Manifesto per la filosofia
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Alain Badiou Manifesto per la filosofia

Cronopio »

Il mio Manifesto per la filosofia contiene, in forma esoterica e polemica, questa convinzione: la filosofia è possibile. Non siamo nell'epoca del suo declino, siamo di fronte alla difficoltà di dover fare, nelle condizioni concrete della nostra epoca, il passo in avanti necessario perché la filosofia continui. Diremo anche che il Manifesto è sostenuto dalla certezza - che anima tutto L'essere e l'evento - di disporre di una categoria assolutamente nuova della Verità, sottratta al sospetto nietzscheano. Diremo infine che il Manifesto annuncia che la questione del linguaggio, per quanto importante sia, dev'essere rimessa al suo giusto posto, e che non è vero che il linguaggio sia la condizione trascendentale del pensiero. È dal percorso di una verità che procede l'invenzione linguistica, e non l'inverso. Si tratta quindi proprio di un manifesto per la filosofia. Si tratta di dire che la diagnosi di Nietzsche è errata, che la terapia di Wittgenstein uccide il "malato", che il montaggio storico di Heidegger dà della storia del pensiero una visione troppo sintetica per essere onesta, che il positivismo logico di Carnap è un'impostura, e così via. Alain Badiou Di Alain Badiou Cronopio ha pubblicato: San Paolo. La fondazione dell'universalismo, 1999; Metapolitica, 2003; La Comune di Parigi, 2004; L'etica. Saggio sulla coscienza del Male, 2006; Sarkozy, 2008.

9

Euro 13,00

Alain Badiou

Manifesto per la filosofia traduzione di

Fabrizio Elefante

titolo originale

Manifeste pour la philosophie

Opera pubblicata con il contributo dell'Ambasciata di Francia/B.C.L.A. e del Ministero degli Affari Esteri francese

© 1989 Éditions du Seuil © 2008 Edizioni Cronopio © Per la traduzione italiana Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 1991 Calata Trinità Maggiore, 4-80134 Napoli Tel./fax 0815518778 www.cronopio.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-89446-38-6

Indice

Prefazione alla nuova edizione italiana 7 Prefazione all'edizione italiana 13 1. Possibilità 27 IL Condizioni 33 IH. Modernità 41 IV. Heidegger considerato come luogo comune 46 V. Nichilismo? 52 VI. Suture 59 VII. L'età dei poeti 67 Vili. Eventi 77 IX. Questioni 88 X. Gesto platonico 97 XI. Generico 103

Prefazione alla nuova edizione italiana Scrivere un Manifesto, anche per qualcosa che, come la filosofia, ha una pretesa di intemporalità così potente, significa dichiarare che è venuto il momento di. fare una dichiarazione. Un Manifesto contiene sempre lin "è tempo di dire..." e non è possibile, quindi, distinguere tra il suo contenuto e il suo momento. Che cosa mi autorizzava a ritenere nel 1989 che fosse all'ordine del giorno un Manifesto per la filosofia} In quale tempo del pensiero vivevamo? Bisogna senz'altro concedere al mio amico Frédéric Worms che tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta c'è stato in Francia quel che egli chiama un "momento" filosofico - dagli ultimi grandi lavori di Sartre alle opere decisive di Althusser, Deleuze, Derrida, Foucault, Lacan, Lacoue-Labarthe e Lyotard, per citare solo i rriorti. E la prova - prova "attraverso l'esempio negativo''^ come dicono i cinesi - è l'accanimento con cui la coalizione di vedettes mediatiche e accademici da salotto nega che in quegli anni ormai lontani sia accaduto qualcosa di grande o anche solo di decente. Questa coalizione ha mostrato che tutti i mezzi sono buoni per imporre al-

l'opinione pubblica il suo sterile desiderio di vendetta. Per colpa sua un'intera generazione di giovani è stata costretta a una scelta odiosa: o il carrierismo selvaggio condito di Etica, Democrazia ed eventualmente di Commiserazione, o il non meno selvaggio nichilismo dei piaceri brevi in salsa "no future". "In quegli oscuri anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso, che fine avete fatto voi filosofi francesi che tanto amavamo?", ci chiedono ancora oggi con insistenza. Ebbene, continuavamo il nostro lavoro dentro i vari luoghi protetti che avevamo costruito con le nostre mani. Il mio Manifesto intendeva testimoniare che questi luoghi protetti della filosofia ancora viva esistevano davvero e che potevamo Uberamente, anche se quasi clandestinamente, continuare. Questo libro è stato pubblicato nel 1989. Non era un periodo felice, credetemi! La celebrazione del funerale dei cosiddetti "anni rossi" seguiti al Maggio '68 ad opera di interminabili "anni-Mitterrand", l'obitorjo dei "nouveaux philosophes" e i loro paracadutisti umanitari, i diritti umani combinati col diritto di ingerenza come unico viatico, la fortezza occidentale satolla che dava lezioni di morale agli affamati di tutta la terrà, il crollo senza gloria dell'URSS che aveva come effetto il congedo dell'ipotesi comunista, i cinesi ritornati al loro genio commerciale, la "democrazia" identificata ovunque con la tetra dittatura di una ristretta oligarchia di finanzieri, politici di professione e presentatori televisivi, il culto delle identità nazionali, razziali, sessuali, religiose, culturali che cercano di distruggere i diritti dell'univer-

sale... Conservare in tali condizioni l'ottimismo del pensiero, sperimentare nuove forme politiche in stretta connessione con i nuovi proletari venuti dall'Africa, reinventare la categoria di verità, impegnarsi nei sentieri dell'Assoluto secondo una nuova dialettica fra la necessità delle strutture e la contingenza degli eventi, non demordere... Che storia! È di tutta questa fatica che testimonia, in maniera breve e allo stesso tempo vivace, il Manifesto per la filosofia che leggerete. All'epoca questo libretto era come una serie di memorie di pensiero scritte in uno scantinato. Si trattava di dire, soprattutto sulla base dell'affresco ontologico che avevo appena terminato {L'essere e l'evento è stato pubblicato nel 1988): "Sì, la filosofia è possibile, nella sua ambizione pivi alta e pili classica! Sì, la filosofia è compatibile col desiderio poHtico pili radicale! Sì, la filosofia è capace di novità, anche di novità sistematiche! Il mondo del capitaHsmo trionfante è sinistro, ma non ci impedisce niente!". Vent'anni dopo, data l'inerzia dei fenomeni, ovviamente è ancora peggio, ma ogni notte finisce per avere in sé la promessa dell'alba. È difficile scendere più in basso: piti in basso del governo Sarkozy nell'ambito del potere dello Stato; più in basso, dal punto di vista della situazione planetaria, della forma bestiale che hanno assunto il militarismo americano e i suoi servi; più in basso, nell'ambito della poHzia, dei controlli infiniti, delle leggi scellerate, delle brutalità sistematiche, dei muri e dei fili spinati destinati solo a proteggere i ricchi e soddisfati occidentali dai loro nemici tanto naturali quanto innumerevoli: i miliardi di indigenti di tutto il pianeta.

Africa in primo luogo; piij in basso, sul piano dell'ideologia, del tentativo di opporre a una presunta barbarie islamica una laicità stracciata, una "democrazia" da commedia e, per dare a tutto questo una coloritura tragica, la strumentalizzazione disgustosa dello sterminio degli ebrei d'Europa da parte dei nazisti; nell'ordine dei saperi, infine, è difficile scendere più in basso della strana mistura che vogliono farci inghiottire tra scientismo tecnologico, il cui fiore all'occhiello è l'osservazione di cervelli e cervelletti in rilievo e a colori, e burocratismo giuridico, la cui forma suprema è la "valutazione" di ogni cosa da parte di esperti usciti da chissà dove che arrivano invariabilmente alla conclusione che pensare è inutile e perfino nocivo. Non mi pare che i nostri amici italiani, che così spesso sono stati i nostri più vicini compagni in Europa, con Berlusconi se la passino meglio. Ahimé! Lo sprofondamento nella reazione è sempre più profondo di quanto noi, progressisti, riusciamo a immaginare: è una legge dialettica. Ma per quanto in basso siamo caduti, ci sono i segni che alimentano quella che è la virtù principale del momento, il coraggio, e il suo sostegno maggiore: la certezza che tornerà, che è già tornata, la potenza affermativa dell'Idea. Appaiono giovani filosofi che non si fanno ingannare dall'intimidazione "democratica" del nostro Occidente. È a loro che ho destinato le nuove figure della potenza speculativa tracciate nel mio secondo "grande" libro, Logiques des mondes, uscito nel 2006. Sostenuto oggi da questo libro (che tratta òeWapparire 10

delle verità), così come lo ero nel 1989 da quello precedente (che tratta dell'essere delle verità), credo di dovere e potere rendere servizio al coraggio di tutti, in una situazione che è allo stesso tempo diversa, peggiore e gravida di un altro avvenire, con la pubblicazione, che sto preparando proprio in questo momento, di un Secondo Manifesto per la filosofia. La riedizione italiana del primo Manifesto arriva quindi al momento giusto: potrà servire da introduzione alla venuta del secondo Manifesto che prenderà la misura di tutto ciò che è accaduto in vent'anni, confermando gli orientamenti essenziali fissati allora. "Venti anni dopo" è in fondo il titolo che si potrebbe dare al secondo Manifesto per indicare che esso è lo sviluppo e il seguito storico del primo. Semplifichiamo e speriamo: vent'anni fa scrivere un Manifesto equivaleva a dire: "La filosofia non è affatto ciò che vi viene detto che è. Cercate quindi di vedere ciò che non vedete". Oggi scrivere un Secondo Manifesto vuol dire piuttosto "Sì! La filosofia può essere ciò che desiderate che sia. Cercate di vedere realmente ciò che vedete". Ma, siccome la seconda questione presuppone la prima, bisogna leggere o rileggere il presente hbro. Allora si potrà, come dice Mao, "abbandonare le illusioni e prepararsi alla lotta". Alain Badiou, settembre 2008 Traduzione di Antonella Moscati 11

Prefazione all'edizione italiana Questo Manifesto per la filosofia è stato scritto a seguito delle discussioni che hanno accolto, in Francia, la pubblicazione del mio libro fondamentale, L'essere e l'evento. Tra il febbraio 1988 e il gennaio 1989 diverse sedi universitarie e istituzioni culturali parigine organizzarono infatti dei pubblici dibattiti su questo testo, cui presero parte tra gli altri Etienne BaHbar, Yves Duroux, Jean-Toussaint Desanti, Christian Jambet, Philippe Lacoue-Labarthe, Jean-Francois Lyotard, JeanClaude Milner, Jacques Poulain, Jacques Rancière, Francois Regnault, Emmanuel Terray, Antoine Vitez e Francois Wahl. Questo complesso concerto di voci ha rappresentato un momento della storia della filosofia in Francia, e non possiamo riprodurlo qui in dettaglio. A mio avviso, tuttavia, una questione emergeva con chiarezza: il discorso verteva naturalmente sulle mie proposizioni essenziali riguardanti il Molteplice puro come donazione dell'essere, l'evento come supplemento rispetto a una situazione d'essere (o l'evento come "transessere"), la nominazione come fissazione dell'eclissi dell'evento 13

e, soprattutto, il nuovo concetto di Verità intorno al quale propongo di ricentrare la ricerca filosofica, nonché quello di Soggetto come punto differenziale del percorso di una verità. Ma il discorso verteva anzitutto, se non soprattutto, sulla filosofia stessa, SUWSLpossibilità della filosofia oggi. O, se vogliamo, sul senso dell'affermazione postmoderna di una "fine" della filosofia, di una impossibilità di nutrire ancora il classico desiderio di fare filosofia. È tale questione che vorrei riprendere, in termini forse più recepibili nella situazione italiana. Su scala planetaria, si distinguono attualmente tre grandi correnti filosofiche. 1 ) La corrente ermeneutica, di matrice tedesca, il cui riferimento capitale, pur con tutte le sue ambiguità, è l'opera di Heidegger, ma che si è affermata nella versione offerta da Gadamer. 2) La corrente analitica anglosassone, le cui origini risalgono al Circolo di Vienna, e che si richiama quale punto di partenza alle opere - pur tanto diverse - di Carnap e di Wittgenstein. 3) La corrente postmoderna francese che ha attraversato lo strutturalismo e situa la filosofia ai limiti dell'arte e della letteratura, come appare chiaramente dalle opere di Derrida o di Lyotard o da quelle di Lacoue-Labarthe e Nancy. Naturalmente sono possibili diverse intersezioni tra queste correnti, e anche tentativi di sincretismo. In Italia per esempio, Gianni Vattimo, muovendo dalla tradizione ermeneutica approda, attraverso la tematica del "pensiero debole", a una variante del postmodernismo. Negli Stati Uniti Richard Rorty, in costante rapporto con la tradizione analitica, non esita a prendere in con14

siderazione alcune tesi di Heidegger. In Francia, Lyotard indica Heidegger e Wittgenstein come sue fonti contemporanee, e così via. In effetti quel che vi è di comune tra queste tre correnti, peraltro divergenti, riguarda proprio la filosofia. Poiché esse sostengono che l'eredità storica della filosofia - il suo divenire a partire da Platone - è oggi inoperante, o quanto meno che è entrata nell'epoca del suo declino. E le tre correnti concordano, da Carnap a Vattimo passando per Heidegger e Wittgenstein, nel chiamare "Metafisica" tale lascito, abbandonandoci nell'incertezza e nell'indigenza del pensiero. In fondo, l'ermeneutica tedesca, la filosofia analitica anglosassone e il postmodernismo francese si basano su una diagnosi comune che possiamo far risalire a Nietzsche: il nostro pensiero è in via di "guarigione" dalla malattia platonica, per quanto esposto al pericolo del nichihsmo, all'interminabile lavoro della fine della Metafisica. Gli Ideali attraverso cui le tre correnti pensano questa esposizione del pensiero al declino della Metafisica sono del tutto opposti: ideale scientifico per Carnap, ideale dell'ascesi linguistica per Wittgenstein, ideale del rovesciamento dell'evento per Heidegger, ideale dell'erranza secondo una Legge indicibile per Lyotard, ideale del pensiero debole o in-fondato per Vattimo, ideale della poesia come prosa del pensiero per Lacoue-Labarthe, ideale della conversazione democratica per Rorty. Ma Vavversario di queste linee di pensiero, ciò da cui tentano di affrancarsi con un gesto costantemente ripetuto, è unanimemente definito: si tratta in definitiva del15

la filosofia stessa, del classicismo filosofico che, col nome di Metafisica, ha costituito la base del pensiero occidentale dai greci in poi. Il cuore del problema è la categoria di Verità. Le tre correnti sono in realtà d'accordo nel dire che, se la filosofia in senso tradizionale non è più praticabile, è perché la categoria di Verità, che ne organizza il dispiegamento, è oggi insostenibile o incerta. Anche qui, è senza alcun dubbio a Nietzsche che occorre far risalire il sospetto sistematico verso ogni impiego normativo dell'idea di verità. Possiamo caratterizzare le tre correnti anche in altro modo: concordano nel fare del linguaggio, della nostra "dimora" nella parola, il punto di partenza assoluto del pensiero. La terapia di Wittgenstein è qui esemplare: l'analisi grammaticale dei giochi linguistici è ciò attraverso cui possiamo guarire dalla malattia metafisica. Ma Heidegger fa della lingua, e in particolare della lingua poetica, il luogo in cui il pensiero indigente custodisce l'Aperto. Per Lyotard ciò che accade ha sempre la forma di una frase, e così via. Viviamo innegabilmente in quella che Lyotard chiama la "svolta linguistica" della filosofia. Di nuovo contro Platone che, nel Cratilo, enuncia che la filosofia parte dalle cose, e non dalle parole. Il mio Manifesto per la filosofia contiene, in forma esoterica e polemica, questa convinzione: la filosofia è possibile. Non siamo nell'epoca del suo declino, siamo di fronte alla difficoltà di dover fare, nelle condizioni concrete della nostra epoca, il passo in avanti necessario perché la filosofia continui. 16

Diremo anche che il Manifesto è sostenuto dalla certezza - che anima tutto L'essere e l'evento - di disporre di una categoria assolutamente nuova della Verità, sottratta al sospetto nietzscheano. Diremo infine che il Manifesto annuncia che la questione del linguaggio, per quanto importante sia, dev'essere rimessa al suo giusto posto, e che non è vero che il linguaggio sia la condizione trascendentale del pensiero. È dal percorso di una verità che procede l'invenzione linguistica, e non l'inverso. Si tratta quindi proprio di un manifesto/»er la filosofia. Si tratta di dire che la diagnosi di Nietzsche è errata, che la terapia di "Wittgenstein uccide il "malato", che il montaggio storico di Heidegger dà della storia del pensiero una visione troppo sintetica per essere onesta, che il positivismo logico di Carnap è un'impostura, e così via. Sì, non è qui il caso di adottare eufemismi, poiché ne va dell'esistenza stessa della filosofia. Per esporre questa convinzione, il mio Manifesto inscrive la possibilità contemporanea della filosofia nell'anahsi delle sue condizioni reali. Cos'è una condizione della filosofia? È una verità in divenire, appartenente a uno dei quattro generi di verità (extrafilosofici) di cui, a partire dai greci, conosciamo l'esistenza: il genere scientifico (pivi in particolare matematico), il genere artistico (pili propriamente poetico), il genere politico (più propriamente l'emancipazione pohtica o la politica della libertà), e il genere amoroso. Queste verità in divenire vengono chiamate "procedure generiche", per profonde ragioni che sono piena17

mente elucidate soltanto in L'essere e l'evento. "Procedura" significa precisamente che una verità, come tale distinta da un sapere, è un percorso infinito e non un giudizio o uno stato di cose. "Generico" significa che una verità si stabilisce dal "qualunque", dal singolare come tale, da ciò che è preliminarmente senza nome e senza concetto, e non da ciò che è già registrato, nominato e classificato dai saperi disponibili. Detto in breve, "procedura generica" definisce le verità in quanto invenzioni, che s'inscrivono nell'essere ma non procedono se non da un evento, da un transessere. Assumiamo allora che la filosofia non esiste se non quando le sue condizioni di verità esistono simultaneamente nei quattro generi. La questione della possibilità della filosofia oggi si riduce quindi all'esame di quali siano gli eventi di verità di cui siamo contemporanei nell'ordine della matematica, della poesia, della politica e dell'amore. Il Manifesto dà a questo proposito delle indicazioni legate a qualche nome proprio, Cantor, Paul Celan, Lacan; giungendo alla conclusione che sono presenti le condizioni affinché, basandosi su di una concezione "generica" della verità, la filosofia faccia un ulteriore passo sulla propria strada e si distolga dalla contemplazione compiaciuta della propria presunta fine. In proposito, delineo una teoria delle ragioni per cui la filosofia attraversa fasi di dubbio quanto alla propria esistenza. Si tratta in ogni caso di ciò che chiamo una sutura, ossia il fatto d'identificare la filosofia con una sola delle sue condizioni: la politica nel caso 18

del marxismo staliniano, l'arte nel caso di Nietzsche, la scienza nel caso dei positivismi, e via di seguito. Il Manifesto propone di dire che vi sono certamente altri esercizi di pensiero oltre alla filosofia, e cioè la scienza, l'arte, la politica e l'amore; e che tuttavia la filosofia si perde se diviene l'ancella di questa o quella di tali condizioni. La filosofia non deve in alcun caso annullarsi in epistemologia (sutura da parte della scienza), in estetica (sutura da parte dell'arte), in "filosofia politica" o in erotologia (sutura da parte della psicanalisi per esempio). Essa non esiste se non nell'autonomia del suo luogo di pensiero, per quanto a condizione dell'esistenza delle altre quattro. Essa è realmente un quinto pensiero. In definitiva, la posta in gioco di questo dibattito ruota intorno alla definizione della filosofia. Per il fatto che la definizione di partenza è troppo ampia, o al contrario troppo ristretta, siamo tentati, in un secolo oscuro, di dichiarare la fine di questo esercizio di pensiero specifico, senza privilegi ma anche senza sensi di colpa, che è la filosofia. Il Manifesto fornisce qualche definizione. Può essere utile al lettore italiano che io concluda questa prefazione con un tentativo più sintetico. Ecco allora quel che è o dovrebbe essere, secondo me, la filosofia del nostro tempo: La filosofia è prescritta da condizioni costituite dai tipi di procedure di verità o procedure generiche. Tali tipi sono la scienza (più precisamente il matema), l'arte (più precisamente la poesia), la politica (più precisamente la politica in interiorità o emancipazione), e l'a19

more (più precisamente la procedura che dà luogo alla verità della disgiunzione delle posizioni sessuate). La filosofia è il luogo di pensiero in cui si enuncia il "c'è" delle verità e la loro compossibilità. A tal fine, essa mette a punto una categoria operativa, la Verità, che apre nel pensiero un vuoto attivo. Tale vuoto è individuato in base all'inverso di una successione (stile d'esposizione argomentativo) e all'ai di là di un limite (stile d'esposizione persuasivo o soggettivante). La filosofia, come discorso, opera così la sovrapposizione di due finzioni, una di sapere e una d'arte. Nel vuoto aperto dallo scarto o intervallo tra le due finzioni, la filosofia coglie le verità. Questo coglimento è il suo atto. Per suo mezzo, la filosofia dichiara che ci sono delle verità e determina la connessione tra il pensiero e questo "c'è". Questo coglimento per mezzo dell'atto assicura l'unità del pensiero. Finzione di sapere, la filosofia imita il materna. Finzione d'arte, imita la poesia. Intensità di un atto, essa è come un amore senza oggetto. Rivolta a tutti affinché tutti colgano l'esistenza delle verità, essa è come una strategia pohtica senza fini di potere. Attraverso questa quadruplice imitazione discorsiva, la filosofia riassume in se stessa il sistema delle condizioni. È la ragione per cui una filosofia è omogenea allo stile della sua epoca. Questa permanente contemporaneità si orienta tuttavia, non verso il tempo empirico, ma verso ciò che Platone chiama "il sempre del tempo", verso l'essenza intemporale del tempo che la filosofia chiama eternità. Il coglimento filosofico delle ve20

rità le espone a un'eternità che possiamo intendere, con Nietzsche, come eternità del loro ritorno. Tale esposizione eterna è tanto più reale quanto più le verità sono colte nell'estrema urgenza, l'estrema precarietà del loro percorso temporale. L'atto di coglimento, in quanto orientato da un'eternità, strappa le verità dalla griglia del senso, le separa dalla legge del mondo. La filosofia è sottrattiva, in quanto apre una falla nel senso o determina un'interruzione, affinché le verità siano dette nel loro insieme, nella circolazione del senso. La filosofia è un atto insensato, e per ciò stesso razionale. La filosofia non è mai un'interpretazione dell'esperienza. Essa è l'atto della Verità riguardo alle verità. E quest'atto, che secondo la legge del mondo è improduttivo (non produce neppure una verità), dispone un soggetto senza oggetto, aperto soltanto alle verità che transitano nel suo stesso cogHmento. Chiamiamo "rehgione" tutto ciò che presume una continuità tra le verità e la circolazione del senso. Diremo allora: contro ogni ermeneutica, vale a dire contro la legge religiosa del senso, la filosofia dispone le verità compossibili su di un fondale vuoto. Essa sottrae così il pensiero a ogni presupposto di una Presenza. Le operazioni sottrattive attraverso cui la filosofia coglie le verità "fuori senso" rilevano da quattro modalità: l'indecidibile, che si rapporta all'evento (una verità non è, ma avviene); l'indiscernibile, che si rapporta alla libertà (il percorso di una verità non è vincolato, ma casuale); il generico, che si rapporta all'essere (l'essere di 21

una verità è un insieme infinito sottratto a ogni predicato nel sapere); l'innominabile, che si rapporta al Bene (forzare la nominazione di un innominabile genera il disastro). Lo schema di connessione tra le quattro figure del sottrattivo (indecidibile, indiscernibile, generico e innominabile) specifica una dottrina filosofica della Verità. Tale schema stabilisce un ordine tra il pensiero del vuoto e le verità colte attraverso di esso. L'intero processo filosofico è polarizzato da un avversario specifico, il sofista. Il sofista è esteriormente (o discorsivamente) indistinguibile dal filosofo, dato che anche la sua operazione combina finzioni di sapere con finzioni d'arte. Soggettivamente gli è contrapposto, dato che la sua strategia linguistica mira a dare un'economia di ogni asserzione positiva concernente le verità. In tal senso, possiamo anche definire la filosofia come l'atto attraverso cui discorsi indiscernibili sono nondimeno contrapposti, o ancora come ciò che si separa dal suo doppio. La filosofia è sempre la rottura di uno specchio. Questo specchio è la superficie della lingua, su cui il sofista dispone tutto quel che la filosofia tratta nel suo atto. Se il filosofo pretende di contemplarsi su questa unica superficie, vede apparirvi il suo doppio, ossia il sofista, e può così prenderlo su se stesso. Questo rapporto col sofista espone internamente la filosofia a una tentazione il cui effetto è di sdoppiarla nuovamente. Perché il desiderio di farla finita col sofista una volta per tutte si contrappone al coglimento delle verità: "una volta per tutte" significa necessariamen22

te che la Verità annulla la casualità delle verità, e che la filosofia si dichiara indebitamente essa stessa produttrice di verità. In modo tale che l'essere vero assume i tratti di un dupHcato àdVatto della Verità. Un triplice effetto di sacro, d'estasi e di terrore corrompe allora l'operazione filosofica, e può condurla dal vuoto aporetico che sostiene il suo atto a prescrizioni criminali. Attraverso le quali la filosofia è induttrice di ogni sorta di disastro nel pensiero. L'etica della filosofia, che evita il disastro, discende interamente da un costAnie fronteggiare il proprio doppio sofistico, fronteggiare grazie a cui la filosofia si sottrae alla tentazione di sdoppiarsi (secondo la coppia vuoto/sostanza) per trattare la duplicità primaria che la fonda (sofista/filosofo). La storia della filosofia è la storia della sua etica: una successione di gesti violenti attraverso i quali la filosofia si ritrae dal proprio raddoppiamento disastroso. O ancora: la filosofia nel corso della sua storia altro non è che la desostanzializzazione della Verità, cioè anche l'autoliberazione del proprio atto.

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Manifesto per la filosofia

I Possibilità I filosofi viventi oggi in Francia non sono molti, per quanto ve ne siano forse più che altrove. Diciamo che si possono contare senza sforzo sulle dita delle due mani. Sì, una sparuta decina di filosofi, se intendiamo con ciò coloro che propongono al nostro tempo enunciati singolari, identificabili, e se, di conseguenza, ignoriamo i commentatori, gli indispensabih eruditi e i vacui saggisti. Dieci filosofi? O piuttosto "filosofi"? Perché lo strano è che gran parte di loro sostiene che la filosofia sia impossibile, giunta alla sua conclusione, dedita ad altre faccende. Lacoue-Labarthe, per esempio: "Non si deve pili nutrire un desiderio di filosofia". E quasi al medesimo tempo Lyotard: "La filosofia come architettura è crollata". Ma possiamo concepire una filosofia che non sia in alcun modo architettonica? Una "scrittura delle rovine", una "micrologia", un'insistenza del "graffito" (per Lyotard tutte metafore dello stile contemporaneo di pensiero) hanno ancora un qualche rapporto con la "filosofia", comunque l'intendiamo, oltre 27

a quello di una semplice omonimia? E ancora: il più grande dei nostri morti, Lacan, non era forse un "antifilosofo"? E come interpretare il fatto che Lyotard non possa evocare il destino della Presenza se non commentando dei pittori, che l'ultimo grande libro di Deleuze abbia per argomento il cinema, che Lacoue-Labarthe (o in Germania Gadamer) si dedichi all'anticipazione poetica di Celan, o che Derrida faccia ricorso a Genet? Quasi tutti i nostri "filosofi" vanno in cerca di una scrittura deviante, di supporti indiretti, di referenti obliqui, affinché al presunto luogo inabitabile della filosofia subentri l'attraversamento evasivo di una posizione occupata. E al cuore di questa deviazione - il sogno angoscioso di chi non è poeta, né credente né "ebreo"... - troviamo qualcosa che inasprisce la brutale ingiunzione concernente l'impegno nazionalsocialista di Heidegger: di fronte al processo che l'epoca ci intenta, alla lettura del dossier di tale processo, i cui atti principah sono la Kolyma e Auschwitz, i nostri filosofi, prendendo sulle proprie spalle il secolo, o megUo i secoh dei secoli da Platone sino a noi, hanno deciso di dichiararsi colpevoli. Né gli uomini di scienza, a pili riprese messi sotto accusa, né i militari, e neppure i politici, hanno ritenuto che i massacri del secolo riguardassero in modo durevole la loro corporazione. I sociologi, gli storici, gli psicologi, tutti prosperano nell'innocenza. Solo i filosofi hanno interiorizzato che il pensiero, il loro pensiero, s'imbatteva nei crimini storici e politici del secolo, e di tutti i secoli da cui quest'ultimo procede, sia come ostacolo a ogni sua prose28

cuzione, sia come tribunale di una prevaricazione intellettuale collettiva e storica. Si potrebbe naturalmente pensare che, in questa evidenziazione filosofica dell'intellettualità del crimine, ci sia molto orgoglio. Quando Lyotard attribuisce a Lacoue-Labarthe la "prima determinazione filosofica del nazismo", dà per scontato che tale determinazione possa discendere dalla filosofia. Ma questo non è minimamente evidente. Sappiamo, per esempio, che la "determinazione" delle leggi del movimento non discende affatto dalla filosofia. Per quanto mi concerne sostengo che anche l'antica questione dell'essere in quanto tale non discenda esclusivamente dalla filosofia: è una questione del campo matematico. È quindi del tutto plausibile che la determinazione del nazismo, per esempio in senso politico, sia di diritto estranea a quella specifica forma di pensiero che a partire da Platone ha il nome di filosofia. I nostri modesti fautori dell'impasse della filosofia potranno senz'altro continuare a perseguire l'idea secondo cui "tutto" rientra nel campo della filosofia. Bisogna pur riconoscere, però, che l'impegno nazionalsocialista di Heidegger fu proprio un esito di questo totalitarismo speculativo. Che altro fece infatti Heidegger se non presumere che la "incrollabile decisione" del popolo tedesco, incarnata dai nazisti, fosse coerente col suo pensiero di professore ermeneuta? Stabilire che la filosofia - ed essa sola - sia responsabile delle diverse manifestazioni, sublimi o ripugnanti, della politica del nostro secolo, è qualcosa di analogo alla presenza della hegeliana astuzia della ragione nel più riposto dei di29

spositivi dei nostri antidialettici. Significa postulare l'esistenza di uno spirito del tempo, di una determinazione essenziale, di cui la filosofia è il principio di cattura e di concentrazione. Proviamo piuttosto a immaginare che, per esempio, il nazismo non sia in quanto tale un oggetto possibile della filosofia, che in esso non siano presenti le condizioni per cui il pensiero filosofico sia in grado di configurarlo nel suo proprio ordine. Che non costituisca un evento per tale pensiero. Il che non significa affatto che sia impensabile. Accade infatti che l'orgoglio si tramuti in una pericolosa lacuna, quando i nostri filosofi traggono dall'assioma, che attribuisce alla filosofia la responsabilità dei crimini del secolo, le conclusioni congiunte dell'impasse della filosofia e del carattere impensabile del crimine. Per chi ritiene che si debba partire dal pensiero di Heidegger per rendere conto filosoficamente dello sterminio degli ebrei d'Europa, l'impasse è in effetti flagrante. Possiamo cavarcela sostenendo che qui c'è dell'impensabile, dell'inspiegabile, uno sfacelo per qualsiasi concetto. Dobbiamo essere pronti a sacrificare la filosofia stessa al fine di salvarne l'orgogho: poiché la filosofia deve pensare il nazismo, e non può riuscirvi in quanto ciò che deve pensare è impensabile, la filosofia sta attraversando una impasse. Proporrei di sacrificare l'imperativo, e di dire: se la filosofia è incapace di pensare lo sterminio degh ebrei d'Europa, è perché non è né in suo dovere né in suo potere farlo. E perché spetta a un altro ordine del pensiero rendere effettivo questo pensiero. Per esempio, al pen30

siero della storicità, vale a dire alla Storia considerata dal punto di vista della politica. Non c'è mai molta modestia nell'enunciare una "fine", un compimento, una impasse radicale. L'annuncio della "fine dei grandi racconti" è altrettanto immodesto dello stesso grande racconto, la certezza della "fine della metafisica" si muove nell'elemento metafisico della certezza, la decostruzione del concetto di soggetto esige una categoria centrale - l'essere, per esempio - la cui prescrizione storica è ancora più determinante, e così via. Paralizzata dal tragico del suo presunto oggetto - lo sterminio, i Lager - la filosofia trasfigura la propria impossibilità in posa profetica. Si adorna dei cupi colori del tempo, senza rendersi conto che anche questa estetizzazione è un torto fatto alle vittime. La contrita prosopopea dell'abiezione è una posa, un'impostura, non meno degli squilli di tromba della parusia dello Spirito. La fine della Fine della Storia è intessuta della stessa stoffa di tale Fine. Una volta delimitata la portata della filosofia, il pathos della sua "fine" lascia il posto a un ben diverso problema, ossia quello delle sue condizioni. Non sostengo che la filosofia sia in qualsiasi momento possibile. Propongo di esaminare a quali condizioni in genere lo è, in conformità alla sua destinazione. Che possa essere interrotta dalle violenze della storia, è proprio ciò cui non bisogna dar credito senza un attento esame. Significherebbe concedere una ben strana vittoria a Hitler e ai suoi sgherri, riconoscerli senz'altro capaci d'avere introdotto l'impensabile nel pensiero, e di aver co31

sì realizzato la cessazione del suo esercizio costruttivo. Occorre dunque accordare all'antintellettualismo fanatico dei nazisti, dopo la sua distruzione sul piano militare, una rivincita tale per cui il pensiero stesso, politico o filosofico, non è in effetti in grado di fare i conti con ciò che si proponeva di annientarlo? Dico come la penso: fare sì che la morte degli ebrei sia la causa della fine di ciò cui hanno contribuito in modo decisivo, la politica rivoluzionaria da un lato, la filosofia razionale dall'altro, significherebbe metterli a morte una seconda volta. La più essenziale pietà nei confronti delle vittime non può risiedere nello stupore della mente, nel suo tentennare autoaccusatorio di fronte al crimine; essa risiede, sempre, nella continuazione di quello che le ha designate rappresentanti dell'Umanità agli occhi dei loro carnefici. Io sostengo non soltanto che la filosofia oggi sia possibile, ma che tale possibilità non abbia la forma del passaggio attraverso una fine. Si tratta al contrario di sapere quel che significa: fare un altro passo. Un solo passo. Un passo nella configurazione moderna, quella che a partire da Cartesio lega alle condizioni della filosofia i tre concetti nodaU dell'essere, della verità e del soggetto.

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II Condizioni La filosofia ha avuto un inizio, essa non esiste in tutte le configurazioni storiche, il suo modo d'essere è la discontinuità sia nel tempo sia nello spazio. Dobbiamo quindi presumere che esiga condizioni particolari. Se si tiene conto del divario che intercorre tra le città greche, le monarchie assolute dell'Occidente classico, le società borghesi e parlamentari, appare subito evidente che la speranza di determinare le condizioni della filosofia in base al solo dato oggettivo delle "formazioni sociali" o anche ai grandi discorsi ideologici, religiosi, mitici, non può che andare delusa. Le condizioni della filosofia sono trasversali, sono procedure uniformi, riconoscibili sulla distanza, e il cui rapporto col pensiero è relativamente invariante. Il nome di questa invarianza è chiaro: si tratta della "verità". Le procedure che condizionano la filosofia sono procedure di verità, identificabili come tah e ricorrenti. Non possiamo pivi credere ai racconti attraverso i quali un gruppo umano celebra la propria origine o il proprio destino. Sappiamo che l'Olimpo non è altro che una collina e che il Cielo non è pieno se 33

non di idrogeno o di elio. Ma che la sequenza dei numeri primi sia illimitata si dimostra oggi esattamente come negli Elementi di Euclide, che Fidia sia un grande scultore è fuori dubbio, che la democrazia ateniese sia un'invenzione politica che ancora ci riguarda, e che l'amore designi l'occorrenza di un Due da cui il soggetto è attraversato, possiamo comprenderlo leggendo sia Saffo o Platone che Corneille o Beckett. Tuttavia, tutto ciò non è sempre esistito. Ci sono società prive di matematica, altre la cui "arte" in simbiosi con funzioni sacre obsolete ci è incomprensibile, altre in cui l'amore è assente o indicibile, altre infine in cui il dispotismo non ha mai ceduto il passo all'invenzione politica, e neppure tollerato che fosse pensabile. Tanto meno si può dire che tali procedure siano sempre esistite insieme. Se la Grecia ha visto nascere la filosofia, non è certo stato perché custodiva il Sacro come risorsa mitica della poesia o perché le era familiare il velamento della Presenza sotto forma di un enunciato esoterico sull'Essere. Ben altre civiltà del mondo antico hanno prodotto un accumulo sacrale dell'essere nell'espressione poetica. La singolarità della Grecia risiede piuttosto nell'aver interrotto il racconto delle origini per mezzo di enunciati laicizzati e astratti, nell'aver attenuato il prestigio della poesia a vantaggio di quello del matema, nell'aver concepito la Città come un potere aperto, conflittuale, vuoto, e nell'aver portato sulla scena pubblica le tempeste della passione. La prima configurazione filosofica che si propone di 34

disporre queste procedure, l'insieme di queste procedure, in uno spazio concettuale unico, attestando in tal modo nel pensiero la loro compossibilità, è quella che porta il nome di Platone. "Che nessuno abbia accesso in questo luogo se non è geometra", prescrive il matema come condizione della filosofia. Il doloroso allontanamento dei poeti, banditi dalla città per l'accusa di imitazione - da intendersi: una cattura troppo sensibile dell'Idea - indica al tempo stesso che la poesia è in questione e che occorre faccia i conti con l'ineluttabile interruzione del,racconto. Quanto all'amore, il Simposio o il Fedone ne offrono l'articolazione con la verità in testi insuperabili. L'invenzione politica infine è descritta come tessitura stessa del pensiero: verso la fine del Hbro IX della Repubblica, Platone espressamente indica che la sua Città ideale non è né un programma né una realtà, che sapere se esiste o possa esistere è indifferente e che quindi non si tratta qui di politica, ma della politica come condizione del pensiero, della formulazione intrafilosofica delle ragioni per cui non c'è filosofia senza che la politica abbia lo statuto reale di un'invenzione possibile. Affermeremo dunque che ci sono quattro condizioni della filosofia, che il venir meno di una sola di esse comporta la sua scomparsa, proprio come l'insorgere del loro insieme ha condizionato la sua comparsa. Queste condizioni sono: il matema, la poesia, l'invenzione politica e l'amore. Chiameremo queste condizioni procedure generiche, per ragioni sulle quali tornerò più avanti e che sono al centro di L'essere e l'evento. Que35

ste stesse ragioni stabiliscono che i quattro tipi di procedure generiche specificano e ordinano, a tutt'oggi, tutte le procedure suscettibili di produrre verità (non c'è verità se non scientifica, artistica, pohtica o amorosa). Possiamo quindi dire che la filosofia ha come condizione che ci siano verità in ciascuno degh ordini in cui esse sono attestabili. C'imbattiamo allora in due problemi. In primo luogo, se la filosofia ha come condizioni le procedure di verità, ciò significa che di per sé essa non produce alcuna verità. In effetti, questa è una circostanza ben nota; chi può citare un solo enunciato filosofico di cui abbia senso dire che è "vero"? Ma allora, cos'è esattamente in gioco nella filosofia? In secondo luogo, assumiamo che la filosofia è "una", nel senso che è lecito dire "la" filosofia, riconoscere un testo in quanto filosofico. Quale rapporto intrattiene questa presunta unità con la pluralità delle condizioni? Qual è il nodo tra il quattro (le procedure generiche, matema, poesia, invenzione politica e amore) e l'uno (la filosofia)? Mostrerò che questi due problemi hanno un'unica risposta, contenuta nella definizione della filosofia, qui rappresentata in termini di una veridicità ineffettiva che ha come condizione l'effettività del vero. Le procedure di verità, o procedure generiche, si distinguono dall'accumulo dei saperi in quanto traggono origine dagli eventi. Finché non accade nulla, se non ciò che è conforme alle regole di uno stato di cose, possono certo esserci conoscenza, enunciati corretti, accumulo di sapere; ma non può esserci verità. Una verità ha 36

di paradossale il fatto che è una novità, quindi qualcosa di raro, di eccezionale e che, concernendo l'essere stesso di ciò di cui è verità, è al contempo quanto di più stabile ci sia e di più prossimo, sul piano ontologico, allo stato di cose iniziale. La soluzione di questo paradosso esige un lungo svolgimento, ma ciò che è chiaro è che Vorigine di una verità è dell'ordine dell'evento. Per farla breve, chiamiamo "situazione", uno stato di cose, un molteplice qualunque che si presenta. Perché sia operante una procedura di verità relativa alla situazione, occorre che un evento puro supplementi tale situazione. Questo supplemento non è né nominale né rappresentabile tramite le risorse della situazione (la sua struttura, la lingua istituita che ne nomina i termini, ecc.). Esso è inscritto mediante una nominazione singolare, l'entrata in gioco di un significante in più. E sono gli effetti nella situazione di questa entrata in gioco di un "nome in più" che instaurano una procedura generica e determinano l'evenienza di una verità della situazione. Poiché all'inizio, nella situazione, se nessun evento la supplementa, non c'è alcuna verità. C'è solo quel che io chiamo veridicità. In modo obliquo, di straforo, c'è la possibilità che tra tutti gli enunciati veridici uno divenga una verità, dal momento che un evento ha incontrato il proprio nome sovranumerario. La specifica posta in gioco della filosofia consiste nel proporre uno spazio concettuale unificato in cui prendono posto le nominazioni di eventi che servono da punto di partenza delle procedure di verità. La filosofia cerca di riunire tutti i nomi-in-più. Essa si occupa, nel 37

pensiero, del carattere compossibile delle procedure che la condizionano. Non stabilisce alcuna verità, ma predispone un luogo delle verità. Essa configura le procedure generiche attraverso una ricezione, una sistemazione esercitata sulla loro simultaneità disparata. La filosofia inizia a pensare il proprio tempo trasformando in luogo comune lo stato delle procedure che la condizionano. I suoi operatori, qualunque essi siano, mirano sempre a pensare "insieme", a configurare in un unico esercizio di pensiero, la disposizione epocale del matema, della poesia, dell'invenzione politica e dell'amore (o statuto d'evento del Due). In tal senso, l'unica questione della filosofia è proprio quella della verità, non in rapporto al fatto che non ne produce alcuna, ma in quanto essa propone una modalità di accesso all'unità flagrante delle verità, un sito concettuale in cui si riflettono come compossibili le procedure generiche. Gli operatori filosofici, beninteso, non devono essere intesi in termini di aggregazioni o di totalizzazioni. Il carattere d'evento ed eterogeneo dei quattro tipi di procedura di verità esclude in modo assoluto un loro ordinamento enciclopedico. L'enciclopedia è una dimensione del sapere, non della verità, la quale apre una falla nel sapere. Non è neppure sempre necessario che la filosofia menzioni gli enunciati, o stati locali, delle procedure generiche. I concetti filosofici predispongono uno spazio generale nel quale il pensiero accede al tempo, al proprio tempo, nella misura in cui le procedure di verità di tale tempo vi trovano il luogo adatto alla loro compossibilità. La metafora adeguata non è quindi quella 38

dell'addizione, e neppure della riflessione sistematica. È piuttosto quella di una libertà di circolazione, di un muoversi del pensiero nell'elemento articolato di uno statt) delle proprie condizioni. Nel medium concettuale della filosofia, figure locali tanto intrinsecamente eterogenee quali quelle della poesia, del matema, dell'invenzione politica e dell'amore sono in rapporto, o rapportabili, alla singolarità del tempo. La filosofia formula, non la verità, ma la congiuntura, vale a dire la congiunzione pensabile, delle verità. Dato che la filosofia è un esercizio di pensiero sulla breccia del tempo, una torsione riflessiva su ciò che la condiziona, essa si regge il più delle volte su condizioni precarie, nascenti. S'instaura all'insorgere della nominazione contingente attraverso cui un evento innesca una procedura generica. Quel che condiziona una grande filosofia, ben lungi dai saperi istituzionali e consoHdati, sono le crisi, le rotture e i paradossi della matematica, i sovvertimenti della hngua poetica, le rivoluzioni e le provocazioni della politica creativa, i vacillamenti del rapporto tra i sessi. Anticipando in parte lo spazio di ricezione e sistemazione nel pensiero di tali fragili procedure, considerando compossibiH traiettorie la cui semplice possibilità non è ancora saldamente consolidata, la filosofia aggrava i problemi. Heidegger ha ragione di scrivere che "il compito autentico della filosofia è proprio quello di aggravare, di appesantire l'Esserci", perché "l'aggravamento è una delle condizioni fondamentali e decisive per la nascita di tutto ciò che è grande". Se per il momento lasciamo da parte gli equivoci della 39

"grandezza", converremo nel dire che la filosofia intensifica la possibilità delle verità attraverso il suo concetto del compossibile. Ciò si deve al fatto che la sua funzione "aggravante" consiste nel disporre le procedure generiche non nella dimensione del loro proprio pensiero, ma in quella della loro storicità congiunta. Quanto al sistema delle sue condizioni, di cui essa configura il divenire disparato attraverso la costituzione di uno spazio dei pensieri del tempo, la filosofia serve da punto di passaggio tra l'effettività procedurale delle verità e la libera questione del loro essere temporale.

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Ili Modernità Gli operatori concettuali attraverso i quali la filosofia configura le proprie condizioni riconducono il pensiero del tempo, in generale, al paradigma di una o piii di tali condizioni. Una procedura generica, prossima al luogo d'origine dell'evento, o posta di fronte a delle impasse della sua persistenza, serve da referente principale per il dispiegamento della compossibilità delle condizioni. Così, nel contesto della crisi politica delle città greche e della riformulazione "geometrica" - dopo Eudosso - della teoria delle grandezze, Platone inizia a fare delle matematiche e della poHtica, della teoria delle proporzioni e della Città come imperativo, i referenti assiali di uno spazio di pensiero di cui il termine "dialettica" designa la funzione d'esercizio. In che modo le matematiche e la politica sono ontologicamente compossibili? Questa è la domanda platonica cui l'operatore dell'Idea fornirà la direttrice risolutiva. La poesia è immediatamente considerata con sospetto - ma tale sospetto è una plausibile forma di configurazione - e l'amore, secondo l'espressione stessa di Platone, lega l'"improwiso" di un 41

incontro al fatto che una verità - qui, quella della Bellezza - insorge in quanto indiscernibile, non essendo né discorso (logos) né sapere (episteme). Proporrei di chiamare "periodo" della filosofia una sequenza della sua esistenza in cui persiste un tipo di configurazione specificato da una condizione dominante. Per tutta la durata di tale periodo, gli operatori di compossibilità dipendono da questa specificazione. Un periodo annoda insieme le quattro procedure generiche, nello stato singolare, successivo all'evento, in cui esse si trovano, sotto la giurisdizione dei concetti attraverso i quah una di esse è inscritta nello spazio di pensiero e di circolazione che svolge la funzione filosofica di determinazione del tempo. Nell'esempio platonico, l'Idea è chiaramente un operatore il cui matema è il principio "vero" soggiacente, la politica s'inventa come condizione del pensiero sotto la giurisdizione dell'Idea (di qui il re-filosofo e il considerevole ruolo svolto dall'aritmetica e dalla geometria nell'educazione di tale re o garante), e la poesia imitativa è tenuta a distanza, tanto più che, come mostra Platone sia nel Gorgia che nel Protagora, sussiste una paradossale complicità tra poesia e sofistica: la poesia è la dimensione segreta, esoterica, della sofistica, poiché spinge alle estreme conseguenze la flessibilità, la variabilità della hngua. La domanda allora è per noi la seguente: esiste un periodo moderno della filosofia? L'importanza di questa domanda è legata al fatto che oggi gran parte dei filosofi dichiara, per un verso, che esiste in effetti un tale periodo, e per l'altro, che ci troviamo al suo stadio terminale. È il senso dell'espressione "postmoderno"; tut42

tavia anche in coloro che respingono tale espressione, il tema di una "fine" della modernità filosofica, di un esaurimento degli operatori che le erano propri - in particolare la categoria di Soggetto - è sempre presente, se non altro nell'accezione di una fine della metafisica. Il più delle volte, del resto, tale fine è fatta risalire all'annuncio nietzscheano. Se individuiamo empiricamente i "tempi moderni" nel periodo che va dal Rinascimento a oggi, è certamente difficile parlare di un periodo, nel senso di un'invarianza gerarchica nella configurazione filosofica delle condizioni. È infatti evidente: - che nell'età classica, quella di Cartesio e di Leibniz, la condizione dominante è la matematica, come conseguenza dell'evento galileiano che ha per essenza l'introduzione dell'infinito nel materna; - che a partire da Rousseau e da Hegel, con la scansione della Rivoluzione francese, la compossibilità delle procedure generiche è sotto la giurisdizione della condizione storico-politica; - che tra Nietzsche e Heidegger è l'arte, il cui cuore è la poesia, a far ritorno, attraverso una retroazione antiplatonica, tramite operatori per mezzo dei quah la filosofia indica il nostro tempo come quello dell'obho nichilista. C'è dunque, lungo tutta questa sequenza temporale, uno spostamento dell'ordine, del referente principale a partire dal quale è delineata la compossibilità delle procedure generiche. La tonalità dei concetti è una buona testimonianza di tale spostamento, tra l'ordine delle ra43

gioni cartesiano, il pathos temporale del concetto in Hegel, e la metapoetica metaforica di Heidegger. Tuttavia, questo spostamento non deve occultare l'invarianza, quanto meno sino a Nietzsche, ma portata avanti ed estesa sia da Freud e Lacan sia da Husserl, del tema del Soggetto. Questo tema non conosce una decostruzione radicale se non nell'opera di Heidegger e dei suoi successori. Le riformulazioni cui è stato sottoposto, tanto dalla politica marxista quanto dalla psicoanalisi (che è il trattamento moderno della condizione amorosa), rientrano nella storicità delle condizioni, e non nella rescissione dell'operatore filosofico che verte su tale storicità. È quindi agevole definire il periodo moderno della filosofia attraverso l'impiego organizzatore centrale che vi si fa della categoria di Soggetto. Per quanto questa categoria non prescriva un tipo di configurazione, un regime stabile di compossibilità, essa è sufficiente ai fini della formulazione della domanda: il periodo moderno della filosofia è giunto a termine? Il che ci riporta alla domanda: proporre al nostro tempo uno spazio di compossibilità come pensiero delle verità che vi si producono esige il mantenimento e l'uso, anche profondamente alterato o sovvertito, della categoria di Soggetto? O al contrario il nostro tempo è quello in cui il pensiero esige che questa categoria sia decostruita? A questa domanda, Lacan risponde attraverso un rimaneggiamento radicale di una categoria che viene però jnantenuta (il che significa che per lui il periodo moderno della filosofia continua, e questa è anche la prospettiva di Jambet, di Lardreau, e la mia); Heidegger (ma anche Deleuze 44

con qualche sfumatura, Lyotard, Derrida, Lacoue-Labarthe e Nancy decisamente) risponde che la nostra epoca è quella in cui "la soggettività è spinta verso il suo compimento"; che di conseguenza il pensiero non può a sua volta compiersi se non al di là di tale "compimento", il quale altro non è se non l'oggettivazione distruttrice della Terra; che la categoria di Soggetto deve essere decostruita e considerata come la metamorfosi ultima (moderna, per l'appunto) della metafisica; e che il dispositivo filosofico del pensiero razionale, di cui questa categoria è l'operatore centrale, è ormai ricaduto nell'oblio senza fondo di ciò che lo fonda, poiché "il pensiero non avrà inizio se non quando avremo appreso che quella cosa tanto magnificata attraverso i secoli, la Ragione, è il più temibile nemico del pensiero". Siamo ancora, e a che titolo, galileiani e cartesiani? Ragione e Soggetto sono ancora, o non più, atti a fungere da vettore delle configurazioni della filosofia, anche se il Soggetto è eccentrico o vuoto, e la Ragione è sottomessa alla casualità sovranumeraria dell'evento? La verità è il velato non-velamento di cui soltanto la poesia assume il rischio nella parola? O è ciò attraverso cui la filosofia designa nel suo proprio spazio le procedure generiche disgiunte che intessono l'oscura continuazione dei Tempi moderni? Dobbiamo continuare o passare invece alla meditazione di un'attesa? Oggi la sola questione polemica significativa è questa: decidere se la forma del pensiero del tempo, filosoficamente istruita dagli eventi dell'amore, della poesia, del materna e della politica creativa, resti o meno legata a quella disposizione che ancora Husserl chiamava "meditazione cartesiana". 45

IV Heidegger considerato come luogo comune Che cosa dice lo Heidegger "corrente", quello che informa un'opinione pubblica? Dice questo: 1) La figura moderna della metafisica, quella che si è articolata intorno alla categoria di Soggetto, è nell'epoca del suo compimento. Il senso autentico della categoria di Soggetto si manifesta nel processo universale di oggettivazione, processo il cui nome appropriato è: dominio della tecnica. Il divenire soggetto dell'uomo non è altro che la trascrizione metafisica estrema dell'imporsi di tale dominio: "Il fatto stesso che l'uomo divenga soggetto e il mondo oggetto non è altro che la conseguenza dell'essenza della tecnica nell'atto del suo instaurarsi". Proprio perché è un effetto del dispiegamento planetario della tecnica, la categoria di soggetto è inadatta a rivolgere il pensiero verso l'essenza di questo dispiegamento. Ora, pensare la tecnica come ultima manifestazione storica, e chiusura, dell'epoca metafisica dell'essere, è oggi il solo programma possibile per il pensiero stesso. Il pensiero non può quindi stabilire un suo luogo a partire da quel che ci ingiunge la categoria 46

di Soggetto: tale ingiunzione è indistinguibile da quella della tecnica. 2) Il dominio planetario della tecnica mette fine alla filosofia; in esso i possibili della filosofia, vale a dire della metafisica, sono irreversibilmente esauriti. Il nostro tempo non è più propriamente "moderno", se intendiamo con "moderno" la configurazione postcartesiana della metafisica, che sino a Nietzsche ha presieduto all'espropriazione del Soggetto e della Coscienza secondo i dettami del testo filosofico. Il nostro tempo è quello àeWeffettuazione dell'ultima figura della metafisica, il tempo dell'esaurimento dei suoi possibili, e di conseguenza il tempo dell'espansione in-differente della tecnica, la quale non ha più bisogno di rappresentarsi in una filosofia, poiché sotto il suo dominio la filosofia, o più precisamente quel che la filosofia possedeva e significava della potenza dell'essere, si compie come volontà di devastazione della Terra. 3) Il compimento tecnico della metafisica, le cui due principali "conseguenze necessarie" sono la scienza moderna e lo Stato totahtario, può e deve essere determinato dal pensiero come nichihsmo, vale a dire appunto come effettuazione del non-pensiero. La tecnica porta alle estreme conseguenze il non-pensiero perché non c'è pensiero se non dell'essere, e la tecnica è il destino ultimo del ritrarsi dell'essere nella mera considerazione dell'ente. La tecnica è in effetti un volere, un rapporto con l'essere in cui l'imposizione dell'obUo è essenziale, poiché essa realizza la volontà di asservire l'ente nella sua totalità. La tecnica è volontà di assog47

gettamento ed espropriazione dell'ente in quanto presente, come riserva di disponibilità illimitata per la manipolazione asservitrice. Il solo "concetto" dell'essere che la tecnica conosce è quello di materia prima, offerta senza restrizioni all'imposizione del voler-produrre e del voler-distruggere senza alcun freno. La volontà nei confronti dell'ente, che costituisce l'essenza della tecnica, è nichilista nel senso che tratta l'ente senza riguardo alcuno al pensiero del suo essere, e in un oblio dell'essere tale da obliare questo stesso oblio. Ne risulta che il volere immanente alla tecnica annienta l'essere dell'ente che esso tratta nella sua totalità. La volontà di assoggettamento e di espropriazione coincide con la volontà di annientamento. La distruzione totale della Terra è l'orizzonte necessario della tecnica, non per la ragione particolare per cui esiste questa o quella pratica, per esempio militare o nucleare, che determina un tale rischio, ma perché appartiene all'essenza della tecnica mobilitare l'essere, brutalmente trattato come semplice riserva di disponibilità per il volere, nella forma latente ed essenziale del nulla. Il nostro tempo è quindi nichilista, sia se lo si interroga riguardo al pensiero sia se lo si interroga riguardo al destino dell'essere che esso dispiega. Quanto al pensiero, il nostro tempo se ne esonera attraverso l'occultamento radicale del dischiudersi, del lasciar essere che ne condiziona l'esercizio, e attraverso il dominio incontrastato del volere. Quanto all'essere, il nostro tempo lo vota all'annientamento, o piuttosto: l'essere stesso è nell'atto del suo proporsi come nulla, dal momento che, 48

ritrattosi e sottrattosi, esso si manifesta soltanto nella chiusura della materia prima, nella disponibilità tecnica di un fondo senza fondo. 4) Nell'età moderna (quella in cui l'uomo diviene Soggetto e il mondo Oggetto perché ha inizio il dominio della tecnica), e poi nel nostro tempo, quello della sfrenata tecnica oggettivante, soltanto alcuni poeti hanno proferito l'essere, o quanto meno le condizioni di un rivolgimento del pensiero, al di fuori della prescrizione soggettiva del volere tecnico, verso il dischiudersi e l'Aperto. La parola poetica, ed essa sola, è risuonata come possibile fondazione di un raccoglimento dell'Aperto, contro l'infinita e chiusa disponibilità dell'ente trattato dalla tecnica. Questi poeti sono Hòlderlin, l'insuperabile, e poi Rilke e Trakl. Il dire poetico di questi poeti ha lacerato il tessuto dell'oblio e mantenuto, preservato, non l'essere stesso il cui destino storico si compie nell'indigenza del nostro tempo, ma la domanda sull'essere. I poeti sono stati i pastori, i custodi di questa domanda che il dominio della tecnica rende universalmente impronunciabile. 5) Dato che la filosofia è giunta a compimento, non ci resta che riformulare la domanda custodita dai poeti, e coghere il modo in cui questa domanda è risuonata lungo l'intero corso della storia della filosofia, sin dalle sue origini greche. Il pensiero è oggi possibile a condizione dei poeti. Stando a questa condizione, esso si rivolge verso l'interpretazione delle origini della filosofia, verso i gesti inaugurali della metafisica. Va a cercare le chiavi del proprio destino, le chiavi del proprio compi49

mento effettivo, nt\ primo passo dell'oblio. Questo primo passo dell'oblio è Platone. L'analisi della "svolta" platonica concernente il legame tra essere e verità presiede all'intendimento del destino storico dell'essere, che si compie sotto i nostri occhi nella provocazione all'annientamento. Il cuore di questa "svolta" è l'interpretazione della verità e dell'essere in quanto Idea, vale a dire la rescissione della poesia a vantaggio - mi esprimo qui nel mio linguaggio - del matema. L'interruzione platonica del racconto poetico e metaforico attraverso la paradigmatica ideale del matema è interpretata da Heidegger come orientamento inaugurale del destino dell'essere verso l'oblio del proprio dischiudersi, verso lo spossessamento della sua appropriazione iniziale alla lingua poetica dei greci (conformità, oppure legame con). Possiamo quindi dire che la risahta verso l'origine, che oggi riceve la propria condizione dal dire dei poeti, ritorna al dire dei poeti greci, dei pensatori-poeti pre-platonici che ancora mantenevano la tensione dell'apertura e il dischiudersi velato dell'essere. 6) Il triplice movimento del pensiero è quindi: porre come condizione il dire dei poeti, risalita interpretativa verso la svolta platonica che presiede all'epoca metafisica dell'essere, esegesi dell'origine presocratica del pensiero. Questo triplice movimento consente di enunciare l'ipotesi di un ritorno degli dei, di un evento nel quale il pericolo mortale a cui il volere annientante espone l'uomo - questo funzionario della tecnica - sarebbe superato o scongiurato attraverso una messa al riparo dell'essere, una nuova esposizione al pensiero del 50

suo destino come apertura e dischiudimento, e non come fondo senza fondo della disponibilità dell'ente. Questa supposizione di un ritorno degli dei può essere enunciata dal pensiero istruito dai poeti, ma non può evidentemente essere annunciata. Dire "solo un dio ci può salvare" significa: il pensiero istruito dai poeti, educato dalla conoscenza della svolta platonica, rinnovato dall'interpretazione dei presocratici greci, può sostenere, nel cuore stesso del nichilismo, la possibilità, pur senza un cammino o un mezzo dicibili, di una risacralizzazione della Terra. "Salvare" non va qui inteso nella blanda accezione di un supplemento d'anima. "Salvare" vuol dire: distogliere l'uomo e la Terra dall'annientamento, annientamento che ha il volere come figura tecnica terminale del destino dell'essere. Il dio di cui si tratta è quello del mutamento di un destino. Non si tratta di salvare l'anima ma di salvare l'essere, e di salvarlo da ciò che solo può metterlo in pericolo, e cioè se stesso, nell'implacabile prescrizione terminale della sua storicità. Questa salvezza dell'essere da parte di se stesso impone che si vada sino in fondo all'indigenza, dunque sino in fondo alla tecnica, al fine di rischiare il mutamento, perché dove il pericolo è estremo, cresce anche ciò che salva.

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V Nichilismo? Non siamo disposti ad ammettere che il termine "tecnica", nonostante in esso risuoni il greco té^vri, sia il pili adeguato a definire l'essenza del nostro tempo, né che vi sia una qualche relazione utile al pensiero tra "dominio planetario della tecnica" e "nichilismo". Le meditazioni, valutazioni e diatribe sulla tecnica per quanto diffuse siano, non sono per questo meno ridicole. E occorre dire a voce alta quel che molti raffinati heideggeriani pensano sottovoce: su questo punto i testi di Heidegger non sfuggono a questa enfasi. Il "sentiero nel bosco", lo sguardo limpido del contadino, la devastazione della Terra, il radicamento nel luogo natio, lo schiudersi della rosa, tutto questo pathos, che va da Alfred Vigny ("su questo bufalo di ferro che mugghia ed emette fumo, l'uomo è salito troppo presto") sino ai nostri pubblicisti, passando per Georges Duhamel e Jean Giono, non è intessuto se non di nostalgia reazionaria. Il carattere stereotipo di queste ruminazioni, che discendono da quel che Marx chiamava "socialismo feudale", è del resto la migliore riprova della pochezza del pensiero. 52

Se dovessi dire qualcosa sulla tecnica, il cui rapporto con le esigenze contemporanee della filosofia è alquanto irrilevante, esprimerei piuttosto il mio rammarico per il fatto che essa è ancora così mediocre, così incerta. Tanti strumenti utili presentano carenze, o non esistono se non in versioni pesanti e scomode! Tante grandi avventure segnano il passo o s'invischiano nel "la vita è troppo lenta", vedi l'esplorazione dei pianeti, l'energia per fusione termonucleare, la macchina volante per tutti, le immagini in rilievo nello spazio... Sì, bisogna pur dire: "Signori tecnologi, se volete realmente il dominio planetario della tecnica, ancora uno sforzo!". Una tecnica insufficiente, una tecnica ancora molto rudimentale, questa è la vera situazione: il dominio del capitale imbriglia e semplifica la tecnica, le cui virtualità sono infinite. È d'altronde del tutto fuori luogo presentare la scienza come appartenente, quanto al pensiero, allo stesso registro della tecnica. Certamente tra scienza e tecnica intercorre un rapporto di necessità, ma tale rapporto non implica alcuna essenza comune. Gli enunciati che qualificano la "scienza moderna" come l'effetto, o quanto meno l'effetto principale, del dominio della tecnica sono indifendibili. Se prendiamo in considerazione un grandioso teorema della matematica moderna, per esempio quello, poiché è il mio campo, che dimostra l'indipendenza dell'ipotesi del continuo (Cohen, 1963), vi troviamo una concentrazione di pensiero, una bellezza creativa, una sorpresa del concetto, una rottura coraggiosa, in breve un'estetica intellettuale che po53

tremmo equiparare alle più grandi opere poetiche di questo secolo, alle imprese politico-militari di uno stratega rivoluzionario o alle più intense emozioni dell'incontro amoroso, ma non certamente a un macinacaffè elettrico o a un televisore a colori, per quanto utili e ingegnosi siano tali oggetti. La scienza, in quanto tale, vale a dire colta nella sua procedura di verità, è del resto profondamente inutile, se non per il fatto di affermare il pensiero come tale, in modo incondizionato. Su questo enunciato dei greci (l'inutilità della scienza, se non come esercizio puro e condizione generica del pensiero) non occorre ritornare, neppure col fallace pretesto che la società greca era schiavista. Il dogma dell'utilità interviene sempre a giustificare il fatto che non si vuole realmente Vinutilità per tutti. Per quel che concerne il "nichilismo", siamo disposti ad ammettere che la nostra epoca ne dà testimonianza, nell'esatta misura in cui intendiamo con nichilismo la rottura della figura tradizionale del legame, il venir meno del vincolo come forma d'essere di tutto ciò che si fa passare per legame. È indubitabile che il nostro tempo si regga su di una sorta di atomismo generalizzato, perché nessuna sanzione simbolica del legame è in grado di resistere alla potenza astratta del capitale. Che tutto ciò che è collegato riveli che in quanto essere è slegato, che il dominio del molteplice sia il fondo senza sfondo di ciò che si presenta senza eccezione, che l'Uno non sia che il risultato di operazioni transitorie, tutto questo è l'effetto ineluttabile della collocazione universale dei termini della nostra situazione nel movimento circolatorio dell'equivalente generale monetario. Poiché 54

ciò che si presenta ha sempre una sostanza temporale, e ci viene letteralmente contato il tempo, non esiste nulla che non sia intrinsecamente collegato ad altro, perché sia l'uno sia l'altro termine di questo presunto legame essenziale sono indifferentemente proiettati sulla superficie neutra del contante. Non c'è assolutamente nulla da modificare nella descrizione di questo stato di cose offerta da Marx centoquarant'anni or sono: "La borghesia, dovunque è giunta al potere, ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci. Ha lacerato spietatamente tutti quei variopinti vincoli che nella società feudale legavano l'uomo ai suoi naturali superiori e non ha lasciato valere altro legame tra uomo e uomo all'infuori del nudo interesse, dello spietato 'pagamento in contanti'. Ha annegato nella gelida acqua del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese". Quel che Marx evidenzia in modo particolare è la fine delle figure sacre del legame, la revoca della garanzia simbolica accordata al legame della stagnazione produttiva e monetaria. Il capitale è il solvente generale delle rappresentazioni sacralizzanti che postulano l'esistenza di rapporti intrinseci ed essenziali (tra l'uomo e la natura, tra gli uomini, tra i gruppi e la Città, tra la vita terrena e la vita eterna, ecc.). È del tutto caratteristico il fatto che la denuncia del "nichiUsmo della tecnica" sia sempre correlata alla nostalgia di tali rapporti. La scomparsa del sacro è un tema ricorrente nello stesso Heidegger, e la predizione di un suo ritorno si identifica col 55

tema ripreso da Hòlderiin del "ritorno degli dei". Se intendiamo con "nichilismo" la desacralizzazione, il capitale, il cui dominio planetario è indubbio - tenendo conto che "tecnica" e "capitale" sono associati in una sequenza storica, e non nel concetto - è certamente la sola potenza nichilista di cui gli uomini siano riusciti a essere al tempo stesso gli inventori e le vittime. Tuttavia, per Marx come per noi, la desacralizzazione non è affatto nichilista, se per "nichilismo" si deve intendere quel che decreta l'impossibilità di accedere all'essere e alla verità. Al contrario, la desacralizzazione è una condizione necessaria affinché un tale accesso sia praticabile per il pensiero. È questa evidentemente l'unica cosa che si possa e si debba riconoscere al capitale: esso porta allo scoperto il molteplice puro come fondo della presentazione, denuncia ogni effetto di Uno come semplice configurazione precaria, destituisce le rappresentazioni simboliche in cui il legame trovava una parvenza d'essere. Il fatto che questa destituzione operi nella più completa barbarie non deve occultare la sua virtià propriamente ontologica. A che dobbiamo il fatto di esserci liberati del mito della Presenza, della garanzia che essa accorda alla sostanzialità dei legami e alla perennità dei rapporti essenziali, se non all'automatismo errante del capitale? Per pensare al di là del capitale e della sua mediocre prescrizione (il computo generale del tempo), occorre di nuovo partire da ciò che esso.ha rivelato: l'essere è essenzialmente molteplice, la Presenza sacra è una pura parvenza, e la verità, come ogni altra cosa, se ammettiamo che esiste, non è una rivelazione, e ancor me56

no la prossimità a ciò che si ritrae. È una procedura regolata, il cui risultato è un molteplice supplementare. La nostra epoca non è né tecnica (poiché lo è mediocremente) né nichilista (poiché è la prima epoca in cui la destituzione dei legami sacri rende possibile la genericità del vero). Il suo enigma più proprio, al di là delle speculazioni nostalgiche del socialismo feudale, il cui più compiuto emblema è stato Hitler, risiede in primo luogo nel mantenimento locale del sacro, tentato ma anche sconfessato dai grandi poeti dopo Hòlderlin. E in secondo luogo nelle reazioni antitecniche e arcaicizzanti che affastellano ancora sotto i nostri occhi brandelli di religione (dal supplemento d'anima all'islamismo), politiche messianiche (marxismo compreso), scienze occulte (astrologia, erboristeria, massaggi telepatici, terapie di gruppo a base di toccamenti e borborigmi...) e ogni sorta di pseudolegami, di cui l'amore sciropposo delle canzonette, l'amore senza amore, senza verità né incontro, costituisce la fiacca matrice universale. La filosofia non è affatto compiuta. Ma la tenacia di questi residui dell'impero dell'Uno, che costituiscono, proprio loro, il nichilismo "antinichihsta", in quanto si pongono di traverso alle procedure di verità, e rappresentano l'ostacolo ricorrente frapposto all'ontologia sottrattiva di cui il capitale è il medium storico, ci spinge a ritenere che la filosofia sia stata a lungo sospesa. Proporrei questo paradosso: sino a tempi molto recenti la filosofia non ha saputo affatto pensare all'altezza del capitale, in quanto ha lasciato campo libero, sin nelle sue pieghe più riposte, alle vane nostalgie del Sa57

ero, all'ossessione della Presenza, all'oscuro predominio della poesia, al dubbio sulla propria legittimità. Essa non ha saputo trasformare in pensiero il fatto che l'uomo sia divenuto, irreversibilmente, "signore e padrone della natura", e che non si tratta né di una perdita né di un oblio, ma della sua piti alta destinazione; nondimeno raffigurata, di nuovo, nell'opaca stupidità del tempo contato. La filosofia ha lasciato incompiuta la "meditazione cartesiana", trincerandosi nell'estetizzazione del volere e nel pathos del compimento, del destino dell'oblio, della traccia perduta. Non ha voluto riconoscere senza remore l'assolutezza del molteplice e il non essere del legame. Si è aggrappata alla Hngua, alla letteratura, alla scrittura, come agli ultimi possibili rappresentanti di una determinazione a priori dell'esperienza, o come al luogo preservato di una radura dell'Essere. Ha dichiarato sulla scorta di Nietzsche che quel che aveva avuto inizio con Platone entrava ora nel suo crepuscolo, ma questa arrogante dichiarazione nascondeva l'impotenza nel proseguire quell'inizio. La filosofia non denuncia né incensa il "nichilismo moderno" se non in rapporto alla propria incapacità di cogliere il punto in cui transita la positività attuale, e di intendere che siamo ciecamente entrati in un nuovo stadio della dottrina della verità, ossia quello del "molteplice senza Uno", o delle totalità frammentarie, infinite e indiscernibili. "Nichilismo" è un significante tappabuchi. La vera domanda resta: cos'è accaduto alla filosofia, perché essa respinga rabbrividendo la hbertà è la potenza offertele da un'epoca di desacralizzazione? 58

VI Suture Se la filosofia è, come sostengo, la configurazione nel pensiero della compossibilità delle sue quattro condizioni generiche (poesia, materna, politica, amore) nella forma dell'evento che prescrive le verità del tempo, una sospensione della filosofia può risultare dal fatto che il libero gioco necessario alla definizione di un criterio di passaggio o di circolazione intellettuale tra le procedure di verità che la condizionano, si trova impedito o bloccato. La causa piii frequente di un bloccaggio del genere si ha quando, invece di apprestare uno spazio di compossibilità attraverso cui trovi espressione un pensiero del tempo, la filosofia delega le sue funzioni a una qualsiasi delle sue condizioni, affida cioè la totalità del pensiero a un'unica procedura generica. La filosofia si effettua allora nell'elemento della propria soppressione a tutto vantaggio di tale procedura. Chiamerò sutura questo tipo di situazione. La filosofia è lasciata in sospeso ogni qualvolta viene suturata da una delle sue condizioni, e trova perciò impedita la libera edificazione di uno spazio sui generis in cui le no59

minazioni degli eventi che indicano la novità delle quattro condizioni vengano a inscriversi e ad affermare, in un esercizio di pensiero che non si confonde con alcuna di esse, la loro simultaneità, e quindi un certo stato configurabile delle verità dell'epoca. Il XIX secolo, tra Hegel e Nietzsche, è stato largamente dominato da suture, ed è la ragione per cui in esso la filosofia sembra subire un'eclissi. La principale di tali suture è stata quella positivista o scientista, che ha preteso che fosse la scienza a configurare il sistema compiuto delle verità del tempo. Questa sutura prevale ancora, per quanto il suo prestigio sia diminuito, nella filosofia accademica anglosassone. I suoi effetti piii vistosi vertono naturalmente sullo statuto delle altre condizioni. Nel caso della condizione politica, essa si vede privata di ogni statuto d'evento, ed è ridotta alla difesa pragmatica del regime liberalparlamentare. L'enunciato tanto latente quanto centrale è infatti che la politica non dipende in alcun modo dal pensiero. La condizione poetica è preclusa, ridotta a supplemento culturale, o proposta come oggetto di analisi linguistiche. La condizione amorosa è ignorata: devo a Jean-Luc Nancy la profonda osservazione secondo cui l'essenza degh Stati Uniti è di essere un paese in cui il sentimentalismo e il sesso coesistono a scapito dell'amore. La sutura della filosofia da parte della condizione scientifica la riduce progressivamente a non essere altro che razionalizzazione analitica, di cui il linguaggio, in tutti i sensi del termine, fa le spese. Si lascia così libero corso a una religiosità diffusa, che serve da cotone idrofilo per le ferite e i lividi della brutaUtà capitalista. 60

Nella sua forma dominante canonica, anche il marxismo ha proposto una sutura, quella della filosofia da parte della sua condizione politica. È questo l'equivoco prodotto dalla celebre tesi su Feuerbach che pretende di sostituire "l'interpretazione" del mondo con la sua trasformazione rivoluzionaria. La politica è qui filosoficamente posta come la sola cosa atta a configurare praticamente il sistema generale del senso, mentre la filosofia è votata a reaUzzarsi nella propria soppressione. Il fatto che la politica, del resto largamente identificata da Marx col movimento reale della Storia, sia la forma ultima di totalizzazione dell'esperienza, destituisce simultaneamente sia le altre condizioni, sia la filosofia che pretendeva di inscriverne la compossibilità con la politica. Conosciamo gli abbagli che hanno preso Marx e i marxisti riguardo a tutto quel che concerne l'attività artistica, di cui non giunsero mai né a pensare la particolarità né a rispettare il rigore creativo. Quanto agli effetti di verità della differenza dei sessi, essi subirono in fin dei conti il duplice occultamento del puritanesimo "socialista" e del disprezzo in cui venne tenuta la psicoanalisi (che, a mio avviso, è l'unico vero tentativo moderno di fare dell'amore un concetto). Per quel che concerne la condizione scientifica, la questione è più complessa. Marx e i suoi successori, tributari quanto a questo della sutura positivista dominante, hanno sempre preteso di innalzare la politica rivoluzionaria al rango di una scienza. Hanno mantenuto l'equivoco tra "scienza della Storia" - il materiaUsmo storico - e movimento della Storia diretto dall'azione 61

politica. Hanno contrapposto, sin dall'inizio, il loro socialismo "scientifico" ai vari socialismi "utopistici". Possiamo quindi affermare che il marxismo ha incrociato due suture, da parte della politica e da parte della scienza. È del resto il complesso incrocio di questa duplice suturazione che Stalin chiama "filosofia" - o materialismo dialettico. Ne risulta che la cosiddetta "filosofia" si presenta sotto la strana forma di "leggi", le "leggi della dialettica", equivocamente applicabili sia alla Natura che alla Storia. Ma, in ultima analisi, dato che nella visione "materialista" la scienza è ricondotta alle sue condizioni tecnico-storiche, la duplice sutura è articolata sotto il predominio della politica, la quale soltanto può totalizzare anche la scienza, come si ebbe modo di vedere quando lo stesso Stalin prese a legiferare sulla genetica, sulla linguistica o sulla fisica relativistica, in nome del proletariato e del suo Partito. Questa situazione creò una paralisi filosofica tanto ingarbugliata che, quando Louis Althusser diede avvio, negli anni Sessanta, a una rimessa in gioco del pensiero marxista, non vide altra via d'uscita se non quella di invertire l'articolazione delle due suture a vantaggio della scienza, e di trasformare il marxismo filosofico in qualcosa come l'epistemologia del materialismo storico. In nessun luogo la pregnanza delle suture nella filosofia di quel periodo è tanto visibile quanto nello sforzo eroico col quale Althusser prese a trasferire il marxismo sul versante della sutura della filosofia da parte della scienza, nella giusta consapevolezza che il predominio della sua sutura da parte della con62

dizione politica era ancora più nocivo. Il prezzo da pagare per questa operazione di trasferimento fu quello di mantenere la delega della politica a un organismo tanto sospetto e scalcinato quanto il PCF, il che impediva di nuovo al pensiero di rendersene conto. La ripresa filosofica, dopo qualche successo Iniziale, subì l'impatto degli eventi del maggio '68, le cui conseguenze nel pensiero eccedevano da ogni parte le risorse della condizione scientifica e mettevano crudelmente in evidenza lo scadimento storico del PCF. La tesi che avanzo è in definitiva la seguente: se la filosofia è ferma al palo della sua sospensione, forse a partire da Hegel, ciò dipende dal fatto che è prigioniera di una rete di suture da parte delle sue condizioni, soprattutto da parte di quella scientifica e di quella pohtica, che le impediscono di configurare la loro compossibihtà generale. È vero quindi che qualcosa del tempo, del nostro tempo, le è sfuggito, e che essa ha dato di se stessa un'immagine debole e riduttiva. Un segnale infallibile dal quale si riconosce che la filosofia è sotto l'effetto invalidante di qualche sutura da parte di una delle sue condizioni generiche è la monotona ripetizione dell'enunciato secondo cui la "forma sistematica" della filosofia è ormai impossibile. Questo assioma antisistematico è al giorno d'oggi sistematico. Ho richiamato all'inizio di questo libro la forma datagli da Lyotard ma, a eccezione certamente di Lardreau e Jambet, esso è comune a tutti i filosofi francesi contemporanei, e in particolare a tutti coloro che si richiamano a quella singolare costellazione tipica in cui tro63

viamo i sofisti greci, Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein. Se intendiamo con "sistema" una figura enciclopedica, dotata di una chiave di voka o regolata da un qualche significante supremo, ammetto senz'altro che la desacralizzazione moderna ne vieta la praticabilità. Del resto la filosofia, a parte Aristotele e Hegel, ha mai avuto una simile ambizione? Se, com'è giusto che sia, intendiamo con "sistematicità" il requisito di una configurazione completa delle quattro condizioni generiche della filosofia (cosa che, ancora una volta, non esige affatto che i risultati di tali condizioni siano esibiti o anche solo menzionati), in base a un'esposizione che espone anche la propria regola d'esposizione, allora la sistematica appartiene all'essenza della filosofia, e nessun filosofo ne ha mai dubitato, da Platone a Hegel. Questa è del resto la ragione per cui il rifiuto della "sistematicità" va oggi di pari passo con il funereo sentimento, di cui ho già parlato all'inizio, di una "impossibilità" della filosofia stessa. È la confessione che essa non è affatto impossibile, ma impedita dall'intreccio storico delle suture. Non posso consentire con la definizione di Lyotard della filosofia: un discorso alla ricerca delle proprie regole. Vi sono almeno due regole universali, in mancanza delle quah non c'è più ragione alcuna di parlare di filosofia. La prima è che essa deve poter disporre delle nominazioni degli eventi delle sue condizioni, e quindi rendere possibile il pensiero simultaneo, concettualmente unificato, del materna, della poesia, dell'inven64

zione politica e del Due dell'amore. La seconda è che il paradigma storico o logico che presiede allo spazio di pensiero in cui le procedure generiche trovano ricezione e sistemazione, dev'essere esibito all'interno di queste stesse ricezione e sistemazione. E un altro modo per dire che la filosofia è de-suturata soltanto quando è, autonomamente, sistematica. Se al contrario la filosofia dichiara rimpossibilità del sistema, è perché è suturata, perché affida il pensiero a una sola delle sue condizioni. Se, nel XIX secolo e oltre, nella filosofia è invalsa la duplice sutura da parte delle proprie condizioni politica e scientifica, si comprende benissimo come, in particolare dopo Nietzsche, sia prevalsa in essa la tentazione di consegnarsi alla suturazione da parte di un'altra condizione. L'arte se ne è assunta il compito. Quel che ha in Heidegger il suo culmine è lo sforzo, antipositivista e antimarxista, di ricondurre la filosofia alla poesia. Quando Heidegger designa come effetti cruciali della tecnica, da un lato la scienza moderna, dall'altro lo Stato totalitario, egli indica in realtà le due suture dominanti dalle quali il pensiero non si salverà se non sbarazzandosene. La via che egH propone non è quella della filosofia, ai suoi occhi realizzata nella tecnica, bensì quella, presentita da Nietzsche, nonché da Bergson, percorsa poi in Germania attraverso il culto filosofico dei poeti, e in Francia attraverso il feticismo della letteratura (Blanchot, Derrida, e anche Deleuze), che delega la vita del pensiero alla condizione artistica. Asservita a Ovest dalla scienza, a Est dalla pohtica, la filosofia ha tentato in Europa occidentale di servire almeno l'altro 65

Padrone, la poesia. La situazione attuale della filosofia è: Arlecchino servitore di tre padroni. Possiamo anche aggiungere che un Lévinas, sotto le specie della proposta duale sull'Altro e il suo volto, sulla Donna, adombra la possibihtà che la filosofia possa nondimeno diventare il lacchè della sua quarta condizione, l'amore. Quanto a me, sostengo che è oggi possibile, quindi necessario, rompere tutti questi contratti. Il gesto che propongo è puramente e semplicemente quello della filosofia, quello della de-suturazione. Ma la posta in gioco principale, la difficoltà suprema, è quella di de-suturare la filosofia dalla sua condizione poetica. Positivismo e marxismo dogmatico sono ormai solo posizioni sclerotizzate. Sono suture puramente istituzionaH o accademiche. Invece, quel che ha conferito potenza alla sutura poetizzante, quindi a Heidegger, è ben lungi dall'essere in crisi, dato che non è stato neppure preso in esame. Che cosa furono e che cosa pensarono i poeti, nel tempo in cui la filosofia perdeva il proprio spazio, suturata com'era da parte del matema o della politica rivoluzionaria?

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VII L'età dei poeti Nel periodo che si apre, grosso modo subito dopo Hegel, periodo in cui la filosofia è per lo più suturata sia dalla condizione scientifica che da quella politica, la poesia ha assunto alcune funzioni della filosofia. Tutti concordano nel sostenere che si tratta di un periodo eccezionale per questa forma d'arte. Tuttavia, la poesia e i poeti di cui parliamo non sono né tutta la poesia né tutti i poeti. Si tratta di coloro la cui opera è immediatamente riconoscibile come opera di pensiero, e per i quali la poesia è, nel momento stesso in cui la filosofia viene meno, il luogo della lingua in cui trova espressione una tesi sull'essere e sul tempo. Questi poeti non hanno deciso di sostituirsi ai filosofi, non hanno scritto con piena coscienza di una tale sostituzione. Occorre piuttosto immaginare che agisse su di loro una sorta di pressione intellettuale indotta dall'assenza di un libero gioco nella filosofia, dal bisogno di costituire, dall'interno della loro arte, quello spazio generale di ricezione del pensiero e delle procedure generiche che la filosofia, suturata, non riusciva piìj a stabilire. Se la poesia è stata 67

designata a questo compito è perché, da un lato, quanto meno sino a Nietzsche e Heidegger, essa non figurava in modo privilegiato tra le condizioni dalle quali la filosofia era suturata; dall'altro, perché è antica vocazione della poesia - arte e legame tra la parola e l'esperienza - avere, come proprio orizzonte chimerico, un ideale della Presenza fondato unicamente sulla parola. La rivalità tra il poeta e il filosofo è una vecchia storia, come risulta evidente dall'esame particolarmente severo cui Platone sottopone la poesia e i poeti. La rivincita su Platone, di cui Nietzsche è stato il profeta, non ha potuto trovare il suo territorio se non nella giurisdizione della poesia. Cartesio, Leibniz, Kant o Hegel potevano certo essere matematici, storici, fisici ma, se una cosa non erano, era l'essere poeti. Ma, a partire da Nietzsche, tutti aspirano a esserlo, tutti invidiano i poeti, tutti sono poeti mancati, approssimativi o notori, come si vede con Heidegger, ma anche con Derrida e Lacoue-Labarthe; perfino Jambet o Lardreau esaltano l'ineluttabile inclinazione poetica dei rapimenti metafisici dell'Oriente. Il fatto è che c'è stata realmente un'età dei poeti, nel tempo dell'indigenza suturata dei filosofi. C'è stato un tempo, tra Hòlderlin e Paul Celan, in cui il senso incerto di ciò che era quel tempo, la piii aperta via d'accesso alla questione dell'essere, lo spazio di compossibilità meno catturato da suture brutali, la formulazione più consapevole dell'esperienza dell'uomo moderno sono stati messi in luce ed espressi dalla poesia. Un tempo in cui l'enigma del tempo era racchiuso nell'enigma della 68

metafora poetica, in cui lo stesso scioglimento del legame si è legato nel "come" dell'immagine. Tutta un'epoca si è rappresentata in filosofie spicciole come un'epoca consistente e soprattutto orientata. C'era il progresso, il senso della Storia, la fondazione millenaria, l'avvento di un altro mondo e di altri uomini. Ma la realtà di quest'epoca era, al contrario, l'inconsistenza e il disorientamento. La poesia, quanto meno la poesia "metafisica", la poesia più concentrata, quella intellettualmente più tesa e anche più oscura, è stata la sola a indicare e articolare questo essenziale disorientamento. La poesia ha tracciato nelle rappresentazioni orientate della Storia una diagonale disorientante. La luminosa concisione di queste opere poetiche ha introdotto una cesura - per riprendere un concetto di Lacoue-Labarthe, desunto da Hòlderlin - nel pathos storico. I rappresentanti canonici dell'età dei poeti, a partire da,l momento in cui la filosofia tenta di essere suturata dalla condizione poetica, sono oggetto di una elezione filosofica. Michel Deguy giunge a dire - è vero che è un poeta - "La filosofia, per preparare alla poesia". In ogni caso per preparare l'elenco dei poeti cui la filosofia riconosce che hanno fatto proprie, e lungamente, le sue ordinarie funzioni. Per quel che mi concerne (ma io sostengo che l'età dei poeti sia compiuta, ed è dal punto di vista di tale compimento che enuncio il mio elenco, elenco quindi già chiuso), riconosco sette poeti cruciaU, non nel senso che essi siano necessariamente i "poeti migliori", assegnazione di un primato fuori luogo, ma nel senso che 69

costoro hanno periodizzato, scandito, l'età dei poeti. Si tratta di Hòlderlin, il loro profeta, la loro vedetta anticipante, poi, tutti posteriori alla Comune di Parigi, che segnò l'apertura del disorientamento rappresentato come senso orientato, Mallarmé, Rimbaud, Trakl, Pessoa, Mandelstam e Celan. Non è il caso di studiare qui il groviglio storico, i rivolgimenti, le poesie fondatrici, le operazioni singolari (come il Libro di Mallarmé, il dérèglement di Rimbaud, gli eteronimi di Pessoa...) che sono altrettante operazioni concettuali, il cui insieme inclassificabile caratterizza l'età dei poeti come età del pensiero. Faremo tuttavia qualche breve osservazione. 1) La linea fondamentale seguita dai nostri poeti, e che gli consente di sottrarsi agli effetti delle suture filosofiche, è quella della destituzione della categoria di oggetto. Piià precisamente: la destituzione della categoria di oggetto e dell'oggettività come forme necessarie della presentazione. Il tentativo dei poeti dell'età dei poeti è di aprire un accesso all'essere, là dove l'essere non può sostenersi sulla categoria presentativa dell'oggetto. La poesia è dunque essenzialmente deoggettivante. Questo non significa affatto che il senso sia affidato al soggetto o al soggettivo. È proprio il contrario, perché ciò di cui la poesia ha una coscienza penetrante è appunto il legame determinato dalle suture tra "oggetto", o oggettività, e "soggetto". Questo legame è costitutivo del sapere o della conoscenza. Ma l'accesso all'essere tentato dalla poesia non è dell'ordine della conoscenza. Esso attraversa quindi diagonalmente l'opposizione sogget70

to/oggetto. Quando Rimbaud ricopre di sarcasmo la "poesia soggettiva", o quando Mallarmé stabilisce che il poema non ha luogo se non a condizione che l'autore in quanto soggetto ne sia assente, intendono che la verità della poesia si dà nella misura in cui quel che essa enuncia non discende né dall'oggettività né dalla soggettività. Per tutti i poeti dell'età dei poeti, infatti, se la consistenza dell'esperienza è legata all'oggettività, così come richiedono le filosofie suturate richiamandosi a Kant, allora occorre sostenere audacemente che l'essere è inconsistente, cosa che Celan riassume mirabilmente: Alle inconsistenze aderire. La poesia, che cerca la traccia o la soglia della Presenza, nega che sia possibile mantenersi su tale soglia conservando il tema dell'oggettività. Di conseguenza non può neanche essere un soggetto - correlato necessario dell'oggetto - a costituire il supporto di una tale esperienza. Se la poesia ha colto nell'oscurità la tenebra del tempo, ciò è avvenuto perché ha destituito, nonostante la diversità o addirittura la dimensione inconcihabile delle sue procedure, il quadro "oggettivante" soggetto/oggetto in cui, nell'elemento delle suture, sul piano filosofico si affermava che tale tempo era orientato. Il disorientamento poetico è anzitutto, secondo la legge di una verità che interrompe e oblitera qualunque conoscenza, l'esistenza di un'esperienza sottratta simultaneamente all'oggettività e alla soggettività. 71

2) Quel che ha dato potenza al pensiero di Heidegger è stato il fatto di aver coniugato la critica propriamente filosofica dell'oggettività con la sua destituzione poetica. Il colpo di genio - tenuto conto che non è altro che una modalità di suturazione, questa volta da parte della condizione poetica - è stato: - cogliere, in particolare attraverso l'analisi di Kant, che quel che separava l'"ontologia fondamentale" dalla dottrina della conoscenza era il mantenimento, nella seconda, della categoria di oggetto, filo conduttore e limite assoluto della critica kantiana; - non ricadere tuttavia nel soggettivismo o in una filosofia radicale della coscienza, via seguita in definitiva da Husserl, ma avviare invece la decostruzione del tema del soggetto, considerato come l'ultima manifestazione della metafisica e come correlato necessario dell'oggettività; - mantenere perciò fermamente la distinzione capitale tra sapere e verità o tra conoscenza e pensiero, distinzione che è il fondamento latente dell'impresa poetica; - giungere così al punto in cui è possibile affidare la filosofia alla poesia. Questa sutura appariva una garanzia di forza, perché è vero che c'è stata un'età dei poeti. L'esistenza dei poeti ha fornito al pensiero di Heidegger, altrimenti aporetico e disperato, il solido terreno di storicità, di effettività, atta a conferirgli - dato che il miraggio di una storicità politica si era prima concretizzato e poi dissolto nell'orrore nazista - quella che doveva essere la sua unica occorrenza reale. 72

Sino a oggi, il pensiero di Heidegger detiene un suo potere di persuasione per il fatto d i essere stato il solo a cogliere quel che era in gioco nella poesia, ossia la destituzione del feticismo dell'oggetto, l'opposizione tra verità e sapere, e infine il disorientamento essenziale della nostra epoca. È la ragione per cui non può esistere critica fondamentale di Heidegger se non questa: l'età dei poeti è compiuta, è necessario desuturare la filosofia anche dalla sua condizione poetica. Il che significa: la deoggettivazione, il disorientamento oggi non sono più tenuti a enunciarsi nella metafora poetica. Il disorientamento è concettualizzabile. 3) C'è tuttavia, nel bilancio heideggeriano dell'età dei poeti, un punto di falsificazione: Heidegger si comporta come se il dire poetico identificasse destituzione dell'oggettività e destituzione della scienza. Deducendo l'Aperto dal seno stesso dell'indigenza tecnica, la poesia farebbe apparire, esporrebbe la "scienza moderna" nella categoria dell'oggettivazione del mondo e del soggetto come volontà di annientamemo. Heidegger "monta" l'antinomia tra matema e poesia in modo da farla coincidere con Vopposizione tra sapere e verità o tra la coppia soggetto/oggetto e l'Essere. Questo montaggio non è però leggibile nella poesia dell'età dei poeti. Il rapporto autentico tra poeti e matematici è di tutt'altro ordine. Ha l'apparenza di un rapporto di rivalità in torsione, di comunità eterogenea allo stesso punto. La volontà "algebrica" della poesia di Mallarmé è flagrante, e quando egli scrive "voi matematici agonizzaste", 73

intende solo sottolineare che proprio là dove si attua la cospirazione tra il caso e l'infinito, la poesia prende il posto del materna. Quando Rimbaud osserva - frase particolarmente profonda sull'essenza letterale della scienza - "Se dei semplici si mettessero a pensare alla prima lettera dell'alfabeto, questo potrebbe farli piombare nella follia!", egli inscrive al tempo stesso la passione del materna dalla parte dei dérèglements salvatori, perché cos'è in fondo la matematica, se non la decisione ài pensare alle lettere? Lautréamont, degno erede di Platone, di Spinoza e di Kant, ritiene che le matematiche lo abbiano salvato, e lo abbiano salvato proprio nel punto preciso della destituzione della coppia soggetto/oggetto o Uomo/mondo: "Oh matematiche severe, io non vi ho dimenticato, da quando le vostre dotte lezioni, più dolci del miele, filtrarono nel mio cuore, come un'onda rinfrescante. [...] Senza di voi, nella mia lotta contro l'uomo, forse sarei stato vinto". E quando Pessoa scrive: "Il binomio di Newton è bello quanto la Venere di Milo. Il fatto è che ben poche persone sono in grado di accorgersene", ci induce a pensare che, anziché opporre la verità della poesia al nichiHsmo latente del matema, l'imperativo sia quello di fare in modo che ad accorgersi finalmente di questa identità di bellezza non siano piii "poche persone", ma tutti. La poesia, più profonda in questo del suo servile filosofo, ha avuto piena coscienza di una condivisione di pensiero con le matematiche, perché ha oscuramente percepito che anche il matema, nella sua pura datità let74

terale, nella sua sutura vuota nei riguardi di ogni presentazione molteplice, poneva in questione e destituiva il prevalere dell'oggettività. I poeti sapevano, in verità meglio degli stessi matematici, che non esisteva un oggetto matematico. Ogni sutura è un'esagerazione, perché, come ho ripetuto con Heidegger, la filosofia aggrava i problemi. Suturata da una delle sue condizioni, essa le attribuisce delle virtù che, all'interno dell'esercizio di tale condizione, sarebbero impensabili. Isolando la poesia come figura unica del pensiero e del rischio, come istanza destinale dell'indigenza e della salvezza, arrivando persino ad auspicare, sulla scorta di René Char, un "potere dei poeti e dei pensatori", Heidegger ha ecceduto la giurisdizione poetica che, salvo quando "si atteggia" come purtroppo accade ben piìi frequentemente nel caso di Char, non legifera su una tale unicità, e tratta il matema - ma anche la politica e l'amore - in tutt'altro modo. Riguardo alla poesia, non ha fatto niente di diverso da quelli - tra cui anch'io - che hanno assolutizzato filosoficamente la politica dall'interno della sutura marxista, ben al di là di quanto la politica reale fosse in grado di enunciare su se stessa. Niente di diverso neppure da quelle promesse mirabolanti che i filosofi positivisti ricavarono da una scienza che non poteva farne, e alla quale la promessa, qualunque essa sia, è del tutto estranea. 4) L'operazione centrale a partire dalla quale si può recepire e pensare un poeta dell'età dei poeti è il suo "metodo" di deoggettivazione, quindi la procedura, per 75

lo più molto complessa, che mette in atto per produrre verità a scapito del sapere, per enunciare il disorientamento nel movimento metaforico di una destituzione della coppia soggetto/oggetto. Sono queste procedure che differenziano i poeti e periodizzano l'età dei poeti. Esse assumono principalmente due forme: quella della mancanza e quella dell'eccesso. L'oggetto è sia sottratto, confiscato alla Presenza attraverso la propria autodissoluzione (è il metodo di Mallarmé), sia distolto dal suo campo d'apparizione, disgregato dalla sua eccezione solitaria, e in tal modo reso sostituibile da parte di ogni altro (è il metodo di Rimbaud). La poesia regola la mancanza o sregola la presentazione. Nel contempo, il soggetto è abohto sia per esonero (Mallarmé), sia per pluralizzazione effettiva (Pessoa, Rimbaud: "Di fronte a diversi uomini, parlavo a voce alta con un momento di una delle loro altre vite. Così, ho amato un porco"). Niente meglio dell'inventario di queste procedure indica sino a che punto queste poesie sono prossime, in effetti ne assolvono provvisoriamente la funzione, alla "costruzione" di spazio di pensiero che definisce la filosofia. 5) L'opera di Paul Celan enuncia, al limite ultimo e dall'interno della poesia, la fine dell'età dei poeti. Celan porta a compimento Hòlderlin.

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vili

Eventi Che sia oggi possibile, dunque necessario, desuturare la filosofia e proclamarne la rinascita; che dopo la lunga sospensione provocata dai successivi e disastrosi privilegi accordati alla condizione scientifica (positivismi), alla condizione politica (marxismi) e alla condizione poetica (da Nietzsche sino a oggi), l'imperativo ridivenga quello di configurare le quattro condizioni a partire da una dottrina interamente rifondata della verità; che rompendo con i ripetuti annunci di una "fine della filosofia", "fine della metafisica", "crisi della ragione", "decostruzione del soggetto", il compito sia quello di riprendere il filo della ragione moderna, di fare un altro passo nella linea della "meditazione cartesiana": tutto ciò non sarebbe che un volontarismo arbitrario se ciò che ne fonda il senso non si trovasse ad avere lo statuto di eventi cruciali verificatisi, per quanto dotati di nominazioni ancora sospese o precarie, nell'ambito di ciascuna delle quattro condizioni. Sono questi eventi del matema, della poesia, del pensiero dell'amore e della politica creativa che ci prescrivono un ritorno alla filosofia, al fine di 77

approntare un luogo intellettuale di ricezione e sistemazione per ciò che, di tali eventi, è sin d'ora nominabile. Nell'ordine del materna, il tragitto che conduce da Cantor a Paul Cohen costituisce tale evento. Esso fonda il paradosso centrale della teoria del molteplice e l'articola per la prima volta in modo integralmente dimostrativo in un concetto discernibile di quel che è una molteplicità indiscernibile. Esso risolve, in una direzione opposta a quella proposta da Leibniz, il problema di sapere se un pensiero razionale dell'essere in quanto essere sia sottoposto o meno alla sovranità della lingua. Noi sappiamo oggi che si tratta di un falso problema e che, invece, solo tenendo conto dell'esistenza delle molteplicità qualunque, innominabili, "generiche", molteplicità che non delimitano alcuna proprietà della lingua, abbiamo una possibilità di attingere alla verità dell'essere di un molteplice dato. Se la verità dà luogo a una falla nel sapere, se non c'è quindi sapere della verità, ma soltanto produzione di verità, ciò avviene perché, pensata matematicamente nel suo essere - dunque come molteplicità pura - una verità è generica, sottratta a ogni esatta determinazione, in eccedenza rispetto a ciò che quest'ultima consente di discernere. Il prezzo da pagare per questa certezza è che la quantità di un molteplice regge un'indeterminazione, una sorta di faglia disgiuntiva, che costituisce tutto il reale dell'essere stesso: è propriamente impossibile pensare il rapporto quantitativo tra il "numero" degli elementi di un molteplice infinito e il numero delle sue parti. Questo rapporto ha soltanto la forma di un eccesso errante-, sappiamo che le parti sono più 78

numerose degli elementi (teorema di Cantor), ma non è possibile stabilire alcuna misura di questo "pivi". È del resto in questo punto reale - l'eccesso errante nel quantitativo infinito - che si instaurano i grandi orientamenti nel pensiero. Il pensiero nominalista respinge questo risultato, e non ammette l'esistenza se non delle molteplicità nominabili. Esso è anteriore all'evento del matema di cui parlo, ed è quindi un pensiero conservatore. Il pensiero trascendente crede che la determinazione di un punto molteplice situato al di là delle misure ordinarie sarà in grado di regolare, di fissare "dall'alto" l'erranza dell'eccesso. È un pensiero che tollera l'indiscernibile, ma come effetto transitorio di un'ignoranza relativa a un qualche molteplice "supremo". Esso quindi non convalida l'eccesso e l'erranza come leggi dell'essere, ma spera in una lingua completa, ammettendo al tempo stesso che ancora non ne disponiamo. È un pensiero profetico. Infine il pensiero generico assume l'indiscernibile come modalità d'essere di ogni verità, e considera l'erranza dell'eccesso il reale dell'essere, l'essere dell'essere. Poiché ne risulta che ogni verità è una produzione infinita sospesa a un evento, irriducibile ai saperi stabiliti e determinata soltanto daìVattività dei fedeli di tale evento, possiamo dire che il pensiero generico è, nel senso più ampio, un pensiero militante. Se dobbiamo assumere qui il rischio di un nome per l'evento del materna di cui siamo i filosofi contemporanei, converrà dire che questo evento è quello della molteplicità indiscernibile o generica, come "essere in verità" del molteplice puro (quindi: come verità dell'essere in quanto essere). 79

Nell'ordine dell'amore, del pensiero di ciò di cui esso è portatore in fatto di verità, l'evento è l'opera di Jacques Lacan. Non è il caso di sollevare qui il problema supplementare dello statuto della psicanalisi, problema formulato in altre sedi, in riferimento alla sutura positivista, sotto forma della domanda "la psicanalisi è una scienza?", e che io riformulerei piuttosto così: "La psicanalisi è una procedura generica? Fa parte delle condizioni della filosofia?". Osserviamo soltanto che, poiché da Platone sino a Freud e Lacan la filosofia non ha conosciuto se non quattro procedure generiche, sarebbe un fatto notevole, e giustificherebbe un po' la frequente arroganza dei seguaci della psicanalisi, che questa imponesse al filosofo di prenderne in considerazione una quinta. Si tratterebbe infatti di una rivoluzione nel pensiero, un'epoca del tutto nuova delle attività di configurazione della filosofia. Ma se riteniamo che la psicanalisi sia solo un dispositivo d'opinione sovrapposto a pratiche istituzionali, ne risulterebbe semplicemente che Freud e Lacan sono in realtà dei filosofi, dei grandi pensatori che, a. proposito di questo dispositivo d'opinione, hanno contribuito alla concettualizzazione dello spazio generale in cui le procedure generiche del tempo giungono a trovare la ricezione e la sistemazione della loro compossibilità. Essi avrebbero avuto in hnea ipotetica l'immenso merito di mantenere e riabilitare la categoria di soggetto, in un tempo in cui la filosofia, variamente suturata, abdicava su questo punto. Avrebbero, a modo loro, proseguito la "meditazione cartesiana", e non è affatto un caso che Lacan abbia lanciato, sin dall'inizio 80

della sua opera essenziale, la parola d'ordine di un "ritorno a Cartesio". Può anche darsi che non abbiano potuto farlo se non ricusando lo statuto di filosofi, magari dichiarando, come Lacan, di fare dell'antifilosofia. La situazione di pensiero di Freud e Lacan è stata probabilmente Vaccompagnare, come un suo rovescio, l'operazione deoggettivante dell'età dei poeti. Può apparire singolare fare di Lacan un teorico dell'amore, e non del soggetto o del desiderio. Ma qui prendo in esame il suo pensiero dal ristretto punto di vista delle condizioni della filosofia. È del tutto possibile (ma la quantità e complessità dei testi che gli dedica è di per sé un sintomo) che l'amore non sia un concetto centrale dell'opera esplicita di Lacan. È tuttavia proprio sul piano delle innovazioni di pensiero che vertono su di esso che la sua impresa costituisce un evento e una condizione per la rinascita della filosofia. Non conosco del resto alcuna teoria dell'amore tanto profonda quanto la sua dopo quella di Platone, il Platone del Simposio col quale Lacan dialoga incessantemente. Quando Lacan scrive: "L'essere come tale è l'amore in cui ci si imbatte nell'incontro", la funzione propriamente ontologica che assegna all'amore mostra bene quale incidenza egU sia consapevole di operare su questo punto nelle configurazioni della filosofia. Il fatto è che l'amore è ciò a partire da cui si pensa il Due, prescindendo dal dominio dell'Uno, di cui tuttavia persiste l'immagine. Sappiamo che Lacan formula una sorta di deduzione logica del Due dei sessi, della "parte" donna e della "parte" uomo di un soggetto, 81

partizione che combina la negazione e i quantificatori universale ed esistenziale - per definire la donna come "non tutta", e il polo maschile come vettore del Tutto così desunto. L'amore è l'effettività di questo Due paradossale, che di per sé è nell'elemento del non rapporto, dell'irrelato. È l'"awio" del Due come tale. Scaturito nell'evento di un incontro (quell'"improwiso" su cui già Platone insiste con forza), l'amore tesse l'esperienza infinita o inesauribile di quel che di questo Due costituisce già un eccesso irrimediabile rispetto alla legge dell'Uno. Dirò nel mio linguaggio che l'amore fa avvenire come moltephcità senza nome o generica, una verità sulla differenza tra i sessi, verità evidentemente sottratta al sapere, specialmente al sapere di quelli che si amano. L'amore è la produzione, in piena fedeltà all'evento-incontro, di una verità sul Due. Lacan costituisce un evento per la filosofia perché elabora ogni sorta di sottigliezza sul Due, sull'immagine dell'Uno nell'irrelato del Due, e vi riconnette i paradossi generici dell'amore. Inoltre, forte della sua esperienza, sa anche enunciare, in riferimento e in confronto per esempio all'amor cortese, lo stato contemporaneo della questione dell'amore. Propone non soltanto un concetto, articolato secondo le ambivalenze della differenza e della sua reale procedura, ma un'analisi di congiuntura. Ecco perché l'antifilosofo Lacan è una condizione della rinascita della filosofia. Una filosofia è oggi possibile, a condizione di essere compossibile con Lacan. Nell'ordine della politica, l'evento è concentrato nella sequenza storica che va grosso modo dal 1965 al 1980, 82

e che ha visto prodursi quel che Sylvain Lazarus chiama "evenienze oscure": oscure dal punto di vista della politica. Vi ritroviamo: il Maggio '68 e i suoi effetti, la Rivoluzione culturale cinese, la rivoluzione iraniana, il movimento operaio e nazionale in Polonia ("Solidarnosc"). Non è questo il luogo per dire se tali evènti, in quanto puri fatti, siano fausti o infausti, vittorie o sconfitte. Quel che è certo, è che ci troviamo in uno stato di sospensione della loro nominazione politica. Eccettuato forse il movimento polacco, queste occorrenze storicopolitiche sono tanto piti opache in quanto, nella coscienza dei loro attori, si sono rappresentate nel quadro di pensiero che esse stesse dichiaravano peraltro superato. È così che il Maggio '68 o la Rivoluzione culturale hanno fatto comune riferimento al marxismo-leninismo, la cui rovina - come sistema di rappresentazione politica - apparve ben presto essere appunto inscritta nella natura stessa degli eventi. Quel che accadeva, benché pensato in quel sistema, non era in realtà pensabile in esso. Allo stesso modo, la rivoluzione iraniana si è inscritta in una predicazione islamica spesso arcaicizzante, mentre il nucleo della convinzione popolare e della sua simbolizzazione eccedeva da ogni parte tale predicazione. Niente ha attestato che un evento è sovranumerario, non soltanto riguardo al suo aver luogo,._ma anche riguardo alla lingua disponibile, meglio di questa discordanza tra l'opacità dell'intervento e la vana trasparenza delle rappresentazioni. Da questa discordanza risulta che gli eventi in questione non sono ancora nominati, o meglio che il lavoro della loro nominazione (quel che 83

chiamo l'intervento sull'evento) non è ancora compiuto. Una politica è oggi, tra l'altro, la capacità di stabilizzare fedelmente, e a lungo termine, tale nominazione. La filosofia ha come condizione la politica nell'esatta misura in cui lo spazio concettuale che predispone si rivela omogeneo a tale stabilizzazione, il cui processo è, a sua volta, strettamente politico. È evidente il modo il cui il Maggio '68, la Polonia, ecc., partecipano alla desuturazione della filosofia: quel che è qui in gioco in termini politici non è certamente transitivo rispetto alla filosofia, nel senso in cui il "materialismo dialettico" pretendeva di esserlo rispetto alla politica staliniana. Al contrario sono la dimensione eccessiva dell'evento e il compito che tale eccesso assegna alla politica a condizionare la filosofia, perché essa ha il dovere di stabilire che le nominazioni politicamente inventate dell'evento sono compossibili con ciò che al tempo stesso (vale a dire: per la nostra epoca) costituisce una rottura nell'ordine del matema, della poesia e dell'amore. La filosofia è di nuovo possibile proprio perché non deve legiferare sulla Storia o sulla politica, ma soltanto pensare la riapertura contemporanea della possibilità della politica, a partire da evenienze oscure. Nell'ordine della poesia, l'evento è l'opera di Paul Celan, sia di per se stessa sia per ciò che essa contiene, come limite ultimo, dell'intera età dei poeti. È sintomatico che, proprio in riferimento alle poesie di Celan, imprese di pensiero tanto diverse quanto quelle di Derrida, di Gadamer o di Lacoue-Labarthe sentenzino l'ineluttabile sutura della filosofia da parte della condizione 84

poetica. Il senso che io attribuiscò a queste poesie (ma già, in certa misura, a quelle di Pessoa e di Mandelstam) è esattamente inverso. Vi leggo, poeticamente enunciata, la confessione che la poesia non basta più a se stessa, che domanda di essere liberata del fardello della sutura, che spera in una filosofia liberata dalla schiacciante autorità della poesia. Lacoue-Labarthe ha avuto un'involontaria intuizione di questa domanda, quando ha riscontrato nella poesia di Celan una "interruzione dell'arte". L'interruzione a mio avviso non è quella della poesia, ma quella della poesia cui la filosofia si è affidata. Il dramma di Celan è l'aver dovuto affrontare il senso in quanto non-senso dell'epoca, il suo disorientamento, con la sola risorsa solitaria della poesia. Quando in Anabasis egli evoca il salire e ritornare verso la "parola rizzata a tenda: insieme", ciò cui aspira è l'oltrepoesia, la condivisione di un pensiero meno immerso nell'unicità metaforica. L'imperativo che ci trasmette questa poesia, l'evento di cui ci ingiunge di trovare altrove il nome, è il richiamo poetico alla ricostituzione di un accoghmento condiviso della disposizione concettuale del nostro tempo, è la formulazione nella poesia della fine dell'età dei poeti, di cui si dimentica troppo spesso che è stata la gloria, ma anche il tormento e la solitudine dei suoi poeti, solitudine resa pili grave, e non più lieve, dalle filosofie che vi si suturavano. Tutto si fonda, è vero, sul senso che si attribuisce all'incontro tra Celan e Heidegger, episodio quasi mitico della nostra epoca. La tesi di Lacoue-Labarthe è che il poeta ebreo sopravvissuto non abbia potuto, far cosa? 85

tollerare? sopportare? In ogni caso passar sopra il fatto che il filosofo dei poeti manteneva in sua presenza, e in presenza di chiunque, il più assoluto silenzio sullo sterminio. Non dubito per un istante che ciò sia vero. Ma c'è anche, e necessariamente, il fatto che andare a trovare il filosofo significava saggiare quel che la "risalita" verso il senso dell'epoca poteva attendersi da lui, nell'elemento dell'oltrepoesia. Ora, questo filosofo rinviava alla poesia proprio in modo tale che il poeta di fronte a lui era più solo che mai. Si deve pur capire che la domanda di Heidegger "perché i poeti?" può diventare, per il poeta, "perché i filosofi?" e che, se la risposta a tale domanda è "perché ci siano dei poeti", si raddoppia la solitudine del poeta, mentre l'opera di Celan è l'evento di una domanda poetica di liberazione da tale solitudine. Queste due interpretazioni dell'incontro non sono del resto contraddittorie. Come poteva Heidegger infrangere lo specchio della poesia - cosa che fa a suo modo Celan - lui che non ha creduto di poter chiarire, nell'ambito delle condizioni politiche, il proprio impegno nazionalsocialista? Questo silenzio, oltre a offendere in modo gravissimo il poeta ebreo, costituiva anche una irrimediabile carenza filosofica, perché portava al limite massimo, e sino all'intollerabile, gli effetti di riduzione e annientamento della sutura. Celan ha potuto qui fare esperienza di quel che comportava, in definitiva, il feticismo filosofico della poesia. Il senso più profondo della sua opera poetica è affrancarci da questo feticismo, liberare la poesia dai suoi parassiti speculativi, restituirla alla fraternità del suo tempo, dove si troverà ormai nel pensie86

ro accanto al materna, all'amore, all'invenzione politica. L'evento è che, nella disperazione e nell'angoscia, Celan il poeta rende evidente attraverso la poesia l'avverarsi di tale restituzione. Questi sono gli eventi che, in ciascuna delle procedure generiche, condizionano oggi la filosofia. Il nostro dovere è di produrre la configurazione concettuale suscettibile di accoglierli, per quanto siano ancora poco nominabili o addirittura individuabili. In che modo il generico di Paul Cohen, la teoria dell'amore di Lacan, la politica fedele al Maggio '68 e alla Polonia, il richiamo poetico di Celan all'oltrepoesia, sono simultaneamente possibili per il pensiero? Non si tratta affatto di ricondurli a una totalità, questi eventi sono tra loro eterogenei, non ordinabili. Si tratta di produrre i concetti e le regole di pensiero, forse ben lungi da ogni esplicita menzione di questi nomi e di questi atti, o forse in stretto rapporto con essi - dipende - ma tali che attraverso questi concetti e queste regole il nostro tempo diventi rappresentabile come il tempoin cui una mossa del pensiero ha avuto luogo, mossa mai prima verificatasi e che ormai è condivisa da tutti, anche se lo ignorano, perché una filosofia ha costituito per tutti il terreno di ricezione comune di questo "aver avuto luogo".

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IX Questioni Nel suo contenuto, il gesto di ricomposizione della filosofia che propongo è largamente dettato dalla singolarità degli eventi che hanno inciso sulle quattro procedure generiche (Cantor-Gòdel-Cohen per il materna, Lacan per il concetto dell'amore, Pessoa-MandelstamCelan per la poesia, la sequenza di evenienze oscure, tra il 1965 e il 1980, per l'invenzione politica). Le grandi questioni concettuali indotte dalla sospensione di queste occorrenze del pensiero, e che si tratta di proiettare filosoficamente in uno spazio unico (in cui verranno pensati i pensieri del nostro tempo), si evincono molto chiaramente, una volta compiuta l'individuazione degli eventi. Del resto, anche quando negano alla filosofia il diritto di esistere, e polemizzano contro la sistematicità, i nostri filosofi, heideggeriani, sofisti moderni, lacaniani metafisici, dottrinari della poesia, seguaci delle molteplicità proliferanti, lavorano tutti su queste questioni: non ci si sottrae tanto facilmente all'imperativo delle condizioni, per quanto misconosciuto, perché ciò che lo fonda ha avuto luogo. 88

Una prima questione è quella del Due, al di là della sua formulazione ordinaria, vale a dire dialettica. Ho mostrato che essa sosteneva tutta l'analitica dell'amore. Ma è ben chiaro che essa è al cuore dell'innovazione politica, come posto che deve ormai occuparvi il conflitto. Il marxismo classico è stato un forte dualismo, proletariato contro borghesia. Ha fatto dell'antagonismo la chiave di ogni rappresentazione della pohtica. "Lotta di classe" e "rivoluzione", e poi - nella visione statale delle cose - "dittatura del proletariato", hanno costituito l'impianto del campo di riflessione sulla pratica. La politica non era pensabile se non in base al fatto che il movimento della Storia era strutturato da un Due essenziale, fondato nel reale dell'economia e dello sfruttamento. La politica "concentrava l'economia", cioè organizzava la strategia del Due intorno al potere dello Stato. Essa aveva come fine ultimo la distruzione della macchina politica dell'avversario, sostituiva ai confronti sparsi e piti o meno pacifici che oppongono, sul terreno sociale, gli sfruttati agli sfruttatori, un confronto globale, dove ciascuna classe è proiettata in un organismo politico che la rappresenta, un partito politico di classe. In ultima analisi, solo la violenza (insurrezione o guerra popolare prolungata) poteva mettere fine al conflitto. Ma appunto, quel che le evenienze oscure degh anni Sessanta e Settanta hanno reso attuale, è il declino, l'inopportunità storica di questa potente concezione. Quel che oggi si richiede è un pensiero della politica che, pur vertendo sul conflitto e avendo il Due strutturale come campo d'azione, non abbia questo Due per essenza oggettiva. 89

O meglio, alla dottrina oggettivistica del Due (le classi in quanto transitive rispetto al processo produttivo), l'innovazione politica in atto tenta di opporre una visione del Due nella sua "storicità", il che significa che il Due reale è una produzione degli eventi, una produzione politica, e non un presupposto oggettivo o "scientifico". Noi dobbiamo oggi procedere a un rovesciamento della questione del Due: prototipo stesso del concetto di oggettività (la lotta di classe, la dualità dei sessi, il Bene e il Male...), essa diverrà ciò a cui si raccorda la produzione aleatoria che si ricollega a un evento. Il Due, e non come un tempo l'Uno, è ciò che avviene, il Due è "post-evenemenziale". L'Uno (l'unità di classe, la fusione amorosa, la Salvezza...) era assegnato all'uomo come sua difficoltà e suo compito. Noi pensiamo piuttosto che niente sia più difficile del Due, niente sia più esposto simultaneamente al caso e a un assiduo lavorio. Il più alto dovere dell'uomo è produrre congiuntamente il Due e il pensiero del Due, l'esercizio del Due. La seconda questione è quella dell'oggetto e dell'oggettività. Ho mostrato che la funzione decisiva dei poeti dell'età dei poeti è consistita nello stabilire che l'accesso all'essere e alla verità presupponeva la destituzione della categoria d'oggetto come forma organica della presentazione. L'oggetto può sempre essere una categoria del sapere, il fatto è che ostacola la produzione postevenemenziale della verità. La deoggettivazione poetica, condizione d'apertura della nostra epoca in quanto epoca disorientata legittima nella sua nudità radicale, il seguente enunciato filosofico: ogni verità è senza oggetto. 90

Il problema fondamentale è allora: la destituzione della categoria d'oggetto implica la destituzione della categoria di soggetto? È senza dubbio l'effetto più evidente della maggior parte delle opere poetiche dell'età dei poeti. Ho rilevato la pluralizzazione, la disseminazione del soggetto in Rimbaud, la sua assenza in Mallarmé. Il soggetto nella poesia di Trakl non occupa se non il posto del Morto. Heidegger ha gioco facile, suturato com'era il suo discorso dai poeti, nel dire che è impossibile pensare l'aver-luogo contemporaneo dell'Uomo a partire dalle categorie di soggetto e oggetto. All'opposto, Lacan ha potuto essere il custode del soggetto proprio per aver anche ripreso, rielaborato, la categoria d'oggetto. In quanto causa del desiderio, l'oggetto lacaniano (per la verità molto vicino, per il suo carattere non simbohzzabile e puntuale, all"'oggetto trascendentale = x" di Kant) è determinazione del soggetto nel suo essere, quel che Lacan esplicita dicendo: "Quel soggetto che crede di poter accedere a se stesso designandosi nell'enunciato non è altro se non un tale oggetto". Possiamo riassumere la situazione a partire dalla logica delle suture, come ciò che ha presieduto sino a oggi alla menomazione della filosofia contemporanea. Le filosofie suturate dalla loro condizione scientifica sono interamente imperniate sulla categoria d'oggetto, e l'oggettività è la loro norma riconosciuta. Le filosofie suturate dalla condizione politica, ossia le varianti del "vecchio marxismo", o pongono che un soggetto "emerge" dall'oggettività (passaggio dalla "classe in sé", in genere 91

in virtù del Partito), oppure, più conseguenti, destituiscono il soggetto a vantaggio dell'oggettività (per Althusser, la materia della verità rientra nella processualità senza soggetto), e si ricongiungono paradossalmente a Heidegger facendo del soggetto un semplice operatore dell'ideologia borghese (per Heidegger, "soggetto" è una elaborazione secondaria del dominio della tecnica, ma ci si può intendere, qualora questo dominio sia di fatto anche quello della borghesia). Per le filosofie suturate dalla poesia, e più generalmente dalla letteratura, dall'arte stessa, il pensiero si dispensa sia dall'oggetto sia dal soggetto. Per i lacaniani infine, vi sono concetti ricavabili sia dall'uno sia dall'altro. Tutti sono d'accordo su un solo punto, un assioma tanto generale della modernità filosofica che a mia volta non posso che associarmi: non è in ogni caso possibile definire la verità come "adeguamento del soggetto all'oggetto". Tutti divergono quando si tratta di dare effettivamente espressione alla critica dell'adeguamento, poiché non sono d'accordo sullo statuto dei termini (soggetto e oggetto) tra i quali esso opera. Si può osservare che questa tipologia lascia un posto vuoto: quello di un pensiero che manterrebbe la categoria di soggetto, ma accorderebbe ai poeti la destituzione dell'oggetto. Il compito di un tale pensiero è produrre un concetto del soggetto che non si sostenga su di alcun riferimento all'oggetto, un soggetto per così dire senza faccia a faccia. Questo posto non gode di buona reputazione, perché evoca l'ideahsmo assoluto del vescovo Berkeley. Tuttavia, il lettore l'avrà compreso, cer92

co di occuparlo. Considero centrale, ai fini di una possibile rinascita della filosofia, il problema del soggetto senza oggetto, nel senso in cui la deoggettivazione, disgiungendo la verità dal sapere, ha fondato l'età dei poeti, quindi la critica decisiva delle suture positiviste e marxisteggianti. Ritengo del resto che solo un concetto, quello di procedura generica, sussuma sia la deoggettivazione della verità che quella del soggetto, facendo apparire il soggetto come semplice frammento finito di una verità post-evenemenziale senza oggetto. Soltanto nella prospettiva del soggetto senza oggetto potremo contemporaneamente riaprire la "meditazione cartesiana" e restare fedeli alle acquisizioni dell'età dei poeti, con una fedeltà propriamente filosofica, quindi desuturata. A intraprendere un tale movimento di pensiero ci invitano, ne sono convinto, le poesie di Paul Celan, e in particolare quella ingiunzione misteriosa in cui confluiscono l'idea che l'accesso all'essere non sia la via aperta e regia dell'oggettività e l'idea della prevalenza sottrattiva dei segni, dell'inscrizione, sull'estensione ingannevole della donazione sensibile: Giunge anche un senso dal varco angusto, 10 sbreccia 11 più mortale dei nostri segni che restano. La terza questione è quella dell'indiscernibile. La sovranità della lingua è oggi un dogma generale, per 93

quanto tra la "lingua esatta" che sognano i positivisti e il "dire poetico" degli heideggeriani, ci siano non pochi malintesi sull'essenza del Hnguaggio. Un autentico abisso separa il nominalismo integrale di Foucault e la teoria del simbolico di Lacan. Ciò su cui tuttavia tutti concordano, implicati come sono in quella che Lyotard chiama la "grande svolta linguistica" della filosofia occidentale, è che ai confini tra il linguaggio e l'essere non c'è nulla, e che o esiste un possibile "raccoglimento dell'essere" nel linguaggio, o quel che è, è tale solo in quanto nominato, o l'essere come tale è sottratto al linguaggio, cosa che non ha mai avuto altro senso se non quello di destinarlo a un'altra lingua, che sia quella del poeta, dell'Inconscio o di Dio. Ho già indicato che su questo punto, solo il matema ci guida. La convinzione contemporanea è la stessa di Leibniz: non può esservi indiscernibile per il pensiero, se intendiamo con "indiscernibile" un concetto esplicito di quel che è sottratto alla lingua. Di quel che è sottratto alla lingua non può esservi concetto, né pensiero. È la ragione per la quale l'insimbolizzabile reale di Lacan è r"orrore", così come a quel che avviene in quanto avviene Lyotard reputa necessario dare il nome di "frase". Quel che non è nominabile, meglio tenerlo a distanza dal pensiero. Del "principio degli indiscernibili" di Leibniz, Wittgenstein ha dato, alla conclusione del TractatuSy la versione che raccoglie il generale consenso: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere". Ora, dopo l'evento del matema costituito dagh operatori di Paul Cohen, noi sappiamo che è del tutto possi94

bile produrre con esattezza un concetto dell'indiscernibile, e stabilire, a certe condizioni, l'esistenza di molteplicità che rientrano in questo concetto, le molteplicità "generiche". È quindi semplicemente falso che su ciò di cui non si può parlare (nel senso che non c'è niente che si possa dirne che lo specifichi, che gli attribuisca delle proprietà separatrici), si debba tacere. Bisogna al contrario nominarlo, bisogna discernerlo come indiscernibile. Non siamo più tenuti, se accettiamo gli effetti della condizione matematica, a scegliere tra il nominabile e l'impensabile. Non siamo più sospesi tra ciò di cui c'è esplicitazione nella Hngua, e ciò di cui non c'è che un'"esperienza" ineffabile o insostenibile, e che offusca la mente. Perché l'indiscernibile, se mette in crisi il potere separatore del linguaggio, non per questo è meno esposto al concetto, che può legiferare dimostrativamente sulla sua esistenza. Da questo punto di vista, è possibile ritornare sull'oggetto e sul Due, e mostrare il legame profondo che esiste tra i nostri tre problemi. Se la verità non ha niente a che fare con la categoria d'oggetto, è precisamente perché essa è sempre, come risultato di una procedura infinita, un multiplo indiscernibile. Se il Due è estraneo a ogni fondamento oggettivo della politica e dell'amore, è perché queste procedure mirano a indiscernere dei sottoinsiemi, esistenziali o popolari, e non a gettarli "contro" quel che domina la loro situazione. Un amore supplementa una vita, piuttosto che legarla a un'altra vita. Una politica, a partire dal suo evento fondatore, tende a delimitare l'indelimitabile, a far esistere come 95

molteplice gente la cui lingua stabilita non può cogliere né la comunità né l'interesse. Se infine il Due è una produzione, e non uno stato, è perché quel che esso gradualmente distingue all'interno della situazione in cui domina l'Uno non è "un altro Uno", ma la figura immanente di quel che non è stato contato. La filosofia deve oggi annodare la destituzione dell'oggetto, il rovesciamento dell'istanza del Due, e il pensiero dell'indiscernibile. Essa deve uscire dalla forma dell'oggettività a vantaggio del solo soggetto, considerare il Due una conseguenza, rischiosa e tenace, dell'evento, e identificare la verità col qualunque, col senza nome, col generico. Annodare assieme queste tre prescrizioni presuppone uno spazio di pensiero complesso, il cui concetto centrale è quello del soggetto senza oggetto, esso stesso conseguenza della genericità come divenire puntuale, nell'essere stesso, di un evento che lo supplementa. Un tale spazio, se giungiamo a predisporlo, accoglierà la figura contemporanea delle quattro condizioni della filosofia. Quanto alla sua forma, il gesto filosofico che propongo è platonico.

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X Gesto platonico Prendere atto della fine di un'età dei poeti, assumere come vettore dell'ontologia le forme contemporanee del materna, pensare l'amore nella sua funzione di verità, inscrivere le modalità di un inizio della politica: questi quattro tratti sono platonici. Anche Platone deve tenere fuori i poeti, complici innocenti della sofistica, dal progetto di fondazione filosofica, includere nella propria visione del "logos" il trattamento matematico del problema dei numeri irrazionali, fare posto nell'ascesa verso il Bello e le Idee all'improvviso dell'amore, e pensare il crepuscolo della Città democratica. Cui bisogna aggiungere che, allo stesso modo in cui Platone ha per interlocutori, al tempo stesso caparbi e portatori di modernità, i professionisti della sofistica, così il tentativo di radicalizzare la rottura con le categorie classiche del pensiero definisce oggi quel che è conveniente chiamare una "grande sofistica" che si richiama essenzialmente a Wittgenstein. Importanza decisiva del linguaggio e della sua variabilità in giochi eterogenei, diffidenza riguardo alla pertinenza del concetto di verità, prossimi97

tà retorica agli effetti dell'arte, politica pragmatica e aperta: tutti tratti comuni sia ai sofisti greci sia a un gran numero di orientamenti contemporanei, e che spiegano come mai in anni recenti gli studi e i lavori su Gorgia e Protagora si siano moltiplicati. Anche noi siamo tenuti a impegnarci in una critica del rigore sofista, col dovuto rispetto per gli insegnamenti che esso include sulla nostra epoca. Il giovane Platone sapeva che occorreva andare oltre i sottili raggiri della sofistica, ma anche istruirsi grazie a essi sull'essenza delle questioni del proprio tempo. Questo vale anche per noi. Che la transizione in atto tra l'età delle suture e l'età di una ripresa della filosofia avvenga sotto il predominio dei sofisti, è del tutto naturale. La grande sofistica moderna, linguistica, estetizzante, democratica, esercita una funzione di dissoluzione, interroga le impasse, fornisce un ritratto della nostra contemporaneità. Essa è per noi essenziale tanto quanto lo era il libertino per Pascal: ci avverte della singolarità del nostro tempo. Configurazione antisofistica del matema (inaugurale), della poesia (congedata), della politica (rifondata) e dell'amore (pensato), il gesto filosofico che propongo è un gesto platonico. Il nostro secolo, sino a oggi, è stato antiplatonico. Non c'è, per quanto ne so, tematica tanto diffusa, nelle piii svariate e controverse scuole filosofiche, quanto l'antiplatonismo. Alla voce "Platone" del dizionario filosofico voluto da Stalin, si leggeva "ideologo dei proprietari di schiavi", una definizione breve e concisa. Ma l'esistenzialismo sartriano, nella sua polemica contro l'essenzialismo, aveva Platone per bersa98

glio. Ma Heidegger individua nella "svolta platonica", quale che sia il suo apprezzamento per quel che di ancora greco vi è nella cesura luminosa dell'Idea, l'inizio dell'oblio. Ma la filosofia contemporanea del linguaggio prende posizione per i sofisti contro Platone. Ma il pensiero dei diritti dell'uomo, in particolare la concezione di Karl Popper, fa risalire a Platone la tentazione totalitaria. Ma Lacoue-Labarthe cerca di reperire, nel rapporto ambiguo che Platone intrattiene con la mimesis, l'origine del destino della politica in Occidente. Non finiremmo mai di enumerare tutte le sequenze antiplatoniche, tutto il risentimento, tutta la decostruzione, di cui Platone è oggetto. Il grande "inventore" dell'antiplatonismo contemporaneo, agli albori della sutura della filosofia da parte della poesia, e poiché il platonismo costituiva il principale divieto a tale sutura, è stato Nietzsche. È nota la diagnosi offerta da Nietzsche nella Prefazione ad Al di là del bene e del male-. "Come medici, si potrebbe formulare questa domanda: donde è venuta una tale malattia in Platone, il figlio piii bello dell'antichità?". Platone è il nome della malattia spirituale dell'Occidente. Il cristianesimo stesso non è altro che "un platonismo per il popolo". Ma quel che colma Nietzsche di soddisfazione, quel che alfine dà pieno corso agli "spiriti liberi", è che l'Occidente è entrato in convalescenza: "L'Europa, liberata da questo incubo, riprende fiato". Di fatto, il superamento del platonismo ha avuto inizio, e questo superamento libera un'energia di pensiero senza precedenti: "La lotta contro Platone [...] ha creato in Euro99

pa una splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla terra". Gli "spiriti liberi, assai liberi", i "buoni Europei", tengono l'arco così teso tra le mani, e ne possiedono "la freccia, il compito, e chissà? la meta". Sappiamo che apparirà ben presto come questa "meta" sia - dissolta la sanguinosa, l'innominabile menzogna della sua versione politica - il puro e semplice abbandono del pensiero alla poesia. La polemica di Nietzsche contro la "malattia platonica", il campo d'applicazione della terapeutica europea, concerne il concetto di verità. L'assioma radicale a partire dal quale gli "spiriti liberi" possono rendere possibile la veglia funebre del platonismo, veglia che è altrettanto la veglia e il risveglio del pensiero, concerne la Hquidazione della verità: "La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un'obiezione contro di esso". Nietzsche inaugura un secolo dedito all'antagonismo e alla potenza attraverso questo completo sradicamento del riferimento alla verità, considerata il sintomo maggiore della malattia platonica. Guarire dal platonismo, significa anzitutto guarire dalla verità. E tale guarigione non sarebbe completa se non si accompagnasse a un odio risoluto verso il matema, considerato un guscio al cui interno si annida la debolezza malata del platonico; "Quel gioco di prestigio in forma matematica con cui Spinoza fasciava come d'una bronzea corazza e mascherava la sua filosofia [...] allo scopo di intimidire fin da principio il coraggio dell'attaccante [...] quanta timidezza e vulnerabilità tradisce questa mascherata di un infermo solitario!". La filosofia per aforismi e frammenti, versi ed 100

enigmi, metafore e sentenze, tutto lo stile nietzscheano che tanta eco ha avuto nel pensiero contemporaneo, è radicata nella duplice esigenza della destituzione della verità e della liquidazione del matema. Antiplatonico sino in fondo, Nietzsche fa subire al matema la sorte che Platone riserva alla poesia, quella di una debolezza sospetta, di un'infermità del pensiero, di una "mascherata". Non c'è dubbio che Nietzsche abbia durevolmente preso il sopravvento. È innegabile che il nostro secolo sia "guarito" dal platonismo e che, nel suo pensiero piii vitale, sia stato suturato dalla poesia, abbandonando il matema alle speculazioni della sutura positivista. La controprova può essere questa: il solo grande pensiero apertamente platonico, e al tempo stesso moderno, è stato quello di Albert Lautman, negli anni Trenta. Ora, questo pensiero è da cima a fondo innervato dalle matematiche. Esso è stato lungamente negletto e misconosciuto, dopo che i nazisti, assassinando Lautman, ne avevano interrotto lo sviluppo. Esso è oggi l'unico punto d'appoggio reperibile in quasi cent'anni per la riproposta platonica che il momento attuale esige da noi, a parte la spontaneità "platonizzante" di molti matematici, in particolare Godei e Cohen, e beninteso la dottrina lacaniana della verità. Tutto è accaduto come se la predicazione nietzscheana avesse suggellato, nel modo della sutura poetica, il destino congiuntamente antimatema e antiverità di un secolo. Occorre oggi invertire la diagnosi nietzscheana. Il nostro secolo e l'Europa devono imperativamente guarire dall'antiplatonismo. La 101

filosofia non esisterà se non nella misura in cui saprà proporre, all'altezza dei tempi, una nuova tappa nella storia della categoria di verità. La verità è un'idea nuova oggi in Europa. E come per Platone, come per Lautman, la novità di quest'idea s'illumina nella frequentazione delle matematiche.

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XI Generico Quel che un filosofo moderno riprende dalla grande sofistica è il punto seguente: l'essere è essenzialmente molteplice. Già Platone, nel Teeteto, sottolineava che l'ontologia sottostante al discorso sofista riguardava la mobilità molteplice dell'essere e, a torto o a ragione, riconduceva questa ontologia al nome di Eraclito. Ma Platone preservava i diritti dell'Uno. La nostra situazione è più complessa, perché noi, forti degli insegnamenti della grande sofistica moderna, dobbiamo prendere atto che a seguito di dure trasformazioni il nostro secolo sarà stato quello della contestazione dell'Uno. Il non essere dell'Uno, l'autorità senza limiti del molteplice sono questioni sulle quali non possiamo tornare. Dio è realmente morto, e con lui tutte le categorie che ne discendevano nell'ambito del pensiero dell'essere. Il passaggio in cui siamo implicati è quello di un platonismo del molteplice. Platone pensava di poter confutare la variazione linguistica e retorica della sofistica a partire dalle aporie di 103

una ontologia del molteplice. Certo, a nostra volta incontriamo questa congiunzione tra la disponibilità flessibile del linguaggio (teoria di Wittgenstein dei giochi linguistici) e la forma molteplice della presentazione (raffinate inchieste descrittive di un Deleuze). Ma il punto debole ha cambiato posto: noi dobbiamo assumere il molteplice e segnare piuttosto i limiti radicali di quel che il hnguaggio può costituire. Di qui il carattere cruciale della questione dell'indiscernibile. La difficoltà principale riguarda la categoria di verità. Se l'essere è molteplice, come salvare questa categoria, salvezza che è l'autentico centro di gravità di ogni gesto platonico? Perché vi sia una verità, non occorre forse che venga anzitutto asserito l'Uno di una molteplicità; e non è forse in rapporto a quest'Uno che un giudizio di verità è possibile? Inoltre, se l'essere è molteplice, occorre che anche una verità lo sia, altrimenti non avrebbe alcun essere. Ma come concepire una verità molteplice nel suo stesso essere? Facendo quadrato intorno al molteplice, la grande sofistica moderna rinuncia alla categoria di verità, come già fecero i "relativisti" della sofistica greca. Ancora una volta, è Nietzsche a inaugurare il processo alla verità, in nome della molteplice potenza della vita. Poiché non possiamo sottrarci alla giurisdizione di questa potenza sul pensiero dell'essere, ci vediamo costretti a proporre una dottrina della verità compatibile con l'irriducibile molteplicità dell'essere in quanto essere. Una verità non può essere se non la produzione singolare di un molteplice. Tutto il problema è che questo molteplice verrà sottratto al104

l'autorità della lingua. Esso sarà indiscernibile, o meglio: sarà stato indiscernibile. La categoria centrale è qui quella della molteplicità generica. Essa ha la funzione di fondare il platonismo del molteplice consentendo di pensare una verità sia come risultato molteplice di una procedura singolare, sia come buco o sottrazione nel campo del nominabile. Essa rende possibile assumere un'ontologia del molteplice puro senza rinunciare alla verità, e senza dover riconoscere il carattere costitutivo della variazione linguistica. Essa è inoltre l'ossatura di uno spazio di pensiero in cui si lasciano raccogliere e situare come compossibili le quattro condizioni della filosofia. Poesia, matema, politica creativa e amore, nel loro stato contemporaneo, non saranno in effetti nient'altro che regimi di produzione effettiva, in situazioni molteplici, di molteplici generici che traducono in verità tali situazioni. Originariamente il concetto di molteplice generico è stato prodotto nel campo della ricerca matematica. Venne infatti introdotto da Paul Cohen, all'inizio degli anni Sessanta, per risolvere dei problemi molto tecnici rimasti in sospeso per quasi un secolo, che vertevano sulla "potenza", o quantità pura, di alcune molteplicità infinite. Possiamo dire che il concetto di moltephce generico è il punto terminale della prima tappa di quella teoria ontologica che, a partire da Cantor, porta il nome di "teoria degU insiemi". Ne L'essere e l'evento ho esposto in modo completo la dialettica tra l'elaborazione matematica della teoria del molteplice puro e le formulazioni concettuali che possono oggi rifondare la filoso105

fia. Tutto ciò in base all'ipotesi generale che il pensiero dell'essere-in-quanto-essere trova compimento nelle matematiche e che, per recepire e rendere compossibili le proprie condizioni, la filosofia deve determinare "quel che non è l'essere in quanto essere" e che corrisponde alla mia definizione dell'"evento". Il concetto di genericità è introdotto per rendere conto degli effetti, interni a una situazione molteplice, di un evento che la supplementa. Esso definisce lo statuto di alcune molteplicità che s'inscrivono simultaneamente in una situazione, e al tempo stesso v'intessono in modo consistente una casualità irreversibilmente sottratta a ogni nominazione. Questa intersezione molteplice tra la consistenza regolata di una situazione e l'alea dell'evento che la supplementa è per l'appunto il luogo di una verità della situazione. Questa verità rileva da una procedura infinita, e tutto ciò che si può dire di essa è soltanto che, supponendo il compimento della procedura, "sarà stata" generica o indiscernibile. La mia proposta si riduce qui soltanto a indicare perché è ragionevole ritenere che un molteplice generico sia il modo d'essere di una verità. Dato un molteplice, cioè quello di cui tutto l'essere è molteplice puro, molteplice senza Uno, come pensare l'essere di ciò che fa di un tale molteplice una verità? Qui sta tutto il problema. Poiché il fondo senza fondo di quel che è presente è l'inconsistenza, una verità sarà ciò che, dall'interno del presentato, come parte di questo presentato, fa venire alla luce l'inconsistenza su cui si sostiene in ultima analisi la consistenza della presentazione. Quel che 106

è massimamente sottratto alla consistenza, alla regola che domina e rimuove il molteplice puro (regola che io chiamo il "contare per uno"), non può essere se non un molteplice particolarmente "evasivo", indistinto, senza contorno, senza possibile nominazione esplicita. Un molteplice, per così dire, esemplarmente qualunque. Se vogliamo, con uno stesso movimento, sostenere che l'autorità del molteplice è illimitata quanto all'essere e che c'è verità, occorre che questa verità obbedisca a tre criteri: - Poiché dev'essere verità di un molteplice, e questo senza ricorso alcuno alla trascendenza dell'Uno, occorre che sia una produzione immanente a questo molteplice. Una verità sarà una parte del molteplice iniziale, della situazione di cui c'è verità. - Poiché l'essere è molteplice, e occorre che la verità sia, una verità sarà un molteplice, quindi una parte molteplice della situazione di cui è verità. Beninteso, non potrebbe essere una parte "già" data o presente. Essa sarà il risultato di una procedura singolare. Questa procedura, infatti, non potrà essere avviata se non da un supplemento, da qualcosa in eccesso rispetto alla situazione, ossia da un evento. Una verità è il risultato infinito di un supplemento casuale. Ogni verità è "postevenemenziale". In particolare, non c'è verità "strutturale" o oggettiva. Degli enunciati strutturali riscontrabih nella situazione non diremo mai che sono veri, ma soltanto che sono veridici. Non rilevano dalla verità, ma dal sapere. - Poiché l'essere della situazione è la sua inconsi107

stenza, una verità di questo essere si presenterà come molteplicità qualunque, parte anonima, consistenza ridotta alla presentazione come tale, senza predicato né singolarità nominabile. Una verità sarà così una parte generica della situazione, dove "generica" indica che essa ne è una parte qualunque, che non dice nulla di particolare sulla situazione, se non per l'appunto il suo essere molteplice in quanto tale, la sua fondamentale inconsistenza. Una verità è questa consistenza minima (una parte, un'immanenza senza concetto) che svela nella situazione l'inconsistenza che ne costituisce l'essere. Ma dato che inizialmente ogni parte della situazione è presentata come singolare, nominabile, regolata in base alla consistenza, la parte generica che è una verità dovrà essere prodotta. Essa costituirà l'infinito orizzonte molteplice di una procedura post-evenemenziale, che chiameremo procedura generica. Poesia, materna, politica creativa e amore sono proprio i diversi tipi possibili di procedure generiche. Quel che producono (l'innominabile nella lingua stessa, la potenza della pura lettera, la volontà generale come forza anonima di ogni volontà nominabile, e il Due della sessualità come ciò che non è mai stato contato come uno) in situazioni variabili non è mai altro se non una verità di tali situazioni sotto forma di un molteplice generico, di cui nessun sapere può dedurre il nome né discernere in anticipo lo statuto. A partire da un tale concetto di verità, come produzione post-evenemenziale di un molteplice generico della situazione di cui è verità, siamo in grado di rian108

nodare la triade costitutiva della filosofia moderna: essere, soggetto e verità. Riguardo all'essere in quanto essere, diremo che le matematiche costituiscono storicamente il solo pensiero possibile, dato che sono, nella potenza vuota della lettera, l'inscrizione infinita del molteplice puro, del molteplice senza predicato, e che tale è il fondo di quel che è dato, colto nella sua presentazione. Le matematiche sono l'ontologia effettiva. Riguardo alla verità, diremo che essa è sospesa a questa donazione di un supplemento singolare che è l'evento e che il suo essere, molteplice come l'essere di tutto ciò che è, è quello di una parte generica, indiscernibile, qualunque, che enuncia il proprio essere effettuando il molteplice nell'anonimato della propria molteplicità. Riguardo al soggetto, infine, diremo che esso è un momento finito della procedura generica. In tal senso, è significativo dover concludere che non esiste soggetto se non nell'ambito di uno dei quattro tipi di genericità. Ogni soggetto è artistico, scientifico, politico o amoroso. Cosa che, del resto, ciascuno sa in base all'esperienza, perché al di fuori di questi registri c'è solo esistenza o individualità, ma non soggetto. La genericità, cuore concettuale di un gesto platonico rivolto al molteplice, fonda l'inscrizione e la compossibilità delle condizioni contemporanee della filosofia. Della politica creativa, quando esiste, sappiamo, quanto meno dal 1973, che essa non può essere oggi se non egualitaria, antistatale, in grado di riversare nello spessore storico e sociale la genericità dell'umano e la decostruzione delle sue stratificazioni, il disfacimento 109

delle rappresentazioni differenziali o gerarchiche, l'attuazione di un comunismo delle singolarità. Della poesia, sappiamo che essa esplora una lingua inseparata, accessibile a tutti, non strumentale, una parola che fonda la genericità della parola stessa. Del materna, sappiamo che esso cogHe il molteplice scevro da ogni distinzione presentativa, la genericità dell'essere moltephce. Dell'amore, infine, sappiamo che, al di là dell'incontro, esso si dichiara fedele al puro Due che fonda e che fa una verità generica del fatto che ci siano uomini e donne. La filosofia è oggi il pensiero del generico come tale, che inizia, che ha avuto inizio, perché "Una magnificenza si dispiegherà, qualunque, analoga all'Ombra di un tempo".

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