmente attiva del tempo l'arrivo periodico di quasi mille uomini tra i diciotto e i ventisei non era una brutta cosa in senso assoluto. Alcune erano particolarmente sensibili al fascino di questi militari, e si rendevano disponibili a dar loro una mano a orientarsi e trascorrere quei giorni nel modo meno faticoso possibile. Altre prendevano ancora più a cuore la loro situazione e davano loro qualcosa più che una mano. Un piccolo gruppo, infine - che della celebre accoglienza sarda faceva una scelta di vita - annotava direttamente le date degli arrivi nell'agenda, e ogni due mesi cambiava fidanzato. A tutt'oggi queste facinorose sono ricordate da chi ha molta memoria col loro nome seguito dal cognome non del legittimo genitore, ma del valoroso ufficiale decorato al valore cui la caserma è dedicata: di qui un fioccare di Luise, Marike e Aurelie Bechi Luserna. Gli arrivi iniziarono a diradarsi già alla fine degli anni Ottanta. Io e le mie amiche allora eravamo trop po giovani per godere dei vantaggi legati al lato piti romantico dell'esercito, ma i matrimoni tra giovani indigene e prodi difensori della patria in quel perio do non sono mancati. A distanza di molti anni, senza un marito militari, ma con un figlio in arrivo, io e Lucia andiamo a coni battere la nostra personale battaglia. Lucia, ancora alla ricerca delle parole da usare coi suoi, è accanto a me che fissa il bollino dell'assicura zione affisso sul parabrezza, in totale stato catatoni co. Non parla da novanta chilometri. La nostra gita è impreziosita da un valore aggiuntivo: è il 12 giugno e a Macomer in questi giorni si celebrano con rito religioso e pagano al contempo i festeggiamenti in onore di sant'Antonio - detto Antoni senza la "o" finale -, evento clou cittadino. Siamo due cliché. Riveduti, ma sempre due cliché: una giovane comica triste (ma più che altro furente) e una donna in carriera stressata (ma più che altro incinta) alla ricerca della pace interiore, che solo dove sono nate pensano di poter trovare.
Non si sa chi delle due stia accompagnando l'altra, visto che l'umore è sotto i tacchi di entrambe. Cerco di rompere il ghiaccio e stimolare la conversazione. «Lucia, non sei almeno un po' contenta? Finalmente un altro sant'Antonio insieme. È dai tempi del liceo che non siamo tutte e due a Macomer in questo periodo.» La frase è serena e incoraggiante, ma il tono, visti i risultati, di certo lo è meno. «Mmh» risponde lei iniziando a sfogliare niente-meno che il contratto di noleggio della macchina che deve essere senz'altro più interessante delle mie riflessioni. «Che entusiasmo contagioso» commento demoralizzata. «Senti chi parla» risponde lei frugando nel portaoggetti. «Vedrai che alla fine saranno bei giorni, no?» «See» fa lei sbuffando. «Ma non dovevamo fare Thelma e Louise?» «Tu pensa a guidare.» E’ quantomeno evidente che lei non sta accompagnando me. Arriviamo nel pomeriggio nelle magioni macomeresi dei nostri genitori. In Sardegna siamo pochi e per questo stiamo tutti più comodi e larghi. Ad attenderci multivani su più piani, quadriesposti e immersi nel verde, con talmente tante stanze da contemplarne alcune con utilizzi molto dettagliati: solo corredi, solo attrezzi, solo vergogne. Le nostre famiglie sono felici di averci con loro in questo fuori programma e ancora ignari del fatto che non sia l'unico. La gioia di rivedermi, nel mio caso, tende a scemare quando arriva il momento di aiutarmi a scaricare i bagagli, ritenuti sempre troppi e troppo pesanti, commenti cui ormai ho fatto l'abitudine. Dopo aver evaso la ricorrente pratica delle valigie, con mio nipote sulle ginocchia, dimentico per qualche ora tutto quello che mi preoccupa. Al termine di una lunga cena vado incontro a una notte troppo corta in un letto ancor più ridotto, nella cameretta di quand'ero bambina, e prima che arrivi l'alba prendo parte a un evento
peculiare infrangerndo ogni consiglio mai dispensato da un qualsivoglia periodico femminile a chi ha bisogno di riposo e di evasione. Nell'immaginario collettivo e nell'iconografia holliwoodiana le donne in evidente stato di furia passionale o crisi personale per far prendere il largo alle proprie iraconde pulsioni vanno, dopo cena, in un club vestite in modo provocante, con tacchi vertiginosi e labbra tumide di rossetto. Pronte a tutto. Accompagnate dall'amica più spregiudicata, posano la loro microscopica borsa sul bancone, ordinano un Alexander e attendono che un inconsapevole complice del proprio macchinoso disegno di vendetta cada nella loro trappola, ancorché convinto magari di averla tesa lui. Io, la mattina dopo il mio arrivo in terra natale, con la mia amica spregiudicata sì, ma incinta, alle cinque e mezzo mi avvio a prendere parte a una processione religiosa, in tuta da ginnastica e scarpe quasi ortopediche, al seguito della statua di sant'Antonio da Padova. Da quando sant'Antonio apparve su un monte qui vicino, e domandò che fosse costruita una chiesa in suo onore, il rituale si ripete. Il suo onomastico è per noi festa cittadina, i negozi chiudono e tutti accompagnano la statua, lungo un percorso di circa dodici chilometri, nella piccola cappella campestre a lui dedicala sul monte omonimo, dove resterà per tre giorni. Io e Lucia incediamo con disinvoltura, dietro splendidi cavalli strigliati e fucilieri che sparano a salve - gridando a intervalli regolari "evviva sant'Antoni" nel migliore dei casi senza aggiungere altre esclamazioni un po' colorite sul finale e che se svelate in confessione richiederebbero non meno di dieci rosari, non patteggiabili. Un sacerdote microfonato, con i adenza regolare, dà il via a grappoli di rosari, circondato da un nugolo di pie donne. Storicamente si va a piedi al monte anche per chiedere una grazia al santo, che tra le altre cose ha la fama di essere "coggiadore", ossia in grado di trasmettere i suoi benefici allo stato civile delle fedeli, vista la complicità col verbo "coggiare", unire in matrimonio.
Dai piani superiori - dall'attico degli attici, più che altro sant'Antonio è in grado di produrre conseguenze sulla vita di chi lo omaggia seguendolo per i sentieri del suo monte. Fino a oggi, visti tutti gli anni in cui ho preso parte al minipellegrinaggio, non deve avermi mai notata. Alle sette e un quarto, dopo circa un'ora e mezza di cammino nella strada statale, in cui io e Lucia ci intratteniamo con amici e parenti persi di vista poco dopo la gloriosa estate di Totò Schillaci a Italia '90, scattano gli estremi per la prima seria tappa ristoratrice alle pendici del monte. A organizzare il piccolo rinfresco in uno spiazzo fornito di tavoli e panchine di legno, è il gruppo chi' si occupa di tutta la festa, i "fedali", cioè i coscritti che, anno dopo anno, si alternano nella gestione dei festeggiamenti. Quest'anno tocca alla leva del 1965, con cui ho strette aderenze visto che in quell'anno e nato mio fratello Marcello. A onor del vero "essere fedali" in Sardegna è molto più che essere semplici coetanei: la traduzione letterale non rende giustizia al cuore vero di questa parola. "Essere fedali" significa avere condiviso i momenti più delicati della vita insieme: il primo giorno di scuola elementare col fiocco al collo e quella sensazione di essere strappato dalla tua casa, le medie e i primi bollori sessuali, il liceo e le prime delusioni, l'università e i suoi micro drammi per chi come me l'ha vissuta da ultra fuori corso. Da ciò una sensazione osmotica di cameratismo che resta sempre, anche una volta cresciuti, e fa sì che i coscritti non smettano mai di chiamarsi tra loro "fedali "o nella diffusissima forma tronca sarda "feda"'. Questa tendenza all'abbreviazione è tipica dei sardi. È frequente in Sardegna intercettare frasi come: "Ma', di' a Ba' che A' è là" (Mamma, riferisci a babbo che Anna non è qui). Sarà la fretta di andare al sodo tipica del mio solido popolo. Io e Lucia aderiamo molto affamate alla pausa, e visto il suo stato mi accerto che si sieda e che abbia quello che desidera. «Tutto bene, vuoi qualcosa?» Lei fa con la mano il gesto del bicchiere portato alla
bocca, non parla neppure, credo che stia raccogliendo tutte le energie per affrontare babbo Aldo più tardi. Prima che mi allontani per portarle qualcosa veniamo prontamente raggiunte da una "fedale addetta al ristoro", appunto, che ci offre caffè, biscotti e acqua. Noi accettiamo tutto, tranne la ciotola di pecora bollita, ingentilita da un accompagnamento di patate e cipolla da buttare giù con un bicchierino di Cannonau, che Giovanni, un "fedale" amico di mio fratello, ci offre subito dopo con grande calore e altrettanto coraggio. La guardo un po' scossa, ma ancora in grado di sorridere. «No grazie, la pecora bollita alle sette del mattino... Davvero, non me la sento...» «Guarda che è buona!» insiste lui con espressione invitante, avvicinandoci il piatto per tentarci. Arriva una zaffata da far rabbrividire Heidi, Fiocco di Neve e pure Nebbia, una manata fumosa di carne ovina che potrebbe stendermi anche all'ora di cena, Usuriamoci di prima mattina. Guardo Lucia, che al contrario di me, non riesce a mascherare il suo disgusto. Giovanni, se non me lo allontani vomito. Per favore, sparisci.» Giovanni ride perché pensa che lei scherzi, ma io so che non è così, quindi prendo il nostro amico e creo un diversivo facendomi accompagnare a prendere un altro bicchierino di caffè. «Sai, è molto stanca» gli spiego mentre una "fedale" di Garibaldi, a occhio e croce, ma fedele sia del santo che della pecora, gli prende il piatto di mano e inizia a mangiare con gusto. Lucia, non vista da nessuno, la guarda inorridita e scappa dietro un cespuglio. Dopo qualche minuto ripartiamo sulla strada sterrata avvolta dai meravigliosi profumi campestri di inizio estate, uniti al meno bucolico odore delle cartucce a salve sparate dai fucilieri. Un lontano cugino deputato al trasporto del fercolo, mi intravede e mi chiede se va pure a me di portare per qualche metro il santo in spalla, eventualità non frequente ma possibile anche per le donne.
Io temo di fare danni e abbozzo con timidezza, ma Lucia insiste, attirando l'attenzione di tutti quelli vicini a noi, che iniziano a perorare la causa. Si crea quindi quell'atmosfera da incitamento, per cui solo un'idiota acida non accontenterebbe i presenti. «C'è da dire che il fisico da portantina non ti manca» è l'ultima frase con cui tenta di persuadermi. «Lo faccio per tuo figlio, speriamo su santu lo faccia crescere più simpatico di te, ma basterebbe un santo minore...» le sibilo mentre mio cugino mi trascina via. «Ah-ah» sillaba lei, laconica. Aiutata da tre fisicati miei concittadini, tengo il passo per qualche metro, poi vengo spinta sotto l'asse laterale del fercolo. Lo sorreggo per dieci falcate, che, nonostante il mascolino aiuto, percepisco in un numero vicino al loro quadruplo. Dopo un po' chi mi è accanto capisce che lo sguardo vaneggiante non è dovuto a una trance mistica ma a possibili lesioni del trapezio o del deltoide, e viene in mio soccorso. Io sorrido e dico: «Tutto a posto, grazie» in preda a quell'inspiegabile e frequente moto d'orgoglio che permette - anche in caso di lesioni gravi - di riuscire, col distacco di un fachiro, a controllare la propria reazione. Io per prima, più di una volta, dopo fragorose e favolose cadute in pubblico, mi sono rialzata prontamente con colpo di reni alla Pelé, facendo finta di nulla e tranquillizzando gli astanti che cercavano di non ridermi in faccia. Realizzavo poi solo a casa di avere la gamba scorticata e qualche vertebra incrinata. Torno accanto a Lucia che mi accarezza la spalla lesa e finalmente fa un sorriso. «Ti sei fatta male, vero?» «Tantissimo, pretendo che tuo figlio diventi più simpatico di Totò.» Mi prende sotto braccio e, starnazzando, entrambe finalmente più giulive, proseguiamo fino alla cima del monte, tra bancarelle che vendono torrone alle mandorle o con le noci; zigzagando tra piccoli stand che arrostiscono anguille e muggini; dribblando tentatori
minicamper che smerciano panini con salsiccia, ai quali inizia a diventare difficile resistere nonostante non siano ancora le nove del mattino. Alla fine della funzione religiosa, mentre siamo ancora sul sagrato in cui quasi tutto il paese si ritrova per assistere alla messa, vedo Lucia sbiancare quando nota i suoi genitori avvicinarsi a noi per salutarci. E in quell'istante Lucia, forse persuasa dal luogo così bucolico, dopata dal sovradosaggio olfattivo, offuscata da una zaffata di agnello arrosto - visto che i "fedali addetti al pranzo" si stanno già dando da fare - si scusa con me. «Dove vai?» le chiedo. «Basta, ora glielo dico.» «Ma aspetta Tommaso, ha detto che per l'ora di pranzo sarà qui.» Non mi ascolta e va a chiedere ai suoi di fare una piccola passeggiata insieme. Li vedo allontanarsi e parlare fitto. Non so cosa stia dicendo di preciso, ma posso immaginarlo dalla loro reazione, che arriva nel giro di cinque minuti. La madre si mette le mani tra i capelli, il padre si siede su una pietra di basalto, lei continua a gesticolare come un mimo. Poi spariscono per ricomparire qualche minuto dopo un po' provati, ma Lucia ha un'espressione decisamente più leggera. Leggerezza che diventa gioia quando con enorme stupore, da dietro una bancarella che vende giocattoli, con un palloncino in mano sbuca, in anticipo secondo i suoi piani, ma in ritardo per quelli di Lucia, Tommaso. Lei gli corre incontro, lui l'abbraccia. Il padre di Lucia è indeciso fino all'ultimo. Non sa se mettergli entrambe le mani addosso o porgergliene solo una per salutarlo. Poi gli si avvicina con passo texano da cowboy pre-duello: ma non può niente di fronte a Tommaso, che gli butta le braccia al collo con trasporto anche maggiore di quello appena usato con Lucia.
Mentre faccio una foto all'allegra combriccola e la mando a Stefi col titolo "Evviva sant'Antoni!", i miei pensieri tornano ronzanti alle parole di quella mail penosa... "non trovare neppure le parole per dire ciò che ci si agita dentro"... "l'immensità di questi posti mi ha messo in crisi"... "lasciami un po' di tempo per capire cosa c'è che non va". Ma che schifo di scelta lessicale... nell'emergenza pure Michele si è trasformato in un babbeo qualsiasi.
Tredici Per ragioni e con modalità diverse, io, Stefania e Lucia siamo alle prese con momenti delicati delle nostre vite, e sebbene quelli di Lucia siano senza dubbio più complessi, appena resto da sola non riesco a non farmi adombrare dai miei. Decido di non stare più ad aspettare che Michele mi chiami, mi scriva o mi mandi un SMS, e preferisco ricalibrare i miei collegamenti col mondo. Non c'è niente di più limitante che stare a guardare un telefonino nella speranza che si illumini o aprire la casella di posta elettronica confidando nel fatto che non ti abbia scritto solo Jivett Vatruim con l'intento di ampliare i tuoi orizzonti erotici o il tuo pene. Non avendolo, di solito cestino. Consulto per l'ultima volta la mia casella ufficiale, e ne son ben lieta, visto che in questo modo posso riuscire a scongiurare un gravissimo incidente diplomatico. Un giovane sconosciuto futuro sposo mi ha scritto spiegandomi di essere molto indeciso. Non sa se regalare alla futura consorte come dono di nozze un mio intervento durante la cerimonia o un anello. Lusingata, ma coi brividi al pensiero di fare uno spettacolo durante un matrimonio, arduo momento artistico nella carriera di un comico vista l'enorme poliedricità della platea (è difficile divertire un bimbo di cinque anni e suo nonno nello stesso momento), declino con sincero affetto. E poi non voglio neppure immaginare la faccia della sposa nel momento in cui dovesse mai realizzare che avere me lì presente ha significato avere un dito più leggero e spoglio. Compiuta quest'operazione chiudo tutte le mie caselle di posta e, per la prima volta nella mia vita, dopo dodici anni di onorata e fedele attività nella telefonia mobile, cambio numero di cellulare. Cambiare numero è un'esperienza interessante: ti costringe a fare un inventario delle tue amicizie, ripassare la rubrica, decidere chi informare e chi lasciare fuori da questa rinascita.
Ma è con una fitta al cuore che mi separo da SMS non solo di Michele, memorizzati dentro quella piccola scheda dal 2000. Stefania è in una fase della vita completamente diversa. Per la prima volta esce con un uomo che non ci ha ancora fatto conoscere e, a quanto sembra, non ha nessuna intenzione di sottoporlo al nostro severo giudizio. Prima o poi capita a tutte di frequentare uno che ti fa star bene, con cui a tratti è piacevole trascorrere il tempo, ma con cui si fa molta fatica a dividere la vita vera. Non che Stefi si vergogni di lui, ma in qualche modo si sente obbligata a mettere le mani avanti e a chiarire che, nonostante gli occhiali da sole Bollé e le Reebok Pump, sia un tipo anni Ottanta fuori, ma contemporaneo sulla pelle. La loro relazione comunque va avanti: lui l'ha ribattezzata Poochie, la tenera cagnolina rosa. La verità è che l'uomo frequentato da Stefi prima dello speed date era compito, serio e scherzava poco, quindi al momento il costante buonumore di Pietro è per lei seducente in modo esponenziale e quasi irreale. Errore comune a molte donne: innamorarsi di quello che mancava nella relazione precedente. Prodromo certo, questo, per inanellare una delusione dopo l'altra, prendere granchi clamorosi, avere scarsissima mira sentimentale. Si può arrivare, guidate dall'assoluta convinzione che senza gesti romantici la propria vita sia vuota, a lasciare un uomo solido, concreto ma poco sentimentale per far spazio a un tenero sognatore capace di grandi gesti: letture d'amore, fiori sul cuscino, frasi vergate con l'eye-liner sullo specchio, compresa l'ultima "Sei il mio gladiolo più prezioso che da oggi non voglio più cogliere. Addio". Ma la vera rivoluzionaria tra noi è Lucia. Incinta di ormai diciotto settimane, per la prima volta in tutta la sua vita decide di andare a vivere con un uomo trovandosi costretta, dopo sedici anni, a lasciare la sua vecchia e amatissima casa in Porta Romana. Poco tempo dopo il rientro dalla Sardegna, infatti, Tommaso aveva capito che era arrivato il momento di prendere in pugno la situazione.
Dopo l'ennesima volta in cui, trattenuto senza preavviso da Lucia per la notte e mandato in giro poco prima dell'alba a caccia di avocado, si era visto costretto a comprare una cravatta, pure brutta, nel negozio accanto al tribunale per non comparire in udienza due giorni di seguito davanti allo stesso giudice vestito nello stesso identico modo, aveva deciso di averne abbastanza. Qualche mattina dopo, asciutto, sicuro e tranquillo, aveva preso l'argomento decisamente alla larga du¬rante la consueta colazione al bar del tribunale con cappuccino e krapfen, ed era partito con lo sfogo: «Io sono stufo di vivere come un amante, su e giù tra casa mia e casa tua, dove tra le altre cose non ho neppure abbastanza spazio per mettere i miei abiti, e poi...» «Ma cosa dici, ti ho dato un cassetto belliss...» «Stai zitta, amore» la interrompe lui deciso ma composto. «Non ho finito... sono stufo di vedere solo il tuo nome sul citofono, e che quando squilla il telefono di casa non possa essere mai per me.» «Ma non è vero, l'altro giorno ha chiamato Stefi e te l'ho passata...» I tentativi di Lucia di difendere la sua posizione sono tutti debolissimi, ma anche le doti forensi di Tommaso, fuori dall'aula, non eccellono. Alla fine taglia corto con un secco: «Obiezione! Anche perché c'è un'altra cosa di cui sono stufo...». E decide di gustarsi il momento, prendendola tra le braccia. «Di cosa?» fa lei addolcita. «Di non starti accanto ogni notte e non sapere che tu e mio figlio state bene... o figlia, tra poco lo sapremo...» Lucia, che non ha mai sentito pronunciare l'espressione "mio figlio" a Tommaso, scopre in quell'istante che le piace moltissimo. «In conseguenza a tutte le ragioni di cui sopra, avvocato Sechi, le chiedo ufficialmente se ricorrono gli estremi per avviare una ricerca immobiliare congiunta e ivi attendere il nostro erede legittimo nella sua cameretta nuova certificata Iso 9001 e assolutamente priva di spigoli vivi.»
Lucia senza neppure pensarci, lo abbraccia: «Ne sarei onorata, avvocato Campus, davvero onorata». La sera stessa, durante una conversazione a tre su Skype, Lucia divide la sua gioia con me e Stefania che, ovviamente, non ci mostriamo avare né di felicitazioni né di consigli. Stefania, commossa e sgranata nel suo lato di monitor, come al solito è felice ma questa volta con venature di amarezza: «Eh, Lucia, ma quanti scombussolamenti... la gravidanza, la convivenza e adesso pure un trasloco da organizzare... Ma sapete che ho letto su un libro che il trasloco è una causa di stress potente come il licenziamento, il divorzio e il lutto?» E attacca un bottone clamoroso sul fatto che è risaputo che questo cambiamento va assimilato len¬tamente, più che mai visto il suo stato, e che è necessario organizzarsi bene per adattarsi alle nuove abitudini nel rispetto degli "automatismi della coscienza". «Stefi, in questo momento mi tiri fuori gli automatismi della coscienza?» le chiede Lucia sconcertata. «Luci, sappi che il trasloco rappresenta un addio al passato e una parte di te sparirà per sempre...» tiene a sottolineare Stefania. «Luci, a parte che Stefi esagera sempre, ricordati però una cosa... Se posso permettermi di darti questo consiglio... Trasloco a parte, la salvezza della convivenza si gioca in un solo ambiente della casa: il bagno. Cercate una casa che ne abbia due, mi raccomando... E ovviamente, lui sbattilo in quello di servizio.» Anche se sembra assurdo, sono certa che il segre to della felicità di coppia, soprattutto se la coppia ha come protagonisti due che fino ai trentacinque anni hanno vissuto da soli, si gioca sul filo di piccoli dettagli. Escludere a priori di dover litigare per come lui gavettona lo specchio impreziosendolo con mille goc cioline mentre si lava i denti o anche solo le mani, per come appallottola il tappetino del bagno o pei come ci si chiude dentro esattamente nell'attimo in cui il tuo pigro metabolismo corporeo, a differenza del suo notoriamente compulsivo
e iperefficienle. ha un moto di vita, può essere un aiuto enorme alla pace domestica. Lucia, fino a oggi, era stata abituata a cercare casa per finta al solo scopo di valutare più che la bellezza dell'immobile, quella dell'agente immobiliare. A questo escamotage era ricorsa più di una volla per incasellare con facilità diversi appuntamenti con uomini gentilissimi e ben vestiti, magari sostenitoii come lei "dell'importanza vitale della cabina arnia dio nella vita di una donna". Senza avere mai avuto la minima intenzione di comprare una casa, proprio in quei mesi di profonda sperimentazione sociale aveva imparato bene, a sue spese, quanto questa categoria professionale fosse incline alla menzogna del pescatore: misure e distanze millantate è molto più prudente valutarle in loco. Si è trovata più di una volta a visionare appartamenti "assolutamente da vedere, a pochi minuti dalla lermata, solo per amatori" per scoprire che l'eventuali- inquilino doveva essere un amatore degli stabili ad alcuni giorni di cammino dal capolinea di un autobus con frequenza pressoché trimestrale. In una città come Milano, per un monolocale con bagno senza finestre, senza vasca e senza speranza, con angolo cottura tagliato in maniera tale che solo un contorsionista può improvvisare un fritto misto senza conseguenze per la cervicale, in teoria devi sborsare circa un terzo di uno stipendio medio. Trovare una casa, se non sei molto ricco, non sei l'unico nipote di uno zio che vive a Milano, senza figli, vedovo e molto generoso che vergogna - vai a trovare in modo disinteressato con le pastarelle tre volte all'anno, e a meno che tu non sia disposto a occuparne una come uno squatter, non è facile. Tutti vogliono stare a un piano alto, in quanto vivere troppo in basso vuol dire nella maggior parte dei casi dover cedere alle sbarre alle finestre che fanno troppo Alcatraz - soprattutto per uno che viene da un luogo in cui la gente lascia ancora le chiavi inserite nella serratura.
E poi c'è la parola, che pure Lucia e Tommaso hanno usato con disinvoltura. Quella parola che se pronunciata davanti agli agenti immobiliari, provoca sorrisi beffardi. Come chiedere se nel prezzo della locazione sia compresa una vergine che sventola piume di struzzo in caso di serate con indice di umidità superiore al trenta per cento: il terrazzo. Inspiegabilmente, in una città con un inverno freddissimo e un'estate caldissima, avere un terrazzo, magari all'ultimo piano, pare sia desiderio comune a tantissime persone. Tutti sperano di poterci coltivare il basilico e il prezzemolo, organizzarvi cene per tanti tanti amici e, ultimo ma non ultimo, stendervi i panni ad asciugare. Per molti vivere a Milano senza un terrazzo è come giocare a golf in ascensore, schiavi di un maledetto - troppo piccolo e sempre in mezzo ai santissimi - stenditoio. Questa volta, con velleità d'investimento più reali e con una gravidanza ormai giunta all'inizio del quarto mese, Lucia era stata fin dall'inizio più selettiva. Dopo aver esaminato in un paio di settimane circa dieci appartamenti, lei e Tommaso avevano deciso alla fine di prendere il primo visto insieme. Lucia, soprattutto, aveva insistito: «È l'unico che mi ha parlato» aveva confidato all'agente immobiliare, in realtà allineando le sue scelte di affittuaria a quelle della donna. Stava andando a vivere con il primo fidanzato nel primo appartamento visionato in occasione della sua prima convivenza, contestualmente alla sua prima gravidanza. Senza ombra di dubbio un essere umano di rara coerenza.
Quattordici Tre settimane dopo, Lucia e Tommaso vivono, in una sola giornata, grandi emozioni. Di prima mattina vanno a fare l'ecografia morfologica, che grazie alle nuove strumentazioni è ormai simile a un servizio fotografico tridimensionale. Tommaso si illumina dell'immensità di quelle immagini che prendono forma sul monitor e cerca di non farsi beccare da Lucia mentre conta i ditini di mani e piedi, assieme alla ginecologa. Non riesce a trattenere le lacrime quando la dottoressa scioglie ogni riserbo sulla salute della creatura, che da embrione è stata ormai da tempo promossa a feto: «Allora... è tutto a posto... spina dorsale, cuore, organi interni, il labbro non è leporino... ed è lungo venti centimetri.» Lucia si stringe ancora di più a Tommaso: «Ci piacerebbe anche sapere il sesso.» La ginecologa scende con la sonda verso una parte minuscola della creaturina. «Vediamo se è nella posizione giù... be', a lei cosa sembra, questo?» Dopo la profonda commozione in uno studio medico, i neogenitori di Rocco - questo l'ambizioso nome scelto per il loro primogenito vanno negli uffici dell'agenzia immobiliare per formalizzare le questioni legate al nuovo nido. Evadono le ricattatorie ma basilari formalità: la firma del contratto, la copia della dichiarazione dei redditi, la consegna dei canonici tre mesi di anticipo e tre di caparra, un ciuffo di capelli per l'esame del DNA, indirizzi di due parenti di primo grado e almeno un ninnolo di famiglia. A seguire, per la proprietà transitiva dello stress degli amici, io e Stefi, elette di fresco capicantiere, iniziamo a realizzare che le previsioni circa i cambiamenti di domicilio avanzate qualche tempo prima erano in realtà fin troppo ottimistiche. Il trasloco si mostra in tutta la sua potenza logorante, rivelandosi più snervante dell'invasione degli ultracorpi il primo dell'anno e
comparabile a un'esplosione del tubo catodico del televisore durante il rigore di Grosso a Berlino nel 2006 contro i nostri cugini francesi. Fronteggiamo insieme a loro uno di quei momenti capaci di far traballare una coppia: attraversarlo incolumi significa avere qualche chance di restare insieme per l'eternità. Ad aggravare la situazione, quel principio di afoso luglio lombardo che li fa sentire come un pizzaiolo costretto a infornare margherite avvolto in un lupetto di cachemire. E se cambiare numero di telefono è davvero l'inventario delle amicizie, il trasloco lo è della vita. Il trasferimento di Lucia somiglia più a uno sgombero, per giunta: siamo circondati da cassetti colmi dilibri risalenti al biennio universitario, appunti sbobinati e matite spuntate, ci sono almeno venti armadi da svuotare, e ovunque spuntano reperti che non si riesce a capire nemmeno perché siano stati conservati. Lucia, di fronte al classico mobile con cassetti a scomparsa che negli anni ha ricoperto diversi ruoli (prima deposito delle cose importanti, poi ricettacolo di ricordi da tenere cari, infine nascondiglio degli oggetti da rinnegare), dimostra quanto grande possa essere l'affetto che unisce una donna all'oggettistica che viene dal suo passato. Smistando con lei ricevute di alberghi dove non ricorda neppure di essere stata e pacchi di biglietti da visita di persone di cui ignora ormai l'esistenza (compreso uno spogliarellista di Bergamo), mi imbatto in una scatola di raccoglitori di fotografie, quelli che hanno smesso di esistere da quando solo chi ha figli piccoli stampa le foto e non si limita a salvarle sul PC. Ripercorriamo così alcune tappe della nostra vita dell'era predigitale, quando ancora esistevano i rullini e solo al momento del ritiro delle foto si potevano sciogliere le riserve sulla loro qualità effettiva. Ora si possono subito cancellare gli scatti in cui non ci si riconosce, ma allora era ancora frequente dover pagare per avere foto orribili, con gli occhi chiusi da alcolista, o rossi invasati da serial killer, o direttamente coperti dalla cordicella della macchina davanti
all'obiettivo. Salta fuori un remoto scatto capodannino - trattasi del passaggio dal 1997 al 1998 - in cui io, Stefania e mia cugina Gabriella sorridiamo abbracciate. Mia cugina è impeccabile e bellissima come sempre, io sfoggio un top senza maniche ma con braccia da pugile, più che per forma per fattura (si parla qui del periodo antecedente alla prima sfoltitura dei peli degli arti superiori), e Stefania propone un'acconciatura da rockabilly, con capello corto impomatato ed effetto bagnato che ricordo bene di aver a suo tempo avallato, se non anche concepito, nonostante i suoi dubbi. Gliela mostro e le chiedo scusa per aver insistito, mentre lei la guarda senza trattenere un amaro: «Lo sapevo, come potevo stare bene pettinata con la riga in mezzo?». Faccio spallucce, come di solito fa lei, ma so bene cosa si prova a rivedersi così in una foto. Pure mia madre da piccola mi pettinava così, e so molto bene quanto possa soffrire e quale immagine possa evocare una bambina grassa col viso sferi¬co e la riga in mezzo. Aiutare Lucia non si rivela però così facile; ogni volta che io stabilisco si possano buttare via cianfrusaglie come una brochure di settimane bianche del 1994 o dei biglietti giornalieri della compagnia trasporti londinese obliterati nel '95 la sento urlare. Non si arrende nemmeno di fronte al vasetto di vetro con dentro un bombo di due decenni fa, conservato in un'improbabile soluzione di alcol e chissà cos'altro («È un esperimento delle medie, mi ricorda il mio primo bacio») e fatichiamo a convincerla persino a sbarazzarsi di una collezione di baccelli secchi, castagne matte e trifogli («Non è colpa mia se di quadrifogli non ne ho mai trovati»). Per persuaderla a gettare l'annata 1976 di "Il cemento nelle costruzioni industriali", in parte rovinata dalla muffa, mi impegno a regalarle un abbonamento a "Vita in cantiere" per un anno. «Nooo, no quello non buttarlo, mi ricorda il mio fine settimana a Lisbona l'anno della laurea. Che bello eravamo io, Simona, Ilaria... No, Ilaria no, aspettava Veronica, non era venuta. Boh non ricordo, forse c'era Imma... Va be', comunque non buttarlo!» Alza il tono di voce anche per suppellettili molto brutti e inutili. «No, quella no, ti prego! E la collana di fiori di plastica che mi ha portato la segretaria del mio studio dal suo viaggio di nozze...»
«E tanti auguri a lei, ma cosa te ne fai?» le chiedo. «E se viene in casa e la vuole vedere?» «Quante volte è venuta la tua segretaria in questa casa in sette anni?» «Neppure una... ma la voglio... mi serve... ce l'avevo addosso in un giorno speciale.» «Di questo ce ne possiamo liberare?» grida Stefi sbucando dalla porta del bagno con un cartello di legno con scritto in lettere cubitali "Non si fanno sconti". «Sì!» rispondo io al posto di Lucia. «Be' Luci, per questo non hai più scuse... non oso neppure domandare da dove venga e a cosa si riferisca.» «No, per carità, ci sono affezionata... è un ricordo, Stefi, dammelo qui...» «Lucia, ma ricordo di che?» le chiedo inquieta. Lucia glissa, e Stefania in quel silenzio trova lo spazio per una serie di riflessioni a cascata, che inizia per gioco, ma finisce sul serio: «Per un po' ti passerà la voglia di fare festicciole... Luci... È un momento così bello questo. E poi noi siamo qui a faticare come se per tuo figlio avesse importanza avere una cameretta tutta sua... questo trasloco è per i grandi che lo si fa, no? Per lui conteranno altre cose... Luci, ricorda che il primo dono che fai a tuo figlio non è la culla in vimini, ma il padre. E visto che non te lo avevo ancora detto, te lo dico oggi. A noi Tommaso piace da sempre. Per una come te, la sua flemma è quella che ci vuole. Non trovate, care? Andrà tutto bene, lo sento...» Io e Lucia ci sorprendiamo a scambiarci uno sguardo di sottecchi e poi a fissare sbigottite Stefi mentre parla. Lei è spesso per noi fonte di rinnovata ammirazione, anche se non sempre in seguito ad affermazioni così sagge e intense. «Stefi, mi stupisci... hai detto una cosa molto bella e giusta...» sottolinea Lucia di nuovo commossa... Stefi ricambia l'abbraccio con dolcezza.
«Stefi, che Lucia sia tanto stupita del fatto che tu dica una cosa bella non ti dovrebbe offendere?» faccio notare alla saggia interrompendo questo momento topico. Stefi sorride e Lucia si asciuga gli occhi. Continuiamo così per ore, a ricordare e archiviare, catalogare e conservare, dando il meglio di noi nei lavori astratti e di concetto, senza dimenticare di tanto in tanto di complimentarci con un sudato e affaticato Tommaso, come al solito assorbito suo malgrado da compiti meno di concetto e più di fatica. Sul finire di un pomeriggio trascorso tra pacchi e carta da imballaggio, un uomo affaticato si tuffa nel proprio mare di nuove consapevolezze, imparando a proprie spese che a rendere ancora più ardue queste fatiche non è il caldo, ma lo stato di Lucia. Si è appena lasciata alle spalle il fastidio delle nausee furibonde, e ora può usare le sue residue energie per sancire con tracotanza il Predominio Totale della Portatrice Assoluta di Vita. Il suo stato di donna gravida, soprattutto in un contesto come quello di un trasloco, è una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualunque momento. La pancia ormai è ben più che un accenno, e lei, che giustamente "non può portare pesi", ha accentuato il suo fare dirigenziale costringendo Tommaso e noi a spostare quello che vuole nel punto esatto in cui vuole. Come molte donne incinte, non ha più bene idea degli ingombri del suo corpo, e se anche solleva una scatola di stuzzicadenti va a sbattere contro uno stipite, la fa cadere a terra e poi pretende che noi tutti, chinati come cercatori d'oro, setacciamo pavimento e folti tappeti in cerca dei preziosi bastoncini appuntiti. È soprattutto Tommaso a fare le spese di questi capricci. Lui, mero produttore del seme, fino a quel momento protagonista soltanto nel momento più divertente, non può competere con Ella, la Regina Vagina, Madre Suprema, Psicotica Reale, Gestante Monarca. La sua produzione ormonale è ormai a livelli massicci. Gli estrogeni le hanno ammorbidito il collo dell'utero, ma non il carattere; il progesterone ha fatto aumentare il suo seno, ma non la sua pazienza. Impartisce ordini ai ragazzi della ditta dei trasporti con piglio dittatoriale e con Tommaso è altrettanto autoritaria.
Alterna a cicli irregolari fame, sete, freddo, caldo. E molto sensibile agli odori e odia il profumo di uno dei trasportatori, che solo per questo viene trattato peggio degli altri. Minaccia di licenziarne uno quando si permette di rientrare dalla pausa con una tazzina di caffè in mano. Mai più un trasloco d'estate e soprattutto con una don¬na incinta, continua a ripetersi Tommaso, iniziando a prendere coscienza di cosa significhi realmente avere a che fare con una porta-bimbo. Sa che dovrà avere una pazienza infinita, quello che non sa è che il meglio deve ancora arrivare.
Quindici A tramonto inoltrato mi incammino verso casa insieme ai miei pensieri. Non sento Michele ormai da più di un mese, e in questo lasso di tempo, nonostante varie congetture, non sono nemmeno riuscita a capire cosa sia successo davvero. Amore, parole e promesse, fughe e sparizioni, telefonate e messaggi, e il dubbio che il prossimo uomo che conoscerò la pagherà al posto suo. Siamo anche quello che ci succede; ogni uomo che incontri e se ne va ti lascia nuove paure che ti faranno diventare più insicura, più disincantata o più pallosa. O tutte e tre le cose. E poi se è vero che Milano è grande, caotica e immensa, è altrettanto vero che tende a diventare minuscola nel momento stesso in cui non te lo potresti permettere affatto. Mentre cammino svogliata in viale Monte Nero, dall'altro lato della strada prende corpo la visione peggiore che potessi mai augurarmi. Michele passeggia accompagnato da qualcosa di più ingombrante e biondo di semplici pensieri: Erika. Non so quale sarebbe la reazione più appropriata: una parte di me è tentata di attraversare la strada, assestare due mosse di ju jitsu, annientare a mani nude i miei avversari e poi fare la ruota e andare via veloce come un ninja senza dar loro il tempo di capire cosa sia successo. Lo spirito nipponico viene però sovrastato da una tattica più discreta: mi accovaccio dietro la ruota di una macchina e li seguo con lo sguardo. Parlano, e lei ride (tanto per cambiare) buttando la testa all'indietro e mostrando il collo. Riconosco quella movenza, è un chiaro segno di disponibilità sessuale... piccole nozioni sul linguaggio del corpo che devo aver letto da qualche parte. Toccare nervosamente l'orologio, desiderio di andare via al più presto o troppi liquidi assunti; togliere i pelucchi dalla propria giacca mentre un uomo tenta un approccio, basso gradimento del medesimo; ridere e mostrare la giugulare durante una conversazione anche
formale, disposizione ai rapporti completi. Ne sono sicura, maledizione... A un certo punto si fermano, e iniziano a parlare fitto. Mi sembra di sentirli: lui le starà dicendo quanto sia bello scoprire che la bimba è cresciuta ed è diventata una donna e lei, piccola meretrice, gli starà biascicando quanto sia buffo che ci sia voluto così tanto tempo per capire l'unica e sola verità. Lei, novella Audrey Hepburn reinterpreta davanti a me Sabrina. La giovane adolescente che parte, studia arti culinarie, torna quando è ormai una donnina fatta e realizza il suo grande sogno: stare con l'uomo che amava fin dall'età pre-puberale. In realtà lei poi zoccoleggia un po' anche col fratello di lui, come Geòrgie che corre felice sul prato con Abel e Arthur, e cambia rotta, ma solo nel finale. È da un mese che aspetto di trovarmelo davanti, che sogno come prenderlo di petto e affrontarlo, come dirgli quelle parole che si sentirà rimbombare nella testa anche quando io avrò smesso di declamarle, ma in questo momento, inebetita e appallottolata dietro quella macchina, non ho nessuna voglia di parlargli. E tali sono il mio stato stuporoso e la mia trance nell'osservarli che non mi rendo conto neppure che le quattro frecce della macchina dietro la quale mi sono nascosta lampeggiano: nemmeno il tipico suono da tacchino dell'antifurto disinserito mi risveglia. Il proprietario si accomoda nell'abitacolo e parte. Non sono più una donna nascosta dietro il parafanghi posteriore di un'autovettura. Sono un'idiota accovacciata in mezzo a un marciapiede; due persone mi osservano, mi aggirano incuriosite e passano oltre. Lo realizzo solo quando Michele incrocia il mio sguardo, o così mi sembra. In quell'istante metto a fuoco la situazione in cui mi sono infilata e, pervasa da un moto istintivo, scappo via, come una ladra che ha appena sottratto un'autoradio da sotto il sedile di un'utilitaria spaccando un finestrino.
Per favore per favore per favore... Fa che lui non mi abbia visto, fa che lui non abbia visto... e neppure lei... soprattutto lei...
Mi sembra di leggerlo su un tabellone luminoso, mentre mi svincolo tra i vicoli: "Secondo te c'è qualcuno che può non averti notata, stupida donna?" Corro fino a casa dove prevedo di assorbire il trauma seduta sul divano dedicandomi a qualche attività scacciapensieri, tipo fissare la mobilia in penombra, scongelare il freezer, o vuotare la soffitta. Ma che quella non sia la mia giornata giusta viene confermato da un altro spiacevolissimo inconve¬niente che sta per investirmi. Ad attendermi al mio arrivo trovo subito un'altra cosa da guardare quasi con lo stesso dolore appena dedicato ai due ex vietnamiti.
A proposito, ma da quanto sono rientrati? E perché non mi ha cercata? Come può non sentire il bisogno di chiarire con me? Oh mio Dio, cos'è tutta quest'acqua? Accanto al divano su cui pensavo di adagiarmi per guardare la libreria, il muro presenta un foro irregolare, a terra calcinacci e pezzi di intonaco, che solo fino a qualche ora prima non erano per terra, ma adesi alle pareti, come da progetto. Perdipiù, dal muro scorre verso la sala un timido ma continuo rivolo d'acqua che sgorga da un tubo evidentemente danneggiato durante i lavori nell'appartamento accanto al mio, dove un tempo viveva il mio amico Federico e in cui da qualche mese una psicologa ha installato il suo studio. Mi precipito a chiudere il rubinetto centrale dell'acqua e a chiamare qualcuno, non so neppure chi in realtà; poi torno in sala e mi inginocchio per valutare meglio i danni. Sbircio lì dentro e, oltre l'intrico di tubi vari, fili e frantumi di isolante, nella semioscurità intravedo una cosa raggelante e spaventosa: due occhi sgranati mi osservano. A me, a cui basta uno che arrivi alle mie spalle mentre cucino per farmi rischiare un infarto. Quell'immagine getta al vento anni e anni di rispettabile curriculum di amante dei film del terrore, guardati
sbirciando attraverso la mano semiaperta davanti agli occhi, ma pur sempre visti. So bene quindi come andrà a finire: dal pertugio uscirà una mano uncinata che sfonderà il muro, mi afferrerà per il collo e chiuderà la partita tramortendomi con un soprammobile. Istintivamente grido e il cuore mi balza sul divano su cui non sono mai arrivata a sedermi; il mio spavento viene aumentato dal fatto che dall'altro lato della parete, insieme al mio, se ne leva un altro, forse anche più intenso. Corro verso la porta quasi pronta a chiamare polizia, carabinieri, caschi blu e FBI, quando una voce dall'altra parte del muro inizia a parlare: «Scusi?» Escludendo si tratti di un assassino dal timbro delicato e molto educato che prima di trucidare le sue vittime chiede venia per il disturbo arrecato, con passo incerto mi riavvicino allo scavo. Prima però afferro un ombrello, visto che da quei film ho imparato che non bisogna mai andare a controllare cosa sia "quello strano rumore che viene dalla cantina" a mani vuote. La voce parla ancora. «Scusi, signora. Signora?» Con prudenza mi inchino, scruto di nuovo là dentro e noto che gli occhi invasati che tanto mi avevano inquietata hanno sotto di loro un naso rifatto e una bocca sorridente. «Salve, mi scusi, sono Francesca Torre, mi spiace averla spaventata... sono la psicologa...» «Altro che psicologa, lei è pazza... sono morta di paura... O dovrei dire piacere, secondo lei?» «Forse non lo è, lo so... guardi, mi dispiace moltissimo, ma oggi i muratori facendo un piccolo lavoro, hanno rotto un tubo dell'acqua, ho subito chiamato un idraulico, ma prima di domani mattina non è
libero. Le ho anche messo sotto la porta un biglietto per avvisarla, forse non l'ha visto...» Mi giro e noto un foglio piegato in due per terra, che il mio ingresso trafelato in souplesse mi aveva impedito di notare. «Ah sì, lo vedo. Ma, scusi, quindi devo rimanere senz'acqua immagino fino a domani? E chi ripara questo danno?» «Non si preoccupi, penso a tutto io...» «Ho capito.» Pausa. Con me che, china in avanti, fisso attraverso uno squarcio nel muro una psicologa inginocchiata che mi sorride conciliante. Interrompo il silenzio. «Scusi, invece che parlare come due idiote attraverso laterizi in frantumi, che ne dice se ci vediamo nel pianerottolo, almeno?» «Mi sembra un'ottima idea» risponde lei. Alcuni minuti dopo, per l'equazione "trauma non grave tra donne uguale amicizia" io e Francesca ci diamo già del tu, e sedute (finalmente) sul mio divano, ci ritroviamo a bere vino bianco e a mangiare patatine del valore di un euro da un sacco oversize. Io le racconto del precedente inquilino della sua casa, che era diventato un mio grande amico, e lei delle difficoltà nell'avviare il suo studio; io blatero di come sarebbe utile in questo momento un uomo bricoleur e lei mi spiega con ammirevole freddezza che dopo nove anni di fidanzamento la sua storia più lunga si è appena conclusa, e comunque l'uomo di cui sopra aveva smesso di fare lavoretti in casa dopo il terzo anno di convivenza. Mentre l'accompagno alla porta suona il citofono di casa mia. Temo sia Michele, anzi so che è Michele. Decido di non rispondere. «Non rispondi?» rimarca la squarciapareti. «Saranno i soliti volantini pubblicitari.»
«Alle otto di sera?» «Perché no...» ma dal tono vago si capisce che non ci credo neppure io. Fa per incamminarsi fingendo di crederci, poi si volta e con tono professionale mi domanda guardandomi negli occhi: «Tu hai paura di rispondere, vero?» «Senti, Francesca, mi ci vuole un idraulico oggi, non uno psicologo...» «Non vuoi il mio aiuto?» chiede dispiaciuta. «No, davvero, è che adesso non mi va di parlarne» mi torna in mente l'immagine di Michele che parla con Erikazzola. «E poi da oggi è tutto molto chiaro.» Francesca perde il piglio professionale di soli trenta secondi prima e scivola nell'autocommiserazione più totale, senza passare dal via. «Ma certo, avrei dovuto capirlo... scusa tu, sono stata invadente... come mi sono permessa... ti spacco il muro, e mi permetto anche di farmi gli affari tuoi... Che disastro... Meglio che vada... Ci sentiamo domani quando arriva l'idraulico.» La guardo frastornata, mentre sparisce veloce con gli occhi lucidi dietro la porta del suo studio. Osservo la sua porta chiusa per alcuni istanti, sperando che fuoriesca subito dicendo "Ci sei cascata, polletta!", ma purtroppo non lo fa. Rientro in casa, e pur di non vedere il traforo del soggiorno, vado a sedermi nel piccolo terrazzo con vista sui tetti che mi regala l'illusione di essere a Parigi. "Non sembra neanche di essere a Milano" dicono alcuni in presenza di immagini cittadine talmente graziose da non dare l'impressione neppure di essere milanesi. Io non condivido, ho sempre amato questa città, anche se trascorrerci buona parte della mia estate sta facendo vacillare questa mia passione. E non solo questa.
Ho fatto bene a non aprire la porta a Michele e dargli modo di sciacquarsi la coscienza spiegandomi tutto. Le cose mi sembrano molto chiare, e rivederlo non sarebbe servito a niente, anzi, avrebbe solo interrotto la mia convalescenza emotiva. Non voglio ricadute. E quindi eccomi qui, nella piena e ben nota sindrome che così bene cantò mesto Aznavour, perché mesto è il tema; mi sembra di sentirlo suonare il piano dal terrazzo di fronte e intonare straziato il ritornello: "Ed io tra di voi se non parlo mai, osservo la vostra intesa". Cosa ci facevo io a guardare da lontano (ma neanche troppo, temo) l'uomo che credevo fosse mio dialogare amabilmente con un'altra? Lo struggente chansonnier aveva intuito come in quelle occasioni davvero si spezzi qualcosa dentro. Guardando i comignoli spenti di Porta Venezia travestita da Montmartre, l'amaro bilancio della giornata si staglia sulla luna crescente come Batman. Un trasloco altrui, un ex a piede libero per la città, una casa allagata, una psicologa depressa che mi lascia in emergenza idrica. Potrebbe andare peggio? Potrebbe piovere? Vista la mia situazione in soggiorno, questa almeno sarebbe un'ottima notizia. Sapevo quanto sarebbe stato difficile trovare un altro fidato e fedele compagno di pianerottolo come Federico, ma fino ad ora questo scambio non è stato affatto conveniente. Sono passata da quello stato semigiubilare garantito da un vicino pianista che si cimenta nel tardo pomeriggio nelle Sonate di Chopin, al terrore latente provocato dal confinante che si prepara fino a notte fonda per la tournée del suo gruppo metallaro, di cui è il batterista acustico. Una volta abbandonata pure dalla psicologa, mi trovo a ripensare a Federico. Solo un anno prima era stato piacevole scoprire nel mio nuovo vicino un buon amico e di certo un ottimo confidente. Certo non si poteva contare su di lui per un bicchierino di zucchero in caso di emergenza, anzi più di una volta mi aveva derubata di tutte le mie provviste, ma sapeva farsi perdonare.
Quello che proprio non riuscivo a mandare giù era il suo essersi trasformato da impenitente playboy vizioso a omosessuale fedele pochi mesi dopo il mio ingresso nella sua vita, di essere andato a Londra e aver convolato a civilissime nozze civili con Paul - un altro figone - e soprattutto di non essere ancora tornato in Italia. Vinta dal ricordo, lo chiamo. Lui sa tutto, segue la vicenda da lontano ed è di solito dispensatore di buoni consigli, poco romantici, ma efficaci. Mi risponde con una pronuncia molto british: «Hallo?» «Pronto? Sono la giovane avvenente sarda che vive¬va accanto a te a Milano. Do you still speak Italian?» «Geppi! Sei tu? Come stai? Sei ancora sarda?» mi grida con l'entusiasmo di sempre dall'altra parte del telefono. «Fino a prova contraria. Tu piuttosto, sei ancora ita-liano o Londra mi ha portato via il tuo ciuffo ribelle per sempre?» Un secondo di silenzio, poi lui cambia tono di voce. «Sono un uomo sposato, io! Ma mi manchi tanto... Però Londra è stupenda, non ci penso neanche a tornare. Perché non vieni tu a trovarmi? Guarda che ti piacerebbe tanto, qui... Puoi stare da noi.» «Ti piacerebbe, eh? Così sembrerei la vostra figlia in affido... Ma dimmi, come stai, rubacuori e mangiabicipiti che non sei altro, come va la tua civil union? «Mah... quello che mia madre continua a chiamare matrimonio tra uomini va come i matrimoni tra voi diversi... alti e bassi.» «Noi? Diversi?» «E certo! Voi chiamate noi diversi... ma noi in realtà, noi siamo uguali, i diversi siete voi, cosa c'è di più diverso di uomo e una donna?» «Ah, come sei saggio, mi ricordi la mia estetista... Piuttosto, il lavoro come va?» «Bene. Nell'agenzia di pubblicità dove lavoro siamo tutti giovani, non è come in Italia dove sfruttano gli stagisti per fare le campagne. E
poi qui per reclamizzare un prodotto, si usa la creatività. Da voi c'è sempre una bella ragazza che sente il desiderio irrefrenabile di spogliarsi.» «Lo sai che fa caldo, qui... Ma poi cos'è questo da voi e da noi... Non siamo a Berlino prima della caduta del Muro.» «Mi prometti che se mai ti proporranno una pubblicità, rimarrai vestita?» «Tranquillo, anzi, credo che sarà il cliente a pretendere che sia inserito come clausola nel contratto.» «Scema...» «Ma ti trovi davvero bene, a Londra? Non ti manca neanche un pochino la tua casetta? Sai che al tuo posto è venuta una psicologa pazza che mi ha fatto un buco nel muro e allagato la casa? Un po' è anche colpa tua...» «Ti pareva che non fosse colpa mia... Io sto bene qui. È una questione di prospettive, di progetti per il futuro. Lì nella maggior parte dei casi non importa cosa conosci ma chi conosci, oppure ci vuole culo. La solita discriminante...» «Quindi io lavoro grazie a questo?» rispondo fingendomi offesa. «Presenti esclusi, volevo aggiungere.» «Salvato in calcio d'angolo.» «Vieni a Londra, in questo periodo ci sono pure i saldi. Così la roba, anziché costare il triplo che in Italia, costa solo il doppio.» «Verrò nel 2012, per le Olimpiadi. Ci sarà una nuova disciplina, "lancio dell'SMS oltreoceano". Io sono la caposquadra: con tutti gli SMS inutili che ho mandato negli ultimi mesi, l'oro non me lo leva nessuno.» «Dall'ultima mail che mi hai scritto mi sembra di capire che sei furibonda...» «Furibonda mi sembra riduttivo.»
«Ma com'è la viperetta? Carina, giovane, con lab¬bro rifatto e tacco da mistress?» «Più o meno.» «Te l'ho detto, è una questione di culo. Michele non si è ancora reso conto di quanto ne ha avuto a trovare te. Fregatene. Lascia passare tempo. Non farti sentire, vedrai che dopo un po' lui impazzirà e tornerà da te piagnucolando.» «Sì, ma nel frattempo quella che piagnucola sono io. Prova tu a salire su un palco ad affrontare uno spettacolo comico con lo stato d'animo di un attore pronto per il Macbeth.» Lui ride, con la solita spensieratezza, e mi ripete che dovrei mollare tutto e tentare la fortuna a Londra. Il suo programma mi sembra molto ambizioso, ma non parlando un fluent english e non avendo pronto uno spettacolo da mimo, temo che il piano sia da rimandare. Ci lasciamo promettendoci di sentirci più spesso e di vederci al più presto, o ASAP, come dice ormai lui, poi torno in sala e faccio un po' di zapping tenendo la TV senza audio. Guardando con attenzione gli spot mi rendo conto di quanto Federico abbia ragione: una donna nuda fa la reclame a uno svitatore. Ci sarà mica un doppio senso di bassa lega che loro chiamano messaggio subliminale? Come rimpiango Capitan Findus e Maria Rosa, loro sì che erano puri. Mi preparo per andare a letto. Visto il piccolo problema all'impianto idrico, sono costretta a lavarmi con bottiglie d'acqua oligominerale addizionata di anidride carbonica, come una baronessa viziata. Finalmente un brivido frizzante.
Sedici Fresca di doccia effervescente, ma con umore molto meno frizzante, concludo così per sommi capi le pratiche pre-notturne a secco, vista l'assenza del prezioso bene che è fonte di vita e pulizia. Prima però do una sbirciatina sotto casa, non si sa mai. Ho voglia-paura-speranza-desiderio, e alcuni altri sostantivi che non mi sovvengono, che Michele sia ancora lì, magari sotto la pioggia, ad aspettare che io gli dia udienza, pentito ma fiducioso, divora¬to dal rimorso. Mi acquatto nell'angolo della finestra. Lui non c'è, e tra le altre cose non piove nemmeno. Il suo gesto di pace è sminuito dalla mia dittatura sentimentale. Se dopo solo tre ore lui non è ancora lì a fissare il portone, se non è ancora passato un aereo trainante lo striscione con su scritto "Geppi perdonami", se non si è neppure arrampicato sulla grondaia a mo' di albero della cuccagna fino al quarto piano, vuol dire che non è vero amore. Federico ha ragione. Ho fatto bene a ignorarlo, del resto in amore vince chi fugge, lo dicevano tutti dal Basso Medioevo in poi. E poi cos'è cambiato, da allora, se ancora qualcuno è convinto che dire a una donna che ha le palle è un complimento? C'è un'immagine più ambigua di questa? E perché, allora, i maschi sensibili non hanno i seni? Divorata dal pensiero di aver fatto una fesseria a non stare a sentirlo (sempre ammesso che fosse lui davvero), mi trovo ad annotare queste e altre riflessioni sul maschilismo della lingua italiana nel mio fidato PC, magari potranno tornarmi utili. Un maschione è un uomo dotato di grande virilità e un donnone una donna robusta e pesante, un maschiaccio è un giovanotto aitante, mentre la donnaccia una di facili costumi: non è maschilismo questo? E, poi, perché la zitella è una donna in età avanzata con un'idea di femminilità appassita e uno zitellone è uno scapolo impenitente?
Questi pensieri più da femminista che da femmina pongono fine a una giornata che pure Jack Bauer avrebbe trovato lunga. A svegliarmi la mattina successiva è ancora una volta il suono del citofono. Non posso non rispondere: potrebbe essere l'idraulico, e io non posso continuare a lavarmi con bottiglie in PVC da due litri. Il signor Vadori, cinque minuti dopo, entra in casa mia e butta all'aria anni di leggendari racconti sulla categoria professionale da lui rappresentata. Fatico a immaginare torbide relazioni intrecciate da casalinghe che spaccano le condutture del lavabo a morsi pur di avere la scusa di rivedere questo elfo bizzarro. Per guardare meglio dentro il foro del muro non deve neppure inchinarsi tanto, però è competente e gentile. Senza sedurmi né abbandonarmi rende ufficiale, dopo una parentesi nel Settecento, il mio rientro nell'epoca corrente, dove tale è anche l'acqua. Per riavere una parete degna di questo nome devo però ancora aspettare qualche giorno: il muratore mi chiamerà nel pomeriggio per fissare un appuntamento. Mentre il seguace di padron Frodo Baggins varca la soglia di casa mia, nel pianerottolo incrocio un fattorino. Firmo in cambio di una busta e, congedati i due, mi precipito ad accertare il suo contenuto. C'è un biglietto, scritto a mano. Non so perché ti comporti in questo modo. Sono arrivato ieri sera a Milano per riportare qui Erika e prendere dei documenti. Ho bussato alla tua porta, invano. Non c'eri. O non hai voluto rispondere. Tra un'ora parto per Montreal. Non so quando torno. Ma non puoi comportarti così. Un bacio. Michele
In Sardegna in occasioni come queste si mormora il consueto "su bove chi nara corrudu a s'ainu", noto modo di dire anche italico riguardo le consuete querelle tra bue e asino su chi sia il cornuto.
Lui si permette di rimproverare me, è inaudito.
E la sua sparizione quasi senza spiegazioni? E poi cosa vuol dire "riportare qui Erika"? Mica è Clara, l'amica di Heidi che Peter doveva portare in spalla su per i pascoli svizzeri. Ho fatto bene a non aprire la porta, mi sono risparmiata un sacco di nervosismo. Da queste poche righe è chiaro che davvero ha perso di vista la realtà, o qualcosa mi sfugge. Sono isterica, e questa non è poi una novità... e confusa. Lui è già ripartito, e io non posso neppure godermi la mia rabbia. Non c'è proprio nessun gusto nello scegliere di non vedere uno che è in Canada. Mi sdraio sul divano violetto e mi ritrovo, come spesso succede, a pensare che i presupposti della soluzione dei miei problemi stiano in scelte opposte rispetto a quelle fatte finora, poi mi trovo senza pensieri e solo con gli occhi gonfi di lacrime. Ci sono tante cose che non si possono trattenere: gli starnuti, le lacrime, i singhiozzi, i fidanzati sfuggenti. A me in questo momento manca solo il singhiozzo da governare. E lui. Lui mi manca immensamente. A distogliermi dai miei pensieri un brusio, come di una radio lasciata accesa nella stanza accanto. Vado a controllare. È spenta. Oh mio Dio, sento le voci come Giovanna D'Arco... oppure ho i signori Poltergeist negli elettrodomestici. Continuo a guardarmi intorno: tutto è spento. Dopo poco realizzo che le voci arrivano dallo squarcio del muro. Mi inginocchio e tendo l'orecchio. Riconosco la voce di Francesca mentre chiacchiera con un uomo, e dal suo tono professionale capisco che si trova nel bel mezzo di una seduta di psicoterapia. Il tono del paziente è mesto, ma a tratti si fa rabbioso. Pare che non riesca ad accettare che "lei" sia sparita dalla circolazione senza motivo, dopo averlo riempito di bugie e aver giocato coi suoi desideri.
Benvenuto nel club...
Va avanti così per venti minuti, raccontando dettagli della controversa ma intensa liaison. Mi accomodo su una sedia dall'altra parte della breccia nel muro, e inizio a sorseggiare del tè. Francesca, nella sua versione equilibrata, gli chiede quante cose lui abbia proiettato su questa donna, e quante siano state reale espressione del loro amore e non solo frutto delle sue aspettative.
Ma davvero sono una romantica sognatrice incapace di capire se quello che vede è o no reale? Ho fatto tutto io, con Michele? Lui reagisce in modo simile a me e si domanda come sia possibile aver travisato tanto. «Non accetta il rifiuto perché è innamorato o perché nessuno può dirle di no?» lo provoca Francesca. Lui tergiversa. Anche io. Poi lui sbotta: lei è una poco di buono, l'ha vista due giorni fa assieme a un altro uomo a pranzo. «Tanto è una stronza, se gliene fregava di me, non sarei qui.»
Forse gliene frega di più dei congiuntivi. Il giovane paziente d'un tratto perde il suo savoir faire e inizia una filippica clamorosa sul genere fem¬minile. Partendo dalla sua ex lancia strali a tutte le donne del mondo da Eva in poi, e finisce con un: «E poi forse è meglio così, tanto era pure un po' sulla via del tramonto... ha già trentasei anni».
Uno più di me, verme... Non mi trattengo, purtroppo. Mi avvicino ancora di più allo squarcio nel muro e - davvero è più forte di me - mi esce dalla bocca un: «Meglio essere vecchi che stronzi». Mi pento subito, e tanto. Un istante dopo sento bussare alla mia porta, che vado ad aprire con la coda tra le gambe, certa di trovarmi di fronte Francesca furibonda. La apro e infatti lei è lì, con le mani sui fianchi. Mi fulmina con lo sguardo, io mi metto con le mani giunte e imploro il suo perdono.
Ma poi mi sorride e inizia a parlare a voce alta, scandendo bene le parole, mentre scrive qualcosa sul suo taccuino. «Ma scusi, le sembra il caso? Lei è una gran maleducata! Che non si ripeta mai più o la denuncio.» Io annuisco, e la guardo cercando di capire cosa stia succedendo. Mi porge di soppiatto il foglio dove ha scritto: "Hai perfettamente ragione, è un cretino". «Chiaro?» ribadisce sul finale. «Chiaro» rispondo mesta. Torno dentro casa e mi riposiziono davanti al muro. Che bello, ho un nuovo hobby.
Diciassette Se dovessi dare un consiglio a me stessa in questo momento, mi direi di chiedere a qualcun altro. Non mi sento in grado di prendere una decisione riguardo a Michele, ma non mi mancano le energie per occuparmi della vita degli altri, e passo parte delle mie serate davanti al muro, a sentire i preziosi consigli elargiti con metodo da Francesca ai suoi assistiti. Il muratore si fa ancora attendere, e io sono curiosa più del celebre delfino della pubblicità. Mi appassiono, quindi, nell'ascoltare gli innocui sfoghi di un adorabile e timidissimo adolescente incapace di farsi notare dalla sua compagna di banco e che teme un condizionamento di tutte le sue relazioni future con le donne, e vorrei abbracciare la neo mam¬ma davvero in crisi, alle prese con un marito troppo impegnato e un bimbo troppo impegnativo. A parte questo sono soltanto un'antartica costretta a trascorrere l'estate nella città del panettone. Fortunatamente non sono sola. Stefania prosegue il suo viaggio negli anni di Discoring, Il pranzo è servito e Zig Zag, continuando ad accompagnarsi, sempre a titolo dispersivo e senza coinvolgerci, a Pietro. Inoltre affianca in modo fattivo Lucia e Tommaso nell'epica avventura dell'allestimento della loro nuova casa. Tra muratori, imbianchini, falegnami e mobilieri, le loro giornate scivolano via che è una bellezza. Ogni tanto prendo parte anche io alle votazioni per la scelta dei colori alle pareti, altre volte Stefi e Lucia vengono da me per fare il punto della situazione. Lucia pensa che dovrei lasciar perdere, ricominciare tutto dall'inizio e non esclude che stuccare il controsoffitto del suo soggiorno potrebbe darmi una mano a stare meglio. Stefi, più ottimista, confida in un riavvicinamento e consiglia solo cicli di massaggi per allentare la tensione (salvo poi sussurrarmi che se non vado a stuccare casa di Lucia, toccherà farlo a lei, come al solito). Federico continua a mandare mail monotematiche. "Vieni qui da noi." Su Michele ognuno ha le proprie opinioni: c'è chi mostra una vaga benevolenza, chi è più severo, chi cambia idea di continuo.
Ma c'è un argomento capace di mettere tutti d'accordo: è arrivato il momento di cominciare l'inarre¬stabile, irrefrenabile shopping prepuerperale. Lucia, ormai arrivata alla venticinquesima settimana, ha sentito i primi movimenti del piccolo Rocco, e reputa che sia ora di scatenarsi col corredino. Io e Stefania compriamo tanti regali per il nascituro, diventando vere esperte del mercato in continua espansione dell'abbigliamento della primissima infanzia. Assistiamo più di una volta impotenti al mesto spettacolo di giovani madri che fanno la cessione del quinto dello stipendio per riuscire a vestire le proprie innocenti figlie con completi da ballerine del Moulin Rouge e i figli da minuscoli buttafuori. Noi scegliamo capi sobri come se fossero per il nostro, di figlio, per scongiurare il rischio di vedere Lucia sbiancare davanti a una camicia aderente ghepardata. Stefi insiste anche per occuparsi della colonna sonora dei mesi a venire, e mi trascina in libreria. Dalle sue letture ha appreso degli effetti benefici di Mozart, Vivaldi e della sottovalutata musica barocca sull'udito del feto e sulle sue capacità intellettive. «Anche le ninne nanne sono importantissime. Dobbiamo ricordare a Lucia di cantargliele sempre.» «Glielo ricorderemo, Stefi.» «Sai che i bimbi che crescono senza ninne nanne corrono maggiori rischi di diventare asociali?» «Sì, ma alcune rischiano di farli diventare degli psicopatici. Un bambino come fa a prendere sonno se lo minacci di darlo all'uomo nero, alla befana, al saggio folletto, al primo che passa... io non dormirei.» «Guarda che le nenie di questo genere sono nate come indicazioni specifiche di richieste emotive delle madri, che si sposavano per fuggire da situazioni familiari pesanti, e finivano in contesti ancora peggiori. Erano il loro grido d'aiuto.»
«Va be' Stefi, comprale, ma evitiamo questa disamina con Lucia.» «Ci sto. Prendo anche questo CD, c'è la canzone dei leocorni.» «Quella sì, almeno è allegra.» «Veramente il testo si conclude malissimo...» Do uno sguardo al libercolo allegato e apprendo dell'effettiva fine infausta dei due leocorni, in ritardo all'appuntamento con Noè per salire sull'arca coi coccodrilli, gli orangotango, i serpenti e compagnia bella, e dimenticati a terra per sempre. «Ecco perché nessuno ha un leocorno» commento io triste, che ritardataria cronica quale sono, avrei di certo fatto la sua stessa fine. A due settimane di distanza dall'incontro casuale con Michele, dalla mia fuga teatrale e dal suo biglietto minimale, Federico - uomo di cristallo e di parola - approfitta del mio momento di crisi per tenere fede al suo impegno. Alle 10 di un lunedì mattina non troppo qualunque, prende posto in una disciplinatissima fila inglese al check-in nell'aeroporto di Heathrow, con in mano un biglietto per Milano. Il volo parte alle 13.45, ma Federico fa parte di quell'odiosa categoria di chi teme talmente tanto arrivare in ritardo, da valutare insufficiente anche la puntualità. Quelli come lui preferiscono presentarsi alla meta in anticipo (termine presente nella mia vita solo in relazione alla mia posizione di contribuente), perché mettono sempre in conto imprevisti, inconvenienti, contrattempi di varia gravità. Io credo di essere troppo ottimista per essere puntuale. Federico evade le formalità con molta calma, compra una copia del "Guardian", e si siede al tavolo del bar a gustarsi un bagel e bere un caffè americano. L'aeroporto è da sempre il luogo ideale di incontri fugaci e casuali: capita di intercettare star più o meno note, rivedere amici persi di vista da anni e smascherare più di qualche scappatella. Una coppia illegittima di Palermo può sentirsi al sicuro nello scalo di Atlanta, e lo è, finché al duty-free non compare il compare del cugino di secondo grado del dirimpettaio della cognata della fedifraga.
In altri casi, il destino può arrivare dove onestà o volontà latitano, e forse per questo, prima di zuccherare il caffè, Federico intravede a due tavoli di distanza un volto conosciuto. Ripiega il giornale, prende la borsa e si avvicina senza pensarci un attimo. «Ciao, Michele.» «Federico!» Entrambi imbarazzati, mascherano bene. «Come stai?» «Bene... sono in attesa della coincidenza per Istanbul... Ma ne ho ancora per quasi quattro ore... E tu?» «Parto all'una...» minimizza. «Sono arrivato un po' prima.» «Certo, chiaro.» I fanatici dell'anticipo si riconoscono all'istante tra loro, si giustificano e soprattutto si stimano. «E tu dove vai?» chiede Michele. «A Milano.» «Ah, sì?» Prima provocazione: caduta nel nulla. «Qualche commissione da sbrigare.» «Ah.» Seconda. «Vecchi amici da rivedere.» «Naturale.» E tre. «Care amiche da soccorrere.» «Capita.»
«Michele, sei in grado di pronunciare frasi contenenti più di una parola?» «Sì... è che... non vorrei essere indiscreto.» «Siilo pure, invece.» «Vai da Geppi?» «Ah! Pensavo non me lo chiedessi più.» «Be', forse a te almeno aprirà la porta.» «Se non mi apre metto uno stecchino nel tasto del citofono.» «La prossima volta allora farò così anch'io.» «Sai come sono fatte le donne... amano serbare rancore a oltranza... Ma tu sai perché non ha voluto vederti, no?» «No! Proprio no! Non ne ho davvero idea, e per questo sono parecchio incazzato. Ci siamo lasciati a Austin, sereni, e poi...» «Be', non vorrei essere io indiscreto, ma tu... con la mocciosetta...» «Ma cosa dici? Erika? Ma non c'entra niente, o non mi vorrai dire che il problema è questo? Lei è solo una bambina...» «Solo una bambina prodigio, a quanto ne so.» «Non vorrai dirmi che è per questo che non vuole più vedermi? È ridicolo, forse aspettava solo una scusa. Di solito queste cose le facciamo noi uomini... E quella mail, poi...» «Sì, qui mi trovi d'accordo... Lasciarsi con una mail... questo sì, è ridicolo.» «Avresti dovuto leggerla.» «Me ne ha parlato...» Pausa. Riparte Federico. «Ma anche tu... chiedere del tempo per capire, che gesto convenzionale... non hai trovato niente di meglio?» «Io? Ma cosa c'entro... Parlavo della sua, di mail.»
«Michele... io invece parlavo della tua.» «Federico, forse non sai come sono andate le cose.» A Federico si allertano i sensi, posa la sua valigia e si siede accanto a Michele: «Esattamente, tu, di quale mail stai parlando?». Federico inizia a fare domande, ad avere risposte, ed è il primo a scoprire le meschine malefatte di Erika. La Verità bussa alla mia porta quel pomeriggio stesso, insieme a un piatto in ceramica con l'effige di Kate Middleton, la fidanzata del principe William, e una palla di vetro con il Tower Bridge innevato. Piccole vendette di Federico legate a un set di bicchieri in ve¬tro di Murano con Colombina smerigliata sul lato di cui gli avevo fatto omaggio al rientro da un martedì grasso a Venezia. Federico inizia a vuotare il sacco prima ancora di varcare la soglia di casa. «Avevi ragione tu, cara mia... Erika è una stronza, ma tu e Michele, amica, tu e Michele siete davvero due idioti.» Poi getta il suo trolley in sala e si butta sul divano. «Bentornato, Fede.» Lo guardo incuriosita, lo rifocillo e inizio ad ascoltarlo, da principio sconcertata, poi, in modo alternato, stupita, inorridita, furiosa, ma anche - a tratti - divertita dalle espressioni da bar sport usate da Fede per ricostruire l'accaduto, intervallate da citazioni dotte. «Sei inutilmente romantica, secondo me. Ma se vuoi indietro il tuo Michele, te lo devi andare a riprendere.» «Sì, credo di sì, ma quello che è successo a noi non sarebbe successo a una coppia solida.» «Certo... ma se tu vuoi una famiglia, ricordati che avrai da soffrire come e più di così, soprattutto per tenerla unita e tu invece che fai, ti arrendi, pappa-molle?» Ascoltando lui e le riflessioni apocalittiche, i conti tornano: la leggerezza di Michele, la falsità di Erika, la mia sfiducia. I mesi di dolore e di autoana¬lisi si rivelano sempre più inutili.
A suffragio delle sue affermazioni, Federico mi mostra persino dei supporti cartacei. «Ecco qui, guarda: dopo aver parlato con Michele, per essere certo di non aver lavorato troppo di fantasia, ho chiamato il mio amico Luca, un webmaster. Lui ha fatto un controllino, e dal numero dell'indirizzo IP risulta che...» «Scusa, cos'è I'IP?» «E il numero identificativo di ogni computer.» «Ah.» «Insomma: lui è riuscito a risalire all'intestazione del server e al tipo di cliente, per cui...» «Federico, scusa se ti interrompo, ma io non so ancora come fare star zitta la graffetta di Word quando le si accende la lampadina e alza le sopracciglia... figurati se capisco te quando parli così.» «Va be', lasciamo stare i particolari. Comunque: è stato possibile risalire al luogo in cui si trovava il PC quando è stato aperto l'account Trilli_Frilli. Guarda qua» e mi consegna dei fogli. Dal tono infervorato credo si aspetti che, mentre leggo, io mi ravvivi all'improvviso. Do un'occhiata ai fogli simulando un certo sconcerto, ma la mia perplessità perdura. «Federico, forse è meglio che ricominci da capo e mi ripeti tutto.» «Sei incredibile.» «Grazie!» «Non era mica un complimento.» «Ah.» «Ascolta: quell'account l'hanno aperto in Asia da un PC intestato alla ditta del padre di Erika. Chi pensi sia stato?» Oh! A questo punto sì che cambio espressione, e pure volume. «La zoccola!» grido.
«Finalmente!» esulta lui. Federico, efficiente, paziente e squisito come sempre, alle sei del pomeriggio ha portato a termine la sua missione. Ora so e mi sento una stupida. Devo precisare: una stupida furente. Erika deve solo sperare di non capitarmi troppo vicino, prima che la ragione si rimetta al posto di guida e abbandoni l'istinto in una piazzuola autostradale. «Cosa sa Michele di tutto questo?» «Direi quasi niente, le mie indagini le ho fatte dopo averlo incontrato, non potevo esserne certo fino a quando i meccanismi investigatori non si fossero messi in moto. Quando lui mi ha parlato di quella tua mail, ho avuto il primo dubbio, ma ho saputo aspettare...» Mi alzo e vado verso la credenza a prendere due bicchieri e versarci dentro qualcosa che mi aiuti a riprendermi: «Ma come non hai potuto garantirgli che io non avrei mai scritto una mail così? Come? Tu mi conosci bene» gli chiedo inorridita. «Come potevo esserne sicuro, quando ti arrabbi fai cose inenarrabili, come tutte... E infatti non le dici a nessuno, neppure a me immagino. E poi ci man¬ca solo che tu te la prenda con me. Nei film per una cosa del genere a un agente di polizia danno una stelletta, una mostrina, un qualcosa insomma, mica lo sgridano...» Sospiro. «Avrai la tua stelletta...» «Bene! Forse però a Michele qualche perplessità sarà pur sorta, ha visto come lo guardavo io mentre mi spiegava la sua versione. Tra qualche settimana lui ripassa di qui... Adesso tocca a te, mia cara.» «Cosa devo fare?» gli chiedo mentre gli porgo un bicchiere di vino bianco. «Quello che vuoi, basta che la smetti di avere quella faccia.» «Che faccia ho?» Lui mi guarda con espressione ovvia.
«Non dare risposte azzardate» gli suggerisco. Per fortuna il campanello impedisce a Federico di ribattere, e ricatapulta me nella realtà. «Mi stavo dimenticando che oggi è "il" giorno, sono le sei e un quarto, queste sono Stefi e Lucia!» «Che bello! Finalmente le riabbraccio! Di che giorno parli?» Ignoro la sua domanda e vado ad aprire la porta. Pur con l'aria tesa da rapina appena sventata, tra Lucia, Stefi e Federico sono grandi feste. La piccola battuta d'arresto arriva appena spiego loro cos'è accaduto. Aggiornate sulle novità, reagiscono con determinata solidarietà. Lucia vorrebbe prendere il primo aereo e andare a dire due paroline a Erika, ma il suo interessantissimo stato interessante non consente spostamenti del genere. «Gè, ti avrei accompagnata volentieri... mi sarei occupata io di lei.» «Lascia stare Black Mamba, niente vendetta per ora. Voglio solo vedere Michele e parlare con lui.» «Tra qualche settimana, se volete vedere scintille, andate a Linate. Lui arriva, e Ceppi fa parte del co-mitato d'accoglienza» spiega Federico. «Vai a prenderlo?» mi chiede Stefi. «Posso venire? Me ne sto al bar, non mi noterai neppure... Ti prego, non posso perdermi questa scena!» «Stefi, ascolta. A parte che il tuo nome, legato all'eventualità di non farsi notare, è una contraddizione in termini, quindi vedremo. E poi... scusate che ore sono?» Stefi controlla sul cellulare. «Quasi le sei e mezzo... hai ragione! Sta per cominciare.» «Mi volete dire di cosa parlate?» chiede Fede incuriosito. Continuiamo a disinteressarci delle sue domande. E se per Stefi e Lucia la sorpresa è stata la presenza di Federico, per lui si rivela una
sorpresa molto più grande venire a conoscenza del motivo per cui loro due sono lì da me tanto presto, in un giorno lavorativo. Stefania apre le danze. «E già arrivata?» «Non mi sembra» rispondo. «Ma parlavo con Fede.» «Ma insomma, cosa state dicendo?» Sposto la poltrona che ho posizionato davanti al muro per coprire il buco, e ci sistemo davanti quattro sedie. Io, Stefi e Lucia ci accomodiamo e invitiamo Fede a raggiungerci. «Mi dite cosa succede?» «Documentario» rispondo io. «Shhh!» ci intima Lucia. «Comincia!» Alle 18.30, infatti, nello studio di Francesca inizia la seduta della donna più saggia e interessante che abbia mai messo piede sul globo terracqueo. Riflessioni umanistiche vengono alternate ad aforismi sociologici miscelati con sapienza a curiosità di generi variegati. Ho avuto modo di ascoltare le sue ultime sedute: è una signora vicina al divorzio, con nuove colleghe d'ufficio, giovani e problematiche. L'ho già ascoltata una volta ed è pirotecnica: ne ho parlato con Stefi e Lucia, e aspettiamo di sentirla da giovedì scorso. Ci chiniamo con l'orecchio teso. Lei ripaga subito la nostra fiducia, urlando: «Io non voglio più avere a che fare con donne col quoziente d'intelligenza più basso del girofianchi, non ne posso più!» «Bella partenza!» fa Stefi. Federico ci guarda disgustato. «Questo è un reato, lo sapete?» «Sì, sì» risponde Lucia, addentando un pezzo di formaggio: «Ma vi difendo tutti io, gratis!». Federico, dapprima dubbioso, è costretto a cedere davanti ai capolavori verbali dell'analizzata. Il suo primo cedimento avviene durante l'esposizione della tesi secondo la quale suo marito ha
sviluppato fallaci convinzioni su di lei e sulla sua natura con grande presunzione e altrettanta ignoranza. «È convinto io abbia più a cuore i miei egoistici desideri di donna in carriera, che non il nostro ménage... è ridicolo! Ma del resto era anche convinto che i camaleonti cambino colore per mimetizzarsi, mentre lo fanno quando hanno paura...» «Non lo sapevo neppure io» sussurra Stefania. Tutti conveniamo con lei. Forse anche Francesca, perché la sentiamo parlare, ma con un tono troppo basso. La donna riattacca: «Ma di quante cose sbagliate siamo convinti... Lo sa che il biscotto della fortuna non lo hanno inventato i cinesi, cui siamo grati invece per aver ideato la carriola, l'ombrello e soprattutto il brandy... Anzi, in questo momento, me ne farei volentieri un cicchetto se potessi, che dice, dottoressa, si può?». La risposta di Francesca è intuibile dal suo: «Peccato!». In questo frangente Federico si limita ancora a un sorriso, ma quando sente l'agrodolce riflessione: «Se pure Dio è single, ci sarà un motivo» dobbiamo trattenerlo dal buttare giù il resto del muro a martellate e portarla con sé a Londra.
Diciotto A troppi giorni di distanza dall'arrivo di Michele a Linate, che io aspetto con un'impazienza giudicata insopportabile da Federico, convintosi a restare fino all'epilogo, ci troviamo tutti per cena a casa di Lucia e Tommaso. Hanno appena superato il secondo step traumatizzante del trasloco: la temibile apertura degli scatoloni. Nessuna precauzione usata è storicamente mai valsa a escludere seri problemi nel rinvenimento di tutti quegli oggetti che fino a qualche tempo prima erano parte della quotidianità del traslocato. Di alcuni di essi nessuno saprà più niente. Ma ci sono mille altre cose da organizzare. Tommaso, in gara per accaparrarsi il titolo di migliore bricoleur dell'anno, si rivela il futuro padre più efficiente che Lucia potesse augurarsi. Dopo tanto vagabondaggio sentimentale la soluzione era stata ricominciare dall'inizio. Molte donne, dopo tanti anni di relazione stabile con un uomo, scoprono quand'è troppo tardi che essere un buon compagno non significa anche essere un buon padre. Tommaso sembra entrambe le cose: tutti i nostri timori sulla loro convivenza sono fugati dal procedere sereno dei loro giorni insieme. Nonostante il carattere impetuoso di Lucia, a pareggiare i conti interviene la leggendaria pazienza del sant'uomo. Ci sono coppie di fidanzati perfetti fatti per essere solo tali: appena si trasferiscono sotto lo stesso tetto, si rendono conto che in caso di insofferenza reciproca abbandonare la stanza non è sufficiente, e le cose degenerano presto. Loro invece, vivendo insieme, si sono ri-innamorati profondamente, e lui è adorabile. Davvero. «Tommaso santo subito» continuo a ripetere io mentre ammiro stupita il suo approccio meraviglioso a tutto ciò che sta accadendo. «Sei davvero una culona» aggiungo poi senza remore quando lei si atteggia come una che sì, in fondo lo sa, ma non ha voglia di dimostrare troppa gratitudine.
Al rientro dall'ufficio e nel fine-settimana, Tommaso usa tutte le sue energie per rendere l'appartamento più accogliente possibile. Anche la cameretta di Rocco è quasi pronta: dipinta di celeste con le sue mani (sante anch'esse), una sedia a dondolo posizionata nell'angolo pronta per le sedute di allattamento, e la consueta striscia adesiva raffigurante orsacchiotti in sovrappeso vestiti da dragqueen, con cappellucci buffi, fiocchetti vari e palloncini che attraversa la parete a mezza altezza. Lucia è più umorale che mai, ma lui è sempre pronto a tranquillizzarla. Tutte le volte in cui con tono lamentoso pronuncia frasi come "Sono grassa?" "Mi sento gigantesca" "Ma avevo questi fianchi da lavandaia anche prima?", lui l'abbraccia e le posa nell'orecchio il dono più bello: «Sei bellissima così», le dice sempre. Mostra anche un apprezzamento crescente verso il suo sempre più rigoglioso seno, a cui comunque ogni accesso è negato. Lucia ha chiuso le trattative sessuali da un pezzo. Anche di questo lui non si lamenta. Proprio una gran culona. Quando lei chiede se la vorrà ancora anche quando la pancia sarà davvero enorme, lui la stringe e lei si limita a rispondere al suo abbraccio con un piagnucoloso "Ma davvero?" e anche, talvolta, con un sommovimento intestinale legato all'avanzare della gravidanza. E mentre lui monta, appende, stucca, erige, soppalca, recupera, smantella, abbatte, assembla e si dedica a utili attività da lei sempre molto amate, lei fa solo una cosa: compra. Tantissimo. Aveva tenuto botta fin qua, ma ora comincia a cedere sotto le pressioni sempre più insistenti orchestrate dal potentissimo marketing per mamma &bambino. Il mercato sul fronte gestante è sterminato: corsi di gravidanza (danza del ventre per gravide), creme per prevenire le infiammazioni al seno durante l'allattamento da applicare già dal quinto mese; mutandoni contenitivi più adatti alle degenze post-operatorie che a un normale pancione; fasce renali da sol¬levatore di pesi olimpico; spray antismagliature da 5 euro a spruzzo, da applicare due volte al dì; colluttori specifici più cari di un grammo di tartufo, esplicitamente formulati per le super sensibili gengive della gestante.
Gli accessori per il bimbo la disorientano. Ogni volta che ne scorge uno nuovo pensa che quello sia l'oggetto, l'unico e il solo capace di salvarla e rendere tutto più semplice. Con questo atteggiamento guarda incuriosita ad articoli di varia foggia e utilità: il lettino in betulla ispirato alla tradizione antroposofica, secondo la scuola steineriana, alla modica cifra di millesettecento euro; la carrozzina foderata in pelliccia con porta biberon, coordinato, pure in pelliccia, firmato da un noto stilista, a mille euro; il passeggino in fibra di carbonio con laminature d'oro volte a scongiurare antiestetiche graffiature per soli tremila euro; le pelli di pecora naturale per foderare la culla, per chi ama le soluzioni più bucoliche; lo sterilizzatore per biberon, come se far bollire dell'acqua in un pentolino non fosse abbastanza; il fasciatoio a quattro cassetti, perché un asciugamano su un letto evidentemente non è considerato una buona base d'appoggio; la vaschetta sagomata che segue "le naturali curve del corpo del neonato", perché fargli il bagnetto in un lavandino o nel catino del bucato è un'infamia che neanche nei Paesi in via di sviluppo osano più adottare. Lucia sprofonda anche in una delle più grandi trappole per neomamme, comprando l'infernale apparecchio con un nome paradossalmente melodioso e angelico, adibito al monitoraggio del respiro del bambino dormiente. Se secondo le rilevazioni della macchina, più precisa di un sismografo, il torace sta fermo per una manciata di secondi, ecco partire un allarme da far accorrere i pompieri. Naturalmente può bastare anche una giravolta improvvisa del piccolo, ritrovato poi col viso incastrato tra le sbarre della culla (vivissimo), per garantire questo simpatico effetto coprifuoco. Trattandosi del primo figlio, ogni cosa le sembra indispensabile e in men che non si dica, nel corso della settimana appena trascorsa, il corredino standard è quasi pronto, nonostante manchino più di due mesi al parto: culla, carrozzina, ovetto a incastro per trasportare il piccolo in auto, tappeto morbido da tenere per terra a mo' di copertina e su cui farlo adagiare, ricamato a mano con le iniziali del pupo, realizzate appositamente in un convento di suore carmelitane. Lucia, un tempo razionale, ora non lo è più e non esclude che qualche altra mamma potrebbe entrare in casa, confondersi con gli arredi, e portarsi via il tappetino pensando che sia di suo figlio.
Per questa ragione le iniziali del bimbo sono vitali, ovunque, come per un dirigente aziendale. Senza fiatare, a tratti addirittura compiaciuta, cede anche alle pagane lusinghe del "chiama angeli", un improbabile ciondolo messicano tintinnante e perfetto per le mamme in attesa, da posizionare nella culla accanto al ciondolino di Domenico Savio. Il sacro e il profano. Ne acquista due ed esce dal negozio felice. All'ora di cena io e Federico bussiamo alla porta di Lucia e Tommaso. Sei pizze fumanti attendono di essere divorate da sei famelici commensali nel soggiorno quasi nuo¬vo di pacca. A parte i padroni di casa, me e Federico, la novità è avere con noi anche Stefania e Pietro. Finalmente. Dopo le veloci presentazioni di rito, vinti dall'appetito, ci sediamo subito a tavola, giusto in tempo per fermare Federico dal commentare il portachiavi a molla fosforescente fissato al passante degli E1 Charro di Pietro. Mentre prendiamo posto riesce però a bisbigliarmi un: «E davvero un gallo, non trovi, sfitinzia?» Gli do una gomitata e lo invito al controllo per amore di Stefi. Tommaso, da vero padrone di casa (ma che fastidio, è perfetto), cerca di mettere a suo agio il nuovo arrivato e gli fa domande sul suo negozio di vinili e CD, mostrando un sincero interesse per LP ormai introvabili di cui Pietro sa tutto, dalle prime pubblicazioni di JeanMichel Jarre a Joe Jackson, passando per l'intramontabile Donna Summer. La conversazione procede amabile su argomenti generici, e dopo un po' ci si abitua a Pietro, il cui look inconsueto smette di essere percepito come la sua caratteristica più impressionante. Il suo forte sono le deliziose battute, come risulta chiaro a tutti appena si impara a conoscerlo. È con noi solo da un'ora e ha già fatto i complimenti a Tommaso per "aver messo nel forno la pagnotta" (facendo il gesto rotatorio dei
ditini of course), continua a chiamare Federico "Michele l'intenditore" da quando ha appreso che lavora nel campo della pubblicità e ha esclamato "Liberté-egalité-crudités" addentando le verdure in pinzimonio preparate da Lucia. Raggiunge l'apoteosi creando il gelo nella tavolata quando chiede a Lucia: «Visto che siamo in casa di due avvocati... sapete come si intitola il film porno preferito dai magistrati?» Ci guardiamo tutti atterriti temendo la risposta. «Il principe del foro.» E ridacchia. Stefi ci guarda un po' contrita, e noi abbozziamo solidali, perché è chiaro quale sia l'elemento su cui si regge la storia: in questo rapporto non conta lui, ma il modo in cui lui la fa sentire, così lei dice. Mentre io, Stefi e Federico portiamo in cucina i cartoni della pizza lui delizia la mammina complimentandosi per i suoi capelli sempre più luminosi e le domanda giocoso se sa che tutti i parrucchieri vivono in "Frangia". Lei non ha neppure le forze di ribattere a questo divertissement e lo guarda tramortita. «Guardate che in compagnia dà il peggio, vorrebbe piacervi e perde l'autocontrollo, e dice queste cose, vi giuro con me sta diminuendo... Vi assicuro, è tanto caro...» si giustifica Stefi sciacquando le posate. «L'avevamo notato... Giurami che quando siete soli non fa sempre queste battute?» le domanda Federico. «Smettila, Federico, piuttosto, chiedi chi vuole il caffè. L'importante è che lei sia felice.» «Ma io non sono felice.» «Vedi» sottolineo io distrattamente. Poi realizzo. «Come, non sei felice?» «Non tanto.» «Ma siete sempre a lamentarvi voi?» chiede Federico. «Pure tu, pensi che non senta, la notte, come ti rigiri nel letto... Sempre a
pensare a cosa fare con Michele, ma allora fai qualcosa, no? E Stefi, ma perché non lo molli questo cugino di campagna se non sei felice?» Sfortuna vuole che proprio in concomitanza con quest'ultima espressione, voltandoci, notiamo Pietro sulla porta della cucina. E la festa di benvenuto si trasforma in un baleno in un party d'addio. Pietro guarda Stefi, poi Federico, poi me, poi di nuovo Stefi. Lei estrapola il capolavoro quotidiano: «Sei entrato prima o dopo il cugino di campagna?» gli chiede titubante. Lui non fa una piega e dice: «Forse è meglio che io vada, non disturbatevi ad accompagnarmi». Lascia la cucina, da cui noi non riusciamo a schiodarci pietrificati dall'imbarazzo, saluta e ringrazia Tommaso e Lucia e se ne va. «Ma cosa diavolo è successo?» chiede Lucia raggiungendoci qualche istante dopo. «Stefi ha fatto una delle sue belle figure» risponde Fede. «Tu invece no, vero?» commento subito io. «Dite che si è offeso molto?» chiede Stefi preoccupata, ma non abbastanza da corrergli dietro. «No, no» le sussurro io accarezzandole il braccio. È l'ultima parola che riesco a dire prima di una risata isterica collettiva da cui tutti veniamo posseduti a cascata. Camminando verso casa con Federico e Stefi un po' abbattuta, cerchiamo di sdrammatizzare, ma Federico non ne è capace e confonde questa pratica con lo sberleffo. «Se ti regalo il pupazzo rosa di Uan pensi ti possa mancare di meno?» Continuo a dargli gomitate, ma quando ci salutiamo Stefi è più tranquilla.
«Andrà tutto bene» le dico abbracciandola. «Vero?» «Vero.» A modo mio sono onesta: peggio di così per lei stasera davvero non potrebbe andare. Quando torno a casa con Federico, al centro dello zerbino, esattamente sopra la elle di Salve, troviamo un piccolo pacchetto avvolto nella carta di un noto corriere, con sopra un biglietto di Francesca: È arrivato oggi pomeriggio per te e l'ho ritirato. Domani viene il muratore, se per te è okay, così la smettete di origliare... Un bacio.
Afferro subito il misterioso pacchetto e lo scarto incuriosita. Al suo interno c'è una semplice scatola di legno, con su scritte a mano tante parole, alternate, una rossa e una blu, con una matita simile a quelle che il professore di latino usava per correggere le versioni. E appena inizio a leggerle, mi sento avvampare: "Numero sbagliato", "Telefonata", "SMS", "Incontro", "Saint Vincent, "Como", "Matrimonio", "Las Vegas", "Fuitina", "Trilli_Frilli", "Amore", "Minigolf", "Metro", "Rien ne va plus", "Picasso", "Bellagio", "Tubino nero"... e tante, tante altre. A ognuna di esse è abbinato un ricordo, una frase, un dettaglio che è solo mio e di Michele. Apro la scatola e dentro c'è un foglio piegato in quattro. Neruda ha trovato le parole molto prima e molto meglio di me. Mi manchi. "Voglio che tu sappia una cosa. Tu sai com'è questa cosa: se guardo la luna di cristallo, il ramo rosso del lento autunno alla mia finestra, se tocco vicino al fuoco l'impalpabile cenere o il rugoso corpo della legna, tutto mi conduce a te, come se ciò che esiste, aromi, luce, metalli, fossero piccole navi che vanno verso le tue isole che m'attendono. Orbene, se a poco a poco cessi di amarmi cesserò d'amarti poco a poco. Se d'improvviso mi dimentichi, non cercarmi, ché già ti avrò dimenticata."
Federico mi trova in bagno in lacrime. «Sono un'idiota!» riesco solo a ripetere; lui mi prende il foglio dalle mani e legge. «È da un po' che te lo dico. Vai a riprendertelo, vecchia codarda, così posso tornare a Londra, e porto con me anche il cugino di campagna, che almeno si confonde con altri come lui...» Abbraccio Federico e osservando meglio la scatola, immagino Michele dedito all'arte del découpage e alle prese con il flatting. L'amore regala ai suoi protagonisti competenze insperate e inattese, portandoli a dedicarsi ad attività imprevedibili. Dura lex, sed l'ex. Quando un ex fa ancora questo effetto, è necessario fare tutto il possibile per aggiornargli al più presto lo status.
Diciannove Dopo giorni di rastrellamenti a tappeto e controlli incrociati nel vano tentativo di "incontrarlo per caso", ed escludendo a priori la codarda telefonata anoni¬ma con patata in bocca, la mia assoluta determinazione a rivedere Michele prende il sopravvento su tutto il resto. Non resisto più e il giorno in cui lui dovrebbe fare rientro a Milano mi sembra troppo lontano. Per potermi garantire un epico faccia a faccia mi resta purtroppo un'unica possibilità: andare di persona nella sede della società per cui lavora Michele e trovare qualcuno in grado di dirmi dov'è di preciso. A dirla tutta - poiché reputo possibile incontrare anche Erikazzola - decido di non privarmi, nell'eventualità, dell'unico dolce che non fa ingrassare: la vendetta. La mattina della resa dei conti impiego cinquanta minuti per prepararmi e avere la parvenza di una che per vestirsi non ne ha impiegati più di cinque. Se c'è un look da matinée, uno per le serate di gala e uno per incontri formali, non può non essercene uno per la resa dei conti. Varco la soglia del palazzo in cui la società Delmonte (& figlia) ha la sua sede al piano terra. Michele mi aspetta. Non so dove (e questo è grave, certo), ma sento che mi aspetta. Aprire la sua scatola ha sciolto le mie riserve. Soprattutto mi ha ricordato quanto sia difficile trovare un uomo a cui il dono del fascino non sia stato elargito in cambio di un aspetto discutibile, come se avere un monumento all'olfatto al posto del naso, o perdere i capelli prima della maturità, significhi essere necessariamente intelligenti. È l'ora della riscossa. Ho trascorso metà dei miei anni sentimentalmente attivi cercando di essere amata da persone sbagliate, e l'altra metà cercando invano di amare quelle giuste.
Ora basta, l'orgoglio è una virtù discutibile e anche se non so quale decisione prenderò, la voglio prendere oggi. Io speravo che lui stimasse la mia capacità di giudizio al punto di allertare i sensi e stare in guardia grazie ai miei avvertimenti; lui ha scambiato la mia insistenza con mancanza di fiducia. Talvolta uomini innocenti, esasperati all'eccesso dalla gelosia e sfiniti da scenate inquisitorie con interrogatori, controinterrogatori e domandone finale, cedono al tradimento: tanto agli occhi dell'amata loro sono già colpevoli. Almeno si divertono. Ma io, stavolta, ci ho visto giusto. E che a un certo punto, col timore di far danni peggiori, mi sono ridotta all'immobilismo. Michele è sicuramente disorientato. Non aprirgli la porta quella sera ha complicato le cose. E quando ha parlato con Federico e ha capito, si è chiesto come io abbia potuto pensare che lui fosse così meschino da lasciarmi con una mail. È bastata una mocciosa a metterci in difficoltà, figuria-moci cosa potrebbe succedere in una vita insieme. Nel bene e nel male, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, in macchina e a piedi, in vacanza e sul lavoro, di mattina presto e la sera tardi. Quando ci si adora e quando si corre il rischio di adorare qualcun altro. Un giorno, mentre prendevo parte a una seduta di Francesca e di un suo paziente confuso sul da farsi con una donna di cui era innamoratissimo, l'ho sentita consigliarlo di "ristabilire confini e priorità". Bene, la mia priorità è ora rimettere la squinzia dentro i suoi confini, e riprendermi il maltolto. Una targa dorata mi indirizza verso il cortile interno del palazzo, al centro del quale sorge un milanesissimo loft. Entro e nonostante il consueto sottofondo ovattato da laborioso ufficio nordico, nella mia mente risuonano chiare le campane di Hell's Bells degli AC/ DC. Io, portavoce delle solide trentacinquenni, non posso chiudere la partita con un'esponente delle sode ventenni senza una colonna sonora consona.
Metto in pausa il mio CD interiore e mi rivolgo subito alla svogliata receptionist, cui verosimilmente interrompo la sessione di consultazione della casella mail: vedendomi entrare, ha il sussulto classico di chi si vede costretta a chiudere di tutta fretta la sua pagina web. Mentre cancella la cronologia delle esplorazioni, mi offre la cosa più simile a un sorriso, e mi domanda cosa può fare per me. «Salve, vorrei vedere il dottor Michele Germoglio.» Per motivi che da principio ignoro, tra me e lei è in-spiegabilmente subito sfida. Dà all'agenda un'occhiata talmente rapida che non può che esser finta e sibila un «Mi spiace...» non le spiace affatto «ma il dottore è fuori sede quest'oggi, vuole lasciare un messaggio?». «No, ma se lei fosse così gentile da dirmi quando torna...» Allungo il collo oltre il bancone che ci separa ten¬tando di sbirciare, e lei afferra l'agenda e la tira verso sé. «Non posso riferire informazioni del genere, signora, sono dolente» e mi rivolge lo sguardo di chi sa.
Lo sarai ancora di più, tra un po', se non mi dici quello che voglio sapere. Deve essere una guardaspalle della figlia del capo, ecco perché è cosi acida. «Vorrei parlare con Erika Delmonte, allora.» Lei, presa in contropiede, blatera un «Non so se è rientrata, mi faccia controllare, ma credo sia impegnata». Ci manca solo un ipotetico rapimento alieno, ma per sua sfortuna nell'atrio, proprio in quell'istante, passa un altro ignaro dipendente del dottor Delmonte, a cui sono decisamente più simpatica che a lei. Mi scruta qualche secondo, poi mi affianca ed esclama sicuro: «Ma tu per me sei come i Kiss!» «Ubriaca e grassa?» gli chiedo dubbiosa. «Ma no, che dici? Mitica!» Benissimo. Il giovane designer che parla come Bart Simpson è stato mandato dal Fato a salvarmi dalle grinfie della centralinista ostile.
Scambiamo due chiacchiere, stringiamo un'epiteliale amicizia e lui si rivela ben presto il mio complice ideale. In tre minuti liquida la graziosa receptionist e io mi ritrovo al suo seguito in un tentacolo di corridoi minimalisti, ravvivati da stampe di tutte le sfumature del viola, diretta verso l'ufficio di Erika, che, com'era ovvio, è lì dentro da qualche ora. «Sarà felicissima di vederti» commenta lui con candore.
Questo io non lo credo. «Siete amiche da tanto?» «Non proprio...» «Ecco, è qua dentro. Busso e le dico che c'è una sorpresina per lei?» L'avrà già avvisata l'imperatrice del savoir faire dal piano di sotto, ma io accondiscendo. «Vai.» Dà due colpi di nocche alla porta. «Avanti» si sente come dall'oltretomba, luogo nel quale sta rischiando di trasmigrare nel giro di poco. Il giovane designer apre la porta e mette dentro la testina. «C'è una tua amica» le dice con un brio del tutto inappropriato. «Falla entrare» e dal suo tono è chiaro che non è affatto una sorpresa. «Ciao, Erika.» «Ciao.» «Be', vi lascio da sole, chissà quante cose avete da dirvi... Ciao, mi ha fatto molto piacere incontrarti.» Mi stringe la mano e se ne va. «Anche a me, grazie, ciao.» Lui va via felice, e io finalmente ho davanti la causa di tutte le mie infelicità da mesi a questa parte.
Carina, maledettamente carina proprio come la ricordavo, come carino è il completo blu che indossa con eleganza. Nel silenzio di quegli istanti infiniti mi chiedo cosa potrebbe essere lecito fare, come ci si comporta in questi casi e cosa concede di fare il galateo a una che tenta di rubarti il fidanzato, mente e trama. Forse non è legale intrappolarla in un laccio californiano e sbatterla alla parete dietro la sua scrivania in mogano, ed è meglio limitarsi a chiederle se mi versa un whisky, accendere un Avana e gettare la cenere sulla tastiera del suo computer. Un po' perché bere whisky alle undici del mattino può rivelarsi azzardato, un po' perché un Avana non ce l'ho, la grazio di entrambe le esternazioni e la guardo serena, aspettando che sia lei a dire qualcosa. Invece non parla. Mi fissa pure lei, seduta sulla sua sedia in pelle scura, davanti a un tavolo minimale, con alle sue spalle un quadro di Giò Pomodoro che mi piace pensare non sia originale. «E originale, sai?» mi dice subito lei. «Almeno lui, qui dentro» le rispondo in tono gelido. «Bella battuta.» «Ci pago l'affitto, con le mie battute.» «Beata te.» «Be', anche a te il talento non manca.» «Non ci sono dubbi sul mio talento.» «Coi colpi bassi te la cavi bene.» «Di cosa parli?» «Senti Erika, questa conversazione per metafore e allegorie non fa per me, quindi mi rifugio nell'antica arte della chiarezza...» «Spiegati meglio» risponde lei con espressione im-perscrutabile dipinta sul viso. «So cosa hai fatto.»
«Insisto... non so di cosa tu stia parlando.» Le risparmio la fatica di stare a negare l'evidenza e mentre le "ricordo" quello che è successo, poso sulla sua ordinatissima scrivania i fogli che Federico mi ha dato. Lei, sotto questo profilo decisamente più sveglia di me, realizza in pochi istanti e non riesce a nascondere il suo disagio. Non mi aspetto che mi chieda perdono ammettendo la sua colpa e blateri scuse penose, e neppure che si inginocchi alla John Belushi implorando il mio perdono gridando che: non avrebbe voluto - è
sincera - era solo finita la benzina - si era bucato un pneumatico non aveva i soldi per il taxi - c'era stato un terremoto - un'invasione di cavallette, ma la sua reazione è davvero inconsulta. «Amo Michele da quando avevo dieci anni. E tu me l'hai rubato, maledizione!» Soprassiedo sul "maledizione!" evocante l'ispettore Ginko e cerco di entrare in contatto col suo mondo, non equilibratissimo, ma non per questo immeritevole a priori di rispetto. Del resto ho pure tredici (oh mio Dio...) anni più di lei, non posso farmi trascinare. Parte l'aneddotica. Paololimitiana. «Senti, cara Erika.» «Non mi chiamare cara Erika» urla lei mostrando anche un ingrossamento delle vene delle tempie, da vera pazza. Non mi resta che accondiscendere. «Senti... tu. Io quando avevo dieci anni volevo sposare Simon Le Bon, come Clizia Gurrado, di cui tra l'altro immagino tu non conosca l'esistenza, e del resto neppure conta, ma quando lui si è fidanzato con Yasmin me ne sono fatta una ragione.» «Yasmin è molto più figa di te, faceva la modella» ribatte lei perentoria. Ah, bene, bene... la conosce, quindi. Io sorrido e convengo con lei almeno su quest'ultimo punto.
«Tu non sei in grado di amarlo come potrei fare io» aggiunge cercando di sembrare minacciosa. Temo che da un momento all'altro mi seghi il pollice col taglierino da ufficio e scuota la scrivania urlando "Misery Chastain non può morire!". Visto il suo stato, valuto sia meglio andare al sodo. «Senti, non sono qui a discutere di questo con te, mi dici dov'è Michele e quando torna?» «Da me non lo saprai mai» risponde nervosa. «Non essere drammatica, sai che tanto lo trovo lo stesso, almeno collabora... se no da me lui verrà a sapere altre cose...» Mi studia, incerta su dove io stia andando a parare. Proseguo: «Michele non sa proprio tutto.» Lei si rilassa. «Non ancora» aggiungo. Si riagita. «Non dovrei neppure stare qui a sentirti... Ma il mio difetto più grande è che sono troppo buona...» mi risponde astiosa. È ufficiale, è pazza. E talmente presuntuosa da pensare che una delle doti più rare in circolazione, la bontà, sia tra le sue caratteristiche. Negative, perdipiù. Questa faccio finta di non averla neppure sentita. «Senti Erika, lasciamo stare, io voglio solo parlare con Michele ed essere sicura che tu la smetta con i tuoi magheggi, e siccome tu lavori ancora qui, e fino a prova contraria lui pure, vorrei solo che tu rinfoderassi le tue unghie finte e ci buttassimo tutto alle spalle.» Non parla. Ci sta pensando? Sta valutando? Mi guarda e non apre bocca. Poi lo fa, anche se sarebbe stato meglio il contrario. «Gli renderò la vita impossibile, se resta qui.» Ha visto decisamente troppe telenovelas.
Ma prima che io proferisca parola irrompe nel suo studio un bell'uomo alto, brizzolato, elegante, una vaga somiglianza con il Mago Zurli, al collo una cravatta rossa in seta luccicante. Si piazza di fronte a Erika e mi delizia con questa frase: «Figlia mia, da quello che ho sentito il punto ora è semmai se tu resterai qui.» "Mitico!", penso, influenzata dall'incontro con il giovane designer. È lui. In carne, ossa e abito su misura: il fatidico dottor Delmonte. La vita, di solito costellata da porte che si aprono su nuove opportunità e di altre che si chiudono su scenari pietosi, mi sta ricordando il sottovalutato potere di quelle socchiuse: negli ultimi mesi le cose origliate hanno contato quasi più di quelle dette. A giudicare dallo sguardo che sta rivolgendo alla figlia, il padre di Erika è stato dietro quella porta accostata abbastanza per sentire tutta la conversazione. Ora vuole capire meglio. Ma prima l'educazione, è un uomo d'altri tempi: mi si avvicina e mi stringe la mano. «Lei dev'essere la fidanzata di Michele, ho sentito parlare di lei.» «E io di lei, è un piacere conoscerla.» «Papà, è tutta colpa sua se sono infelice!» sbotta Erika ormai fuori di sé. «Eh no, figlia mia, forse la colpa della tua infelicità sei proprio tu... e adesso ne parliamo per bene. E ricorda che Michele non si tocca. Professionalmente, almeno per quello che mi riguarda.»
Glielo dica lei, dottor Delmonte. «Mi spiace molto per tutto quello che ho intuito sia successo... Adesso mia figlia mi spiegherà meglio, ne sono sicuro. Lei vada pure dalla mia segretaria, nello studio qui accanto, la raggiungo tra un attimo e le darò tutte le informazioni che desidera.» Erika è furente ma pietrificata, in chiara soggezione nei confronti del padre, il cui carisma è fuori discussione. Li lascio e mi fiondo fuori.
Penso che l'inferno vero è un posto in cui ti rendi conto di essere quando è troppo tardi per tirartene fuori. Non ci si piomba dentro all'improvviso, ma ti avvolge con lentezza. Ed Erika ci ha appena messo un piedino dentro: non esiste figura più adatta a dare nutrimento e concime ai propri sensi di colpa di un determinato, risentito ed elegantissimo genitore.
Venti Un amore cresciuto tra banconi del check-in, stazioni ferroviarie, bus, navette e altri mezzi di locomozione non poteva che trovare la sua ideale sublimazione in una delle sedi per eccellenza delle partenze lente e struggenti. Rieccomi in aeroporto. A Istanbul, in attesa della mia valigia, per recarmi poi nel porto cittadino. E da lì imbarcarmi, per la prima volta nella mia vita, su una nave da crociera. Tutto è stato organizzato dal dottor Delmonte. Michele è a bordo da più di una settimana per alcuni incontri di lavoro (il fatto che si svolgano al largo delle coste turche non è ritenuto preoccupante) e il suo capo ha pensato di offrirmi una forma di risarcimento emotivo, sfoderando un inatteso lato romantico e fanciullesco. «Sarà una bella sorpresa per Michele. È l'ora del trionfo degli amorosi sensi» mi aveva detto al telefono solo qualche giorno prima, esponendomi i dettagli del suo piano. Mi aveva dissuasa dall'andare a cercarlo. Lui era in giro per i consueti sopralluoghi, ma sarebbe stato in continuo movimento e intercettarlo non sarebbe stato così facile. «Tra qualche settimana sarà in un posto dal quale non si può scappare» mi aveva spiegato. «Si fidi di me, abbia un po' di pazienza e vedrà che sorpresa gli andiamo a confezionare!» Speriamo. Agli uomini piacciono le sorprese come i regali fuori ricorrenza o le moto con un fiocco sul manubrio nel garage per Natale. Le improvvisate come questa si distinguono a fatica da quelli che loro ritengono agguati. Be', ormai sono qui. E davanti al nastro per il ritiro dei bagagli assisto a scene emozionanti. C'è chi, forse dopo qualche esperienza traumatica, nel rivedere la propria valigia non trattiene reazioni scomposte: urletti di gioia uniti a un misto di eccitazione e sollievo, superiori in giubilo a ciò che proveranno di lì a poco ricongiungendosi coi loro cari.
Col mio trolley vado fuori in cerca di un taxi per raggiungere la banchina da cui partirà la mia nave, battezzata con un nome già preludio di momenti idilliaci e toccanti: Poesia. Salgo sul primo taxi disponibile. A suo modo toccante anch'esso: è una Fiat Albea, modello di cui ignoravo l'esistenza. La somiglianza con l'indimenticata Duna è sospetta. Mostro fiduciosa al tassista indigeno un biglietto con l'indirizzo del porto e rilevo con preoccupazione sul suo volto seri moti di perplessità. Poiché lui non capisce una parola di inglese, senza motivo mi parla in turco fluente come se io fossi di Ankara. Completo la descrizione della mia meta con una manche di Indomimando, ma do il meglio di me in una sessione di Visual Game, disegnando giuliva una schiera di bandierine sopra l'albero maestro di un mezzo forse più simile a un peschereccio che a una nave da crociera. Alla fine ci capiamo, e in perfetta sintonia ci buttiamo convinti attraverso il centro di Istanbul. Poco meno di un'ora dopo, completo la mia immagine da emigrante alla vigilia di un viaggio nell'America dei sentimenti, fermandomi coi bagagli in mano ai piedi della scaletta della nave. Cammino sotto l'abnorme, luminoso e abbagliante scafo bianco e osservo rapita la chiglia di dimensioni apocalittiche che da minacciosa diventa rassicurante nel momento in cui metti piede a bordo. Dopo l'incontro con la receptionist più brusca di Milano, me ne trovo davanti un'altra che è il suo opposto: gentile, affabile, disponibile. Caratteristica contrattuale comune a tutto l'equipaggio. Mi consegna un badge e chiama un giovane indonesiano che parla l'italiano con inflessione asiatico-napoletana, influenzato dai molti campani presenti a bordo. Sarà lui ad accompagnarmi in cabina, dove i miei bagagli mi hanno preceduta. Il padre di Erika ha predisposto ogni cosa: Michele è impegnato tutto il pomeriggio, ma alle 20.30 è atteso al tavolo del comandante per cena e non sa che al desco ci sarà un posto anche per me.
Seguo il mio Virgilio per i meandri nautici, costeggio una biblioteca, un ristorante giapponese e la cigar room Hitchcock, al cui esterno campeggia un'immagine dell'omonimo regista. Alfred è qui raffigurato di profilo e col sigaro in bocca in una vaga somiglianza con Tinto Brass, e questo può forse ingenerare qualche dubbio su quel che avviene all'interno della sala. Io e Lanar, il nome è scritto sul petto, saliamo insieme su un ascensore molto lucido, pulito e dorato, pieno di specchi su tutti i lati, soffitto compreso. Risulta difficile anche per una donna non sbirciare dall'alto nelle scollature delle proprie compagne di salita. Figuriamoci un uomo: il marito della signora tedesca accanto a me non si priva di una controllata generale con un gioco di sponde oculare. Purtroppo in tedesco so dire soltanto "Ein-Zwei-Polizei-Drei-VierGrenadier ". Dubito sia a tema, quindi lascio correre. Finalmente arrivo alla mia cabina. Situata, come dicono loro, nel lato di diritta del ponte D'Annunzio. È accogliente e spaziosa, e mi permette di spazzare via il ricordo dei due letti a castello fissati al muro, col lavandino (posto in guisa di comodino) delle dimensioni di un bidet. Il bagno è all'ingresso, non al piano come negli ostelli della gioventù. In pratica è un grazioso monolocale con quadri alle pareti, scrivania, divano per ricevere amici e parenti, comodini doppi e televisore fashion. Sul letto trovo il programma della serata, e sfogliandolo inizio a capire come la vita in crociera pos¬sa essere un'esperienza molto impegnativa per via dell'infinito numero di attività di entertainment proposte. Sportive, ludiche e ricreative: essendo ormai primo pomeriggio, mi sono persa il risveglio muscolare, la lezione di aerobica, di stretching e di latin dance; il "buongiorno dal ponte di comando con la nostra direttrice di crociera Ketty", il quiz sul ci¬nema, la misteriosa mozzarella pazza (lo capirò poi, una versione postmoderna del sempreverde gioco dei gavettoni), il tiro al piattello laser, il Bingo, la lezione di black-jack e la dimostrazione di scultura di frutta e verdura.
Volendo, però, sono ancora in tempo per il Texas Hold'em Poker, per prendere lezioni di cha cha cha e bachata, imparare a fare i fiori con la carta ed eventualmente, se penso di avere i numeri, gareggiare per essere eletta Miss Grease. Il dépliant illustrativo è molto esaustivo. Colgo subito un potenziale lato pericoloso della vita da crociera: a bordo si può mangiare ovunque, qualsiasi cosa, a tutti gli orari. Si comincia col caffè dei mattinieri, dalle 6, si prosegue con pranzi a buffet, à la carte, in turno unico in almeno cinque ristoranti e si conclude con diverse location previste per la cena a due turni. In pratica, una Champions' League alimentare. Si è liberi di mangiare all'ora dei ricoverati - alle 18.30 - per poi scapicollarsi in sala e acquistare tante fortunate cartelline per il Bingo serale, o accomodarsi al secondo round, quello delle 20.45. Dall'opuscolo emergono anche le ferree regole sull'abbigliamento. Per la serata il programma consiglia un look da gala: per gli uomini benissimo smoking o abito e cravatta scuri, per le donne vestito lungo o da cocktail. Mi pongo molti dubbi domandandomi se il mio vestito nuovo sia sufficientemente da gala. Li vedrò poi sciogliersi come un Calippo al sole davanti alle mise con cui le passeggere teutoniche rallegreranno le sale da cocktail, confondendosi con le rosse divanate cardinalizie del Moulin Rouge, con le poltrone che danno il nome all'ipnotico Zebra-bar. Alcune si mimetizzeranno più facilmente con il viola penitenza del Teatro Carlo Felice. Mi affaccio al balcone della cabina godendo della magia estrema dello scorcio rivierasco incorniciato dall'infisso in alluminio anodizzato della porta finestra. Guardando per un minuto di troppo verso il basso dalla sommità del ponte dodici, provo un forte desiderio di effettuare un tuffo carpiato con triplo axel per avere un contatto con l'acqua e sapere cosa si proverebbe a buttarsi. Non nel senso suicida del termine, ma in quello meramente atletico ed empirico.
Dopo aver resistito all'impulso olimpico e sistemato le mie cose, vado a fare un giro di perlustrazione nella nave. La curiosità vince sul timore di incontrare Michele per caso, vanificando la sorpresa organizzata dal dottor Delmonte. Esplorando circospetta le varie sale noto altre persone che come me vagano alla ricerca di qualcosa, con acquerellata in viso la tipica espressione di chi si è palesemente perso. Tra le coppie che festeggiano le nozze d'oro questo fenomeno è più diffuso, ed è chiaro come alcune di loro non abbiano la minima idea di dove si trovano, né di come fare per tornare in cabina. Alcuni guardano uno degli onnipresenti quadri in cui è raffigurata la planimetria della nave con aria interrogativa, ipnotizzati e in preda alla sindrome di Stendhal. Leggere "Tu sei qui" non li rassicura più di tanto. Una moglie tenta invano di convincere il consorte a chiedere informazioni su dove sia finita la loro cabina, che li aspetta immota e vuota quattro ponti sopra, a pochi ma maledetti minuti di cammino. Lui è irremovibile, un vero uomo non si perde in una nave da crociera, pensa in fondo al suo cuore. Verso le 17, dal ponte di prua, mi godo la partenza della nave, che si avvia a ripercorrere le antiche tratte dei miei progenitori fenici salutando la bizantina Istanbul con tre rituali e assordanti suoni della sirena, a causa dei quali vedo più di qualche passeggero adagiato sulle sdraio a bordo piscina rischiare un coccolone. Prima di andare in cabina faccio un salto anche all'angolo dello shopping, e mi fermo a rimirare la sempre gradevole vetrina della gioielleria, in un angolo della quale sono esposti in ordine di carati tanti graziosi gioielli, con lo sbarazzino diamante protagonista assoluto. Alcune reputano i diamanti i migliori amici della donna; per me sono più interessanti i chirurghi estetici, gli analisti e le estetiste, ma dipende dalla fase della vita che si attraversa. Ce ne sono di tutti i tipi: taglio a cuore, a baguette, a trapezio, a goccia, a marquise, a carré. Ma io sono tradizionale e l'anello cui anelo è quello classicissimo. Taglio a brillante: noioso, ma rassicurante. Sarei pure tentata di entrare e comprarmelo, e poi fidanzarmi con me stessa, ma chiacchierando con la (sorridente, manco a dirlo)
commessa conveniamo che una donna non si può comprare un solitario da sola, se non vuole trasformare questo sostantivo in un modo di vivere. Per principio e assenza di principe. Circondata dal mare di Marmara, diamanti a parte, i flutti attorno, a distanza di mesi mi rendo conto che finalmente Michele non è poi così lontano; poco meno di tre ore mi separano dal più romantico possibile re-ingresso nella vita di un uomo. Una parte di me conta i secondi che mi separano da quell'istante; un'altra teme che quel momento non si riveli poi così esaltante e lui dirotti la nave per tornare a casa il più presto possibile. Torno in cabina, mi lavo, mi trucco, mi pettino, mi vesto, mi cambio perché non sono sicura del mio vestito, poi mi rivesto, mi guardo allo specchio, poi mi cambio ancora, e dopo aver valutato che meglio di così non potrò mai sembrare, esco dalla mia cameretta per recarmi al ponte tredici, ristorante Obelisco. Non ci metto molto a trovarlo. Prima di entrare mi nascondo dietro una colonna per osservare la situazione e studiare meglio il campo. Sono molto tesa. Individuo subito il tavolo del comandante: tutti sono vestiti di scuro, con indecifrabili mostrine sulle maniche e sulle spalline della giacca e un papillon nero. Io, da sempre sensibile al fascino della divisa - dalla guardia giurata in su - non posso fare a meno di notare la bellezza di quest'armata di ufficiali. Vestiti così gli uomini normali sembrano tutti belli, e quelli appena sopra il passabile acquistano un certo fascino. Tra loro, posizionato di tre quarti rispetto a me, c'è un unico uomo in smoking. Anche senza divisa il più bello di tutti, per me, è lui. Rivederlo mi fa un effetto come di colata di fuochi d'artificio lungo il col¬lo, e spero di suscitargli anche solo la metà delle mie sensazioni perché basterebbe questo a tenerci insieme per sempre. Un ufficiale mi viene incontro, annunciandomi agli altri ospiti. «Ecco, è arrivata la nostra ospite di questa sera.»
Michele si scosta dal tavolo per alzarsi e salutare la nuova arrivata, e per farlo guarda un istante verso il basso, quindi è soltanto quando si alza in piedi che vede. Me. Ho la certezza che le girandole e i giochi pirici non siano solo lungo la mia, di schiena. Lui mi guarda. È evidente che si sta domandando come diavolo io abbia fatto a trovarlo, a essere a quel tavolo, e soprattutto se ci sono arrivata per fare la pace o la guerra, ma con self-control eccezionale, si limita a baciarmi la mano e dire: «Benvenuta, ospite misteriosa.» «Questa è l'ultima volta che ti vengo a cercare in mezzo al mare» gli rispondo con un sorriso da far impallidire la receptionist, il fattorino e la commessa. Superiamo il momento dei convenevoli, vengo pre-sentata agli altri ufficiali e al comandante Ponti, dimostrazione che il detto "Nomen omen" ha ancora una qualche valenza, e, appena accomodati, la sontuosa cena ha inizio tra argenti scintillanti, piatti fumanti e calici tintinnanti. Credo che il dono più grande che si possa fare al comandante di una nave e al suo staff sia non parlare di niente di galleggiante. Così avviamo conversazioni sparse su argomenti vari, ma dopo un piccolo simposio sulle moquette della nave e i corrimano in ottone, cadiamo in trappola e cominciamo a discorrere di motonavi in panne, incendi a bordo, sicurezza delle scialuppe, calamità naturali e catastrofi marittime. Poco prima del terzo secondo, Michele fa finta di rac-cogliere il tovagliolo da terra e chinandosi mi si avvicina. Sento il suo profumo, un cocktail per me micidiale tra la sua pelle e l'eau de toilette di un noto stilista. Ph suo e il profumo di un noto stilista. «Mia cara, poi mi devi spiegare come hai fatto...» «Sorpresa o agguato?» gli domando incerta.
«Entrambi, direi...» Lo guardo meglio, ora che finalmente mi è più vicino. E sempre stato così bello? «Non mi sembri molto spaventato.» «Sembro tranquillo, no?» «Abbastanza...» «Sai, temevo arrivasse una vegliarda ingioiellata quando parlavano di ospite importante... Credevo di doverle fare da cavaliere e ballare l'hully gully con lei.» «Be', chiunque fosse arrivata al posto suo ti avrebbe fatto felice...» «No. Non mi avrebbe fatto felice proprio chiunque...» Lo guardo dubbiosa. Quando un uomo dice una cosa che sembra molto bella, talvolta pensa: "Vediamo se lei ci crede... se la convinco significa che l'ho detta bene". «La tengo buona, questa» concludo non molto convinta dopo averlo studiato un istante. L'arrivo del dessert scioglie questo breve aggiornamento sulla situazione, e tra aneddoti su polene e salvataggi d'emergenza arriva anche il liberatorio momento del caffè. «Grazie di tutto, comandante, e mi raccomando tenga la destra» gli dico stringendogli la mano. «Non mancherò, grazie a voi della compagnia. Sono stato molto bene» risponde lui gentile. «Lo dice a tutte, scommetto...» bisbiglio a Michele mentre andiamo via. «Sì, ma qualche volta sarà pur vero» mi risponde lui. Ci congediamo dai nostri commensali e lui mi fa strada verso l'esterno. «Mi aspetti un attimo qui, per favore?»
«Non sparirai di nuovo?» gli domando subito preoccupata. «Ma dove vuoi che vada? Siamo su una nave...» «Se non torni subito, mi calo con una scialuppa e me ne torno in Sardegna.» «Aspettami.» Ancora? «Va bene, muoviti...» Mi sfiora la schiena e va via, e io resto sola lì sul ponte. Stare in mezzo al mare, forse perché ci sono nata, mi fa sentire bene. L'aria è frizzante ma non fredda. Mi si avvicina un prototipo classico da crociera, una giovane coppia in viaggio di nozze, elemento intuibile dalla sfacciata luminosità emessa dalle fedi nuziali. «Ciao... ti disturbiamo?» «Certo che no.» «Possiamo avere i tuoi auguri scritti sul giornali¬no di bordo?» «Certo che sì... Da quanto siete sposati?» «Da tre giorni» risponde lei visibilmente felice. Mi porgono l'opuscolo che ben conosco e una penna. «Come vi chiamate?» gli chiedo. «Io, Letterino» risponde il novello sposo. Non mi trattengo. «Letterino? Ma che nome è?» «Non me ne parlare... è stata mia madre... ci teneva, per la Madonna delle Lettere.» «Ah. Capisco. Be', se è per la Madonna... E tu invece?» Lei mi risponde con tono sconfortato di chi sa già quanto difficile sia non scuotere la testa pronunciandolo: «Io, Anella.»
Cerco di non commentare. Forse sono agenti segreti e non possono svelare la loro vera identità, ma dentro di me in quel momento ringrazio mia madre per avermi battezzato soltanto Maria Giuseppina. Li imploro di essere clementi nei confronti del figlio che avranno e di evitargli un nome come Divano, Elettrolisi o Sedietta e ci salutiamo gioiosi. Dieci minuti dopo torna il mio, di agente segreto, con quell'irresistibile look da James Bond il giorno della festa a corte in cui sventa un attentato alla regina. Iniziamo a passeggiare sul ponte superiore insieme a tante altre coppie. Alcune anziane, forse pure loro smarrite, anche se chi a ottant'anni cammina ancora mano nella mano, perso non lo è davvero stato mai. «E noi che fine faremo?» gli chiedo fissando i due americani che lenti lenti ci incrociano. «Anche tu, se vedi una coppia di anziani che passeggia, ti domandi se diventerai così?» «Ovvio... e puoi non chiederlo con tono divertito?» «Non lo chiedevo con tono divertito.» Mi fermo, mi appoggio alla balaustra e gli dico: «Vuoi sapere che ne penso?» «Non vedo l'ora.» «Arriverà un giorno in cui racconterai sempre gli stessi aneddoti, dimenticando i dettagli, sbagliando i nomi, o peggio che mai, stravolgendo il finale.» «E tu mi correggerai di continuo?» «Sì, per essere precisa. Sarò sempre quella che ricorda meglio le cose... e le capisce meglio.» In quell'istante passano due giovani donne tedesche. Una delle due ricorda, nel fisico, una Twingo, e ha un vestito che la fa somigliare al modello color canna di fucile metallizzata: classico caso di connivenza totale tra chi quel vestito l'ha disegnato, chi l'ha
confezionato, tra la commessa che le ha concesso di provarlo e l'amica (forse la odia) che non gliel'ha strappato di dosso. «Se mi prometti che non ti vestirai mai così, puoi correggermi quanto ti pare.» «E tu promettimi che una cosa del genere non ci succederà più.» Diventa serio all'improvviso. Finalmente siamo di nuovo io e lui. Solo noi, affacciati al parapetto a guardare il mare che va. E anche se non siamo nell'Atlantico, ma nello stretto dei Dardanelli, anche se non c'è foschia e il cielo è limpido, anche se dovrei smetterla di fare questi paragoni, penso a Candy e alla prima volta che ha incontrato Terence sul ponte del transatlantico che li con¬duceva in Inghilterra agli inizi del secolo scorso. Cerco di tornare nel secolo corrente con osservazioni pseudoscientifiche. «Quella è Venere, la stella più luminosa» dico ridandomi un tono. «La stella più luminosa sei tu.» Sguardo languido. «Guarda che quando è troppo non ci credo neppure io.» «Ho esagerato?» «Direi di sì. Va be' che forse hai qualcosa da farjti perdonare.» «Io?» risponde lui cambiando subito tono. «Tu no, invece?» «Abbiamo smesso di fidarci l'uno dell'altro...» «Tu hai smesso di fidarti di me.» «Eri in giro con quella...» Devo ricordarmi che essere sinceri non significa dire tutto quello che ti viene in mente. «Con quella cosa?» mi interrompe lui. «Quella... ragazza con cui ti sei accompagnato e di cui non voglio parlare per rispetto di questo mare quaggiù e quella luna lassù. E poi, anche se non lo vediamo, c'è di sicuro un delfino incantato dalla mia
voce, che costeggia la nave per condurci fino al prossimo porto, quindi non farmi dire parolacce davanti a Flipper.» Lui prima sorride, poi sospira. «Sì, so tutto, il dottor Delmonte mi ha spiegato.» «Ah sì? Quindi ora dovrei dirti che...» «Che me l'avevi detto, che avevi ragione tu e io sono stato uno stupido.» «Fa sempre piacere sentirti parlare così...» Si avvicina di più, mette una mano in tasca e tira fuori un pacchetto piccolo, meravigliosamente piccolo, dalle dimensioni clamorosamente giuste. «Cos'è?» «Un regalo. Volevo farti la busta come gli zii per la cresima, ma poi ho cambiato idea...» «Sei un grezzo...» gli dico mentre prendo la scatolina e inizio a scartarla. «Hai ragione» risponde lui. «Sono tante cose, sono anche un grezzo... ma ti posso far sentire una regina, a patto non dimentichi mai che il re sono io.» Applauso. A questa frase cortigiana, molto ben detta, decido di credere davvero. In realtà potrei credere a quasi tutto mi si dica mentre mi viene regalato un solitario, perché nella scatola c'è lui. L'anello che ho sempre voluto, che ho sempre sognato e desiderato ricevere da un uomo: un diamante luminoso e lucente, delle dimensioni giuste, né cafone, né pediatrico, semplicemente perfetto. «So che l'hai visto oggi in gioielleria...» comincia lui.
Devo ricordarmi di mandare dei fiori alla ragazza del negozio. «Questo è un anello che una donna non si può comprare da sola, no?»
Anche del vino.
Io ancora sono lì a cercare una frase di cui non pen¬tirmi mai. «Non sta bene neppure che tu te lo metta da sola...» continua prendendomi la custodia dalle mani.
Oddio, e se non mi sta? Mi ricorderò per sempre che il momento più romantico della mia vita è stato rovinato da un dito grasso. Prima che possa finire la riflessione lui lo sfila dalla scatola, se la rimette in tasca, mi prende la mano e mi infila al dito l'anello. È perfetto. «Ho detto al dottor Delmonte che non voglio più stare così tanto in giro.» Sorrido. «Gli ho detto che voglio stare a Milano.» Sorrido di più. «Gli ho detto che non posso più stare lontano da te.» Piango. «Voglio stare con te.» «Non ho mai baciato un uomo in smoking.» «E ora di cominciare, allora.» Piango, rido, lo abbraccio, lo bacio, gli annuso il collo, rimiro il mio dito, guardo Venere. Anche in un momento epico, navale, costiero come questo, dimostro che le donne di cose ne sanno fare tante. Diverse, magari inutili. Comunque e sempre, tutte contemporaneamente.
Ventuno Dall'immensità del Mediterraneo a un'isola in mezzo al mare, dal ponte di una nave fluttuante a un'utilitaria a noleggio su una strada statale nel centro della Sardegna. Dopo una sfilza di felici Natali trascorsi sempre in famiglia - col rimpianto di non avere mai avuto almeno un coperto occupato da un invitato tutto mio - siamo alle soglie di un 25 dicembre diverso. È arrivato il grande momento delle presentazioni ufficiali: l'ingresso in famiglia del fidanzato nordico che rende omaggio ai parenti della sua metà. Solo qualche giorno fa, a Milano, Michele mi ave¬va stupito. «Un altro Natale da sola non lo reggi, secondo me. Meglio che io venga in Sardegna con te... i tuoi vorranno sapere chi ti ha rubato il cuore.» «Ma non la verginità, ricordatelo, okay?» «Ci mancherebbe...» «Che bello, ma sei sicuro?» gli avevo risposto abbracciandolo felice. «Sono sicuro, l'ho già detto ai miei. Mia madre mi ha anche risposto "era ora". Non la facevo così ansiosa di vedermi sistemato» conclude. «A proposito di madri... Finché non sei mio marito non puoi dormire con me, a casa mia.» «Ma se...» prova a interrompermi lui. «Non ci sono se né ma... Anzi, preparati, ti metteranno a dormire in un'altra stanza, magari su un piano diverso, e solo perché spedirti in cantina con un tozzo di pane e la coperta patchwork di Holly Hobby sarebbe troppo.» «La celebre accoglienza sarda...» «Non viene sfoderata in casi come questi, non di notte soprattutto.»
«D'accordo» aveva risposto rassegnato. Mi ero precipitata - per una volta, io - ad acquistare i biglietti per entrambi. L'ennesimo aereo insieme. Tre giorni prima del compleanno di Gesù inforchiamo il tornante che porta alla celebre basilica di san Pantaleo, la cui facciata spagnoleggiante ricorda a tutti che quei simpaticoni degli aragonesi sono stati tra noi, e guadagniamo la via principale di Macomer. Un tour per le vie del paese prima di andare a casa mi sembra opportuno. A Milano ho scoperto odori diversi da quelli che si sentono qui per strada: il metano che brucia nei fornelli delle cucine, lo smog in tangenziale, la pioggia eterna. Così abbasso il finestrino e finalmente inalo con vigore il profumo dell'inverno sardo: quello del muschio bagnato, del fumo aromatico che esce dai comignoli e delle castagne arrosto. Anche qui vengono vendute per strada, come a Milano, ma a prezzi leggermente inferiori dei marroni del Duomo, il cui esorbitante costo troverei giustificato solo se a sbucciarli e porgermeli fosse George Clooney vestito di petali di rosa, mentre io mi tengo occupata riempiendo due bicchieri di scotch. «Questo è il corso, quello dove si facevano le vasche alla ricerca di nuovi amori prima che fosse possibile mandar loro un SMS per sapere dove fossero» spiego mentre risaliamo la via in cui dai tredici ai sedici anni ho camminato su e giù fino ad aver male ai talloni, con Lucia e Stefania. Case in basalto, tipica pietra scura locale, si alternano ad attività commerciali tra le più disparate. «Quello è il negozio del padre di Lucia. Somiglia alla bottega degli Oleson della Casa nella prateria. Vendono di tutto. Dalle carriole al bagnoschiuma, dalle botti per il vino ai sanitari. New economy: il segreto è differenziare, no?» «È in linea con le nuove tendenze... Ma com'è carina Macomer» commenta Michele guardandosi attorno affascinato.
«Sì, io ci torno sempre volentieri, ci sono cresciuta e c'è la mia famiglia, ma immagino ti faccia questo effetto perché sei di passaggio. Starci è un'altra cosa.» «Ma avete l'aria pulita, e poi il mare da qui non è distante. E il cibo, lo sanno tutti, è ottimo...» «Ma stai scherzando? Eri un uomo intelligente fino a mezz'ora fa...» «Perché dici questo?» «I sardi vanno via perché devono, non perché vogliono, lo sai... E poi, ti prego, di non parlare per luoghi comuni. O vuoi aggiungere che Macomer è bella, ma - come a Venezia - non ci vivresti? E che farsi una bella doccia è sempre meglio che lavarsi a pezzi? E che il blu sta bene con tutto, e che Gianni Morandi non invecchia mai?» gli dico, in un crescendo enfatico ingiustificato. Mi giro e noto che lui mi fissa perplesso. «Hai finito?» «Sì.» «Permettimi almeno di ritenere valido il luogo comune sulla vostra permalosità, sulla tua di certo... Ma forse tu saresti stata così anche se fossi nata a Stoccarda.» Michele non scambia mai i miei accessi di finta ira per aggressività vera e propria, e riesce sempre a farmi sorridere, ogni volta che alzo la voce. «Scusa, sono un po' nervosa.» «Dovrei esserlo io. Adesso ti calmi e mi dai un po' di ripetizioni di sardo, cosi faccio colpo sui tuoi genitori. Che dici, gli piacerò?» «Mia madre ti farà la tac all'anima con uno sguardo, mio padre ti ignorerà, ma credo che gli andrai bene. I miei fratelli, se non avranno la sindrome da festeggiamento, saranno adorabili.» «Cos'è?» «Sai, certe persone nei giorni lieti - quali natali, pasque e pasquette, battesimi, compleanni, comunioni - hanno, come diciamo
noi, il culo storto, diventano malinconici e silenziosi. A casa mia è diffusa tra i maschi, non tra le donne. Sono stata fortunata con le cognate, sono fantastiche. Ma anche i miei fratelli, in fondo. Per non parlare dei miei due nipoti.» «Queste sono dinamiche che mi sfuggono...» «Solo perché sei figlio unico.» «E gli usi e costumi sardi?» «Allora...» faccio io pensandoci un po'. «Cominciamo dai falsi miti. "Aio" non è un saluto, non vuol dire ciao, arrivederci, buonasera o salve. Significa "andiamo", sia nel senso motorio che in quello esortativo.» «Molto bene... quindi non lo dirò salutando tua madre.» «No, a meno che tu non desideri invitarla a uscire o voglia spronarla a fare qualcosa, ma non credo sia il caso appena la conosci di mandarla da qualche parte.» «No, ma magari col tempo...» «Non raccolgo. Passiamo a "Eia": vuol dire "Sì" e ha un forte senso affermativo, non lo diciamo così a caso.» «Molto interessante...!» «Sì, ma ora veniamo ai consigli per trattare con una donna sarda.» «Ma veramente mi stavi dando lezioni di lingua, io non ti ho chiesto nient'altro.» «Lo so, ma vorrei fare una breve lista delle cose che non sopporto.» «Credo di averle già sentite...» «Le riassumo. In fondo sei ancora in tempo per scappare.» Per esempio, preferirei morire di sete piuttosto che versarmi da bere da sola al ristorante, se sono con lui; non vorrei mai che lui mi camminasse davanti e non a fianco; se proprio non resiste alla tentazione di guardare un'altra donna, meglio che non si faccia beccare mentre lo fa - più che da me, proprio da lei; sarei molto felice se mi aprisse lo sportello tutte le volte che saliamo in macchina, mi
spostasse la sedia per farmi accomodare al ristorante e riuscisse a evitare di riempire la cucina di briciole anche per bere una semplice orzata, soprattutto se l'ho appena risistemata dopo cena. Del resto, gli spiego, non pretendo che pulisca la casa, ma che almeno si limiti a non sporcarla inutilmente, né auspico che rifaccia il letto al mattino, ma mi dia sempre un buon motivo per disfarlo la sera prima. Proseguo anche con le ammissioni delle mie debolezze: se andiamo fuori a cena non escludo di origliare le conversazioni dei nostri vicini di tavolo; del casting per la nostra eventuale baby sitter, infine, vorrei occuparmi solo io. A quel punto lui, trascinato dall'efficacia dell'elenco, avanza le sue pretese, che sono piuttosto ridotte: quando gli domanderò "a cosa stai pensando" e lui risponderà "a niente", sarà la verità. Gradirebbe non trovare la finestra della camera da letto aperta quando rientra nella stanza dopo la doccia mattutina, almeno da ottobre a fine aprile, e non avere una che gli rinfaccia nei dettagli dialoghi avuti mesi prima di cui lui non ricorda assolutamente niente. Il momento in cui si presenta il fidanzato ai propri genitori è sempre epocale. Arriviamo a casa prima di pranzo. I miei ci vengono incontro per i saluti di rito, l'imbarazzo è di entità lieve e mio nipote Claudio lo alleggerisce correndomi incontro e saltandomi in braccio. L'altro nipote, Giovanni, non corre; è più esatto dire che rotola verso di me, vista la sua estrema sfericità. Claudio guarda Michele con un po' di sospetto, ma gli porge la mano con educazione, Giovanni lo osserva un attimo e poi se ne va. Avere nipoti prima di diventare genitori fa sì che il legame con loro diventi davvero speciale. In assenza di figli, sono loro i bimbi che ami di più al mondo. Spero, entro la licenza media del primo, che la situazione cambi. «Mamma, lui è Michele.» «Molto lieto, signora» dice lui consegnandole un ficus Benjamin, scelto da lui stesso per il nome accattivante. Mio babbo, uomo d'altri tempi, gli stringe la mano e gli si presenta come tra commilitoni, solo per cognome.
«Benvenuto, come stai?» gli chiede donna Caterina, ovvero mia madre. «Bene, mi sento già a casa.» «E allora se ti senti a casa, con permesso vado a finire di preparare, tu accomodati pure.» Poi si rivolge a mio padre con una sola parola: «Gianni...», ma detta in un modo che significa: Gianni,
portalo in soggiorno, offrigli un aperitivo e sii gentile, che la piccolina di casa va per i quaranta ed è ancora sola e quest'uomo non ce la sta portando via, sta solo tentando di farla felice. Poi si congeda da noi, perché deve occuparsi del pasto. Sveglia dalle cinque, è in cucina da almeno sette ore per preparare il classico pranzo composto da non meno di ventuno portate. Michele ancora non lo sa, ma a casa mia siamo celebri per la celerità con cui le portate si avvicendano nei piatti. Mia mamma è una saetta nell'arte del ricevere, e, come molte donne del Sud, soprattutto nell'arte del rassettare. Mentre noi mangiamo il primo lei ha già sciacquato i piatti dell'antipasto, quando serve il secondo è già partito il primo lavaggio di lavastoviglie, e al momento del caffè restano da pulire a malapena due pirofile. «Non esagerare» sussurro a Michele mentre gli faccio strada verso la sala da pranzo. Michele mi sorride. Sembra a suo agio. Prendiamo posto a tavola, dove i miei fratelli ci aspettano. A un rapido sguardo capisco che la sindrome da festeggiamento oggi è assente, credo grazie anche alle raccomandazioni delle mie cognate. I miei fratelli, privi del¬la mestizia festiva, sono affabili e cercano di interagire con Michele parlando di argomenti innocui: fede calcistica, gusti vinicoli, programmi per San Silvestro. I miei genitori vedono che con Michele sono serena e mi guardano ottimisti. Quando noti i tuoi genitori osservarti in quel modo quasi incoraggiante, solo perché hai accanto qualcuno, potrebbe sembrare offensivo. Ma non ho tempo per offendermi oggi. Michele con attorno la mia vita, seduto al tavolo del mio soggiorno.
Riesco a mormorargli nell'orecchio una domanda: «Solo a me?» e lui mi risponde ripetendo la frase, ma senza tono interrogativo. «Solo a te.» E siamo in dieci: otto adulti e due minorenni. Pari. Finalmente, meravigliosamente pari. E se questa volta io ho accanto qualcuno, Lucia mi batte: non solo ha qualcuno al suo fianco, ma anche dentro di lei. Ormai è molto incinta, il suo stato interessante ha risvolti all'altezza di questa definizione e lei, con tutte le giustificazioni del caso, è spossata. Come ogni donna vicina all'evento, l'attraversano varie sensazioni: curiosità, stanchezza, nervosismo, ipersensibilità, l'impazienza di sapere come sarà Rocco, di prenderlo in braccio, di vedere che faccia avrà e se somiglierà a lei o a Tommaso. Ma una sensazione la domina più di tutte: l'insofferenza verso la sua pancia, decisamente enorme, tesa, pesante, e verso tutte le piccole complicazioni della fine della gravidanza. A Rocco viene il singhiozzo almeno due volte al giorno e lei sussulta con lui, dopo pranzo è sempre tachicardica, si affatica per il minimo sforzo, la affliggono costanti attacchi di prurito, ha le gambe perennemente gonfie e la notte è tormentata da crampi più dolorosi di quelli che vennero a Michael Chang durante l'ottavo di finale al Roland Garros del 1989 contro Ivan Lendl. La vado a trovare quello stesso pomeriggio assieme a Michele, a casa dei genitori di Tommaso. I futuri nonni, nell'attesa di questo primo nipote, hanno accumulato una quantità industriale di oggetti azzurri: tutine, asciugamani, fasciatoio, culletta, tutto celeste. Temo possano decidere di dare una mano di indaco alle pareti mentre siamo lì. Sapendo che Michele non è endemico, ma "del continente", come ancora in molti in Sardegna chiamano la lontana penisola, e avendo il forte desiderio, anche questo indigeno, di dargli una qualche collocazione genealogica, lo sottopongono a una serie di domande incrociate. Sono però costretti a rinunciare al quesito cardine diffuso in Sardegna per individuare la provenienza di un giovane:
"E tue, fizzu 'e chie sese?", ossia: "E tu, bel giovane, di chi saresti figlio?". Arriva un momento in cui inizi ad allontanare il cellulare per leggere i messaggi a causa dell'incipiente presbiopia, cominci ad avvertire dolori alla schiena senza motivo e hai difficoltà a digerire mentre prima mangiavi tranquillamente anche sassi di fiume, in cui non sei più quello a cui tale domandina viene rivolta, ma quello che la pone: si chiama età adulta. La madre di Tommaso si offre di andare a preparare un caffè, ma so bene che la miscela arabica è solo una copertura. Tornerà al più presto con un vassoio di dolci tipici o - il minimo garantito - alzatina in argento colma di cioccolatini di varia foggia e stazza. «Mi sento uno straccio! Non ce la faccio più, non vedo l'ora che nasca!» esclama Lucia, incastonata nella poltrona in cui di solito siede il padre di Tommaso. «Lucia, manca pochissimo ormai» le dico mentre le accarezzo la pancia. «E poi, guarda che boccuccia di rosa.» Anche le labbra le si sono gonfiate, altro dato tipico della gravidanza, e lei ha un'aria davvero diversa. «Mi sento strana... mi sembra di essere un'altra.» «Un'altra, più bella» rispondo con il desiderio di farle un complimento, ma senza riuscirci. «Ah, grazie mille!» «Lucia, sul serio, sei proprio radiosa, molto radiosa. Sei molta e molto radiosa...» Lei capisce che la sto prendendo in giro e subito rilancia allegra. «Non vedo l'ora di vedere come diventi tu, guarda... Scommetto che nessuno ti dirà "da dietro non si vede neppure che sei incinta".» «A me lo diranno. Da dietro non si vedrà...» «Figurati.» Per farmi perdonare mi alzo e inizio a massaggiarle il collo, mentre Tommaso, seduto su uno sgabello di fronte a lei, le accarezza le piccole zampogne che per educazione i più chiamerebbero piedi.
«Non vedo l'ora di conoscere Rocco» dice visibilmente emozionato. Da almeno un mese trova commoventi anche le pubblicità dei panettoni, e l'incontro per strada coi musicanti vestiti da pastori che suonano le cornamuse è per lui fatale. La borsa per l'ospedalizzazione imminente è pronta, in onore a un'altra diffusa usanza sudista per cui la biancheria da notte viene rinnovata solo in caso di ricovero. Nuovi di pacca sono il pigiama, le mutande, le cal¬ze e la comoda e pratica vestaglia in lana cotta, che si acquista solo in questi casi, ed è destinata a torna¬re a casa nell'armadio e lì restare accanto agli asciugamani in lino impermeabili all'acqua con le iniziali ricamate. Dopo qualche istante arriva Stefania, anche lei giunta da Milano solo da qualche giorno. «Lucia, sei enorme!» è la prima cosa che le viene in mente di dire appena la vede. Poi posiziona sotto l'albero una busta piena di pacchetti e si precipita ad abbracciarla. «Eccola qui, è tornata Stefania!» dico a Lucia, le cui reazioni sono per fortuna un po' appannate. «Lucia, io e Stefi il regalo più bello te lo facciamo dopo che apri quelli degli altri, non vorrei ti trovassi con sedici palestrine e sette ovetti, e senza l'aggeggio per preparare gli omogeneizzati. Ti regaleremo quello che ti manca.» Lucia mi guarda e resta immobile. «Va bene, Lucia?» Non risponde. «Lucia?» Lucia fissa il vuoto davanti a sé con espressione imperscrutabile, poi guarda verso il basso. Seguiamo il suo sguardo trepidanti. I pantaloni sono bagnati. «Le acque!» grida Stefania. «Le acque!» «Tesoro, stai bene?» le chiede Tommaso preoccupatissimo.
«Sì» risponde lei incerta. «Non mi ha fatto male, non sento niente...» I genitori di Tommaso accorrono. Tutti ci avviciniamo a Lucia, Tommaso la aiuta ad alzarsi mentre lei ci osserva disorientata. «Cosa facciamo ora?» strilla Stefi. «E cosa vuoi fare? Far bollire dell'acqua e portare delle coperte? Forza Tommaso, scalda i motori» dico al sempre più prossimo papà. «Sì, Tommaso, sarà meglio andare in ospedale, anche se non mi sembra siano iniziate le contrazioni» sussurra Lucia. «Sì, andiamo, siamo a quasi un'ora da lì. Andrà tutto bene, amore» le dice prima di precipitarsi fuori per andare a prendere la macchina. Stefi tira fuori dalla borsa un blocchettino e un cronometro da giudice di atletica leggera. «Avvisami subito se senti dolore che annoto tutto, la prima cosa che ti chiederanno in ospedale è la frequenza delle contrazioni.» «Stefi, non sono ancora cominciate, potrebbe volerci ancora un giorno. Rinfodera il cronometro» le dico. Aiuto Lucia a cambiarsi, prendiamo la valigia della partoriente e ci incamminiamo verso l'uscio. Mentre la porta si chiude mi sembra di sentire il padre di Tommaso piagnucolare. Non arrabbiato ma sconfortato, qualcosa in merito alla poltrona avuta in eredità da suo padre, che l'aveva avuta a sua volta dal suo. Lucia si ferma un istante. «Che dice mio suocero?» «Credo che tu abbia rotto le acque su un cimelio di famiglia» le risponde Stefi. «Non importa, Lucia, adesso è ancora più vissuta» minimizzo io. Arriva Tommaso. Saliamo in macchina, nel tragitto avvisiamo tutti che stiamo andando in ospedale, la situazione per il momento è sotto controllo. La prima contrazione arriva alle 19.09 del 23 dicembre.
Rocco nascerà sedici ore dopo, dopo una notte lunga e piena di attese, di promesse, delle urla di Lucia e delle lacrime di Tommaso. E loro saranno tre. Dispari. Meravigliosamente dispari.
Ringraziamenti A ognuna di queste persone devo molto, e ognuna di loro sa perché. Paola Maraone: ci sono grandi editor, ottime amiche e ottime editor che diventano grandi amiche. L'ultima lettura insieme è stata fatta mentre lei era all'ultima settimana di gravidanza e a patto che in caso di rottura delle acque, io la portassi all'ospedale. Suo figlio Rocco è stato paziente. Andrea Delmonte: il mio editor Mondadori, illuminante e costante presenza negli ultimi mesi della mia vita. Stefania Cinus e Lucia Sechi: l'ultima frase del primo capitolo è tutta la verità e nient'altro che la verità. Questa volta mi sembra superfluo chiarire al padre di Lucia che alcune parti di questo libro sono frutto di fantasia e che lei non l'ha reso nonno. Mia madre, che è la mia donna preferita. Il mio amato babbino, arreso e affettuoso sostenitore di un mestiere che non avrebbe voluto, ma che ha imparato ad apprezzare. I miei fratelli, le mie cognate e i loro figli: sono tra le persone con cui mi diverto di più, che mi fanno stare meglio e da cui tornare è sempre una gioia. Gabriella Cucciari: mia cugina e coetanea, lei sa sempre cosa dovrei fare. E se non lo faccio troviamo insieme un'altra soluzione. E se non la troviamo, continuiamo a cercarla insieme. Le mie cugine Giusi e Caterina: grandi e severe so-stenitrici. Ussi e Ale: una Casa vera per me. Pietro e Annetta: per questi anni vicini, per questi mesi da vicini di casa, per le nottate in via Sardegna e le mattinate in piazza Irnerio. Mattia e Fru: per le colazioni, i pranzi, le cene, i compleanni e per avermi accolta come un'amata parente.
Elio e Giovanna: per avermi trattata come la figlia femmina che non hanno (ancora) avuto. Lucio Wilson: mio complemento vitale. Antonietta per la consulenza sull'attività psicoanalitica; Luca per avermi introdotto nel torbido mondo degli hacker; Leonardo, Cosimo, Silvia e Daniela della MSC per avermi viziata mentre scrivevo e navigavo; Mino, nonostante le barzellette; Pietro per la festa di compleanno; Nicola Sorrentino, che mi ha messo a dieta; Laura e Barbara, che mi vestono e decorano con cura; Francesco, Beatrice e Sabrina della TXT: mi rendono più bella che possono ogni volta che possono; Jimmy Choo, da cui provengono le scarpe usate per la copertina ed Eva, che le ha scelte per me; Simona, che ha letto e riletto ciò che scrivevo. E a tutti quelli che in questi mesi hanno fatto qualcosa per me. Grazie a chi ha cucinato, a chi ha suonato, a chi mi ha fatto ballare, a chi mi ha viziata.