Marcel Schwob - Il Libro Di Monelle [PDF]

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Zitiervorschau

Marcel Schwob. IL LIBRO DI MONELLE. SE, Milano 1997. A cura Di Rashida Agosti. Titolo originale: "Le livre de Monelle". NOTA DI COPERTINA. Monelle «è colei che è sola». La donna uscita dall'ombra per compiere un gesto di tenerezza. Come la giovane del Palais-Royal, che Bonaparte non dimenticherà mai, o la Sonja di "Delitto e Castigo", che la pietà unisce all'assassino Raskolnikov. E' la prostituta bambina che con il proprio affetto guarisce colui che incontra senza voler niente in cambio; la Donna portatrice del vero sapere. E forse i suoi tratti sono quelli della fragile operaia malata di tisi, che Schwob incontrò una notte tornando a casa, e che sposò pochi giorni dopo per assisterla fino alla morte. Monelle e le sorelle di Monelle: la sognatrice, l'egoista, la voluttuosa, la perversa, la delusa, la selvaggia, la fedele, la predestinata e altre; ancora bambine, benché già donne, per aver vissuto in un'epoca in cui il matrimonio appare l'unico modo di garantirsi un'identità. Della scrittura di Schwob, capace di evocare atmosfere fantastiche e terribilmente reali, scrisse il poeta Albert Samain: «E' droga... Da fuoco all'immaginazione ». INDICE. IL LIBRO DI MONELLE. 1. PAROLE DI MONELLE. 2. LE SORELLE DI MONELLE. L'egoista. La voluttuosa. La perversa. La delusa. La selvaggia. La fedele. La prescelta. La sognatrice. L'esaudita. L'insensibile. La sacrificata. 3. MONELLE. Dell'apparizione di Monelle. Della vita di Monelle. Della fuga di Monelle. Della pazienza di Monelle. Del reame di Monelle. Della resurrezione di Monelle. Materiali e strutture del sogno nei racconti di Schwob di Rashida Agosti. Note.

IL LIBRO DI MONELLE.

1. PAROLE DI MONELLE. Incontrai Monelle mentre vagavo nella pianura, e lei mi prese per mano. - Non aver timore, disse, sono io e non sono io; Ci ritroveremo di nuovo e ci perderemo; E un'altra volta ancora verrò in mezzo a voi. Pochi infatti mi hanno vista e nessuno mi ha capita. E tu ti dimenticherai di me e poi mi riconoscerai e ancora mi dimenticherai. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare delle piccole prostitute, e tu conoscerai il principio delle cose. Bonaparte lo squartatore, appena diciottenne, conobbe sotto le porte di ferro del Palais-Royal una piccola prostituta. Era pallida in viso e tremava dal freddo. «Bisogna pur vivere» gli disse lei. Né tu né io conosciamo il nome di questa ragazza che Bonaparte si portò in camera, una sera di novembre, in un albergo di Cherbourg. Veniva da Nantes, città di Bretagna. Stanca e debole, era stata da poco lasciata dal suo amante. Era semplice e buona e aveva una voce dal suono dolcissimo. Bonaparte serbò il ricordo di tutto questo. E io penso proprio che, più tardi, il ricordo del suono della voce di lei l'abbia commosso fino alle lacrime; e penso anche che l'abbia cercata a lungo, d'inverno, la sera, e che non l'abbia mai più rivista. Capita una volta sola - capisci? - che le piccole prostitute escano dalla calca notturna per un atto di bontà. Anna, per esempio, si precipitò in aiuto di Tommaso de Quincey, il mangiatore d'oppio, che stava sul punto di svenire sotto i grossi lampioni accesi della strada larga di Oxford. Gli occhi bagnati di lacrime, essa gli accostò alle labbra un buon bicchiere di vino dolce, e stette lì a baciarlo, a coccolarlo. Poi si dileguò nel buio. Probabilmente morì poco dopo. Aveva la tosse l'ultima sera che la vidi, disse de Quincey. Chissà, forse è rimasta in giro per le strade; eppure, per quanto egli l'abbia cercata con tutta la sua passione, affrontando e sfidando lo scherno della gente a cui si rivolgeva, Anna fu perduta per sempre. Quando, più tardi, egli ebbe una casa confortevole, spesso pensava, con le lacrime agli occhi, che la povera Anna avrebbe potuto vivere lì, insieme a lui; mentre invece se la immaginava ammalata o moribonda o afflitta, in mezzo al sudiciume senza scampo d'un b... di Londra, e lei, proprio lei aveva portato via con sé tutto l'amore, tutta la pietà del suo cuore. Vedi, esse lanciano un grido di compassione verso di voi e vi accarezzano la mano con la loro mano scarna. E vi capiscono solo se siete molto infelici, e piangono con voi e vi consolano. La piccola Nelly era uscita dalla sua casa infame per andare incontro al galeotto Dostoevskij; e, devastata dalla febbre, l'aveva guardato a lungo con i suoi immensi occhi neri e pieni di paure. La piccola Sonia (è esistita anche lei come le altre) aveva baciato l'assassino Rodion subito dopo la confessione del delitto. «Ti sei rovinato!» gli disse con accenti disperati. E balzando di colpo in piedi, gli si era gettata al collo; e mentre lo baciava, gridava in uno slancio colmo di pietà: «No! ormai al mondo non c'è nessuno più disgraziato di te!». Poi a un tratto era scoppiata in un pianto dirotto. La piccola Nelly, così come Anna e la ragazza senza nome che venne incontro al giovane e mesto Bonaparte, scomparve anch'essa, inghiottita dalla nebbia. Dostoevskij non disse mai cosa ne fu della piccola Sonia, così pallida, così smunta. Né tu né io sappiamo se seppe fino in fondo aiutare Raskolnikov durante la sua espiazione. Penso proprio di no. Se ne sarà andata, così, senza un lamento, fra le sue braccia, per aver sofferto troppo, amato troppo. Nessuna di loro, capisci, vi può restare vicina. Sarebbero troppo tristi, e poi non se la sentono di rimanere: si vergognano. Quando voi smettete di piangere, loro non osano più guardarvi in faccia.

Vi insegnano quello che hanno da insegnarvi, poi se ne vanno. Attraversano il gelo e la pioggia solo per baciarvi la fronte e asciugarvi gli occhi; poi, di nuovo, le tenebre orrende se le riprendono. Chissà, può darsi che debbano andare da qualche altra parte. Voi le conoscete solo quando traboccano di compassione. Allora non dovete pensare ad altro. Non dovete pensare a quello che hanno potuto fare nelle tenebre. E' vero: Nelly nell'orribile casa, Sonia accasciata ubriaca su una panchina del viale, Anna mentre riporta dal negoziante di una viuzza buia il bicchiere di vino vuoto, possono essere state oscene e crudeli. Sono creature di carne. Ma vedi, per fare dono, sotto il lampione acceso della strada maestra, di un bacio pietoso, esse vengono fuori da un vicolo cieco e buio. In quel momento lì sono divine. E si deve dimenticare tutto il resto. Monelle tacque e mi guardò: Sono uscita dalla notte, disse, e rientrerò nella notte. Perché, vedi, anch'io sono una piccola prostituta. E Monelle disse ancora: Ho pietà di te, ho pietà di te, mio amato. Eppure ritornerò nella notte; perché bisogna che tu mi perda prima di ritrovarmi. E quando mi ritroverai ti sfuggirò di nuovo: Ecco: io sono colei che è sola. E Monelle disse ancora: Giacché sono sola, mi chiamerai Monelle. Ma nei tuoi sogni, mi chiamerai con tutti gli altri nomi. E io sarò questa e sarò quella, e ancora quella che non ha nessun nome. E ti porterò in mezzo alle mie sorelle; le mie sorelle sono me stessa, e sono simili a prostitute senza cervello; E tu le vedrai, le vedrai straziate, in preda all'egoismo e alla voluttà, alla superbia e alla crudeltà, alla pazienza e alla pietà, perché non hanno ancora potuto trovare se stesse; E le vedrai andar lontano in cerca di se stesse; E tu stesso mi conoscerai e io stessa mi conoscerò; e tu mi perderai e io mi perderò. Poiché io sono colei che appena trovata viene perduta. E Monelle disse ancora: In questo stesso giorno una piccola creatura ti toccherà con la mano e poi fuggirà; Poiché tutte le cose sono fuggevoli; ma Monelle è la più fuggevole di tutte. E prima che tu mi ritrovi di nuovo, io ti istruirò in mezzo a questa pianura, e tu scriverai il libro di Monelle. E Monelle mi allungò una ferula cava dentro la quale ardeva un filamento rosa. - Prendi questa torcia, disse, e appicca il fuoco. Brucia tutto, sulla terra come in cielo. Poi, quando avrai finito di appiccare il fuoco, spezza la ferula e spegnila, affinché nulla possa venire trasmesso; In tal modo sarai tu il nuovo nartecoforo, e distruggerai mediante il fuoco, e il fuoco venuto dal cielo risalirà verso il cielo. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare della distruzione. La parola è questa: Distruggi, distruggi, distruggi. Distruggi in te stesso, distruggi attorno a te. Fa' spazio alla tua anima e a quella degli altri. Distruggi ogni bene, distruggi ogni male. Le macerie si assomigliano tutte. Distruggi le antiche dimore dell'uomo e le antiche dimore dell'anima. Le cose morte sono altrettanti specchi deformanti. Distruggi, che ogni creazione viene dalla distruzione. In vista della bontà superiore bisogna annientare la bontà inferiore. Così il nuovo bene apparirà saturo di male.

Per immaginare un'arte nuova bisogna spezzare l'arte antica. E così l'arte nuova apparirà come una sorta di iconoclastia. Giacché ogni costruzione è fatta di resti, e nulla è nuovo in questo mondo se non le forme. Eppure bisogna distruggere le forme. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare delle forme. La stessa ansia del nuovo non è altro che l'appetenza dell'anima quando desidera prendere forma. E le anime rifiutano le vecchie forme come i serpenti rifiutano la loro vecchia pelle. E gli infaticabili raccoglitori di vecchie pelli di serpente affliggono i giovani serpenti con il potere magico che acquistano su di loro. Poiché colui che possiede le vecchie pelli di serpente impedisce ai giovani serpenti di trasformarsi. E' per questo che i serpenti si liberano della loro scoglia nel verde cunicolo d'una fitta macchia; e una volta l'anno i più giovani di loro si radunano in cerchio per bruciare le loro vecchie pelli. Fatti dunque simile alle stagioni distruggitrici e formatrici. Costruisci la tua casa con le tue proprie mani e con le tue proprie mani bruciala. Non buttare macerie dietro di te; e che ciascuno si serva delle proprie rovine. Non edificare nelle tenebre trascorse. Lascia che le tue fabbriche vadano alla deriva. Al minimo slancio della tua anima, cerca di vedere edifici nuovi. Per ogni nuovo desiderio, fatti dei nuovi dei. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare degli dei. Lascia che gli antichi dei muoiano; non startene seduto come una prefica accanto alle loro tombe: Gli antichi dei fuggono via dai loro sepolcri; E non cercare di proteggere i giovani dei fasciandoli con bende; Che, non appena creato, si dilegui ogni dio; Che, non appena creata, ogni creazione perisca; Che il dio antico doni la propria creazione al più giovane affinché questi la riduca in polvere; Che ogni dio sia solo dio del momento. E Monelle disse ancora: Ti parlerò dei momenti. Guarda a ogni cosa sotto l'aspetto del momento. Lascia andare il tuo proprio io a seconda del momento. Pensa nel momento. I pensieri duraturi non sono che contraddizioni. Ama al momento. L'amore, quando perdura, non è altro che odio. Sii sincero con il momento. Quando la sincerità dura nel tempo, essa non è altro che menzogna. Sii giusto riguardo al momento. La giustizia duratura non è altro che ingiustizia. Agisci riguardo al momento. Le azioni durature non sono altro che un regno defunto. Sii felice con il momento. La felicità che perdura diventa infelicità. Onora tutti i momenti, e guardati dal costruire legami fra le cose. Non trattenere il momento: non faresti che sfinire un'agonia. Vedi: ogni momento è insieme culla e bara; fa' che la vita e la morte ti appaiano entrambe singolari e nuove. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare della vita e della morte. I momenti sono simili a asticelle bipartite, metà bianche e metà nere; Non accomodare la tua vita combinando disegni con le parti bianche. Poiché ti ritroverai, in seguito, con i disegni fatti di parti nere; Fa' che ogni nera infamia sia attraversata dall'attesa di un candore futuro.

Non dire: ora sono vivo, domani morirò. Non dividere la realtà in vita e morte. Dì invece: ora sono vivo e sono morto. Esaurisci in ogni momento la totalità positiva e negativa delle cose. La rosa d'autunno dura una stagione; ogni mattina si apre, ogni sera si chiude. Sii simile alle rose: offri le tue foglie ai rapimenti della voluttà e al calpestìo del dolore. Fa' che ogni estasi muoia in te e che ogni voluttà brami di morire. Fa' che ogni dolore sia in te come il passaggio d'un insetto pronto a spiccare il volo. Non racchiudere in te l'insetto roditore. Non innamorarti di questi neri carabi. Fa' che ogni gioia sia in te come il passaggio d'un insetto pronto a spiccare il volo. Non racchiudere in te l'insetto succhiatore. Non innamorarti di queste cetonie dorate. Fa' che ogni intelligenza risplenda e si spenga in te il tempo d'una folgore. Che la tua felicità sia divisa in folgorazioni: in tal modo la tua gioia si farà uguale a quella degli altri. Che la tua contemplazione dell'universo sia atomistica. E non opporti alla natura. Non appoggiarti alle cose col peso della tua anima. E che la tua anima non si sottragga agli sguardi come fanno i bambini cattivi. Sii in pace con la luce rossa del mattino e con quella grigia della sera. Sii insieme alba e crepuscolo. Mescola insieme vita e morte e fanne tanti momenti. Non attendere la morte: essa è in te. Sii suo compagno e stringila al petto; essa è un altro te stesso. Muori di morte tua: non invidiare le morti passate. Varia i tipi di morte a seconda dei tipi di vita. Tratta ogni cosa incerta come se fosse viva, ogni cosa certa come se fosse morta. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare delle cose morte. Brucia accuratamente i morti, e spargine le ceneri ai quattro punti del cielo. Brucia accuratamente le stagioni passate, e soffocane le ceneri: poiché ne potrebbe rinascere una Fenice in tutto simile alla prima. Non giocare coi morti e non accarezzare il loro volto. Non ridere insieme a loro e non piangere su di loro: dimenticali. Non fidarti delle cose passate. Non perdere tempo a costruire feretri per i momenti passati: pensa piuttosto a sopprimere i momenti a venire. Diffida di tutti i cadaveri. Non baciare i morti: essi soffocano i vivi. Abbi per le cose morte il rispetto che si ha per le pietre da costruzione. Non sporcare le tue mani su righe consunte. Purifica le tue dita dentro acque nuove. Respira il respiro della tua bocca e non chinarti su àliti già morti. Non adorare le vite passate più di quanto adori la tua propria vita passata. Non fare tesoro delle buste vuote. Non portare dentro di te nessun cimitero di sorta. I morti portano la pestilenza. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare delle tue azioni. Che ogni coppa d'argilla che ti viene passata, ti si frantumi fra le mani. Spezza tutte le coppe nelle quali avrai bevuto. Spegni la lampada della vita che il maratoneta ti affida: le antiche fiaccole fanno solo fumo. Non accettare in làscito nulla da te stesso, piacere o dolore che sia. Non essere schiavo di nessuna veste dello spirito o del corpo che sia. Non colpire mai due volte con lo stesso lato della mano. Non specchiarti nella morte: lascia che l'acqua che scorre trascini via la tua immagine. Rifuggi dalle rovine e non piangere in mezzo ad esse. Quando, la sera, ti togli i vestiti, spogliati dell'anima che hai avuto durante il giorno: spogliati di tutto ad ogni istante.

Ogni soddisfazione ti sembrerà fatale. Dàlle una frustata d'energia. Non digerire i giorni passati: cibati delle cose future. Non confessare le cose passate: esse sono già morte. Confessa a te stesso le cose future. Non chinarti a raccogliere i fiori lungo i sentieri. Accontentati delle sembianze. Ma poi abbandona la sembianza e non voltarti indietro. Non voltarti mai indietro: dietro di te incalza il latrato delle fiamme di Sodoma, e rischieresti di venir tramutato in statua di lacrime pietrificate. Non guardarti mai indietro. E non guardare mai troppo davanti a te. Se ti guardi dentro, che tutto sia candido. Che nulla ti stupisca dinanzi al confronto col ricordo: stupisciti di tutto nella novità dell'ignoranza. Che ogni cosa sia per te fonte di stupore: giacché tutte le cose sono diverse nella vita e simili nella morte. Edifica nel diverso; distruggi nel simile. Non rivolgerti verso ciò che permane: ciò che permane non sta né in cielo né in terra. E poiché la ragione permane, tu la distruggerai, e lascerai che la tua sensibilità muti. Non aver paura di contraddirti: non vi è contraddizione dentro il momento. Non amare il tuo dolore: poiché non durerà a lungo. Guarda alle tue unghie come crescono, e alle piccole scaglie che si staccano dalla tua pelle. Dimenticati di ogni cosa. Con un punteruolo acuminato ti preoccuperai di uccidere uno per uno i tuoi ricordi, come faceva quell'antico imperatore con le mosche. Non far durare il piacere del ricordo fino all'avvento del futuro. Non ricordare e non prevedere. Non dire: lavoro per ottenere, lavoro per dimenticare. Dimentica l'acquisizione e il lavoro. Ribellati ad ogni tipo di lavoro, ad ogni tipo di attività che ecceda il momento. Che il tuo cammino non sia un percorso da un punto a un altro punto: non è affatto di questo che si tratta; ma piuttosto fa' che ogni tuo passo sia un proiettarsi eretto. Con il piede sinistro cancellerai le orme del piede destro. La mano destra deve disconoscere quanto ha appena fatto la mano destra. Non devi conoscere te stesso. Non devi preoccuparti della tua propria libertà; dimenticati di te stesso. E Monelle disse ancora: Ti voglio parlare delle mie parole. Le parole sono parole nel momento in cui sono dette. Le parole tenute in serbo sono parole morte e generano pestilenza. Ascolta le mie parole dette e non seguire le mie parole scritte. Così parlò Monelle nella pianura. Poi tacque e si rabbuiò in volto; giacché sapeva di dover rientrare nella notte. E da lontano mi disse: Dimenticami e ti sarò restituita. Girai allora lo sguardo intorno per la pianura, e vidi spuntare le sorelle di Monelle.

2. LE SORELLE DI MONELLE.

L'EGOISTA. Dalla siepe che recintava la grigia casa per educande ritta in cima alla scogliera, venne fuori un braccino di bambina, teso ad allungare un pacco legato con un nastrino rosa. - Prendi questo intanto, disse una vocina di bimbetta. Stai attento che si rompe. Mi aiuterai dopo. Una pioggia minuta cadeva uniformemente sulle anfrattuosità della roccia, sulla baia profonda, sforacchiando il risucchio delle onde ai piedi della scogliera. Il mozzo che stava spiando oltre il recinto si fece avanti, e disse con voce sommessa: - Passa di qua, sbrigati. La bimba gridò: - No, no e no! Non posso. Prima devo nascondere il mio pacco; voglio portar via con me la mia roba. Egoista; egoista che non sei altro! Non vedi che mi bagno tutta! Il mozzo storse la bocca e afferrò il pacchettino. Inzuppata d'acqua, la carta cedette, e rotolarono fuori nel fango: triangolini a fiorami di seta gialla e viola, nastri di velluto, calzoncini di batista per bambole, un cuoricino d'oro cavo munito di cerniera, nonché un rocchetto nuovo di filo rosso. La bambina scavalcò la siepe; si punse le dita sui rami più duri e le sue labbra tremarono. - Ecco, vedi, disse, sei stato testone. Adesso tutte le mie cose sono rovinate. Il naso le si sollevò, le sopracciglia si riunirono, la bocca si allargò, ed essa scoppiò in lacrime. - Lasciami in pace, lasciami in pace! Non voglio più vederti. Vattene via! Mi hai fatto piangere. Voglio ritornare dalla Signorina. Raccolse mestamente le sue pezzuole. - Il mio bel rocchetto l'ho perso, disse. E pensare che volevo ricamare il vestitino di Lilli! Dalla tasca paurosamente sfondata del suo gonnellino spuntava una bella testolina di porcellana, munita di una straordinaria zazzeretta bionda. - Vieni, le sussurrò il mozzo. Sono sicuro che la tua Signorina ti cerca già da un bel po'. E lei, asciugandosi le lacrime col dorso della manina macchiata d'inchiostro, si lasciò condurre via. - Cosa diavolo è successo stamattina? chiese il mozzo. Ieri non volevi già più venire. - Mi ha picchiata col manico della scopa, disse la bimba stringendo le labbra. Mi ha picchiata e rinchiusa nella carbonaia, insieme ai ragni e a tutte le altre bestie schifose. Quando tornerò, metterò la scopa nel suo letto, brucerò la sua casa col carbone e l'ammazzerò con le sue forbici. Ecco. (Protese le labbra a mo' di broncio.) Oh! portami via lontano da qui che non la riveda più. Mi fanno paura i suoi occhiali e la sua aria da puzza al naso. Mi sono vendicata, sai, prima di partire. Figurati che lei aveva il ritratto della sua mamma e del suo papà, in robini di velluto, sul caminetto. Certi vecchi, sai; non come la mia mamma. Tu non puoi nemmeno immaginarteli. Li ho tutti scarabocchiati di sale d'acetosella. Così saranno orribili. Peggio per lei. Potresti anche rispondermi, no? Il mozzo alzò gli occhi. Il mare coperto di vapori era plumbeo. Un velo di pioggia offuscava tutta la baia. Non si scorgevano più né scogli né boe. Solo qua e là, fasci di alghe nere aprivano l'umida coltre, intessuta di stille a fili. - Non ce la faremo a camminare stanotte, disse il mozzo. Ci toccherà andare nella casupola dei doganieri, lì c'è del fieno. - Non voglio, è troppo sporco! urlò la bambina. - Questa poi, disse il mozzo. Hai forse voglia di rivedere la tua Signorina? - Egoista! disse la bambina; e scoppiò in un pianto dirotto. Non sapevo che eri così. Se almeno l'avessi saputo, Dio mio! e pensare che non ti conoscevo! - Nessuno ti ha chiesto di venir via. Sono stato io forse a chiamarti l'altro giorno, quando passavo per la strada? - Io ti ho chiamato? Oh, che bugiardo! Io non sarei partita se tu non me l'avessi chiesto. Avevo paura di te. Voglio andarmene via. Non voglio dormir sul fieno. Voglio il mio letto. - Sei liberissima, disse il mozzo. La bambina continuò a camminare stringendosi nelle spalle. Poi, dopo qualche minuto, disse: - Se accetto, è solo perché sono tutta bagnata, per così dire.

La casupola faceva bella mostra di sé sul versante che dava sul mare. I fili di paglia piantati nel terriccio del tetto grondavano acqua silenziosamente. La bambina e il mozzo diedero una spinta all'asse che fungeva da porta. Sul fondo vi era una specie di alcova fatta di coperchi di casse, e tutta imbottita di fieno. La bambina si sedette. Il mozzo le coprì le gambe e i piedi con erba secca. - Mi punge, disse lei. - Ti riscalderà, disse lui. Il mozzo si sedette accanto alla porta e, battendo i denti per l'umidità, stette a guardare come si metteva il tempo. - Non avrai mica freddo! disse la bambina. Poi magari ti ammali, e allora che ne sarà di me? Il mozzo scosse il capo. Tutti e due rimasero senza dir nulla. Si percepiva il crepuscolo nonostante il cielo fosse coperto. - Ho fame, disse la bambina. Stasera dalla Signorina si mangia l'oca arrosto con le castagne. Ecco, tu non hai pensato proprio a niente. Avevo portato con me un po' di pane... Guarda qui come si è ridotto! E allungò la mano. Aveva le dita tutte impiastricciate di panata fredda. - Vado a cercare un po' di granchi, disse il mozzo. Ce ne sono tanti verso le Pietre Nere. Prenderò qui giù la barca dei doganieri. - Avrò paura da sola. - Ma, non volevi mangiare? La bambina non rispose. Il mozzo si scrollò di dosso le pagliuzze rimaste attaccate al suo camiciotto, e scivolò fuori, ove fu subito inghiottito dalla pioggia grigia. La bambina sentì il rumore dei suoi passi succiati dal fango. Poi vennero le raffiche e l'immane silenzio ritmato delle grandi piogge. Venne il buio, ancora più fitto, ancora più triste. L'ora della cena dalla Signorina era già passata. L'ora della nanna era già passata. Laggiù, sotto le lampade a olio, tutte quante dormivano nei bianchi lettini rimboccati. Lo stridere dei gabbiani annunciava la tempesta. Il vento cominciò a turbinare, mentre il rombo dei cavalloni rimbombava lungo le anfrattuosità della scogliera. In attesa di una qualche cena la bambina si addormentò; poi si risvegliò. Il mozzo stava sicuramente giocando con i granchi. Che egoista! Lei sapeva benissimo che sull'acqua le barche galleggiano sempre. La gente che annega è la gente che non ha barca. - Rimarrà di stucco quando vedrà che sto dormendo, pensò fra sé. Io non gli risponderò una sola parola. Farò finta. Così impara. Nel cuore della notte fu svegliata dalla luce di una lanterna, alta sopra di lei. Un uomo in gabbano e cappuccio l'aveva scoperta, tutta rannicchiata come un topino. Aveva egli la faccia lucida di acqua e di luce... - Dov'è la barca? disse. E lei esclamò piena di stizza: - Ecco! me lo immaginavo! non solo non m'ha preso i granchi ma ha anche perso la barca! LA VOLUTTUOSA. - Spaventoso, guarda che roba! disse la bambina; esce sangue bianco! Con le unghie era intenta ad incidere alcune teste di papaveri ancora verdi. Il suo amichetto la guardava pacifico. Si erano divertiti a giocare a guardie e ladri in mezzo ai castagni, a scappucciare le ghiande novelle, a bombardare le rose con i marroni appena raccolti; e poiché il gatto non smetteva di miagolare, lo avevano messo sugli stecconi del recinto. Il fondo del buio giardino, là dove si drizzava un albero biforcuto, era stato eletto a isola di Robinson. La rosetta di un annaffiatoio era servita da tromba di guerra per l'attacco contro i selvaggi. Certi fili d'erba dalla

lunga estremità nera erano stati prima presi in ostaggio e poi decapitati. Alcune cetonie verdi e blu, catturate dai piccoli cacciatori, alzavano goffamente le elitre dentro la secchia del pozzo. I due avevano rovinato i viali, rigandone profondamente la sabbia a furia di farvi sfilare intere armate munite di bastoni da parata. Avevano appena portato a termine l'assalto a un verde poggio della prateria. Il sole del tramonto inondava i due piccoli amici di una luce gloriosa. Vinti dalla stanchezza, si stabilirono sulle posizioni conquistate, al fine di ammirare le lontane nebbie scarlatte dell'autunno. - Se io fossi Robinson, disse il bambino, e tu Venerdì, e se laggiù ci fosse una grande spiaggia, andremmo a cercare le orme dei piedi dei cannibali sulla sabbia. Dopo un attimo di riflessione, la bambina rispose: - Tu dici che Robinson picchiava Venerdì per farsi ubbidire? - Non mi ricordo più, rispose il bambino; so che tutti e due gliele hanno date a quei brutti vecchi spagnoli e ai selvaggi del paese di Venerdì. - Non mi piacciono queste storie, disse lei; sono giochi per maschi. Fra poco ci sarà buio. E se giocassimo alle favole? Avremmo paura per davvero. - Paura per davvero? - Ma guarda che la casa dell'Orco, quello dai denti lunghi lunghi, viene ogni sera in mezzo al bosco, sai! Egli la guardò attentamente e fece schioccare le mascelle: - Già. E quando mangia le sette principesse, fa "gnam, gnam, gnam". - No, questo no, disse lei; si può solo giocare all'Orco o a Pollicino. Il nome delle principessine, nessuno lo sa. Facciamo così; io ero la Bella addormentata nel suo castello e tu venivi a svegliarmi. Bisognerà baciarmi forte forte. Sai come sono i principi quando baciano. Tutto intimidito, il bambino rispose: - Credo che sia troppo tardi per dormire sull'erba. La Bella addormentata, lei dormiva nel suo letto, in un castello circondato da rovi e fiori. - Allora giochiamo a Barbablù, disse lei. Io ero tua moglie e tu mi proibivi di entrare nella stanzetta. Allora cominciamo: tu venivi per sposarmi. «Mio Signore, non saprei... Le altre sue mogli sono sparite in un modo alquanto misterioso. E' vero che lei ha una gran bella barba blu e che la sua dimora è un magnifico castello. Ma, mi dica, mai e poi mai mi farà del male, vero?». Gli lanciò uno sguardo implorante. - Ecco, adesso tu avevi chiesto la mia mano e i miei genitori avevano accettato. Ci eravamo sposati. Tu mi davi tutte le chiavi e io... «ma cos'è questa piccola chiave qui, carina carina?». Adesso tu fai il vocione e mi proibisci di aprire. Ecco, ora te ne andavi e io disubbidivo subito. «Aiuto! aiuto! che spavento! sei mogli uccise!». Io svenivo e tu arrivavi per sorreggermi. Ecco. Tu tornavi ad essere Barbablù e poi mi sgridavi. «Mio Signore, non so proprio, io la chiave non l'ho toccata». Tu urlavi. E io: «Perdono, perdono mio Signore; eccola qui, era in fondo alla mia tasca». Allora tu guardavi la chiave... Ma senti un po', non mi ricordo più: c'era sangue sulla chiave o no? - Sì, sì, disse il bambino, una grossa macchia di sangue. - Ah sì, ora mi viene in mente, disse lei. Io l'avevo strofinata più volte ma non ero riuscita a farla andar via. Era il sangue delle sei mogli? - Delle sei mogli. - Lui le ha ammazzate tutte perché erano entrate nella stanzetta, vero? E come faceva ad ammazzarle? Le sgozzava o le appendeva nello sgabuzzino nero? E il sangue veniva fuori dai loro piedi fino al pavimento? Era sangue rosso cupo, non come il sangue dei papaveri quando li graffio. Ti fanno mettere in ginocchio per tagliarti la gola, dico bene? - Credo proprio che bisogna inginocchiarsi, disse lui. - Vedrai com'è divertente, disse lei. Tu mi taglierai la gola come per davvero? - Sì, ma Barbablù non ha potuto sgozzarla. - Non importa, disse lei. Come mai Barbablù non ha tagliato la testa a sua moglie? - Perché sono venuti i fratelli di lei.

- E lei aveva paura, vero? - Molta paura. - E gridava? - Chiamava la sorella Anna. - Io, non avrei gridato. - Già, ma allora Barbablù avrebbe fatto in tempo ad ammazzarti. Anna la sorella era in cima alla torre, e guardava l'erba verdeggiante. I suoi fratelli erano dei moschettieri molto robusti, e sono arrivati al galoppo sui loro cavalli. - Non voglio giocare in questo modo, disse la bambina. Non mi diverto per niente. Non ho nessuna sorella Anna, io, lo sai bene. Si girò verso di lui con grazia consumata e disse: - Visto che i miei fratelli non verranno, bisognerà ammazzarmi, caro Barbablù; devi ammazzarmi forte forte. E si inginocchiò. Lui le prese i capelli, li ribaltò in avanti e alzò la mano. Fragile, con le palpebre abbassate e le ciglia mosse da un lieve tremito, gli angoli della bocca piegati in un sorriso d'eccitazione, essa porgeva la peluria della nuca, il collo, le spalle voluttuosamente insaccate, al taglio tremendo della spada di Barbablù. - Uh... uuh! gridò la bambina. Chissà che male! LA PERVERSA. - Madge! La voce salì dall'apertura quadrata del pavimento. Un'enorme vite di legno di quercia levigato attraversava il tetto rotondo e girava mandando cigolìi. La grande ala di tela grigia fissata con chiodi ad uno scheletro di legno palpitava all'altezza dell'abbaino in mezzo al pulviscolo del sole. Sotto, due mostri di pietra sembravano agitarsi in una lotta concertata, mentre il mulino si scuoteva tutto sin dalle fondamenta. Ogni cinque minuti, un'ombra lunga e diritta tagliava in due la cameretta. La scala a pioli che portava alla parte più alta era cosparsa di farina. - Madge, allora vieni? riprese la voce. Madge aveva la mano appoggiata sulla vite di quercia. Un lieve, continuo strofinìo le solleticava la pelle, mentre, leggermente piegata in avanti, guardava la campagna distesa. Il poggio tondo del mulino vi si ergeva come una testa rapata. Le ali girevoli toccavano quasi l'erba minuta su cui le loro ombre nere si rincorrevano senza raggiungersi mai. Sembrava che migliaia di asini si fossero grattata la schiena contro il muro appena cementato, tanto numerose apparivano, sotto l'intonaco, le macchie grigie delle pietre. Giù dal colle, un sentiero solcato da profonde, dure carreggiate, scendeva sino a raggiungere il grande stagno ove strati di foglie rosse stavano a marcire. - Madge, noi andiamo via! urlò ancora la voce. - E va bene, andatevene, rispose Madge a bassa voce. La porticina del mulino cigolò. Madge vide tremare le orecchie dell'asino che stava tastando cautamente l'erba con lo zoccolo. Un enorme sacco era accasciato sul basto. L'anziano mugnaio e il lavorante punzecchiavano il deretano della bestia. Scesero tutti lungo il sentiero infossato. Madge restò sola, la testa fuori dall'abbaino. I suoi genitori l'avevano trovata, una sera, distesa bocconi sul letto, con la bocca piena di sabbia e di carbone; perciò avevano deciso di consultare i medici. Questi consigliarono di mandare Madge in campagna, affinché si stancasse le gambe, la schiena e le braccia. Ma da quando era arrivata al mulino, fin dall'aurora se ne andava sotto il tettuccio, da dove stava a guardare l'ombra roteante delle ali. A un tratto, un brivido la percorse dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi. Qualcuno aveva sollevato il paletto della porta.

- Chi c'è? chiese Madge attraverso l'apertura quadrata. Sentì una voce fievole: - Se potessi avere un po' d'acqua; ho tanta sete. Madge guardò attraverso i pioli della scala. Era un vecchio mendicante di campagna. Aveva una pagnotta nella bisaccia. - Ha del pane, pensò Madge; peccato che non sia affamato. Madge amava i mendicanti alla stessa stregua dei rospi, delle lumache e dei cimiteri: con un misto di orrore. Gli gridò: - Aspettate un attimo! Poi scese la scaletta, con la schiena rivolta ai pioli. Quando fu giù disse: - Siete molto vecchio, e avete sete lo stesso? - Eh, sì, cara la mia signorina, disse il vecchio. - I mendicanti hanno fame, continuò Madge con spavalderia. A me piace il gesso. Guardate. E così dicendo staccò dal muro un pezzo di intonaco bianco e se lo mangiò. Poi disse: - Sono andati via tutti. Non ho bicchieri. Lì c'è la pompa. E gli indicò il manico ricurvo. Il vecchio mendicante si chinò; e mentre tracannava l'acqua direttamente dal tubo, Madge adagio adagio gli sfilò il pane dalla bisaccia, e lo ficcò in un mucchio di farina. Quando il vecchio si girò, gli occhi di Madge danzavano il minuetto. - Da questa parte c'è un grande stagno, disse lei. I poveri possono berci. - Non siamo mica bestie, disse il vecchio. - No, continuò Madge, ma voi siete infelice. Se avete fame, posso andare a rubare un po' di farina e darvene un po'. Con l'acqua dello stagno, stasera, potrete prepararvi la pasta per il pane. - Cosa ne faccio della pasta cruda! disse il mendicante. Mi hanno già dato un po' di pane. Grazie mille, signorina. - E cosa fareste se vi mancasse il pane? Io, se fossi vecchia, mi butterei nell'acqua. Gli annegati sono senz'altro molto felici. Credo siano anche molto belli. Come vi compatisco, buon uomo. - Dio sia con voi, cara signorina, disse il vecchio. Sono molto stanco. - Forse avrete fame stasera, gli gridò dietro Madge, mentre quello scendeva il declivio del colle. Vero, brav'uomo, che avrete fame? Dovete mangiarlo il vostro pane, e se avete i denti guasti dovete prima inzupparlo nell'acqua dello stagno. Lo stagno è molto profondo. Madge stette lì in ascolto, finché non sentì più il rumore dei passi del mendicante. Poi, piano piano, tirò fuori il pane dalla farina, e lo guardò. Era una grossa pagnotta nera di campagna; ora tutta macchiata di bianco. - Che schifo! disse. Se fossi povera, ruberei il pane dorato nelle belle panetterie. Quando il mastro mugnaio rientrò, trovò Madge distesa supina, la testa affondata nella farina appena macinata. Stringeva a sé la pagnotta con le due mani; e con gli occhi sporgenti, e le guance rigonfie, e la lingua violacea stretta fra i denti, tentava di imitare alla meglio la figura d'una persona annegata. A cena, finita la minestra, Madge disse: - Signore, è vero che una volta, tanto tanto tempo fa, viveva in questo mulino un enorme gigante che faceva il pane con le ossa dei morti? - Tutte storie, disse il mugnaio. Ma sotto la collina ci sono delle camere di pietra, e una società voleva comprarmele per farci degli scavi. E io dovrei buttar giù il mio mulino? Fossi matto! Basta che aprano le vecchie tombe delle loro città: marciscono già abbastanza quelle. - Io dico che le ossa dei morti fanno molto rumore, disse Madge. Forse più del suo grano, che ne dice Lei? e sono sicura che il gigante ne faceva un pane buonissimo, veramente buono; e se lo mangiava, altroché se lo mangiava! Giovanni il lavorante alzò le spalle. Il mulino non si scuoteva più. Il vento non gonfiava più le sue ali. I due mostri rotondi di pietra avevano cessato di lottare. Stavano l'uno sull'altro, in silenzio. - Signore, riprese ancora Madge, una volta Giovanni mi disse che si possono ritrovare gli annegati

con un pane dove si mette un po' d'argento vivo. Si fa un piccolo buco nella crosta, e si versa l'argento vivo. Poi si butta il pane nell'acqua, e questo si ferma giusto sopra l'annegato. - Che ne so, io? disse il mugnaio. Queste non sono cose da giovani signorine. Cosa sono queste storie, Giovanni? - E' stata la signorina Madge a chiedermelo, rispose il lavorante. - Io ci metterei dei pallini da caccia, disse Madge. L'argento vivo non esiste qui da noi. Non è detto che non ci siano degli annegati nello stagno. Davanti alla porta, attese il crepuscolo, con la pagnotta sotto il grembiule e una manciata di pallini nel pugno. Il mendicante avrà avuto fame di sicuro. E si sarà annegato nello stagno. Lei avrebbe recuperato il corpo, e avrebbe prima macinato un po' di farina, e poi lavorato la pasta con le ossa del morto, tale e quale come il gigante. LA DELUSA. Al congiungimento dei due canali, c'era una chiusa profonda e scura. L'acqua immobile era verde fin sotto i muraglioni. Le imposte della capanna del guardiano, fatte di assi incatramate, senza neanche un fiore, sbattevano ai colpi del vento; dalla porta socchiusa, si poteva scorgere l'esile figura di una bambina, i capelli lunghi e sciolti, il vestito raccolto tra le gambe. Ciuffi di ortiche si piegavano e si rialzavano lungo il bordo del canale, mentre nugoli di semi alati, da autunno avanzato, volteggiavano, insieme a brevi folate di polline bianco. La capanna sembrava vuota; la campagna era tetra; una striscia d'erba giallastra si perdeva all'orizzonte. La luce incerta del giorno si stava affievolendo, quando si udì l'ansimare del piccolo rimorchiatore. Sbucò fuori oltre la chiusa, insieme alla faccia tutta macchiata di carbone del fuochista, che guardava indifferente dalla porta di lamiera. Dietro l'imbarcazione, una lunga catena arrancava nell'acqua. Dietro ancora, galleggiava senza fretta un'ampia chiatta scura e bassa, con in mezzo una linda casettina bianca, con le sue brave finestrelle tonde e dorate; tutt'attorno si arrampicavano convolvoli rossi e gialli, mentre ai lati dell'ingresso c'erano àlvei di legno riempiti di terra, nei quali crescevano mughetti, gerani e amorini. Un uomo, intento a sbattere una blusa bagnata sul bordo della chiatta, disse a colui che impugnava il gancio d'attracco: - Mahot, cosa ne dici di mangiare un boccone prima della chiusa? - Ci sto, rispose Mahot. Questi sistemò la gaffa, scavalcò una matassa di cordame acciambellato, e si sedette in mezzo ai due àlvei di fiori. Il suo compagno gli dette una manata sulla spalla, entrò nella casettina bianca e ne uscì con un cartoccio unto, una pagnotta oblunga e una brocca di terracotta. Un colpo di vento, e l'involucro inzuppato d'olio si ritrovò sui cespi di mughetto. Mahot riuscì ad acciuffarlo e a buttarlo dalla parte della chiusa. La carta volò via e atterrò fra i due piedi della bambina. - Ehi, voi lassù! buon appetito! gridò l'uomo; noi qui, si cena. E aggiunse: - Mi chiamo l'Indiano, se permette, paesana mia. Potrai dire ai tuoi amici che ci hai visti passare. - La vuoi smettere, Indiano, disse Mahot. Lascia stare la gioventù. E' per via della sua pelle scura, signorina, che lo chiamano così sulle chiatte. E una vocina sottile sottile rispose loro: - Dove state andando, voi altri della chiatta? - Portiamo il carbone in Provenza, gridò l'Indiano. - Dove c'è tanto sole? disse la vocina. - Dove ce n'è tanto che l'amico ha la pelle tutta incartapecorita. E la vocina riprese, dopo una pausa: - Ehi, voi della chiatta, che ne direste di portarmi via con voi? Mahot rimase di sasso col boccone in bocca. L'Indiano posò la brocca per ridere meglio. - Senti, senti questa - "voi della chiatta"!, disse Mahot. Ma brava la mia Chiattina! E la tua chiusa allora? Domani si vedrà. E poi cosa direbbe il papà?

- Guarda guarda! ci si ammuffisce da queste parti? chiese l'Indiano. La vocina non disse più niente, e l'esile figura pallida rientrò nella capanna. Al calar della notte le pareti del canale si chiusero. L'acqua verde salì lungo le saracinesche. Non si vedeva altro che la luce tremolante d'una candela dietro le tendine rosse e bianche della casetta. Prese inizio lo sciabordio ritmato contro la chiglia, e la chiatta, sollevandosi, dondolava tutta. Poco prima dell'alba, i cardini cigolarono in un gran rotolìo di catene, e, mentre la saracinesca si alzava, l'imbarcazione scivolò via, trainata dal piccolo rimorchiatore ansimante. Le prime nubi rosate si rispecchiavano da poco sui vetri rotondi, quando la chiatta si allontanò da quella malinconica campagna ove un vento gelido soleva piegare le ortiche. L'Indiano e Mahot furono svegliati dal tenero ciangottìo di una vocina flautata e da colpettini battuti sui vetri. - I passerotti hanno patito il freddo stanotte, vecchio mio, disse Mahot. - No, disse l'Indiano, si tratta di una passerottina: è la piccola della chiusa. E' qui, parola d'onore. Accidenti a lei. Non poterono trattenere un sorriso. La ragazzina era rossa d'aurora. Con la sua vocina sottile sottile disse: - Mi avete detto che potevo venire domani mattina. E adesso è già domani mattina. Vengo con voi nel sole. - Nel sole? disse Mahot. - Sì, sì, riprese la bambina. So dove. Dove ci sono le mosche verdi e le mosche azzurre che illuminano la notte; dove ci sono uccellini non più alti di un'unghia che vivono sopra i fiori; dove l'uva cresce sugli alberi; dove il pane è appeso ai rami e il latte è dentro le noci; dove ci sono le rane che abbaiano come i cani, e... quelle altre cose ancora che vanno dentro l'acqua, le... zucche - no -, insomma quelle bestiole che tirano dentro la testa nel guscio. Le si mette sul dorso; servono a fare la zuppa. Sono le... zucche. No..., non mi ricordo più... aiutatemi. - Vai a capirci qualcosa, disse Mahot. Che siano le tartarughe? - Sì, sì, disse la bambina, sono le... tartarughe. - E chi più ne ha più ne metta! disse Mahot. E tuo papà? - E' mio papà che me l'ha raccontato. - Questa poi! disse l'Indiano. T'ha raccontato cosa? - Tutto quello che v'ho detto: le mosche che illuminano, gli uccelli, le... zucche. Volete che vi dica? Mio papà era un marinaio prima di aprire la chiusa. Ma ora papà è vecchio. E da noi piove sempre. Qui ci sono solo erbacce. Sapete la più bella? Io volevo fare un giardino, un bel giardino all'interno della nostra casa. Fuori c'è troppo vento. Volevo togliere le assi in mezzo al pavimento; ci avrei messo della buona terra, e poi un po' d'erba, e poi rose, e fiori rossi che si richiudono di notte, e ancora due o tre uccellini, e usignoli e verdoni e fanelli per parlarci assieme; ma papà me l'ha proibito. Mi ha detto che avrei rovinato la casa e che avrebbe fatto troppa umidità. A me non piace l'umidità. E così vengo con voi per andare laggiù. La chiatta filava piano piano. Sulle rive del canale, gli alberi scorrevano via uno dietro l'altro. La chiusa era lontana, e ormai non si poteva più virare di bordo. Davanti, il rimorchiatore lanciava il suo fischio. - Ma non vedrai un bel niente, disse Mahot. Non andiamo mica sul mare. Non troveremo mai né le tue mosche, né i tuoi uccellini, né le tue rane. Forse ci sarà un po' di sole, ecco tutto. Vero, Indiano? - Ma certo, disse l'Indiano. - Come, ma certo, ripeté la bambina. Bugiardi! so tutto, va là. L'Indiano fece spallucce. - Non lasciarti morire di fame però, disse. Vieni a mangiare la minestra, Chiattina. E il nome le restò. Lungo i canali grigi e verdi, gelidi e tepidi, essa rimase sulla chiatta a far loro compagnia, in attesa di vedere il paese dei miracoli. La chiatta costeggiò i campi bruni, con i loro delicati germogli: poi venne il tempo in cui gli esili frùtici presero a muovere le foglioline; e le

messi biondeggiarono, mentre i papaveri si rizzavano verso le nubi a mo' di coppelle rosse. Ma con l'arrivo dell'estate Chiattina perse la sua allegria. Seduta fra gli àlvei dei fiori, mentre l'Indiano e Mahot manovravano il gancio d'attracco, essa pensava di essere stata ingannata. Infatti, sebbene il sole gettasse i suoi cerchi festosi sul pavimento, attraverso i vetri dorati, malgrado la presenza dei martin pescatori che incrociavano sull'acqua, e delle rondini che scuotevano il becco bagnato, essa non aveva scorto nessuno di quegli uccelli che vivono sopra i fiori, né l'uva che rampica sugli alberi, né le grosse noci piene di latte, né le rane uguali ai cani. La chiatta era giunta in Provenza. Sui bordi del canale, le case erano coperte di foglie e di fiori. Le porte erano coronate di pomodori rossi, e alle finestre pendevano cortine di peperoncini infilzati. - Tutto qui! disse un giorno Mahot. Fra poco sbarcheremo il carbone e torneremo. Il papà sarà felice, eh? Chiattina scosse la testa. La mattina dopo, quando l'imbarcazione era ancora all'ormeggio, i due uomini sentirono di nuovo picchiare ai vetri rotondi. - Bugiardi! gridò una vocina sottile sottile. L'Indiano e Mahot uscirono dalla casetta. Dalla riva del canale, un'esile figura pallida si girò verso di loro; e Chiattina, fuggendo dietro l'argine, gridò loro un'altra volta: - Bugiardi! bugiardi che non siete altro! LA SELVAGGIA. Il padre di Ceppetta la portava nel bosco allo spuntar del giorno, e lei rimaneva seduta al suo fianco mentre lui abbatteva gli alberi. Ceppetta vedeva l'ascia conficcarsi nel tronco e far volar via per prime sottili scaglie di corteccia; spesso, le arrivavano in faccia ciuffi interi di muschio grigio. «Attenta!» gridava il padre di Ceppetta quando l'albero si piegava in un frastuono che sembrava venire da sottoterra. Essa si faceva un po' triste nel vedere il mostro lungo disteso nella radura, i rami martoriati, le fronde ferite. La sera, un cerchio rosso di tondelli di carbone ardeva nel buio. Ceppetta sapeva quando era l'ora di aprire la cesta di giunco: allora allungava al padre la brocca di creta e il consueto tozzo di pane nero. Egli si sdraiava fra le schegge dei rami e masticava lentamente; Ceppetta, lei, mangiava la minestra al ritorno a casa; intanto ne approfittava per correre attorno agli alberi che erano stati segnati, e quando sapeva di non essere guardata si nascondeva e faceva: «Uh!». C'era, da quelle parti, una caverna buia chiamata Santa Maria Bocca di Leone; era colma di rovi e di echi sonori. Alzandosi sulla punta dei piedi, Ceppetta la rimirava da lontano. Una mattina d'autunno, mentre le cime avvizzite della foresta erano ancora infiammate dall'aurora, Ceppetta vide sussultare dinanzi alla Bocca di Leone qualcosa di verde. Questo qualcosa aveva due braccia e due gambe, mentre la testa sembrava proprio quella di una bambina della stessa età di Ceppetta. All'inizio, Ceppetta prese paura e non si avvicinò. Non osò nemmeno chiamare suo padre. Era senz'altro una di quelle persone che, nella Bocca di Leone, ti rispondevano quando là dentro si parlava troppo forte. Stette per un po' con gli occhi chiusi, nel timore di suscitare e di attirare su di sé qualche colpo maligno. Poi, allungando le orecchie, sentì dei singhiozzi che provenivano proprio da lì. La strana piccola bambina verde stava proprio piangendo. Allora Ceppetta aprì gli occhi e provò tanta pietà nel vedere quel visino verde, malinconico e dolce, tutto bagnato di lacrime, e sotto, due piccole manine nervose e parimenti verdi che si stringevano attorno alla gola dell'insolita ragazzina. - Chissà, pensò Ceppetta, sarà caduta in mezzo a foglie guaste che stingono. E piena di coraggio si spinse dentro le felci irte di spini e di punte, fin quasi a toccare la singolare figura. Piccole braccia verdeggianti si tesero verso Ceppetta, in mezzo ai rovi sfioriti. - E' tale e quale come me, pensò Ceppetta, solo che ha uno strano colore. La piccola e verde creatura piangente era seminuda: una sorta di tunica fatta di foglie cucite insieme

la copriva appena. Era una vera bambina, ma aveva il colorito d'una pianta selvatica. Ceppetta pensava che i suoi piedini avessero delle radici affondate nel suolo. Invece la bambina li muoveva con molta agilità. Ceppetta le accarezzò i capelli e la prese per mano. L'altra, sempre in lacrime, si lasciò condurre. Apparentemente non sapeva parlare. - Oh, povero me! gridò il padre di Ceppetta quando la vide arrivare. Ma questa è una diavolessa verde! Da dove vieni, piccola? come mai sei verde? Vedo che non puoi rispondere! Come si faceva a sapere se la bambina avesse sentito? «Forse ha fame» disse il padre; e le offrì il pane e la brocca. Ma la bambina girò e rigirò il pane tra le mani e lo buttò a terra; poi si mise a scuotere il vino nella brocca per sentirne il rumore. Ceppetta pregò il padre di non lasciare, durante la notte, la povera creatura sola nella foresta. Ad uno ad uno, i tondelli di carbone cominciarono a brillare nel crepuscolo, e la ragazzina verde osservava quei fuochi con occhi pieni di terrore. Quando entrò nella loro casetta e vide la luce, fece per scappar via. Non riuscì mai ad abituarsi al fuoco, e cacciava un urlo ogni qual volta si accendeva la candela. Nel vederla, la mamma di Ceppetta si segnò e disse: «Che Dio mi aiuti, se è un demonio; ma di sicuro non è una cristiana». La ragazza verde non volle toccare né il pane né il sale né il vino; era chiaro perciò che non era mai stata battezzata né aveva ricevuto la comunione. Informarono il parroco, e questi varcò la soglia proprio quando Ceppetta stava offrendo alla creatura alcuni baccelli di fave. Ne sembrò rallegrata assai, e subito si mise a inciderne il gambo con le unghie, sperando di trovarvi le fave. Ma, delusa, si mise di nuovo a piangere finché Ceppetta non le sgusciò un baccello. Allora prese a sgranocchiare le fave fissando il prete negli occhi. Fecero venire apposta il maestro di scuola, ma invano; nessuno fu in grado di farle pronunciare un solo suono articolato. Sapeva soltanto piangere e ridere, e ogni tanto cacciava un urlo. Il parroco la esaminò con molta cura, ma non riuscì a trovare sul suo corpo la pur minima traccia del demonio. La domenica successiva la portarono in chiesa; lì, non manifestò nessun segno di malessere, se non quando la bagnarono con acqua benedetta; solo allora si lasciò scappare un lamento. Inoltre, non indietreggiò dinanzi all'immagine della croce, e nel far scorrere le mani sulle sante piaghe e sulle ferite da spine, sembrò addirittura afflitta. La gente del paese ne rimase grandemente incuriosita; qualcuno ne ebbe anche timore; e malgrado il parere del parroco, si continuò a parlare di lei come di una «diavolessa verde». Mangiava solo semi e frutta; e ogni qual volta le si dava una spiga o un rametto, essa ne incideva il culmo o il fusto, e poi piangeva dalla rabbia. Ceppetta provò, ma senza successo, ad insegnarle dove trovare i chicchi di grano o le ciliege, e ogni volta provava la stessa delusione. Per pura imitazione, presto fu in grado di portare il pane e l'acqua, di scopare e asciugare, e perfino di cucire, benché provasse una certa repulsione a toccare la stoffa. Però non acconsentì mai ad accendere il fuoco, e nemmeno si avvicinò mai al focolare. Intanto Ceppetta cresceva, e i suoi genitori decisero di metterla a servizio. Ne provò un gran dispiacere e di notte, sotto le lenzuola, piangeva sommessamente. La ragazza verde la stava a guardare con molta compassione. La mattina, continuava a fissare le pupille di Ceppetta, mentre i suoi stessi occhi si riempivano di lacrime. Ma la notte, quando Ceppetta riprese a piangere, sentì che una mano dolce dolce le accarezzava i capelli, e sulle gote la freschezza di due labbra umide. Il momento in cui Ceppetta doveva andare a servizio si avvicinava; ed era lei, adesso, che piangeva da far pietà, quasi come la creatura verde, il giorno in cui la trovarono abbandonata davanti alla Bocca di Leone. L'ultima sera, quando il padre e la madre di Ceppetta si furono addormentati, la ragazza verde le accarezzò i capelli mentre piangeva e la prese per mano. Poi aprì la porta e distese il braccio nella notte. E così, come un giorno Ceppetta l'aveva guidata verso la casa degli uomini, ora lei, tenendola per mano, la conduceva verso la libertà ignota.

LA FEDELE. Il ragazzo di Giannina si era fatto marinaio e lei era rimasta sola soletta. Un giorno scrisse una lettera e la sigillò col suo ditino; poi la gettò nel fiume, in mezzo alle lunghe erbe rossicce. Così la lettera sarebbe arrivata fino all'oceano. Giannina in realtà non sapeva scrivere; ma il suo fidanzato l'avrebbe capita lo stesso, giacché la sua era lettera d'amore. Attese a lungo la risposta, in arrivo dal mare; ma la risposta non venne mai. Non c'era nessun fiume che correva nell'altro senso verso Giannina. Poi, un giorno, Giannina partì alla ricerca del suo ragazzo. Guardava i fiori d'acqua, e notava che i loro steli erano piegati: dunque tutti i fiori si volgevano verso di lui. E Giannina diceva, sempre camminando: «Sul mare c'è una nave - nella nave c'è una cameretta - nella cameretta c'è una gabbia - nella gabbia c'è un uccellino - nell'uccellino c'è un cuore - nel cuore c'è una lettera - nella lettera c'è scritto: "Amo Giannina". - Amo Giannina è nella lettera, la lettera è nel cuore, il cuore è nell'uccellino, l'uccellino è nella gabbia, la gabbia è nella cameretta, la cameretta è nella nave, la nave è molto lontano in alto mare». Giannina non aveva paura degli uomini; per questo, i polverosi mugnai vedendola semplice e buona, un anello d'oro al dito, le davano del pane da mangiare e, con un bel bacio bianco, anche il permesso di dormire fra i sacchi di farina. In questo modo, Giannina attraversò il suo paese di rocce fulve, e la contrada delle basse foreste, e le distese pianeggianti dei prati che circondano i fiumi nei pressi delle città. Molti di coloro che ospitavano Giannina la coprivano di baci, sì, certo, ma lei non li restituiva mai - poiché i baci infedeli che le innamorate ricambiano, restano impressi sulle loro guance come altrettante tracce di sangue. Giunse infine nella città di mare dove il suo ragazzo si era imbarcato. Nel porto cercò il nome della nave, ma non riuscì a trovarlo; la nave sarà stata mandata nei mari d'America, pensò Giannina. Strade nere e oblique scendevano dalla città alle banchine; alcune erano lastricate, con un rigagnolo in mezzo; altre erano soltanto strette scalinate fatte di vecchie lastre. Giannina notò alcune case dipinte di giallo e azzurro, e decorate con figure che rappresentavano negre e uccelli dal becco rosso. La sera, vide dondolare alcune grosse lanterne sopra le porte. Le varcavano uomini che sembravano ubriachi. Giannina pensò che fossero locande per marinai, ritornati da poco da quei paesi dove le donne sono nere e gli uccelli di mille colori; e sentì il desiderio vivissimo di aspettare il suo ragazzo in una di quelle locande lì, che sapevano tanto di lontano oceano. Alzò la testa, e vide le sagome bianche di alcune donne che, appoggiate alle inferriate delle finestre, stavano prendendo il fresco. Giannina spinse una porta doppia, e si ritrovò in un salone col pavimento piastrellato, in mezzo a un gruppo di donne, seminude, e vestite di rosa. Nel fondo della calda penombra, un pappagallo moveva le palpebre con lenta sapienza. Sul tavolo, dentro tre grossi bicchieri strozzati, c'era ancora un po' di schiuma. Quattro donne la circondarono ridendo, e Giannina ne scorse un'altra, tutta vestita di scuro, che stava cucendo all'interno di una piccola guardiola. - Viene dalla campagna, disse una di loro. - Zitta! disse un'altra; non dir nulla! E tutt'e quattro gridarono insieme: - Vuoi bere qualcosa, cocca? Giannina si lasciò baciare, e bevette in uno di quei bicchieri strozzati. Una di loro, piuttosto grossa, si accorse dell'anello. - Capirete! siamo sposate! Allora tutte insieme aggiunsero: - Sei sposata, cocca? Giannina arrossì. In verità, non sapeva bene se era sposata o no, né cosa dovesse rispondere. - Le conosco bene queste sposine, disse una. Anch'io quand'ero piccola, quand'avevo sette anni, non portavo la sottana. Un giorno sono andata nel bosco nuda, per costruire la mia chiesa - e gli uccellini, tutti gli uccellini mi aiutarono nel lavoro! C'era l'avvoltoio per sradicare la pietra e il piccione dal becco forte per smussarla, e il ciuffolotto per suonare l'organo. Questa è stata la chiesa

delle mie nozze, e la mia messa. - Ma questa qui porta la fede, neh? disse quella grossa. E tutte insieme gridarono: - Una vera fede, neh? Allora tutt'e quattro, una dopo l'altra, baciarono Giannina, e la coccolarono, e la fecero bere tanto che persino la signora che cuciva dentro la piccola guardiola abbozzò un sorriso. Nel frattempo un violino aveva cominciato a suonare davanti alla porta e Giannina si era addormentata. Due delle donne la portarono adagio adagio su un letto, in una cameretta, su per una piccola scala. E insieme dissero: - Bisogna regalarle qualcosa. Ma cosa? Il pappagallo si svegliò e schiamazzò. - Mo' vi dico io, disse quella grossa. E parlottò a lungo a voce bassa. Una di loro si asciugò gli occhi e disse: - E' vero, noi non ne abbiamo mai avute; ci porterà fortuna. - Lei per noi quattro, vero? disse un'altra. - Andiamo a chiedere il permesso alla Signora, disse quella grossa. E il giorno dopo, quando Giannina se ne andò via, portava una fede a ciascun dito della mano sinistra. Il suo ragazzo era sì molto lontano, ma lei avrebbe fatto così avrebbe bussato al suo cuore, e dentro ci avrebbe sistemato un bel posticino per sé e per i suoi cinque anellini d'oro. LA PRESCELTA. Appena fu abbastanza alta da arrivarci, Ilsea prese l'abitudine di andare ogni mattina davanti allo specchio e di dire: «Buongiorno, piccola Ilsea mia». Poi dava un bacio al gelido cristallo e arricciava le labbra. L'immagine sembrava sempre sul punto di avvicinarsi. In realtà, restava sempre molto lontana. Quest'altra Ilsea, più pallida, che si levava dalle profondità dello specchio, era una prigioniera dalla bocca gelata. Ilsea la trovava un po' triste e crudele, e per questo la compiangeva. Il suo sorriso mattutino era un'alba livida con ancora i segni dell'orrore notturno. Eppure Ilsea le voleva bene e le rivolgeva spesso la parola: «Nessuno ti saluta, povera piccola Ilsea. Dammi un bacio va là. Oggi andremo a fare una passeggiata, Ilsea. Il mio fidanzato verrà a prenderci: vieni vero?». Ilsea si voltava dall'altra parte, e l'altra Ilsea, mestamente, se ne ritornava verso l'ombra luminosa. Ilsea le faceva vedere i suoi abiti e le sue bambole. «Gioca con me. Vestiti con me». Ma, invidiosa, l'altra Ilsea alzava anche lei verso Ilsea abiti scoloriti e bambole ancora più bianche. Non parlava, e si limitava a muovere le labbra insieme a Ilsea. A volte, come una bambina, Ilsea si irritava contro la signora muta, la quale si irritava di rimando: «Brutta, brutta Ilsea! urlava. Mi vuoi rispondere, mi vuoi baciare, sì o no!»; e con la mano picchiava sullo specchio. Una mano un po' strana, che non corrispondeva a nessun corpo, compariva dinanzi alla sua. Mai fu dato a Ilsea di raggiungere l'altra Ilsea. Durante la notte riusciva a perdonarla; e allora, felice di ritrovarla, saltava dal letto per darle un bacio, sussurrandole: «Buongiorno, piccola Ilsea mia». Quando Ilsea ebbe un vero fidanzato, lo portò davanti allo specchio e disse all'altra Ilsea: «Guarda qui il mio fidanzato: ma non guardarlo troppo. E' mio, ma sono contenta che tu lo veda. Quando saremo sposati, gli darò il permesso di baciarti insieme a me, ogni mattina». Il fidanzato si mise a ridere. Ilsea sorrise anche lei nello specchio. «Vero che è bello e che io l'amo?» disse Ilsea. «Sì, sì», rispose l'altra Ilsea. «Se me lo guardi troppo non ti bacerò più, disse Ilsea. Sono gelosa quanto te, sai. Ciao, piccola Ilsea mia». Man mano che Ilsea imparava ad amare, l'Ilsea dentro lo specchio diventava più triste. Già, perché la sua amica non veniva più a baciarla la mattina. Anzi, l'aveva in gran dispregio. Come dire che, trascorsa la notte, a correre ormai verso il risveglio di Ilsea, era piuttosto l'immagine del fidanzato. Durante il giorno, Ilsea non andava più a trovare la signora dello specchio; adesso era il fidanzato

che la guardava. «Oh! diceva allora Ilsea, non pensi più a me, cattivo. E' l'altra che guardi adesso. Ma l'altra è prigioniera e non verrà mai. E' gelosa di te; ma io sono più gelosa di lei. Non guardarla, amore mio; guarda solo me. Brutta Ilsea dello specchio, ti proibisco di rispondere al mio fidanzato. Tu non puoi venire qui; non potrai mai venire qui. Non prendermelo, brutta Ilsea. Quando saremo sposati gli darò il permesso di baciarti insieme a me. Sorridi, Ilsea. Resterai con noi, vedrai». Ilsea diventò gelosa dell'altra Ilsea. Se il giorno calava senza che l'amato venisse, Ilsea si metteva a urlare: «Me lo fai scappar via, con la tua mala faccia. Brutta, vàttene via, lasciaci in pace». Fu così che Ilsea decise di coprire lo specchio con un finissimo telo bianco; e per farsi capire meglio, ne alzò un lembo e disse: «Addio, cara la mia Ilsea». Ciononostante, il suo fidanzato seguitò ad aver l'aria annoiata. «Non mi ama più, pensò Ilsea; non viene più, e io resto sola soletta. Dov'è l'altra Ilsea? Chissà, forse è andata via con lui...». Con le forbicine d'oro, fece un taglio nella tela per guardarci dentro. Lo specchio era offuscato da un'ombra bianca. «E' proprio andata via» pensò Ilsea. - Occorre molta pazienza, disse Ilsea fra sé. L'altra Ilsea deve essere gelosa e triste. Il mio amore tornerà. Saprò aspettarlo. Ogni mattina, nel dormiveglia, le sembrava di vederlo sul guanciale, accanto al proprio viso. E mormorava queste parole: «Oh! mio bene, sei dunque tornato? Buongiorno, buongiorno, mio amato»; poi allungava la mano e sentiva soltanto la freschezza del lenzuolo. - Occorre molta, molta pazienza, pensò ancora Ilsea. Ilsea attese il fidanzato per molto tempo. La sua pazienza si sciolse in lacrime. Una nebbia umida le velava gli occhi, mentre righe bagnate le solcavano le guance. Il suo viso era sempre più smunto. Ogni giorno che passava, ogni mese, ogni anno, la consumava con mano sempre più pesante. - O mio tesoro! disse Ilsea, comincio a dubitare di te. Tagliò il telo bianco lungo l'interno della cornice, e nel riquadro pallido apparve lo specchio, tutto coperto di macchie scure. La lastra, striata di rughe chiare, mostrava golfi d'ombra là dove la foglia di stagno si era staccata dal vetro. L'altra Ilsea emerse in fondo allo specchio: vestiva di nero, come Ilsea, e il suo viso scavato appariva segnato da quelle tracce misteriose prodotte dal vetro che non rispecchia a contatto col vetro che rispecchia. Sembrava proprio che lo specchio avesse pianto. - Sei triste come me, disse Ilsea. La signora dello specchio si mise a piangere. Ilsea la baciò e disse: «Buona sera, mia povera Ilsea». Nell'entrare in camera sua, con la propria lampada in mano, Ilsea si meravigliò: l'altra Ilsea le stava venendo incontro, con l'occhio triste ed anche lei con una lampada in mano. Ilsea alzò sopra la testa la sua lampada, poi sedette sul letto. L'altra Ilsea alzò la propria lampada sopra la testa, e le si sedette vicino. - Ora capisco, pensò Ilsea. La signora dello specchio si è liberata. E venuta a cercarmi, e io sto per morire. LA SOGNATRICE. Dopo la morte dei genitori, Maggiorana rimase a vivere nella loro casetta con la vecchia balia. I suoi le avevano lasciato un tetto di paglia annerita, e un grande camino con una bella cappa. Il padre di Maggiorana era stato infatti fabbricante di sogni e cantastorie; e un ammiratore delle sue belle idee gli aveva ceduto un terreno per costruire, e prestato qualche soldo per fantasticare. Per molto tempo aveva continuato a mescolare varie qualità d'argilla con polveri di metalli: voleva ottenere uno smalto senza pari. Si era cimentato nell'arte vetraria, e aveva cercato di fondere, e di dorare alcuni strani oggetti di cristallo. Aveva pure plasmato ovuli di pasta dura intarsiandoli di brillantini, per far sì che il bronzo, una volta raffreddato, diventasse opalescente come la superficie d'uno stagno. Di quest'uomo, purtroppo, non restavano che due o tre crogioli affumicati, alcune lastre di bronzo consumate e ammaccate dalle scorie, e sette grosse brocche scolorite allineate sopra il focolare. Della madre di Maggiorana, pia ragazzona di campagna, non restava invece proprio nulla:

per «il mio argillaio» aveva venduto finanche il suo rosario d'argento. Cresciuta a fianco del padre, il quale indossava sempre un grembiule verde, aveva le mani sporche di terra e le pupille iniettate di fuoco, Maggiorana non si stancava di mirare e rimirare le sette brocche del camino, così piene di mistero con la loro patina di fumo, così somiglianti ad un arcobaleno sinuoso e cavo. Dalla brocca rosso sangue, Morgiana avrebbe senz'altro fatto uscire un brigante spalmato d'olio e armato di una sciabola damaschinata. Nella brocca arancione si potevano trovare, come successe a Aladino, frutti di rubino, prugne d'ametista, ciliege di granata, cotogni di topazio, grappoli d'opale e bacche di diamante. La brocca gialla era colma di quella polvere d'oro che Qamar az-Zaman aveva nascosto sotto le olive; difatti, una delle olive si intravedeva sotto il coperchio e il bordo del vaso luccicava di grasso. La brocca verde era, si capisce, chiusa da un grande sigillo di rame marchiato da re Salomone in persona. Gli anni l'avevano ricoperta di uno strato di verderame; già, perché questa brocca che un tempo aveva eletto l'oceano per domicilio, ospitava da parecchi millenni un "ginn", che poi era un principe. Una ragazzina giovane e brava sarebbe sicuramente riuscita a rompere l'incanto durante il plenilunio, certo con il consenso di re Salomone, di colui cioè che diede la parola alle mandragole. Dentro la brocca azzurro chiaro, Giawhareh aveva si sa, rinchiuso tutti i suoi abiti di mare, quelli intessuti d'alghe, o tempestati di acque marine, o marezzati della porpora delle conchiglie. L'intero cielo del paradiso terrestre, e i ricchi frutti dell'albero, e le squame infuocate del serpente, e la spada ardente dell'angelo, ecco quanto racchiudeva la brocca blu, in tutto simile all'enorme cupola azzurrina d'un fiore australe. E la misteriosa Lilit aveva versato l'intero cielo del paradiso celeste nell'ultima brocca, giacché si ergeva, viola e rigida, come la mozzetta di un vescovo. Coloro che non erano a conoscenza di queste cose, vedevano soltanto sette vecchie brocche scolorite, poste sulla cappa panciuta del focolare. Ma Maggiorana, grazie ai racconti del padre, sapeva la verità. E l'inverno, davanti al camino, tra l'ombra mutevole del fuoco di legna e quella della candela accesa, seguiva e inseguiva, senza sosta, e fino al momento di andare a letto, il brulicare di tante meraviglie. Ora, la madia per il pane era vuota, e vuoto pure era il barattolo per il sale; per questo la balia si metteva ad implorare Maggiorana: «Mia stellina bellina bellina, diceva, sposati; tua madre pensava a Gianni; che ne diresti di sposare Gianni? Giorana, Giorana mia, che bella sposa saresti mai!». - La sposa della canzone ebbe solo cavalieri, disse la sognatrice; io avrò un principe. - Principessa Maggiorana, diceva la balia, sposatevi con Gianni, e ne farete un principe. - Nient'affatto, nutrice, diceva la sognatrice; preferisco filare. I miei diamanti e i miei abiti li tengo in serbo per un genio più bello. Compra pure canapa e conocchie, e anche un fuso bello lustro. Presto avremo un palazzo tutto nostro. Per ora si trova in un nero deserto d'Africa. Vi abita un mago coperto di sangue e di veleni, il quale versa nel vino dei viandanti una polvere scura che li tramuta in bestie villose. Il palazzo è illuminato da torce vive, e i negri che servono a tavola portano corone d'oro. Il mio principe ammazzerà il mago; e questo palazzo si trasferirà nella nostra campagna, e tu allora cullerai il mio bambino. - O Maggiorana, sposati con Gianni! disse la vecchia balia. Maggiorana si sedette e si mise a filare. Con pazienza faceva girare il fuso, torceva la canapa e la svolgeva. Le conocchie si assottigliavano e si rigonfiavano. Gianni venne, e si sedette al suo fianco, e stette lì ad adorarla. Ma lei non ci fece caso, poiché le sette brocche del camino traboccavano di sogni. Durante il giorno le sembrava di sentirle cantare o lamentarsi. Quando smetteva di filare, la conocchia non fremeva più per le brocche, e il fuso cessava di ronzare per loro. - O Maggiorana, sposati con Gianni, le diceva ogni sera la vecchia balia. Ma, nel cuore della notte, la sognatrice si alzava e, come Morgiana, gettava granelli di sabbia sulle brocche, per suscitare i misteri. Eppure il brigante continuava a dormire, i frutti preziosi non tintinnavano per nulla, non si sentiva affatto lo scorrere della polvere d'oro, e nemmeno le arrivava all'orecchio il fruscio della stoffa dei vestiti; inoltre, il sigillo di Salomone incombeva come un macigno sul principe prigioniero. Maggiorana gettava ad uno ad uno i granelli di sabbia. Per sette volte essi tintinnirono contro l'argilla dura delle brocche; per sette volte il silenzio si ricompose.

- O Maggiorana, sposati con Gianni, le ripeteva la vecchia balia ogni mattina. Allora Maggiorana cominciò a rabbuiarsi in viso quando veniva Gianni; e Gianni non venne più. E la vecchia balia fu trovata morta, un giorno all'alba, e sembrava quasi che sorridesse. E Maggiorana mise un vestito nero ed una cuffia scura, e riprese a filare. Ogni notte si alzava e, al pari di Morgiana, gettava contro le brocche i granelli di sabbia per destare i misteri. Ma i sogni dormivano, dormivano sempre. Maggiorana, nella sua paziente attesa, diventò vecchia, mentre il principe imprigionato dal sigillo di Salomone era senz'altro ancora giovane, poiché aveva già vissuto migliaia di anni. In una notte di plenilunio, la sognatrice si alzò che sembrava un'assassina. Pigliò il martello, e rabbiosamente mandò in frantumi sei delle sette brocche, mentre l'angoscia le rigava la fronte di sudore. I vasi, rompendosi, si aprirono: erano vuoti. Davanti alla brocca ove Lilit aveva versato il paradiso viola, essa esitò un attimo, ma poi l'assassinò come le altre. In mezzo ai cocci rotolò una rosa di Gerico, grigia e secca. Quando Maggiorana volle farla fiorire, la rosa si dissolse in polvere. L'ESAUDITA. Cicè ripiegò le gambe nel suo lettino e accostò l'orecchio alla parete. La finestra era pallida. Il muro vibrava e sembrava dormisse con un respiro soffocato. La piccola sottana bianca lievitava sulla sedia, da dove penzolavano, oltre a due calze, due gambe nere, flosce e vuote. Un vestitino animava misteriosamente la parete come stesse arrampicandosi fino al soffitto. Le assi del pavimento gemevano sommessamente nella notte, mentre la brocca dell'acqua assomigliava a un rospo bianco rannicchiato nel catino e teso ad aspirare il buio. - Sono troppo infelice, disse Cicè. E si mise a piangere, la testa ficcata sotto le coperte. Il muro mandò un grosso sospiro; ma le due gambe nere rimasero inerti e il vestitino smise di arrampicarsi, mentre il rospo bianco rannicchiato mantenne aperta la sua bocca umida. Cicè disse ancora: - Visto che tutti ce l'hanno con me, visto che tutti, qui, vogliono bene solo alle mie sorelle, visto che mi hanno lasciata andare a letto durante la cena, me ne andrò via, sì, me ne andrò proprio lontano lontano. Sono una Cenerentola, ecco cosa sono. Ma gliela farò vedere io. Sposerò un principe, io; loro non sposeranno nessuno, proprio nessuno. E io tornerò qui nella mia bella carrozza, col mio principe; ecco cosa farò. Se loro saranno buone nel frattempo, allora le perdonerò. Povera Cenerentola, vedrete che è più buona di voi, va là! Il cuoricino le si gonfiò ancora di più mentre si infilava le calze e si allacciava la sottana. La sedia vuota rimase abbandonata in mezzo alla camera. Cicè scese piano piano in cucina e, in ginocchio davanti al focolare, le mani affondate nella cenere, pianse di nuovo. Il rumore regolare d'un arcolaio la fece voltare indietro. Un corpicino tiepido e peloso le sfiorò le gambe. - Non ho nessuna madrina, disse Cicè, ma almeno ho il mio gatto, nevvero? Gli tese le dita e il gatto gliele leccò dolcemente come se fosse una piccola grattugia calda. - Vieni, disse Cicè. Spinse l'uscio del giardino e fu subito colpita da una folata di frescura. Una macchia scura e verdastra segnalava il prato; l'alto sicomoro stormiva verso le stelle che sembravano sospese fra i rami. Oltre gli alberi, l'orto appariva più chiaro, e i coprimeloni luccicavano. Cicè sfiorò due lunghi ciuffi d'erba, e ne ebbe un gradevole solletico. Corse in mezzo ai coprimeloni da cui scoccavano rapidissimi bagliori. - Non ho nessuna madrina: sei capace di fare una carrozza, micetto? disse. La bestiola tirò un lungo sbadiglio verso il cielo ove spaziavano ampie nuvolacce grigie. - Non ho ancora il mio principe, disse Cicè, chissà quando arriverà.

Seduta accanto a un grosso cardo violaceo, guardò verso la siepe dell'orto, poi si tolse una pantofolina e la buttò con forza al di sopra dei ribes. La pantofolina piombò sulla strada maestra. Cicè accarezzò il gattino e disse: - Senti, micetto, se il principe non mi porta indietro la mia pantofola, ti comprerò gli stivali e viaggeremo insieme per trovarlo. E' un bellissimo giovanotto tutto vestito di verde e coperto di diamanti. Mi ama tanto, ma non mi ha mai vista. Tu non devi essere geloso. Vivremo insieme tutti e tre. Sarò più felice di Cenerentola, perché sono stata più infelice di lei. Cenerentola, lei, andava al ballo ogni sera, e le davano anche dei vestiti sontuosi. Io ho solo te, mio piccolo micetto adorato. E gli diede un bacio sul musetto di marocchino bagnato. Il gattino emise un flebile miagolìo e si passò una zampina sull'orecchio. Poi si leccò e fece le fusa. Cicè raccolse alcune bacche di ribes. - Una per me, una per il mio principe, una per te. Una per il mio principe, una per te, una per me. Una per te, una per me, una per il mio principe. Ecco, vivremo così, dividendo tutto fra noi tre e non avremo sorelle cattive. Le ampie nuvolacce grigie si erano intanto addensate in cielo. Una striscia livida si alzava verso oriente. Gli alberi erano immersi in una strana lugubre penombra. Di colpo, una folata di vento gelido fece ondeggiare la sottana di Cicè. Le cose rabbrividirono tutte. Il cardo violaceo fece due o tre inchini, mentre il gattino inarcò la schiena e rizzò il pelo. Cicè sentì in lontananza, sulla strada, uno strano cigolar di ruote. Un barbaglio pallido si propagò sulle cime agitate degli alberi e lungo il tetto della casetta. Poi il rumore si fece più chiaro e si udì un nitrito di cavalli seguito da un parlottar confuso di uomini. - Ascolta, micetto, disse Cicè, ascolta. Ecco arrivare una grande carrozza. E' la carrozza del principe. Presto, presto: vedrai che adesso mi chiama. Una pantofolina di cuoio mordorè sorvolò i ribes e piombò in mezzo ai coprimeloni. Cicè corse verso l'uscio di vimini e lo aprì. Una carrozza lunga e scura avanzava pesantemente. Un raggio rosso illuminava il bicorno del cocchiere. Due uomini neri marciavano ai fianchi dei cavalli. La parte posteriore del cocchio era bassa e oblunga come una bara. Un odore dolciastro si spandeva nella brezza mattutina. Ma Cicè non capì nulla di tutto questo. Essa vedeva una cosa sola. La vettura meravigliosa era lì, sotto i suoi occhi. Il cocchiere del principe portava un copricapo d'oro. Il baule del principe era colmo di gioielli di nozze. E quel profumo terribile e sovrano la ammantava di regalità. Allora Cicè tese le braccia, e gridò: - Principe, portatemi via con voi! Ve ne prego, portatemi via! L'INSENSIBILE. La principessa Morgana non amava nessuno; avvolta in un gelido candore, viveva circondata di fiori e di specchi. Si appuntava delle rose rosse nei capelli e dopo si rimirava. Non le riuscì mai di vedere le ragazze, e nemmeno i maschietti, in quanto si mirava nei loro sguardi. E così, non conosceva né la crudeltà né la voluttà. I suoi capelli neri le inquadravano il viso come tante onde lente. Bramava una sola cosa: amare se stessa. Ma l'immagine che lo specchio le rimandava era improntata a una freddezza calma e remota; l'immagine dello stagno era scialba e tetra; e l'immagine del fiume scorreva via tremolando. La principessa Morgana aveva letto sui libri la storia di quello specchio di Biancaneve, che sapeva parlare, e le aveva anche predetto il suo assassinio. Aveva letto la fiaba dello specchio di Ilsea, da dove uscì un'altra Ilsea che uccise Ilsea, nonché la storia di quell'altro specchio, della città di Mileto, che spingeva le Milesiane a strangolarsi al calar della notte. Aveva anche visto quel misterioso dipinto raffigurante il fidanzato mentre depone una spada dinanzi alla fidanzata, per il fatto che si erano incontrati con se stessi nei vapori del crepuscolo, e, si sa, gli alter ego recano morte. Ma lei non temeva la propria immagine, perché non si era mai vista se non candida e velata, e per nulla

crudele né voluttuosa, vale a dire da sé a sé. E le terse lame d'oro verde, e le massicce tovaglie d'argento vivo, a Morgana non mostravano affatto Morgana. I sacerdoti del suo paese, che erano geomanti e adoratori del fuoco, sistemarono la sabbia nella scatola quadrata e vi tracciarono sopra diverse righe; poi fecero calcoli usando talismani di pergamena; poi, mischiando l'acqua al fumo, ottennero lo specchio nero. La sera, Morgana si recò da loro e gettò nel fuoco, come offerta, tre pasticcini. «Lì» disse il geomante additando lo specchio d'acqua nera. Morgana stette a guardare; dapprima un fumo biancastro si propagò sulla superficie, poi fu la volta di un cerchio colorato che cominciò a gorgogliare, infine una sagoma si alzò, e si spostò subito con grande leggerezza. Era una casa bianca a forma di cubo, provvista di lunghe finestre; sotto la terza finestra penzolava un grande anello di bronzo. E tutt'attorno alla casa non c'era che sabbia grigia. «E' qui, disse il geomante, che si trova il vero specchio; ma la nostra scienza non è in grado né di fissarne il luogo, né di darne una spiegazione». Morgana si chinò e gettò nel fuoco altri tre pasticcini in offerta. Ma la sagoma vacillò e si oscurò; la casa bianca sprofondò, e Morgana rimase invano a scrutare lo specchio nero. Ora, il giorno successivo, Morgana decise di mettersi in viaggio. E siccome le era parso di aver ravvisato il colore scuro della sabbia si diresse verso occidente. Suo padre le fece dono di una sfarzosa carovana, con muli ornati di campanellini d'argento; lei invece viaggiava portata a braccia, su una lettiga, le cui pareti erano rivestite con preziosissimi specchi. Attraversò la Persia, ove le fu dato di vedere da vicino le locande sperdute costruite a fianco dei pozzi, nelle quali si fermano le carovane dei viaggiatori, e quelle malfamate ove le donne passano la notte a cantare, e a coniare monete di metallo. Presso i confini del regno di Persia, notò molte case bianche a forma di cubo, provviste di lunghe finestre; ma, ahimè, dell'anello di bronzo non vi era traccia. Lì, le fu detto che l'anello era più facile trovarlo a ponente, nel paese cristiano detto Siria. Morgana passò le piatte rive di quel fiume che scorre attorno alla contrada delle umide piane, ove crescono le selve di liquirizia. Vedeva castelli scavati in un'unica lunga roccia protesa a strapiombo, e donne sedute al sole lungo il percorso della carovana, le quali portavano attorno alla fronte trecce di crine rosso. Era questo il paese degli uomini che guidano sterminate mandrie di cavalli e usano portare lance dalla punta d'argento. Più avanti vi era una montagna selvaggia popolata da banditi, che sono soliti bere l'acquavite di grano in onore delle loro divinità. Adorano certe pietre verdi di forme strane, e si prostituiscono gli uni con gli altri in mezzo a cerchi di cespugli in fiamme. Morgana ne provò un grande raccapriccio. Più avanti ancora vi era una città sotterranea, dove vivevano uomini neri che solo durante il sonno conoscono i loro dei. Si nutrono di fibre di canapa, e s'incipriano il viso di gesso. Succede poi che di notte, coloro che si ubriacano di canapa sgozzano coloro che dormono, mandandoli in tal modo verso le loro notturne divinità. Morgana ne provò grande raccapriccio. Più avanti ancora cominciava la sconfinata distesa del deserto di sabbia grigia, ove le pietre e le piante assomigliano in tutto alla sabbia. Alle porte di quel deserto Morgana trovò la locanda dell'anello. Ordinò di fermare la lettiga, e i mulattieri scaricarono i muli. La casa era antica, e costruita senza l'ausilio del cemento: i blocchi di pietra erano calcinati dal sole. Il padrone della locanda non seppe dirle nulla dello specchio: non ne aveva mai sentito parlare. Ma la sera, quando fu mangiata l'ultima sottile focaccia, il padrone rivelò a Morgana che la casa dell'anello era stata nei tempi passati la dimora di una regina crudele, la quale fu punita per la sua crudeltà. Infatti, aveva dato ordine di tagliare la testa a un uomo molto religioso che viveva in solitudine nel bel mezzo della grande distesa di sabbia, e aiutava i viandanti a immergersi nell'acqua del fiume, gratificandoli con parole gentili. Poco dopo la regina perì, e con lei tutta la sua stirpe. All'interno della casa, la camera della regina fu murata; e il padrone della locanda mostrò a Morgana la porta chiusa dalle pietre. I viaggiatori della locanda andarono a dormire, chi nelle stanze quadrate, chi sotto la tettoia. Ma a

notte alta Morgana svegliò i suoi mulattieri e ordinò loro di sfondare la porta murata. Lei stessa vi penetrò attraverso la breccia polverosa, con una fiaccola di ferro. I servi di Morgana udirono un grido, e si precipitarono accanto alla principessa. Stava in mezzo alla stanza murata, inginocchiata davanti a un vassoio di rame battuto colmo di sangue; e lo guardava con occhio ardente. Il padrone della locanda levò le braccia al cielo: poiché, nella stanza chiusa, e da quando la crudele regina vi aveva fatto mettere dentro una testa recisa, il sangue della bacinella non si era ancora prosciugato. Nessuno seppe mai ciò che la principessa Morgana vide nello specchio di sangue. Ma sulla strada del ritorno i suoi mulattieri vennero trovati assassinati, uno per uno, ogni notte, la faccia grigiastra rivolta verso il cielo, e, pare, dopo essersi introdotti nella lettiga. Questa principessa venne chiamata Morgana la Rossa. Ebbe fama di grande prostituta e di terribile scannatrice di uomini. LA SACRIFICATA. Lilly e Nan erano serve in una fattoria. D'estate, portavano l'acqua del pozzo, su per il sentiero appena tracciato in mezzo al grano maturo; d'inverno, quando faceva freddo e dalle finestre penzolavano stalattiti di ghiaccio, Lilly andava a dormire con Nan, e insieme, raggomitolate sotto le coperte, stavano a sentir ululare il vento. In tasca, avevano sempre alcune monete bianche, e, davanti, pettorine finissime con nastrini color ciliegia; bionde uguali e ridanciane. Tutte le sere, mettevano accanto al focolare una bella tinozza d'acqua fresca; ed è lì che, appena alzate, trovavano, così almeno dicono, le monetine d'argento che, la mattina dopo, esse facevano tintinnare fra le dita. Erano i «pixies» che le gettavano nella tinozza, dopo averci fatto il bagno. Ma né Nan, né Lilly, né nessun'altra persona aveva mai visto uno di questi «pixies». Dalle favole solo, e dalle ballate, si sapeva che erano dei cosini nerastri e malvagi, muniti di una coda mobilissima. Successe che, una notte, Nan si dimenticò di attingere l'acqua; tanto più che, siccome si era in dicembre, la catena già arrugginita del pozzo era tutta coperta di ghiaccio. Nel mentre che dormiva, con le mani appoggiate sulle spalle di Lilly, qualcuno a un tratto la pizzicò alle braccia e ai polpacci, e malignamente le tirò i capelli della nuca. Nan si svegliò piangendo: «Domani sarò tutta nera e blu!»; e rivolgendosi a Lilly: «Stringimi, stringimi forte; non ho messo la tinozza d'acqua fresca; ma non uscirò dal mio letto, a dispetto di tutti i 'pixies' del Devonshire». Allora la buona piccola Lilly la baciò, si alzò, corse a prendere l'acqua, poi posò la tinozza accanto al focolare. Quando si rimise a letto, Nan dormiva già. Nel suo sonno, la piccola Lilly fece un sogno. Le parve che una regina vestita di foglie verdi, con una corona d'oro in testa, si avvicinasse al suo letto, la toccasse e le parlasse. Diceva: «Sono la regina Mandosiana; vieni a prendermi, Lilly»; e diceva ancora: «Me ne sto seduta in un prato di smeraldi, e il sentiero che conduce a me è di tre colori: giallo, azzurro e verde», aggiungendo: «Sono la regina Mandosiana; vieni a prendermi, Lilly». Lilly trovò rifugio nel guanciale nero della notte e non vide più niente. Ora, alla mattina, quando il gallo cantò, Nan non fu più in grado di alzarsi; mandava lamenti strazianti perché aveva le gambe insensibilizzate e non sapeva come fare per muoverle. Nel corso della giornata, i medici la visitarono e dopo un dotto consulto sentenziarono che, con ogni probabilità, sarebbe rimasta per sempre distesa a quel modo, senza mai più riuscire a camminare. E la povera Nan giù a piangere: conciata a quel modo non avrebbe mai trovato marito. Lilly ne provò un'immensa pietà. E, mentre d'inverno sbucciava le mele, mentre metteva a posto le nespole, mentre sbatteva la panna per fare il burro, o asciugava il siero con le sue manine arrossate, non smetteva mai di pensare che si sarebbe potuto guarire la povera Nan. Aveva da tempo messo il suo sogno nel dimenticatoio, quando, una sera, mentre la neve cadeva fitta fitta, e in casa si stava bevendo birra calda con l'arrosto, un vecchio venditore di ballate bussò alla porta. Tutte le ragazze della fattoria si misero a saltellargli attorno; già, perché quest'uomo vendeva guanti, canzoni

d'amore, nastrini, stoffe d'Olanda, giarrettiere, spille e cuffie d'oro. - Guardate, diceva, guardate qua la triste storia della moglie dell'usuraio, incinta per ben dodici mesi, di oltre venti sacchetti di scudi, e presa anche dalle voglie molto singolari di mangiare teste di vipere in umido e rospi alla graticola. «Guardate, guardate qua la ballata del pesciotto che capitò sulla costa il quattordicesimo giorno d'aprile, schizzò fuori dall'acqua per più di quaranta bracci, e vomitò più di cinque moggi di anelli da sposa diventati completamente verdi per via del mare. «Guardate la canzone delle tre figlie cattive del re e di quella che versò un bicchiere di sangue sulla barba del padre. «Avevo pure le avventure della regina Mandosiana; purtroppo una burrasca maledetta mi ha tolto di mano l'ultimo foglio, proprio qui alla curva della strada». Lilly vi riconobbe subito il suo sogno, e capì in tal modo che la regina Mandosiana le ordinava di andare da lei. Quella stessa notte, Lilly baciò piano piano Nan, calzò le scarpe nuove, e se ne andò da sola per le strade. Ora, non solo il vecchio venditore di ballate si era volatilizzato, ma il foglio era volato via tanto lontano che Lilly non fu capace di trovarlo. Così non sapeva né chi fosse la regina Mandosiana, né dove cercarla. Nessuno mai fu in grado di rispondere alle sue domande, anche se lei, strada facendo, non si stancava di interrogare sia i vecchi contadini, i quali seguitavano a scrutarla per molto tempo ancora proteggendosi gli occhi con la mano, sia le giovani donne incinte che chiacchieravano tranquillamente davanti all'uscio di casa, sia i bambini che cominciavano appena a parlare, e per i quali lei tirava giù i rami dei gelsi lungo le siepi. Gli uni dicevano: «Non ci sono più regine»; gli altri: «Non ce l'abbiamo noi da queste parti: è roba d'altri tempi»; altri ancora: «Non sarebbe forse il nome d'un bel giovanotto?». Senza contare quelli cattivi, che portarono Lilly davanti a una di quelle case di città che chiudono di giorno e di notte si aprono e si illuminano, dicendo e affermando che la regina Mandosiana abitava lì, vestita con una camicia rossa e servita da donne nude. Ma Lilly sapeva benissimo che la vera regina Mandosiana vestiva di verde, e non di rosso, e che avrebbe dovuto passare su un sentiero di tre colori. Così conobbe la menzogna dei malvagi. Intanto camminò a lungo, e quel che è certo è che passò la più bella estate della sua vita trotterellando sulla polvere bianca, sguazzando liberamente nel fango pastoso delle carreggiate, procedendo di pari passo con i barrocci dei carrettieri. Talvolta, la sera, quando il cielo si colora di quel meraviglioso sfumato rosa, essa precedeva i grandi carri sui quali si accatastavano i covoni, e magari oscillava pure qualche falce luccicante. Ma nessuno, ahimè, le seppe dire qualcosa sulla regina Mandosiana. Allo scopo di non dimenticare un nome così difficile, si era fatta intanto tre nodi alla giarrettiera. E un giorno, in pieno meriggio, dopo essere andata molto avanti in direzione dell'aurora, Lilly si ritrovò in una stradina gialla e sinuosa che costeggiava un canale azzurro. Il canale seguiva gli alti e bassi della strada, mentre l'argine verde ne seguiva il profilo. Ciuffi di frùtici crescevano da una parte e dall'altra; e per quanto lontano l'occhio potesse arrivare, non si scorgevano altro che paludi e l'ombra verdeggiante. Qua e là, in mezzo alle chiazze dei pantani, spuntavano alcune piccole capanne a cono, e la lunga strada affondava dritta dritta dentro le nubi sanguigne del cielo. In quel punto incontrò un maschietto con uno strano taglio degli occhi, che stava alando una pesante barca lungo il canale. Voleva chiedergli se avesse visto la regina, quando si accorse con sommo terrore di averne dimenticato il nome. Allora si arrabbiò e pianse e tastò la giarrettiera, ma invano. Si arrabbiò ancora di più nel vedere che stava camminando sulla strada di tre colori, fatta di polvere gialla, di un canale azzurro e di un argine verde. Toccò di nuovo i tre nodi che aveva fatto e pianse. Allora il bambino, pensando che soffrisse ma non capendo il suo dolore, raccolse sull'argine della strada gialla un misero ciuffetto d'erba e glielo mise in mano: - La mandosiana fa miracoli, disse. Fu così che Lilly trovò la sua regina vestita di foglie verdi. La strinse delicatamente nel pugno, e tornò immantinente sulla lunga strada. Il viaggio di ritorno fu più lento dell'altro poiché Lilly era spossata, e le sembrava di aver camminato per anni e anni. Ma

era tutta allegra al pensiero di poter guarire la povera Nan. Attraversò il mare, che era sconvolto da onde mostruose, e arrivò finalmente nel Devon, con l'erba stretta fra la tunica e la camicia. All'inizio non riconobbe gli alberi, e le sembrò che il bestiame fosse diverso. Poi, nella stanza grande della fattoria, vide una vecchia attorniata da un nugolo di bambini. Corse a chiedere di Nan. La vecchia, stupita, scrutò Lilly e disse: - Ma Nan è andata via da parecchio tempo e si è sposata. - Allora è guarita? chiese Lilly gioiosamente. - Guarita sì, certo, disse la vecchia. E tu, poveretta, sei Lilly, vero? - Sì, sì, disse Lilly; ma quanti anni dici che avrò adesso? - Cinquanta, vero nonna? urlarono i bambini; lei non è proprio vecchia vecchia come te. Lilly sorrideva, vinta dalla stanchezza, e il profumo della mandosiana la fece venir meno. Morì sotto il sole. Fu così che Lilly andò alla ricerca della regina Mandosiana, e venne da questa portata via.

3. MONELLE. DELL'APPARIZIONE DI MONELLE. Non so proprio come - attraverso quella scurissima pioggia - mi riuscì di arrivare sino allo spettacolo singolare che nella notte si presentò ai miei occhi. Ignoro la città dove successe, e l'anno in cui successe: ricordo solo che era la stagione delle piogge, delle grandi piogge. Quel che è certo è che, a quei tempi, era facile imbattersi in quei piccoli bambini errabondi che si rifiutavano di crescere. Alcune bambine intorno ai sette anni si inginocchiarono implorando che la loro età rimanesse immutata: per poco la pubertà non divenne letale. Poi arrivarono le candide processioni sotto il cielo livido, e minuscole ombre, che parlavano appena, cominciarono a esortare il popolo bambino. Desideravano più di ogni altra cosa un'ignoranza perpetua. Volevano votarsi a ludi eterni e disperavano del lavoro della vita. Per loro, tutto era passato, mero passato. Fu in quei giorni grigi, in quella stagione di piogge, di grandi piogge, che vidi gli esili lumi filanti della piccola venditrice di lampade. Venni avanti fin sotto la tettoia e, nel chinare il capo, la pioggia mi scivolò lungo la nuca. Ed io le dissi: - Cos'è che vendi, piccola venditrice, in questa triste stagione di piogge? - Vendo lampade, mi rispose lei, ma solo lampade già accese. - Ma, dimmi un po', dissi io, che cosa saranno mai queste lampade accese, alte come un mignolo, che fanno una fiammella piccola come una capocchia di spillo? - Sono, disse lei, lampade per questa stagione di tenebre. Una volta erano lampade per bambole. Ma ora i bambini non vogliono più crescere. Ecco perché io vendo loro queste lampadine che servono solo ad illuminare la pioggia scura. - E riesci a vivere così, piccola venditrice vestita di nero, le dissi io, e ti basteranno per mangiare i soldi che ti danno i bambini per le tue lampade? - Sì, sì, disse lei con semplicità. Ma guadagno pochino. Poiché la pioggia maligna mi spegne spesso le mie piccole lampade, proprio quando tendo la mano per darle. E i bambini non le vogliono più quando sono spente. Nessuno riesce più a riaccenderle. Mi rimangono solo queste qui. Io lo so che non ce la farò a trovarne altre. E quando le avrò vendute tutte, ci toccherà rimanere nell'oscurità della pioggia. - Ma questa è allora l'unica luce di questa cupa stagione, aggiunsi ancora; e come si fa a rischiarare le umide tenebre con lampade così piccole? - Il più delle volte sono spente dalla pioggia, disse lei, e nei campi come nelle strade non sono più di

nessun aiuto. Per questo bisogna restar tappati in casa. I bambini proteggono con le mani le mie piccole lampade, poi si tappano in casa. Restano ognuno per conto suo con la propria lampada e uno specchio, e così hanno quel che basta per vedere la loro immagine nello specchio. Stetti lì a guardare per un attimo quelle povere fiammelle tremolanti. - Ahimè! dissi, è una luce ben triste, cara piccola venditrice, e le immagini degli specchi devono essere immagini altrettanto tristi. - Non sono poi così tristi, disse la bambina vestita di nero scuotendo il capo, dal momento che non crescono. Però le piccole lampade che vendo non sono eterne. La loro fiammella diminuisce piano piano, come se la pioggia scura le affliggesse. E quando le mie piccole lampade si spengono, i bambini non vedono più il chiarore dello specchio e si danno alla disperazione. Giacché temono di non cogliere l'istante preciso in cui crescono. Ecco perché scappano nella notte lamentandosi. Purtroppo, io ho il permesso di vendere a ogni bambino una sola lampada. Se provano a comprarne una seconda, questa gli si spegne fra le mani. Mi chinai un po' di più verso la piccola venditrice, e feci per prendere una delle sue lampade. - Oh, no! non deve toccarle, disse lei. Non ha più l'età in cui le mie lampade bruciano. Sono fatte solo per le bambole e per i bambini. Non ha a casa una lampada per adulti? - Ahimè! dissi, in questa stagione di piogge, di piogge scure, in questo tetro tempo ignorato, bruciano solo le tue lampade per bambini. E volevo anch'io, appunto, vedere un'altra volta ancora il chiarore dello specchio. - Venga, disse lei, guarderemo insieme. Per una piccola scaletta tarlata, mi condusse nella sua cameretta di legno grezzo, nella quale c'era, attaccato alla parete, un frammento di specchio. - Piano, disse, e le farò vedere tutto. La mia lampada è più chiara e più potente delle altre; e così non mi sento troppo povera in mezzo a queste tenebre piovose. E alzò la piccola lampada verso lo specchio. Si formò allora un pallido riflesso, nel quale vidi svolgersi alcune storie note. Ma la piccola lampada mentiva, mentiva, non faceva che mentire. Vidi la piuma palpitare davanti alle labbra di Cordelia, e Cordelia sorrideva e guariva; e insieme al vecchio padre viveva in un'enorme gabbia come un uccello, e lo baciava sulla barba bianca. Vidi Ofelia giocare sull'acqua vitrea dello stagno, e attaccarsi al collo di Amleto con le braccia bagnate e adorne di ghirlande di viole. Vidi Desdemona, mentre errava sveglia sotto i salici. Vidi la principessa Maleine togliere le mani dagli occhi del vecchio re, e ridere e ballare. Vidi Melisenda libera, che si rimirava nella fontana. E io gridai: Piccola lampada bugiarda... - Zitto! disse la piccola venditrice di lampade, e mi mise la mano sulla bocca. Non dite nulla. Non le pare che la pioggia sia già abbastanza scura? Allora abbassai il capo e me ne andai verso la notte piovosa nella città ignota. DELLA VITA DI MONELLE. Non rammento dove fu che Monelle mi prese per mano. Ma penso sia stato una sera d'autunno, quando la pioggia era già fredda. - Vieni a giocare con noi, mi disse. Monelle portava, dentro la tasca, vecchie bambole, e volani dal cuoio scolorito e le penne sgualcite. Era pallida in viso e le ridevano gli occhi. - Vieni a giocare, disse. Noi non lavoriamo più, giochiamo sempre. C'era vento e fango. Il selciato luccicava, e lungo le tettoie dei negozi l'acqua cadeva goccia a goccia. Alcune ragazze tremavano dal freddo sulla soglia delle drogherie. Le candele accese apparivano rosse. A questo punto Monelle tirò fuori dalla tasca un ditale di piombo, una piccola sciabola di peltro, e una palla di gomma.

- Tutto questo è per loro, disse. Sono io che esco per fare la spesa. - Ma dov'è la tua casa; e che lavoro fai; dove sono i tuoi soldi, piccola... - Monelle, disse la bimba stringendomi la mano. Mi chiamano Monelle. La nostra casa è una casa dove si gioca: abbiamo cacciato via il lavoro, e i soldi che tuttora abbiamo ci sono stati regalati per comprar dolci. Ogni giorno vado a cercar bambini nella strada, e parlo loro della nostra casa, e li porto con me. E noi ci nascondiamo bene affinché non ci trovino. Gli adulti ci obbligherebbero a tornare a casa e ci prenderebbero tutto quello che abbiamo. Mentre noi vogliamo restare insieme a giocare. - E a che cosa giocate, piccola Monelle? - Giochiamo a tutto. I più grandi, per esempio, si fanno il loro fucile e la pistola; gli altri giocano con la racchetta, saltano alla corda, si buttano la palla, e poi per esempio fanno il girotondo e si prendono per mano, o per esempio disegnano sui vetri le belle figure che non riusciamo mai a vedere sui libri, e fanno le bolle di sapone; oppure per esempio vestono le bambole e le portano a passeggio; e poi contiamo i numeri sulle dita dei più piccoli per farli ridere. La casa in cui mi condusse Monelle sembrava avere alcune finestre murate; dava l'impressione di essersi distolta dalla strada, e pareva proprio che tutta la luce le provenisse da un ampio giardino. E subito sentii delle voci festose. Tre bambini arrivarono e cominciarono a saltarci attorno. - Monelle, Monelle! gridavano, Monelle è tornata. Poi mi guardarono e sussurrarono: - Com'è alto! Dici che potrà giocare con noi? E la bimba disse loro: - Fra poco anche gli adulti verranno a giocare con noi. Saranno loro ad andare incontro ai bambini. Impareranno a giocare. Noi faremo lezione a loro, e nella nostra classe non si studierà mai. Avete fame? Tutti gridarono: - Sì, sì, eccóme! Facciamo merenda! Allora i bambini portarono tavolini rotondi, e tovaglioli grandi come una foglia di lillà, e bicchieri alti come ditali, e piatti fondi come un guscio di noce. Il pranzo consistette di cioccolato e zucchero in pezzi; e non fu possibile versare il vino nei bicchierini, perché le ampolline bianche, lunghe un dito, avevano il collo troppo sottile. Il salone era vecchio e col soffitto alto. Dappertutto bruciavano, in minuscoli candelieri di peltro, candeline verdi e rosa. Gli specchietti tondi appesi alle pareti sembravano tante monetine tramutate in specchi. E le bambole si distinguevano dai bambini soltanto per la loro assoluta immobilità. Infatti o rimanevano sedute nelle loro poltroncine, o si pettinavano, le braccia per aria, davanti alla pettiniera, o ancora dormivano già nei loro lettini di rame, il lenzuolo tirato fin sotto il mento. E il suolo era coperto di quel muschio finissimo che si suol mettere nei presepi di legno. Sembrava che questa casa fosse una prigione, o un ospedale; ma una prigione in cui si rinchiudevano gli innocenti, affinché non soffrissero; e un ospedale dove si guariva dalla fatica continua della vita. Monelle ne era, ad un tempo, e la carceriera, e l'infermiera. La piccola Monelle stava a guardare i bambini mentre giocavano. Era molto pallida. Forse aveva fame. - E dimmi, di che cosa vivete qui, Monelle? le chiesi improvvisamente. E lei mi rispose con semplicità. - Viviamo di niente. Non sappiamo neanche noi. E di colpo si mise a ridere; ma si vedeva che faceva fatica. Poi si sedette ai piedi del letto ove un bambino giaceva ammalato. Gli porse una di quelle bottigliette bianche, e rimase a lungo china su di lui, con la bocca socchiusa. Un gruppo di bambini stava ballando un girotondo e cantava con voce cristallina. Monelle alzò leggermente la mano e disse: - Zitti! Poi parlò piano piano, usando le sue paroline: - Credo di essere molto malata, ma voi, non andatevene via. Continuate a giocare attorno a me.

Domani qualcun'altra andrà a cercare tanti bei giocattoli. Io rimarrò con voi. Cercheremo di divertirci senza fare rumore. Zitti! Più tardi giocheremo nelle strade e nei campi, e tutti i negozi ci daranno da mangiare. Per ora, ci obbligherebbero a vivere come gli altri. Bisogna saper aspettare. Se non altro, avremo giocato parecchio. Monelle disse ancora: - Amatemi tanto! Io vi amo tutti. Poi parve addormentarsi accanto al bambino malato. Tutti gli altri bambini la guardavano, allungando il collo. Una vocina tremolante disse timidamente: «Monelle è morta». E vi fu un gran silenzio. I bambini disposero attorno al letto le candeline accese. E, pensando che forse dormiva, misero in fila davanti al letto, come se fosse una bambola, alcuni alberelli verde chiaro tagliati a punta, e li sistemarono fra i pomelli di legno bianco, davanti a lei, così da poterla guardare. Poi si sedettero, e rimasero lì a spiarla. Poco dopo, il bambino malato, sentendo che la guancia di Monelle si faceva fredda, scoppiò in lacrime. DELLA FUGA DI MONELLE. C'era un bambino che aveva preso l'abitudine di venire a giocare con Monelle. Si era ai bei vecchi tempi, quando Monelle non era ancora partita. A tutte le ore del giorno egli era lì, accanto a Monelle, intento a guardare i suoi occhi mossi da un lieve tremito. Se lei rideva senza ragione, lui rideva senza ragione. Nel sonno, Monelle soleva tenere la bocca socchiusa come per dire paroline gentili, e quando si svegliava si metteva a sorridere, sapendo che di lì a poco sarebbe arrivato lui. Non era proprio a un gioco che giocavano: Monelle, per la verità, era costretta a lavorare. Così piccola, eppure, restava seduta tutto il giorno dietro una vecchia finestrella coperta di polvere. Di fronte, sotto la lugubre luce del nord, si drizzava un muro calcinato e senza aperture. Ma i ditini di Monelle correvano sul telo come se trotterellassero su una strada di panno bianco, mentre gli spilli appuntati sulle ginocchia segnavano le pause. La mano destra, a mo' di piccolo barroccio di carne, procedeva lasciandosi dietro una scia ricamata; mentre l'ago, in un alternarsi di graffi e stridi, rizzava la sua lingua d'acciaio, poi affondava, e riemergeva tirando il lungo filo attraverso la cruna d'oro. Ma la mano sinistra non le era da meno, e accarezzava con grande dolcezza la tela fiammante, liberandola man mano dalle sue piegoline, come se, in silenzio, stesse rimboccando le lenzuola appena cambiate di un malato. Così il bambino stava a guardare Monelle e si divertiva senza dire una parola: il lavoro di Monelle, infatti, sembrava un gioco, e lei gli diceva cose semplici che non avevano molto senso. Lei rideva al sole, rideva alla pioggia, rideva alla neve. Stava bene al caldo, stava bene sotto l'acqua, stava bene al gelo. Quando aveva un po' di soldi, rideva, pensando che sarebbe andata a ballare con un vestito nuovo di zecca. Quand'era al verde rideva, pensando che avrebbe mangiato fagioli, l'intera provvista, in una settimana. E quando aveva soldi pensava agli altri bambini che avrebbe fatto ridere; altrimenti, aspettava, la manina vuota, di potersi raggomitolare e nascondere, negli stenti e nella fame. Era sempre circondata da bambini che la stavano a guardare sgranando gli occhi. Ma le sue preferenze andavano al bambino che veniva a passare le ore del giorno al suo fianco. Purtroppo, un giorno dovette partire, e così lo lasciò solo. Eppure non le era mai capitato di parlargli della propria partenza. Si fece solo un po' più seria e stette a lungo a fissarlo negli occhi. Ed egli rammentò anche che essa smise di voler bene a tutto quello che la circondava: alla sua poltroncina, ai disegni di animali che le portavano, ai suoi giocattoli e a tutti i suoi straccetti. Se ne stava lì assorta, il dito sulla bocca, a pensare ad altro. Partì una sera di dicembre, quando il ragazzino era già via. Portando in mano la sua piccola lampada vacillante, si inoltrò nelle tenebre senza voltarsi indietro. E quando il bambino tornò, fece appena in tempo a scorgere, all'estremità buia del vicolo, una breve fiammella morente. E nient'altro. Non rivide mai più Monelle.

Per molto tempo egli si domandò perché mai fosse partita senza dirgli nulla. Pensò che essa rifiutasse di esser triste della tristezza sua, di lui. Cercò di convincersi che fosse andata verso altri bambini che magari avevano bisogno di lei; sarà senz'altro andata, con la sua lampada moribonda, a portar loro aiuto, l'aiuto che può dare una favilla gioiosa in mezzo alle tenebre. Chissà, forse si era messa in mente che amarlo troppo, lui, così, da solo, non stesse bene, e che bisognasse amare anche gli altri piccoli sconosciuti. Poteva darsi che Monelle si fosse stancata della grezza strada di tela su cui correvano le sue manine, o che si fosse stancata per via dell'ago che, con la sua cruna d'oro, trascinava il piccolo barroccio di carne fino in fondo, fino alla punta estrema del solco orlato. Essa, probabilmente, avrebbe voluto giocare in eterno. E il bambino non aveva saputo trovare il segreto del gioco eterno. Forse le era venuto in mente di vedere cosa c'era dietro il vecchio muro cieco, i cui occhi, da tanti e tanti anni, erano stati tappati col cemento. Ma un giorno forse sarebbe ritornata. E poi, lei, non aveva voluto fare come tante altre: cioè salutarlo dicendogli «arrivederci, aspettami - e fai il bravo!» solo per farlo rimanere lì a spiare il rumore dei suoi passettini nel corridoio e a seguire uno per uno gli scatti di tutte quante le chiavi nelle serrature; no, lei aveva preferito tacere; e un giorno sarebbe venuta di soppiatto e, standogli alle spalle, gli avrebbe messo due manine calde calde sugli occhi - Ah! che bello! - e avrebbe gridato «cucù!», facendo la voce dell'uccellino bagnato che si rinfranca accanto al fuoco. E rammentò il primo giorno che la vide, mentre saltellava come una fragile e luminosa apparizione bianca tutta scossa dal riso. E i suoi occhi sembravano specchi d'acqua, ove i pensieri ondeggiavano come mobili ombre di piante. Fu lì, vicino alla curva della strada, che lei arrivò, così, senza sciccherie. Si era messa a ridere, a scoppi lenti, simili alla vibrazione sospesa di un bicchiere di cristallo. Era un crepuscolo invernale e c'era nebbia; il negozio era aperto - così come ora; stessa serata, stesse cose intorno, stesso ronzìo alle orecchie: l'anno era diverso, e l'attesa, ecco. Egli procedeva guardingo: tutto era tale e quale come allora; solo che, adesso, egli l'aspettava: non era forse questa una ragione per farla tornare? E rimase lì solo, con la mano aperta, e protesa nella nebbia. Ma questa volta, dall'ignoto, Monelle non venne proprio fuori. E nessuna risata scompigliò la nebbia. Monelle stava lontano, e di certo non ricordava quella sera, e forse nemmeno l'anno. Può essere che si sia introdotta di notte nella cameretta; e chissà, forse lo stava spiando da dietro la porta, trasalendo di gioia. Il bambino si avviò senza fare rumore: la voleva sorprendere. Invece lei non c'era più. Ma sarebbe tornata - sicuro che sarebbe tornata! Gli altri bambini avevano già avuto da lei la loro parte di felicità. Toccava a lui, ora. E il ragazzino sentì la sua voce birichina sussurrare: «Sono stata brava oggi, vero?». Care parole ormai estinte, remote, sbiadite come le antiche stoffe, e consunte di già dagli echi del ricordo. Il bambino si sedette rassegnato. Lì c'era la sua poltroncina di vimini, segnata dal suo corpo, e lo sgabello che le piaceva tanto, e lo specchietto prediletto perché rotto, e l'ultima camicetta che aveva cucito, la camicetta «di nome Monelle», che ritta, un po' rigonfia, aspettava la padrona. Tutte le cosucce della camera l'aspettavano. Il tavolino da lavoro era rimasto aperto. Dentro la sua scatoletta rotonda, il piccolo metro mostrava una linguetta verde trafitta da un anellino. La tela spiegata dei fazzolettini si gonfiava in tante collinette candide; dietro, le punte degli aghi spuntavano fuori, simili a lance imboscate, mentre il piccolo ditale di ferro lavorato sembrava un elmetto abbandonato, e le forbici spalancavano mollemente le fauci al par d'un drago d'acciaio. Così, tutto era immerso nel sonno dell'attesa. E il barroccio di carne, così agile così morbido, non circolava più diffondendo su questo mondo fatato il suo dolce calore. Lo strano, piccolo castello del cucito sonnecchiava tutto. Il bambino continuava a sperare. La porta si sarebbe aperta piano piano; la gioiosa favilla avrebbe cominciato a volteggiare; le collinette candide si sarebbero appiattite; le finissime lance avrebbero cozzato le une contro le altre; l'elmetto avrebbe ritrovato la testolina rosa da calzare; il drago d'acciaio avrebbe di botto schioccato le fauci, e il barroccio di carne avrebbe cominciato a trotterellare dappertutto; e la voce ormai fioca avrebbe detto ancora: «Sono stata brava oggi, vero?» - Non si dice forse che i miracoli, quando ti càpitano, càpitano sempre due volte?

DELLA PAZIENZA DI MONELLE. Arrivai in un luogo stretto e buio, ma pervaso da un malinconico odore di viole essiccate. Non c'era proprio verso di evitare questo luogo, che è come un lungo corridoio. E, procedendo a tentoni, toccai un corpicino rannicchiato nel sonno - il suo sonno d'un tempo -; sfiorai una chioma, passai la mano lungo un volto che conoscevo - e mi parve che il visino si corrucciasse sotto le mie dita -, e capii di avere trovato Monelle mentre dormiva sola soletta in questo luogo buio. Ebbi un grido di sorpresa e le dissi, visto che non piangeva né rideva: - O Monelle! Sei dunque venuta qui per dormire lontano da noi, come il paziente gerbòa nel cunicolo di un solco? E lei sgranò gli occhi e socchiuse la bocca, come una volta quando proprio non capiva, e doveva appellarsi all'intelligenza della persona amata. - O Monelle, dissi io ancora, i bambini non fanno che piangere nella casa vuota; e i giocattoli scompaiono sotto la polvere, e la piccola lampada si è spenta, e le risa nascoste negli angoli si sono dileguate, e la gente ha ripreso a lavorare. Ma noi ti credevamo altrove. Pensavamo che tu stessi giocando lontano da noi, in un luogo dove mai potevamo arrivare. E invece, ecco che stai dormendo, rannicchiata come una bestiola selvatica, sotto quella neve che ti piaceva tanto per il suo candore. Allora lei parlò e, caso strano, la sua voce non era per nulla cambiata, malgrado il luogo buio, e io non potei fare a meno di piangere, e lei mi asciugò le lacrime coi suoi capelli giacché viveva in una grande povertà. - O mio amato, disse lei, non è il caso di piangere: i tuoi occhi ti servono per lavorare, finché bisognerà lavorare per vivere: non è ancora giunto un tempo migliore. Ma tu non devi rimanere in questo luogo freddo e buio. Allora le dissi singhiozzando: - O Monelle, ma tu temevi le tenebre? - Non le temo più, disse lei. - O Monelle, ma tu avevi paura del freddo come della mano di un morto? - Non ho più paura del freddo, disse lei. - E sei qui, sola soletta, tu che sei ancora bambina, e piangevi quando eri bambina. - Non sono più sola, disse lei, io aspetto. - O Monelle, e chi aspetti tu, mentre dormi rannicchiata in questo luogo buio? - Non so, disse lei; ma aspetto. E sto con la mia attesa. Mi accorsi allora che il suo visino era tutto teso verso una grande speranza. - Non devi restare qui, in questo luogo freddo e buio, mio amato, disse lei di nuovo; ritorna dai tuoi amici. - E non vuoi proprio, Monelle, guidarmi e insegnarmi, affinché anch'io abbia la pazienza della tua attesa? Sono così solo! - O mio amato, disse, sarei incapace di insegnarti come una volta, quando ero, come dicevi tu, una bestiolina; sono cose che sicuramente scoprirai da solo, dopo una lunga e travagliata riflessione, come le ho viste io, così, nel sonno, all'improvviso. - Ma dimmi, Monelle, te ne stai nascosta a quel modo senza ricordare la tua vita passata, oppure ti ricordi ancora di noi? - Come potrei dimenticarti, mio amato? Voi siete qui, nella mia attesa, e io dormo appoggiata a questa attesa. Ma non posso dire di più. Rammenti? io amavo molto la terra, e sradicavo i fiori per piantarli di nuovo; rammenti? spesso dicevo: «Se io fossi un uccellino, partendo tu mi potresti mettere in tasca». O mio amato, sono qui nella buona terra, come un seme nero, e aspetto di diventare uccellino. - O Monelle, tu dormi per poi volartene via lontano da noi. - No, mio amato, non so se volerò via; io non so niente. Ma mi sono ravvolta con tutto ciò che

amavo, e dormo appoggiata alla mia attesa. E prima di addormentarmi ero, come dicevi tu, una bestiolina; ero tale e quale un brucolino nudo. Insieme, un giorno, abbiamo trovato un bozzolo bianco e soffice, e questo bozzolo non presentava nessun foro. Allora tu, cattivo, l'hai aperto e l'hai trovato vuoto. Ma credi per davvero che non ne sia uscita alcuna bestiolina alata? Come abbia fatto, questo nessuno lo sa. Avrà intanto dormito a lungo. E prima di dormire sarà stata un brucolino nudo nudo; e i brucolini, si sa, sono ciechi. Devi capire, mio amato (non è del tutto vero, ma spesso penso che sia così), che mi sono abbozzolata insieme a tutto quello che amo: la terra, i giocattoli, i fiori, i bambini, le paroline carine e il ricordo di te, mio amato. E' un rifugio bianco e soffice, e non mi sembra né freddo né buio; ma forse non è così per gli altri. E so perfettamente che non si aprirà e che resterà chiuso come il bozzolo di una volta. Ma io non ci sarò più, tesoro mio. Poiché la mia attesa consiste nell'andar via come la bestiolina alata; nessuno sa come. Ma dove voglia andare poi, non lo so proprio; eppure questa è la mia attesa. Ed anche i bambini, e tu, mio amato, e il giorno in cui non si lavorerà più sulla terra, tutto questo è la mia attesa. Io sono sempre una bestiolina, mio amato; non saprei spiegarmi meglio. - Devi, devi uscire con me da questo luogo buio, dissi io; so che tu non le pensi queste cose; ti sei nascosta qui per poter piangere; e poiché ti ho finalmente ritrovata, poiché ti ho ritrovata mentre dormivi qui, sola soletta, mentre aspettavi qui, vieni con me, Monelle, vieni con me, fuori da questo luogo buio e stretto. - Non restare qui, o mio amato, disse Monelle, che troppo soffrirai; ed io non posso venire, poiché la casa che mi sono fatta è tutta chiusa, e non è certo così che ne potrò uscire. Allora Monelle mi mise le braccia attorno al collo e, caso strano, il suo bacio fu uguale a quelli di una volta; ecco perché io piansi di nuovo, e lei mi asciugò le lacrime coi capelli. - Non devi piangere, disse lei, se non vuoi affliggermi durante l'attesa; e non è che io debba aspettare a lungo. Non affliggerti oltre; poiché ti benedico per avermi aiutata a dormire dentro la mia piccola nicchia serica, la cui migliore seta è fatta di te, e ove ora sto dormendo, avvoltolata su me stessa. E come un tempo nel sonno, Monelle si raggomitolò, appoggiandosi all'invisibile, e mi disse: «Io dormo, mio amato». Fu così che trovai Monelle; ma chi mi dice che potrò trovarla di nuovo in quel luogo stretto e buio? DEL REAME DI MONELLE. Stavo leggendo, quella famosa notte, ma mentre le dita seguivano righe e parole, la mia mente era altrove. Attorno a me cadeva una pioggia nera, obliqua e tagliente. La fiamma della mia lampada illuminava le fredde ceneri del focolare. E uno strano sapore di sudiciume e di scandalo mi riempiva la bocca; giacché il mondo mi sembrava buio, e le mie luci si erano spente. Per tre volte gridai: - Avrei tanta voglia di acque melmose per sedare la mia sete d'infamia. «Sì, sono proprio dalla parte dello scandalo; puntatemi pure il dito addosso. «Bisognerebbe aggredirli col fango: vedo che non mi disprezzano affatto. «Sul tavolo mi attenderanno i sette bicchieri riempiti di sangue, e in mezzo a loro scintillerà il barbaglio d'una corona d'oro». Ma una voce risuonò, che non mi era sconosciuta, e il volto di colei che apparve non mi era estraneo. Essa gridò queste parole: - Un reame bianco! un reame bianco! Conosco un reame bianco! Ma io mi girai dall'altra parte e le dissi, senza scompormi: - Piccola faccia bugiarda, piccola bocca menzognera, non vi sono più né re né reami: poiché i tempi sono passati. E questo reame qui è nero, e per di più non è neanche un reame: poiché ci stanno tanti re delle tenebre che agitano le braccia. In nessuna parte del mondo esiste un re bianco e un reame bianco. Ma essa gridò di nuovo queste parole: - Un reame bianco! un reame bianco! Io conosco un reame bianco!

Allora le volli afferrare la mano, ma essa si schermì e disse: - Né con la tristezza né con la violenza. Eppure un reame bianco c'è! Accostati alle mie parole; ascolta. E rimase in silenzio; ed io ricordai. - E neppure col ricordo, disse lei. Accostati alle mie parole; ascolta. E rimase in silenzio; ed io mi udii pensare. - E neanche col pensiero, soggiunse ancora. Accostati alle mie parole; ascolta. E rimase in silenzio. Allora distrussi in me stesso la tristezza del ricordo, e il desiderio di violenza, e ogni mia intelligenza scomparve. Rimasi in attesa. - Ecco, disse lei. Tu vedrai il reame ma non so se potrai entrarci. Poiché io sono difficile da capire, tranne che per coloro che non capiscono; e sono difficile da afferrare tranne che per coloro che non afferrano più; e sono difficile da riconoscere tranne che per coloro che non hanno ricordo di sorta. In verità, ora tu mi possiedi e già non mi possiedi più. Ascolta. Ma non sentii niente. Ed essa scosse il capo e mi disse: - So che rimpiangi la tua violenza e il tuo ricordo, e che non hai portato a termine la loro distruzione. Bisogna distruggere per ottenere il reame bianco. Confèssati, e ti libererai; affida alle mie mani la tua violenza e il tuo ricordo, e io li distruggerò; poiché ogni confessione è una distruzione. Allora io esclamai: - Darò tutto a te, sì, darò tutto a te. E tu lo prenderai e lo annienterai, poiché non mi sento più abbastanza forte. Ho bramato un reame rosso. C'erano dei re sanguinari che affilavano le loro lame. Donne dagli occhi bistrati piangevano sulle giunche cariche di oppio. Spesso, i pirati sotterravano nella sabbia delle isole interi bauli colmi di lingotti. Le prostitute erano tutte libere. Ladri incrociavano per le strade sotto il pallore dell'alba. Molte ragazze si rimpinzavano di leccornie e di lussuria. Nella notte azzurra, una schiera di imbalsamatrici dorava i cadaveri. I bambini invocavano amori lontani e delitti ignoti. I pavimenti delle torride terme brulicavano di corpi nudi. Ed ogni cosa veniva sfregata con spezie fortissime e illuminata con ceri rossi. Ma questo reame è sprofondato sotto terra e io mi sono svegliato nelle tenebre. E allora mi toccò un reame nero, che reame proprio non era: poiché era pieno di re che si credevano re, e lo oscuravano con le loro opere, e con i loro comandamenti. Era giorno e notte bagnato fradicio da una pioggia cupa; ed io vi ho vagato, a lungo, per i sentieri, finché il chiarore minuscolo d'una lampada tremolante non mi sia apparso nel cuore della notte. La pioggia mi inzuppava la testa; ma io vivevo sotto la piccola lampada. Colei che la reggeva si chiamava Monelle, e tutti e due abbiamo giocato insieme in questo nero reame. Ma una sera la piccola lampada si è spenta e Monelle è fuggita. L'ho cercata, per molto tempo, in mezzo alle tenebre: ma, ahimè, non mi riesce di trovarla. E questa sera l'ho cercata fra i libri, ma so di cercarla invano. Mi sono perso nel nero reame; e non riesco a dimenticare il minuscolo lumicino di Monelle. Ho nella bocca uno strano sapore d'infamia. Non appena terminai di parlare, capii che la distruzione si era prodotta in me; la mia attesa si illuminò allora di un fremito, poi sentii le tenebre e la voce di lei che diceva: - Dimentica ogni cosa, e ogni cosa ti sarà restituita. Dimentica Monelle, ed essa ti sarà restituita. Questa è la mia parola novella. Prendi a modello il cucciolo piccolo piccolo, che non ha ancora gli occhi aperti e cerca a tentoni una cuccia per il suo musetto gelato. Poi, colei che mi parlava gridò: - Un reame bianco! un reame bianco! Conosco un reame bianco! Fui allora sopraffatto dall'oblìo, e i miei occhi irradiarono candore. E colei che mi parlava gridò: - Un reame bianco! un reame bianco! Conosco un reame bianco! L'oblìo penetrò in me, e il luogo della mia intelligenza si fece profondamente candido. E colei che mi parlava gridò di nuovo:

- Un reame bianco! un reame bianco! Conosco un reame bianco! Ecco la chiave del reame: nel reame rosso c'è un reame nero; nel reame nero c'è un reame bianco; e nel reame bianco... - Monelle, gridai, Monelle! Nel reame bianco vi è Monelle! E il reame apparve; ma era murato di bianco. Allora le chiesi: - Ma dov'è la chiave del reame? Ma colei che mi parlava rimase silenziosa. DELLA RESURREZIONE DI MONELLE. Lupetta mi condusse lungo un solco verdeggiante fino al margine del campo. Più avanti, la terra si sollevava, e all'orizzonte, una linea bruna tagliava il cielo. Più oltre, nubi infuocate scendevano già verso il tramonto. Al chiarore incerto e sospeso della sera, notai alcune piccole ombre vaganti. - Fra poco vedremo il fuoco che si accende, disse lei. E domani si accenderà più in là. Essi non abitano da nessuna parte, e accendono un fuoco solo, per ogni posto. - E chi sono costoro? chiesi a Lupetta. - Non si sa. Sono bambini vestiti di bianco. Qualcuno è venuto dai nostri paesini. Altri camminano da tanto tempo. Vedemmo brillare una fiammella che danzava sulle alture. - Ecco il loro fuoco, disse Lupetta. Ora possiamo raggiungerli. Di notte, si fermano laddóve hanno acceso il fuoco, e il giorno dopo lasciano la contrada. Quando giungemmo sul crinale dove bruciava la fiamma, vedemmo attorno al fuoco un gran numero di bambini bianchi. In mezzo a loro riconobbi la piccola venditrice di lampade che incontrai una volta nella città nera e piovosa. Stava parlando loro, a quanto sembrava, e li guidava. Si alzò, restando sempre in mezzo ai bambini, e mi disse: - Non vendo più quelle piccole lampade bugiarde che si spegnevano sotto la pioggia cupa. Ormai sono arrivati i tempi in cui la menzogna ha preso il posto della verità, e lo squallido lavoro è morto per sempre. Abbiamo giocato nella casa di Monelle; ma le lampade erano giocattoli e la casa un rifugio. Monelle è morta; io sono la stessa Monelle. Mi sono alzata di notte, e i piccoli mi sono venuti dietro, e adesso andremo per il mondo. Si girò verso Lupetta: - Vieni con noi, disse, e sii felice nella menzogna. E Lupetta corse in mezzo ai bambini, e si trovò vestita di bianco come gli altri. - Andiamo in giro, disse quella che ci guidava, e mentiamo al primo che capita per regalare un po' di gioia. I nostri giocattoli erano menzogne, ed ora i nostri giocattoli sono le cose. Nessuno di noi soffre e nessuno muore: noi diciamo che costoro si sforzano di conoscere la triste verità, che non esiste per nulla. Coloro che vogliono conoscere la verità si mettono in disparte e ci lasciano. Noi, al contrario, non abbiamo nessuna fede nelle verità del mondo: esse conducono alla tristezza. E vogliamo portare i nostri bambini verso la gioia. Ora gli adulti possono venire verso di noi: noi insegneremo loro l'ignoranza e l'illusione. Faremo loro vedere i fiorellini dei campi quali non li hanno mai visti; poiché ogni fiorellino è nuovo. Ci stupiremo di ogni paese visitato; poiché ogni paese è nuovo. Non vi sono somiglianze in questo mondo, e non vi sono ricordi per noi. Tutto cambia di continuo, e noi ci siamo abituati al cambiamento. Ecco perché ogni sera accendiamo un fuoco in un luogo diverso; e attorno al fuoco inventiamo, per

rallegrare il momento, storie di pigmei e di bambole vive. E quando la fiamma si spegne, un'altra menzogna ci assale. E siamo allegri di stupircene. E la mattina non riconosciamo più i nostri volti: capita infatti che certi abbiano voluto apprendere la verità e che gli altri si ricordino solo della menzogna della vigilia. Così passiamo attraverso le contrade, e la gente viene in folla verso di noi, e coloro che ci seguono diventano felici. Quando vivevamo in città, ci costringevano sempre allo stesso lavoro; noi stessi amavamo sempre le stesse persone; il lavoro, così, ci stancava, e il veder soffrire e morire le persone che amavamo, ci affliggeva. Il nostro errore fu quello di fermarci mentre la vita intorno scorreva, e, restando fermi, di guardare questo scorrere delle cose; oppure fu quello di cercare di fermare la vita e di costruire, in mezzo alle rovine che mutavano, una dimora sempiterna. Ma le piccole lampade bugiarde hanno illuminato per noi la via della felicità. L'uomo cerca le sue gioie nel ricordo e oppone resistenza alla vita; s'inorgoglisce della verità del mondo, la quale, per essere diventata verità, non è più vera. La morte addolora l'uomo; la morte che altro non è se non l'immagine della sua scienza, e delle sue leggi immutabili; e l'uomo si rammarica d'aver fatto scommesse sballate sull'avvenire, che egli stesso ha calcolato, a partire da verità che non hanno più corso, e nelle quali continua a fare scelte in base a desideri parimenti inattuali. Per noi ogni desiderio è nuovo di zecca, e non desideriamo altro che l'attimo menzognero; ogni ricordo per noi è vero, e abbiamo rinunciato a conoscere la verità. E guardiamo al lavoro come a cosa funesta, visto che ferma il nostro vivere e lo rende simile a se stesso. E ogni abitudine ci diventa perniciosa; giacché ostacola il nostro darci interamente alle nuove menzogne. Tali furono le parole di colei che ci guidava. E io supplicai Lupetta di tornare insieme a me dai suoi genitori; ma dal suo sguardo capii che lei non mi riconosceva più. Vissi, per tutta la notte, in un universo di sogni e di menzogne, e cercai di imparare l'ignoranza e l'illusione, e lo stupore del bambino appena nato. Poi le piccole fiammelle danzanti si afflosciarono. Allora, nella tristissima notte, mi accorsi di alcuni bianchi bambini che piangevano, perché non avevano ancora perduto la memoria. Altri, invece, furono improvvisamente colti dalla frenesia del lavoro, e nel buio si misero a falciare spighe, che poi legavano in tanti covoni. Altri ancora, avendo voluto conoscere la verità, girarono i loro visini pallidi verso le fredde ceneri, e morirono tremando nelle loro vesti bianche. Ma quando il cielo rosa palpitò, colei che ci guidava si alzò; non si ricordò né di noi né di quelli che avevano voluto conoscere la verità. Si avviò, e molti bambini bianchi la seguirono. Formavano un'allegra brigata, e ridevano sommessamente di ogni cosa. Quando calò la sera, costruirono di nuovo il loro fuoco di paglia. Ma di nuovo le fiamme si afflosciarono, e nel cuore della notte le ceneri diventarono fredde. Allora Lupetta si ricordò: e preferì amare e soffrire. Poi mi venne vicino col suo vestitino bianco, e insieme fuggimmo attraverso la campagna. Nota del traduttore. I seguenti nomi propri del racconto "La Sognatrice": Morgiana, Qamar az-Zaman, Salomone, Giawhareh, si riferiscono a personaggi delle "Mille e una notte". Lilit, invece, è il nome di un personaggio biblico. I nomi propri che ricorrono nel capitolo "Dell'apparizione di Monelle", sono

nomi di eroine di Shakespeare (Cordelia, Ofelia, Desdemona) e di M. Maeterlinck (Maleine, Melisenda). MATERIALI E STRUTTURE DEL SOGNO NEI RACCONTI DI SCHWOB di Rashida Agosti. Se le date di pubblicazione di "Le livre de Monelle" e della "Traumdeutung" fossero invertite, il nostro compito si ridurrebbe ad annoverare l'enorme massa di prestiti contratti da Schwob nei riguardi di Freud - soprattutto per quanto concerne gli undici racconti della parte centrale del "Libro di Monelle" ed alcuni fra i componimenti finali - e a registrare il modo palese in cui Schwob avrebbe fatto tesoro delle scoperte di Freud; ma il primo esce nel 1894, la seconda segna l'inizio del nostro secolo. Nessun dubbio quindi sulla paternità delle intuizioni che stiamo per illustrare. Una sola precisazione: il nostro intento non è affatto di dimostrare che tali racconti (li denomineremo tutti così, per comodità) sono racconti di sogni, né alludiamo al ricchissimo gioco delle ricorrenze di temi quali l'attesa, il mare, lo specchio, la siepe, il focolare, l'acqua, la macchia, il bacio, eccetera; vorremmo solo svelare il segreto e ferreo telaio che serra i fili di questi esemplari della novellistica, e li aggrega in una struttura complessa e quasi senza fondo. Spesso, procedendo nella lettura di questi racconti, capita di «incespicare» in sequenze narrative più o meno brevi, già lette in precedenza in altro luogo del volume. Questi fenomeni di "déjà vu" appaiono ancora più sorprendenti in quanto Schwob, da un racconto all'altro, «volta pagina» letteralmente e metaforicamente, creando in poche righe, magistrali per concisione, bellezza formale e densità informativa (e sin dall'"incipit" di ognuno di essi), una formidabile rottura, una vera e propria svolta insieme temporale, spaziale e sociale. Svolta tanto più incisiva, in quanto sottolinea e accentua l'esistenza del comune denominatore che sottende la serie dei racconti: vale a dire la presenza dell'ambigua figura femminile di bambine in età preadolescenziale. Ma ecco, in breve, come funziona il dispositivo. L'autore innesta, in seno ad alcuni racconti, interi segmenti frastici già inglobati in altre parti della raccolta. Così, nel racconto che ha per titolo "La perverse", si può leggere: «"Un frottement continu lui chatouilla la peau" [...]» (pag. 46, pag. 33), (1) e in "L'exaucée": «Cicè rasa deux bouquets d'herbes longues "qui la chatouillèrent finement"» (pag. 90, pag. 60); oppure, in "La déçue": «Le vent fit sauter l'enveloppe huileuse sur les touffes de muguet"» (pag. 55, pag. 38) e in "La sacrifiée": «Et j'avais aussi les aventures de la reine Mandosiane; "mais une coquine de bourrasque m'a tiré la dernière feuille des mains" [...]» (pag. 105, pag. 69); o ancora, in "La volupteuse": «"Elle incisait avec ses ongles des têtes vertes de pavots"» (pag. 38, pag. 29) e in "La sauvage": «Elle parut très joyeuse, "et se mit à fendre aussitôt la tige avec ses ongles"» (pag. 66, pag. 45) e poco più avanti: «et toutes les fois qu'on lui présentait les épis ou les rameaux, "elle fendait la tige ou le bois"» (pag. 67, pag. 45). Esaminiamo ora più da vicino i due esempi seguenti: ancora da "La voluptueuse": «Il la considera "et fit claquer ses mâchoires: 'Et quand il" [l'Ogre] "a mangé les sept petites princesses, ça a fait gnam, gnam, gnam'"» (pag. 40, pag. 30) e da "La perverse", allorquando la provocatoria Madge chiede, al mugnaio, notizie del presunto gigante che macinava ossa di morti per farne dell'ottimo pane: «"Ça devait craquer, hein, des os de morts" [...] Et le géant faisait du très bon pain avec, très bon "et il le mangeait -oui, il le mangeait"» (pag. 51, pag. 36). Notiamo intanto che, qui, oltre al rumore della masticazione (implicito, nel secondo esempio, e trasposto nello scricchiolìo delle ossa macinate) ci sono altre analogie: Orco - gigante; principessine - ossa di morto. Ma il fatto più stupefacente è che, di queste due ricorrenze del rumoreggiare mangiando, l'autore ci dà un «avantgoût» già nel primo racconto, "L'egoiste", ove, attraverso una bellissima metafora, lo schioccar delle labbra slitta a significare il rumore di passi resi difficoltosi da un fango vagamente vorace, e dunque 'orchesco': «"Elle entendit ses pas sucés dans la boue"» (pag. 36, pag. 28). Per maggior chiarezza contrassegniamo col numero 1 quest'ultima sequenza dei passi, col 3 quella dell'Orco, e col 4 quella del gigante; e ritorniamo ancora a "L'egoiste", e precisamente al momento in cui la protagonista-bambina, mostrando le mani al mozzo, col quale aveva tramato una fuga dal collegio, si trova a dirgli: «"'J'avais emporté des croûtes. Elles sont en bouillie". Tiens!' [...] Elle tendit la

main. "Ses doigts étaient collés dans une panade froide"» (pag. 36, pag. 27); e diamo il numero 2 a quest'ultimo brano citato. Non occorre avere eccessiva destrezza nell'interpretazione dei sogni per vedere che la sequenza 4 - per altro «preparata» da una «stranezza» della protagonista: «"Elle arracha une croûte blanche de la muraille et la mâcha"» (pag. 48, pag. 34), - che chiameremo «il sogno», quella cioè in cui il gigante fa pane con ossa di morti e poi se lo mangia, racchiude in sé tutti gli elementi delle altre tre sequenze. Tutto sta come se Schwob trattasse le sequenze 1, 2, 3 come "resti diurni" del «sogno», o come "pensieri del sogno". Infatti abbiamo qui un magnifico esempio - freudiano ante litteram - di "condensazione" (gli elementi del «sogno» 4 sono sparsi in tre sequenze diverse: le principessine diventano ossa di morti; il pane ridotto in poltiglia diventa pane masticato dal gigante; l'orco si fa gigante; il rumore dei passi, scricchiolìo di ossa; il fango carnivoro, la bocca di un gigante); nonché di "sovradeterminazione" con conseguente "spostamento": appare infatti dilatata oltre misura la rappresentazione dell'elemento "pane", mentre l'inquietante rumore dei passi succiati dal fango esce "déguisé" in un detto, assente dal racconto, ma rigorosamente annunciato da un dettaglio subdolo, determinante, e di poco precedente: vale a dire "pas de géant" («Madge "écouta jusqu'à ne plus entendre le bruit de ses pas"», pag. 49, pag. 35). Quegli stessi passi da gigante che, poco più in là, ritroveremo, ancora "in absentia", negli stivali, ugualmente striscianti, del gatto di Cicè: «"Je n'ai pas de marraine" [chiara allusione alla munifica fata-madrina di Cenerentola], "mais j'ai mon chat"» (pag. 90, pag. 60), sottinteso il "chat botté" della fiaba omonima, ovvero il gatto con gli stivali. A volte le corrispondenze (i fenomeni di "déjà vu") si manifestano sotto la forma di una vera e propria traslitterazione frastica. Eccone uno splendido esempio che coinvolge due interi brani, inclusi in luoghi diversi (e lontani) del volume. Si tratta dei due brani seguenti: dal capitolo "De sa fuite": «Mais les petits doigts de Monelle couraient dans le linge comme "s'ils trottaient sur une route de toile blanche et les épingles piquées sur ses genoux" marquaient les relais. "La main droite était ramassée comme un petit chariot de chair", et elle avançait "laissant derrière elle un sillon ourlé"; et crissant, crissant, "l'aiguille dardait sa langue d'acier" [...]» (pag. 127, pag. 84), brano ove la fatica di Monelle è nobilitata mediante l'uso intensivo della metafora; e da "La sacrifiée": «[...] elle passa l'été de sa vie, "trottant par la poussière blanche, pataugeant par l'épaisse boue des ornières, accompagnée par les chariots" des rouliers, et, parfois, [...] suivie par "les grands chars où s'entassaient des gerbes et où quelques faux luisantes se balançaient"» (pag. 106, pag. 69-70). Dal raffronto dei due passi, e sebbene nell'economia del testo, la loro successione sia rovesciata, sicché la realizzazione del desiderio precede la squallida realtà che lo cova, dal raffronto, dicevamo - ma anche da un inserto preciso dell'autore sempre in "De sa fuite": «C'était au temps ancien, quand Monelle n'était pas encore partie» - è agevole constatare che il primo, vale a dire il quadro di «couseuse», viene ad essere sublimato nella sequenza-scampagnata. Infatti, la grigia e forzata immobilità di Monelle, prorompe, per così dire, in un contatto festoso con la campagna e con i contadini, mentre i gesti minuti, precisi e coatti del cucito si liberano nella gioiosa pantomima infantile di chi marina la scuola. Abbiamo così le seguenti e puntuali corrispondenze (o "sublimazioni"): la tela bianca su cui scorrono le dita di Monelle - la strada polverosa ove trotterella Lilly; il solco orlato - le carreggiate di fanghiglia secca; gli spilli appuntati sulle ginocchia - le falci luccicanti ficcate nei covoni accatastati sui carri; la mano raccolta a mo' di barroccio - i barrocci dei contadini. Insomma la metafora prende il sopravvento sul valore reale delle cose, come se il «sogno» fosse solo la rappresentazione di una traslazione metaforica degli eventi. Ora proporremo rapidamente qualche altro esempio di «grumo» onirico. In "La fidèle", abbiamo Jeanie che per una strana attrazione si ritrova in una casa chiusa, e vede, oltre alle prostitute e a un pappagallo, «[...] un peu de mousse dans trois gros verres "étranglés", sur la table» (pag. 72, pag. 48). Il verbo "étrangler" (strozzare), qui usato, nel suo senso figurato, per indicare un tipo di bicchiere dal collo molto stretto, viene rappresentato in altro luogo - e precisamente nel capitolo su Monelle intitolato "De sa vie" - quasi letteralmente nel suo senso «stretto» ("stricto sensu") di «stringere il collo fino a impedire totalmente il passaggio dell'aria»; tanto che la sua primaria definizione viene visualizzata: «"et le vin ne pouvait pas couler dans les verres, car les petites fioles blanches, longues comme le petit doigt, avaient le cou trop mince"» (pag. 122, pag. 80). E infine

quest'ultimo esempio, interessantissimo dal punto di vista psicanalitico: quello, tratto da "La déçue", quando Bargette rivela ai suoi nuovi amici i suoi desideri segreti: «"J'avais voulu faire un jardin", un beau jardin "dans notre maison". Dehors, il y a trop de vent. "J'aurais enlevé les planches du parquet, au milieu"; j'aurais mis de la bonne terre, et puis de l'herbe, et puis des roses, et puis des fleurs rouges qui se ferment la nuit [...]. "Papa m'a défendu". Il m'a dit que ça abîmerait la maison et que ça donnerait de l'humidité. Alors je n'ai pas voulu d'humidité» (pagg. 58-59, pagg. 39-40); desideri contrassegnati dal divieto paterno, che si tramutano, nel precedente racconto "La perverse", in richieste fatte da una fantomatica Società (in tutti i modi assente e senza volto) al mastro mugnaio; richieste a loro volta bollate dal diniego di quest'ultimo, che ovviamente ricopre la figura del padre: «[...] "sous la colline, il y a des chambres de pierre qu'une société a voulu m'acheter, pour fouiller". Plus souvent je démolirais mon moulin. "Ils n'ont qu'à ouvrir les vieilles tombes dans leurs villes". Elles pourrissent assez» (pag. 51, pag. 36). Da notare la maestria con la quale Schwob maneggia la rappresentazione onirica di simboli sessuali incestuosi: la casa - le stanze di pietra; l'asportazione di assi - il frugare sotto terra; o ancora i fiori che si chiudono di notte, l'umidità rifiutata, le tombe, eccetera. Ma lasciamo al lettore il piacere di scoprire altri trapianti di sequenze da un racconto all'altro, e di reperire altre geniali intuizioni di Schwob cui corrispondono altrettanto geniali tecniche narrative. Noi comunque non vorremmo concludere queste righe senza segnalare almeno due fra gli esempi che testimoniano della straordinaria capacità riflessiva dell'autore - una capacità del resto riconosciutagli dai più illustri contemporanei: basti per tutti Paul Valéry con la dedica a Schwob dell'"Introduction à la méthode de Léonard de Vinci". Tratti ambedue dalla raccolta di saggi che Schwob pubblicò sotto il titolo di "Spicilège", il primo brano è una profonda meditazione sulla differenza e la somiglianza: «Imaginez que la ressemblance est le langage intellectuel des différences, que les différences sont le langage sensible de la ressemblance. "Sachez que tout en ce monde n'est que signes, et signes de signes"». (2) In quanto al secondo brano, basta leggerlo, per capire come Schwob fosse un mirabile precursore del pensiero moderno: «Il peut y avoir de l'infini entre les moments d'un temps divise à l'infini. On perçoit très bien que "le temps psychologique" (et le temps astronomique se mesure par des différences de positions dans l'espace) "est essentiellement variable". Notre notion du temps se transforme du sauvage à l'homme civilisé, de l'enfant à l'adulte, du rêve à la veille». (3) Quest'ultimo brano faceva parte di un articolo uscito sul «Mercure de France» nel 1892. L'altro, e più illustre, Marcel, aveva ventun anni. NOTE. N. 1. Tutte le citazioni sono tratte dall'edizione del Mercure de France, del 1959. La seconda indicazione di pagina si riferisce al presente volume [cartaceo]. I corsivi delle citazioni sono nostri. N. 2. Cfr. "Spicilège", Mercure de France, Paris 1960, pag. 150. N. 3. Ibidem, pag. 138.