MANUALE DI LITURGIA Vol I. Nozioni Generali [PDF]

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Zitiervorschau

Mons Doti. PIETRO VENERONI

MANUALE DI L I T U R G I A N ona Edizione riveduta e corretta da Mons. Malocchi Vie. Gen. di Pavia Volume Primo

Nozioni Generali Forma e parti della Liturgia

"EDITRICE ÀNCORA» Sede di Pavia

Proprietà letteraria riservata ai termini di legge*

Scuola Tipografica Istituto Pav. Artigianelli >Pavia -1940-XVHI

PARTE

I

Nozioni Generali sulla Liturgia

CAPO I.

Concetto e divisione della Liturgia 1. Etimologia. La parola liturgia, Ιειοτυργϊχ deriva dalle voci gre­ che htrov o ìwvov ed epycv. Presso i classici scrit­ tori si usa a significare una funzione, un officio o ministero pubblico, esercitato nell’interesse del popolo (1). Nella S. Scrittura questa parola assume un significato più ristretto, il servizio divino. Così presso i Settanta indica il ministero di Leviti e dei Sacerdoti che esercitavano il divin culto (2), a cui partecipava il popolo (3) ed anche l’atto più solen­ ne del culto sacro : il sacrificio (4). Nel Nuovo Te­ stamento essa significa tanto l’antico ministero levitico (5) quanto la missione di Gesù Cristo ri­ guardo al popolo gentile (6) e le funzioni del suo sacerdozio eterno presso il Padre (7), a beneficio dei credenti (8). (1) Alcuni, come Bergier, Dichlich, vorrebbero far derivare l i parola liturgia da λίτυς εργον opera di preghiera; ma que­ sta etimologia non è generalmente adottata. Maugère: « Notions généralcs sur la liturgie » Chap. I. (2) Exod XXVIII, 39, XXIX, 30; Deut. X VII, 12; Joel I. 9 ; Shron. XXIII, 28; II, Chron. V , 13; X I, 14; XXXV, 3-10. (3) Chron. XXV, 3. (4) Exod. XXVIII, 30; Chron. II. XXXV, 16; Joel I, 9. (5) Hebr. IX, 21. ( 6 ) Rom . XV, 6 . (7) Hebr. V i li, 2; Act. Apost. XHI, 2; Hebr. VIH , 6 ; IX,

.

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(8 ) Hebr. V, 1 ; V II, 25.

8

Capo l

Il centro del culto pubblico cattolico è la SS. Eu­ carestia e precisamente il santo sacrificio della Messa, la sinossi, a cui tutto è ordinato e da cui tutto dipende. Così nei primordi della Chiesa i Sa­ cramenti o si amministravano nella Messa od ave­ vano con essa stretta relazione; la salmodia prece­ deva il Sacrificio. Ed anche oggidì alcuni Sacra­ menti si amministrano solennemente nella Messa o si consacra l’olio che è materia di tre sacra­ menti; nelle chiese conventuali la Messa ha rela­ zione col divino Ufficio. Perciò la parola liturgia venne adoperata a dinotare il santo Sacrificio della Messa, ed il rito con cui si offriva (1), quantunque si usi anche spesso per significare le funzioni del ministero sacerdotale (2) : così nel Sinodo di Ancira e nelle opere di S. Giovanni Crisostomo (3). I pa­ dri greci poi aggiungono la parola mystica o sacra ogni volta che volevano indicare la S. Messa. Così Teodoreto : aCur novi testamenti Sacerdotes mysti­ cam liturgiam peragunt,... y> (4); ed Eusebio di Ce­ sarea : «divinis coeremoniis et mystica liturgia, sanctorumque precationum societate perfrui...y> (5)» 2. Cosa significa attualmente. Ora però questa parola non si usa più indifferen(1) Const. Apost. V i li. 6 ; Goar Euchol. Graec. p. 9; Διδαχή τών δώδκηεα Δπστόλων c. 15; Clem. Rom . I Cor. XLIV. 3. (2) Cfr. Dr. Valentin Thalhofer. « Manuale di Liturgia Cat­ tolica ». Ediz. 2. Friburgo. 1894. § 1. (3) Syn. Anc. a. 314; Jo. Chrys. Hom. 29 in Ep. ad Rom*·

-.

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(4) Ad Hebr. V ili. (5) In Vit. Costantini, IV·

Concetto e divisione della Liturgia

9

temente a dinotare un officio pubblico, sacro o pro­ fano, ma è esclusivamente adoperata per le cose sacre; nè va più ristretto al Sacrificio eucaristico, ma comprende tutti gli atti di culto stabilito in una società per onorare Dio, o in altri termini, l’insie­ me dei mezzi con cui una società onora Dio (1). 3. Definizione.

Gesù Cristo è il sommo ed eterno Sacerdote, il quale incentra in sè tutto il culto. Per Lui, in Lui e con Lui solo si rende al Padre ogni onore e gloria (2). Tale culto in ispirito e ve­ rità egli lo esercitò durante la sua vita mortale e lo esercita ancora in cielo interpellando per noi, cioè : « humanitatem pro nobis assumptam et mysteria in ea celebrata, conspectui paterno repraesentando » (2). Ma egli ha creato una società religiosa, una sa­ cra gerarchia, incaricata di continuare sulla terra l’esercizio pubblico del culto alla divinità; questa società è la Chiesa cattolica, apostolica, romana. Perciò la liturgia si può definire : cc II complesso degli atti che si esercitano nella Chiesa di Dio in terra, da persone gerarchiche, come organi ordinati e rappresentanti visibili di Cristo, sommo Sacerdote celeste, a bene dei fedeli e nella più intima unione con essi, come culto religioso della divina maestà, secondo norme determinate dalla Chiesa stessa». — (1) Mangère 0 . c. — Bonix, Tractatus de Iure Liturgico, eap. I, e H , — Renandot: Liturg. Orient. collect;o. Paris, 1716, t. I. p. 169. (2) S. Thom . Commera, in Epist. ad Hebr. V i li, 34,

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Capo I

O più breve « La liturgia è il culto divino del Capo mediatore della Chiesa, visibilmente rappresentato dai suoi ministri, a bene dei membri del suo misti­ co corpo, ed in unione con essi, secondo norme de­ terminate » (1). Dalla quale definizione consegue : — 1. che il ve­ ro culto con cui si onora Dio non può essere che nella vera Chiesa di Gesù Cristo, 2. che i prote­ stanti, i quali si separarono dalla Chiesa, non por­ tando seco che brandelli di verità e di azioni di culto, non hanno liturgia, in senso vero e proprio della parola, mentre negano la gerarchia sacerdo­ tale ed il sacrificio, particolarmente nel suo valore espiatorio : e quantunque s’accordino coll’Harnack nel definirla : teoria degli atti obbligatori fissati nel servizio divino (2), non convengono poi tra loro· nel determinare quali siano questi atti (3), appun­ to perchè manca la divina autorità. 4. La liturgia è vera scienza ed eccellente. La liturgia è vera scienza. Essa ha una parte di­ vina, ossia si svolge intorno a quello che Dio ha rivelato e stabilito per culto, o immediatamente o mediante la Chiesa cattolica, la quale si sviluppò, (1) Thalhofer Op. cit. loc. Ho preferito questa definizione a quelle che si danno comunemente, come quella del Muratori (Liturg .Roman. Vetus Dissert. prev. c. I) del Bouix, ( Tractatus de jure liturg. cap. Ili) del Maugère (o. c.), perchè essa ab­ braccia la vera essenza del culto sacro, mentre le altre defini­ zioni sono piuttosto enumerative delle parti o degli atti di culto. ( 2) Harnack, Praktìsche Theologie II., p. 104. (3) Thalhofer O. c. 1. c.

Concetto e divisione della Liturgia

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attraverso i secoli, circondando il culto di quella maestà che conviene a Dio e agli uomini che lo ono­ rano.. Ha poi anche una parte umana, per così dire, cioè introdotta dagli usi e consuetudini: e questa, diversa secondo i tempi ed i luoghi, è giu­ dicata e regolata dalla Chiesa. Quindi Voggetto della liturgia è presentato dalla Chiesa; e risulta dalle disposizioni divine, divinoapostoliche, ecclesiastiche e dalle consuetudini par­ ticolari, approvate dalla Chiesa stessa. La liturgia come scienza, studia le parole, le azioni, i simboli del culto, li spiega come canali che comunicano la vita soprannaturale; in ogni atto del culto essa rav­ visa una manifestazione di un complesso sopranna­ turale, di un organismo vitale mosso dallo spirito di Dio che vive nella Chiesa. Breve: la liturgia studia il principio e l’organismo del culto divino nella Chiesa cattolica; quindi, quantunque non sia una disciplina teologica propriamente detta, è pe­ rò un ramo importante della scienza sacra, della teologia pastorale (1). E’ la scienza, diremo col Pa­ troni, che partendo da principii certi, ordina gli atti del culto divino, e quindi è subalterna della teologia dogmatica, da cui desume l’oggetto, che è Dio, ed i principii, che sono sempre verità teologi­ che (2). Quanto poi una tale scienza sia eccellente non si potrebbe esprimere meglio che colle parole dell’A(1) Thalhofer. I. c. (2) Patroni « Lezione

di Sacra Liturgia

». Voi. I. lez, I.

12

Capo I

zevedo : ccDicam tamen, non minus vere quam au­ dacter, quod sentio; dicam sacrorum Rituum disci­ plinam illas omnes (sacrorum librorum interpreta­ tionem, sacros Canones, scholasticam theologiam, dogmaticam atque moralem) longe multumque an­ tecellere. Illae enim posterioribus saeculis exortae sunt, haec vel ab ipsis Ecclesiae incunabulis initium duxit; illae longe remotius Deum spectant, haec ad ipsum Dei cultum refertur; illae ad bonos mores tantummodo communiunt, haec solidos pietatis fructus affert; illae denique in sola rerum divina­ rum cognitione plerumque conquiescunt, haec ita cum rebus divinis implicita est et cohaeret, ut ab iisdem sejungi non possit. Quid si maxima huic fa­ cultati dignitas accedit ex eo quod primus illius auc­ tor et magister fuerit Deus ipse?... y> (1). 5. Rito - Cerimonia. La liturgia adunque è la scienza del culto sacro, quella che studia i principii ed i mezzi con cui si svolge il divin culto, il rito, le cerimonie. La parola Rito, vale altrettanto che regola. Non convengono però i liturgisti nel precisare il senso di questa parola. Quindi essa: a) si prende in un senso ampio, e vale lo stesso che liturgia, cosi si

(1) D© Azevedo: Introd. cl Traci, de Sacr. Missae di Benedet XIV. Si è citato per intero questo passo non già per sostenere che la liturgia sia superiore bile altre scienze teologiche, che lo abbiamo già detto, essa è un ramo della pastorale ed entrambe sono subalterne della teologia dogmatica, ma per far sentire meglio l ’importanza di questa scienza, sopratutto per il Sacer­ dote.

Concetto e divisione della Liturgia

n

dice : rito romano^ rito ambrosiano ecc. : b) si ado­ pera per indicare il modo, la regola prescritta dal­ l’autorità, con cui si deve compiere una funzione e le relative cerimonie; così si dice: rito della Be­ nedizione col SS. Sacramento, rito del Battesimo ecc. ; c) si usa ancora a dinotare le parti accidentali 0 meglio gli atti che la eseguiscono. La parola cerimonia da alcuni si fa derivare aa Caere, città d’Italia in cui i Romani trasportarono 1 loro dei, quando Roma fu presa dai Galli, chia­ mata perciò da Tito Livio « sacrarium populi ro­ mani » (1); altri la derivano da Caereris munia, funzioni ad onore di Cerere; altri da carimonia, astinenza, come praticavano i giudei di astenersi da alcuni cibi e bevande; altri da cerus, parola antica latina, che vuol dire sacro, consacrato, santo (2). Quest’ultima pare la più probabile ed allora ce­ rimonia varrebbe altrettanto che azione sacra, E difatti nel senso comune cerimonia è un atto che si eseguisce nel culto, che concorre al suo splendo­ re ed all’esterna espressione dei sensi interni. Tali sono le genuflessioni, gli inchini, i segni di cro­ ce, ecc. Le cerimonie quindi del culto non si devono con­ siderare come azioni sopraggiunte al culto stesso e ad esso quasi estranee; ma piuttosto come parti, sebbene secondarie e remote, di quel vivo organi­ smo che si esercita nella Chiesa di Dio, la cui vita, (1) Tit. Liv. Historiar lib . V. cap. I. (2) Cfr. Thom. Sum Theol. 1. 2. q. XCIX. 3.

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Capo I

essendo la stessa vita di Gesù Cristo, tutto penetra nobilita e divinizza e per esse si manifesta. 6. Divisione della liturgia. La liturgia, come scienza, è generale e partico­ lare. La prima studia la natura, l’origine, il valore, il simbolismo del culto, ne esamina le parti inte­ granti e ne addita le fonti. La seconda studia gli atti con cui si esercita il culto nelle sue parti come la Messa, l’Ufficio, i Sacramenti. Questa poi è la teoretica, se si svolge a ricercare l’origine, le anti­ chità, le vicende dei riti, li confronta ed espone il senso delle cerimonie; ed è pratica, quando studia la vigente disciplina della Chiesa, riceve le norme dalle legittime fonti e, per via di giuste conseguen­ ze, le applica alla pratica nelle sacre funzioni. Lo studio completo della scienza liturgica deve abbrac­ ciare e la parte teoretica e la parte pratica. 7. Importanza di questo studio per il Clero. Dal fin qui detto appare l’importanza, la neces­ sità anzi, di questo studio pel Clero. Se infatti Id­ dio nell’antico Testamento esigeva nei ministri del Santuario la scienza delle cose sante e specialmente del modo di trattarle, e voleva allontanati dal sacro culto coloro che una tale scienza non possedevano; quanto più si esige tale scienza nella nuova Legge, in cui tutto è puro, santo e divino nel culto! Senza una tale scienza il Sacerdote non potrà mai parte­ cipare alla divina efficacia che estendono anche sul

Concetto e divisione della Liturgia

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Ministro le cose sante che egli comunica agli altri. E’ vero che la scienza non basta, occorre anche la pietà; ma questa non sarà mai vera ed illuminata sen*,a la cognizione delle cose sante, nella loro na­ tura, e nel modo con cui ad esse si può partecipa­ te. Questa cognizione renderà grave, spedito ed edificante tutto ciò che il sacro Ministro esercita nel divin culto e così disporrà meglio le anime a rice­ vere il frutto, al quale sono ordinate le cose sante della religione.

CAPO II.

Origine

della

Liturgia

8. Culto naturale e liturgia ebraica.

La natura stessa insegnò all’uomo i primi atti di culto verso il suo Creatore, e lo indusse pure ad esprimere con atti esterni gli interni sentimenti cioè l’umiliazione, il pentimento, l’adorazione, il ringraziamento. Tra questi atti esterni il principale fu il sacrificio, accompagnato da religiose cerimo­ nie (1), con cui l’uomo protestavasi servo di Dio, principio della creazione e del governo del mondo. Formata la scocietà, la medesima legge naturale creò il culto esterno sociale; perchè l’uomo si uni­ sce a Dio anche con una santa società : ccut sancta societate inhaereamus Deo » (2); e Dio non tardò ad istituirlo positivamente in seno al popolo d’I­ sraele, eleggendo la tribù di Levi ad esercitarlo. Poiché « de dictamine legis naturalis est quod ho­ mo aliqua faciat ad reverentiam divinam; sed quod haec determinata faciat vel illa, istud non est de dictamine rationis naturalis, sed de institutione ju­ ris divini vel hunurni » (3). (1) Thalhofer §. Π. in cui espone assai profondamente i prin. cipii naturali dei culto. — « Nullam religionem, neque veram neque falsam, sine caeremoniis constare posse ». S. August. c. Faustum 1. 19. e. 11. (2) S. Augustinus. De Civitate Dei X. c. 6 . (3) S. Thomae, Summa Theol. 1. q. 81. a. 2. ad 3.

Origine della Liturgia

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Tutto è. da Dio stesso stabilito nella Liturgia etroica. Il tabernacolo e l’arca dell’alleanza, la mensa dei piani della proposizione, il candelabro e tutte le cose appartenenti al culto sono formate secondo il modello dato da Dio (1). Nello stesso modo Dio aveva prescritto l’altare degli olocausti (2), quello dei timiami delle ostie pacifiche e per il peccato (3), il rito dei sacrifici e la qualità delle vittime da offrirsi, il rito della consacrazione sacer­ dotale (4), le vesti di Aronne e dei Sacerdoti (5), la gerarchia levitica (6), i precetti cerimoniali (7), le feste, le solennità ed il rito con cui si dovevano celebrare (8). Gli altri popoli, perduto il deposito della divina rivelazione, spinti dalla natura, prestarono culto alle false divinità, ebbero pure la loro liturgia: eressero templi, costituirono sacerdoti, immolarono vittime, ordinarono feste. La loro liturgia però, co­ me la fede, non era altro che un riflesso degli aberramenti e delle passioni umane, per cui volsero alle cose create quegli atti di culto che si devono sola­ mente al Creatore. Il culto naturale poi scaturiva dalla pura natura (1) Exo.a. XXV. XXVI. (2) id. XXVII. (3) id. X XX : Lev. I VI. (4) id. XXIX. (5) id. XXVIII. ( 6) id. et Levit, passim. (7) Levit. XIX. ( 8) id. XVII. Sulla liturgia del sacrificio nell’ epoca patriar­ cale vedi. Kossing. « Spiegazione liturgica della S. Messa » Re gensburg. 1860, 48-03.

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Capo II

dell’uomo. Ma siccome l’uomo è stato elevato al­ l’ordine soprannaturale, a figlio di Dio, così deve prestargli servizio, non solamente nel timore, ma anche nella santità e giustizia. Perciò il lume natu­ rale doveva essere sollevato, dal lume della fede, principio della vita soprannaturale e divina. Tale culto soprannaturale, rivelato, trovasi nel popolo ebreo. Ma la natura di questo culto, l’indole del po­ polo, il fine a cui doveva servire esigevano quella moltitudine di precetti cerimoniali che noi vedia­ mo dati da Dio al popolo ebreo. Il culto ebraico era figurativo, non solo della futura verità eterna che si manifesterà nella patria, ma anche di Cristo che è la via che ad essa conduce (1). Questo antitipo infinito non poteva venir figurato da un solo tipo, bisognava adunque moltiplicare le figure. Quel po­ polo era inclinato all’idolatria fu quindi necessario tenerlo a freno « col fardello di innumerevoli os­ servanze, che erano invero un giogo gravissimo, ma ben adatto ad un popolo di dura cervice » (2); ed i buoni stessi, che si trovavano fra gli ebrei, erano, per le molte cerimonie, invitati a sollevarsi più spesso a Dio, e ricevevano più copiosi benefici dal mistero di Cristo che contemplavano in figura (3). Il fine della liturgia ebraica era di mantenere l’uni­ tà nazionale del popolo, conservare il culto al vero Dio, impedire l’idolatria fattasi universale negli al­ tri popoli, quindi un solo tabernacolo, un sacerdo( 1) S. Thom. S. th. 1. 2. q. CI. ia. 2. ( 2) S. Agost. Sena. LXX, n. 3. (3) S. Thom. 1. c. a. 3.

Orìgine della Liturgia

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zio ereditario, un solo tempio e l’osservanza delle numerose cerimonie comandate come legge : cccustadi ergo praecepta et caeremonias » (1). 9. Gesù Cristo istitutore della liturgia cat­ tolica. Gesù Cristo venuto per compiere le antiche figu­ re, insegnare agli uomini l’adorazione del Padre in ispirito e verità e raccogliere in una sola famiglia tutti i popoli, doveva abrogare l’antico culto ebrai­ co, che non aveva più ragione di essere (2), stabi·* lime uno nuovo, insegnare una nuova liturgia (3). Egli però non fece che creare il nuovo sacrificio eu­ caristico ed i Sacramenti; poi li affidò alla Chiesa, comunicandole il potere legislativo con cui essa, col volgere dei tempi secondo le circostanze, dovea creare quelle preci, quelle azioni, quelle cerimonie del culto che erano ordinate al rispetto, allo splen­ dore delle cose sacre, e all’istruzione del popolo (4). 10. Istituzione degli Apostoli e della Chiesa. Quantunque G. C. non abbia istituito che l’es­ senza del Sacrificio, la materia e la forma dei Sa(1) 5- Tommaso tratta diffusamente del carattere allegorico, morale, anagogico, dei precetti cerimoniali delTantica Legge. 0 . cit. art. 3, 4, 5, 6 . ( 2) S. Thom. 1. 2. q. CHI. a. 1. (3) Cfr. S. Agost·, c. Faustum, lib. XIX. c. 11, ove· dimostra la convenienza che nella religione cristiana sianvi atti esterni .di culto divino da ciò che questi si trovano in tutte le religioni. — Cfr. pure Amberger « Teologia Pastorale », V oi. 2, c. I. art.

2. § 1. (4) Lapini,

Istit. Liturg.

P. I. Lez, 2.

Capo II

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cramenti, tuttavia durante la sua vita, esercitando la sua potestà sacerdotale, aveva fatto uso di segni, di parole e di atti esterni. Verbalmente aveva pre­ gato il Padre, s’era prostrato a terra, aveva alzato gli occhi al cielo (1), aveva fatto uso di una formu­ la per cacciare gli spiriti maligni (2) e per compie­ re i miracoli (3). E per comunicare la vita sopran­ naturale della-grazia alle anime aveva adoperato l’imposizione delle mani (4), il tocco colla saliva (6); comunicando lo Spirito Santo agli Apostoli soffiò su di essi e disse: a Accipite Spiritum San­ ctum » etc. Anzi S. Clemente Rom. dice che G. C. diede speciali disposizioni circa il modo di esercita­ re il divin culto: « In divinae cognitionis profunda introspicientes cuncta ordine debemus facere quae nos Dóminus jussit peragere... neque temere et inordinate fieri praecepit, sed praefinitis temporibus et horis, ubi etiam et a quibus celebrari vult, ipse excelsissima sua voluntate, definivit ut pure et sancte omnia foeta in beneplacito aecepta essent voluntati ejus ».

(XL). Secondo S. Giustino, G. C. risuscitato fece agli Apostoli nel cenacolo speciali rivelazioni (6), al che pare alluda S. Giovanni quando dice che G. C., dopo aver sanato l’ineredulità di San Torn­ i i) (2) (3) (4) (5) ( 6)

Matth. XIV, 19; XXVI. 39. Marc. IV. 8 ; V ili, 24; Lue. IX. 12. Matth. IX. 6 ; XVII. 15; Marc. III. 3. Lue. XIII. 13. Marc. V II. 32. S. Justini, Apologia 1. 67.

Origine della Liturgia

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maso nel cenacolo, compì molte altre cose (1) e ri­ velò molte cose del suo regno (2). S. Epifanio af­ ferma che gli Apostoli furono gli ordinatori dei di­ vini misteri (3). Altrettanto afferma S. Innocenzo I. nella lettera a Decenzio (a. 416). S. Celestino I. (422-432), Vigilio (538); S. Gregorio VII agli Spagnuoli. Onde il Renaudot dichiara : Nessun cristia­ no può dubitare che gli Apostoli abbiano ricevuto dal Signore le istruzioni e la forma con cui celebra­ re i divini Misteri, sebbene ciò non sia chiaramen­ te notato nei Vangeli (4). Ora questo esempio, que­ ste istruzioni, insieme al comando di far quanto egli aveva fatto (5), fu raccolto dagli Apostoli, i quali nell’offrire il Sacrificio nella preghiera e nel­ l’amministrazione dei Sacramenti, imitando il divi­ no Maestro, adoperarono parole, atti e cerimonie esterne, cc Quelle forme liturgiche che si erano già adoperate nella Chiesa fondata nella prima Pente­ coste in Gerusalemme, avanti la dispersione degli Apostoli, nella celebrazione comune dei divini Mi­ steri, costituirono il nucleo, dal quale si svolsero lo varie forme della liturgia cattolica, la liturgia origi­ naria. Alcune di queste forme noi le troviamo negli Atti degli Apostoli e nelle loro lettere, ed altre fu­ rono dalla tradizione ritenute come apostoliche,( 1) Jo. XX, 30. (2) Act. Apost. I, 3. (3) S. Epiphanii, ad Haereses. 79 n. 3. (4) Renaudot., Liturg. Orientalium collectio t. I. c. ΙΠ ., pag. 17; Magani, L’antica liturgia romana. V oi. I., pag. 18-19. (5) Lue. XXI, 19.

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Capo Η

mentre sono generali e non si può in alcun tempo trovarne l’autore od il principio (1) ». Ora dalla S. Scrittura appare che gli Apostoli istituirono le seguenti parti riguardanti il Sacrificio Eucaristico: la lettura della S. Scrittura e delle let­ tere apostoliche (2), la preghiera impetratoria ed: eucaristica (3) col canto dei salmi (4); il bacio di pace e l’offerta del pane e del vino, perchè venis­ sero consacrati (5), come pure altri doni che essi potevano offrire liberamente (6) per* l’agape comu­ ne e pel mantenimento dei poveri (7); ringrazia­ menti e benedizioni (8) intorno alla consacrazione del pane e del vino (9), l’espressione della memo­ ria della morte di Gesù nella frazione del pane, le preci alla comunione col pane consacrato e col ca­ lice (10), per formare più intima unione di Cristo capo coi membri (11). Tali erano ancora le parti principali del Sacrificio quando S. Giustino Martire scriveva la sua prima Apologia (12) ed al tempo di Tertulliano e di S. Cipriano. Pel Battesimo non è dubbio che gli Apostoli adoperassero la materia e ( 1) Thalhofer. Op. cit. § 21. n. 3. (2) Act. Apost. II. 42; I. Tim. IL I. segg. (3) Act. Apost. II. 42; XX. 71. I. Cor. XI, 23, C0I0 &9. IV . 66. I. Tim . IV. 13. (4) Act. Apost. Π. 46. Ephes. V· 19 e seg. (5) I Cor. X. 16; XI. 23 seg. (6) I Cor. XVI. 2. (7) Act. A p / II. 46. I. Cor. XI. 20 seg. (8) I. Cor. XI. 23-25. (9) Act. Ap. II. 42. 46; XX. 7. (10) 1. Cor. XI. 26. (11) Id. X . 16-17. (12) Anno 138 o· 139. Apologia I. Cap. 65-67.

Orìgine della Liturgia

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la forma chiaramente istituite da G. C. ; essi am­ ministrarono la Cresima coll’imposizione delle ma­ ni (1), la preghiera e l’unzione coll’olio accompa·» gnava l’Estrema Unzione (2) e troviamo anche il rito essenziale dell’Ordinazione dei ministri sa­ cri » (3). Altre parti finalmente della liturgia furono in di­ versi tempi e circostanze ordinate dai Sommi Pon­ tefici o dai Concilii per tutta la Chiesa od anche dai Vescovi per le loro particolari Diocesi, approvante 0 consenziente il Sommo Pontefice. Quindi la litur­ gia cattolica è di origine divina ed ecclesiastica.

11. Ragioni per cui la Chiesa introdus queste parti nel divin culto. Ma perchè la Chiesa introdusse nella liturgia tante parti accidentali, tante cerimonie? A questa domanda rispondono i protestanti e qualche poco avveduto cattolico : fu il bisogno in che si trovano 1 Ministri, una causa fisica ci diede tutte queste ce­ rimonie, e quindi, cessata la causa, dovrebbero ces­ sare anche le cerimonie che non hanno più ragione di essere. Così per esempio, se si domanda al DeVert perchè la Chiesa fece uso dei lumi nella cele­ brazione dei santi Misteri; per illuminare, rispon­

di

Act. Ap. V i li. 14-17; XIX 6. Cfr. I Cor. 21-25. Eph. I. 13. (2) Jacob. V . 14-15. (3) Act. A p. VI. 6: X III. 3; X IV . 22; I. Tim. IV , 14; II. Tim . I. 6. — Thalbafer. 0 . c. §. 21, n. 3. nota; Amberger. 1.

«. i 2.

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Capo II

de, le tenebre della notte, durante la quale si com­ pivano. Così l’incenso si adoperò solo per purifi­ care l’aria; il Vescovo porta il pastorale perchè gli antichi, vecchi di solito, ne avevano bisogno per sostenersi. Al Venerdì Santo, Sacerdoti e fedeli si prostrano a terra davanti alla croce, non già per adorare con profonda umiltà la preziosa morte del divin Redentore, ma per imitarlo morto, e con questo metodo egli spiega tutte le cerimonie della chiesa. Contro siffatta interpretazione protesta tutta quanta l’antichità, la storia, il fatto stesso : Difatti è certo che : 1. Alcune parti della liturgia ebbero origine sen­ za dubbio dalla convenienza, dalla comodità; eb­ bero cioè nna causa puramente fisica. Così si usa la palla a coprire il calice perchè nulla ci cada den­ tro, il suono delle campane per chiamare i fede­ li ecc. 2. Altre ebbero origine dalla convenienza e dal mistero insieme, cioè ebbero simultaneamente una causa fisica ed una mistica. Così il cingolo serve a tener raccolto il Camice intorno alla persona, e si­ gnifica la virtù della continenza che deve avere il ministro dell’altare. 3. Altre ebbero, in origine una causa fisica, ma cessata affatto questa, ne ricevettero una simbolica e restarono solo come simboli, così il manipolo, l’amitto ecc. 4. Altre si introdussero per rendere più splendi­ do il culto : tali sono le vesti sacre, gli ornamenti

Origine della Liturgia

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degli altari e delle chiese, i suoni, i canti, il numero dei ministri, ecc. 5. Infine alcune parti hanno sino dalla loro ori­ gine io scopo di esprimere in forma sensibile qual­ che verità della fede, ossia hanno una causa mistiai ed anagogica. Così l’altare rappresenta G. C., la forma di croce del sacro tempio l’intima unione dei fedeli col sacrificio della croce, l’incenso sim­ boleggia la preghiera e la divinità di G. C. Così di­ casi di molte altre parti liturgiche che entrano nel­ l’amministrazione dei Sacramenti, nella celebra­ zione della Messa, nelle benedizioni e consacrazioni delle cose, nelle quali la Chiesa prega che i fedeli « salubriter intelligant quid mystice designet in fac­ to » (1). Laonde il Concilio Tridentino : « Cum natura ho* minum ea sit, ut non facile queat sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum meditationem su­ stolli, propterea pia mater Ecclesia ritus quosdam, ut scilicet quaedam submissa voce, Sia vero elatio­ ri in Missa pronuntiarentur instituit. Caeremonias item adhibuit ut mysticas benedictiones, lumina, thymiamata aliaque id genus multa ex apostolica disciplina et traditione, quo et majestas tanti Sacri­ ficii religionis et pietatis signa ad rerum altissima­ rum, quae in hoc Sacrificio latent contemplationem excitarentur » (2). (1) Dom. in Palmis Oratio in jBened. Palm. — Lebrun. e mistica della Messa. Prefazione. (2) Sess. XXII. De sacr. Missae. Cap. V.

gaz. letter. storica

$pie-

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Capo Η

Ed il pontefice Sisto V. nella bolla ccImmensa Dei: Sacri Ritu et caeremoniae, quibus Ecclesia a Sp. S. edocta ex Apostolica traditione et disciplina utitur in Sacramentorum administratione, divinis officiis omnique Dei Sanctorum veneratione, ma­ gnam christiani populi eruditionem veraeque fidei protestationem continent, rerum sacrarum majestay tem, commendant, fidelium mentes ad rerum altis­ simarum mediationem sustollunt, et devotionis etiam igne inflammant... ».

CAPO III.

La l i t u r g i a nei primi secoli cr is tian i. R i f o r m a del s e c o l o q u a r t o 12. Importanza di questo studio. - Fonti. Lo studio del carattere, dello sviluppo storico della liturgia nei primi secoli cristiani è. di una grandissima importanza, perchè è di qui che si può conoscere l’indole della liturgia cattolica, la sua in­ tima relazione col dogma e colla morale, e ancora perchè è di qui che si svilupparono, come rami da un albero, tutte le forme liturgiche che troviamo in uso più tardi nella Chiesa. Per tale studio però non possiamo attingere a fonti dirette, perchè la Sacra Scrittura e particolar­ mente gli Atti e le Lettere apostoliche, i Padri e gli scrittori ecclesiastici di questo tempo non ci danno il codice liturgico completo, quale era allora in uso, ma parlano della liturgia solo per incidente, altro essendo lo scopo dei loro scritti. Da questi pe­ rò possiamo conoscere tanto che basti per avere un concetto della liturgia cattolica in questi primi se­ coli.

13. Carattere generale della liturgia nei pr mi tre secoli. Dalla sua origine fino al secolo quarto, sino cioè

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Capo III

al periodo dei grandi elaboratori, la liturgia catto­ lica ci presenta un triplice carattere generale. 1. Dalla sua origine essa, quanto al suo atto più importante che è il Sacrificio, viene innestata, per così dire sul rito giudaico. G. C. fece la Pasqua coi suoi discepoli secondo il rito giudaico e dopo di esso istituì l’Eucaristia; con ciò sciolse l’antico rito e cessarono i sacrifici e i precetti cerimoniali che ri­ guardavano Cristo venturo. 2. Gli Apostoli separarono a poco a poco, per quanto si potè, l’antico dal nuovo rito, e disposero il servizio religioso cristiano secondo il bisogno del loro tempo e dei primi fedeli. Così fino alle istitu­ zioni fatte dagli Apostoli, la legge cerirmmiale an­ tica si poteva osservare, in quanto prescriveva il modo di onorare Dio. E siccome queste condizioni rimasero sempre le stesse fino alla metà del secolo quarto, così formarono il carattere delle preghiere liturgiche fino a questo tempo. La Chiesa composta di cristiani venuti dal paganesimo e dal giudaismo, soffriva fiere persecuzioni, e la liturgia riflette que­ sto suo stato (1). 3. Prima della metà del secolo quarto cessarono le persecuzioni e la liturgia assunse un nuovo ca­ rattere. La famiglia era santificata, il Cristianesi­ mo era dominante: la Chiesa non aveva più a te­ mere l’influenza dei popoli che si aggregava, ma De Smedt, Uorganisation des Eglises chrètiennes au Rev. des quest, hist. 100 livr. Octóber. 1891, p. 401; Ma­ garli. 0 . c., pag. 29. (1)

siede,

III

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ad essi comunicava la religiosa sua vita allora fatta pubblica : quindi anche il culto venne a conformar, si ai bisogni dei nuovi tempi. Più innanzi vedremo anche particolarmente in che consiste questa riforma; qui diamo solo uno sguardo alla liturgia del tempo degli Apostoli sino al secolo quarto e vedremo come essa, specialmen­ te riguardo al S. Sacrificio, quanto alla sostanza, fu sempre uguale, e si può dire che le liturgie cat­ toliche che da quel tempo provennero, sono': « su­ peraedificatae super fundamentum. Apostolorum et Prophetarum, ipso summo angulari lapide Christo Jesu » (1), ossia sono come tante parti di un unico

edificio, tanti rami che sorsero da unico tronco. 14. Liturgia Apostolica. Circa lo stato della liturgia nei suoi primordi os­ sia nella prima organizzazione che ebbe per mezzo degli Apostoli, i dotti, fino a questi ultimi anni, si dividevano in due sentenze. Gli uni opinavano che ciascun Apostolo fondando una Chiesa, vi avesse anche lasciato un ordine liturgico, al tutto partico­ lare, senza relazione colle altre chiese, e così nei vari centri della fede cristiana sorgessero varie spe­ cie di liturgie; gli altri sostenevano l’unicità della liturgia organizzata dagli Apostoli di comune ac­ cordo, sotto la dilezione e l’autorità del loro capo S. Pietro, quindi detta apostolica, petrina, o eie(1)

Eph. II. 20 Vedi Probst. « Introduzione.

sua Riforma ».

Liturgia del quarto secolo e

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Capo 111

mentina. Quest’ultima sentenza è però ormai riu­

scita vittoriosa; e mentre da una parte torna di splendore all’autorità della Chiesa, dall’altra è so­ stenuta da sì ferme ragioni e da sì grande autorità che non lasciano più intorno ad essa il minimo dubbio. Noi avremo agio a ravvisarne le prove cri­ tiche nello studio che faremo delle liturgie parti­ colari (1). Fedeli al divin comando: fate questo in memoria di me ed alle istruzioni ricevute, gli Apostoli ripe­ terono la frazione del pane, ossia il S. Sacrificio eucaristico nelle case (2); il’tempo ed il luogo della celebrazione indica già un allontanamento dal rito giudaico nella solennità pasquale. Alle parole con cui G. C. aveva istituita la SSma. Eucaristia vi ag­ giunsero tosto altre preghiere, come voleva il ca­ rattere dei convertiti alla fede cristiana. I Giudei dovevano adorare, lodare, ringraziare Dio pel com­ pimento delle Profezie e delle loro speranze in Ge­ sù Cristo, ed i Gentili convertiti dovevano pure in(1) Il grande capitano che sostenne vittoriosamente questa sentenza può dirsi che sia stato il Dott. Ferdinando Pfobst Pre­ lato, Canonico e professore dell’ università di Breslavia, il quale scrisse due celebri opere: la prima porta il titolo: «.Liturgia dei primi tre secoli cristiani » ; la seconda tratta della « Liturgia del quarto secolo e sua riforma ». Nessun, per quanto io sappia, ha approfondito come Probst questo studio importante, epperò in questo capo, come anche nella parte seconda di questo lib ro, ben volentieri lo seguo. Il suo metodo differenziasi da quello tanto in voga oggidì. Egli preferisce studiare i Padri, e dalle loro espressioni illuminare i codici liturgici che oggi ci restano; mentre oggidì si dà molto peso, forse troppo, agli argomenti critici interni. (2) Act. II. 46.

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vitare le creature e ringraziare Dio, che li aveva tolti alle ombre della morte e chiamati all’ammirabile sua luce. Perciò doveva servire il grande Hai lei od Alleluja (1) che dev’essere stato probabil­ mente, recitato da Cristo con gli Apostoli, nell’ul­ tima cena, e risulta dai salmi 112 fino al 117 inclu­ sive. Anche dopo la Comunione vi dovevano essere preghiere che esprimevano l’unione dei fedeli con G, C. Le lettere di S. Paolo, i Padri della Chiesa da S. Clemente e S. Giustino fin a S. Giovanni Cri­ sostomo ce ne fanno fede, e le troviamo nelle Co­ stituzioni Apostoliche. Quindi la liturgia apostoli­ ca ci si presenta già non come un conglomerato di preghiere e di azioni, ma come parti di un organi­ smo incipiente che si svilupperà colVandare del tempo, sotto Vazione della divina autorità della Chiesa.

Gli apostoli dunque ordinarono essi stessi la Mes­ sa (2), la quale incominciava senza dubbio colla lezione della S. Scrittura, ad esempio de’ Giu­ dei (3) : l’Apostolo ricorda tale costume a Timoteo e ai primi cristiani (4). Permettendolo il Vescovo, si facevano dagli ispirati rivelazioni e profezie (5) e (1) Salmo 113 nella Volgata. (2) Kliefoth, « Die urpriingliche Gottesdienstordnung » V oi. I. pag. 194. (3) Act. Apost. X III, 15: X V . 21. (4) I Tim , IV. 13, Quindi si leggevano anche le lettere che gli Apostoli mandavano alle prime comunità dei fedeli e se le scambiavano a vicenda. Cfr. I Thessal. V . 27. Coloss. IV. 16; e Card. Bona, Rerum liturg. JJb. II, c. 6. η. 1. (5) I Cor. XIV. 23-29.

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Capo III

in seguito si teneva il sermone (1) e Vagape (2). Qui cominciava la preghiera comune, cioè fatta da tutti e per tutti, anche col canto di Salmi e di Inni (3); si passava alla preghiera propriamente detta per tutti gli uomini, pei re e per le potestà, per la conversione degli infedeli, per gli amici ed i nemi­ ci (4), pei Superiori ecclesiastici vivi e morti (5). Seguiva il bacio di pace (6) e si faceva dai fedeli l’offerta dei doni (7). E’ assai verosimile che prima della consacrazione del pane e del vino, gli Apostoli abbiano recitato una preghiera di ringraziamento e di lode a Dio pel beneficio della creazione e della Redenzione, in nome di Gesù Cristo e forse anche il Trisagio (8). Ce lo attestano le liturgie e i Padri più antichi e ne abbiano una traccia negli scritti (1) I Cor. XIV. 26, Act. Apost. XX. 7. ib. XIII. 15. (2) Omettiamo qui tutto quello che si riferisce all'agape, che prima faceva parte del rito con cui si celebravano i sacri misteri e tosto, al tempo stesso degli Apostoli, venne separata e tenuta nelle case. Essa era già cessata al principio del secondo secolo, od almeno separata nella Messa, come ne fa fede 3· Ignazio nella lettera agli smirnesi (c. 8). Tertulliano ne parla pure e la fa ve­ dere unita alla « Dottrina dei dodici apostoli » esposta e com ­ mentata dal eh. Prof. D . R odolfo Malocchi (Modena, 1886, n. 1902) e dal Minasi (Roma 1891; e Probst. « La liturgia dei pri­ mi secoli » , p. 23. (3) Coloss. III. 6; Eph. V . 16; Jac. V . 13. (4) I Tim . II. 12. (5) Hebr. ΧΠΙ. 7. (6) II Thess. V . 26; Rom . XVI. 26; II Cor. ΧΠΙ. 12. (7) Rom . XV. 16; II. Cor. IX. 13. (8) Sull’ origine del Trisagio vedi « Civ. Catt. », ruad. 329. pag. 166.

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degli Apostoli (1). Secondo l’apostolo (2) vi era una eucaristia nel divino servizio, a cui i fedeli ri­ spondevano insieme Amen (3), ma ad essa non potevano assistere gli infedeli, quindi si passava alla consacrazione (4). Questa era seguita da una preghiera, con cui si ricordava la morte e la resur­ rezione di G. C. (5). ( Unde et memores), ed una offerta (Offerimus praeclarae majestati tuae)r che nella parte sostanziale si trovano in tutte le litur­ gie; si pregava che il Corpo e il Sangue del Signore non tornassero in giudizio, ma in benedizione e per la vita eterna, e fors’anche dai fedeli si faceva VExomologesi o confessione (6). V’era la invoca­ zione dello Spirito Santo affinchè manifestasse G. C., si ricordava la Chiesa, e piu tardi vi aggiunsero i nomi dei Santi (Comunicantes, etc.) probabil­ mente si recitò anche l 'Orazione Domenicale e in­ fine il Celebrante comunicava se stesso e distribui­ va le Sacre Specie ai fedeli concludendo i Sacri Mi­ steri con preghiere di ringraziamento. Come ognun vede, qui abbiamo un vero germe, un vero organismo di liturgia che proviene dagli Apostoli; e però essa non è un prodotto della co(1) Act. Apost. IL 46-47. Eph. V . 18-20 Coloss. ΙΠ. 7. — Circa il contenuto di questa preghiera cfr. Probst. op. cit.» p. 30 e seg. Da essa venne il prefazio, il canone della Messa e il nome di eucarestia al pane consacrato. (2) I Cor. X IV . 16. (3) Rom. X V. 6. (4) I Cor. XI. 23-25; Kb. 6; X. 1. Hebr. ΧΠΙ. (5) I Cor. XI. 26 Act. Apost. II. 26. (6) Probst. I. c.

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Capo IU

munita dei fedeli (1), nè fu uno sformo vano quel­ lo dei cattolici di dare alla liturgia un’origine apo­ stolica, servendosi della tradizione (2).

15. I Padri Apostolici e gli scrittori dei s coli secondo e terzo. Nelle lettere di S. Clemente Romano e nelle Co­ stituzioni Apostoliche (3), come pure nella Dottri­ na degli Apostoli, troviamo, quantunque più svi­ luppata, la medesima liturgia quale ci si presenta nelle lettere degli Apostoli (4). S. Ignazio d’Antio­ chia, nelle lettere a quei di Smirne, di Efeso, di Magnesia e di Filadelfia, ricorda parte dei Misteri che si celebravano dai cristiani, pienamente con­ cordanti colla liturgia Apostolica (5). Tanto appare ancora dalla lettera a Diognete. Ognun sa con quanto riserbo i Padri e gli scrit(1) Tanto afferma il protestante Baehr: « Begriindung einer Gattestienstordmung fiir die evang. Kirche », 1856 d. 6. (2) Così Harnack: a Teologia Pratica », p. 256. (3) S. Clemente Romano fu Papa dal 92 al 101, fu successore di S. Lino e di S. Cleto, vide gli Apostoli e secondo alcuni, sarebbe stato l ’autore delle Costituzioni apostoliche. Ma la cri· tica ha ormai messo in certo che queste vennero compilate nel eecolo IV. Da ciò non segue però scrive il Probst, che la litur­ gia che vi è contenuta (lib. V ili) sia stata stesa in questo secolo; perchè chi mise insieme l’ intera opera poteva inserire senza dubbio, tra gli altri documenti, anche uno scritto origi­ nale di S. Clemente, e precisamente la sua liturgia. Cfr. « Civ,. Catt. » quad. 922. (4) Cfr. Probst. 1. c. pag. 40-62, e : « Liturgia del quattrocento », p. 30 seg. e p. 341 ; Minasi « La dottrina degli Aposto­ li », Roma, 1891. (5/ Probst. « Liturgia dei tre primi secoli », p. 63-64.

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tori ecclesiastici dei primi secoli parlassero e scri­ vessero sui Misteri cristiani. Il precetto di Cristo di non dare le cose sante ai cani, le persecuzioni, che infierivano, avevano creato la disciplina dell*arcat­ ila. Ma anche nel secondo e terzo secolo abbiamo testimonianze così esplicite, che fanno da una par­ te concludere ad un ulteriore sviluppo della litur­ gia, dall’altra ad uno stretto rannodamento alle istituzioni apostoliche. S. Giustino, nella prima Apologia indirizzata all’imperatore Tito Antonino Pio, in tre capitoli (1) descrisse le adunanze reli­ giose dei cristiani e la loro fede nella SS. Eucaristia. Dalle testimonianze dell’apologià appare che si leg­ gevano: S. C. R . 16 maggio 1744, n. 2377 ad. 4. (7) » Racc. decr. aut. n. 3333, 2; 3337,1194-1255-14051588-1806-2613.

ecclesiastiche. E’ il primo giudice delle consuetu­ dini particolari, ma alla S. Sede spetta la suprema approvazione di esse. ' 9. Può dare norme particolari, conforme ai prin­ cipi generali della liturgia, che servono al decoroso disimpegno delle funzioni ed interdire le cose inde­ centi al culto. 10. Ha diritto di rivedere le orazioni e gli eser­ cizi di pietà, che si fanno nelle chiese ed oratori e nei casi più difficili deve ricorrere alla S. Sede. — Non può approvare nuove Litanie da recitarsi publicamente. (Cod. c. 1259). 11. Deve vigilare perchè si osservino i Canoni che riguardano il culto divino pubblico o privato, per­ chè non si introducano pratiche superstiziose an­ che nella vita privata dei fedeli. Alle leggi che il Vescovo può emanare in proposito sono soggetti anche tutti i religiosi esenti e a questo fine può an­ che visitare le loro chiese ed oratori pubblici (Cod. c. 1261). Di qui s’intende il Decreto della S. C. dei Riti: « Expresse mandavit (S. R. Congr.) ut tam Cano­ nici quajn olii, quicumque Ministri, Officiales et. Magistri Caeremoniarum a praedictis abstineant nec audeant vel praesumant caeremonias ordinarias immutare, seu variare, vel novas ordinare, diverso ac vario modo ab eo qui in Rubricis Missalis, et Breviarii R. et dicto libro Caeremoniarum praescribi­ tur, et ab usu et consuetudine universali et com­ muni aliorum similium Ecclesiarum, sine expressa

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licentia ejusdem S. Congr. ad quam specialiter et particulariter haec pertinent, sub poenis contra fa­ cientibus arbitrio ejusdem S. C. imponendis et exequendis » (1). Quindi nell’esercizio delle sacre funzioni: « Adeundus loci Ordinarius qui stricte tenetur opporr tunis remediis providere, ut Rubricae et S. C. R. Decreta rite serventur; si quid vero dubii occurrat recurrendum ad eandem S. Congr. pro declaratio­ ne » (2).

22. Il Sommo Pontefice ha la suprema auto rità nella liturgia. Il diritto supremo di regolare la liturgia nella Chiesa spetta al Romano Pontefice per autorità or­ dinaria e immediata. cc Unius Apostolicae Sedis est tum sacram ordinare liturgiam, tum liturgicos ap­ probare libros ) (Cod. c. 2257). Ciò risulta dagli uffici di Pastore e Maestro supremo e di Capo che, per divina istituzione, egli esercita nella Chiesa. Il Papa può dettar leggi, sopprimere forme di culto che non gli sembrino conformi al fine, introdurne di nuove, sanzionare o riprovare le consuetudini. Quindi il Concilio Vaticano (3) : cc erga quam (Ro­ mani Pontificis jurisdictionis potestatem) cujuscumque ritus et dignitatis pastores atque fideles, tam seorsim singuli quam simul omnes, officio hierar(1) S. C. R . 12 maggio 1612, n. 297. (2) S. C. R. 17 settembre, 1822, n. 2621, I. (3) Cone. Vatie. Sese. Iv ., cap. 3.

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chicae subordinationis veraeque obedientiae ob­ stringuntur, non solum in rebus, quae ad fidem et mores, sed etiam in iis quae ad disciplinam et regi­ men ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent».

E già prima, nel 1867, Pio IX dichiarò agli armeni che al Romano Pontefice si deve cc subesse quoad ritus et disciplinam ». Tale diritto infatti fu sempre esercitato dal Som­ mo Pontefice. Verso la fine del secolo II, il Papa San Vittore decise la questione della Pasqua che teneva divisi gli asiatici (1); durante i primi secoli i Papi lasciarono ai Patriarchi ed ai Concili di re­ golare le cose di liturgia, ma con ciò non si spo­ gliarono del loro diritto; anzi, tutti intenti a radu­ nare l’occidente ad unità liturgica, vollero che l’oriente mantenesse i suoi riti, perchè : cccatholi­ cae Ecclesiae unitati nihil plane adversatur mdltiplex sacrorum legitimorumque rituum varietas; quinimo ad Ecclesiae dignitatem majestatem, decus ac splendorem augendum maxime conducit » (2).

Nel 385 San Siricio scrisse ad Imerio, Vescovo di Tarragona, sul Battesimo solenne di Pasqua e di Pentecoste, e prescrisse altre leggi liturgiche disci­ plinari. Al Vescovo Anisio di Tessalonica parla deiile ordinazioni vescovili di Illiria (3). Nel 416 In(1) V edi: Darras. Storia ecclesiastica. V oi. I, pag. 141. (2) Enc. di Pio IX ai Patriarchi e Vescovi orient. 8 aprile 1862. Altrettanto ripetè Leone X III nella lettera Apostolica: « Praeclara gratulationis », 20 giugno 1894 e « Orientalium di­ gnitas », 30 novembre. (3) Darras. O. c., Voi. pag. 486.

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nocenzo I scrive a Decenzio, Vescovo di Gubbio, sul tempo in cui deve darsi, nella Messa, il bacio di pace, e quando si devono, pure nella Messa, ricordare i nomi degli oblatori. Nel 429 San Cele­ stino scrive ai Vescovi delle Provincie di Vienna e di Narbona nelle Gallie, riprovando l’abuso intro­ dotto da alcuni sacerdoti di usare il pallio e cingoli speciali neEa S. Messa. S. Leone I prescrive a Dio. scoro d’Alessandria di iterare la Messa in quelle chiese, ove per la moltitudine o distanza, non pos­ sano convenire in una sola volta i fedeli; riprende i Vescovi di Sicilia perchè, ad imitazione dei greci, amministravano il Battesimo solenne nella festa dell’Epifania. Tutti conoscono quello che fecero per la liturgia universale S. Damaso e S. Gregorio Magno. Questi ora scrive a Leandro di Siviglia approvando il rito dell’unica immersione nel Battesimo, che colà si usava, per contrapporsi all’eresia ariana, ora con­ ferma le consuetudini introdotte nella diocesi di Ravenna; prescrive al Vescovo di Calaorra di fare sui neofiti due segni di croce in fronte col sacro Olio. Di essa si interessarono in modo speciale S. Gre­ gorio VII, Aless. Ili, Clemente IV e sopratutto San Pio V che ordinò la riforma del Messale e del Ri­ tuale, i quali più tardi apparvero insieme al Cerim. ed al Martirologio sotto Benedetto XIV, che li pre­ scrisse per tutte le chiese. E per diritto e per fatto adunque al Romano

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Pontefice compete la suprema autorità della litur­ gia (1).

23. Come esercita il Papa tale supremo d ritto. - Sacra Congregazione dei Riti.

Tale diritto il Romano Pontefice lo esercita per­ sonalmente colle Bolle, Encicliche o Brevi; dopo le edizioni del Messale e Breviario fatto coll’approva­ zione di S. Pio V ordinariamente esercita il suo di­ ritto per mezzo della S. Congregazione dei Riti, anche pei paesi delle Missioni. La Sacra Congregazione dei Riti (2), istituita da Sisto V colla Costituzione « Immensa aetemi Dei » del 22 gennaio 1588 ha per ufficio: di conservare la perfetta unità del rito in Roma e fuori, di invi­ gilare sulla correttezza dei libri liturgici ufficiali, di interpretare autoritariamente le prescrizioni litur­ giche, di decidere i casi dubbi, di concedere spe­ ciali facoltà e dispense, di rilasciare anche nuove prescrizioni per elevare il culto, specialmente di regolare lo sviluppo che la liturgia va acquistando coll’introduzione di nuovi uffici proprii diocesani o simili, di fare il processo della Beatificazione e Canonizzazione dei Santi. In quest’ultimo caso essa (1) Vedi trattato diffusamente questo punto presso il Bouix, P. II. cap. I, e P. I li, cap. I-X. (2) Colia Costit. Ap. Sapienti Consilio (29 giu. 1908) Pio X tolse alla Congr. de Propag. fide le decisioni sui S. Riti.

Jus liturgicum

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agisce però straordinariamente per un mandato speciale del Papa (1), Cfr. Codex Can. 253. 1.2. 24. Decreti e decisioni della S. C. dei Riti loro valore - Formulario. Ora i decreti della S. Congregazione dei Riti so­ no generali o particolari. I primi sono emanati per tutta la Chiesa, come sono quelli che si trovano al principio del Breviario o del Messale e quelli inti­ tolati cc Urbi et orbis » ovvero spiegano un senso di una rubrica, anche se questo è fatto da una persona privata, i secondi, che si dicono anche loocdi9 sono quelli che si danno per qualche chiesa o luogo di cui portano il nome, o per qualche Ordine o corporazione. Ora: 1. E’ certo che i Decreti generali hanno vigore di legge universale, perchè sono emanati per auto­ rità del Sommo Pontefice. Quindi al quesito : « An decreta a S. R. C. emanata et responsiones quae­ cumque ad ipsa propositis dubiis scripto formaliter. editae eandem habeant auctoritatem, ac si imme­ diate ad ipso Summo Pontefice promanarent quam. vis nulla facta fuerit de iisdem relatio Sanctitati Suae? » la medesima S. Congregazione il 23 mag­ gio 1846 rispose : ccaffirmative » (2). (1) Thalhofer. O. c., pag. 358; Bouix. O. c. P. II. Sect. Π. cap. VI. Tutte queste attribuzioni sono contenute nella citata Bolla Immensa, Vedi Bullar. Rom . edit. Coquellines lib. 4.. part. 4, pag. 395; Vedi Bolla citata da Pio X. (2) S. C. R . 23 maggio 1846, n. 2919.

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Tali decreti hanno bisogno di essere promulgati perchè abbiano autorità? E’ certo che i Decreti che dichiarano un diritto preesistente come le interpre­ tazioni delle Rubriche non hanno d’uopo di pro­ mulgazione ma basta che consti della loro autenti­ cità; quanto ai decreti che inducono un nuovo di­ ritto e si potrebbero dire estensivi hanno bisogno di essere promulgati e di solito il R. P. comanda di promulgarli. Tale promulgazione ufficiale incomin­ ciando dal gennaio 1909 si fa per mezzo dell’.dctai Apost. Sedis per decreto di Pio X. 2. I decreti interpretativi di una rubrica o pre­ scrizione dei libri liturgici hanno vigore di legge generale per quei luoghi ove la rubrica, la legge o il rito è accolto e usato. 3. I decreti locali per se non obbligano che in quei luoghi pei quali furono fatti, possono però es­ sere obbligatori anche in altri luoghi, quando siano ordinati dal Sinodo sulla stessa materia, quando vi sia una legittima consuetudine, e quando la S. C. li estenda ad altri luoghi. 4. Quelli che approvano o condannano partico­ lari consuetudini hanno solo vigore nel luogo, nella diocesi o nell’Ordine per cui vennero emessi; però se tali consuetudini, colle medesime circostanze, si trovano in altri luoghi si possono conservare se so­ no approvate tranne il caso in cui nel decreto si dicesse : « pro quibus nominatim editum fuit » e si

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devono^ togliere se condannate (l). Quindi al quesi­ to : An decreta S. R. C. dum edentur derogent cui­ cumque contrarie invectae consuetudini etiam im­ memorabili; et in caso affirmativo, obligent etiam quoad conscientiam? Rispose : affirmative : sed re­ currendum in particulari y> (2). 5. Le risposte o decisioni personali che recano

privilegi, facoltà o dispense, sono particolari in senso rigoroso e non si possono estendere ad altre persone, diverse da quelle per cui furono date. Quindi spesso contengono la clausola « De speciali gratia, in exémplum τύοη afferenda » (3). Talora s| danno decisioni di fatto, e la S. C. perchè non sia­ no applicate come regola vi aggiunge: Dummodo non transeat exemplum (4). 6. I decreti generali della S. Cv dei Riti obbli­ gano anche i Regolari che non hanno riti partico­ lari anche quando vanno contro le loro Costituzioni approvate dalla S. Sede (5). 7. Quelli che riguardano la materia dei paramen­ ti sono generali ed obbligano tutti (6). 8. Qualora si volessero impetrare nuovi Uffici e Messe o modificazioni bisogna uniformarsi alle istruzioni date dalla medesima Congregazione il 13 luglio 1896 (7). (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7)

S. C. R . 1 loglio 1873; 25 sett. 1875, n. 3380 I. S. C. R . 11 settembre 1847, n. 2951 ad. 13. Cfr. S. C. R- 25 settembre 1846, n. 2918. Cfr. S. C. R . 6 dicembre 1696, n. 1955. S. C. R- 7 dicembre 1888, n. 3697, I. S. C. R . 7 dicembre 1888, n. 3697, XVI. 3. C. R . 13 loglio 1896, n. 3926.

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9. Tra le decisioni della Sacra Congregazione dei Riti se ne possono trovare di quelle che sono in opposizione con altre. I tempi, i luoghi e le circo­ stanze si mutano e quindi ciò che una volta era buono ed utile col processo di tempo e col maturar­ si delle circostanze può diventar meno conveniente od inutile, e uno studio ed un esame più profondo possono persuadere altrimenti di quello che era sta­ to deliberato. Per decidere in tali casi quale via se­ guire si deve innanzitutto esaminare la fattispecie ed in ogni modo quando due decreti stanno in aperta opposizione l’anteriore s’intende abrogato dal posteriore. Del resto nella nuova Collezione au­ tentica dei Decreti si sono omessi tutti quelli con­ tradditori (1). Il Codice (Can. 2) nulla stabilisce circa i riti e le Rubriche che sono nei libri liturgici ufficiali, quindi questi hanno tutto il loro valore se non sono corrette nel Codice espressamente. Per potere convenientemente intendere i Decreti e le decisioni della S. C. dei Riti è duopo cono­ scere il suo formulario. Quando dice Lectum, re­ latum, intende dare una cortese negativa alla diffi­ coltà proposta; pro gratia, accorda un privilegio od una dispensa; dilata, vuol dire che si sospende la decisione o che il dubbio non è ben proposto; dentur Decreta, significa che la difficoltà è già stata (1) La Collectio authentica comprende i decreti fino all’ an­ no 1927 inclusivo. Colla edizione autentica del Breviario, Rituale e Messale in cui sono inserite nuove rubriche vengono abrogate tutte le Decisioni della C. dei Riti date in precedenza e che non sono in corrispondenza colle nuove rubriche introdotte.

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sciolta^ da altri decreti; serventur rubricae, vuol dire che non si deve imporre di più di quello che nelle rubriche è detto; nihil, è la ripulsa della pe­ tizione; in decisis, negative et amplius, vuol dire che è inopportuno il proporre di nuovo il dubbio; justa mentem, cioè è accolta la cosa nel senso in­ teso dalla S. C. che poi tosto lo dichiara; facto verbo cum SS.; cioè la S. C. si è riservato di fare approvare la cosa dal Papa. Dal fin qui detto si può decidere quando le deci­ sioni della S. C. dei Riti sono precettive e quando sono direttive. Sono precettive quando usano una clausola precettiva ovvero interpretano una rubri­ ca precettiva; sono direttive quando includono un suggerimento, un consiglio, ovvero interpretano una rubrica direttiva. 25. Rubriche.

Chiamasi rubriche quelle norme che si trovano nei libri liturgici, secondo le quali si devano rego­ lare le azioni e le cose del culto. Il nome provenne dall’antico costume degli operai di segnare in creta rossa le linee dell’opera che dovevano eseguire e degli scrittori che segnavano in color rosso il titolo delle opere. Tale uso passò alla Chiesa. Ed in quel tempo stesso nel quale s’incominciò pure a scrivere in rosso le regole colle quali si dovevano eseguire le sacre funzioni, donde il nome di rubriche. Esse vennero inserite nei libri liturgici per l’autorità del Sommo Pontefice o della S. C. dei Riti.

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Capo IV

Le rubriche si dividono: 1. In essenziali ed accidentali. Le prime sono quelle che costituiscono la stessa azione sacra, sen­ za delle quali essa non sarebbe valida; le seconde quelle che si riferiscono solo all’ornato, all’istitu­ zione, al significato mistico ecc. 2. In ordinarie e straordinarie. Le prime sono quelle che si devono sempre osservare; le altre si osservano o si devono omettere, secondo le circo­ stanze speciali. 3. In precettive e direttive. Le precettive sono ordinate per modo di legge : le direttive per modo di consiglio e d’istruzione (1). Quest’ultima distinzione è negata da alcuni i quali sostengono che tutte le rubriche sono precet­ tive, ma è difesa generalmente dai rubricisti e dagli autori di morale (2). Riguardo però agli autori di morale si deve ben osservare che essi stabiliscono quando è peccato e quando no l’omissione di una rubrica. Ma da ciò che non è peccato una omissio­ ne non deriva per conseguenza che si possano coni tutta facilità tralasciare. Ora quanto alle rubriche del Messale conven­ gono tutti nell’ammettere che sono direttive quelle che riguardano tutto ciò che è prima o dopo della Messa perchè il Tridentino scomunica chi insegnas-

(1) De Herdt Sacrae Liturg. Praxis, V oi. I, η. 1. (2) Vedi su questa questione la « Civ. Catt. » quad. 991. A l cuni meno esattamente distinguono le Rubriche direttive dalle precettive dalla gravezza dell’ obbligo che impongono e dicono precettive quelle che obbligano sub levi. Anche S. Alfonso con­ danna un tal criterio di divisione (Theol. mor. de Euchar. 399).

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se che il rito della Messa e della solenne ammini­ strazione dei SS.mi Sacramenti si possa cambiare od omettere. Quanto alle altre si danno le seguenti regole per distinguerle : a) La espressione letterale della rubrica stessa, se si adopera la forma imperativa o la parola debet e molto più se si usa la forma negativa « abstineat, caveat » e si dice che chi fa altrimenti pecca, la rubrica è da tenersi come precettiva, ovvero una delle espressioni cc dicere poterit, curabit », oppu­ re si usa la forma condizionale « si fieri potest, si habéri potest, si opportunitas dabitur » la rubrica è solo direttiva. b) Il secondo criterio si desume daUa materia

circa la quale versano le rubriche. Così sono pre­ cettive tutte quelle che riguardano l’essenza dei Sacramenti, del Sacrificio, delle Benedizioni, spet­ tano alla loro integrità e alla dovuta riverenza. Ta­ li sono le rubriche che vogliono mónda l’acqua del Battesimo, le tovaglie dell’altare, che esigono il sale per l’acqua benedetta, ecc. c) Il terzo criterio, e certo il più importante fuo­ ri di ogni questione, è la dichiarazione che venisse fatta dalla S. Congregazione dei Riti. Così p. e. fu dichiarata precettiva la rubrica del Rituale R. circa l’uso della Borsa e del Corporale nell’amministrare la S. Comunione (1). d) Il quarto ed ultimo criterio è quello che si desume dalla, sentenza comune, degli autori; a que(1) S. C. R. 27 febbraio, 1847 n. 2932, ad 3.

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sti difatti rimanda sovente, nelle sue risposte, la stessa S. C. dei Riti (1). Tali sono i criteri che si assegnano per poter di­ stinguere le rubriche precettive dalle direttive. In pratica però si deve procurarae di osservarle tutte colla più grande esattezza possibile. Dalla loro per­ fetta osservanza infatti riceve il sacro culto quella maestà e splendore che gli è proprio; il popolo ne ritrae edificazione, ed il sacro Ministro che le com­ pie si mette in istato di ricevere maggior frutto di grazie, mentre alla loro fedele osservanza vi con­ corrono con tanta parte la mente ed il cuore. San Carlo Borromeo e S. Francesco di Sales, S. Alfon­ so de’ Liguori portavano fino allo scrupolo la loro osservanza; e S. Teresa sarebbe stata pronta a dare la vita per la più piccola cerimonia della Chiesa cattolica. Molto più che le stesse rubriche direttive contengono spesso cose che obbligano già per diritto ; e darebbe certo segno di freddezza, ne­ gligenza o mancanza di spirito nel! sacerdote (2)* 26. quisiti.

Consuetudine vigente - Divisione - R

Che anche la vigente consuetudine, sia una fonte del diritto liturgico lo prova la storia della Chiesa. Tertulliano di molte cose dice che : « traditio auc­ trix, consuetudo confirmatrix et fideis observatrix» (1) Pighi « (2) Quarti, e. 2. II.

Liturg. Sacramntorum » Quaest. Proenu. c. V I,

Tit. I. cap. III. p. I ; Cavalieri, tom. 5r

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#o

Cipriano la chiama costume non di pochi ma ge­ nerale, che non può esser contrario alla verità (1). Ad essa fanno appello sovente S. Agostino e S. Am. brogio (2). Si trovano approvate dai Concilii (3), dalla Bolla di S. Pio V sul Messale e da quella di Paolo V sul Rituale, dal Rituale stesso (4) e da molte decisioni della S. C. de Riti (5) non poche consuetudini. Tale consuetudine nella liturgia, come nelle al­ tre leggi, può essere juxta legem, praeter legem e contra legem. a) La Consuetudine juxta legem, non è altro che

una pratica interpretazione della legge e quindi ha la stessa autorità della legge. b) La consuetudine praeter legem compie la leg­ ge, estendendola anche ad altri oggetti da essa non contemplati, ma non ad essa contrari. Tale è la consuetudine di porre le tre cartaglorie sull’altare invece di una sola nel mezzo, di suonare il campa­ nello al Domine non sum dignus. Contro della qua­ le ultima consuetudine non è la prescrizione di Pio V di nulla aggiungere o detrarre al Messale, che proibisce solo le innovazioni e le cose estranee al rito. c) Infine la consuetudine contro una legge gene(1) Cypr. ad Caecil. c. 11; Epist. n. 13: 74, n. 9; 75, n. 19. (2) S. Ambr. Epist. lib . II. 54, n. 2 ad Januarium. (3) Cfr. Thalhofer o. c., p. 362; Philips, « Kirchenrecht » , pag. 694. (4) Cfr. Rito d’ammin. del Sacram, del Matrimonio. (5) Cfr. S. C. R . 28 aprile 1607. n. 232; 23 apr. 1607. n. 233; 10 maggio 1608, n. 252; 27 nov. 1655, n. 992 etc.

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rale liturgica contenuta melle rubriche del Rituale,

Messale, Breviario, Pontificale e Cerimoniale Ro­ mano, non ha alcun valore, anzi si deve ritenere corruttela. Così Benedetto XIII nel concilio di Ro­ ma (1725). cc Episcopis districte praecipimus ut contraria omnia quae in ecclesiis seu saecularibus, seu regularibus (iis exceptis qui proprio vel Ri­ tuali, vel Missali, vel Breviario utuntur a S. Sede probato) contra praescriptum Pontificalis Romani et Caeremonialis Episcoporum vel rubricas Missa­ lis, Breviarii et Ritualis irrepsisse competerint, de­ testabiles tamquam abusus et corruptelas prohi­ beant et omnino studeant removere, quamvis non obstante interposita appellatione, vel immemorabili allegata consuetudine, cum non quod fit, sed quod fieri debet, si attendendum » (1). E la S. C. dei Riti: « Consuetudines quae sunt contra Missale R. sublatae sunt per Bullam Pii V. in principio ipsius Missalis impressam et dicendae sunt potius corruptelae quam consuetudines » (2).

Così fu dichiarata corruttela la consuetudine di ag­ giungere, al Venerdì Santo, nella Messa, l’orazione pel Vescovo (3). Di tal tenore è. ancora la Bolla di Urbano Vili preposta al Messale. In pratica pe­ rò, ccad vitanda varii generis incommoda » si ap­ provano anche consuetudini contro le rubriche (4) (1) Questo decreto fu emanato per le Provincie romane, ma ognuno vede che vale anche per tutte le .diocesi dove sono in uso i detti libri liturgici. (2) S. C. R . marzo 1591, n. 9 ad. 10. (3) S. S. R. 7 agosto 1875, 3365. II. (4) Così la S. C. di propaganda il 19 agosto 1865 permise

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Di qui le condizioni simultanee che deve aver la consuetudine perchè abbia vigore: 1. Deve essere immemorabile. Ciò appare, indi­ rettamente dalle sopra citate parole di Benedetta XIII, e in modo diretto, dai decreti della S. C. dei Riti che esigono una tale qualità nella consuetu­ dine. Però quando vige una consuetudine imme­ morabile ed esce un decreto della S. C. dei Riti che è contrario ad essa, per sè resta abrogata e per sostenerla bisogna ricorrere alla S. C. dei Riti (1). 2. Non dev*essere contraria alle rubriche del Messale, del Rituale, del Breviario, del Cerimo­ niale dei Vescovi e del Pontificale. La consuetudi­

ne contraria alle Rubriche del Messale o Breviario devono dimostrarsi anteriori alla Bolla di Pio V, ogni consuetudine in proposito introdotta dopo questa Bolla è abuso imprescrivibile (2). 3. Dev’essere lodevole, cioè non tornare a disdo­ ro del culto, ma accrescerne piuttosto la maestà. Solo le consuetudini lodevoli e ragionevoli ed im­ memorabili si possono conservare, come le tollera il Cerimoniale dei Vescovi, e la S. C. dei Riti (3) « Caeremonialem librum non obstare nec tollere ai Vescovi della Provincia di Quebec, qualora vi sia un motivo ragionevole, di impartire la benedizione solenne nuziale fuori della Messa. (1) S. C. R . 11 settembre 1847, n. 2951 ad. 13: Cfr. n. 24. (2) S. C. R . 11 marzo 1660, n. 1153; 18 giugno 1696, 1812. Questa Bolla si trova nei Messali, Breviari e Rituali. (3) S. C. R . 10 gennaio 1704, n. 154; 5 marzo 1606, n. 207; 28 aprile 1607, n. 228.

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immemorabiles consuetudines Ecclesiarum » (l)r

ma le altre si devono abolire. 4. Dev’essere approvata, per potersi imporre come legge. Onde non basta che sia antica, anche immemorabile. La S. C. dei Riti al quesito « Utrum nec ne, servandae sint antiquae consuetudines cujusque Ecclésiae, quando haec non sint Rubricis contrariae? » Rispose: (2) Esplicet quae sint consuetudines et rucurrant in casibus particulari­ bus ». II primo giudice poi della convenienza e le­

gittima delle consuetudini particolari diocesane è il Vescovo, e quindi si possono conservare quelle ch’egli approva e si devono abolire quelle eh’egli giudica da togliersi; dal giudizio del Vescovo però si può far appello alla Sacra Congregazione dei Riti (3). Del resto sarebbe desiderabile che si togliessero le consuetudini particolari, locali, massime se po­ co conformi alle regole liturgiche, e solo si conser­ vassero le antiche e lodevoli che sono generali nel­ la Diocesi, ed approvate almeno col tacito consenso del Vescovo, che le conosce. Ciò si può ottenere facilmente quando le chiese particolari si unifor­ mino, nelle sacre funzioni, alla Cattedrale, che come è la madre delle altre, deve essere ancora la loro maestra. Peraltro le chiese inferiori « sequi non debent caerimonias Cathedralis Ecclesiae in Us

s.

(1) C. R . 7 luglio 1612, n. 298. (2) S. C. R . 7 dicembre 1844, n. 2873. (3) Cfr. n. 2.

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quae sunt contra Rubricas et regulas Missali et Caeremonialis Episcoporum (1). Quindi la savia disposizione : Quomodo se gerere debeant Caeremoniarum Magistri aliique, qui vident in Ecclesiis non peragi functiones juxta Rubricas nec observari Decreta et Resolutiones S. R. Congregationis? Risp. : Adeundus loci Ordinarius qui stricte tenetur providere opportunis remediis ut Rubricae et S. R. C. Decreta rite observen­ tur; si quid vero dubii occurat, recurrendum ad eandem Sacram Congregationem pro declaratio­ ne (2).

27. I Liturgisti. Quale autorità hanno gli scrittori di Liturgia? A questa domanda risponde il Coppin (3); 1. Se la dottrina di un autore e anche quella comune degli autori è contraria apertamente alle rubriche, non ha alcun valore di fronte ad un decreto contrario della S. C. dei Riti; 2. Quando tutti i liturgisti, o anche solo alcuno appoggiati ad una rubrica o ad un decreto autentico insegnano una dottrina od una pratica, si devono seguire, il far altrimenti sa­ rebbe temerario; 3. Quando insegnano che una co­ sa è lecita, finché non viene positivamente proibita dalla Sacra Congregazione dei Riti si può seguire la loro sentenza; 4. Quando si dividono in varie (1) S. C. R. 16 marzo 1391, n. ad. 7. (2) S. C. R . 17 settembre 1822, n. 2621 ad 1. (3) Coppin-Stimart, Sacrae Liturg. Compendium Parisiìs-Lip* •iae 1905.

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sentenze la loro autorità vale quanto valgono le ragioni che si adducono; 5. Quando qualche ru­ brica si-può in pratica interpretare in vari modi, si stia a quella pratica che vige nella diocesi, così si otterrà l’uniformità nelle sacre funzioni, ciò che è sempre da desiderare.

CAPO V .

Valore dogmatico della Liturgia 28. La liturgia è professione di fede. Che la sacra liturgia sia espressione della fede della società religiosa che ne fa uso, appare dalla) sua stessa natura, mentre risulta di atti esterni, e pubblici di culto, i quali necessariamente, per es­ ser veri, suppongono la fede in chi li compie. Ma ciò si rende più evidente se si osservano le parti integrali della liturgia stessa, le cose che essa usa, le azioni che si compiono, le parole che si pronun­ ciano nell’esercizio del sacro culto. a) Hanno in primo luogo uno scopo religioso le cose liturgiche: l’immagine del Crocifisso propo­ sta alla venerazione dei fedeli suppone ed esprime il mistero della Redenzione: l’Ostia esposta sull’al­ tare, la lampada dinanzi al tabernacolo suppone ed esprime la fede nella reale presenza. E così tutti gli oggetti sacri del culto come i lumi, le vesti, l’in­ censo, le sacre Reliquie ecc. esprimono la fede del­ la società religiosa che li adopera. b) Le azioni e cerimonie liturgiche, come genu­ flessioni, segni di croce, inchini ecc., sono come un velo trasparente che lasciano scorgere la fede della società religiosa, mentre mostrano ciò che

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Capo V

crede il ministro il quale agisce a nome della stes­ sa società. E ciò è tanto vero che quando le società religiose fecero divorzio dalla fede cattolica, abo­ lirono anche queste esterne espressioni. c) Anche le parole liturgiche esprimono la fede in Dio, in G. C., nei Santi che si invocano, si rin­ graziano o si rendono propizii. La liturgia adun­ que in sè e nelle sue parti ha una parola vivente, espressiva della fede della società religiosa, dello spirito che lo anima. Quindi per conoscere quale sia la fede di una società religiosa qualsiasi baste­ rà osservare ciò che è espresso chiaramente dalla sua liturgia, mentre questa non può essere scien­ temente od erroneamente difforme dalla fede pub­ blica. cc Legem credendi lex statuit supplican­ di » (1).

29. La verità di un dogma si può dimostrar da ciò che è espresso nelle liturgie delle Chiese unite alla romana od anche nella liturgia romana.

La colonna e il fondamento della vera fede è la Chiesa cattolica, che ha il suo centro a Roma, ove ha sede il successore di S. Pietro, il Vicario di G. C. Quando adunque un dogma è espresso chia­ ramente nelle liturgie delle Chiese unite alla ro­ mana si deve ritenere rigorosamente per vero. « Cum errare nequeat Ecclesia catholica, non po(1) S. Coelestini, Episi, ad Galliar, Episc. c. Π. Cfr. Bouix o. c. P. I. c. V II § 1 e 2; Card. Bona o. c. 4. I. c. VII § II. Maugère o. c. Chap. IV § I.

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test ullum erronem reperiri dogma clare expres­ sum in liturgia Ecdesiae Romanae et simul in liturgiis multarum ipsi unitarum ecclesiarum; ergo ex eo quod aliquod dogma reperiatur in dictis liturgiis clare expressum recte et vigorose concludi­ tur ipsius veritas ». Di qui si vede di quanto valo­

re sia la liturgia nella dimostrazione delle verità dogmatiche : « Quando nempe cAiqua liturgica dog­ matis expressio seu manifestatio universalis est, utpote in Ecclesia Romana, et majori caeterarum parte usurpata, tanta est ejus auctoritast quanta ipsiusmet docentis et profitentis Ecclesiae catholi­ cae » (1). E la ragione è data dal Decreto posto

innanzi alla nuova Collezione dei Decreti autentici della S. C. dei Riti, oc quandoquidem Ecclesia cum Christi corpus sit, vitam Christi vivat, Christi spi­ ritum hauriat eoque agatur; cumque actus et ma­ res, vitae judices, et testes sint; hac de causa quid­ quid eloquatur quidquid moliatur in eo se se ef­ fundat seque prodet divina virtus opus est. Hinc illud Innocentii III effatum; singula divinis sunt signata mysteriis singula animum coelesti volupta­ te profundunt, singula pietate cient, alunt, fo­ vent » (2).

E neppure è bisogno, per accertarsi della verità di una dottrina, d’interrogare la maggior parte delle liturgie unite alla romana, ma basta osserva­ ti) Bouix, 1. c. (2) Innoe. III. lib. ult.

adv. Haeres,

n. 21 et segg.

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Capo V

re se esso sia chiaramente espresso nella liturgia romana (1).

Il che trovasi chiaramente indicato nella bolla Ineffabilis, nella quale si reca la prova della verità

dell’Immacolata Concezione di Maria SS. anche dal fatto che la Chiesa romana ne celebra la festa. Il modo poi con cui le verità dogmatiche posso­ no essere espresse nella liturgia è triplice: alcune sono confessate e proclamate nella recita del sim­ bolo o delle formule liturgiche; p. es. la genera­ zione eterna del divin Verbo, la processione della Spirito S. dal Padre e dal Figlio, il primato del Sommo Pontefice. Altre sono espresse indiretta­ mente negli atti che procedono da essa e quindi le suppongono necessariamente: così p. es. il dogma della esistenza del purgatorio e della utilità dei suffragi si contiene negli atti del culto praticati pei fedeli defunti. Finalmente altre verità costitui­ scono l’essenza stessa del culto cattolico e lo di­ stinguono in culto di latria, di iperdulia e di dulia, secondo le qualità delle persone cui viene esibi­ to (2). 30. Condotta degli eretici. La qual cosa appare tanto più chiara se si osser­ va la condotta che tennero gli eretici circa la litur­ gia. Ogni volta che l’eresia negò o contraffece qual(1) Maugère, 1. c. (2) Lapini « Ist. Liturgiche », Lez. X V ; Cfr. pure Perrone», « D e locis theolog. » ; p. II s. 11. c. 11.

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n

che punta della dottrina cattolica fu costretta a togliere o ad alterare anche le parti relative della liturgia. Basti ricordare quello che fecero gli anti­ chi gnostici, gli adamiti, gli eutichiani, i seguaci di Nestorio, di Pietro Fullone, di Ario, di Donato, fino ai protestanti, per provare la verità di questo punto. Ehione, Cerinto, i Nazarei non credevano che Gesù Cristo avesse abrogato l’antico rito ebrai­ co fondandone un nuovo, e cercarono di rimettere in uso le cerimonie ebraiche (1). Tutti ricordano li formule del Battesimo che adoperavano i Valen­ tiniani, i montanisti, gli eunomiani. I protestanti che non credono alla reale presenza non solo han­ no abolita la Messa, ma hanno pure alterato mille volte la formula della Comunione (2). I greci sci­ smatici, che non credono alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, escludono dal simbolo nella Messa, la parola Filioque.

31. Uso che ne fecero i SS. Padri e gli scrit tori ecclesiastici. D’altra parte i Padri della Chiesa, a provare la verità di un dogma e a difenderlo dalle novità ap­ pellavano spesso alla liturgia in uso nella Chiesa cattolica. S. Agostino dalle orazioni della Chiesa dimostra che la perseveranza finale è un dono gra(1) Darras. Voi. I. pag. 41. (2) Cfr. Bossuet, « « Storia testanti ».

delle variazioni delle chiese pro­

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tuito di Dio (1); dal rito con cui si amministra il Battesimo, e specialmente dagli esorcismi, prova la esistenza e trasmissione del peccato originale (2). S. Girolamo appella alla liturgia per combattere i luciferiani (3). Mario Vittorino prova da essa la divinità di Gesù Cristo contro gli ariani (4) San Celestino Papa scrisse ai Vescovi delle Gallie la ce­ lebre sentenza: cc legem credendi lex statuit sup­ plicandi », ed insegna la liturgia, « quae unifor­ miter in omni catholica Ecclesia celebratur, esse credendi legem (5). San Tommaso dal fatto che la Chiesa celebra la festa della Natività di Maria Santissima insegna che essa nacque santificata (6). Il Suarez prova che essa fu assunta in cielo in ani­ ma e corpo dal fatto della festa dell’Assunzione (7). Onde il Bellarmino : « Aliquando, dice, ex vetustis caeremoniis' multis persuadentur aliqua dogmata, quam ex melius testimoniis » (8). In fine il Con­ cilio stesso di Trento, a dimostrare la verità di al­ cuni dogmi cattolici citò le parole e preghiere di cui fa uso la liturgia (9). (1) S. August. de bona persev., 23. .(2) Id. de peccatorum meritis et remiss. 1. I. c. 34, et. che le più piccole particolarità e si tramandarono con sacra venerazione (1). Pare quindi .accertato che la liturgia di S. Giacomo derivi da questa Apostolo. Sostenendo però la paternità di S. Gia-i corno su questa liturgia non si vuol affermare che essa venne scritta da lui ciò che è anzi da esclu­ dersi affatto, ma solamente che discende da lui» in quella forma particolare, quale l’abbiamo nella parte essenziale, e quale la designò sempre la tra­ dizione, e che essa abbia avuta per patria la città di Gerusalemme, sia cioè apostolica nello stretto senso della parola. 42. Vicende storiche - lingua in cui fu scritta.

Le vicende di questa liturgia vanno intimamen­ te collegate colla storia della città di cui porta il nome. Gerusalemme fu ridotta, dall’Imperatore romano Tito, ad un mucchio di rovine; ma i crii stiani e gli ebrei non seppero abbandonare quei luoghi che ricordavano tante sacre memorie. Essi (1) Probet. «

Liturgie der drei ersten Jahrh » ,

§ 73.

Liturgia Gerosolimitana

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ritornarono tosto ad abitarvi. La religione cristia­ na vi rifiorì, e ben quindici Vescovi, per testimo­ nianza di S. Cirillo, tennero, con successione con­ tinua, quel seggio episcopale, dopo S. Giacomo (1). Questo fatto ci assicura come anche l’antica liturgia originaria vi si mantenne inalterata. L’Im­ peratore Adriano distrusse una seconda volta la città, che in parte era stata riedificata, diè ordine che nessun giudeo potesse abitare in quelle regioni e nel luogo di Gerusalemme sorse, per suo co­ mando, la città di Aelia, nella quale convennero gli stranieri romani e i cristiani convertiti dal pa­ ganesimo. Durante queste vicende il culto cristiano non era mai cessato a Gerusalemme e nei dintorni; ciò che si dovette cambiare fu probabilmente la lin­ gua. Perchè mentre nel lasso di tempo che passò fra Tito e Adriano, si adoperava, pel commercio e per la liturgia la lingua aramaica o siro-cMaica, nella nuova città, dove quella lingua non era in­ tesa, si adoperò il greco. Non è però senza fonda­ mento l’opinione di coloro che affermano come, assai per tempo, s’adoperasse nella liturgia di Gerusalemme anche la liturgia siriaca. Tale opi­ nione confermerebbe la sentenza di Bickel, secon­ do il quale la versione siriaca rappresenta, più fe­ delmente che non la greca, l’antica liturgia gero«olomitana, poiché una tale versione potè derivare dall’aramaico. Egli è certo però che la versione (1) Cyrill. cat. 13, n. 15.

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greca, anche se posteriore di tempo alla siriaca, stai a pari, per autorità a questa mentre fu adoperata in Asia, cc Non si può supporre infatti, osserva il Probst, che distrutta Gerusalemme cessasse l’anticorito delle sue solennità e che i cristiani di quei luoghi avessero ricevuto quello che si adoperava in Cesarea od in Antiochia » (1). La versione greca (2), dalla quale con maggior probabilità provenne la siriaca (3) è quella che si riconosce come propria del patriarcato di Gerusa-i lemme e delle Chiese greche dell’isola di Cipro e della Sicilia (4). Certo non si può stabilire in qual’epoca sia stata scritta la liturgia greca che ora possediamo, e che passa sotto il nome di S. Giaco­ mo, ma essa rappresenta senza dubbio la formai che aveva alla metà del secolo quinto (5), ossia in quel tempo in cui, in luogo della Messa dei Cate­ cumeni, sottentrò il preparamento alla Messa, dii cui non fa parola S. Cirillo nelle sue catechesi.· (1) Probst. « Liturgie des vierten Jahrh ». § 17. (2) Ammesso che prima del secolo IV non sia stato scritto alcun codice ufficiale per la liturgia, non si può neppure par· lare di versione nel senso stretto della parola. Qui si prende non nel senso di traduzione delle orazioni liturgiche in un’ altra lingua, ma a dinotare il fatto della celebrazione dei sacri mi· steri in una lingua diversa dalla originaria. ( 3) Renaudont. « liturgiar. orientai, Collectio » t. 1. Dissert. num. 2. (4) A Messina si conserva un codice eh contiene un fram­ mento di questa liturgia, pubblicato dal dotto Assemani nel suo « Codex liturgicus », voi. 5. Esso è una parafrasi della liturgia di S. Giacomo, e secondo la critica può risalire al secolo X. Ma il terremoto del 1908 seppellì forse anche questo prezioso documento. (5) Daniel a Codex liturgicus » , t. IV. 1.

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Quindi in questo tempo vi si introdusse la parola « ομόνσιος-» consostanziale, consacrata nel Concilio Niceno e l’altra « Secrozes* » Madre di Dio, appli­ cata alla B. Vergine, adoperata negli atti del Con­ cilio Efesino. Si aggiunse anche, prima delle lezio­ ni, il Trisagio che ebbe origine sotto l’Imperatore Teodosio II, mentre il cantico dopo l’anafora è antichissimo ed è certo di origine apostolica. Pie­ tro Fullone, usurpatore della sede antiochena, ca­ duto nell’errore dei teopassiani cercò di introdur­ re il suo errore nel Trisagio, ma venne condan­ nato dal Concilio Trullano, quantunque l’impera­ tore Anastasio, sostenitore degli eretici, volesse che i giacobiti avessero a conservar quelle aggiun­ te (1). 43. Dove era in uso anticamente.

La liturgia di S. Giacomo era in uso non solo in Gerusalemme, ma in tutta la Palestina e la Si­ ria. « Hierosolymitarum liturgiam amplexae sunt nedum subiectae ecclesiae, verum alienae quamplures, quin fere omnes orientales, ad illam suas liturgias expresserunt et accomodarunt » (2). Ma nel secolo quinto gli abitanti di queste regioni cad­ dero per la maggior parte nell’eresia dei monofi· siti e si chiamarono giacobitù per distinzione dai cattolici, che si dissero melchiti. Entrambi man-12 (1) Lebrun, I. c. t. II II Dissert. VI, art. 1. (2) Assemani « Codex limrg. eccl. universalis » t. 4 p. 2 Praef.

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tennero per qualche tempo la liturgia di S. Giaco­ mo, finché questi ultimi, dopo un concilio di Co-^ stantinopoli, abbracciarono la liturgia di questo patriarcato colla lingua greca, abbandonando la siriaca. Ma la liturgia di S. Giacomo si conservò, quantunque con una grande quantità di aggiunte,1 tanto presso i giacobiti eretici quanto presso i ma· Toniti, che per la liturgia non si distinguono quasi per nulla dai Giacobiti (1). Di questa liturgia Abramo Echell ricorda più di cinquanta forme, le quali, fatte poche eccezioni, non contengono che l’anafora, e i codici che riferiscono la preparazio­ ne della Messa, sono pochi, recenti, e questa par­ te venne attinta dalla liturgia di S. Giacomo. Il Renaudont ne pubblicò più di trentotto (2).12 (1) Bickel a Literar. Handtveise » , n. 86, p. 51S. (2) Renaudot V . II. pag. 46 e 47. — Queste più che cin­ quanta anafore della liturgia giacobitica sono esposte criticamente dal citato Bickel. Egli le divide in due classi. Alla prima riferisce quelle che sono certamente apocrife od almeno assai dubbie, e tra queste annovera le tre liturgie di S. Pietro, quella dei dodici Apostoli attribuita a S. Luca, quelle di S. Giovanni e S. Marco, di S. Clemente Romano, di S. Dionigi Aeropagita, di S. Ignazio di Antiochia, Matteo il Pastore; in fine quelle dei Pontefici Sisto, Celestino e Giulio, dei SS. Padri Basilio, Gregorio Nazianzeno, Cirillo Alessandrino, dei siri Maruta e Giacomo di Sarug, del persiano Simone. Nella seconda colloca quelle che vengono stese dai Patriarchi dei Giacobiti siri. Fra questi sono: Filosseno, Giacomo Baradeo, Tomaso di Aracla, Giovanni c i Bacra (sec. VII), Giacomo di Edessa, che fece una recensione della Liturgia di S. Giacomo, Eleazaro Bar Sebetha di Babilonia, detto anche Filosseno di Bagdad (sec. IX), Mose Barkepba, Giovanni Bar Schuschan ( 1165) nei messali cattolici sotto il falso nome di S. Giovanni Grisostomo, Dionigi Barca, lib ( 1171) i Patriarchi Michele il Vecchio, Giovanni Scriba od il Piccolo (verso il principio del sec. XII) e Giovanni Ibe Maadani ( 1263) Gregorio Barhebreus ( 1286) Discorso di

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44. Edizioni.

I codici antichi di questa liturgia sono assai rari. Le persecuzioni continue che agitarono le Chiese orientali, l’ignoranza di molti che trascurarono di conservare i libri liturgici, il cieco zelo con cui Maroniti del Libano e del Malabar mandarono al­ le fiamme gli antichi sacramentari, furono le cause per cui si trovano rarissimi codici, specialmente di quelli che contengono un ordine generale. Quanto alle edizioni che si fecero di questa liturgia scrive il Renaudot: cc Omnes... Liturgiae Syriacae MaTonitarum titulo editae, aut quae in recentissimis aliquot codicibus reperiuntur Jacobitarum sunt, ut complures cdiae quas recenset Abrahamus E· chellensis. Nam in codicibus Jacobitarum, qui ser­ vantur in bibliotheca Seguieriana et Colbertina ut in Florentina omnes illae reperiuntur, cum certis indiciis, quae illas Jacobitis proprias esse demo· strani. Immo, quod satis mirari non possumus, in Romana ipsa editione tituli servati sunt loannis Barsusan, Matthei Pastoris, Dionysii ed aliorum9 quos non unis locis monuerunt. Unde in aliquot exempiaribus, atrum transverso calamo signum Joannis Barsusan nomini illitum est. Verum igno­ ravere editores, eam quae fuisse, quod falsa Sancti Kardu (fine del sec. XIII) ed il Patriarca le Waib (1332). Ed in m odo speciale considerevole è infine l’ anafora dei Santi Dot­ tori composte sulle liturgie dei più grandi Dottori della Chiesa, del Patriarca Giovanni Bar "Wahbun, verso la fine del sec. XII, in cui sono citate le anafore di S. Giacomo, S. Giovanni e altre antiche. Cfr. Renaudct. Dissert. cit.

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Pontificis Epistola, ad erroris sui patrocinium pas· sim abuterentur : eam quae Dionysio Atheniensi contra librorum veterum fidem tribuitur, esse, Dionysii Barsalibi; nullam esse denique, quam Jacobitae sibi non vindicarent » (1). Senza accen-

nare però le edizioni che ne fecero i greci questa liturgia fu stampata in greco dal Moral Panno* 1650, e nello stesso anno, anche in latino e dedi-! cata al Card. Lorena, e più tardi al Pontefice Si­ sto V. In una di queste edizioni latine vi è una pre­ fazione di Claudio De Santi, poi Vescovo d’Evreux, e nell’altra dedicata dal Canonico S. Andrea di Parigi al Papa, si trovano note di Genziano Hervet. Questi tre dotti personaggi concorsero adunque alla pubblicazione della liturgia di S. Gia­ como (2). Venne altresì pubblicata in tedesco dal Probst, e prima di lui in latino dal Renaudot, il quale ci dà l’ordine di tutte le principali liturgie siriache. 45. Sua autorità. Appena vennero pubblicate le prime edizioni della liturgia di S. Giacomo insorse una viva di­ sputa tra i cattolici e i protestanti circa la sua au«torità. Alcuni dei cattolici pretendevano che essa fosse stata scritta dallo stesso Apostolo di cui porta il nome, e quindi avesse autorità apostolica, men-12 (1) Renaudot, 1. c. Vedi inoltre la lettera di Jacopo di Edessa intorno ai riti della Messa dei Siri presso Lapini, Lez~ XII. Appendice. (2) Lebrun, 1. c.

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tre i protestanti la rifiutavano come apocifra nonattribuendole alcun valore. Ora, quantunque sia dalla critica accertato che l’Apostolo non scrisse alcun ordine liturgico, è però un fatto che questaliturgia fu in uso fino dai primi tempi della Chie­ sa, perciò ha una grandissima autorità. E’ certo· che caduta poi in mano degli eretici, ebbe a subire i loro errori ma se si tolgono i punti dogmatici che determinano la loro separazione dalla Chiesa, e che essi vi inserirono, essa riferisce tutto il dog­ ma cattolico del tempo in cui avvenne il fatto do­ loroso. Quindi è un monumento di grandissima autorità per ribattere gli errori che sorsero piùtardi e separarono dalla Chiesa i popoli, e special-! mente contro i protestanti.

46. Ordine e parti principali di questa litu gia. Secondo le edizioni più sopra citate l 'ordine ge­ nerale di questa liturgia è il seguente. Il Celebrante prima di incominciare la Messa chiede perdono a Dio, con una preghiera, dei suoi peccati, onde essere purificato. Quindi si abbrucia incenso con nuove preghiere. Arrivato all’altare, il Celebrante saluta il popolo, annunciando la pace; il Diacono invita alla preghiera e i cantori incominciano il trisagio. Il Celebrante dà la pace e il coro canta l’Alleluia; quindi, dopo alcune preghiere, a cui invita il Diacono, si congedano i Catecumeni. Be­ nedetto l’incenso, si canta l’inno dei Cherubini o dei tre Alleluja. Si fa l’offerta dei doni, la recita

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del Simbolo, si dà il bacio della pace, si fanno pre­ ghiere generali. Quindi si chiude il santuario colle cortine ; il Ce­ lebrante annuncia la pace e il Diacono invita al raccoglimento : stiamo, die2 , con riverenza e timo­ re e mettiamo tutta la nostra attenzione alla obla­ zione divina. Il Celebrante continua la preghiera

e recita il prefazio in cui si chiamano tutte le crea» ture a lodar Dio; il popolo canta il Sanctus, dopo il quale il Celebrante benedice i doni e li consa­ cra colla formula generale e tradizionale nella Chiesa. S’invoca lo Spirito Santo sui doni, si fan­ no preghiere in segreto, il memento per tutti i bi­ sogni, si prega per intercessione della ccSantissima e gloriosa Vergine Maria, nostra Signora, Madre di Dio, innalzata sopra tutte le creature » ; e i can­ tici proseguono ad esaltare le glorie della santissi­ ma Vergine. Si fa una lunga preghiera pei morti, per i fedeli della Chiesa, si recita l’Orazione do­ menicale, si benedice l’assemblea, si alza l’Ostia facendo una preghiera, con cui si domanda a Dio che santifichi il popolo presente. Si frange il Pane consacrato, lo si mescola col vino e si fa la comu­ nione, durante la quale si cantano salmi. Si fanno ancora delle preghiere, e il Sacerdote infine dà la benedizione (1). In questa liturgia, dice il Probst, si devono di­ stinguere due parti principali, quella che proviene dall’antica chiesa gerosolimitana e risale fino a1 (1) Lebrun, 1. c. § 1.

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S. Giacomo, e quella che venne aggiunta più tardi, cioè dal 350 al 450. Prima del 350 è difficile sia avvenuta una considerevole mutazione, quantun-i que per esempio la parola « consostanziale » si possa esser trovata in essa subito dopo il Concilio! niceno. Dopo il 450 essa ha già assunto la forma attuale. In quanta parte essa si possa riferire ai) primi tre secoli lo si può solo ricercare dal conte·" nuto delle preghiere. Quindi, confrontando que« sta liturgia con quella di S. Clemente e di S. Mar­ co, passa il medesimo dottissimo autore a stabilire quelle parti che risalgono ai primi tre secoli, e quelle che si possono riferire all’epoca che abbia­ mo più sopra accennato, cioè al tempo che passò* dalla metà del secolo quarto (1). 47. Le catechesi mistagogiche di S. Cirillo.

Il più antico monumento della liturgia di San Giacomo sono le catechesi di S. Cirillo Vescovo di Gerusalemme. Delle ventitré che si possiedono, le prime diciotto furono dal Santo tenute ai compei tenti, durante la quaresima; le altre cinque, dette mistagogiche (2), ai neofiti, durante l’ottava di Pasqua. Nella prima di queste si parla delle ceri-» monie avanti il Battesimo cioè delle rinuncie e della professione di fede; la seconda tratta delle sacre unzioni e del Battesimo; la terza dell’unzio-12 (1) Ferd. Prosbt. « Liturgie § 73. (2) . La sesta andò perduta.

der drei ersten Jarhunderten ».

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ne del sacro Crisma: la quarta dell’Eucarestia; la quinta della Sacra liturgia e della Comunione. Il Santo parlava a neofiti, perciò non era più astretto alla disciplina dell’arcano, quantunque lo ricono­ sca (l); teneva discorsi semplici, nei quali ricorda ed espone i sacri riti, ma egli non fa che esporre le parti principali e non traccia tutto l’ordine li-* turgico gerosolimitano. La più importante delle catechesi mistagogiche è la quinta, in cui il Santo descrive ed espone mi­ sticamente le cerimonie della Messa solenne dalla oblazione fino alla fine, cc Vidistis igitur Diacon num, sacerdote et presbyteris altare Dei circum-, stantibus, aquam abluendis manibus porrigentem ... ea manuum oblutio symbolum estt mundos vos ab omnibus peccatis et praevaricationibus esse de­ bere. Deinde clamat Diaconus; Vos invicem susci­ pite osculemurque mutuo... signum igitur est oscu-> lum hoc animas sibi invicem admisceri et omnibus iniuriarum memoriam obliare... Postea clamat sa­ cerdos; sursum corda... idem igitur est ac si prae­ cipiat sacerdos ut omnes circam illam horam de­ ponant curam vitae huius et domesticam sollicitum dinem... Post haec sacerdos ait; Gratias agamus Domino, vere enim gratias agere debemus quod cum indigni essemus, ad tantam nos vocavit gratmm... Facimus deinde mentionem coeli et terrae et maris et solis et lunae, astrorum et totius crea­ turae tam ratione praeditae, quam carentis, visi-1 (1) Catech. 6. n. 29 Pratoc., n. 12 Cath 23, n. 9.

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bilis et invisibilis, Angelorum, Archangelórum.... Deinde postquam nosmetipsos per has spirituales laudes santificavimus, Deum benignum exoramus ut emittat sanctum Spiritum super dona preposita ut faciat panem quidem corpus Christi, vinum vero sanguinem Christi. Postquam vero perfectum est spirituale sacrificium, incruentus cultus super illam propositionis hostiam, obsecramus Deum pro communi Ecclesiarum pace, pro recta mundi compositione, pro imperatoribus, pro militibus et so­ ciis, pro his qui infirmatibus, laborant pro his qui aflictionibus premuntur... Postea recordamur eo­ rum quoque qui obdormierunt, primum, deindé et pro defunctis... » (1). Di qui appare come la

liturgia di S. Cirillo abbia importanti relazioni con quella delle Costituzioni Apostoliche di San Giustino e conferma la sentenza che abbiamo più sopra difesa che nei primi tre secoli unica sostan­ zialmente era la liturgia, e precisamente quella delle Costituzioni Apostoliche.

48. Uso attuale della Liturgia.

Non ostante gli sforzi dei patriarchi di Costanti­ nopoli di ridurre l’occidente ad unità liturgica, facendo abbracciare le riforme di S. Basilio e di S. Giovanni Grisostomo, la liturgia di S. Giacomo1 (1) Catech. 6, passim. La più bella ed erudita esposizione di questo monumento liturgico venne fatta dal Probst.: «Litur­ gie des vierten Jahrhund » . § 19 e seg. ; Lebrun. oc. c. Dis. sert. I. art. 7 ex 7.

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perseverò non solo presso gli eretici, ma anche fra i cattolici. Attualmente il rito siriaco cattolico dividesi in quattro classi cioè: il siriaco puro, il siro-caldaico, il siro maronitico e il siro malabaricoIl rito siriaco puro è in uso in Siria (diocesi di Aleppo, Beyrouth, Damasco) nella Mesopotamia (dioces. di Bagdad, Diarbekir, Gezira, Bardin,: Mossul), e nella Fenicia (dioc. di Homs e Hama). Il siro caldaico è usato nella Mesopotamia (dio­ cesi di Mossul, Gezira, Diaberkir, Mardin, Zaku); nel Kurdistan (dioc. Akra Amadia, Kerkuk, Seerth, Sena); nella Persia (dioc. di Salmas). Il maronitico è adoperato in Aleppo, Beyrouth» Balmak, Damasco, Gebail e Batrum, in Tiro e Si­ done, nelFisola di Cipro ed a Tripoli. Il malabarico nei due Vicariati Apostolici di Cottayam e Trichur.

CAPO II.

Liturgia delle Apostoliche Costituzioni e Antiochena. 49. Liturgia Apostolica o Clementina. Nel libro ottavo delle Costituzioni, attribuite agli Apostoli e che certamente, nella loro sostanza, risalgono ai tempi Apostolici, si contiene l’ordine di una liturgia che prese il nome di apostolica. Si chiama anche clementina, perchè quella raccolti di Costituzioni si attribuisce al Pontefice romano S. Clemente. 50. Integrità - antichità - autorità di questa liturgia. Molte sono le questioni a cui diede luogo questa liturgia. Chi la vede ripiena di interpolazioni, che la fa risalire non prima del secolo quarto, molti le tolgono l’autorità, mentre affermano che essa h una liturgia ideale, non stata mai in uso nella! Chiesa. — Ora non si può negare che questa litur­ gia, quale ora ci si presenta nel libro ottavo delle Apostoliche Costituzioni, dovè subire qualche ag­ giunta, in corrispondenza alle circostanze del tem­ po e del luogo in cui fu usata : come per esempio, le regole circa il modo di comunicare il popolo, pervenute dal Concilio di Nicea, il memento dei

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vivi, in cui si fa cenno di alcuni ordini del clero* e quello dei morti in cui si accennano solo i mar­ tiri; ma tuttociò è conforme alla liturgia del secon­ do secolo. Più tardi si fecero delle aggiunte; ma queste non sono interpolazioni, sono anzi uno svi­ luppo conforme alla natura dela liturgia stessa. La liturgia apostolica è certamente la più antica di tutte quelle che si conoscono. Difatti la messa dei Catecumeni è ancora affatto conforme alla an­ tica disciplina, secondo la quale il popolo si divi­

deva in catecumeni, energumeni, competenti e pe­ nitenti. Nella liturgia di S. Basilio e di S. Giovan­ ni Grisostomo, quale ora ci resta, questa divisione è già scomparsa. Anche la liturgia di S. Cirillo, di Gerusalemme ce la riferisce e tanto concorda con questa che furono credute una sola, per cui se nelle catechesi non è spiegata questa prima parte della Messa, ciò è certamente per la ragione che non occorreva spiegarla ai battezzati, che già la conoscevano prima del Battesimo; ma essa ha già il Pater noster avanti la Comunione, che la nostra non ha ancora e che tutte le liturgie posteriori con­ servarono. La sua antichità appare ancora dalla lunghezza delle preghiere, le quali solo più tardi, nel tempo cioè della riforma, vennero abbreviate. Inoltre essa si distingue per maggior antichità da quella di S. Giacomo e di S. Basilio, non solo per­ chè non contiene le preghiere di preparazione alla Messa che vennero aggiunte a tutte le liturgie ri­ formate, ma nel Memento non ha nomi speciali di Santi, e nelle preghiere si fa cenno degli asce­

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ti (1). Essa è conforme con quella a cui accennano

S. Giustino M., Tertulliano e S. Ireneo, quando parlano della Messa dei Catecumeni, dell’Offertorio e della formula della consacrazione (2). La dogmatica che vi si contiene è tutta conforme ai primi tempi della Chiesa. Si osserva, dice il Drey, in questa liturgia una grande sicurezza con cui si usano e si scambiano diverse espressioni ad indi­ care le relazioni della SS. Trinità, il che prova che allora non vi era una formula definita canonicamente sul dogma, quindi essa è certamente ante­ riore all’eresia degli ariani. Laonde per tutto ciò si può concludere che questa liturgia rappresenta la forma che aveva il culto cattolico al principio del secondo secolo (3). Di qui appare quanto sia la sua autorità. Qua-123 (1) Drey « Neue Vntersuclungen » , pag. 139. Riferito dal Probst. « Liturgie der drei ersi. Jahrh ». | 96. — L ’ origine de­ gli asceti è antichissima ed alcuni la fanno risalire sino agli antichi g'udei, fra i quali avevano il nome di nazareni. Così i primi cristiani di Gerusalemme erano detti asceti. Origene dà questo nome a quelli che si astenevano spesso un giorno o due dal cibo e dalla bevanda. S. Cirillo di Gerusalemme chia­ ma asceta la profetessa Anna (Cath. X. 9). Essi erano addetti anche alla cura dei poveri (S. Gerol. Script. Eccl. 51-76) spesso erano anche martiri e confessori. Portavano il pallio (Tertul. de pallio III, IV) ed avevano nelle chiese un posto distinto (tra il clero ed il popolo) Dionys. de eccl. hierarch. 1. 6. I l i c .; Const. Apos. 1. V i l i 13. Cfr. Martigny « Dictionnaire des Antiquités chrétiènnes » (Ascètes). (2) S. Giust. ed Iren 1. 17. 38. 1. I. V oi. 2. (3) Probst. 1. c. —■ Il Drey per provare l’ antichità della li­ turgia si riporta anche al razionalismo che da esso traspare ed è caratteristico del tempo di S. Giustino che seppe adoperarlo 6Ì bene a dimostrare come le verità cristiane sono conform i e non contrarie alla umana ragione.

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lunque infatti sia stato l’autore del libro che ora passa sotto il nome di Costituzioni apostoliche, è certo che egli non fece che raccogliere quelle parti liturgiche che risalivano ad un tempo anteriore a San Clemente e presentandosi questa liturgia come apostolica, volle dimostrare solo che essa è ante­ riore al Concilio di Nicea e a S. Basilio. Così in­ fatti ne parla Proclo, Patriarca di Costantinopoli dopo il 437 : oc Molti Vescovi Dottori della Chiesa, ci hanno lasciate liturgie scritte, la piu antica e celebre è quella di S. Clemente che gli Apostoli stessi hanno tramandato » (1). Noi crediamo, scri­ ve il Probst, che essa contenga la liturgia Aposto­ lica. Essa risale agli Apostoli per ciò che riguardai

l’ordine di tutta l’azione, il seguito delle preghie­ re particolari, spesso perfino delle parole. Con ciò non si vuol negare che questa o quella preghiera nel corso del tempo abbia potuto ricevere un carat­ tere conforme ai bisogni e alle circostanze del tem­ po. li raccoglitore introdusse alcune note nei do­ cumenti che teneva alla mano, e queste apparten­ gono al secolo quarto. Che poi egli avesse interes­ se ad attribuirla agli Apostoli e in seconda linea a S. Clemente Romano, può darsi. Sarebbe falso se si volesse attribuire una parte all’Apostolo Andrea, un’altra a San Giacomo e l’insieme a S. Clemente come autore del libro, ma l’errore riguarderebbe più la forma che la sostanza, perchè quello che gli Apostoli ordinarono a San Clemente o altri raccol-1 (1) Galland. tom. X, p. 630.

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se, nella sostanza risale veramente agli Aposto­ li (i). 51. Dove fu in uso. Ma la liturgia delle Costituzioni Apostoliche fa in uso nella Chiesa? Rispondono negativamente Goar, Renaudot, Lebrun ed il Krabbe, i quali di­ cono essere questa una liturgia puramente ideale« Contro di questi stanno il Drey, il Probst e molti altri critici moderni. « Davanti alla evidente anti­ chità della nostra liturgia, scrive il Drey, è un grande errore quello del Goar e di Renaudot, che affermano che la liturgia delle Apostoliche Costi­ tuzioni non sia mai stata in uso in alcune delle chiese orientali. E donde sanno questo? e come lo possono affermare? Che essa dopo il tempo di S. Basilio, con cui incominciano le liturgie che por­ tano i nomi noti di Vescovi e di Chiese, non sia stata più adoperata, lo si può arguire con una cer­ ta verosimiglianza. Difatti si hanno testimonianze che provano che la liturgia hasiliana si sovrappose a tutte le altre e nel secolo quinto era quasi accol­ ta per tutto l’oriente, mentre quella di S. Giovan­ ni Crisostomo che sorse più tardi, si limitò alla chiesa di Costantinopoli, finché crescendo di auto­ rità si estese a tutti i greci e slavi, senza però to­ gliere del tutto la liturgia hasiliana. Ma che ne se­ gue da ciò, riguardo ai primi secoli? Questi ave­ vano pure la loro liturgia;... e l’identità della no-1 (1) Probst. o. c. § 73.

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stra con quella di San Cirillo è più che probabi­ le (1)»· Quindi quando il Renaudot afferma: « Ne-

que apud Graecos a quibus Costitutiones Aposto­ licus Syri et alii acceperunt memoria nulla est Li­ turgiae quae Clementi tribueretur, quia scilicet ini nulla Ecclesia celebri et quae aliis legem aut exem~ pium dare posset, forma rituum et orationum sin­ gularis ex Clementinis expressa, in usu fuit » (2)*

si può rispondere che il non trovarsi memoria di essa nelle altre liturgie non è una prova che essa non fosse in uso, perchè ognun sa che nei primi tre secoli la liturgia cattolica era unica e lo prova­ no le testimonianze degli scrittori di quei tempi perfettamente concordi fra loro. E la diversità dei nomi che viene a prendere la liturgia non indica altro che una nuova elaborazione che altri ne fece. Quindi questa liturgia è per eccellenza quella del­ la Chiesa Cattolica, e come tale è descritta da San Giustino e in essa conveniva l’oriente e l’occidente. Epperò concluderemo col Probst. : cc La questio­ ne della patria della liturgia apostolica in quanto si voglia intendere che essa abbia appartenuto ad una chiesa determinata, dalla quale si siano distin­ te le altre liturgìe, è assurda. Poiché la liturgia dei1 2 (1) Drey « Neue Untersuchungen » , pag. 139. A dimostrare poi la esistenza della liturgia prima di San Basilio e di San Giovanni Crisostomo, questo autore afferma come presso ciascuna chiesa v i era una liturgia particolare indi, pendente e non vi era una liturgia universale colla quale con­ venivano nella sostanza e nell’ ordine le particolari, il che è falso come abbiam già toccato sopra al c. 19 e altrove. (2) Renaudot O. c. t. II. In liturg. Clem. Rom . notae, p . 199. Cfr. pure tom. I. Dissert. 10.

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tre primi secoli era unica dappertutto con poche* variazioni, che poterono occorrere, questa liturgici ha dappertutto la sua patria. Tuttavia pensiamo che l’autore delle Costituzioni Apostoliche sia del­ la Siria, probabilmente di Antiochia... mentre ini essa si ricorda S. Evodio, che fu Vescovo di Antio­ chia... e da ciò si spiega come S. Giustino nativo di Sichem di Satmaria, la conoscesse sì bene » (1).

52. Vicende storiche della chiesa antiochen fino a S. Giovanni Grisostomo. Egli è adunque assai probabile che questa litur­ gia, almeno nella sua sostanza, perseverò nella chiesa antiochena fino al principio del secolo quar. to. Durante la prima metà circa di questo secolo la sede di Antiochia fu travagliata dagli ariani. Eu­ stachio, vescovo cattolico, venne cacciato ed eletto in suo luogo Eudossio. I cattolici però non abban­ donarono nè il Vescovo nè la loro liturgia e cele­ brarono i divini misteri nelle case private; essi si chiamavano eustazioni. Promosso Eudossio alla se­ de Costantinopolitana, di comune accordo fu eletto Melezio, il quale venne ben presto in odio agli ariani, che crearono un nuovo Vescovo. Così si a-' vevano in Antiochia tre partiti: gli eustaziani, f meleziani e gli ariani, i quali durarono finché if Vescovo Flaviano, successore di Melezio, consacrò prete il Diacono Giovanni, detto il Grisostomo (386).1 (1) Probst. o. c. | 86, 87. ove mette in confronto la liturgia clementina con quella .descritta da S. Giustino.

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Durante queste lotte di partiti, nessuno, è certo, mise mano alla riforma della liturgia, poiché gli al­ tri avrebbero tosto dato sulla voce al novatore, e nemmeno gli ariani lo osarono, quantunque intro­ ducessero nuove preghiere. Questi ultimi anzi si gloriavano di poter dimostrare, colla liturgia alla mano, la verità della loro nuova dottrina. Gli eustaziani e i meleziani ci tenevano troppo a mante­ nere l’antica tradizione, di fronte ai novatori del' dogma! Quindi al tempo in cui il prete San Gio­ vanni Grisostomo spiegava nelle sue omelie, la li­ turgia di Antiochia, questa era ancora l’antica, la' liturgia tradizionale nella chiesa, la clementina. 53. Carattere Generale.

Ciò appare dal carattere generale che presenta la liturgia antiochena quale ci è esposta nelle opere del Santo, scritte durante il suo soggiorno ad An­ tiochia. I sacri Misteri oltre alla domenica si cele­ bravano tre volte alla settimana, più spesso, e quante se ne voleva (1), la Messa era divenuta un sacrificio quotidiano (2). Nelle solennità dei Mar­ tiri essa durava due ore e terminava verso mezzo­ giorno (3). E perciò appare che la liturgia non era ancora stata abbreviata quantunque molti ne sen­ tivano il bisogno (4), e si stancavano della lunghez-1234 (1) Contra sud. Orat. (2) Ad Eph. hom. 4. (3) De Bapt. Christi, mero 1. (4) De Anna hom. 4,

3. n. 4. ad Tim . hom. 5. n. 3. n. 4. η. 1; de B. Philogonio 4 hom. 6; nu­ n. 5.

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za delle preghiere, anche nelle messe private, per

cui il Santo faceva sentire l’eccellenza della pre­ ghiera comune della Chiesa nella Messa (1). Nes­ suno poi può provare che il Santo avesse posto ma­ no alla liturgia antiochena, come fece più tardi a Costantinopoli. 54. Esposizione che ne fa il Crisostomo. Come risulta dalle opere di S. Giovanni Crisosto­ mo, l’ordine della liturgia antiochena era il seguen­ te. Entrato il Vescovo nella chiesa, si leggevano tratti dell’Antico e Nuovo Testamento (2), scelti secondo il tempo e la festività, quindi si cantavano alcuni Salmi (3). Seguiva l’omelia, che incomin­ ciava coll’annuncio della pace (4), dopo la quale incominciavano le preghiere della Messa dei Cate­ cumeni e penitenti (5), all’invito del diacono ; pre­ ghiamo pei Catecumeni, cc Dopo la preghiera in­ giungiamo ai Catecumeni di chinare il capo e dm· mo loro, mediante la santa benedizione impartita dal Vescovo, una prova che la preghiera per essi venne da Dio esaudita... e tutti rispondono: Amen » (6). Venivano quindi congedati i CaZecu-1 2 3 4 5 6 (1) De incompr. natura Dei, hom. 3, n. 4. (2) Ad I. Cor. hom . 36, n. 7. (3) In Matth. h. 11, n. 7; in Ps. 177, η. 1; in Ps. 140. η. 1. (4) De S. Pentec. hom. 1. n. 4. Si teneva pure omelia alla sera (De mut. nom. h. 2, η. 1) ed anche nei giorni feriali (in Ps. 48, n. 2). Durante la quaresima si tenevano più nume­ rosi discorsi ed istruzioni al popolo. (In Gen. serm. 5. n. 3) massimamente in città (De martyrib., η. 1). (5) De resurrect, et contra ebrios. η. 2. (6) In IL Cor. h. 28.

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meni, si scopriva l’altare, rimasto velato, ed inco-^ minciavano le preghiere per gli Energumeni (1),

riferite dal Santo come legge della Chiesa e di tra­ dizione (2), ed eseguite collo stesso rito delle preci pei catecumeni. Si pregava pei Catecumeni (3), quindi tutto il popolo col Celebrante recitava le in­ vocazioni dei Kyrie eleison (4), e i penitenti rice­ vuta la benedizione dal Vescovo, venivano allon­ tanati. Chiuse le porte del tempio, qui incominciava la Messa dei fedeli. Le preghiere dei fedeli erano ge­ nerali e assai lunghe, ma il Santo ne fa sentire l’altissima importanza. Seguiva il bacio, ossia la pace, che si dava abbracciandosi simbolo dell’unione dei cuori dei fedeli (5), si faceva l’offerta dei doni che consistevano in pane e vino, portate dal clero sull’altare (6). Il Diacono invitava il popolo a sor­ gere in piedi, poiché incominciavano i sacri Miste­ ri, ossia l’anafora o prefazio, chiamato dal Santo preghiera di ringraziamento, inno, dossologia, sa­ crificio (7), al tutto conforme colla liturgia cle­ mentina (8). L’anafora era seguita dal canto degli Angeli o Trisagio (9), dalla consacrazione, per la123456789 (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9)

De incompr. nat. Dei. h. In II. Cor. h. 2. n. 5: ad

3. n. 7. Rom . h. 7, n. 6.

In Matth. h. 72, n. 4. 4. n. 6. In Matth. h. 32, n. 6; de prodit. ludae, h. 1, n. 6 Probst. « Liturgie des vierten Jahrh ». § 47 In Gen. hom. 9. n. 5. Probst. o. c..§ 48. In Ps. 135, n. 3; in Matth. h. 25, n. 3.

De Anna serrn.

Liturgia delle Apostoliche Costituzioni

131

quale il pane ed il vino offerti diventano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo (1). Dalla consacrazione alla fine della Messa non troviamo nelle opere del Santo un ordine liturgico preciso; egli perciò presta molta materia, che si deve ordinare secondo le più antiche liturgie. Do­ po la consacrazione tutte le liturgie hanno 19Anatri* nesi {Unde et memores) ed una preghiera di offer­ ta, di cui il Santo fa breve cenno. Quindi ricorda l’invocazione dello Spirito Santo (2). La ragio­ ne di questa invocazione dello Spirito Santo sul­ le sacre Specie è descritta dal Santo : « Il Sacerdo­ te fa una lunga preghiera non già per invocare un fuoco dal cielo che consumi i doni che stanno sul­ l’altare, ma perchè discenda la grazia sul sacrificio e per mezzo di questo accenda le anime di tutti e le renda più splendide dell’argento purificato (3). Quindi lo spirito*di Dio opera sullo stesso sacrificio, non già a trasmutare il pane e il vino (che son già consacrati), ma per comunicare ad essi la viriù di santificare le anime. Tale invocazione si faceva dal solo sacerdote colle mani alzate (4). A qual punto della Messa si facesse la esomolo-1234 (1) Come S. Cirillo di Ger--salemme, così anche il Crisosto­ mo in questo punto si esprimono nel modo più chiaro; essi riconoscono, ammirano, insegnano la reale presenza. Cfr. de prodit. Judae, hom. 1. c. n. à; in II. ad Thim. h. 2. n. 4; in I, ad Cor. h. 34, n. 2; de poenit. h. 9, η. 1. (2) De Sacerd. 1. 6. c. 4 ; ad Cor. h. 24, n. 5. (3) De Sacerd. 1. 3. c. 4. (4) Probst. o . c. §. 51.

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Capo II

gesi o confessione descritta dal Santo, non lo si potrebbe facilmente stabilire (1). « Con tremore, scrive, dobbiamo recitare il cantico degli Angeli, con timore si deve fare la esomologesi al Creatore, onde ottenere, per mezzo di essa, il perdono dei peccati » (2). Da ciò segue, dice il Probst, che il

popolo, recitando il trisagio, aggiungeva anche una preghiera per ottenere il perdono dei peccati. Cer­ to il Santo ricorda di rado questa preghiera e solo di passaggio, ma ciò non dà il diritto di negarne la esistenza nella liturgia. Da questo fatto segue sol­ tanto che essa nella liturgia antiochena nè era lun­ ga nè notevole per la sua importanza. In ciò con­ corda pure la liturgia per la remissione dei peccati tanto alla invocazione dello Spirito Santo, come alla orazione che precede immediatamente la Co­ munione (3). Alla consacrazione ed all’invocazione dello Spi­ rito Santo seguiva una preghiera di ringraziamen­ to e di invocazione (4) e di qui appare la unifor­ mità di tutte le liturgie. In questa preghiera si ri­ cordavano i Martiri, i Confessori, i Sacerdoti (5) ed i morti, perchè giungano all’eterno riposo e trovino un giudice pietoso (6). Quindi recitavasi il Pater noster (7), che era chiuso da una dossolo-1234567 (1) In diem Natalem D. N. J. C., n. 7. (2) In Ozian h. 1. n. 2. (3) Probet. 1. c. (4) In Matth. h. 25, n. 3. (5) A.d Cor. h. 41, n. 4. (6) In Matth. h. 32; n. 4; ad Philipp, h. 3, n. 4; de Sacerd. 1. 6 c. 4. (7) In Ps. 112, η. 1.

Liturgia delle Apostoliche Costituzioni

133

già : cctuo è il regna, la potenza, la gloria per. tut­ ta Γeternità; Amen » (1). Le liturgie orientali dopo la dossologia hanno la benedizione che il Celebrante imparte al popolo, la quale nella liturgia clementina incomincia coli saluto: Pax vobiscum ed il responsorio: Et cum spiritu tuo. Di questa fa pure cenno S. Giovanni Crisostomo (2). Si frangeva il Pane immediata· mente prima della Comunione e colle particole infrante si faceva la Comunione ai fedeli (3). Il Celebrante innalzava l’Ostia esclamando : « San­ cta sanctis » e il popolo rispondeva esaltando la santità di Gesù Cristo (4). Quindi il Celebrante assumeva le sacre Specie, le distribuiva ai fedeli, mentre il diacono teneva lontano gli indegni. La Comunione si faceva sotto le due specie e tutti as­ sumevano quelle del vino da un medesimo cali­ ce (5). Al tempo del Santo i fedeli d’Antiochia s’erano già rattiepiditi, e non usavano più di comuni­ carsi tutti i giorni, nella Messa, ed egli ne muove spesso lamento (6). Dopo la Comunione recitava una preghiera di ringraziamento, nella quale il Santo vede una figura di quell’inno che Gesù Cri­ sto recitò co’ suoi Apostoli dopo l’ultima cena; ma sul concetto di essa, come pure sull’ultimo con-1 (1) De Angusta porta, n. 5. (2) Contra Jun. orat. 3, n. 3. de Pentec. h. 1. n. 4. (3) In Matth. hom. 50, n. 2 e 3. (4) Ibid. hom. 7, n. 6 ; de baptism. Christi, n. 4. (5) In Matth. h. 82 n. c. (6) De Bapt. Christi, n. 4.

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Capo Η

gedo che si dava all’adunanza, egli non fa parola (1). 55. Ultime vicende della Liturgia antiochena. Il Patriarcato di Antiochia non conservò una li­ turgia particolare, ma in esso prevalse la siriaca, e specialmente il rito siriaco maronitico, e più tar­ di vi si introdusse anche la liturgia greca di San. Basilio e di San Giovanni Grisostomo. Attualmente in questo patriarcato vi è il rito siriaco puro, il siro-maronitico e il greco melchita.1

(1) Cfr. Probst. o. c. § 40 al 54 che qui si è cercato di ridurre in compendio. Più ampiamente ancora: Bingham. Ori. gin. Ecclesiast. 13, 6; Hammond. The ancient. Liturgy of An~ tioch. Oxford. 1879.

CAPO III.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco.

56. L'antica liturgia alessandrina o di Sa Marco. L’Egitto ricevette la fede cristiana dall’Evange­ lista San Marco, il quale pose la sua sede in Ales­ sandria; non si può quindi dubitare che egli abbia anche costituito in quella chiesa un ordine litur­ gico. Ortodossi e giacobiti sono d’accordo nell’attribuire la loro liturgia a San Marco. Nessun do­ cumento però ci rimane di essa nell’antichità, che il Proclo non ne fa cenno e il Patriarca Balsamone, celebre canonista di Costantinopoli, interro­ gato dal Patriarca Marco d’Alessandria cosa si do­ vesse pensare di questa liturgia attribuita a San Marco, rispose che la nuova Roma, cioè la Chiesa Cattolica del Santissimo ed Ecumenico trono di Costantinopoli, non lo riceveva (1).1 (1) Qual differenza tra la condotta della Chiesa Romana che, salva la fede, permise e permette ancora l’ uso dei proprii riti antichi e la Chiesa scismatica di Costantinopoli, che dice per bocca di questo patriarca: « Omnes ecclesiae sequi debent moretη

novae Romae, nimirum Costantinopoli, et celebrare iuxta tra­ ditiones magnorum Doctorum et luminarium pietatis sancti Jo· hannis Grysostomi et Sancti Basilii... Pronuntiamus igitur non esse has (scii, liturgiae S. Jacob et S. Marci) recipiendas. Etsi enim ab iis facta sint, ab omni usu vacare jubentur, ut et alia multa! » Presso Renaudot t. I. p. 88.

136

Capo III

Ma verso la fine del secolo decimosesto il Card* Sirletto trovò, nel monastero di Grottaferrata, nel­ la Calabria, un manoscritto greco colla iscrizione: « Liturgia divina del S. Apostolo ed Evangelista Marco, discepolo di San Pietro », che fu stampata tosto in latino dal Canonico Giovanni di S. Andrea di Parigi nel 1585, quindi dal Renaudot, e recen­ temente dal Probst e dallo Swainson su di un ma­ noscritto di Rossano e su due rotoli, l’uno di Mes­ sina del secolo duodecimo e l’altro del Vaticano* del secolo decimoterzo. Tale scoperta sollevò grandi dispute tra i prote­ stanti ed i cattolici; ma uno studio profondo del prezioso documento condusse il Renaudot a questa conclusione: che esso è antichissimo e rappresen­ ta propriamente la antica liturgia alessandrina (1). In verità, scrive il Lebrun, si può credere che essa sia stata in uso tra gli egiziani ortodossi, non rile­ vandosi veruna cosa che dinoti eresia o scisma, ed inoltre che se ne siano serviti, finche sono stati co­ stretti ad assentire alle istanze dei Patriarchi di Cosantinopoli, dai quali bramavano essere protet­ ti, forzati così dopo alcun tempo, a valersi delle sole due liturgie della Chiesa di Costantinopoli (2). Certo essa non è scritta da S. Marco, ma è un formulario proveniente dalla antica liturgia ales­ sandrina. E poiché concorda con quelle dei monofisiti, giacobiti e copti, è da dire che essa rappre-1 (1) Renaudot 1. c., pag. 93-94. (2) Lebrun o. c. Dissert. VII.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco

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senta il rito in nso prima dello scisma di Dioscoro, avvenuto verso la metà del secolo quinto ( 1). Una altra prova della sua antichità ed autenticità (2) si deduce dal fatto elle un Concilio armeno riferi­ sce un tratto dei messale di San Atanasio Vescovo di Alessandria nel secolo quarto; ora questo tratto trovasi perfettamente concorde colla liturgia di San Marco riferitaci dal citato manoscritto. Quindi pare accertato che essa si usò in Alessandria fino a Sant’Atanasio ; molto più che, tranne in poche par­ ti di minor importanza, concorda perfettamente colla liturgia clementina e con quella descritta da S. Giustino, da Clemente Alessandrino e da Origene (3). Con ciò, conclude il Probst, non si vuol dire che là liturgia di San Marco, quale ora ci si presenta, risalga ai primi secol. Basta questa prova. Nel se­ colo quinto la Chiesa orientale invece dell’antica messa dei catecumeni introdusse la così detta iltatio. Le liturgie orientali hanno una doppia anafo­ ra. La prima (illatio) si estende fino al bacio di pace, la seconda (oblatio) incomincia da questo punto. La prima si chiama anafora, perchè in essa εί portava la materia del sacramento dalla creden­ za all’altare e questa costituiva la parte principale dì essa (4). Nella liturgia di S. Marco, quale ci si1 (1) (2) (3) (4)

Renaudot 1. c. Dissert. m. 12, p. 82. Cioè del fatto che essa fu in uso in Alessandria. Binterim « Denkwiirdigkeiten », IV, 2. p. 260. Probst. Liturgie drei ersten Jahrh. § 74.

138

Capo 111

presenta, appaiono già queste due parti, per cui essa può risalire alla metà del secolo quinto. 57. Esposizione che ne fa S. Atanasio. S. Atanasio, vescovo di Alessandria dal 326 al 373, accenna nelle sue opere, alla liturgia alessan­ drina, ed essa conviene perfettamente con quella generalmente in uso in quei primi secoli. La Messa, secondo S. Atanasio, consta di due parti; la prima detta dei catecumeni, Ja seconda detta dai fedeli. Nella prima egli fa cenno delle Lezioni della Sa­ cra Scrittura, del canto, dei Salmi e della predi­ ca (1). Questa era per lo più tenuta dai Vescovi e la adunanza dei fedeli che l’ascoltavano era chiamata conventus ( σύναξις-) (2). I catecumeni, secondo il Libro dei titoli dei salmi attribuito al Santo, erano distinti in diversi gradi, per ciascuno dei quali vi erano stabiliti dei salmi da recitarsi (salmi Gra­ duali) con una propria esomologesi (3). Questi gradi erano sei, formati da coloro che riconosceva­ no i loro peccati, dai Catecumeni, dai competenti, penitenti, energumeni e fedeli; quindi le preghie­ re erano fatte per tutte queste classi, quantunque la prima forse non vi assistesse. Della seconda parte della messa il Santo ricorda la preghiera comune (4), il bacio di pace, che po-1 (1) S. Athan. « Histor. Arianor. ad n. 55; Vita S. Anton, c. 1. (2) Epi&t. heort. 11, n. 4. (3) De titul. Psalm. 119. (4) Episi, heort. 2, n. 7.

de fuga,

monachos »,

n. 81.

Apoi.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco

139

leva servire come segno di congedo dei Catecume­ ni. Nell’àpologìà contro gli ariani, indirizzata al­ l’imperatore Costanzo parla della oblazione della Messa Alessandrina (1). Seguiva la preghiera di ringraziamento o canticum novum, come la chiama anche Clemente Alessandrino, cantato con gioia, e a cui il popolo rispondeva : Amen. In essa si ricor­ davano i principali benefici di Dio, e specialmente la creazione e la redenzione (2). Accenna pure al trisagio e spiega la parola Alleluia che si trova in esso (3); e se nelle opere di San Atanasio non si trovano diretti cenni del tratto che passava dal canto del trisagio alla consacrazione, di questa egli parla in modo chiaro : « Tu vedrai, dice ai neofiti, i leviti portanti pane e vino e collocarli sulla men­ sa. Prima della invocazione e della preghiera, non sono altro che parie e vino, ma fatta la grande e mirabile preghiera ( ev/a) il pane diventa il Corpo e il calice il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. Al salire della potente preghiera, discende il Ver­ bo nel pane e nel calice e questo diviene il suo Corpo » (4). A questo sacrificio vuole il Santo che

i fedeli aggiungano la purezza di coscienza (5). Dell’invocazione dello Spirito Santo sulle Sacre Specie parla il Vescovo alessandrino Teofilo: il'1 (1) Apoi. contra Arianos ad Constantium, η* 17. (2) Tali parti sono ricordate dal Santo nei commenti ai Sal­ mi e specialmente nei salmi CII. CIII. C IV .: Cfr. pure Orai. c. gentes c. 40-46; De Incarnat. c. 3. (3) Cioè: Hall « D e u s » , el « f o r t is » uja « r o b u s tu s » . (4) Fragm. V ili. (5) Episi, heort. 1. n. 9.

140

Capo III

pane del Signore in cui appare ( άττοφαάω) il Cor­ po di Gesù Cristo che noi spezziamo per la nostra santificazione, e il sacro calice posto sulla mensa della Chiesa, sono nel fatto inanimati e vengono santificati mediante la invocazione e la venuta del­ lo Spirito Santo (1). In fine, secondo Origene, la Comunione nella Messa Alessandrina era precedu­ ta da una preghiera con cui si impetrava la purifi­ cazione dei fedeli, onde partecipare ai Sacri Miste­ ri. Tale preghiera pare siasi trovata nella liturgia di Alessandria anche al tempo di S. Atanasio. Vi era pure l’offerta : « Etenim nunc illum haud ma­ terialem agnum immolamus sed verum illum9 qui immolatus fuit Dominus Noster Jesus Christus» (2);

ed una preghiera di ringraziamento, fatta per mezzo di G. C. (3). Tali preghiere si facevano col­ le mani alzate estese (4), il che è simbolo della vit­ toria sul nemico riportata da Gesù Cristo in croce* di cui si fa memoria nella S. Messa (5). Sul rito con cui si distribuiva la Comunione il Santo parla este­ samente in più luoghi delle sue opere. La SS.ma Eucaristia si dava in mano ai fedeli e molti la ri­ cevevano ogni giorno, ma era necessario preparar-1 (1) Hieron Epist. 93. — Con queste espressioni i Padri greci non intendevano di escluder la dottrina cattolica che la con· sacrazione si compie colle parole di Cristo: Hoc est etc.; ma di inchiudére, come parte integrale della Messa, quei riti che ritraggono le azioni compiute da Cristo stesso nell’ ultima cena, in m odo speciale l ’invocazione dello Spirito Santo ecc. (2) Ep. heorù. 2. n. 9. (3) Ep. heort. 4, n. 5 e 11, n. 11. (4) De incarnai, c. 52. (5) Expos. in ps. X VIII n. 3. Epist. ad Adelphinum. 7.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco

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visi convenientemente (1). Quindi dice S. Atana­ sio al Diacono : « Osserva bene di non presentare il Calice della vita immacolata agli indegni, affin­ chè tu non abbia da diventare colpevole d’aver da­ to le cose sante ai cani » (2). Mentre il Celebrante

porgeva il pane consacrato ai fedeli, il diacono porgeva loro il Calice. Dopo le ultime preghiere di ringraziamento, si congedavano i fedeli e così si concludevano i sacri Misteri (3). 58. Opera di S. Cirillo. Tale era la liturgia alessandrina durante i primi quattro secoli del cristianesimo. Nel tempo decor­ so da S. Atanasio a S. Cirillo, che occupò la sede di Alessandria nella prima metà del secolo quinto, non avvennero certamente mutazioni: egli rifulse e perfezionò almeno nell’anafora, come esigevano i tempi e le sorte eresie, la liturgia di San Marco, onde quella che passa sotto il nome di S. Cirillo, conservata ancora in Egitto, è intitolata : « Litur­ gia Marci quam perfecit Cyrillus ». Nè solo S. Ci­ rillo, ma molti altri Santi si diedero in questo tem­ po a comporre orazioni per l’Altare, onde risulta­ rono circa dodici liturgie, diverse solo nelle paro­ le ma nel senso uniformi. Ma le chiese di Egitto per ordine dei patriarchi dovevano servirsi soltan-1 (1) Ep. heort. 5, n. 3; 13, n. 7; 6, n. 12. (2) Fragni, de incontam. mysterii. (3) Abbiamo cercato di compendiare il prezioso stadio del Probst, che dalle opere di S. Atanasio espose nella sua natura ■e forma la liturgia Alessandrina. Probet. «Liturgie des vierten Jahrhuderts » Art. ΙΠ . § 25-31.

142

Capo III

to di tre, cioè di quelle di San Basilio, di San Gregorio il Teologo (o illuminatore) e di San Cirillo..

59. Scisma di Dioscoro - Origine dei Cop e loro liturgia. A S. Cirillo successe nella sede di Alessandria Dioscoro. Partigiano d’Eutiche e dei monofisiti, condannato nel Concilio di Calcedonia (a. 451),, deposto dalla sua sede, Dioscoro sollevò gravi tur­ bolenze nella chiesa alessandrina, le quali conti­ nuate da Timoteo Eluro, terminarono in uno sci­ sma. I partigiani di Dioscoro, pochi per verità in Alessandria, ma numerosi nel restante Egitto, ab­ bandonando la lingua greca, fin qui in uso nella; liturgia, incominciarono a celebrare i sacri Misteri nella lingua egizia o copta mentre gli ortodossi,, detti melchiti conservarono la lingua greca. Tale differenza durò circa due secoli, cioè fino all’anno 660, in cui i maomettani divennero padroni di quel paese. I greci di Egitto allora, affezionati al­ l’Imperatore di Costantinopoli, furono oppressi, e i copti scismatici, che avevano favorita la conqui­ sta dei mussulmani, ebbero da questi l’esercizio libero della loro religione e la conservarono sino al presente, celebrandola però in arabo (1). Code­ sti eretici si chiamarono anche giacobiti da Giaco-1 (1) Lebrun o. c. Dissert. VII. Art. 1. Nella lingua copta, della quale parla ampiamente il Renaudot, venne tradotta anche la Sacra Scrittura. In questa liturgia vi hanno tre dialetti prin­ cipali cioè il saihidico o tebano, il basmurico dell’ Egitto medio ed il bonerico o menfitico delle regioni del delta.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco

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mo Siro detto Baraba o Zanzalo, morto nel 577., Gli ortodossi non scomparvero però del tutto, mai continuarono a celebrare i sacri Misteri nella lin­ gua arabica, tollerata dagli oppressori, i quali, ignoranti della religione cristiana, non sapevano fare tante distinzioni dogmatiche. Tanto i copti scismatici che gli ortodossi, i quali esistono tutt’ora, sebben dispersi, hanno tre litur­ gie, quella di S. Marco o di S. Cirillo, quella di S. Basilio e la terza di S. Gregorio Nazianzeno., Ma mentre i giacobiti lasciarono intatta la prima, introdussero in queste due ultime il loro errore, dicendosi della carne di Gesù Cristo : La vera liturgia armena fu stampata in Venezia nell’anno 1686, dai Mechitaristi di S. Lazzaro, e più tardi, cioè verso il 1700, dal P. Didon, Vescovo di Babilonia, che ne pubblicò una traduzione lati­ na, anche delle messe pei defunti. Tra gli scisma­ tici in poche chiese si celebra giornalmente più di una messa ; e i giorni ordinari in cui non si celebra eono quelli di digiuno, mentre i cattolici adottaro­ no il costume della chiesa romana di celebrare la Messa letta, e la celebrano ogni giorno (1). Nell’Armenia si formò una celebre congrega­ zione di benedettini, antoniani, o più comunemen­ te detta dei Mechitaristi dal fondatore Mecbitar. Questi, prima a Modone nella Morea, sotto le re­ gole di S. Antonio, poi di S. Benedetto, quindi si trasferì a Venezia, ove ebbe in dono dal Senato l’i­ sola di S. Lazzaro, che i Mechitaristi tengono tut­ tora con un noviziato per le missioni nell’Armenia, a loro affidate dalla S. Congregazione di Propa­ ganda. Ora dalla tipografia armena di questo con­ vento nel 1876 è stata edita una operetta sui « Riti e le cerimonie della chiesa armena » pubblicata1 (1) Pianton. « mena ».

Enciclop. Eccl. » ,

Venezia, 1859 «

Liturgia

ar­

Liturgia Costantinopolitana e Armena

1591

dal Padre Giacomo Issaverdeuz della medesima Congregazione. In essa si descrive la pianta e la di­ sposizione della chiesa, il rito pomposo della so­ lenne amministrazione dei Sacramenti. Tra questi si osserva che gli armeni sono obbligati ad acco-· starsi alla confessione cinque volte all’anno, cioè all’Epifania (nella quale solennità celebrano anche il Natale), alla Pasqua, nelle feste della Trasfigu­ razione, deU’Assunzione di Maria Vergine e della Esaltazione della S. Croce. Si descrive sopratutto la Messa solenne, il cui rito riferiremo brevemente. Il Celebrante porta in capo la corona (sagavard) (o la mitra se è Vescovo) e veste la corona (Cha* òigue), le maniche (pasban), la stola (oprare), il cingolo (se è Vescovo anche lo scudo gonker), il superometale (vaghas) e la cappa o piviale (chourtchar). Il Vescovo porta anche il palio ed i preti dottori di teologia hanno per insegna un bastone sormontato da due serpenti, simbolo della pruden­ za. Durante la vestizione dai chierici, disposti in semicerchio nel coro, si canta l’inno del celebre Dott. Khatchadour. All’ingresso del santuario il Celebrante fa l’abluzione delle mani, recitando coi Diaconi il salmo 26. Quindi incomincia la preparazione o Messa dei catecumeni. In essa si fanno pre­ ghiere pei catecumeni; il Sacerdote rivolto al po­ polo, fa la confessione e il primo dignitario del co­ ro recita l’assoluzione pel Celebrante. Questi allo­ ra sale i gradini dell’altare, si chiude il gran velo o cancello davanti al santuario, e il Diacono pre­ para la materia del sacrificio, mentre si cantano in

160

Capo IV

coro inni o melodie relative alla festa. Si ritira il gran velo, s’incensa l’altare, Poblata, il popolo che si fa il segno della croce stando in piedi. Dopo alcune preghiere e cerimonie si canta il trisagio, i Diaconi e i chierici recitano le invocazioni della pace per tutte le persone, per i vivi e pei morti. Si leggono le profezie e le epistole del giorno, il diacono legge il vangelo, seguito dalla recita del Credo fatta pure dal Diacono. Tra le armonie dei canti e colla scorta dei flabelli si portano all’altare le offerte, ricevute dal Celebrante col capo scoper­ to. Su di esse si fa una preghiera, attribuita a S. Atanasio, perchè vengano trasmutate nel vero corpo e sangue di G. C. e si conclude colla agiolo­ gia (sanctus). Qui, mentre Diaconi, chierici e po­ polo stanno in ginocchio, il Celebrante pronuncia le parole sacramentali. La chiesa armena, come la latina e la greca unita, erede che in virtù di queste parole pronunciate dal Celebrante il pane e il vino si cambiano nel vero corpo e sangue di Gesù Cri­ sto. Si fa l’invocazione dello Spirito Santo, si pre­ ga pei diversi ordini gerarchici, il coro canta l’O­ razione Domenicale e il Celebrante fa l’elevazione dell’Ostia. Seguono le preci della benedizione al­ ternate tra Celebrante e Diacono. Il Celebrante, te­ nendo con una mano il Pane consacrato e coll’al­ tra il Calice, si rivolge verso il popolo che, pro­ strato, adora: seguono ancora preci e benedizioni e cantici, mentre il Celebrante frange il pane in quattro parti, di cui ne mette tre nel calice, fa­ cendo professione di fede nella SS. Trinità. Si co­

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mimica con la parte dell’Ostia infranta e assume poi un sorso di vino consacrato; col rimanente di questo, mescolato al pane, fa la comunione al po­ polo, durante la quale si cantano inni. Quindi si chiude la grande cortina, il Celebrante, se è Vesco­ vo, indossa di nuovo le vesti sacre deposte prima dell’offertorio, se è prete riassume la corona, re­ cita qualche preghiera, quindi riaperta la cortina si recitano nuove preci, si legge il Vangelo di San Giovanni. Dopo la Messa si distribuisce il pane be­ nedetto, come si usa nelle chiese orientali. Al principio del secolo decimosettimo nella li­ turgia armena s’erano introdotte alcune innova­ zioni nella Messa privata; come di far l’oblazione non prima dell’Introito, ma dopo il Simbolo, di fare la elevazione dopo la Consacrazione, di non benedire più il popolo col SS. Sacramento. La S. C. dei riti, fece facoltà di introdurre nel calen­ dario alcuni Santi, ma ordinò di ritornare alla stretta osservanza delle rubriche circa La Messa (1). 69. Dov’è in uso attualmente il rito greco.

Il rito greco, quale è in uso oggidì nella Chiesa cattolica, si divide in quattro classi, cioè: in rito greco puro, rumeno, slavonico e melchita. Il rito greco puro mantiene nella liturgia la lin­ gua greca e si adopera nella missione di Cappa­ docia, in Costantinopoli ed in Malgara di Tracia.1 (1) S. C. R . 22 luglio 1751, n. 2414.

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Capo IV

Appartengono a questo rito le Chiese greche dell’I­ talia inferiore e di Sicilia (1). Il rito greco - rumeno che adopera la lingua ru­ mena, è in uso in una parte dell’ex-impero Austro Ungarico e con circa 700 parrocchie, in Gran Varadino con 167 parrocchie, in Lugos con 157 par­ rocchie ed in Szmos-Ujas od Armenopoli con 489 parrocchie. Il rito greco slavonico si suddivide in bulgarico e ruteno. Il primo si adopera nella Macedonia, nella Tra­ cia e dai bulgari di Costantinopoli e dintorni, in ciascuna delle quali regioni è istituito un Vicaria­ to Apostolico. In Macedonia vi sono 35 parrocchie,, in Tracia 17 stazioni, e poche nei dintorni di Co­ stantinopoli. Il rito slavonico-ruteno è in uso nell’Arcidiocesi di Leopoli (Galizia) (par. 149) e nella diocesi di Crisio (par. 23), di Eperies (par. 197), di Munkats (par. 387) di Premislia (par. 720) e di Stanislanow. Il rito greco-melchita (2) è in uso nel patriarcato di Antiochia cioè nelle diocesi di Aleppo, Emesa, (1) Benedetto XIV, confermando le Costituzioni de’ suoi predecessori riguardo agli italo>greci permise che ritenessero il proprio rito, ma volle fossero soggetti ai Vescovi latini. Essi hanno due seminari uno in S. Demetrio Carone di Calabria, detto Seminar o Corsini, l’ altro a Palermo. I Superiori di que­ sti Seminari sono Vescovi, così detti ordinatori, perchè hanno facoltà di conferire i Sacri Ordini ai loro chierici. (2) Tutti ricordano l ’origine storica di questo nome. Quando l’ imperatore Marciano nel 541 si diede a far eseguire i decreti del Concilio di Calcedonia, nel quale erano stati condannati,.

Liturgia Costantinopolitana e Armèna

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Tiro sedi arcivescovili, e nelle sedi vescovili di Beyruth (Berito) e Gipail, Balbeq od Eliopoli, Bsra ed Hauran, Cesarea di Filippo o Paneas, Da­ masco, Sodoni o Saida, Tolemaide o S. Giovanni d’Acri, Zahle o Sarzul (1). Il rito armeno è oggidì in uso nel patriarcato di Armenia e Cilicia, il suo titolare risiede a Costane tinopoli. Nella Turchia Asiatica il rito armeno con­ ta le diocesi di Adana, Aleppo, Amida o Diarbekir, Ancira od Angora, Cesarea del Ponto, Arzerum, Karputh, Marasc, Mardin, Melitene o Malatia, Muse, Brusa o Brussa, Sebaste o Sivas, Tokat, Etiliche coi monofi&iti e D ioscoro, nacque una divisione tra gli orientali. Gli uni ribelli all’ imperatore, e perciò alla fede di lui propugnata, si chiamarono Mardaiti, gli altri ossequiosi ac­ cettarono il Concilio e si dissero Calcedonesi o MeleItiti cioè regalisti, che equivaleva in quell’ occasione a cattolici. Nel se­ colo X questi vennero dai Patriarchi di Costantinopoli trascinati nell’ errore e scisma foziano. La gerarchia cattolica vi fu rista­ bilita solo nel 1687 e vi continua tuttora. (1) Ci pare qui il luogo di fare un cenno dei libri liturgici che sono in uso presso i greci che sono fonte importantissima per lo studio. Essi hanno il Grande Eucologio ( Εοχολδγιον tè μέγα,) che contiene le parti immutabili (diremo il comune) dell’ offìciatura Πμεδωνόκτιον e delle solennità. Liturgia di S. Basilio, di S. Giovanni Grisostomo e dei Presantificati e for­ mulari per l ’ amministrazione dei Sacramenti e per molte bene­ dizioni. Il Trodion che contiene le regole del canto ( ώ δ α ί ) di ciascun giorno; è diviso in 3 parti il proprio del tempo, il Pentacostario e 1’ Ο κτώηχος (libro degli otto toni sacri) che hanno un ciclo mutabile di otto settimane. Il Meneen (ΜηναΧον) che contiene il proprio dei Santi, diviso in dodici mesi: il Ti­ pico che contiene l’ ordine delle funzioni sacre come il Direc­ torium dei latini. Il Psalterium, diviso in 20 sessioni (perchè durante la salmodia si sta seduti) ( Κ αθίσμ ατα ) ciascuna del­ le quali è suddivisa in tre στήσεις I libri che contengono le Ore speciali del divino Ufficio si dicono orologi. Cfr. Thalhofer o. c. § 5.

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Capo IV

Trebisonda. E’ in uso in parte della metropolitana di Leopoli, nella diocesi di Alessandria d’Egitto. In fine, come già abbiamo accennato, il rito ar­ meno è usato dai Mechitaristi che sono nell’Isola di S. Lazzaro a Venezia, in Costantinopoli, a Vien­ na d’Austria ed in Trebisonda (Armenia) (1).1

(1) Uno stadio accurato sulle liturgie orientali è quello dito in questi ultimi anni dal Principe Massimiliano, Freiburg, i. B. Herder.

SEZIONE II

Liturgia Occidentale CAPO L

Liturgia Gallicana.

70. Difficoltà di questo studio. - Antichità carattere della liturgia gallicana. Tutti coloro che trattarono dell’antica liturgia in uso nella Gallia prima dell’introduzione del rito romano, fecero sentire la difficoltà di questo studio. 11 Card. Bona, che sopra tutti approfondi questo punto, si confessa: « Implicatum..., in hac disquisitione in qua suscepti operis ratio exigit, ut de Missa ante Pipinum et Carolum Magnum in Galliisi usitata eiusque ritibus agam. Cum enim tot saecu (4). Quantun­

que non risulti dalle opere del Santo, pare però che alla frazione del pane si faceva una speciale preghiera (Confractorium), seguita dall’Orazione Domenicale e da una dossologia: Per dominum nostrum ecc. (5). Il Celebrante impartiva la bene­ dizione del popolo (Oratio inclinationis) (6), detto ancora : simbolo di comunione dava la pace col ba­ cio, simbolo di pietà e di carità (7). Si faceva quindi la comunione, preceduta da una preghiera di adorazione. Il Sacerdote presentava il Pane con­ sacrato ai fedeli colla formula: Corpus Christi; questi lo ricevevano in mano rispondendo : Amen. Probabilmente si faceva la comunione anche con le specie del Vino (8). Durante la comunione del (1) Martene, o. c. 1. I. c. 4. a. 12 ord. 3. (2) De Sacram. 1. 4, c. 5. n. 21; De Misi. 52. in Ps. 38, n . 25 de fide ad Grat. 1. 3, n. 5. (3) In Ps. 38, n. 25. (4) De S a c r a m 1. 5, c. 4, n. 25. (5) L. c. 1. 6. c. 5. n. 24. (6) In Ps. 40, n. 36. Questa benedizione data dal celebrante dopo il Pater noster nelle messe solenni è ricordati nel IV Conc. Prov. di Milano tenuto nel 1576. (7) Epist. 41, n. 14 e 51. (8) Exaem. 1. 6. c. 9. n. 69; de Offic. 1. I. c. 50, n. 558.

Liturgia Milanese od Ambrosiana

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popolo si recitava il salmo XXII (1), e la Messa terminava con preghiere speciali di ringraziamen­ to, quali si trovano in tutte le antiche liturgie, specialmente quelle di S. Marco. Di queste dice il Santo Patena. Tra i vasi sacri di cui fa uso la Chiesa nell’e­ sercizio del culto, tengono il Brimo luogo, per la loro importanza, il calice e la patena. Il calice, riguardo alla materia, dev’essere d’oro o di argento od almeno avere la coppa d’argento, dorato nell’interno (1). Per la povertà della chie­ sa si permettono i calici di stagno od anche di ra­ me, di ottone o di altra materia solida, ma dev’es­ sere tutto dorato od argentato. Di qualunque ma­ teria però sia il calice, la coppa deve essere sem­ pre d’argento e dorata nell’interno : onde la S. C. dei Riti al quesito se il Vescovo possa consacrare un calice con coppa di stagno, rame od ottone, ri­ spose : «cStandum rubricis » (2). Ciò devesi dire ancora dei calici colla coppa di alluminio, che so­ no parimenti proibiti, e la risposta della S. C. che si citava in proposito e li tollerava per le chiese povere, venne esclusa dalla nuova Collezione dei Decreti autentici. Per la forma, il calice deve avere un piede ro­ tondo e poligonale, ma abbastanza ampio, in mo­ li) De consecrat. Disi. 1. 45. Hit. cel. Miss. t. I, n. 1; de dejfect. t. X, η . 1. (2) S. C. R. 16 settembre 1865, n. 3136, IV.

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Capo III

do che possa stare in piedi con sicurezza. Sul pie­ de si possono scolpire od incidere figure che non impediscano però di maneggiarlo comodamente; non si devono mettere ornati senza alcun concetto» nè stemmi profani. Il gambo, (tra il piede e la coppa), dev’essere alto in modo che si possa fa­ cilmente prendere con la mano, e nel mezzo del gambo deve avere il nodo, ornato conveniente­ mente, ma sempre in modo che si possa facilmente prendere colla mano. La coppa dev’essere, nel fondo, alquanto ristretta ed allargarsi a poco a poci verso l’alto, quasi a guisa di imbuto; il labbro superiore non dev’essere rivoltato all’infuori nè troppo affilato. Il principio o fondo della coppa deve distare dal nodo almeno due dita ed il suo ornato deve pur lasciar libero due dita di spazio verso il labbro. Nell’intemo la coppa deve essere, oltreché dorata tutta piana e liscia. Per la grossezza il calice, secondo S. Carlo Bor­ romeo dev’essere alto almeno 22 cm. ; la coppa de­ ve avere 25 cm. di perimetro o più, in proporzio­ ne dell’altezza. Un calice troppo piccolo sarebbe indecente. La patena è della stessa materia della coppa del calice, d’argento, o d’oro. Per la povertà della chiesa si tollera che essa sia d’altra materia, ma dev’essere tutta dorata. La sua forma è rotonda ed al labbro sottile ed affilata, onde poter raccogliere facilmente i frammenti sul corporale. Dev’essere affatto liscia, senza ornati in rilievo od incisioni, c nel mezzo deve avere una piccola concavità o

Dei vasi sacri

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cerchiello non troppo profondo, che s’accomodi al labbro del calice (1). Per la dimensione deve ave­ re circa 15 cm. di diametro, od anche di più. Tanto il calice che la patena devono essere con­ sacrati dal Vescovo. E qualora fossero stati adope­ rati, senza che fossero consacrati, si devono fare consacrare dal vescovo ed il loro uso non supplisce la consacrazione. E la ragione è data dal Fornici: ccquae pendent ex institutione Ecclesiae non pos­ sunt suppleri alio ritu diverso ab eo quem Ecclesia designat et determinat. Cum autem consecratio, qua vasa sacra redduntur apta ad sacrificium fue­ rit instituta ab Ecclesia sub certis et determinatis ritibus et verbis per determinatas personas adhi­ bendis; hinc fit quod non adhibitis tali ritu et tali forma verborum per idoneam personam nunquam evadant apia ad sacrificium; et quamvis sacramen­ tum Eucharistiae sit longe excellentius quam un­ ctio chrismatis episcopalis benedictio nihilominus non habet alius affectus quam quos ipse Christus illi attribuit suo fini proportionatos. Quapropter non habet effectus aliorum sacramentorum, nec Sacramentalium, quae ex libera institutione Eccle­ siae dependent. Et per hanc sententiam quam te­ net Quartus, Meratus, Gavantus, etiam corporalia, mappae et vestes sacerdotales quae vere benedic­ tae non sunt, proportionaliter tales non evadunt nisi per benedictionem in eum finem institutam, et templa non consecrantur per Missam in eis die­ ci) Instruet, suppel. jLib. II. Missal. Rom.

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Capo III

tas, sed per solam formam et ritus ab Ecclesia in­ stitutos ad consecrationem induendam in templa praedicta » (1). Questa sentenza è indirettamente confermata da una decisione della S. C. dei Riti che riguarda i paramenti (2). Il calice perde la consacrazione : 1. Quando nel fondo della coppa si trova un foro o una screpo­ latura, sebbene piccola. 2. Quando si rompe per modo che si rende indecente per il S. Sacrificio, quantunque per breve tempo. 3. Quando si stacca la coppa dal piede, tranne il caso in cui essa fosse fissata al piede mediante una vite, perchè il calice venne consacrato in questa forma. Quando vien nuovamente indorata la coppa o riparata non perde la consacrazione (Cod. can. 1305, 2). Anche la patena perde la sua consacrazione quando per una rottura enorme è resa indecente per l’uso a cui serve. Il calice è immagine di quello adoperato da G. C. nell’ultima cena nell’istituzione della SS. Eucarestia; in senso mistico ricorda il calice della Passione che G. C. accettò per ubbedienza al Suo Divin Padre. Simboleggia il Cuore santissimo di G. C., dalla cui apertura uscì il prezioso suo San­ gue; e il calice del divin banchetto, il mistero del­ la fede, il calice della salute, la cella della carità,12 (1) Fornici, o. c., pag. 24-25. (2) S. C. R. 31 agosto 1867, n. 3161 VI.

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la fonte inesausta delle grazie, il mistico bagno delle anime (1). Il calice e la patena vengono consacrati cc tum propter sacramentis reverentiam, tum ad reprae­ sentandum effectum scmctitatis quae ex passione Christi provenit, secundum illud Hebr. ult. 12: Jesu ut santificaret per suum sanguinem populum etc. )> (2).

II calice e la patena si conservano conveniente­ mente in proprio astuccio o borsa. 110. Ostensorio - Lunetta - Teca.

L'ostensorio è il sacro vaso che serve per espor­ re ai fedeli l’Ostia consacrata, portarla nelle pro­ cessioni, e impartire la benedizione. Secondo il Cerimoniale dei Vescovi la sua materia dev’essere d’oro o d’argento (3); ma il rituale Romano non dà alcuna regola in questo punto (4), può essere anche di rame, o di ottone dorato od almeno inar­ gentato (5). Dev’essere di conveniente grandezza. « Altitu­ dine cubitali (circa 45 cm.) aut maiori minorive1 2345 (1) Amberger, « Pastoraltheologie ». Voi. II. p. 947. (2) S. Tommaso, 1. c. in corp. Durando, o. c., 1. I. c. 8, n. 24. Da patena ha il medesimo significato del calice. Cfr. Pontif. Rom. De Patenae et Calicis consecrat. Oratio super oalicem et patenam. (3) Lib. II. c. Χ Χ Χ Ι Π , n. 14. (4) Ritual. Rom. de Process., c. 5. (5) 3. C. R. 31 ag. 1867, n. 3162 VI; Ornat, ecdes., c. 16; Instr. suppell., 1. Π .

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Capo HI

pro tabernaculi magni ratione » (1). Il piede deve essere abbastanza largo, onde l’ostensorio sia soste­ nuto con sicurezza; di forma esagonale, od otta­ gonale o rotondo (2). Il nodo non deve portare or­ nati che impediscano di prenderlo facilmente col­ la mano. Nel mezzo ove si mette l’ostia, vi devono essere vetri trasparenti, e lo spazio dev’essere tanto lar­ go da poter contenere facilmente un’ostia grande, senza che, tocchi le pareti, e dorato internamente. La capsula, ove si ripone l’ostia, dev’essere mu­ nita di una porticina che si possa chiudere con si­ curezza quando vi si contiene l’Ostia. L’ostenso­ rio dev’essere sormontato da una croce (3) e la Istruzione clementina vuole che all’ingiro sia at­ torniato dai raggi (4). Circa Vernato si noti che non devono esservi statuette degli angeli in adora­ zione. L’ostensorio non deve servire ad altro scopo che per collocarvi la Sacra Ostia per l’esposizione o Benedizione. La lunetta è il piccolo i^trumento che serve a tener ferma e ritta l’ostia nell’ostensorio o nella teca. La Materia della lunetta è quella degli altri sa-1234 (1) Instr. supell., 1. c. (2) Instr. supell., c. 1. c. (3) S. C. R. 11 sett. 1847, n. 2957. Secondo S. Carlo sull’ostensorio si può trovare rinunagine di G. C. risuscitato. (4) Thalhofer. o. c. § 68; Jakob « L’arte a servizio detta Chieda» §. 44; ove si riferiscono le regole date da S. Carlo. Amberger, o. c. II. p. 946.

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cri vasi; quindi può essere d’oro, d’argento, di rame, d’ottone, ma in ogni caso sembra dorata (1). Nulla si trova prescritto in quanto alla forma, ma la più comune e conveniente è quella dei due se­ micerchi che si combaciano perfettamente, riuniti con una cerniera al fondo, la quale permette che uno dei semicerchi si abbassi perfettamente onde purificarla dai frammenti. Per raccoglier questi al disotto dei due semicerchi sta convenientemente un piccolo cucchiaio o navicella. La lunetta si introduce nell’ostensorio per mez­ zo di una incavatura di due lastrine che l’assicu­ rano nella parte inferiore della capsula, e vi deve stare in modo fermo e sicuro. La teca serve per conservare nel tabernacolo l’Ostia sacra. Anch’essa dev’essere di metallo, in­ dorata nella parte interna, sormontata da una croce e costrutta in modo che si possa ben chiude­ re e mettervi facilmente e con sicurezza la lunetta. Ultimamente venne in Francia inventata una specie di teca-lunetta formata di due cristalli te­ nuti da metallo e riuniti a cerniera, perchè ser­ visse a conservare l’Ostia nel Tabernacolo ed a ri­ portarla direttamente nell’ostensorio. La S. C. dei Riti l’approvò a patto che l’Ostia sia ben chiusa in detti cristalli e non li tocchi (2); che se l’Ostia deve toccare i vetri o stretta dal cerchio metallico anche per star ritta, la lunetta è proibita (3).231 (1) S. C. R. 31 agosto 1867, n. 3162, VI. (2) S. C. R. 4 febbr. 1871, n. 3234, IV. (3) S. C. R. 14 genn. 1898, n. 3974.

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Capo HI

Tanto l’ostensorio come la teca con la lunetta devono essere benedette da chi ha la facoltà neces· saria (1). La lunetta fa parte dell’ostensorio o del­ la teca, quindi per se non occorre benedirla a par· te quando si provvede nuova o si fa riparare. L’ostensorio è il luogo più secreto dell’abitazio­ ne di G. C. tra noi, dal quale procede luminoso come lo sposo dinanzi alla sposa, è il forte palaz­ zo, la sacra torre del Re della fortezza (2).

111. Pisside. La Pisside, detta anche ciborio o tabernacolo mobile, è il sacro vaso che serve per la consacra­ zione delle particole, e per la comunione. Riguar­ do alla materia essa dev’essere solida e convenien­ te, d’oro, d’argento od anche d’ottone o di rame. Se non è d’argento ma d’altro metallo inferiore, dev’essere inargentata o dorata all’esterno (3); è però desiderabile che la coppa almeno sia d’ar­ gento; inoltre Vinterno della coppa, se non è d’oro dev’essere dorata e per il rispetto al SS. Sacra­ mento e perchè si possono più facilmente vedere e raccogliere i frammenti, e perfettamente piana e levigata (4). La pisside non può essere di vetro (5). La sua dimensione è proporzionata al numera12345 (1) Rit. celebr. Miss. tit. Π , n. 3; S. Alph. t. 6. n. 385; Quarti, p. 2, a 5 diff. 2. (2) Amberger, 1. c. (3) Perchè sia decente, come vuole il Rituale De SS. Eucharist. Sacram. (4) Ornat, eccles. Cap. 18. (5) S. C. R. 30 gennaio 1880,. n. 3511.

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dèi fedeli che si comunicano nella chiesa, ma come non dev’essere troppo piccola, così pure non deve essere troppo grossa perchè diverrebbe inservibile. Quanto alla forma la pisside deve avere un piede fermo e non vacillante; il nodo liscio, onde si pos­ sa tenere con comodità; il coperchio della mede­ sima materia della pisside si elevi in forma rotonda o piramidale e sia sormontato dalla croce o dalla immagine del divin Redentore; esso deve chiude­ re perfettamente la tazza, ma in modo da potersi togliere facilmente non unito a cerniera. Nelle chiese in cui si conserva il SS. Sacramento si devo­ no avere almeno due pissidi, oltre a quella più piccola che serve per trasportare il Viatico agli ammalati (1). La pisside prima che si adoperi dev’essere bene­ detta da chi ha la necessaria facoltà: essa viene a perdere la benedizione per le stesse cause per cui il calice perde la consacrazione. La pisside è il vaso che contiene il Pane della vita, la coppa della vera manna, della celeste me­ dicina; è la torre dove si nasconde il pane dei for­ ti, la fonte della comunicazione dello Spirito San­ to, il calice della benedizione, la sorgente dèi doni di Dio (2). 112. Vasi per i Sacri Olii. I vasi degli Olii sacri sono di due specie: quelli cioè che servono per la conservazione e quelli che12 (1) Così prescrivono parecchi Sinodi ed è indicato dal Ri­ tuale Rom., tit. V, c. 4, n. 9. (2) Amberger, o. c., t. Π , 946.

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Caso I U

servono per l’amministrazione dei Sacramenti. Tanto gli uni come gli altri devono essere d’ar­ gento od almeno di stagno (non di vetro, nè di ferro, o di marmo), ben chiusi e mondi, portanti l’iscrizione esterna che indichi l’Olio sacro che ciascuno contiene. Quelli che servono per l’ammi­ nistrazione dei Sacramenti possono contenere an­ che bambagia entro un piccolo vasetto di vetro che sta nel vaso metallico, ed evitare il pericolo di versare l’Olio sacro. Il vasetto di vetro non è necessario se l’altro è d’argento. Essi pure devono portare le lettere iniziali che lo distinguono. Per maggior comodità, il vasetto del S. Crisma va spes­ so unito a quello dell’Olio dei Catecumeni. Si de­ vono conservare in luogo proprio, decente e mon­ do (1) quindi un piccolo armadio scavato nel mu­ ro del presbiterio (2) rivestito di stoffa hianca, chiuso a chiave, la quale deve conservarsi dal par­ roco: le chiavi degli Olii dovrebbero esser due. Si possono conservare anche nel battistero od in sacristia, ma sempre in armadio particolare (3). All’esterno si mattono le parole: Olen Sacra. 113. Cura e custodia dei vasi sacri.

I vasi sacri chiedono quella cura e rispetto che si deve alle cose destinate al divino culto, poiché: 185

INDICE

37Q C ap o IV. Liturgia R om ana

pag. 199 89. Liturgia Romana o petrina — 90. Riforma litur­ gica incominciata da S. Damaso e proseguita dai Pontefici successori — 91. Il Canone e i Sacramen­ tari — 92. Opera dei Sommi Pontefici per ridurre Poccidente ad unità liturgica.

PARTE III

Parti integranti della liturgia SEZIONE I OGGETTI SACRI C a p o I. L 'a lt a r e » 210 93. Altare — divisione — significato — 94. Erezione degli Altari — 95. Forma — 96. Luogo — 97. T i­ tolo — 98. Uso — 99. Custodia dell’ altare — Bal­ dacchino — 100. Cause per le quali si dissacra l ’ Altare e la pietra sacra. C a p o li. O rn ato d ell’ altare » 224 101. Tovaglie — Corporale — Palla — Purificatore < — Loro materia — Benedizione — 102. Pallio — 103. Croce — 104. Candelieri — Candele — Lam­ pade — 105. Fiori — 106. Sacre Reliquie — 107. Cartegloria — 108. Uso di tali ornati. C a p o UT. D ei V a si sa cri » 241 109. Calice — Patena 110. Ostensorio — Lanetta — Teca — 111. Pisside — 112. Vasi per i sacri Olii — 113. Cura e custodia dei vasi sacri. C a p o IV . P aram en ti sa cri » 252 114. Uso delle vesti sacre nell’esercizio del sacro culto — 115. Forma — ornato e colore dei para­ menti — 116. Benedizione delle vesti sacre — 117. Amitto — 118. Camice — cingolo — cotta — roc­ chetto — 119. Pianeta — pianete plicate — 120. Dalmatica e tunicella ■ — 121. Piviale — 122. Stola — 123. Manipolo — 124. Veli — borsa — 125. Paramenti vescovili — 126. Cura e conservazione dei sacri paramenti.

371

INDICE Capo V. A ltri oggetti litu rg ici

pag. 289

127. Pitture e sculture ad uso liturgico — 128. Im­ magine del Titolare — Palle d’ altare — 129. Orciuoli — campanelli da Messa — 130. Turibolo e navicella — 131. .Sedili — 132. Pile dell’ acqua santa — Significato — Aspersorio — 133. Pulpito — 134. Organo.

SEZ IO N E 11 Capo u nico — D elle azioni litu rg ich e

» 308

133. Quando si sta in piedi o si siede nella liturgia — 136. Genuflessioni — 137. Inchini — 138. Ele­ vazione degli occhi — 139. Elevazione e congiun­ zione delle mani — 141. Abluzione delle mani — 142. Coprimento e scoprimento del capo — 143. Segno di Croce — 144. Bacio liturgico.

SEZ IO N E III Capo unico

D elle p a ro le litu rg ich e

» 332

145. Simbolo apostolico — 146. Orazione domenica­ le e Salutazione angelica — 147. Diverse forme d’ introduzione alle preghiere — 148. Carattere delle orazioni — 149. Conclusione delle orazioni — 150. Canto e recita delle orazioni.

Motu p ro p rio d i P io X su lla M usica s a c r a Istruzione su lla M usica s a c ra

» 344 » 348

I. Principi generali — II. Generi di Musica sacra — III. Testo liturgico — IV . Forma esterna delle sacre composizioni — V . Cantori —■ V I. Organo e istrumenti — VII. Ampiezza della musica litur­ gica — V i l i . Mezzi precipui — IX. Conclusione.

APPENDICE Capo unico — D el p o rta m e n to litu rg ico 151. Cosa s’ intende per portamento liturgico — 152. Mezzi generali per la retta esecuzione degli atti di culto — 153. Regole speciali per la retta ese­ cuzione delle Azioni corporali — 154. Regole per l ’esecuzione delle azioni che si fanno in comune con gli altri — 155. Come si devono pronunciare le parole.

» 359

R EIM PRIM ATUR

D. C arlo M alocchi V. Q. P « v i a,

8 agosto 1939

Finito di stampare coi tipi della Scuola Tipografica Artigianelli il 10 settembre 1939 - XVII

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Pavia